Maria Venturi
IL CIELO NON CADE MAI
TRAMA A diciott'anni Francesca, bella, ricca, adorata dai genitori, scopre di ess...
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Maria Venturi
IL CIELO NON CADE MAI
TRAMA A diciott'anni Francesca, bella, ricca, adorata dai genitori, scopre di essere stata adottata: lei, bianca, è in realtà figlia di una prostituta negra uccisa da un cliente occasionale. Per di più è incinta di Nicola che si allontana da lei facendole crollare il mondo addosso. Ma la nascita della piccola Cielo, dalla pelle color caffelatte, le da la forza di ricominciare da zero e sarà proprio la bimba a ritrovare il padre riunendolo finalmente a Francesca.
IL RUMORE DEI RICORDI I tuoi occhi sfuggenti le tue dita belle le tue labbra pallide la tua voce prudente il tuo cuore pauroso le tue parole di spada. Non era niente solo il tuo amore stretto che si chiudeva per sempre. Eppure quando mi fermo il rumore dei ricordi giunge alla punta del mio cuore e mi fa sobbalzare l'anima. (Anonima dama di corte giapponese - secolo XI)
1960 (Antefatto) «Non voglio una coppia giovane e coraggiosa come i Timone. E nemmeno una coppia ricca e carismatica come i Fasser.» La voce dell'anziana pediatra del Gaslini si levò secca come una staffilata. «Le ricordo che il caso Cielo è di mia competenza, dottoressa» replicò il giudice minorile. L'ufficialità della dichiarazione sopraffece il tono di provocatoria gentilezza. «Non dimetterò la bambina fino a quando non sarò certa che avrete cercato per lei la migliore delle famiglie possibili.» Rossa in volto, l'assistente sociale proruppe: «Ma è quello che abbiamo fatto per dieci giorni! Sono state esaminate duecento richieste di adozione arrivate da tutta la Liguria prima di arrivare ai Timone e ai Fasser, e il solo problema, adesso, è decidere tra due coppie ugualmente...». Lo psicologo le fece un cenno d'intesa, interrompendola. «Ci siamo occupati della piccola con particolare attenzione, dottoressa. E non a caso ci troviamo davanti a questa alternativa. Il futuro di una bambina di colore si prospetta senz'altro meno problematico se ha alle spalle due genitori combattivi come i Timone o una famiglia importante come quella dei Fasser» spiegò con voce paziente. La pediatra vi avvertì l'isterico vibratino di chi ha perso le staffe ma si è imposto di restare calmo. E questo, anziché accrescerla, fece sparire la sua irritazione. «Cielo non è una bambina di colore» disse con tristezza. «É la figlia bianca di una prostituta negra morta ammazzata e di un cliente occasionale.» Il giudice minorile intervenne: «Proprio per questo dovrebbe condividere quanto ha detto lo psicologo: Cielo avrà un futuro sereno soltanto se sarà adottata da una coppia capace di imporla, oltre che di inserirla nella società». La pediatra scosse la testa. «Nessuna famiglia potrà cancellare la diversità della bambina e gli enormi problemi che l'aspettano. Per lei tutto sarà più difficile: la scuola, l'amore, il lavoro, il matrimonio. E soprattutto la maternità. Perché, se vorrà un figlio, dovrà proiettarsi anche nei problemi di questo figlio e dei pronipoti: il colore della pelle di sua madre è una mina vagante, e la legge di Mendel non è un'opinione.» «Stiamo parlando di una bambina, dottoressa, non di una pianta di pisello» ironizzò lo psicologo. «Appunto: se Cielo fosse una pianta di pisello, non starei qui a parlare dei suoi futuri problemi.» «Non crede che due genitori come i Timone o i Fasser glieli renderebbero, quanto meno, più leggeri?» chiese con sincera curiosità il giudice minorile.
«Personalmente sono convinta del contrario. Allevata da una coppia progressista, la bambina crescerebbe senza realizzare la propria diversità e dando per scontato di dover essere accettata da tutti. L'impatto con la realtà sarebbe molto amaro, perché il razzismo alligna ovunque.» «In questo senso» osservò l'assistente sociale a i Fasser «la proteggerebbero di più.» «Neppure su questo, purtroppo, sono d'accordo. Due genitori dal cognome talmente carismatico da essere ricattatorio farebbero di Cielo un'adulta iperprotetta e presuntuosa. Tutto le sembrerebbe lecito e dovuto, mentre deve essere preparata a lottare per conquistarsi ciò che vuole.» «Lei ipotizza una famiglia adottiva ideale che purtroppo, dottoressa, non esiste» enunciò solennemente lo psicologo. Stavolta fu la pediatra ad essere ironica. «E lo insegna proprio a me? Da trent'anni passo le mie giornate tra i bambini. Ho conosciuto genitori violenti, deboli, egoisti, sacrificali: quelli che passa la natura. Siete soltanto voi cosiddetti esperti a pensare che nel mondo dell'adozione esista una specialissima fauna di esseri illuminati e amorosi. E finite per cadere nella trappola delle coppie che recitano meglio questa parte. Nossignori, non è di genitori così che i piccoli hanno bisogno. E io spero che Cielo sia data a un uomo e a una donna normali, consapevoli e anche spaventati dell'enorme responsabilità che si assumono. Non credo nel generoso slancio dei Fasser, diffido della coraggiosa intelligenza dei Timone. La coppia che prenderà questa piccola dovrà spiegarle subito, non appena avrà l'età per capire, chi è e come è nata. E dovrà trasmetterle anche prudenza e umiltà.» «In tutta franchezza, dottoressa, la sua è suggestiva retorica che contrasta con le più elementari norme di psicologia» obiettò il giudice minorile. «Non ho ancora finito. Spero anche che alla bambina sarà mantenuto l'attuale nome: è la sola cosa che la madre le ha lasciato, il segno di una diversità da vivere guardando in alto, senza piegare le spalle. Probabilmente fu con questi sentimenti che una povera prostituta di colore accettò la sua gravidanza. E quando le misero in braccio una creatura dalla pelle bianca la chiamò ingenuamente Cielo. Voleva dire luce, miracolo, speranza? Quel che sappiamo è che tre mesi fa la registrò così all'anagrafe, e che per tre mesi Cielo è stata amorosamente nutrita, vestita e pulita in un sordido scantinato dei vicoli.» Lo psicologo guardò il giudice minorile con un impercettibile cenno di intesa. «Sono belle parole» confermò «e penso che le sue opinioni, dottoressa, siano in contrasto anche con le più elementari norme di buonsenso. Il futuro di questa disgraziata bambina è già abbastanza incerto per non aggravarlo con il marchio di un nome così pateticamente inconsueto.» «Cielo non sarà "disgraziata", se le si consentirà di diventare una adulta equilibrata e responsabile.» «E lei possiede una speciale ricetta, dottoressa?» Era l'assistente sociale, questa. «No, ma posso sottoporre il caso di Cielo a un tribunale normale, se non avrò la certezza che avete deciso per il suo bene. E nel frattempo tratterrò la piccola al Gaslini. Sono la sua pediatra, e sta solo a me stabilire quando potrà essere dimessa.» «Questo è un abuso» urlò il giudice minorile.
«Può dimostrarlo? I carabinieri sono arrivati alla piccola dieci giorni fa, quattro dopo l'assassinio di sua madre: aveva la febbre a quaranta ed era in un gravissimo stato di disidratazione. Sono il primario del reparto pediatrico in cui è stata ricoverata, e nessun giudice può contestare la data in cui io riterrò Cielo in condizioni di lasciare l'ospedale.» La dottoressa Franca Lupis sperò che le sue parole esprimessero una sicurezza assai maggiore di quella che dentro di sé sentiva: trascorse tre settimane, quattro al massimo, sarebbe stata costretta a dimettere la piccola lasciando che un giudice arrogante, uno psicologo presuntuoso e una assistente sociale ottusa decidessero della sua vita.
PARTE PRIMA IL SOLE Ieri è piovuto tutto il giorno e oggi, tutto il giorno, c'è stato il sole. Quanti eventi della mia vita avrebbero preso un altro corso, se oggi fosse piovuto e ieri ci fosse stato il sole? GEORG CHRISTOPH LICHTENBERG
CAPITOLO 1 Era la seconda volta che Silvia Vitali, la professoressa d'italiano, passava accanto al suo banco, indicando con un'occhiata interrogativa il foglio bianco. La certezza che entro dieci minuti sarebbe tornata di nuovo accrebbe il nervosismo di Francesca. La privatista alla sua destra aveva cominciato a scrivere pochi minuti dopo la dettatura dei temi, senza fermarsi un attimo, e ora stava attaccando la quarta facciata. Sentendosi osservata, la privatista si girò e automaticamente abbassò gli occhi verso il foglio di Francesca: solo in quel momento parve accorgersi che la compagna di banco non aveva scritto una sola riga. «Non hai neppure scelto il tema» disse, più che chiedere. «Quello sul progresso è il più facile, lo sto facendo anch'io» sussurrò incoraggiante. Restò qualche istante con la bocca semiaperta, come a ricercare la concentrazione perduta, e tornò ad aggredire il foglio. Francesca si ritrovò a fissare con attenzione il cerchio viola del timbro. I bordi erano dentellati come quelli di un francobollo, la scritta quasi illeggibile. Con leggeri tratti di penna ricompose accuratamente la stampigliatura PARINI. «Ti decidi a cominciare, Fasser?» La voce della professoressa la fece sobbalzare. «Non mi viene niente.» «Smettila di fare scarabocchi. Ti resta poco più di un'ora e mezzo, lo sai?» «Sì, ma non mi viene niente» Francesca ripeté. «Concentrati sulla frase del Machiavelli. Nel primo trimestre vi avevo dato un tema analogo e tu avevi preso otto. Avanti, scrivi, tra dieci minuti torno a dare un'occhiata.» Nel primo trimestre non era in gioco la maturità, si disse Francesca. E tu non eri smaniosa di sbalordire la commissione con un tema eccezionale, si rimproverò. Si era svegliata alle quattro, quella mattina, e aveva mentalmente ripassato tutte le osservazioni profonde e originali che avrebbe potuto piazzare qui e là nello scritto d'italiano. Rilesse per la ventesima volta gli argomenti proposti: tutti offrivano più di uno spunto per farlo, e proprio nello sforzo di sceglierne uno aveva perso tempo e concentrazione. Ma adesso doveva decidersi. Cancellando mentalmente le altre alternative, si impose di riflettere soltanto sulla frase di Machiavelli. La modernità del Principe, il progresso e la morale, il cinismo distruttivo e quello illuminato, lo strapotere dello Stato, compromesso e ideali (citare Marx e Freud), brevi cenni su personaggi e ideologie che oggi la società strumentalizza, la corte dei Medici, i vecchi ed i nuovi mecenati... L'urgere delle idee fece tremare Francesca di eccitazione e di sollievo. Raddrizzò il foglio e ordinandosi di restare calma fece uno schema mentale dello svolgimento. Le idee si susseguivano intelligenti ed armoniose, il tema, perfetto, era praticamente
già scritto nella sua mente. Guardò l'orologio: le restava tutto il tempo per riportarlo sul foglio. Ma nel momento in cui si accinse a farlo, qualcosa la bloccò. Non le veniva l'attacco. Esistono personaggi che scrisse d'impeto. Cancellò con rabbia, troppo pomposo. Nel 1469, quando Machiavelli nacque. Cancellò di nuovo, troppo didascalico. Si sforzò di ricostruire lo schema iniziale, ma le idee intelligenti di pochi minuti prima all'improvviso le apparvero inafferrabili e senza senso. Devo stare calma. Forza, genio, butta giù la prima idiozia che ti viene in mente e liberati del complesso di prima della classe. Con la coda dell'occhio vide la privatista che rileggeva a bocca semiaperta, stavolta per autoinnamoramento, ciò che aveva finito di scrivere. Tutti gli altri erano ancora curvi sui loro fogli, e quel mare di teste in giù le causò un soprassalto di sinistro divertimento. Le parve di vedere, su ciascuna, levarsi un fumetto. O meglio, il fumo delle idee. Cosa stavano elaborando Alessandra la bella, Piero il mangione, Grazia l'idiota, Simona la vamp, Gigi il seduttore, Marega l'affarista? Tutti, tutti, dormono sulla collina. Brava, adesso mettiti pure a pensare a Edgar Lee Masters. Ci speravi, eh, nel tema diverso che ti avrebbe permesso di citare e volare? E invece no, devi dimostrare di essere matura attraverso la solita sentenza roboante o il solito Sommo Autore alternativo a Dante di cui nessun liceale ha letto nulla all'infuori delle tre paginette di vita e opere sul libro di letteratura. Cercò di riportare la mente sul Machiavelli. Come volevasi dimostrare: chi di noi ha letto le Istorie Fiorentine, o La Mandragola o il Principe? si disse con ira. Eccolo il fumetto che si leva dalle vostre teste, compagni: il fine giustifica i mezzi. É su questa frase che state arrabattandovi da quattro ore: aggirandola, rivoltandola, guarnendola di libere interpretazioni e disgustose banalità. «Ricopia in fretta, tra poco ritireremo i temi.» Era, di nuovo, la professoressa Vitali. Francesca si alzò dal banco e le tese i fogli protocollo. «Non ho scritto niente, non riesco a scrivere niente» disse torva. Raccolse la sacca e corse precipitosamente fuori dall'aula. Tutto come previsto. Papà che «cercava di capire», mamma che si rigirava gli anelli tra le dita, lo sguardo rivolto verso l'alto come se aspettasse di veder piovere la soluzione del problema a mo' di manna. Quando Francesca era giunta a casa, la telefonata del preside l'aveva preceduta. «Prima di trovare il rimedio» diceva ora suo padre «vorrei sentire che cosa ti è successo, Francesca. L'italiano non è mai stato un problema per te, e non posso pensare che in tante ore non sia riuscita a mettere giù una sola riga. Ti sei sentita poco bene? Qualcosa o qualcuno ti ha spaventato? Hai avuto un vuoto di memoria?
Una spiegazione deve esserci, bambina.» La voce era, come sempre, incoraggiante e gentile. «Quello che importa è rimediare, Giovanni. Non posso nemmeno pensare che Francesca sia bocciata.» Era sua madre, questa. E la ragazza si chiese perché mai, anche quando parlava del tempo o chiedeva una tazza di caffè, dovesse avere quel tono affannato e sopra le righe. «Non sta qui il vero problema. Come ha suggerito il preside, con un certificato medico e una eventuale visita di controllo si potrebbe chiedere di ripetere la prova. Mal che vada, con un ottimo orale la commissione d'esame terrebbe conto...» «Non mi presenterò agli orali, papà» Francesca lo interruppe. «Che cosa vuol dire?» chiese sua madre, l'interrogativo strozzato da uno strillo in falsetto. «Vuol dire che con gli esami di maturità ho chiuso. Per quest'anno e per sempre.» «E cosa vuoi fare? La commessa, la ricamatrice, l'acrobata?» Il falsetto toccò il diapason. «Per favore, Diana, ragioniamo con calma. Francesca ha senz'altro una spiegazione da darci. Stiamo aspettandola, bambina.» «Non si può spiegare tutto, papà!» «Sei certa di non voler dire "voi non capireste niente, papà"?» l'ingegner Fasser insinuò affettuosamente. «E perché dovrebbe pensare una cosa simile?» Di nuovo sua madre. «Quando mai non l'abbiamo capita? In questo momento, purtroppo, c'è una sola cosa da capire: è la solita stravaganza di nostra figlia. Ma stavolta, ragazza, non l'avrai vinta. Domattina ti sveglierò alle sette, ti preparerai, farai colazione e andrai brava brava a proseguire gli esami. Mettendocela tutta per rimediare alla tua alzata d'ingegno di stamattina: e se non ce la farai, non importa. A costo di ripresentarti fino a trent'anni, tu la maturità la prenderai.» «Altrimenti ?» Francesca aveva eretto il busto e la fissava con sfida. «Altrimenti niente. Non ti sto ricattando, ti ho dato un ordine. E quanto è vero Iddio lo eseguirai, dovessi trascinarti a scuola tirandoti per i capelli o a calci nel sedere.» Anche Diana Fasser aveva istintivamente eretto il busto e Francesca, nonostante l'ira, registrò con stupore un inedito senso di ammirazione. La sua infantile e frivola mammina per la prima volta mostrava di possedere determinazione e idee proprie. La terrificante prospettiva di doversi ripresentare agli esami travolse sul nascere un confuso senso di colpa. «Mamma, ti prego, non farmi tornare lì» disse. «Lì è la scuola che hai frequentato per cinque anni, stimata dai professori e amata dai compagni.» E ricascata nella retorica, Francesca pensò sarcastica. Amata dai compagni... E perché poi dovrebbero amarmi? Fanatica, scorbutica, puritana, asociale: così mi vedono.
Quando mai mi hanno invitato alle loro festine? O a andare con loro a un concerto? O a mangiare la pizza? Mi rispettano, questo sì. Oh, quale privilegio essere invitati nella splendida casa di Francesca Fasser e fare la versione di greco o di latino con la prima della classe! Ma dopo tre ore hanno fretta di scappare, perché non reggono la noia. Detesto Rettore e i Pooh, non sopporto il fracasso delle discoteche, Superman mi fa vomitare, non vado in estasi per la Honda di Gigi, non corro per mercatini come Simona alla fanatica ricerca di argenti corrosi e gilet indiani con gli specchietti luccicanti. E a diciott'anni, orrore! sono ancora vergine. «Francesca, stiamo sempre aspettando una spiegazione.» Suo padre. «Non possiamo cedere a questo capriccio, è in gioco il tuo futuro.» Sua madre. «Ti assicuro che capiremo, qualunque cosa ci dirai.» Suo padre. «Abbiamo il diritto di sapere, come genitori siamo responsabili di te.» Sua madre. «Qualcuno ti ha detto qualcosa che ti ha offeso, ferito?» Suo padre. «Per favore, di' qualcosa, vuoi farmi morire d'infarto?» Sua madre. Francesca scoppiò in un pianto dirotto, e si sorprese ad ascoltare con inorridita curiosità il suono lacerante dei suoi stessi singhiozzi. Papà e mamma corsero ad abbracciarla e lei sentì le loro parole di conforto e le loro voci spaventate; ma era incapace di frenare il pianto, come se i singhiozzi fossero diventati parte di lei entrandole nei muscoli, nei nervi, nel sangue. Le mancava il respiro e le spalle erano scosse da un tremito irrefrenabile. «Calmati, Francesca, calmati. Diana, prendi un bicchiere d'acqua. Adesso vai a riposare, bambina, e stasera, se vorrai, ne riparleremo. » «Non... non voglio... Non voglio parlarne più, papà.» Soltanto più tardi, sdraiata sul suo letto, Francesca realizzò l'enormità di ciò che aveva fatto. Come aveva potuto consegnare il foglio in bianco? Sono pazza, si disse ad alta voce. Pazza e cretina. Alla rabbia subentrò una disperazione paralizzante. Oh, Dio, che cosa ho fatto! pensò sconvolta. La consapevolezza di non potervi porre rimedio trasformò la disperazione in un dolore sordo, insopportabile. Forse è questo che si prova quando muore una persona cara, si disse, e come spesso le accadeva una piccola parte della sua mente si estraniò da lei stessa dividendola in due persone: mentre una soffriva, l'altra guardava e rifletteva per conto proprio. Basta. Sono contorta e morbosa e chi mi credo di essere? Che motivi ho per sentirmi superiore ai miei compagni? Nascere da genitori ricchi non è un merito, ma un caso. E amare lo studio e i libri più dei ragazzi e delle discoteche non è intelligenza, ma viltà. Avanti, confessalo, Francesca. Dietro al tuo delirio di superiorità c'è solo la paura di confrontarti con gli altri. E dietro la tua verginale inaccessibilità c'è solo il terrore di non essere spiritosa come Marina, corteggiata come Alessandra o amata come Simona. E soltanto per
non competere con le tue coetanee che ti sei creata degli interessi che loro non hanno. Ma stamattina, agli esami, per la prima volta eri costretta al confronto. É stata la paura di essere giudicata a paralizzarti la mente, è stata l'umiliante probabilità che qualcuno facesse un tema migliore del tuo a farti consegnare il foglio in bianco. La smania di perfezione ti ha distrutta. Che cosa c'è di sbagliato in me? Perché sono così insicura quando la vita mi ha dato tutti i doni possibili? Sono persino bella, si ritrovò a pensare con l'altra parte di sé. Automaticamente si sollevò sul letto e si fissò nella piccola specchiera antica appesa sulla parete di fronte. Tra le sbavature e le muffe del vecchio vetro apparve il viso di una giovane ragazza che Francesca scrutò con puntigliosa obiettività. I lunghi capelli scuri e arricciati, la fronte alta e appena arrotondata, i grandi occhi color velluto, il corto naso (oh, nota dolente!) con la punta fortunatamente rivolta all'insù, le labbra carnose e come contornate da un segno di matita rosa scuro, i denti bianchissimi, la curva dolce del mento. Si mise in ginocchio e corse in giù con lo sguardo: ben squadrate le spalle, ah, se avessi il collo un po' più lungo!, seni dall'attaccatura larga ma non enormi, vita sottile, fianchi un po' rotondi (un po' ad anfora, da Lollo o Loren prima maniera), gambe... Si sollevò in piedi, cercando l'equilibrio sul materasso. Gambe perfette, solo se fossero state un po' più lunghe. Esiste qualcuno che impazzirà per il mio corpo, accarezzandolo con mani tremanti e voce gemente? Vorrei essere amata da un uomo romantico e avventuroso come Stendhal. O ironico e dolce come Dustin Hoffman. O sublime e infelice come Charlie Parker... Sarei una compagna rassicurante, spiritosa, intelligente. Il ricordo del foglio bianco ritornò improvviso ributtandola in una desolazione senza scampo. Ormai, certamente, tutti i compagni sapevano che non era stata capace di svolgere il tema. Chissà lo stupore e le risate. Ma non avrebbero avuto la soddisfazione di assistere alla sua sconfitta. Non mi rivedranno mai più, si disse, non metterò mai più piede in quella scuola. Papà e mamma non riusciranno a costringermi, no. E si preparò a dar battaglia avvertendo il sollievo della certezza che si stava annidando nel solito angolino della mente: ancora una volta saprai bene come persuaderli, Franci.
