Wilbur Smith. IL CANTO DELL’ELEFANTE. Trama.
Vibrante e solenne come una preghiera, il canto dell'elefante risuona da m...
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Wilbur Smith. IL CANTO DELL’ELEFANTE. Trama.
Vibrante e solenne come una preghiera, il canto dell'elefante risuona da millenni nelle sconfinate lande africane, sospeso tra l'azunro assoluto del cielo e l'impenetrabile cupola verde delle foreste pluviali. Daniel Armstrong è cresciuto ascoltando quel canto, ha condiviso l'omaggio della possente creatura alla terra che lo ospita e lo nutre, e ha tentato di svelarne il significato nei suoi appassionati documentari, testimoni fedeli dell'aspra e sensuale belleza di un continente fiero e selvaggio, crudele e generoso. Ma poi sono giunti uomini indifferenti a tutto questo, individui spietati e avidi che hanno cominciato a torturare l'Africa, squarciandone il cuore e l'anima per soddisfare la loro inestinguibile bramosia di riccheza. Alcuni sono stranieri, come Tug Harrison (diventato troppo potente per ricordare il fascino di un continente che ha amato) o come Ning Deng Kong (cinico e crudele affarista orientale dallo sguardo feroce di cobra assassino), ma altri sono africani come il dittatore dell'Ubomo, Ephrem Taffari, che assiste, impassibile, al sacrificio, in nome del Dio Denaro, della sua terra sventrata e depredata, dei suoi fiumi soffocati dai veleni, dei suoi uomini torturati e uccisi, dei suoi animali massacrati. Tutto sembra perduto, ma l'Africa, la vera Africa, quella del felice e ingenuo popolo dei bambuti, del saggio (e spodestato) presidente Victor Omenu, della sensibile e combattiva scienziata Kelly Kinnear rifiuta la morte imminente: chiama a raccolta le forze oscure che la popolano, risorge veemente dalla morsa d'acciaio che la stringe ed eleva di nuovo il suo canto, un canto che, questa volta, sarà un grido di ribellione e di vendetta, il respiro di un popolo intero, la volontà indomita di riconquistare la terra, madre e padre dell'uomo... Appassionato e teso allo spasimo, Il canto dell'elefante è un romanzo destinato a stupire anche i « fedelissimi" del grande Wilbur Smith per il ritmo serrato e drammatico degli avvenimenti narrati e per la sconvolgente « impressione di realtà » che li caratteriza. ***
Era una costruzione di blocchi d'arenaria, priva di finestre e con il tetto di paglia, che Daniel Armstrong aveva costruito con le sue mani quasi dieci anni prima, quando era un ran ger di grado inferiore nell'amministrazione dei parchi nazionali. In seguito l'edificio era stato trasformato in un autentico deposito di tesori. Johnny Nzou infilò la chiave nel grosso lucchetto e spalancò i due battenti di tek tagliati a mano. Johnny era il capo ranger del parco nazionale di Chiwewe. In passato era stato cercatore di tracce e portatore di fucili alle dipendenze di Daniel: a quel tempo era un giovane, intelligente matabele al quale Daniel aveva insegnato a leg gere, a scrivere e a parlare correntemente l'inglese alla luce di mille fuochi da bivacco. Daniel gli aveva prestato la somma necessaria per pagarsi il pri mo corso per corrispondenza dell'università del Sudafrica che più
tardi l'aveva portato alla laurea in materie scientifiche. I due giova ni, uno negro e l'altro bianco, avevano pattugliato insieme l'immen sa estensione del parco nazionale, spesso a piedi o in bicicletta. In quei territori selvaggi avevano stretto un'amicizia che i successivi anni di separazione non avevano intaccato. Daniel si affacciò nell'interno semibuio del deposito e zufolò. « Diavolo, Johnny, ti sei dato parecchio da fare durante la mia assenza. » Il tesoro era ammonticchiato fino alle travature del tetto, e vale va parecchie centinaia di migliaia di dollari. Johnny Nzou lanciò un'occhiata al volto di Daniel e socchiuse gli occhi, mentre cercava un'ombra di critica nell'espressione dell'a mico. Fu una reazione istintiva, perché sapeva che Daniel era un al leato e capiva il problema anche meglio di lui. Tuttavia era un argo mento così carico emotivamente che era diventato inevitabile aspet tarsi disgusto e ostilità. Daniel, però, s'era voltato verso il suo cameraman. « Possiamo avere un po' di luce? Voglio qualche buona inquadratura dell'in terno. » Il cameraman si fece avanti, un po' curvo sotto il peso delle bat terie agganciate intorno alla vita, e accese il faretto portatile. Le grandi cataste del tesoro furono inondate da una cruda luce bian cazzurra. « Jock, voglio che tu segua me e il ranger lungo l'intero magazzi no », spiegò Daniel; il cameraman annuì e si avvicinò, tenendo in equilibrio sulla spalla la lustra telecamera Sony. Jock era sui trenta cinque anni. Indossava solo un paio di calzoncini e sandali aperti. Nel caldo della valle dello Zambesi, il torace nudo e abbronzato era lucido di sudore e i capelli lunghi erano trattenuti sulla nuca da un cinghiolo di pelle. Sembrava un cantante pop, ma era un artista del la telecamera. « Capito », disse, e fece una panoramica sui mucchi disordinati di zanne d'elefante, concludendo l'inquadratura sulla mano di Da niel che accarezzava un'elegante curva d'avorio. Poi controzumò per riprendere Daniel a figura intera. Non erano soltanto la libera docenza in biologia, i suoi libri e le conferenze che avevano fatto di Daniel un'autorità internazionale e uno dei portavoce dell'ecologia africana. Aveva l'aspetto sano di chi vive all'aperto e modi carismatici che facevano una magnifica impressione sul teleschermo. La voce poi era profonda e suadente; l'accento aveva sufficienti sfumature del famoso collegio militare di Sandhurst per ammorbidire i piatti toni vocalici del linguaggio colo niale. Suo padre era stato ufficiale di stato maggiore d'un reggimen to delle Guardie durante la seconda guerra mondiale, e aveva pre stato servizio nell'Africa settentrionale agli ordini di Wavel e di Montgomery. Dopo la guerra s'era trasferito in Rhodesia per colti vare il tabacco. Daniel era nato in Africa ma era stato rimandato in patria a completare gli studi a Sandhurst prima di tornare in Rhode sia per entrare nel Servizio dei parchi nazionali. « L'avorio », disse guardando l'obiettivo. « Fin dal tempo dei fa raoni, è considerato una delle sostanze naturali più belle e preziose. La gloria dell'elefante africano... e la sua maledizione. » Daniel incominciò a muoversi tra le cataste di zanne, e Johnny Nzou gli si affiancò. « Da duemila anni l'uomo dà la caccia agli ele fanti per procurarsi quest'oro bianco, vivente. Tuttavia solo dieci anni fa rimanevano ancora più di due milioni di elefanti nel conti nente africano. La popolazione degli elefanti sembrava una risorsa perennemente rinnovabile, un patrimonio protetto, sfruttato e con trollato... Ma poi è successo qualcosa di tragico. Negli ultimi dieci anni, circa un milione d'elefanti è stato massacrato. E quasi incon cepibile che si sia permessa una cosa simile. Noi siamo qui per ac certare che cosa è successo, e per scoprire in che modo l'esistenza minacciata dell'elefante africano possa essere salvata dall'estin
zione. » Si voltò verso Johnny. « Ecco qui con me John Nzou, direttore del parco nazionale di Chiwewe, uno dei nuovi conservazionisti africani. Per una curiosa coincidenza, il nome Nzou in lingua shona significa elefante. John Nzou è il signor Elefante e non soltanto di nome. Come direttore di Chiwewe, è responsabile di uno dei bran chi d'elefanti più numerosi e sani che s'incontrino in Africa. Ci di ca, direttore, quante zanne ci sono in questo magazzino? » « Al momento sono circa cinquecento... quattrocentottantasei per la precisione, con un peso medio di sette chili ciascuna. » « Sul mercato internazionale l'avorio vale trecentc dollari al chi lo », l'interruppe Daniel. « Perciò qui abbiamo più di un milione di dollari. Da dove provengono tutte queste zanne? » « Ecco, in parte sono state raccolte... provengono da elefanti trovati morti nel parco. In parte è avorio che i miei ranger hanno sequestrato ai bracconieri. Ma nella grande maggioranza sono il frutto delle operazioni di sfoltimento che il mio dipartimento è co stretto a intraprendere. » I due si fermarono in fondo al magazzino e si voltarono verso la telecamera. « Più tardi parleremo di questo programma, direttore. Ma prima può dirci qualcosa di più sull'attività dei bracconieri a Chiwewe? E molto dannosa? » « Sì, e peggiora ogni giorno. » Johnny scosse la testa. « Via via che gli elefanti del Kenya, della Tanzania e dello Zambia vengono annientati, i bracconieri s'interessano dei nostri branchi più a sud. Lo Zambia è appena al di là dello Zambesi, e i cacciatori di frodo che vengono da questa parte sono organizzati e armati meglio di noi. Sparano per uccidere... anche gli uomini, non solo gli elefanti e i rinoceronti. E noi siamo costretti a fare altrettanto. Se incontria mo una banda di bracconieri, spariamo per primi. » « E tutto per queste... » Daniel posò una mano su un mucchio di zanne. Non ce n'erano due eguali: ogni curva era unica. Alcune era no quasi diritte, lunghe e sottili come ferri da calza, altre si incurva vano come archi tesi. Alcune avevano punte acuminate come giavel lotti, altre tozze e smussate. C'erano zanne madreperlacee, e altre dai toni burrosi d'alabastro; altre ancora erano macchiate di scuro dai succhi vegetali, sfregiate e consunte dall'età. In gran parte l'avorio proveniva da elefanti femmine oppure era immaturo; alcune zanne, tolte ai piccoli, non erano più lunghe del l'avambraccio di un uomo. Pochissime erano grandi, curve e regali: l'avorio maturo dei vecchi maschi. Daniel ne accarezzò una. La sua espressione non era studiata per l'obiettivo. Ancora una volta sentiva il peso della malinconia che l'aveva spinto a scrivere della distruzione della vecchia Africa e del la sua fauna incantata. « A questo è stato ridotto un animale magnifico e saggio. » La sua voce si abbassò. « Anche se è inevitabile, non può sfuggirci la natura tragica dei cambiamenti che travolgono il continente. L'ele fante africano è il simbolo di questa terra. L'elefante sta morendo. Sta morendo anche l'Africa? » La sua sincerità era assoluta e la telecamera la registrava fedel mente. Era la ragione fondamentale dell'interesse enorme che i suoi programmi televisivi riscuotevano in tutto il mondo. Daniel si scosse e tornò a rivolgersi a Johnny Nzou. « Ci dica, direttore, l'elefante è condannato? Quanti di questi animali meravi gliosi avete nello Zimbabwe e quanti si trovano nel parco nazionale di Chiwewe? » « Si calcola che nello Zimbabwe esistano cinquantaduemila ele fanti, e per Chiwewe i nostri dati sono ancora più precisi. Appena tre mesi fa abbiamo effettuato un rilevamento aereo del parco, sponsorizzato dall'Unione internazionale per la conservazione della natura. L'intera area del parco è stata fotografata, e gli animali so no stati contati nelle foto ad alta risoluzione. »
« Quanti? » chiese Daniel. « Diciottomila solo a Chiwewe. » « E una popolazione enorme, all'incirca un terzo di tutti i capi rimasti nel paese.., e tutti in quest'area? » Daniel inarcò un soprac ciglio. « In questo predominante clima di pessimismo, immagino che sia un grande incoraggiamento. » Johnny Nzou aggrottò la fronte. « Al contrario, dottor Arm strong. Siamo estremamente preoccupati. » « Le dispiace spiegarsi meglio? » « E molto semplice. Non possiamo mantenere tanti elefanti. Ab biamo calcolato che per lo Zimbabwe la popolazione ideale sarebbe di trentamila capi. Un solo animale ha bisogno fino a una tonnella ta di sostanze vegetali al giorno, e per procurarsi il cibo arriva ad abbattere alberi secolari, magari dal tronco del diametro di un me tro e venti. » « Cosa succederà se lascerete che questo immenso branco conti nui a prosperare e a riprodursi? » « In un periodo brevissimo ridurranno il parco a una distesa pol verosa: e quando accadrà, per la popolazione degli elefanti sarà il tracollo. A noi non resterà più nulla: né alberi, né parco, né ele fanti. » Daniel annuì. Nel corso del montaggio, a quel punto avrebbe in serito una serie di scene che aveva ripreso qualche anno prima nel parco di Amboseli in Kenya. Erano scene allucinanti di devastazio ne, di terra rossa e brulla e di alberi morti, spogliati della corteccia e del fogliame, che tendevano i rami nudi in una supplica tormentosa verso il duro, azzurro cielo africano, mentre le carcasse disidratate dei grandi animali giacevano, come otri abbandonati, dove li aveva no uccisi la carestia e i bracconieri. « C'è una soluzione, direttore? » chiese Daniel a bassa voce. « Una soluzione drastica, purtroppo. » « Vuole mostrarcela? » Johnny Nzou alzò le spalle. « Non sarà uno spettacolo piacevole ma... sì, può assistere a ciò che dobbiamo fare »
Daniel si svegliò venti minuti prima del levar del sole. Gli anni trascorSi nelle città lontane dall'Africa e le tante aurore vissute nei climi settentrionali o tra i fluidi fusi orari dei viaggi in jet non ave vano cambiato l'abitudine acquisita in quella valle. Era un'abitudi ne che si era rafforzata durante gli anni della terribile guerra nella boscaglia rhodesiana, quando era stato chiamato a prestare servizio nelle forze dell'ordine. Per Daniel l'alba era il momento magico della giornata, soprat tutto in quella valle. Uscì dal sacco a pelo e prese gli stivali. Lui e i suoi uomini dormivano vestiti sulla terra cotta dal sole, con le braci del fuoco al centro delle figure sdraiate. Non avevano costruito un boma di rami spinosi per proteggersi anche se ogni tanto, durante la notte, avevano sentito i leoni ruggire lungo la scarpata. Daniel si allacciò gli stivali e uscì dal cerchio degli uomini addor mentati. La rugiada che costellava gli steli d'erba gli infradiciava i calzoni fino alle ginocchia, mentre si avviava verso il promontorio roccioso. Sedette sul ruvido granito grigio e si strinse nella giacca a vento. L'aurora arrivò furtiva e rapida, e dipinse di delicate sfumature di talco rosa e grigio le nubi sopra il grande fiume. Sulle acque ver de scuro dello Zambesi, la nebbia ondeggiava e palpitava come un ectoplasma spettrale e gli stormi d'anatre in volo erano nitidi sullo sfondo chiaro: le formazioni erano precise, le ali battevano svelte e parevano lame di coltello nella luce incerta. Un leone ruggì poco lontano: una serie di raffiche sonore che si spensero in una serie decrescente di borbottii lamentosi. Daniel rab brividì a quel suono. Sebbene l'avesse udito innumerevoli volte, gli
faceva sempre lo stesso effetto. Non c'era nulla di simile al mondo: per lui era la voce più autentica dell'Africa. Poi individuò il grosso felino sotto di lui, al margine della palu de. Il leone aveva il ventre pieno, la criniera scura, e teneva abbas sata la testa massiccia che dondolava al ritmo della camminata im periosa. La bocca era semiaperta e le zanne luccicavano dietro le labbra nere. Daniel lo guardò scomparire tra i fitti cespugli lungo il fiume e sospirò per il piacere di quell'apparizione. Poi sentì un movimento dietro di lui. Mentre stava per alzarsi, Johnny Nzou gli toccò la spalla per trattenerlo e sedette al suo fianco. Johnny accese una sigaretta. Daniel non era mai stato capace di parlare con lui per pura forza dell'abitudine. Rimasero seduti in un silenzio amichevole come avevano fatto tante volte e guardarono l'aurora fino al momento religioso in cui il sole affiorò ardente so pra la massa scura della foresta. La luce cambiò e tutto il mondo di venne lucido e invetriato come una ceramica preziosa appena uscita dal forno. « I cercatori di tracce sono arrivati al campo dieci minuti fa. Hanno trovato un branco. » Johnny spezzò il silenzio e l'atmosfera. Daniel si scosse e lo guardò. « Quanti? » « Una cinquantina. » Era un numero adatto. Non avrebbero po tuto occuparsene se fossero stati di più, perché la carne e la pelle si putrefacevano facilmente nel caldo della valle, e un numero inferio re non avrebbe giustificato l'utilizzazione degli uomini e dell'attrez zatura dispendiosa. « Sei sicuro di volerlo filmare? » chiese Johnny. Daniel annuì. « Ci ho pensato molto. Cercare di nasconderlo sa rebbe una disonestà. » « La gente mangia carne e porta indumenti di pelle, però non vuole vedere l'interno del mattatoio », osservò Johnny. « Stiamo affrontando un argomento complesso e carico di emo tività. La gente ha il diritto di sapere. » « Se me lo dicesse un altro, lo sospetterei di voler fare del gior nalismo scandalistico », mormorò Johnny, e Daniel aggrottò la fronte. « Con ogni probabilità sei l'unico cui permetto di dire una cosa simile... perché sai che non è vero. » « Sì, Danny, è così. Detesti tutto questo come lo detesto io, ep pure sei stato tu a insegnarmi che è necessario. » « Mettiamoci al lavoro », propose Daniel in tono brusco. Si alza rono e tornarono in silenzio verso i camion. C'era movimento nel campo, e il caffè bolliva sul fuoco. I ranger arrotolavano le coperte e i sacchi a pelo e controllavano i fucili. Erano quattro: due ragazzi negri e due bianchi, tutti al di sotto dei trent'anni. Portavano le semplici uniformi kaki con le mostrine verdi del Dipartimento dei parchi; e sebbene maneggiassero le armi con la disinvolta efficienza tipica dei veterani, chiacchieravano alle gramente. Si comportavano come vecchi commilitoni benché aves sero appena l'età per aver combattuto nella guerra della boscaglia, molto probabilmente in opposti schieramenti. Daniel si stupiva sem pre che fosse rimasta così poca animosità. Jock, il cameraman, stava già girando. Spesso Daniel aveva l'impressione che la Sony fosse un'appendice naturale del suo cor po, una specie di gobba. « Ti farò qualche domanda stupida, e forse dovrò provocarti un po' », disse Daniel a Johnny. « Le risposte già le conosciamo, ma dobbiamo fingere, no? » « Fai pure. » Johnny veniva bene nelle riprese. Daniel le aveva esaminate, la sera prima. Una delle comodità delle moderne attrezzature video era la possibilità di una visione immediata. Johnny sembrava un Cassius Clay giovane, prima che diventasse Mohammed Alì. Ma
aveva il volto più magro, una struttura ossea più fine e fotogenica L'espressione era mobile, e i toni della pelle non erano così scuri da rendere difficile la fotografia. Si accosciarono accanto al fuoco e Jock si avvicinò con la teleca mera. « Siamo accampati sulle rive dello Zambesi mentre sorge il sole e, poco lontano da qui, i suoi uomini hanno trovato un branco di cinquanta elefanti, direttore », disse Daniel a Johnny. « Mi ha spie gato che il parco di Chiwewe non può mantenere un grande numero di questi animali, e che, solo quest'anno, è necessario eliminarne al meno mille, non solo nell'interesse dell'ecologia, ma per la soprav vivenza degli altri branchi. Come intendete eliminarli? » « Dovremo sfoltirli », disse laconicamente Johnny. « Sfoltirli? Significa uccidere, non è vero? » « Sì. Io e i miei ranger gli spareremo. » « A tutti, direttore? Oggi ucciderete cinquanta elefanti? » « Li 'sfoltiremo' tutti. » « E i piccoli? Le femmine gravide? Non risparmierete neppure un animale? » « E necessario eliminarli tutti », insistette Johnny. « Ma perché, direttore? Non potreste addormentarli e trasferirli altrove? » « Il costo del trasporto di un elefante è enorme. Un grosso ma schio pesa sei tonnellate, una femmina media ne pesa quattro. Guardi la valle. » Johnny indicò la scarpata, i kopje accidentati e la foresta. « Avremmo bisogno di camion speciali e dovremmo costrui re strade per farli transitare. E anche se fosse possibile, dove li por teremmo? Le ho spiegato che nello Zimbabwe abbiamo almeno ven timila elefanti di troppo. Dove potrebbero andare? Non c'è posto. » « Quindi, diversamente dagli altri paesi più a nord come il Kenya e lo Zambia, che hanno permesso che i loro branchi venissero quasi annientati dal bracconaggio e da una politica conservazionista sba gliata, vi trovate in una situazione tipo Comma 22. Avete gestito troppo bene i vostri branchi: e adesso dovete uccidere e sprecare quegli animali meravigliosi. » « No, dottor Armstrong, non li sprecheremo. Recupereremo dal le carcasse molte cose di valore, l'avorio, le pelli, la carne, che ver ranno venduti. Il ricavato verrà reinvestito nell'ambito di un piano conservazionista, per impedire il bracconaggio e proteggere i nostri parchi nazionali. La morte di questi animali non sarà un totale abo minio. » « Ma c'è bisogno di uccidere le madri e i piccoli? » insistette Da niel. « Lei sta barando, dottore », ribatté Johnny. « Usa il linguaggio delle organizzazioni per i diritti degli animali: 'madri e piccoll'. Chiamiamoli femmine e cuccioli, e spieghiamo che una femmina mangia quanto un maschio e occupa altrettanto spazio, e che i cuc cioli diventano adulti. » « Quindi lei pensa... » chiese Daniel. Ma nonostante l'avverti mento di poco prima, Johnny era adirato. « Un momento. C'è qualcosa di più. Dobbiamo eliminare l'inte ro branco. E indispensabile non lasciare superstiti. Un branco di elefanti è un gruppo familiare complesso: quasi tutti i componenti sono parenti, legati da un'evoluta struttura sociale. L'elefante è un animale intelligente, forse il più intelligente dopo i primati, certo più di un gatto, di un cane, addirittura d'un delfino. Sanno, voglio dire, capiscono veramente... » Johnny s'interruppe e si schiarì la go la. S'era lasciato sopraffare dai sentimenti, e Daniel non l'aveva mai apprezzato come in quel momento. « La verità », continuò Johnny con voce rauca, « è che se ne la sciassimo in vita qualcuno, comunicherebbe terrore e panico agli al tri branchi del parco. E si avrebbe un rapido crollo del comporta mento sociale degli elefanti. »
« Non le sembra di esagerare, direttore? » chiese Daniel. « No, è già successo. Dopo la guerra c'erano diecimila elefanti di troppo nel parco nazionale di Wankie. A quel tempo sapevamo as sai poco delle tecniche e degli effetti delle operazioni di sfoltimento massicciO. Imparammo molto presto. I nostri primi tentativi ri schiarono di distruggere la struttura sociale dei branchi. Sparando agli animali più vecchi, eliminammo la possibilità che il loro patri monio di esperienza e di conoscenze venisse tramandato. Alteram mo gli schemi delle migrazioni, la gerarchia e la disciplina nei bran chi, persino le abitudini riproduttive. Come se capissero che il mas sacro era imminente, i maschi cominciarono a coprire le femmine appena mature, prima che fossero pronte. Come la femmina umana, l'elefantessa è matura per riprodursi a quindici o sedici anni, co me minimo. Sotto il terribile stress dello sfoltimento, i maschi di Wankie cercarono le femmine di appena dieci o undici anni, e i pic coli nati da questi accoppiamenti erano deboli esserini. » Johnny scosse la testa. « No, dobbiamo sterminare l'intero branco d'un col po solo. » Alzò lo sguardo verso il cielo. Entrambi avevano sentito il ron zio lontano di un aereo dietro la massa dei cumuli. « Ecco l'aereo per l'avvistamento », disse a bassa voce, e prese il microfono della radio. « Buongiorno, Sierra Mike: ti vediamo a sud della nostra posi zione, a circa sei chilometri e mezzo. Segnalo con fumo giallo. » Fece un cenno a un ranger, che strappò la sicura a un candelotto fumogeno. Il fumo sulfureo salì in una nube densa oltre le cime de gli alberi. « Roger, Parco. Ho visto il fumo. Datemi indicazioni sul bersa glio, prego. » Johnny aggrottò la fronte nel sentire la parola « bersaglio » e diede enfasi alla parola alternativa, nella risposta: « Ieri al tramonto il branco si spostava a nord verso il fiume, otto chilometri a sud-est dalla nostra posizione. Sono cinquanta e più animali ». « Grazie, Parco. Richiamerò quando li avrò avvistati. » Guardarono l'aereo che virava verso est. Era un vecchio mono motore Cessna che probabilmente aveva svolto compiti come K-car, killer-car, durante la guerra nella boscaglia. Dopo un quarto d'ora, la radio si fece sentire di nuovo. « Salve, Parco. Ho trovato il branco. Cinquanta capi e più, a tredici chilometri dalla vostra posizione. »
Il branco era sparpagliato sulle due rive di un corso d'acqua in secca, attraverso una linea bassa di colline sassose. Lì la foresta era più verde e lussureggiante, perché le radici attingevano all'acqua sotterranea. Le acacie erano cariche di baccelli che, simili a lunghe gallette brune, crescevano sulle estremità dei rami, a una ventina di metri dal suolo. Due femmine si avvicinarono a uno degli alberi. Erano le ma triarche del branco: sulla settantina, magre, con le orecchie sbrin dellate e gli occhi acquosi. Il legame tra loro durava da più di mezzo secolo: erano sorelle da parte di madre. La più vecchia era stata svezzata alla nascita della seconda e le aveva fatto da bambinaia con lo stesso affetto che avrebbe dimostrato, tra gli umani, una so rella maggiore. Avevano vissuto insieme, e da quella vita avevano tratto un patrimonio d'esperienza e di conoscenze che s'era aggiun to al profondo istinto ancestrale ereditato alla nascita. S'erano aiutate a vicenda durante le siccità, le carestie e le ma lattie, avevano condiviso la gioia delle piogge e del cibo abbondan te. Conoscevano tutti i nascondigli segreti delle montagne e le polle d'acqua nei luoghi deserti. Sapevano dove stavano in agguato i cac ciatori, e dov'erano i confini dei rifugi in cui loro e il branco erano al sicuro. Ognuna aveva fatto da levatrice all'altra; avevano lasciato
insieme il branco quando per una era venuto il momento di partori re, e la sorella, con la sua presenza, l'aveva confortata nelle soffe renze strazianti del parto. Avevano strappato l'una il sacco fetale dal neonato dell'altra, e avevano contribuito a istruire, disciplinare e allevare i piccoli fino alla maturità. Ormai non erano più fertili; ma la sicurezza del branco era an cora il loro dovere principale. La loro gioia e la loro responsabilità erano le femmine più giovani e i cuccioli che rappresentavano la lo ro discendenza. Forse è un eccesso di fantasia attribuire ad animali sentimenti umani come l'amore o il rispetto, credere che capiscano i legami del sangue o la continuità della stirpe; ma vedendo le vecchie femmine imporre il silenzio ai giovani troppo vivaci, alzando le orecchie e lanciando un rabbioso barrito; osservando il branco seguire il loro esempio con obbedienza indiscussa, nessuno poteva dubitare della loro autorità; se poi le si guardava accarezzare dolcemente con la proboscide i piccoli, o sollevarli nei tratti più difficili dei percorsi abituali, non si poteva mettere in dubbio la loro premura. Quando c'era in vista un pericolo, spingevano indietro i giovani e si avventa vano in difesa con le orecchie allargate e le proboscidi arrotolate, pronte a lanciarsi sul nemico per abbatterlo. I grandi maschi dall'ossatura torreggiante e dalla taglia massic cia erano più grandi di loro, ma non le superavano per astuzia e fe rocia. Le zanne dei maschi erano pm lunghe e grosse, e a volte pesa vano più di quaranta chili. Le due vecchie femmine avevano zanne esili e deformi, consunte, incrinate e ingiallite dagli anni, e le ossa spuntavano sotto la pelle grigia e sfregiata, tuttavia il loro senso del dovere verso il branco era incrollabile. I maschi mantenevano con il branco un'associazione piuttosto elastica. Quando invecchiavano, spesso preferivano separarsene, per formare piccoli gruppi di due o tre maschi scapoli, che andava no in cerca delle femmine solo quando erano attratti dall'odore ine briante dell'estro. Ma le vecchie femmine restavano con il branco: erano le solide fondamenta su cui si basava la struttura sociale. La comunità molto unita delle femmine e dei piccoli contava moltissi mo sulla loro esperienza e saggezza per le esigenze quotidiane e la sopravvivenza. Le due sorelle si avvicinarono in perfetta sintonia alla gigantesca acacia carica di baccelli, piazzandosi ai due lati del tronco. Appog giarono la fronte contro la corteccia ruvida. Il tronco aveva un dia metro di oltre un metro e venti ed era solido come una colonna di marmo. A trenta metri dal suolo, i rami formavano un disegno in tricato, i baccelli e le fronde verdi erano come la cupola d'una catte drale che spiccava contro il cielo. Le due vecchie femmine cominciarono a ondeggiare avanti e in dietro, premendo il tronco con le fronti. Dapprima l'acacia rimase rigida, resistendo alla loro forza immane. Le femmine, tuttavia, in sistettero, ostinate; prima una e poi l'altra spingevano con tutto il loro peso in direzioni opposte. Alla fine un fremito scosse l'albero e sopra di loro i rami più alti tremarono come sotto il soffio d'una brezza. Le due vecchie femmine continuarono a lavorare ritmicamente e il tronco cominciò a muoversi. Un baccello maturo si staccò dal ra mo e cadde per trenta metri, spaccandosi sulla testa d'una delle ele fantesse che chiuse gli occhi acquosi ma non cambiò ritmo. Il tron co ondeggiava e tremava, dapprima lentamente, poi più in fretta. Un altro baccello e poi un altro ancora caddero come le prime gocce di un acquazzone. I capi più giovani del branco capirono ciò che le femmine stava no facendo: agitarono le orecchie e si avvicinarono in fretta. I bac celli d'acacia, ricchi di proteine, erano una gradita leccornia. Gli elefanti si affollarono intorno alle due vecchie femmine, arraffaro no i baccelli che cadevano e se li cacciarono in gola con le probosci
di. Ormai il grande albero oscillava avanti e indietro: i rami e le fronde vibravano all'impazzata. I baccelli e i ramoscelli staccati grandinavano al suolo, rimbalzando sui dorsi degli elefanti radunati ai piedi del tronco. Le femmine, salde alla pari di due fermalibri, insistettero tenace mente fino a che la pioggia dei baccelli cominciò a diradarsi. Solo quando cadde l'ultimo si scostarono dall'albero. Avevano le groppe cosparse di foglie morte e di fuscelli, frammenti di corteccia e bac celli vellutati, e le zampe erano immerse nei detriti. Abbassarono le proboscidi e raccolsero con delicatezza i baccelli dorati e li portaro no alle bocche spalancate con le triangolari labbra inferiori. Comin ciarono poi a mangiare mentre il secreto delle ghiandole facciali ba gnava le loro guance, simile a lacrime di piacere. Il branco si affollava intorno a loro per partecipare al banchet to. Le lunghe proboscidi serpentine si torcevano e oscillavano, i baccelli finivano nelle gole, e si sentiva un suono sommesso che sembrava riverberare nelle grandi masse grige. Era un rombo dai molti toni, inframmezzato da squittii gorgoglianti appena udibili per l'orecchio umano. Era uno strano coro di soddisfazione, cui partecipavano anche gli animali più giovani: un suono che sembra va esprimere la gioia della vita e confermare il legame profondo che univa tutti i membri del branco. Era il canto degli elefanti. La prima a percepire un pericolo fu una delle vecchie femmine. Comunicò la sua preoccupazione con un suono altissimo, al di so pra del registro dell'udito umano, e l'intero branco rimase di colpo immobile, in silenzio. Anche i cuccioli più piccoli reagirono imme diatamente. Quel silenzio dopo il gaio frastuono della festa era stra no, e il ronzio dell'aereo lontano sembrava, per contrasto, ancora più forte. Le vecchie femmine riconobbero il rumore del motore del Cessna. L'avevano udito molte volte negli ultimi anni, e avevano finito per associarlo ai periodi di più intensa attività dell'uomo, di tensione e di inspiegabile terrore che sentivano trasmettere telepaticamente da altri gruppi di elefanti nel parco. Sapevano che quel suono nell'aria era il preludio a un crepitio di spari lontani e al lezzo del sangue d'elefante portato dalle correnti d'aria lungo il ciglio della scarpata. Spesso, dopo che il rombo del l'aereo e gli spari erano cessati, avevano trovato vaste aree della fo resta dove il terreno era incrostato di sangue secco, e avevano senti to l'odore della paura, della sofferenza e della morte esalate dai membri della loro razza, mescolato al fetore del sangue e delle vi scere putrefatte. Una delle vecchie femmine indietreggiò e scosse irosamente la te sta al suono che veniva dal cielo. Le orecchie sbrindellate batterono con forza contro le spalle, con un suono simile a quello della vela maestra d'una nave che si gonfia di vento. Poi girò su se stessa e si mise a correre precedendo il branco. Con loro c'erano due maschi adulti; ma, alla prima minaccia, si staccarono e scomparvero nella foresta. S'erano resi conto istintiva mente che il branco era vulnerabile, e cercavano la salvezza in una fuga solitaria. Le femmine più giovani e i cuccioli si affollarono die tro le matriarche; i piccoli correvano per star dietro al passo più lungo delle madri e, in circostanze diverse, la loro fretta sarebbe ap parsa comica. « Pronto, Parco. Il branco è in fuga verso sud, in direzione del passo di Imbezeli. » « Roger, Sierra Mike. Per favore, spingili verso la deviazione dei Mana Pools. » La vecchia femmina guidava il branco verso le colline. Voleva abbandonare il fondovalle per avventurarsi nella zona accidentata dove l'inseguimento sarebbe stato ostacolato dalle rocce e dai gra dienti ripidi: ma il suono dell'aereo ronzava davanti a lei e la taglia
va fuori dall'imboccatura del passo. Si fermò, incerta, alzò la testa verso il cielo dove le alte monta gne di cumuli erano ammassate fino allo zenit. Allargò le orecchie, consunte e lacerate dalle intemperie e dai rovi, e girò la vecchia testa per seguire il suono spaventoso. Poi vide l'aereo. La prima luce del sole lampeggiava sul para brezza mentre l'apparecchio virava davanti a lei e scendeva in pic chiata, basso sopra le cime degli alberi, e il suono del motore diven tava un ruggito. Le due vecchie femmine si voltarono all'unisono e tornarono in dietro, verso il fiume. Dietro di loro, il branco si girò come una di sordinata formazione di cavalleria. Mentre correva, la polvere si al zava in una nube pallida, ancora più alta delle cime degli alberi. « Parco, il branco sta venendo verso di voi. A circa dodici chilo metri dalla deviazione. » « Grazie, Sierra Mike. Continua a mandarli verso di noi. Non farli correre troppo. » « D'accordo, Parco. » « A tutte le unità-K- » Johnny Nzou cambiò il segnale. « A tutte le unità-K, convergere verso la deviazione dei Mana Pools. » Le unità-K, le squadre dei killer, erano i quattro Land Rover lungo la pista principale che scendeva dal quartier generale di Chi wewe verso la scarpata e il fiume. Johnny le aveva fatte piazzare in fila perché, in caso di necessità, dirottassero il branco, ma sembrava che non ce ne fosse bisogno. L'aereo, con efficienza professionale, stava spingendo da solo gli elefanti in posizione. « Sembra che ce la faremo al primo tentativo », mormorò Johnny mentre invertiva la direzione del Land Rover girandolo di centottanta gradi e lo lanciava lungo la pista. Una fascia erbosa cre sceva fra i solchi lasciati dalle ruote, e il fuoristrada sobbalzava sul le irregolarità del terreno. Il vento soffiava sulle loro teste, e Daniel si tolse il berretto per infilarselo in tasca. Jock stava riprendendo la scena quando una mandria di bufali, disturbata dal rumore del Land Rover, uscì dalla foresta e attraver sò la pista proprio davanti a loro. « Accidenti! » Johnny frenò e diede un'occhiata all'orologio. « Quegli stupidi nyati rovineranno tutto. » Centinaia di scure sagome bovine avanzavano in una falange compatta: galoppavano, sollevavano polvere bianca, grugnivano e muggivano, spandendo verde letame liquido sull'erba schiacciata. Passarono pochi minuti, e Johnny accelerò in mezzo alla nube di polvere e sulla terra smossa dal passaggio della mandria. Oltre una curva della pista, vide gli altri veicoli fermi all'incrocio. I quat tro ranger stavano in gruppo lì accanto, con i fucili fra le mani e le teste rivolte all'indietro: li aspettavano. Johnny fermò il Land Rover e prese il microfono della radio. « Sierra Mike, segnalami la posizione, prego. » « Parco, il branco è a poco più di tre chilometri da voi e si sta avvicinando a Long Vlei. » Un vlei è una depressione nella prateria, e Long Vlei correva per chilometri e chilometri parallelamente al fiume. Nella stagione delle piogge diventava un acquitrino: ma adesso era il terreno ideale per il massacro. Era già stato utilizzato altre volte per quello scopo. Johnny balzò a terra e prese il fucile dalla rastrelliera. Lui e tutti i suoi ranger erano armati di fucili 375 magnum, prodotti in serie e poco costosi, caricati con munizioni massicce per ottenere la massi ma penetrazione nelle ossa e nei tessuti. I suoi uomini erano stati scelti per quel compito perché erano ottimi tiratori. La strage dove va essere il più possibile rapida e pietosa. Avrebbero mirato al cer vello anziché al corpo. « Andiamo! » ordinò Johnny. Non c'era bisogno di dare istru zioni; erano tutti professionisti, tuttavia, anche se avevano fatto molte volte quel lavoro, erano scuri in volto e nei loro occhi non
c'era eccitazione. Quello non era uno sport. La prospettiva dei mo menti sanguinosi che li attendevano non era tale da rallegrarli. Portavano soltanto calzoncini e velskoen senza calzettoni. Le so le cose pesanti erano le armi e le bandoliere con le munizioni intor no alla vita. Erano tutti magri e muscolosi, e Johnny Nzou era soli do quanto loro. Corsero incontro al branco. Daniel seguì Johnny Nzou. Era convinto di essersi tenuto in for ma con corse e allenamenti, ma aveva dimenticato cosa significava essere nelle condizioni ideali per la caccia e il combattimento, come lo erano Johnny e i suoi ranger. Correvano come segugi, si muovevano nella foresta quasi senza sforzo, mentre i piedi sembravano trovare da soli la strada fra arbu sti e rocce, rami caduti e tane di oritteropi, toccando a malapena la terra al loro passaggio. Un tempo anche Daniel aveva corso come loro, ma adesso i suoi stivali sbattevano pesantemente sul suolo. Un paio di volte inciampò sul terreno irregolare. Cominciò a rimanere indietro con il cameraman. Johnny Nzou fece un segnale con la mano e i suoi ranger si di sposero in una lunga linea, separati di cinquanta metri l'uno dall'al tro. Più avanti, la foresta lasciava improvvisamente il posto alla ra dura scoperta di Long Vlei. Era ampia trecento metri: l'erba secca color beige arrivava alla cintura. La linea degli uccisori si fermò al limitare della foresta. Tutti si voltarono a guardare Johnny che era al centro, ma lui aveva la testa rivolta all'indietro per seguire l'aereo, lontano, sopra la foresta. Sta va virando, quasi verticale su un'ala. Daniel lo raggiunse. Lui e Jock ansavano, sebbene avessero cor so per poco più di un chilometro. Invidiava Johnny. « Eccoli », sussurrò quest'ultimo. « Si vede la polvere. » Era co me un velo di foschia sopra le cime degli alberi fra loro e l'aereo che volava in cerchio. « Si avvicinano in fretta. » Johnny mulinò il braccio destro, e, al comando, la linea si estese disponendosi in una configurazione concava come le corna d'un bu falo, con Johnny al centro. A un nuovo segnale gli uomini avanza rono velocemente nella radura. La brezza leggera soffiava loro in faccia. Il branco non avrebbe sentito il loro odore. Sebbene all'inizio fossero fuggiti nel vento per non incontrare il pericolo, l'aereo aveva costretto i pachidermi a cambiare direzione. Gli elefanti non hanno la vista acuta: non avrebbero distinto la fila di figure umane fino a che non fosse stato troppo tardi. La trappola era pronta a scattare e il branco stava per finirvi dentro so spinto dal Cessna che volava a bassa quota. Le due vecchie femmine uscirono correndo dagli alberi. Le zam pe ossute si muovevano rapide, le orecchie erano inclinate all'indie tro, le grinze della pelle grigia tremolavano e vibravano a ogni pas so. Il resto del branco era sgranato dietro di loro. I cuccioli più pic coli cominciavano a stancarsi, e le madri li sospingevano con le pro boscidi. La fila dei giustizieri era immobile, disposta a semicerchio come l'imboccatura di una rete protesa per catturare un banco di pesci. Gli elefanti avrebbero notato il movimento più rapidamente di quanto avrebbero riconosciuto le confuse sagome umane inquadrate dagli occhi deboli e appannati dal panico. « Colpite per prime le due nonne », ordinò Johnny a voce bassa. Aveva riconosciuto le matriarche e sapeva che, eliminate quelle, il branco si sarebbe disorganizzato. L'ordine fu trasmesso lungo la linea. La prima femmina si avventò direttamente verso il punto dove si trovava Johnny Nzou, e questi lasciò che il branco continuasse ad avvicinarsi. Teneva il fucile stretto al petto. A una distanza di cento metri, le due elefantesse cominciarono a deviare per allontanarsi da lui, verso sinistra. Solo allora Johnny si mosse.
Alzò il fucile, lo agitò sopra la testa e gridò in sindebele: « Nanzi Inkosikaze... sono qui, rispettabile vecchia signora ». Per la prima volta le due elefantesse capirono che quello non era un tronco d'albero ma un nemico mortale. Deviarono immediata mente concentrando tutto l'odio ancestrale, il terrore e la preoccu pazione per la sorte del branco verso di lui. Si lanciarono alla ca rica. Allungarono il passo, barrendo furiosamente, mentre la polvere si sollevava sotto le zampe colossali; le orecchie erano ripiegate al I mdietro, in segno di collera. Torreggiavano sul gruppo delle minu Scole figure umane. Daniel si augurò disperatamente di aver preso un arma. Aveva dimenticato quanto fosse terrificante quel momen to, con la femmina più vicina che, a cinquanta metri appena, avan zava a sessantacinque chilometri orari. Jock continuava a riprendere la scena, anche se ormai i barriti furiosi delle due femmine venivano ripetuti dall'intero branco. Piombavano verso gli uomini come una valanga di granito grigio, come se una rupe fosse stata fatta saltare con un esplosivo potentis simo. Quando la distanza si ridusse a circa trenta metri, Johnny Nzou si portò il fucile alla spalla e si tese in avanti per assorbire il rinculo. La canna di acciaio azzurrognolo non aveva un mirino telescopico: per quel genere di lavoro a distanza ravvicinata si serviva di un miri no express aperto. Da quando era stato introdotto nel 1912, migliaia di sportivi e di cacciatori professionisti avevano confermato che il 375 Holland & Holland era il fucile più versatile ed efficiente mai portato in Afri ca. Aveva tutti i pregi della precisione e del rinculo moderato, men tre il proiettile massiccio da trecento grani era un prodigio della ba listica, dotato di traiettoria tesa e di straordinaria penetrazione. Johnny mirò alla testa della prima femmina, alla grinza della proboscide fra i vecchi occhi miopi. Lo sparo echeggiò, secco come lo schiocco d'una frusta per tori, e un pennacchio di polvere si levò dalla superficie della vecchia pelle rugosa nel punto esatto del cra nio dove Johnny aveva mirato. Il proiettile affondò nella testa con la facilità di un chiodo d'ac ciaio piantato in una mela matura. Distrusse la metà superiore del cervello; la femmina piegò le zampe anteriori, e Daniel sentì il terre no sobbalzare sotto i suoi piedi quando l'elefantessa stramazzò in un turbine di polvere. Johnny si mosse di scatto per mirare alla seconda femmina nel momento in cui arrivava vicina alla carcassa della sorella. Ricaricò senza staccare dalla spalla il calcio del fucile, azionando semplice mente l'otturatore. Il bossolo d'ottone schizzò in un'alta parabola lucente, e Johnny sparò di nuovo. Il suono dei due colpi si confuse: erano partiti in una successione così rapida da ingannare l'orecchio e apparire come un'unica detonazione prolungata. Anche questa volta il proiettile arrivò esattamente a segno, e la seconda femmina morì come l'altra: all'istante. Le zampe cedettero. Stramazzò e si rovesciò sul fianco, con la spalla che toccava quella della sorella. Al centro della fronte di ciascuna, dai fori minuscoli dei proiettili eruppero rossi pennacchi di sangue. Il branco, dietro di loro, piombò nella confusione. Gli elefanti si mUovevano in cerchio, calpestavano l'erba e sollevavano una corti na di polvere tale da nascondere la scena. Le loro sagome appariva no eteree e indistinte. I piccoli cercavano riparo sotto il ventre delle madri, con le orecchie appiattite contro il cranio, e venivano urtati e scagliati qua e là dai movimenti convulsi delle femmine. I ranger si avvicinarono sparando senza sosta. Il crepitio dei col pi era incessante come quello della grandine su un tetto di lamiera. Miravano al cervello degli elefanti. A ogni sparo uno degli animali sussultava o alzava la testa mentre i proiettili massicci spezzavano l'osso del cranio con il suono di una palla da golf colpita con esat
tezza. E a ogni sparo uno degli animali crollava, morto o stordito. Quelli che venivano uccisi sul colpo, ed erano la maggioranza, cade vano sulle zampe posteriori e piombavano al suolo come pesi morti. Quando il proiettile mancava il cervello ma gli passava vicino, l'ele fante barcollava e stramazzava scalciando, si rotolava sul fianco con un terribile gemito di disperazione e protendeva invano la pro boscide verso il cielo. Uno dei piccoli era imprigionato sotto la carcassa della madre morta e giaceva gridando con la schiena spezzata, in preda alla sof ferenza e al panico. Alcuni animali si trovarono bloccati da una barricata di compagni caduti: s'impennarono e cercarono di scaval carli. I tiratori li abbatterono, facendoli crollare sui corpi degli ele fanti già morti, mentre altri ancora cercavano di issarsi e venivano abbattuti a loro volta. Tutto finì in fretta. In pochi minuti tutti gli adulti giacevano gli uni accanto agli altri oppure accatastati in mucchi sanguinanti. Sol tanto i cuccioli correvano ancora in cerchio, frastornati, inciampa vano nei corpi dei morti e dei morenti, barrivano e strattonavano i cadaveri delle madri. I tiratori si avvicinarono lentamente, in un cerchio sempre più stretto di canne di fucile intorno al branco devastato. Sparavano e ricaricavanO, sparavano di nuovo mentre continuavano ad avanza re. Abbatterono i cuccioli e, quando non rimase più in piedi un solo elefante, avanzarono in fretta in mezzo al branco, muovendosi fra i grandi corpi distesi e soffermandosi solo per sparare un colpo di grazia a ognuna delle enormi teste sanguinanti. Molto spesso non c erano reazioni al secondo colpo al cervello; ma ogni tanto un ele fante non ancora morto sussultava tendendo le membra e sbattendo gli occhi prima di accasciarsi senza vita. Sei minuti dopo il primo sparo di Johnny, il silenzio scese sul terreno del massacro a Long Vlei. Ma nelle orecchie degli uomini echeggiava ancora il ricordo brutale di quei colpi. Non c'era alcun movimento: gli elefanti giacevano come grano dietro le lame delle falciatrici, e la terra arida assorbiva il sangue. I ranger erano ancora distanti l'uno dall'altro, silenziosi, sgomentati dalla strage che ave vano compiuto, e guardavano con occhi pieni di rimorso la monta gna dei morti. Cinquanta animali, duecento tonnellate di carnefi cina. Johnny Nzou spezzò il tragico incantesimo che li dominava. Lentamente si avvicinò alle due vecchie femmine che giacevano alla testa del branco. Erano a fianco a fianco, con le spalle che si tocca vano e le zampe piegate: stavano inginocchiate come se fossero an cora vive. Solo le fontane di sangue che sgorgavano dalle loro fronti cancellavano l'illusione. Johnny appoggiò a terra il calcio del fucile e vi si appoggiò. Os servò le due matriarche con rammarico per un lungo istante. Non s'era accorto che Jock lo stava riprendendo. Le sue azioni e le sue parole erano del tutto spontanee. « Hamba gahle, Amakhulu », mormorò. « Andate in pace, vec chie nonne. Siete unite nella morte come lo eravate nella vita. An date in pace e perdonateci. » Si avviò al margine degli alberi. Daniel non lo seguì. Capiva che sentiva il bisogno di restare un po' solo. Anche gli altri ranger si evitavano. Non ridevano, non si scambiavano congratulazioni; due di loro si aggiravano fra i cadaveri colossali con un'aria stranamen te sconsolata; un terzo era accosciato nel punto dove aveva sparato l'ultimo colpo, fumando una sigaretta e studiando il terreno polve roso, mentre un altro aveva posato il fucile e, con le mani affondate nelle tasche e le spalle curve, guardava il cielo dove si stavano radu nando gli avvoltoi. All'inizio i rapaci erano puntolini minuscoli contro le montagne abbaglianti dei cumuli, come granelli di pepe sparsi su una tovaglia. Poi si avvicinarono, formando squadriglie volteggianti sopra il ter
reno della strage, e le loro ombre passarono sui corpi senza vita am mucchiati al centro di Long Vlei. Dopo quaranta minuti, Daniel sentì il rombo dei camion che si avvicinavano e li vide avanzare lentamente nella foresta. Una squa dra di boscaioli seminudi precedeva il convoglio: aveva l'incarico di abbattere i cespugli e aprire un passaggio. Johnny si alzò con aria di sollievo dall'angolo dov'era seduto al margine degli alberi, e andò ad assumere la direzione del lavoro. Il mucchio degli elefanti morti fu separato con argani e catene. Poi la pelle grigia e rugosa venne tagliata lungo i ventri e le spine dorsali. Gli argani elettrici furono rimessi in funzione e la pelle, quando il tessuto sottocutaneo lasciava la presa, si staccava dalle carcasse con suoni crepitanti, in lunghe strisce, grige e rugose all'e sterno, e all'interno d'un bianco lucido. Gli uomini le posavano a una a una sul terreno polveroso e le coprivano con sale grosso. Le carcasse nude sembravano stranamente oscene nella luce ful gida del sole, bagnate e screziate di grasso bianco e di muscoli scar latti messi allo scoperto. I ventri erano gonfi, come se invitassero i coltelli a colpirli. Uno scuoiatore infilò la punta curva del coltello nel ventre d'una delle vecchie femmine, nel punto dove s'innestava lo sterno. Misurò con cura la profondità del taglio per non trafiggere intestini e cam minò lungo la carcassa, trascinando la lama come una chiusura lampo lungo il ventre, fino a che lo aprì e lo stomaco si affacciò, lu cido come la seta di un paracadute. Poi le spire colossali delle visce re scivolarono fuori, quasi fossero dotate di vita propria. Come pi toni ridestati, si torcevano e si snodavano sotto l'impeto del loro stesso peso. Gli uomini armati di seghe portatili si misero all'opera. Il frago re dei motori a due tempi sembrava quasi sacrilego in quel luogo di morte, e sbuffi di fumo azzurrognolo salivano nell'aria. Tranciava no gli arti dalle carcasse, e un turbine di frammenti d'osso e di car ne volava dai denti d'acciaio. Poi affondarono nelle spine dorsali e nelle costole e le carcasse furono divise in pezzi che vennero caricati con gli argani nelle celle frigorifere dei camion. Una squadra speciale andava da una carcassa all'altra con lun ghi grappini, e frugava nelle viscere molli per estrarre gli uteri delle femmine. Daniel li vide aprirne uno, violaceo e coperto da una fitta rete di vasi sanguigni. Dal sacco fetale, in un getto di liquido am niotico, scivolò fuori un feto grosso come un cane che finì sull'erba calpestata. Era un elefantino perfetto, a poche settimane dal termine, co perto da un vello di pelame rossastro che avrebbe perduto poco do po la nascita. Era ancora vivo e muoveva debolmente la proboscide. « Uccidetelo », ordinò bruscamente Daniel in sindebele. Era im probabile che l'elefantino soffrisse, ma Daniel si voltò con un cenno di sollievo quando uno degli uomini gli staccò la testa con un colpo di panga. Era nauseato; ma sapeva che nulla sarebbe andato spreca to. La pelle dell'elefantino non nato era fine e preziosa, e valeva qualche centinaio di dollari per ricavarne borsette o valige. Per distrarsi attraversò il vlei. Ormai restavano solo le teste dei grossi animali e i mucchi lucidi degli intestini. Dalle viscere non si poteva ricavare nulla di utile: le avrebbero abbandonate ad avvol toi, iene e sciacalli. Le zanne, ancora incassate nei castelli d'osso, erano il frutto più prezioso dell'operazione di sfoltimento. I bracconieri e i cacciatori d'avorio d'un tempo non avrebbero corso il rischio di danneggiarle con un imprudente colpo di scure, e di solito le avrebbero lasciate nel cranio fino a che gli involucri cartilaginosi che le trattenevano fossero imputriditi allentando la stretta. Entro quattro o cinque giorni sarebbe stato possibile estrarre le zanne, perfette e senza sfre gi. Ma non c'era tempo da perdere in quella procedura. Le zanne dovevano essere tagliate a mano.
Gli scuoiatori cui era affidato il compito erano gli uomini più esperti, di solito i più anziani, con le teste grige e lanose e i perizomi macchiati di sangue. Si accosciavano accanto alle teste e battevano pazientemente con le asce indigene. Mentre erano occupati in quel lavoro meticoloso, Daniel li os servava insieme con Johnny Nzou. Jock li inquadrava con la Sony mentre Daniel commentava: « Un'impresa sanguinosa ». « Ma necessaria », ribatté laconicamente Johnny. « In media un elefante adulto rende circa tremila dollari fra avorio, pelle e carne. » « A molti sembrerà una mentalità commerciale, soprattutto quando avranno visto la dura realtà dello sfoltimento. » Daniel scosse la testa. « Saprà che è in corso una campagna molto energica, guidata dai gruppi per i diritti degli animali, perché gli elefanti ven gano inseriti nell'appendice uno della CITES, la Convenzione per il commercio internazionale delle specie in pericolo. » « Sì, lo so. » « Se questo avverrà, sarà proibito il commercio di tutti i prodotti degli elefanti: la pelle, l'avorio e la carne. Cosa ne pensa, diret tore? » « Mi irrita moltissimo. » Johnny gettò a terra la sigaretta e la cal pestò. Aveva un'espressione feroce. « Impedirebbe ogni ulteriore operazione di sfoltimento, non è vero? » insistette Daniel. « No, affatto », lo contraddisse Johnny. « Saremmo costretti co munque a controllare l'entità dei branchi, saremmo comunque ob bligati a sfoltirli. L'unica differenza sarebbe questa: non potremmo vendere i prodotti. Sarebbe uno spreco tragico e criminale. Perde remmo milioni di dollari di reddito che attualmente vengono sfrut tati per proteggere, ampliare e far funzionare le oasi per la fauna selvatica... » Johnny s'interruppe per guardare due scuoiatori che estraevano una zanna dall'osso spugnoso del cranio e la posavano con delicatezza sull'arlda erba bruna. Uno di loro tirò il nervo gela tinoso e grigio dalla cavità della zanna. Johnny continuò: « Quella zanna ci permette di giustificare l'esistenza dei parchi e degli anima li che li popolano agli occhi delle tribù locali che vivono in stretto contatto con gli animali selvatici e vicino ai confini delle aree nazio nali a loro riservate ». « Non capisco », l'incoraggiò Daniel. « Vuol dire che le tribù lo cali guardano con risentimento i parchi e la popolazione animale? » « No, se possono ricavarne un profitto personale. Se possiamo dimostrargli che una femmina d'elefante vale tremila dollari e che un cacciatore straniero è disposto a spendere fino a cinquanta o centomila dollari per uccidere un maschio da trofeo, se possiamo mostrargli che un solo elefante vale cento o mille delle loro capre o dei loro buoi e che riceveranno una parte di quel denaro, allora ca piranno perché vale la pena di conservare i branchi. » « Vuol dire che i contadini del posto non attribuiscono alcun va lore alla fauna selvatica in se stessa? » Johnny rise amaramente. « Quello è un lusso e un'affettazione dei Paesi occidentali, non del Terzo Mondo. Qui le tribù vivono molto vicino al livello di sussistenza. Una famiglia media ha un red dito di centoventi dollari l'anno, dieci dollari al mese. Non possono permettersi di destinare terreni da coltura e da pascolo a un animale bello ma inutile. Se la fauna selvatica deve sopravvivere in Africa, deve anche pagarsi il vitto. In questa terra crudele nulla è gratis. » « Eppure ci sarebbe da credere che, vivendo così vicini alla natu ra, abbiano per essa un'affinità istintiva, un sentimento particola re », insistette Daniel. « Oh, sì, certo, ma su un piano del tutto pratico. Per millenni l'uomo primitivo, vivendo con la natura, l'ha trattata come una ri sorsa rinnovabile. Gli eschimesi vivevano di caribù, foche e balene, gli indiani d'America delle mandrie di bisonti e capivano istintiva mente quel tipo di gestione che noi non abbiamo mai realizzato.
Erano in equilibrio con la natura. Poi arrivarono i bianchi con gli arpioni esplosivi e i fucili Sharpe oppure, qui in Africa, con le leggi sulla caccia e decisero che era un reato per i negri cacciare sulla loro terra, riservando la fauna africana a pochi eletti che potevano osser varla e ammirarla. » « Sta diventando razzista », lo rimproverò gentilmente Daniel. « Il vecchio sistema coloniale proteggeva la fauna selvatica. » « E com'era sopravvissuta per un milione di anni prima dell'arri vo dei bianchi? No, il sistema coloniale della gestione della fauna era protezionista, non conservazionista. » « Protezione e conservazione non sono la stessa cosa? » « Sono diametralmente opposte. Il protezionista nega all'uomo il diritto di sfruttare l'abbondanza della natura, negando il diritto di uccidere un animale vivente, anche se questo minaccia la sopravvi venza della specie nel suo complesso. Se oggi fosse qui, ci vieterebbe quest'operazione di sfoltimento, e non vorrebbe vedere le conse guenze finali della proibizione che, come abbiamo visto, segnerebbe l'estinzione finale dell'intera popolazione degli elefanti e la distru zione della foresta. « Tuttavia l'errore più grave dei vecchi protezionisti coloniali fu escludere le tribù africane dai benefici della conservazione control lata. Negarono loro la dovuta parte del bottino e fecero nascere così un risentimento verso la fauna selvatica. Distrussero l'istinto natu rale per la gestione delle risorse; tolsero loro il controllo della natu ra e le misero in competizione con gli animali. Il risultato è che il contadino negro medio è ostile alla fauna. Gli elefanti fanno scorre rie nei suoi orti e distruggono gli alberi che vorrebbe usare per il fuoco. I bufali e le antilopi mangiano l'erba con cui vorrebbe in grassare il suo bestiame. Il coccodrillo gli ha divorato la nonna, il leone gli ha ammazzato il padre... Logicamente è pieno di risenti mento verso i branchi di animali. » « E qual è la soluzione, direttore, ammesso che esista? » « Da quando ci siamo resi indipendenti dal sistema coloniale ab biamo cercato di cambiare la mentalità della nostra gente », rispose Johnny. « All'inizio pretendeva di entrare nei parchi nazionali, crea ti dai bianchi, per abbattere gli alberi, far pascolare le bestie e co struire villaggi. Tuttavia abbiamo avuto un grande successo nell'e ducarla al valore del turismo, dei safari e dello sfoltimento control lato. Per la prima volta ha potuto partecipare ai profitti e adesso ha sviluppato un modo nuovo di intendere la conservazione e lo sfrut tamento, accettati soprattutto dai giovani. Ma se i ben intenzionati protezionisti d'America e d'Europa riuscissero a vietare la caccia e il commercio dell'avorio, tutti i nostri sforzi sarebbero vani. Proba bilmente per gli elefanti africani suonerebbero campane a morto e sarebbe la fine per tutta la fauna. » « Quindi, in ultima analisi, il problema è economico? » chiese Daniel. « Come sempre, a questo mondo, è una questione di denaro », confermò Johnny. « Se ci deste quattrini a sufficienza, noi ferme remmo i bracconieri. Se fate in modo che i contadini ci guadagnino, terremo lontani dai parchi sia gli uomini sia le loro capre. Ma i soldi devono arrivare da qualche parte. I nuovi Stati africani indipenden ti, con l'esplosione della popolazione umana, non possono prender si, come i paesi occidentali, il lusso di chiudere sottochiave il loro patrimonio naturale. Devono sfruttarlo e conservarlo. Se ci impedi te di farlo, vi renderete colpevoli di aver contribuito all'estinzione della fauna africana. » Johnny annuì rabbiosamente. « Sì, è una questione economica. Se la selvaggina paga, allora può anche re stare. » Andava bene così. Daniel accennò a Jock di smettere di girare e strinse la spalla di Johnny. « Potrei fare di te un divo. Sei un attore nato », disse, solo a me tà per scherzo. « Cosa ne dici, Johnny? Potresti fare molto di più
per l'Africa sullo schermo di quanto tu faccia qui. » « Vuoi che viva tra alberghi e aerei invece di dormire sotto le stelle? » Johnny si finse indignato. « Tu vuoi che metta su pancia? » Diede una gomitata allo stomaco di Daniel. « E che sbuffi e soffi quando corro per cento metri? No, grazie, Danny. Resterò qui, do ve posso bere l'acqua dello Zambesi, non la Coca-Cola, e mangiare bistecca di bufalo, non hamburger e patatine. » Caricarono gli ultimi rotoli di pelle d'elefante salata e le zanne dei cuccioli alla luce dei fari delle macchine, poi risalirono la strada tortuosa che portava all'orlo della scarpata e giunsero al quartier generale del parco a Chiwewe quando ormai era già buio. Johnny guidava il Land Rover verde alla testa del convoglio di camion frigoriferi, e Daniel era seduto al suo fianco. Parlavano a voce bassa, da vecchi amici in perfetto accordo. « Che clima da suicidio. » Daniel si asciugò la fronte con la ma nica della camicia. Sebbene fosse quasi mezzanotte, il caldo e l'umi dità erano snervanti. « Presto cominceranno le piogge. » « Per fortuna stai per lasciare la valle », borbottò Johnny. « Quando piove la strada si trasforma in una palude e quasi tutti i fiumi diventano intransitabili. » Il campo per i turisti, a Chiwewe, era stato chiuso la settimana prima, in previsione della stagione delle piogge. « Non mi va molto l'idea di andarmene », ammise Daniel. « Mi sembra d'essere tornato ai bei tempi. » « I bei tempi. » Johnny annuì. « Ci siamo divertiti. Quando ti fa rai vedere di nuovo a Chiwewe? » « Non lo so, ma la mia proposta è seria. Vieni con me. Una vol ta formavamo una grande squadra: sarebbe ancora così. Lo so. » « Grazie, Danny. » Il ranger scosse la testa. « Ma ho il mio lavo ro da fare qui. » « Non mi arrenderò », lo avvertì Daniel, e Johnny sorrise. « Lo so. Non ti arrendi mai. »
Al mattino, quando Daniel salì sul piccolo kopSe dietro il campo per assistere al levar del sole, il cielo era pieno di enormi nubi scure, e il caldo era ancora opprimente. L'umore di Daniel era in sintonia con quell'aurora buia. Duran te la permanenza aveva messo insieme del magnifico materiale, ma aveva riscoperto anche la sua amicizia per Johnny Nzou e lo rattri stava l'eventualità che trascorressero molti anni prima di poterlo ri vedere. Johnny l'aveva invitato a colazione, quell'ultimo giorno. Stava aspettando sull'ampia veranda protetta dalle zanzariere del bunga low che un tempo era stato la casa di Daniel. Daniel si fermò ai piedi della veranda e si guardò intorno. Il giardino era ancora come l'aveva creato Vicky, la moglie ventenne che Daniel aveva portato a Chiwewe tanti anni prima: una ragazza snella e sorridente dai lunghi capelli biondi e dai vivaci occhi verdi, di pochi anni più giovane del marito. Era morta nella camera da letto affacciata sul giardino tanto amato. Un comune attacco di malaria s'era trasformato senza preavviso nella perniciosa forma cerebrale. Era finito tutto in fret ta, prima ancora che il dottore potesse arrivare al parco con l'aereo. Dopo la sua morte era successo un fatto strano. Gli elefanti, che non erano mai entrati nel giardino sebbene gli agrumi fossero cari chi di frutti e l'orto prosperasse, erano venuti proprio quella notte. Erano arrivati nell'ora in cui Vicky era morta e avevano devastato tutto. Avevano strappato persino gli arbusti ornamentali e i rosai. Pare che gli elefanti abbiano una sensibilità psichica per la morte e sembrava avessero percepito la fine di Vicky e il dolore di Daniel. Daniel non si era risposato, e poco tempo dopo aveva lasciato Chiwewe. Il ricordo di Vicky era troppo doloroso per permettergli
di restare. Adesso nel bungalow viveva Johnny Nzou; Mavis, la bel la moglie matabele, curava il giardino di Vicky. Se Daniel avesse potuto scegliere, non avrebbe voluto che le cose andassero diversa mente. Quella mattina Mavis aveva preparato una tradizionale colazio ne matabele: polenta di mais e latte acido addensato in una zucca, l'amasi preferito dalle tribù pastorali Nguni. Poi Johnny e Daniel si avviarono verso il magazzino dell'avorio. A metà della discesa, Da niel si schermò gli occhi e guardò in direzione del campo dei visita tori. Era un'area recintata sulla riva del fiume, dove le capanne ro tonde sorgevano tra i fichi selvatici. Gli edifici, tipici dell'Africa meridionale, erano chiamati rondavel. « Mi avevi detto che il campo era chiuso », disse. « Uno dei ron davel è ancora occupato, e davanti c'è una macchina. » « E un ospite speciale, un diplomatico, l'ambasciatore di Taivvan a Harare », spiegò Johnny. « S'interessa molto alla fauna, soprat tutto agli elefanti, e ha fatto molto per il movimento conservazioni sta di questo paese. Gli accordiamo privilegi speciali. Voleva venire senza altri turisti, e ho tenuto aperto il carnpo per lui... » Johnny s'interruppe. « Eccolo! » C'erano tre uomini ai piedi della collina, ma erano ancora trop po lontani per distinguerne i volti. Daniel chiese: « Dove sono finiti i due ranger bianchi che ieri hanno collaborato allo sfoltimento? » « Ce li aveva prestati il parco nazionale di Wankie. Stamattina sono tornati a casa. » Quando furono più vicini, Daniel riconobbe l'ambasciatore di Taivvan. Era più giovane di quanto ci si potesse aspettare per un uomo del suo rango. Anche se per un occidentale è difficile giudicare l'età di un orientale, Daniel immaginò che avesse poco più di quaran t'anni. Era alto e magro, con i capelli neri e lisci pettinati all'indie tro, la fronte alta. Aveva un bell'aspetto e una carnagione quasi ce rea. I lineamenti indicavano che non era di pura discendenza cinese, bensì mista con il sangue europeo. Gli occhi erano neri ma rotondi, e le palpebre superiori non avevano la tipica piega epicantica. « Buongiorno, eccellenza », disse Johnny in tono rispettoso. « Fa abbastanza caldo per lei? » « Buongiorno, direttore. » L'ambasciatore si staccò da due ran ger e gli andò incontro. « Lo preferisco al freddo. » Indossava una camicia blu a maniche corte e un paio di calzoni lunghi, e aveva un'aria fresca ed elegante. « Posso presentarle il dottor Daniel Armstrong? » disse Johnny. « Daniel, sua eccellenza l'ambasciatore di Taivvan, Ning Deng Kong. » « Non occorrono presentazioni. Il dottor Armstrong è famoso. » Deng sorrise garbatamente e strinse la mano di Daniel. « Ho letto i suoi libri e ho seguito i suoi programmi televisivi con il più grande interesse. » Parlava inglese in modo eccellente, e Daniel si sentì subi to ben disposto verso di lui. « Johnny mi ha detto che ha a cuore l'ecologia africana, e ha da to un grande contributo al conservazionismo di questo paese. » Deng fece un gesto di modestia. « Vorrei poter fare di più. » Fissò Daniel con aria pensosa. « Mi perdoni, dottor Armstrong, ma non mi aspettavo di trovare altri visitatori a Chiwewe in questo pe riodo. Mi era stato detto che il parco era chiuso. » Nonostante il tono amichevole, Daniel intuì che non era una do manda oziosa. « Non si preoccupi, eccellenza: io e il mio cameraman partiremo questo pomeriggio. Presto avrà Chiwewe tutto per sé », gli assicurò Daniel. « Oh, non mi fraintenda. Non sono così egoista da desiderare che se ne vada. Anzi, mi dispiace. Sono certo che avremmo molte cose di cui parlare. » Daniel intuì che Deng era sollevato all'idea
che se ne andasse. L'espressione e i modi erano cordiali, tuttavia sembrava vi fossero strane profondità dietro l'apparenza così ur bana. L'ambasciatore si mise in mezzo a loro mentre scendevano al magazzino dell'avorio; poi si fece da parte per osservare i ranger e i portatori che cominciavano a scaricare le zanne dal camion fermo davanti al deposito. Jock, che era arrivato nel frattempo, stava ri prendendo la scena. Ogni zanna, ancora incrostata di sangue, veniva pesata su una bilancia antiquata che stava all'ingresso. Johnny Nzou sedette a un tavolo traballante, annotando i pesi su un registro. Assegnava a ogni zanna un numero che uno dei ranger provvedeva a stampiglia re. In tal modo lbavorio diventava legale e poteva essere messo all'a sta ed esportato. Deng seguiva la procedura con interesse. Due zanne, sebbene non fossero particolarmente massicce, avevano una bellezza specia le: erano proporzionate, identiche, di grana fine ed eleganti nelle curve. Deng si avvicinò e le accarezzò con il tocco sensuale di un amante. « Perfette », disse. « Un'opera d'arte della natura. » S'inter ruppe nel vedere che Daniel l'osservava. Daniel aveva provato un vago senso di ripugnanza per quella manifestazione di cupidigia, e la sua espressione lo rivelava. Deng si rialzò. « Sono sempre stato affascinato dall'avorio. Probabilmente lei sa che noi cinesi lo consideriamo un elemento di buon auspicio. Quasi ogni casa cinese possiede qualche intaglio in avorio: portano fortuna. Ma l'interesse della mia famiglia va al di là della superstizione. Mio padre cominciò a lavorare come intaglia tore d'avorio: era così abile che già quando nacqui io era proprieta rio di negozi a Taipei e Bangkok, Tokyo e Hong Kong, tutti specia lizzati in oggetti d'avorio. Tra i miei primi ricordi ci sono la vista e il contatto di questo materiale. Da ragazzo ero apprendista intaglia tore nel magazzino di Taipei, e così ho finito per amare e capire l'a vorio, come mio padre. Lui ha una delle collezioni più ricche e pre ziose... » S'interruppe. « Mi perdoni. A volte mi lascio trasportare dalla passione. Ma quella coppia di zanne è molto bella: è difficile trovarne una così ben abbinata. Mio padre andrebbe in estasi. » Deng seguì con gli occhi le due zanne che venivano portate via e immagazzinate con le altre. « Un personaggio interessante », commentò Daniel quando ritor narono al bungalow per il pranzo. « Ma come mai il figlio di un in tagliatore d'avorio è diventato ambasciatore? » Johnny rise. « Il padre di Ning Deng Kong è di umili origini, ma ha fatto carriera. Ha ancora i negozi e la collezione, ma ormai sono soltanto un hobby. E considerato uno degli uomini più ricchi di Taivvan, se non il più ricco. Mi risulta che abbia le mani in pasta in tutti gli affari più grossi di quella costa del Pacifico e in molti dell'Africa. Ha una famiglia numerosa: Deng è il figlio più giova ne e, dicono, il più intelligente. A me è simpatico, e a te? » « Sì, sembra abbastanza simpatico, ma ha qualcosa di strano, Hai visto la sua faccia mentre accarezzava la zanna? Era... innatu rale. » « Ah, voi scrittori! » Johnny scosse la testa. « Quando non trova te qualcosa di sensazionale, l'inventate. » Risero entrambi. Ning Deng Kong stava ai piedi della collina con Gomo, uno dei ranger negri, e guardava Johnny e Daniel che sparivano fra i msasa. « Non mi piace che ci sia quel bianco », disse Gomo. « Forse do vremmo aspettare un'altra occasione. » « Il bianco parte nel pomeriggio », disse freddamente Deng. « E sei stato pagato bene. Non si devono cambiare i piani. Gli altri stan no arrivando e non posso rimandarli indietro. » « Ci ha pagato soltanto metà di quello che avevarno concorda to », protestò Gomo.