CAPITOLO 2 Quel settembre del '78 l'estate declinò dolcemente verso un mite autunno. Giorno dopo giorno le giornate si accorciavano, la luce scoloriva, il sole si sbiancava. Francesca avvertiva una tristezza d'agonia, anche perché non aveva mai amato la vecchia villa di Nervi, né mai capito perché ogni anno suo padre si ostinasse a trascorrervi con la famiglia due settimane fuori stagione. Non che lei sentisse la mancanza del fracasso estivo, al contrario. Le piaceva l'assenza di suoni e di persone, ma il silenzio delle grandi stanze aveva una solennità quasi intimidatoria e il vago odore di muffa e di umido, che quindici giorni di finestre aperte al sole sbiadito non bastavano a fugare, le sembrava quello dell'estate che moriva. «Una genovese che non ama Nervi: è inaudito!» la prendeva sempre in giro papà. Per essere precisi, a lei non piaceva nemmeno Genova. Un ibrido tra Nord e Sud, stupendi palazzi liberty e case fatiscenti saldate l'una all'altra, colore di mare e buio di vicoli sudici, gente amabile e gente avara di cordialità e parole. Ma riconosceva onestamente che era una impressione sua, superficiale e forse gratuita. Di Genova conservava gli sfocati ricordi della prima infanzia: aveva cinque anni e mezzo quando suo padre aveva trasferito a Milano la sede amministrativa della Fasser Immobiliare, e a Milano lei era cresciuta, aveva cominciato la scuola, allacciato le poche e tiepide amicizie. La scuola. Ecco l'incubo scacciato, il pensiero raggirato per tutta la mattina. Si era ritirata dagli esami, papà e mamma avevano ceduto alla supplica di non farle ripetere la terza liceo al Parini, ma per il resto si erano mostrati irremovibili: l'anno prossimo avrebbe dovuto ripetere la maturità, sia pure presentandosi come privatista, sia pure facendo gli esami a Genova anziché a Milano, se lo preferiva. «Al mattino prenderai delle lezioni secondo un preciso programma, al pomeriggio studierai» aveva detto con insolita autorevolezza suo padre. «La tua ex professoressa di italiano si è gentilmente offerta di trovarci gli insegnanti per le varie materie, e dai primi di novembre comincerai a impegnarti come se frequentassi la scuola.» Tra meno di un mese, Francesca pensò con disgusto. E sua madre che aveva avuto la bella idea di pregare, addirittura pregare! la ex insegnante di italiano perché la preparasse personalmente per la sua materia. La famigerata sera del tema in bianco la signora Vitali, come del resto il preside, le aveva telefonato tentando di convincerla a proseguire gli esami, e quando si era accorta che tutti gli argomenti erano risultati inutili aveva esclamato con voce dolente: «Mi aspettavo tanto da te, come hai potuto deludermi?». Ho deluso soprattutto me stessa, avrebbe voluto urlare, e invece aveva riattaccato senza commenti.
Quella frase le tornava spesso in mente causandole la stessa ira. Se un giorno avrò un figlio, si ripromise, non sarò mai così presuntuosa da pensare che viva per farmi dispetto. Se sbaglia, non penserò ridicolmente che l'ha fatto per dare un dolore a me. Né piagnucolerò sulla mia delusione anziché preoccuparmi della sua. Peccato che al liceo non si facciano più quei bei temini su mamma e papà: potrei riempire sei fogli protocollo sulle palate di sensi di colpa che in questi ultimi mesi i miei genitori mi hanno scaricato amorosamente addosso. Quanto sarebbe stato meglio, rifletté, se l'avessero rimproverata, castigata, persino picchiata. E invece no, si erano mostrati affettuosi e squisitamente pieni di tatto, così che l'astiosità che adesso provava per loro le appariva immotivata e colpevole. Di sua madre per esempio non sopportava l'ignoranza. «Ma non senti mai il desiderio di comprarti un buon libro?» Il battibecco era della sera prima. Benché avesse fatto il liceo e tre anni di università, sua madre leggeva esclusivamente settimanali femminili e romanzi d'amore; e dei quotidiani si limitava a leggere i titoli. «Cosa intendi per buon libro, Francesca?» «Qualunque cosa fuorché quel che leggi tu.» «Ma io leggo per distrarmi, per passare il tempo.» «Potresti farlo in modo più intelligente.» La donna aveva lasciato cadere il discorso con una risatella, alzando le spalle. Doveva ammettere che sua madre non era per niente permalosa e, salvo che nelle emergenze, mostrava il tipico buon carattere dei superficiali. Era anche una bella donna: bionda, più alta di lei, e con gli occhi verde-azzurri che a tredici anni le aveva molto invidiato. Un'altra cosa che non sopportava era la sua vanità: a quarantatré anni ne dichiarava trentanove, sperando chiaramente che non gliene dessero più di trenta. Sapeva le calorie di tutti i cibi e, da quando aveva memoria, Francesca l'aveva sempre vista seguire una dieta o in procinto di iniziarne una. Quel che non capiva era la smisurata tolleranza di suo padre. Non perdeva la pazienza neppure quando doveva cercare il rasoio in un mare di tubi, creme e flaconi di profumo. Ecco, questa tolleranza era il suo peggior difetto. Francesca si chiedeva spesso come fosse possibile che un professionista autorevole e imprenditoriale come suo padre, con la fama di essere un duro, una volta tornato a casa si trasformasse in un marito mite e gentile. Sembrava che la moglie lo avesse depersonalizzato. Sicuramente la amava molto, e questo la stupiva, come il successo che Grazia aveva tra i compagni di classe: le risultava incomprensibile che uomini intelligenti come suo padre fossero attratti da donne come loro, belle e basta. Incapaci di fare un discorso profondo, un'osservazione intelligente, una battuta spiritosa. Sono ingiusta, si rimproverò. La sua bella e frivola mamma era anche una donna capace di grande tenerezza. E di una fisicità ricolma d'amore. Nei miei capelli, nel
mio viso e nel mio corpo c'è l'impronta di due mani gentili che per anni mi hanno pettinato, lavato, accarezzato. Era nata con il taglio cesareo, le aveva raccontato papà, dopo una gravidanza difficile e un travaglio molto doloroso. Nella prima foto scattata in clinica, a poche ore dal parto, sua madre la teneva contro di sé fissandola con un amore che le illuminava il volto ancora sofferente e gonfio. Francesca teneva quella fotografia sul cassettone, e ogni volta che la guardava si sentiva intenerita ma anche rattristata. Come se dentro di sé sapesse di non essere meritevole di tanto amore. Era per vincere quella fastidiosa sensazione di inadeguatezza che cercava di sminuire in ogni modo sua madre? Devo smetterla di elucubrare, si ripeté. E stavolta le fu facile: dal soggiorno udì improvvisamente giungere le voci concitate dei suoi genitori, e quella di suo padre era alterata dall'ira. Non li aveva mai sentiti litigare a quel modo, e ne provò uno spavento così spropositato che li raggiunse correndo. Come la videro, marito e moglie ammutolirono. «Che cosa sta succedendo, papà? State discutendo per me?» «No, tu non c'entri. É una cosa che riguarda la mamma e me. Ti dispiacerebbe...» «Avete intenzione di separarvi?» chiese d'impulso, impaurita dalla sua stessa domanda. La risatina nervosa di sua madre. «Non essere melodrammatica, Francesca! Stiamo soltanto discutendo, tutte le coppie lo fanno.» «Non voi. Se volete restare soli, me ne vado. Però non trattatemi da deficiente, è chiaro che è successo qualcosa.» «Una sciocchezza, Francesca. Una sciocchezza a cui tuo padre ha dato un'importanza esagerata. Proprio da qui è nato il diverbio.» La ragazza li guardò alternativamente. «Non posso sapere di che cosa si tratta?» Diana Fasser fece una spallucciata. «Ma sì, che cosa c'è da nascondere? Ho deciso di sottopormi a un piccolo intervento di chirurgia estetica, e come l'ho detto a tuo padre è scoppiata la tragedia. Il lifting è un intervento di routine, ormai tutte lo fanno e...» «Ma tu sei bellissima, mamma!» L'esclamazione proruppe sincera. «E sei anche giovane. Che bisogno hai di un lifting? Non hai rughe, non hai...» Intervenne l'ingegner Fasser: «Sarei contrario anche se tu avessi sessant'anni, Diana. Con l'anestesia non si scherza, te lo ripeto, e per quanto "piccolo" il lifting è pur sempre un intervento chirurgico. A parte questo, la tua faccia mi piace com'è, e vorrei che piacesse anche a te. Ritengo un sintomo di enorme immaturità e di scarsa autostima questa smania di cancellare i segni del tempo.» «Evidentemente sono infantile e ho una scarsissima opinione di me: perché questo lifting voglio farlo, e che a te piaccia o no lo farò!» «Non puoi rifletterci per qualche mese? Non mi pare che tu stia cascando a pezzi...» «Risparmiami la tua ironia! Ci ho già riflettuto, caro, e appena rientreremo a Milano andrò dal professor Alberti per concordare l'intervento. Se può consolarti, ne ha eseguiti a migliaia, e tutte le pazienti sono uscite vive dalla sala operatoria.» «Non hai paura, mamma?» Francesca chiese con curiosità. Lei ricordava come un incubo la lontana operazione di appendicectomia e il momento in cui l'anestesista si era curvato per infilarle l'ago nella vena. «Ho paura, sì! Della vecchiaia! Di queste palpebre che cascano, di questo collo molliccio, di questi bargigli sul mento...» Diana Fasser accompagnava le parole
tirandosi e pizzicandosi il viso con gesti isterici da autoflagellazione e Francesca la guardò combattuta tra repulsione e angoscia. Le sembrava impossibile che sua madre vedesse tanta devastazione in un volto ancora giovane e intatto. In un empito d'affetto corse ad abbracciarla. «Ma che cosa dici? Non ti guardi mai allo specchio?» La donna si divincolò bruscamente. «É proprio perché mi guardo allo specchio che so quel che dico.» Suo marito scosse la testa. «A questo punto non parliamone più. Non mi ero mai accorto, credimi, che avessi tanta paura di invecchiare. Prima o poi dovrai comunque rassegnarti all'idea: per quanti lifting potrai fare, non ti tireranno indietro gli anni.» «Grazie, sei stato molto gentile a ricordarmelo! Visto che di più non si può, mi accontento di portarli con decenza, cancellando i segni del degrado fisico.» «Diana... Non ti sembra di precorrere i tempi? Hai solo quarant'anni, santo cielo!» «Quarantatré» puntualizzò torva. «Mamma, ci sono donne alla tua età che si sposano, fanno figli e...» «Vorresti averli, tu, quarantatré anni?» Diana investì la figlia. Quell'urlo ostile la desolò. «Sì, mamma, vorrei.» Le lacrime le pungevano gli occhi. «Se avessi la tua età, non dovrei più chiedermi se ce la farò a finire la scuola, a incontrare un uomo, a avere dei figli. Avrei già fatto e avuto tutto, mentre non ho ancora niente» concluse con voce di pianto. Subito si vergognò di quello sfogo, e automaticamente ne diede la colpa a sua madre. Come poteva essere tanto egoista e superficiale? Come si permetteva di angosciare lei e papà per un problema così cretino? Possibile che il suo mondo si fosse ridotto a uno specchio? Sollevò gli occhi su di lei, con sguardo di sfida, e l'ira smontò di colpo. Sua madre, come uscita da una trance, la stava a sua volta fissando con amorosa preoccupazione e smania di rassicurarla. «Ma che cosa stai dicendo, Franci? Tu avrai tutto, e non capisco queste sciocche paure. Sei una ragazza eccezionale, devi soltanto crescere, lasciare tempo al tempo. E poi ci siamo io e papà. Lo sai, vero, quanto bene ti vogliamo?» Francesca fece cenno di sì. «Scusami, mamma» disse. E contemporaneamente si chiese di che cosa doveva scusarsi, avvertendo l'eterno sentimento di inadeguatezza. «Sono gli scherzi dell'autunno.» Era suo padre. «E questa casa, in ottobre, non aiuta a essere allegri.» «Odio questa casa» sibilò Francesca. L'ingegner Fasser fece un piccolo sorriso, sollevato di poter cambiare discorso. «Lo so. E anche tua madre la odia.» «Ma allora, perché tutti gli anni ci costringi a venire qui, papà?» «Perché qui nacquero i miei nonni e mio padre e sono cresciuto io, qui è morto il mio unico fratello. Sono le nostre radici, Francesca, e desidero che siano anche le tue. Col tempo imparerai anche tu ad amare questa vecchia casa.» La ragazza fece una smorfia: «É troppo triste. O forse è troppo grande per noi». Sua madre le strinse la mano. «Proprio così. Le stanze sono enormi, i soffitti alti, è uno sperpero di spazio che fa sentire perduti e non favorisce l'intimità. Forse bisognerebbe eliminare un po' di anticaglie e scegliere un arredamento più caldo e
funzionale, ma tuo padre non vuole saperne. Le sue radici devono avere odore di muffa» scherzò. Non era questo che intendevo dire, Francesca pensò. Forse non è la casa ad essere troppo grande, è la nostra famiglia che è troppo piccola. Non ricordo i miei nonni, il mio solo zio è morto prima che nascessi, non abbiamo altri parenti all'infuori di quelli, lontani, della mamma e io sono figlia unica. Non ho mai corso nelle stanze o nel parco con fratelli o amici, in questa casa non ci sono mai stati risate, rumori. Ecco perché non la amo, è come un simbolo della mia solitudine. E di quella di mamma e papà. Il flusso dei pensieri si arrestò di colpo: era sbalorditivo che per la prima volta si rendesse conto di quanto anche l'esistenza dei suoi genitori fosse deserta di presenze e affetti. Avevano più conoscenti che amici, uscivano pochissimo, e i rari inviti a pranzo erano motivati da esigenze di cortesia o di lavoro. La solitudine: ecco cosa aveva finito per annoiare e mettere in crisi sua madre. Di nuovo Francesca si sentì sopraffatta da un moto d'amore. Da quando aveva memoria, si era sempre dedicata a lei e papà. Ascoltando, consigliando, prodigandosi per assecondare ogni loro desiderio. Qualche volta, è vero, si lamentava e strillava con quel suo ridicolo falsetto, ma subito tornava ad essere paziente e gentile. Io e papà non avremmo potuto desiderare una madre e una moglie migliore, si disse, e adesso dovremmo essere più indulgenti con lei, capire che non è di invecchiare che ha paura, ma di sentirsi inutile. Papà dovrebbe pensare meno al suo lavoro, regalarle qualche fiore, ripeterle più spesso che gli piace così com'è, portarla fuori a cena. E io ... io dovrei vergognarmi di essere tanto spesso ingrata e ostile. Si catapultò sulle sue ginocchia con l'impeto di quando era bambina ricoprendola di baci. «Ehi!» rise sua madre sorpresa, stringendosela contro. «Ti voglio un bene pazzo. Non prendertela, tra pochi giorni torniamo a Milano e il professor Alberti ti toglierà questi bargigli mollicci» scherzò accarezzandole il mento di pesca.
CAPITOLO 3 Alla vigilia della partenza, l'estate agonizzante ebbe un soprassalto che spazzò via la nebbiolina, illuminò l'aria e riaccese i colori. Quella mattina, quando aprì le persiane, Francesca ebbe la sorpresa di una giornata bellissima. Al di là del parco, tra gli alberi, si intravvedeva una striscia di mare che tremolava alla luce gialla del sole. Guardò l'orologio: le dieci. Aveva tutto il tempo per andare in spiaggia e godersi quella mattinata calda e scintillante. Sotto i jeans, indossò il costume; infilò nel borsone di paglia un lenzuolo di spugna e un libro e infine scese in cucina per bere, al volo, un bicchiere di latte. Amelia, la moglie del custode, stava lavando le stoviglie della colazione. «Tua madre è andata dal parrucchiere e ha lasciato detto che non tornerà a mezzogiorno» l'avvertì. «E papà?» «Quando sono arrivata io, era già uscito. Ma tua madre ha lasciato detto che non tornerà nemmeno lui, perché ha dovuto andare a Imperia per un affare urgente. Puoi venire a mangiare da noi, se credi.» «Non importa. Quando hai finito vai pure, Amelia. Mi arrangerò con un panino.» Bevuto il latte, Francesca uscì direttamente dalla porta della cucina e imboccò il vialetto che portava verso il parco. Cinque anni prima una misteriosa malattia aveva decimato buona parte degli alberi piantati dal bisnonno, ma lei non condivideva il disappunto di suo padre: le piaceva il manto vellutato del prato, e lo stesso parco, spogliato dalle sagome troppo fitte delle piante, si ergeva sopra il mare con il suo profilo dolce e pulito di promontorio. Visto dal basso, sembrava un verde panettone leggermente schiacciato. Un vecchissimo sentiero a gradoni rozzamente tagliati nella roccia partiva dalla punta e scendeva fino a una piccola insenatura sabbiosa circondata dagli scogli. Molti anni prima anche il tratto di spiaggia sottostante aveva fatto parte della proprietà, ma adesso apparteneva al demanio. Nei tre mesi estivi brulicava di bagnanti che spesso si inerpicavano sul sentiero roccioso e giungevano fino al parco. Proprio per questo suo padre aveva fatto costruire sotto l'insenatura un cancello di legno, con l'indicazione che da lì iniziava la proprietà privata. Ma ormai la stagione era finita e la spiaggetta deserta. Francesca iniziò la discesa saltando per i gradoni come quando era bambina. Si sentiva serena, leggera. E padrona del mondo: che si era ristretto ad una microscopica oasi di silenzio e di luce. «Questo non risolverà nulla, Nicola.» Una voce, di ragazza, triste e sottile, schioccò nell'oasi come una staffilata.
Francesca si fermò sul penultimo gradone paralizzata da uno spavento che l'altra parte di lei subito ritenne spropositato. «Milly, vuoi farmi impazzire?» Era un rauco sussurro maschile, questo, e il tono era così angosciato che Francesca Si accorse di tremare. «É finita, vuoi capirlo?» Di nuovo la ragazza. «Non posso perderti, non posso accettare la tua decisione senza lottare.» Il sussurro era diventato un grido d'amore. «Vuoi cominciare violentandomi ?» Nessuna risposta. Lentamente, come ipnotizzata, Francesca risalì tre gradoni e si nascose alla destra del sentiero, dietro un cespuglio d'oleandri. Da lì poteva guardare l'insenatura, e quel che vide la turbò profondamente. Una coppia seminuda stava dibattendosi sulla sabbia. La ragazza si ritraeva con furia e il ragazzo tentava di inchiodarla sotto di sé. A un certo punto lei riuscì a risollevarsi e Francesca si ritrovò a studiarla trattenendo il fiato. Era magrissima, il collo lungo e i capelli biondi pettinati alla paggio. Una mano del ragazzo Si mosse e Francesca ne seguì come stregata il movimento. La vide posarsi su un seno piccolo e rosato che le diede una violenta sensazione di repulsione. La tenerezza con cui le belle dita cominciarono ad accarezzare quel seno le apparve oscena. Si sollevò di scatto dai cespugli e scese i gradoni volando come una furia sulla radura. «Questa è proprietà privata, non avete visto il cartello?» strillò. Il ragazzo si sollevò istantaneamente, come azionato da una molla, e Francesca dovette farsi violenza per distogliere gli occhi dalle sue nudità. Rivolse lo sguardo alla ragazza che si era rannicchiata su se stessa nascondendosi la testa fra le ginocchia. Bionda e scomposta, sembrava un angelo a cui avessero spezzato le ali. Anziché impietosirla, questo accrebbe l'ira di Francesca. «Dico anche a lei, signorina. Non ha sentito? Questa è proprietà privata.» Il ragazzo le si eresse di fronte minaccioso. «Adesso piantala, stronza. Se ti togli dai piedi raccogliamo la nostra roba e sgombriamo il possedimento.» Teneva i pugni stretti, quasi dovesse sforzarsi per non picchiarla. Francesca si scostò istintivamente, e udì l'angelo sussurrarle gentile: «Scusaci, hai ragione». «Ma quale ragione? É solo una maleducata e una guardona. Nessuno ti ha insegnato il rispetto per il prossimo, ragazza? Non hai capito che stavamo affrontando un problema maledettamente nostro?» Francesca, il viso di fuoco, indicò verso il basso. «C'è il cartello...» Il ragazzo la fissò interrogativamente, e lei notò che aveva gli occhi arrossati, come se avesse pianto. «Il cartello che indica la proprietà» precisò sentendosi un'idiota. «Ancora! ?» «Ti prego, Nicola, andiamo via.» La ragazza, Milly, si era alzata e si stava rivestendo in fretta. «Non sono una guardona» puntualizzò Francesca. Aveva ritrovato la padronanza di sé e l'imbarazzo era sparito lasciando posto alla stizza. «Scendendo qui, nella mia
spiaggetta, vi ho sentiti. E visti.» «Non ti è venuto neppure in mente di tornare indietro? Una persona educata lo avrebbe fatto.» «Dovrei scusarmi io, ora? Senti da che pulpito arriva la lezione... Due persone educate i loro problemi intimi se li risolvono a casa. O a letto. Non in una spiaggia pubblica.» «Oh, oh! Non avevi detto che questa è una spiaggia privata? La verità è che sei una...» La frase restò sospesa. L'angelo biondo aveva aperto il cancellino di legno e stava scendendo a grandi passi giù per il sentiero. «Milly, dove vai? Aspettami!» Il ragazzo la inseguì correndo, come se il mondo rischiasse di sparire con lei. Francesca li vide girare la curva sotto gli scogli e per qualche istante restò ridicolmente impalata, come se due alieni le fossero apparsi per svanire subito nel nulla. In un certo senso era proprio così. Per la prima volta aveva avuto un incontro ravvicinato con la passione, e si sentiva confusa e turbata. Ma soprattutto immalinconita. Allargò il lenzuolo sulla sabbia, si sfilò i jeans e si sdraiò con la faccia rivolta al sole, le mani intrecciate dietro la nuca. Ripensò alla ragazza che pochi minuti prima era distesa in quello stesso posto. La sua voce gentile, l'affannosa vergogna con cui aveva tentato di coprirsi, la dignitosa compostezza con cui si era allontanata. Io non diventerò mai così, si disse. Sono sgraziata, scorbutica e villana, e nessuno potrà mai amarmi come è amata lei. Riandò col pensiero al nudo corpo di statua del ragazzo. Nicola, sì. Solo ora le veniva in mente ciò che a quanto pareva aveva osservato senza rendersene conto: i folti capelli resi irti da una curiosa rosetta alla sinistra della tempia, gli occhi chiari dal taglio allungato, gli incisivi superiori leggermente accavallati. E quelle dita lunghe e bellissime. Francesca, arrossendo, le rivide nel gesto di una lenta carezza e d'istinto si portò le mani sul seno. Stringendolo a coppa, si sentì rimescolare tutta. Come quella sera di sei mesi prima, quando Gianni Guidi, il ripetente della terza D, l'aveva riaccompagnata a casa dopo una festa di compleanno. Arrivato sotto casa, le aveva circondato le spalle e, tirandosela contro, l'aveva baciata sussurrando: «Sono due mesi che volevo farlo». Perché si era ritratta? Gianni le piaceva e anche lei desiderava baciarlo. Prima di lui le erano piaciuti Franco, Massimo, Paolo. Di Massimo aveva creduto addirittura di essere innamorata. Perché si erano lasciati? Di che cosa aveva avuto paura? Non buttarti via. Non flirtare con leggerezza. Concedi te stessa soltanto a un ragazzo eccezionale. Le raccomandazioni dei suoi genitori. Mi hanno educata con troppo rigore, come una pudibonda fanciulla dell'Ottocento, pensò. E nonostante
abbiano fatto di tutto per convincermi che sono una persona straordinaria, non sono riusciti a trasmettermi l'autostima. Lo sforzo di essere all'altezza della loro grandiosa opinione era sempre stato sproporzionato rispetto ai risultati. Per quanto cercasse di rendere suo padre e sua madre orgogliosi di lei, alla fine le sembrava sempre di non aver fatto abbastanza, di averli delusi. Per punirsi assumeva atteggiamenti tali da provocare una dolorosa e scoperta disapprovazione. Fin dall'adolescenza conviveva con una smania di consenso puntualmente frustrata; e il peggio era che, tutta tesa a piacere agli altri, aveva finito col non piacere a se stessa. É che non mi riconosco nel mio modo di comportarmi e di reagire. La mia esistenza è stata come una recita, e a volte ho l'impressione di non capire più che cosa realmente penso e voglio. La mente riandò a Nicola, il ragazzo di poco prima. In questo momento so esattamente quel che vorrei: trasformarmi in Milly e sentire la carezza di quelle mani, il tono appassionato di quella voce. Invece nessuno la desiderava, la rincorreva o piangeva per lei. Era sola e padrona nella «proprietà privata» strenuamente rivendicata. Stronza. Il ricordo di quell'insulto, di nuovo, la riempì di vergogna. Come aveva potuto comportarsi in modo tanto odioso? Si mise a sedere, nervosamente, ricostruendo quanto era accaduto al fine di trovare una giustificazione. Dopotutto lo stronzo era stato lui. Sorpreso a fare i propri comodi in casa d'altri, invece di scusarsi e andarsene aveva reagito a parolacce e insulti. Si concentrò nello sforzo di provare antipatia e rabbia, ma inutilmente. Basta. Tirò fuori dal borsone una biografia di George Sand che aveva trovato tra i libri di suo padre e cominciò a leggere. Come sempre le accadeva, ben presto la lettura la estraniò da tutto, se stessa compresa. Quando sollevò gli occhi dal libro e guardò l'orologio si accorse che era l'una. Amelia aveva lasciato sul tavolo della cucina un'insalatiera con del radicchio tagliato, un piatto di formaggi, due panini e una spremuta di arancia. Contro un bicchiere aveva posato un biglietto: «Ha telefonato la mamma di preparare la tua roba perché partite stasera». Agli ordini, signora. La prospettiva di quella partenza anticipata, sia pure di poche ore, la mise di buonumore. Addio Nervi. E addio odore di muffa, letture solitarie, cattivi pensieri. Da ora in avanti, si ripropose, vivrò come tutte le ragazze della mia età. Voglio imparare a ballare e a civettare, a dire cose stupide e a stare in mezzo agli altri.
Imbottì un panino con una fetta di formaggio e cominciò a morderlo scoprendo di avere fame. Se ne preparò un altro e condito il radicchio, vuotò anche l'insalatiera. Infine bevette la spremuta. Passò in soggiorno e accese il televisore. Il telegiornale era alle ultime battute. Francesca si allungò sul divano e cambiò canale. Si accorse di essersi profondamente addormentata quando udì, senza vederla, sua madre. «Che cosa stai facendo con le finestre chiuse?» «Che ore sono?» «Quasi le sette. Stai poco bene?» «No, no.» Sua madre aveva acceso la luce e lei si sollevò ancora insonnolita. «Cosa ne dici, Francesca? Ugo ha voluto a tutti i costi tagliarmi i capelli...» «Ma li hai anche schiariti!» Il sonno era passato. «Solo qualche colpo di sole. E allora, ti piaccio?» «Non so, devo abituarmi.» Con quelle ciocche chiare e sforbiciate appariva molto più giovane. «Sembri una ragazza» le sfuggì. Il sorriso compiaciuto di sua madre la sorprese, in quanto non aveva inteso farle un complimento. Non le andava che sembrasse una ragazza, quel viso sbarazzino le comunicava una sensazione di inspiegabile fastidio. «A papà piacevano i tuoi capelli di prima» osservò. «Dopo vent'anni avevo voglia di cambiare.» «E dopo il lifting non ti riconosceremo più» Francesca rise amaro. «Ehi, che tono. Cambiando discorso, hai preparato la tua roba?» «Non ancora. Ma perché partiamo stasera?» «Perché papà domattina alle otto deve essere a Linate. L'amministratore gli ha telefonato stamane per avvertirlo che hanno vinto l'appalto per quei lavori in Nigeria e che lo aspettano d'urgenza a Lagos per firmare il contratto. É andato a Imperia a parlare con l'ingegnere che dovrebbe dirigere il cantiere e da lì è tornato direttamente a Milano. Adesso sbrigati, prepariamo i bagagli e lo raggiungiamo.» «Ma non ti dà fastidio guidare di notte?» «Andremo piano, nessuno ci corre dietro. E possiamo fermarci a mangiare un boccone in un autogrill. Ora muoviti, io in mezz'ora sono pronta.» Francesca odiava dover fare le cose in fretta, fosse anche chiudere quattro indumenti in una valigia. Le metteva agitazione, le impediva di concentrarsi. Dirigendosi controvoglia verso la sua stanza le venne in mente quel che la signora Vitali, la professoressa d'italiano, le aveva detto una volta scherzando: «Il perfezionismo è un'infiammazione della scrupolosità e, non curato, può diventare una grave malattia». Purtroppo ne aveva avuto la prova agli esami di maturità. Il timore che l'incidente potesse ripetersi le diede i brividi. Con la fine delle vacanze era finita anche la tregua. Avrebbe dovuto ricominciare a studiare e riascoltare i predicozzi della Vitali. Ripiegando gli indumenti, le venne da chiedersi come la saggia e perfetta professoressa avrebbe reagito se si fosse trovata di fronte alla coppia della spiaggetta. Probabilmente si sarebbe infuriata come lei. Benché trasudasse progressismo, era sposata con un magistrato che godeva la fama di essere un rigido e inflessibile reazionario: e non si può vivere tanti anni insieme senza finire per rassomigliarsi.
Chissà cosa avevano in comune Milly e Nicola. Nel momento stesso in cui se lo chiedeva, Francesca si sentì ridicola. Cosa diavolo le veniva in mente? Più tardi, in autostrada, la sua mente tornò improvvisamente a loro e con sbalordimento si udì raccontare a sua madre: «Oggi, alla spiaggetta, c'erano un ragazzo e una ragazza che facevano l'amore». Sentì, fisicamente, il sobbalzo di lei. «E tu, cosa hai fatto?» «Gli ho detto che era proprietà privata e li ho mandati via.» «Bisognerà cambiare lucchetto e mettere un cancello più alto. Comunque hai fatto malissimo a discutere, dovevi risalire in casa e avvertire il custode. Potevano essere due drogati o chissà che.» «Erano persone perbene» tenne a precisare Francesca. «Come fai a affermarlo? Due persone perbene non fanno certe cose in pubblico» «É quel che gli ho detto io. E Milly, la ragazza, si è molto offesa.» «Milly? Come fai a sapere il suo nome? Francesca ti ho detto mille volte di non dare confidenza agli estranei. Il ragazzo poteva essere armato, avere una reazione violenta.» «Per poco non mi picchiava, infatti.» Adesso Francesca era quasi divertita. Parlare dell'episodio l'aveva aiutata a scacciare il malessere. Accorgendosi di aver spaventato sua madre, si affrettò ad aggiungere: «Non è che fosse un violento, si è semplicemente sentito in dovere di difendere la sua ragazza. Si stavano lasciando e lui aveva gli occhi rossi». «Sembra che tu abbia assistito alle riprese di una telenovela» notò sua madre, subito sollevata. «Non ci si ama solo nelle telenovelas.» «No. Ma nella vita vera i grandi amori sono più rari ed il lieto fine non è garantito.» «Mi piacerebbe vivere un grande amore.» «Spero un po' diverso da quello della ragazza di cui parlavi. É indecente andarsi a rotolare per spiaggette e sedili di automobili.» «Tu vedi il male dappertutto, mamma! Con te non si può mai fare un discorso serio.» «Guarda che sono molto seria, Francesca.» Aveva rallentato l'andatura, adesso. «L'amore è rispetto, bellezza e dignità. E non esiste niente di tutto questo negli approcci frettolosi o negli amplessi rubati qui e là.» «Il ragazzo di stamattina era molto innamorato.» «E come lo sai? Io non credo. Un uomo innamorato non mette mai la sua donna nelle condizioni di vergognarsi, o di perdere la stima di sé.» «Ora sei tu, mamma, a parlare come in una telenovela! Tutte le mie compagne hanno il ragazzo, e penso che facciano spesso l'amore in macchina o in posti solitari. La diversa sono io, l'unica vergine della classe.» «Avresti preferito darti a un ragazzo qualunque per sentirti uguale alle altre? Il sesso senza amore è un'esperienza squallida che ti sei saggiamente risparmiata.» «E se fossi incapace di innamorarmi ?» Diana Fasser rise teneramente. «É una paura ridicola Tu sei diversa dalle altre solamente perché non ti accontenti di un ragazzo qualsiasi: ti innamorerai quando incontrerai una persona davvero degna di te.» Tolse una mano dal volante e le arruffò i capelli. «Devi credere alla mamma, Franci. E non dimenticare mai quanto vali. Hai diciotto anni soltanto. Dio, se li avessi io!»
CAPITOLO 4 La professoressa Vitali abitava in corso di Porta Romana, all'ultimo piano di un palazzo ottocentesco con il classico giardino d'ombra all'interno. «Scala a sinistra, l'ascensore è nell'ammezzato», le indicò la portinaia. Il vecchio ascensore a gabbia salì con cigolante lentezza portandola davanti a tre porte d'ingresso con le targhe di ottone tirate a lucido. Su nessuna lesse il cognome Vitali: a quanto pareva, il severo magistrato si era fagocitato il cognome della moglie. Già, ma qual era il suo? Se indovino al primo colpo passerò gli esami con sessanta, Francesca scommise profeticamente con se stessa; e scartati d'istinto Gardella e Buratti premette il dito sul campanello dei Brentano, aspettando con ridicola ansia la conferma di aver suonato alla porta giusta. Quando la porta si aprì, lei ebbe la certezza che mai più nella vita avrebbe potuto dimenticare la violenta sensazione che provò in quel momento: di fronte a lei si trovava Nicola, il ragazzo della spiaggetta. Fu come sentirsi trascinata all'improvviso alle soglie di una dimensione irreale dove non esistevano più né suoni, né emozioni, né tempo. Per una frazione di secondo le parve di essere sparita e di galleggiare nel vuoto. Poi passò. Sentì le orecchie ronzare, il pianto di un bambino e il cigolare dell'ascensore che scendeva. Il contatto con la realtà fu ristabilito e accolse con gioia l'urgere di sensazioni familiari: sorpresa, disagio, ridicolo. «Che ci fa lei qui?» chiese sgarbatamente, accorgendosi che il ragazzo, fermo dietro la porta, la stava fissando con curiosità. «Oh, il suono d'arpa della tua voce! Adesso ho capito chi sei, la guardiana del paradiso.» Quegli occhi chiari pieni di scherno mandarono Francesca su tutte le furie. «Che ci fa qui ?» ripeté. «Proprietà privata» la sbeffeggiò. «Infatti sono sull'uscio di casa mia.» «Dovrei sprofondare per la vergogna?» lo provocò cupamente. «Non disturbarti. É sufficiente dire che cosa vuoi.» «Cerco la professoressa Vitali.» «Se non vendi saponette o cerotti, entra pure.» «Sono Francesca Fasser, e la signora mi aspetta per una lezione d'italiano.» Nicola si fece da una parte per farla passare, abbozzando un inchino. «Ah, ah, sei il genio del tema in bianco! Ma che fai lì impalata? La professoressa Vitali è mia madre e ti sta aspettando.» «Come fai... fa a sapere del tema in bianco?» «Dammi pure del tu, tra vecchi amici si usa. E non sottovalutarti, nella storia degli esami di maturità il tuo nome resterà scritto a lettere d'oro: hai fatto davvero sensazione.» La introdusse in uno studio con le pareti tappezzate di libri. «Siediti da qualche parte, vado a avvertire che sei arrivata.» Un altro ironico inchino e Nicola scomparve.
Era pazzesco, incredibile averlo ritrovato in questa circostanza. All'idea che avesse raccontato alla madre il modo in cui era stato scacciato dalla spiaggetta si sentì rabbrividire. Ma no, cosa andava a pensare? Nicola aveva tutto l'interesse a star zitto: sarebbe stata la signora Vitali a vergognarsi, se il figlio le avesse raccontato come si era comportato lui. Con buona pace del papà magistrato, si trattava in pratica di atti osceni in luogo pubblico. Chissà perché quella mattina Nicola era a Nervi. Fine delle vacanze? Week-end d'amore? E Milly era un incontro estivo oppure un amore che durava da tempo? A Francesca venne la curiosità di sapere se era davvero finito. Forse no. Nel viso e nei modi del ragazzo che le aveva aperto la porta non vi era traccia di sofferenza. Questa considerazione le sembrò subito idiota: cosa pensava, che dopo tre settimane avesse ancora gli occhi rossi e la voce straziata? Non posso accettare la tua decisione senza lottare. L'ipotesi più probabile era che avesse lottato e vinto. E che la storia con Milly fosse ripresa felicemente. É impossibile, rifletté, respingere un ragazzo che ti ama tanto e non ricambiare il suo amore. «Francesca, cosa fai in piedi? Sono contenta di rivederti, e così in forma.» La signora Vitali si stava avvicinando a braccia protese e, come le fu di fronte, la strinse affettuosamente a sé. «Sono contenta soprattutto che ti sia convinta a riprendere la scuola, sia pure da privatista.» La condusse verso un piccolo divano e si sedette accanto a lei. «Quel che conta è mettere una pietra sul passato e ripartire seriamente. Una bravata come quella di quest'anno non te la perdonerei più!» «Neppure io. Non so ancora, mi creda, che cosa mi è successo.» «Capitolo chiuso. Come dicevo a tua madre, fino alla prossima primavera basterà che io ti dia un paio di lezioni al mese. Di più non servirebbe. Non sei una ripetente piena di lacune, perciò mi limiterò a interrogarti e a leggere i temi che ti avrò dato da svolgere a casa. E chiaro che devi organizzarti bene. In matematica sei sempre stata più debole, perciò avrai bisogno di un maggior numero di lezioni e soprattutto di maggior impegno.» Francesca assentì. «Ho cominciato ieri, e andrò a lezione tutti i mercoledì. Per greco e latino non so ancora, devo incontrarmi con il professore dopo le vacanze dei morti.» «Quanto sarebbe stato più semplice se avessi ripetuto regolarmente!» «Non ce l'avrei mai fatta a tornare al Parini. Lo so che è una paranoia, ma...» «In tutta franchezza, al posto dei tuoi genitori sarei stata più inflessibile. Non è "paranoia", Francesca, ma vanità. Al tuo orgoglio di eterna prima della classe bruciava affrontare dei nuovi compagni come ripetente.» «Mi sembra normale...» «No, se si rifiuta con tanta violenza un ruolo perdente o una sconfitta. Assecondando questo atteggiamento, tuo padre e tua madre ti hanno impedito una salutare esperienza. E gliel'ho detto con la stessa franchezza con cui lo sto dicendo a te.» «Signora Vitali, io non le piaccio, vero?» Subito si pentì di averglielo chiesto. Sarebbe stato orribile averne la conferma. «Santo cielo, spero di non averti dato questa impressione!
Perché mai non dovresti piacermi? Sei una delle migliori allieve che abbia mai avuto e provo molto affetto per te. Proprio per questo ti ho ripresa spesso. Nello sforzo di emergere stavi perdendo di vista tutto il resto. L'intelligenza è un talento pericoloso se è speso senza comprensione e amore. La decantata solitudine del genio è soltanto l'infelice punto di arrivo di una strada sbagliata. O, se preferisci, un monumento della superbia.» «Non sono un genio» ribatté Francesca sentendo il rossore pizzicarle le gote. E non sono venuta qui per ascoltare i tuoi predicozzi infarciti di banalità e retorica, avrebbe voluto aggiungere. «É quello che spero» sorrise la donna. Il telefono interruppe la presumibile spiegazione di questa speranza. Uno squillo, due squilli, tre squilli... Francesca ne contò otto prima che la signora Vitali si alzasse a rispondere. «Nicola, è per te» richiamò il figlio dalla porta dello studio. «É possibile che non vada mai a rispondere?» Dieci minuti dopo, quando la lezione era appena cominciata, il ragazzo fece capolino per annunciare che usciva e sparì. Francesca ebbe l'impressione che non l'avesse neppure vista. «É mio figlio» disse la Vitali. «Un altro ragazzo con la vocazione del genio» soggiunse con voce leggera. Francesca lo rivide la terza settimana di novembre, sul pianerottolo di casa Brentano-Vitali. Terminata la lezione d'italiano, lei stava aspettando l'arrivo dell'ascensore quando udì aprirsi la porta e si ritrovò accanto Nicola. «Scendo anch'io» le disse. Guardò l'orologio e poi si sporse con impazienza sulla tromba delle scale. Sembrava avere molta fretta. Finalmente il cigolante monumento si arrestò al piano. Il ragazzo allargò le portine ed entrò dopo di lei. Mentre l'ascensore scendeva, di nuovo guardò l'orologio. «É molto lento» Francesca osservò rischiarandosi la gola. Nicola parve non capire. «Ah, sì» disse poi. La discesa era finita. Dall'ammezzato raggiunsero insieme il piano terra e poi il portone. Pioveva a dirotto, e Francesca si inchiodò sul marciapiede udendo il fragore di un tuono. Aveva il terrore dei temporali. «Se non hai l'ombrello» Nicola osservò quasi sgarbatamente «ti conviene risalire e fartene prestare uno da mia madre.» «Non importa, vado al bar là in fondo e chiamo un taxi.» «Ti saluto.» «Sì. Ciao.» Sembrava che tutte le auto di Milano transitassero in quel momento per corso di Porta Romana impedendole di attraversare la strada. Francesca sollevò la cartella sulla testa e approfittò del varco di un breve rallentamento per raggiungere l'altro lato del marciapiede. Era a pochi metri dal bar quando udì, contemporaneamente, lo strombazzare di un clacson e il richiamo di Nicola proteso dal finestrino di una Mini rossa. «Ehi, da che parte devi andare?» «Via Vivaio. Chiamo un taxi e...» «Sali, sto andando giusto dalle parti di San Babila.» «Non dovevi disturbarti» Francesca disse quando fu seduta. «Nessun disturbo. Te l'ho detto, sono sulla strada.» Le gettò un'occhiata ironica: «Non ti facevo tanto riservata e educatina».
«É solo nella proprietà privata che do sfogo alla mia vera personalità.» «Uhauu! Spiritosa, la ragazzina. Come hai detto che ti chiami?» «Francesca.» Si erano imbottigliati, adesso, e Nicola, dopo aver guardato l'orologio, cominciò a picchiettare nervosamente le dita sul volante. Francesca ricordò di aver già notato la singolare bellezza di quelle mani e, avvampando, le rivide indugiare su un piccolo e roseo seno. «Stai andando da Milly?» chiese avventatamente. Nicola ebbe la prevista reazione. Guardandola con gli occhi a fessura comunicò secco: «No, Milly mi ha lasciato, e sto andando da lei solo per restituirle alcune cose.» La fila ricominciò a muoversi e la Mini ripartì. «Mi dispiace.» «Di più a me.» «Perché ti ha lasciato?» Dovrei tagliarmi questa linguaccia, adesso mi uccide. Nicola sorrise sinistramente. «Sei curiosa, insensibile e cafona, talenti ideali per sfondare come star del giornalismo pettegolo. É una idea, non disperderti in vocazioni alternative.» «Guarda che esiste anche una curiosità umana! Si chiede per conoscersi, per stabilire un contatto...» Francesca proruppe offesa. «E che cosa ti fa credere che io desideri stabilire un contatto con te?» «L'imbecillità. Hai dimenticato di includerla tra i miei talenti naturali» sibilò. «Senti, non sono nell'umore per sostenere una brillante schermaglia da commedia hollywoodiana. Volevi sapere perché Milly mi ha lasciato? Semplice: non mi amava abbastanza per concedermi tempo e fiducia. Ti basta?» Francesca riuscì miracolosamente a trattenere un candido e irrefrenabile «no». Era ovvio che avrebbe voluto saperne di più, ma non gli diede la soddisfazione di sentirsi rivolgere altre domande. Chissà per che cosa Nicola aveva chiesto tempo e fiducia. Non sapeva nulla di lui però, sarcasmo a parte, aveva tutta l'aria di essere un bravo ragazzo. Non era possibile che Milly non si fidasse, di certo stava perseguendo una delle tattiche ricattatorie squisitamente femminili per metterlo con le spalle al muro. Intanto era caduto nella trappola di questo appuntamento. Vedendolo guardare per la centesima volta l'orologio si sentì tremare di rabbia. Quella non scappa, fu sul punto di urlargli. Invece strinse le labbra e si eresse sul busto, inchiodando i palmi delle mani sul sedile. Continuava a piovere, e lo strascicato sibilo dei tergicristalli faceva da sottofondo al clacson delle auto imbottigliate. Se guarda un'altra volta l'orologio lo strozzo, pensò, mentre, con voce mielata, diceva: «Non preoccuparti, Milly ti aspetterà certamente». «E chi si preoccupa?» «Continui a guardare l'orologio.» «É perché tra un'ora ho un altro appuntamento.» «Con... con un'altra ragazza?» Era così stupefatta che balbettò. La risata fragorosa di Nicola le fece capire di aver detto un'idiozia. «Mi hai preso per un assatanato? No, devo prelevare un amico e andare a vedere un quadro.» Gli
interessa più il quadro di Milly, Francesca annotò con meticolosità. «Non potrai stare molto con lei» tradusse a voce alta. «Quel che dovevamo dirci, ce lo siamo già detto.» «A quanto pare, sei uno che si rassegna senza lottare.» «Non mi sono rassegnato affatto.» «Non capisco...» «La vita, ragazzina, è tutta questione di precedenze e di tempi.» Il flusso delle auto era ripreso lentamente e mentre Nicola rimetteva in moto Francesca attese col fiato sospeso che finisse il discorso. «Milly è la donna fatta per me, ma per il momento debbo lasciarla andare: per averla devo, prima, vincere un'altra lotta.» Francesca non tentò neppure lo sforzo di tacere. «Quale?» «É un discorso lungo e laggiù c'è San Babila. Te lo spiegherò un'altra volta, se capiterà l'occasione.» L'ultimo semaforo era verde e occorsero trenta secondi per arrivare all'angolo della piazza. «L'occasione capiterà perché mi sono presa una cotta per te.» Francesca disse con voce dignitosa mentre apriva la portiera. La chiuse lentamente davanti alla faccia incredula di lui e, prima di girare le spalle, agitò festosamente una mano in gesto di saluto. Tanto valeva aver fatto fuori subito il problema. Si diresse verso il parcheggio dei taxi con un senso di enorme sollievo.