« Avrete l'altra metà a lavoro ultimato », disse Deng a voce bassa. Gli occhi di Gomo sembravano quelli d'un serpente. « Sai che cosa dovete fare. » Gomo tacque per un istante. Lo straniero gli aveva dato mille dollari americani, l'equivalente di sei mesi di paga, e gliene aveva promesso duemila a lavoro ultimato. « Lo farai? » insistette Deng. « Sì », rispose Gomo. « Lo farò. » Deng annuì. « Stanotte o domani notte, non più tardi. Tenetevi pronti tutti e due. » « Saremo pronti », promise Gomo. Salì sul Land Rover con il se condo ranger negro, e se ne andò. Deng tornò al suo rondavel nel campo deserto. Era identico agli altri trenta che durante la stagione secca ospitavano una quanti tà di turisti. Prese dal frigorifero qualcosa da bere e sedette sulla ve randa per attendere che passassero le ore più calde. Era nervoso e irrequieto. In fondo, condivideva le preoccupazio ni di Gomo per il piano. Anche dopo aver esaminato ogni eventuali tà e preso le necessarie precauzioni, c'era sempre qualche fattore imprevedibile... come la presenza di Armstrong. Era la prima volta che tentava un colpo di quella portata. E di sua iniziativa. Naturalmente, suo padre conosceva e approvava le altre spedizioni; ma stavolta il rischio era molto più grande, propor zionale all'utile. Se fosse riuscito, avrebbe conquistato il rispetto del padre, che, per lui, era più importante del profitto. Era il figlio mi nore, e doveva sforzarsi per conquistarsi un posto nell'affetto del genitore. Quindi non doveva fallire. Negli anni trascorsi all'ambasciata a Harare, aveva consolidato la sua posizione nel commercio illegale dell'avorio e dei corni di ri noceronte. Tutto era incominciato a una cena: un funzionario del governo aveva commentato, in modo solo apparentemente casuale, l'utilità dei privilegi diplomatici e dell'accesso all'incarico di corrie re diplomatico. Deng aveva subito capito l'allusione, e aveva ri sposto in maniera incoraggiante, pur senza compromettersi. Dopo una settimana di negoziati, Deng era stato invitato a gio care a golf con un funzionario di grado più elevato. L'autista aveva parcheggiato la Mercedes di rappresentanza dietro il golf club di Harare e, secondo le istruzioni, l'aveva lasciata incustodita mentre Deng era sul campo. Deng era conosciuto da tutti come un golfi sta con un handicap di dieci ma, se voleva, poteva giocare anche al di sotto. In quell'occasione aveva lasciato che il suo avversario vin cesse tremila dollari americani e l'aveva pagato di fronte a testimoni nella sede del club. Quand'era tornato alla residenza, aveva ordina to all'autista di mettere la Mercedes in garage e di allontanarsi. Nel portabagagli aveva trovato sei grossi corni di rinoceronte avvolti nella tela. Li aveva spediti a Taipei con il corriere diplomatico: i corni era no stati venduti tramite lo sho di suo padre a Hong Kong per ses santamila dollari. Felice, il padre gli aveva scritto una lunga lettera di elogi e gli aveva rammentato il suo interesse per l'avorio. Con molta discrezione, Deng aveva fatto sapere che era un in tenditore d'avorio; e s'era visto offrire a prezzi convenienti parec chie zanne non registrate. Non c'era voluto molto perché, nel picco lo mondo dei bracconieri, si spargesse la voce che sul mercato c'era un nuovo acquirente. Pochi mesi dopo era stato abbordato da Chetti Singh, un uomo d'affari sikh, originario del Malawi, ufficialmente in cerca di inve stimenti taivvanesi per un'attività di pesca che stava promuovendo sul lago Malawi. Il primo incontro era andato bene: Deng aveva scoperto che la situazione economica di Chetti Singh era interessan te, e l'aveva comunicata al padre, il quale aveva approvato le stime e acconsentito a una joint venture con il sikh. Quando i documenti erano stati firmati all'ambasciata, Deng aveva invitato a cena
Chetti Singh; in quel frangente, l'uomo aveva osservato: « So che il suo illustre padre ama l'avorio. Come pegno della mia stima, potrei garantire una fornitura regolare. Sono certo che lei inoltrerebbe la merce a suo padre senza troppi impacci burocratici. Purtroppo l'a vorio non sarà marcato, non importa ». « Detesto la burocrazia », gli aveva assicurato Deng. In poco tempo, Deng aveva accertato che Chetti Singh era a ca po di un'organizzazione che operava in tutti i Paesi africani dove esistevano ancora popolazioni sane di elefanti e rinoceronti. Racco glieva l'oro bianco e i corni dal Botswana, dall'Angola, dallo Zam bia, dalla Tanzania e dal Mozambico, e controllava tutti gli aspetti dell'organizzazione, fino alla composizione delle bande armate che effettuavano regolari scorrerie nei parchi nazionali di quegli Stati. All'inizio Deng era stato un cliente come un altro; ma quando la società per la pesca nel lago Malawi ebbe incominciato a rendere bene, con i minuscoli pesci kapenta che venivano catturati in quan tità enormi, seccati ed esportati all'est, i rapporti tra loro erano via via cambiati, diventando più cordiali e fiduciosi. Alla fine, Chetti Singh aveva offerto a Deng e al padre una fetta del traffico dell'a vorio. Naturalmente aveva chiesto un investimento sostanzioso per allargare l'attività, e un pagamento ancora più sostanzioso come buonuscita per la sua parte. In totale, era quasi un milione di dolla ri. Deng, che aveva trattato a nome del padre, era riuscito a ridur re del cinquanta per cento la somma richiesta. Solo quando era diventato socio a pieno diritto, Deng aveva scoperto la vastità dell'operazione. Chetti Singh era riuscito a piaz zare i suoi complici negli ambienti governativi, giungendo talvolta sino ai ministri, in ognuno dei Paesi dove esistevano ancora branchi di elefanti. In quasi tutti i parchi nazionali aveva informatori e fun zionari sul suo libro paga: alcuni erano semplici ranger o guarda caccia, ma c'erano anche dei direttori, uomini incaricati di sorve gliare e proteggere gli animali. La società era così fiorente che, quando era scaduto il primo mandato di Deng come ambasciatore, il padre s'era accordato con i suoi amici altolocati di Taipei perché l'incarico gli venisse prolun gato per altri tre anni. Il padre e i fratelli di Deng, intanto, avevano compreso quali occasioni d'investimento offrisse l'Africa. A partire dalla società per la pesca nel lago Malawi per passare poi al commercio dell'avo rio, la famiglia s'era lasciata attirare sempre più dal continente ne ro. Deng e il padre non avevano scrupoli verso l'apartheid e aveva no cominciato a fare forti investimenti in Sudafrica. Conoscevano bene le sanzioni economiche mondiali che riducevano i prezzi della terra e di altri beni preziosi in quel paese, al punto che nessun uomo d'affari dotato di buon senso poteva resistere alla tentazione. « Onorevole genitore », aveva detto Deng al padre durante una delle frequenti visite a Taipei, « entro dieci anni l'apartheid e il do minio della minoranza bianca non esisteranno più. E allora i prezzi in Sudafrica saliranno ai giusti livelli. » Avevano acquistato grandi proprietà di decine di migliaia di et tari per lo stesso prezzo di un appartamento di tre stanze a Taipei. Avevano comprato fabbriche, uffici e centri commerciali da società americane costrette dal loro governo ad abbandonare gli investi menti in Sudafrica; e avevano pagato dai cinque ai dieci cent per ogni dollaro di valore effettivo. Ma il padre di Deng, che fra le altre cose era un dirigente del circolo ippico di Hong Kong, era un giocatore d'azzardo troppo abile per puntare tutto su un unico cavallo. Avevano investito in al tri paesi africani. Era stato appena negoziato un accordo fra il Su dafrica, Cuba e l'Angola per l'indipendenza della Namibia. La fa miglia aveva acquistato proprietà a Windhoek, licenze di pesca e di ritti minerari. Grazie a Chetti Singh, Deng si era fatto presentare a vari ministri dello Zambia, dello Zaire, del Kenya e della Tanzania
che, in cambio di certi compensi, erano disposti a vedere con favore gli investimenti taivvaniani nei loro paesi, a prezzi che il padre di Deng giudicava accettabili. Al di là di tutti gli altri grossi investimenti il padre di Deng era però per motivi sentimentali ancora affascinato dall'avorio che ave va acceso il suo interesse verso il continente nero. Durante l'ultimo incontro, mentre Deng si inginocchiava per chiedergli la benedizio ne, gli aveva detto: « Figlio mio, sarei molto contento se quando tornerai in Africa potrai trovare un ingente quantitativo di avorio timbrato e registrato ». « Illustre padre, le uniche fonti legali sono le aste governati ve... » Deng s'era interrotto nel vedere l'espressione di disprezzo sul viso paterno. « L'avorio acquistato alle aste governative lascia uno scarso margine di profitto », aveva sibilato il vecchio. « Pensavo che avessi più buon senso, figlio mio. » Profondamente ferito, Deng ne aveva parlato a Chetti Singh alla prima occasione. Chetti Singh s'era accarezzato con aria pensierosa la barba che portava arrotolata secondo l'usanza dei sikh. Era un bell'uomo, e il candido turbante immacolato lo faceva apparire ancora più alto. « Sto appunto pensando che c'è un'unica fonte di avorio registra to », aveva detto. « Il magazzino governativo. » « Vuol dire che l'avorio potrebbe essere asportato dal deposito prima dell'asta? » « Può darsi... » Chetti Singh aveva alzato le spalle. « Ma occor rerebbe un piano dettagliato. Mi lasci il tempo di riflettere sul pro blema. » Tre settimane dopo s'erano incontrati di nuovo nell'ufficio di Chetti Singh a Lilongwe. « Ho riflettuto molto e mi è venuta in mente una soluzione », aveva detto il sikh. « Quanto verrà a costare? » aveva chiesto Deng, d'istinto. « Al chilo, non più dell'acquisto dell'avorio non registrato; ma dato che vi sarà una sola occasione di procurarci un carico, dovre mo avere il buon senso di sceglierlo il più grande possibile. Il conte nuto di un magazzino intero... perché no? Cosa ne direbbe suo padre? » Deng sapeva che il padre sarebbe stato felice. L'avorio registra to valeva, sui mercati internazionali, tre o quattro volte più di quel lo illegale. « Vediamo quale paese potrà fornirci la merce », aveva detto Chetti Singh, anche se era evidente che aveva già scelto. « Escludia mo lo Zaire e il Sudafrica: sono paesi dove non ho un'organizzazio ne efficiente. In Zambia, Tanzania e Kenya è rimasto poco avorio. Quindi abbiamo il Botswana, dove non c'è uno sfoltimento su larga scala, e infine lo Zimbabwe. » « Bene. » Deng aveva annuito, soddisfatto. « L'avorio è custodito nei magazzini di Wankie, Harare e Chi wewe in attesa delle aste semestrali. Potremmo procurarci la merce in uno di questi centri. » « Quale? » « Il deposito di Harare è ben sorvegliato. » Chetti Singh aveva alzato tre dita. Scartata Harare, ne piegò uno. « Wankie è il parco nazionale più grande, ma lontano dal confine con lo Zambia. » E aveva piegato un altro dito. « Rimane Chiwewe. Ho agenti fidati tra il personale del parco. Mi hanno detto che al momento il deposito è quasi pieno d'avorio registrato, e la sede del parco è a meno di cin quanta chilometri dallo Zambesi e dal confine con lo Zambia. Una delle mie squadre potrebbe attraversare il fiume e arrivare sul posto in un giorno di marcia... perché no? » « Ha intenzione di derubare il magazzino? » Deng s'era teso verso il sikh. « Non ho la minima ombra di dubbio. » Chetti Singh aveva ab
bassato il dito con aria sorpresa. « Non era anche la sua inten zione? » « Forse », aveva risposto prudentemente Deng. « Ma è fatti bile? » « Chiwewe si trova in un'area remota e isolata del paese; ma è sul fiume che segna il confine internazionale. Io manderei una squa dra di venti uomini equipaggiati con armi automatiche e comandati da uno dei miei migliori cacciatori. Attraverseranno il fiume di not te con le canoe e, dopo un giorno di marcia, arriveranno al coman do del parco e lo attaccheranno. Tutti i testimoni saranno elimi nati... » Deng aveva tossito nervosamente e Chetti Singh l'aveva guar dato con aria interrogativa. « Non saranno più di quattro o cinque persone. I ranger fissi sono sul mio libro paga. Il campo dei visita tori sarà chiuso per la stagione delle piogge e la maggior parte del personale sarà in ferie e quindi tornata ai rispettivi villaggi. Reste ranno solo il direttore del parco e due o tre dipendenti. » « Ma non possiamo evitare di eliminarli? » Non erano gli scrupo li che spingevano Deng a esitare. Era più prudente non correre ri schi inutili. « Se può suggerire un'alternativa, sarò lieto di prenderla in con siderazione », aveva replicato Chetti Singh. Dopo aver riflettuto un attimo, Deng aveva scosso la testa. « No, al momento no. Ma continui, prego. Vorrei sentire il resto del piano. » « Benissimo. I miei uomini sopprimono tutti i testimoni, incen diano il magazzino dell'avorio e attraversano il fiume al più pre sto. » Il sikh s'era interrotto e aveva spiato il viso di Deng con mal celato divertimento. Prevedeva la sua prossima domanda. A Deng dispiaceva farla, perche suonava ingenua persino a lui. « E l'avorio? » Chetti Singh aveva sorriso maliziosamente, costringendolo a ri petersi. « I suoi bracconieri porteranno l'avorio. Ha detto che sarà un piccolo gruppo. Non potranno trasportarne una quantità così gran de, immagino. » « E proprio questa la bellezza del mio piano. La scorreria mette rà fuori strada la polizia dello Zimbabwe. » Questa volta Deng aveva sorriso. « Vogliamo fargli credere che l'avorio sia stato preso dai bracconieri. Così non penseranno a cercarlo nel loro paese, vero? » Adesso, mentre stava seduto sulla veranda del rondavel, nel cal do meridiano, Deng annuì, controvoglia. Il piano di Chetti Singh era ingegnoso ma, naturalmente, non aveva tenuto conto della pre senza di Armstrong e della sua troupe televisiva. A essere sinceri, nessuno avrebbe potuto prevederla. Ancora una volta pensò di rinviare o di annullare l'operazione, ma subito respinse l'idea. Ormai gli uomini di Chetti Singh doveva no aver attraversato il fiume e marciavano verso il campo. Non ave va la possibilità di contattarli e di farli tornare indietro. Non c'era niente da fare. Se Armstrong e il suo cameraman fossero stati anco ra lì all'arrivo degli uomini di Chetti Singh, sarebbe stato necessario eliminarli come il direttore, la sua famiglia e il personale I pensieri di Deng furono interrotti dallo squillo del telefono in fondo alla veranda. Il cottage dei VIP era l'unico del campo che fos se dotato di un apparecchio. Andò a rispondere. Attendeva quella chiamata. Era stata predisposta e faceva parte del piano di Chetti Singh « Ambasciatore Ning », disse. Gli rispose Johnny Nzou. « Scusi se la disturbo, eccellenza, ma c'è una chiamata della sua ambasciata a Harare. Un certo signor Huang. Dice che è il suo chargé. Vuole che glielo passi? » « Sì, grazie, direttore » Deng sapeva che si trattava di una linea
aperta e che attraversava duecentoquaranta chilometri di boscaglia dalla centralina del distretto al piccolo villaggio di Karoi; la voce dell'incaricato d'affari sembrava venire da un angolo lontano della galassia Era il messaggio che aspettava; poi girò la manovella del l'antiquato apparecchio e si rimise in contatto con Johnny Nzou. « Direttore, devo tornare d'urgenza a Harare. E una vera sfortu na: speravo di poter restare ancora per qualche giorno. » « Anche a me dispiace che debba partire. Io e mia moglie sarem mo stati lieti di averla a cena da noi. » « Sarà per un'altra volta. » « I camion frigoriferi porteranno la carne d'elefante a Karoi, questa sera. Sarebbe meglio se viaggiasse con loro: la sua Mercedes non ha quattro ruote motrici, e minaccia di piovere da un momento all'altro. » Anche questo faceva parte del piano di Chetti Singh. La scorre ria doveva coincidere con lo sfoltimento degli elefanti e la partenza dei camion frigoriferi. Deng esitò di proposito prima di chiedere: « Quando partiranno i camion? » « Uno ha un guasto al motore. » Il ranger Gomo aveva sabotato l'alternatore, allo scopo di ritardare la partenza del convoglio fino all'arrivo della banda. « Ma il camionista dice che saranno pronti a muoversi verso le sei di stasera. » Johnny Nzou cambiò tono, colpi to da un pensiero improvviso. « Il dottor Armstrong partirà fra po co. Potrebbe andare con lui. » « No, no! » esclamò Deng. « Non posso andarmene tanto in fretta. Aspetterò i camion. » « Come preferisce. » Johnny sembrava sorpreso. « Però non pos so dirle con certezza quando sarà pronto a partire il convoglio, e so no sicuro che il dottor Armstrong accetterà di attendere un'ora o due. » « No », rispose con fermezza Deng. « Non voglio causare di sturbo al dottor Armstrong. Viaggerò con il convoglio. La ringra zio, direttore. » Per prevenire altre discussioni, Deng riattaccò. La presenza di Armstrong diventava sempre più fastidiosa. Prima spariva, meglio era. Passarono altri venti minuti prima che Deng sentisse il suono d'un motore diesel provenire dalla direzione del bungalow del diret tore. Si alzò e andò a guardare dalla porta della veranda: il Toyota Land Cruiser stava scendendo la collina. Sulla portiera era dipinto il logo dell'Armstrong Productions, un braccio, con il polso cinto da un bracciale a borchie, piegato in modo da mettere in mostra un bicipite forzuto. Il dottor Armstrong era al volante, e il cameraman gli sedeva accanto. Se ne andavano, finalmente. Deng annuì soddisfatto e guardò l'orologio. Era la una passata da pochi minuti. Avrebbero avuto a disposizione almeno quattro ore per allontanarsi prima dell'attacco contro la direzione. Daniel Armstrong lo vide e frenò. Abbassò il finestrino e sor rise. « Johnny mi ha detto che oggi parte anche lei, eccellenza », dis se. « Davvero non possiamo esserle utili? » « No, grazie, dottore. » Deng sorrise educatamente. « E già tut to combinato. Non si dia pensiero per me. » Armstrong lo metteva a disagio. Era un uomo alto e robusto, con folti capelli ricci e spettinati e l'aria di chi è abituato a vivere al l'aperto. Aveva uno sguardo franco, un sorriso pigro. Agli occhi di un occidentale, pensava Deng, poteva sembrare attraente, soprat tutto se l'occidentale in questione era una femmina: ma per i suoi occhi cinesi il naso era tanto grosso da parere quasi grottesco e la bocca larga aveva un'espressione infantile. Non sembrava rappre sentare un pericolo... a parte gli occhi. Gli occhi lo mettevano a di sagio. Erano attenti, penetranti.
Armstrong lo fissò per parecchi secondi, poi sorrise di nuovo e tese la mano dal finestrino. « Bene, allora la saluto, eccellenza. Speriamo di avere presto l'occasione di fare una chiacchierata. » Innestò la marcia, alzò la mano destra in segno di saluto e si avviò verso il cancello del campo. Deng seguì il veicolo con lo sguardo fino a che scomparve, poi si voltò verso le colline, irregolari e acuminate come i denti di un coccodrillo. Una trentina di chilometri più a ovest, uno dei nuvoloni tempo raleschi fu lacerato all'improvviso da un fulmine. In quel momento la pioggia cominciò a cadere dal ventre gonfio dei cumuli, dapprima in scrosci azzurrini e poi in un diluvio impenetrabile come una lami na di piombo, nascondendo alla vista le colline lontane. Chetti Singh non avrebbe potuto scegliere momento migliore. Tra poco la valle e la scarpata sarebbero diventate un acquitrino. Una squadra della polizia inviata a indagare sugli avvenimenti so spetti di Chiwewe avrebbe trovato la strada intransitabile e, se fosse riuscita a raggiungere la direzione del parco, la pioggia torrenziale avrebbe cancellato ogni indizio del passaggio degli assalitori. « Basta che arrivino in fretta », si augurò. « Oggi, non domani. » Controllò l'orologio. Non erano ancora le due. Il tramonto sarebbe venuto alle sette e mezzo, ma con quella densa coltre di nubi proba bilmente si sarebbe fatto buio molto prima. « Dev'essere per oggi », mormorò di nuovo. Prese dal tavolo della veranda il binocolo e una copia sciupata di Gli uccelli dell'Africa meridionale di Robert. Doveva dimostrare al direttore che era un naturalista appassionato: era la giustificazio ne per la sua presenza. Salì sulla Mercedes e scese alla direzione, dietro il deposito del l'avorio. Johnny Nzou era alla scrivania. Come accadeva a tutti i dipendenti statali, gran parte del suo lavoro consisteva nel compila re moduli, richieste, registri e rapporti. Johnny alzò gli occhi dai mucchi di carte quando Deng si fermò sulla soglia. « Ho pensato che, mentre riparano il camion frigorifero, potrei andare all'abbeverata di Fig Tree Pan », spiegò. Johnny sorrise nel notare il binocolo e il manuale, tipici del bird-watcher accanito; era ben disposto verso chiunque condividesse il suo amore per la na tura. « Manderò uno dei miei ranger a chiamarla quando il convoglio sarà pronto per partire, ma non le prometto che sarà per stasera », disse. « Sembra che l'alternatore d'uno dei camion sia bruciato. I pezzi di ricambio sono un problema tremendo in questo paese: non c'è valuta straniera sufficiente per pagare tutto ciò che ci serve. » Deng scese alla polla artificiale. A meno di due chilometri da Chiwewe era stata effettuata una trivellazione in fondo a un piccolo vlei. Un mulino a vento pompava l'acqua in uno stagno fangoso per attirare uccelli e mammiferi in prossimità del campo. Mentre Deng parcheggiava la Mercedes nello spiazzo affacciato sopra lo stagno, un piccolo branco di cudù che stava bevendo prese la fuga e si sparse nella boscaglia. Erano grosse antilopi color beige, con strisce più chiare sui dorsi, zampe e colli lunghi ed enormi orec chie a tromba. Solo i maschi sfoggiavano le caratteristiche corna a cavatappi. Deng era troppo agitato per usare il binocolo, anche se c'erano nugoli di uccelli che scendevano per bere. Gli uccelli tessitori sem bravano minuscole fiamme scarlatte, gli stornelli erano d'un verde iridescente che rifletteva la luce del sole. Deng era un abile artista non soltanto con gli strumenti per intagliare l'avorio, ma anche con gli acquerelli. Uno dei suoi temi preferiti erano sempre stati gli uc celli selvatici che raffigurava nel tradizionale stile romantico cinese. Ma quel giorno non riusciva a concentrarsi. Infilò una sigaretta nel bocchino d'avorio e aspirò il fumo, irrequieto. Era il punto che
aveva scelto per incontrare il capo dei bracconieri; e adesso scrutava con ansia la boscaglia. La prima indicazione di una presenza estranea fu il suono di una voce attraverso il finestrino aperto della Mercedes. Deng sussultò e si voltò verso l'uomo che stava accanto alla macchina. Una cicatrice andava dall'angolo dell'occhio sinistro fino al lab bro superiore: da quella parte il labbro era arricciato in una specie di sorriso sardonico. Chetti Singh aveva parlato a Deng della cica trice: era un segno particolare inconfondibile. « Sali? » La voce di Deng era scossa. Il bracconiere l'aveva col to di sorpresa. « Tu sei Sali? » « Sì », disse l'uomo, sorridendo con una metà della bocca defor me. « Sono Sali. » La pelle era d'un nero quasi violaceo, e la cicatrice d'un rosa li vido. Era basso, ma aveva le spalle larghe e le membra muscolose. La camicia lacera e i calzoncini sbiaditi erano incrostati e macchiati di sudore e di sudiciume. Si vedeva che aveva viaggiato a lungo, perché le gambe nude erano infarinate di polvere fino alle ginoc chia. Nel caldo, puzzava di sudore rancido, un lezzo di capra che costrinse Deng a indietreggiare, infastidito. Il bracconiere notò il gesto e sogghignò. « Dove sono i tuoi uomini? » chiese Deng, e Sali indicò con il pollice la boscaglia circostante. « Siete armati? » insistette. Il sogghigno di Sali divenne insolen te. Non si degnò di rispondere a una domanda tanto superflua. Deng si rese conto che il sollievo e il nervosismo l'avevano reso lo quace. Decise di trattenersi, ma un'altra domanda gli sfuggì prima che potesse evitarlo. « Sai cosa dovete fare? » Sali si stropicciò un dito sulla cicatrice e annuì. « Non dovrete lasciare testimoni. » Deng vide dall'espressione del bracconiere che non aveva capito, e ripeté: « Dovete ucciderli tutti. Quando arriverà la polizia non dovrà trovare nessuno che pos sa parlare ». Sali chinò la testa in segno d'assenso. Chetti Singh gli aveva spiegato tutto e quegli ordini gli erano risultati graditi: Sali aveva un conto aperto con il Dipartimento dei parchi dello Zimbabwe. Appena un anno prima, due dei suoi fratelli minori avevano attra versato lo Zambesi con un piccolo gruppo di compagni per cacciare i rinoceronti e s'erano imbattuti in un'unità antibracconaggio dei parchi, formata da ex guerriglieri armati come loro di fucili AK 47. Nello scontro a fuoco, uno dei fratelli di Sali era stato ucciso; l'al tro, colpito alla spina dorsale, era rimasto invalido. Pur ferito, l'a vevano portato a Harare per processarlo e quindi condannato a set te anni di carcere. Sali il bracconiere non provava perciò molto affetto per i ranger dei parchi e tutto ciò si leggeva nella sua espressione quando rispo se: « Non lasceremo vivo nessuno ». « Esclusi i due ranger », precisò Deng. « Gomo e David. Li co nosci? » « Li conosco. » Sali aveva lavorato con loro altre volte. « Saranno all'officina con i due camion grandi. Spiega ai tuoi uomini che non devono toccarli e neppure danneggiare i camion. » « Glielo dirò. » « Il direttore sarà in ufficio. La moglie e i tre figli nel bungalow sulla collina. Ci sono quattro servitori del campo con le loro fami glie nell'edificio per i domestici. Assicurati che sia circondato prima di aprire il fuoco. Non deve scappare nessuno. » « Chiacchieri come una scimmia su un susino », disse Sali in to no sprezzante. « So già tutto. Me l'ha detto Chetti Singh. » « Allora vai e fai quel che ti è stato detto », ordinò in tono bru sco Deng. Sali si sporse dal finestrino, costringendolo a trattenere il respiro e a scostarsi.
Sali stropicciò il pollice e l'indice nel segno universale che indi cava il denaro. Deng aprì il cassetto della Mercedes. I biglietti da dieci dollari erano in mazzette da cento, trattenute da elastici. Li contò nella mano aperta di Sali, tre mazzette di mille dollari ciascu na. All'incirca cinque dollari al chilo per l'avorio custodito nel ma gazzino del campo, l'avorio che a Taipei ne avrebbe reso mille al chilo. D'altra parte, per Sali quelle mazzette di biglietti verdi rappre sentavano un patrimonio enorme. In tutta la sua vita non s'era mai trovato in mano una somma simile. Il compenso abituale per uccidere un bell'elefante, rischiando la pelle prima contro le squadre antibracconaggio, penetrando nel ter ritorio proibito, poi per sparare ai colossi con i proiettili leggeri del l'AK 47, tagliare le zanne e trasportarle sul terreno accidentato... il compenso abituale per tutto quel rischio e quella fatica ammontava a trenta dollari per elefante... all'incirca, un dollaro per ogni chilo d'avorio. I biglietti di banca che Deng gli aveva consegnato rappresenta vano una somma equivalente a ciò che poteva aspettarsi da cinque anni di lavoro duro e pericoloso. Perciò cosa poteva contare il pen siero di uccidere qualche dipendente del parco e le relative famiglie? Non comportava un grande sforzo in più, e il rischio era minimo. Per tremila dollari sarebbe stato un vero piacere. I due uomini erano molto soddisfatti dell'affare. « Aspetterò fino a che sentirò sparare », disse Deng, e Sali sor rise mettendo in mostra due lunghissime arcate di denti candidi. « Non dovrai aspettare molto », promise. E poi, silenzioso co m'era apparso, si dileguò nella boscaglia.
Daniel Armstrong procedeva ad andatura moderata. La strada era piuttosto buona, per l'Africa centrale: la pendenza era regolare, perché pochi tra i visitatori del parco arrivavano con veicoli a quat tro ruote motrici. Daniel, comunque, non aveva fretta. Il Toyota aveva un equipaggiamento completo per accamparsi: non alloggiava mai nei motel o negli alberghi, se poteva evitarlo. Non soltanto era no piuttosto rari, in quel paese, ma quasi sempre il vitto e le como dità che offrivano erano molto inferiori a quelli che Daniel era in grado di approntare in un accampamento provvisorio. Era sua intenzione proseguire fin verso il tramonto, trovare un bel tratto di foresta o un fiumicello ameno per fermarsi, un po' lon tano dalla strada, e tirar fuori la cassetta dei viveri e il Chivas Re gal. Non pensava che ce l'avrebbero fatta ad arrivare fino ai Mana Pools; e certamente non avrebbero raggiunto la strada asfaltata che andava dal ponte di Chirundu sullo Zambesi fino a Karoi e a Hara re, più a sud. Jock era un compagno simpatico: era una delle ragioni per cui Daniel l'aveva ingaggiato. Avevano lavorato spesso insieme durante gli ultimi cinque anni: Jock era un cameraman indipendente e Da niel gli faceva un contratto ogni volta che trovava il finanziamento per un nuovo progetto. Avevano battuto insieme vasti territori afri cani, dalle spiagge terribili della Skeleton Coast in Namibia ai monti e alle ambe dell'Etiopia, devastati dalla siccità e dalla carestia, fino all'interno del Sahara. Anche se tra loro non c'era un'amicizia pro fonda, avevano trascorso insieme molte settimane nei territori più remoti e selvaggi senza che fra loro vi fossero mai attriti o dissa pori. Chiacchierarono amichevolmente mentre Daniel guidava il vei colo carico lungo la strada tortuosa che scendeva la scarpata. Ogni volta che un uccello, un mammifero o un albero fuori del comune attiravano la loro attenzione, Daniel si fermava e prendeva appunti mentre Jock filmava. Avevano percorso all'incirca una trentina di chilometri quando
arrivarono a un tratto della strada dove un grosso branco di elefanti s'era fermato a mangiare durante la notte precedente. Avevano strappato parecchi rami e rovesciato molti grossi mopani: alcuni erano caduti sulla strada, ostruendola del tutto. Gli alberi ancora in piedi erano stati spogliati della corteccia, e i tronchi nudi e bianchi grondavano di linfa. « Che disastro. » Daniel sorrise mentre osservava quella distru zione. « Sembra che si divertano a bloccare le strade. » Era la dimo strazione, se mai fosse stata necessaria, che ogni tanto era inevitabi le ricorrere allo sfoltimento. La foresta di mopani poteva sopravvi vere solo a un numero limitato di simili pasti devastanti. Lasciarono la strada, aggirando gli alberi caduti, anche se un paio di volte furono costretti a legare un tronco alla catena del To yota e a trascinarlo da una parte prima di poter procedere. Perciò erano già le quattro passate quando raggiunsero il fondovalle e svoltarono verso est, attraverso la foresta di mopani, verso la devia zione dei Mana Pools, nei cui pressi avevano filmato il massacro de gli elefanti. In quel momento erano presi da una discussione sul modo mi gliore di montare l'enorme quantità di materiale girato: Daniel assa porava quel senso di anticipazione, tipico di quello stadio del suo lavoro. Il materiale era nel carniere: adesso poteva tornare a Lon dra dove, nella moviola dei Castle Film Studios, avrebbe trascorso settimane e mesi, impegnato nel compito meticoloso ma affascinan te di unire le scene e di comporre il commento che doveva accompa gnarle. Anche se la sua attenzione era rivolta a ciò che diceva Jock, era conscio di quello che lo circondava. Tuttavia, per poco non gli sfug gì. Passò oltre e proseguì per circa duecento metri prima di rendersi conto di aver incontrato qualcosa d'insolito. Forse era un'eredità delle sue esperienze di guerra nella boscaglia, quando ogni segno anomalo su una strada poteva indicare la presenza di una mina. A quei tempi sarebbe stato molto più svelto a prenderne atto e a reagi re: ma gli anni trascorsi avevano smussato i suoi riflessi. Frenò. Jock s'interruppe e gli lanciò un'occhiata interrogativa. « Cosa c'è? » « Non lo so. » Daniel si girò sul sedile mentre invertiva la mar cia. « Probabilmente nulla », mormorò. Ma un dubbio tormentoso gli rodeva la mente. Si fermò, inserì il freno a mano e smontò. « Non vedo niente. » Jock si sporse dal finestrino sul lato op posto. « Appunto », confermò Daniel. « Qui c'è un tratto vuoto. » Indi cò la strada polverosa: la superficie era segnata dai meravigliosi graffiti della boscaglia. Le minuscole orme a v dei francolini e di al tri uccelli, le tracce serpentine degli insetti e delle lucertole, le im pronte delle varie specie d'antilope, di lepri, manguste e sciacalli erano intessute in un intricato arazzo di segni, tranne nel punto do ve la superficie soffice era levigata, senza sfregi. Daniel si accosciò e la studiò per un momento. « Qualcuno ha cancellato le tracce », disse. « E che cosa c'è di tanto straordinario? » Jock scese e lo rag giunse. « Forse niente. » Daniel si rialzò. « O forse tutto. Dipende dal modo di vedere. » « Lo riprendiamo? » chiese Jock. « Solo gli esseri umani coprono le loro tracce, e solo quando hanno in mente qualcosa di brutto. E comunque non dovrebbe es serci gente in giro a piedi nel mezzo d'un parco nazionale. » Daniel girò intorno al tratto di terra morbida che era stato spaz zato meticolosamente con un ramo fronzuto e lasciò la pista, fer mandosi sull'erba. Subito vide altri segni di interventi mirati a na scondere le impronte. I ciuffi d'erba erano stati schiacciati dal pas
saggio di uomini a piedi. Sembrava un gruppo numeroso. Daniel si sentì rizzare i capelli. « Contatto! » pensò. Era come ai tempi in cui faceva parte degli Scout e, scoprendo il segno del passaggio d'un gruppo di terroristi, avvertiva una paura opprimente che gli pesava nelle viscere, unita a un senso d'eccitazione. Dovette fare uno sforzo per scacciare quelle sensazioni. I tempi pericolosi erano finiti da un pezzo. Comunque, seguì le tracce. Era no state usate certe precauzioni elementari, tuttavia erano sicura mente rimasti dei segni: un guerrigliero dello ZAl4U, pensò, si sareb be comportato con maggiore professionalità. A meno di cinquanta metri dalla strada, Daniel trovò la prima impronta nitida d'un piede umano calzato; poco più avanti la banda aveva raggiunto una pista, aperta dalla selvaggina, per avanzare poi in fila indiana, abbando nando ogni tentativo di coprire le tracce. S'erano avviati nella dire zione della scarpata e del campo di Chiwewe, ad andatura decisa. Daniel era sbalordito: si trattava d'una banda numerosa. Contò le orme di almeno sedici individui, forse anche venti. Dopo averle seguite per due o trecento metri, Daniel si fermò a riflettere. Tenuto conto dell'entità del gruppo e della direzione da cui era venuto, era una banda di bracconieri zambiani che avevano attraversato lo Zambesi per procurarsi avorio e corni di rinoceron te. E questo spiegava perché avevano preso tante precauzioni per coprire le tracce. Doveva assolutamente avvertire Johnny Nzou perché chiamasse al più presto possibile un'unità antibracconaggio. Daniel si chiese come poteva fare. C'era un telefono nell'ufficio dei ranger ai Mana Pools, a una sola ora di macchina; oppure poteva tornare a Chivve we e avvertire di persona l'amico. Il suo dilemma trovò una soluzione quando vide la fila dei pali telefonici poco più avanti. Erano ricavati da alberi locali e intrisi di creosoto nero per scoraggiare le termiti. I fili di rame lucido brilla vano nella luce tarda del sole... tranne che fra due sostegni, in linea retta di fronte a lui. Daniel si mosse in fretta e poi si fermò di colpo. I fili erano stati tagliati e pendevano dagli isolatori di ceramica bianca. Daniel ne afferrò uno e lo esaminò. Non c'erano dubbi: era stato tagliato. I segni lasciati dalle pinze spiccavano nel metallo ros so e malleabile. E alla base del palo c'erano le tracce del movimento di molti uomini. « Perché diavolo un bracconiere può pensare a tagliare le linee telefoniche? » chiese Daniel a voce alta. L'inquietudine lasciò il po sto all'allarme. « Questa storia diventa sempre più strana. Devo av vertire Johnny: è necessario che agisca al più presto. E ormai c'è so lo un modo per metterlo in guardia. » Tornò correndo al Land Cruiser. « Cosa diavolo succede? » chiese Jock quando lo vide saltare a bordo e avviare di nuovo il motore. « Non lo so. Ma non mi piace », disse Daniel mentre giravasil veicolo e lo lanciava nella direzione opposta. Continuò a guidare a tutta velocità, lasciandosi dietro una lunga scia di polvere. Rallentava solo per guadare i corsi d'acqua in secca e poi accelerava di nuovo. Ricordò che la banda avrebbe potuto raggiungere la direzione del parco tagliando la curva che la strada descriveva per scendere dalla scarpata. Sarebbe stata un'ascesa mol to ripida; ma a piedi gli uomini potevano risparmiare una cinquan tina di chilometri rispetto al percorso che Daniel era costretto a se guire. Le linee telefoniche erano state tagliate cinque o sei ore pri ma: l'aveva dedotto dall'erosione delle tracce e calcolando il tempo che l'erba calpestata aveva impiegato per risollevarsi in parte. Non riusciva a immaginare perché una banda di bracconieri avesse intenzione di recarsi a Chiwewe: al contrario, sarebbe stato logico che l'evitassero. Ma le tracce non lasciavano dubbi. E aveva
no tagliato i fili del telefono. Era un comportamento audace e ag gressivo. Se la loro destinazione era Chiwewe, potevano essere già arrivati... Diede un'occhiata all'orologio: sì, dovevano aver risalito la scarpata e raggiunto la loro destinazione da circa un'ora. Ma perché? Non c'erano turisti. Nel Kenya e in altre nazioni più a nord, i bracconieri, dopo aver sterminato i branchi di elefanti, avevano preso l'abitudine di assalire e rapinare i turisti stranieri. Forse questa banda s'era ispirata ai colleghi del nord. « Ma a Chi wewe non ci sono turisti. Non c'è niente di prezioso... » Daniel s'in terruppe, rendendosi conto che stava sbagliando. « Merda! L'avo rio. » Il terrore gli gelò il sudore sulle guance. « Johnny », mormorò. « Mavis... i bambini... » Il Land Cruiser volava giù per la pista. Daniel lo lanciò nel pri mo tornante che portava al pendio della scarpata. Quando superò l'angolo, scorse un enorme veicolo bianco che occupava la strada davanti a lui. Nell'attimo in cui frenava e sterza va, Daniel vide che era uno dei camion frigoriferi. Lo mancò d'una trentina di centimetri, uscì di strada e piombò fra i cespugli. Il To yota si arrestò con il muso che sfiorava il tronco di un grosso mopa ni. La brusca frenata scagliò Jock contro la plancia. Daniel balzò a terra e corse verso il camion frigorifero che si era fermato a sua volta. Vide che al volante c'era Gomo, il ranger, e gridò: « Scusa, è stata colpa mia! Tutto bene? » Gomo era ancora scosso per il pericolo evitato a stento, ma an nuì. « Tutto a posto, dottore. » « Quando siete partiti da Chiwewe? » chiese Daniel. Gomo esitò. Sembrava che la domanda lo sconcertasse. « Quando? » insistette Daniel. « Non so di preciso... » In quel momento si sentì un altro veicolo che si avvicinava lungo la strada. Daniel si voltò e vide il secondo camion che usciva dalla curva. Stava marciando in prima per poter affrontare la ripida penden za. Cinquanta metri più indietro c'era la Mercedes blu dell'amba sciatore Ning Deng Kong. I due veicoli rallentarono e si fermarono dietro il camion di Gomo. Daniel si avviò verso la Mercedes. L'ambasciatore Ning aprì la portiera e scese. « Dottor Armstrong, che cosa ci fa qui? » Sembrava agitato ma la voce era sommessa e si udiva appena. Daniel ignorò la domanda. Era ansioso di sapere se Johnny e Mavis erano sani e salvi, e la reazione dell'ambasciatore lo sconcer tava. « Quando è partito da Chiwewe? » chiese con affanno. Deng era ancora più agitato. « Perché vuol saperlo? » mormo rò. « Perché sta tornando indietro? Dovrebbe essere in viaggio per Harare. » « Senta, eccellenza, io voglio solo essere certo che non sia succes so niente a Chiwewe. » « Cosa dovrebbe essere successo? E a chi? » L'ambasciatore si frugò in tasca e tirò fuori un fazzoletto. « Che cosa vuole insinuare, dottore? » « Non voglio insinuare niente. » Daniel cercava di dominare l'e sasperazione. « Ho trovato le tracce di una banda numerosa che ha attraversato la strada e si è diretta verso Chiwewe. Temo che siano bracconieri armati, e sto tornando indietro per avvertire il diret tore. » « Non è successo niente », gli assicurò Deng. Daniel notò che aveva un velo di sudore sulla fronte. « E tutto a posto. Sono partito un'ora fa. Il direttore Nzou stava benone. Ho parlato con lui e non c'era niente di anormale. » Si asciugò il viso con il fazzoletto. « Un'ora fa? » chiese Daniel, e controllò il Rolex d'acciaio inos sidabile. Le assicurazioni dell'ambasciatore Ning lo avevano tran quillizzato. « Allora è partito verso le cinque e mezzo? » « Sì, sì. » Il tono di Deng aveva una punta d'irritazione. « Mette in dubbio la mia parola? Non crede a quello che dico? »
Daniel si stupì del tono e della forza di quelle affermazioni. « Mi ha frainteso, eccellenza. Non dubito affatto di ciò che dice. » Il prestigio d'ambasciatore di Deng era la ragione principale che aveva indotto Chetti Singh a insistere perché fosse presente a Chiwewe. D'istinto, Deng avrebbe preferito restare lontano dalla scena dell'attacco, o addirittura volare a Taipei per procurarsi un alibi inattaccabile. Ma Chetti Singh aveva minacciato di annullare l'operazione se lui non fosse stato sul posto per testimoniare che l'aggressione era avvenuta dopo la partenza dei camion. Era il nun to cruciale dell'operazione. Dato che era un ambasciatore accredita to, la parola di Deng avrebbe avuto un peso enorme nell'indagine della polizia. La testimonianza dei due ranger negri, da sola, non sarebbe stata accettata senza riserve. Anzi, c'era la possibilità che la polizia decidesse di « interrogarli » nella prigione di Chikurubi, e Chetti Singh non era affatto certo che avrebbero resistito a quel trattamento. No, era necessario far credere alla polizia che quando Deng aveva lasciato Chiwewe con il convoglio tutto era normale, e che l'avorio era stato portato via dagli assalitori o era andato distrutto nell'incendio del magazzino. « Mi scusi se le ho dato l'impressione di dubitare della sua paro la, eccellenza », disse Daniel. « Ma sono preoccupato per Johnny... il direttore. » « Be', le garantisco che non ne ha alcun motivo. » Deng intascò il fazzoletto e prese il pacchetto di sigarette dal taschino della cami cia. Ne tirò fuori una, ma le dita gli tremavano leggermente. La la sciò cadere nella polvere. Istintivamente lo sguardo di Daniel si abbassò, mentre Deng si chinava per riprendere la sigaretta. Portava un paio di scarpe da ginnastica di tela bianca, e Daniel notò che il lato d'una calzatura e il risvolto dei pantaloni di cotone blu erano macchiati da qualcosa di scuro che a prima vista sembrava sangue secco. Per un momento rimase sconcertato; poi ricordò che Deng era presente quella mattina quando le zanne erano state scaricate dal camion e depositate nel magazzino. Le macchie avevano una spiega zione ovvia: doveva aver sfiorato il sangue degli elefanti. Deng si accorse del suo sguardo e arretrò in fretta. Si rimise al volante della Mercedes e chiuse la portiera. Daniel non poté fare a meno di notare le orme poco comuni, a squame di pesce, che le suo le delle scarpe avevano lasciato nella polvere della strada. « Bene, sono contento di averla tranquillizzata, dottore. » Deng si affacciò sorridendo dal finestrino. Aveva ritrovato compostezza e garbo. « E di averle fatto risparmiare un inutile viaggio fino a Chi wewe. Immagino che vorrà unirsi al nostro convoglio e lasciare il parco prima che cominci a piovere. » Mise in moto la Mercedes. « Perché non passa in testa alla nostra colonna? » « La ringrazio, eccellenza. » Daniel scosse la testa e si scostò. « Prosegua pure con i camion. Io non vengo. Voglio tornare co munque. Qualcuno deve avvertire Johnny Nzou. » Il sorriso di Deng svanì. « Si vuol prendere un disturbo inutile, mi creda. Le consiglio di telefonargli dai Mana Pools o da Karoi. » « Non gliel'ho detto? Hanno tagliato i fili del telefono. » « Dottor Armstrong, questo è assurdo. Sono certo che si sbaglia. Sta esagerando la gravità di... » « La pensi come vuole », disse Daniel in tono deciso. « Ma io tor no a Chiwewe. » E si scostò dal finestrino della Mercedes. « Dottor Armstrong », gli gridò Deng. « Guardi quei nuvoloni. Rischia di restare bloccato per settimane. » « Sono disposto a correre il rischio », rispose Daniel con calma, ma pensò: perché insiste tanto? Qui sotto c'è qualcosa di marcio. Tornò in fretta al Land Cruiser. Quando passò accanto ai ca mion notò che i due ranger non erano scesi a terra. Erano cupi in volto. Nessuno dei due gli rivolse la parola.
« Bene, Gomo », disse Daniel. « Vai avanti con il camion, così potrò passare. » Il ranger obbedì in silenzio. Passato anche il secondo camion, la Mercedes dell'ambasciatore si affiancò a Daniel, che alzò la mano in un cenno di saluto. Deng lo degnò appena d'un'occhiata e seguì i camion oltre la curva, lungo la discesa che portava alla deviazione dei Mana Pools. « Che cosa ti ha detto quel cinese? » chiese Jock mentre Daniel tornava sulla strada per affrontare la ripida salita. « Ha detto che a Chiwewe era tutto tranquillo quando se n'è an dato, un'ora fa. » « Bene. » Jock frugò nella cassetta frigorifera e pescò una lattina di birra. La offrì a Daniel che scosse la testa concentrandosi sulla strada. Jock aprì la lattina, bevve un lungo sorso e ruttò soddi sfatto. La luce si oscurò e qualche grossa goccia di pioggia batté sul pa rabrezza, ma Daniel non rallentò. Era completamente buio quando arrivarono sulla cresta della scarpata. I fulmini balenavano nella te nebra e illuminavano la foresta di un crepitante bagliore azzurro; il tuono rotolava nel cielo e pareva urtare con violenza i costoni di granito ai margini della strada. La pioggia cominciò a cadere, simile a un nugolo di frecce d'ar gento nella luce dei fari. Ogni goccia esplodeva bianca sul vetro e scorreva, grossa al punto che i tergicristalli non riuscivano a liberare abbastanza in fretta il parabrezza. Nell'interno della cabina chiusa, l'umidità divenne opprimente e il vetro si appannò. Daniel si sporse per pulirlo con la mano; ma quando si accorse che riusciva soltanto a impiastricciarlo, vi rinunciò e aprì di pochi centimetri il suo fine strino per far entrare l'aria fresca della notte. Quasi immediatamen te arricciò il naso e fiutò. Jock lo sentì quasi nello stesso istante. « Fumo! » esclamò. « Sia mo molto lontani dal campo? » « Siamo quasi arrivati », rispose Daniel. « E giusto al di là del prossimo dosso. » L'odore del fumo si disperse e Daniel pensò che provenisse dai fuochi che i servitori accendevano per cucinare. Davanti a loro, inquadrato dai fari, il cancello del campo princi pale spiccava nell'oscurità. Le colonne imbiancate erano sovrastate ognuna da un cranio d'elefante. Il cartello diceva: BENVENUTI AL CAMPO Di CHIWEWE LA CASA DEGLI ELEFANTI Poi, a lettere più piccole: Tutti i visitatori in arrivo sono pregati di presentarsi immediatamente in direzione Il lungo viale fiancheggiato di casia scuri era inondato dall'ac qua piovana e i pneumatici del Toyota sollevavano spruzzi fittissi mi. Daniel si stava dirigendo verso il gruppo principale degli edifici, quando, all'improvviso, il puzzo di fumo divenne intenso. Era l'o dore di paglia e legno che bruciavano, con un sentore immondo di qualcosa d'altro, carne, ossa o avorio, forse, anche se Daniel non aveva mai sentito l'odore dell'avorio bruciato. « Le luci sono spente », mormorò quando vide le costruzioni buie sotto la pioggia. Il generatore del campo non era in funzione: tutto era immerso nell'oscurità. Poi notò una soffusa luce color ru bino che tremolava sopra gli alberi bagnati e guizzava dolcemente sui muri degli edifici. « Una costruzione sta bruciando. » Jock si tese in avanti . « Ecco da dove viene il fumo. » I fari del Toyota fendettero il buio e puntarono su una enorme massa amorfa. Il parabrezza appannato confondeva la vista di Da niel, che, per qualche attimo, non riuscì a capire che cosa fosse. Lo strano chiarore sembrava provenire di là. Solo quando furono più vicini riconobbe le nere rovine fumanti del deposito dell'avorio in
quadrate dalla luce dei fari. Inorridito, fermò il Toyota e scese nel fango. Il calore aveva scavato crepe nei muri: quasi tutti erano crollati. Doveva essere stato un incendio terribile per produrre una simile temperatura: il fuoco bruciava ancora nonostante la pioggia torren ziale. Spire di fumo oleoso ondeggiavano davanti ai fari, e ogni tan to le fiamme riesplodevano fino a che uno scroscio martellante d'acqua le smorzava di nuovo. La pioggia incollava la camicia al torso di Daniel e gli intrideva i capelli facendoli spiovere sulla fronte e sugli occhi. Li ributtò all'in dietro e s'inerpicò sulle macerie. Il tetto crollato era ormai uno spesso strato di cenere nera e di travi carbonizzate che intasavano l'interno, ma il fumo era ancora troppo denso e il caldo troppo op primente per permettergli di avvicinarsi di più in modo da scoprire quanto avorio era ancora sepolto sotto quella montagna annerita. Indietreggiò, correndo verso il Toyota. Risalì e si asciugò la pioggia dagli occhi con il palmo della mano. « Avevi ragione », disse Jock. « A quanto pare quei delinquenti hanno assalito il campo. » Daniel non rispose. Riaccese il motore e lanciò il Toyota su per il pendio, verso il cottage del direttore. « Prendi la torcia elettrica dalla cassetta », ordinò. Jock s'ingi nocchiò sul sedile e frugò nella cassa degli utensili fissata al pavi mento fino a che trovò la grossa Maglite. Come il resto del campo, la casetta era immersa nell'oscurità. La pioggia ruscellava dalle grondaie in un torrente argenteo, e i fari non riuscivano a illuminare la veranda chiusa dalle zanzariere. Da niel prese la torcia elettrica dalle mani di Jock e balzò a terra sotto il diluvio. « Johnny! » gridò. « Mavis! » Corse alla porta. Era stata scardi nata. Si avventò nella veranda. I mobili erano stati sfasciati e gettati qua e là. Daniel fece girare il raggio della lampada portatile su quel caos. I libri di Johnny era no stati buttati giù dagli scaffali: erano sparsi a terra con le pagine aperte e i dorsi spaccati. « Johnny! » gridò Daniel. « Dove sei? » Si precipitò nel salotto: lì, lo spettacolo della distruzione era ag ghiacciante. Avevano scagliato tutti i ninnoli e i vasi di Mavis con tro il camino di pietra, e i cocci luccicavano nel raggio della torcia. Avevano sventrato il divano e le poltrone. C'era lo stesso lezzo che caratterizza la gabbia di un animale, e Daniel vide che avevano de fecato sui tappeti e urinato contro i muri. Daniel passò fra i mucchi puzzolenti di feci e si lanciò nel corri doio che portava alle camere da letto. « Johnny! » gridò, sopraffatto dalla collera e dalla disperazione, puntando davanti a sé il raggio di luce. Sulla parete di fondo c'era qualcosa che non aveva mai visto. Era una macchia scura, a forma di stella, che copriva gran parte della superficie bianca. Per un momento Daniel la fissò senza com prendere; poi abbassò il fascio luminoso sulla sagoma minuscola ai piedi del muro. Johnny e Mavis avevano chiamato come lui l'unico maschio, Daniel Robert Nzou. Dopo due femmine, Mavis aveva avuto final mente un bambino, e i due genitori ne erano stati felici. Daniel Nzou aveva quattro anni. Giaceva riverso. Gli occhi erano aperti e fissavano senza vederlo il raggio della lampada. L'avevano ucciso secondo l'antica, barbara usanza africana, co me gli impi di Chaka e Mzilikazi avevano sterminato i figli maschi delle tribù sconfitte. Avevano afferrato per le caviglie il piccolo Da niel e l'avevano sbattuto con la testa contro il muro, schiacciandogli il cranio contro i mattoni. Il suo sangue aveva dipinto quella specie di affresco rudimentale sulla superficie bianca. Daniel si chinò sul bambino: il cranio era stato deformato dai
colpi, ma la somiglianza con il padre era ancora notevole. Le lacri me gli salirono agli occhi. Si rialzò e si voltò verso la porta della stanza da letto. Era semiaperta, ma non osava spalancarla. Dovette fare uno sforzo per riuscirci. I cardini cigolarono sommessamente. Per un momento guardò nella luce della Maglite mentre girava il raggio tutto intorno. Poi arretrò nel corridoio e si appoggiò al mu ro, scosso dalla nausea. Aveva visto scene come quelle al tempo della guerra nella bosca glia, ma gli anni avevano annullato il condizionamento e ammorbi dito la corazza che aveva eretto per proteggersi. Non sapeva più guardare con distacco le atrocità che l'uomo è capace di perpetrare contro i suoi simili. Le figlie di Johnny erano più grandi del fratello: Miriam aveva dieci anni, Suzie quasi otto. Erano nude e riverse sul pavimento ai piedi del letto. Tutte e due erano state violentate ripetutamente, e i loro genitali immaturi erano laceri e insanguinati. Mavis era sul letto. Non l'avevano spogliata del tutto; le aveva no alzato la gonna fino alla vita. Le braccia erano sollevate, legate per i polsi alla testata. Le bambine dovevano essere morte per lo shock e l'emorragia durante la prolungata violenza. Mavis era pro babilmente sopravvissuta sino alla fine: poi le avevano sparato alla testa. Daniel s'impose di entrare. Trovò delle lenzuola nell'armadio a muro e coprì i cadaveri. Non ebbe il coraggio di toccare le bambine, neppure per chiudere i loro occhi sbarrati dal terrore. « Santa Madre di Dio », mormorò Jock dalla soglia. « Quelli non sono esseri umani, ma belve sanguinarie. » Daniel uscì a ritroso e chiuse la porta. Anche il corpicino di Da niel Nzou fu coperto da un lenzuolo. « Hai trovato Johnny? » chiese a Jock. Aveva la voce rauca, la gola stretta dall'orrore e dall'angoscia. « No. » Jock scosse la testa, poi corse via, attraversò barcollando la veranda e uscì sotto la pioggia. Daniel lo sentì vomitare sull'aiuola ai piedi dello stoep. Quel suono contribuì a scuoterlo. Dominò la ripugnanza, la rabbia e il dolore e recuperò l'autocontrollo. « Johnny », si disse. « Devo trovare Johnny. » Andò a guardare nelle altre due stanze da letto e nel resto della casa. Non c'era traccia del suo amico: e questa poteva essere una fievole speranza. « Forse si è salvato », si disse. « Forse ha raggiunto la bosca glia. » Fu un sollievo uscire dalla casa della strage. Si fermò nell'oscuri tà e alzò il viso verso la pioggia. Aprì la bocca e lasciò che gli lavas se il sapore amaro della bile dalla lingua e dalla gola. Abbassò il raggio della torcia e vide che il sangue raggrumato si scioglieva dalle sue scarpe in una chiazza rosata. Ripulì le suole sulla ghiaia del via le e chiamò Jock: « Vieni. Dobbiamo trovare Johnny ». Raggiunsero con il Toyota il complesso dove alloggiavano i ser vitori del campo, ancora circondato da un bastione di terra e dal fi lo spinato, come ai tempi della guerra. Ma la recinzione era distrut ta, il cancello non c'era più. Entrarono. L'odore del fumo era in tenso. Nella luce dei fari, Daniel vide che le casette dei servitori era no bruciate. I tetti erano caduti, le finestre sfondate. La pioggia aveva spento le fiamme anche se qualche filo di fumo ondeggiava ancora, spettrale, nel fascio luminoso. Il terreno intorno alle macerie era cosparso di dozzine di minu scoli oggetti che scintillavano come diamanti. Daniel sapeva cos'e rano, ma scese e ne raccolse uno dal fango. Era un bossolo d'otto ne. L'accostò alla luce e riconobbe la dicitura in caratteri cirillici. 7,62 mm, di fabbricazione est-europea... era il calibro del diffusissi
mo AK 47, l'arma della violenza e della rivoluzione in tutta l'Africa e nel resto del mondo. La banda aveva sterminato i servitori ma non aveva lasciato ca daveri. Dovevano averli buttati nelle casette prima d'incendiarle. La brezza che soffiava verso Daniel gli portava l'odore delle abitazioni bruciate: e al fumo si mescolava il lezzo della carne, dei capelli e delle ossa carbonizzati. Sputò per togliersi quel sentore dalla bocca e si avviò fra le ca sette. « Johnny! » gridò nella notte. « Johnny, dove sei? » Ma gli unici suoni erano lo scoppiettio delle fiamme e il fruscio della brez za che faceva cadere spruzi di pioggia dai rami dei manghi. Girò la torcia a destra e a sinistra fino a che inquadrò il corpo di un uomo che giaceva all'aperto. « Johnny! » gridò. Accorse e si lasciò cadere in ginocchio. Il corpo era orrendamente ustionato e l'uniforme kaki del parco era bruciata per metà. La pelle e la carne cadevano a pezzi dal tora ce e dalla faccia. L'uomo s'era trascinato fuori della casetta incen diata dove l'avevano buttato, ma non era Johnny Nzou. Era uno dei ranger più giovani. Daniel si rialzò e tornò indietro. « L'hai trovato? » chiese Jock. Daniel scosse la testa. « Cristo, hanno massacrato tutti. Perché l'hanno fatto? » « Erano testimoni. » Daniel rimise in moto il Toyota. « Hanno eliminato tutti i testimoni. » « Perché? Cosa volevano? Non ha senso. » « L'avorio. Ecco cosa volevano . » « Ma hanno bruciato il magazzino. » « Sì, dopo averlo vuotato. » Daniel riportò il Toyota sulla pista e si inerpicò velocemente sul pendio. « Chi erano, Danny? Chi è stato? » « Come diavolo faccio a saperlo? Sciftà? Banditi? Bracconieri? Non fare domande idiote. » La rabbia di Daniel stava appena affiorando. Fino a quel mo mento era rimasto stordito dallo shock e dall'orrore. Passò di nuo vo davanti al bungalow buio e ridiscese verso il campo principale. La direzione era ancora intatta anche se, quando Daniel puntò il raggio della torcia sul tetto di paglia, vide un tratto annerito dove qualcuno aveva scagliato una torcia. Un tetto di paglia ben costrui to non brucia facilmente: le fiamme non s'erano diffuse, o forse erano state spente dalla pioggia. L'acquazzone cessò con la subitaneità caratteristica dell'Africa. Un minuto prima una furiosa cascata d'acqua limitava a cinquanta metri la portata dei fari; adesso era tutto finito. Soltanto gli alberi grondavano ancora, ma in cielo le prime stelle si affacciavano fra i nuvoloni che si disperdevano nella brezza. Daniel notò appena quel cambiamento. Lasciò il veicolo e salì correndo sulla veranda. Il muro esterno era decorato dai crani degli animali del parco. Le occhiaie vuote e le corna attorte, viste nella luce della torcia elet trica, avevano un che di macabro e accentuavano in Daniel la sensa zione di disastro mentre percorreva la veranda. Adesso si rendeva conto che sarebbe dovuto venire subito lì, in vece di andare al bungalow. La porta dell'ufficio di Johnny era aperta. Daniel indugiò sulla soglia prima di farsi forza e di entrare. Una nevicata di carte copriva il pavimento e la scrivania. Aveva no messo sottosopra l'ufficio, buttato giù i moduli dagli scaffali e strappato i cassetti dalla scrivania. Avevano trovato le chiavi di Johnny e avevano aperto la vecchia cassaforte Milner murata nella parete. Le chiavi erano ancora nella serratura, ma la cassaforte era vuota. Il raggio della torcia dardeggiò attraverso l'ufficio e si posò sulla figura che giaceva davanti alla scrivania.
« Johnny », bisbigliò. « Oh, Cristo, no! »
« Mentre aspetto che riparino il camion frigorifero ho pensato di scendere all'abbeverata di Fig Tree Pan. » La voce dell'ambasciato re Ning interruppe la concentrazione di Johnny Nzou, che comun que alzò la testa dalla scrivania con fare cordiale. Riteneva che fos se uno dei suoi doveri principali rendere accessibile quel territorio selvaggio a chiunque avesse interesse per la natura. Ning Deng Kong era uno di loro. Johnny notò con un sorriso il binocolo e la guida. Si alzò, lieto di avere una scusa per sfuggire alla noia del lavoro burocratico. Uscì con l'ambasciatore sulla veranda e arrivò fino alla Mercedes; si fermò a chiacchierare per qualche minuto, fornendo indicazioni sui luoghi dove avrebbe potuto trovare lo sfuggente e magnifico tordo della boscaglia che Deng voleva osservare. Quando Deng se ne andò, Johnny scese all'officina dove il ran ger Gomo stava smontando e rimontando l'alternatore del camion in avaria. Dubitava che Gomo fosse capace di riparare il danno. L'indomani mattina avrebbe probabilmente telefonato al direttore dei Mana Pools e gli avrebbe chiesto di mandare un meccanico. Per fortuna la carne d'elefante si sarebbe conservata comunque; l'impianto frigorifero del camion era collegato al generatore del campo e, quando Johnny andò a controllare, il termometro segnava venti gradi sotto zero. La carne sarebbe stata lavorata e trasformata in cibo per animali da un appaltatore di Harare. Johnny lasciò Gomo al suo lavoro e tornò nell'ufficio sotto i ca sia. Aveva appena lasciato l'officina quando Gomo alzò la testa e scambiò un'occhiata d'intesa con David, l'altro ranger negro. L'al ternatore su cui stava pasticciando era un vecchio pezzo che aveva preso da uno sfasciacarrozze di Harare proprio per quello scopo. L'alternatore originale, che funzionava alla perfezione, era nascosto sotto il sedile. Sarebbero bastati dieci minuti per imbullonarlo e col legare i fili. Johnny tornò in ufficio e riprese a occuparsi di moduli e registri. A un certo punto diede un'occhiata all'orologio; mancavano pochi minuti alle cinque, ma voleva terminare i rapporti della settimana prima di smettere. Certo, era tentato di tornare a casa alle cinque. Gli piaceva stare un po' con i bambini prima di cena, soprattutto con il maschietto. Ma resistette all'impulso e continuò a lavorare. Comunque, sapeva che presto Mavis avrebbe mandato i figli a pren derlo. Lei voleva cenare presto. Johnny sorrise pensando che fra poco sarebbero arrivati. Poi sentì un rumore sulla soglia e alzò gli occhi. Il sorriso sparì. Alla porta c'era uno sconosciuto, robusto e con le gambe storte, vestito di luridi stracci. Teneva le mani dietro la schiena come se nascondesse qualcosa. « Sì? » chiese Johnny. « Chi sei? Cosa vuoi? » L'uomo sorrise Aveva la pelle molto scura, con riflessi violacei. Quando sorrise la cicatrice che gli attraversava una guancia gli de formò la bocca e diede al sorriso un'espressione maligna. Johnny si alzò e gli andò incontro. « Che cosa vuoi? » ripeté. L'uomo sulla soglia disse: « Te! » Mo strò l'AK 47 e lo puntò al ventre di Johnny. Johnny era al centro della stanza. Colto completamente di sor presa, si riprese tuttavia quasi all'istante: aveva i riflessi del caccia tore e del soldato. La porta dell'armeria era a dieci passi sulla sua destra. Si lanciò. Le armi del parco erano là dentro. Attraverso la porta vedeva la rastrelliera sulla parete di fondo. Mentre la disperazione gli appe santiva le gambe, ricordò che nessuna di quelle armi era carica. Era una norma di sicurezza che lui stesso aveva imposto. Le munizioni erano nell'armadio d'acciaio chiuso a chiave.
Tutti questi pensieri gli balenarono nella mente mentre balzava verso la porta. Con la coda dell'occhio vide il bandito sfregiato che puntava verso di lui l'AK 47. Si buttò ancora in avanti come un acrobata, schivando la raffica che spazzava l'ufficio. Nel momento in cui si rimetteva in piedi sentì che l'uomo be stemmiava. Si lanciò di nuovo verso la porta. Si rendeva conto che l'assalitore sapeva il fatto suo; aveva capito che era un killer dal modo esperto con cui maneggiava il fucile. Era riuscito a sfuggire alla prima raffica per puro miracolo. L'aria era piena della polvere d'intonaco che i proiettili avevano strappato dal muro. Johnny si slanciò di nuovo, ma sapeva che non ce l'avrebbe fatta. L'uomo con l'AK 47 era troppo efficiente e non si sarebbe lasciato ingannare un'altra volta. La porta era troppo lon tana perché Johnny potesse raggiungerla prima della seconda raf fica. Nella mente di Johnny ticchettava un orologio: calcolò il tempo che l'uomo avrebbe impiegato per ritrovare l'equilibrio. La canna dell'AK 47 si sollevava sempre quando sparava sull'automatico; avrebbe impiegato quasi un secondo ad abbassarla e prendere la mi ra per sparare di nuovo. Johnny fece un rapido calcolo e si buttò con violenza da un lato, ma troppo tardi. Il killer mirò in basso per compensare il movimento dell'AK. Un proiettile penetrò nella coscia di Johnny e mancò l'osso; il secondo entrò attraverso la curva inferiore della natica e si schiacciò contro la giuntura del femore, fracassandone la testa e l'incavo della pelvi. Gli altri tre colpi lo mancarono mentre Johnny si buttava da un lato. Ma la gamba sinistra non lo reggeva più. Cadde contro lo sti pite e cercò di sostenersi. Lo slancio lo fece scivolare lungo il muro, e le unghie graffiarono l'intonaco. Finì rivolto verso la stanza, ritto su una gamba sola; quella sinistra pendeva dalla giuntura sfracella ta, e le braccia erano spalancate come quelle di un crocifisso mentre cercava di non perdere l'equilibrio. Il bandito non smise di sorridere. Regolò il selettore sul colpo unico. Non voleva sprecare le munizioni. Un colpo costava dieci kwacha zambiani, e i proiettili dovevano essere portati nello zaino per centinaia di chilometri. Ogni cartuccia era preziosa e il direttore era immobilizzato: sarebbe stato sufficiente un altro colpo. « Adesso », mormorò. « Adesso morirai. » E sparò allo stomaco di Johnny Nzou. Il colpo espulse l'aria dai polmoni di Johnny in un'esalazione esplosiva, lo scagliò contro il muro e lo fece piegare in due. Stra mazzò bocconi. Era stato ferito altre volte, durante la guerra, ma non al corpo. Lo shock superava le sue attese peggiori. Si sentiva intorpidito dalla vita in giù, tuttavia la mente era ancora lucida, cri stallina, come se l'afflusso dell'adrenalina nel sangue avesse acuito al massimo le percezioni. « Fai il morto! » pensò nell'attimo stesso in cui cadeva. La metà inferiore del suo corpo era paralizzata ma si sforzò di rilassare i mu scoli del torso. Piombò sul pavimento come un sacco di farina e non si mosse. Aveva la testa girata, una guancia sul pavimento freddo. E stava immobile. Sentì l'assassino avvicinarsi. Le suole di gomma degli scarponi scricchiolavano leggermente. Poi gli scarponi entrarono nella visuale di Johnny. Erano impolverati e logori. L'uomo non portava calzettoni, e il lezzo dei piedi era rancido e acre, a pochi centimetri dalla faccia del ferito. Johnny sentì lo scatto metallico del meccanismo quando lo zam biano regolò il selettore, e poi il contatto freddo della canna contro la tempia mentre l'uomo si preparava al colpo di grazia. « Non muoverti », si disse Johnny. Era la sua ultima speranza. Sapeva che il minimo movimento avrebbe provocato il colpo. Dove va far credere al killer d'essere già morto. In quel momento dall'esterno giunsero grida e una raffica di
spari seguita da altre grida. La pressione della canna dall'AK 47 si staccò dalla tempia di Johnny. Gli scarponi fetidi si allontanarono in direzione della porta. « Avanti! Non perdiamo tempo! » gridò lo sfregiato. Johnny co nosceva il chinianja quanto bastava per capire. « Dove sono i ca mion? Dobbiamo caricare l'avorio. » Lo zambiano corse fuori e lasciò Johnny sul pavimento. Johnny sapeva d'essere ferito a morte. Sentiva il sangue uscire dalla ferita all'inguine. Si girò sul fianco e aprì i calzoni. Sentì l'o dore delle feci e comprese che il secondo proiettile gli aveva squar ciato gli intestini. Premette le dita sulla ferita all'inguine e un fiotto di sangue caldo gli riempì la mano. Trovò l'arteria femorale aperta e strinse l'estremità recisa. « Mavis e i bambinit » Fu il suo primo pensiero. Cosa poteva fa re per loro? In quel momento sentì altri spari. Venivano dalla colli na: dalla direzione delle casette dei servitori e del suo cottage. « E una banda », pensò, disperato. « Sono dappertutto. Attacca no il complesso. » E poi: « I miei figli! Oh, Dio, i miei figli! » Pensò alle armi della stanza accanto. Ma sapeva che non poteva raggiungerle. E anche se ce l'avesse fatta, come poteva usare un fu cile avendo l'intestino sventrato e il sangue che si spandeva in una pozza sotto di lui? Sentì i camion. Riconobbe il rombo dei diesel e comprese che erano i camion frigoriferi. Provò un guizzo di speranza. « Gomo », pensò. « David.... » Ma la speranza durò poco. Diste so sul pavimento, si accorse che poteva guardare al di là della porta spalancata. In quel momento apparve uno dei camion frigoriferi, si accostò a marcia indietro alla porta del magazzino dell'avorio. Appena si fermò, Gomo balzò a terra e cominciò a discutere gesticolando con il capobanda sfregiato. Stordito e sempre più debole, Johnny impie gò qualche secondo per capire. « Gomo », pensò. « Gomo è uno di loro. Ha organizzato tutto. » Non era molto sorpreso. Johnny sapeva quanto era diffusa la corruzione fra i dipendenti statali, e non solo nell'amministrazione dei parchi. Aveva testimoniato più volte davanti alla commissione d'inchiesta, e aveva giurato di estirpare quella piaga. Conosceva be ne Gomo. Era arrogante ed egoista ma, per quanto lo sapesse diso nesto, Johnny non aveva mai immaginato che il suo tradimento ar rivasse fino a quel punto. All'improvviso l'area intorno al deposito che Johnny riusciva a vedere fu invasa dagli altri componenti della banda. Lo sfregiato si organizzò: uno di loro fece saltare con un colpo di AK 47 la serratu ra. I banditi posarono le armi ed entrarono. Risuonarono grida di gioia avida quando videro le cataste di zanne; poi formarono una catena umana e cominciarono a passarsele per caricarle sui camion. La vista di Johnny si offuscò. Nubi di tenebra gli passavano da vanti agli occhi e un ronzio sommesso gli risuonava nelle orecchie. « Sto morendo », pensò freddamente. Sentiva il torpore che sali va dalle gambe paralizzate verso il petto. Scacciò la tenebra con uno sforzo e pensò che stava delirando, perché adesso l'ambasciatore Ning era là, nel sole, ai piedi della ve randa. Aveva ancora il binocolo appeso alla spalla e i suoi modi erano assurdamente calmi e garbati. Johnny cercò di gridare per av vertirlo: ma dalla gola gli usci soltanto un rantolo soffocato. Poi vide il capobanda sfregiato andare incontro all'ambasciatore e salutarlo, se non proprio con rispetto, almeno riconoscendo la sua autorità. « Ning. » Johnny dovette fare uno sforzo per crederlo. « E dav vero Ning. Non sto sognando. » Le voci dei due uomini giunsero fino a lui. Parlavano in inglese. « Di'ai tuoi uomini di sbrigarsi », disse Ning Deng Kong. « De vono caricare l'avorio... voglio andarmene immediatamente. »
« Quattrini », rispose Sali. « Mille dollari... » Parlava l'inglese in modo atroce. « Sei già stato pagato. » Deng aveva un tono indignato. « Ti ho già dato quel che ti dovevo. » « Ancora quattrini. Ancora mille dollari. » Sali sogghignò. « An cora quattrini o smetto. Noi andiamo, lasciamo qui te e l'avorio. » « Sei un mascalzone », ringhiò Deng. « Non capisco 'mascalzone', ma penso che sei un mascalzone an che tu, forse. » Il sogghigno di Sali si accentuò. « Dammi subito i quattrini. » « Non ho altro denaro con me », disse seccamente Deng. « Allora noi andiamo. Subito. Carica da solo l'avorio. » « Aspetta. » Deng doveva aver pensato in fretta. « Non ho de naro. Prendi l'avorio che vuoi. Prendi tutto quello che potete porta re. » Deng aveva capito che i bracconieri avrebbero potuto traspor tare solo un numero trascurabile di zanne, non più di una per cia scuno. Venti uomini, venti zanne... un prezzo modesto. Sali lo fissò e considerò la proposta. Aveva già strappato tutti i vantaggi possibili da quella situazione. Annui. « Bene. Noi prendiamo l'avorio. » E fece per voltarsi. L'ambasciatore Ning lo chiamò. « Aspetta, Sali. E gli altri? Li hai sistemati? » « Sono tutti morti. » « Il direttore, la moglie e i figli? Anche loro? » « Tutti morti », ripeté Sali. « La donna è morta, e anche i piccoli. I miei uomini hanno fatto jig-jig con le tre donne, prima. Molto di vertente. Poi le hanno uccise. » « Il direttore? Dov'è? » Sali indicò con la testa la porta dell'ufficio. « Gli ho sparato. Pam-pam. E morto come un Il 'gulubi, come un porco. » Rise. « Bel lavoro, eh? » Si allontanò ridacchiando con il fucile in spalla; Deng lo segui, uscendo dalla visuale di Johnny. La collera assali Johnny e gli resti tui un po' di forza. Le parole del bracconiere avevano evocato la vi sione spaventosa del destino di Mavis e dei bambini. Lo vedeva chiaramente, come se fosse stato sul posto: conosceva le violenze e i saccheggi. Li aveva vissuti durante la guerra nella boscaglia. Si servi della forza della collera per trascinarsi verso la scrivania. Sapeva di non poter usare un'arma. Poteva solo sperare che gli re stasse qualche minuto di vita per lasciare una specie di messaggio. I fogli erano caduti dalla scrivania e s'erano sparsi sul pavimento. Doveva prenderne uno, scrivere e poi nasconderlo. La polizia l'a vrebbe trovato. Si muoveva come un bruco storpio, disteso sul dorso, e conti nuava a stringere l'arteria recisa. Sollevò il ginocchio della gamba illesa, puntellò il calcagno e si spinse faticosamente sul pavimento, scivolando sulla schiena pochi centimetri alla volta, mentre il san gue lubrificava il passaggio. Si spostò di poco meno di due metri in direzione della scrivania e prese un foglio. E vide che era un foglio del libro paga. Non l'aveva ancora toccato quando l'intensità della luce cam biò. Sulla soglia c'era qualcuno. Girò la testa e vide l'ambasciatore Ning che lo fissava. Era salito sulla veranda. Le suole di gomma delle scarpe da ginnastica non avevano fatto rumore. Adesso era sulla soglia, paralizzato dallo shock. Fissò Johnny ancora per un at timo. Poi gridò con voce stridula: « E ancora vivo! Sali, vieni subi to, è ancora vivo! » Deng spari e corse lungo la veranda continuando a gridare per chiamare il bracconiere: « Sali, vieni qui subito! » Era finita, e Johnny lo sapeva. Gli restavano pochi secondi. Si girò sul fianco, afferrò il foglio del libro paga. Lo premette sul pa vimento con una mano; poi lasciò l'arteria recisa e sollevò la mano intrisa di sangue. Subito sentì che l'emorragia era ormai inarresta
bile. Passò l'indice sul foglio bianco e scrisse con il proprio sangue, tracciando la lettera N, grande e sghemba. La vertigine lo stordì. NI. Era sempre più difficile concentrarsi. La linea discendente della era allungata e curva, troppo simile a una J. Faticosamente, tracciò il punto per rendere più chiaro il significato. Per un attimo il dito rimase incollato dal sangue al foglio, poi riuscì a staccarlo. Incominciò la seconda N. Era rudimentale, infantile. Il dito non obbediva agli ordini della mente. Sentì che l'ambasciatore continua va a chiamare Sali: poi il grido di risposta del bracconiere lo colmò d'allarme e di costernazione. NIN... Johnny incominciò la G ma il dito deviò, e le lettere rosse guizzarono davanti ai suoi occhi come girini. Sentì un passo frettoloso sulla veranda, e la voce di Sali: « Credevo che era morto. Adesso lo finisco! » Johnny strinse il foglio nella mano sinistra, non macchiata di sangue, infilò il pugno all'interno della giubba e si girò bocconi per nascondere il mes saggio. Non vide Sali che entrava. Aveva la faccia premuta sul pavimen to. Sentì gli scarponi scricchiolare e scivolare sul sangue, poi lo scat to della sicura. Johnny non provava terrore, ma solo un senso sconfinato di an goscia e di rassegnazione. Pensò a Mavis e ai bambini quando sentì la canna toccargli la nuca. Era un sollievo pensare che non sarebbe rimasto solo dopo la loro morte, e non avrebbe dovuto vedere ciò che gli era accaduto: non sarebbe mai stato costretto a prendere at to dei segni della loro sofferenza, della loro degradazione. Stava già morendo prima che il proiettile dell'AK 47 gli trapas sasse il cranio e si piantasse nel cemento sotto la sua faccia. « Merda », disse Sali. Indietreggiò e si mise il fucile sulla spalla. Un filo di fumo usciva ancora dalla canna. « Duro a morire. Mi ha costretto a sprecare miningi, proiettili, dieci kwacha ciascuno. Troppo! » Ning Deng Kong entrò nell'ufficio. « Sei sicuro di aver finito il lavoro? » chiese. « Gli ho fatto saltare la testa », borbottò Sali. Prese le chiavi di Johnny dalla scrivania e andò a saccheggiare la cassaforte. « Kufa! E proprio morto. » Deng si avvicinò al cadavere e lo fissò, affascinato. L'uccisione l'aveva eccitato sessualmente: non come se fosse stata una bambina a morire, ma ne era stato comunque eccitato. L'odore del sangue riempiva la stanza. Amava quell'odore. Era così assorto che non si accorse d'essersi fermato in una poz za di sangue fino a che Gomo lo chiamò dall'esterno. « Abbiamo caricato l'avorio. Possiamo andare. » Deng indie treggiò e proruppe in un'esclamazione di disgusto quando vide la macchia sul risvolto dei pantaloni di cotone blu. « Io vado », disse a Sali. « Incendia il magazzino dell'avorio pri ma di ripartire. » Nella cassaforte, Sali aveva trovato il sacco di tela della banca con gli stipendi mensili dei dipendenti del campo. Grugnì senza al zare gli occhi. « Sì, sì, brucerò tutto. » Deng scese dalla veranda e si mise al volante della Mercedes. Fece un segnale a Gomo e i due camion frigoriferi partirono. L'avo rio era stato caricato e coperto con le carcasse smembrate degli ani mali uccisi. Un'ispezione superficiale non avrebbe rivelato il tesoro, e comunque nessuno avrebbe fermato il convoglio. Erano protetti dagli stemmi dell'amministrazione dei parchi nazionali dipinti sui camion, dalle uniformi kaki e dalle mostrine dei due ranger, Gomo e David. Non li avrebbero fermati neppure a uno dei tanti blocchi stradali. Le forze della sicurezza pensavano a catturare i dissidenti
politici, non i contrabbandieri d'avorio. Era andato tutto come aveva previsto Chetti Singh. Deng guar dò nello specchietto retrovisore della Mercedes. Il deposito dell'avo rio stava già bruciando. Sei uomini s'incolonnavano per la marcia di ritorno, e ognuno di loro portava un grossa zanna. Deng sorrise. Forse l'avidità di Sali sarebbe tornata a suo van taggio. Se la polizia avesse catturato la banda, la sparizione dell'a vorio avrebbe trovato una spiegazione nell'incendio e nel carico dei bracconieri. Deng aveva insistito perché lasciasse quaranta zanne nel ma gazzino incendiato, in modo che la scientifica trovasse tracce d'avo rio. « Un'altra falsa pista... » avrebbe detto Chetti Singh. Deng rise rumorosamente. Era euforico. Il successo dell'impre sa e l'eccitazione della violenza, della morte e del sangue gli scalda vano le viscere e gli davano un senso di potenza. Si sentiva impor tante, sessualmente esaltato; all'improvviso si accorse di avere una poderosa erezione. La prossima volta, decise, sarebbe stato lui a uccidere. Era natu rale pensare che ci sarebbe stata una prossima volta, anzi molte al tre volte. La morte lo faceva sentire immortale.