CAPITOLO 5 Diana Fasser uscì dall'anestesia passando istantaneamente dal torpore alla lucidità, come se il suono della sveglia l'avesse destata dopo una lunga notte di sonno ristoratore. Sollevò le mani verso il viso e le insinuò sotto la borsa del ghiaccio, percorrendo lentamente, con una delicata pressione dei polpastrelli, tutta la superficie coperta dalle bende. Sembrava che non avesse fine, quasi il viso e la testa si fossero smisuratamente ingranditi. Per qualche istante ebbe l'impressione che tutta la sua persona si fosse concentrata in quella cosa gonfia e estranea che sentiva pulsare sordamente. Accentuò la pressione, ma pelle e muscoli erano privi di sensibilità. Riportò le mani contro i fianchi. Non provava né paura, né curiosità né fretta e si abbandonò a quell'assenza di emozioni come se galleggiasse, avvertendo un benessere esclusivamente fisico. «Brava. Si rilassi, stia ferma.» La voce giungeva da lontano, con un suono ovattato e irreale che la cullava sopra le onde spingendola a lasciarsi andare sempre di più, sempre di più... Ma d'un colpo la voce diventò fastidiosamente vicina strappandola con violenza dal galleggiante torpore. Vedendo il professor Alberti curvo su di lei, si rese conto di essersi profondamente addormentata. «É andato tutto bene, signora Fasser. No, non si tocchi.» «Sono tutta gonfia e mi sento bruciare le orecchie.» «Non si preoccupi, è normale. Domattina il gonfiore sarà sparito e non avvertirà più alcun dolore» la rassicurò il chirurgo. «Come fa a capire fin da ora che è andato tutto bene? Non bisogna aspettare qualche giorno per esserne certi?» I timori e i dubbi della vigilia erano ritornati con urgenza. Gino Alberti le batté due affettuosi colpetti sulla mano. «Credevo di aver risposto a tutti gli interrogativi possibili nel nostro colloquio della scorsa settimana» sorrise con aria di rimprovero. Era vero. Pennarello alla mano, aveva indicato su una foto di lei, appositamente scattata, tutti i punti in cui sarebbe intervenuto sollevando, incidendo e tirando. E poi era passato a illustrare minuziosamente come e con quali risultati. «Il lifting non è un'estrazione del lotto» aveva concluso, «e, fatti salvi i rischi che tutte le operazioni comportano, la sola incognita è se darà risultati ottimi oppure mediocri.
Questo dipende sia dall'abilità dell'operatore sia, soprattutto, da peculiarità individuali: età, salute, struttura e tono dei muscoli e del derma, buona ossigenazione, eccetera eccetera. Lei possiede tutti i requisiti per prevedere un risultato ottimale...» Con un'onestà professionalmente encomiabile l'aveva però invitata a riflettere sull'eventualità di rimandare l'intervento di un paio d'anni: «Mi capita di operare donne anche più giovani di lei ma perlopiù si tratta di cantanti o attrici. I riflettori enfatizzano senza pietà il più piccolo cedimento, e per loro potersi esporre a cineprese o telecamere senza la preoccupazione di dover controllare ogni movimento può essere un'esigenza irrinunciabile. Ma lei non ha questi problemi, a occhio nudo il suo viso appare ancora fresco e giovane.» «Perché lei non sa come sono stata guardata l'ultima volta che ho fatto l'amore» avrebbe voluto piangere. Spogliandosi, aveva intercettato due occhi che la scrutavano con desiderio, ma anche con meticolosità, con indugio, con tenerezza compassionevole. Altro che telecamere o cineprese! Era stato il ricordo di quello sguardo a farle rispondere in fretta: «La ringrazio per tutto quanto mi ha detto, ma preferisco non aspettare». Adesso, però, paventava il momento in cui, tolti i cerotti e l'intelaiatura delle bende, avrebbe visto il suo nuovo volto allo specchio. E se si fosse verificato l'imponderabile? Se l'effetto fosse stato, anziché ottimo o mediocre, sciaguratamente catastrofico? Sapeva, il chirurgo le aveva preannunciato anche questo, che sarebbero occorse un paio di settimane perché sparissero tutte le tracce dell'intervento. Ma nonostante fosse preparata, era certa che si sarebbe spaventata a morte il momento in cui, sfasciata, avrebbe visto gli occhi circondati da un alone bluastro e il viso qui e là segnato dalle livide ombre delle ecchimosi. «L'infermiera passerà a farle un'iniezione calmante» disse il professor Alberti congedandosi, e Diana si accorse di essersi dimenticata della sua presenza. Rimasta sola, si impose di distogliere la mente da tutti i pensieri neri, ma nonostante gli sforzi non riuscì a concentrarsi su nulla che le desse tranquillità o consolazione. La giovinezza se n'era andata, e a ricordarglielo c'era quel fastidioso senso di calore, quel sordo indolenzimento agli zigomi e alla mascella, come di ossa fratturate e ricomposte. Da ora in poi guardandosi allo specchio non avrebbe provato più alcuna gioia, perché dietro quel suo viso liscio avrebbe riconosciuto l'artificio del chirurgo che aveva scollato, tagliato, tirato e ricucito. Sei bellissima. Il familiare complimento, anziché darle eccitazione e orgoglio, le avrebbe provocato l'umiliazione di sapersene immeritevole. I suoi meriti, del resto, non erano tutto un bluff? Chiuse gli occhi con un sospiro, e il volto di sua figlia emerse come un doloroso fantasma, distogliendola da se stessa. Ho fatto di Francesca una ragazza infantile, orgogliosa e sventata, si disse aprendo un nuovo filone di amarezza.
Riandò col pensiero a quando era piccolissima e lei se la portava nel lettone matrimoniale per guardarla e averla più vicina. Perché non era riuscita a trasmettere a Francesca la capacità di essere fiduciosa e spensierata come le sue coetanee? Ricordando la prima volta che l'aveva presa tra le braccia avvertì lo stesso struggimento, la stessa sensazione di dono miracoloso e gli occhi le si inumidirono. Ricacciò le lacrime. Non doveva piangere, le lacrime avrebbero potuto nuocere alle microscopiche suture lungo le palpebre. La frivolezza di quello scrupolo la mortificò. Sono una donna superficiale e fatua, pensò, e Giovanni meritava una moglie migliore di me. Ma era proprio vero? Non era forse per lui che si ritrovava in quel letto con la faccia ricucita e dolorante? Tutto è cominciato per colpa sua, si disse. Mi ha dato ricchezza, prestigio e tenerezza, ma neppure nei momenti di intimità sono riuscita a sentirmi davvero sua. Mi ha tenuta fuori dalla sua vita come se fossi una sciocca bambina da viziare e proteggere. Non mi ha mai confidato le sue preoccupazioni, non mi ha mai raccontato i suoi successi, non mi ha mai fatto capire di aver bisogno di me. Ha fatto invece di tutto perché fossi io ad aver bisogno di lui, e così facendo mi ha reso dipendente e insicura. Il lifting è il monumento della mia mancanza di autostima e Francesca il prodotto naturale di una madre che le ha saputo trasmettere soltanto paure e tabù sotto forma di bellissime parole. «Andiamo bene, signora?» La voce dell'infermiera la fece sobbalzare. «Devo farle l'iniezione.» Diana Fasser si girò su un fianco. L'intrusione era stata provvidenziale perché aveva interrotto il flusso dei suoi pensieri proprio quando stavano inesorabilmente trascinandola dove c'erano soltanto angoscia e rimorsi. Quando l'infermiera uscì, il pericolo era ormai scongiurato perché le venne all'improvviso in mente che né suo marito né sua figlia sapevano che quella mattina lei era stata operata. Avrebbe dovuto comunicarglielo adesso, prima che tornassero a casa per il pranzo e si preoccupassero della sua sparizione. E non soltanto: doveva trovare le parole più convincenti per spiegare che uscita dalla clinica si sarebbe fatta portare direttamente nella casa di Nervi. Non sopportava che la vedessero con la faccia incerottata o con il patetico schermo degli occhiali da sole. Allungò una mano verso il telefono, già innervosita per la prevedibile reazione di sorpresa e di disappunto che quanto stava per dire avrebbe provocato. Lasciò definitivamente Nervi il 5 dicembre, nelle prime ore di una mattina gelida e ventosa, dopo tre brevi viaggi a Milano per i controlli di routine. Aveva evitato di parlare e al marito e alla figlia per non correre il rischio che la raggiungessero in clinica, così come non aveva precisato l'ora del ritorno a casa. Era intenzionalmente partita presto, per arrivare quando Giovanni e Francesca fossero già usciti, in modo da avere un paio d'ore di tempo per fare una doccia e rilassarsi prima di subire il loro esame.
Mentre l'ascensore saliva, si sentiva tesa ed eccitata proprio come se fosse stata una studentessa che si preparava a sostenere una prova importante consapevole di essere perfettamente preparata. Come il chirurgo aveva previsto, il lifting aveva dato il migliore dei risultati. E ripensando al tremendo istante in cui lo specchio le aveva rimandato l'immagine di un viso estraneo e giallastro, con gli zigomi gonfi e gli occhi contornati da un cerchio violaceo, non poté trattenere un sospiro di smisurato sollievo. Premette il campanello e aspettò impazientemente che Germana o Mario, i camerieri, venissero ad aprire. Non aveva neppure considerato l'eventualità che Francesca fosse rimasta a casa, così quando se la trovò di fronte sbottò, quasi aggredendola: «Ma non dovevi essere a lezione?». «Mamma...» Diana Fasser si rese conto di averla mortificata. «Scusami, Franci, sono in viaggio dalle sei di stamattina e ho i nervi a pezzi» disse stringendola in un breve abbraccio. «Ti trovo benissimo» sua figlia commentò con tono neutro, scrutandola. Il fastidio di Diana crebbe in misura irragionevole. La ragazza l'aveva psicologicamente spiazzata mandando all'aria il sorprendente incontro che aveva programmato con meticolosità. «L'operazione è riuscita abbastanza bene, infatti» replicò. E mentre si dirigeva verso la sua stanza da letto, Diana chiese di nuovo: «Ma tu, perché sei a casa a quest'ora?». «Avevo la lezione d'italiano.» «E allora ?» «Ieri sera il figlio della professoressa ha avuto un incidente d'auto. Niente di grave, però dovrà stare un paio di giorni all'ospedale e stamattina la Vitali mi ha telefonato di non andare a lezione.» «Figlio? Credevo che avesse una femmina.» «No, è un maschio e...» Francesca si interruppe. Stava per raccontarle chi era, come lo aveva rivisto, ma la voglia di confidarsi si spense sul nascere. La donna che si era seduta sul letto e la fissava con aria interrogativa, aspettando che proseguisse, le sembrava un'estranea. Benché i lineamenti fossero gli stessi, non c'era nulla di familiare in quel viso liscio di bambola. Era come se il bisturi le avesse tolto anche emozioni e ricordi. «Che cosa mi stavi dicendo, Franci ?» «Niente, mamma. Penso che vorrai riposare un po' e ti lascio.» Tornò nella sua stanza cercando di vincere un'assurda sensazione di perdita. Si sentiva come un'orfana, e al doloroso smarrimento si era aggiunta una repulsione istintiva. C'era qualcosa di spaventoso e indecente nell'infantile levigatezza di quel viso, e Francesca avvertì un remoto segnale di allarme. Si buttò sul letto e scoppiò in singhiozzi. Si accorse che sua madre era entrata soltanto quando sentì le mani di lei sulle spalle e il suono familiare dell'amata voce. «Cosa c'è, bambina? Ti prego non fare così. Avevo tanta voglia di vederti, e invece sono stata villana. Franci, smettila.» La sollevò dal letto e se la strinse contro, cullandola come quando era bambina. I fantasmi sparirono e Francesca gettò le braccia al collo di sua madre. «Mi sei mancata molto» disse.
«Anche tu. Ma adesso sono qui e non voglio vederti piangere. É così che si accoglie la mamma tutta nuova?» Francesca fece di no con la testa. E alzando gli occhi per guardarla, ritrovò nel viso nuovo la familiare espressione di ansiosa tenerezza. «Ti voglio tanto bene» disse. «Io ancora di più» Diana recitò allargando le braccia. Era il vecchio gioco di quando era bambina, e Francesca rise sollevata. «Non mi racconti niente, Franci? Voglio sapere tutto quello che è successo in questi dieci giorni. Papà come sta? Ti trovi bene coi professori ? Hai cominciato a studiare regolarmente?» «Una cosa alla volta, mamma!» «Forza, comincia dalla più importante.» «Mi sono innamorata» comunicò solenne. «Davvero innamorata» sottolineò. «Oh, mi sembra proprio importante! Ma lui chi è? Dove l'hai conosciuto?» «É il figlio della Vitali. Si chiama Nicola e...» Diana Fasser la interruppe. «Cioè è il figlio di Brentano, il magistrato?» «Sì, certo. Il giudice Brentano è il marito della Vitali» spiegò, infastidita che sua madre si perdesse in particolari irrilevanti. «É un ragazzo straordinario, e non indovineresti mai dove l'ho visto la prima volta. Ricordi di quando ti parlai di quella coppia...» «E lui, è innamorato di te?» sua madre la interruppe di nuovo. Ma stavolta Francesca non provò fastidio. La domanda mirava al centro della nota dolente. «Purtroppo no» rispose con un sospiro. «Anzi, da quando gli ho detto che lo amo non fa che provocarmi. Non mi prende sul serio, crede che sia uno scherzo o un capriccio.» «Francesca! Come hai potuto dire "ti amo" a un ragazzo che un mese fa nemmeno conoscevi, senza sapere se eri ricambiata o no?» Diana Fasser sembrava inorridita. «Ormai è fatta e non me ne pento. Non ho fretta, col tempo capirà che non è un capriccio. Vedi, mamma, Nicola è il ragazzo giusto per me e dovrà amarmi.» «Hai diciotto anni! Ma non sai quanti uomini dovrai conoscere, prima di incontrare quello giusto? Parli come l'eroina di un fotoromanzo, non è da te! Questo Nicola non mi piace affatto e per cominciare smetterai subito di prendere lezioni da sua madre. Le telefono oggi stesso dicendole che...» «Non farlo, mamma.» Era un ordine e la secca perentorietà del tono raggelò la donna. Oh, Dio, non aveva fatto in tempo a rientrare che un enorme problema le cadeva sulle spalle. Problemi, problemi, sembrava che da qualche tempo Francesca non riuscisse a darle altro. Per un istante la detestò. «Non farlo, mamma. Per piacere» la sentì ripetere più gentilmente. Francesca avrebbe voluto spiegarle che la battaglia per farsi amare da Nicola la faceva sentire per la prima volta spiritosa e seduttiva, come una vera donna, e non la umiliava affatto. Ma si rese conto che non esistevano parole per razionalizzare uno stato d'animo che a lei appariva meravigliosamente stimolante.
CAPITOLO 6 Il dottor Ezio Brentano, percorrendo per la seconda volta la galleria alla ricerca della sala 12 del Niguarda, imprecò mentalmente contro la paranoia demagogica di quei primari progressisti che avevano già abolito le stanze a pagamento costringendolo ad affrontare il figlio degente tra chissà quanti letti e quali persone. Benché in tribunale applicasse con rigore il principio che la legge è uguale per tutti, e tutte le sue sentenze fossero ispirate a criteri di impeccabile imparzialità, era intimamente convinto che lo stesso padreterno aveva creato il genere umano attento a distinguere tra geni e imbecilli, bianchi e colorati, pigmei e giganti, scimmie e adoni. Seguendo sempre più innervosito la numerazione delle sale, lo sguardo gli cadde su un tizio che gli sorrise con espressione ebete, la bocca sdentata e un logoro pigiama che gli penzolava addosso. Altro che uguaglianza. Lui e quel degente addirittura appartenevano a due specie diverse e solo una sanità in sfascio poteva meditare una riforma dopo la quale un essere civile avrebbe dovuto adattarsi a essere ricoverato nella stessa stanza di quella larva umana. Intanto era suo figlio a dover subire questa esperienza. La considerazione non valse a intenerirlo. Nicola, complice una madre sinistroide e senza spina dorsale, stava imboccando una strada senza ritorno ed era suo dovere intervenire d'autorità. Era ricoverato in una stanza a sei letti, tre da una parte e tre dall'altra, e quello alla sua sinistra era vuoto. Ezio Brentano si vietò di esternare il sollievo che provò nel constatare che suo figlio aveva l'aria di stare benissimo. «Quale onore, papà» lo accolse sollevandosi sul letto. «La tua allegria mi pare fuori luogo. Ti rendi conto della nottata di inferno che hai fatto passare a me e a tua madre?» lo apostrofò a bassa voce, perché il paziente del letto accanto non udisse. «Neppure la mia è stata paradisiaca: ho un braccio rotto e due vertebre incrinate.» «E avresti potuto lasciarci la pelle. Lo scontro non sarebbe accaduto se tu fossi stato a lezione all'università, come credevo, anziché trovarti in una strada ghiacciata a venti chilometri da Milano.» «Tu non sei venuto a pranzo e avevo avvertito la mamma. Ieri pomeriggio si inaugurava una personale dei miei quadri, e anziché andare a lezione sono partito per controllare la sala. Non è colpa mia se il primo gallerista che mi ha dato fiducia si trova a venti chilometri da Milano.» «Il discorso è un altro, Nicola: tu non hai alcun bisogno della fiducia dei galleristi per la semplice ragione che devi fare l'avvocato, non il pittore.» «In che senso, devo ?» «Nel senso che lo voglio io. Non per un abuso di autorità ma per il tuo bene. Anche se hai ventiquattro anni e sei maggiorenne, il mio dovere morale di genitore è di impedire la tua rovina. Con questa storia della pittura sei già andato fuori corso: esigo che
entro il prossimo luglio tu termini tutti gli esami e prepari la tesi, che peraltro ti è già stata assegnata.» «Spiacente, papà, ma non posso continuare a vivere per interposta persona. Alla fine delle medie avrei voluto fare il liceo artistico, e tu mi imponesti il classico. Dopo la maturità avrei voluto iscrivermi all'Accademia, e tu mi imponesti la facoltà di legge. Adesso basta, è arrivata l'età per fare scelte autonome.» «Non urlare» sibilò suo padre, ricordandogli con un gesto stizzoso che non erano soli. «Concluderò pianissimo: siccome non voglio perdere altro tempo, e siccome una laurea in legge non serve per fare il pittore, con l'università ho chiuso.» «Pittore! Mi sai dire che professione è? Quali sicurezze offre?» «Pare che anche il signor Buonarroti la pensasse allo stesso modo, ma se il figlio Michelangelo gli avesse obbedito non esisterebbero la Pietà, o il Giudizio universale.» Ezio Brentano sentì il sangue montargli alla testa. Gli era intollerabile che si tentasse di buttare in scherzo cose che invece avrebbero meritato una seria riflessione. «Credo che tra te e Michelangelo corra qualche differenza» puntualizzò con sarcasmo. «Lo dirà la storia! Intanto, nel mio piccolo, ho già avuto qualche riconoscimento. In una recensione il grande critico Lombardi mi ha addirittura definito "quel che Botero avrebbe potuto essere se fosse nato prima di Picasso". E Giorgi, in un'altra recensione, ha deprecato che la mia produzione sia troppo esigua per introdurmi come meriterei nei circuiti che contano. E Benzi, il famoso gallerista, vorrebbe organizzare una mia personale alla grande per il prossimo aprile. Se tu non ti fossi irrigidito nel voler ignorare tutto quello che faccio al di fuori dell'università, queste cose le sapresti.» Si accorse di essersi accalorato. L'effetto dell'analgesico era sparito, e le vertebre fratturate avevano cominciato a irradiare fitte lancinanti per tutta la schiena. La mano di suo padre lo afferrò per una spalla, con presa di artiglio, strappandogli un gemito. «So tutto, Nicola, ma la mia decisione non cambia: prenderai la laurea e farai l'avvocato perché nella mia famiglia non c'è posto per emarginati, artistoidi e sognatori.» «Vorrà dire che uscirò dalla tua famiglia. Ho ventiquattro anni, chi può impedirmelo?» «Io.» Quel monosillabo era secco come un colpo di proiettile. «Se te ne andrai di casa ti metterò nelle condizioni di ritornare strisciando.» «E come?» Più che una domanda, era un gemito. «Farò in modo che nessun gallerista, nessun critico si occupi più di te. E se oseranno farlo, tirerò fuori gli scheletri dai loro armadi, li farò perseguitare dalla finanza, gliela farò pagare cara.» Era lui che stava urlando, ora. I compagni di stanza di suo figlio lo fissavano incuriositi, ma al giudice non importava più che lo sentissero. «Questo è un ricatto, papà.» La voce di Nicola era sommessa, il suo sguardo pieno di dolore e di compassione. Ezio Brentano ne fu turbato. «Che tu mi creda o no, ragazzo, ti voglio molto bene e andrei anche oltre il ricatto, se fosse indispensabile per la tua salvezza.» Il ragazzo si girò su un fianco, senza rispondere e pochi minuti dopo, allontanandosi, il giudice
fu certo di averlo convinto colpendolo al centro della sua unica debolezza: l'incapacità di lottare. Benessere, intelligenza e buon carattere avevano fatto ottenere a Nicola, subito e senza sforzi, tutto ciò che aveva voluto, così che era cresciuto disabituato a sfoderare gli artigli. Il giudice Brentano era persuaso, eccome, che il ragazzo avesse un autentico talento. Anche lui aveva letto quelle recensioni entusiastiche. E, attento che nessuno lo vedesse, era spesso entrato nel vecchio abbaino riadattato a studio dove Nicola dipingeva. L'ultimo quadro gli aveva dato un'emozione violenta: in quale mondo suo figlio aveva visto quei colori ardenti e irreali? In quale vita aveva conosciuto quelle donne dai vasti corpi irradianti carnalità e luce? In quale scuola aveva imparato quelle pennellate impetuose e inarrestabili come l'eruzione di un vulcano? Ezio Brentano era arrivato alla decisione di fermarlo dopo mesi di indecisione e scrupoli, consapevole di frustrare una reale vocazione. Ma non aveva alcun dubbio di aver fatto la scelta giusta. Nicola non era attrezzato per muoversi in un mondo che, spariti mecenati e papi, era stato inquinato da volgarità e mercanti. Proprio il mese prima era stato rinviato a processo un noto pittore. Esaminando i fascicoli dell'istruttoria lui aveva toccato con mano l'estremo degrado di quel mondo: la corruzione, il mercato dei falsi, i furti, i bluff, i giri di droga, i ricatti. Ovviamente esistevano anche successi puliti e artisti puri, ma per non oltrepassare l'ambigua linea di delimitazione occorrevano una volontà e una forza che Nicola non possedeva. Tuttavia, dentro di sé, era profondamente orgoglioso di quel suo unico figlio geniale e irrequieto, allegro e perbene. Con il suo aiuto sarebbe diventato un grande avvocato. «Tuo padre è un bello stronzo» disse a Nicola il degente del letto accanto, aiutandolo a sistemarsi sui suoi cuscini. «Già» il ragazzo confermò gentile chiudendo gli occhi. Non aveva voglia di parlare, di pensare e nemmeno di allungare una mano per dissetare la gola riarsa. Praticamente è come se avessi voglia di essere già morto, si disse con un residuato dell'antico umorismo. Mancava poco alle sette di sera e non poteva lamentarsi, la giornata gli aveva offerto un bell'en-plein di emozioni e colpi di scena. Poco prima di suo padre era venuta a trovarlo Milly. Non si sentivano da tre settimane, e mentre si dirigeva verso il suo letto bionda e danzante a Nicola era parso di avere la visione di un angelo. L'angelo sterminatore, sogghignò amaro. Con malinconica vocina dal tono implacabile Milly gli aveva annunciato: «Io parto, Nicola. Ho vinto una borsa di studio e per due anni studierò musica a Parigi».
«Come nel film Love story, eh?» Sul momento, non gli era venuto in mente niente di meglio. Poi aveva aggiunto di essere contento per lei, auguri sinceri di felicità e successo; sì, si rendeva conto che era finita davvero, eccetera eccetera. Assurdamente, rifletté ora, è proprio l'enormità dei nostri sogni a renderci realisti e rassegnati alla sconfitta. Come sperare che il destino sia così grandioso da riunire, un giorno, il famoso pittore e la celebre pianista? Oddio, dopo la visita di suo padre qualcosa si era ridimensionato: sparito il celebre pittore, le trame per riavvicinare la celebre pianista a un anonimo leguleio erano meno epiche... Un'incerta speranza si insinuò nella mente di Nicola, ma non gli diede alcun conforto. La pittura era più importante di tutto, anche di Milly, e la consapevolezza di dovervi rinunciare gli causava una sensazione di perdita insopportabile. Ma non si sentiva vile per aver rinunciato al sogno senza battersi: la volontà di suo padre era irrevocabile come quella di Dio. Si sentiva, semplicemente, desolato e impotente come chi piange un morto e sa di non potergli ridare la vita. Il cigolio di un carrello e un penetrante odore di sedano lo riportarono miserevolmente alla realtà che per i sopravvissuti l'esistenza doveva continuare. Era l'ora della cena. L'inserviente arrestò il carrello ai piedi del suo letto e sollevò dalla pila dei piatti un gigantesco mazzo di fiori. Glielo depose sulle ginocchia. «É per lei, l'hanno mandato su adesso.» Nicola lacerò il bigliettino senza curiosità e, dopo averlo letto, suo malgrado sorrise. Era di Francesca. Se ti sei buttato sotto una macchina per sfuggire al mio amore è inutile, perché anche se fossi sfigurato, rimbambito e con le ossa rotte io continuerei a amarti. Non aveva ancora capito se quel corteggiamento, iniziato la sera in cui le aveva dato un passaggio in macchina, era una cotta o un gioco. tuttavia quella ragazzina gli piaceva: aveva la perseveranza dell'autentica lottatrice.
CAPITOLO 7 Tutto accadde l'antivigilia di Natale. Quella indimenticabile era per la verità cominciata male.
giornata
meravigliosa
e
Come Francesca si svegliò, udì le voci alterate dei genitori e pensò con allarme che da qualche tempo quei litigi erano diventati troppo frequenti. Sapendo che la sua presenza immediatamente smorzava i toni e riportava l'autocontrollo, infilò la vestaglia e li raggiunse. Come previsto, i suoi genitori zittirono. «Che cosa è successo?» chiese. Fu l'ingegner Fasser a rispondere: «Tua madre ha scoperto stamattina, non si sa perché, che detesta Cortina e pertanto preferisce trascorrere le feste a Milano». «Odio la montagna, lo sci, la neve: perché mai dovrei amare Cortina?» Il familiare falsetto. «Perché io e tua figlia amiamo la montagna, lo sci eccetera eccetera. E non esisti soltanto tu. Senza contare che abbiamo sempre trascorso le vacanze di fine anno in montagna.» «Se è per me» intervenne precipitosamente Francesca «resto volentieri a Milano.» «Non se ne parla neppure. Domattina alle dieci partiremo come stabilito, e non c'è altro da aggiungere» disse Giovanni Fasser. Il perfetto e levigato viso di sua madre era atteggiato a un'ira che dimostrava il contrario. Francesca voltò le spalle e si diresse in cucina per fare colazione. Le era insopportabile restar lì a sentirli litigare, consapevole di non poter far nulla contro l'aggressività di sua madre e l'esasperazione che aveva trasformato il mite e gentile papà in un uomo carico di astiosità. Alle undici, mentre era nella sua stanza concentrata nello svolgimento dell'ultimo dei tre temi che la Vitali le aveva assegnato, sentì sbattere la porta di casa. A mezzogiorno e mezzo, quando andò in cucina per bere un bicchier d'acqua, Germana l'avvertì che né suo padre né sua madre sarebbero tornati per colazione. Dove diavolo era andata, la mamma? Più tardi sbocconcellò controvoglia un panino farcito con una fetta d'arrosto e tornò a lavorare al tema. Lo terminò alle quattro e la lezione con la mamma di Nicola era fissata per le sei. Francesca si sentiva troppo inquieta per restare in casa a bighellonare per oltre un'ora, e decise di uscire subito. Avrebbe fatto un giro per il centro. Oppure si sarebbe addirittura diretta a piedi verso casa Brentano, prospettandosi tutte le eventualità: non avrebbe incontrato Nicola; lo avrebbe incontrato di sfuggita; lui si sarebbe fermato, come l'ultima volta, a farle compagnia in studio in attesa che arrivasse la madre; al termine della lezione le avrebbe dato un passaggio fino a casa, come la penultima volta; al termine della lezione non l'avrebbe rivisto affatto. Alle sei meno cinque, quando l'ascensore si fermò al piano e
Francesca premette il campanello, si prospettò l'ipotesi più dolorosa: non l'avrebbe visto né ora né al momento di andarsene. Invece il cielo le fece la grazia: fu proprio Nicola ad aprire la porta. «Dove ti eri cacciata, ragazzina?» Sul momento, Francesca non capì e restò a guardarlo con la bocca semiaperta. «Ti ho telefonato a casa, ma mi hanno detto che eri già uscita.» Le aveva telefonato a casa? Perché mai? Nicola le agitò una mano davanti agli occhi. «Ehi, mi ascolti? Mia madre ha avuto un impegno improvviso e prima di uscire mi aveva incaricato di dirtelo. Mi dispiace che tu abbia fatto la strada per niente.» «Proprio per niente non direi» sottolineò, compiaciuta per l'insinuante malizia che registrò nella sua voce e pervasa da una dilagante felicità. Si infilò tra Nicola e la porta ed entrò quasi di prepotenza. «Devo sentirmi in pericolo?» ridacchiò lui. Francesca aveva questo curioso potere di metterlo di buonumore. «Preferirei il contrario. Sono una donna all'antica e lascio all'uomo il ruolo di seduttore» recitò provocante. «Allora mettiamoci comodi. Gli spifferi del pianerottolo non mi ispirano cattivi pensieri.» Era la prima volta che Francesca entrava nel salotto di casa Brentano e se ne sentì intimidita. Tutti quei mobili antichi, quei tappeti dai toni scuri e quei cupi ritratti nelle vecchie cornici dorate le ricordavano la villa di Nervi. Nicola le indicò un divano foderato in velluto color senape. «Cosa posso offrirti da bere?» chiese con ostentata professionalità da playboy. «Menta, aranciata, cocacola?» «Guarda che ho saltato il fosso del superalcolico. Ho quasi diciannove anni, nel caso te ne fossi dimenticato.» «Oh, oh, le soglie della decrepitezza. Whisky? Cognac? Vodka?» «Devi smetterla di trattarmi come se fossi una bambina» Francesca proseguì in tono offeso, come se non l'avesse sentito «o almeno rispettare i miei sentimenti di persona.» Nicola le porse un bicchiere e si sedette accanto a lei. «D'accordo. Però se vuoi essere presa sul serio, devi smetterla con questo infantile giochino che ti sei innamorata di me. É durato abbastanza.» «Non è un giochino. Sono davvero innamorata di te. É stato molto infantile dirtelo, ma a questo punto tanto vale smetterla con le schermaglie e uscire allo scoperto.» «Stai forse chiedendo la mia mano?» insinuò Nicola, subito pentito della battuta imbecille. A quanto pareva Francesca parlava sul serio, e girandosi a guardarla vide nel suo viso una determinazione e una sofferenza che lo turbarono. Le prese una mano. «Scusami. É la prima volta che ricevo una dichiarazione d'amore, e non so come comportarmi.» Le parole erano scherzose, ma il tono no. «Tu non provi niente per me, vero?» «Non lo so, credevo che tu scherzassi e... e poi ti ho sempre considerato una brava e divertente ragazzina. Ancora adesso non riesco a prenderti sul serio. Sei troppo giovane per me, Francesca.» «Milly quanti anni aveva?» Nicola suo malgrado rise. «Oh, questa sì è una domanda da vissuta
signora! Ne aveva venticinque, uno più di me. Ma non è di anagrafe che sto parlando.» Accarezzandole le dita spiegò gravemente: «La sola idea di poter avere un rapporto con te mi fa sentire a disagio». Francesca sottrasse la mano. «Parli come se fossi un vecchio satiro.» «É esattamente quel che mi sento.» «Credo piuttosto che stia cercando il modo più gentile per dirmi che non ti piaccio.» «Sbagli. Mi piaci moltissimo, invece.» «E allora perché non possiamo provare? Non sto chiedendo la tua mano, ti chiedo soltanto di trattarmi come una ragazza da invitare al cinema o a fare una passeggiata o a mangiare una pizza. Insomma, potremmo cominciare a frequentarci... senza impegno. Ho avuto altri ragazzi, che ci creda o no.» Di nuovo Nicola rise. «Lo sapevo che avrei dovuto sentirmi in pericolo! L'innocente fanciulla si sta rivelando un'insidiosa Messalina.» «Spero altrettanto irresistibile.» La tensione si era allentata e fu lei, ora, a scherzare. Nicola le circondò le spalle. «Quel che mi piace di te è la spericolatezza. Credo che diventerai una gran donna.» «E intanto, non ti piace nient'altro?» «Se dobbiamo frequentarci, lascia che conservi qualche freccia nel mio arco.» Le depose un bacio sulla fronte. «E adesso ti riaccompagno a casa. Tra un'ora devo essere da un amico.» «Quello del quadro?» Nicola si alzò. «Uno che mi deve dare delle dispense. I quadri non mi interessano più.» Le luci del soggiorno erano spente e il chiarore bluastro del televisore acceso rendeva ancor più angoscioso il suono di quei singhiozzi. «Mamma?!» Francesca chiamò a bassa voce. «Non accendere la luce!» Era lei che stava piangendo. Francesca si avvicinò e le posò delicatamente una mano sulla spalla. «Stai poco bene, mamma?» Non si aspettava quella reazione di incontrollato dolore. «Non ne posso più» sua madre singultò «se non fossi una vigliacca mi butterei dalla finestra... Non ce la faccio più a andare avanti così.» Francesca si odiò per l'incapacità di consolarla e di stringerla tra le braccia. Era paralizzata da una raggelante sensazione di disagio molto vicino al fastidio, e non riusciva neppure a provare dolore. «Se non vuoi partire per Cortina» mormorò con sforzo «convincerò io papà a rimanere a Milano.» «Oh, per quel che me ne importa...» Le parole furono soffocate da un nuovo attacco di pianto. Francesca restò immobile. L'eccitazione e la felicità con cui era rientrata a casa erano sparite, e si sentiva vuota come un fantoccio. «Voglio andarmene via... Oh, Franci, la mia vita è diventata un inferno. Sono vecchia, capisci?» La prese per un braccio, e lei si divincolò istintivamente. No, mamma, non voglio capire. Ma allungò una mano e sussurrò con tristezza: «Ti prego, non piangere». E intanto pensava che i figli non dovrebbero mai dover provare compassione per i genitori. La sua repulsione, adesso lo capiva, non era per la madre, ma per una pietà innaturale che aveva invertito i ruoli. La compassione aveva portato via rassicurazione e potere alla figura materna, e questa sconosciuta in lacrime esigeva ora che fosse lei a darle tutto questo. Non sono
capace, mi ripugna, non voglio essere coinvolta, pensò. Ma intanto chiedeva: «Posso fare qualcosa per te, mamma?». «Niente. Vai a preparare le valigie, Franci, e non dire niente a papà.» «Posso dirgli che neppure io ho voglia di partire, perché vuoi...» «No, no, partiamo. Qui o in montagna, che differenza fa per me?» Fu in quel momento che a Francesca venne in mente che non aveva dato a Nicola il numero di telefono di Cortina. Per dodici giorni l'esilissimo filo di contatto che si era stabilito tra loro si sarebbe spezzato, e questo accrebbe la sua tristezza. Andò a preparare le valigie, controvoglia, e poi si sdraiò sul letto aspettando l'ora di cena. Sentì l'urlo lontano di una sirena, lo squillo del telefono, la voce di Germana che chiamava la mamma, un rumore di bicchieri e di piatti, l'anta di un armadio sbattuto, ancora lo squillo del telefono e infine l'ascensore che si arrestava al piano. Incrociò le mani sul petto e trattenne il respiro, immaginando di essere morta, ma subito si riscosse, spaventata. Adesso Germana stava chiamando lei, era pronto in tavola. Soltanto gli occhi, impercettibilmente arrossati, recavano i segni della crisi di poco prima: per il resto Diana Fasser appariva distesa e sorridente come sempre. Persino allegra, pensò Francesca con sollievo, sedendosi alla sinistra di suo padre. Mangiando la zuppa di verdura, con un appetito che non aveva sospettato di avere, li udì conversare amabilmente, e un paio di volte la mamma rise. Le sembrò nuovamente di adorarla. Stavano finendo di cenare quando Germana avvertì Francesca che c'era una telefonata per lei. Non era assolutamente preparata a sentire la voce di Nicola, e lui dovette ripetere due volte «pronto?» prima di sentirla rispondere. «Ti ho disturbato, Messalina?» «No, tutt'altro.» «Hai dimenticato di darmi il numero di Cortina e alla Sip dicono che non c'è nessun Giovanni Fasser.» Dio, aveva addirittura chiamato la Sip! L'emozione le fece tremare la voce. «Infatti, il telefono è intestato a mia madre.» «Cos'è, volevi sfuggirmi ?» «No» rise «soltanto riconquistare un po' del terreno perduto.» Con il controllo aveva ritrovato il piacere di sentirsi divertente e maliziosa. «Credo di essermi esposta un po' troppo» spiegò. «Non cambiare tattica, ragazzina, questa sta funzionando a meraviglia. L'idea di non sentirti per tanti giorni mi dispiaceva, sai ?» É troppo, Francesca pensò, con una felicità così violenta da sembrarle insopportabile. «Dici davvero?» le riuscì di dire. Nicola le rifece il verso: «Non vorrei espormi troppo. Quanto ti fermi a Cortina?». «Torneremo il 4 gennaio. Tu cosa farai, durante le vacanze?» «Tra venti giorni ho un esame e resterò a casa tutto solo a studiare. I miei partono per Genova, vanno a passare il Natale dai cugini di papà.» «Anche mio padre è genovese» osservò Francesca trasportando il telefono vicino al divano e sedendosi. «Non mi dire che hai anche una casa a Nervi» aggiunse scherzosamente.
«Purtroppo no. Ecco perché sono costretto a intrufolarmi nelle proprietà altrui.» «Quella mattina sono stata una gran cafona, non so che cosa mi aveva preso» ammise con imbarazzo. «Io sì. Eri pazzamente gelosa di me.» «Non scherzare. Posso farti una domanda, Nicola?» «Quando mai hai chiesto il permesso?» «Vorrei sapere se in queste settimane hai rivisto Milly.» Aspettò la risposta col fiato sospeso. «Sì, è venuta all'ospedale per annunciarmi di aver vinto una borsa di studio a Parigi. Starà via due anni, e credo sia già partita.» «Ti... ti manca molto?» La risposta tardò ad arrivare e a Francesca parve di vederlo riflettere, i chiari occhi socchiusi in quella espressione assorta che le era ormai familiare. «Non credo. Non so. Evito di pensare a lei, sono troppo incasinato per crearmi degli altri problemi.» Che cosa si aspettava? Che lui le rispondesse, ilare e pronto, «no, ho dimenticato Milly e adesso penso solamente a te?» Ben ti sta, si disse, hai voluto indagare morbosamente e così hai saputo che è ancora innamorato di lei. Solo una sognatrice deficiente poteva illudersi del contrario. Milly, vuoi farmi impazzire? Non posso rassegnarmi, non posso perderti. La sua voce arrochita dall'angoscia, i suoi occhi arrossati di pianto. Era accaduto meno di tre mesi prima, e tre mesi non bastano per dimenticare un amore così. Ammesso che si potesse mai dimenticare. L'idea di non sentirti per tanti giorni mi dispiaceva, sai? La scherzosa ammissione di pochi minuti prima le apparve improvvisamente una miserevole cosa, e si sentì patetica per la spropositata felicità che le aveva dato. «Francesca, ci sei ?» La voce di Nicola. «Sì. Adesso devo lasciarti, buon Natale, ciao.» Riagganciò in fretta, un istante ancora e sarebbe scoppiata a piangere. In quel momento entrarono in salotto i suoi genitori. «Chi era?» Il papà. «Un ammiratore?» La mamma, maliziosa. Il telefono squillò di nuovo e fu Diana Fasser a rispondere. Passò il ricevitore alla figlia. «É per te.» Di nuovo Nicola. «Ehi, Messalina, hai riagganciato senza darmi il numero di Cortina.» «Ti interessa proprio saperlo?» chiese, quasi con malgarbo. «Molto». Molto. Molto. Molto. Più tardi, quel piccolo avverbio di due sillabe le risuonò nelle orecchie impedendole di addormentarsi. Oh, non era affatto una miserevole cosa. E quel giorno, a dispetto di tutto, era stato il più bello della sua vita. Così credeva. Ma quello di Natale, a Cortina, fu ancora più bello. Era in cucina quando qualcuno suonò alla porta. Andò a aprire e tornò stringendo il fascio di fiori più colorato e enorme che avesse mai visto. Sua madre, le gote improvvisamente arrossate, tese le braccia. «Chi me le manda?» cinguettò estraendo il biglietto da visita. Glielo porse subito, perplessa.
«C'è scritto per Francesca Fasser. Sono per te.» Perplessa anche lei, infilò l'indice nella busta e la lacerò. Buon Natale, Messalina. Questi fiori sono piccola cosa rispetto alle enormi aspettative che ho per noi due. «Chi te li manda?» chiese sua madre. «Nicola Brentano» rispose con voce sognante. «É una cosa seria.» Il momento che Diana Fasser per anni aveva atteso con speranza e paura era arrivato. Sua figlia era diventata donna e non poteva più proteggerla né trattenerla alle soglie della vita. Dio mio, implorò tra sé, fa' che abbia dato il suo cuore a un uomo capace di amore e intelligenza. Poi alzò gli occhi su Francesca, e indicando i fiori sorrise. «A giudicare da quelli sembra davvero che sia una cosa seria.»
CAPITOLO 8 La chiave girò nella serratura. Nicola sentì aprire e richiudere la porta, e poi i passi di sua madre che rientrava. Sollevò gli occhi dalla dispensa e guardò l'orologio. Le cinque e mezzo. Era inchiodato alla scrivania da quattro ore, e non era andato oltre la quinta pagina. Gliene rimanevano circa duecento per arrivare alla fine, e l'esame era tra due giorni: l'ultimo prima della tesi. Forse proprio per questo non riusciva a concentrarsi. Si stava avvicinando a grandi passi al traguardo della laurea, e l'inesorabilità di un detestato avvenire gli si era spalancata davanti come un abisso. La sua ripugnanza era la stessa del suicida che, al momento di buttarsi, è combattuto tra istinto di autoconservazione e volontà di distruggersi. Solo che io non ho scelta, pensò scarabocchiando furiosamente il foglietto degli appunti. Sentì di nuovo i passi di sua madre. Sempre più vicini: si stava infatti dirigendo verso la sua stanza. «Come va, Nicola?» «Stupendamente. E tu, hai trovato il tailleur che cercavi?» Invece di rispondere, la professoressa Vitali spostò una sedia e si sedette di fronte al figlio. «Vorrei parlarti. E non è un discorso né facile né breve.» Il ragazzo indicò l'orologio. «Credo che dovrai rimandarlo, la tua allieva arriverà da un momento all'altro.» «É proprio di Francesca Fasser che voglio parlarti, Nicola. Non sono cieca, e questa storia va avanti da troppo tempo.» «Quattro mesi esatti» precisò suo figlio. «É una situazione che mi crea molti problemi e molto disagio, dovresti capirlo. Di fronte ai genitori di Francesca sono moralmente responsabile di lei, e...» «Mettiti tranquilla, non abbiamo commesso alcun atto contrario alla morale.» «Non sono affatto tranquilla! Francesca è eccezionalmente intelligente, ma del tutto priva di meccanismi di autodifesa. É una ragazza fantasiosa e sensibilissima a cui due genitori sciaguratamente iperprotettivi hanno risparmiato ogni problema. Non sopporterei che fosse proprio mio figlio a farle del male. Mi sono molto affezionata a questa ragazza, Nicola.» «Anch'io.» «E Antonia, Sabina, Paola, Milly? In questi ultimi anni ti ho visto "molto affezionato" a parecchie persone. La verità è che non sei ancora pronto, in alcun senso, per impegnarti seriamente. E Francesca non è una ragazza che si può prendere e lasciare con leggerezza: prende tutto sul serio, è incapace di riflessione e prudenza.» «É quello che mi piace di lei.» «Mi piace è troppo poco.» «Mamma, non stiamo girando per mobilifici alla ricerca dei pensili per la cucina o della camera da letto. Il nostro rapporto è ancora agli inizi. Siamo, per così dire, alla fase della reciproca conoscenza e non ci poniamo il problema del futuro. Nemmeno lei è pronta per un legame definitivo, però ti assicuro che stare con me non la rende né insicura né infelice.» «Prima o poi potrebbe succedere.» Nicola allargò le braccia. «Il padreterno ci ha buttato nell'esistenza senza garanzie.» «Non ho mai sopportato le
persone in malafede e in questo momento lo sei, Nicola. Fingi pure di non capire. Però una cosa ti dico forte e chiaro: da stasera in poi, quando arriva Francesca, tu te ne starai chiuso qui. Basta chiacchiere, capatine nel mio studio, passaggi in auto. Se vuoi frequentarla, fallo fuori da casa mia. Io non voglio sapere, né essere coinvolta.» «Chi è in malafede, adesso?» La professoressa Vitali non fece in tempo a rispondere, perché stavano suonando alla porta. «É senz'altro Francesca. Vado a aprire io» modulò polemicamente dirigendosi verso l'ingresso. Nicola la udì entrare, salutare, ridere brevemente. E fu come se la vedesse gettare attorno uno sguardo furtivo, delusa che lui non fosse venuto come sempre a salutarla. Da tempo si aspettava l'intervento di sua madre, e in un certo senso adesso si sentiva sollevato. Era finita con la disapprovazione scontrosa, le battute allusive e gli interrogativi circospetti. E tutto sommato era andata assai meglio di quanto prevedesse: niente suppliche o ricatti, solo la richiesta di frequentare Francesca fuori casa. Poiché il portone non rientrava nei limiti, prima che la lezione finisse sarebbe sceso ad aspettarla. Affermando che lei gli piaceva molto non aveva mentito: al contrario, si era tenuto un po' sotto rispetto a ciò che provava per Francesca. Abbozzando con la biro i lineamenti del suo viso, si accorse che con pochi e brevi tratti ne aveva fatto emergere tutte le peculiarità essenziali: impetuosità, determinazione, calore. É una ragazza solare, pensò, e ha per la vita il trasporto curioso e innocente di un bambino. Due giorni prima l'aveva portata in Brianza, nella baita disabitata di un amico. Dopo l'amara spiegazione con suo padre, aveva portato lì tutti i suoi quadri e all'improvviso gli era venuta la stupida voglia di farli vedere a Francesca. E lei si era soffermata a guardarli in silenzio, con una lentezza meticolosa che lo aveva fatto stare ridicolmente sulle spine. Poi si era girata a guardarlo, il viso traboccante di emozione e amore. «Sei un genio» aveva detto solenne. In un empito di felicità, l'aveva stretta tra le braccia. E per la prima volta il desiderio fisico di lei era esploso con una urgenza inarrestabile. Aveva cominciato a baciarla e a accarezzarla con mani tremanti, e lei, anziché ritrarsi, gli era aderita contro con un abbandono totale. Prendendole il viso tra le mani, e guardandola negli occhi, fu come folgorato da quel che vi scorse: adorazione, tenerezza, fiduciosa aspettativa. L'aveva quasi strappata da sé. «Perché? Lo voglio anch'io, Nicola. Sono pronta...» Io no, aveva pensato d'impulso. E adesso, ricostruendo quanto era accaduto, capì di non sentirsi realmente pronto per darle ciò che si aspettava da lui. Sua madre sbagliava ritenendo che avesse la cotta facile. Le ragazze che aveva nominato erano state avventurette o simpatie. Una sola aveva contato nella sua vita, Milly. E il vero problema era lei.