« Johnny. Oh, Dio, Johnny. » Daniel si accosciò accanto a lui e gli toccò la gola sotto l'orecchio, per cercare la pulsazione della ca rotide. Era un gesto istintivo perché il foro d'entrata del proiettile nella nuca era fin troppo chiaro. Il corpo di Johnny era freddo, e Daniel non trovava ancora il coraggio di girarlo per vedere il foro d'uscita. Lo lasciò così, mentre la collera prendeva il posto della fredda morsa dell'angoscia. Alimentò la sua rabbia come se fosse la fiamma d'una candela in una notte buia: riscaldava il vuoto gelido lasciato da Johnny nella sua anima. Finalmente si alzò. Girò il raggio della Maglite sul pavimento, e scavalcò le pozze e le macchie del sangue di Johnny per entrare nel l'armeria. Il comando del generatore era nel quadro accanto alla porta. Fe ce scattare l'interruttore e sentì il fragore lontano del motore diesel nella centralina posta accanto all'entrata principale del campo. Il suono si assestò in un ritmo costante, poi il generatore entrò in fun zione e le luci palpitarono e si accesero. Attraverso la finestra, Da niel vide i lampioni che illuminavano il viale; nel loro chiarore i ca sia erano di un verde vivo, ingemmato dalle gocce di pioggia. Prese il mazzo di chiavi che pendeva dalla serratura della cassa forte ed entrò nell'armeria. Oltre ai 375 da caccia, nella rastrelliera c'erano cinque AK 47 che venivano usati dalle pattuglie antibracco naggio, quando i ranger avevano bisogno d'una potenza di fuoco equivalente a quella delle bande. Le munizioni erano nell'armadio sotto la rastrelliera. Aprì l'anta d'acciaio. In ognuna delle cartuccie re appese ai ganci c'erano quattro caricatori per gli AK 47. Se ne buttò uno sulla spalla, poi prese un fucile automatico e lo caricò con movimenti esperti: le abitudini della guerra, una volta imparate, non si dimenticavano più. Armato e furioso, scese cor rendo i gradini della veranda. « Cominciamo dal magazzino dell'avorio », decise. « Ci saranno andati di sicuro. » Girò intorno alla costruzione bruciata, nella luce dei lampioni, e puntò il raggio della Maglite su tutto ciò che attirava la sua atten zione. Se avesse riflettuto, si sarebbe reso conto che stava perdendo tempo. Le sole impronte che avevano resistito alla pioggia erano quelle protette dal tetto della veranda e una serie di pesanti tracce di pneumatici nel fango davanti all'ingresso del magazzino; ma anche queste erano quasi irriconoscibili. Daniel le ignorò: a lui interessavano i banditi, e sapeva che non avevano usato veicoli. Allargò la zona della ricerca, tentando di di
stinguere una serie di orme che si allontanavano, e si concentrò sul la parte settentrionale del perimetro del campo, nella convinzione che la banda s'era nuovamente diretta verso lo Zambesi. Come già aveva intuito era tutto inutile. Rinunciò dopo una ventina di minuti. Non c'erano tracce da seguire. Si fermò sotto gli alberi, sopraffatto dalla frustrazione e dall'angoscia. « Se potessi sparare a quei bastardi », mormorò. Nel suo stato d'animo non aveva molta importanza il fatto che sarebbe stato solo contro venti o più assassini di professione. Jock era un cameraman, non un soldato, e non sarebbe stato d'aiuto in uno scontro. Il ricor do dei corpi seviziati nella camera da letto del bungalow e della te sta fracassata di Johnny sopraffaceva ogni pensiero razionale. Da niel si accorse di tremare per la violenza della rabbia, e questo lo aiutò a ritrovare la lucidità. « Mentre perdo tempo qui, quelli si stanno mettendo al sicuro », si disse. « L'unica possibilità è tagliargli la strada al fiume. Ho biso gno d'aiuto. » Pensò al campo dei Mana Pools. Il direttore era un brav'uomo, e Daniel lo conosceva da anni. Aveva una squadra antibracconaggio e un'imbarcazione veloce. Avrebbero potuto scendere il fiume e sor vegliare l'attraversamento per sorprendere la banda mentre cercava di tornare sulla sponda zambiana. Daniel stava ricominciando a pensare secondo logica mentre tornava verso l'edificio della direzio ne. Dai Mana Pools avrebbero potuto chiamare Harare e chiedere alla polizia di mandare un aereo per le ricerche. Sapeva che era indispensabile agire in fretta. Entro dieci ore la banda avrebbe riattraversato il fiume. Ma non poteva lasciare Johnny così, in una pozza di sangue. Anche se avrebbe perso qual che minuto, doveva dimostrare il suo rispetto e provvedere almeno a coprire il cadavere. Si soffermò sulla soglia dell'ufficio. La luce accesa era brutale, impietosa: non nascondeva nulla dell'orrore. Posò l'AK 47 e si guar dò intorno, cercando qualcosa per coprire la salma dell'amico. Le tende delle finestre erano grige e sbiadite dal sole, ma potevano ser vire come sudario. Ne staccò una e si avvicinò a Johnny. Johnny giaceva in una posa tormentata. Un braccio era ripiega to sotto il petto, il volto era premuto in una pozza di sangue quasi coagulato. Daniel lo girò. Il corpo non era ancora irrigidito. Rab brividì nel vedere la faccia; il proiettile era uscito attraverso il so pracciglio destro. Si servì di un angolo della tenda per pulirgli il vi so, poi girò il corpo sul dorso. Johnny teneva la mano sinistra infilata all'interno della giubba, con le dita contratte. Daniel notò il foglio appallottolato fra le dita e le forzò per liberare la carta. Si alzò, andò alla scrivania e aprì il foglio. Vide subito che Johnny vi aveva scribacchiato qualcosa con il suo sangue, e rabbri vidì nello scorgere quelle lettere macabre. NJNC. Erano lettere infantili, rozze, sbavate e appena leggibili. Non avevano senso, anche se forse la J era una I La studiò. NINC. Il messaggio, comunque, non era chiaro. Era privo di senso, o forse aveva un significato oscuro, comprensibile solo per un morente. All'improvviso Daniel provò un fremito: qualcosa cercava di emergere dal suo subconscio. Chiuse gli occhi. Spesso era utile la sciare che la mente si svuotasse quando cercava un'idea o un ricor do che gli sfuggiva; se avesse insistito sarebbe riuscito soltanto a sommergerlo. Era così vicino... un'ombra appena al di sotto della coscienza, come la sagoma di uno squalo antropofago sotto la su perficie di un mare gonfio. NINC. Riaprì gli occhi e guardò il pavimento. C'erano le orme insan guinate delle sue suole e di quelle dell'assassino. Ma non ci pensava: era ancora alle prese con la parola enigmatica che Johnny aveva la sciato per lui.
Poi si accorse che il suo sguardo era fisso su un'orma. I suoi nervi si tesero e vibrarono come i cantini di un violino percossi dal l'archetto. L'orma era caratterizzata da un disegno a squame di pesce. NINC. La parola gli risuonò nella mente: l'orma le diede un sen so, e l'eco ritornò, alterata e irresistibile. NING. Johnny aveva cerca to di scrivere NING! Daniel si sentì raggelare. Lo shock della rivela zione lo fece rabbrividire. « L'ambasciatore Ning... Ning Deng Kong. » Com'era possibi le! Eppure c'erano le orme insanguinate che confermavano l'assur do. Ning era venuto lì dopo che qualcuno aveva sparato a Johnny. Aveva mentito dicendo di essere partito quando... Daniel interrup pe quella concatenazione di pensieri quando un altro ricordo lo col pì come il dardo di una balestra. Il sangue sul risvolto dei pantaloni di cotone blu, le orme delle scarpe da ginnastica di Ning e il sangue... il sangue di Johnny. Adesso la sua rabbia aveva un bersaglio, ma era una rabbia fredda, costruttiva. Rimise il foglio nella mano di Johnny, lo chiuse fra le dita perché la polizia lo trovasse. Poi stese la tenda verde sul corpo dell'amico e coprì la testa sfracellata. Indugiò ancora per qualche secondo. « Prenderò quel bastardo per te, vecchio amico mio. Per te, per Mavis e per i bambini. Te lo prometto, Johnny, sulla memoria della nostra amicizia. Lo giuro. » Poi afferrò il fucile e corse fuori del l'ufficio, scese i gradini e raggiunse Jock che attendeva accanto al Land Cruiser. Nei pochi secondi che impiegò per arrivare al Toyota, gli ultimi dettagli si composero in ordine nella sua mente. Ricordò l'agitazio ne di Deng quando aveva creduto che Daniel si trattenesse a Chi wewe e il suo evidente sollievo quando aveva saputo che stava per partire. Si voltò a guardare le rovine del deposito dell'avorio e le im pronte dei pneumatici ancora visibili nel fango. Era un piano sem plice e ingegnoso: fare in modo che la banda dei bracconieri attiras se gli inseguitori, mentre gli altri portavano via l'avorio con camion dell'amministrazione dei parchi. Daniel ricordava il comportamento brusco e innaturale di Gomo e dell'altro autista quando li aveva in contrati sulla strada. Adesso aveva una spiegazione. Stavano tra sportando un carico d'avorio rubato: era logico che si comportasse ro stranamente. Mentre si metteva al volante del Land Cruiser e ordinava a Jock di salire, diede un'occhiata all'orologio. Erano quasi le dieci: erano passate circa quattro ore da quando aveva incontrato Deng e i ca mion sulla strada della scarpata. Avrebbe potuto raggiungerli prima che arrivassero alla strada principale e scomparissero? Si rendeva conto che con un piano così meticoloso dovevano aver previsto an che un percorso di fuga e un mezzo per sbarazzarsi dell'avorio. Av viò il Land Cruiser e azionò la leva del cambio. « Non te la caverai, lurido bastardo! » In molti tratti la pioggia torrenziale aveva scava to la strada, aprendo solchi che arrivavano al ginocchio e mettendo allo scoperto massi grandi come palle da cannone. Daniel forzò il Land Cruiser con tale violenza che Jock si aggrappò alla maniglia della plancia per sostenersi. « Rallenta, Daniel, accidenti, o ci ammazzeremo. Dove diavolo stiamo andando così in fretta? » In poche parole, Daniel lo spiegò. « Non puoi toccare un ambasciatore », borbottò Jock mentre il veicolo sobbalzava. « Se sbagli, ti metteranno in croce. » « Non sbaglio », gli assicurò Daniel. « Oltre al messaggio di Johnny, me lo sento nelle viscere. » L'acqua piovana era precipitata lungo il pendio e, quando arrivarono al fondovalle, dovettero ral lentare e fermarsi. Appena poche ore prima Daniel aveva attraver sato e riattraversato il letto d'un fiume in secca ai piedi della scarpa
ta. Ora era bloccato nei pressi del guado e valutava la situazione nella luce dei fari. « Non ce la farai mai a passare », borbottò Jock con voce allar mata. Daniel lasciò il motore acceso e scese nel fango che gli arrivava alle caviglie. Corse fino al bordo dell'acqua impazzita color caffel latte che scorreva turbinosa, trascinando alberelli e cespugli sradica ti. L'altra riva era distante una cinquantina di metri. Uno degli alberi vicino al guado si protendeva sopra il torrente, e, in certi punti, quasi sfiorava le acque vorticanti con i rami più bassi Daniel si afferrò al ramo principale per sostenersi e si calò nel fiume. Avanzò nella corrente, usando tutta la forza delle braccia per non farsi trascinare via. Sebbene la dirompente violenza dell'ac qua gli sollevasse di continuo i piedi dal fondo, Daniel riuscì a por tarsi nel tratto centrale e più alto. L'acqua gli arrivava alle costole e il ramo cui si teneva aggrap pato scricchiolava e s'incurvava come una canna da pesca. A quel punto, Daniel cominciò a tornare verso la riva. Grondante, uscì dal torrente: i pantaloni fradici erano incollati alle gambe, gli stivali ci golavano. « Si può andare », disse a Jock rimettendosi al volante. « Sei completamente pazzo », esplose Jock.« Io non vengo. » « Bene! D'accordo! Ti do due secondi per scendere », ribatté rabbiosamente Daniel innestando le quattro ruote motrici e la prima. « Non puoi lasciarmi qui! » urlò Jock. « E un posto pieno di leo ni. Cosa ne sarà di me? » « Questo è affar tuo, amico. Vieni o no? » « E va bene, fai pure! Così moriremo annegati! » Jock capitolò e si afferrò ai bordi del sedile Daniel lanciò il Land Cruiser giù per il pendio scosceso che por tava al guado e poi nelle acque scure. Continuò ad avanzare ad an datura regolare. Dopo pochi metri l'acqua superò il livello delle ruote, ma il muso era ancora inclinato verso il basso. Il fondo con tinuava a scendere. Vi fu uno sbuffo di vapore quando l'acqua inondò il vano mo tore e piombò sul metallo caldissimo della testata. I fari sparirono sotto la superficie e diventarono due fiochi bagliori nel torrente agi tato. Un'onda di prua si sollevò davanti al cofano mentre l'acqua saliva al livello del parabrezza. Un motore a benzina si sarebbe bloccato irrimediabilmente, ma il grosso diesel continuava a man darli avanti con tenacia. L'acqua fiottava dalle portiere e arrivava fino ai polpacci. « Sei pazzo, pazzo! » gridò Jock, puntando i piedi sulla plancia. « Voglio andare a casa! » Il fuoristrada cominciava a ondeggiare: l'aria imprigionata nella carrozzeria lo sollevava e i pneumatici rotanti non facevano più pre sa sul fondo sassoso. « Oh, mio Dio! » gridò Jock quando un enorme albero sradicato uscì dalla tenebra e piombò verso di loro. L'albero urtò la fiancata del Toyota, sfondò uno dei finestrini e lo fece sbandare. Vennero scagliati verso valle, mentre ruotavano lentamente sotto il peso dell'albero. Dopo un giro completo, il mor tale abbraccio della massa arborea si spezzò. Ormai liberi, ripresero a galleggiare; ma subito affondarono mentre l'aria imprigionata fuoriusciva dal Land Cruiser. L'acqua ruscellò attraverso il vetro spaccato, e quasi subito finirono immersi fino alla cintura. « Io esco », gridò Jock, e si buttò contro la portiera. « Non si apre! » Si stava abbandonando al panico mentre la pressione del l'acqua teneva bloccata la portiera. All'improvviso, Daniel sentì che le ruote toccavano di nuovo il fondo. La corrente li aveva trascinati in un'ansa e li aveva spinti
contro l'altra sponda. Il motore funzionava ancora. La presa d'aria modificata e dotata di filtro arrivava sino al tettuccio. Daniel l'ave va fatta installare in previsione di qualche emergenza del genere. Le ruote fecero presa sul fondo sassoso e trascinarono avanti la massa del fuoristrada. « Su, bello », implorò Daniel. « Tiraci fuori! » Il robusto veicolo obbedì. Tremò e sobbalzò, cercando di issarsi fuori dell'acqua. I fa ri riemersero e sfolgorarono illuminando la riva lontana. La piena li aveva gettati su un banco di fango, e il Toyota incominciò a salirvi, mentre i pneumatici anteriori tentavano di artigliare il pendio. Davanti a loro c'era un tratto basso della riva. Il veicolo slittò e continuò a salire con il motore che ruggiva; poi dilaniò rabbiosa mente i cespugli sopravvissuti all'alluvione e aprì solchi profondi nella terra molle fino a che i pneumatici la scagliarono avanti, all'a sciutto. L'acqua grondava dalla carrozzeria come da un sommergi bile appena riemerso, e il grosso motore diesel muggì trionfante mentre avanzavano nella foresta di mopani. « Sono ancora vivo! » mormorò Jock. « Alleluia! » Daniel procedette parallelamente alla riva, guidando il Land Cruiser fra i tronchi degli alberi fino a quando giunsero al margine della strada. Disinnestò la prima, diede potenza al motore, e lanciò il veicolo verso la deviazione dei Mana Pools. « Ci sono molte altre traversate come questa? » chiese preoccu pato Jock. Per la prima volta dopo aver visto Johnny morto, Da niel sorrise; ma era un sorriso cupo. « Appena quattro o cinque », rispose. « Una gita domenicale. Uno scherzo. » Diede un'occhiata all'orologio. Deng e i camion frigoriferi ave vano quasi quattro ore di vantaggio. Dovevano aver superato i gua di prima che venissero inondati dalle acque torrenziali discese dalla scarpata. La terra sotto i mopani sembrava cioccolata tiepida sciol ta dalla pioggia. Quel terreno soffice, quand'era bagnato, impanta nava i veicoli con estrema facilità. Il Land Cruiser slittava e lasciava profondi solchi glutinosi dietro le ruote. « Ecco un altro fiume », avvertì Daniel mentre la pendenza della strada cambiava e i folti cespugli scuri si stringevano ai lati della strada. « Metti il giubbotto-salvagente. » « Non me la sento di affrontare un'altra traversata come l'ulti ma. » Jock si voltò verso di lui, pallidissimo nella luce fioca della plancia. « Prometto che dirò dieci Ave Maria e cinquanta Padre No stro... » « Il prezzo è giusto... andrà tutto bene », gli assicurò Daniel mentre i fari illuminavano il guado. In Africa una piena-lampo si esaurisce quasi con la stessa rapidi tà con cui sale. La pioggia era cessata quasi due ore prima, e il de clivio della valle era quasi completamente svuotato. C'era il segno dell'acqua alta sulla riva opposta, poco meno di due metri al di so pra della superficie attuale delle acque, e indicava come fossero de fluite in fretta. Questa volta il Land Cruiser attraversò senza pro blemi. L'acqua non arrivò neppure a coprire i fari prima che il vei colo risalisse trionfalmente sull'altra sponda. « La forza della preghiera », borbottò Daniel. « Continua, Jock, e finiremo per fare di te un vero credente. » Il terzo fiume s'era abbassato ancora di più e giungeva appena alla sommità delle ruote. Daniel non si preoccupò neppure di cam biare la marcia per passare. Dopo quaranta minuti, parcheggiò da vanti al bungalow del direttore al Mana Pools Camp. Mentre Jock suonava con insistenza il clacson, Daniel tempestava di pugni la porta. Il direttore uscì sulla veranda. Indossava solo un paio di mutan de. « Chi è? » chiese in shona. « Cosa diavolo succede? » Era un quarantenne magro e muscoloso che si chiamava Isaac Mtwetwe. « Isaac? Sono io », lo chiamò Daniel. « E successo un disastro,
amico. Datti una mossa. Dobbiamo darci da fare. » « Danny? » Isaac si schermò gli occhi per ripararli dai fari del Land Cruiser. « Sei tu, Danny? » Puntò la torcia elettrica in faccia a Daniel. « Cosa c'e? Cos'è successo? » Daniel rispose in shona. « Una grossa banda di bracconieri ar mati ha attaccato il campo di Chiwewe. Hanno massacrato Johnny Nzou, la sua famiglia e tutti i dipendenti. » « Buon Dio! » Isaac si svegliò completamente. « Secondo me sono arrivati dallo Zambia », continuò Daniel. « E credo che intendano riattraversare lo Zambesi una trentina di chilo metri più a valle. Devi chiamare la tua squadra antibracconaggio per fermarli. » Poi gli fornì tutte le informazioni che aveva raccolto: l'entità probabile della banda, le armi, l'ora in cui aveva lasciato Chiwewe, la possibile direzione e la velocità della marcia. « I camion frigorife ri son passati di qui per rientrare da Chiwewe a Harare? » chiese al direttore. « Sì, verso le otto », confermò Isaac. « Poco prima della piena. Con loro c'era un civile, un cinese su una Mercedes blu. Uno dei ca mion lo rimorchiava. La Mercedes non è adatta per viaggiare nel fango. » Isaac continuò a parlare mentre si vestiva. « Cosa intendi fare, Danny? So che Johnny Nzou era tuo amico. Se vieni con noi, potrai avere la possibilità di far fuori quei porci. » Anche se aveva no combattuto nei due schieramenti opposti durante la guerra nella boscaglia, Isaac conosceva la reputazione di Daniel. Ma Daniel scosse la testa. « Voglio inseguire i camion e la Mercedes. » « Non ti capisco. » Isaac, che si stava allacciando gli scarponi, alzò la testa con aria sorpresa. « Non posso spiegarlo adesso, ma riguarda l'uccisione di Johnny. Fidati di me. » Daniel non poteva parlargli dell'avorio e dell'ambasciatore Ning, fino a che non avesse avuto in mano le pro ve. « Fidati di me », ripeté, e Isaac annuì. « D'accordo, Danny, vado a prenderti quei porci assassini prima che riescano ad attraversare il fiume », promise. « Tu vai pure avan ti. Fai quel che devi fare. » Daniel lasciò Isaac sulla riva dello Zambesi, a radunare i ranger antibracconaggio e a imbarcarli sul sei metri da assalto. A prua era montata una mitragliatrice Browning calibro 50 e a poppa c'era un grosso motore fuoribordo Yamaha da novanta cavalli. Come gli uo mini, anche l'imbarcazione era reduce dalla guerra nella boscaglia. Daniel proseguì verso ovest, seguendo la pista che correva paral lela allo Zambesi. Le tracce dei pneumatici erano ora più profonde nella terra fangosa, e nella luce dei fari sembravano piuttosto recen ti, e senza dubbio successive all'ultimo acquazzone. Il disegno dei battistrada era impresso nettamente nell'argilla nera. Non era difficile capire che uno dei camion continuava a rimor chiare la Mercedes. Daniel lo deduceva dai segni sul terreno nei punti dove, a intervalli, la corda da traino aveva toccato il suolo. L'operazione del rimorchio li faceva rallentare in misura considere vole, pensò soddisfatto. Stava guadagnando terreno, ormai. Guar dava ansioso davanti a sé, e quasi si aspettava di vedere i fanalini rossi della Mercedes nell'oscurità Tese la mano per toccare l'AK 47 infilato fra i due sedili. Jock notò il gesto e l'avvertì sottovoce: « Non fare stupidaggini, Daniel. Non hai alcuna prova. Non puoi far saltare le cervella al l'ambasciatore per un semplice sospetto. Calmati ». A quanto pareva, erano più indietro rispetto al convoglio di quanto avesse sperato Daniel. Era mezzanotte passata quando ta gliarono la Grande strada del nord, l'arteria asfaltata che a nord portava oltre il ponte di Chirundu sullo Zambesi, e a sud risaliva la scarpata della valle in un percorso tortuoso fino a Harare, la capita
le dello Zimbabwe. Daniel fermò il Land Cruiser a lato dell'incrocio e balzò a terra con la Maglite in mano. Molto probabilmente il convoglio aveva svoltato a sud, verso Harare. Non potevano far passare due grossi camion statali carichi di carne fresca e avorio attraverso i posti di dogana dello Zimbabwe e dello Zambia, neppure distribuendo bustarelle principesche. Daniel trovò quasi subito la conferma delle sue deduzioni. I pneumatici dei camion e della Mercedes erano incrostati di argilla nera, e avevano lasciato tracce evidenti sul tarmac della strada. Le tracce sparivano gradualmente, ma per quasi un chilometro e mezzo le croste di fango costellavano il fondo stradale come quadretti di cioccolato. « A sud », disse Daniel, e si rimise al volante. « Sono diretti a sud, e stiamo guadagnando terreno a ogni minuto. » Lanciò il Land Cruiser e innestò l'overdrive Fairey. L'ago del tachimetro toccò i centoquaranta chilometri orari e i pneumatici si bilarono sulla superficie nera della strada. « Non possono essere molto lontani », borbottò Daniel, e in quel momento vide le luci rosse degli stop. « Eccoli. » Toccò di nuovo il calcio dell'AK 47, e Jock gli lanciò uno sguardo innervosito. « Cristo, Danny, non voglio essere complice d'un omicidio. Di cono che il carcere di Chikurubi non sia esattamente un albergo a cinque stelle. » Le luci erano più vicine. Daniel accese i potenti riflettori del Land Cruiser e si lasciò sfuggire un'esclamazione di disappunto S'era aspettato di scorgere la sagoma caratteristica del camion fri gorifero, alto e bianco. Invece era un veicolo che non aveva mai vi sto prima. Era un colossale MAC da venti tonnellate, che trainava un rimorchio a otto ruote altrettanto imponente. Camion e rimorchio erano coperti da teloni di nylon verde, fissati con cavi e ganci per proteggere il carico. Il mezzo era fermo, parcheggiato in una piaz zola e con il muso rivolto verso il nord e il ponte di Chirundu Tre uomini stavano lavorando intorno al rimorchio: assestavano le corde che tenevano fermo il telone. Il fascio di luce del riflettore li inquadrò. Si fermarono a guardare il Land Cruiser che si avvici nava. Due erano negri africani e indossavano tute scolorite. Il terzo era un individuo d'aspetto autoritario e in tenuta da safari; anche lui era di carnagione scura, ma aveva la barba e un cappello bianco. Solo quando fu più vicino Daniel si accorse che era un turbante: l'uomo era un sikh, e portava la barba meticolosamente arrotolata e protetta dalle pieghe del copricapo. Quando Daniel rallentò e si fermò dietro il rimorchio, il sikh disse qualcosa, seccamente, ai due africani. Tutti e tre si voltarono, e risalirono nella cabina del camion. « Ehi, un momento! » gridò Daniel, balzando fuori del Toyota. « Voglio parlarle. » Il sikh era già al volante del MAC. « Un momento! » insistette Daniel, e raggiunse la cabina. Il sikh era un metro e mezzo al di sopra della sua testa. Si affac ciò a guardarlo. « Sì? Cosa c'è? » « Scusi il disturbo », disse Daniel. « Ha superato due grossi ca mion bianchi lungo la strada? » Il sikh continuò a guardarlo senza rispondere, e Daniel soggiun se: « Due camion molto grossi... impossibile sbagliare. Viaggiavano insieme, e probabilmente con loro c'era anche una Mercedes. » Il sikh ritrasse la testa e parlò ai due africani in un dialetto che Daniel non comprese. Mentre attendeva con pazienza la risposta, notò il logo dell'azienda dipinto sulla portiera del camion. CHETTI SINGH LTD IMPORT-EXPORT
CASELLA POSTALE 52 LLLONGWE MALAWI Il Malawi era il piccolo stato indipendente fra i tre territori mol to più vasti di Zambia, Tanzania e Mozambico. Era un paese di montagne e fiumi e laghi, il cui popolo era benestante e felice sotto la dittatura dell'ottuagenario Hastings Banda quanto gli altri stati del continente africano, dominati dalla miseria e dalla tirannia. « Signor Singh, ho una fretta disperata », disse Daniel. « La pre go, mi dica se ha visto quei camion. » Allarmato, il sikh si riaffacciò dal finestrino. « Come mai sa il mio nome? » chiese. E Daniel indicò la scritta sulla portiera. « Ah! E un individuo erudito e osservatore, non importa. » Il sikh sembrava sollevato. « Sì, i miei uomini mi hanno ricordato che due camion ci hanno incrociati un'ora fa. Erano diretti a sud. Però non abbiamo visto una Mercedes. Sono assolutamente certo di que sto fatto saliente. Niente Mercedes, no, no. » Il sikh accese il motore del MAC. « Sono lieto di esserle stato uti le. Anch'io ho una fretta disperata. Devo tornare a casa a Lilong we. Addio, amico mio, buon viaggio e felice atterraggio. » Salutò allegramente con la mano mentre l'enorme camion si muoveva. Qualcosa, in quel modo di fare disinvolto, colpì Daniel come una nota stonata. Mentre il rimorchio stracarico gli passava accanto rombando, si aggrappò a un supporto d'acciaio e si issò sul predelli no sotto la sponda ribaltabile posteriore. I fari del Land Cruiser gli davano abbastanza luce per permettergli di sbirciare fra le stecche e il bordo del telone. Il rimorchio sembrava stipato di sacchi. Sul sacco più vicino, Daniel scorse la dicitura: « Pesce secco, Prodotto del... » Il nome della nazione di provenienza non si vedeva. L'olfatto di Daniel con fermò il contenuto: l'odore del pesce quasi marcio era intenso e in confondibile. Il camion accelerava. Daniel si lasciò cadere facendosi trascinare in avanti dalla forza d'inerzia. Corse per una dozzina di passi, poi si fermò e seguì con lo sguardo i fanalini rossi che si allontanavano. L'istinto gli suggeriva che c'era qualcosa che puzzava quanto il pesce a bordo del rimorchio. Ma cosa poteva fare? Cercò di riflette re. Il suo pensiero principale era ancora il convoglio dei camion fri goriferi e Ning con la Mercedes, diretti verso sud, mentre il sikh con il SUO MAC correva nella direzione opposta. Non poteva seguire gli uni e l'altro anche se avesse potuto stabilire un legame... e non po teva. « Chetti Singh. » Ripeté mentalmente il nome e il numero della casella postale. Poi tornò correndo al Land Cruiser dove l'aspettava Jock. « Chi era quello? Che cosa ti ha detto? » chiese Jock. « Ha visto i camion frigoriferi dirigersi a sud circa un'ora fa. Adesso li seguiremo. » Daniel uscì dalla piazzola e si lanciò verso sud alla massima velocità. La strada incominciò a salire le colline che conducevano all'alto piano centrale. Il Land Cruiser perse lentamente velocità, pur pro cedendo a più di cento chilometri orari. Jock, dopo l'incontro con Chetti Singh, era rimasto in silenzio ma la sua espressione tesa e nervosa era evidente nella luce riflessa dagli strumenti della plancia. Guardava di sottecchi Daniel come se fosse sul punto di protestare e ogni volta vi rinunciasse. Poi la strada affrontò una serie di dolci curve mentre seguiva il gradiente delle colline. All'improvviso, dopo una svolta, uno dei bianchi camion frigoriferi bloccò la via davanti a loro. Procedeva a una velocità che era la metà di quella del fuoristrada, e, mentre sali va faticosamente in prima, il fumo del gasolio usciva in dense nuvo le scure dai tubi di scappamento. Il camionista si teneva al centro della strada senza lasciare a Daniel lo spazio sufficiente per supe rarlo.
Daniel suonò il clacson e lampeggiò con i fari per indurre il ca mion a spostarsi, ma quello non obbedì. « Muoviti, bastardo assassino », ringhiò Daniel, e suonò di nuo vo il clacson, a lungo. « Calmati, Daniel », lo implorò Jock. « Adesso stai esagerando. Calmati. » Daniel portò il Land Cruiser sul bordo esterno della strada, in posizione di sorpasso, e suonò di nuovo. Adesso poteva vedere lo specchietto che rifletteva la faccia del guidatore. Il guidatore era Gomo. Lo guardava nello specchietto ma non era intenzionato a dargli strada e a lasciarlo passare. Aveva un'e spressione che era un miscuglio di paura e di ferocia, di colpa e di risentimento rabbioso. Bloccava volutamente la carreggiata, allar gando alle curve e deviando di nuovo quando Daniel cercava di su perarlo sul lato opposto. « Sa che siamo noi », sibilò Daniel a Jock. « Sa che siamo tornati a Chiwewe e che abbiamo visto cos'è successo. Sa che lo sospettia mo e cerca di tenerci lontani. » « Avanti, Danny, questa è una tua idea. Il suo comportamento potrebbe avere una dozzina di spiegazioni. Non voglio essere mi schiato in questa faccenda pazzesca. » « Troppo tardi, amico mio », disse Daniel. « Ti piaccia o no, or mai ci sei dentro. » Riportò bruscamente il Land Cruiser nella direzione opposta, e per una volta Gomo fu troppo lento nel tagliargli la strada. Daniel cambiò marcia e schiacciò l'acceleratore. Il Toyota sfrecciò via, ag girando la coda del camion. Daniel continuò a premere l'accelerato re a tavoletta, e riuscì a portarsi all'altezza della cabina, insinuan dosi nel varco tra la fiancata d'acciaio del grosso veicolo e il bordo della strada. Soltanto le ruote di destra del fuoristrada giravano sulla superfi cie del tarmac; le altre erano sulla banchina e sollevavano uno zam pillo di ghiaia, pericolosamente vicine allo strapiombo della valle dello Zambesi. « Danny, sei pazzo! » gridò furioso Jock. « Ci farai ammazzare tutti e due. Ne ho abbastanza! » Il Land Cruiser urtò un paletto di cemento con il catarifrangente che segnalava il precipizio. Con un tonfo secco lo abbatté e sbandò pericolosamente, ma Daniel proseguì nella sua manovra di avvicina mento alla cabina del camion. Gomo guardò il Land Cruiser dall'alto. Daniel si sporse per ve derlo meglio, staccò una mano dal volante e gli fece imperiosamente cenno di accostarsi e fermare. Gomo annuì e obbedì. Riportò il ca mion sulla sinistra e cedette il passo al Toyota. « Così va meglio », ringhiò Daniel. E si inserì nel varco aperto da Gomo. Era caduto nella trappola e aveva abbassato la guardia. I due veicoli stavano ancora viaggiando a fianco a fianco quando Go mo girò bruscamente il volante nella direzione opposta. Prima che Daniel potesse reagire, il camion urtò contro il fianco del Land Cruiser e una pioggia di scintille sprizzò dal contatto violento del l'acciaio contro l'acciaio. Il peso e la forza d'inerzia dell'enorme ca mion scagliarono verso il ciglio della strada il veicolo più piccolo. Daniel lottò con il volante per cercare di resistere alla spinta, ma le razze gli saettarono fra le dita. Per un momento pensò che il pol lice sinistro si fosse slogato. La fitta dolorosa si estese fino al gomi to. Inchiodò: il Land Cruiser e il camion si distanziarono, disinca gliandosi con uno stridore metallico, e il fuoristrada si bloccò di tra verso sulla banchina, con una delle ruote anteriori che sporgeva per metà nel vuoto. Daniel si strinse la mano dolorante mentre le lacrime gli riempi vano gli occhi. A poco a poco sentì ritornare le forze, e con le forze ritornò la rabbia. Il camion frigorifero era cinquecento metri più avanti e si allontanava velocemente.
Daniel inserì le quattro ruote motrici e innestò la marcia indie tro. Solo tre ruote facevano presa, ma il veicolo arretrò ugualmente dall'abisso. La fiancata era tutta scrostata, a causa del violento at trito contro il camion. « Bene », ringhiò Daniel a Jock. « Vuoi qualche altra prova? Questo è un tentativo premeditato di ammazzarci. Quel bastardo di Gomo è fottutamente colpevole. » Il camion era sparito oltre una curva, e Daniel si lanciò all'inse guimento. « Gomo non si lascerà sorpassare », sibilò. « Salterò sul camion e lo tirerò fuori. » « Non voglio più saperne, di questa storia », borbottò Jock. « Lascia fare alla polizia, accidenti. » Daniel non gli badò. Lanciò il fuoristrada alla massima velocità. Quando superò la curva il camion frigorifero era poche centinaia di metri più avanti. La distanza si ridusse rapidamente. Studiò l'altro veicolo. I graffi sulla fiancata non erano vistosi come quelli del Land Cruiser e Gomo andava più spedito, adesso che la pendenza della strada era meno accentuata. I portelloni po steriori erano chiusi da una pesante sbarra verticale, e sigillati dai bordi di gomma nera. Una scaletta d'acciaio dava accesso al tetto piatto dove i ventilatori dell'impianto di refrigerazione erano allog giati in strutture di fibra di vetro. « Voglio arrampicarmi sulla scala », disse Daniel a Jock. « Fam mi andare, poi spostati e mettiti al volante. » « No, amico. Te l'ho detto. Ne ho avuto abbastanza. Non conta re su di me. » « Benissimo. » Daniel non lo guardò neppure. « Allora non gui dare. Vai pure a sbattere. Ci sarà un imbecille di meno a questo mondo. » Calcolò la velocità e la distanza fra i due veicoli, poi aprì la por tiera che si spalancò completamente contro la fiancata del cofano in quanto il dente metallico che doveva trattenerla era stato tolto per permettere di fotografare senza impedimenti attraverso il varco. Daniel continuò a guidare con una mano sola e si sporse tenen do il piede sinistro sull'acceleratore, il destro puntellato per scatta re. Era a un metro e mezzo dalla fiancata del camion, ma in quel momento Gomo sterzò di nuovo per bloccare il Land Cruiser. « Guida tu! » gridò Daniel a Jock, e spiccò un balzo. Si afferrò a una grappa della scaletta laterale, issandosi oltre le fiancate dei due veicoli che erano sul punto di urtarsi ancora. Vide per un attimo Jock che si tendeva e afferrava il volante, pallido e sudato nella luce riflessa dei fari. Poi il fuoristrada sban dò, perdendo terreno. Jock guidava in maniera convulsa, lasciando che la pendenza rallentasse la sua corsa. Alla fine si fermò sul bor do della strada. Daniel si arrampicò con l'agilità d'una scimmia sulle grappe del la scaletta e arrivò sul tetto del camion. L'alloggiamento dell'im pianto di ventilazione era al centro, e tutto intorno c'era un man corrente. Carponi, Daniel avanzò e si gettò bocconi per aggrapparsi alla piccola ringhiera, mentre la forza centrifuga minacciava di sca gliarlo via a ogni curva. Impiegò cinque minuti per arrivare sopra la cabina di guida. Era certo che Gomo non l'aveva visto salire a bordo perché la mole del la stiva gli ostruiva di certo la visuale. Probabilmente era sicuro di essersi liberato del guidatore del Land Cruiser, perché i fari alle sue spalle non erano più visibili e la strada era vuota. Con cautela, Daniel si portò sul lato del passeggero e sbirciò. C'era un predellino sotto la portiera, e lo specchietto retrovisore esterno offriva una presa salda. Restava solo da scoprire se Gomo aveva preso la precauzione di mettere la sicura alla portiera da quel la parte. Non c'era ragione perché l'avesse fatto, si disse Daniel mentre guardava avanti, nella luce dei fari potenti.
Attese fino a che la strada si piegò in una curva verso sinistra. La gravità l'avrebbe trattenuto, anziché sbalzarlo lontano. Si lasciò scivolare e afferrò lo specchietto. Per un momento scalciò con i pie di nel vuoto; poi incontrò il predellino d'acciaio e si puntellò. Era rivolto verso la cabina e, mentre si teneva stretto allo specchio, po teva vedere all'interno. Gomo si girò verso di lui, sbalordito, e gridò qualcosa. Cercò di tendersi per mettere la sicura alla portiera, ma era troppo lontana. Il camion sbandò all'impazzata e per poco non uscì di strada. Go mo fu costretto ad afferrare di nuovo il volante. Daniel spalancò la portiera e si avventò nella cabina, buttandosi sul sedile. Gomo gli sferrò un pugno sul viso, che lo raggiunse sotto l'occhio sinistro lasciandolo stordito per un momento. Ripresosi, impugnò la leva del freno con tutte le sue forze. Le ruote gigantesche si bloccarono istantaneamente e, in un vor tice stridente di fumo bluastro e di gomma bruciata, il camion slit tò, sbandando. Gomo fu scagliato in avanti. Urtò il petto contro il volante e la fronte contro il parabrezza con tanta forza da incrinare il vetro. Un'altra sbandata del veicolo lo ributtò all'indietro, semisvenu to, sul sedile. Daniel afferrò il volante e mantenne il camion in linea retta fino a che si fermò, per metà fuori dell'asfalto, con le ruote esterne nel fosso. Daniel spense il motore e aprì la portiera dalla parte di Gomo. Lo afferrò per la spalla e lo spinse fuori, bruscamente. Gomo cadde da un'altezza di poco inferiore ai due metri e finì in ginocchio. Al centro della fronte, nel punto che aveva urtato il parabrezza, c'era un bernoccolo grosso quanto un fico maturo. Daniel balzò al suolo e afferrò Gomo per il colletto della giubba. « Dunque. » Strinse il colletto come una garrotta, torcendolo. « Tu hai ammazzato Johnny Nzou e la sua famiglia. » La faccia di Gomo era gonfia e neroviolacea nella luce fioca ri flessa dai fari. « Per favore, dottore, non capisco. Perché fa così? » La voce era un gemito ansante. « Sporco bugiardo, sei un assassino... » Gomo infilò la mano sotto l'orlo della giubba. Alla cintura, pro tetto da un fodero di pelle, portava un coltello per scuoiare. Daniel senti lo scatto della fibbia e intravide il luccichio della lama. Lo lasciò e spiccò un balzo all'indietro mentre Gomo sferrava un fendente dal basso in alto. La lama gli affondò nella stoffa della camicia e la lacerò come un rasoio: senti il bruciore quando rag giunse la pelle sotto le costole. Gomo si alzò, stringendo il coltello. « Ti ammazzo », ringhiò e scrollò la testa. Muoveva l'arma nella posizione tipica di chi è abituato a quel genere di duelli, e mirava con la punta al ventre di Daniel. « Ti ammazzo, stronzo bianco. » Si lanciò in una finta e poi tirò un colpo, e Daniel balzò indietro men tre la lama gli sfiorava lo stomaco. « Yah! » sghignazzò Gomo. « Salta, babbuino bianco. Scappa, scimmiotto. » Sferrò un altro colpo e costrinse Daniel ad arretrare; poi si avventò in un assalto prolungato, obbligandolo a guizzar via per sfuggire alla lama. Gomo cambiò l'angolazione degli affondi, sempre più in basso. Cercava di colpirlo alle cosce, ma teneva il coltello ben protetto per evitare che Daniel gli afferrasse il polso. Daniel indietreggiò, finse d'inciampare sul terreno accidentato. Si lasciò cadere su un ginoc chio e si puntellò a terra con la mano sinistra. « Yah! » Gomo credette di aver trovato l'occasione buona e si avventò per finirlo. Ma Daniel aveva afferrato una manciata di ghiaia. Si diede una spinta e buttò la ghiaia in faccia all'avversario. Era un trucco vecchissimo, ma Gomo ci cascò. La ghiaia gli colpi
gli occhi e gli fece deviare l'affondo. L'istinto lo portò ad alzare le mani per ripararsi, e Daniel afferrò quella che teneva il coltello. Si trovarono petto contro petto, il coltello proteso sopra le loro teste. Daniel mosse di scatto la sua e urtò la fronte di Gomo, pro prio sopra il naso. Con un gemito soffocato, Gomo barcollò e Da niel alzò di scatto il gìnocchio destro, assestandogli un violento col po ai genitali. Questa volta Gomo lanciò un urlo, e il suo braccio destro perse ogni forza. Daniel glielo abbassò di scatto e gli sbatté il pugno contro la fiancata d'acciaio del camion. Il coltello schizzò via dalle dita inerti. Daniel agganciò Gomo con un piede dietro le ginocchia e lo fece ca dere riverso nel piccolo fossato. Prima che Gomo potesse rialzarsi, Daniel aveva già raccattato il coltello e stava a un passo da lui. Gli puntò la lama sotto il mento e intaccò la pelle della gola. Una goccia di sangue brillò sull'acciaio argenteo come un rubino cabochon. « Stai fermo o ti sgozzo, bastardo assassino. » Daniel impiegò qualche secondo per riprendere fiato. « Bene. Adesso alzati. Adagio. » Gomo si rimise in piedi, stringendosi i genitali doloranti. Daniel lo spinse contro la fiancata del camion e gli premette il coltello con tro la gola. « Hai l'avorio nel camion », disse in tono d'accusa. « Diamo un'occhiata, amico. » « No », bisbigliò Gomo. « Niente avorio. Non so che cosa vuoi. Sei pazzo. » « Dove sono le chiavi? » chiese Daniel, e Gomo roteò gli occhi senza muovere la testa. « In tasca. » « Girati. Piano », ordinò Daniel. « Faccia contro il camion. » Gomo obbedì, e Daniel gli passò il braccio intorno alla gola, lo spinse avanti e gli fece sbattere la fronte livida contro la fiancata d'acciaio. Gomo gettò un urlo di dolore. « Dammi solo una scusa per ricominciare », gli sibilò Daniel al l'orecchio. « I tuoi strilli da maiale sono una musica per me. » Premette il coltello contro le reni di Gomo per fargli sentire la punta attraverso la giubba. « Tira fuori le chiavi. » Lo punzecchiò un po' più forte e Gomo si frugò nella tasca. Le chiavi tintinnarono quando le tirò fuori. Daniel continuò a stringergli la gola e lo spinse verso la parte posteriore del camion. « Apri », ordinò. Gomo inserì la chiave nella serratura. Il mecca nismo scattò. « Adesso prendi le manette dalla cintura », ordinò Daniel. Tutti i ranger in servizio antibracconaggio avevano in dotazione le manette d'acciaio. « Metti un cerchio al polso destro », disse Daniel. « E dammi la chiave. » Con le manette che penzolavano dal polso, Gomo gli passò la chiave al di sopra della spalla. Daniel la mise in tasca, poi fece scat tare l'altro cerchio delle manette intorno al supporto d'acciaio. Go mo era incatenato al camion. Daniel lo lasciò andare e girò la mani glia del portello. Spalancò i due battenti. Un soffio d'aria gelida uscì dall'interno refrigerato. L'odore della carne d'elefante era acre, selvatico. La sti va era buia, ma Daniel salì e cercò a tentoni l'interruttore. La lam pada del tettuccio balenò, rischiarando il compartimento frigorifero d'un tenue barlume azzurro. I pezzi di carne striati di grasso bianco erano appesi ai ganci. Erano tonnellate, ammassate così fitte che Daniel poteva vedere soltanto la prima fila delle carcasse. Si buttò in ginocchio e scrutò nello spazio sottostante. Il pavimento d'acciaio era coperto da macchie di sangue ma era tutto. Daniel provò una fitta di delusione e di sgomento. S'era aspetta
to di vedere mucchi di zanne sotto le carcasse appese. Si rialzò e avanzò di qualche passo. Il freddo gli mozzò il respiro; il contatto con la carne cruda e gelata era disgustoso, ma continuò a procede re, deciso a scoprire dov'era nascosto l'avorio. Dopo dieci minuti desistette. Non c'era posto per nascondere un carico tanto voluminoso. Saltò a terra. Era tutto macchiato di san gue. Strisciò carponi sotto lo chassis del camion in cerca di qualche scomparto segreto. Quando lo vide uscire, Gomo gracchiò soddisfatto: « Niente avorio, te l'avevo detto. Niente avorio. Hai scassato un camion del governo. Mi hai pestato. Ti sei messo nei guai, bianco ». « Non abbiamo ancora finito », gli assicurò Daniel. « Non finire mo finché non avrai cantato. Devi dirmi cosa avete fatto dell'avo rio, tu e il cinese. » « Niente avorio », ripeté Gomo. Daniel l'afferrò per la spalla e lo girò con la faccia contro la fiancata. Con un movimento rapido staccò le manette dalla struttura del camion, torse i polsi di Gomo dietro la schiena e li bloccò. « Bene, fratello », sibilò. « Andiamo dove c'è un po' più di luce per lavorare. » Sollevò le mani di Gomo tra le scapole e lo spinse verso il muso del camion. Lo ammanettò al paraurti tra i fari. Con le mani immo bilizate dietro la schiena, Gcmo non poteva difendersi. « Johnny Nzou era mio amico », disse Daniel a voce bassa. « Hai violentato sua moglie e le sue bambine. Hai fracassato contro il mu ro la testa di suo figlio. Hai sparato a Johnny... » « No, non sono stato io. Non so niente », urlò Gomo. « Non ho ammazzato nessuno. Niente avorio. E niente morti. » Daniel continuò senza alzare la voce, come se Gomo non avesse parlato. « Devi credermi quando ti dico che mi divertirò a farlo. Ogni volta che urlerai, penserò a Johnny Nzou e sarò contento. » « Io non so niente. Sei matto! » Daniel inserì la lama del coltello sotto la cintura di Gomo e tran ciò il cuoio. I calzoni kaki si afflosciarono sui fianchi. Daniel gli puntò contro l'arma. « Quante mogli hai, Gomo? » chiese. « Quattro? Cinque? Quan te? » Tagliò la fascetta e i pantaloni scivolarono intorno alle caviglie del ranger. « Credo che le tue mogli vogliano che tu mi parli dell'a vorio, Gomo. Vogliono che mi parli di Johnny Nzou e di come è morto. » Daniel afferrò per l'elastico le mutande di Gomo e gliele abbas sò fino alle ginocchia. « Vediamo cos'hai qui. » Sorrise freddamente. « Credo che alle tue mogli dispiacerà molto, Gomo. » Afferrò la giubba e la strappò con tanta forza che i bottoni schizzarono nell'oscurità, oltre la luce dei fari. Sollevò poi i lembi della giubba sulle spalle di Gomo, lasciandolo nudo dalla gola alle ginocchia. Il petto e la pancia erano coperti da un pelo fitto. I geni tali erano annidati in un vello. « Cantami una canzoncina sull'avorio e sul signor Ning », invitò Daniel, e usò la lama di piatto per sollevare il pene ciondolante. Con un gemito, Gomo cercò di sfuggire al contatto freddo del metallo, ma la griglia del radiatore gli premeva contro la schiena e gli impediva di muoversi. « Parla, Gomo, magari per dire addio al tuo matondo. » « Sei pazzo », gemette Gomo. « Non capisco che cosa vuoi. » « Voglio tagliarti questo alla radice », disse Daniel. Il grosso tubo di carne pendeva dal piatto della lama. Sembrava la proboscide di un elefantino appena nato: lungo e scuro, gonfio di vene e con la punta grinzosa. « Voglio tagliarlo e costringerti a dargli il bacio d'addio, Go mo. »
« Non ho ammazzato Johnny Nzou! » La voce di Gomo si spez zò. « Non sono stato io! » « E la moglie e le figlie. Gomo? Hai usato con loro questo basto ne schifoso? » « No! No! Sei pazzo. Io non... » « Avanti, Gomo. Basta che giri appena il coltello. Così. » Daniel mosse il polso, sollevando il filo del coltello. Il pene di Gomo cion dolò dalla lama. La pelle sottile si lacerò. Era soltanto un graffio, ma il ranger urlò. « Basta! Ti dirò tutto. Sì, sì, ti dirò tutto quello che so. Basta che smetti! » « Così va meglio », lo incoraggiò Daniel. « Parlami di Chetti Singh... » Pronunciò il nome con sicurezza. Era un colpo alla cieca, ma Gomo ci cascò. « Sì, sì, ti dirò tutto anche di lui, ma non tagliarmi. Per favore, non tagliarmi. » « Armstrong. » Una voce fece trasalire Daniel. Non aveva sentito arrivare il Land Cruiser. Doveva essere sopraggiunto mentre perqui siva il camion. Ma adesso Jock era lì, nella penombra dei fari. « Lascialo, Armstrong. » La voce di Jock era brusca, decisa. « Allontanati da quell'uomo. » « Non immischiarti », scattò Daniel, ma Jock avanzò d'un passo e, con un trasalimento, Daniel vide che aveva l'AK 47. E lo maneg giava con sorprendente autorità. « Lascialo in pace », ordinò Jock. « Hai esagerato. » « Quest'uomo è un delinquente, un assassino », protestò Daniel, ma fu costretto a indietreggiare sotto la minaccia dell'AK 47. Jock glielo puntava al ventre. « Non hai prove. L'avorio non c'è », disse il cameraman. « Non hai niente. » « Stava per confessare », ribatté rabbiosamente Daniel. « Se tu non t'immischi... » « Lo stavi torturando », disse Jock con lo stesso tono. « Stavi per tagliargli le palle con un coltello. E logico che stesse per confessare. Ha i suoi diritti, e tu devi rispettarli. Liberalo immediatamente. La scialo! » « Sei troppo tenero », sibilò Daniel. « Questo è un animale... » « E un essere umano », l'interruppe Jock. « E devo impedirti di maltrattarlo, o sarò colpevole quanto te. Non ho alcuna voglia di passare i prossimi dieci anni in galera. Liberalo. » « Prima deve confessare, o gli taglio le palle. » Daniel afferrò i genitali di Gomo e tirò. La pelle flaccida si tese come gomma nera, e Daniel accostò minacciosamente il coltello. Gomo urlò, e Jock alzò l'AK 47 e sparò. Mirò una trentina di centimetri sopra la testa di Daniel. Lo spostamento d'aria sferzò i capelli sudati di Daniel e lo fece barcollare. Si coprì le orecchie con le mani. « Ti avevo avvertito. » Jock aveva un'espressione cupa e decisa. « Dammi le chiavi delle manette. » Daniel era stordito. Jock sparò di nuovo. Il proiettile si piantò nella ghiaia fra i piedi di Daniel. « Non scherzo, Danny. Te lo giuro. Ti ammazzerò, prima di per mettere che mi coinvolga ancora di più in questa storia. » « Hai visto Johnny... » Daniel scrollò la testa. Lo sparo l'aveva stordito. « E ho visto te mentre minacciavi di castrare quest'uomo. Ora basta. Dammi le chiavi, o la prossima volta ti sparo a un ginoc chio. » Daniel si rese conto che il cameraman faceva sul serio. Con trovoglia, gli buttò le chiavi. « E adesso stai indietro », ordinò Jock. Continuò a puntare l'AK 47 contro il ventre di Daniel, mentre apriva una delle manette e da va la chiave a Gomo. « Maledetto idiota », imprecò Daniel, esasperato. « Ancora un
minuto e avrei saputo tutto. Avrei saputo chi ha assassinato Johnny e che fine ha fatto l'avorio. » Gomo si liberò dell'altro cerchio d'acciaio, si tirò su i calzoni e richiuse la giubba. Libero e di nuovo vestito, ritrovò tutta la sua spavalderia. « Sono stronzate! » gridò in tono di sfida. « Non ho detto niente. Non so niente di Nzou. Era vivo quando siamo partiti da Chiwewe... » « Bene. Puoi raccontarlo alla polizia », l'interruppe Jock. « Ti porto a Harare con il camion. Vai a prendere la mia telecamera e la borsa dal Land Cruiser. Sono sul sedile anteriore. » Gomo corse verso il fuoristrada. « Ascolta, Jock. Dammi altri cinque minuti », insistette Daniel, ma Jock alzò il fucile. « Con te ho chiuso, Danny. La prima cosa che farò quando arri verò a Harare sarà un rapporto completo alla polizia. Racconterò tutto per filo e per segno. » Gomo tornò con la telecamera Sony e la borsa di tela di Jock. « Sì, sì, dica alla polizia che ha visto questo stronzo bianco tagliarmi l'arnese », gridò Gomo. « Gli dica che non c'era l'avorio... » « Sali a bordo », ordinò Jock. « E metti in moto. » Quando Go mo ebbe obbedito, si rivolse a Daniel. « Mi rincresce, Danny. Devi arrangiarti da solo. Da me non avrai altro aiuto. Testimonierò con tro di te se me lo chiederanno. Devo coprirmi le spalle, amico. » « Sei un vigliacco », replicò Daniel. « Ma non parlavi sempre del la giustizia? E Johnny e Mavis? » « Quello che stavi facendo tu non aveva niente a che vedere con la giustizia. » Jock alzò la voce per vincere il rombo del motore. « Eri insieme sceriffo, cacciatore e boia, Danny. Non era giustizia: era vendetta. Non voglio entrarci. Conosci il mio indirizzo. Puoi spedirmi là quel che mi devi. Arrivederci, Danny. Mi dispiace che sia finita così. » Salì nella cabina. « E non cercare di fermarci. » Brandì l'AK 47. « So usarlo. » Jock sbatté la portiera, e Gomo riportò a marcia indietro il ca mion sulla strada. Daniel rimase solo nell'oscurità. Seguì con gli occhi le gemme rosse dei fanalini fino a che una curva della strada li nascose. Gli orecchi gli ronzavano ancora per lo sparo; era stordito e in preda al la nausea. Barcollava leggermente mentre tornava verso il Land Cruiser. Si lasciò cadere sul sedile di guida. La collera lo sostenne ancora per un poco: la collera contro Deng e i suoi complici, contro Gomo e soprattutto contro Jock e la sua intromissione. Poi, a poco a poco, la rabbia svani. Cominciò a rendersi conto della gravità della situazione. Aveva agito in modo avventato e pericoloso. Aveva lanciato accuse che non poteva pro vare, danneggiato un camion statale e aggredito un pubblico uffi ciale, anche se, in fondo, non gli aveva causato lesioni serie. Avreb bero potuto addossargli una mezza dozzina d'imputazioni. Poi pensò ancora a Johnny e alla sua famiglia, e il rischio perso nale perse ogni significato. « Stavo per sventare il loro piano », pensò amaramente. « Mi ba stavano pochi minuti con Gomo e li avrei avuti in pugno. Li avevo quasi in pugno per te, Johnny. » Doveva decidere che cosa fare. Ma gli doleva la testa, ed era dif ficile ragionare secondo logica. Era inutile inseguire Gomo. Sarebbe stato in guardia. E chissà come, s'era sbarazzato dell'avorio Che altre possibilità aveva? Ning Deng Kong, naturalmente. Era la chiave del complotto. Ma l'unico legame con lui, adesso che l'avorio era sparito, era rappresentato dall'enigmatico messaggio di Johnny e dall'orma che il cinese aveva lasciato sul luogo del delitto. E poi c'era Chetti Singh. Gomo aveva ammesso tacitamente di conoscere il sikh. Cosa aveva detto, quando Daniel gli aveva butta to in faccia quel nome? « Si, si, ti dirò tutto anche di lui... »
C'era anche la banda dei bracconieri. Si chiese se Isaac Mtwetwe fosse riuscito a intercettarli all'attraversamento dello Zambesi e a prendere qualche prigioniero. Isaac non si sarebbe lasciato domina re dagli scrupoli di Jock. Ed era stato amico di Johnny. Avrebbe sa puto come ottenere informazioni da un bracconiere catturato. « Telefonerò ai Mana Pools dal posto di polizia di Chirundu », decise, e mise in moto il Land Cruiser. Inverti la direzione di marcia e ridiscese la scarpata. La stazione di polizia al ponte di Chirundu era più vicina di quella di Karoi. Doveva fare la denuncia e assicu rarsi che cominciassero a indagare il più presto possibile. La polizia doveva essere avvertita del messaggio di Johnny e delle orme insan guinate. La testa gli doleva ancora. Fermò il Land Cruiser per qualche minuto e, presa una boccetta di compresse di Panadol dalla cassetta del pronto soccorso, ne trangugiò un paio con una tazza di caffè del thermos. Mentre proseguiva, il dolore si attenuò. Incominciò a rior dinare i suoi pensieri. Erano quasi le quattro del mattino quando arrivò al ponte di Chirundu. Nell'ufficio c'era soltanto un caporale seduto alla scriva nia con il capo appoggiato sulle braccia incrociate. Dormiva cosi so do che Daniel dovette scuoterlo energicamente. Aveva gli occhi gon fi e arrossati quando alzò finalmente la testa e sbatté le palpebre, stordito. « Devo denunciare un omicidio, anzi numerosi omicidi. » Daniel incominciò il lungo, laborioso processo che doveva mettere in moto la macchina ufficiale. Il caporale sembrava incapace di decidere quale fosse la proce dura corretta, e Daniel lo mandò a chiamare il comandante che dor miva nel rondavel dietro la stazione di polizia. Quando il sergente comparve era in uniforme con cinturone e berretto, ma era ancora semiaddormentato . « Chiami il comando di Harare », gli disse Daniel. « Devono mandare un'unità a Chiwewe. » « Prima lei deve fare la denuncia », insistette il sergente. Nell'ufficio non c'erano macchine per scrivere: era una stazione isolata e poco importante. Il sergente scrisse a mano, faticosamente, la denuncia di Daniel. Muoveva le labbra e compitava in silenzio ogni lettera. Daniel avrebbe voluto strappargli la biro e mettersi a scrivere al suo posto. « Maledizione, sergente. Quelli sono morti. E mentre noi perdia mo tempo, gli assassini scappano. » Il sergente continuò senza scomporsi. Daniel gli correggeva l'or tografia e smaniava. Il ritmo della dettatura, comunque, gli permetteva di formulare con attenzione la denuncia. Specificò l'esatta scansione temporale degli avvenimenti del giorno prima: l'ora in cui aveva lasciato Chi wewe e salutato Johnny Nzou; l'ora in cui aveva trovato le tracce dei bracconieri e aveva deciso di tornare alla direzione per avvertire; e l'ora in cui aveva incontrato i camion frigoriferi sulla strada, ac compagnati dalla Mercedes dell'ambasciatore. Riferì il dialogo con l'ambasciatore Ning ed esitò. Non sapeva se doveva parlare della macchia di sangue che aveva notato sui suoi pantaloni blu. Sarebbe sembrata un'accusa. Provava un senso di rabbiosa soddisfazione mentre descriveva il ritorno a Chiwewe e la carneficina che aveva scoperto. Parlò del fo glio stretto nella mano di Johnny e dell'orma insanguinata a squa ma di pesce sul pavimento dell'ufficio, senza collegarli all'amba sciatore di Taivvan. Era meglio lasciare che la polizia arrivasse da sola alle conclusioni. Incontrò serie difficoltà quando dovette raccontare l'insegui mento della Mercedes e dei camion frigoriferi. Doveva spiegare le sue motivazioni senza mettersi nei guai e senza esprimere aperta mente i suoi sospetti sul conto di Ning Deng Kong.
« Ho seguito il convoglio per chiedere se sapevano qualcosa del llavorio sparito », dettò. « Anche se non ho potuto raggiungere l'ambasciatore Ning e il primo camion, ho parlato con il ranger Go mo, quando l'ho incontrato sulla strada di Karoi. Guidava il secon do camion. Ha negato di sapere qualcosa e mi ha lasciato ispeziona re il mezzo. Non ho trovato traccia dell'avorio. » Gli bruciava am metterlo; ma doveva proteggersi dalle eventuali accuse che Gomo avrebbe potuto muovergli. « Così ho pensato che fosse mio dovere rivolgermi alla più vicina stazione di polizia e denunciare la morte del direttore di Chiwewe, della sua famiglia e del personale, nonché l'incendio e la distruzione degli edifici. » Era ormai giorno quando finalmente Daniel poté firmare il ver bale manoscritto e solo allora il sergente si degnò di telefonare al comando della polizia criminale a Harare. Vi fu una lunga discus sione fra il sergente e tutta una serie di funzionari sempre più im portanti che se lo passavano l'un l'altro. Quello era il ritmo africa no e Daniel stringeva i denti. « A.V.A. », si disse. « Africa Vince Ancora. » Alla fine il sergente ricevette l'ordine di andare a Chiwewe con il Land Rover mentre una squadra di investigatori sarebbe partita in aereo da Harare per atterrare sulla pista del parco. « Vuole che venga a Chiwewe con lei? » chiese Daniel quando il sergente posò il telefono e cominciò a prepararsi per la partenza. Il sergente sembrava stupito dalla domanda. Non aveva ricevuto istruzioni a proposito di quel che doveva fare del testimone. « Lasci l'indirizzo e il numero di telefono in modo che possiamo metterci in contatto se avremo bisogno di lei », decise dopo aver riflettuto a lungo. Per Daniel era un sollievo poter andare. Da quando era arrivato alla stazione di polizia di Chirundu, aveva avuto a disposizione di verse ore per esaminare la situazione e preparare i piani per coprire ogni evenienza. Se Isaac Mtwetwe era riuscito a catturare qualcuno dei bracco nieri, quella sarebbe stata la strada più breve per arrivare a Ning Deng Kong: ma doveva parlare con Isaac prima che consegnasse i prigionieri alla polizia. « Ho bisogno di fare una telefonata », disse al caporale non ap pena il comandante della stazione e la sua scorta di agenti armati furono partiti per Chiwewe con il Land Rover verde. « E il telefono della polizia. » Il caporale scosse la testa. « Non è un telefono pubblico. » Daniel tirò fuori una banconota blu da dieci dollari dello Zim babwe e gliela posò sulla scrivania. « E una telefonata locale », spie gò. Il biglietto di banca sparì miracolosamente. Il caporale sorrise e indicò il telefono; Daniel s'era fatto un amico. Isaac Mtwetwe rispose quasi subito quando il centralino di Ka roi ebbe stabilito il collegamento con i Mana Pools. « Isaac! » Daniel respirò di sollievo. « Quando sei tornato? » « Sono entrato in ufficio in questo momento », rispose Isaac. « Siamo tornati dieci minuti fa. Uno dei miei uomini è ferito, devo portarlo all'ospedale. » « Allora siete entrati in contatto? » « Sì. Come avevi detto tu, Daniel, era una grossa banda di delin quenti. » « Avete fatto qualche prigioniero, Isaac? » chiese impaziente Da niel. « Se siete riusciti a prenderne un paio, siamo a posto. »
Isaac Mtwetwe era al timone del sei metri che sfrecciava verso valle nella notte. I suoi ranger stavano acquattati sul ponte sotto la frisata e si stringevano nei pastrani. Faceva freddo, sull'acqua, e il vento della corsa accentuava il gelo della nebbia.
Il motore fuoribordo non funzionava troppo bene. Per due volte Isaac era stato costretto a lasciare che il mezzo d'assalto venisse portato dalla corrente mentre andava a ripararlo. C'era bisogno d'una revisione completa; ma non c'era mai valuta sufficiente per acquistare all'estero i pezzi di ricambio. Rimise il motore in funzio ne e puntò verso valle. Una falce di luna brillava sopra gli alberi scuri che orlavano le rive dello Zambesi, e la sua luce era appena sufficiente ad Isaac per procedere a tutta velocità. Sebbene conoscesse ogni ansa e ogni di rittura del fiume per un'ottantina di chilometri, fino a Tete e al con fine con il Mozambico, la disposizione delle secche e degli scogli era troppo complessa perché potesse procedere nell'oscurità quasi to tale. Il chiaro di luna trasformava i banchi di nebbia in una polvere perlacea e conferiva all'acqua la lucentezza dell'ossidiana nera levi gata. Il sordo borbottio del motore e la velocità della corsa erano tali da scongiurare il pericolo di un preallarme. Raggiunsero così un gruppo di ippopotami che pascolavano in un canneto. Non avendo avuto sentore del loro arrivo i mostruosi pachidermi, presi dal pani co, si lasciarono scivolare sulla riva scoscesa e piombarono nel fiu me fra grandi spruzi. Gli stormi di anatre selvatiche, nelle lagune e nelle langhe tranquille, stavano più attenti. L'avvicinarsi del mezzo d'assalto li faceva levare in volo con un frullo d'ali, che si profila vano contro la luna. Isaac sapeva dove voleva andare. Era stato un combattente della libertà durante la guerra nella boscaglia e aveva attraversato quel fiume per assalire le fattorie dei bianchi e le forze del regime di lan Smith. Conosceva tutte le tecniche e tutti i trucchi dei bracconieri. Alcuni di loro erano stati suoi compagni d'armi, ma adesso erano i nuovi nemici. Li odiava quanto aveva odiato i Selous Scout o la fanteria leggera rhodesiana. Lo Zambesi era ampio quasi ottocento metri in quel tratto, si tuato più a valle di Chirundu e dei Mana Pools. I bracconieri avreb bero avuto bisogno di barche per attraversare la grande distesa ver de, e se le sarebbero procurate come avevano fatto un tempo i guer riglieri: prendendole ai pescatori. Lo Zambesi sostenta una popolazione itinerante di pescatori che costruiscono i villaggi sulle sue rive. Non sono villaggi stabili; il loro modo di vivere è condizionato dai capricci del fiume: quando strari pa e inonda le piane alluvionali, è necessario spostarsi su terreni più elevati. I pescatori seguono le migrazioni dei banchi di tilapia, dei pescitigre e dei pescigatto; quindi, a intervalli di pochi mesi, i grup pi di capanne dai tetti di paglia, con gli affumicatoi e i fuochi ago nizzanti, vengono abbandonati mentre la tribù si sposta. Uno dei compiti di Isaac consisteva nel tener d'occhio i movi menti dei pescatori, perché lo sfruttamento del fiume aveva sensibili riflessi sull'ecologia fluviale. Avvertendo l'odore del fumo e del pe sce nell'aria notturna, Isaac ridusse i giri del motore e si accostò alla riva nord senza far rumore. Se i bracconieri erano venuti dallo Zambia, vi sarebbero tornati passando da lì. L'odore del pesce era più forte e le spire di fumo aleggiavano sull'acqua e si confondevano con la nebbia. In un angolo della riva, c'erano quattro capanne dai tetti di paglia e quattro canoe erano state tirate in secco sulla spiaggia. Isaac puntò verso terra il mezzo d'assalto e balzò giù, lasciando a sorvegliarlo uno dei ranger. Una vecchia uscì da una capanna. Aveva addosso soltanto un gonnellino di pelle d'antilope lechwe; i seni erano vizzi e penduli. « Io ti vedo, vecchia madre », la salutò rispettosamente Isaac, che cercava sempre di mantenere buoni rapporti con gli abitanti del fiume. « Io ti vedo, figlio mio. » La vecchia ridacchiò e Isaac sentì l'o dore della canapa indiana. I batonka riducono l'erba in pasta e la
mescolano al letame bovino fresco, formando sfere che fanno sec care al sole e fumano in pipe d'argilla con il bocchino rosso. Il governo aveva concesso loro una speciale dispensa per conti nuare la tradizione, radicata soprattutto fra le vecchie della tribù. « Tutti gli uomini sono nelle capanne? » chiese Isaac. « Tutte le canoe sono sulla spiaggia? » La vecchia si soffiò il naso prima di rispondere. Si tappò con il pollice una narice e soffiò dall'altra un grumo di muco. Poi si pulì il labbro superiore con il palmo della mano. « Tutti i miei figli e le loro mogli dormono nelle capanne e ci so no anche i loro figli », gracchiò. « Non avete visto sconosciuti armati che hanno voluto farsi tra ghettare oltre il fiume? » insistette Isaac. La vecchia scrollò la testa e si grattò. « Non abbiamo visto sconosciuti. » « Io ti onoro, vecchia madre », disse educatamente Isaac, e le mi se nella mano grinzosa un pacchetto di zucchero. « Stai in pace. » Tornò al mezzo d'assalto. Il ranger balzò a bordo non appena Isaac avviò il motore. Il villaggio più vicino era a cinque chilometri. Isaac scese di nuo vo a terra. Conosceva il capo del villaggio; lo trovò seduto tutto so lo in mezzo al fumo dei fuochi accesi per seccare il pesce, per sal varsi dai nugoli ronzanti di zanzare della malaria. Vent'anni prima, un coccodrillo l'aveva mutilato d'un piede, ma era ancora uno dei barcaioli più intrepidi del fiume. Isaac lo salutò, gli regalò un pacchetto di sigarette e si accosciò nel fumo accanto a lui. « Sei solo, baba. Perché non puoi dormire? C'è qualcosa che ti preoccupa? » « Un vecchio è sempre turbato dai ricordi », rispose evasivamen te il capo. « Per esempio, sconosciuti armati che pretendono di passare il fiume con le vostre canoe? » chiese Isaac. « Gli avete dato quello che volevano, baba? » Il vecchio scosse la testa. « Uno dei bambini li ha visti attraver sare la piana alluvionale ed è corso ad avvertire il villaggio. Abbia mo fatto in tempo a nascondere le canoe nei canneti e a scappare nella boscaglia. » « Quanti erano? » Il vecchio mostrò per due volte le dita di entrambe le mani. « Erano uomini duri, con i fucili, e le facce come i leoni », bisbigliò. « Abbiamo avuto paura. » « Quando è successo, baba? » « L'altra notte », rispose il capo. « Quando non hanno trovato nessuno nel villaggio e non hanno visto le canoe, si sono arrabbiati. Hanno gridato e agitato i fucili, ma alla fine se ne sono andati. » In dicò con il mento verso est, lungo il fiume. « Ma adesso temo che torneranno. Perciò veglio mentre il villaggio dorme. » « La gente di Mbepura è ancora accampata nel luogo degli uccel li rossi? » chiese Isaac. Il capo annuì. « Credo che, dopo essere andati via di qui, quegli uomini siano andati al villaggio di Mbepura. » « Grazie, vecchio padre. » Il luogo degli uccelli rossi prendeva il nome dagli stormi di gralli dal petto carminio che in quel punto scavano i nidi sulla riva scosce sa del fiume. Il villaggio di Mbepura si trovava sulla sponda setten trionale, di fronte alla colonia dei gralli. Isaac si avvicinò con il mo tore al minimo, lasciandosi portare dalla corrente. Tutti i ranger erano all'erta. S'erano tolti i pastrani e stavano acquattati sotto la frisata, con le armi pronte a sparare. Isaac diede gas al motore e si accostò. Il villaggio di Mbepura era un altro gruppetto di capanne vicino all'acqua. Sembravano de serte: i fuochi sotto le rastrelliere per seccare il pesce erano spenti.
Nel chiaro di luna, Isaac vide che i pali d'ormeggio delle canoe spic cavano nell'acqua bassa, ma le imbarcazioni non c'erano. I pescato ri vivevano delle loro canoe: erano le cose più preziose che posse dessero. Isaac lasciò che la corrente lo portasse più a valle del villaggio prima di dare potenza al motore e di tagliare lo Zambesi in direzio ne della sponda meridionale. Se la banda aveva attraversato in quel punto, sarebbe tornata per la stessa strada. Isaac girò il quadrante luminoso dell'orologio per guardarlo nel la luce della luna. Calcolò la distanza che lo separava da Chiwewe e la divise per la probabile velocità di marcia dei bracconieri, tenendo conto del fatto che quasi sicuramente portavano pesanti carichi di avorio rubato. Alzò lo sguardo verso la luna che impallidiva all'av vicinarsi dell'alba. La banda avrebbe potuto raggiungere lo Zambe si entro due o tre ore. « Se riesco a scoprire dove hanno nascosto le canoe... » borbot tò. Immaginava che avessero requisito l'intera flottiglia di Mbepu ra. Ricordava che nell'ultima visita al villaggio aveva visto sette od otto imbarcazioni ricavate ognuna da un tronco di kigelia. Poteva no trasportare sei o sette passeggeri ciascuna attraverso il grande fiume. Con ogni probabilità i bracconieri avevano precettato gli uomini del villaggio perché gli facessero da barcaioli. Erano necessarie abi lità ed esperienza perché le canoe erano capricciose e instabili, spe cialmente con un carico pesante. Quasi sicuramente avevano lascia to i barcaioli sotto sorveglianza sulla riva sud quando avevano pro seguito verso Chiwewe. « Se riesco a trovare le canoe li avrò in pugno », decise Isaac. Puntò l'imbarcazione verso la riva meridionale, un po' più a valle del punto dove immaginava che fosse avvenuta la traversata. Quando trovò l'imboccatura di una laguna diresse la prua fra i pa piri. Spense il motore e i suoi ranger si afferrarono ai ciuffi dei pa piri per spingere la barca, mentre Isaac, a prua, sondava il fondo con un remo. Appena l'acqua fu abbastanza bassa, Isaac e uno dei ranger sce sero, lasciando gli altri a sorvegliare la barca. Quando fu sulla ter raferma, Isaac ordinò al ranger di andare verso valle a cercare le ca noe e le possibili tracce del passaggio di una banda numerosa. Poi si avviò nella direzione opposta, procedendo senza far rumore, muo vendosi come un fantasma nella nebbia del fiume. I suoi calcoli erano esatti. Dopo circa un chilometro e mezzo sentì l'odore del fumo. Era troppo forte per provenire dal villaggio sulla riva opposta. E su quella sponda non c'erano abitati: faceva parte del parco nazionale. Si avvicinò silenziosamente alla sorgente del fumo. In quel pun to la riva era uno strapiombo d'argilla rossa dove i gralli scavavano i nidi. Ma c'era una breccia, proprio al di sotto del punto dove s'era acquattato. Era uno stretto canalone invaso dai cespugli che forma va un approdo naturale. I fiochi barlumi dell'alba erano sufficienti perché Isaac potesse scorgere l'accampamento nella gola. Le canoe erano state tirate in secco in modo da risultare invisibili per chiunque le avesse cercate con una barca. Erano sette: l'intera flottiglia del villaggio di Mbe pura. Poco lontano, i barcaioli erano sdraiati intorno a due fuochi fu manti. Erano avvolti in kaross di pelli animali; per proteggersi dalle zanzare, s'erano tirati le coperte sulla testa e sembravano cadaveri in un obitorio. Accanto a ogni fuoco c'era un bracconiere con un AK 47 sulle ginocchia. Sorvegliavano i barcaioli addormentati per assicurarsi che nessuno sgattaiolasse via per raggiungere le canoe. « Danny aveva capito tutto », si disse Isaac. « Stanno aspettando il ritorno della banda. » Si scostò dal ciglio dello strapiombo e si avviò verso l'interno.