Non era sicuro di averla dimenticata. Erano stati insieme per un anno, e il loro rapporto era passato dai vertici della felicità agli abissi della sofferenza attraverso il profondo legame della passione fisica. Ma all'improvviso e senza motivo Milly si era ritratta. Soltanto di recente aveva creduto di capire: il suo amore più grande era la musica, e lui rappresentava la distrazione, il freno. Francesca si era appassionatamente catapultata nella sua esistenza e gli aveva tolto il fiato. Non c'era più stato il tempo per ricordare o rimpiangere. Ma dentro di me, ammise onestamente, è ancora annidato il fantasma di Milly. Devo essere certo di averlo scacciato prima di lasciarmi andare. Francesca è del tutto priva di meccanismi di difesa. Colpito, mamma: lo sapevo anch'io, e proprio per questo sono sempre rimasto sulla soglia della nostra storia, anche quando la tentazione di prendermi questa eccezionale ragazza era così forte da farmi star male. Non scenderò ad aspettarla sul portone, decise. E tra una decina di giorni, quando il mio silenzio l'avrà preparata, le spiegherò con amore e gentilezza che ho bisogno di tempo. Invece la chiamò al quarto giorno. Superato con trenta l'ultimo esame, piombò nell'ormai nota sensazione di inesorabilità. Il traguardo della laurea era a un passo, e proiettandosi nel futuro Nicola non provava più soltanto repulsione, ma anche tristezza. Rimpianse di aver fatto piazza pulita di tele e pennelli: se solo avesse potuto dipingere, quell'opprimente senso di vuoto sarebbe sparito. Ne sei certo? si chiese. E finalmente capì che la vera ragione del suo malessere era l'essersi traumaticamente privato di Francesca. Resistette tutta la mattina. Ma dopo pranzo, quando i suoi genitori uscirono, si ritrovò davanti al telefono con la smania di un drogato in crisi di astinenza. Mi basta sentire la sua voce, pensò componendo il numero. Come verrà a rispondere metterò giù il ricevitore, si ripromise ascoltando il segnale di linea. Invece non appena sentì il suo «pronto?», disse in fretta: «Sono io». E rimase ad aspettare. «Oh.» Francesca fece una breve pausa. Poi aggiunse con voce leggera: «Scusami se in questi giorni non ti ho mai cercato, Nicola. Ho avuto un sacco di cose da fare, ma proprio ora mi stavo dicendo che stasera ti avrei chiamato». Superato un brevissimo istante di incredulità, Nicola provò un moto di travolgente ammirazione. Brava ragazza, le disse mentalmente, hai umorismo e dignità. E a voce alta, stando al gioco: «Cominciavo a chiedermi cosa c'era dietro a questo tuo silenzio inspiegabile». «Me lo stavo giusto chiedendo anch'io.» «Sono stato uno stronzo, Francesca.» Nicola sbottò cupamente. «Oh, oh, e poi? Stronzo non basta.» «Egoista. Vile. Idiota. Masochista. E anche...» «Può bastare.» Nicola aspettò che aggiungesse qualcosa, invece tacque.
Gli aveva passato la palla, toccava a lui parlare: ma non era facile, la fiera lottatrice all'altro capo del filo gli stava incutendo una timidezza sconosciuta. «Nicola, sei lì? Dicendo può bastare mi riferivo all'autoflagellazione, non al tuo discorso.» Gli aveva teso il salvagente dello scherzo, ma gli ripugnò aggrapparvisi. «Mi sei mancata, Francesca.» Fece un sospiro e aggiunse: «Credo che tu stia diventando molto importante per me. Voglio vederti. Subito». «No.» «Non mi credi?» «Sono stata molto male in questi giorni, Nicola. Tu sei già importante e mi sono resa conto che questo è sbagliato. Io ho corso e tu sei rimasto indietro: continuando così rischiamo di non incontrarci mai, mentre un buon rapporto è un gioco di squadra» spiegò. «Perfetto. Preferisci fermarti tu ad aspettarmi oppure che faccia io una gran corsa per raggiungerti?» «Non conosco il tuo sprint e le pause mi raggelano.» «Mettimi alla prova: guarda l'orologio e arrivo.» «Ho lezione di matematica e sono già in ritardo, nicola.» «Possiamo vederci più tardi.» «Preferisco di no. No per il momento» si affrettò a precisare prima di abbassare gentilmente il microfono. La lottatrice mi ha messo alle corde, pensò riagganciando a sua volta. Fu tentato di richiamarla subito, ma si ordinò di riflettere. Era stato colpito al cuore oppure il pugno aveva mirato al centro della sua vanità? Gli mancava Francesca o l'irresistibile compagna di schermaglie? Era realmente attratto da lei oppure questo soprassalto d'interesse era stimolato dal suo inatteso ritrarsi? Di una cosa era certo: Francesca era molto più forte di quanto fino a pochi minuti prima aveva creduto. E, nell'emergenza, sapeva sfoderare meccanismi di difesa eccellenti. Piero Baldini, professore di matematica di Francesca nonché vecchio collega di sua madre, abitava in zona Lambrate. E in un caseggiato strategico: proprio di fronte al portone d'ingresso, tra un'autoscuola e una piccola pensione, c'era un bar coi tavolini che correvano lungo una vetrata. Nicola sedette in quello che gli offriva la miglior visuale del portone. Ordinò un caffè doppio, lo pagò subito, e si preparò ad aspettare per un tempo imprecisato: non sapeva se la lezione di Francesca sarebbe durata una o due ore, e per prudenza era uscito dieci minuti dopo la telefonata. Predisponendosi ad attenderla senza fretta, gli occhi fissi oltre la vetrata, gli venne stranamente da pensare a suo padre. Il giudice Brentano non avrebbe mai potuto vivere in una strada come quella, tra vecchi negozietti, caseggiati anonimi, marciapiedi percorsi da quella che egli definiva «gente comune» e che, a quanto pareva, non si faceva riguardo nel gettarvi mozziconi di sigarette e cartacce. Sua madre, invece, in un quartiere come quello era nata. Uno dei grandi interrogativi senza risposta era come i suoi genitori, tanto diversi per mentalità e origine, avessero potuto formare una buona coppia. Non li aveva mai
sentiti alzare la voce né discutere per sopraffarsi. Ma forse una spiegazione c'era: per suo padre era molto volgare che marito e moglie litigassero e moralmente inaccettabile che arrivassero alla separazione o al divorzio. Quanto a sua madre, era chiaro che aveva accettato i lati positivi di quell'unione colmandone le molte lacune con interessi autonomi quali la scuola, i concerti, le amicizie. Nicola era consapevole che le sue qualità migliori gli provenivano dalla madre. Anche la passione per la pittura: era stata lei a comprargli, piccolissimo, i primi pennelli e a guidare la sua mano incerta, facendogli prima distinguere e poi capire la magia dei colori. Si sarebbe aspettato un appoggio ben più concreto, nella battaglia contro suo padre. Ma non le aveva serbato rancore per non averlo fatto: sua madre era come lui, incapace di atti di forza. Un'auto parcheggiò accanto alla sua Mini, nel tratto di marciapiede antistante il tavolino, e Nicola, automaticamente, controllò che non gli avesse tolto la visuale. Fu in quel momento che la vide sul portone. Con uno scatto da centometrista uscì dal bar, attraversò la strada e la bloccò. «Avevamo lasciato un discorso in sospeso» le disse prendendola per un braccio. «Ho la macchina parcheggiata qui di fronte, ti accompagno a casa.» Francesca si divincolò. «Ti avevo pregato di darmi tempo. Non è un capriccio da bambina.» «Lo so. Non sono venuto qui per portarti le caramelle.» «Ho bisogno di tempo» ripeté. «Non voglio più stare male.» «Nemmeno io. In questi giorni ho capito che non posso perderti, Francesca.» La riprese per un braccio. «Sbaglio o questa frase l'ho già sentita?» lei rise con sarcasmo. Nicola la trascinò, quasi, dall'altro lato del marciapiede, e senza lasciarle il braccio aprì la portiera. «Sali. Ti chiedo soltanto cinque minuti, poi se credi puoi scendere.» Quando Francesca fu seduta, fece il giro dell'auto e si sedette anche lui. «In questi giorni non ti ho cercato perché, dopo quello che è successo in Brianza, avevo bisogno di riflettere.» «In Brianza non è successo niente» lei ribatté velenosamente, la testa girata verso il finestrino. «Tranne che ho visto i tuoi quadri e ho capito che non mi desideri né mi ami.» Nicola le passò un braccio sulle spalle e tentò di stringersela contro. «Io non sono Milly.» Francesca disse divincolandosi di nuovo. «Uno che dipinge come te ha bisogno di una compagna eccezionale, e io mi sentirei sempre inadeguata.» «Questa è la più grossa idiozia che ho sentito. Francesca, guardami, ti chiedo solo di continuare a frequentarci.» «Questo l'avevo detto prima io.» Nicola sorrise. «Ma aggiungendo: "senza impegno". Invece voglio impegnarmi, capire se quello che provo è amore. Credo di sì, però hai ragione affermando che tu hai corso e io sono rimasto indietro. La cosa che desidero con tutto me stesso è raggiungerti. Me lo devi
permettere. Francesca, vuoi guardarmi, per favore?» Lo fece di scatto, e il volto terreo e contratto di lei lo spaventò. Poi Francesca si voltò di nuovo verso il finestrino, e Nicola si spinse in avanti per seguire il suo sguardo. Una coppia si era fermata davanti al piccolo ingresso della pensione, a tre metri da loro, e stava discutendo. «Vuoi vedermi ridotta al degrado di me, Michele? Non posso farlo» implorava la donna con voce di pianto. La risata innervosita dell'uomo: «Non fare la bambina, hai sempre detto che per me avresti fatto qualunque cosa!». Nicola sollevò la mano dalla spalla di Francesca e la alzò sul suo viso, girandolo con dolcezza verso di sé. «Non guardare, è la solita coppietta squallida.» «Lei è mia madre» sussurrò, il volto rigato di lacrime. Nicola soffocò un'imprecazione e istintivamente la spinse verso il basso, tenendole una mano sulla testa per impedirle di guardare. Con l'altra tentò di mettere in moto, ma il motore si era ingolfato. Insistendo avrebbe corso il rischio di richiamare l'attenzione della signora Fasser, e così anche lui si fece scivolare verso il basso, per non essere visto, e raccolse Francesca contro di sé cullandola come una bambina. Ma non poteva impedirle di sentire. «Non capisco i tuoi scrupoli Diana» stava insistendo l'uomo. «É una pensione a ore, mi fai sentire sporca.» Questa era lei. «E nel letto di tuo marito no?» Nicola sentì il corpo di Francesca irrigidirsi, e poi il suono sommesso e straziante dei suoi singhiozzi. Al diavolo, che quella puttana sentisse pure. Girò la chiave e tentò di rimettere in moto, pregando tra sé di riuscirci. E nel momento in cui, finalmente, l'auto partì, Francesca si eresse sul busto. Giusto in tempo per vedere sua madre e l'amante varcare l'orribile portoncino.
CAPITOLO 9 Erano le dieci di sera quando Nicola realizzò l'unica cosa che poteva fare. Da tre ore stava guidando senza meta, avanti e indietro per le stesse strade ormai sgombre di traffico, il cuore stretto dalla pena. Francesca non voleva bere, non voleva mangiare, non voleva fermarsi, non voleva tornare a casa: la testa appoggiata alla spalla di lui, sembrava che il suo unico desiderio fosse piangere finché le lacrime l'avessero dissolta. Nicola imboccò la tangenziale est e si diresse verso le autostrade, una mano sul volante e una teneramente posata sulle spalle di Francesca. Poco prima dei caselli, imboccò la deviazione per l'autogrill e giunto nella piazzola antistante frenò. «Entro a fare una telefonata e torno subito.» Lei fece di sì con la testa, ma Nicola ebbe l'impressione che non lo avesse neppure sentito. Si diresse alla cassa, chiese alcuni gettoni e compose il numero di casa. Come aveva sperato, venne a rispondere sua madre. «Nicola dove sei? Cominciavamo a essere molto preoccupati...» «Mamma non ho tempo di spiegarti e ti prego di non fare domande. Telefona ai Fasser e avverti che Francesca stanotte dormirà fuori casa. Trova una scusa plausibile, inventa qualcosa, ma telefona subito.» «Che cosa è successo?» Il ragazzo benedisse la sensibilità di sua madre. In quel momento non avrebbe sopportato illazioni morbose o sospetti offensivi. «Domattina ti spiego. Non preoccuparti, io e Francesca stiamo bene. L'importante è avvertire i suoi che stasera non torna a casa. Dovrai escogitare qualche scusa anche per papà. Ora devo lasciarti. Grazie, mamma. Ti adoro» aggiunse riagganciando. Tornò in macchina. Raggomitolata su se stessa, Francesca continuava a piangere. «Mi vergogno tanto» singultò quando lui la sollevò contro di sé, accarezzandole il viso. «É una cosa così squallida.» «Ne parliamo dopo, piccolina. Adesso andiamo via da qui.» «Non voglio tornare da mia madre, non voglio rivederla mai più. Dove mi stai portando?» chiese con voce d'allarme, sentendo che Nicola rimetteva in moto. «Nella baita del mio amico, dove ti ho portato a vedere i quadri. Ho le chiavi e...» «Non lasciarmi lì da sola.» «Certo che no. Resterò con te e domattina, a mente serena, decideremo cosa fare. Tuo padre è stato avvertito che non torni a casa» tenne a rassicurarla. «Povero papà... Come ha potuto fargli una cosa simile?» «Francesca, tua madre non è la prima moglie che tradisce. In un matrimonio possono esistere infelicità che ai figli sfuggono... Essere genitori non mette al riparo da tentazioni e sbagli.» «Ma tu hai visto l'uomo che stava con mia madre?» Nel grido di Francesca c'erano repulsione e rabbia.
Lo aveva visto, sì, e non aveva notato nulla di ripugnante. Elegante, distinto, ben piazzato. E di almeno dieci anni più giovane della signora Fasser: a parte lo squallore della situazione, era la sola nota stonata. «Oh, adesso capisco tutto. La paura di invecchiare, il lifting, le crisi di pianto, le corse al telefono...» Nicola aveva deviato in direzione Agrate e imboccò lo svincolo. Duecento metri più avanti, sulla sinistra, iniziava quella che era stata una vecchia mulattiera e che adesso era un piccolo viale alberato ai cui lati si susseguivano case in costruzione e villette a schiera. Quella di Gigi, il suo amico, era un vecchio rustico in pietra e legno che la ristrutturazione non aveva ancora toccato. Arredata con vecchi mobili e pezzi di fortuna via via aggiunti, da anni costituiva il punto di riferimento per rimpatriate, partite a carte, e, eccezionalmente, incontri d'amore. Nicola fece strada a Francesca, la sospinse verso un vecchio divano foderato in cretonne dai grandi fiori ormai stinti e poi si diresse verso l'ingiallito frigidaire sperando di trovarvi qualcosa di commestibile. «Non ho fame» lo prevenne Francesca. «Se le cose vanno male, non è giusto che il corpo debba soffrire.» «Non ho nemmeno voglia di scherzare.» Nicola si avvicinò con una coppa di gelato al caffè e gliela porse. «C'è solo questa. Per favore, mangia qualcosa. Ti sentirai meglio, dopo.» «Mi è crollato il mondo addosso. Credevo che mia madre ci amasse, a volte provavo persino rimorso vedendo con quale dedizione si occupava di me e papà. Sembrava che esistessimo solo noi, e io ero così orgogliosa della mia stupenda famiglia...» Nicola sospirò. «Non l'hai perduta, hai solo scoperto che la famiglia stupenda è un sogno da bambini. Tua madre non ha smesso di amarvi, vi ama semplicemente in modo imperfetto. Prima di condannarla, prova a chiederti quali sensi di colpa e quale umiliazione la stanno tormentando. Non aveva l'aria molto felice, oggi.» «E mio padre? É alla sua umiliazione che penso. Dio mio, se solo sapesse! La perfetta e adorata mogliettina che s'infila in una pensione a ore con il giovane gigolò. É schifoso.» «Soltanto all'apparenza, e non dovrei essere io a insegnartelo, Francesca. A cosa ti è valso leggere tanti libri Anna Karenina o Madame Bovary non ti ispirano "schifo" ma simpatia e pietà, perché hai capito le sofferenze e le inquietudini che le hanno portate al tradimento. Dovresti fare altrettanto con tua madre: sforzarti di capire.» Francesca fece di no, di no con la testa. «É una donna immorale e vuota che ha recitato per tutta la vita. Non voglio più vederla, non voglio più tornare a casa. Dio, se penso a tutte le belle parole che per anni mi ha detto! La dignità del sesso, la grazia dell'amore, il rispetto di sé...» «Adesso basta piangere, Francesca. Domattina quando ti sveglierai decideremo cosa fare. E tutto ti sembrerà meno tragico.» «Balle.» Tirò su col naso e Nicola, aiutandola a sdraiarsi sul divano, sorrise. La coprì con un vecchio plaid e le depose un bacio sulla fronte.
«Cerca di riposare.» «E tu dove dormi ?» «Accanto a te. Non ti lascio, Francesca.» Prese da un armadio un vecchio sacco a pelo, lo stese di fianco al divano e vi si infilò. Poi alzò un braccio per cercare la mano di Francesca e la strinse nella sua. La udì sospirare a fondo, con l'affanno del bambino che riprende fiato dopo un'ondata di singhiozzi capricciosi, e provò per lei una tenerezza quasi materna. Avrebbe voluto stringerla e confortarla come se davvero fosse stata una bambina, ma purtroppo non lo era più e non c'era consolazione per quel che aveva visto. Lui stesso, uscito da un bel pezzo dalle illusioni dei diciott'anni, sarebbe andato in pezzi scoprendo sua madre nella situazione di quella di Francesca. Conosceva Diana Fasser di vista, e un paio di volte era anche venuta a casa sua. Il giudice padre aveva sentenziato, solo ora gli veniva in mente, che prima o poi tutte le donne troppo ricche e troppo belle finiscono per cacciarsi nei guai, ma escludeva che sapesse qualcosa della sua relazione extraconiugale. Fuori dalle aule del tribunale Ezio Brentano era un uomo distratto e privo di curiosità. C'era da giurare che non sapesse neppure che Francesca era un'allieva di sua moglie! Nicola riandò col pensiero a Diana Fasser mentre entrava in quella miserevole pensione. Chissà cosa l'aveva condotta fin lì. Sesso? Amore? Follia? Comunque fosse, il prezzo da pagare era molto caro: mai più sua figlia l'avrebbe guardata negli occhi con fiducia e innocenza. Fu lui a sospirare, adesso, e subito sentì le dita di Francesca stringere le sue. «Dormi?» gli chiese piano. «No, aspetto che ti addormenti prima tu.» «Sto cercando di pensare a qualcosa di bello ma non so a che cosa. Ho paura.» Nicola si sollevò dal sacco a pelo. «Sono qui. Pensa a me.» «Se penso a te sto peggio, mi sento ancora più sporca.» Balzò sul divano e l'afferrò per le spalle: «Ma che cosa stai dicendo? Sei pazza, Francesca?». «Ti stringevo la mano e mi vergognavo. Dobbiamo lasciarci, non posso trascinarti giù.» «Giù dove?» La scosse con ira dicendo a se stesso che era l'infantile delirio di una ragazzina sotto choc. Ma sapeva di essere furioso solo con se stesso. Non c'era niente di infantile, nella voce di Francesca, e se la raccolse tra le braccia con una desolata sensazione d'impotenza, spaventato dalla consapevolezza che non sarebbe stato capace di rassicurarla né di confortarla. La strinse più forte, pregando tra sé che non aggiungesse altro, e il contatto di quel corpo inerte accrebbe il suo spavento. Di colpo sperò che parlasse. «Francesca, giù dove?» ripeté trattenendo il fiato. «In un mondo dove non c'è più bellezza, né speranza, né amore» disse con voce lontana, e le parole sembrarono una sinistra cantilena. «Il bene è sparito dalla mia vita, c'è solo un sudicio vuoto, e non voglio contaminarti.» Devo fermarla, pensò Nicola con una paurosa sensazione di urgenza.
Francesca stava sfuggendo, e sentiva con ogni fibra di se stesso che quel vuoto gliela stava strappando di dosso. Riuscì a immobilizzarla e si distese con affanno sopra di lei, lottando e lottando contro le forze che volevano sottrargliela. E più il corpo si divincolava, più lui premeva per tenerlo fermo. La prese per i capelli e la baciò con forza. «Non puoi andartene, ti amo» disse con voce di preghiera. E d'un tratto il vuoto si dissolse, i demoni fuggirono, le forze si placarono. Francesca era salva, abbandonata sotto di lui, e sentiva il tepore della gola, la morbida rotondità del seno, il battito del cuore. Il desiderio di lei arrivò lentamente, e fu prima languore, poi dolcezza, poi tremito e infine smania di entrare e sciogliersi in lei. «Francesca» la chiamò. «Sì... non ho più paura.» Si era scostata e si stava spogliando. Nella penombra Nicola indovinò, più che vedere, la spontaneità di quei gesti e ne fu commosso. Spogliandosi a sua volta, gli sembrò di deporre ipocrisie e paure per ritrovarsi con Francesca, nudo, nel mondo dell'innocenza. Entrò in lei lentamente, dolcemente, timoroso di farle male. Francesca gli allacciò le mani sul collo, inarcando la schiena con un breve sospiro, e il timore diventò urgenza di prenderla, di confortarla, di restituirle bellezza e speranza e amore. E mentre l'orgasmo arrivava, Nicola si sentì pervadere da un'emozione dolcissima, quasi religiosa. Racchiuse il volto di Francesca tra le mani, e ricoprendolo di baci, disse per la seconda volta: «Ti amo». «É il 28 aprile del '79: mi ricorderò per tutta la vita di questo giorno.» La solennità del tono gli causò uno strano turbamento, perché ciò che Francesca aveva detto era vero: come avrebbe potuto dimenticare? Quel giorno, in poche ore, era passata dalla disperazione alla felicità, e aveva conosciuto tutto il male e tutto il bene della vita. Alle sette, quando Nicola si svegliò, Francesca era ancora addormentata. In punta di piedi andò nel cucinino e frugò tra le scansie sperando che ci fosse del caffè. Ne trovò un barattolo quasi pieno. Riempì la moka, accese il fornello del gas e quando il caffè fu pronto andò a svegliare Francesca. Si sedette sul bordo del divano e le accarezzò i capelli, chiamandola. Aprì subito gli occhi e sul suo viso passarono, come in una sequenza, perplessità, pena, sollievo, gioia. Era come assistere per la decima volta alla proiezione di un film amatissimo e Nicola scommise con se stesso che di lì a un istante Francesca, ricordando quel che era accaduto poche ore prima, sarebbe arrossita. E infatti le sue gote s'imporporarono. L'abbracciò intenerito. Poi le disse, porgendole il caffè: «É ora di andare. Mia madre stamattina comincia le lezioni alle dieci, e dobbiamo bloccarla a casa prima che esca. É stata lei ad avvertire i tuoi che ti saresti fermata fuori, e in un modo o nell'altro ti aiuterà a tornare».
Mentre parlava gli sembrava di essere l'eroe disarcionato dal cavallo dalle ali dorate. Ed era esattamente come si sentiva, con il sedere per terra. Sarebbe stato entusiasmante poterle dire "resta con me, a casa non tornerai più" e invece non era ancora nelle condizioni per farlo. Francesca gli afferrò il braccio. «Devi promettermi che non le dirai nulla di mia madre e di quello che abbiamo visto.» «Non le dirò nulla. Promesso.» Lasciarono la baita alle sette e mezzo, e impiegarono oltre un'ora e un quarto per liberarsi dagli imbottigliamenti della tangenziale e percorrere le strade, tutte intasate, che da via Palmanova portavano in corso di Porta Romana. Quando, finalmente, entrarono nel portone, incrociarono il giudice Brentano che ne stava uscendo. L'uomo salutò il figlio con un sorriso, senza fermarsi, e Nicola pensò che quasi certamente non aveva fatto caso a Francesca. Distratto com'era, c'era il caso che non si fosse neppure accorto della sua assenza di quella notte.
PARTE SECONDA LA BURRASCA La vita come il mare si alza e si abbassa, ha tempeste e bonacce. Molte infelicità sarebbero risparmiate agli uomini se, travolti dalla tempesta, avessero fede nell'eterno movimento che fatalmente porterà l'ondata a ritrarsi. ANDRÉ MAUROIS
CAPITOLO 10 Sua figlia stava ancora telefonando e l'altra linea era guasta. Guardò l'orologio: le sedici. Non le restava molto tempo per confermare a Michele che lo avrebbe accompagnato a Varese, né poteva illudersi che lui restasse in casa oltre l'ora stabilita nella speranza di vederla arrivare all'ultimo minuto. Michele non aspettava, non forzava e non pregava, convinto, come gli piaceva ripetere, che l'amore non deve trasformare una persona in mendicante. Era stata proprio la risolutezza del suo corteggiamento a travolgerla. Oppure no? Benché l'imbarazzasse ammetterlo, a spingerla tra le braccia di Michele era stata la sfrontata ammirazione con cui gliele aveva tese. Nessun uomo, neppure suo marito, era mai riuscito a trasmetterle quell'inebriante consapevolezza di essere bella e desiderabile: «unica», per usare un aggettivo di Michele. E per alcuni mesi non aveva mai dubitato che dicesse la verità. Solo più avanti le era venuto il sospetto che parte del fascino potesse derivarle dal prestigio del cognome. Era comprensibile che questo la rendesse unica agli occhi di un ragioniere trentaduenne, funzionario in una banca dove Giovanni Fasser depositava in un mese ciò che lui non avrebbe guadagnato in un'intera vita di lavoro. Il sospetto era diventato certezza quando Michele si era reso conto di averla in pugno. I ruoli si erano invertiti: lei aveva perduto l'alone di irraggiungibile dea, e lui era diventato smanioso di misurare fin dove potesse spingersi. La trascurava e la cercava, la esaltava e la umiliava, attento a non farle mai raggiungere né i vertici dell'estasi né gli abissi della disperazione. Tenere sospesa la moglie di Giovanni Fasser in un'altalena di frustrante insicurezza, e sapere che dipendeva soltanto da lui spingerla in su o in giù, certo gli dava un'esaltante sensazione di potere. Ma a dispetto di tutto Michele teneva realmente a lei. Dopo mesi e mesi la desiderava con un ardore che non accennava a smorzarsi. La consapevolezza di non esserne fisicamente travolta leniva gli scrupoli di Diana e nobilitava la relazione. Non si trattava della solita e squallida storia di sesso, ma di amore. D'altro canto era questo a renderla pericolosa. Dieci giorni prima, accompagnandola al parcheggio dei taxi, Michele aveva detto a bruciapelo: «Comincio a stancarmi di questa precarietà. Prima o poi potrei chiederti di divorziare e vorrei trovarti preparata all'idea. Pensaci». Ci aveva provato, ma era stato come affacciarsi sull'orlo di un orrido. Sperava con tutta se stessa che quel «prima o poi» non arrivasse mai. Per vivere con Michele
avrebbe potuto rinunciare a tutti i privilegi del matrimonio, ma mai ferire suo marito e distruggere la serenità di Francesca. Sollevò di nuovo il microfono, ma era sempre occupato. Fu sul punto di andare nella stanza di sua figlia per pregarla di lasciare libero il telefono, ma decise di concederle altri cinque minuti. Stava parlando con Nicola e quella storia, si disse Diana, stava diventando troppo coinvolgente. Ma non osava parlarne con Francesca, né lei sembrava desiderosa di confidarsi. Negli ultimi tempi i loro rapporti erano diventati inesistenti, come se un muro le avesse divise. Sua figlia le parlava con toni impersonali e cortesi; e ogni volta che lei aveva cercato di avvicinarla, si ritraeva andando a chiudersi nella sua stanza. «Ho molto da studiare», era il pretesto. Ma forse non lo era: tra pochi giorni avrebbe dovuto ripetere la maturità, ed era comprensibile che fosse occupata e tesa. Tuttavia ogni giorno trovava il tempo per incontrarsi con Nicola o perdersi in telefonate interminabili come questa. Sedici e venticinque. Guardando l'orologio il nervosismo di Diana crebbe. Le restavano pochi minuti prima che Michele uscisse. Sollevò il ricevitore e, intromettendosi nella linea, chiese alla figlia: «Puoi lasciare libero l'apparecchio? Devo fare una telefonata urgente». La spia rossa si spense dopo pochi istanti, ma Diana non aveva fatto in tempo a comporre l'ultima cifra del numero di Michele che sua figlia irruppe nella stanza. «Non ti interrompo mai, io» l'apostrofò. «Con chiunque tu debba parlare, la telefonata che stavo facendo era molto più urgente.» Se ne andò com'era venuta, furiosa, e Diana ricompose il numero sospirando. La voce di Michele lenì avvilimento e irritazione. «Meno male che sei ancora lì» gli disse. «Ho deciso di accompagnarti: vuoi che ti raggiunga a casa oppure al casello?» Francesca la sentì uscire, chiamare l'ascensore, aprire e richiudere le portine. Corri pure dal tuo ganzo, le disse mentalmente, il pomeriggio me l'hai rovinato. In realtà se l'era rovinato da sola, e l'interruzione della telefonata le aveva impedito di far danni peggiori. Come aveva potuto essere così lacrimevole e possessiva? Ebbe l'impulso di richiamare casa Brentano, ma immaginando ciò che in quel momento Nicola stava pensando di lei si sentì sprofondare. Ci avrebbe messo ben poco a concludere che la loro storia era durata abbastanza, tanto più che l'Ideale con la maiuscola era volato da Parigi nel momento giusto per ricordargli la differenza tra sogno originale e ripiego. Cercherò di sopravvivere, si incoraggiò con patetico cinismo. E mentre l'altra parte di lei le chiedeva come, il telefono squillò. «Tua madre permettendo, vorrei ripartire da dove eravamo rimasti»
Nicola l'apostrofò senza preamboli. «Non ne vale la pena.» «Era il nostro primo litigio e ti ci sei buttata da diva tagliandomi fuori. É sleale. Voglio anch'io le mie battute.» «Non montiamoci la testa, Nicola. La diva è Milly. Non soltanto ci ha scippato il copione, ma ha fatto anche la colonna sonora.» «E ridagli! Con questa storia mi hai rotto, Francesca. Se ieri avessi saputo che alla cena di mia cugina c'era Milly, non ti ci avrei certo portata. E se avessi previsto che la sua strimpellata da salotto ti avrebbe fatto l'effetto di un concerto al Metropolitan, appena si è seduta al pianoforte ti avrei portato via.» «Senti chi parla! Mentre Milly strimpellava, come dici, tu la fissavi con una ridicola aria rapita, neanche stessi ascoltando le arpe del paradiso!» Aveva sempre invidiato, anzi, odiato le compagne che sapevano suonare qualche strumento. Con il pianoforte o la chitarra esercitavano una seduzione che la umiliava, una suggestione di cui si sapeva incapace. E quando Milly, bionda e assorta, con il tocco delle dita aveva riempito la stanza di magiche armonie, a stento si era trattenuta dall'urlare a Nicola: "Non è lei ad averle composte, non è sua la struggente dolcezza di queste note!". Nicola, quasi le avesse letto nel pensiero, spiegò asciutto: «Stava suonando la K 466: ero rapito da Mozart, non da Milly. Tanto per esaurire l'argomento, non sapevo neppure che fosse arrivata a Milano, ma a quanto ha detto mia cugina tra due giorni ritornerà a Parigi». «E prima che parta, la rivedrai ?» «Da circa due mesi la nostra storia è diventata piuttosto intima e coinvolgente, Francesca: non ho bisogno di emozioni alternative.» «Scusami. La verità è che sono molto gelosa» ammise. «Nooo! Giuro che non l'avevo capito.» La tensione si era allentata e Francesca avvertì uno smisurato sollievo. «Scusami davvero» ripeté. «Pensavo di essermi giocata la nostra storia "intima e coinvolgente"... Meno male che mia madre mi ha impedito di dire cose irreparabili!» «Per esempio?» s'informò Nicola, divertito. «Avevo deciso di non vedere più tua madre, a cominciare da oggi...» La interruppe: «Questa decisione era più demenziale che irreparabile. A proposito, stamattina mia madre se l'è presa con me. Sostiene che ti stai deconcentrando proprio alla vigiglia degli esami e che, naturalmente, è tutta colpa mia. Hai fatto i temi che ti ha dato la settimana scorsa?». «Mi manca di finire il terzo.» «Tra un'ora devi essere qui, come fai? Forse mia madre ha ragione, in questi giorni dovremmo vederci un po' meno. E rimandare il nostro week-end a Nervi di sabato prossimo.» «Quello non si tocca, Nicola» rispose con fermezza. Erano i primi due giorni che potevano trascorrere insieme, loro due soli nella villa che per anni aveva detestato e che adesso le appariva il più meraviglioso dei posti. Erano dieci giorni che stava programmando quel fine settimana, come una cospiratrice, e si era scoperta una insospettata fantasia nell'inventare ai genitori una spiegazione che li aveva convinti.
«Ne riparleremo tra poco, Francesca. Tra l'altro anch'io devo concentrarmi sulla tesi.» Quel pomeriggio, per la prima volta, Silvia Vitali parlò scopertamente a Francesca di suo figlio. Finita la lezione, la invitò a bere una bibita nel terrazzo e si sedette accanto a lei sul divano di vimini. Giugno volgeva alla fine e l'aria aveva ormai il profumo dell'estate. Dai vasi di terracotta appesi alle ringhiere ricadevano le fiammeggianti cascate dei gerani edera, e le piante aromatiche, da poco innaffiate, esalavano inebrianti profumi. Francesca socchiuse gli occhi, sospesa tra vigile raccoglimento e una stordita sensazione di languore fisico. I colombi attraversavano il cielo rosato del tramonto come colpi di fionda. La voce della professoressa Vitali sembrò giungere da lontano. «Tu e Nicola state correndo troppo» disse senza preamboli «e sono molto preoccupata.» Francesca si eresse. «Non capisco.» «Senti, parliamone lealmente. Fino a un paio di mesi fa potevo ancora sperare che si trattasse di una cotta da ragazzi, ma siete stati voi stessi a aprirmi gli occhi. E non soltanto. La famosa sera in cui non tornasti a casa, Francesca, toccò a me inventare una bugia ai tuoi. E la mattina successiva non potei che confermarla. Mi avete preso la mano, rendendomi complice di una relazione che disapprovo e che mi allarma. Né tu né mio figlio siete ancora pronti per un legame impegnativo, e questo non può portarvi che amarezze. A suo tempo ho tentato di farlo capire a Nicola, ma inutilmente.» Francesca inghiottì, con un vago senso di nausea. «Io e Nicola sappiamo bene che dovrà passare del tempo prima che siamo pronti a impegnarci nel senso che intende lei.» «Questo non basta a preservarvi da sofferenze e problemi. I sentimenti hanno tempi e sbocchi che non possono essere ostacolati, così come avviene per il corso di un fiume. I lunghi fidanzamenti, le relazioni extraconiugali e quelle degli innamorati indecisi prima o poi portano all'infelicità proprio perché ostacolano e frustrano il naturale evolversi dei sentimenti.» «Nessuno di questi è il nostro caso.» Francesca inghiottì di nuovo. «In un certo senso è ancora peggiore, perché state giocando con la passione. É come se aveste in mano un'arma che non sapete usare. Io sono preoccupata soprattutto per te, Francesca. Sei più profonda e forse più innamorata di mio figlio, ma ti mancano l'equilibrio e l'esperienza per poter vivere senza pericoli una grande passione.» «Che cosa dovrei fare?» «Per prima cosa mandare a monte il week-end a Nervi. Ne parlavate qui la scorsa settimana, e purtroppo ho sentito. Poi, concentrarti sugli esami: superarli bene è una prima prova di essere "maturi" in ogni senso. Nicola, a sua volta, deve discutere la tesi e laurearsi. Non vi dico di troncare la vostra storia, ma soltanto di essere meno precipitosi e imprudenti. Buttarvi nello studio e prendere un po' di fiato non può farvi che bene.» Francesca stava per replicare qualcosa, ma non le fu possibile: il giudice Brentano varcò la portafinestra del soggiorno e raggiunse la moglie in terrazzo. «Sono quasi le otto, non si cena?» chiese. Solo in quel momento parve accorgersi della ragazza. La fissò con espressione interrogativa e poi le rivolse un sorriso vago.
«É Francesca Fasser, una mia alunna. Stavamo facendo due chiacchiere» Silvia Vitali la presentò. Francesca si alzò, intimidita: «É tardi, debbo andare». Alla tristezza del colloquio appena terminato si aggiunse quella di non aver visto, neppure per un attimo, Nicola. Aprì la porta e chiamò l'ascensore. Rimasto solo con la moglie, Ezio Brentano osservò: «Non pensavo che a quest'ora tu ti occupassi ancora dei tuoi allievi, ricevendoli addirittura in casa». «Francesca Fasser è una ripetente a cui do qualche lezione» riassunse Silvia Vitali. «Ma non facciamo mai così tardi.» «Ho l'impressione di averla vista da qualche parte. Con Nicola: è possibile?» «É possibile. Si sono incontrati qui e tra ragazzi si fa presto a entrare in confidenza.» «Come hai detto che si chiama?» «Fasser. Suo padre ha un'impresa di costruzioni e tra l'altro è genovese come noi.» «Fasser... E un cognome che mi suona familiare.» Sua moglie rise. «I cartelli dei suoi cantieri si innalzano in mezza Italia!» Ezio Brentano scosse la testa. «Non è questo che intendevo.» Si accarezzò la fronte con le dita, l'abituale gesto di quando rifletteva profondamente. «Ti risulta che a Genova abbia avuto qualche processo o sia stato coinvolto in qualche scandalo?» chiese a un tratto. Silvia Vitali rise di nuovo. «Ezio, la tua deformazione professionale sta confinando con la patologia! I Fasser sono quel che si suol dire una rispettabile e prestigiosa famiglia!» Il giudice scosse la testa, perplesso. «Sarà. Ma ho la certezza di aver sentito questo cognome proprio in Tribunale. A Genova, una ventina d'anni fa.» Le dita tornarono a accarezzare la fronte. «Ti dirò di più, Silvia. Mi pare proprio di ricordare che a parlarmi di Fasser sia stato, a quei tempi, un collega.» Aveva l'espressione soddisfatta di quando poteva dare un'ennesima dimostrazione della sua eccezionale memoria. Sua moglie alzò le spalle. «I costruttori incorrono spesso in multe o abusi... Che ne diresti di andare a tavola?» Teresa, la domestica, si affacciò sulla porta della cucina e disse: «Nicola arriva più tardi, è andato a accompagnare a casa la Fasser».
CAPITOLO 11 Quando il commissario dissigillò la busta e cominciò a dare lettura dei temi, Francesca avvertì uno strano ronzio alle orecchie e per alcuni istanti perse la nozione della realtà. Era come se il tempo fosse ritornato indietro di un anno. Anzi, come se quell'anno non fosse mai esistito e lei si trovasse in quella stessa aula del Parini, condannata a restarvi per l'eternità. Si aggrappò istintivamente al banco, sopraffatta da uno stordimento che le fece girare la testa. E quando ritrovò il controllo s'infuriò con se stessa. Stava sceneggiando un'altra crisi per ripetere la bravata dell'anno prima? Intendeva crogiolarsi per tutta la mattina in fantasie morbose al solo scopo di deconcentrarsi dal tema? Prova a consegnare il foglio in bianco e ti uccido, giurò a se stessa. Fu come infilare un ago in un palloncino: l'incubo si sgonfiò e tutto tornò a posto. Il commissario stava rileggendo i temi e Francesca, improvvisamente lucida, fece via via mente locale su ciascuno. Dopo una breve valutazione, optò decisamente per il secondo: ripercorrendo a grandi tappe l'evoluzione e gli eventi dell'umanità, avrebbe dovuto dire se, secondo lei, era stata la storia a condizionare l'uomo, oppure l'uomo a fare la storia. Cominciò a scrivere con la mano che le tremava per l'eccitazione, sperando che la penna riuscisse a seguire il ritmo delle idee che si susseguivano fluide e veloci. Non aveva dubbi: erano stati i bisogni, l'aggressività, le tracotanze e lo spirito d'avventura dell'uomo a determinare gli eventi. Riempì in meno di un quarto d'ora la prima facciata e, girando il foglio, notò che la sua compagna di banco non aveva ancora cominciato a scrivere. Ricordando quanto, l'anno prima, fosse stata infastidita dalla compassionevole petulanza della privatista che le sedeva accanto, si vietò di fare altrettanto. Ma, rivolgendo suo malgrado un'ultima occhiata alla compagna, la vide piegarsi su se stessa e premersi le mani sul grembo con una smorfia. «Ti senti poco bene?» chiese preoccupata. La ragazza le rivolse un breve sorriso e scosse la testa. «Non è niente, ho preso un cachet e spero che passi. Una bella jella, proprio stamattina dovevano venirmi le mie cose!» Francesca aprì e richiuse la bocca. E lei, quando aveva avuto l'ultimo ciclo? Nel momento stesso in cui se lo chiedeva, prima ancora che la sua mente avesse il tempo di calcolare, attutire e mediare, la risposta l'aveva già aggredita nella più piccola fibra del suo corpo. Sono incinta. La mente le venne pietosamente in soccorso: calmati, lasciami riflettere, forse è un ritardo causato dalla tensione per gli esami, forse sto confondendo le date...