Dopo duecento metri incontrò una pista aperta dalla selvaggina: la sciava il fiume e procedeva verso sud, approssimativamente nella di rezione del campo principale di Chiwewe. Isaac la seguì per un tratto, fino a che la pista tagliò attraverso un corso d'acqua in secca. Il fondo era di sabbia candida e le im pronte erano nitide anche nella luce incerta. Un gruppo numeroso di uomini era passato di lì in fila indiana; ma le loro orme erano state coperte, in parte, da quelle di animali grandi e piccoli. « Ventiquattr'ore », calcolò Isaac. Capì di essere sul percorso che la banda aveva seguito all'andata. Quasi certamente sarebbe ritor nata lungo la stessa pista per raggiungere le canoe. Isaac trovò un punto soprelevato che gli permetteva di tenere d'occhio un lungo tratto della pista, pur restando nascosto in un fit to cespuglio. Dietro di lui c'era una sicura via di fuga attraverso un donga poco profondo, con le rive coperte di vegetazione e d'erba degli elefanti. Si preparò ad attendere. La luce si intensificò rapida mente; pochi minuti dopo poté scorgere l'intero tratto della pista che si addentrava tortuosa nella foresta di mopani. Il coro mattutino degli uccelli incominciò con il chiassoso duetto di due pettirossi di Heughlin nel donga dietro di lui; poi il primo stormo di anitre selvatiche gli passò in volo sopra la testa. La for mazione a freccia spiccava nitida e nera contro lo sfondo azzurro e arancione del cielo. Isaac si acquattò nella posizione da imboscata. Non poteva sa pere quanto tempo avrebbero impiegato i bracconieri nella marcia di ritorno da Chiwewe. Danny aveva calcolato una decina di ore. Se era così, sarebbero arrivati da un momento all'altro. Ma la valuta zione di Danny poteva anche essere imprecisa. Isaac si preparò a una lunga attesa. Durante la guerra, a volte, erano rimasti in agguato per giorni interi, in un'occasione addirittura per cinque, e avevano mangiato, dormito e defecato senza mai alzarsi. La pazienza era la virtù più importante del cacciatore e del soldato. Sentì in lontananza il latrato di un babbuino, il segnale d'allar me con cui quelle scimmie astute salutano la comparsa d'un preda tore. Il grido fu ripreso da altri del branco; poi a poco a poco il si lenzio ritornò mentre il pericolo si allontanava e i babbuini si ad dentravano nella foresta. Isaac aveva i nervi tesi. Sapeva che forse le scimmie avevano latrato nello scorgere un leopardo; ma avrebbe ro reagito nello stesso modo anche al passaggio di una fila d'esseri umani. Dopo un quarto d'ora, molto più vicino, sentì il grido rauco d'un turaco grigio. Un'altra sentinella della boscaglia reagiva alla presenza del pericolo. Isaac non si mosse, ma batté rapidamente le palpebre per vedere meglio. Qualche minuto più tardi percepì un altro suono, meno notevo le, nell'orchestra del territorio selvaggio. Era il ciangottio ronzante d'una guida del miele. Volgendosi in direzione del suono, Isaac scorse un piccolo, anonimo uccello marrone tra i rami più alti dei mopani. L'uccello svolazzava sopra la pista: sbatteva le ali, sfrecciava da un albero all'altro e lanciava grida simili a seducenti implorazioni. Se fossero stati disposti a seguirlo, l'uccello avrebbe condotto un ra tele o un umano a un alveare di api selvatiche; e mentre quelli ruba vano il miele sarebbe rimasto ad attendere la sua parte di favo e di larve. Il suo apparato digerente era così specializzato che riusciva a disgregare la cera e a trarne nutrimento dove non avrebbe potuto trovarlo nessun'altra creatura. Secondo le leggende, se non lasciavi all'uccello la sua parte del bottino, la prossima volta ti avrebbe gui dato verso un letale mamba o un leone antropofago. La guida del miele si avvicinò al punto dove stava in agguato Isaac; e all'improvviso questi scorse un movimento indistinto nella foresta, sotto l'uccello svolazzante. Le sagome confuse si risolsero
in una colonna di uomini che marciavano sulla pista. Il primo della colonna giunse all'altezza dell'imboccatura del donga dove stava Isaac. Sebbene fossero vestiti d'indumenti laceri e sporchi con un eclet tico assortimento di copricapi che andavano dai berretti da baseball a quelli militari, ognuno di loro portava un AK 47 e una zanna d'ele fante. Alcuni tenevano le zanne sulla testa, con le curve naturali dell'a vorio che scendevano davanti e dietro. Altri le portavano sulla spal la e si servivano d'una mano per reggerle in equilibrio mentre con l'altra stringevano il fucile. Molti avevano intrecciato un'imbottitu ra di corteccia e d'erbe morbide per sostenere meglio il peso sulla te sta o sulle clavicole. Le sofferenze che il carico causava dopo ore e chilometri di marcia erano evidenti nelle espressioni dei visi. Ma per ognuno dei banditi la zanna che portava rappresentava un patrimo nio enorme; e avrebbero preferito subire un danno fisico permanen te piuttosto che abbandonarla. L'uomo alla testa della colonna era basso e tozzo, con le gambe storte e il collo taurino. La luce dell'alba metteva in risalto la cica trice sulla sua guancia. « Sali », mormorò Isaac quando lo riconobbe. Era il più famige rato tra i bracconieri dello Zambia. Già per due volte, in passato, le loro strade s'erano incrociate, e ogni volta quell'incontro era costa to la vita a uomini leali ed efficienti. Con andatura spedita, Sali passò accanto al punto dove stava nascosto Isaac. Portava una grossa zanna color miele in bilico sulla testa, ed era l'unico del gruppo che non mostrava segni di stanchez za dopo una lunga marcia. Isaac contò i bracconieri mentre gli sfila vano davanti. I più deboli e lenti erano rimasti distanziati a causa dell'andatura imposta da Sali, e la colonna era quindi sgranata. Ci vollero quasi sette minuti prima che Isaac finisse di contarli. « Di ciannove. » Gli ultimi due passarono barcollando un po'. Avevano scelto zanne troppo pesanti per le loro forze e adesso ne pagavano lo scotto. Isaac li lasciò andare. Ma nel momento in cui sparirono in dire zione del fiume, si alzò, addentrandosi nel donga. Si mosse con estrema prudenza perché non poteva essere certo che altri membri della banda non fossero rimasti indietro. Il mezzo d'assalto era dove l'aveva lasciato, ormeggiato tra le canne all'imboccatura della laguna. Isaac si accostò a guado e si is sò a bordo. L'uomo che aveva mandato in esplorazione verso valle era già tornato. Spiegò sottovoce ciò che aveva visto, e osservò le loro espressio ni. Erano tutti e tre coraggiosi e capaci, ma la loro situazione di svantaggio era particolarmente grave, soprattutto perché i nemici erano « uomini duri con le facce da leoni », come aveva detto il vec chio capo del villaggio. « Li sorprenderemo sull'acqua », disse Isaac. « E non aspettere mo che siano loro a sparare il primo colpo. Sono armati, e stanno portando avorio nel parco. Questo ci basta. Li coglieremo di sor presa, proprio quando meno se l'aspettano. » Robert Mugabe, il presidente dello Zimbabwe, aveva emanato una direttiva che non si prestava a equivoci. Avevano il diritto di sparare a vista. Troppe guardie dei parchi erano state uccise in que gli scontri perché si rispettassero le usuali formalità, come dare l'or dine di fermarsi prima di sparare. I volti dei ranger si indurirono. Strinsero le armi con rinnovata sicurezza. Isaac ordinò di portare l'imbarcazione fuori del canneto e, non appena furono nelle acque libere, cercò di mettere in moto. Il motore s'imballò, scoppiettò e si spense. Isaac ritentò più volte, fino a quando la batteria fu semiscarica. La corrente li stava trasci nando verso valle. Con un borbottio rabbioso, Isaac corse a poppa e scoprì il mo
tore. Mentre lavorava, si rendeva conto che più a monte la banda stava ormai caricando sulle canoe l'avorio rubato e si preparava a ritornare nel suo territorio, al sicuro. Lasciando scoperto il motore, corse ai comandi. Questa volta il motore si accese e continuò a rombare per un po', quindi si spense. Isaac diede gas fino a che il motore riprese e cominciò a funzionare regolarmente, poi sibilò quando l'imbarcazione tagliò di traverso la corrente e risalì il fiume. Il rombo del motore scoperto giungeva molto lontano e, senza dubbio, mise in allarme la banda. Quando Isaac superò un'ansa con il mezzo d'assalto, si accorse che le canoe erano sgranate in mezzo al fiume e filavano verso la riva settentrionale. Il sole sorgeva alle spalle di Isaac e l'ampia distesa d'acqua era illuminata come un palcoscenico. Lo Zambesi era d'un vivido ver de-smeraldo e i papiri sembravano incoronati d'oro dai raggi che li toccavano. Le canoe spiccavano nettamente. Ognuna di quelle fra gili imbarcazioni portava un rematore e tre passeggeri, oltre al cari co d'avorio. Erano così basse sull'acqua che gli uomini sembravano acquattati sulla superficie. I barcaioli remavano freneticamente. Le lunghe pagaie a forma di lancia balenavano nel sole mentre si dirigevano verso l'altra riva. La prima delle canoe era già a un centinaio di metri dai papiri dello Zambia. Quando fu più vicino, Isaac scorse la faccia sfregiata di Sali. Era accosciato a prua, e girava la testa per guardarli minacciosa mente. Ma non poteva muoversi senza sbilanciare il delicato equili brio dell'imbarcazione. « Stavolta ti abbiamo preso », mormorò Isaac. Azionò la leva per fermarsi e il motore Yamaha stridette. Sali si alzò di scatto e la canoa ondeggiò all'impazzata sotto di lui. L'acqua traboccò all'interno delle fiancate di legno e l'imbarca zione cominciò ad allagarsi. Sali urlò una minaccia. Aveva il viso contratto in una maschera di furore. Imbracciò l'AK 47 e sparò una raffica contro il mezzo d'assalto che piombava verso di lui. I proiettili penetrarono nello scafo di fibra di vetro e uno degli indicatori del quadro dei comandi davanti a Isaac esplose. Isaac si chinò, ma continuò a tenere in rotta l'imbarcazione. Sali estrasse il caricatore vuoto e ricaricò. Sparò di nuovo. I bos soli brillavano nel sole mentre schizzavano via. Uno dei ranger gettò un grido e si premette le mani sullo stomaco mentre stramazzava sul ponte. In quel momento la prua del mezzo d'assalto lanciato alla velocità di trenta nodi urtò la fiancata della canoa. Il fragile legno di kigelia si frantumò e gli uomini furono sbalzati nel fiume. Un momento prima della collisione, Sali buttò via l'AK 47 e si tuffò, cercando di sfuggire allo scafo che stava per investirlo. La sua intenzione era di coprire i pochi metri che lo separavano dal canneto rimanendo sott'acqua. Ma aveva i polmoni pieni d'aria e la spinta idrostatica gli impedì di scendere abbastanza. Anche se la te sta e il corpo erano angolati verso il fondo, i piedi erano a pochi centimetri dalla superficie. L'elica dello Yamaha girava al massimo quando gli passò sopra la gamba sinistra. Tranciò nettamente il piede alla caviglia e affon dò nei muscoli del polpaccio come la lama di un'affettatrice, lace rando la carne fino all'osso. Poi il mezzo d'assalto passò oltre, virando bruscamente quando Isaac fece ruotare il timone. Si spinse verso l'ansa e puntò verso la seconda canoa della fila, la investì senza rallentare, schiantò il fragi le scafo e fece piombare nel fiume gli occupanti. Poi proseguì la corsa, descrivendo un'altra curva come uno slalomista lanciato fra i pali. Gli uomini a bordo della terza canoa li videro arrivare e si butta rono nel fiume un attimo prima dsessere investiti. Cominciarono a dibattersi e a urlare mentre la corrente rapida li trascinava via.
Isaac girò di nuovo il timone. Un'altra canoa era proprio davan ti a lui. Gli uomini a bordo gridavano e imploravano, sparando co me pazzi. Le raffiche sollevavano fontane di spruzzi tutto intorno al mezzo d'assalto fino a un attimo prima che anche quella canoa ve nisse investita e travolta. Le imbarcazioni superstiti erano tornate indietro, verso la riva meridionale. Isaac le raggiunse senza fatica e stritolò la poppa di quella più vicina. Sentì il motore bloccarsi e sussultare quando l'eli ca affondò nella carne umana, per poi riprendere il ritmo normale. Le ultime canoe raggiunsero la sponda sud e i bracconieri balza rono a terra nel tentativo di arrampicarsi su per lo strapiombo. L'argilla rossa si sgretolava sotto le loro dita disperate. Isaac ridusse la velocità e puntò la prua verso valle, tenendo fer mo il mezzo d'assalto contro la corrente. « Sono il direttore di un parco », gridò. « Siete in arresto. Fermi dove siete. Non tentate di scappare o sparerò. » Uno dei bracconieri stringeva ancora il fucile. Era quasi arrivato alla sommità dell'argine naturale prima che l'argilla gli cedesse sot to i piedi e lo facesse scivolare fino al bordo dell'acqua. Seduto nel fango rosso, alzò il fucile e mirò agli uomini del mezzo d'assalto. I due ranger illesi erano inginocchiati dietro il parapetto, con i fucili spianati. « Bulala! Uccidete! » gridò Isaac. I due aprirono il fuoco insie me, e le raffiche spazzarono la riva. Erano membri scelti dell'unità antibracconaggio, ottimi tiratori, e odiavano le bande che depreda vano i branchi di elefanti, uccidevano i loro commilitoni e minac ciavano le loro vite. I due risero mentre sparavano ai bracconieri terrorizzati. Era co me un gioco, per loro, lasciare che arrivassero quasi alla sommità della muraglia di argilla rossa prima di farli ripiombare scalciando nel fiume con brevi raffiche. Isaac non cercò di trattenerli. Aveva un vecchio conto da saldare con quegli individui, e pochi anni di carcere non erano una punizio ne sufficiente per i loro crimini. Quando anche gli ultimi rotolarono giù e affondarono lentamente nell'acqua limpida e verde, fece gira re l'imbarcazione e riattraversò il fiume. Sali lo sfregiato era il capo. Gli altri erano assassini senza cervel lo, carne da cannone. Sali avrebbe potuto reclutarne un altro reggi mento per pochi dollari a testa; lui era la mente e il cuore dell'attivi tà, e senza Sali il risultato delle fatiche di quella giornata non avreb be avuto molta importanza. Se non riusciva a fermarlo adesso, sa rebbe ritornato fra una settimana o fra un mese con un'altra banda di assassini. Doveva schiacciare la testa del mamba, altrimenti a vrebbe colpito ancora. Avanzò lungo il bordo dei canneti, sulla riva settentrionale, fino al punto dove aveva speronato la prima canoa. Poi girò nella cor rente, ridusse al minimo la potenza dello Yamaha e lasciò che il fiu me li sospingesse verso valle, mantenendosi a pochi metri dai papiri. I due ranger stavano accanto al parapetto e scrutavano ansiosi fra le canne mentre passavano. Era impossibile capire fin dove la corrente dello Zambesi avesse portato il bracconiere prima che fosse riuscito a mettersi al riparo. Isaac decise di compiere un solo passaggio per un chilometro e mez zo; poi sarebbe sceso a terra con gli uomini e avrebbe battuto a pie di la riva settentrionale per scoprire se Sali aveva lasciato qualche traccia mentre si trascinava all'asciutto, cercando di fuggire. E allo ra l'avrebbe seguito fino a che l'avesse raggiunto. A rigore, la legge non dava a Isaac il potere di effettuare arresti sulla sponda zambiana del fiume: ma stava dando la caccia a un as sassino, a un famigerato bandito. Era pronto a battersi se fosse sta to necessario e anche a sparare un colpo alla testa del prigioniero, se la polizia zambiana avesse cercato d'intervenire per sottrargli quel l'uomo.
In quel momento qualcosa attirò il suo sguardo nel canneto da vanti al mezzo d'assalto. Isaac regolò il motore e fermò l'imbarca zione nella corrente. Un tratto del canneto era scomposto, come se qualcosa vi si fos se trascinato nel mezzo, forse un coccodrillo o una grossa lucertola: ma i ciuffi dei papiri erano storti e spezzati come se qualcuno vi si fosse aggrappato. « I coccodrilli non hanno mani », borbottò Isaac, e portò l'im barcazione più vicino. Il movimento doveva essere avvenuto pochi minuti prima perché le canne appiattite si stavano ancora rialzando sotto i suoi occhi. Isaac sorrise a denti stretti. Si sporse, strappò una canna e l'esaminò nella luce del sole. La macchia di colore sullo stelo fibroso era rossa e bagnata e gli chiaz zò le dita. La mostrò al ranger che stava dietro di lui. « Sangue. » Il ranger annuì. « E ferito. L'elica... » Prima che potesse finire la frase qualcuno urlò nel canneto da vanti a loro. Era un urlo acutissimo di terrore che per un istante li gelò. Isaac fu il primo a riprendersi. Diede gas e fece avanzare la prua fra le canne fitte. Più avanti, la voce umana continuava a urlare.
Sali, immerso nel fiume, sentì l'imbarcazione passargli addosso. Il suono assordante delle pale dell'elica gli invase la testa. Era un suono che non aveva una direzione precisa ma assaltava i suoi sensi da ogni parte. Poi qualcosa gli urtò la gamba: il colpo parve slogargli l'anca, lo fece roteare nell'acqua e lo disorientò. Cercò di slanciarsi verso la superficie, ma la gamba sinistra non gli obbedì. Non provava dolo re, soltanto un torpore pesante come se l'arto fosse chiuso in un blocco di cemento che lo trascinava giù, giù verso i verdi fondali dello Zambesi. Scalciò disperatamente con la gamba indenne e all'improvviso emerse con la testa. Attraverso l'acqua che gli grondava sugli occhi vide il mezzo d'assalto che zigzagava sul fiume, schiantava le canoe e gettava nel fiume gli uomini urlanti. Sali accolse con sollievo la tregua accordatagli da quell'attacco contro le altre canoe. Sapeva che gli restava qualche minuto prima che la barca dei ranger tornasse indietro per cercarlo. Girò la testa. Il canneto era vicino. Con tutta la forza della rabbia e dello sdegno cominciò a nuotare in quella direzione. La gamba era un peso mor to, un'ancora pesante che l'ostacolava e lo faceva rallentare, tutta via Sali continuava a nuotare a grandi bracciate. Dopo pochi secon di afferrò una manciata di steli di papiro. Si trascinò disperatamen te al riparo degli steli, sulla coltre elastica, rimorchiando la gamba straziata. Quando fu in mezzo alle canne, si fermò e si girò sul dorso per guardare nella direzione da cui era venuto. Il respiro gli sibilò nella gola come un rantolo, quando vide la scia di sangue che aveva la sciato sull'acqua. Si strinse il ginocchio, sollevò la gamba ferita e la fissò, incredulo. Il piede non c'era più: l'osso spuntava bianco dalla carne dila niata, il sangue fiottava dai vasi lacerati, galleggiava in una nuvola rossobrunastra. Minuscoli pesci argentei, eccitati dall'odore, sfrec ciavano nell'acqua arrossata e inghiottivano i fili e i brandelli di carne straziata. Sali abbassò in fretta la gamba illesa e tentò di toccare il fondo. L'acqua si chiuse sopra la sua testa, ma il piede destro cercò invano il fondo fangoso. Tornò di nuovo a galla tossendo, semisoffocato. Era ancora lontano dalla riva e c'erano soltanto le canne che pote vano sostenerlo. Dall'altra parte del fiume gli giunse il fragore degli spari, e poi il rombo del mezzo d'assalto che tornava indietro. Si fece sempre più
vicino fino a che si smorzò in un borbottio. Allora sentì le voci: ca pì che lo stavano cercando lungo i canneti. Si immerse. Un freddo torpore si insinuava in lui mentre il suo sangue de fluiva nel fiume; ma si fece forza e cominciò ad addentrarsi tra i pa piri, verso la riva zambiana. Si spinse adagio in un varco fra le can ne: era ampio quanto un campo da tennis, circondato da una paliz zata di papiri svettanti. La superficie era coperta dalle piatte foglie rotonde delle ninfee, e i fiori levavano le incantevoli corolle azzurre verso il primo sole. Il loro profumo era dolce e delicato nell'aria im mota. All'improvviso Sali restò immobile, mentre affiorava soltanto con la testa. Qualcosa si muoveva sotto le ninfee. L'acqua si gonfia va, i fiori oscillavano al ritmo di un movimento ponderoso e fur tivo. Sali sapeva cos'era. Le grosse labbra violacee si aprirono e sba varono per il terrore. Il suo sangue si spandeva nell'acqua costellata di ninfee e l'essere si muoveva con sempre maggiore autorità e deci sione, puntando verso quel sapore allettante. Sali era coraggioso. C'erano pochissime cose al mondo che ave vano il potere di spaventarlo. Ma quello era un essere d'un altro mondo, il mondo segreto sotto le acque. Il suo intestino si vuotò in controllabilmente quando il terrore allentò lo sfintere, e il nuovo odore nell'acqua portò l'essere in superficie. Una testa simile a un tronco, nera e bitorzoluta, bagnata e luci da, affiorò fra le ninfee. Gli occhietti di sauro erano incastonati su protuberanze simili a incrostazioni di corteccia. L'essere ghignava, con le zanne irregolari che sporgevano sopra le labbra. La ghirlanda di ninfee drappeggiata sulla testa orrenda gli conferiva un'aria sar donica di minaccia. All'improvviso la coda enorme spezzò la superficie, la batté tra sformando l'acqua in spuma, e spinse in avanti il lungo corpo squa moso con una velocità sorprendente. Sali urlò. Isaac, che stava ai comandi, fece avanzare l'imbarcazione tra i papiri. Gli steli fibrosi si avvolgevano intorno all'elica e rallentava no il mezzo d'assalto fin quasi a bloccarlo. Corsero a prua, si afferrarono ai papiri e si trascinarono avanti fino a che si trovarono in uno slargo d'acqua aperta. Davanti a loro c'era un movimento convulso nell'acqua, e grandi spruzzi zampilla vano verso il sole per ricadere poi sopra le loro teste. In mezzo alla spuma, un enorme corpo squamoso si rotolava, mostrando a tratti il ventre giallo come il burro, oppure la lunga co da crestata che batteva l'acqua e l'imbiancava. Per un istante, un braccio umano scattò verso l'alto. Era un ge sto di supplica, d'implorazione atterrita. Isaac si sporse e afferrò il polso. Era bagnato e viscido, ma Isaac strinse più forte con entram be le mani e s'inclinò all'indietro con tutto il suo peso. Non poteva reggere la massa di Sali e del rettile. Il polso cominciò a scivolargli fra le dita fino a che uno dei ranger balzò al suo fianco e afferrò il gomito di Sali. Insieme, centimetro per centimetro, estrassero dall'acqua il cor po dell'uomo. Sali pareva un uomo messo alla tortura, tirato tra i ranger da una parte e il rettile spaventoso immerso sotto la superfi cie dall'altra. Il terzo ranger si sporse dalla frisata e sparò una raffica nell'ac qua. I proiettili ad alta velocità esplosero sulla superficie come se avessero colpito una lamina d'acciaio e non fecero altro che scaglia re aghi di spuma negli occhi di Isaac e del ranger che gli stava ac canto. « Bastas » ansimò Isaac. « Colpirai uno di noi. » L'uomo lasciò cadere l'arma e afferrò il braccio libero di Sali. Impegnati allo stremo in quel macabro tiro alla fune, i tre uomi ni issarono lentamente il corpo di Sali dall'acqua, fino a che emerse
anche l'enorme testa squamosa del rettile. Le zanne erano affondate nel ventre di Sali. I denti del cocco drillo non hanno bordi taglienti: l'animale, infatti, smembra la pre da azzannandola e facendola rotolare sott'acqua fino a staccarne un arto o un pezzo di carne. Mentre i tre ranger tenevano stretto Sali sulla frisata, il mostro mosse la coda e girò su se stesso. Il ventre di Sali si squarciò. Il coccodrillo guizzò all'indietro con le zanne anco ra affondate nella carne e strappò gli intestini della vittima. I tre uomini, con l'allentarsi della tensione, riuscirono a tirare a bordo il corpo di Sali. Ma il coccodrillo non lasciava la presa Seb bene Sali si contorcesse sul ponte dell'imbarcazione, i suoi intestini erano srotolati fuoribordo, in un lucido groviglio carnoso di tubi e nastri, come un grottesco cordone ombelicale che lo teneva legato al suo destino. Il coccodrillo diede un altro strattone con tutto il peso e la po tenza della lunga coda. Il nastro di viscere si spezzò e Sali urlò per l'ultima volta e morì sul ponte insanguinato. Vi fu un lungo silenzio, rotto soltanto dagli ansiti rochi degli uo mini che avevano tentato di salvarlo e che adesso, inorriditi e affa scinati, fissavano il cadavere mutilato. Isaac Mtwetwe mormorò: « Neppure io avrei saputo scegliere una morte più adatta a te ». E, usando una formula cerimoniale shona, aggiunse: « Non riposare in pace, o Sali, o malvagio, e che le tue azioni nefande ti accompagni no nel tuo viaggio ».
« Non abbiamo fatto prigionieri », disse Isaac a Daniel Arm strong. « Come hai detto? » gridò Daniel. Il collegamento era pessimo, e c'erano forti interferenze causate dal temporale che infuriava nella valle. « Niente prigionieri, Danny. » Isaac alzò la voce. « Otto morti, ma gli altri li hanno mangiati i coccodrilli o sono riusciti a rifugiarsi nello Zambia. » « E l'avorio, Isaac? Avevano le zanne? » « Sì, tutti ne portavano; ma sono andate perdute nel fiume quando sono affondate le canoe. » « Maledizione », mormorò Daniel. Adesso sarebbe stato molto più difficile convincere le autorità che la maggior parte dell'avorio era stata portata via da Chiwewe con i camion frigoriferi. La pista che conduceva a Ning Deng Kong diventava sempre più ardua con il passare delle ore. « C'è un'unità della polizia che sta arrivando da qui al campo della direzione a Chiwewe », disse a Isaac. « Sì, Danny, sono già arrivati. Li raggiungerò appena avrò fatto portare con l'elicottero a Harare il mio ranger ferito. Voglio vedere che cosa hanno fatto a Johnny Nzou, quei bastardi. » « Ascolta, Isaac. Ho intenzione di seguire l'unica pista che può farmi arrivare al responsabile. » « Sii prudente, Danny. E gente che non scherza. Potrebbe andar ti male. Dove sei diretto? » « Ci vediamo, Isaac. » Daniel non rispose alla domanda. Posò il ricevitore e uscì per tornare al Land Cruiser. Sedette al volante e rifletté. Si rendeva conto che era solo un momento di tregua. Fra poco la polizia dello Zimbabwe avrebbe vo luto parlare ancora con lui, e più seriamente. C'era un unico posto dove poteva andare: fuori del paese. E, comunque, era là che lo conducevano gli indizi. Raggiunse l'ufficio della dogana e dell'immigrazione e parcheg giò davanti alla barriera. Aveva il passaporto, e i documenti del Land Cruiser erano in regola. Le formalità per l'uscita furono sbri gate in meno di mezz'ora; per gli standard africani era quasi un pri mato.
Daniel imboccò il ponte d'acciaio che attraversava lo Zambesi. Sapeva che non stava entrando in paradiso. Dopo l'Uganda e l'Etiopia, lo Zambia era uno dei paesi più po veri e sciagurati del continente africano. Daniel fece una smorfia. Un cinico avrebbe potuto attribuirlo al fatto che era indipendente dal dominio coloniale britannico da più tempo di quasi tutti gli al tri. La politica del caos e della rovina aveva avuto maggiori possibi lità di realizzarsi. Finché erano di proprietà privata, le grandi miniere di rame era no state fra le più redditizie del continente e avevano rivaleggiato persino con le favolose miniere d'oro più a sud. Conseguita l'indi pendenza, il presidente Kenneth Kaunda le aveva nazionalizzate, in staurando una politica di africanizzazione, una specie di razzismo rivendicativo che consisteva nel licenziare gli ingegneri e i dirigenti abili e competenti che non avevano la faccia nera. In pochissimo tempo aveva compiuto il miracolo di trasformare un utile annuo di molte centinaia di milioni in un passivo altrettanto enorme. Daniel si preparò all'incontro con le autorità dello Zambia. « Saprebbe dirmi qualcosa di un mio amico che è passato di qui ieri notte e che era diretto nel Malawi? » chiese all'agente in unifor me che era uscito dalla dogana per perquisire il Land Cruiser. L'agente aprì la bocca per protestare indignato contro quella ri chiesta di rivelare informazioni ufficiali, ma Daniel lo prevenne, sfoderando un biglietto da cinque dollari. La moneta zambiana, il kwacha, che prendeva il nome dall'« alba della libertà dopo l'op pressione coloniale », un tempo veniva cambiata in parità con il dol laro americano. Le numerose svalutazioni avevano portato il cam bio ufficiale a trenta a uno e, al mercato nero, quasi a trecento a uno. Gli scrupoli del doganiere svanirono. Aveva sotto gli occhi un mese di stipendio. « Come si chiama il suo amico? » chiese premurosamente. « Chetti Singh. Guidava un grosso camion con un carico di pesce secco. » « Aspetti. » L'agente entrò nella stazione. Tornò dopo pochi mi nuti. « Sì. Il suo amico è passato dopo mezzanotte. » Non si preoccu pò di perquisire il Land Cruiser e timbrò il passaporto di Daniel. Poi se ne andò con passo scattante. Daniel provò un brivido di inquietudine mentre lasciava il posto di confine e si dirigeva a nord verso Lusaka, la capitale. Nello Zam bia, il dominio della legge finiva ai margini degli insediamenti urba ni. Nella boscaglia, la polizia aveva dei posti di blocco, ma non commetteva mai la sciocchezza di rispondere alle invocazioni di aiu to dei viaggiatori che percorrevano le strade deserte e dissestate. Durante i venticinque anni d'indipendenza la condizione delle strade era peggiorata in modo notevole. In certi punti, le buche nel l'asfalto eroso arrivavano al ginocchio. Daniel viaggiava a quaranta chilometri l'ora e aggirava i tratti disastrati come se attraversasse un campo minato. Il panorama era magnifico. Stava passando in mezzo a splendi de foreste aperte e radure d'erba dorata chiamate damboe. Sembra va che le colline e i kopje fossero stati costruiti nei tempi remoti dal le mani di un gigante. Le muraglie e le torri di pietra erano corrose e formavano una sorta di caos spettacolare. I numerosi fiumi erano profondi e limpidi. Daniel arrivò al primo posto di blocco. A cento metri dalla barriera rallentò e tenne entrambe le mani sul volante. I poliziotti erano nervosi e avevano il grilletto facile. Quando si fermò, un agente con gli occhiali a specchio infilò la can na di un fucile semiautomatico nel finestrino e lo salutò in tono ar rogante. « Salve, amico. » Teneva il dito sul grilletto e la canna puntata al ventre di Daniel. « Scenda! »
« Fuma? » chiese Daniel. E, mentre scendeva, tirò fuori un pac chetto di Chesterfield e lo mise nella mano dell'agente. L'agente tirò indietro l'arma e controllò che il pacchetto fosse ancora chiuso. Poi sorrise, e Daniel si rilassò leggermente. In quel momento un altro veicolo si fermò dietro il Land Crui ser. Era il camion d'una delle agenzie che organizzavano i safari: se duti sul carico di attrezzature per accamparsi, c'erano i portatori dei fucili e i cercatori di tracce. Al volante c'era un tipico cacciatore professionista, barbuto, ab bronzato e con il volto sciupato dalle intemperie. Il cliente, seduto al suo fianco, aveva un'aria molto cittadina, benché portasse una giacca da safari e la fascetta di pelle di zebra intorno alla cupola dello stetson. « Daniel! » Il cacciatore si affacciò dal finestrino. « Daniel Arm strong! » esclamò allegramente. Daniel ricordò. S'erano conosciuti tre anni prima, quando Da niel stava girando un documentario sui safari, L'uomo è cacciatore. Al momento non ricordava il nome; ma avevano bevuto insieme una bottiglia di Haig accanto al fuoco nella valle di Luanga. Lo ri cordava come un tipo che aveva una reputazione più di forte bevito re che di grande cacciatore. Si era scolato più della metà dell'Haig: questo Daniel lo rammentava. « Stoffel! » Adesso rammentava il nome, e si sentì sollevato. Aveva bisogno di un alleato e di un protettore. I cacciatori delle so cietà dei safari costituivano una specie di aristocrazia della bosca glia. « Stoffel van der Merwe! » disse. Stoffel scese. Era grande, grosso, sorridente. Come quasi tutti i cacciatori professionisti dello Zambia, era un afrikaner del Suda mca. « Diavolo, che piacere rivederti! » Strinse la mano di Daniel in una zampa pelosa. « Ti stanno piantando qualche grana? » « Be'... » Daniel non finì la frase e Stoffel si girò verso il poli ziotto. « Ehi, Juno, questo è un mio amico. Trattalo bene, capito? » Il poliziotto rise e annuì. Daniel si meravigliava sempre nel vede re che afrikaner e negri andavano d'accordo sul piano personale, quando cioè non entrava in gioco la politica. Forse perché erano tutti africani e si capivano. Dopotutto vivevano lì insieme da quasi tre secoli, pensò Daniel sorridendo fra sé, era logico che fosse così. « Vuoi la tua parte, eh? » disse scherzando Stoffel all'agente. « Provati a piantar grane al dottor Armstrong, e non la beccherai. » I cacciatori seguivano percorsi abituali per andare e tornare dal le concessioni di caccia nella boscaglia, e conoscevano per nome gli agenti dei posti di blocco. Avevano stabilito con loro una regolare tariffa di bonsela. « Ehi! » Stoffel si rivolse ai cercatori di tracce seduti sul camion. « Consegnate a Juno, qui, un bel coscio di bufalo: guardate come sta diventando magro. Dobbiamo farlo ingrassare un po'. » Gli uomini tirarono fuori dal telone un coscio di bufalo non an cora scuoiato, coperto di polvere e di mosconi ronzanti. I cacciatori avevano accesso a quantità illimitate della selvaggina legittimamente uccisa dai clientie « Quei poveracci sono a corto di proteine », spiegò Stoffel al cliente americano quando questi li raggiunse. « Per un coscio di bu falo venderebbero la moglie; per due l'anima, per tre le venderebbe ro con ogni probabilità tutto il paese. E in tutti i casi sarebbe un pessimo affare! » Rise fragorosamente e presentò il cliente a Daniel. « Questo è Steve Conrack, della California. » « Io la conosco, naturalmente », disse l'americano. « E un gran de onore, dottor Armstrong. Vedo sempre i suoi documentari in te levisione. Ho proprio qui una copia del suo libro. Può farmi un au tografo per i miei ragazzi? Sono suoi grandi ammiratori. » Daniel rabbrividì al pensiero del prezzo della fama, ma quando il californiano tornò con uno dei suoi libri, si affrettò a firmarlo.
« Dove stai andando? » chiese Stoffel. « A Lusaka? Allora lascia che ti preceda e dica qualche parolina per te, altrimenti potrebbe succedere di tutto. Potresti impiegare una settimana o tutta l'eterni tà per arrivarci. » Con un gran sorriso, il poliziotto alzò la barriera e li salutò men tre passavano. Da quel punto in poi la marcia fu come un corteo reale, mentre grossi pezzi di carne cruda uscivano regolarmente dal telone. « Rose, rose sulla tua strada... e bistecche di bufalo. » Daniel sorrise tra sé e tenne il piede sull'acceleratore per non perdere di vi sta il camion. Stavano attraversando le pianure fertili irrigate dal fiume Kafue. Era una zona di colture di canna da zucchero, mais e tabacco, e le piantagioni erano quasi tutte di proprietà di zambiani bianchi. Pri ma dell'indipendenza, avevano fatto a gara nell'abbellire le loro te nute. Le case tinteggiate di bianco, a quel tempo, splendevano come perle fra i prati verdi curati con amore. Le recinzioni erano sempre in ordine e bestiame ben pasciuto pascolava in vista della strada. Adesso l'aspetto degradato delle proprietà era un tentativo pre meditato di ingannare gli sguardi invidiosi. « Se hai l'aria di passartela bene », aveva spiegato a Daniel uno dei proprietari, « loro ti portano via tutto. » Non aveva avuto biso gno di spiegare chi erano « loro ». « In questo paese la regola è: se hai qualcosa, in nome di Dio non ostentarla. » Gli agricoltori bianchi vivevano come una piccola tribù separata nella loro enclave. Un po' come i loro antenati pionieri, fabbricava no il sapone e altre cose che non si trovavano mai sugli scaffali spo gli degli empori locali. Vivevano prevalentemente dei prodotti della loro terra; tuttavia il loro tenore di vita era ancora discreto: esiste vano infatti i club del golf, del polo e anche le compagnie filodram matiche. Mandavano i figli a scuola e all'università in Sudafrica spenden do le piccole somme di valuta estera ferocemente razionata che gli venivano concesse; tenevano la testa bassa ed evitavano di attirare l'attenzione. Persino i potenti di Lusaka si rendevano conto che senza di loro l'economia, già precaria, sarebbe crollata completa mente. Il mais e lo zucchero che producevano evitavano la fame al resto della popolazione e il tabacco contribuiva ad accrescere lo scarsissimo afflusso di valuta pregiata apportato dalle miniere di ra me in rovina. « Dove potremmo andare? » Era stata una domanda retorica, quella dell'informatore di Danny. « Se ce ne andiamo, dobbiamo farlo in mutande. Non ci lascerebbero portar via un soldo. Dobbia mo arrangiarci. o Mentre i due veicoli si avvicinavano a Lusaka, Daniel ebbe una dimostrazione di uno dei tanti fenomeni sconvolgenti della nuova Africa: il movimento migratorio della popolazione rurale verso i centri urbani. Daniel sentì l'odore degli slum mentre passavano dalla periferia della città. Era il puzzo del fumo dei fuochi accesi per cucinare, il lezzo delle latrine scoperte e dei mucchi di rifiuti, della birra acida preparata illegalmente e dei corpi umani che non avevano acqua corrente o fiumi per lavarsi. Era l'odore della malattia e della fame, della miseria e dell'ignoranza, il nuovo odore dell'Africa. Daniel offrì da bere a Stoffel e al suo cliente nel bar del Ridge way Hotel; poi si scusò e andò a farsi registrare. Gli diedero una stanza affacciata sulla piscina, e subito andò a fare una doccia per liberarsi della sporcizia e dello sfinimento delle ultime ventiquattr'ore. Poi prese il telefono e chiamò l'alto commis sariato britannico. Riuscì a trovare la telefonista poco prima che l'ufficio chiudesse. « Posso parlare con il signor Michael Hargreave? » Trattenne il respiro. Mike Hargreave era ancora a Lusaka due anni prima, ma
poteva essere stato trasferito chissà dove. « Le passo il signor Hargreave », rispose la telefonista dopo un attimo, e Daniel sospirò di sollievo. « Qui Michael Hargreave. » « Mike, sono Danny Armstrong. » « Santo Dio, Danny! Dove sei? » « Qui a Lusaka. » « Bentornato nella terra incantata. Come va? » « Mike, posso vederti? Ho bisogno di un altro favore. » « Perché non vieni a cena da noi stasera? Wendy sarà felice. » Michael aveva una delle residenze diplomatiche di Nods Hill, a poca distanza dal palazzo del governo. Come tutte le altre case di quella strada, era fortificata come una prigione. I muri perimetrali, alti tre metri, erano sovrastati da filo spinato, e il cancello era sor vegliato da due malondo, i guardiani notturni. Michael Hargreave mandò a cuccia i due rottweiler e accolse Da niel con entusiasmo. « Vedo che non vuoi correre rischi, Mike. » Daniel indicò con un cenno le precauzioni e Michael fece una smorfia. « In questa strada abbiarno un furto con scasso ogni notte, no nostante i muri e i cani. » Condusse Daniel nella casa, e Wendy venne a salutare l'ospite. Era bella come un bocciolo di rosa, con i morbidi capelli biondi e l'incredibile carnagione delle donne inglesi. « Avevo dimenticato che sei più bello di persona che in televisio ne », gli disse con un sorriso. Michael Hargreave aveva più l'aria del docente universitario che della spia, ma apparteneva all'M15. Lui e Daniel s'erano conosciuti in Rhodesia verso la fine della guerra. A quel tempo Daniel era nau seato e depresso, deluso da quella che ormai vedeva come una causa non solo persa ma anche ingiusta. La frattura era avvenuta quando aveva guidato una colonna dei Selous scout nel vicino stato del Mo zambico. L'obiettivo era un campo di guerriglieri. Il servizio segreto rhodesiano aveva segnalato che era un campo d'addestramento per le reclute della ZANLA; ma quando avevano attaccato le capanne avevano trovato soprattutto vecchi, donne e bambini. Circa cinque cento. Non ne avevano lasciato vivo neppure uno. Durante la marcia di ritorno, Daniel aveva pianto irrefrenabil mente mentre procedeva barcollando nel buio. Gli anni del pericolo onnipresente e delle continue chiamate in servizio attivo gli avevano logorato i nervi. Solo più tardi aveva capito di aver avuto un esauri mento: ma in quel momento critico era stato avvicinato dal clande stino Alpha Group. La guerra s'era trascinata per tanti anni che un piccolo gruppo di ufficiali della polizia e dell'esercito s'era reso conto della sua inu tilità. E s'erano accorti di stare non già dalla parte degli angeli ma da quella del diavolo. Avevano deciso allora di prodigarsi per mettere fine alla feroce guerra civile, di costringere il governo bianco di Smith ad accettare una tregua negoziata dalla Gran Bretagna, seguita da elezioni libere e democratiche e da un processo di riconciliazione nazionale fra le razze. Tutti quelli dell'Alpha Group erano uomini che Daniel am mirava; molti erano ufficiali superiori, decorati al valor militare. S'era lasciato attrarre irresistibilmente. Michael Hargreave era il capo della postazione del servizio se greto britannico in Rhodesia e aveva conosciuto Daniel quando quest'ultimo s'era impegnato con l'Alpha Group. Avevano collabo rato, e Daniel aveva avuto una piccola parte nel processo che aveva portato alla fine delle terribili sofferenze e dei soprusi e che era cul minato nell'accordo di Lancaster House. Daniel non era nello Zimbabwe quando il regime bianco di Ian Smith aveva capitolato. La sua slealtà era stata scoperta dal servizio segreto rhodesiano e, avvertito dell'imminenza dell'arresto da altri
del suo gruppo, era fuggito dal paese. Se l'avessero catturato sareb be finito davanti a un plotone d'esecuzione. S'era azzardato a tor nare solo quando il paese aveva cambiato il nome in Zimbabwe e il potere era finito nelle mani di Robert Mugabe e del suo nuovo or dine. All'inizio, i rapporti tra Daniel e Michael erano professionali e distaccati; ma il rispetto e la fiducia s'erano trasformati in un'au tentica amicizia che era sopravvissuta agli anni. Michael gli versò un whisky. Parlarono e rievocarono i tempi andati fino a che Wendy li chiamò a tavola. La cucina casalinga era una festa per Daniel, e Wendy era raggiante nel vederlo usare con impegno coltello e forchetta. Quando arrivarono al brandy, Michael chiese: « Dunque, quale sarebbe il favore? » « Per la precisione i favori sono due. » « Ah, l'inflazione galoppa... sentiamo, ragazzo mio. » « Potresti far mandare a Londra le mie registrazioni con il cor riere diplomatico? Sono molto preziose. Non posso affidarle alle poste zambiane. » « Questo è facile », consentì Michael. « Le farò partire con il cor riere di domani. E l'altro favore? » « Ho bisogno d'informazioni su un certo Ning Deng Kong. » « E possibile che lo conosciamo? » chiese Michael. « Sì. E l'ambasciatore di Taivvan a Harare. » « In questo caso avremo un suo dossier. E un amico o un nemi co, Danny? » « Non ne sono sicuro... almeno a questo punto. » « Allora non dirmelo. » Michael sospirò e gli passò la bottiglia del brandy. « Cercherò i dati che abbiamo nel computer e vedrò di consegnarteli domani, prima di mezzogiorno. Vuoi che te li mandi al Ridgevvay? » « Che tu sia benedetto, vecchio mio. Ti devo un altro favore. » « E non dimenticarlo, Danny. » Era un sollievo enorme liberarsi delle registrazioni di Jock: rap presentavano il risultato di un anno di lavoro faticoso e quasi tutta la ricchezza terrena di Daniel. Credeva nel nuovo progetto al punto che, contrariamente al solito, non aveva cercato finanziamenti e sterni. Aveva rischiato tutto ciò che possedeva, quasi mezzo milione di dollari accumulati con pazienza negli ultimi dieci anni, da quan do era diventato regista e produttore televisivo a tempo pieno. E così le registrazioni partirono l'indomani mattina per corriere diplomatico con il volo della British Airways. Sarebbero arrivate a Londra in meno di dodici ore. Daniel le aveva spedite ai Castle Stu dios, dove sarebbero state al sicuro fino a quando avesse potuto co minciare a montarle per trasformarle in un'altra delle sue produzio ni. Aveva già quasi scelto il titolo per la nuova serie: Africa che muore. Anziché affidarlo a un fattorino, Michael Hargreave andò a consegnare personalmente a Daniel in albergo il dossier su Ning Deng Kong. « Hai scelto proprio un bel tipo », commentò. « Non ho letto tut to, solo quanto basta per capire che è meglio non scherzare con la famiglia Ning. Vacci piano, Danny: sono pezzi grossi. » Gli porse la busta. « Una sola condizione. Quando l'avrai letto, voglio che lo bruci. Mi dai la tua parola? » Danny annuì, e Michael continuò: « Ho portato con me un ascari dell'alto commissariato perché sorvegli il tuo Land Cruiser. A Lu saka non si può lasciare un veicolo incustodito per la strada ». Daniel portò la busta in camera sua e ordinò il tè. Quando glielo portarono, chiuse a chiave la porta, si mise in mutande e si sdraiò sul letto. Il dossier era di undici pagine, tutte interessanti. Johnny Nzou gli aveva dato solo una vaga idea della ricchezza e dell'importanza
della famiglia Ning. Il patriarca era Ning Heng H'Sui. Le sue holding erano così di versificate e incrociate con tante compagnie internazionali e tante fi nanziarie nel Lussemburgo, a Ginevra e a Jersey, che l'autore del rapporto ammetteva laconicamente, alla fine di quella sezione: « Elenco con ogni probabilità incompleto ». Daniel esaminò più attentamente i dati e credette di notare uno spostamento negli investimenti a partire dalla data approssimativa in cui Ning Deng Kong era stato nominato ambasciatore in Africa. Anche se gli interessi della famiglia Ning erano incentrati sulla costa del Pacifico, gli investimenti in Africa e nelle società con base in Africa erano saliti fino a costituire una percentuale significativa del l'intero portafoglio. Daniel girò la pagina e scoprì che il computer aveva analizzato quel fatto e aveva accertato che in sei anni la sezione africana era passata da zero a circa il dodici per cento del totale. C'erano grossi pacchetti d'azioni di conglomerate minerarie sudafricane, aziende agricole e alimentari, e partecipazioni ancora più consistenti in pro prietà forestali, cartiere, allevamenti di bovini e ovini in tutta l'Afri ca a sud del Sahara. Non era necessario essere chiaroveggenti per dedurre che era stato Ning Deng Kong ad avviare la famiglia in quella direzione. A pagina quattro del dossier, Daniel lesse che Ning Deng Kong aveva sposato una cinese appartenente a un'altra ricca famiglia tai wanese. Il matrimonio era stato combinato dalle rispettive famiglie. La coppia aveva due figli: un maschio nato nel 1982, e una femmi na nel 1983. Gli interessi di Deng erano la musica e il teatro orientali, le col lezioni di oggetti d'arte orientali, soprattutto di giada e d'avorio. Era un esperto riconosciuto nel settore dei netsuke d'avorio. Gioca va a golf e a tennis e si dedicava alla nautica. Era inoltre un esperto d'arti marziali, e aveva raggiunto il quarto dan. Fumava moderata mente e beveva alcolici solo in società. Non usava stupefacenti e l'u nica debolezza che secondo il rapporto poteva essere usata a scopo di ricatto era il fatto che Ning Deng Kong frequentava regolar mente i bordelli più lussuosi di Taipei. I suoi gusti sessuali sembra vano tendere alla realizzazione di fantasie di tipo nettamente sadico. Nel 1987 una prostituta era morta durante una di queste performan ces. La famiglia, con ogni probabilità, era riuscita a soffocare lo scandalo, poiché Deng non era mai stato incriminato. « Mike ha ragione », riconobbe Daniel posando il dossier. « E un pezzo grosso e molto ben protetto. E meglio muovere un passo alla volta. Prima Chetti Singh. Se riuscirò a trovare un legame, potreb be essere la chiave. » Mentre si vestiva per la cena continuò a esaminare i dati per es sere certo di non aver trascurato il minimo collegamento con il Ma lawi o con Chetti Singh. Ma non ce n'erano. Quando scese a cena si sentiva depresso e scoraggiato. Il ruolo che s'era scelto come vendicatore di Johnny Nzou non era certo facile. Il menù di cinque pagine offriva anche salmone scozzese affumi cato e filetto arrosto di bue charolais. Ma quando li ordinò, il ca meriere scosse la testa. « Spiacente, non abbiamo. » Diventò una specie di gioco a quiz: « Spiacente, non abbiamo. » Il cameriere sembrava sinceramente rammaricato mentre Daniel chiedeva invano un piatto del menù dopo l'altro. Poi Daniel notò che tutti i clienti stavano mangiando del pollo arrosto, piuttosto ti glioso, con riso. « Sì, abbiamo pollo e riso. » Il cameriere sorrise. « Cosa vuole per dessert? » Ormai Daniel aveva imparato il trucco. Guardò gli altri tavoli. « Crema alla banana? »
Il cameriere scosse la testa. « Non abbiamo. » Ma, dalla sua espressione, Daniel comprese che era arrivato quasi al segno. Daniel si alzò e si accostò a un uomo d'affari nigeriano seduto al tavolo accanto. « Mi scusi, signore, che cosa sta mangiando? » Poi tornò al suo tavolo. « Una delizia alla banana », disse, e il cameriere annuì felice. « Va bene, signore. » La commediola restituì a Daniel il buonumore e il senso del co mico. « A.V.A. », disse al cameriere. « Africa Vince Ancora. » Il came riere sorrise, contento di quell'elogio incoraggiante.
L'indomani mattina Daniel si diresse verso Chipata e il confine con il Malawi. Non aveva senso sperare in una colazione sostanzio sa all'albergo, e comunque le cucine non erano ancora aperte quan do partì. Aveva percorso quasi centocinquanta chilometri prima che si alzasse il sole, e continuò a viaggiare per quasi tutto il giorno, fer mandosi solo per mangiare lungo la strada. L'indomani mattina arrivò al confine ed entrò nel Malawi con un certo sollievo. Il piccolo paese non era soltanto più bello di quel lo che aveva lasciato, ma in confronto lo stato d'animo degli abi tanti era più sereno e spensierato. Il Malawi era conosciuto come « la Svizzera dell'Africa » per le sue montagne splendide, gli altipiani, i laghi e i fiumi incantevoli. Gli abitanti erano noti in tutta la parte meridionale del continente per la loro intelligenza e la capacità di adattamento. Erano molto ri cercati per ogni genere di lavoro, dal servizio domestico alle miniere e alle industrie. Dato che non aveva giacimenti minerari, il patrimo nio più prezioso del Malawi era la sua gente. Sotto il dispotismo benevolo dell'ottuagenario presidente a vita, le qualità dei malavvani venivano incoraggiate e favorite. Le aree ru rali non erano trascurate, la migrazione urbana aveva un freno. Ogni famiglia aveva l'ordine di costruirsi la casa e di rendersi auto sufficiente in quanto al vitto. Per guadagnare, coltivavano cotone e arachidi. Nelle grandi proprietà di montagna, invece, producevano tè di qualità superiore. Mentre Daniel si dirigeva verso Lilongwe, la capitale, il contra sto con il paese che aveva appena lasciato diventava sempre più sor prendente. I villaggi che incontrava erano puliti, ordinati, prosperi. La gente era ben nutrita, ben vestita e sorridente. Quasi tutte le donne indossavano gonne lunghe con i colori nazionali e l'effigie di « Kamuzu » Hastings Banda, il presidente. Le gonne corte erano vie tate per decreto presidenziale, come i capelli lunghi per gli uomini. Lungo la strada venivano offerti in vendita cibi e oggetti di le gno intagliato. Era strano vedere tanta abbondanza di viveri in un paese africano. Daniel si fermò per acquistare uova e arance, man darini, grossi pomodori rossi e arachidi tostate, e per scambiare quattro chiacchiere con i venditori. Dopo la miseria che aveva visto nel paese da cui era partito, si sentiva consolato da quella gente così simpatica. Se avevano la pos sibilità di vivere in modo decente, pochi popoli al mondo erano cor diali e amichevoli come gli africani. Daniel provò per loro una sim patia rinnovata. « Se i negri non ti piacciono, non devi vivere in Africa », gli ave va detto una volta suo padre. Quelle parole gli erano rimaste im presse nella mente per tutti quegli anni, e la loro validità appariva sempre più evidente. Mentre si avvicinava a Lilongwe, Daniel fu colpito ancora di più
dal contrasto con altre capitali del continente. Era sorta di recente, pianificata e costruita con l'assistenza tecnica e l'aiuto finanziario del Sudafrica. Lì non c'era il lezzo degli slum: era una città grazio sa, moderna e funzionale. Era bello tornarci, pensò Daniel. Il Capital Hotel era vicino al centro e circondato da parchi e prati. Appena fu solo nella sua stanza, Daniel consultò l'elenco del telefono che aveva trovato nel cassetto del comodino. Chetti Singh era un pezzo grosso in città, ed evidentemente ama va mettere in vista il suo nome. C'era tutta una sfilza di numeri. Sembrava che avesse le mani in pasta dappertutto: Chetti Singh pe scherie; Chetti Singh supermercati, Chetti Singh concerie, Chetti Singh segherie e legnami, Chetti Singh garage e agenzia Toyota. L'elenco occupava mezza pagina. Non era difficile trovare la selvaggina, ammise Daniel. Adesso doveva vedere se sarebbe riuscito a stanarla per sparargli. Mentre si faceva la barba, un servitore portò in lavanderia gli in dumenti sporchi che aveva usato per il viaggio e gli stirò alla perfe zione una giacca da safari. « Ho una buona scusa. Devo fare rifornimento », si disse Daniel. Scese e chiese all'impiegato le indicazioni per arrivare al supermer cato di Chetti Singh. « Al di là del parco. » L'uomo indicò. Con simulata disinvoltura, Daniel attraversò il parco. Sapeva di dare nell'occhio, con la giacca da safari confezionata a Londra, la sciarpa bianca e il Land Cruiser ammaccato e impolverato con lo stemma sgargiante. « Spero proprio che Chetti Singh non abbia visto bene me e il fuoristrada, quella notte », pensò. Il supermercato era in Main Street, in un nuovo palazzo a quat tro piani con i pavimenti e le pareti rivestiti di piastrelle. Gli scaffali erano carichi di merce a prezzi ragionevoli, e i clienti erano numero si. Per l'Africa era uno spettacolo inconsueto. Mentre Daniel si accodava alle casalinghe che spingevano i car relli fra gli scaffali, cominciò a studiare la costruzione e il perso nale. erano svelte ed efficienti. Sotto le agili dita brune i registratori suo navano la dolce musica di mammona. « Le figlie di Chetti Singh », pensò Daniel, notando la rassomi glianza. Erano graziose come colibrì nei sari dai colori vivaci. Al centro del supermercato una signora asiatica di mezza età sta va seduta su un podio, e di là poteva sorvegliare ogni angolo. I ca pelli grigi erano acconciati in una treccia e, sebbene il sari avesse un colore più sobrio, era orlato di fili d'oro, e i diamanti che portava alle dita andavano dalle dimensioni di un pisello a quelle di un uovo Voltò le spalle al riquadro imperscrutabile di vetro, rendendosi conto che forse era sotto osservazione da mezz'ora e che la sua pre cauzione arrivava troppo tardi. Andò a una cassa e, mentre la ra gazza faceva il conto degli acquisti, Daniel tenne la faccia girata nella direzione opposta della finestra. di passero. « Mamma Singh », pensò Daniel. Quando si trattava di maneg giare i contanti, gli uomini d'affari asiatici preferivano tenerli in fa miglia, e con ogni probabilità era una delle ragioni del loro succes so. Scelse con calma gli alimentari che gli servivano sperando di ve dere la sua selvaggina, ma non c'era neppure l'ombra del sikh e del suo turbante. Finalmente mamma Singh lasciò il podio e con passo elefantesco ma dignitoso attraversò il supermercato e, con il lungo sari di seta che strusciava sui gradini, salì una scala seminascosta in un angolo che Daniel non aveva notato. La donna varcò una porta al piano di sopra, e Daniel notò una finestra a specchio accanto alla porta. Era evidentemente un finto
specchio. Un osservatore che stava in quella stanza poteva senza dubbio sorvegliare l'intero supermercato. Daniel era certo che fosse l'ufficio di Chetti Singh.
Chetti Singh era in piedi accanto alla finestrella quando entrò la moglie. Lei s'accorse subito che era agitato; si tirava pensosamente la barba e teneva gli occhi socchiusi. « Quel bianco. » Indicò il centro del supermercato. « Lo hai no tato? » « Sì. » La moglie gli si affiancò. « L'ho notato quando è entrato. Ho pensato che fosse un militare o un poliziotto. » « Cosa te l'ha fatto pensare? » chiese Chetti Singh. La donna fece un gesto eloquente con le mani bellissime, in stri dente contrasto con la sua mole. Erano le mani della ragazzina che Chetti Singh aveva sposato quasi trent'anni prima, e i palmi erano tinti di henné. « Ha un portamento eretto e cammina con fierezza », spiegò. « Come un soldato. » « Mi pare di conoscerlo », disse Chetti Singh. « L'ho visto di re cente, ma era notte e non posso essere del tutto certo. » Prese il tele fono dalla scrivania e premette due tasti. Poi, restando accanto alla finestra, vide la figlia secondogenita che rispondeva all'apparecchio accanto al registratore di cassa. « Tesoro », le disse in hindi, « l'uomo che è venuto alla tua cassa. Sta pagando con una carta di credito? » « Sì, padre. » Era la più intelligente dei suoi figli, e per lui valeva quanto un secondogenito maschio. « Fatti dare il nome e chiedi dove alloggia in città. » Chetti Singh riattaccò e guardò il bianco che pagava gli acquisti e usciva con i sacchetti. Appena lo vide allontanarsi, telefonò di nuovo alla figlia. « Si chiama Armstrong », rispose lei. « D.A. Armstrong. Dice che alloggia al Capital Hotel. » « Bene. Fammi parlare subito con Chawe. » La figlia si girò sul sedile e chiamò una delle guardie in uniforme accanto alla porta. Gli porse il ricevitore e quando l'uomo se lo ac costò all'orecchio, Chetti Singh chiese: « Chawe, hai riconosciuto il malungu che è uscito adesso? Quello alto, con i capelli ricci? » Chet ti stava parlando in angoni. « L'ho visto », rispose il guardiano nella stessa lingua. « Ma non l'ho riconosciuto. » « Quattro notti fa », disse Chetti Singh. « Sulla strada presso Chirundu, dopo che avevamo caricato il camion. Quello che si è fermato a parlarci. » Vi fu un silenzio mentre Chawe rifletteva. Chetti Singh vide che cominciava a frugarsi con l'indice nella narice, in segno d'incertezza e d'imbarazzo. « Può darsi », disse finalmente Chawe. « Non sono sicuro. » Si tolse il dito dal naso e l'osservò con attenzione. Era un angoni, im parentato alla lontana con la stirpe reale degli zulu. La sua tribù era emigrata al nord due secoli prima, al tempo del re Chaka. Era un guerriero, non un pensatore. « Seguilo », ordinò Chetti Singh. « Non farti vedere da lui. Hai capito? » « Ho capito, nkosi. » Chawe sembrava sollevato perché gli era stato ordinato di agire. Uscì a passo baldanzoso Tornò dopo mezz'ora, con aria depressa. Non appena varcò la porta, Chetti Singh richiamò la figlia al telefono. « Manda subito Chawe nel mio ufficio! » Chawe comparve sulla soglia, enorme come un gorilla, e Chetti Singh chiese: « Be'? L'hai seguito come ti avevo ordinato? » « Nkosi, è lo stesso uomo. » Chawe strusciò i piedi a terra. Per
quanto forte, aveva un sacro terrore di Chetti Singh. Aveva visto cosa succedeva a coloro che lo facevano irritare, anzi, per la verità, era proprio Chawe che di solito provvedeva a imporre la disciplina. Non osò guardare Chetti Singh negli occhi e continuò: « E l'uomo che ha parlato con noi quella notte », disse, e Chetti Singh aggrottò la fronte. « Perché adesso sei sicuro mentre prima non lo eri? » chiese il sikh. « La macchina », spiegò Chawe. « E andato a caricare in macchi na quello che aveva comprato. E la stessa, con il braccio dipinto sulla fiancata, mambo. » « Bene. » Chetti Singh annuì in segno di approvazione. « Molto bene. Adesso dov'è? » « Se n'è andato con la macchina. » Chawe aveva l'aria di scusar si. « Non ho potuto seguirlo. Mi dispiace, nkosi kakulu. » « Non importa. Hai fatto bene », disse Chetti Singh. « Chi è di turno al magazzino questa notte? » « Io, mambo... » Chawe sogghignò mettendo in mostra i denti grossi, candidi e regolari. « E naturalmente Nandi. » « Sì, certo. » Chetti Singh si alzò. « Questa sera verrò in magazzi no quando avrò chiuso qui. Voglio essere sicuro che Nandi sia pronta a fare il suo lavoro. Credo che potremmo avere qualche guaio. Voglio che sia tutto pronto. Metti Nandi nella gabbia picco la. Non voglio errori. Hai capito, Chawe? » « Ho capito, mambo. » « Alle sei in magazzino . » A volte era utile ripetere le istruzioni a Chawe. « Nkosi. » Chawe uscì a ritroso dall'ufficio senza guardare in faccia il padrone. Quando rimase solo, Chetti Singh fissò la porta chiusa per qual che istante, poi prese il telefono. Cercare di contattare direttamente un centralino internazionale era sempre come giocare alla lotteria, in Africa. Lo Zimbabwe era uno stato vicino, separato soltanto dallo stretto corridoio mozambi cano di Tete. Comunque, furono necessari dodici tentativi e venti minuti esasperanti prima che sentisse squillare l'apparecchio chia mato e potesse parlare con il numero di Harare. « Buonasera, qui è l'ambasciata della repubblica della Cina. De sidera? » « Voglio parlare con l'ambasciatore. » « Mi dispiace, al momento sua eccellenza non c'è. Posso prende re un messaggio o farla parlare con un suo collaboratore? » « Sono Chetti Singh. Sono un amico di sua eccellenza. » « Attenda un attimo, signore. » Dopo un minuto Deng fu in linea. « Non deve mai telefonarmi a questo numero. Eravamo d'accordo. » Chetti Singh ribatté con fermezza: « E urgente. Nel modo più as soluto ». « Non posso parlare su questa linea. La richiamerò io entro un'ora. Mi dia il suo numero e aspetti. » Il telefono privato di Chetti Singh, che non figurava sull'elenco telefonico, squillò dopo quaranta minuti. « Questa linea è sicura », disse Deng. « Comunque, sia di screto. » « Conosce un bianco che si chiama Armstrong? » « Il dottor Armstrong? Sì, lo conosco. » « E quello che ha conosciuto a Chiwewe e che l'ha abbordata sulla strada a proposito di certe macchie sui suoi indumenti, no? » « Sì. » Il tono di Deng era indifferente. « E tutto a posto, non si preoccupi. Quello non sa niente. » « Allora perché è comparso a Lilongwe? » chiese Chetti Singh. « E vorrebbe che non mi preoccupassi? » Un silenzio. « A Lilongwe? » chiese finalmente Deng. « L'ha vi
sto, quella sera sulla strada di Chirundu? » « Sì. » Chetti Singh si tirò la barba. « Si è fermato e ha parlato con me. Mi ha chiesto se avevo visto i camion del parco. » « Quando è successo? Dopo che avevamo consegnato l'avorio a lei? » « Attento! » l'interruppe Chetti Singh. « Ma sì, è stato dopo che ci eravamo separati, non importa. Io e i miei uomini stavamo legan do i teloni quando è arrivato il bianco con un fuoristrada... » Deng non lo lasciò finire. « Ha parlato a lungo con lui? » « Un minuto, non di più. Poi è andato a sud, verso Harare. Pen so che seguisse lei, senza ombra di dubbio. » « Ha raggiunto Gomo e l'ha costretto a fermarsi. » La voce di Deng era stridula, agitata. « Ha perquisito il camion del parco. Na turalmente non ha trovato nulla. » « Senza dubbio si è insospettito. » « Senza dubbio », ammise Deng in tono sarcastico. « Ma ha parlato con lei per un minuto solo, non può averla collegata a noi. Non sa neppure chi è. » « Il mio nome e il mio indirizzo sono vistosamente scritti sul mio camion », disse Chetti Singh. Deng rimase in silenzio ancora per qualche istante. « Non l'ave vo notato. E stata un'imprudenza, amico mio. Avrebbe dovuto na sconderli. » « E inutile chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati », commentò Chetti Singh. « Dov'è l'a... » Deng si interruppe. « Dov'è la merce? L'ha spe dita? » « Non ancora. Partirà domani. » « Non può liberarsene prima? » « E del tutto impossibile. » « Allora sistemerà Armstrong, se diventasse troppo curioso? » « Sì », rispose Chetti Singh. « Lo sistemerò con fermeza e deci sione. E lei? Ha provveduto a tutto? La Mercedes? » « si. » « I due autisti? » « ss. » « Le autorità si sono fatte vive? » « Si, ma è stata solo una formalità », gli assicurò Deng. « Non ci sono state sorprese. Non mi hanno fatto il suo nome. Ma non de ve più telefonarmi all'ambasciata. Chiami soltanto a questo nume ro. I miei addetti alla sicurezza controllano la linea. » Diede il nu mero e Chetti Singh lo scrisse. « Le farò sapere di questo individuo. E una vera seccatura », continuò Chetti Singh. « Spero che non lo sarà ancora per molto. » Deng posò il ricevi tore e tese istintivamente la mano verso uno dei tanti netsuke d'avo rio allineati sulla scrivania. Era una squisita scena in miniatura che raffigurava una ragazzi na e un vecchio. La bella ragazza gli stava seduta sulle ginocchia e guardava con adorazione il volto nobile e barbuto. Ogni dettaglio era stato realizzato da uno dei grandi artisti della dinastia Tokyga wa, trecento anni prima. L'avorio era stato levigato dal tocco delle dita umane fino a brillare come l'ambra. Solo quando la scena veni va rovesciata si scopriva che sotto le vesti fluenti i due erano nudi e che il membro del vecchio era affondato fra le cosce della ragaz zina. Quell'ironia affascinava Deng. Era uno dei pezzi preferiti della collezione. L'accarezzò fra pollice e indice come se fosse un grano di rosario. Come sempre, il contatto serico dell'avorio lo rasserenò e lo aiutò a pensare più chiaramente. Aveva previsto che Daniel Armstrong ricomparisse, ma questo non attenuava il trauma del messaggio di Chetti Singh. Le domande del sikh avevano riacceso i vecchi dubbi; per la millesima volta rie
saminò le precauzioni che aveva preso. Quando aveva lasciato il campo di Chiwewe non aveva visto le macchie di sangue sulle scarpe e sui pantaloni fino a che Daniel Armstrong non gliele aveva fatte notare. Quella prova della sua col pevolezza l'aveva assillato per il resto del difficile viaggio fuori della valle dello Zambesi. Quando avevano finalmente raggiunto la stra da principale e trovato Chetti Singh ad attenderli nel luogo prestabi lito, aveva confidato le sue preoccupazioni al sikh e gli aveva mo strato le chiazze. « Non doveva avvicinarsi alla scena delle uccisioni. E stata una sciocchezza, non importa. » Dovevo assicurarmi che il lavoro fosse stato fatto. Ed è stata una fortuna. Il direttore era ancora vivo. » « Dovrà bruciare quegli indumenti. » Era improbabile che ci fossero altri mezzi in circolazione a quel l'ora di notte: ma non avevano corso rischi. Avevano fatto uscire i camion dalla strada e avevano trasferito l'avorio dai camion del parco a quello di Chetti Singh, al riparo d'un filare d'alberi. Anche con l'aiuto degli uomini del sikh c'erano volute quasi due ore. Il ca rico d'avorio era ingente. Intanto Chetti Singh era rimasto a guardare mentre Deng ac cendeva il fuoco. L'ambasciatore s'era spogliato e s'era rivestito con altri indumenti presi dal bagaglio, e Chetti Singh aveva bruciato quelli macchiati di sangue. Le suole di gomma delle scarpe da gin nastica avevano provocato alti guizzi di fiamme. Aveva usato un ra mo per spostare i frammenti carbonizzati e assicurarsi che finissero in cenere. « Ci saranno ancora abbondanti tracce di sangue nella Merce des », aveva osservato Chetti Singh alzandosi. « Sui tappetini, sui pedali dell'acceleratore e del freno. » Aveva tolto il tappetino e le coperture di gomma dei pedali e aveva bruciato anche quelli. Il fu mo nero e acre l'aveva fatto lacrimare. Ma non era ancora soddi sfatto. « Dobbiamo sbarazzarci della macchina. » Aveva spiegato a Deng cosa doveva fare. « Al resto penserò io. » Deng era stato il primo a lasciare il luogo dell'incontro. Prima ancora che venisse completato il trasferimento dell'avorio sul ca mion del sikh, era già in viaggio verso Harare. Procedeva a velocità sostenuta come se cercasse di sfuggire alle sue responsabilità nell'aggressione. La reazione si andava facendo via via più forte. Succedeva la stessa cosa dopo una delle sue panto mime sessuali nel bordello chiamato Myrtle Blossom Lady a Taipei. Si sentiva scosso e nauseato. E prometteva sempre a se stesso che non sarebbe accaduto mai più. La residenza dell'ambasciatore era una delle grandi costruzioni coloniali presso il circolo del golf. Era arrivato dopo mezzanotte ed era andato subito nel suo appartamento. Aveva rimandato la mo glie e i figli a Taivvan la settimana prima, presso i suoceri. Era solo in casa. S'era spogliato di nuovo e, anche se non li aveva indossati sulla scena della carneficina, aveva messo tutti gli indumenti in un sacco di plastica: temeva che vi fosse rimasta qualche piccola traccia di sangue. Poi aveva fatto la doccia. Era rimasto sotto il getto d'acqua fumante per circa mezz'ora, s'era lavato due volte i capelli e aveva pulito le mani e le unghie con una spazzola. Quando aveva avuto la certezza d'essersi liberato di ogni traccia di sangue e di polvere da sparo, aveva indossato un abito preso dal guardaroba e aveva portato il sacco di plastica con gli indumenti che s'era tolto nel garage dove aveva lasciato la Mercedes e lo aveva messo nel portabagagli accanto alla borsa di tela. Era ansioso di li berarsi di tutto ciò che aveva portato a Chiwewe, compresi il bino colo e il libro sugli uccelli. Era uscito a marcia indietro dal garage con la Mercedes e l'ave
va parcheggiata sul viale. I cancelli erano aperti. Aveva lasciato la chiave nel cruscotto. Anche se ormai erano le due del mattino passate e anche se ave va vissuto un giorno e una notte pieni d'attività e di forte tensione nervosa, Deng non riusciva a dormire. Aveva indossato una vesta glia di broccato e aveva camminato avanti e indietro nella sua came ra da letto fino a che aveva sentito accendersi il motorino d'avvia mento della Mercedes. Allora aveva spento la lampada del comodi no e s'era precipitato alla finestra, appena in tempo per vedere la sua macchina che, a fari spenti, varcava il cancello e svoltava nella via deserta. Mentre stava per addormentarsi aveva pensato alla rapidità con cui Chetti Singh aveva organizzato tutto. Il figlio di Chetti Singh di rigeva la filiale di Harare delle aziende di famiglia, ed era astuto e affidabile quasi quanto il padre. L'indomani mattina, dopo colazione, Deng aveva telefonato alla polizia per denunciare il furto della Mercedes. L'avevano ritro vata ventiquattr'ore più tardi presso Hatfield, sulla strada per l'ae roporto. I ladri avevano preso le gomme e l'avevano incendiata. Il serbatoio era esploso e della macchina non era rimasto altro che un guscio annerito. Deng sapeva che l'assicurazione avrebbe pagato in fretta e senza protestare troppo. Il giorno seguente un interlocutore anonimo l'aveva chiamato al numero segreto e gli aveva dato un messaggio senza presentarsi né spiegare alcunché. « Guardi a pagina cinque dell'Herald di oggi », aveva detto pri ma di riattaccare. L'accento era asiatico, molto simile a quello di Chetti Singh. Deng aveva trovato la notizia in fondo alla pagina. Sei righe con un titoletto: Accoltellato in una rissa fra ubriachi. Gomo Chi sonda, un ranger dei parchi nazionali, era stato ucciso a coltellate da uno sconosciuto durante una discussione in birreria. L'indomani lo stesso interlocutore anonimo aveva detto a Deng: « Pagina sette ». Questa volta Deng era certo di aver rico nosciuto la voce del figlio del sikh. Il titolo della notizia era: Incidente ferroviario. « Il cadavere di David Shiri, ranger dei parchi nazionali, è stato trovato sulla linea ferroviaria presso Hartley. Il morto aveva nel sangue un'elevata percentuale d'alcool. Un portavoce delle ferrovie zimbabwiane ha ricordato al pubblico la pericolosità dei passaggi a livello incustodi ti. E il quarto incidente del genere dall'inizio dell'anno. » Come ave va promesso Chetti Singh, non c'erano più superstiti fra i testimoni e i complici. Tre giorni più tardi, Deng aveva ricevuto una telefonata del commissario di polizia. « Mi rincresce disturbarla, eccellenza. Immagino che avrà letto del criminoso assalto contro il campo di Chiwewe. Ho pensato che forse lei potrebbe essere utile per le nostre indagini sullo sfortunato episodio. Mi risulta che si trovava al campo proprio quel giorno, e che era ripartito poche ore prima dell'attacco. » « E esatto, commissario. » « Avrebbe qualcosa in contrario a fare una dichiarazione per aiutarci? Sa che non è obbligato: è protetto dai privilegi diploma tici. » « Collaborerò in tutti i modi possibili. Ammiravo molto il diret tore assassinato, e farò quanto sta in me per aiutarvi a catturare i colpevoli di questo atroce delitto. » « Le sono molto grato, eccellenza. Posso mandare uno dei miei ispettori a parlare con lei? » L'ispettore era uno shona corpulento in abiti borghesi. Era ac compagnato da un sergente in uniforme. E tutti e due erano molto ossequiosi. Dopo essersi scusato più volte, l'ispettore s'era fatto raccontare
da Deng la visita a Chiwewe, inclusa la partenza con il convoglio dei camion frigoriferi. Deng aveva imparato tutto a memoria e aveva risposto senza sbagliare. E non aveva dimenticato di accenna re all'incontro con Daniel Armstrong. Quando ebbe finito di parlare, l'ispettore aveva esitato, un po' a disagio, prima di chiedere: « Anche il dottor Armstrong ha fatto una dichiarazione, eccellenza. Il suo racconto conferma quanto lei mi ha detto, però ha accennato di aver visto macchie di sangue sui suoi indumenti ». « Quando? » Deng s'era mostrato perplesso. « Quando ha incontrato lei e i camion del parco. Stava tornando a Chiwewe dopo aver visto sulla strada le tracce dei banditi. » Il volto di Deng s'era disteso. « Ah, sì. Avevo assistito all'ope razione di sfoltimento degli elefanti. Come può immaginare, era stato sparso molto sangue... è facile che io abbia messo un piede in una pozza. » L'ispettore sudava per l'imbarazzo. « Ricorda che cosa indossa va quella sera, eccellenza? » Deng aveva aggrottato la fronte come se si sforzasse di ricorda re. « Portavo una camicia con il collo aperto, pantaloni di cotone blu e probabilmente un paio di scarpe da ginnastica. Di solito mi vesto così, in un parco. » « Ha ancora quegli indumenti? » « Sì, certo. La camicia e i pantaloni saranno stati lavati, le scar pe pulite. Il mio cameriere personale è molto efficiente... » Deng aveva sorriso come se un pensiero l'avesse colpito all'improvviso. « Ispettore, li vuole vedere? Forse vorrà portarli via per esami narli. » L'espressione d'imbarazzo dell'ispettore era addirittura penosa; dimenandosi sulla sedia aveva sussurrato: « Non abbiamo il diritto di chiederle questo genere di cooperazione, eccellenza. Ma, tenuto conto della dichiarazione del dottor Armstrong, se lei non avesse obiezioni... » « Assolutamente no. » Deng aveva sorriso di nuovo con aria rassicurante. « Come ho detto al commissario, desidero collaborare in tutti i modi. » Aveva lanciato un'occhiata all'orologio. « Tuttavia devo essere a pranzo dal presidente tra un'ora. Le dispiace se farò portare gli indumenti al comando della polizia da uno dei miei ca merieri? » I due visitatori s'erano alzati di scatto. « Ci dispiace moltissimo di averla disturbata, eccellenza. Le siamo molto grati per il suo aiu to. Sono sicuro che il commissario le scriverà per ringraziarla perso nalmente. » Senza alzarsi dalla scrivania, Deng aveva fermato l'ispettore quando l'aveva visto arrivare alla porta. « L'Herald ha scritto che gli aggressori sono stati presi », aveva detto. « E proprio così? Siete riusciti a recuperare l'avorio rubato? » « I banditi sono stati intercettati sullo Zambesi mentre cercavano di rientrare nello Zambia. Purtroppo sono stati uccisi o sono fuggi ti, e l'avorio è stato distrutto dal fuoco o è andato perduto nel fiume. » « Una vera sfortuna... » Deng aveva sospirato. « Avrebbero do vuto rispondere di un simile massacro. Comunque, questo ha sem plificato il vostro compito, no? » « Stiamo chiudendo l'inchiesta », aveva ammesso l'ispettore. « Ora che lei ci ha aiutati a chiarire gli ultimi particolari, il commis sario scriverà per esprimerle il suo apprezzamento, e tutto finirà lì » Gli indumenti che Deng aveva scelto nel guardaroba e mandato al comando della polizia, sebbene corrispondessero alla descrizione che ne aveva fatto all'ispettore, non erano mai stati indossati a Chi wewe o nella valle dello Zambesi. Deng sospirò, al ricordo. Rimise il netsuke d'avorio sulla scrivania e lo fissò con aria cupa. Ma la faccenda non era chiusa, adesso che il dottor Daniel Armstrong sta
va curiosando e minacciava di causare guai. Poteva contare ancora una volta su Chetti Singh? Sì, aveva eli minato due ranger... ma Armstrong era una preda più pericolosa. Aveva una reputazione internazionale, e se fosse sparito ci sarebbe ro stati troppi interrogativi. Premette il tasto dell'interfono. « Lee, vieni qui, per favore », disse in cantonese. Avrebbe potuto formulare la sua domanda anche senza ordinare alla segretaria di raggiungerlo: ma gli faceva piacere guardarla. An che se era solo una contadina delle colline, era intelligente e appeti bile. Aveva studiato con buoni risultati all'università di Taivvan, ma Deng non l'aveva scelta per questo. Lee si fermò accanto alla scrivania, abbastanza vicina perché potesse toccarla se voleva, in un atteggiamento di servile sottomis sione: era una ragazza educata in modo tradizionale, con il dovuto atteggiamento verso gli uomini, in particolare verso il padrone. « Hai confermato le prenotazioni alla Qantas? » le chiese. Ades so che Armstrong stava curiosando a Lilongwe, era un'ottima cosa che il ritorno a Taivvan fosse imminente. Non avrebbe mai corso il rischio dell'avventura di Chiwewe se avesse avuto intenzione di re stare all'ambasciata. La moglie e i figli erano già partiti. Li avrebbe seguiti alla fine del mese, tra otto giorni. « Sì, ho confermato le prenotazioni, eccellenza », mormorò ri spettosamente Lee. Per Deng la voce era dolce come quella dell'u signolo nel giardino dei loto che suo padre possedeva fra le monta gne. Lo eccitava. « Quando verranno gli incaricati per il trasloco? » chiese, e la toccò. Lee tremò leggermente sotto la sua mano e questo lo eccitò ancora di più. « Verranno lunedì mattina presto, mio signore. » Lee usava l'ap pellativo tradizionale. I capelli neri e lisci le scendevano sulle spalle e scintillavano nella luce. Deng le passò le dita sullo spacco del cheong sam: la pelle era liscia come il netsuke d'avorio. « Li hai avvertiti del valore e della fragilità della mia collezione d'arte? » chiese Deng, e le diede un pizzicotto sotto la gonna Strinse la pelle d'avorio fra le unghie del pollice e dell'indice: Lee trasalì e si morse le labbra. « Sì, mio signore », mormorò con un fremito di dolore nella vo ce. Deng la pizzicò più forte. Avrebbe lasciato una piccola stella violacea sulla curva perfetta della natica soda, un segno che ci sa rebbe ancora stato quando Lee fosse andata da lui, quella notte Il potere della sofferenza gli diede un senso d'euforia. Dimenti cò il dottor Daniel Armstrong e le difficoltà che poteva causargli. Per il momento la polizia era stata messa fuori pista, e Lee Wang era deliziosa e docile. Aveva a disposizione otto giorni, durante la separazione dalla moglie, per godersela completamente. Poi sarebbe tornato a casa, dove l'attendeva l'approvazione del padre.