No. Aveva avuto l'ultimo ciclo alla metà di aprile, oltre due mesi prima, e fino ad ora si era rifiutata di registrare il ritardo e di fare affiorare alla coscienza lo spaventoso sospetto. Avvertì una fitta di nausea alla bocca dello stomaco e inghiottì a vuoto, improvvisamente cosciente della familiarità di quei disturbi. Sono incinta. Una ridda di interrogativi rese ancor più spaventosa quella realtà. Devo decidere qualcosa, devo fare qualcosa. Non ora, la mente le ordinò imperiosamente. Ora devi soltanto fare il tema. Francesca rilesse ciò che aveva scritto e tirò un fregio rabbioso. Era folle credere che l'uomo, nell'infinita piccolezza del proprio essere, avesse potuto determinare la storia. Era stato il flusso inarrestabile degli eventi a condizionare la sua esistenza e mutare i suoi pensieri, le sue azioni e i suoi valori. Prese un nuovo foglio e cominciò a scrivere di getto, stupita con se stessa di essere riuscita a ritrovare la concentrazione estraniandosi dal proprio problema. Soltanto all'una, quando rilesse il tema, si rese conto che aveva parlato della storia identificandola mentalmente con la sua gravidanza, come se la storia e il figlio che aspettava fossero la stessa cosa. Nicola l'aveva chiamata alle sette del mattino, e prima di riattaccare con l'allegro e ben augurale «merda, merda, merda» le aveva detto: «Appena hai finito il tema telefonami, volo a prenderti e andiamo a mangiare una pizza insieme». Come sentì il suo «pronto?» decise che no, non poteva dirglielo subito. Tra due giorni Nicola avrebbe dovuto discutere la tesi, e le sembrò crudele gettargli quella croce addosso. Due giorni più due meno, cosa sarebbe cambiato? «Sono appena uscita. Credo che il tema mi sia venuto bene» gli comunicò. «Dove sei, adesso?» «Nel bar tabaccheria della scorsa settimana.» «Aspettami, arrivo subito. Hai telefonato ai tuoi?» «No, li chiamo adesso. Tu avverti tua madre che è andata bene.» Sette giorni prima Nicola l'aveva accompagnata in segreteria per consegnare un documento e si erano fermati a bere un caffè in quello stesso bar. Spostando una sedia, Francesca ricordò che anche il tavolino era lo stesso. Soltanto io sono un'altra, pensò. In mezza mattinata tutto quello che speravo e volevo è cambiato. Era sopravvissuto, intatto, l'amore per Nicola, ma pensare a lui adesso la faceva star male. Il cameriere si avvicinò e gli ordinò una spremuta d'arancia. Dovrei avvertire papà che ho finito lo scritto d'italiano, si disse, ma le parve ridicolo preoccuparsi di risparmiargli una piccola apprensione quando stava per infierirgli un enorme dolore. Una ragazza dai lunghi capelli biondi si stava dirigendo verso di lei e Francesca impiegò alcuni istanti per metterla a fuoco. Ma sì, era la sua compagna di banco, quella che dopo la lettura dei temi si era sentita poco bene. Ricordò anche il suo nome, Clara Siani.
«Stai aspettando qualcuno anche tu?» Clara le chiese spostando una sedia e dando per scontato di aspettare al suo stesso tavolo. «Sì. Come ti senti adesso?» «Perfettamente, ma non sono per niente contenta del tema. L'italiano è sempre stato il mio incubo, beata te che non hai questo problema.» Prima che Francesca le chiedesse come faceva a saperlo spiegò: «Non puoi nemmeno immaginare quanto abbiamo parlato in classe di quello che ti è successo l'anno scorso. Persino il professore d'italiano ce lo agitava come uno spauracchio, dicendo che neppure una candidata brava come te è risparmiata dalle incognite della maturità». Francesca si sorprese a sorridere malinconicamente: tutta qui l'umiliazione? Era per non essere riconosciuta e additata che aveva tentato prima di non ripetere la maturità, poi di dare gli esami a Genova? Ben altra prova l'aspettava adesso, e le era insopportabile pensare all'amarezza di suo padre, al gemente falsetto di sua madre, alla reazione sicuramente spaventata di Nicola. Si costrinse ad ascoltare ciò che Clara Siani stava dicendo. «Tu non mi hai mai notata, ma io sì. Ero una classe indietro e ti invidiavo moltissimo. Non per la fama di genio» precisò con un risolino «ma per la classe. Se mi vestissi come te sembrerei una monaca di clausura, tu invece hai un'austerità così raffinata e sexy!» Francesca si ritrovò di nuovo a sorridere. «Non ho mai avuto un particolare interesse per vestirmi» ammise «e mi sento a mio agio soltanto con giacche, gonne e jeans.» Cambiando discorso (la tipica superficialità degli estroversi, Francesca annotò con simpatia) Clara chiese: «Stai aspettando il tuo ragazzo?». Prima che lei rispondesse aggiunse sospirando: «Io, col mio, ho chiuso due mesi fa. Era una tale pizza! Il fatto è che ho voglia di conoscere, viaggiare, divertirmi. Adesso sto aspettando un tizio che ho conosciuto sere fa a una festa. Ha trent'anni e è separato dalla moglie, ma è talmente diverso da quei bambocci dei nostri compagni di scuola! Ti sto scandalizzando, Fasser?». Soltanto ieri, Francesca le rispose mentalmente, ti avrei giudicato una ciarliera e insopportabile ragazza. «No, non mi stai scandalizzando affatto» disse a voce alta. «Sei molto simpatica.» Clara Siani arrossì di piacere. «Peccato che il liceo sia finito, avremmo potuto diventare amiche! Comunque abito in piazza Napoli, c'è Siani sulla guida. Se mi telefoni potremmo combinare qualcosa insieme.» Francesca guardò l'orologio appena sopra al bancone del bar. Erano trascorsi tre quarti d'ora da quando aveva telefonato a Nicola, come mai tardava tanto? Benedisse tra sé l'incontro con Clara, chiacchierando con lei si era risparmiata nervosismo e cattivi pensieri. Ma Clara adesso si stava alzando, il viso eccitato e allegro rivolto all'ingresso. «É arrivato, devo andare. Ci vediamo domattina agli esami.» E scappò via. Nicola arrivò dieci minuti dopo, quando ormai Francesca si stava chiedendo se fosse il caso di continuare ad aspettarlo.
«Scusami per il ritardo» disse «mentre uscivo dal portone mi sono imbattuto in mio padre e non mi mollava più. Dove vai, con chi, perché, mancano due giorni alla tesi e dovresti buttarti anima e corpo nello studio. Eccetera eccetera eccetera. Un vero interrogatorio.» Nonostante il tono scherzoso, aveva la faccia buia ed appariva molto teso, Francesca osservò mentre uscivano dal bar e si dirigevano verso la macchina parcheggiata poco distante. «Pensavo di portarti a colazione a Chiaravalle» Nicola disse poco dopo, mettendo in moto «ma oggi pomeriggio mio padre non va a lavorare, e se torno tardi un'altra predica non me la leva nessuno. Dovrai accontentarti di una pizza al volo.» Quella frase suonò a Francesca malinconicamente premonitrice: da ora in avanti avrebbe dovuto soltanto accontentarsi, ormai per lei non c'erano che compromessi e ripieghi. «Va bene lo stesso» si costrinse a dire. «Parlami degli esami. Che tema hai fatto?» «Il rapporto tra uomo e storia, e cioè quello che tua madre chiama il provvido tema universale: chi è bravo può far sfoggio di quel che sa, chi è meno dotato riesce comunque a dire qualcosa.» Nicola annuì, ma Francesca ebbe l'impressione che neppure l'avesse sentita. Anche la sua guida era nervosa, e quel susseguirsi di piccole frenate le stava torcendo lo stomaco. Fece un profondo respiro: «E tu a che punto sei?». Dovette ripetere la domanda. Nicola alzò le spalle e borbottò: «Pessimo». «Perché sei così disfattista? Fino a una settimana fa eri molto soddisfatto della tua tesi.» «La stessa soddisfazione del condannato a morte a cui è stato concesso di scegliere tra la sedia elettrica e la corda.» Francesca si sentì contemporaneamente sopraffare da nausea e furia. «Questo tuo drammatizzare è ridicolo. É insultante per chi ha dei problemi autentici.» Un fiotto di saliva le salì alla gola e dovette inghiottire. «Dove sta il tuo?» riprese. «Non mi pare poi una condanna a morte uscire dall'università per entrare nello studio legale più prestigioso della città, attraverso la porta principale spalancata da papà.» Nicola si voltò verso di lei lanciandole un'occhiata compassionevole. «Nella tua infinita banalità hai dimenticato che ho pagato il biglietto d'ingresso. Carissimo.» Sottolineò con una brusca frenata. «Nella mia infantile banalità ho imparato che...» Nicola la interruppe: «Risparmiami la lezione. Siamo arrivati». «Dove?» «In pizzeria. Salta giù, non ho molto tempo.» «E io non ho per niente fame. Riaccompagnami a casa» Francesca ribatté. Fecero tutta la strada in silenzio. Quando arrivarono davanti al portone, Nicola allungò un braccio e le socchiuse la portiera. «Scendi subito, non posso fermarmi.» «Quando... quando ci vediamo?» «Ti telefono io. Scendi» ripeté «c'è una fila di macchine dietro di noi.» Soltanto mentre suonava il campanello Francesca realizzò che erano le tre e mezzo del pomeriggio e
si era dimenticata di telefonare ai suoi. Venne ad aprirle Germana, con un'espressione di sollievo che le fece capire quanto dovevano essersi preoccupati. «Francesca, meno male che è arrivata!» disse la domestica. «Suo padre è stato ricoverato al Niguarda. Non è niente di grave, stia calma. Sua madre è all'ospedale e ha continuato a telefonare chiedendo di lei.»
CAPITOLO 12 Nicola depose il ricevitore con un sollievo di cui subito si vergognò. Dopo due giorni di silenzio aveva telefonato a Francesca per comunicarle che quel mattino si era laureato con 110, ahilui senza lode, e Francesca gli aveva raccontato con voce di pianto che suo padre, colpito da un infarto, era stato dichiarato fuori pericolo solo da poche ore. Meno male che l'ho saputo adesso, era stata l'istintiva reazione di Nicola. E malgrado si detestasse per il suo egoismo non poteva fare a meno di sentirsi sollevato per il pericolo che lui aveva corso di dover rimandare l'esame di laurea per star vicino a Francesca. Che razza di verme sono? si disse ripensando alla strana voce di lei, senza traccia di contentezza. O almeno di quel sollievo che è normale, quando il peggio è passato. La verità è che da molte settimane Francesca ha perduto slanci e allegria, pensò. L'ho mio malgrado trascinata in una relazione che ha fatto esplodere in lei sentimenti violenti e smania di assoluto. E io sono un frustrato artista mancato, troppo pieno di casini per appagare le sue implacabili aspettative. Abbiamo corso troppo e dobbiamo darci una calmata. La voce di suo padre lo fece quasi sobbalzare. «Congratulazioni per l'esame, ero certo che non mi avresti deluso.» Almeno con lui sono stato all'altezza, Nicola sogghignò tra sé. «Mi spiace per la lode, papà» disse ironico. Ezio Brentano fece un gesto di fastidio, come a dire che non aveva voglia di scherzare. «Sono tornato a casa perché debbo farti un discorso molto grave, Nicola.» «Se riguarda il mio avvenire dovrai rimandarlo. Sto correndo dalla mia ragazza.» «É proprio di lei che debbo parlarti. Tu sai chi è?» chiese con esagerata enfasi. «Direi di sì. E a quanto pare lo sai anche tu.» Il giudice Brentano si schiarì la voce. «Purtroppo temo che non ci riferiamo alla stessa persona.» Il ragazzo lo fissò. «Io mi riferisco a Francesca Fasser. Per altri particolari aggiorniamoci a stasera.» «Sai chi è questa Fasser?» Il tono solenne causò a Nicola, in egual misura, irritazione e ilarità. «É la figlia di Giovanni Fasser. Senza volerlo, te lo assicuro, frequento una ragazza che nella tua ottica ha tutti i requisiti della moglie ideale.» «Non è la figlia di Giovanni Fasser. Ed è una moglie che nessun genitore sensato desidererebbe per il proprio figlio.» «Papà, forse avevi ragione. Non ci riferiamo alla stessa persona» Nicola ribatté infastidito. «Sciaguratamente sì. Il discorso non è facile. E...» «Ti dispiace se lo riprendiamo più tardi? Ho appena saputo che il padre di Francesca ha avuto un infarto e sto andando da lei.» «Francesca non è la figlia dell'ingegner Fasser. É stata adottata. Lo sapevi?» «No» ammise Nicola, perplesso. «E sono certo che neppure Francesca lo
sa.» Una breve pausa e aggiunse: «Benché sia abbastanza stupito per la notizia che mi hai dato, non mi sembra che essere figli adottivi sia così grave». «In questo caso lo è. Il cognome di Fasser mi suonava familiare, ma soltanto quando tua madre ha ammesso che tra te e quella Francesca esisteva un legame diciamo così impegnativo mi sono deciso a andare a fondo. Diciannove anni fa tutti i giornali parlarono di una neonata rinvenuta in uno scantinato dei vicoli, a Genova. Era rimasta abbandonata e senza cibo per molti giorni, e fu ricoverata in gravissime condizioni al Gaslini. Mezza Italia si offrì di adottarla e del caso si occupò un mio collega e amico, il giudice Leonardi. Fu lui a scegliere i Fasser. La moglie dell'ingegnere aveva appena dato alla luce una neonata con una grave malformazione cardiaca che morì dopo tre giorni. Quando lesse della bimba abbandonata, era ancora in ospedale. Lei e il marito ricorsero a ogni mezzo, e a ogni pressione, perché fosse affidata a loro: e Leonardi si confidò con me, esprimendomi alcune riserve che poi sciolse. Ieri sono andato a Genova apposta per parlare con lui e non esistono possibilità di dubbio: la tua Francesca e la neonata dei vicoli sono la stessa persona.» Nicola appariva profondamente turbato. E all'improvviso gli venne la frenesia di correre da Francesca, di stringerla tra le braccia e consolarla di tutte le violenze che avevano segnato la sua piccolissima vita innocente. Si schiarì la voce. «Papà, che Francesca sia figlia naturale o adottata non cambia nulla, per me.» «La madre naturale era una prostituta negra uccisa da un maniaco dopo un rapporto sessuale. E il padre naturale un cliente di cui è stato impossibile scoprire l'identità.» Ezio Brentano alzò gli occhi sul viso del figlio. «Non è neppure pensabile che tu possa, un giorno, formare una famiglia con una persona così... così...» «Riluttante?» suggerì Nicola, con voce neutra. «Guardati allo specchio, papà. É ributtante la tua mancanza di pietà. Sembra che tu stia per vomitare.» Il giudice Brentano inghiottì un fiotto di saliva acida. «Sto per vomitare, sì. Mi ripugna il solo immaginarti accanto a quella persona.» «Oh, il tuo meraviglioso figlio bianco contaminato da un'immonda creatura di razza bastarda!» «Non riesci a offendermi, Nicola. Ti dirò che in qualche modo sono addirittura orgoglioso di questa tua reazione. Ma spero che rifletterai su quanto ti ho detto, comprendendo i limiti tra solidarietà umana e autodistruzione. Le regole della società e le leggi della genetica non le ho fatte io, e sfidarle è insensato.» «Già! Per Francesca è arrivato il momento di riscoprire le proprie radici e i propri limiti. Può battere il marciapiede come la madre. Oppure partire per l'Africa nera alla ricerca del buon selvaggio con cui procreare una tribù di angioletti dalla pelle color cioccolato. É la prima volta che mi fai vergognare di essere tuo figlio, papà. E la genetica mi ha usato un occhio di riguardo consentendomi di non avere nulla in comune con te. Mi piacerebbe, al proposito, sapere come mia madre ha reagito alla tua rivelazione sulle origini di Francesca.» «Molto meno disinvoltamente di quanto supponi, mio caro. L'aperta e liberale professoressa Vitali spera con la mia medesima meschinità che questa ragazza sparisca dall'esistenza di suo figlio. Se non mi credi puoi andarglielo a chiedere: è nel suo studio.» A Nicola bastò guardarla in faccia per capire che suo padre non aveva
mentito e neppure esagerato. Sua madre aveva gli occhi gonfi e una strana espressione mortificata e colpevole che scatenò in lui una furia cieca. «Mi ero sempre chiesto come potevi vivere con un uomo come tuo marito e finalmente ho capito: siete identici. Solo che lui è più stimabile di te, perché non ha mai recitato la parte del progressista illuminato.» Sperò che la sua voce esprimesse tutto il disprezzo e la delusione che provava. Non gli bastava vedere sua madre mortificata, voleva che strisciasse. Ma il tono con cui lei lo apostrofò fu raggelante. «La recita più penosa è stata quella che ho fatto a esclusivo beneficio di me stessa, per convincermi di avere allevato un adulto generoso e equilibrato.» «E invece?» la provocò. «Invece ti ho visto crescere sempre più velleitario e insicuro. Senza spina dorsale» precisò impietosa. «Oh, certamente ho delle grosse responsabilità. Vi sono molte specie di madri chioccia, e io sono stata la peggiore: quella che si tiene stretta il figlio sotto l'ala della tolleranza e della libertà. Perché mai avresti dovuto volare via da me, dal momento che simboleggiavo, e ti offrivo, tutto ciò che affascina un giovane?» «Non sottovalutarmi, mamma, qualche colpo d'ala me lo sono concesso.» «Ma sei sempre tornato a starnazzare al suolo. La pittura, per esempio: perché non hai saputo tenere testa a tuo padre? Perché non ti sei battuto per difendere la tua vocazione?» «Se può esserti di conforto, per Francesca adesso mi batterò. E molto.» Silvia Vitali alzò sul figlio due occhi pieni di tristezza. «E io starei dalla tua parte, se fossi l'adulto che vorrei. Non sono le origini di Francesca a impaurirmi, perché chiunque sia suo padre e qualunque cosa abbia fatto sua madre lei è un individuo a sé, una persona distinta da loro.» «É quello che penso anch'io. É allora, dove sta il problema?» «Nel colore dei figli che verranno. Nella violenza della stupidità e dei pregiudizi. Nell'enorme amore di cui Francesca avrà bisogno il giorno in cui i suoi incoscienti e ingenui genitori adottivi non potranno più nasconderle la verità. Vorrei con tutta me stessa che tu fossi l'uomo capace di darle questo amore, ma non sei all'altezza. E lo devo ammettere con grandissimo dolore.» «Io la amo molto, mamma.» «In questi ultimi giorni avrei giurato il contrario. Ieri, in un momento di sincerità, tu stesso mi hai detto di sentirti impaurito e pieno di dubbi per la piega troppo impegnativa del vostro legame» Silvia ricordò al figlio. E aggiunse, più dolcemente: «In questo momento provi per Francesca tenerezza e pena. Bellissimi sentimenti che però non sono amore. Intendi batterti per lei, dici. Sei sicuro che non sia per puntiglio? Per provare a te, e a me, e a tuo padre di essere il grand'uomo che non sei ?» «Stai picchiando senza pietà, mamma.» «Sto solo dicendo quello che penso e non intendo offenderti. Dopotutto l'esistenza non richiede l'eccezionalità, e possiedi doti più che sufficienti per diventare un bravo professionista e un ottimo padre di famiglia. Ma per vivere con Francesca non bastano, perché è una delle poche unioni che esigono l'eccezionalità. Il dolore che le darai ora, lasciandola, è enormemente più piccolo di quello che le piegherebbe le spalle il giorno in cui realizzasse di avere investito tutta se stessa in un uomo inadeguato.» «Spiacente. Non mi hai convinto.» «Non lo
pretendevo affatto. Benché siamo tutti degli esseri normali e imperfetti, poche cose ci urtano come il dover ammettere di non essere eccezionali. Fortunatamente non sempre siamo costretti a ridimensionarci, e molte persone invecchiano conservando questa illusione. Purtroppo tu non sei tra questi: e spero che troverai il tempo e l'onestà per prendere atto dei tuoi limiti.» «Mi hai sempre insegnato che bisogna battersi per superarli». «Non sulla pelle degli altri, Nicola. E ti invito a riflettere su quanto ti ho detto.» Dirigendosi verso la casa di Francesca, Nicola poté finalmente abbassare la guardia e abbandonarsi al flusso delle emozioni. Si accorse con sorpresa di essere stordito e triste, ma non sconvolto. Era come se la sua emotività si fosse anestetizzata impedendogli di avvertire dolore e sbalordimento. Anche la stravolgente pena che aveva provato per Francesca dopo la rivelazione di suo padre si era attutita. Il pensiero che tra pochi minuti si sarebbe trovato faccia a faccia con lei aprì una piccolissima breccia attraverso la quale si insinuarono disagio e paura. Coraggio, prova a riflettere. L'aver saputo che sua madre è una negra ti spingerà tuo malgrado a spiare il suo viso morbosamente, con occhi nuovi? Che effetto ti fa l'eventualità di avere, un giorno, un figlio con la pelle scura? Nell'ipotesi di vivere con lei, riusciresti ad essere te stesso oppure la pietà per le sue origini ti renderebbe schiavo della circospezione e dei doveri? Non sai rispondere, grand'uomo. Ho bisogno di tempo, Nicola pensò affranto. Ma intanto era arrivato davanti al portone di casa Fasser. Doveva scendere dall'auto, attraversare il marciapiede e citofonare: Francesca sarebbe scesa concedendogli al massimo dieci minuti. Gliene diede ancor meno: dopo cinque la vide uscire dall'ascensore e dirigersi verso di lui. «Sono contenta che tu mi abbia telefonato» gli disse. «L'altra mattina sono stata stupida e aggressiva. Mi proponevo di chiamarti subito per chiederti scusa, ma come sono entrata in casa mi hanno detto che mio padre era stato male.» «E adesso come sta?» «I medici dicono che il peggio è passato, però è sempre in terapia intensiva all'Unità Coronarica. É stato terribile finire gli scritti con il pensiero di papà in ospedale, ma non mi avrebbe mai perdonato se mi fossi ritirata per la seconda volta.» Nicola si odiò: preso dalla tesi e in balìa di una puntigliosa astiosità aveva del tutto dimenticato che Francesca stava ancora facendo gli esami. «Sei tu che devi scusarmi» disse umiliato. «Ora sei qui e va tutto bene. Papà è fuori pericolo, gli scritti sono finiti, tu mi hai perdonata e ho persino voglia di un gigantesco gelato alla panna. Che cosa potrei chiedere di più?» disse prendendolo per una mano. Nicola avvertì nella sua forzata allegria una tremula umiltà che lo turbò profondamente. «Tu puoi chiedere tutto, Francesca» disse prendendola per un braccio e conducendola verso l'auto. Prima di mettere in moto le sorrise, e notò che era molto pallida, con gli occhi cerchiati. Il suo rimorso crebbe. «Appena avrai finito gli orali faremo una bella vacanza, io e te soli, dove vuoi tu» disse stringendosela vicino.
Francesca gli posò la testa sulla spalla, con un grosso sospiro: «Non so se essere preoccupata o contenta: hanno sorteggiato la lettera effe, e sarò la terza a essere interrogata dopo Gianna Faletti e Marino Fasoli». Chissà qual era il suo cognome prima che i Fasser la adottassero, Nicola pensò istantaneamente. E il vero padre chi era? Un cliente da sbarco, un professionista a caccia di sensazioni forti, un impacciato ragazzo alla prima esperienza mercenaria? Chiunque fosse, aveva dato a Francesca il colore della pelle. Era invece difficile stabilire cosa potesse aver ereditato dalla povera madre nera: non certo la fierezza, l'allegria, la fiducia nella gente. C'era però in lei qualcosa di instabile e sfuggente. Il pensiero si insinuò in un angolo della sua mente: anche nel suo viso. Gli occhi fissi alla strada, ricostruì meticolosamente i lineamenti di lei e si stupì di non avere notato fino a quel momento i segni, pur impercettibili, della razza nera: la tumidità delle labbra, la larga attaccatura del piccolo naso, i denti bianchissimi, il profondo e scintillante velluto degli occhi. «Dove stiamo andando, Nicola?» La voce di Francesca gliela restituì familiare e amata, dissipando una inquietante sensazione di estraneità.