Daniel aprì la portiera posteriore del Land Cruiser e caricò gli acquisti fatti nel supermercato di Chetti Singh. Poi andò a sedersi al volante. Mentre lasciava che il motore si scaldasse, controllò sul taccuino l'elenco delle altre aziende di Chetti Singh. Chiese indicazioni a qualche passante e arrivò nella zona indu striale della città, vicino alla ferrovia e alla stazione. Sembrava che Chetti Singh avesse in quel quartiere due o tre ettari di lotti indu striali. Alcuni erano abbandonati e invasi da erbacce e sterpi. In uno dei lotti vuoti un grande cartello annunciava: UN ALTRO PROGETTO CHETTI SINCH QUI SORGERA LO STABLLLMENTO PER LA CARDATURA DEL COTONE Sviluppo! Posti di lavoro! Prosperità! Progresso! PER IL MALAWI!
Su un lato del terreno, dietro una barriera di filo spinato, c'era l'officina dell'agenzia Toyota di Chetti Singh. Almeno cento Toyota nuove erano parcheggiate nello spiazzo. Erano ancora velate dalla polvere del lungo viaggio in ferrovia dalla costa a bordo di carri merci scoperti. Senza dubbio attendevano di essere ripulite nell'officina. Attraverso la porta aperta Daniel vide una squadra di meccanici al lavoro. I capireparto erano asiatici, e alcuni avevano i turbanti dei sikh; ma i meccanici in tuta erano ne gri. Sembrava un'azienda prospera e ben gestita. Daniel entrò e lasciò il fuoristrada nell'area di sosta. Andò a parlare con uno dei capireparto in tuta blu. Con la scusa di accor darsi per l'assistenza al Land Cruiser riuscì a dare un'occhiata al l'officina e all'amministrazione. Non c'era lo spazio per nascondere un carico d'avorio rubato. Mentre prenotava una revisione del Land Cruiser per l'indomani mattina alle otto, Daniel chiacchierò con il caporeparto, e venne a sapere che la segheria e il magazzino della Chetti Singh Trading Company erano nella strada accanto e confinavano con l'officina. Se ne andò e fece il giro dell'isolato. Era facile riconoscere la se gheria, anche dal lato opposto della strada. Una dozzina di vagoni ferroviari era ferma sui binari della derivazione privata, e tutti era no carichi di tronchi tagliati nelle foreste di montagna. Lo stridio delle seghe circolari invadeva l'aria. Quando passò davanti al cancello lanciò un'occhiata ai capan noni aperti dov'erano installate le seghe. I dischi rotanti brillavano come argento vivo e gli zampilli di segatura schizzavano dai tronchi al contatto delle lame. L'odore resinoso del legno appena tagliato era pungente nella luce calda del sole, e le montagne di assi grezze erano ammucchiate nei cortili, pronte per venir caricate su altri va goni ferroviari. Daniel passò oltre, lentamente. Di fronte alla segheria, in posi zione diagonale, c'era il complesso dei magazzini, circondato da un'alta rete metallica rivestita di plastica verde e montata su robusti pali di cemento con gli angoli inclinati verso la strada e festonati di filo spinato. Il magazzino era formato da cinque unità semindipendenti: le valli e le vette del tetto comune formavano una distesa seghettata di lastre di asbesto non verniciato. Anche le pareti erano di asbesto ondulato. Ognuna delle cinque unità aveva portelloni simili a quelli degli hangar negli aeroporti. Il cartello all'ingresso diceva: CHETTI SINGH TRAr)ING COMPANY DEPOSITO CENTRALE E MAGAZZINO Chetti Singh non si tirava certo indietro quando si trattava di pubblicizzare il suo nome, pensò ironicamente Daniel. All'entrata c'erano una sbarra e una guardiola, e Daniel vide che c'era almeno un custode in uniforme. Quando arrivò all'altezza dell'ultima co struzione, notò che la porta di asbesto era aperta e gli permetteva di guardare all'interno dell'enorme edificiov All'improvviso si tese in avanti. Il cuore gli batté più forte quan do riconobbe il colossale camion, fermo al centro del magazzino. Era il veicolo che aveva visto sulla strada di Chirundu quattro notti prima. Il rimorchio a dieci ruote era ancora agganciato, e la polvere rossa che lo copriva era eguale a quella del suo Land Cruiser. Gli sportelli posteriori del rimorchio erano aperti e una dozzina di operai negri, con l'aiuto di un elevatore, stava caricando una quantità di sacchi marrone che potevano contenere mais, zucchero o riso. Daniel non vide i caratteristici sacchi di pesce secco che avevano costituito il carico del camion quando l'aveva incontrato nella valle dello Zambesi. Abbassò il finestrino, sperando di sentire una zaffa ta di tanfo di pesce, ma sentì soltanto l'odore della polvere e dei fu mi del gasolio.
Poi passò oltre. Pensò di tornare indietro per dare un'altra oc chiata. « Diavolo, ho già attirato abbastanza l'attenzione », si disse. « Come un circo appena arrivato in città. » Tornò al Capital Hotel, lasciò il fuoristrada nel parcheggio riser vato agli ospiti e salì in camera sua. Riempì la vasca di acqua caldis sima e si liberò i pori dalla polvere e dalla sporcizia delle strade afri cane, fino a che la pelle diventò paonazza. Via via che l'acqua si raffreddava, Daniel regolava il rubinetto con i piedi per aggiungere altri getti fumanti. Finalmente si alzò per insaponarsi meglio e si guardò nello spec chio appannato. « Stai a sentire, Armstrong. La cosa migliore da fare è andare al la polizia per esporre i nostri sospetti. E il loro mestiere, lasciamo che si arrangino. » « Da quando in qua, Armstrong », si rispose, « abbiamo fatto qualcosa di sensato? E poi siamo in Africa. La polizia ci metterà tre o quattro giorni prima di muoversi, e il signor Singh ha già avuto abbastanza tempo per liberarsi dell'avorio, se l'aveva lui. Domani sarà probabilmente troppo tardi per prenderlo con le mani nel sacco. » « Stai cercando di dirmi, Armstrong, che non bisogna perdere tempo? » « Precisamente, vecchio mio. » « Non può darsi che ti piaccia quest'atmosfera da romanzo di cappa e spada e che tu voglia fare un po' il boy-scout o l'investiga tore dilettante? » « Chi, io? Non dire sciocchezze. Mi conosci troppo bene. » « Appunto. » Daniel strizzò l'occhio alla propria immagine ri flessa nello specchio e si riabbandonò nell'acqua fumante facendola traboccare sulle piastrelle del pavimento. La cena rappresentò un enorme miglioramento rispetto al suo ultimo pasto in un locale pubblico. I filetti di abramide erano freschi e il vino era un delizioso Ha milton-Russel Chardonnay del capo di Buona Speranza. Con un certo scontento, decise di non berne più di mezza bottiglia. « Devo lavorare », mormorò malinconicamente, e salì nella sua camera per i preparativi. Non c'era fretta perché non poteva muo versi prima che fosse passata la mezzanotte. Quando fu pronto si sdraiò sul letto e si godette la sensazione d'eccitazione e d'attesa. Continuò a guardare l'orologio: sembrava che si fosse fermato. L'accostò all'orecchio per controllare. L'attesa era sempre la parte peggiore.
Chetti Singh rimase a guardare mentre i guardiani facevano uscire dal supermercato gli ultimi clienti e chiudevano le porte a ve tri. L'orologio a muro segnava le cinque e dieci. Gli spazzini erano già al lavoro e le figlie erano indaffarate a fa re i conti degli incassi. Erano devote come vergini consacrate all'al tare di una religione arcana, e la moglie le governava come una grande sacerdotessa. Quello era il momento culminante del rituale quotidiano. Finalmente la processione lasciò le casse e attraversò il super mercato in ordine di precedenza. La moglie in testa e, dietro di lei, le figlie, in ordine decrescente di età. Entrarono nell'ufficio e posa rono sulla scrivania gli incassi della giornata, mazzette di biglietti di banca trattenute da elastici e sacchetti di tela pieni di monete, men tre la moglie consegnava gli elenchi dei totali. « Oh, bene », disse Chetti Singh in hindi. « E stata la giornata migliore dopo la vigilia di Natale, ne sono sicuro. » Era in grado di recitare le cifre degli ultimi sei mesi senza bisogno di consultare i re gistri.
Annotò l'incasso e, mentre la moglie e le figlie assistevano reli giosamente, chiuse i contanti e i talloncini delle carte di credito nella grossa cassaforte a muro. « Tornerò a casa tardi per la cena », disse alla moglie. « Devo an dare in magazzino a sistemare certe cose. » « Papaji, il tuo pasto sarà pronto quando tornerai. » La moglie si portò le mani alle labbra in segno di rispetto. Le figlie la imitaro no, poi uscirono in fila dall'ufficio. Chetti Singh sospirò di gioia. Erano brave ragazze... ma sarebbe stato meglio se fossero stati maschi. Sarà un bel problema trovare marito a tutte. Prese la Cadillac per raggiungere la zona industriale. La macchi na non era nuova, in quanto la scarsità di valuta straniera non per metteva a un comune cittadino d'importare un veicolo tanto lussuo so. Come sempre, Chetti Singh aveva il suo sistema. Contattava i membri del corpo diplomatico americano appena nominati, prima che lasciassero Washington. Le norme doganali malavvane permet tevano loro d'importare una macchina nuova e di rivenderla al ter mine del periodo di servizio. Chetti Singh gli pagava il doppio del valore americano delle Cadillac in kwacha del Malawi quando arri vavano: e con quella somma potevano vivere come principi per tutti i tre anni, pur conservando l'uso della macchina e risparmiando lo stipendio. Quando se ne andavano, Chetti Singh ritirava la macchina, la teneva per un anno fino a che maturava una nuova combinazione; allora metteva in mostra la Cadillac nella sala esposizione della To yota. Il prezzo era tre volte superiore a quello americano originale, ma, di solito, riusciva a venderla entro una settimana. Non esisteva no profitti troppo piccoli per rifiutarli, né perdite troppo trascurabi li per non disperarsi. Non era un caso se nel corso degli anni Chetti Singh aveva ammassato una ricchezza che neppure la moglie riusci va a immaginare. Chawe alzò la sbarra all'ingresso del magazzino per farlo passa re con la Cadillac. « Sì? » chiese Chetti Singh al colossale angoni. « E venuto », rispose Chawe. « Proprio come aveva detto lei. E passato per la strada alle quattro e dieci. Era sul fuoristrada con lo stemma dipinto sulla portiera. E passato piano piano e ha guardato qui dentro. » Chetti Singh aggrottò la fronte, irritato. « Quel tipo sta diven tando un grosso fastidio. Non importa », disse a voce alta. Chawe lo guardò con aria perplessa: il suo inglese era rudimentale. « Vieni con me », ordinò Chetti Singh. Chawe prese posto sul se dile posteriore della Cadillac. Non avrebbe mai osato sedere a fian co del padrone. Chetti Singh procedette lentamente lungo il magazzino. Le gran di porte erano già chiuse per la notte. Non c'era antifurto; e neppu re la recinzione era illuminata da riflettori. Due o tre anni prima c'era stato un periodo in cui aveva subito numerosi furti. Gli allarmi e i riflettori non erano serviti a molto. Per disperazione aveva consultato il sangoma più famoso del terri torio. Il vecchio stregone viveva in un temuto isolamento sul neb bioso altopiano di Mlanje, assistito soltanto dai suoi accoliti. Per un compenso commisurato alla sua reputazione, lo stregone era disceso dalla montagna con il suo seguito e, con grandi cerimo nie, aveva posto il magazzino sotto la protezione degli spiriti e dei demoni più potenti e malefici al suo servizio. Chetti Singh aveva invitato tutti gli sfaccendati della città ad as sistere al rito, e quelli avevano osservato con interesse e trepidazio ne mentre lo stregone decapitava un galletto nero davanti a ognuno dei cinque ingressi del magazzino e spargeva il sangue sulle porte. Poi, con i dovuti incantesimi, aveva messo un cranio di babbuino su ogni pilastro d'angolo della recinzione. Gli spettatori erano rimasti
molto impressionati, e presto s'era sparsa la voce che Chetti Singh godeva della protezione magica. Per sei mesi non c'erano state effrazioni. Poi una banda aveva trovato il coraggio di sfidare l'efficienza del sortilegio, e s'era por tata via una dozzina di televisori e una quarantina di radio a transi stor. Chetti Singh aveva mandato a chiamare lo stregone e gli aveva ricordato che i suoi servigi comportavano una garanzia. Avevano mercanteggiato fino a che Chetti Singh aveva accettato di acquistare da lui, a prezzo d'occasione, il deterrente supremo: Nandi. Dopo l'arrivo di Nandi, c'era stata un'unica effrazione. Il ladro era morto l'indomani all'ospedale di Lilongwe, con il cuoio capellu to strappato dal cranio e gli intestini che spuntavano dagli squarci nel ventre. Nandi aveva risolto il problema in modo definitivo. Chetti Singh completò il giro e fermò la macchina dietro il ma gazzino, accanto a una baracca di lastre ondulate come la costruzio ne principale. Era un'aggiunta fatta a posteriori, annessa come per un ripensamento al muro del magazzino. Quando scese dalla Cadillac, dilatò le narici nel sentire il fievole odore di selvatico che usciva dall'unica finestrella della baracca, protetta da sbarre pesanti. Lanciò un'occhiata a Chawe. « E rinchiusa? » « Nella gabbia piccola come ha ordinato lei, mambo. » Nonostante quell'affermazione, Chetti Singh sbirciò dallo spion cino della porta prima di aprirla. Entrò. L'unica luce entrava dalla finestra in alto. Il locale era immerso in una semioscurità resa più intensa dal contrasto con il sole all'esterno. L'odore era più forte e più pungente. Dalla penombra giunse al l'improvviso un ringhio soffiante così rabbioso che Chetti Sing in dietreggiò involontariamente d'un passo. « Santo cielo. » Rise per nascondere il nervosismo. « Oggi siamo proprio di cattivo umore. » Un animale si mosse dietro le sbarre della gabbia, una sagoma scura e silenziosa. Gli occhi gialli balenarono. « Nandi. » Chetti Singh sorrise. « La dolce. » Nandi era stato il nome della madre del re Chaka. Chetti Singh tese la mano verso l'interruttore e il tubo fluore scente fissato al soffitto scoppiettò e illuminò la baracca d'una fred da luce azzurra. Nella gabbia, un leopardo femmina indietreggiò contro la parete di fondo. Si acquattò e fissò l'uomo con occhi pieni d'odio, con traendo il labbro superiore in un ringhio silenzioso e scoprendo le zanne. Era un felino enorme, lungo più di due metri e dieci dal naso al la coda: uno degli animali della foresta montana di Mlanje. Doveva pesare poco meno d'una sessantina di chili. Era una creatura selva tica catturata già adulta dal vecchio stregone; un tempo aveva mas sacrato capre e cani, terrorizzato i villaggi sulle pendici della monta gna. Poco prima della cattura aveva storpiato gravemente un giova ne pastore che aveva cercato di difendere le sue bestie. I leopardi della foresta erano più scuri di quelli della savana; le rosette nerissime che costellavano il manto erano molto vicine, e questo li faceva somigliare alla pantera. La coda si agitava come un metronomo e segnalava il malumore del felino. Fissava l'uomo sen za sbattere gli occhi. La forza del suo odio era intensa come il lezzo animale nella baracca. « Sei arrabbiata? » chiese Chetti Singh, e il leopardo increspò an cora di più il labbro al suono della sua voce. Lo conosceva bene. « Non sei arrabbiata abbastanza », decise Chetti Singh, e prese il pungolo dalla rastrelliera accanto all'interruttore. Il felino reagì immediatamente. Conosceva la scossa del pungolo elettrico. Ringhiò di nuovo e corse avanti e indietro per sottrarsi al la tortura che ormai conosceva. All'estremità più vicina al muro del
magazzino la gabbia di rete metallica si restringeva in una strozatu ra ampia appena il necessario per lasciar passare il leopardo, una galleria bassa che terminava con una porta scorrevole d'acciaio Il pungolo era fissato a una lunga asta d'alluminio. Chetti Singh lo fece passare fra le sbarre e lo tese per toccare il leopardo. I movi menti dell'animale diventarono frenetici nel tentativo di evitare quello strumento di tortura. Chetti Singh, ridendo, lo inseguì tut t'intorno alla gabbia, cercando di spingerlo nella strozzatura. Finalmente il leopardo si avventò contro le sbarre e cercò di rag giungerlo con le zampe, sibilando e ringhiando per il furore. Ma la lunghezza dell'asta teneva Chetti Singh al di fuori della sua portata. « Bontà divina! » disse il sikh, e le toccò il collo con il pungolo. Una scarica azzurra lampeggiò e la belva indietreggiò balzando nel tunnel in fondo alla gabbia. Chawe si teneva pronto. Abbassò la porta di rete metallica. Nandi era in trappola, con il muso contro il portello d'acciaio del magazzino: la rete le impediva di indietreggiare. Il tunnel era così basso che quasi le toccava il dorso e non le permetteva di sollevarsi, e così stretto che non poteva girare la testa per proteggersi i fianchi. Era irrimediabilmente bloccata. Chetti Singh passò il pungolo a Chawe. Tornò al tavolo accanto alla porta, srotolò il cavo di un piccolo saldatore elettrico e lo innestò nella presa a muro. Si tirò dietro il cavo e tornò verso il leopardo acquattato nel tunnel. Infilò la mano fra le sbarre e gli accarezzò la schiena. Il manto era folto e serico, e la bestia non poteva evitare il contatto. Sembrò gonfiarsi per il fu rore, ringhiò e cercò di girare il collo per azzannargli la mano; ma le sbarre la bloccavano. Chetti Singh sollevò il saldatore e sputò sulla punta di rame per controllarne il calore. La saliva evaporò in uno sbuffo di fumo. Con un grugnito di soddisfazione, allungò di nuovo la mano fra le sbarre, afferrò la coda e l'alzò scoprendo i genitali lanuginosi e il cerchio nero e grinzoso dell'ano. Il leopardo soffiò di rabbia e gramò con gli artigli il pavimento. Sapeva cosa stava per accadere e cercò di abbassarsi per proteggere le parti più delicate. « Aiutami », sbuffò Chetti Singh, e Chawe afferrò la coda che si contorse come un serpente, e la tenne sollevata in modo che il pa drone fosse libero di usare entrambe le mani. Chetti Singh esaminò con attenzione la carne delicata della bel va: era costellata da cicatrici rimarginate, alcune così recenti da ap parire ancora rosse e lucide. Tese il saldatore, scegliendo con cura il punto da ustionare ed evitando la pelle appena guarita. Il felino sentì il calore che si avvicinava e fu scosso da un sussulto convulso. « Una cosina piccola piccola, bellezza mia », le assicurò Chetti Singh. « Così sarai molto arrabbiata, stanotte, se incontrerai il dot tor Armstrong. » Se non vengono molestati, i leopardi non rappresentano una grave minaccia per gli esseri umani. Gli uomini non fanno parte del le loro prede naturali, e ne hanno una paura istintiva che li spinge a evitarli anziché ad aggredirli. Ma quando sono feriti, e soprattutto se vengono tormentati di proposito, sono fra i più temibili e feroci animali africani. Chetti Singh toccò con il ferro rovente l'orlo morbido dell'ano del leopardo. Vi fu uno sbuffo di fumo e si levò il puzzo del pelo e della pelle bruciati. La belva urlò di dolore e addentò le sbarre d'ac ciaio. Chetti Singh esaminò la lesione. Aveva imparato a infliggere una bruciatura dolorosissima che sarebbe guarita comunque entro una settimana e non avrebbe danneggiato l'aspetto dell'animale né intralciato i suoi movimenti nell'attacco. « Bene », disse congratulandosi con se stesso. Il ferro aveva ap pena penetrato l'epidermide. Era una piccola ferita superficiale che
però aveva fatto infuriare il felino. Chetti Singh posò il saldatore sul tavolo e prese una bottiglia di disinfettante. Era iodio, di color giallo scuro e pungente sul tampo ne che premette sulla ferita aperta. Il bruciore avrebbe accresciuto ulteriormente la furia dell'animale. Rabbioso, il leopardo urlò, soffiò e si dibatté contro le sbarre. Gli occhi enormi erano spalancati, e la bava orlava le labbra rin ghianti. « Basta così. Apri il portello », ordinò Chetti Singh. L'angoni la sciò la coda del felino che l'abbassò fra le zampe per proteggersi. Chawe andò a sollevare il portello d'acciaio. Con un ultimo rin ghio il leopardo spiccò un balzo oltre il varco e sparì. All'inizio era stato difficile indurlo a lasciare il magazzino ogni mattina all'alba; ma con l'uso del pungolo elettrico e l'esca della carne di capra si era abituato a tornare a comando nella gabbia. Era l'unico addestramento che aveva ricevuto. La notte si aggi rava nel magazzino, tormentato e inferocito. All'alba tornava nella baracca e si accucciava nel buio, ringhiando sommessamente e lec candosi le ferite, in attesa della prima occasione per vendicarsi del l'umiliazione e della sofferenza subite. Chawe chiuse il portello e seguì il padrone nell'ultimo bagliore del tramonto. Chetti Singh si asciugò la fronte con un fazzoletto bianco. C'era molto caldo nella baracca puzzolente. « Tu resterai nella guardiola al cancello principale », ordinò. « Non fare la ronda alla recinzione e non cercare di impedire al bianco di entrare nel magazzino. Se entrerà, ci penserà Nandi ad av vertirti... » Sorrisero entrambi a quel pensiero. Ricordavano l'ultimo intru so e le condizioni in cui era ridotto quando l'avevano portato al pronto soccorso. « Quando sentirai che Nandi se lo sta lavorando, chiamami dal cancello. Il telefono è vicino al mio letto. Non entrare nel magazzi no fino al mio arrivo. Ci metterò quindici o venti minuti per arriva re. Nel frattempo, può darsi che Nandi ci abbia risparmiato un sac co di fastidi. » La moglie gli aveva preparato per cena un curry squisito. Non chiese dov'era stato. Era una brava moglie. Dopo la cena, Chetti Singh fece i conti per due ore. Aveva un si stema di contabilità molto complicato: teneva due serie complete di libri, una per il fisco che mostrava un utile fittizio, e una autentica e meticolosamente esatta. In base a questa, Chetti Singh calcolava la decima che pagava al tempio. Barare con il fisco era lecito, ma un uomo prudente non scherzava con gli dèi. Prima di andare a letto aprì la cassaforte murata all'interno del guardaroba e tirò fuori la doppietta calibro 12 e un pacchetto di cartucce SSG. Aveva un porto d'armi della polizia per la doppietta perché, per quanto era possibile e conveniente, Chetti Singh era un uomo ligio alla legge. La moglie lo guardò meravigliata ma non fece commenti. Chetti Singh, dal canto suo, non diede spiegazioni; appoggiò l'arma accan to alla porta, spense le luci e, sotto le lenzuola, fece l'amore con lei con la consueta rapidità. Dieci minuti più tardi stava russando so noramente. Il telefono accanto al letto squillò alle due e sette minuti. Chetti Singh si svegliò al primo trillo e si portò subito la cornetta all'orec chio. « Nel magazzino, Nandi sta cantando una bella canzone », disse Chawe in angoni. « Vengo subito », rispose Chetti Singh, e scese dal letto.
Non c'erano lampioni. « Questo rende il compito più facile », mormorò Daniel mentre parcheggiava il Land Cruiser in uno dei
lotti aperti a trecento metri dalla recinzione del deposito centrale di Chetti Singh. Aveva percorso l'ultimo chilometro a passo d'uomo e a fari spenti. Ora spense anche il motore e scese nell'oscurità. Si fer mò in ascolto per una decina di minuti prima di controllare l'orolo gio. Era la una passata da poco. Aveva addosso un paio di calzoni blu e un giubbotto di pelle ne ra: si calò sulla faccia un passamontagna di lana scura, e si legò alla vita una piccola borsa di nylon che conteneva alcuni utensili. Al tetto del Land Cruiser erano fissate due leggere scalette esten sibili d'alluminio che Daniel usava, stese a terra, quando incontrava tratti di sabbia morbida o di fango profondo. Pesavano meno di tre chili ciascuna. Le portò entrambe sotto un braccio quando si avviò fra le erbacce in direzione del deposito, tenendosi lontano dalla strada, fra gli sterpi. Il lotto veniva usato come discarica. C'erano mucchi di rifiuti. Un frammento di bottiglia o di ferro acuminato avrebbe potuto ta gliargli le scarpe di tela e gomma, e Daniel procedeva con prudenza. A quindici metri dalla recinzione posò le scalette e si acquattò dietro la carcassa di una macchina arrugginita. Studiò il deposito. Non c'erano luci accese nel magazzino, né riflettori che illuminava no il recinto. E questo era strano. « Troppo bello? Troppo facile? » si chiese mentre si avvicinava. L'unica luce era quella della guardiola al cancello, appena sufficien te per esaminare la recinzione. Vide subito che non era elettrificata, e non c'erano neppure i meccanismi d'un sistema d'allarme. Si portò furtivamente a un pilastro d'angolo, sul fondo. Se c'era un sistema d'allarme a infrarossi, l'occhio doveva essere là. Qualco sa di bianco spiccava sul palo; ma quando l'osservò più da vicino vide che era il cranio d'un babbuino, e fece una smorfia. Con un senso di disagio andò a prendere le scalette accanto alla carcassa dell'auto. Tornò all'angolo della recinzione e si acquattò in attesa di un eventuale giro di ronda del guardiano. Dopo mezz'ora si convinse che il recinto era incustodito. Si accostò. Il metodo più sicuro per entrare sarebbe stato usare un tronchesino, ma, se possibile, era meglio non lasciare tracce del la visita. Allungò al massimo le scalette e poi, preparandosi a senti re l'ululato di un allarme nascosto, ne appoggiò una al pilastro d'angolo. Sospirò di sollievo quando l'allarme non suonò. Prese la seconda scaletta e s'arrampicò fino alla sommità della recinzione. Si tenne in equilibrio sull'ultimo gradino inclinandosi al l'indietro per evitare di rimanere prigioniero nel filo spinato e calò l'altra scaletta all'interno. L'intenzione era di abbassarla cautamen te, ma gli scivolò fra le dita. Anche se cadde sull'erba e questo attutì l'urto, il suono gli sem brò violento come lo sparo di un 357 magnum. Vacillò in cima alla scala, con i nervi tesi. Si aspettava un grido o uno sparo. Ma non accadde nulla e dopo un minuto riprese a respirare. Frugò sotto la polo e tirò fuori il rotolo di gommapiuma che usava come cuscino quando dormiva all'aperto. Il suo spessore, due centi metri e mezzo, era sufficiente a neutralizzare lo strato di filo spina to. Lo stese con cura sulla sommità della recinzione. Si afferrò saldamente con le mani inguantate fra le spine e spic cò un balzo, lasciandosi cadere per tre metri sul prato dall'altra par te. Interruppe la caduta con una capriola in avanti e si acquattò, re stando di nuovo in ascolto. Scrutò nel buio. Niente. Rizzò la seconda scaletta contro l'interno della recinzione per prepararsi una via di fuga. L'alluminio brillava come un faro, quasi volesse attirare l'attenzione d'un guardiano. « Non posso farci niente », si disse Daniel, e si avviò verso il mu ro laterale del magazzino. Si mosse rasente al muro, ringraziando il cielo perché non c'era
no luci, e arrivò all'angolo. Restò acquattato per un minuto. In lon tananza un cane abbaiava, e una locomotiva stava facendo mano vra nella vicina stazione, nient'altro. Guardò oltre l'angolo, poi procedette lungo il muro posteriore del magazzino. Non c'erano aperture, a parte una fila di lucernari sotto il tetto, almeno nove metri più in alto. Vide davanti a sé una piccola baracca. Era attaccata al muro po steriore del magazzino, e il tetto era molto più basso. Quando si av vicinò sentì un odore lieve ma ripugnante, come di guano o di pelli non conciate. L'odore diventò più forte quando girò intorno alla baracca, ma Daniel non vi fece caso. Studiava la piccola costruzione. C'era un tubo nell'angolo dove si saldava al magazzino. Provò a controllare se reggeva il suo peso, quindi vi salì agevolmente. Pochi secondi più tardi era sdraiato sul tetto della baracca e guardava la fila dei lucer nari a poco più di tre metri di distanza. Due vetri erano aperti. Estrasse dalla borsa un rotolo di corda di nylon e, senza far ru more, fece un nodo a un'estremità per appesantirla. Poi, tenendosi in bilico sul tetto della baracca, lanciò la corda e la fece roteare. Con un movimento secco del polso lanciò il nodo verso l'alto; la corda colpì lo stipite fra due finestre e gli ricadde sulle spalle. Ritentò, con lo stesso risultato. Al quinto tentativo il nodo piombò al di là del lucernario aperto. Daniel tirò con forza e la corda si avvolse per tre volte intorno allo stipite. Provò a dare uno strattone; la corda resse. Incominciò ad arrampicarsi, facendo presa sull'asbesto con le suole di gomma. Salì con l'agilità di una scimmia. Era quasi arrivato alle finestre quando senti che l'estremità della corda cominciava a cedere. Con un sussulto ricadde all'indietro d'u na trentina di centimetri: poi la corda lo sostenne di nuovo. Daniel si lanciò in avanti, si afferrò con una mano inguantata al davanzale del lucernario aperto. Stava appeso a nove metri da terra, scalciava e sdrucciolava mentre il davanzale d'acciaio gli feriva le dita, trapassando il guan to. Con un altro sforzo convulso alzò la mano destra e si aggrappò anche con quella. Con la forza di entrambe le braccia riusci a issarsi abbastanza agevolmente e a mettersi a cavalcioni sul davanzale. Impiegò qualche secondo per riprendere fiato e ascoltare se c'era qualche rumore nel magazzino buio. Poi apri la borsa e prese la Maglite. Prima di lasciare l'albergo aveva avvitato sulla lente un fil tro di plastica rossa. Il fascio di luce che puntò verso il basso era d'un sommesso colore rubino e difficilmente avrebbe attirato l'at tenzione di qualcuno all'esterno del magazzino. Sotto di lui, il pavimento era invaso da torri e muraglie di casse d'ogni forma e dimensione. « Oh, no! » gemette Daniel. Non s'era aspettato una simile ab bondanza. Ci sarebbe voluta una settimana per esaminarle tutte: e nel complesso del magazzino c'erano altri quattro locali come quello. Daniel puntò il fascio di luce sulla parete. I rivestimenti erano fissati a una struttura di ferro a L. Le intelaiature formavano una specie di scala che gli avrebbe permesso di raggiungere con facilhà il pavimento, nove metri più in basso. Scese e spense la torcia. Cambiò prontamente posizione. Se un guardiano si stava avvici nando, voleva confonderlo. Si acquattò fra due casse e ascoltò il si lenzio. Stava per riprendere a muoversi quando si bloccò. C'era qualcosa, un suono lieve e appena percettibile: lo avvertiva con i nervi più che udirlo. Poi cessò, come se non fosse mai esistito. Daniel attese per cento battiti del cuore, ma il suono non si ripe té. Accese la torcia, e la luce placò il disagio. Si avviò a passo svelto fra le masse di merci, di balle e casse. Aveva visto il camion nel vano in fondo. « E là che devo comincia re », si disse, e fiutò l'aria per cercare l'odore del pesce secco. Si fermò di colpo e spense la torcia. Ancora una volta aveva per
cepito qualcosa, ma non abbastanza nettamente da individuare cosa fosse: un suono, forse... oppure soltanto la premonizione che c'era qualcosa vicino a lui nell'oscurità. Trattenne il respiro: percepi un accenno di movimento o forse era la sua immaginazione. Non pote va essere certo, ma gli sembrava un fruscio di passi furtivi, o un re spiro lieve. Daniel attese. No. Erano soltanto i suoi nervi. Continuò ad a vanzare nel magazzino buio. La costruzione non aveva muri interni, solo pilastri di ferro a L che sostenevano il tetto e separavano i vani. Si fermò di nuovo e fiutò l'aria. Eccolo, finalmente, l'odore del pe sce secco. Riprese a camminare più in fretta mentre il tanfo diventa va più forte. Erano ammucchiati contro la parete in fondo: una catasta di sacchi che arrivavano fin quasi al soffitto. L'odore era fortissimo. Sui sacchi era stampata la scritta: « Pesce secco, Prodotto del Ma lawi », con un emblema, un sole stilizzato e sovrastato da un gallo. Daniel frugò nella borsa e prese un cacciavite da trenta centime tri. Si accosciò davanti ai sacchi e cominciò ad affondare la punta del cacciavite nella trama della tela, a smuoverla per cercare qualche oggetto duro nascosto sotto uno strato di pesci. Lavorava in fretta: cinque o sei affondi a ogni sacco, fino ai sacchi sopra la sua testa. Poi si arrampicò sulla piramide per arrivare in cima. Si fermò a riflettere. Aveva pensato che l'avorio fosse nascosto nei sacchi del pesce, ma adesso si rendeva conto che la sua ipotesi era sbagliata. Se Ning Deng Kong aveva davvero trasferito l'avo rio dai camion frigoriferi a quello di Chetti Singh, non c'era stata la possibilità di chiudere le zanne nei sacchi durante le poche ore tra scorse prima che Daniel intercettasse il sikh sulla strada di Chirun du. Al massimo avevano sistemato l'avorio sul pianale e l'avevano coperto con i sacchi di pesce. Daniel schioccò la lingua, irritato dalla propria avventatezza. Naturalmente i sacchi di pesce erano troppo piccoli per contenere le zanne più voluminose; e non erano adatti per contrabbandare l'avo rio fuori dell'Africa e per portarlo a destinazione, dovunque fosse. Le pesanti zanne acuminate si sarebbero spostate in mezo al pesce e avrebbero lacerato i sacchi di iuta. « Maledetto stupido. » Daniel scosse la testa. « Avevo un'idea fissa... » Girò tutto intorno il raggio rosso della torcia, e i suoi nervi sussultarono. Gli sembrava di vedere qualcosa di grosso e scuro che si muoveva nell'ombra, il bagliore di due occhi d'animale: ma quando puntò il raggio con fermezza e guardò con attenzione, si re se conto che era di nuovo uno scherzo dell'immaginazione. « Sto diventando vecchio », si disse. Si lasciò scivolare dalla piramide dei sacchi e si avviò fra le mon tagne di merci. Esaminò le etichette delle casse. « Frigoriferi Defy », « Pesche sciroppate Koo », « Polvere di sapone Synlight ». Ogni cas sa indicava come destinatario la « Chetti Singh Trading Company ». Era tutta merce in arrivo, e lui doveva cercare un carico in par tenza. Più avanti, vide la sagoma di un carrello elevatore sulla rampa accanto alla porta principale. Quando si avvicinò, notò che, sui supporti, era poggiata una grossa cassa e, più oltre, una catasta di casse identiche quasi bloccava la rampa. Erano pronte per venire caricate sul vagone ferroviario vuoto, in attesa ai piedi del piano in clinato. Era un carico in partenza. Daniel, quasi di corsa, si avvicinò e vide che erano tradizionali casse per il trasporto del tè, con robuste fiancate di compensato e solide intelaiature, chiuse da nastri d'ac ciaio flessibile. Un fremito elettrico d'eccitazione gli corse lungo la schiena quando lesse l'indirizzo stampigliato sulla cassa più vicina: LUCICY DRAGON INVESTMENTS 1555 CHUNG CHING ROAD
TAIPEI TAIWAN « Figlio d'un cane! » Daniel sorrise, soddisfatto. « Il legame con il cinese. Lucky Dragon! Sì, una vera fortuna per qualcuno! » Si avvicinò al carrello e tese le mani verso i comandi. Fece scat tare l'interruttore e azionò il motore elettrico: la cassa si sollevò senza far rumore. Daniel la fermò quando arrivò all'altezza della sua testa, e si portò sotto la cassa sospesa. Non voleva lasciare trac ce della visita manomettendo il coperchio o i lati. Si mise al lavoro fra i bracci protesi del carrello e affondò il cac ciavite nel fondo della cassa. Il compensato scricchiolò e Daniel si aprì un varco circolare, abbastanza grande per infilarvi la mano. L'interno era foderato di una pesante plastica gialla che non riuscì a squarciare. Prese dalla borsa il coltello a serramanico e tagliò un pezzo della fodera. Sentì l'odore caratteristico del tè secco, e incominciò a scavare, rovesciando le foglioline sul pavimento. Affondò completamente il cacciavite senza incontrare oggetti nascosti: un fremito di dubbio lo assalì. C'erano centinaia di casse di tè ammucchiate sulla rampa; ognuna poteva contenere l'avorio, come poteva darsi che non ce ne fosse in nessuna. Allargò il foro con altri colpi di cacciavite, e affondò la punta d'acciaio nella massa di tè con tutta la forza del dubbio e della fru strazione. Urtò qualcosa di solido con una violenza che gli indolenzì i polsi e trattenne a stento un grido di trionfo. Allargò gli orli del varco fi no a che poté infilare entrambe le mani nella cassa ed estrasse i pac chi di tè che caddero ai suoi piedi. Finalmente riuscì a toccare l'oggetto duro sepolto in mezzo al tè Era rotondo e levigato. Si acquattò sotto la cassa per guardare nel l'apertura, socchiudendo gli occhi sotto la pioggia delle foglioline secche di tè. Nel raggio della torcia elettrica scorse il fievole lucci chio alabastrino. Con la punta del cacciavite attaccò la superficie scoperta dell'og getto fino a che una scheggia si staccò. La prese. Era grande come il suo pollice. « Nessun dubbio », mormorò mentre esaminava il campione e ri conosceva la caratteristica struttura a reticolo della grana dell'avo rio. « Adesso vi ho in pugno, bastardi assassini. » Si affrettò a sistemare il lembo lacerato della plastica nel foro per impedire che il tè continuasse a cadere. Poi raccolse le foglioline cadute e le infilò nelle tasche. Non era un'operazione di ripulitura molto accurata, ma Daniel sperava che gli addetti al carico fossero abbastanza distratti da non notare niente d'insolito quando avesse ro ripreso a lavorare l'indomani mattina. Tornò ai comandi del carrello e riabbassò la cassa. Girò tutto in torno il raggio della torcia per assicurarsi di non lasciare altri segni della sua visita... e questa volta lo vide chiaramente. C'era una grande sagoma scura acquattata sul bordo della ram pa e lo fissava con occhi che brillavano come opali anche nel raggio tenue della Maglite. Quando la luce l'investì, l'animale parve dissol versi come uno sbuffo di fumo, con una furtività quasi sovrannatu rale. Daniel indietreggiò istintivarmente contro la fiancata del carrel lo, cercando di sondare il buio con la torcia. All'improvviso sentì un suono che gli dilaniò i nervi ed echeggiò nella caverna buia del magazzino, riverberando contro il tetto. Era una cadenza lacerante come quella d'una sega che taglia il metallo, e gli faceva allegare i denti. Daniel comprese subito cos'era. Ma stentava a credere a ciò che udiva. « Un leopardo! » mormorò. Con una fitta gelida nelle viscere si rese conto del pericolo. Era la belva ad avere tutti i vantaggi. La notte era il suo ambien te naturale. L'oscurità la rendeva audace e aggressiva.
Tolse il filtro rosso alla torcia: il fascio di luce bianca saettò nel magazzino. Daniel lo fece ruotare tutto intorno e vide di nuovo il felino. S'era avvicinato girandogli intorno. Era la manovra più osti le: il predatore gira intorno alla vittima prima di balzarle addosso per ucciderla. Quando la luce lo investì, il leopardo sfrecciò via. Con un balzo agilissimo, sparì dietro la muraglia delle casse del tè e il suo rabbio so canto d'odio echeggiò di nuovo nel buio. « Mi sta dando la caccia! » Quando era direttore di Chiwewe, uno dei suoi ranger era stato assalito da un leopardo: Daniel, che era stato il primo tra i soccorri tori a giungere sul posto, ricordava le ferite terribili inferte dalla belva. L'altro pericoloso felino africano, il leone, non possiede un'i stintiva conoscenza del modo più efficace di attaccare un uomo. Carica, butta a terra la vittima, quindi azzanna e graffia in maniera indiscriminata, continuando spesso a mordere un unico arto fino a che qualcuno sopraggiunge per salvare la preda. Il leopardo, invece, sembra conoscere l'anatomia umana. Il bab buino costituisce una delle sue prede più comuni, e perciò la belva sa che deve attaccarlo alla testa e alle viscere, zone particolarmente vulnerabili dei primati. Il suo metodo abituale di aggressione consi ste nel balzare sulla vittima, affondargli gli artigli anteriori nelle spalle, e scalciare con le zampe posteriori nello stesso modo in cui un gatto gioca con un gomitolo di lana. Gli artigli sguainati possono sventrare un uomo con mezza doz zina di colpi. Nello stesso tempo il leopardo affonda i denti nel viso o nella gola e pianta gli artigli nello scalpo della vittima, strappan doglielo dal cranio. Spesso riesce ad aprire anche la calotta cranica, come si fa con il guscio d'un uovo à la coque, e lascia scoperto il cervello. Tutti questi pensieri lampeggiavano nella mente di Daniel mentre il leopardo gli girava intorno e le sue grida selvagge echeg giavano nel magazzino. Ancora acquattato accanto al carrello, Daniel chiuse la lampo del giubbotto di pelle per proteggersi la gola e spostò la borsa di ny lon sul davanti per ripararsi lo stomaco. Poi si passò il cacciavite nella mano destra, e con la sinistra spostò la torcia per seguire i mo vimenti minacciosi del leopardo. « Mio Dio, è enorme », pensò quando lo vide bene. Nella luce della torcia sembrava completamente nero. Secondo la tradizione, i felini scuri sono sempre i più feroci. Era impossibile tenerlo inquadrato nel fascio luminoso. Era sfuggente come un'ombra. Daniel si rendeva conto che non ce l'a vrebbe fatta a tornare nel punto da dov'era entrato. Era troppo lon tano. Il leopardo gli sarebbe piombato addosso prima che avesse coperto metà della distanza. Per un secondo deviò la torcia, in cerca di un'altra via di fuga. I sacchi di pesce. Vide la piramide ammucchiata contro il muro più vicino. Arrivava sino alle finestre, nove metri al di sopra del pa vimento. « Se riuscissi a raggiungere il lucernario », mormorò. C'era un grande salto, all'esterno; ma aveva la corda di nylon per calarsi al meno per un tratto. « Muoviti », si disse. « Non ti resta molto tem po. Ti aggredirà da un momento all'altro. » Chiamò a raccolta tutto il suo coraggio per abbandonare il ripa ro del carrello. Era un conforto averlo alle spalle, mentre allo sco perto sarebbe stato vulnerabile in rapporto alla velocità e alla forza della belva. Nel momento in cui lasciò il riparo il leopardo sibilò di nuovo, ancora più rabbiosamente. « Vattenet » urlò Daniel, sperando di sconcertarlo con il suono della voce. Il felino si acquattò e sparì dietro un mucchio di casse... e Daniel commise ull errore. Fu un errore stupido, imperdonabile. Sapeva meglio di chiunque
che non bisogna fuggire di fronte a un animale selvatico. E soprat tutto non bisogna mai voltare le spalle a un felino. Hanno l'istinto degli inseguitori. Se fuggite, devono assolutamente caricare, proprio come un gatto non può resistere alla fuga del topo. Daniel pensava che sarebbe riuscito a raggiungere la montagna dei sacchi di pesce Si voltò e corse, e il leopardo esplose in un guiz zo silenzioso, lanclandosi fuori dell'oscurità alle sue spalle. Non lo sentì: gli piombò addosso con tutto il suo peso contro la schiena fra le scapole. Daniel fu scagliato in avanti. Sentì gli artigli affondare, e per un attimo pensò che gli si fossero agganciati nella carne. Invece di sbat terlo sul cemento, il leopardo lo fece cadere sulla piramide di sacchi che attutirono l'impatto. Comunque, l'urto gli svuotò di colpo i polmoni e gli diede la sensazione che gli si fossero spezzate le co stole. Il leopardo gli stava ancora sulle spalle, ma, nel momento in cui cadeva, Daniel si rese conto che gli artigli erano piantati nel giub botto di pelle e nel pesante maglione di lana. Bene o male, riuscì a puntellarsi contro la montagna dei sacchi. Sentì il leopardo che si raccoglieva e sollevava le zampe posteriori, pronto a scattare come una molla e a scalciare contro i glutei e le cosce. Avrebbe dilaniato la carne fino all'osso, lacerando vene e ar terie, provocandogli ferite che probabilmente l'avrebbero fatto mo rire dissanguato in pochi minuti. Daniel si spinse lontano dai sacchi con entrambe le braccia e si ributtò all'indietro, rannicchiandosi con le ginocchia sotto il mento. Gli artigli del leopardo premettero contro la cintura di nylon della borsa e scalciarono verso il basso, ma Daniel aveva messo al sicuro le gambe, sollevandole. Le zampe posteriori della belva, con gli arti gli sfoderati, colpirono l'aria e lo mancarono. Uomo e belva piombarono insieme sul cemento. Daniel era alto e robusto e il leopardo era sotto di lui: nell'impatto, un respiro sibi lante gli uscì dai polmoni, e Daniel sentì gli artigli che mollavano la presa nella pelle del giubbotto. Si girò con violenza e tenne una ma no al di sopra della spalla mentre con l'altra continuava a stringere il cacciavite. Quando cadde in ginocchio, afferrò il leopardo per la collottola e con la forza del terrore se lo strappò dalla schiena e lo scagliò contro il mucchio di casse. Il leopardo rimbalzò contro di lui come una palla di gomma. La prima carica gli aveva sbalzato la torcia dalla mano: rotolò sul pavimento e andò a fermarsi ai piedi di una cassa. Il fascio lumi noso puntato verso l'alto era riflesso dal compensato, e quel barlu me diede a Daniel la luce sufficiente per anticipare la carica della belva. Aveva le fauci completamente aperte, e le zampe anteriori si protendevano verso le sue spalle. Quando gli piombò addosso, pet to contro petto, alzò le zampe posteriori nel movimento istintivo per sventrare la preda mentre la testa scattava per affondare le zan ne nel viso e nella gola. Era il classico attacco dei leopardi: e Daniel reagì stringendo il cacciavite con entrambe le mani, e l'affondò co me un morso nella bocca aperta della belva Uno dei canini si spezzò all'altezza della gengiva quando urtò l'acciaio; Daniel si rovesciò allora sul dorso, tenendo il leopardo lontano dalla faccia con il cacciavite. La belva ringhiò di nuovo. Uno spruzzo di saliva calda gli piovve sul viso, il lezzo di carogna e di morte gli invase le narici. Sentì una zampa anteriore protendersi sopra la sua spalla, verso la nuca, per strappargli lo scalpo dal cranio. Nello stesso istante le zampe posteriori si piegarono con gli artigli sfoderati per lacerargli il ventre. Ma la testa di Daniel era premuta contro uno dei sacchi di pesce e gli artigli affondarono nella iuta, a un paio di centimetri dal suo orecchio. Poi la belva scattò con entrambe le zampe posteriori ma, invece di squarciargli il ventre, gli artigli affondarono nella re
sistente cintura di nylon della borsa. Per un momento l'attacco si bloccò. Il leopardo dilaniò il sacco, poi parve rendersi conto dell'errore, e scalciò spasmodicamente con le zampe posteriori, lacerando il nylon con un suono sibilante. Mentre lottava, la belva tirò indietro la testa per evitare l'asta d'acciaio che Daniel continuava a premerle tra le fauci aperte. Da niel ritrasse fulmineamente il cacciavite per poi dirigere la punta acuminata contro un occhio del leopardo. La mira era imprecisa. La punta del cacciavite penetrò in una narice ma, anziché trovare il canale nasale per arrivare al cervello deviò leggermente, sfrecciò attraverso la cartilagine, e corse lungo l'esterno dello zigomo sotto la pelle maculata. La punta emerse sot to l'orecchio e il leopardo urlò di dolore. Per un momento desistette dall'attacco. Daniel rotolò su se stesso e se lo scrollò di dosso. Sembrava un miracolo che finora non fosse riuscito a ferirlo; ma quando Daniel lo scagliò lontano, il felino mantenne istintiva mente la presa con una zampa. Gli artigli affondarono lungo il braccio, fendettero il cuoio e la lana e arrivarono ai muscoli dell'a vambraccio. Era doloroso come un colpo di spada, e la sofferenza spinse Daniel ad attingere all'ultima, disperata riserva d'energia. Scalciò a piedi uniti; e colpì con i calcagni il corpo del felino mentre si raccoglieva per avventarsi di nuovo. Il calcio scagliò indie tro la belva in una sfera ringhiante di pelo scuro che luccicava e guizava nel chiarore della torcia. C'era uno spazio tra i sacchi di pesce alle spalle di Daniel, abba stanza largo per lasciarlo passare. Senza voltarsi, si lasciò cadere nel varco. Adesso aveva la schiena e i fianchi protetti; il leopardo pote va attaccarlo solo di fronte. E infatti la belva protese la testa, ringhiando e spalancando le fauci nello spazio stretto, nel tentativo di raggiungerlo. Daniel tentò di colpirlo agli occhi con il cacciavite, lo mancò di nuovo. ma la punta d'acciaio lacerò la lingua rosea, e la belva spiccò un balzo al l'indietro, soffiando per il dolore. « Vattene! Va' via! » urlò Daniel, più per farsi coraggio che nella speranza di allontanare la bestia inferocita. Piegò le gambe e s'infi lò ancora di più fra i sacchi di pesce. Il leopardo camminava avanti e indietro di fronte al varco, e a ogni passaggio oscurava la luce fioca della torcia. A un certo mo mento si fermò e sedette, si forbì il naso ferito con una zampa, pro prio come un gatto, e si leccò il pelo insanguinato. Poi spiccò un balzo, bloccò l'ingresso del varco, protendendo una zampa anteriore per arrivare di nuovo a Daniel, che sferrò un colpo con il cacciavite. Sentì che penetrava nella zampa. Il leopardo soffiò, furibondo, e indietreggiò. Incominciò a girare avanti e indie tro, soffermandosi a intervalli di qualche minuto per lanciare uno dei suoi paurosi sibili. Daniel sentiva il sangue colargli lungo l'avambraccio sotto la manica e sgocciolare sulle dita. Tenne il cacciavite fra le ginocchia, pronto a rintuzzare un nuovo attacco. Poi, con una mano sola, si legò il fazzoletto intorno alla ferita per bloccare l'emorragia. Strinse il nodo con i denti. La ferita sembrava superficiale. La manica di pelle gli aveva risparmiato una lesione grave, ma il braccio comin ciava già a pulsare. Daniel sapeva quanto poteva essere pericoloso il minimo graffio inflitto dai denti o dagli artigli di un carnivoro, se non veniva medicato. Ma era solo una delle sue preoccupazioni. Il leopardo l'aveva messo in trappola, e presto sarebbe venuto il mattino. Era strano che i ruggiti dell'animale non avessero ancora richiamato l'attenzio ne. Poteva immaginare che arrivasse un guardiano da un momento all'altro. Proprio allora il magazzino s'inondò di luce. Era così viva che il leopardo si acquattò e sbatté le palpebre, confuso. Daniel senti il rombo della porta aperta dal motore elettrico, e subito dopo il suo
no di un'automobile che entrava. Il leopardo ringhiò e rinculò verso il fondo del magazzino. Tene va la testa bassa e si guardava alle spalle. Poi qualcuno gridò: « Ehi, Nandi! Torna in gabbia! Via! In gab bia! » Daniel riconobbe la voce di Chetti Singh. Il leopardo corse via e spari dalla vista di Daniel. Chetti Singh parlò di nuovo. « Chiudila subito in gabbia! » Poi il clangore della porta che sbatteva. « Vedi il bianco? Stai attento, po trebbe essere ancora vivo. » Daniel si ritrasse il più possibile nella stretta apertura fra i sac chi. Non poteva sperare che non lo scoprissero, e il cacciavite non era gran che, come arma. « Li c'è una torcia elettrica ancora accesa. » « E là, vicino ai sacchi di pesce. Sembra sangue. » Un suono di passi guardinghi che si avvicinavano. « Nandi ha fatto il suo lavoro. » « Dammi la torcia. » Le voci erano più vicine. All'improvviso Daniel vide un paio di gambe. L'uomo si fermò e puntò il raggio della torcia nel varco buio dov'era acquattato. « Santo cielo! » disse la stessa voce in inglese. « Eccolo qui, ed è ancora in forma eccellente. Come va, dottor Armstrong? Sono feli ce di conoscerla ufficialmente. » Daniel fissò in silenzio la luce abbacinante della torcia e Chetti Singh continuò in tono scherzoso: « Non avrà bisogno di quell'ar ma, non importa. Abbia la bontà di consegnarmela ». Daniel non si mosse e Chetti Singh ridacchiò. « Questa è una magnifica doppietta di fabbricazione inglese, caro signore, prodotta nientemeno che dal signor Purdey. E caricata con proiettili per la caccia al bufalo. La polizia del Malawi è molto comprensiva verso la legittima difesa. La prego umilmente di accogliere la mia richiesta di cooperazione. » Rassegnato, Daniel fece cadere il cacciavite ai piedi di Chetti Singh che l'allontanò con un calcio. « Adesso può uscire dalla tana, dottore. » Daniel si trascinò fuori e, stringendosi al petto il braccio ferito, si alzò in piedi. Chetti Singh gli puntò la doppietta al ventre e parlò in angoni al guardiano in uniforme. « Chawe, controlla le casse. Vedi se il ma lungu ne ha aperta qualcuna. » Daniel riconobbe il guardiano negro del supermercato, un bruto imponente e pericoloso. « Preferisco il leopardo come avversario » pensò Daniel mentre guardava l'angoni che scendeva la rampa verso il carrello. Prima di raggiungerlo, Chawe proruppe in un'esclamazione: si piegò a raccogliere una manciata di foglioline di tè che Daniel aveva dimenticato, e seguì la traccia fino alla cassa sfondata. « Sollevala, Chawe! » ordinò Chetti Singh. Chawe salì ai coman di del carrello e alzò la cassa. Una pioggia di nere foglie di tè cadde sul pavimento. Chawe bal zò giù e infilò la mano nel varco che Daniel aveva aperto nel com pensato con il cacciavite. « Lei è molto furbo. » Chetti Singh scosse la testa e guardò Da niel con ironica ammirazione. « Un vero Sherlock Holmes, nientedi meno. Ma a volte non è saggio essere troppo furbi, mio caro si gnore. » Daniel guardò il sikh negli occhi senza lasciarsi ingannare dal linguaggio buffonesco. Erano occhi spietati. Chetti Singh non era un pagliaccio. « Chawe, dov'è il fuoristrada del bianco? » chiese senza spostare la mira della doppietta. « E arrivato a fari spenti ma l'ho sentito sul lato sud. Credo che si sia fermato nel lotto. » Parlavano in angoni, credendo che Daniel
non li capisse; ma la conoscenza dello zulu e dell'adebele gli permet teva di comprendere il senso del loro discorso. « Vai a prendere il fuoristrada », ordinò Chetti Singh. Chawe si allontanò e Daniel e il sikh restarono a fronteggiarsi in silenzio. Daniel cercava qualche segno di debolezza e d'indecisione, ma il sikh era calmo e stringeva saldamente la doppietta. « Il mio braccio è gravemente ferito », disse infine Daniel. « Le mie più sincere condoglianze, caro dottore. » « C'è pericolo d'infezione. » « No. » Chetti Singh sorrise. « Lei sarà morto prima che l'infe zione possa manifestarsi. » « Ha intenzione di uccidermi? » « Ecco una domanda sorprendentemente faceta, dottore. Che al ternativa ho? Ha scoperto il mio piccolo segreto. Come ho notato spesso, sapere troppo è una malattia mortale. Ah, Ah! » « Se devo morire, perché non soddisfa la mia curiosità e non mi parla di Chiwewe? Chi ha proposto l'attacco, lei o Ning Deng Kong? » « Ahimè, caro signore, non so nulla di Chiwewe e di quell'altro individuo. E non ho voglia di chiacchierare. » « Non ha nulla da perdere se me lo dice. Chi è il proprietario della Lucky Dragon Investments Company? » « Temo, dottore, che dovrà portare nella tomba la sua curio sità. » Al rumore del Land Cruiser che arrivava, Chetti Singh si scosse. « Chawe non ci ha messo molto. Lei non doveva essersi dato molto da fare per nascondere il suo veicolo. Andiamo all'ingresso princi pale per riceverlo. Mi preceda, dottore, e non dimentichi che l'eccel lente arma da fuoco del signor Purdey è a soli trenta centimetri dal la sua colonna vertebrale. » Daniel continuò a stringere il braccio ferito e si avviò verso la porta del magazzino. Quando uscirono dalla corsia fra le casse, vide una Cadillac verde ferma accanto al binario. Probabilmente Chetti Singh era rimasto al sicuro in macchina fi no a che il leopardo era rientrato nella gabbia. Daniel ricordava la baracca dietro la costruzione e l'odore animale che aveva notato al l'arrivo. Stava ricostruendo tutto: adesso sapeva dove era chiuso il leopardo e come veniva tenuto sotto controllo. Comunque era evi dente che Chetti Singh e il suo aiutante non si fidavano. Al contra rio: erano estremamente nervosi quando l'animale era libero. Quando arrivarono all'ingresso principale, Chetti Singh accennò a Daniel di fermarsi. La porta cominciò a spostarsi e rivelò il Toyo ta parcheggiato davanti all'entrata con i fari accesi. Chawe era al quadro dei comandi elettrici della porta. Quando fu completamente aperta, ritirò la chiave magnetica dal quadro. Era fissata a una cor ta catenella e Chawe la mise in tasca. « E tutto pronto », disse a Chetti Singh. « Sai che cosa fare », rispose il sikh. « Non voglio che qualche uccello torni a posarsi sul mio tetto. Non lasciare tracce. Dev'essere un incidente, un semplice incidente sulla strada di montagna. Hai capito? » Parlavano di nuovo in angoni, sicuri che Daniel non ca pisse. « Sarà un incidente », promise Chawe. « E magari un piccolo in cendio... » Chetti Singh si rivolse di nuovo a Daniel. « Ora, caro signore, abbia la bontà di mettersi al volante della sua automobile. Chawe le dirà dove andare. La prego di obbedirgli docilmente. Spara molto bene con la doppietta. » Daniel sali sul Land Cruiser e, a un ordine di Chetti Singh, Cha we prese posto dietro di lui. Poi il sikh gli passò la doppietta, con un movimento esperto e rapido. Prima che Daniel potesse approfit tarne, le canne gli premettero contro la nuca. Chetti Singh si accostò al finestrino aperto.
« L'inglese di Chawe è atroce, non importa », disse in tono gio viale. Poi passò alla linguafranca dell'Africa. « Wena kuluma Fani ka-lo.... parla così? » « Sì », rispose Daniel nella stessa lingua. « Bene, così lei e Chawe non avrete difficoltà a intendervi. Fac cia ciò che le ordina, dottore. A quella distanza la doppietta rovine rebbe vergognosamente la sua pettinatura. » Chetti Singh si spostò e, all'ordine di Chawe, Daniel invertì la marcia del Land Cruiser, varcò il cancello e imboccò la strada. Nello specchietto retrovisore scorse Chetti Singh che tornava al la Cadillac e apriva la portiera. Poi l'angolazione cambiò e non po té più vedere l'interno del magazzino. Dal sedile posteriore Chawe dava gli ordini, sottolineandoli con secchi colpi delle canne della doppietta contro il collo di Daniel. At traversarono le strade silenziose e deserte della capitale addormenta ta e si diressero a est, verso il lago e le montagne. Quando furono in aperta campagna Chawe ordinò di accelerare. La strada era in buone condizioni, e il Land Cruiser sfrecciava. Il braccio ferito di Daniel era irrigidito e dolorante. Lo teneva premu to sulle ginocchia, guidava con una mano e cercava d'ignorare la sofferenza. Dopo meno di un'ora, la pendenza cambiò e la strada cominciò a salire in una serie di tornanti. La foresta era sempre più fitta e buia ai fianchi della strada. Il Land Cruiser rallentò. L'alba avanzava furtiva. Al di là della luce dei fari, Daniel vede va le sagome degli alberi emergere dall'oscurità. Poco più tardi, vi de le cime stagliate contro il cielo. Girò il polso e guardò l'orologio. La manica era incrostata di sangue secco, ma ormai la luce era suf ficiente per vedere il quadrante. Erano le sei e sette minuti. Aveva avuto tempo sufficiente per riflettere sulla situazione e valutare l'uomo che gli teneva puntato il fucile alla testa. Era un av versario temibile, senza dubbio pronto a uccidere senza scrupoli né esitazioni, e maneggiava la doppietta con scoraggiante efficienza. Dall'altra parte, era un'arma un po' troppo ingombrante per usarla all'interno del Land Cruiser. Daniel considerò le varie possibilità. Scartò subito l'idea di at taccare Chawe in macchina. Gli avrebbe fatto esplodere la testa pri ma che potesse girarsi per affrontarlo. Poteva spalancare la portiera con un calcio e buttarsi fuori, ma avrebbe dovuto ridurre la velocità del Land Cruiser al di sotto dei cinquanta orari per non ferirsi gravemente nella caduta. Alzò piano piano il piede dall'acceleratore. Quasi subito Chawe sentì il cambia mento nel ritmo del motore e gli premette il fucile contro la nuca. « Kavvaleza! Più in fretta! » Era inutile. Daniel obbedì con una smorfia. D'altra parte, non era probabile che Chawe gli sparasse mentre andavano a quella ve locità, rischiando di andare a sfracellarsi a sua volta. Aspettava l'ordine di fermarsi o di lasciare la strada quando fos se arrivato a destinazione, dovunque fosse. Quello sarebbe stato il momento buono. Daniel si rassegnò ad attendere. La strada divenne all'improvviso più ripida, le curve più bru sche. L'alba era grigia. A ogni tornante, Daniel scorgeva la valle sottostante, avvolta in argentei banchi di nebbia attraverso i quali apparivano le cascate bianche di un fiume che scorreva in una gola profonda. Un'altra curva gli si parò davanti e lui si preparò ad affrontarla. Chawe ordinò: « Fermo. Fermati sul bordo. Là ». Daniel frenò e fermò la macchina sull'orio della strada. Erano sul ciglio di un precipizio, fiancheggiato da una fila di pietre dipinte di bianco. Poi l'abisso. C'era un salto di settanta, ot tanta metri fino al letto del fiume. Tirò il freno a mano e sentì il cuore martellargli contro le costo le. Gli avrebbe sparato adesso? si chiese. Sarebbe stato un gesto stu
pido, se doveva sembrare un incidente. Ma l'angoni non sembrava molto sveglio. « Spegni il motore e dammi le chiavi », comandò Chawe. Daniel gliele passò. « Metti le mani sulla testa », ordinò Chawe, e Daniel provò un fremito di sollievo. Gli restava ancora qualche secondo. Obbedì e attese. Sentì lo scatto della portiera, ma la pressione delle canne contro la sua spina dorsale non si attenuò. Sentì un soffio d'aria fredda quando Chawe aprì la portiera posteriore. « Non ti muovere », ingiunse a Daniel, e si spostò sul sedile con tinuando a puntare la doppietta attraverso la portiera. Adesso era in piedi accanto al fuoristrada. « Apri la portiera, piano. » La doppietta mirava alla faccia di Daniel. Aprì la portiera. « Adesso scendi. » Daniel obbedì. Chawe continuò a tenerlo sotto tiro reggendo la doppietta con una mano sola, e tese la mano sinistra all'interno dell'abitacolo. Daniel vide che c'era sul sedile la leva del cric. Doveva averla presa, durante il viaggio, sotto il sedile anteriore. In quell'istante Daniel comprese come intendeva sbarazzarsi di lui. Chawe l'avrebbe spinto con la doppietta fino al ciglio del preci pizio, e con un colpo del cric alla nuca l'avrebbe scaraventato set tanta metri più sotto, nella gola rocciosa. Poi avrebbe fatto precipi tare il Land Cruiser, con la portiera aperta e probabilmente dopo aver dato fuoco a uno straccio infilato nel bocchettone del serba toio. Un altro turista ucciso dall'imprudenza in un tratto di strada no toriamente pericoloso: non ci sarebbe stato nulla di strano, tale da destare l'interesse della polizia o da far collegare l'incidente a Chetti Singh e a un carico d'avorio di contrabbando nascosto a Lilongwe, a centocinquanta chilometri di distanza. In quel momento Daniel intravide l'occasione propizia. Chawe aveva allungato il braccio attraverso la portiera aperta ed era leggermente sbilanciato. Anche se la doppietta era sempre pun tata al suo ventre, se Daniel si fosse mosso rapidamente Chawe avrebbe impiegato una frazione di secondo per regolare la mira. Si avventò, non contro l'uomo o la doppietta, ma contro la por tiera. L'investì con tutto il suo peso e la portiera si chiuse con il braccio di Chawe intrappolato fra il bordo d'acciaio e lo stipite. Chawe gettò un urlo, ma quel suono non coprì lo scricchiolio dell'osso che si spezzava, secco come quello di un pezzo di legna da ardere spaccato su un ginocchio. L'indice, grosso come un sangui naccio, scivolò sul grilletto e sparò un colpo. La rosa dei pallettoni mancò di trenta centimetri la testa di Daniel, ma la detonazione gli agitò i capelli e lo fece rabbrividire. Il rinculo alzò di scatto le canne. Daniel caricò a testa bassa e afferrò il calcio della doppietta con una mano e la canna, che scottava, con l'altra. Chawe stringeva l'arma con una mano sola, indebolito dalla sofferenza dell'osso fratturato e intrappolato nella portiera. Sparò il secondo colpo, ma i pallettoni si persero nel cielo. Daniel aveva il vantaggio di stringere l'arma con entrambe le mani e ne approfittò per strapparla dalla destra di Chawe. Sollevò la doppietta, la rovesciò e colpì con il calcio la faccia dell'angoni, centrandolo alla mascella. La mascella di Chawe si spezzò all'articolazione. La faccia cam biò forma e si afflosciò da un lato. Stordito, l'angoni cadde all'in dietro, trattenuto soltanto dal braccio prigioniero. Daniel tirò la maniglia della portiera e la spalancò, liberandolo quando meno se l'aspettava. Chawe arretrò barcollando, incapace di controllare le gambe, e mulinò le braccia per conservare l'equilibrio; l'avambraccio frattu rato penzolava inerte sotto la giuntura del gomito. Inciampò in una
delle pietre dipinte di bianco sul ciglio dello strapiombo, sobbalzan do all'indietro, come se fosse strattonato da un filo, e sparì nell'a bisso. Daniel lo sentì urlare. Il suono si attenuò rapidamente nella ca duta e si spezzò bruscamente sulle rocce del fondo. Poi vi fu un im menso silenzio. Daniel si appoggiò al Land Cruiser con la doppietta ancora ser rata al petto, ansimando per quei secondi di sforzo violentissimo. Impiegò un momento per riprendersi, poi si accostò all'orlo del bur rone e si affacciò. Chawe giaceva bocconi sulle rocce accanto alla cascata, con le membra spalancate come se fosse stato crocifisso. Sul ciglio del pre cipizio non c'era alcun segno. Danny rifletté. Doveva denunciare l'aggressione? Parlare dell'a vorio alla polizia? No, che diavolo! Un bianco non poteva permet tersi di uccidere un negro in Africa, neppure per legittima difesa, neppure in uno stato quasi civile come il Malawi. L'avrebbero fatto a pezzi. Prese una decisione quando sentì il rombo di un veicolo pesante che scendeva in prima dalla montagna. Posò la doppietta a bordo del Land Cruiser e la coprì con un telone. Poi si accostò al ciglio dell'abisso, si aprì i pantaloni e si forzò di urinare nel vuoto. Il camion comparve alla svolta. Era carico di tronchi incatenati al pianale. Nella cabina c'erano due negri, il camionista e il suo aiu tante. Daniel scrollò via teatralmente le ultime gocce di urina e chiuse la lampo dei pantaloni. Il camionista sogghignò e agitò la mano in segno di saluto. Daniel rispose mentre il grosso veicolo passava oltre. Non appena lo vide sparire corse al Land Cruiser e salì per un tratto la montagna. Dopo meno di duecento metri incontrò una pi sta abbandonata dai taglialegna. L'imboccò e procedette in mezzo alla fitta vegetazione, fino a che non fu più in vista della strada. La sciò il Land Cruiser e ritornò indietro a piedi, pronto a nascondersi se avesse sentito sopraggiungere qualcun altro. Quando arrivò sul ciglio del burrone si affacciò per accertarsi che il corpo di Chawe fosse ancora sulle rocce sottostanti. L'istinto gli suggeriva di lasciarlo dov'era e di allontanarsi al più presto: so spettava che le prigioni del Malawi non fossero molto meglio di quelle del resto dell'Africa. Il braccio gli faceva un male tremendo. Sentiva accendersi i primi fuochi dell'infezione, ma non voleva nep pure pensarci prima di aver cancellato ogni prova a suo carico. Aggirò l'orlo del baratro fino a che trovò un modo per scendere: una pista usata da iraci e klipspringer, ripida e precaria. Impiegò venti minuti per raggiungere il corpo di Chawe. Non c'era bisogno di controllare se il cuore batteva ancora. Era morto. Gli frugò le ta sche. Trovò un tesserino bisunto che rappresentava l'unico docu mento d'identificazione. Era meglio sbarazzarsene. A parte un faz zoletto lurido e qualche spicciolo, c'erano soltanto quattro cartucce per la doppietta e la chiave magnetica per aprire la porta del magaz zino, quella che Daniel gli aveva visto usare. Poteva essere utile. Ormai certo di aver reso molto difficile alla polizia il riconosci mento del cadavere, se mai fosse stato trovato, Daniel fece rotolare Chawe fino al bordo del fiume, con il braccio fratturato che sbatte va e s'impigliava, e lo spinse nelle acque turbinose. Vide il cadavere sollevare uno spruzzo di spuma e roteare via, trasportato dalla corrente che lo fece sparire oltre un'ansa. Si augu rò che s'impigliasse nelle profondità più inaccessibili della gola ab bastanza a lungo perché i coccodrilli potessero fare un buon pasto e rendere l'identificazione ancora più complicata. Quando fu risalito in cima al dirupo ed ebbe raggiunto il Land Cruiser, ebbe l'impressione che il braccio andasse a fuoco. Sedette al volante, mise la cassetta del pronto soccorso sul sedile accanto,
strappò via la manica incrostata di sangue e fece una smorfia. Le unghiate non erano profonde, ma già lasciavano sgocciolare un li quido giallo e acquoso mentre la carne era gonfia e cremisi. Coprì le lacerazioni con uno strato di pasta di Betadine e le fa sciò; poi riempi una siringa di antibiotico a largo spettro e se l'iniet tò nel bicipite sinistro. Impiegò diverso tempo. Erano quasi le otto quando controllò di nuovo l'orologio. Tornò a marcia indietro lungo il sentiero e s'im mise sulla strada. Passò lentamente lungo il precipizio. Le impronte dei pneumatici e delle scarpe spiccavano nitide sulla terra molle. Pensò di cancellarle, e poi ricordò il carnionista che l'aveva visto fermo in quel punto. « Sono rimasto qui anche troppo », decise. « Se voglio fermare Chetti Singh, devo tornare a Lilongwe. » E si mise in viaggio verso la capitale. Quando si avvicinò alle aree urbane, il traffico diventò più in tenso. Daniel guidava adagio per non attirare l'attenzione. Molti dei veicoli che incontrava erano Land Rover o Toyota, quindi il suo fuoristrada non dava nell'occhio. Ma era pentito dell'impulso di va nità che l'aveva indotto a mettere in vista il suo stemma personale. « Non pensavo che sarei dovuto sfuggire alla giustizia », mormo rò. Ma sapeva che non poteva farsi vedere in giro per Lilongwe con il Land Cruiser. Andò all'aeroporto e lo lasciò nel parcheggio pubblico. Prese la borsa da toeletta e una camicia dal bagaglio e andò nel gabinetto degli uomini per ripulirsi. Fece un involto della camicia e del ma glione strappati e macchiati di sangue e li buttò nel bidone dell'im mondizia. Anche se la ferita faceva ancora male, preferiva non toc carla. Si rasò e indossò la camicia con le maniche lunghe per na scondere la fasciatura. Si guardò allo specchio: aveva un'aria abbastanza rispettabile. Si avviò verso le cabine telefoniche dell'atrio. Era appena atterrato un aereo della South African Airways in arrivo da Johannesburg e l'atrio era invaso dai turisti e dai loro ba gagli. Nessuno gli badava. Il numero per le chiamate urgenti alla polizia era bene in vista sulla parete, sopra il telefono. Per alterare la voce mise un fazzoletto piegato sul microfono e parlò in swahili. « Voglio denunciare una rapina e un omicidio », comunicò alla centralinista. « Mi passi un funzionario, subito. » « Qui è l'ispettore Mopola », disse una voce profonda e autorita ria. « Ha informazioni su un omicidio? » « Mi ascolti attentamente », disse Daniel, sempre in swahili. « Non ripeterò. L'avorio rubato nel parco nazionale di Chiwewe è qui a Lilongwe. Almeno otto persone sono state assassinate nel cor so della rapina. Le zanne rubate sono nascoste dentro le casse di tè nel magazzino della Chetti Singh Trading Company nella zona in dustriale. E meglio che vi sbrighiate. Presto le porteranno via. » « Chi parla? » chiese l'ispettore. « Non ha importanza. Vada là in fretta e troverà l'avorio », con cluse Daniel, e riattaccò. Andò all'ufficio dell'Avis. L'impiegata gli rivolse un sorriso gentile e gli assegnò una Golf Volkswagen blu. « Mi dispiace. Senza una prenotazione non disponiamo d'altro. » Prima di lasciare il parcheggio, Daniel si fermò accanto al Land Cruiser impolverato e, senza dare nell'occhio, trasferì la doppietta avvolta in un telo nel baule della Volkswagen. Poi recuperò il bino colo Zeiss. Mentre si allontanava, si voltò a guardare per assicurarsi che il Land Cruiser fosse ben nascosto in fondo al parcheggio affol lato, in modo da sfuggire a un'indagine poco accurata. Si tenne sul lato meridionale della ferrovia e arrivò al mercato all'aperto che aveva notato durante la precedente esplorazione della città. Alle dieci e mezzo del mattino il mercato era pieno di venditori
che offrivano le loro merci e di compratori che discutevano sul prezzo. Tutto intorno erano fermi a dozzine furgoni e minibus. Era una copertura. Daniel parcheggiò la piccola Volkswagen blu in mez zo agli altri veicoli. Il mercato era in un tratto abbastanza elevato e si affacciava sulla ferrovia e sulla zona industriale. Si trovava a meno di ottocento metri dal magazzino di Chetti Singh e dall'officina della Toyota: era così vicino che poteva leggere a occhio nudo le scritte colossali del cartello. Il binocolo Zeiss gli permise di vedere chiaramente la facciata del magazzino e la porta principale. Quasi riusciva a distinguere le espressioni degli uomini che lavoravano sulle rampe di carico. Una processione regolare di camion entrava e usciva dai cancel li. Riconobbe fra gli altri il grosso veicolo con rimorchio. Ma non si vedeva ancora traccia della polizia, anche se erano passati quaranta minuti dalla sua telefonata. « Avanti, sbrigatevi. Datevi una mossa », mormorò spazientito. In quel momento vide una piccola locomotiva avanzare sbuffando sul binario verso lo scambio e la derivazione che entrava nel deposi to. Viaggiava a marcia indietro, e il macchinista si sporgeva dal fi nestrino. Quando la locomotiva si avvicinò, uno dei guardiani spalancò il cancello della recinzione e la lasciò passare. Entrò nel magazzino e Daniel la perse di vista; ma dopo pochi secondi sentì il leggero, ca ratteristico clangore metallico. I vagoni venivano agganciati. Vi fu un'altra attesa, quindi la locomotiva uscì dal magazzino trainando tre vagoni. Accelerò gradualmente mentre i carri pesanti prendeva no velocità. I carri merci erano coperti da teloni. Daniel li scrutò con lo Zeiss ma non riuscì a capire se nascondevano le casse di tè. Abbassò il binocolo e batté il pugno sul volante con un gemito di frustrazione. Dove diavolo era la polizia? Era passata almeno un'ora e mezzo da quando aveva telefonato ma, probabilmente, sa rebbe stato necessario anche più tempo per ottenere un mandato di perquisizione. « Dev'essere l'avorio », borbottò. « Non c'erano altri carichi in partenza sulla rampa. E l'avorio, sono pronto a scommetterlo, ed è diretto a Taivvan. » La locomotiva stava trainando lentamente i tre vagoni lungo la derivazione, verso la linea ferroviaria e lo scalo merci. Ma doveva passare molto vicina al punto dov'era parcheggiato Daniel, al mar gine del mercato. Daniel avviò la Volkswagen e s'immise sulla strada. Accelerò, incrociò un grosso camion e si lanciò verso il passaggio a livello che la locomotiva doveva attraversare per arrivare allo scalo. Il fanale rosso era acceso, la campanella suonava, e la sbarra si stava abbas sando davanti a lui, costringendolo a fermarsi. La locomotiva passò rombante davanti alla Volkswagen, quasi a passo d'uomo. Daniel tirò il freno a mano, lasciò il motore acceso, balzò in strada e passò sotto la sbarra. Il primo vagone gli stava passando accanto, così vicino da poterlo toccare. La lettera di vettura della ferrovia era infilata nel portacarte sul lato del carro ferroviario, e Daniel la lesse facilmente quando la vi de sfilare adagio sotto i suoi occhis DESTINATARIO: LUCKY DRAGON INVESTMENTS co. Destinazione: Taivvan via Beira Carico: 250 casse di tè. L'ultimo dubbio era svanito. Daniel seguì rabbiosamente con gli occhi il treno che si allontanava. Stava portando via l'avorio sotto il suo naso. Il fanale rosso si spense, la campana tacque e la sbarra si alzò mentre la locomotiva si allontanava ancora di più. Subito i condu centi dei veicoli in coda dietro la Volkswagen cominciarono a suo nare il clacson e a far lampeggiare i fari, spazientiti.
Daniel risalì in macchina e proseguì. Svoltò nella prima strada a sinistra, fiancheggiando i binari, e parcheggiò in un punto che gli permetteva di vedere lo scalo merci. Osservò con il binocolo mentre i tre vagoni venivano agganciati in coda a un lungo convoglio merci. Infine venne aggiunto il vagone del personale viaggiante e il treno uscì dallo scalo. Trainato da una locomotiva più grossa, partì per il Mozambico e il porto di Beira, distante ottocento chilometri, sulle rive dell'oceano Indiano. Non poteva far nulla per impedirlo. Gli passarono per la mente le fantasie più assurde; assaltare il treno, precipitarsi alla stazione di polizia ed esigere un'azione immediata prima che fosse troppo tardi e che il treno varcasse il confine. Invece tornò al suo punto d'osser vazione, accanto al mercato all'aperto, e riprese a sorvegliare il ma gazzino. Era stanco e depresso, e quella notte non aveva dormito. Aveva il braccio dolorante e rigido. Sciolse la benda e vide con sollievo che non c'erano più tracce evidenti d'infezione. Le lacerazioni comin ciavano a coprirsi di croste: non avrebbe potuto sperare di meglio. Rimise a posto la fasciatura. Mentre teneva d'occhio il magazzino, cercò di farsi venire in mente qualche modo per bloccare il carico d'avorio. Ma sapeva di avere le mani legate. C'era di mezzo la morte di Chawe. Chetti Singh non doveva far altro che puntare l'indice contro di lui perché venisse accusato d'omicidio. Non osava tirarsi addosso l'attenzione delle autorità. Mentre attendeva pensò a Johnny Nzou, a Mavis e ai loro figli, e il profondo dolore che lo pervase non fece che accrescere l'odio verso i loro assassini. Quasi due ore dopo la partenza del merci, notò un'improvvisa attività intorno al magazzino. La Cadillac verde di Chetti Singh si fermò davanti al cancello, seguita da due Land Rover grigi della po lizia carichi di agenti in uniforme. Ci fu una breve discussione con i guardiani, poi i tre veicoli en trarono e si fermarono accanto alla porta aperta del magazzino. Undici poliziotti comandati da un ufficiale smontarono dal Land Rover. L'ufficiale parlò a Chetti Singh, fermo accanto alla Cadil lac. Daniel, che osservava la scena con il binocolo, notò che il sikh era tranquillo. Il turbante bianco era immacolato. L'ufficiale condusse i suoi uomini nel magazzino e ne uscì dopo un'ora a fianco di Chetti Singh. Gesticolava e parlava: evidente mente si stava scusando, e il sikh sorrideva con noncuranza. Alla fi ne gli strinse la mano con molta magnanimità. I poliziotti risalirono sui Land Rover e ripartirono. Chetti Singh, fermo accanto alla Cadillac verde, li seguì con gli occhi. Da niel, che lo scrutava con il binocolo, vide che non sorrideva più. « Bastardo! » sibilò Daniel. « Non te la sei ancora cavata. » Riu scì a dominare la collera e a valutare razionalmente la situazione. Poteva fermare il carico prima che lasciasse il paese? Quasi subi to rinunciò all'idea. Sapeva che il merci non avrebbe fatto soste e sarebbe arrivato al confine in poche ore. E se l'avesse intercettato nel porto di Beira, prima che venisse caricato su un mercantile diretto in Estremo Oriente? Era una possi bilità migliore, ma comunque troppo remota. Da quel che sapeva sul conto di Chetti Singh, era chiaro che la sua rete d'influenza e corruzione si estendeva in molti altri paesi dell'Africa centrale, sicu ramente nello Zimbabwe e nello Zambia... e, perché no? nel Mo zambico, uno degli stati più caotici e corrotti del continente. Era certo che da quel magazzino passava una quantità ingente di merce di contrabbando, e che Chetti Singh si era assicurato i contat ti con il resto del mondo. Dato che il Malawi era uno stato senza sbocchi sul mare, i collegamenti dovevano includere la capitaneria di porto, l'esercito, la polizia e la dogana del Mozambico. Erano tutti pagati da Chetti Singh e lo proteggevano. Comunque, decise,
sarebbe valsa la pena di tentare. Andò alla posta centrale. Era molto difficile che la polizia mala wana disponesse delle apparecchiature sofisticate necessarie per rin tracciare in fretta una telefonata; ma anche stavolta adottò la pre cauzione di fare una comunicazione breve, smorzare la voce con un fazzoletto e parlare in swahili. « Dica all'ispettore Mopola che l'avorio rubato è stato spedito dal magazzino alle undici e trentacinque su un merci diretto a Beira. E nascosto nelle casse di tè destinate alla Lucky Dragon Investments Company di Taipei. » Prima che la centralinista della polizia avesse il tempo di chie dergli come si chiamava, Daniel riattaccò. Si avviò verso un piccolo emporio dall'altra parte della strada. Se la polizia non avesse fatto nulla, sarebbe toccato a lui agire. Acquistò un pacchetto di fiammiferi di sicurezza, un rotolo di nastro adesivo, una scatola di spirali antizanzare e due chili di carne trita surgelata. Poi tornò al Capital Hotel. Appena entrò nella sua stanza si accorse che qualcuno l'aveva perquisita e, aperta la valigia di tela, vide che anche il contenuto era stato messo sottosopra. « Non c'era niente per Chetti Singh », pensò con rabbiosa soddi sfazione. Aveva depositato il passaporto e i traveller's cheque nella cassaforte dell'albergo; ma la perquisizione della camera conferma va l'idea che s'era fatto del sikh. « Non è soltanto un duro, è anche furbo. E organizzato e finora non ha sbagliato un colpo. Vediamo se posso dargli qualche grattacapo; ma prima ho bisogno di dormire un po'. » Cambiò la fasciatura al braccio, si fece un'altra iniezione di an tibiotico, e si buttò sul letto. Dormì fino all'ora di cena. Poi fece la doccia e si cambiò. Ades so si sentiva rinvigorito e più ottimista. Il braccio doleva meno ed era meno rigido. Pareva che la sua mente avesse continuato a lavo rare anche mentre dormiva, perché ora i dettagli erano chiari Se dette alla scrivania e mise davanti a sé ciò che aveva acquistato. Ac cese un'estremità della spirale antizanzare e lasciò che bruciasse mentre lavorava, calcolando quanto tempo impiegava a consu marsi. Aprì il coltello a serramanico e staccò le capocchie dei fiammife ri di sicurezza. Usò l'intero pacchetto e buttò gli stecchi decapitati nel cestino. Rimise le capocchie nella carta e chiuse il tutto con il nastro adesivo. Confezionò un pacchetto grosso quanto il suo pugno: una picco la, funzionale bomba incendiaria. Controllò la velocità con cui bru ciava la spirale antizanzare: all'incirca cinque centimetri in mezz'o ra. Il fumo acre dell'insetticida lo fece starnutire: lo portò nel ba gno e lo gettò nel gabinetto. Tornò alla scrivania e tagliò due spirali lunghe dodici centimetri e mezzo, in modo che lasciassero uno spazio di tempo un po' supe riore a un'ora. Erano le micce della bomba: una doveva servire co me garanzia se l'altra non avesse fatto il suo dovere. Perforò il pac chetto con le capocchie, inserì le estremità delle spirali nelle apertu re e le fissò scrupolosamente con il nastro adesivo. Poi scese al ristorante e si concesse una buona cena innaffiata da mezza bottiglia di Chardonnay. Dopo cena, cercò l'indirizzo dell'abitazione di Chetti Singh nel l'elenco del telefono, e rintracciò la strada sulla piantina della città, premurosamente fornita dalla Camera di commercio di Lilongwe. Infine andò a prendere la Volkswagen nel parcheggio dell'alber go e si avviò per le strade quasi deserte. Passò davanti alla facciata illuminata del supermercato di Chetti Singh e fece il giro dell'isola to. Nel vicolo dietro il fabbricato notò i sacchi della spazzatura e gli scatoloni vuoti accatastati contro il muro del supermercato, in atte sa del passaggio dei netturbini. Sorrise soddisfatto quando vide sul
muro, sopra i mucchi dei rifiuti, il rivelatore di fumo del sistema antincendio. Proseguì per l'aeroporto. Il Land Cruiser, adesso, era ben visibi le nel parcheggio semideserto. Diede dieci kwacha all'inserviente e gli raccomandò di tenerlo d'occhio. Poi aprì il portellone posteriore e frugò nella cassetta dei medicinali fino a che trovò il flacone di plastica dei sonniferi. Parcheggiò sotto un lampione e aprì il sacchetto di carne che nel frattempo s'era scongelata. Ruppe con le unghie a una a una circa cinquanta capsule di sonnifero e versò sulla carne la polvere bianca. Basterebbe per addormentare un elefante, pensò soddisfatto, e mischiò la polvere alla carne macinata. Si diresse verso la casa di Chetti Singh, nell'elegante sobborgo dietro il palazzo del governo e i principali edifici ministeriali. Era la casa più lussuosa della strada, circondata da più di un ettaro di pra ti e cespugli fioriti. Parcheggiò la Volkswagen più avanti, in un trat to non illuminato, e tornò indietro lungo il marciapiedi. Quando arrivò alla recinzione della residenza di Chetti Singh, due sagome scure si staccarono dalle ombre e si avventarono contro la rete. Erano due rottweiler e gli abbaiavano furiosamente contro. Dopo le iene, erano gli animali che detestava di più. I cani conti nuarono a seguirlo passo passo dall'altra parte della recinzione. Passando davanti al cancello vide che il lucchetto della catena era d'un modello piuttosto semplice: due minuti di lavoro con un fermaglietto. Lasciò i due rottweiler che lo guardavano con aria famelica e svoltò l'angolo per entrare in una buia strada laterale. Prese dalla tasca il pacchetto di carne drogata e lo divise in due porzioni eguali. Poi tornò indietro. I cani lo aspettavano. Buttò una porzione oltre la rete e uno dei due la fiutò e la trangugiò. Daniel gettò l'altra por zione al secondo rottweiler e restò a guardarlo mentre la divorava. Poi tornò alla Volkswagen e ripartì. Parcheggiò a un isolato di distanza dal supermercato. Accese le estremità delle spirali antizan zare che sporgevano dal sacchetto con le capocchie dei fiammiferi, soffiò delicatamente per assicurarsi che bruciassero a dovere, quindi scese dall'auto e si incamminò nel vicolo dietro il supermercato. Era buio e deserto. Daniel rallentò appena e lasciò cadere la bomba incendiaria in uno degli scatoloni ammucchiati, e uscì dal vi colo. Risalì sulla Volkswagen e controllò l'ora: mancavano pochi mi nuti alle dieci. Tornò indietro e parcheggiò a tre isolati dalla casa di Chetti Singh. Calzò i guanti di pelle nera. Prese sotto il sedile la doppietta calibro 12 ancora avvolta nel telo, la smontò in tre parti e le pulì meticolosamente per assicurarsi che non ci fossero impronte. Poi rimontò le canne sul corpo dell'arma. Quando scese dall'auto infilò le canne dentro una gamba dei pantaloni e nascose il calcio sotto il giubbotto di pelle. Le canne ostacolavano il passo, ma era meglio zoppicare un po' anziché girare armato per le strade. Non sapeva se la polizia avesse il compito di fare un giro di ronda nella zona. Si frugò in tasca per assicurarsi di avere le cartucce e la chiave magnetica del magazzino che aveva preso a Chawe. Poi si avviò zoppicando alla casa del sikh. Non trovò i cani da guardia ad attenderlo quando arrivò all'an golo. Non comparvero neppure quando fischiò per chiamarli. Il sonnifero li aveva messi fuori combattimento. Al cancello impiegò meno dei due minuti previsti per scassinare il lucchetto. Lasciò il cancello spalancato e avanzò senza far rumore sul prato, evitando la ghiaia scricchiolante del viale. Si aspettava che un guardiano notturno lo fermasse. Anche se il Malawi non era un paese selvaggio e senza legge come lo Zambia, poteva comunque esserci un custode. Ma sembrava che Chetti Singh avesse più fiducia negli animali che negli uomini.
Nessuno lo fermò. Al riparo di una buganvillea osservò la casa. Era bassa, stile ranch, con grandi vetrate quasi tutte chiuse da tende e illuminate. Ogni tanto vedeva le ombre che si muovevano, e pote va distinguere fra la sagoma di mamma Singh e quelle più eteree delle figlie. Il garage doppio era annesso alla costruzione. Una delle porte era aperta, e lasciava scorgere la lucida carrozzeria cromata della Cadillac. Chetti Singh era in casa. Daniel rimase nell'ombra: rimontò il fucile e lo caricò con due cartucce SSG. A distanza ravvicinata potevano spezzare in due un uomo. Mise la sicura. Girò il quadrante dell'orologio verso la luce della finestra: entro una ventina di minuti più o meno, secondo la rapidità con cui bruciavano le spirali antizanzare, il pacchetto di ca pocchie di fiammiferi sarebbe esploso in una fulgida fiamma fosfo rosa. Il mucchio di immondizia avrebbe preso fuoco e, nel giro di pochi secondi, l'impianto antincendio sarebbe scattato. Daniel si mosse in fretta attraverso il prato, sorvegliando le fine stre della casa. La ghiaia scricchiolò un poco sotto i suoi passi. Ar rivò nel garage e si tese, aspettandosi grida e chiasso. Non successe nulla. Controllò le portiere della Cadillac: erano tutte bloccate. Nel muro del garage, sul lato del posto di guida, una porta co municava con la casa. Chetti Singh doveva passare da lì. Probabil mente dovevano trascorrere ancora quindici minuti prima che arri vasse l'allarme e che Chetti Singh si precipitasse in garage per corre re sul luogo dell'incendio. Era una lunga attesa, e Daniel si sforzò di non pensare alla moralità di ciò che si accingeva a fare. L'uccisione di Chawe era stata un atto di legittima difesa: Da niel aveva ucciso intenzionalmente altre volte, durante la guerra nel la boscaglia. Ma, a differenza di altri, non ne aveva mai ricavato soddisfazione. Sebbene facesse il suo dovere di soldato, dopo ogni episodio, la nausea e il rimorso si accumulavano dentro di lui. Il senso di colpa aveva contribuito in modo decisivo al rifiuto dell'eti ca della guerra che l'aveva spinto a entrare nell'Alpha Group. Tuttavia era pronto a uccidere ancora, a sangue freddo e con premeditazione. Le vittime senza nome che aveva lasciato insangui nate nel veld erano, dal loro punto di vista, negri coraggiosi e forse più coraggiosi di lui, pronti a morire per le loro idee. Alla fine, era no riusciti là dove lui aveva fallito. Anche se erano morti da molto tempo, i loro ideali brillavano ancora mentre i suoi erano svaniti. La Rhodesia per cui aveva combattuto non esisteva più. Per lui, le uccisioni di quel passato erano state un rituale osceno, freddo e amorale. D'altra parte, poteva giustificare quanto stava per fare in ricor do di Johnny Nzou? Poteva convincersi della giustizia dei suoi atti, diventare carnefice quando nessun giudice aveva pronunciato una sentenza? La rabbia che gli ardeva dentro era sufficiente per arriva re sino in fondo? Poi ricordò Mavis Nzou e i suoi figli, e il fuoco divampò. Non poteva fermarsi. Doveva farlo. Sapeva che sarebbe stato sopraffat to dal rimorso quando il fuoco della collera si fosse ridotto in cene re: ma doveva farlo. Sentì lo squillo di un telefono nella casa. Si scrollò come un cocker che esce dall'acqua, sbarazzandosi di dubbi e incertezze. Strinse la doppietta e l'imbracciò. Al di là della porta giunse un passo frettoloso. La serratura girò e l'uscio si spalancò. Entrò un uomo. Aveva la luce alle spalle e per un momento Daniel non riconobbe Chetti Singh senza il turbante. Si fermò accanto alla Cadillac. Le chiavi tintinnarono quando cercò la serratura: imprecò sommessamente perché non la trovava, e si voltò per far scattare l'interruttore. La luce inondò il garage. Chetti Singh era a testa nuda. I capelli e la barba mai tagliati erano avvolti in una crocchia sulla sommità del capo e leggermente
striati di grigio. Voltava ancora le spalle a Daniel mentre sceglieva la chiave e la inseriva nella serratura della portiera. Daniel gli si accostò e gli premette contro la schiena le canne del la doppietta. « Non faccia gesti eroici, signor Singh. Il signor Pur dey sta fissando la sua spina dorsale. » Chetti Singh rimase immobile, poi girò lentamente la testa e guardò Daniel con aria sbalordita. « Credevo... » disse, e poi tacque. Daniel scosse la testa. « Non è andata come credeva. Chawe non era molto sveglio. Avrebbe dovuto licenziarlo tempo fa, signor Singh. Adesso giri intorno alla macchina, lentamente. Non perdia mo la dignità. » Sospinse il sikh con la doppietta, abbastanza forte per causargli un livido attraverso la leggera camicia di cotone, l'unico indumento che portava oltre ai pantaloni kaki e ai sandali. Si vedeva che s'era vestito in fretta. Passarono davanti allo sfavillante radiatore della Cadillac e arri varono alla portiera, dal lato del passeggero. « Apra e salga », ordinò Daniel. Chetti Singh sedette sul sedile di cuoio e fissò le canne della dop pietta a pochi centimetri dalla sua faccia. Sudava più di quanto lo giustificasse l'aria calda della notte: numerose stille brillavano sul naso adunco e scorrevano sulle guance, per perdersi nella barba in trecciata. Esalava un odore di spezie e di paura, ma c'era una scin tilla di speranza nei suoi occhi quando porse le chiavi della Cadillac a Daniel attraverso la portiera aperta. « Vuol guidare lei? Ecco le chiavi: prenda. Mi metto nelle sue mani, assolutamente. » « Molto furbo, signor Singh. » Daniel sorrise con freddezza. « Ma non resterà separato dal signor Purdey neppure per un mo mento. Adesso si sposti al volante, adagio. » Chetti Singh si mosse goffamente, borbottando, e Daniel lo so spinse con la doppietta. « Ecco. Così va bene, signor Singh. » Daniel sedette al posto del passeggero mentre il sikh si metteva al volante. Tenne l'arma sulle ginocchia, invisibile per un osservatore casuale, ma con le canne puntate allo stomaco del sikh. Chiuse la portiera con la mano li bera. « Bene. Metta in moto. Esca. » Quando i fari spazzarono i prati, illuminarono uno dei rottwei ler disteso sull'erba. « I miei cani... mia figlia gli è molto affezionata. » « Sono molto dispiaciuto », disse Daniel. « Comunque il cane è addormentato, non morto. » Raggiunsero la strada. « Il mio supermercato sta bruciando. Credo che sia opera sua, dottore. E un investimento di parecchi mi lioni. » « Le rinnovo il mio dispiacere. La vita è dura, signor Singh, ma immagino che lo sarà più per l'assicurazione che per lei. Adesso va da al magazzino, prego. » « Al magazzino? Quale magazzino? » « Dove ci siamo incontrati io, lei e Chawe, signor Singh, quel magazzino. » Chetti Singh svoltò nella direzione giusta; ma continuava a su dare. L'odore del curry e dell'aglio era fortissimo nell'abitacolo del la Cadillac. Con la mano libera, Daniel regolò il condizionatore. Non parlarono più, Chetti Singh continuava a guardare lo spec chietto retrovisore: evidentemente sperava di trovare qualcuno che potesse aiutarlo. Ma le strade erano deserte... fino a quando si fer marono a un semaforo all'ingresso dell'area industriale. La luce dei fari inondò l'interno da tergo e un Land Rover si fermò al loro fianco. Era grigio e quando Daniel lo guardò, scorse i berretti a vi siera di due poliziotti.
Sentì Chetti Singh irrigidirsi. Furtivamente, il sikh allungò le di ta verso la maniglia della portiera. « Per favore, signor Singh », disse garbatamente Daniel. « Non lo faccia. Il sangue e gli intestini sugli interni in pelle rovinerebbero il valore della sua Caddie. » Chetti Singh si afflosciò. Uno dei poliziotti, adesso, li stava guardando. « Gli sorrida », ordinò Daniel. Il sikh girò la testa e mostrò i denti come un cane rabbioso. Il poliziotto distolse in fretta lo sguardo. Il semaforo scattò e il Land Rover ripartì. « Li lasci andare avantì », ordinò Daniel. Al primo incrocio la macchina della polizia svoltò a sinistra. « Bravo », si congratulò Daniel. « Sono contento di lei. » « Perché mi sta vittimizzando in questo modo barbaro, dot tore? » « Non rovini tutto facendo domande facete », ribatté Daniel. « Sa bene perché lo faccio. » « L'avorio non le interessava certamente, dottore. » « Il furto dell'avorio interessa a tutti gli uomini onesti. Ma ha ragione. Non è il motivo principale. » « La faccenda di Chawe. Non era un fatto personale. Lei se l'era cercata. Non può biasimarmi perché ho tentato di proteggermi. So no molto ricco, dottore. Sarò lieto di risarcirla dei danni subiti dalla sua persona e dalla sua dignità. Discutiamo una cifra. Diecimila dollari... americani, naturalmente », balbettò Chetti Singh. « E la sua ultima offerta? Mi sembra veramente irrisoria, signor Singh. » « Sì, ha ragione. Diciamo venticinquemila... no, facciamo cin quanta. Cinquantamila dollari americani. » « Johnny Nzou era uno dei miei migliori amici », disse Daniel a voce bassa. « Sua moglie era una donna adorabile, e avevano tre bambini, due femminucce e un maschietto. Il bambino si chiamava Daniel come me. » « Proprio non capisco, non importa. Chi è Johnny Nzou? » chie se il sikh. « Facciamo cinquantamila anche per lui. Centomila dolla ri americani. Glieli darò e lei se ne andrà. Dimentichiamo questa stupidaggine. Non è successo niente. Ho ragione, dottore? » « E un po' tardi, signor Singh. Johnny Nzou era il direttore del parco nazionale di Chiwewe. » Chetti Singh esalò un respiro, lentamente. « Mi addolora moltis simo, dottore. Non erano i miei ordini... » Nella voce tremava il pa nico. « Io non c'entro affatto. E stato... è stato il cinese. » « Mi parli del cinese. » « Se glielo dico, giura di non farmi niente? » Daniel mostrò di riflettere a lungo. « Sta bene », disse poi, an nuendo. « Andremo nel suo magazzino, dove potremo chiacchierare indisturbati. Mi dirà tutto quel che sa di Ning Deng Kong, e io la lascerò subito andare. Illeso. » Chetti Singh si voltò a guardarlo nella luce riflessa della plancia. « Mi fido di lei, dottor Armstrong. Credo che sia un uomo onesto. Credo che manterrà la parola. » « Alla lettera, signor Singh », gli assicurò Daniel. « Adesso pro segua verso il magazzino. » Passarono davanti alla segheria. Il cortile con le cataste del le gname era illuminato e gli operai erano al lavoro nei capannoni. Lo stridore delle seghe che tagliavano il legname penetrava nell'abita colo della Cadillac. « Gli affari devono andar bene, signor Singh. Vedo che fa i turni di notte. » « Ho un grosso carico che deve partire per l'Australia alla fine della settimana. » « Immagino che vorrà sopravvivere abbastanza a lungo per go dersi i profitti. Continui a collaborare. »
In fondo alla strada, il magazzino era al buio. Chetti Singh si fermò al cancello. La guardiola era deserta e le luci erano spente. « Guida a sinistra », disse Chetti Singh indicando i comandi della Cadillac con una scrollata di spalle. « Deve azionare il cancello dalla sua parte. » Porse una chiave magnetica come quella che Daniel aveva preso dal cadavere di Chawe, e premette il tasto dell'alzacri stalli elettrico per abbassare il vetro. Daniel si sporse per inserire la chiave nel quadro dei comandi. La sbarra si alzò e si riabbassò automaticamente dopo il passaggio della macchina. « Il leopardo da guardia deve farle risparmiare parecchi stipen di. » Il tono di Daniel era blando, ma continuava a premere la dop pietta contro le costole del sikh. « Comunque, non capisco come lo abbia fatto diventare così feroce. Se non sono provocati, i leopardi non attaccano gli uomini, di solito. » « E vero. » Chetti Singh era più tranquillo, ora che s'erano ac cordati. Non sudava più, anzi ridacchiò. « Me l'ha consigliato chi me l'ha venduto. Ogni tanto è necessario dargli una ripassatina, non importa. Uso un ferro rovente sotto la coda... » Rise di nuovo, stavolta con autentico divertimento. « Santo cielo, come si arrabbia. Dovrebbe sentire che baccano. » « Lo tormenta apposta per incattivirlo? » chiese Daniel, inorridi to. Il suo tono tradiva disprezzo e disgusto, e Chetti Singh s'inal berò. « Voi inglesi e il vostro amore per gli animali! E solo un adde stramento per renderlo più efficiente. Sono ferite superficiali che si rimarginano in fretta. » Si fermarono davanti al magazzino. Anche questa volta Daniel si servì della chiave magnetica per aprire la porta scorrevole. Passa rono e la porta si richiuse dietro di loro. « Si fermi sulla rampa di carico », ordinò Daniel. I fari investiro no le travi e i pannelli ondulati delle pareti in fondo all'enorme co struzione. Il pavimento era sempre ingombro di un incredibile as sortimento di merci. Per un istante, il leopardo fu inquadrato nel fascio luminoso quando la Cadillac salì la rampa e i fari puntarono verso l'alto. Il grosso felino era accovacciato in cima a una catasta di casse. Quan do la luce lo colpì, si acquattò e contrasse le labbra in un ringhio, mostrando i canini. Poi sparì dietro il mucchio di casse. « Ha visto la ferita al muso? » chiese il sikh in tono di virtuosa indignazione. « Gliel'ha fatta lei, eppure mi accusa di crudeltà, dot tor Armstrong. Quella belva è estremamente aggressiva e impossibi le da controllare, al momento. Forse dovrò farla uccidere. E troppo pericolosa anche per me e per i miei uomini. » « Basta così. » Daniel non raccolse il rimprovero. « Possiamo parlare qui. Spenga il motore e i fari. » Daniel accese la luce al cen tro del tettuccio: un chiarore sommesso si sostituì al crudo e bianco fascio luminoso dei fari. Rimasero per un po' in silenzio. Poi Daniel chiese a voce bassa: « Dunque, signor Singh, come e quando ha conosciuto Ning Deng Kong? » « Circa tre anni fa. Un amico comune mi disse che gli interessa vano l'avorio e altre merci che io potevo fornirgli », rispose il sikh. « Quali altre merci? » Quando vide che Chetti Singh esitava, Daniel lo pungolò con le canne della doppietta. « Vediamo di mantenere gli impegni presi », disse in tono blando. « Diamanti... » Chetti Singh cercò di scostarsi. « Dalla Namibia e dall'Angola. Smeraldi di Sandwana. Rari esemplari di tanzanite del le miniere di Arusha in Tanzania, qualche dagga dello Zululand... » « Sembra che lei abbia accesso a molte fonti di rifornimento, si gnor Singh. »
« Sono un uomo d'affari, dottore. Penso di essere abile, proba bilmente il migliore. Perciò il signor Ning si era rivolto a me. » « Nel comune interesse, immagino. » Chetti Singh alzò le spalle. « Lui poteva servirsi del corriere di plomatico. Spedizioni assolutamente sicure... » « Tranne quando la merce era troppo voluminosa », osservò Da niel. « Come l'ultimo carico d'avorio. » « Proprio così », ammise Chetti Singh. « Ma anche in questi casi le amicizie della sua famiglia sono state abbondantemente utili. Tai wan è un comodo entrepot. » « Mi spieghi i dettagli delle vostre transazioni. Date, merci, va lori... » « Sono state molte », protestò Chetti Singh. « Non posso ricor darle tutte. » « Mi ha appena detto d'essere un abile uomo d'affari. » Daniel lo pungolò di nuovo e il sikh cercò di evitare la doppietta. Ma era già schiacciato contro la portiera e non poteva più muoversi. « Sono sicuro che ricorda ogni transazione. » « E va bene », disse Chetti Singh. « La prima fu tre anni fa, all'i nizio di febbraio. Avorio per un valore di cinquemila dollari. Fu una prova, e andò bene. Alla fine di quel mese ci fu una seconda transazione: corni di rinoceronte e avorio, per sessantaduemila dol lari. Nel maggio dello stesso anno, smeraldi per quattrocentomila dollari... » Daniel, grazie al suo lavoro d'intervistatore, aveva acquisito un'ottima memoria e sapeva che avrebbe ricordato ogni dettaglio fi no a che avesse avuto la possibilità di metterli nero su bianco. Chet ti Singh parlò per una ventina di minuti, e finalmente concluse: « Poi c'è stata l'ultima spedizione, quella che conosce ». « Bene », Daniel annuì. « Arriviamo finalmente all'assalto di Chiwewe. Di chi è stata l'idea, signor Singh? » « Dell'ambasciatore. L'idea è stata sua », balbettò il sikh. « Credo che sia una menzogna. E molto improbabile che sapesse del deposito dell'avorio. La sua ubicazione non è nota al pubblico. Credo che fosse piuttosto il suo campo... » « E va bene », ammise Chetti Singh. « Lo sapevo da anni e aspet tavo l'occasione. Ma Ning mi ha detto che voleva fare un colpo grosso. Il suo mandato era quasi finito. Stava per ritornare in patria e voleva fare una buona impressione sulla famiglia e sul padre. » « Ma è stato lei a reclutare i bracconieri, no? Ning non avrebbe potuto farlo. Non aveva i suoi contatti. » « Non ho dato l'ordine di uccidere il suo amico. » La voce del sikh tremava. « Non volevo che succedesse. » « Aveva ìntenzione di lasciarli vivi perché raccontassero tutto e dicessero la verità su Ning alla polizia? » « Sì... no, no! E stata un'idea di Ning. Io non amo uccidere, dottore. » « Per questo mi ha mandato sulle montagne in compagnia di Chawe? » « No! Lei non mi aveva lasciato scelta, dottor Armstrong. La prego, deve capire. Sono un uomo d'affari, non un brigante. » « Bene. Lasciamo stare per il momento. Ora mi dica: quali erano gli altri accordi con Ning? Senza dubbio intendevate continuare una collaborazione tanto lucrosa anche dopo il suo ritorno a Taivvan. » « No! » « Non menta, per favore. O viene meno al nostro accordo? » Da niel gli piantò le canne contro le costole con tanta forza da skap pargli un grido. « Sì, va bene, la prego! Mi fa male. Non posso parlare se fa così. » Daniel allentò un poco la pressione. « Devo avvertirla, signor Singh, che sarei felice se mi offrisse il pretesto per venir meno al nostro contratto. Le due figlie di Johnny
Nzou avevano rispettivamente dieci e otto anni. I suoi uomini le hanno violentate. Il piccolo Daniel, il mio figlioccio, ne aveva quat tro. Gli hanno fracassato il cranio contro il muro. Non era un bel vedere. Sì. Sarei felice se si rimangiasse l'impegno. » « Non voglio sentire queste cose, dottore, la prego. Anch'io so no padre di famiglia. Deve credermi: non volevo... » « Parliamo di Ning anziché della sua sensibilità, signor Singh. Lei e Ning avete fatto progetti per il futuro, no? » « Abbiamo discusso certe possibilità », ammise Chetti Singh. « La famiglia Ning ha enormi interessi in Africa. Dopo quest'ultimo carico d'avorio, la posizione di Deng nella famiglia acquisterà im portanza. Deng prevede che il padre gli affiderà la divisione africa na della Lucky Dragon, la finanziaria della famiglia. » « E lei ha un ruolo in questi progetti, no? I suoi servizi specializ zati saranno molto richiesti. Senza dubbio ne avrà discusso con Ning. » « No... » Chetti Singh gridò di nuovo quando le bocche d'acciaio della doppietta affondarono nella carne. « La prego, dottore, non faccia così. Ho la pressione alta e questo comportamento incivile è gravemente pregiudizievole per la mia salute. » « Quali accordi ha con Deng? » insistette Daniel. « Dove opere rete, in futuro? » « Ubomo », strillò il sikh. « La Lucky Dragon conta di interveni re nell'Ubomo. » « L'Ubomo? » Il tono di Daniel tradiva la sorpresav « Il presiden te Omeru? » Lo Stato sovrano di Ubomo era uno dei pochi successi del conti nente. Come il Malawi, era annidato sulla scarpata della grande Rift Valley, un Paese montuoso, costellato da numerosi laghi, sito nella parte orientale dell'Africa, dove s'incontravano la savana e la foresta equatoriale. Come Hastings Banda, il presidente Omeru era un despota benevolo, che governava secondo la vecchia tradizione africana. Grazie a lui il Paese non aveva debiti e non era ancora di laniato dalle guerre tribali. Daniel sapeva che Omeru viveva in una semplice casetta di mat toni con il tetto di lamiera ondulata e guidava personalmente il suo Land Rover. Non amava i palazzi di marmo, le Mercedes nere e i jet privati. Andava alle riunioni dell'Organizzazione per l'unità afri cana volando in classe turistica per dare l'esempio al suo popolo. Era un faro di speranza, non certo il tipo che poteva trafficare con la Lucky Dragon. « Omeru? Non ci credo », disse Daniel in tono enfatico. « Omeru appartiene al passato. E vecchio e inutile. Si oppone ai cambiamenti e allo sviluppo. Presto sparirà; è tutto deciso. Presto ci sarà un personaggio nuovo nell'Ubomo, giovane e dinamico... » « E avido », soggiunse Daniel. « Cosa c'entrano, comunque, Deng e la Lucky Dragon? » « Non conosco i dettagli. Deng non si fida di me fino a questo punto. So soltanto che mi ha chiesto di piazzare i miei uomini nel l'Ubomo e di dare disposizioni. In vista del gran giorno. » « Quando? » « Non lo so, gliel'ho detto. Ma credo che sarà presto. » « Quest'anno? L'anno prossimo? » « Non lo so, dottore. Deve credermi. Non le ho nascosto nulla. Ho mantenuto il mio impegno. Ora deve mantenere il suo. Credo che sia un uomo d'onore, un gentiluomo inglese. E così, dottore? » « Qual è il nostro accordo, signor Singh? Mi rinfreschi la memo ria », chiese Daniel, senza attenuare neppure per un momento la pressione della doppietta. « Mi ha promesso che dopo che le avessi detto tutto sul conto di Deng mi avrebbe lasciato andare immediatamente, illeso. » « Finora le ho fatto qualcosa di male, signor Singh? » « No, finora no. » Ma Chetti Singh aveva ricominciato a sudare.
L'espressione del bianco era terribile. Daniel allungò il braccio e afferrò la maniglia della portiera. Fu un gesto così inaspettato che il sikh non ebbe la possibilità di reagi re. Stava rannicchiato contro la portiera per sottrarsi alla doppietta. « E libero di andarsene, signor Singh » disse Daniel a voce bassa. Con una mano spalancò la portiera della Cadillac; appoggiò l'altra sul petto del sikh e spinse con tutta la forza della collera e del di sgusto. La portiera si spalancò. Chetti Singh vi stava appoggiato con tutto il suo peso. La spinta lo scagliò all'esterno. Cadde riverso sul pavimento del magazzino e rotolò due volte su se stesso. Rimase im mobile, stordito e paralizzato dallo shock. Daniel chiuse la portiera della Cadillac e mise la sicura. Accese i fari. Per un momento niente cambiò. Chetti Singh era a terra e Da niel lo fissava, spietato, attraverso il vetro infrangibile. Nell'oscuri tà del magazzino si levò la voce roca del leopardo. Chetti Singh balzò in piedi e si buttò contro il fianco della Cadil lac, artigliando il vetro con le mani nude. La sua faccia era stra volta. « Non può farmi questo. Il leopardo... La prego, dottore. » La voce era attutita dal vetro, ma il panico la rendeva stridula e un filo di saliva gli colava dall'angolo della bocca. Daniel lo guardò con aria distaccata, le braccia conserte, i denti stretti. « Qualunque cosa », urlò Chetti Singh. « Le darò tutto quello che vuole... » Si guardò alle spalle e poi tornò a rivolgersi a Daniel con un'espressione di folle terrore. Aveva scorto l'ombra letale che si aggirava nel buio senza far rumore. « Denaro », disse in tono implorante, e batté sul vetro le palme rosee. « La prego, le darò tutto quello che vuole... Un milione di dollari. Le darò qualunque cosa. Mi lasci salire. La prego, la suppli co, dottore. Non mi lasci qui fuori. » Il leopardo proruppe in una violenta esplosione di suono, carica di minaccia. Chetti Singh si girò di scatto verso l'oscurità, rannic chiandosi contro la fiancata della macchina. « Vattene, Nandi! » La voce era uno strido acuto. « Via! Torna in gabbia! » Poi entrambi videro il leopardo acquattato nella corsia fra due muraglie di casse da imballaggio. Gli occhi, gialli e scintillanti, ri flettevano la luce dei fari. Agitava la coda in un ritmo ipnotico. Fis sava Chetti Singh. « No! » urlò il sikh. « No, non può lasciarmi a quella belva. La prego, dottore! La supplico! » Il leopardo contrasse il labbro in una smorfia silenziosa d'odio. Il sikh urinò in un getto che grondò lungo i pantaloni color kaki e formò una pozza sul cemento, davanti ai suoi piedh « Mi ucciderà! E inumano! La prego... Non può permetterlo... La prego, mi lasci salire. » All'improvviso i nervi del sikh saltarono. Si spinse lontano dalla Cadillac e corse verso la porta principale del magazzino, lontana una trentina di metri, nel buio fitto. Non aveva percorso neppure metà della distanza quando il felino gli piombò addosso. Gli arrivò alle spalle, serpeggiando sul pavimento, e balzò per avventarglisi contro. Per un momento, i due esseri sembrarono un'unica creatura grottesca con la gobba e due teste. Poi Chetti Singh fu scagliato in avanti dal peso della belva e cadde sul pavimento. L'uomo e l'ani male rotolarono insieme in un groviglio scalciante. Le urla di Chetti Singh si mescolarono ai ringhi del leopardov Per un momento il sikh si sollevò sulle ginocchia, ma il felino lo riassali e mirò alla faccia. Chetti Singh cercò di bloccarlo con le ma ni nude. Le affondò nelle fauci spalancate e il leopardo azzannò il polso.
Dall'interno della Cadillac, Daniel sentì le ossa spezzarsi come un tozzo di pane secco. Chetti Singh, gettò un urlo ancora più stri dulo. Spronato a uno sforzo sovrumano dalla sofferenza, si alzò con il leopardo che gli pendeva dal braccio. Si aggirò, barcollando, percuotendolo con il pugno e cercando di liberarsi. Le zampe posteriori della belva gli artigliavano le cosce e laceravano i pantaloni, il sangue e l'urina si mescolavano, mentre gli artigli giallastri dilaniavano la carne dall'inguine al ginocchio. Chetti Singh urtò contro una pila di scatoloni che gli grandina rono intorno. Poi non riuscì più a reggere il peso dell'animale. Stra mazzò di nuovo con il leopardo addosso, che continuava a graffiare e a mordere. I movimenti dell'uomo erano sempre più scoordinati Come un giocattolo elettrico con la batteria ormai quasi scarica, stava rallentando. Le urla diventavano più fievoli. Daniel si mise al volante della Cadillac. Quando accese il moto re, il leopardo balzò via dalla preda e fissò incerto il veicolo, sfer zando l'aria con la coda. A marcia indietro, Daniel scese lentamente la rampa di carico; poi manovrò con la Cadillac in modo da tenerla fra sé e il leopardo quando fosse sceso per accostarsi alla porta. Lasciò il motore e i fa ri accesi e scese. Fissò con fermezza il leopardo e arretrò di qualche passo fino al quadro dei comandi. La belva era a una trentina di metri, ma non gli staccò gli occhi di dosso mentre Daniel inseriva la chiave magnetica e la pesante porta si apriva con un rombo. Lasciò la chiave nella fenditura, buttò a terra la doppietta e varcò la porta a ritroso. Evitò di correre e di fare movimenti bruschi che avrebbero potu to provocare il leopardo, anche se la Cadillac avrebbe bloccato la carica: d'altronde, l'animale aveva già la sua vittima. Si trovò così al di fuori del cerchio d'attacco. Si voltò e si allontanò nella notte. Usò la chiave magnetica di Chawe per uscire sulla strada; chiuse il cancello alle sue spalle e co minciò a correre. Quando, la mattina dopo, avessero trovato Chetti Singh, sareb be apparso evidente che, per qualche misteriosa ragione, l'uomo, avvertito dall'allarme antincendio, era però andato nel posto sba gliato ed era stato attaccato dal suo leopardo proprio mentre apriva la porta del magazzino. La polizia avrebbe pensato che la guida a sinistra della Cadillac l'aveva costretto a scendere per far funziona re i comandi. Daniel non aveva lasciato impronte o altre prove che potessero incriminarlo. Quando arrivò all'angolo estremo della recinzione, si fermò e guardò indietro. I fari della Cadillac illuminavano ancora la porta aperta del magazzino. Vide una scura sagoma felina sfrecciare oltre il varco e lanciarsi in direzione della rete metallica. Il leopardo volò oltre la recinzione con l'agilità di un uccello. Daniel sorrise. Sapeva che la povera belva tormentata si sarebbe certamente diretta verso le montagne e le foreste. Dopo quel che aveva sofferto, pensò, meritava la libertà. In mezz'ora Daniel raggiunse la Volkswagen presa a nolo. Salì, andò all'aeroporto e la lasciò in uno dei parcheggi dell'Avis. Depo sitò le chiavi nell'apposita cassetta dell'ufficio, che a quell'ora era chiuso, e andò a prendere il Land Cruiser. Tornò al Capital Hotel e si affrettò a mettere la sua poca roba nella valigia di tela. Usò una cravatta come benda per sostenere il braccio. Gli sforzi di quella notte avevano aggravato la ferita. L'im piegato di turno accettò il pagamento con la carta di credito, e Da niel portò da solo la valigia al Land Cruiser. Non riuscì a dominare la curiosità, e passò davanti al supermer cato di Chetti Singh. Non c'erano danni, anche se, nel vicolo, due pompieri stavano ancora innaffiando il mucchio d'immondizie bru ciate e il muro macchiato di fumo, mentre una dozzina di abitanti
della zona, in pigiama o camicia da notte, assistevano all'opera zione. Daniel si avviò verso ovest e lasciò Lilongwe, imboccando la strada che conduceva al confine con lo Zambia. Erano tre ore di macchina. Accese la radio e si sintonizzò su Radio Malawi per ascoltare la musica e i notiziari. Era ormai vicino al confine quando il giornale radio delle sei diede la notizia: era la seconda, dopo la cronaca del crollo del muro di Berlino e l'afflusso all'ovest dei tedeschi orientali. « Qui a Lilongwe, un eminente uomo d'affari è stato selvaggia mente aggredito da un leopardo di sua proprietà. Il signor Chetti Singh, ricoverato d'urgenza all'ospedale, ora si trova nel reparto di terapia intensiva. Un portavoce dell'ospedale ha dichiarato che il si gnor Singh versa in condizioni molto critiche. Le circostanze non sono chiare, ma la polizia sta cercando un dipendente del signor Singh, un certo Chawe Gundwana che potrebbe essere utile nelle in dagini. Chiunque sappia dove si trova il signor Gundwana è pregato di riferirlo alla più vicina stazione di polizia. » Daniel spense la radio e si fermò davanti alla dogana. Si aspetta va qualche guaio. Poteva essere già arrivato l'ordine di fermarlo, soprattutto se Chetti Singh era in condizioni di parlare e aveva fatto iI suo nome alla polizia. Non aveva calcolato che il sikh potesse so pravvivere, contando sul fatto che il leopardo finisse il suo lavoro. Aveva sbagliato a spostare troppo presto la macchina, distraendo così la belva dalla vittima. Una cosa era certa: Chetti Singh avrebbe avuto bisogno di pa recchie trasfusioni di sangue. E in Africa questo comportava un ri schio ulteriore. Daniel canticchiò fra sé una versione personale del vecchio adagio: Cenere alla cenere, e polvere alla polvere. Se non l'ha ammazzato il leopardo, l'ammazzerà l'AIDS. Poi, con una certa trepidazione, consegnò il passaporto al posto di confine. Non avrebbe dovuto preoccuparsi. I poliziotti erano tut ti sorrisi e cortesie. « La vacanza nel Malawi è stata piacevole? Saremo sempre lieti di rivederla. Torni presto, signore. » Il vecchio Hastings Banda li aveva addestrati bene, e sicuramen te capivano il ruolo vitale del turismo per il loro paese. Non manife stavano il risentimento astioso dei poveri, così evidente in altre parti dell'Africa. Daniel mise un biglietto da cinque dollari dentro il passaporto quando si avvicinò al posto di confine zambiano che era a cento metri di distanza ma che, ai suoi occhi, sembrava rappresentare un balzo indietro nel medioevo.
Telefonò a Michael Hargreave meno di un'ora dopo l'arrivo a Lusaka, e Michael l'invitò a cena per quella sera. « E adesso dove andrai, specie di beduino errante? » chiese Wendy mentre gli serviva una seconda porzione del suo delizioso Yorkshire pudding. « Dio, che bella vita avventurosa e romantica è la tua! Devo assolutamente trovarti moglie: stai facendo diventare irrequieti tutti i mariti. Ti fermerai per molto tempo? » « Dipende da quello che può dirmi Michael di un comune cono scente, un certo Ning Deng Kong. Se è ancora a Harare, mi reche rò là. Se no, pazienza: andrò a Londra o forse a Taivvan. » « Sei ancora a caccia del cinese? » chiese Michael mentre stappa va una bottiglia di un discreto chiaretto deuxième cru, arrivata con il corriere diplomatico. « Possiamo sapere finalmente di cosa si tratta? »
Daniel lanciò un'occhiata a Wendy, che fece una smorfia. « Vuoi che vada in cucina? » « Non dire sciocchezze, Wendy. Non ho mai avuto segreti per te », disse Daniel, poi si rivolse a Michael. « Ho avuto la prova che è stato Ning Deng Kong a organizzare l'attacco al magazzino dell'a vorio di Chiwewe. » Michael, che si stava portando il bicchiere alle labbra, si fermò di colpo. « Oh, poveri noi. Adesso ho capito tutto. Johnny Nzou era tuo amico, lo ricordo. Ma... Ning? Sei sicuro? E un ambascia tore, non un gangster. » « E l'uno e l'altro », lo corresse Daniel. « Il suo complice è un sikh di Lilongwe, un certo Chetti Singh. Quei due hanno molti se greti: non soltanto l'avorio ma un po' di tutto, dalla droga ai dia manti. » « Chetti Singh. Ho sentito questo nome di recente. » Mike riflet té per un istante. « Sì, ne ha parlato la radio stamattina. E stato conciato male dal suo leopardo, no? » Poi cambiò di nuovo espres sione. « Proprio quando tu eri a Lilongwe. Che coincidenza, Danny. Ha qualcosa a che vedere con il tuo braccio al collo e quel l'aria soddisfatta? » « Sai che sono una brava persona. Mi conosci », gli assicurò Da niel. « Non mi sognerei mai di usare le maniere forti. Però ho sapu to qualcosa da Chetti Singh durante la mia breve conversazione con lui prima che avesse quell'incidente con il leopardo. E una faccenda che potrebbe interessare voi spioni dell'M15. » Michael lo fissò con aria di rammarico. « C'è una signora, vec chio mio. Non si parla così della ditta. Non si chiacchiera. E di cat tivo gusto. » Wendy si alzò. « Pensandoci meglio, andrò a tenere d'occhio Cheffie. Starò via dieci minuti: abbastanza perché voi uomini pos siate parlare, spero. » E si portò via il bicchiere. « Via libera », mormorò Michael. « Spara, Danny. » « Chetti Singh mi ha detto che nell'Ubomo stanno preparando un golpe. Faranno fuori Omeru. » « Oh, povero me! Omeru? E uno dei buoni, lui. Inammissibile. Hai saputo qualche dettaglio? » « Non molti, purtroppo. Ci sono dentro Ning Deng Kong e la sua famiglia, ma non sono gli attori principali. Credo che siano sol tanto zelanti sponsor della progettata rivoluzione, e che si aspettino in cambio diritti e privilegi. » Michael annuì. « La solita storia. Avranno una fetta della torta quando il nuovo padrone dell'Ubomo la spartirà. Hai idea di chi potrebbe essere? » « No, mi dispiace. Ma succederà presto. Secondo me, entro i prossirni mesi. » « Avvertiremo Omeru. Forse il primo ministro manderà un bat taglione del SAS per proteggerlo. So che ha molta simpatia per il vec chio e, dopotutto, l'Ubomo è membro del Commonwealth. » « Ti sarei grato se potessi dare una controllatina a Ning Deng Kong, già che ci sei, Mike. » « Se n'è andato, Danny. E tornato all'ovile. Ho parlato con il mio collega a Harare proprio stamattina. Naturalmente sapevo che ti interessava, e così ho chiesto. Ning ha offerto un ricevimento d'addio all'ambasciata cinese venerdì sera, e sabato è volato a casa. » « Accidenti », esclamò Daniel. « Questo rovina tutti i miei piani. Volevo andare a Harare... » « Non sarebbe stata una buona idea », l'interruppe Michael. « Una cosa è dare in pasto un bravo cittadino al suo leopardo, un'altra è andare in giro a pestare gli ambasciatori. E considerato di pessimo gusto. » « Non è più ambasciatore », ribatté Daniel. « Potrei seguirlo fino a Taivvan. »
« Un'altra pessima trovata, se non ti dispiace che te lo dica. Tai wan è la tana di Ning. A quanto ho sentito dire, la sua famiglia è padrona di quasi tutta l'isola, che quindi sarà piena dei suoi gorilla. Se hai intenzione di fare l'angelo vendicatore, è meglio che aspetti un po'. Inoltre, se quel che mi hai detto è esatto, Ning tornerà pre sto in Africa, e l'Ubomo è un territorio neutrale, molto più adatto di Taivvan. Là, almeno, potrei darti una mano. Abbiamo un ufficio a Kahali, la capitale. Anzi c'è la possibilità che... » Michael s'inter ruppe. « E un po' prematuro dirlo, ma sembra che potrei essere tra sferito a Kahali. » Daniel fissò il bicchiere di vino e lo fece girare lentamente come se ne ammirasse i riflessi rubino. Poi sospirò e annuì. « Hai ragione come sempre. » Sorrise con aria malinconica. « M'ero lasciato trascinare dall'impulso. E poi, sono spaventosa mente a corto di quattrini. Non credo che ce la farei a pagarmi il bi glietto d'aereo fino a Taipei. » « Non l'avrei mai creduto, vecchio mio. Pensavo che sguazzassi nel denaro. Ti ho sempre invidiato. Tutti quei contratti televisivi da milioni di dollari. » « Tutto ciò che possiedo è investito nelle videocassette che hai spedito a Londra per me. Non valgono un soldo se non le monto e non aggiungo il commento. E ciò che dovrò fare al più presto. » « Prima che tu parta, sarà bene che mi informi su tutto ciò che sai di quei due, Singh e Ning. Io continuerò a seguire la faccenda da qui, nell'eventualità che... » « Nell'eventualità che mi succeda qualcosa », concluse Daniel. « Non dirlo neppure, vecchio mio. Che Dio non voglia. Anche se mi pare che stavolta sei andato a pescare un paio di pezzi grossi. » « Vorrei lasciarti qui a Lusaka il mio Land Cruiser e il resto del materiale, se per te non è un fastidio. » « Sarà un piacere, mio caro. La mia casa è la tua casa. Il mio ga rage è il tuo garage. Fai pure. » L'indomani mattina Daniel tornò dagli Hargreave. Michael era andato al lavoro, ma Wendy e i domestici l'aiutarono a scaricare il Land Cruiser. L'equipaggiamento era incrostato dalla polvere e dal la sporcizia di sei mesi vissuti nella boscaglia. Pulirono tutto e lo ri caricarono sul fuoristrada. Buttarono via la merce deperibile e Da niel fece un elenco del materiale di rimpiazzo. Poi sistemò il Land Cruiser nel garage libero, e caricò la batteria per la prossima spedi zione... quando mai fosse avvenuta. Michael tornò a casa per pranzo e per un'ora si chiuse con Da niel nel suo studio. Poi, assieme a Wendy, stapparono una bottiglia di vino sotto i marula ai bordi della piscina. « Ho inoltrato il tuo messaggio a Londra », disse Michael. « In questo momento Omeru è proprio là. Il ministero degli Esteri l'ha informato d'urgenza ma non è servito a molto. A meno di conosce re tutti i particolari, e le tue informazioni erano molto vaghe, il bravo vecchietto non prenderà sul serio l'idea d'un golpe. 'Il popolo mi ama', ha più o meno detto. 'Mi considera un padre.' Ha rifiuta to l'offerta di aiuto del primo ministro. Comunque, abbrevierà la visita e tornerà in anticipo nell'Ubomo, quindi può darsi che siamo riusciti a fare qualcosa di positivo. » « Probabilmente lo abbiamo mandato dritto nelle fauci del leo ne », disse Daniel cupo, mentre Wendy gli riempiva il piatto d'insa latina fresca coltivata nell'orto di casa. « Sì, è probabile », confermò Michael. « Poveraccio. A proposito di leoni, ho un'altra notizia per te. Ho chiamato il nostro uomo a Lilongwe. Il tuo amico Chetti Singh non è più in pericolo di vita. Secondo l'ospedale le sue condizioni sono 'serie ma stabill'anche se hanno dovuto amputargli un braccio. Pare che il leopardo gliel'a vesse sgranocchiato a dovere. » « Vorrei che gli avesse sgranocchiato la testa. » « Non si può avere tutto, no? Dobbiamo ringraziare il cielo per i
piccoli colpi di fortuna. Comunque ti terrò informato quando sarai a Londra. Hai ancora l'appartamento a Chelsea, vicino a Sloane Square? » « Quello non è un appartamento », puntualizzò Wendy. « E una garfonnière. Con una pessima reputazione. » « Sciocchezze, mia cara », la stuzzicò Michael. « Danny è come un monaco, non tocca mai certa roba... vero? Il numero telefonico è sempre lo stesso, 7730-qualcosa? L'ho scritto da qualche parte. » « Sì. Stesso indirizzo, stesso numero. » « Ti telefonerò se salterà fuori qualche novità. » « Che cosa posso portarti da Londra al mio ritorno, Wendy? » « Puoi portarmi tutto quello che c'è da Fortnum's », sospirò lei. « No, sto scherzando. Un po' di biscotti speciali, quelli nella confe zione gialla: me li sogno la notte. Un po' di sapone Floris e profu mo Fracas. Oh! E biancheria di Janet Reger, come quella che mi hai portato l'ultima volta. E dacché ci sei, un po' di vero tè ingle se... Earl Grey. » « Calma, mia cara », l'ammonì Michael. « Il nostro amico non è un cammello, sai. Accontentati d'una tonnellata di roba. » Quel pomeriggio accompagnarono Daniel all'aeroporto dove prese il volo della British Airways. L'aereo atterrò a Heathrow l'in domani mattina alle sette.
Quella sera, nell'appartamento di Daniel a Chelsea, il telefono squillò. Nessuno sapeva che era rientrato. Si chiese se valeva la pena di rispondere, e si arrese al decimo squillo. Non poteva ignorare tanta tenacia. « Danny, sei proprio tu o è quella maledetta segreteria telefoni ca? Per ragioni di principio, mi rifiuto di parlare con un robot. » Daniel riconobbe subito la voce di Michael Hargreave. « Cosa c'è, Mike? Wendy sta bene? Dove sei? » « Sono ancora a Lusaka, e stiamo benone tutti e due, vecchio mio. Non posso dire lo stesso del tuo amico Omeru. Avevi ragione, DannY. E appena arrivata la notizia. L'hanno deposto. Un golpe militare. Ho ricevuto poco fa la comunicazione dal nostro ufficio di Kahali. » « Cos'è successo a Omeru? Chi ha preso il potere? » « La risposta è 'non lo so' a tutte e due le domande. Mi dispiace, Danny, c'è ancora una certa confusione. Lì da te dovrebbe parlarne la BBC; comunque ti telefonerò domani non appena mi riuscirà di conoscere qualche altro particolare. » Quella sera, la notizia venne data sbrigativamente alla conclusio ne del telegiornale della BBC, accompagnata da una foto di reperto rio del presidente Victor Omeru. Poche parole sul colpo di Stato nell'Ubomo e la presa del potere da parte d'una giunta militare. Sullo schermo, Omeru sembrava un bell'uomo: vicino ai settant'an ni, i capelli argento, la carnagione color ambra. Lo sguardo era franco, sereno. Poi andarono in onda le previsioni del tempo e Da niel fu assalito da un senso di malinconia. Aveva incontrato Victor Omeru una volta sola, cinque anni pri ma, quando il presidente gli aveva concesso un'intervista a proposi to della controversia con lo Zaire e l'Uganda per i diritti di pesca nel lago Alberto. Avevano trascorso insieme appena un'ora, ma Daniel era rimasto colpito dall'eloquenza e dal nobile aspetto del vecchio e, soprattutto, dal sincero impegno verso il suo popolo e i vari gruppi tribali che formavano il piccolo Stato, e verso la conser vazione delle foreste, delle savane e dei laghi che costituivano il pa trimonio nazionale. « Noi vediamo le ricchezze dei nostri laghi e delle nostre foreste come un bene da gestire per i posteri, non da divorare rapidamente. Consideriamo la ricchezza della natura come una risorsa rinnovabi le che tutti gli abitanti dell'Ubomo hanno il diritto di condividere,
anche le generazioni non ancora nate. Perciò ci opponiamo al sac cheggio dei laghi a opera dei nostri vicini », aveva detto Victor Omeru. Raramente Daniel aveva udito altri statisti esprimere un punto di vista tanto saggio e si era sentito amico di quell'uomo che condivideva con lui l'amore e la preoccupazione per la terra che aveva dato i natali a entrambi. Ora Victor Omeru non c'era più, e l'Africa era diventata un po' più povera e disgraziata. Daniel trascorse tutto il lunedì alla City a parlare con il direttore della sua banca e la sua agente. Tutto andò per il meglio: perciò era di umore discreto quando tornò all'appartamento alle nove e mezzo di sera. C'era un messaggio di Michael, registrato dalla segreteria telefo nica. « Dio, come odio questo aggeggio. Chiamami appena rientri, Daniel. » A Lusaka gli orologi erano più avanti di due ore, ma Daniel lo prese in parola. « Ti ho tirato giù dal letto, Mike? » « Non ha importanza, Danny. Non avevo ancora spento la luce. Ho qualche novità per te. L'uomo nuovo dell'Ubomo è il colonnel lo Ephrem Taffari. Quarantadue anni. Ha studiato alla facoltà di Economia di Londra e all'università di Budapest. A parte questo, nessuno sa niente di lui: comunque, ha già cambiato il nome del paese in Repubblica Democratica Popolare dell'Ubomo. Bruttissi mo segno. Nel socialistese africano 'democratico' significa 'tiranni co'. Si hanno notizie di esecuzioni di vari membri del governo pre cedente, ma questo era prevedibile. » « E Omeru? » chiese Daniel. Era strano, ma le sue simpatie an davano a un uomo che aveva conosciuto molto tempo prima, e per poco più di un'ora. « Non figura nella lista del macellaio, ma si presume che abbia no messo al muro anche lui. » « Informami se vieni a sapere qualcosa dei miei amici Chetti Singh e Ning Deng Kong. » « Puoi contarci, Danny. »
Daniel scacciò dalla mente gli avvenimenti dell'Ubomo, e il suo mondo si restrinse allo spazio racchiuso dalle quattro pareti della moviola nello studio di Shepherd's Bush. Giorno dopo giorno vive va nella semioscurità, completamente concentrato sullo schermo lu minoso. La sera, stordito dalla fatica mentale e con gli occhi arrossati, usciva in strada e prendeva un tassì per farsi ricondurre nel suo ap partamento. Si fermava soltanto da Partridge's in Sloane Street a comprare qualcosa per la cena. La mattina si svegliava quand'era ancora buio e andava allo studio prima che la città fosse invasa dal la solita folla di pendolari. Era tutto preso da una sorta di estasi creativa: esaltava la co scienza delle emozioni vissute al punto che tutta la sua esistenza era racchiusa nelle immagini che scorrevano davanti ai suoi occhi. Le parole per descriverle gli balenavano nella mente: parlava nel micro fono del registratore consultando solo di rado gli appunti. Riviveva ogni momento delle scene che si erano svolte davanti a lui; gli sembrava di sentire il profumo caldo, polveroso e muschiato dell'Africa; le voci della sua gente, le grida dei suoi animali gli echeggiavano nella mente mentre lavorava. Daniel era così preso dal processo creativo del montaggio che, durante le settimane successive, i recenti avvenimenti africani si al lontanarono in una specie di nebbia. Solo quando, con uno shock che gli fece scorrere l'adrenalina nel sangue, vide sul piccolo scher mo il viso di Johnny Nzou e sentì la sua voce che sembrava parlare dall'oltretomba, i ricordi lo riassalirono e la decisione divenne irre vocabile.
Solo nella stanza della moviola, rispose all'immagine di Johnny: « Tornerò. Non ti ho dimenticato. Quello che ti hanno fatto non re sterà impunito. Te lo prometto, vecchio mio ». Alla fine di febbraio, tre mesi dopo l'inizio del montaggio, Da niel aveva una copia lavoro dei primi quattro documentari della se rie, pronti per essere mostrati all'agente. Elna Markham aveva ven duto le sue prime produzioni, e da allora avevano sempre lavorato insieme. Daniel si fidava del suo giudizio e aveva una grande ammi razione per il suo acume commerciale. Elna riusciva a calcolare con una notevole approssimazione quanto era possibile ottenere e a strappare sempre le condizioni più favorevoli. Preparava contratti formidabili che prevedevano tutte le evenienze possibili, e, spesso, anche quelle apparentemente impossi bili. Una volta aveva inserito in un contratto una clausola relativa all'eventualità di realizzare dei documentari « derivati » da quelli di Daniel. Lui aveva sorriso quando l'aveva letto; ma, due anni dopo, quella condizione gli aveva reso una royalty inaspettata di cinquan tamila dollari in Giappone, un paese che non figurava neppure nei calcoli iniziali. A quarant'anni, Elna era alta, flessuosa, con due occhi scuri da ebrea e la figura d'una modella di Vogue. Un paio di volte erano ar rivati quasi sul punto di diventare amanti, soprattutto tre anni pri ma, quando avevano vuotato una bottiglia di Dom Pérignon nel l'appartamento di Daniel per festeggiare la cessione, molto vantag giosa, di certi diritti sussidiari. Elna s'era tirata indietro all'ultimo momento. « Sei uno degli uomini più attraenti che abbia mai conosciuto, Danny, e sono sicura che, insieme, potremmo fare scintille. Ma per me sei più prezioso come cliente che come amante. » S'era riabbot tonata la camicetta e l'aveva lasciato in preda ai tormenti della fru strazione sessuale. Guardarono i primi quattro episodi, uno dietro l'altro, e tra scorsero così la mattina nella sala di proiezione degli studi. Elna non fece commenti: lasciò terminare l'ultimo episodio, poi si alzò. « Ti porto a pranzo », disse. In tassì parlò di tutto tranne che dei documentari. Lo condusse da Mosimann's in West Halkin Street. Il club che Anton Mosimann aveva ricavato da una vecchia chiesa era diventato una vera catte drale della gastronomia. Anton, risplendente nel grembiule bianco e nel cappello da chef e roseo come un cherubino, uscì dalla cucina per chiacchierare al loro tavolo, un onore riservato ai clienti prefe riti. Daniel smaniava di conoscere l'opinione di Elna sul suo lavoro, ma lei aveva l'abitudine di far ingigantire la tensione; perciò la asse condò, discusse il menù e parlò del più e del meno. Solo quando Elna ordinò una bottiglia di Corton-Charlemagne ebbe la certezza che le era piaciuto. Poi Elna gli lanciò uno sguardo al di sopra dell'orlo del bicchie re e sussurrò con voce roca e sexy: « Meraviglioso, Armstrong, me raviglioso. E il tuo lavoro migliore, e non scherzo. Voglio quattro copie, immediatamente ». Daniel rise, sollevato. « Non puoi vendere la serie... non è anco ra finitae » « Non posso? Stai a vedere. »
Elna mostrò i documentari agli italiani, che avevano sempre di mostrato una preferenza per le opere di Daniel. Il loro interesse, storico e sentimentale, per l'Africa, faceva sì che, da anni, l'Italia fosse uno dei suoi mercati migliori. Daniel amava gli italiani e gli italiani lo amavano. Una settimana più tardi Elna gli portò la bozza del contratto nell'appartamento. Daniel tirò fuori un piatto di sandwich al salmo
ne affumicato e una bottiglia di vino. Sedettero sul pavimento, mi sero Beethoven sull'impianto CD e mangiarono i sandwich mentre Elna discuteva del contratto. « Gli è piaciuto quanto a me », disse. « Ho strappato un venticin que per cento in più dell'anticipo che ci hanno dato l'ultima volta. » « Sei una strega », disse Daniel. « Questa è magia nera. » L'anti cipo degli italiani copriva quasi completamente le spese per la pro duzione della serie. Il resto sarebbe stato utile netto. Il rischio corso aveva reso magnificamente, e Daniel non aveva finanziatori con cui dividere i guadagni. Dopo la percentuale spettante a Elna, sarebbe stato tutto suo. Cercò di calcolare quanto gli sarebbe venuto in ta sca. Mezzo milione sicuramente, forse anche molto di più... tutto dipendeva dagli americani. Dopo la vendita dei diritti mondiali, po teva arrivare anche ai tre milioni di dollari. Persino lui era impres sionato. Dopo dieci anni di duro lavoro, aveva sfondato. Niente più con ti in rosso, niente più pellegrinaggi da uno sponsor arrogante all'al tro. Adesso era padrone del suo destino: aveva il controllo creativo e artistico sul suo lavoro, e i diritti sulla versione definitiva. In futu ro i documentari sarebbero stati come li voleva lui, e non come im ponevano i finanziatori. Era una sensazione meravigliosa. « Cos'hai in vista per il futuro? » chiese Elna mentre prendeva l'ultimo sandwich. « Non ci ho ancora pensato », mentì Daniel. Aveva sempre in mente due o tre progetti. « Devo ancora terminare gli ultimi due epi sodi. » « Mi hanno contattato certe persone con molti quattrini da inve stire. Una grande società petrolifera vorrebbe da te una serie sull'a partheid sudafricano e l'effetto delle sanzioni su... » « No, diavolo! » Era magnifico poter rifiutare con tanta decisio ne un'offerta di lavoro. « Ormai è una minestra riscaldata. Il mon do cambia. Pensa all'Europa orientale. L'apartheid e le sanzioni so no roba vecchia. Fra un anno non esisteranno più. Voglio qualcosa di nuovo ed eccitante. Pensavo alle foreste pluviali... non a quelle brasiliane: se ne è parlato fino alla nausea. Ma la regioree equatoria le africana! E uno dei luoghi meno conosciuti del pianeta, eppure ecologicamente ha un'enorme importanza. » « Mi sembra promettente. Quando comincerai? » « Mio Dio, sei una tiranna. Non ho ancora finito l'ultima serie e mi stai già dietro! » « Da quando ho divorziato da Aaron qualcuno deve pure assicu rarmi il tenore di vita cui sono abituata. » « Tutti i doveri del matrimonio senza neppure uno dei privilegi e dei piaceri. » Daniel sospirò in tono melodrammatico. « Ci stai ancora pensando, sciocco? Potresti riuscire a convincer mi, e magari non ti piacerebbe. Ad Aaron non piaceva. » « Aaron era un grosso idiota », disse Daniel. « Il guaio, purtroppo, stava nel fatto che non era grosso », rise Elna. Poi cambiò argomento. « A proposito, cos'è successo fra te e Jock? Ho ricevuto da lui una telefonata stranissima. Ha detto che avevate litigato di brutto. Ha insinuato che eri ammattito e avevi ri schiato di fargli avere una montagna di guai. Ha giurato che non la vorerete più insieme. E vero? » « Senza sottilizzare troppo, sì, è vero. Le nostre strade si sono separate. » « Peccato. Ha fatto un lavoro fantastico con questa serie sull'A frica che muore. Hai già scelto un cameraman per sostituirlo? » « No. Tu hai in mente qualcuno? » Elna rifletté per qualche istante. « Ti dispiacerebbe lavorare con una donna? » « Non vedo perché dovrebbe dispiacermi, se è in grado di regge re il ritmo. L'Africa è brutale. Per affrontare quelle condizioni di
vita occorre essere tenaci e resistenti. » Elna sorrise. « La signora che ho in mente è abbastanza forte e capace. Puoi credermi sulla parola. Ha appena realizzato un docu mentario per la BBC sull'Artico e gli inuit, cioè gli eschimesi. E bel lo, molto bello. » « Mi piacerebbe vederlo. » « Te ne manderò una copia. » L'indomani Elna mandò la registrazione allo studio ma Daniel era così preso dal montaggio che la buttò in un cassetto della scriva nia. Decise di visionarla quella sera, ma non ci pensò più. Tre giorni dopo aver finito la serie, il nastro era ancora nel cas setto, dimenticato nell'eccitazione di tutto ciò che stava succedendo.
Michael Hargreave telefonò di nuovo da Lusaka. « Danny, ti manderò il conto delle telefonate. Stai costando un patrimonio al governo di sua maestà. » « Ti offrirò una cassa di champagne la prima volta che ci ve dremo. » « Allora devi aver parecchi soldi in tasca, vecchio mio. Ma accet to. La bella notizia è che il tuo amico Chetti Singh è uscito dall'o spedale. » « Sei sicuro, Mike? » « Rimesso a nuovo. Dicono che è stata una guarigione sensazio nale. Ho fatto controllare dal nostro uomo a Lilongwe. Adesso Singh ha un braccio solo, ma, a parte questo, si è già rimesso in af fari. Dovrai mandargli un altro leopardo per Natale: l'ultimo non ha funzionato. » Daniel ridacchiò malinconicamente. « Hai saputo qualcosa del l'altro mio amico? » « Il cinese? No, mi dispiace. E tornato a casa da paparino e dalla Lucky Dragon. » « Fammi sapere se ricompare. Non potrò lasciare Londra alme no per un paio di mesi. Sta succedendo di tutto. » Daniel non esagerava. Elna aveva appena venduto la serie Afri ca che muore a Channel Four per il prezzo più alto mai pagato per una produzione indipendente. E gli episodi sarebbero andati in on da in prima serata la domenica, a partire da lì a sei settimane. « Organizzerò una festa per l'occasione », disse Elna. « Oh, Dio, Danny, ho sempre saputo che eri il migliore, ed è molto bello poter lo dimostrare. Ho invitato gente di tutte le televisioni del continente e dell'America settentrionale. Saranno entusiasti, credimi. » Il sabato prima della festa, Elna telefonò all'appartamento di Daniel. « Hai avuto tempo di dare un'occhiata alla cassetta che ti ho mandato? » « Quale? » « Ecco, non l'hai vista », gemette Elna. « La cassetta sull'Artico, Il sogno dell'Artico, quella girata dalla cameravvoman, Bonny Ma hon. Non essere così ottuso, Danny. » « Accidenti! Scusami, Elna, non ne ho avuto la possibilità, dav vero. » « L'ho invitata alla festa », disse Elna. « Guarderò subito la cassetta », promise Daniel, e andò a pren derla dalla scrivania. Aveva deciso di visionarla a salti, ma non riuscì a trattarla in modo così superficiale. Fu affascinato fin dalla prima inquadra tura. Il documentario si apriva con una sequenza aerea dei ghiacci eterni dell'estremo Nord, e le immagini che seguivano erano sensa zionali, indimenticabili. C'era in particolare la sequenza di un'im mensa mandria di caribù che attraversavano a nuoto un tratto di mare aperto fra i ghiacci. Il sole basso e giallo era dietro di loro, e quando il capobranco usciva per primo dall'acqua scura e si scrolla
va, riempiva l'aria d'una nube di gocciole d'oro che lo circondava d'un nimbo prezioso, come la divinità animale d'una religione pa gana. Daniel rimase affascinato al punto di dimenticare ogni criterio professionale. Solo al termine della cassetta cercò di analizzare il modo in cui la cameravvoman aveva realizzato certi effetti. Bonny Mahon aveva capito come doveva sfruttare la luce straordinaria per creare un'atmosfera che ricordava in modo sconvolgente i capola vori luminosi ed eterei di Turner. Se avesse dovuto lavorare nelle buie profondità delle foreste equatoriali, quella capacità di utilizzo della luce disponibile avrebbe avuto un'importanza decisiva. Non c'era dubbio: Bonny Mahon la sapeva sfruttare. Era ansioso di conoscerla. Per il party, Elna Markham aveva noleggiato mezza dozzina di televisori e li aveva piazzati in posizioni strategiche nel suo apparta mento, inclusa la stanza da bagno per gli ospiti. Aveva deciso che nessuno avesse un pretesto per sfuggire all'evento da celebrare. Come si conveniva all'ospite d'onore, Daniel arrivò con mezz'o ra di ritardo e dovette farsi largo per entrare. Le feste di Elna erano molto apprezzate, e il grande salotto era affollato sino all'inverosi mile. Per fortuna era una dolce sera di maggio e parte degli invitati era uscita sulla terrazza affacciata sul fiume. Per sei mesi, Daniel aveva vissuto come un eremita. Era bello ri trovare i contatti umani. Naturalmente conosceva quasi tutti i pre senti, e la sua fama li attirava intorno a lui. Era al centro di un cer chio sempre mutevole di ammiratori, quasi tutti vecchi amici. Ab bastanza vanitoso per godersi quell'attenzione, Daniel, tuttavia, sa peva quanto la popolarità potesse essere effimera. In questo mestie re, ognuno è stimato solo quanto la sua ultima produzione, si disse. La compagnia era allegra e divertente, ma Daniel aveva i nervi tesi via via che si avvicinava il momento della trasmissione, e stenta va a concentrarsi sulle conversazioni che sfrecciavano nell'aria in torno a lui come uno stormo di colibrì. Neppure la più carina delle tante donne presenti riusciva a incatenare a lungo la sua attenzione. Alla fine, Elna batté le mani e chiese silenzio. « Ci siamo! Ci sia mo! » Passò da una stanza all'altra e accese i televisori, sintonizzan doli su Channel Four. Vi fu un vivace brusio quando cominciarono a scorrere i titoli di testa e attaccò il tema musicale. La prima se quenza si aprì con una scena che era la quintessenza dello spirito dell'Africa. C'era una pianura bruciata color seppia, in cui spiccavano spar se acacie di color verde scuro con i loro tronchi contorti e le chiome piatte come incudini. Un elefante attraversava la pianura: era un vecchio maschio grigio e grinzoso, con le zanne, curve e massicce, macchiate di succhi vegetali. Si muoveva con ponderosa maestà, mentre intorno a lui svolazzava un nugolo di egrette bianche con le ali perlacee. All'orizzonte, contro il crudo azzurro africano del cie lo, torreggiava la piramide nevosa del Kilimangiaro, distaccata dalla terra d'ocra bruciata dal miraggio del calore: aveva la stessa delica tezza eterea delle ali delle egrette. Le risate e i mormorii si spensero; scese il silenzio. Gli spettatori erano conquistati dall'eterna maestà della visione evocata da Da niel. Poi tutti si lasciarono sfuggire esclamazioni sgomente quando le due vecchie matriarche del branco dello Zambesi caricarono insie me, sventolando le orecchie sbrindellate e sollevando la terra rossa con le zampe enormi, fino a che i loro barriti di furore furono stroncati dagli spari. I pennacchi di polvere danzarono per un istan te sulle fronti grige e sfregiate; poi i corpi stramazzarono a terra, sussultando nella terribile paralisi dei colpi al cervello. Per quarantacinque minuti Daniel tenne il pubblico imprigiona to alle catene dorate dell'immaginazione, guidandolo attraverso il continente maestoso e devastato, mostrando bellezze ultraterrene,
crudeltà e brutture in un contrasto sempre più sconvolgente. Quando l'ultima immagine si dissolse, il silenzio si protrasse per qualche secondo. Poi gli spettatori si scossero e tornarono alla real tà. Qualcuno cominciò ad applaudire; l'applauso si fece più soste nuto e si prolungò. Elna andò a fianco di Daniel. Non disse nulla: gli prese la mano e la strinse. Dopo un po', Daniel sentì la necessità di sottrarsi alla calca e al le chiassose congratulazioni. Avendo bisogno di spazio per respira re, uscì sulla terrazza. Si accostò alla ringhiera e guardò in basso, ma non vide le luci delle imbarcazioni sul Tamigi buio. Stava già provando la prima reazione all'euforia inebriante che l'aveva sostenuto nella parte ini ziale della serata. Le sue immagini dell'Africa l'avevano commosso e rattristato. Avrebbe dovuto esserci abituato, ormai, ma non era cosi. Era stata inquietante soprattutto la sequenza con Johnny Nzou e gli elefanti. Johnny era rimasto sempre presente ai margini dei suoi pensieri in tutti quei mesi: ma adesso il ricordo riaffiorava prepotente. All'improvviso, Daniel fu assalito dalla necessità di tornare in Africa. Era inquieto e scontento. Gli altri applaudivano la sua ope ra, ma per lui era acqua passata. Lo spirito nomade lo spronava a proseguire. Era di nuovo giunto il momento di muoversi, di puntare verso un nuovo orizzonte, una nuova avventura tentatrice. Qualcuno gli toccò il braccio. Per un momento non reagì. Poi girò la testa e vide una ragazza. Aveva i capelli rossi. Fu la prima impressione: una massa folta e fiammeggiante di capelli rossi. La mano posata sul suo braccio aveva una forza sconcertante, quasi mascolina. Era alta, quasi quanto lui, e i lineamenti erano generosi: bocca larga e labbra carnose, naso grande ma con la punta all'insù e narici delicatamente scolpite. « E tutta la sera che cerco di avvicinarti », disse. La voce era pro fonda, sicura. « Ma sei l'uomo del momento. » Non era graziosa. La pelle era costellata di lentiggini dovute al sole e al vento, ma aveva l'aria sana di chi vive all'aperto. Nella lu ce della terrazza gli occhi verdi erano luminosi, frangiati da ciglia folte come filamenti di bronzo, e le davano un'espressione franca e ironica. « Elna aveva promesso di presentarci, ma non ci conto più. Sono Bonny Mahon. » Sorrise come un maschiaccio. Daniel la trovò sim patica. « Elna mi ha dato una tua cassetta. » Daniel tese la mano e lei la strinse con fermezza. E vero, è una ragazza dura, come ha detto El na. L'Africa non la spaventerà. « Sei molto brava. Hai occhio e istinto per la luce. Bravissima. » « Sei molto bravo anche tu. » Il sorriso di Bonny si accentuò. « Mi piacerebbe lavorare con te. » Era franca, priva di affettazioni. La simpatia di Daniel crebbe ancora. Poi senti il suo odore. Non portava profumo: era il vero odore della pelle, caldo, forte, afrodisiaco. « Potrebbe succedere », le disse. « E prima ancora di quanto im maginiamo. » Continuò a tenerle la mano e Bonny non la ritirò. En trambi erano consapevoli dell'ambiguità sessuale di quelle ultime parole. Daniel pensò che sarebbe stato eccitante portare quella don na in Africa con lui. Qualche chilometro a nord della terrazza dove Daniel e Bonny si studiavano professionalmente e fisicamente, qualcun altro aveva as sistitO alla prima puntata di Africa che muore. Sir Peter « Tug » Harrison era il principale azionista e l'ammini stratore delegato della British Overseas Steam Ship Co. Ltd. Anche se la BOSS figurava ancora come « compagnia armatoriale » nel listi no della Borsa valori di Londra, aveva cambiato completamente na tura nei cinquant'anni trascorsi da quando Tug Harrison ne aveva acquisito la maggioranza.
La compagnia era nata alla fine del periodo vittoriano, con una piccola flotta di mercantili che facevano la spola con l'Africa e l'O riente. Non essendo mai stata molto prospera, allo scoppio della se conda guerra mondiale, Tug l'aveva acquistata per una somma qua si irrisoria rispetto al suo valore reale. Con i profitti maturati du rante il periodo bellico, Tug aveva poi diversificato la sua attività e adesso la BOSS era una delle conglomerate più potenti quotate alla Borsa di Londra. Tug era sempre stato molto sensibile ai capricci dell'opinione pubblica e all'immagine della sua compagnia. Per queste sottigliezze possedeva lo stesso istinto che aveva per l'indice dei beni di consu mo e le fluttuazioni dei mercati azionari del mondo. Era una delle ragioni del suo immenso successo. « La tendenza generale e 'verde' », aveva detto al consiglio d'am ministrazione appena un mese prima. « Molto 'verde'. Possiamo non essere d'accordo con questa nuova passione per la natura e l'ambiente, ma dobbiamo tenerne conto. Dobbiamo cavalcare l'on da verde. » Adesso era nello studio, al terzo piano della sua casa in Holland Park. La casa era situata nel bel mezzo di una fila di magnifiche re sidenze, in uno dei quartieri più prestigiosi di Londra. Lo studio era rivestito di legno duro proveniente dalle concessioni della BOSS in Nigeria: i pannelli erano stati scelti, abbinati e lucidati in modo da splendere come marmo prezioso. C'erano due soli quadri appesi alle pareti, perché la grana del legno era un'opera d'arte naturale. Il quadro di fronte alla scrivania era una Madonna con Bambino, e ri saliva al primo soggiorno di Gauguin nelle isole del Pacifico meri dionale; l'altro, appeso dietro la scrivania di Tug, era un Picasso, un grande dipinto, barbaro ed erotico, raffigurante un toro e una donna nuda. Il contrasto tra la visione pagana e quella profana metteva in risalto la luminosità lirica della Madonna. A guardia della porta c'era una coppia di corni di rinoceronte. Su uno dei corni spiccava un tratto lucido, segnato dalla mano di Tug Harrison nel corso dei decenni. L'accarezzava con la destra ogni volta che entrava e usciva, in un rito superstizioso. Quei corni erano i suoi portafortuna. All'età di diciotto anni, affamato, squattrinato, in possesso solo di un vecchio fucile e di una manciata di cartucce, aveva inseguito quel rinoceronte nei deserti del Sudan. A cinquanta chilometri dalle rive del Nilo lo aveva ucciso con un proiettile nel cervello. Il sangue che fiottava da un'arteria recisa era scorso in un rivoletto sulla terra del deserto, e proprio lì Tug Harrison aveva raccolto una pietra vi trea dalla lucentezza cerea che quasi gli riempiva il palmo della mano. Quel diamante era stato l'inizio. Dal giorno del rinoceronte la fortuna era cambiata. Aveva conservato i corni, e li toccava ancora ogni volta che gli passava vicino. Per lui erano più preziosi dei due favolosi quadri che li fiancheggiavano. Era nato negli slum di Liverpool durante la prima guerra mon diale; suo padre era un facchino alcolizzato. A sedici anni s'era im barcato; a Dar es Salaam aveva abbandonato la nave per sottrarsi alle attenzioni sessuali del primo ufficiale, e aveva scoperto il miste ro, la bellezza e la promessa dell'Africa. Per lui, la promessa si era realizzata. Le ricchezze che aveva strappato all'aspro suolo africano avevano fatto di Tug uno dei cento uomini più ricchi del mondo. Il televisore era nascosto ad arte dietro i pannelli di legno duro e i comandi erano inseriti nel quadro dell'interfono, sulla scrivania. Come quasi tutti gli uomini intelligenti e molto occupati, evitava la stupidità dei programmi televisivi, limitandosi a seguire le notizie e i servizi di attualità. Ma tutto ciò che riguardava l'Africa aveva per lui un interesse vitale. Aveva notato il titolo, Africa che muore, e aveva regolato l'orologio sulla scrivania perché gli segnalasse l'orario d'inizio.
Il trillo elettronico l'aveva strappato dall'esame dei rendiconti allineati sul sottomano di cinghiale. Toccò il telecomando: il pan nello sulla parete di fronte alla scrivania, sopra il tappeto serico di Qum, si aprì silenziosamente. Regolò il volume, mentre la musica aleggiava nello studio. Poi l'immagine di un grande elefante e di una vetta innevata riempì lo schermo, e Tug si sentì trasportare indietro di cinquant'anni e di migliaia di chilometri. Rimase a guardare senza muoversi fino alla dissolvenza in chiusura. Poi toccò di nuovo il telecomando. Lo schermo si spense e il pannello si richiuse come un occhio asson nato. Tug Harrison rimase a lungo in silenzio. Poi prese una penna d'oro e scrisse un nome sul blocco degli appunti: « Daniel Arm strong ». Girò la poltroncina e prese dallo scaffale una copia del Who's Who.
Daniel si avviò a piedi da Shepherd's Bush a Holland Park. An che se era, potenzialmente, un milionario, non intendeva buttar via cinque sterline per una corsa in tassì di pochi minuti. Era caldo e se reno e gli alberi delle piazze e dei parchi erano ammantati dal verde dell'estate. Mentre camminava, lanciando occhiate di distratta ap provazione alle ragazze in abiti semitrasparenti e gonne corte, pen sava a Tug Harrison. Quando Elna Markham gli aveva telefonato per inoltrargli l'in vito di Harrison era rimasto piuttosto sorpreso. Naturalmente, sa peva chi era. I tentacoli di Harrison si estendevano in ogni angolo del continente africano, dall'Egitto alle rive del fiume Limpopo. Daniel conosceva la potenza e la ricchezza della BOSS e il suo pe so sui destini dell'Africa, ma sapeva pochissimo dell'uomo che la dominava. Tug Harrison era molto abile nel tenersi fuori delle con troversie pubbliche e dell'attenzione della stampa scandalistica. Ogni volta che Daniel viaggiava in Africa, ormai, poteva scorge re l'influenza di Tug Harrison, come le tracce d'un vecchio, astuto leone antropofago. Lasciava le sue impronte ma, come la belva, ra ramente si mostrava di persona. Daniel si chiese quali potevano essere le ragioni del suo successo in quel continente. Conosceva la mentalità africana meglio di moltissimi altri bian chi. Aveva imparato da ragazzo, negli accampamenti solitari dei cacciatori e dei cercatori minerari, quando per mesi aveva avuto sol tanto negri come compagni. Parlava una dozzina di lingue africane ma, soprattutto, capiva il modo di ragionare obliquo e tortuoso de gli indigeni. Aveva simpatia per loro, si trovava a suo agio in loro compagnia, sapeva conquistarne la fiducia. Durante i suoi viaggi, Daniel aveva incontrato uomini e donne di sangue misto, le cui ma dri erano turkana, shona o kikuya, convinti che il loro vero Padre fosse Tug Harrison. Naturalmente le loro affermazioni non erano mai provate ma, spesso, erano uomini ricchi e importanti. Di rado apparivano notizie o fotografie delle visite di Harrison sul continente africano; ma il suo jet Gulf Stream spesso era par cheggiato, con molta discrezione, nell'angolo più lontano dell'aero porto di Lusaka, Kinshasa o Nairobi. Si diceva che fosse ospite dei palazzi marmorei di Mobutu o del la residenza presidenziale di Kenneth Kaunda a Lusaka. Si insinua va che fosse tra i pochissimi ad avere accesso agli sfuggenti guerri glieri di Renamo nel Mozambico e dei campi di Savimbi nell'Ango la, e nel contempo era accolto con tutti gli onori dai regimi, più o meno legittimi, di cui quegli uomini erano gli oppositori. Correva voce che potesse alzare il telefono a ogni ora del giorno e della notte per parlare con de Klerk, Mugabe o Daniel Moi. Era il mediatore, il corriere, il consigliere, il banchiere, il nego ziatore del continente.
Daniel era ansioso di conoscerlo. Aveva tentato diverse volte di farlo, ma senza riuscirci. E adesso che era stato invitato si fermò davanti all'imponente portone, scosso da un certo nervosismo. Era un segno premonitore che gli era stato assai utile nella boscaglia africana: molto spesso l'aveva avvertito della vicinanza di bestie pe ricolose e di uomini più pericolosi ancora. Un servitore negro con kanza bianco e fez rosso venne ad aprir gli. Quando Daniel gli parlò in swahili, la faccia lignea si schiuse in un gran sorriso. Il servitore condusse Daniel su per la grande scalinata di marmo. C'erano fiori freschi nelle nicchie dei ballatoi, e Daniel riconobbe alcuni quadri della famosa collezione d'arte di Harrison appesi alle pareti: Sisley, Dufy e Matisse. Quando arrivarono davanti ai due battenti di tek rosso rhodesia no, il servitore si fece da parte e s'inchinò. Daniel entrò e si fermò al centro del tappeto serico di Qum. Tug Harrison si alzò dalla scrivania. Si capiva a prima vista per ché aveva quel soprannome: Tug, « il rimorchiatore ». Tarchiato e d'ossatura robusta, anche se l'elegante abito gessato smussava le li nee poderose della figura e il ventre prominente, Tug era calvo, a parte una frangia di capelli argentei, come quelli d'un frate tonsura to. La sommità del capo era pallida e liscia mentre la pelle del viso era raggrinzita e abbronzata nei punti in cui non era stata riparata dal sole tropicale. Il mento volitivo, gli occhi acuti e penetranti rive lavano un'intelligenza spietata. « Armstrong », esordì, « la ringrazio d'essere venuto. » La voce era calda come melassa, troppo morbida per la sua personalità. Te se la mano al di sopra della scrivania, costringendo Daniel ad avvi cinarsi: un sottile trucco da dominatore. « Grazie a lei per avermi invitato, Harrison. » Daniel evitò l'uso del titolo per mettersi su un piano di parità. Harrison socchiuse leg germente gli occhi. Si strinsero la mano e si studiarono; valutarono ognuno la forza fisica della stretta dell'altro senza lasciare che questo diventasse un'infantile prova di superiorità. Harrison indicò la poltrona di pel le sotto il Gauguin e si rivolse al servitore. « Letta chai, Selibi. Prende un tè, Armstrong? » Mentre il servitore versava il tè, Daniel lanciò un'occhiata ai corni di rinoceronte. « Non si vedono spesso trofei come quelli », commentò. Harri son lasciò la scrivania e si avvicinò alla porta. Accarezzò uno dei corni come se fosse il corpo di una donna amata. « No », ammise. « Ero un ragazzo, allora. Avevo seguito il vecchio maschio per quindici giorni. Era novembre, e a mezzogior no c'erano più di cinquanta gradi all'ombra. Quindici giorni, tre centoventi chilometri nel deserto. » Harrison scosse la testa. « Quan do si è giovani si fanno tante pazzie. » « E si fanno tante pazzie anche quando si è più vecchi », disse Daniel. Harrison ridacchiò. « Ha ragione. La vita non è divertente se non si è un po' matti. » Poi prese la tazza che il servitore gli porgeva. « Grazie, Selibi. Chiu di la porta quando esci. » Il servitore chiuse i due battenti e Harrison tornò alla scrivania. « L'altra sera ho visto il suo documentario su Channel Four », disse. Daniel inclinò leggermente la testa e attese. Harrison bevve un sorso di tè. La tazza di porcellana appariva fragile nelle sue mani. Erano mani di combattente, sfregiate e rovi nate dal sole tropicale, dalla fatica fisica e da antichi conflitti. Le nocche erano nodose ma le unghie erano curatissime. Harrison posò tazza e piattino sulla scrivania e alzò di nuovo gli occhi verso Daniel. « Ha fatto un ottimo lavoro », disse. « Ha capito veramente tutto. »
Daniel non fece commenti. Sentiva che ogni espressione di mo destia avrebbe irritato quell'uomo. « Ha compreso esattamente i fatti e ha tratto le giuste conclusio ni. E stato un cambiamento consolante, dopo tutte le stupidaggini sentimentali ed errate che ci tocca ascoltare tutti i giorni. Ha messo il dito sulle radici dei problemi africani: tribalismo, sovrappopola zione, ignoranza e corruzione. Le soluzioni che ha suggerito erano sensate. » Harrison annuì. « Sì, ha visto giusto. » Fissò Daniel con aria pensierosa. Gli occhi celesti e slavati gli davano un'espressione stranamente enigmatica, simile a quella di un cieco. « Non rilassarti », si disse Daniel. « Neppure per un momento. Non lasciarti ammorbidire dalle adulazioni. Ti sta dando la caccia come un vecchio leone. » « Un uomo nella sua posizione può influenzare l'opinione pub blica come nessun altro », mormorò Harrison. « Ha una reputazio ne, un'audience internazionale. La gente si fida di lei, basa il pro prio punto di vista su ciò che lei dice. E questo è un bene. » Annui con enfasi. « E un vero bene. Mi piacerebbe aiutarla e incorag giarla. » « La ringrazio. » Daniel si concesse un sorrisetto ironico. Era certo d'una cosa: Tug Harrison non faceva mai nulla senza una buona ragione. Non dispensava gratuitamente aiuti e incoraggia menti. « Come la chiamano, i suoi amici? Daniel, Dan o Danny? » « Danny. » « I miei amici mi chiamano Tug. » « Lo so », disse Daniel. « Noi due pensiamo in modo molto simile. Siamo entrambi lega ti all'Africa. Credo che dovremmo diventare amici, Danny. » « D'accordo, Tug. » Harrison sorrise. « Ha tutti i motivi per essere sospettoso. Lo ca pisco. Ho una certa reputazione. Ma non bisogna sempre giudicare un uomo dalla sua fama. » « Questo è vero. » Daniel sorrise. « Ora mi dica che cosa vuole da me. » « Accidenti! » Harrison rise. « Mi è simpatico. Ci siamo capiti molto bene, a quanto vedo. Pensiamo tutti e due che l'uomo abbia il diritto di esistere su questo pianeta e che, in quanto animale do minante, abbia anche il diritto di sfruttare la terra per proprio bene ficio, purché lo faccia servendosi di una produzione rinnovabile. » « Si », disse Daniel. « Lo penso anch'io. » « E un punto di vista equilibrato e pratico. Non mi aspettavo di meno da una persona della sua intelligenza. In Europa, l'uomo sta coltivando la terra, abbatte le foreste e uccide gli animali da secoli, eppure la terra è più fertile, le foreste più fitte, gli animali più nu merosi di mille anni fa. » « A parte i dintorni di Chernobyl e dove cadono le piogge aci de », osservò Daniel. « Ma sono d'accordo: l'Europa non è messa male. L'Africa è diversa. » Harrison continuò: « Noi due amiamo l'Africa. Ritengo che sia nostro dovere combattere i suoi mali. Posso fare qualcosa per alle viare la tremenda miseria di certe parti del continente, e, per mezzo di investimenti e direttive adeguate, sono in condizione di assicurare a certi popoli un tenore di vita più elevato. Lei, con le sue particola ri qualità, è in grado di lottare contro l'ignoranza che esiste nei con fronti dell'Africa. Può cancellare la confusione dei conservazionisti da salotto e dei fanatici dei diritti degli animali, che in realtà sono lontani dalla terra, dalle foreste e dagli animali al punto di minac ciare gli stessi elementi della natura che credono di proteggere ». Daniel annui senza sbilanciarsi. Sarebbe stato un errore dissenti re prima di aver ascoltato tutto ciò che l'altro aveva da dire, com presa la proposta che senza dubbio intendeva fargli. « In linea di
principio è tutto molto giusto. Ma le sarei grato se fosse un po' più preciso, Tug. » « D'accordo », disse Harrison. « Naturalmente conosce lo Stato dell'Ubomo, no? » Daniel fu scosso da un brivido elettrico. Era una cosa inaspetta ta e tuttavia gli sembrava voluta dal destino. Qualcosa lo aveva ine sorabilmente spinto in quella direzione. Impiegò un momento per riprendersi, poi disse: « Ubomo, il Paese della terra rossa. Si, ci so no stato, anche se non posso dire di conoscerlo bene ». « Da quando ha ottenuto l'indipendenza dalla Gran Bretagna negli anni '60 è rimasto in una condizione di arretratezza. » Harri son scrollò le spalle. « Non c'era molto da sapere. Era il feudo d'un vecchio, arrogante dittatore che si opponeva ai cambiamenti e al progresso. » « Victor Omeru », disse Daniel. « Lo conobbi anni fa, quando li tigava con i vicini per i diritti di pesca nel lago Rodolfo. » « Era tipico. Si opponeva a tutti i cambiamenti per ragioni di principio. Voleva conservare le usanze tradizionali. Voleva che il suo popolo continuasse a essere docile e sottomesso. » Harrison scrollò la testa. « Ormai è storia passata, Omeru non c'è più e a ca po del governo c'è un uomo giovane e dinamico. Il presidente Ephrem Taffari intende aprire le porte del Paese e condurre il suo popolo nel ventesimo secolo. A parte i diritti di pesca, l'Ubomo ha altre considerevoli ricchezze naturali. Legname e minerali. Per ven t'anni ho cercato di convincere Omeru che dovevano essere sfruttate per il bene del suo popolo. Ma si opponeva con cieca intransi genza. » « Sì, era ostinato », ammise Daniel. « Ma mi era simpatico. » « Oh, sì, era un vecchietto amabile e un po' strano », disse Har rison. « Però la cosa non ha più importanza. Ormai il Paese è pron to per lo sviluppo e, per conto d'un consorzio internazionale di cui la BOSS è l'esponente principale, ho negoziato la concessione per av viare la maggior parte di questo sviluppo. » « Allora sembra che non abbia bisogno di me. » « Vorrei che fosse così semplice. » Harrison scosse la testa. « Ma siamo stati investiti dall'ondata d'isteria che sta travolgendo il mon do. E una legge psicologica: ogni movimento di massa viene dirotta to da fanatici e spinto al di là dei confini della ragione e del buon senso. Il pendolo dell'opinione pubblica oscilla sempre da un estre mo all'altro. » « Sta incontrando un'opposizione ai suoi piani per lo sviluppo delle risorse naturali dell'Ubomo. E questo che sta cercando di dir mi, Tug? » Harrison inclinò la testa da una parte. Quando faceva quel gesto sembrava un'aquila, un grande e calvo rapace. « E molto franco, giovanotto: ma dovevo aspettarmelo. » Sedette alla scrivania e prese una pistola da duello con il calcio d'avorio che usava come ferma carte. La fece roteare sull'indice e gli intarsi d'oro sulla canna scin tillarono come in un fuoco d'artificio. « C'era una donna, una scienziata che lavorava nell'Ubomo du rante la presidenza di Omeru », continuò. « Il vecchio le era molto affezionato e le accordava tutti i privilegi speciali negati invece agli altri giornalisti e ricercatori. Questa scienziata ha pubblicato un li bro sugli abitanti delle foreste dell'Ubomo. Io e lei li chiameremmo pigmei, anche se è un termine sconsigliabile, data la situazione at tuale. Il titolo era... » Harrison s'interruppe per riflettere, e Danny intervenne. « Era Il pOpolo degli alberi alti. Sì, l'ho letto. L'autrice è Kelly Kinnear. » « La conosce? » chiese Harrison. « No. » Daniel scosse la testa. « Ma mi piacerebbe. Scrive molto bene. Il suo stile mi ricorda quello di Rachel Carson. E una... » « Una piantagrane », l'interruppe bruscamente Harrison. « Una
che pesca nel torbido e rimesta nella merda. » Quell'espressione vol gare sembrava in contrasto con il suo carattere. « Si spieghi meglio. » Daniei mantenne un'aria neutrale. Non vo leva dire ciò che pensava prima di aver ascoltato Harrison sino in fondo. « Quando ha preso il potere, il presidente Taffari ha mandato a chiamare la donna, che in quel periodo stava lavorando nella fore sta. Le ha spiegato i suoi piani per il progresso del Paese e ha chie sto appoggio e collaborazione. L'incontro è andato male. Kelly Kin near nutre una mal riposta lealtà per il vecchio presidente Omeru, e non ha accettato le profferte amichevoli di Taffari. Naturalmente ha diritto di pensare ciò che vuole; ma poi ha dato l'avvio a una campagna diffamatoria contro il nuovo presidente, accusandolo di violare i diritti umani e di progettare il saccheggio delle risorse natu rali dell'Ubomo mediante uno sfruttamento incontrollato. » Harri son alzò le possenti mani sfregiate. « Anzi, ha avuto una crisi isteri ca e ha attaccato il nuovo governo in tutti i modi possibili. Sono at tacchi privi di logica e di ragione. Taffari non ha potuto far altro che mandarla via. L'ha espulsa dal Paese. Come probabilmente lei saprà, è suddita britannica, ed è finita di nuovo qui nel Regno Uni to. Ma non ha imparato la lezione e continua la sua campagna con tro il governo dell'Ubomo. » « Ma la BOSS non deve certo preoccuparsi, vero? » chiese gentil mente Daniel. Harrison lo fissò, cercando una traccia d'ironia in quella domanda. Poi rivolse l'attenzione alla pistola da duello che teneva ancora nella destra. « Purtroppo quella donna ha una certa influenza, grazie al suc cesso dei suoi libri. E eloquente e... e simpatica. Riesce a nasconde re il fanatismo sotto un'apparente logica che, è superfluo aggiunge re, si basa su tesi false e fatti distorti. Ha ottenuto l'appoggio dei verdi, in questo Paese e sul continente. Certo, la BOSS non deve preoccuparsi di una ciarlatana, ma è comunque una rompiscatole e, in più, molto telegenica. Adesso ha saputo del nostro interesse per l'Ubomo e dei piani che il nostro consorzio intende realizzare in quell'area. Lei e i suoi sostenitori stanno facendo un gran chiasso. Ha letto quel pezzo apparso di recente sul Guardian? » « No. » Daniel scosse la testa. « Non leggo il Guardian e ultima mente ho avuto molto da fare. Ho perso un po' i contatti. » « Bene, allora mi creda: mi rende la vita piuttosto difficile. Devo rispondere ai miei azionisti, e manca poco all'assemblea annuale. Ora ho appena saputo che questa donna ha acquistato un pacchetto di azioni della BOSS, il che le dà il diritto di partecipare all'assemblea e di prendere la parola. Può star certo che si farà accompagnare dalla stampa radicale e da un branco di fanatici degli 'Amici della Terra', e farà una scena da circo. » « Molto seccante, Tug. » Daniel represse un sorriso. « Come pos so aiutarla? » « La sua influenza negli ambienti pubblici e scientifici è molto più grande di quella di Kelly Kinnear. Ho parlato con molte persone di campi diversi, e lei è assai stimato. Le sue idee sull'Africa vengo no prese sul serio. Le propongo di andare nell'Ubomo a girare un documentario che esponga la verità e approfondisca i problemi sol levati da quella Kinnear. Sarebbe sufficiente per liquidarla. La tele visione è un mezzo più potente della carta stampata e io potrei ga rantirle la massima diffusione. La BOSS ha grossi interessi nei media... » Daniel ascoltava con crescente incredulità. Era come ascoltare un cliente che si rivolgeva a una prostituta per soddisfare una sua perversione piuttosto squallida. Provava l'impulso di esplodere in una risata d'indignazione, di respingere con violenza l'insulto alla sua integrità. Quell'uomo credeva davvero che fosse in vendita. Gli costava fatica restare immobile ad ascoltarlo. « Naturalmente potrei garantirle anche la più completa collabo
razione del presidente Taffari e del suo governo. Le fornirebbero tutto il necessario. Non dovrebbe far altro che chiedere per avere a disposizione mezzi di trasporto militari, elicotteri, motovedette la custri. Potrebbe andare dappertutto, persino nell'area chiusa delle riserve forestali. Potrebbe parlare con chiunque... » « Anche con i prigionieri politici? » Daniel non seppe trattenersi. La domanda gli era sfuggita. « I prigionieri politici? » ripeté Harrison. « Perché diavolo vor rebbe parlare con loro? Sarà un documentario sull'ambiente e sullo svilupPo d'una società arretrata. » « Sì, ma immaginiamo che volessi parlare con i detenuti politi ci », insistette Daniel. « Senta, giovanotto, Taffari è un progressista, uno dei pochi di rigenti onesti e impegnati del continente. Non credo che nel suo Paese ci siano prigionieri politici. Non è nel suo stile. » « Che fine ha fatto Omeru? » chiese Daniel. Harrison posò la pistola da duello sulla scrivania, con le canne puntate al petto dell'ospite. « Ho l'impressione che lei sia ostile al governo dell'Ubomo. E alla mia proposta », disse a voce bassa. « No. Voglio soltanto sapere in che situazione andrò a cacciar mi. Sono un uomo d'affari come lei, Tug. Io voglio dei fatti, non mi interessa la pubblicità. Sono sicuro che mi capisce e che li vor rebbe anche lei, se fosse al mio posto. Se devo firmare qualcosa, de vo sapere di che si tratta. » « D'accordo. » Harrison si rilassò. Era una spiegazione che pote va comprendere. « Omeru era un vecchio ostinato. Taffari non ave va altra scelta che tenerlo isolato durante il periodo di transizione. Era agli arresti domiciliari e veniva trattato bene. Poteva vedere i suoi avvocati e il suo dottore. E morto d'un attacco di cuore. Taffa ri non ha ancora dato l'annuncio della morte: potrebbe suscitare so spetti indesiderabili. » « Per esempio, un'esecuzione sommaria senza processo », sugge rì Daniel, con un senso di rammarico per il vecchio presidente. « Sì, potrebbe dare questa impressione », ammise Harrison. « Anche se Taffari mi ha assicurato, e ho tutte le ragioni di creder gli, che non è andata affatto così. » « D'accordo, accetto la sua parola », disse Daniel. « Ora parlia mo delle spese di questa produzione. Non sarebbe certo una cosa a buon mercato. Così, a occhio e croce, direi un paio di milioni. Im magino che lei vorrebbe un lavoro di prim'ordine. Chi paga? La soss? » « Sarebbe un po' troppo ovvio », rispose Harrison. « Ridurrebbe il livello della sua produzione a una semplice manovra propagandi stica aziendale. No, le procurerei finanziamenti esterni. Il denaro arriverebbe tramite una società dell'Estremo Oriente. Sebbene fac cia parte del consorzio, non è legata apertamente alla BOSS, in que sta fase. E possiede a Hong Kong una casa cinematografica che po tremmo usare come facciata. » « Come si chiama la società madre? E dove ha la sua sede? » chiese Daniel. Avvertiva una strana premonizione, lo stesso senso di predestinazione che l'aveva già turbato. « La società madre è taivvanese. Non è molto nota ma è ricchissi ma e potente. Gente di prim'ordine, le garantisco: ma è chiaro che firmerei personalmente l'eventuale contratto che concluderebbe con loro. » « Come si chiama la società? » « Ha un nome piuttosto altisonante, tipicamente cinese. E la Lucky Dragon. » Daniel lo fissò. Per un momento non riuscì a parlare. Il destino di Ning Deng Kong era stranamente legato al suo dall'assassinio di Johnny Nzou. Sapeva che doveva continuare a giocare la partita si no in fondo. « C'è qualcosa che la preoccupa, Danny? » Harrison sembrava
allarmato, e Daniel si accorse di aver lasciato trasparire la propria agitazione. « No, stavo solo riflettendo sulla proposta. In linea di principio, accetto. » Daniel si scosse. « Naturalmente ci sarà da vedere il con tratto e le varie clausole da negoziare. Vorrei una percentuale sugli incassi lordi, un bilancio preventivo per la pubblicità, la libera scel ta della mia troupe, soprattutto del cameraman, e il controllo della versione definitiva. » « Sono sicuro che ci accorderemo sui dettagli. » Harrison sorrise. Con un dito fece ruotare la pistola da duello, distogliendo le canne dal petto di Daniel. « Dica alla sua agente di venire da me al più presto possibile. E ora penso che il sole stia tramontando, quindi brinderemo al nostro accordo con qualcosa di più sostanzioso del tè Darjeeling. »
« Stai a sentire, Bonny, sarebbe molto più semplice se tu avessi un agente », disse Daniel in tono serio. « Non mi diverto a mercan teggiare con te. Credo che il compito di un artista sia quello di esse re creativo, non di sprecare tempo e talento esaminando le clausole scritte in caratteri minuscoli su un contratto. » « Tu sei stato sincero con me e io lo sarò con te, Danny. Non mi va di cedere a un mediatore il venti per cento di quel che guadagno con tanta fatica. E poi non sono d'accordo. Stipulare un contratto può essere piacevolmente creativo quanto dipingere un quadro o scegliere un'inquadratura. » Bonny si sfilò le scarpe. I piedi nudi erano forti e ben fatti come le mani. Piegò le gambe inguainate dai jeans e si assestò sul divano di pelle. « Parliamo d'affari. » « D'accordo », capitolò Daniel. « Per principio, non pago a ore la troupe e non riconosco gli straordinari. Lavoriamo quando c'è da lavorare e per tutto il tempo necessario. Andiamo dove dico io e vi viamo come capita. Niente sistemazioni in alberghi a cinque stelle. » « Mi pare che così vadano bene duemila a settimana », disse soa vemente Bonny. « Duemila dollari? » « Non siamo a New York, fratello Dan. Siamo a Londra. Ster line. » « E parecchio. Non ci arrivo neppure io », protestò Daniel. « No, ma probabilmente becchi il venti per cento degli incassi, mentre io devo accontentarmi d'un miserabile cinque per cento. » « Il cinque per cento degli incassi oltre a duemila sterline la setti mana. » Daniel la guardò inorridito. « Vorrai scherzare. » « Se scherzassi, starei sorridendo, non ti pare? » « Non ho mai dato una percentuale a un cameraman. » « Quando ti sarai abituato all'idea, non la troverai più tanto do lorosa. » « Stammi a sentire: facciamo milleduecento la settimana e lascia mo perdere la percentuale. » « Qui dentro l'acustica è tremenda: non posso credere a quello che mi è parso di sentire. Voglio dire, non avrai intenzione d'insul tarmi, vero, Danny caro? » « Vuol farmi un favore, signorina Mahon? Vuole allacciare l'ul timo bottone della camicetta mentre parliamo? » La parte superiore del petto di Bonny era lentigginosa quanto il volto. Era visibile nella profonda scollatura a v; ma al di sotto della linea, dove il sole non l'aveva macchiata, la carnagione era bianca come il latte. Sotto la leggera camicetta di cotone i seni, non impri gionati in un reggiseno, erano sodi. Bonny si guardò la scollatura. « Hanno qualcosa che non va? » chiese con un sorriso malizioso. « No. Per niente. E proprio di questo che mi lamento. » Bonny allacciò il bottone. « Hai detto millesettecentocinquanta e il quattro per cento? » chiese.
« Hai ragione. L'acustica non va proprio », ammise Daniel. « Ho detto millecinque e l'uno e mezzo per cento. » « Il due per cento », insistette Bonny, e quando Daniel si arrese con un sospiro, soggiunse astutamente: « E cento sterline al giorno per le spese » . Impiegarono quasi tre ore per definire le condizioni del contrat to; e alla fine Daniel si accorse che la sua simpatia per Bonny era temperata dal rispetto. Era una ragazza veramente dura. « Abbiamo bisogno di una lettera d'intenti? » chiese. « Oppure basta una stretta di mano? » « La stretta di mano andrà bene », rispose lei. « Purché sia con fermata da una lettera d'intenti. » Daniel andò in ufficio e batté al computer una bozza del con tratto, poi la chiamò per controllare il testo sullo schermo. Bonny si mise dietro di lui e si chinò per leggere. Uno dei seni gli premette contro la schiena. Era caldo come un melone tsama appena tolto dalla sabbia del Kalahari. « Non hai precisato che i biglietti d'aereo devono essere di prima classe », osservò Bonny. « E che il pagamento decorre dalla data del contratto. » L'odore della pelle di Bonny, che Daniel aveva notato al primo incontro, era più accentuato. L'aspirò con piacere. Gli ricordava che viveva in astinenza da quasi un anno. « Bravo », lo elogiò Bonny quando Daniel ebbe introdotto le modifiche richieste. « Così va bene. » Il timbro della voce era cam biato: era più sommesso e nel contempo più vibrante. Anche nell'o dore del suo corpo c'era un cambiamento sottile. Riconosceva il sentore muschiato e inebriante della femmina eccitata. Bonny stava riempiendo l'aria di feromoni che mettevano i suoi ormoni in uno stato di allarme rosso. Daniel stentava a concentrarsi mentre sfornava quattro copie dell'accordo, una per ognuno di loro, una terza per Elna e una quarta per l'ufficio legale della BOSS. Bonny si sporse per firmare tutte le copie. Gli premette contro le spalle e gli alitò sulla guancia il respiro ardente. Gli porse la penna e Daniel appose la firma sotto la sua. « Ci stringiamo la mano, adesso? » le chiese, porgendole la de stra. Bonny la ignorò: gli tese la mano sopra la spalla, gli sbottonò la camicia e vi insinuò le dita. « Ho in mente qualcosa di più vincolante d'una semplice stretta di mano all'antica », mormorò, e gli strinse un capezzolo fra le un ghie. Daniel si lasciò sfuggire un'esclamazione, più di piacere che di dolore. « Danny caro, io e te resteremo soli nella giungla per sei mesi o più. Io sono una donna con sani appetiti. Succederà inevitabil mente, prima o poi, e quindi tanto vale che sia prima. Sarebbe un disastro se aspettassimo di essere in Africa e poi scoprissimo che non ci piace. Non sei d'accordo? » « La tua è una logica inconfutabile », rise Daniel, un po' incer to. Bonny gli afferrò un ciuffo di peli del petto e tirò per costrin gerlo ad alzarsi. « Dov'è la camera da letto? E meglio che ci mettiamo co modi. » « Seguimi. » Daniel la prese per mano e la condusse alla porta. Quando furono al centro della stanza, Bonny si scostò non ap pena lui cercò di abbracciarla. « No. Non toccarmi. Non ancora. Voglio continuare fino a che diventerà insopportabile. » Rimase davanti a lui, a un braccio di distanza. « Fai come me », ordinò e cominciò a sbottonarsi la camicetta. Aveva i capezzoli simili a boccioli di rosa in miniatura scolpiti nel corallo chiaro. « Sei peloso e muscoloso come un grizzly. Mi fai accapponare la pelle », disse Bonny, e Daniel vide che i capezzoli si ergevano in
punte rosate e si scurivano mentre la pelle tutto intorno si corru gava. Il suo corpo reagì in modo ancora più teatrale, e Bonny lo guardò senza imbarazzo e rise mentre si apriva la cintura. I jeans erano attillati. Si divincolò per sfilarli. « Esodo », disse Daniel. « Capitolo terzo. » « Non sei originale. » Bonny si guardò, soddisfatta. « Ho già sentito questa citazione: il roveto ardente. » Si passò lentamente le unghie tra i folti riccioli fiammeggianti alla base del ventre candi do. Erano così densi che frusciavano. Era uno dei gesti più tor mentosamente erotici che Daniel avesse mai visto. « Su, sbrigati », lo incoraggiò lei. « Sei rimasto indietro. » Daniel si lasciò cadere i jeans intorno alle caviglie. « Chi abbiamo qui? » Bonny lo studiò con franchezza. « Sta sull'attenti e smania di sacrificarsi nel roveto ardente? » Tese la mano per afferrarlo. « Vieni, ometto », mormorò con voce guttu rale, e con quel malizioso sorriso da maschiaccio lo condusse ver so il letto. La sede centrale della BOSS era in Blackfriars, nella City, di fron te al può che sorgeva sul luogo dell'antico convento e dava il nome alla zona. Daniel e Bonny uscirono dalla stazione della metropolitana e si fermarono a osservare il palazzo. « Merda », disse lei a bassa voce. « E rococò imperiale romano, con un tocco da circo Barnum & Bailey. » La sede della BOSS faceva sembrare inconsistente, al confronto, il palazzo dell'Unilever in fondo alla strada, poiché, pur riprendendo ne i fregi, le colonne e le statue degli dèi greci, li aveva decuplicati di numero, senza contare che, invece del granito, Harrison aveva fatto costruire il tutto in marmo. « Se l'avessi visto prima avrei chiesto cinquemila sterline a setti mana. » Bonny strinse il braccio di Daniel. « Ho l'impressione d'es sermi fatta fregare. » Salirono la scalinata mentre gli dèi li fissavano aggrottando la fronte e varcarono la porta girevole. Il pavimento dell'atrio era una scacchiera di marmo nero e bianco. Il tetto era a volta e tutto dora to, con pannelli stile rococò che raffiguravano il giudizio universale o i dieci comandamenti. Non era facile capirlo: comunque c'era un grande movimento fra le ninfe, i cherubini e i serafini. « Ci benedica, padre, perché abbiamo peccato », disse allegra mente Bonny, alzando gli occhi al cielo. « Sì, ma è stato uno spasso », mormorò Daniel. Il capo delle pubbliche relazioni li stava aspettando al banco. In dossava un completo scuro e incarnava perfettamente l'immagine del giovane dirigente della BOSS. « Salve, io sono Pickering », disse. « Voi dovete essere il dottor Armstrong e la signorina Mahon. » Prese la mano di Bonny e la squadrò rapidamente dalla pettinatura fiammeggiante agli stivali da cowboy. Sembrava diviso fra la disapprovazione per i jeans e il giubbotto di pelle grondante di perline e l'approvazione per il suo seno. « Vi ho organizzato una seduta informativa sull'Ubomo. » « Benissimo. Allora procediamo. » Daniel riuscì a distoglierlo dalla scollatura di Bonny, e Pickering li condusse su per l'imponen te scalinata, continuando a parlare come una guida turistica. Indicò i pannelli a specchio. « Francesi, naturalmente, venuti da Versailles dopo la rivoluzione. E quei due quadri sono Gainsbo rough. L'arazzo è un Aubusson, quello è un Constable... » Si lasciarono indietro gli splendori dei locali aperti al pubblico e si avventurarono nella parte posteriore del palazzo, lungo un labi rinto di corridoi. Passarono davanti a dozzine di angusti uffici, di visi da pareti prefabbricate, dove i battaglioni della BOSS sgobbava no sotto i condizionatori ronzanti. Pochissimi alzarono le teste al passaggio dei tre. « Bestiame. » Bonny diede una gomitata a Daniel. « Come posso
no sopportare di vivere in questo mattatoio dello spirito? » Finalmente Pickering li fece entrare in una sala per le conferen ze. Era senza dubbio un luogo riservato alle riunioni dei dirigenti di basso e medio livello. Il pavimento era rivestito di piastrelle di gom ma e i divisori mostravano i grafici dell'organigramma e dei diparti menti della società. I mobili erano di laminato, cromati e rivestiti in plastica. Daniel sorrise, pensando che quella stanza doveva contrastare con la magnificenza della sala del consiglio d'amministrazione che si trovava nella parte anteriore del palazzo, vicino all'ufficio perso nale di Tug Harrison. Quattro uomini li stavano aspettando intorno al tavolo dei rin freschi, nell'angolo. Pickering li presentò. « Questo è George Anderson, uno dei nostri geologi, responsabi le delle attività minerarie nell'Ubomo. Il suo assistente, Jeff Ait kens. E questo è Sidney Green, che coordina le concessioni per il le gname e la pesca, e infine Neville Lawrence dell'ufficio legale, che potrà rispondere anche alle vostre eventuali domande sulle prospet tive finanziarie. Posso offrirvi uno sherry? » La presenza di Bonny Mahon servì a rilassare l'atmosfera molto più dello sherry scadente. Pickering concesse loro dieci minuti, poi li fece sedere sulle sedie rivestite di plastica intorno al tavolo di finto noce. « Bene, non starò a fare troppe cerimonie. E una cosa en famil le. Secondo gli ordini ricevuti, deve essere un briefing assolutamente franco e aperto. Dottor Armstrong, si ritenga libero di fare tutte le domande che le vengono in mente; faremo del nostro meglio per ri spondere. Per prima cosa, mi sia permesso dire che siamo felici ed emozionati all'idea che la BOSS Si associ a questo imponente proget to per migliorare l'economia dell'Ubomo e sviluppare le ricche ri sorse naturali di quel piccolo, bellissimo Paese per il bene di tutti i suoi cittadini. » Sfoggiò un sorriso virtuoso, poi adottò un tono più pratico. « Le concessioni della BOSS rientrano in quattro categorie. Innanzi tutto ci sono i giacimenti minerari. Poi il legname e l'agri coltura. Quindi vengono i progetti per la pesca e l'acquicoltura, e infine l'industria alberghiera e turistica, incluso il casinò. Noi spe riamo che lo sviluppo di tutte queste risorse contribuisca a fare del l'Ubomo uno dei piccoli Paesi più prosperi del continente africano. Prima di chiedere ai nostri esperti di discutere dettagliatamente il potenziale economico dell'Ubomo, vi fornirò alcune cifre e notizie di carattere generale. Vediamo la mappa. » Pickering si girò verso la console dell'apparecchiatura audiovisi va e regolò l'illuminazione centrale. « Bene. Possiamo cominciare. » Sullo schermo apparve la mappa dell'Ubomo. « La Repubblica Democratica Popolare dell'Ubomo è situata fra i laghi Alberto ed Edoardo, sulla scarpata della Rift Val ley, nell'Africa centro-orientale. Confina a ovest con lo Zaire, ex Congo Belga, e a est con l'Uganda... » Pickering indicò le frontiere e le caratteristiche fisiche principali. « La capitale Kahali sorge sulla riva del lago, ai piedi della catena del Ruwenzori, meglio conosciuta con il poetico nome di Monti della Luna. Il primo esploratore euro peo che diede notizia dell'esistenza di questi monti fu il capitano John Hanning Speke, il quale esplorò la zona nel 1862. » Pickering cambiò l'immagine sullo schermo. « Si calcola che la popolazione dell'Ubomo conti all'incirca quattro milioni di abitan ti, anche se non è mai stato fatto un censimento. Potete vedere la suddivisione in tribù. La più numerosa è quella degli uhali, ma l'at tuale presidente Taffari e quasi tutti i membri del suo consiglio mili tare sono hita. In tutto, nell'Ubomo sono rappresentati undici grup pi tribali; il più piccolo è quello dei bambuti, comunemente noti co me pigmei. Circa venticinquemila vivono nelle foreste pluviali equa toriali nel nord del Paese. E qui sono situate le principali concessio ni minerarie della BOSS. »
Pickering conosceva bene il suo mestiere. Aveva raccolto con cura le informazioni e le presentava in modo vivace e interessante. Ma aveva da dire ben poco che Daniel non conoscesse già. Bonny fece qualche domanda, e Pickering rispose fissandole il seno. Daniel si accorse che quell'incapacità di staccare gli occhi dal le due protuberanze cominciava a irritarlo: provava per quel settore un interesse esclusivo. Dopo Pickering, gli altri esperti si alzarono uno dopo l'altro per spiegare i progetti. Sidney Green mostrò gli schizzi preparati dagli architetti per le località turistiche e il casinò che contava di costruire sulla riva del lago. « Prevediamo che il maggiore afflusso dei turisti arriverà dall'Europa meridionale, in particolare dall'Italia e dalla Francia. Il volo da Roma richiede meno di otto ore. Contiamo di avere mezzo milione di visitatori ogni anno. E a parte il turismo, progettiamo una grande industria d'acquicoltura... » E passò a spiegare che le acque del lago sarebbero state pompate nei bacini chiusi da dighe, dove sarebbero stati allevati gamberi d'acqua dolce e altri animali esotici. « Ci proponiamo una produzione annuale di un milione di ton nellate di proteine secche grazie all'acquicoltura, oltre a un altro mi lione di tonnellate di pesce secco e surgelato proveniente dai laghi. Stiamo esaminando la possibilità di introdurre nei laghi popolazioni di pesci ad alto rendimento, per integrare le specie indigene. » « E quali saranno le conseguenze per l'ecologia del lago? » chiese Daniel in tono diffidente. « In particolare, la costruzione delle dar sene e dei porti turistici e l'introduzione nelle acque del lago di spe cie esotiche come la carpa e il gamberetto asiatico. » Green sorrise come un rivenditore d'auto usate. « Al momento se ne sta occupando a fondo un gruppo di esperti. Prevediamo che il rapporto sarà pronto verso la metà dell'anno. Comunque non cre diamo che ci saranno problemi. » « Giustissimo », pensò Daniel. « Non faranno storie, dato che è il mio amico Tug quello che assume e licenzia. » Sidney Green continuò, sempre sorridendo, a discutere il poten ziale agricolo. « Nella savana boscosa che copre la metà orientale del Paese, la mosca tse-tse, Glossina morsitans, rende inservibile una grande estensione di ottimi terreni per l'allevamento del bestiame. Alla pri ma occasione, però, in collaborazione con il governo dell'Ubomo, intraprenderemo un programma d'irrorazione aerea per eliminare questo insetto pericoloso. Allora la produzione di carne bovina ac quisterà una grande importanza per l'economia. » « Irrorazione aerea? » chiese Daniel. « Che sostanze verranno usate? » « Sono lieto di annunciare che la BOSS ha acquistato diverse mi gliaia di tonnellate di Selfrin a prezzi molto favorevoli. » « I prezzi favorevoli hanno qualcosa a che vedere con il fatto che il Selfrin è stato vietato negli Stati Uniti e nei Paesi del Mercato co mune europeo? » « Le assicuro, dottor Armstrong », rispose Green con un sorriso tranquillo, « che nell'Ubomo l'uso del Selfrin non è vietato. » « Oh, allora va bene. » Daniel annuì e ricambiò il sorriso. Aveva sentito l'odore del Selfrin nelle paludi dell'Okavango e nella valle dello Zambesi. Aveva visto le devastazioni a danno di intere specie d'insetti, di uccelli e dei piccoli mammiferi che se ne nutrivano. « Purché sia legale, nessuno può fare obiezioni, vero? » « Sì, dottor Armstrong. » Sidney Green cambiò l'immagine sullo schermo. « Queste aree della savana che non sono adatte all'alleva mento del bestiame verranno coltivate a cotone e canna da zucche ro. L'acqua per l'irrigazione verrà pompata dai laghi. Le paludi e gli acquitrini a nord saranno prosciugati... ma naturalmente sono progetti a lungo termine. Il nostro cash-flow immediato sarà assicu rato dallo sfruttamento del legname delle foreste della catena occi
dentale. » « Gli 'alberi altl' », mormorò Daniel. « Scusi? » « No, niente d'importante. Continui, prego. Mi interessa molto. » « Naturalmente, l'utilizzazione del legname dovrà procedere di pari passo con le attività minerarie. Nessuno dei due progetti, di per sé, sarebbe redditizio ma, se realizzati in parallelo, lo diventano. Il legname coprirà le spese dirette dello sviluppo, e la produzione mi neraria diventerà quasi interamente un utile. Comunque, lascerò al nostro geologo George Anderson il compito di spiegare tutto. » Anderson aveva un'espressione impassibile: sembrava di pietra come uno dei suoi campioni geologici. Parlava in tono asciutto, la conico. « I soli giacimenti minerari utilizzabili scoperti finora nell'Ubo mo si trovano nel quadrante nord-occidentale, sotto le foreste che coprono le pendici inferiori settentrionali della catena montuosa, nel bacino del fiume Ubomo. » Anderson spostò il cursore sulla mappa, lentamente. « Questa foresta è formata da una cinquantina di varietà di alberi economicamente interessanti, inclusi la quercia africana, il mogano, il noce, il cedro rosso e la pianta del kapok. Non starò ad annoiarvi con le loro denominazioni botaniche; basti dire che la loro esistenza offre grossi vantaggi economici, come ha fatto notare il mio collega. » Rivolse un fiacco cenno a Green, che rispose con il fulgido sorriso da rivenditore d'auto usate. « Il suolo della foresta è formato per la maggior parte da lateriti il cui colore dà il nome all'Ubomo, il 'fiume rosso', anzi all'intera nazione: 'il Paese della terra rossa'. Per fortuna si tratta di uno strato molto sottile, di solito non più di quindici metri; e al di sotto c'è una formazione precambriana. » Il geologo sorrise con la solita aria affaticata. « Anche in questo caso non starò ad annoiarvi con i dettagli tecnici, ma si tra.ta di un suolo che contiene quantità signi ficative di una terra rara, la monazite, oltre a importanti filoni di platino distribuiti quasi uniformemente ai livelli superiori. E una se rie unica. Non esistono altre formazioni conosciute che comprenda no questa particolare gamma di minerali. Ognuno di essi si presenta in basse concentrazioni, a volte solo in tracce. Presi a uno a uno, non varrebbe la pena di sfruttarli ma, considerati nel complesso, si curamente si riveleranno redditizi, senza contare che, a tutto que sto, va aggiunta la notevole quantità di legname che verrà raccolto via via che si metterà allo scoperto il deposito. » « Mi scusi, signor Anderson », l'interruppe Daniel. « Sta pensan do di sfruttare a cielo aperto il bacino del fiume Ubomo? » George Anderson lo guardò come se fosse stato colpito da un'improvvisa fitta allo stomaco. « Dottor Armstrong, il termine 'sfruttamento a cielo aperto' ha una carica emozionale di sottintesi negativi. La BOSS non ha mai in trapreso sfruttamenti a cielo aperto in nessuna località del mondo. Devo essere molto chiaro in proposito. » « Mi perdoni. Mi pareva che le miniere di rame della società a Quantra, in Cile, fossero miniere di sfruttamento a cielo aperto. » Anderson assunse un'aria offesa. « Miniere a cielo aperto, dot tor Armstrong, non a sfruttamento a cielo aperto. » « C'è differenza? » « Sì, naturalmente. Ma credo che non sia il momento né il luogo per discuterne. Mi lasci dire soltanto che per le miniere a cielo aper to che intendiamo realizzare nell'Ubomo terremo pienamente conto dell'ambiente. Opereremo secondo una politica di ricolmatura e rin novamento. La BOSS adotta una politica 'verde' nei confronti della natura. Anzi, dottor Armstrong, noi siamo convinti che a lungo ter mine l'ambiente risulterà migliorato in modo significativo da ciò che ci accingiamo a fare. » Anderson fissò Daniel con aria di sfida, e Daniel fu sul punto di
alzarsi per ribattere; ma, con uno sforzo, riuscì a sorridere e ad an nuire. « Mi scusi se faccio la parte dell'avvocato del diavolo, signor Anderson. Sono le domande che farà la gente, e devo essere in gra do di rispondere. La BOSS mi paga per questo. » Anderson si rabbonì. « Sì, certo. Ma devo ripeterlo: la BOSS è un'azienda 'verde'. E la politica di sir Peter. So che sta addirittura pensando di cambiare il logo della società. Attualmente rappresenta un piccone da minatore e un vomere, ma intende aggiungervi un al bero verde per simboleggiare il nostro interesse per la natura. » « Mi sembra d'ottimo gusto. » Daniel sorrise. Sapeva che la di scussione sarebbe stata riferita a Tug Harrison, e forse veniva anche registrata. Se avesse manifestato un'opposizione aperta, il viaggio gratis nell'Ubomo e il contatto con la Lucky Dragon e Ning Deng Kong si sarebbero dileguati. « Con le assicurazioni che voi, signori, mi avete fornito, potrò mostrare al mondo i benefici enormi che sa ranno arrecati al Paese dallo sviluppo intensivo intrapreso dal con sorzio della BOSS. » Dato che stava parlando per i microfoni nascosti, continuò con enfasi: « Ora voglio un plastico del complesso alberghiero sulla riva del lago. Vorrei filmare la zona com'è oggi per poi sovrapporvi il progetto, in modo da mettere in risalto le sue caratteristiche e mo strare come si armonizza con l'ambiente naturale ». « A questo provvederà Sidney Green », disse Pickering. « Bene. Poi voglio i dettagli dell'attuale reddito annuopro capite dei cittadini di Ubomo e una stima di quello che diventerà fra cin que o dieci anni, quando cominceranno a farsi sentire i benefici del nuovo programma di sviluppo. » « Ci pensi tu, vero, Neville? » La riunione continuò per un'altra mez'ora, poi Daniel conclu se: « Come autore del documentario devo basare la mia produzione su un tema. L'opinione comune sull'Africa, oggi, è quella di un continente traumatizato, alle prese con insolubili problemi demo grafici, economici e politici. Io vorrei esprimere un diverso punto di vista. Voglio mostrare al mondo come potrebbe e dovrebbe essere. A mio parere, il tema del mio documentario potrebbe essere... » Fe ce una pausa teatrale, poi alzò una mano per incorniciare uno schermo immaginario: « Ubomo, la strada per il futuro dell'A Srica » Gli uomini intorno al tavolo applaudirono, e Pickering riempì di sherry i bicchieri. Mentre riaccompagnava Daniel e Bonny all'uscita, disse in tono gioviale: « E andata piuttosto bene. Credo che abbiate fatto tutti e due una buona impressione ». Era raggiante come un maestro sod disfatto dei suoi alunni. « Ora una piccola sorpresa. Sir Peter Harri son », spiegò con aria reverente, come se avesse pronunciato il nome di una divinità, ccha espresso il desiderio di parlare con lei e con la signorina Mahon. » Non attese il loro consenso: li guidò verso gli ascensori. Attesero cinque minuti nell'anticamera dell'ufficio di Tug Harri son, appena il tempo sufficiente per ammirare le inestimabili opere d'arte in mostra alle pareti e nelle vetrinette. Poi una delle tre gra ziose segretarie alzò la testa e sorrise. « Prego, mi seguano. Sir Peter li sta aspettando. » Mentre si avviavano verso la porta in fondo, Pickering si fermò. « Vi aspetto qui. Non trattenetevi più di tre minuti. Sir Peter ha molto da fare. » Le grandi finestre dell'ufficio di Harrison erano affacciate sul Tamigi e il National Theatre. Quando si voltò, la luce gli balenò sulla testa calva come un eliografo. « Danny », disse tendendo la mano nodosa. « Sono stati cortesi con lei? » « Non poteva andar meglio », gli assicurò Daniel. « In base a ciò che mi hanno detto ho trovato un tema per il documentario: Ubo
mo, la strada per il futuro dell 'Africa. » « Mi piace! » esclamò Tug Harrison, anche se, mentre lo diceva, studiava Bonny Mahon. L'approvazione poteva essere per lei non meno che per il titolo. Tre minuti dopo che erano entrati, Tug Harrison tirò indietro il polsino della camicia di Turnbull & Asser. I gemelli e l'orologio era no d'oro e diamanti. « E stato un piacere vederla, Danny, e conoscerla è stata una gioia, signorina Mahon. Ora, se volete scusarmi... » Pickering aveva chiamato un tassì che li aspettava all'uscita del la BOSS. « Paga la società », disse lanciando un'occhiata di apprezzamen to finale al seno di Bonny. « Vi porterà dove volete. » « Caviar Kaspia » disse spensieratamente Daniel, e quando furo no seduti a un tavolo del piccolo, delizioso ristorante, Bonny mor morò: « Chi paga? » « La BOSS », assicurò Daniel. « Allora voglio duecentocinquanta grammi di beluga con blinis caldi e panna. » « Sicuro », disse Daniel. « Li prendo anch'io, e ordineremo una bottiglia di champagne. Cosa preferisci: Pol Roger o Veuve Cli quot? » « Quello che preferisco io può aspettare fino a che torneremo nel tuo appartamento, ma nel frattempo un bicchiere della Vedova ser virà a far passare il tempo... e a darti forza. » Socchiuse gli occhi, maliziosamente. « Ne avrai bisogno. E una minaccia. » Bonny si buttò sul caviale con l'allegria e l'appetito di una stu dentella in vacanza. « Allora, cosa pensi della soss? » chiese Daniel. « Penso che Tug Harrison sia un uomo molto sexy. L'odore del la ricchezza e del potere è un afrodisiaco più forte del caviale e dello champagne. » Gli sorrise, con la panna acida che le orlava la fine peluria color rame del labbro superiore. « Sei geloso? E quello che voglio. » « Sono distrutto dalla gelosia. Ma a parte il fascino di Tug Har rison, cosa pensi dei progetti della BOSS per l'Ubomo? » « Travolgenti! » esclamò Bonny mentre addentava un blini. L'e spressione irritò Daniel. « Sensazionali! » Era anche peggio. « Vorrei che mi pagassi abbastanza per permettermi di comprare un po' di azioni della BOSS. Qualcuno guadagnerà una barca di soldi nell'U bomo. » « Tutto qui? » Daniel sorrise. Ma era quella, la ragazza che ave va evocato l'immagine suggestiva dei caribù nella luce dell'Artico? « Una barca di soldi... » Per un momento Bonny sembrò sconcertata, poi scrollò le spal le. « Certo. Cos'altro conta, tesoro? » Raccolse gli ultimi granelli di caviale con un pezetto di blini. « Credi che il tuo conto spese possa coprire un altro barattolo di uova di pesce? Non capita spesso che una povera lavoratrice come me possa mangiarne. »
Bonny Mahon era nervosa. Era una sensazione nuova. La gonna e le calze le davano un'impressione insolita, abituata com'era al l'abbraccio più deciso dei jeans. Ma l'occasione era abbastanza ec cezionale per imporre un abbigliamento diverso. Era andata addirit tura dal parrucchiere. Di solito si arrangiava a pettinarsi da sola, bene o male, ma doveva ammettere che la ragazza di Michaeljohn aveva fatto un lavoro migliore. Si guardò in uno degli specchi antichi con la cornice dorata, nel l'atrio del Ritz Hotel in Piccadilly. « Niente male », ammise. « A cento passi di distanza potrei pas sare per una signora. » Si assestò i ricci fissati con il gel. Era un ge sto poco caratteristico, per lei, un sintomo del nervosismo con cui
attendeva l'incontro imminente. La segretaria che aveva fissato per telefono l'appuntamento s'e ra offerta di mandare la macchina a prenderla a casa. Bonny aveva rifiutato. Non voleva che nessuno vedesse dove abitava: cercava di fare economia e la zona meridionale di Londra dove stava non era proprio un quartiere residenziale. Il Ritz era stato il primo posto che le era venuto in mente: rende va bene l'immagine che desiderava trasmettere. Anche se era stata la segretaria a fissare l'appuntamento, aveva grandi speranze, per quello che poteva essere l'esito. « Dev'essere una proposta, no? » si disse. « Non c'erano dubbi sul modo in cui mi guardava. Non mi sono mai sbagliata. Quello sbava per me. » Diede un'occhiata all'orologio. Erano le sette e mezzo. Il tipo era sicuramente un amante della puntualità, pensò, e guardò verso la porta d'ingresso. Un fattorino stava venendo verso di lei. Bonny aveva preso la precauzione di dare una mancia al portiere e di dirgli dove l'avrebbe trovata. « E arrivata la sua macchina, signora », disse il fattorino. Accanto al marciapiedi era ferma una Rolls-Royce: era d'un gri gioperla iridescente, con i vetri opachi che le davano un aspetto sur reale. Il giovane autista con l'uniforme grigiotortora e il berretto con la visiera di vernice la salutò quando la vide scendere i gradini. « La signorina Mahon? Buonasera. » Le aprì la portiera e si scostò per farla salire. Bonny si assestò nell'abbraccio sensuale della morbida pelle grigia. « Buonasera, mia cara. » Tug Harrison la salutò con quella voce di melassa che le fece scorrere un brivido di attesa e di disagio lungo la spina dorsale. L'autista chiuse la portiera e la sigillò in un bozzolo di ricchezza e di privilegi. Bonny aspirò l'odore lussuoso del cuoio, del fumo di sigaro e di un dopobarba meraviglioso: l'aroma del potere. « Buonasera, sir Peter. E stato molto gentile a invitarmi », disse, e subito si morse le labbra, irritata. Era sbagliato: troppo entusiasta e servile. Aveva deciso di mostrarsi calma, per nulla impressionata. « Chez Nico », ordinò Tug Harrison all'autista. Premette il pul sante sul bracciolo e fece alzare il divisorio di vetro. « Non le dispiace se fumo il sigaro, spero », disse. « No. Mi piace l'odore dei buoni sigari. E un Davidoff, no? » Bonny non aveva indovinato. Aveva notato l'anello del sigaro nel portacenere. Aveva occhio per i dettagli: era il segreto del suo suc cesso come fotografa. « Ah! » disse Tug Harrison. « Un'intenditrice. » Sembrava diver tito. Bonny si augurò che non avesse notato il suo piccolo trucco, e si affrettò a cambiare argomento. « Non sono mai andata da Chez Nico. Certo, non è strano. An che se riuscissi a ottenere una prenotazione, non potrei pagare il conto. Dicono che bisogna prenotare con settimane d'anticipo. E vero? » « Può darsi che qualcuno debba farlo. » Tug Harrison sorrise di nuovo. « Non so. Io lo dico alla mia segretaria, e pensa a tutto lei. » Dio, andava tutto storto. Ogni volta che diceva qualcosa dava l'impressione d'essere un'ingenua e gli dava un motivo per disprez zarla. Per il resto del tragitto lasciò che fosse Harrison a parlare; l'i nizio della serata non era stato proprio positivo, tuttavia la sua im maginazione galoppava. Se avesse giocato bene le sue carte, quello avrebbe potuto essere il suo futuro: la Rolls-Royce, le cene da Nico, un conto aperto da Harrods e Harvey Nichols, un appartamento in Mayfair o Kensington, vacanze ad Acapulco, Sydney, Cannes e una pelliccia di zibellino. Piaceri e ricchezze senza fine. « Potrebbe esse re la tua grande occasione. Fatti furba. » Bonny aveva passato gran parte del pomeriggio a letto con
Danny, ma sembrava che ciò fosse successo cent'anni prima in una terra semidimenticata. Adesso c'erano sir Peter Harrison e un mon do nuovo e promettente. Il ristorante fu una sorpresa. Si aspettava un'atmosfera lussuo sa, luci soffuse: invece era allegro, ben illuminato. Il delizioso sof fitto a vetri aveva i colori d'un giardino e creava un clima art nou veau. Per reazione, il suo umore si rasserenò. Quando furono accompagnati al tavolo speciale all'angolo della sala a L, la conversazione agli altri tavoli s'interruppe: tutte le teste si girarono per seguirli, poi si accostarono per bisbigliare gli ultimi pettegolezzi sul conto di Harrison. Tug era un uomo leggendario. Era bello stare al suo fianco e godersi le occhiate invidiose delle al tre donne. Bonny era consapevole di essere sensazionale, con la figura alta e atletica e i capelli fiammeggianti. Sapeva che tutti avrebbero tirato certe conclusioni sui suoi rapporti con sir Peter. « Dio, fa' che si avveri. Devo andar piano con il vino. Perrier e molto spirito: ecco la ricetta per la serata. » Era più facile del previsto. Tug Harrison era compito e premu roso. Le dava la sensazione di essere speciale, perché concentrava su di lei tutta l'attenzione. Nico Ladenis uscì dalla cucina per parlare con Tug Harrison. Con la sua bellezza satanica, Nico aveva una reputazione temibile. Se serviva i piatti migliori d'Inghilterra, pretendeva d'essere trattato con rispetto. Se ordinavate un gin and tonic per rovinarvi il palato all'inizio d'una delle sue cene divine, dovevate attendervi la sua col lera e il suo disprezzo. Tug Harrison ordinò un La Ina per sé e un Dubonnet per Bonny, poi discusse con Nico il menù con la serietà che avrebbe dedicato ai bilanci trimestrali della BOSS. Quando Nico se ne andò e mandò un cameriere a prendere le or dinazioni, Tug si rivolse a Bonny per chiedere che cosa aveva scelto, ma lei si finse confusa. « Oh, sembra tutto così delizioso che non so decidere. Perché non ordina anche per me, sir Peter? » Harrison sorrise, e Bonny sentì di essere finalmente sulla buona strada. Cominciava a entrare nello spirito e la sua intuizione viag giava a pieno regime. Era evidente che a lui piaceva dominare ogni situazione, anche quando si trattava di ordinare una cena. Bonny assaggiò appena lo Chevalier-Montrachet che Harrison aveva ordinato per accompagnare il salmone. Lo incoraggiò a par lare delle sue avventure di gioventù in Africa. Non era difficile mo strare interesse, dato che era un ottimo narratore. La voce era come la carezza di un guanto di velluto; non aveva importanza che avesse la pelle grinzosa e sciupata dal sole tropicale. Bonny aveva letto, forse nel Sunday Times Magazine, che il suo patrimonio personale superava i trecento milioni di sterline. A quel prezzo, cosa contava no le rughe e le cicatrici? « Bene, mia cara. » Finalmente Tug si forbì con il tovagliolo le labbra coriacee. « Propongo di prendere il caffè in Holland Park. Ci sono alcune cosette che vorrei discutere con lei. » Bonny esitò pudicamente. Poteva permettersi di essere tanto di sponibile? Non doveva fare un po' la difficile? Non doveva attende re che lui insistesse? E se non avesse insistito? Il solo pensiero le fa ceva venire i brividi. « Buttati, cocca », si disse, e sorrise. « Grazie, sir Peter, sarà un piacere. » Rimase molto colpita dalla magnificenza della casa di Holland Park. Era difficile non guardarsi intorno come una turista mentre Harrison la conduceva nel suo studio e la faceva accomodare su una poltrona di pelle. Era una stanza di chiara impronta maschilè, con una coppia di corni di rinoceronte sui pannelli della parete. Notò i due quadri e fremette nel riconoscerne il valore. « Ha freddo, mia cara? » Premurosamente, Harrison accennò al servitore negro dal fluente kanza bianco di chiudere la finestra. Poi
le portò di persona il caffè. « Kenya Blue », disse. « Colto apposta nella mia piantagione pri vata sulle pendici del monte Kenya. » Congedò il servitore e accese un sigaro. « Ora, mia cara... » Lanciò uno sbuffo di fumo verso il soffitto. « Mi dica, va a letto con Daniel Armstrong? » La domanda era così inaspettata e allarmante che Bonny perse l'equilibrio. Non seppe trattenersi. « Con chi diavolo crede di par lare? » Harrison inarcò un sopracciglio argenteo. « Ah, vedo che ha un caratterino in armonia con il colore dei capelli. Comunque è una domanda sensata e risponderò francamente. Credo di parlare con Thelma Smith. E il nome sul suo certificato di nascita, no? Padre ignoto. Secondo le mie informazioni, sua madre morì nel 1975 per un'overdose, mi pare d'eroina. In quel periodo c'era in giro un cari co di roba tagliata male. » Bonny cominciò a sudare. Un sudore freddo, nauseato. Lo fissò. « Come sua madre, ha avuto una carriera... variegata. A quat tordici anni è stata mandata in una scuola correzionale per taccheg gio e possesso di marijuana. A diciotto anni, una condanna a nove mesi per furto e prostituzione. Sembra che avesse derubato un clien te. In carcere ha seguito un corso di fotografia. Ha scontato soltan to tre mesi, il resto le è stato condonato per buona condotta. » Tug Harrison sorrise. « Mi corregga se sbaglio. » Bonny si rattrappì sulla poltrona. Era agghiacciata. Continuò a tacere. « Ha cambiato il suo vero nome con uno più affascinante e ha ottenuto il primo lavoro presso la Peterson Television in Canada. Nel 1981 è stata licenziata per aver rubato e venduto materiale video dell'azienda, che però non ha sporto denuncia. Da allora non ha avuto storie. Forse si è redenta, o è solo diventata più furba? Co munque, sembra che non abbia molti scrupoli morali e che sia di sposta più o meno a tutto per denaro. » « Carogna », sibilò Bonny. « Mi ha preso in giro. Credevo... » « Sì, credeva che io desiderassi il suo corpo decisamente grade vole. » Tug Harrison scosse la testa. « Sono vecchio, mia cara. Quando le fiamme sono meno intense, l'appetito diventa più raffi nato. Con il dovuto rispetto per le sue grazie, la classificherei come un Beaujolais nouveau, un vino di 'pronta beva', giovane e robusto ma privo di stoffa. Un vino per un palato più giovane, magari come Danny Armstrong. Alla mia età preferisco un Latour o un Mar gaux... più maturo e con maggiore classe. » « Vecchio bastardo! Ora mi sta insultando. » « Non ne avevo l'intenzione. Volevo solo che ci comprendessi mo. Io voglio qualcosa che non è il suo corpo. Lei vuole il denaro. Possiamo accordarci. Una transazione puramente commerciale. Per tornare alla mia domanda di poco fa, va a letto con Daniel Arm strong? » « Sì », ringhiò Bonny. « Lo sbatto da morire. » « Un modo chiaro di esprimersi. Immagino che il rapporto non sia complicato da sentimentalismi. Almeno per quel che la ri guarda. » « Io amo una sola persona, e quella sono io. » « Quanta sincerità. » Harrison sorrise. « Meglio così, soprattutto perché Danny Armstrong non è il tipo che prende le cose alla legge ra. Ha una certa influenza su di lui, quindi possiamo discutere d'af fari. Cosa direbbe di venticinquemila sterline? » L'offerta sbalordì Bonny: ma chiamò a raccolta il suo coraggio e si affidò all'intuito. Rifiutò in tono sprezzante: « Direi che può te nerseli. Ho letto da qualche parte che ha pagato dieci volte di più per un cavallo ». « Ah, ma era una puledra purosangue di discendenza impeccabi
le. Lei non si classificherà nella stessa categoria, vero? » Harrison alzò le mani per prevenire una sfuriata. « Basta così, mia cara. Era solo uno scherzo. Mi perdoni. Voglio che diventiamo soci d'affari: non amanti e neppure amici. » « Allora, prima che parliamo del prezzo, sarà meglio che mi spieghi cosa devo fare. » Bonny aveva un'espressione astuta, e Tug Harrison cominciò a provare per lei un certo rispetto. E molto semplice... » E le disse che cosa voleva. Quella settimana Daniel aveva passato le sue giornate nella sala di lettura del British Museum. Lo faceva sempre prima di partire per una spedizione. Oltre ai libri sull'Ubomo, chiese alla biblioteca ria tutte le pubblicazioni sul Congo, la Valley, i suoi laghi, e le fore ste equatoriali. Aveva cominciato sui libri di Speke e di Burton, di Mungo Park e di Alan Moorchead, e li aveva riletti per la prima volta dopo molti anni. Li aveva scorsi in fretta per rinfrescarsi la memoria con le de scrizioni delle esplorazioni dell'Ottocento. Poi era passato alle pub blicazioni piu recenti. E fra queste aveva trovato il libro di Kelly Kinnear, Il popolo degli alberi alti, citato nelle bibliografie. Chiese una copia del libro e studiò la foto dell'autrice nel risvol to della sovraccoperta. Era piuttosto carina, con un viso energico e interessante. Non c'era la data di nascita, ma c'erano i titoli accade mici. Era dottoressa in medicina, ma aveva anche una libera docen za in antropologia all'università di Bristol. « Quando non svolge ri cerche sul campo, la dottoressa Kinnear vive in un cottage in Cor novaglia con due cani e un gatto. » Era l'unica informazione perso nale: Daniel tornò alla fotografia. Sullo sfondo c'era una palizzata formata dai tronchi di grandi alberi tropicali. Sembrava che fosse in una radura nella foresta. Era a testa scoperta, con i capelli scuri tirati all'indietro e stretti in una grossa treccia che le scendeva sul petto. Indossava una camicia da uomo: era difficile capire come fosse la figura, ma sembrava snella e con i seni piccoli. Il collo era lungo e aggraziato e le clavicole for mavano una coppa scolpita alla base della gola. La testa era salda sul collo, con la mascella squadrata e gli zigo mi alti, come un'indiana d'America. Il naso era sottile e ossuto, la bocca decisa, forse ostinata. Gli occhi erano probabilmente la cosa più bella, distanti e tagliati a mandorla. Fissava con calma l'obietti vo. Doveva avere poco più di trent'anni quando era stata fatta la foto, ma niente indicava se l'immagine fosse più o meno recente. « Che tipo », concluse Daniel. « Non mi sorprende che faccia paura al mio amico Tug. E il tipo di donna che la spunta sempre. » Sfogliò le prime pagine del libro e lesse l'introduzione in cui Kel ly Kinnear parlava dei primi riferimenti ai pigmei nella documenta zione dell'antichità. Tutto incominciava con la relazione del comandante egizio Harkhuf al giovane faraone Neferkara. Duemilacinquecento anni prima di Cristo, Harkhuf aveva guidato una spedizione verso sud per scoprire le sorgenti del Nilo. Nella relazione, trovata quatero milacinquecento anni più tardi in una tomba, Harkhuf narrava di aver raggiunto una grande foresta a ovest dei Monti della Luna: e in quel luogo misterioso aveva incontrato un popolo di umani mi nuscoli che cantavano e danzavano in onore del loro dio. Il dio era la foresta; e la descrizione delle danze e del culto era così inte ressante che il re aveva mandato un messaggero per ordinare a Harkhuf di catturare uno dei danzatori e di portarlo a Memphis. I pigmei erano diventati personaggi familiari per l'antico Egit to. Nei secoli successivi erano sorte intorno a loro molte leggende, ed erano state scritte molte cose inesatte e fantasiose. Persino il nome era fondato su un errore: « pugme » era una misura greca dal gomito alle nocche delle mani, e indicava l'idea immaginaria che si facevano della loro statura coloro che non li avevano mai
visti. Daniel aveva già letto altre volte quelle notizie, e passò alla parte più interessante del libro, la descrizione dei tre anni vissuti dall'autrice presso un clan di pigmei nell'interno delle foreste equatoriali dell'Ubomo. Kelly Kinnear era un'antropologa esperta, dotata di un notevo le spirito d'osservazione per i dettagli e di buona capacità di ordi nare i fatti raccolti, traendone conclusioni ragionate: tuttavia pos sedeva anche l'orecchio e il cuore della narratrice. Non descriveva aridi soggetti scientifici ma esseri umani, ognuno con il suo carat tere e le sue idiosincrasie; un popolo amabile, presentato sullo sfondo grandioso della foresta, gente allegra, meravigliosamente in armonia con la natura, che si esprimeva con canti e danze e umorismo malizioso. Il lettore non poteva far altro che condivide re con l'autrice il suo affetto per l'argomento trattato e soprattut to il suo profondo interesse per la foresta in cui vivevano i pigmei. Daniel chiuse il libro e per un po' continuò ad abbandonarsi al piacevole senso di benessere che gli aveva ispirato. Non era la pri ma volta che provava il desiderio di parlare con la donna che ave va creato quella piccola magia: ma finalmente sapeva come e quando farlo. L'assemblea annuale degli azionisti della BOSS era stata fissata una settimana prima della sua partenza per l'Ubomo, e Pickering aveva invitato Daniel e Bonny ad assistervi. L'assemblea generale si svolgeva sempre nella sala da ballo della magnifica sede della BOSS in Blackfriars. Fissata, come al solito, per l'ultimo venerdì di luglio, con inizio alle sette e mezzo di sera, durava un'ora e venticinque minuti: dieci minuti per leggere i verbali dell'assemblea precedente, un'ora di prosa altisonante di sir Peter che leggeva la sua relazione e, infine, un quarto d'ora di commenti elogiativi dei membri del consiglio d'amministrazione, coronati da un voto d'approvazione proposto da qualcuno degli azionisti. La votazione avveniva all'unanimità per alzata di mano. Andava sempre cosi. Era la tradizione della so cietà. Il servizio di sicurezza all'ingresso era rigoroso. Il nome di ognu na delle persone che entravano veniva controllato sul registro degli azionisti e gli inviti speciali venivano esaminati dai guardiani in uni forme. Sir Peter non voleva che qualche pazzo irlandese o qualche fon damentalista avverso a Rushdie lanciasse una bomba durante il suo discorso, e non desiderava che giornalisti indipendenti, sindacalisti e altri intrusi si ingozzassero al buffet e al bar. Daniel aveva calcolato male il momento della partenza dall'ap partamento di Chelsea. Sarebbero arrivati a Blackfriars mezz'ora prima, ma all'ultimo momento Bonny s'era sentita molto in forma. Aveva lanciato un suggerimento che Daniel, da perfetto gentiluo mo, non aveva potuto rifiutare. Poi era stato necessario fare una doccia insieme, e Bonny aveva dato l'avvio a una lotta che aveva ri dotto il bagno a un caos, con l'acqua che traboccava fin nel corri doio. Tutto ciò aveva richiesto tempo. Poi avevano faticato per trova re un tassì. Quando finalmente ne avevano preso uno in King's Road, si erano trovati imbottigliati nel traffico lungo l'Embank ment ed erano arrivati alla BOSS quando sir Peter stava già ipnotiz zando gli ascoltatori con il resoconto delle attività della BOSS duran te i dodici mesi precedenti. Tutti i posti erano occupati e c'era molta gente in piedi in fondo alla sala. Entrarono senza far rumore e Daniel guidò Bonny in un angolo vicino al bar e le mise in mano un abbondante bicchiere di whisky and soda. « Dovrebbe bastarti per mezz'ora », le mormorò. « Ma, ti prego,
non cominciare a sentirti molto in forma quando torneremo a casa. » « Vigliacco. » Bonny sorrise. « Non puoi farcela, eh, Arm strong? » Gli azionisti intorno a loro aggrottarono la fronte e li zittirono. Contriti, si rassegnarono a godersi lo spirito e l'erudizione di sir Pe ter « Tug » Harrison. Sir Peter era al centro del lungo tavolo, con un microfono da vanti, affiancato dalla schiera dei membri del consiglio d'ammini strazione. Fra gli altri c'erano un mahrajah indiano, un conte ingle se, un pretendente al trono dell'Europa dell'Est, e un gran numero di baronetti. Erano tutti nomi e titoli che facevano bella figura sulla carta intestata della società: ma nessuno dei presenti ignorava chi avesse veramente in mano il potere. Sir Peter teneva la mano sinistra nella tasca della giacca, e ogni tanto tendeva l'indice della destra per puntarlo verso il pubblico. Sottolineava ogni affermazione puntando il dito come una pistola, e persino Daniel trasaliva e batteva le palpebre come se gli avesse spa rato alla testa. Sir Peter aveva da dare soltanto buone notizie, dai risultati delle trivellazioni petrolifere in mare aperto nel canale di Pemba al rac colto del cotone e delle arachidi nello Zambia fino all'aumento degli utili e dei dividendi. Gli ascoltatori mormoravano di gioia a ogni ri velazione. Sir Peter guardò l'orologio. Aveva parlato per cinquanta minu ti... ne restavano ancora dieci. Era il momento di passare ai progetti e alle proiezioni per il futuro. Bevve un sorso d'acqua e, quando ri prese a parlare, la sua voce era vellutata e suadente. « Signore e signori, vi ho dato le brutte notizie... » S'interruppe fra le risate e gli applausi. « Ora passerò alle buone. Si tratta della Repubblica Democratica Popolare dell'Ubomo e della partecipazio ne della vostra società a una nuova era per quel piccolo Paese... Un'occasione di assicurare non soltanto posti di lavoro ma anche prosperità a una popolazione di quattro milioni di anime. » Per altri nove minuti incantò gli ascoltatori con la promessa di nuovi profitti e di dividendi iperbolici; poi concluse: « E così, signore e signori, ciò che vediamo davanti a noi è l'Ubomo, la strada per il futuro del continente africano ». « Diavolo », borbottò Daniel mentre gli applausi coprivano la sua voce. « E un plagio clamoroso. Il vecchio bastardo mi ha rubato la frase. » Quando sir Peter sedette, il segretario della società concesse due minuti di tempo agli azionisti per esprimere la loro approvazione, prima di chinarsi sul microfono. « Signore e signori, dichiaro aperta la discussione. Qualche do manda da parte degli azionisti? Il presidente e il consiglio d'ammi nistrazione risponderanno al meglio delle loro possibilità. » La voce amplificata dal microfono riverberava ancora nella sala quando ne risuonò un'altra. « Ho una domanda da rivolgere al presidente. » Era una voce femminile, chiara, sicura e sorprendentemente alta... così alta che sir Peter trasalì. Fino a quel momento Daniel aveva cercato d'identificare la dot toressa Kinnear nella sala affollata ma non c'era riuscito. O non era presente o era nascosta nella folla degli azionisti. Perciò ci aveva ri nunciato. Adesso era impossibile confonderla. Era molto in vista: stava in piedi su di una sedia in terza fila. Daniel sorrise divertito. Il volume della voce di Kelly Kinnear aveva una spiegazione: s'era armata di un megafono elettronico. Era un mistero come fosse riuscita a farlo passare sotto gli occhi delle guardie, ma adesso lo impugnava con un effetto sensazionale. Molte volte, in altre assemblee cui aveva partecipato Daniel, le
domande del pubblico, per quanto pertinenti e acute, avevano perso tutta la loro forza per il semplice fatto che la maggior parte degli ascoltatori non poteva sentirle. « Cos'ha detto? » e « Parli più for te! » erano le grida che le accoglievano, e la partita era persa in par tenza. Ma con Kelly Kinnear era diverso. In piedi sulla sedia e piena mente visibile dal pubblico, aggrediva sir Peter Harrison a trenta passi di distanza con voce giovane e squillante. Era più piccola di quanto avesse immaginato Daniel, ma la figu retta era composta e aggraziata come quella di un uccellino e aveva una forza e una presenza che trascendevano la taglia fisica. « Signor presidente, di recente la BOSS ha incluso l'immagine di un albero verde nel suo stemma. Voglio sapere se questo ha lo sco po di permettervi di abbatterlo. » Vi fu un silenzio sgomento. L'apparizione improvvisa era stata accolta da sorrisi di divertimento e di ammirazione, naturali reazio ni mascoline alla vista di una bella ragazza. Adesso, però, i sorrisi lasciavano il posto a espressioni sconcertate. « Da trent'anni, sir Peter », continuò Kelly Kinnear, « da quando lei è diventato presidente della BOSS, lo slogan della società è stato: 'Estrarre, abbattere, sparare' ! » Le espressioni perplesse si oscurarono, e gli azionisti si scambia rono sguardi preoccupati. « Per molti anni la BOSS ha impiegato cacciatori professionisti per massacrare gli animali selvatici. La carne poi veniva utilizzata per sfamare le migliaia di dipendenti dell'azienda. La politica del vitto a poco prezzo è stata abbandonata soltanto di recente. Ecco cosa significa 'sparare' ! Il collo abbronzato di Kelly Kinnear si arrossava per la collera. La grossa treccia scura che pendeva fra le scapole fremeva come la coda di una leonessa. « Da trent'anni la BOSS strappa le ricchezze minerarie al suolo africano e lascia crateri e devastazioni: 'estrarre', quindi. Da tren t'anni, la BOSS abbatte le foreste e crea piantagioni di cotone, ara chidi e altre colture redditizie che però impoveriscono il suolo, lo avvelenano con i fertilizzanti e contaminano i ruscelli e i fiumi. Questa è la filosofia dello slogan: 'abbattere' ! » La dottoressa Kinnear fremeva per l'indignazione: era un feno meno che Daniel trovava affascinante. « Queste coltivazioni non producono cibo per le popolazioni che un tempo vivevano su quella terra e che sono costrette ad allonta narsi dalla devastazione creata dalla BOSS per stabilirsi negli odiosi slum delle nuove, enormi città africane. Tutti costoro vengono tra sformati in reietti dall'avidità della BOSS. » Sir Peter girò la testa verso il segretario e inarcò un sopracciglio. Obbediente, il segretario si alzò. « Le dispiace dire il suo nome e formulare la domanda in modo breve e chiaro? » « Sono la dottoressa Kelly Kinnear e la domanda la sto facendo. Me ne lascia la possibilità? » « La sua non è una domanda.. E un'arringa... » « Ascoltate! » ordinò Kelly Kinnear, rivolgendosi agli azionisti ammassati nella sala. « Per molti di noi l'interesse personale conta più delle foreste tropicali e dei laghi d'una terra lontana. I dividendi principeschi pagati dalla BOSS sono per noi più importanti degli uc celli esotici, degli animali sconosciuti e delle tribù indigene. E così facile dichiararsi ambientalisti purché questo non tocchi le nostre tasche... » « Silenzio! Silenzio! » gridò il segretario. « Lei non sta alle rego le, dottoressa Kinnear. Non sta facendo una domanda. » « D'accordo. » Kelly si girò verso di lui. « Farò una domanda. Il presidente della BOSS sa che, mentre noi siamo qui, le foreste pluvia li dell'Ubomo vengono distrutte? » Gli lanciò un'occhiata fulminan
te. « Il presidente sa che oltre cinquanta specie faunistiche si sono estinte nell'Ubomo come conseguenza diretta delle attivita della Boss? » « Vergogna! Si sieda! » « La morte di una specie ci riguarda direttamente. Finirà per portare alla nostra estinzione, l'estinzione dell'uomo sulla terra. » Gli azionisti proruppero in mormorii d'indignazione. Sir Peter Harrison sorrise e scosse la testa con aria di commiserazione, senza tentare di rispondere all'attacco. Sapeva quali erano gli interessi de gli azionisti. « Seduta! » gridò di nuovo qualcuno. « Puttana! » « Dottoressa Kinnear », disse il segretario, « devo invitarla nuo vamente a sedersi. Il suo è un premeditato tentativo di turbare l'as semblea. » « Signor presidente! » Kelly puntò un indice tremante contro sir Peter. « lo l'accuso di violenza contro l'Ubomo! » Ci furono grida di protesta. Alcuni azionisti erano balzati in piedi. « Vergogna! » « Quella è matta! » Qualcuno cercò di trascinare Kelly giù dalla sedia; ma lei si era circondata da un gruppetto di fedelissimi, mezza dozzina di giovani dall'aria feroce che le si strinsero intorno. Uno di loro spinse via gli assalitori. « Lasciatela parlare! » « Lei sta violentando l'Ubomo. I suoi bulldozer stanno già ab battendo le foreste... » « Buttatela fuori! » « Dottoressa Kinnear, se non obbedisce non mi resterà che farla espellere con la forza. » « Sono un'azionista. Ho il diritto di... » « Buttatela fuori! » Vi furono confusione e chiasso nella sala; sul podio, sir Peter Harrison conservava un'espressione annoiata e distante. « Mi risponda! » gli urlò Kelly, circondata dai suoi seguaci. « Cinquanta specie condannate all'estinzione perché lei possa anda re in giro in Rolls... » « Uscierit Uscieri! » gridò il segretario. Da ogni angolo della stanza i guardiani in uniforme si lanciarono nella mischia. Quando uno di loro scostò Daniel con una gomitata e si lanciò alla carica, questi non seppe trattenersi. Allungò il piede, con un movimento che fece urtare contro la sua caviglia lo stivale nero del l'usciere. L'uomo inciampò e volò in avanti, piombando a capofitto su una fila di sedie: fra grida di indignazione e protesta, fece cadere a terra gli occupanti. Le sedie si rovesciarono, le donne strillarono. I fotografi della stampa cominciarono a far scattare con entusia smo i flash, illuminando la sala con lampi degni di un temporale estivo. « Mentre snocciola luoghi comuni pieni di buone intenzioni e mette un albero verde nello stemma della BOSS, i suoi bulldozer sventrano una delle foreste più preziose e vulnerabili del mondo. » La voce di Kelly Kinnear, amplificata dal megafono, si levò sopra il frastuono. Era ancora in piedi sulla sedia ma traballava nella tem pesta intorno a lei. « Quelle foreste non le appartengono, non appartengono al cru dele dittatore militare che ha preso il potere nell'Ubomo ed è suo complice in questa atrocità. Le foreste appartengono ai bambuti, una tribù mite e inoffensiva che le abita da tempo immemorabile. Noi amici della terra e tutte le persone oneste del mondo diciamo: 'Via le mani dal... » Tre uscieri della BOSS Si schierarono; con le uniformi nere sem bravano la prima linea della nazionale di rugby della Nuova Zelan da. Sfondarono il cerchio dei difensori e si protesero per trascinare
giù dalla sedia Kelly Kinnear. « Lasciatemi stare! » urlò lei. E usò il megafono come un'arma, facendo grandinare colpi violenti su di loro fino a che la tromba si spaccò, lasciandola indifesa. I guardiani la trascinarono fuori della sala mentre scalciava, graffiava e mordeva. Ritornò una strana calma. Come i superstiti di un attentato dinamitardo, gli azionisti rialzarono le sedie, si assesta rono gli abiti e si accertarono di non essere feriti. Sul podio, sir Peter si alzò e riprese il microfono. « Signore e si gnori, questo spettacolo non era previsto, ve lo assicuro. A nome della BOSS e del consiglio d'amministrazione, vi presento le mie scu se. Se la scena è servita a qualcosa, ha illustrato le difficoltà che dobbiamo fronteggiare quando cerchiamo di rendere migliore la sorte dei nostri simili. » Tutti si scossero e si voltarono ad ascoltare quei toni suadenti. Dopo le accuse stridule, erano come un balsamo. « La dottoressa Kinnear è famosa per le sue idee intemperanti. Ha dichiarato guerra al governo del presidente Taffari dell'Ubomo. Anzi, ha causato molti fastidi a quella nazione come ne ha causati qui stasera. L'avete vista in azione, signore e signori, quindi non vi sorprenderà sapere che è stata espulsa dall'Ubomo e dichiarata per sona indesiderabile. La sua è una vendetta personale, motivata dal dispetto. Si ritiene offesa e reagisce in questo modo. » Harrison tacque di nuovo e scosse la testa. « Tuttavia non dobbiamo commettere l'errore di credere che ciò che abbiamo visto stasera sia l'atto isolato di una povera mente fuorviata. Purtroppo, signore e signori, in questo pazzo mondo sia mo circondati dai pazzi sinistroidi. La signora che ci ha appena la sciati... » Tutti ridacchiarono, incerti: cominciavano appena a ri prendersi dal tentativo di persuasione di Kelly Kinnear. « La signora è una di quelli che preferiscono lasciar morire di fame diecimila loro simili piuttosto che veder abbattere un albero, scavare un solco, uc cidere un animale. » S'interruppe e fece una smorfia, irradiando tut ta la forza della sua personalità e riprendendo l'autocontrollo che per un minuto era stato scosso dalla donna armata di megafono. « E assurdo. L'uomo ha diritto alla vita come le altre specie. Tutta via la BOSS riconosce la propria responsabilità verso l'ambiente. La nostra è un'azienda 'verde', votata al benessere di tutte le creature della terra, uomini, animali e piante. L'anno scorso abbiamo speso più di centomila sterline in studi ambientalistici prima di procedere con certe nostre iniziative. Centomila sterline, signore e signori, so no una somma enorme. » S'interruppe perché il pubblico applaudis se. Daniel notò che non aveva paragonato quella somma agli utili tassabili della BOSS per lo stesso periodo, utili che ammontavano a poco meno di un miliardo di sterline. Mentre gli applausi si spegnevano, Harrison continuò: « Abbia mo speso quel denaro non per far colpo su qualcuno nel campo del le pubbliche relazioni, ma nel tentativo sincero di fare ciò che è me glio per tutti. Sappiamo che quanto facciamo è giusto. E lo sapete. Abbiamo la coscienza pulita, signore e signori! Possiamo procedere con fiducia ed entusiasmo per fare in modo che la nostra società continui a essere ciò che è sempre stata, una delle grandi forze del bene in un mondo altrimenti sciagurato e malvagio ». L'assemblea durò venti minuti più del solito; e molto tempo fu dedicato a un'ovazione che accolse il discorso improvvisato dal pre sidente. Il tradizionale voto di ringraziamento passò, questa volta, non per alzata di mano ma per acclamazione. Tug attacca i matti verdi, scrissero i giornali scandalistici del giorno dopo; e i media furono d'accordo nel sostenere che non si era trattato d'uno scontro ma di una vera strage degli innocenti.
Non c'erano voli diretti da Heathrow a Kahali nell'Ubomo. An che se l'aeroporto era stato ribattezzato « Ephrem Taffari » e la World Bank aveva fatto un prestito di venticinque milioni di dollari per adattare la pista al traffico continentale e rimodernare le costru zioni, c'era stata una serie di ritardi dovuti al fatto che gran parte della somma prestata s'era dileguata nell'aria. A Kahali correva vo ce che i fondi scomparsi avessero trovato una felice sistemazione in un conto numerato svizzero. C'era bisogno di altri venticinque mi lioni di dollari per completare i lavori, ma la World Bank pretende va irragionevoli assicurazioni e garanzie prima di fornirli. E intanto i viaggiatori erano costretti a raggiungere l'Ubomo passando per Nairobi. Daniel e Bonny presero il volo della British Airways per Nairo bi, e Daniel pagò quasi cinquecento sterline per il bagaglio in ecces so, costituito dall'attrezzatura video di Bonny. A Nairobi furono costretti a pernottare al Norfolk Hotel prima di poter prendere il volo locale per Kahali dell'Air Ubomo che faceva la spola fra le due capitali. Dato che avevano una giornata libera, Danny chiese a Bonny di filmare un po' di materiale da usare come riempitivo. Per la verità, voleva osservarla in azione e abituarsi a lavorare con lei. Doveva es sere una specie di prova generale. Prese a noleggio un combi con il tettuccio apribile e un autista kikuyu, e andò con Bonny al parco nazionale di Nairobi, alla periferia della città. Il parco era una delle tante sorprese dell'Africa. A pochi chilo metri dal bar del Norfolk Hotel era possibile vedere i leoni che ucci devano le prede. Il confine del parco fiancheggiava l'aeroporto Jo mo Kenyatta e le antilopi al pascolo non alzavano neppure le teste quando i grandi aerei a reazione passavano rombando sopra di loro poco prima dell'atterraggio. Daniel aveva filmato molte volte nel parco, in quegli ultimi an ni. Il direttore era un vecchio amico. Si salutarono in swahili e si strinsero le mani come fratelli nella doppia stretta, prima il palmo e poi il pollice. Il direttore delegò uno dei suoi ranger a far loro da guida e da scorta e autorizzò Daniel ad andare dovunque e persino a lasciare il veicolo per filmare a piedi, ignorando una delle norme più severe del parco. Il ranger li condusse verso un folto gruppo di acacie in riva al fiume, dove un enorme rinoceronte maschio corteggiava una fem mina in calore. I due mostri antidiluviani erano così assorti che Da niel e Bonny poterono scendere e avvicinarsi. Senza darlo a vedere, Daniel osservava con attenzione Bonny. La telecamera Sony era un ultimo modello, funzionale ma pesante anche per un uomo. Daniel voleva vedere come la maneggiava, e non si offrì di aiutarla. Con un secco avvertimento in swahili, bloc cò anche il ranger quando si mosse per darle una mano. Nelle ultime settimane aveva imparato a conoscere intimamente il corpo di Bonny. Sapeva che non aveva addosso un filo di grasso e che le sue membra erano fasciate di solidi muscoli. Era nella perfet ta condizione fisica di un'atleta in allenamento. Negli scherzosi in contri di lotta era stato costretto a usare tutte le sue forze per do marla e portarla a letto quando lo sfidava a farlo. Le piaceva far l'amore in modo molto movimentato. Tuttavia lo sorprendeva la facilità con cui aveva sollevato la te lecamera e l'agilità con cui si muoveva nonostante il caldo e il terre no accidentato. Il suolo era cosparso di orme dei rinoceronti e dei bufali, impresse nell'argilla bagnata durante la stagione delle piogge e ormai indurite come la terracotta. Potevano slogarsi facilmente una caviglia e i rovi adunchi si agganciavano negli indumenti e nella
carne. Bonny, però, evitava tutte quelle trappole con disinvoltura. Il rinoceronte maschio, con atteggiamento aggressivo, si metteva in mostra agli occhi della femmina che era entrata per caso nel suo territorio e che adesso teneva prigioniera. Ogni volta che lei cercava di raggiungere il confine del territorio la costringeva a tornare indie tro, e sbuffava e soffiava come una locomotiva, sollevando con le zampe alti vortici di polvere. La femmina dimenava gli enormi quarti posteriori grigi in un ri fiuto civettuolo delle sue profferte, e gli lanciava zaffate degli odori inebrianti dell'estro che lo facevano precipitare in nuovi abissi di desiderio. A intervalli di pochi minuti, il maschio correva a marcare i limiti del territorio per mettere in fuga i possibili rivali che avesse ro provato la tentazione di intromettersi in quell'ardente corteggia mento. Non appena arrivava al confine, il rinoceronte puntava il didie tro verso uno degli alberi o dei cespugli, ripiegava la coda sul dorso, sguainava il massiccio pene roseo dal fodero di grinzosa pelle grigia, prendeva la mira a ritroso fra le zampe posteriori e lanciava un get to di urina con la violenza di un idrante, rischiando di appiattire il bersaglio. Poi, soddisfatto, tornava indietro di corsa e rivolgeva grugniti di passione alla femmina ritrosa, che fuggiva verso il limi tare più lontano del territorio e veniva subito inseguita. Anche nei suoi momenti migliori il rinoceronte ha una vista pes sima: ma adesso i due erano quasi completamente accecati dalla passione. Daniel e Bonny dovevano stare attenti e tenersi pronti a fuggire a ogni istante perché le cariche dei due mostri in calore era no folli e imprevedibili. Se non fossero stati abbastanza svelti, avrebbero rischiato di finire calpestati dalle zampe massicce o sven trati dall'affondo, portato alla cieca, d'uno dei lunghi corni nasali. Era un lavoro difficile e pericoloso, e la morte era sempre a un attimo o a un passo di distanza, ma Bonny non mostrava la minima paura. Anzi, sembrava euforica, eccitata dal pericolo. Le brillavano gli occhi e il sudore le intrideva i capelli fiammeggianti e scuriva il dorso della camicia mentre correva a fianco di Daniel nella foresta e si acquattava dietro i tronchi di acacia per evitare lo slancio improv viso d'uno degli animali. A parte il coraggio, Bonny dava prova di un'energia fisica che impressionava Daniel. Pur non sostenendo il carico di un equipag giamento, lui cominciava a stancarsi del caldo e della polvere, men tre Bonny sembrava non risentirne. All'improvviso, il maschio si girò di scatto. Forse aveva sentito il loro odore tra le nuvole del profumo d'amore della femmina che gli saturava le narici dilatate. Si lanciò alla carica verso di loro, e Daniel afferrò Bonny per il braccio. « Ferma! » sibilò. Si lasciarono cadere in ginocchio e rimasero immobili. L'enorme animale li fronteggiava da una distanza di sei metri, soffiando e sbuffando. Gli occhi porcini, arrossati dalla passione e dalla furia, erano fissi su di loro in attesa di un piccolo movimento che dimostrasse che non erano una roccia o un cespuglio e quindi meritavano tutta la violenza della sua collera gelosa. Daniel cercava di trattenere il respiro, ma i polmoni gli brucia vano per lo sforzo e si sentiva soffocare. All'improvviso sentì un lieve ronzio elettrico accanto all'orecchio sinistro e girò gli occhi senza muovere la testa. Sbalordito, incredulo, vide che Bonny continuava a filmare. L'obiettivo della Sony era vicino al naso del rinoceronte. Potevano vedere l'interno delle narici, fino all'umidore rosato del muco. E Bonny lo stava riprendendo. Questo colpì Daniel oltre ogni aspetta tiva. « Ho trovato un gran cameraman », pensò. « Al suo posto, Jock sarebbe già saltato sul primo aereo per tornare a casa. » Il rinoceronte si voltò con un movimento rapido e agile che sem
brava impossibile per un essere tanto massiccio. L'amore aveva avuto la meglio sull'aggressività. Tornò di corsa verso l'amata, sbuffando d'impazienza. Bonny rideva, e Daniel non riusciva a credere alle proprie orec chie. « Vieni! » Lei era balzata di nuovo in piedi con un guizzo agile. Quando raggiunsero la coppia in una radura d'erba pallida in ri va al corso d'acqua, la femmina s'era arresa al corteggiamento te nace del maschio. Gli aveva permesso di appoggiarle il mento sul deretano e stava tranquilla e docile sotto quella carezza. « Preparati », disse Daniel a Bonny. « Può succedere da un mo mento all'altro. » All'improvviso il maschio si sollevò sopra la femmina. Bonny catturò ogni convulsione titanica, ogni movimento pode roso dei corpi colossali. Tutto finì molto in fretta, e il maschio si la sciò ricadere a terra, rimanendo lì a sbuffare e ad ansimare per lo sforzo. « L'hai ripreso, e abbiamo già corso anche troppi rischi », bisbi gliò Daniel. « Andiamo via. » Prese il braccio di Bonny e indietreggiarono cautamente, un pas so alla volta, senza perdere di vista il maschio. Quando furono a cento metri dai due rinoceronti, Daniel ritenne di essere ormai al sicuro. Si avviarono verso il veicolo, ancora esal tati dall'emozione e dal pericolo, ridendo e chiacchierando. Non pensarono a guardarsi alle spalle fino a che Daniel esclamò: « At tenta! Sta tornando! » Il maschio arrivava alla carica con un galoppo sgraziato, senza deviare, e li fissava malevolo al di sopra del corno adunco. « Credo che abbia sentito il nostro odore. » Daniel afferrò il braccio di Bonny e si guardò intorno. La protezione più vicina era offerta da un cespuglio spinoso venti passi più avanti. « Vieni! » Corsero insieme e si infilarono strisciando sotto i rami protesi. Gli spini adunchi lacerarono camicie e pelle. « Non si è fermato. » La voce di Bonny era arrochita dalla polve re e dallo sforzo. « Giù! E non ti muovere! » Si rannicchiarono sul terreno sassoso e rimasero a guardare, in preda a un orrore impotente, mentre il mostro si avventava verso il loro nascondiglio. « Stavolta non si fermerà. » Per la prima volta Bonny dava segni di paura. Il mostro preistorico di quattro tonnellate, armato e minaccioso, torreggiava sopra di loro. Fiutò le fronde lacere che offrivano loro un fragile riparo, e il suo alito fece vibrare i rami, sospingendoli contro le loro facce. E all'improvviso, inaspettatamente, il rinoceronte si girò e mo strò i quarti posteriori tondeggianti a pochi passi di distanza. Inorri diti, videro il pene sfoderarsi fra le zampe posteriori. « Siamo sul suo confine », mormorò Daniel. « Ha intenzione di marcare il cespuglio. E noi! » Il pene del rinoceronte puntava verso di loro come una rosea pompa antincendio. « Siamo in trappola! » gemette Bonny. Le spine li circondavano. « Cosa possiamo fare? » « Chiudi gli occhi e pensa all'Inghilterra. » Una nuvola fumante li inabissò, li investì con la violenza di un uragano tropicale: non era un getto ma una tempesta di liquido caldissimo che sbalzò il cappello dalla testa di Danny e li infradiciò completamente. Il rino ceronte agitò soddisfatto la coda, pestò le zampe posteriori a terra e si allontanò alla carica con la stessa impetuosità con cui era arri vato. Seduti sotto il cespuglio gocciolante, Daniel e Bonny si guarda rono inorriditi. Le loro facce grondavano come se fossero state in vestite dalla pioggia monsonica. E l'odore era soverchiante. Daniel fu il primo a muoversi. Si passò la mano sul viso in un
lento gesto teatrale, cominciando dalla fronte per finire al mento. Poi si guardò la mano. « Be' », disse in tono sepolcrale, « questo è uno scherzo del cavolo! » Bonny continuò a fissarlo per un momento, poi proruppe in una risata stridula. Si buttarono l'uno contro l'altra, si strinsero e risero fino a che non riuscirono più a reggersi in piedi e poi ripresero a ri dere. L'urina del rinoceronte aveva incollato i loro capelli alla testa e chiazzato gli indumenti. Entrarono furtivamente nel Norfolk Hotel passando dall'ingres so laterale, dietro le cucine, e attraversarono di corsa i prati per rag giungere il loro cottage. Rimasero sotto la doccia per venti minuti e, continuando a ridere, si pulirono a vicenda con il sapone e lo shampoo. Più tardi Daniel, avvolto nell'accappatoio, sedette davanti al te levisore mentre Bonny collegava la telecamera. Daniel concentrò tutta l'attenzione sullo schermo; e fin dal pri mo minuto comprese di aver fatto la scelta migliore quando aveva ingaggiato Bonny Mahon. Aveva una superba tecnica professionale, occhio e senso del ritmo. Sapeva quando doveva inquadrare un det taglio o fare un campo lungo, ma soprattutto aveva il dono raro di uno stile tutto suo, lo stile che Daniel aveva conosciuto per la prima volta nel documentario sull'Artico. « Ci sai fare », le disse quando lo schermo si oscurò. « Ci sai fare veramente. » « Non sai ancora fino a che punto. » Bonny sorrise. « Comincio solo adesso a familiarizzarmi con la luce. E diverso, sai. Ogni posto è diverso. Lasciami un'altra settimana e ti farò vedere come sono brava. » Un'ora dopo, vestiti di indumenti puliti, uscirono nel fresco cre puscolo kenyano e si fermarono per un momento davanti alla volie ra degli uccelli selvatici al centro del prato, per ammirare i colori brillanti dei turachi e degli storni dal petto dorato. Altri ospiti si stavano avviando verso la grill room. Daniel non aveva prestato attenzione alla figura minuta in piedi accanto a loro fino a che quella si voltò e lo chiamò per nome. « Scusi se la disturbo, ma lei è Daniel Armstrong, vero? » Daniel la riconobbe con un sussulto. « Dottoressa Kinnear! L'ul tima volta che l'ho vista è stato all'assemblea generale della BOSS. » « Oh, c'era anche lei? » Kelly Kinnear rise. « Non me n'ero ac corta. » « Be', aveva altro per la testa. » Daniel le sorrise. « Dov'è finito il suo megafono? E riuscita a farlo riparare? » « Robaccia giapponese », disse Kelly Kinnear. « Basta darlo in te sta a qualcuno perché vada a pezzi. » Era spiritosa, certo, e Daniel l'aveva capito dal suo libro. Ma gli occhi erano più belli di quanto sembrassero nella fotografia sulla sovraccoperta. La trovò subito simpatica, e la simpatia dovette ri sultare evidente perché Bonny, che gli teneva la mano, la lasciò. Da niel provò un vago senso di colpa. « Posso presentarle la mia assistente Bonny Mahon? » « Per la verità io sono la cameravvoman, non un'assistente », lo corresse Bonny in tono stizzito. « Sì », disse Kelly. « Conosco il suo lavoro. Ha filmato Il sogno dell'Artico. Davvero ottimo. » Aveva uno sguardo franco e disar mante e Bonny sembrava un po' intimidita dall'elogio. « La ringrazio. Ma devo avvertirla, dottoressa Kinnear, che non ho letto il suo libro. » « Come svariate centinaia di milioni di altre persone, signorina Mahon. » Kelly intuiva l'ostilità dell'altra donna ma non sembrava offesa. Si rivolse di nuovo a Daniel. « Credo di aver visto tutti i suoi documentari. Anzi, è colpa sua se sono in Africa. Quando mi sono laureata volevo andare nel Borneo per lavorare con la tribù dei pe nan. Poi ho visto uno dei suoi primi documentari sui laghi della
Rift Valley, e ho cambiato idea. Non ho potuto fare a meno di veni re in Africa. » Kelly s'interruppe e rise, imbarazzata. « So che le sembrerà molto banale, ma sono una sua ammiratrice. Per la verità speravo di incontrarla, da quando ho saputo che era a Nairobi. Do vevo assolutamente parlarle. » « Allora non alloggia qui al Norfolk? » Daniel si sentiva sempre meglio disposto verso di lei. E difficile provare antipatia per qualcu no che dichiara di ammirarti. « Buon Dio, no! » Kelly rise di nuovo, allegramente. Aveva una dentatura perfetta: persino i molari erano privi di otturazioni. « Non sono un produttore televisivo di successo. Sono soltanto una povera ricercatrice senza sponsor. Lo Smithsonian Institute mi ha revocato il finanziamento dopo che Taffari mi ha buttata fuori del l'Ubomo. » « Allora mi permetta di offrirle una bistecca », propose Daniel. « Una bistecca! Mi viene l'acquolina in bocca solo a pensarci. Da quando sono tornata ho vissuto di arachidi e di pesce secco. » « Sì, perché non ci fa compagnia, dottoressa Kinnear? » chiese Bonny in tono velenosamente mielato, sottolineando il plurale. « E davvero molto gentile, signorina Mahon. » Kelly le lanciò un'occhiata fredda. L'ostilità scoccò fra loro come una scarica elet trica. Il loro metodo di comunicazione era troppo arcano perché Daniel potesse capire. Sorrise amabilmente. « Andiamo a mangiare », disse, e condusse le due donne verso l'Ibis grill room, che dava sul cortile. « E venuto a girare un documentario in Kenya? » chiese Kelly. « Che cosa fa a Nairobi, dottor Armstrong? » « Danny », disse lui, invitandola a lasciar perdere le formalità. « Per la precisione siamo diretti in Ubomo. » « L'Ubomo! » Kelly si fermò e alzò lo sguardo verso di lui. « E meraviglioso. Il tema ideale per lei: un microcosmo dell'Africa emer gente. E una delle poche persone al mondo che possa occuparsene nel modo giusto. » « La sua fiducia è lusinghiera ma preoccupante. » Daniel le sorri se. Per un momento aveva dimenticato Bonny, ma lei gli strinse il braccio per ricordargli la sua presenza. « Mi sdebiterò per la cena dicendole tutto quel che so sull'argo mento », propose Kelly. « Affare fatto », disse Danny. Entrarono nella luce dolce dell'I bis grill room, tra i fiori e la musica del pianoforte. Mentre le due donne studiavano il menù, Daniel le confrontava senza darlo a vedere. La differenza più evidente era la taglia. Bonny era alta più di un metro e ottanta, Kelly era più piccola di almeno quindici centimetri. Erano diverse in tante altre cose, dal colore degli occhi e dei capelli ai toni della carnagione. Comunque, Daniel intuiva che le differen ze si estendevano ben al di là delle caratteristiche fisiche. Bonny era franca, sfrontata, quasi mascolina nell'atteggiamento verso la vita. Fin dai primi giorni del loro rapporto, Daniel aveva intuito in lei profondità che preferiva non esplorare. I modi di Kelly Kinnear, invece, sembravano del tutto femminili, sebbene il suo li bro dimostrasse che era volitiva e intrepida. Era necessario un co raggio speciale per vivere in una delle grandi foreste con l'unica compagnia dei bambuti. E sempre dal libro Daniel aveva compreso che era intelligente e gentile, interessata più ai valori spirituali della vita che a quelli materiali; ma alla riunione degli azionisti della BOSS aveva assistito a una dimostrazione pratica del suo spirito aggressi vo e battagliero. Erano due donne attraenti, ognuna a modo suo. Bonny era vi stosa; colpiva l'occhio a cinquanta passi di distanza come una val chiria dai capelli di rame. Kelly era tutta sfumature delicate, più morbida e discreta, con mille sfaccettature che cambiavano a secon da degli angoli da cui la si guardava. In riposo il viso era quasi
scialbo, il naso e la bocca erano austeri; ma quando sorrideva, si addolciva. Gli occhi erano la cosa più bella: grandi, scuri, espressi vi. Potevano splendere d'una luce gaia e maliziosa, oppure bruciare di un'intelligenza sincera e appassionata. E c'era qualcosa d'altro che la foto non rivelava, pensò Daniel sorridendo fra sé. I seni era no opere d'arte in miniatura. Kelly alzò gli occhi dal menù e notò la direzione del suo sguar do. Con una smorfietta di disappunto, come se si fosse aspettata da lui qualcosa di meglio, spostò il menù per nascondere il seno. « Quando partirete per l'Ubomo? » « Domani », rispose Bonny, ma Kelly non fece caso all'interru zione. La domanda successiva la rivolse a Daniel. « E già stato nel Paese dopo il golpe? » « No. Ci sono andato per l'ultima volta quattro anni fa. » « Quando era presidente Victor Omeru », disse Kelly. « Sì, infatti ho conosciuto Omeru. Mi era simpatico. Che fine ha fatto? Ho saputo che ha avuto un attacco di cuore. » Kelly alzò le spalle senza sbilanciarsi, poi cambiò argomento quando il capocameriere venne a prendere gli ordini. « Posso ordi nare davvero una bistecca o il suo è stato uno scherzo crudele? » « Ordini quella supergigante », l'invitò generosamente Daniel. Quando furono serviti, Daniel riprese il discorso. « Ho sentito dire che lei andava molto d'accordo con Omeru. » « Chi gliel'ha detto? » Kelly alzò la testa di scatto e Daniel si trattenne appena in tempo. Non era il caso di sbandierare il nome di Tug Harrison davanti a quella signora. « Mi sembra di averlo letto in un articolo. Qualche tempo fa. » « Oh, sì. Probabilmente era il Sunday Telegraph. Ha pubblicato un profilo di Victor, il presidente Omeru... e ha nominato anche me. » « Appunto. Cosa sta succedendo nell'Ubomo? Ha promesso di aggiornarmi. Ha detto che è un microcosmo dell'Africa emergente. Si spieghi meglio. » « L'Ubomo ha i grandi problemi comuni a tutti gli altri Stati africani: tribalismo, esplosione demografica, miseria, analfabeti smo. E adesso che il presidente Omeru non c'è più e quel porco di Taffari ha preso il potere, si è creata tutta una serie di problemi nuovi, come la tirannia del partito unico, un presidente a vita, lo sfruttamento straniero, la corruzione e un'incipiente guerra civile. » « Si direbbe la società ideale. Incominciamo con il tribalismo nell'Ubomo. Me ne parli un po'. » « Il tribalismo è la peggior maledizione dell'Africa. » Kelly as saggiò la bistecca al sangue e chiuse per un momento gli occhi con aria estatica. « Divina », mormorò. « Dunque, il tribalismo nell'U bomo. Ci sono sei tribù, ma due sole contano veramente. Gli uhali sono i più numerosi, tre milioni su quattro. Tradizionalmente sono agricoltori e pescatori. Un popolo mite e industrioso, che da secoli subisce il dominio di una tribù molto più piccola, quella degli hita. Gli hita sono un popolo feroce e aristocratico, strettamente impa rentato con i masai e i samburu del Kenya e della Tanzania. Sono allevatori e guerrieri. Vivono per il loro bestiame e disprezzano il re sto dell'umanità, inclusi noi europei, come animali inferiori. Sono molto belli, alti e flessuosi. Un morani hita che non sia almeno un metro e novanta è considerato un nanerottolo. Le donne sono ma gnifiche: hanno splendidi visi nilotici, e farebbero una splendida fi gura in qualunque sfilata di moda parigina. Però gli hita sono un popolo crudele, arrogante e brutale. » « Vedo che prende posizione. E tribalista quanto loro, Kelly », disse Daniel in tono d'accusa. « Quando si vive fra gli africani abbastanza a lungo, lo sa bene, si finisce per diventare tribalisti come loro. » Kelly scosse la testa. « Ma in questo caso c'è una giustificazione. Prima che gli inglesi la sciassero l'Ubomo nel 1969, organizzarono le elezioni e naturalmen
te gli uhali, essendo più numerosi, vinsero. Victor Omeru diventò presidente. Era un buon presidente. Non voglio dire che fosse un santo, ma valeva quanto altri governanti africani, anzi era migliore di tanti despoti. Cercava di accontentare tutte le tribù, ma gli hita erano troppo orgogliosi e sanguinari. E siccome sono guerrieri nati, a poco a poco presero in mano l'esercito. Il risultato era inevitabile. Adesso Ephrem Taffari è il despota, il tiranno, il presidente a vita. Un milione di hita domina la maggioranza formata da tre milioni di altre tribù, inclusi gli uhali e i miei cari, piccoli bambuti. » « Mi parli dei bambuti, 'il popolo degli alberi altl' », disse Da niel, e Kelly sorrise, compiaciuta. « Oh, Danny, conosce il titolo del mio libro! » « L'ho persino letto, e più di una volta. Tre volte: l'ultima è sta ta una settimana fa. » Daniel sorrise. « A costo di sembrare banale, sono un suo ammiratore. » « Puah! » Bonny intervenne per la prima volta dopo un quarto d'ora. « Scusate, ma mi viene voglia di vomitare. » Daniel aveva quasi dimenticato la sua esistenza. Fece per prenderle la mano len tigginosa che aveva posato sulla tovaglia, ma Bonny la ritirò, ap poggiandola sulle ginocchia. « Vorrei un altro po' di vino, se interessa a qualcuno », disse im bronciata. Daniel le riempì il bicchiere mentre Kelly finiva la bistecca. Finalmente Daniel spezzò il silenzio impacciato. « Stavamo par lando dei bambuti. Mi dica. » Kelly lo guardò di nuovo ma non rispose subito. Sembrava alle prese con una decisione difficile. Daniel attese. « Senta », disse finalmente lei. « Vuol sapere dei bambuti? Bene, cosa direbbe se invece di parlarne la conducessi nella foresta e glieli mostrassi? Le piacerebbe filmarli nel loro ambiente naturale? Potrei farle vedere tante cose che nessuno ha mai filmato e che pochissimi occidentali hanno visto. » « Mi butterei sull'occasione, Kelly. Diavolo, mi piacerebbe mol tissimo, ma dimentica un piccolo problema. Il presidente Taffari la odia e l'impiccherebbe all'albero più alto se si azzardasse a varcare il confine. » Kelly rise. Daniel cominciava ad amare il suono della sua risata: era deliziosa come le fusa di un gatto, e gli faceva venire voglia di ridere a sua volta. « Il nostro caro Ephrem non impicca la gente. Usa altri sistemi. » « Ma come riuscirebbe a farmi da guida nell'Ubomo senza la be nedizione presidenziale? » Kelly continuava a sorridere. « Ho vissuto nella foresta per cin que anni. L'autorità di Taffari finisce dove cominciano gli alberi al ti. Ho molti amici. E Taffari ha molti nemici. » « Come potrò mettermi in contatto con lei? » insistette Daniel. « Non sarà necessario. La contatterò io. » « Mi dica, Kelly... perché rischia la vita per tornare? Cosa deve fare di tanto importante per andare là senza finanziamenti, senza appoggi e sotto la minaccia di venire arrestata e probabilmente uc cisa? » Kelly lo fissò. « Ecco una domanda molto stupida. Nelle foreste c'è abbastanza da fare per tenermi occupata per tutta la vita. Fra le altre cose, sto lavorando sulla fisiologia dei bambuti. Ho studiato il nanismo dei pigmei, cercando di accertare le cause della loro cresci ta limitata. Naturalmente non sono la prima a svolgere questo tipo di ricerca, ma credo di aver scoperto qualcosa di nuovo. Finora tut ti si concentravano sull'ormone della crescita... » S'interruppe e sor rise. « Non starò ad annoiarla con i dettagli, ma credo che tutto di penda da una mancanza di ricettori dell'ormone. » « Oh, non ci annoiamo affatto. » Bonny non cercò di nascondere il sarcasmo. « Siamo affascinati. Ha intenzione di fare iniezioni ai pigmei per trasformarli in giganti come gli hita? »
Kelly non s'irritò. « La statura ridotta dei bambuti è una muta zione benefica. Li rende adatti alla vita nelle foreste pluviali. » « Non capisco », osservò Daniel. « Mi spieghi: perché essere pic coli è un bene? » « Ecco, se l'è cercata. Innanzi tutto, c'è la dispersione del calore. Piccoli come sono, riescono a disperdere meglio il calore che si ac cumula nell'atmosfera umida e priva di vento all'interno della fore sta. Inoltre, le loro dimensioni assicurano l'agilità necessaria per muoversi tra la fitta vegetazione tropicale. Resterà sbalordito nel vedere i bambuti nella foresta: gli egizi e i primi esploratori credeva no che avessero il dono dell'invisibilità. Possono sparire sotto i suoi occhi. » Il viso di Kelly splendeva d'entusiasmo e di affetto mentre parla va del popolo che aveva adottato. Daniel ordinò il dessert e il caffè. Kelly non aveva ancora esauri to l'argomento. « L'altro campo della mia ricerca è ancora più importante degli ormoni della crescita e dei ricettori. I bambuti hanno una conoscen za meravigliosa delle piante e delle loro proprietà, in particolare del le proprietà medicinali. Ritengo che nelle foreste pluviali esista più di mezzo milione di specie diverse di piante; e centinaia hanno pro prietà già risultate benefiche per l'uomo. Credo che in quelle piante si possano trovare i rimedi per gran parte delle nostre malattie: per il cancro, ad esempio, e per l'AIDS. Ho trovato indizi promettenti in questa direzione. » « Fantascienza », commentò ironicamente Bonny, e si riempì la bocca di gelato al cioccolato « Stai zitta, Bonny », intimò Daniel. « E affascinante. La ricerca è molto avanzata? » Kelly fece una smorfia. « Non quanto vorrei. Le vecchie bambu ti mi aiutano a raccogliere foglie, cortecce e radici. Mi descrivono le proprietà e io cerco di catalogarle, di sperimentarle e di isolare l'in grediente attivo, ma il mio laboratorio è una capanna e io non ho più né denaro né amici .. » « Comunque mi piacerebbe vederlo. » « Lo vedrà », promise Kelly. Era così colpita dall'interesse di Da niel per il suo lavoro che gli posò la mano sul braccio. « Verrà a Gondala dove vivo? » Bonny fissò la mano che si era posata sul braccio abbronzato e muscoloso di Daniel: era una mano piccola, elegante e aggraziata. « A sir Peter interesserebbe molto una formula per la cura del l'AIDS », sibilò Bonny senza staccare gli occhi dalla mano di Kelly. « La BOSS potrebbe metterla in vendita tramite la sua azienda farma ceutica. Varrebbe miliardi... » « La sosss? Sir Peter? » Kelly ritirò la mano dal braccio di Da niel e fissò Bonny. « Sir Peter chi? Quale sir Peter? » « Tug Harrison, cocca », rispose soddisfatta Bonny. « Tug finan zia la produzione che Daniel realizzerà nell'Ubomo. Io e Danny mostreremo al mondo il lavoro meraviglioso che sta facendo la BOSS. S'intitolerà Ubomo, la strada per il futuro dell 'ASrica. Non è un titolo splendido? Sarà il capolavoro di Danny... » Kelly non le diede il tempo di finire. Balzò in piedi e rovesciò la tazza. Il caffè si sparse sulla tovaglia e sgocciolò sulle ginocchia di Daniel. « Lei! » Kelly lo fissò. « Lei e quel mostro di Harrison! Come ha potuto? » Si girò di scatto e uscì di corsa dal ristorante, facendosi largo a spintoni in mezzo a un gruppo di turisti americani che bloccavano il passaggio. Daniel era in piedi e si asciugava il caffè che gli aveva intriso i pantaloni. « Perché diavolo l'hai fatto? » chiese a Bonny con un rin ghio. « Tu e la dottoressa degli alberi cominciavate a diventare un po'
troppo intimi per i miei gusti. » « Accidenti a te! » scattò Daniel. « Mi hai rovinato la possibilità di filmare qualcosa di unico. Ne riparleremo. » Si lanciò all'insegui mento di Kelly Kinnear, che non era nell'atrio dell'hotel. Si avviò all'uscita e chiamò il portiere. « Ha visto una donna... » S'interruppe quando scorse Kelly dal l'altra parte della strada. Era in sella a una Honda 250 tutta impol verata. In quel momento accese il motore, girò con forza il manu brio e lanciò la moto in una curva strettissima mentre sbuffi di fu mo oleoso e bluastro uscivano dalla marmitta. « Kelly! » gridò Daniel. « Aspetti! Posso spiegarle tutto! » Kelly diede gas al massimo. La moto s'impennò sulla ruota po steriore e accelerò. La donna si voltò a guardarlo mentre gli passava accanto, con un'espressione rabbiosa e sconvolta. Daniel avrebbe giurato che c'erano delle lacrime sulle sue guance. « Venduto! » gli gridò. « Giuda! » La moto si allontanò romban do, s'inclinò e il poggiapiedi d'acciaio sollevò una pioggia di scintil le quando sfregò contro l'asfalto. Poi Kelly sparì in mezzo al traffi co di Kimathi Avenue. Daniel corse all'angolo. La rivide per un attimo, duecento metri più avanti. Era china come un fantino sul manubrio, e la treccia si agitava nel vento dietro di lei. Cercò un tassì per inseguirla, ma si rese conto dell'inutilità del tentativo. Con quel vantaggio e la manovrabilità della Honda, nes suna macchina poteva raggiungerla. Tornò verso l'albergo per cercare Bonny Mahon. Prima di en trare, si rese conto che sarebbe stato pericoloso affrontarla mentre era di quell'umore. Sarebbe scoppiata una battaglia rabbiosa, che con ogni probabilità avrebbe segnato la fine del loro rapporto. Que sto non lo preoccupava molto, ma temeva di perdere il suo camera man. Ci sarebbero volute settimane per trovare un sostituto, e que sto poteva portare all'annullamento del contratto con la BOSS, alla fine della possibilità di seguire nell'Ubomo la Lucky Dragon e Ning Deng Kong. Rallentò e rifletté. Non era il caso di prendere per le orecchie Bonny Mahon. « E meglio che vada a far sbollire la rabbia da qualche parte. » E scelse il Jambo Bar, uno dei locali più famigerati nei dintorni della stazione. Era pieno di soldati negri in tenuta mimetica, di turisti e di ra gazze. Alcune delle donne erano magnifiche, samburu, kikuyu e masai, con le gonne attillate cariche di perline e i nastri colorati in trecciati ai capelli. Daniel sedette in un angolo del banco, e le contorsioni dei turisti europei di mezza età sulla pista da ballo contribuirono ad alleviare il suo pessimo umore. Una recente inchiesta sulle ragazze che batte vano i bar di Nairobi aveva accertato che nel novantotto per cento dei casi erano sieropositive all'AIDs. Bisognava avere istinti suicidi per approfittare delle loro grazie. Dopo un'ora e due doppi whisky, la rabbia di Daniel era sbollita a sufficienza. Tornò al Norfolk Hotel. Entrò nel cottage e vide i pantaloni kaki e le mutandine di Bonny sul pavimento del salotto, dove li aveva lasciati cadere. Quella sera il disordine lo irritava più del solito. La camera da letto era al buio, ma le luci del cortile filtravano attraverso le tende quanto bastava perché potesse scorgere Bonny sotto il lenzuolo. Fingeva di dormire. Daniel si svestì, s'infilò nudo nel letto e rimase immobile. Per cinque minuti nessuno dei due parlò. Poi Bonny bisbigliò: « Papà è arrabbiato con la sua bambina? » Aveva un tono infantile, affettato. « La sua bambina è stata cattiva. » Lo toccò sul fianco con le dita calde e vellutate. « Ma adesso vuole dimostrare che le di spiace. »
Daniel le afferrò il polso ma era troppo tardi. Era esperta, velo ce e... non voleva farla smettere. « Accidenti, Bonny », protestò. « Hai rovinato un'occasione... » « Zitto! Non parlare », mormorò lei. « Adesso la bambina siste merà tutto con papà. » « Bonny... » Daniel non finì la frase. Le lasciò il polso. L'indomani mattina, quando controllò il conto dell'albergo pri ma di pagarlo, notò, sotto la voce « telefonate internazionali », un conto di centoventi scellini kenyani. Chiese spiegazioni a Bonny. « Hai fatto qualche telefonata internazionale, ieri sera? » « Ho chiamato la mia vecchia mamma per farle sapere che sto bene. Lo so che sei tirchio, ma non te la prenderai per questo, vero? » Qualcosa, nell'atteggiamento di sfida di Bonny, lo scosse. Quan do lei lo precedette per caricare sul tassì l'attrezzatura video, Daniel indugiò nella suite. Appena rimase solo chiamò il centralino e chiese il numero che figurava sul suo conto. « Londra 7276464, signore. » « Me lo chiami di nuovo, per piacere. » « Sta squillando, signore. » Al terzo trillo rispose una voce. « Buongiorno. Desidera? » « Che numero è? » chiese Daniel, ma il suo interlocutore era guardingo. « Con chi vuole parlare, prego? » Daniel credette di riconoscere la voce, il forte accento africano. Tentò. « Sei tu, Selibi? » chiese in swahili. « Sì, sono Selibi. Vuol parlare con il bwana mkuba? Chi devo dire? » Daniel riattaccò e fissò il ricevitore. Selibi era il servitore di Tug Harrison. Quindi Bonny aveva tele fonato a casa di Tug la sera prima, mentre lui era al bar. « Sempre più strano », mormorò Daniel. « La signorina Bonny non è quello che finge di essere... a meno che la sua vecchia mam ma viva in Holland Park. »
Tutti i posti sul volo dell'Air Ubomo per Kahali erano occupati. In maggioranza gli altri passeggeri sembravano uomini d'affari, funzionari statali o politici. C'erano cinque o sei militari negri in uniforme mimetica con i nastrini delle decorazioni, i berretti e gli occhiali scuri. Ma non c'erano turisti... non ci sarebbero stati fino a che la BOSS non avesse aperto il nuovo casinò in riva al lago. La hostess era una hita molto alta nello sgargiante costume na zionale, e distribuiva pacchetti di biscotti dolci e tazze di plastica piene di tè tiepido con l'aria altezzosa d'una regina che dispensa l'e lemosina ai sudditi poveri. A metà delle quattro ore di volo sparì nella toilette con uno dei militari, e il servizio s'interruppe. Incontrarono forti turbolenze sull'orlo orientale della grande Rift Valley, e un corpulento uomo d'affari negro, seduto in prima fila, intrattenne gli altri passeggeri vomitando rumorosamente la co lazione. L'hostess rimase chiusa nella toilette. Finalmente arrivarono sopra il lago. Anche se il nome era stato cambiato come tanti altri sospetti di colonialismo, Daniel continua va a preferire « lago Alberto » a « lago Mobutu ». Le acque erano azzurrissime, screziate dai cavalloni candidi e costellate dalle vele dei dhow dei pescatori. Era così largo che per qualche tempo non apparve la riva opposta: poi emerse lentamente dalla foschia. « L'Ubomo », mormorò Daniel, parlando più a se stesso che a BonnY. Il nome aveva una carica di romanticismo e di mistero che gli dava i brividi. Stava per seguire le orme dei grandi esploratori dell'Africa. Spe
ke era passato di lì, e anche Stanley, e decine di migliaia di cacciato ri e negrieri, avventurieri e soldati. Doveva riuscire a trasfondere nel suo documentario il senso dell'avventura e della storia che gli sugge riva quel Paese. Su quelle acque avevano navigato i dhow degli ara bi, carichi d'avorio e di schiavi, l'oro bianco e l'oro nero che un tempo costituivano le maggiori esportazioni del continente. Secondo certe stime, cinque milioni di umani erano stati cattura ti nell'interno come animali e trascinati sulla costa. Per attraversare il lago li avevano stipati come sardine sui dhow. Quelli del primo strato erano costretti a stendersi nella sentina l'uno accanto all'al tro, ventre contro schiena, come cucchiai. Poi venivano sistemate le tavole mobili del ponte che davano loro una quarantina di centime tri di spazio, quindi veniva un altro strato di esseri umani e un altro ponte, fino a che c'erano quattro ponti pieni di schiavi urlanti e piangenti. Se i venti erano favorevoli, la traversata durava due giorni e tre notti. I negrieri arabi si accontentavano di una percentuale di super stiti del cinquanta per cento. Era una selezione naturale. Ne usciva no vivi solo i più forti. Sulla riva orientale del lago, i vivi venivano estratti dalle stive incrostati di feci e di vomito, mentre i morti veni vano gettati in pasto ai coccodrilli. I superstiti potevano riposare e riprendere le forze per l'ultima tappa del viaggio. Quando i negrieri li ritenevano abbastanza forti, li incatenavano e li aggiogavano in lunghe file. Ogni schiavo portava una zanna d'avorio. E così mar ciavano verso la costa. Daniel si chiese se avrebbe potuto ricostruire quegli orrori ser vendosi di attori e di un dhow preso a nolo. Prevedeva che avrebbe fatto scalpore. Molto spesso recensori e critici l'avevano accusato di presentare nelle sue opere scene di inaudita violenza. La risposta era una sola: « L'Africa è un continente selvaggio e violento. Chi cerca di nascondervelo non dice la verità ». Il sangue era il fertilizzante che faceva fiorire il suolo africano. Daniel guardò verso nord, oltre le acque splendenti. Là, dove il Nilo sboccava dal lago, c'era un cuneo triangolare di terra che si af facciava sul fiume: si chiamava Lado Enclave. Un tempo era una tenuta privata del re del Belgio. I branchi degli elefanti che popola vano quella zona erano più prolifici e avevano zanne più belle di quelli del resto del continente, e i belgi li avevano gelosamente pro tetti. In seguito a un trattato, la proprietà della Lado Enclave, alla morte del re, passò al Sudan: quando ciò era avvenuto, i belgi del servizio coloniale avevano abbandonato a precipizio la zona, la sciando un vuoto di potere. I contrabbandieri d'avorio europei era no accorsi per approfittarne: erano piombati sui branchi e li aveva no sterminati. Nell'autobiografia, Karamojo Bell racconta che inse guì un branco dall'alba al crepuscolo, correndo per non farsi di stanziare. In quella giornata sanguinosa uccise ben ventitré elefanti. Le cose non erano molto cambiate, pensò tristemente Daniel. Il massacro e la rapina continuavano. E l'Africa sanguinava. L'Africa chiedeva aiuto al mondo civile, ma che aiuto le si poteva dare? Tutti i cinquanta Stati membri dell'Organizzazione per l'unità africana, messi insieme, riuscivano sì e no a raggiungere un prodotto lordo pari a quello del piccolo Belgio. In che modo i Paesi occidentali potevano aiutare l'Africa? Da niel se lo domandava. Gli aiuti che si riversavano sull'immenso con tinente venivano risucchiati come poche gocce di pioggia dalle sab bie del Sahara. Un cinico aveva definito questi aiuti come il sistema con cui i bianchi dei Paesi ricchi regalavano quattrini ai negri ricchi dei Paesi poveri perché li mettessero nelle banche svizzere. La triste verità era che l'Africa non contava più, soprattutto da quando era caduto il muro di Berlino e l'Europa dell'Est aveva cominciato a emergere dal medioevo del comunismo. L'Africa era di troppo. Il resto del mondo poteva riservarle una fuggevole solidarietà: ma l'A
frica era al di là di ogni forma d'aiuto. L'Europa avrebbe finito per rivolgere l'attenzione a Paesi più promettenti e più vicini al suo cuore. Daniel sospirò e lanciò un'occhiata a Bonny, seduta al suo fian co. Avrebbe voluto comunicarle i suoi pensieri, ma lei s'era tolti i sandali e teneva le ginocchia nude appoggiate alla spalliera del sedi le davanti, masticava chevvingum e leggeva un tascabile di fanta scienza. Daniel guardò di nuovo dal finestrino. La costa dell'Ubomo parve salire a incontrarli mentre il pilota iniziava la discesa. La sa vana era di un bruno rossastro come il manto di un impala, e costel lata di acacie. Sulla riva, i villaggi dei pescatori erano sgranati come perle tenute insieme da un filo di orti verdi e di shamba alimentati dalle acque lacustri. I bambini salutavano con la mano l'aereo che passava: e quando incominciò la virata finale, Daniel intravide in lontananza le montagne azzurre ammantate di foreste. L'hostess uscì dalla toilette con aria soddisfatta e si aggiustò la lunga gonna verde, poi ordinò in inglese e in swahili di allacciare le cinture di sicurezza. I tetti zincati della città lampeggiarono sotto di loro. Atterraro no pesantemente sulla pista polverosas L'aereo passò davanti allo scheletro d'acciaio e di cemento che avrebbe dovuto diventare il nuovo, grandioso aeroporto Ephrem Taffari se i finanziamenti non fossero stati sospesi, e si fermò davanti all'umile costruzione di mattoni crudi che risaliva al regno di Victor Omeru. All'apertura del portello, il caldo li assalì. Grondavano di sudo re prima ancora di arrivare al terminal. Un ufficiale hita in uniforme mimetica e berretto marrone rico nobbe Daniel in mezzo al gruppetto di passeggeri e gli andò in contro. « Il dottor Armstrong? L'ho riconosciuta dalla foto sulla coper tina del suo libro. » E tese la mano. « Sono il capitano Kajo e le farb da guida durante la sua permanenza. Il presidente in persona mi ha incaricato di porgerle il benvenuto e di assicurarle la nostra più completa collaborazione. Sir Peter Harrison è un suo amico perso nale, e il presidente ha espresso il desiderio di incontrarla non appe na si sarà ripreso dagli effetti sgradevoli del viaggio. Anzi, ha orga nizzato un cocktail party per celebrare il suo arrivo nell'Ubomo. » Il capitano Kajo parlava benissimo l'inglese. Era un giovane alto e snello, il classico hita. Era più alto di Daniel di almeno cinque centimetri. I suoi occhi neri cominciarono a brillare mentre studiava Bonny Mahon. « Questa è la signorina Mahon, il mio cameraman. » Bonny guardò il capitano Kajo con eguale interesse. Quando furono a bordo di un Land Rover dell'esercito carico dei bagagli e dell'attrezzatura video, Bonny si accostò a Daniel e chiese: « E vero quello che dicono degli africani? Sono davvero... molto grossi? » « Non me ne sono mai occupato », rispose Daniel. « Comunque potrei accertarmi, se t'interessa. » « Non è necessario che ti sacrifichi. » Bonny sorrise. « E una ri cerca che posso fare da sola. » Da quando aveva scoperto la telefonata segreta a Tug Harrison, i dubbi di Daniel erano cresciuti. Ormai non si fidava più di Bonny e non la trovava più simpatica come gli era sembrata fino al giorno prima.
Era il novilunio, ma le stelle erano fulgide e si riflettevano sulle acque increspate del lago. Kelly Kinnear era seduta a prua del picco lo dhow. Il sartiame cigolava sotto la spinta gentile della brezza not turna mentre attraversavano il lago. Le stelle erano magnifiche. Kelly alzò il viso e mormorò i nomi
lirici delle costellazioni via via che le riconosceva. Le stelle erano tra le poche cose che le mancavano nella foresta, perché erano eterna mente nascoste dall'alto baldacchino delle cime degli alberi. Adesso se le godeva, perché presto le avrebbe perdute. Il timoniere cantava un ritornello monotono, un'invocazione agli spiriti del lago, i dVinni che comandavano i venti capricciosi e sospingevano il dhow sull'acqua scura. L'umore di Kelly era mutevole come la brezza che cadeva, cam biava direzione e poi ritrovava forza. Era euforica all'idea di torna re nella foresta e di ritrovare i suoi cari amici. Aveva paura del viag gio e dei pericoli che ancora l'attendevano prima di raggiungere la sicurezza degli alberi alti. Temeva che i cambiamenti politici seguiti al colpo di Stato avessero distrutto e danneggiato molte cose duran te la sua assenza. Era rattristata dal ricordo delle distruzioni già compiute nella foresta nei pochi anni trascorsi da quando era pene trata per la prima volta in quella cattedrale silenziosa. Nello stesso tempo, si consolava con le promesse di aiuto che aveva ottenuto e dell'interesse che era riuscita ad accendere durante la visita in Inghilterra e in Europa; ma era delusa perché l'appoggio era stato soprattutto morale e verbale e non finanziario. Chiamò a raccolta tutto il suo entusiasmo e s'impose di guardare con ottimi smo al futuro. « Ce la faremo. Dobbiamo farcela. » All'improvviso pensò a Daniel Armstrong e la rabbia e la tristez za la riassalirono. Il suo tradimento era ancora più odioso proprio a causa della cieca fiducia che aveva riposto in lui prima di cono scerlo. Lo aveva giudicato in base a ciò che aveva visto in televisione e letto negli articoli dei quotidiani e delle riviste. S'era fatta un'opi nione estremamente favorevole, non solo perché era bello ed elo quente quando appariva sullo schermo, ma anche perché sembrava comPrendere sino in fondo quello sventurato continente. Gli aveva scritto due volte, indirizzando le lettere allo studio te levisivo. Forse non gli erano mai arrivate, o forse erano solo una goccia nel mare di posta che probabilmente riceveva. Comunque, non le aveva mai risposto. Poi, quando a Nairobi era giunta, inaspettata, l'occasione di in contrarlo, in un primo momento Daniel Armstrong aveva realizzato tutte le sue speranze. Era disponibile e generoso, e tra loro s'era sta bilita un'intesa immediata. Appartenevano allo stesso mondo, ave vano interessi molto simili e, soprattutto, tra loro era scoccata una scintilla essenziale, reciproca e riconosciuta da entrambi: se le loro menti erano entrate in sintonia, non meno evidente era la presenza di un'innegabile attrazione fisica. Kelly non si considerava sensuale. I suoi soli amanti erano stati uomini di cui ammirava l'intelligenza. Il primo era stato uno dei suoi professori alla facoltà di medicina, che aveva venticinque anni più di lei Erano ancora amici Gli altri due erano compagni di stu dio, il quarto l'uomo che aveva sposato. Paul era medico come lei: s'erano laureati nello stesso anno ed erano partiti per l'Africa. Non erano ancora trascorsi sei mesi quando Paul era stato morso da uno dei letali mamba della foresta e non era sopravvissuto. Ogni volta che poteva, Kelly andava a visitare la tomba ai piedi d'un gigante sco kapok sulle rive dell'Ubomo, nel folto della foresta. Quattro amanti in trentadue anni di vita. No, non era una don na sensuale, eppure s'era accorta della forte attrazione che Daniel Armstrong aveva esercitato su di lei, e non aveva provato l'impulso di resistere. Era il suo tipo d'uomo. All'improvviso, però, aveva scoperto che era tutto menzogna e illusione e che Armstrong era come gli altri. Venduto alla BOSS e a quel mostro di Harrison. Kelly cercò di servirsi della collera per proteggersi dalla delusione che le dava il crollo di un ideale. Aveva creduto in Daniel Armstrong. Gli aveva dato la sua fiducia e lui l'a veva tradita.
Non pensarci più, si disse. Non pensare più a lui. Non lo merita. Ma era abbastanza sincera per riconoscere che non sarebbe stato fa cile. Dalla poppa, il timoniere del dhow la chiamò sottovoce in swa hili, e Kelly si scosse e guardò davanti a sé. La riva era a ottocento metri di distanza, e la linea bassa dei frangenti spumeggiava nella luce delle stelle. L'Ubomo. Stava tornando a casa. Il suo spirito si risollevò. Il timoniere gettò un grido e Kelly si voltò. I due uomini dell'e quipaggio, vestiti solo di perizomi, corsero avanti e fecero cadere il boma sul ponte. La vela latina ondeggiò e si piegò, e i due l'avvolse ro in fretta. In pochi secondi l'albero rimase nudo, e il dhow sguaz zò nelle acque scure. « Cosa c'è? » chiese sottovoce Kelly in swahili. « Una motovedetta », rispose il timoniere. Kelly sentì il rombo del motore diesel nel vento e si irrigidì. Gli uomini del dhow erano uhali, fedeli al vecchio presidente Omeru. Rischiavano la vita, come lei, sfidando il coprifuoco e attraversan do il lago nell'oscurità. Si acquattarono sul ponte e guardarono nel buio mentre il suono del motore si avvicinava. La motovedetta era il dono di uno sceicco, arricchitosi con il petrolio, al nuovo regime: un veloce mezzo d'as salto lungo dodici metri con i cannoni gemelli nelle torrette blindate a poppa e a prua. Aveva prestato servizio per trent'anni nel mar Rosso, e adesso passava gran parte del tempo nel porto di Kahali con i motori in avaria ad attendere i pezzi di ricambio. Comunque, Kelly aveva scelto la notte meno adatta per la traversata: per una volta, la motovedetta era funzionante e pericolosa. Kelly vide il bagliore della spuma sollevata dalla prua dell'im barcazione. Veniva da sud. Istintivamente, si rannicchiò cercando di ripararsi dietro la frisata mentre considerava la sua posizione. La motovedetta li avrebbe avvistati sicuramente se avesse continuato su quella rotta. Se l'avessero trovata sul dhow, l'equipaggio sarebbe stato fucilato senza processo in una delle esecuzioni pubbliche sulla spiaggia di Kahali che facevano parte del nuovo stile di governo di Ephrem Taffari. Naturalmente sarebbe stata fucilata anche lei, ma al momento Kelly non se ne preoccupava. I suoi compagni erano uomini coraggiosi e avevano rischiato la vita per lei. Doveva fare tutto il possibile per proteggerli. Se non l'avessero trovata a bordo e non avessero scovato merce di contrabbando, gli uomini dell'equipaggio avrebbero potuto ca varsela: certo, li avrebbero picchiati, multati e gli avrebbero confi scato il dhow, ma si sarebbero salvati. Kelly prese lo zaino, slegò le cinghie che tenevano bloccato il materassino gonfiabile, lo srotolò e soffiò freneticamente nella val vola. Si riempiva i polmoni, e poi soffiava a lungo e con forza, con tinuando a seguire con gli occhi la sagoma scura della motovedetta. Si avvicinava velocemente. Non c'era il tempo di gonfiare del tutto il materassino che, infatti, era ancora piuttosto floscio quando chiu se la valvola. Si alzò, si caricò lo zaino sulle spalle e chiamò il timoniere: « Grazie, amico mio. La pace sia con te e che Allah ti conservi ». Quasi tutta la popolazione del lago era musulmana. « E la pace sia con te », rispose l'uomo, in tono di sollievo. Capi va che lo stava facendo per lui e per i suoi compagni. Kelly sedette sulla paratia e calò le gambe fuoribordo. Strinse al petto il materassino semigonfio e trasse un respiro profondo prima di buttarsi nel lago. L'acqua si chiuse sopra la sua testa. Era molto fredda e il peso dello zaino la trascinò verso il fondo prima che il materassino la riportasse alla superficie. Riemerse ansimando e con l'acqua che le grondava negli occhi. Impiegò qualche minuto per abituarsi all'assetto irregolare di quel mezzo di fortuna: alla fine si buttò di traverso, con le gambe penzo
lanti e la cinghia dello zaino agganciata al braccio. La testa era sol levata, ma molto bassa sull'acqua. Le onde le investivano la faccia e minacciavano di rovesciare il suo sostegno precario. Cercò il dhow e si sorprese nel vedere che si era allontanato di molto. In quel momento il boma venne rialzato e la vela si gonfiò. La barca sgraziata si girò e volò nella brezza, cercando di allonta narsi dalla costa proibita prima che la motovedetta l'avvistasse. « Buona fortuna », mormorò, e un'onda si infranse contro il suo viso, facendola tossire ripetutamente. Quando si riprese, vide che il dhow e la motovedetta erano spariti nella notte. Si diede una spinta con i piedi, cercando di non sbilanciarsi e di conservare le forze per la lunga notte che l'attendeva. Sapeva che il lago era popolato da coccodrilli mostruosi: ne aveva fotografato uno che misurava quasi sei metri dalla punta del muso orrendo al l'estremità della grossa coda crestata. Scacciò l'immagine dalla mente e continuò ad avanzare orientandosi con le stelle e puntando verso Orione che stava capovolta sull'orizzonte occidentale. Dopo qualche minuto scorse un lampo di luce, lontano e soprav vento. Poteva essere il riflettore della motovedetta che aveva inqua drato la sagoma del dhow. Si impose di non voltarsi a guardare. Non voleva sapere se era successo il peggio, anche se non poteva fa re nulla di più per salvare gli uomini che l'avevano aiutata. Continuò a nuotare con un ritmo regolare. Dopo un'ora, si chie se se si era mossa. Lo zaino era come un'ancora che pendeva sotto il materassino. Ma non osava sbarazzarsene. Senza l'equipaggia mento indispensabile che conteneva, sarebbe stata spacciata. Dopo un'altra ora si senti quasi esausta. Fu costretta a riposarsi. Un polpaccio era attanagliato dai crampi. La brezza era caduta e nel silenzio si sentiva un rombo sommesso e regolare, come di un vecchio che russa. Kelly impiegò un momento per localizzare il suono. « La risacca », mormorò, e mosse i piedi con rinnovata energia. Senti l'acqua sollevarsi nell'incontro con il fondo. Continuò a nuotare con lentezza torturante, trascinando nell'acqua se stessa e lo zaino fradicio. Poi vide le palme profilarsi sulla spiaggia, contro le stelle. Trat tenne il respiro e abbassò i piedi. L'acqua si chiuse nuovamente so pra la sua testa; ma senti con i piedi il fondo sabbioso, un paio di metri sotto la superficie, e trovò l'energia per un ultimo sforzo. Dopo pochi minuti poté stare in piedi. La risacca la fece cadere, ma si rialzò di nuovo e sali barcollando la spiaggia stretta per ripa rarsi tra i papiri. Il suo orologio era un Rolex impermeabile, regalo di nozze di Paul. Erano le quattro passate da pochi minuti, e presto sarebbe venuta la luce. Doveva avviarsi nell'interno prima che una pattuglia di hita la catturasse: ma era troppo infreddolita, indolen zita ed esausta per continuare a muoversi. Mentre riposava, apri lo zaino con le dita intorpidite e fece scor rere via l'acqua che quasi ne raddoppiava il peso. Strizzò gli indu menti di ricambio e asciugò alla meglio gli altri oggetti. Mentre la vorava, masticò una tavoletta energetica a base di zucchero e quasi subito si senti meglio. Ripose tutto nello zaino, se lo mise in spalla e si avviò verso nord, tenendosi parallela al lago ma lontana dalla sabbia morbida che avrebbe conservato le sue orme e avrebbe permesso a una pattu glia di seguirla. A intervalli di poche centinaia di metri c'erano gli orticelli e le casupole dei piccoli shamba. I cani abbaiarono e Kelly fu costretta a fare un ampio giro per non essere scoperta. Sperava di essersi avvia ta nella direzione giusta. Il padrone del dhow, pensava, si era avvi cinato sopravvento alla destinazione; quindi lei doveva continuare a procedere verso nord. Stava camminando da quasi un'ora, anche se calcolava di non aver percorso molto più di tre chilometri-, quando, con un guizzo
di sollievo, vide davanti a sé la cupola chiara della piccola moschea che, nel primo barlume perlaceo dell'alba, luccicava come la testa calva di un uomo. Allungò il passo, per quanto fosse appesantita dallo zaino e sfi nita dalla fatica. Senti l'odore del fumo di legna e vide la luce del fuoco sotto il tamarindo, esattamente dove doveva essere. Quando fu più vicina, distinse le figure dei due uomini accosciati. « Patrick! » chiamò con voce rauca. Uno dei due balzò in piedi e le corse incontro. « Patrick! » ripeté Kelly. Barcollò. Sarebbe caduta se l'uomo non l'avesse sorretta. « Kelly! Allah sia lodato. Credevamo che non venissi più. » « La motovedetta... » ansimò lei. « Si. Abbiamo sentito gli spari e visto la luce. Pensavamo che ti avessero presa. » Patrick Omeru era uno dei nipoti del vecchio presidente. Finora era sfuggito ai rastrellamenti dei soldati di Taffari. Era uno dei pri mi amici che Kelly aveva trovato dopo essere giunta nell'Ubomo. Le tolse lo zaino dalle spalle e lei sospirò di sollievo. Le cinghie ba gnate le avevano scorticato la pelle delicata. « Spegni il fuoco », disse Patrick al fratello, che subito buttò la sabbia sulle braci. Poi condussero Kelly al camion parcheggiato in un boschetto di manghi dietro la moschea abbandonata. L'aiutaro no a salire, la fecero stendere sul pianale e la coprirono con un telo ne. Il camion puzzava di pesce secco. Anche se il veicolo sobbalzava sulle buche, finalmente Kelly sta va al caldo. Si addormentò. Aveva imparato nella foresta a dormire anche nelle condizioni più scomode. L'improvviso cessare del movimento e del rombo del motore la svegliò. Non sapeva per quanto tempo aveva dormito, ma ormai era giorno. Un'occhiata all'orologio le rivelò che erano le nove passate. Rimase distesa sotto il telone e ascoltò le voci degli uomini che par lavano accanto al camion. Sapeva che non doveva rivelare la pro pria presenza. Dopo qualche minuto, Patrick sollevò il telone e le sorrise. « Dove siamo, Patrick? » « A Kahali, nella città vecchia. Un posto sicuro. » Il camion era fermo nel cortiletto d'una delle vecchie case arabe. La costruzione era in rovina, il cortile invaso da rifiuti ed escremen ti di pollo. I polli erano posati sotto i tetti o razzolavano nella pol vere. C'era un forte odore di fogna. La famiglia Omeru se la passa va male dopo la caduta del vecchio presidente. Nel salotto miseramente arredato, con le pareti macchiate e rico perte da vecchi ritagli ingialliti di giornale, la moglie di Patrick le aveva preparato un pasto: uno spezzatino di pollo insaporito con peperoncini e accompagnato da una ciotola di manioca e di banane bollite. Kelly aveva fame e il cibo era buono. Mentre mangiava, altri uomini vennero a parlarle. Entravano in silenzio e si accosciavano al suo fianco nella stanza spoglia. Le rife rivano ciò che era accaduto nell'Ubomo durante la sua assenza, e Kelly aggrottava la fronte. Le buone notizie erano poche. Sapevano dove stava andando, e le davano messaggi da portare, poi uscivano furtivamente com'erano arrivati. Era scesa da tempo l'oscurità quando Patrick si alzò e disse sot tovoce: « E ora di partire ». Il camion era carico di ceste piene di pesce secco, e avevano pre parato un piccolo nascondiglio per lei. Kelly vi si infilò. Patrick le consegnò lo zaino, poi chiuse il varco con un'altra cesta. Il camion si mise in moto e uscì rombando dal cortile. Quella tappa del viaggio era di poco meno di cinquecento chilometri. Kelly si stese e si addormentò di nuovo. Si svegliava ogni volta che il veicolo si fermava. Quando sentiva le voci alte e arroganti degli hita che parlavano in swahili con il ca
ratteristico accento, capiva che erano a un altro posto di blocco dei militari. Una volta Patrick fermò il camion in un tratto di strada deserto e la fece uscire dal nascondiglio. Kelly si allontanò nel veld per fare i suoi bisogni. Si trovavano ancora nella savana erbosa sotto l'orlo della Rift Valley. Sentiva poco lontano i muggiti dei bovini: li intor no c'era un manyatta degli hita. Quando si svegliò, sentì un movimento nuovo e strano, e la no stalgica cantilena dei traghettatori: ormai era quasi arrivata. Durante la notte aveva aperto un piccolo varco tra le ceste di pe sce secco per guardare il mondo. E adesso poteva scorgere la distesa del fiume Ubomo illuminata dall'arancione e dal violetto dell'au rora. I traghettatori passavano avanti e indietro, di fronte allo spion cino, e maneggiavano le funi che collegavano il traghetto alle due ri ve. Il traghetto era quasi al limitare della grande foresta: riusciva a immaginarla come se potesse vederla. L'ampia fascia del fiume era il confine naturale fra la savana e la foresta. La prima volta che s'era fermata sulla riva era rimasta sbalordita nel vedere che la foresta incominciava all'improvviso. Sulla riva orientale, l'erba e le acacie digradavano verso il lago mentre, su quella opposta, sorgeva una palizzata gigantesca di albe ri scuri, una muraglia compatta e ininterrotta alta trenta metri, con alcuni giganti che torreggiavano per altri quindici. Le era apparsa scoraggiante e spaventosa: e la strada che si addentrava nella fore sta era simile a una tana di conigli. Nei pochi anni trascorsi da quel giorno, la foresta era stata in taccata ai margini dai contadini affamati di terra. Avevano abbattu to alberi colossali che avevano impiegato secoli per crescere e li ave vano bruciati per ricavarne carbone e fertilizzanti. La foresta indie treggiava sotto il loro assalto. Adesso c'erano quasi otto chilometri, dal traghetto all'inizio degli alberi. Su questa striscia di terra vivevano adesso gli shamba, con i loro campi di banani e di manioca. Il terreno sfruttato veniva abbando nato alle erbacce e alla vegetazione secondaria. Il suolo fragile pote va sopportare le coltivazioni per due o tre anni; poi si esauriva e i contadini si spostavano per diboscare un altro tratto. La strada, anche dove raggiungeva il margine della foresta, non era più un tunnel fra gli alberi sotto un alto baldacchino di vegeta zione. I bordi erano stati diboscati per ottocento metri da ogni lato. I contadini s'erano serviti della strada per accedere all'interno della foresta; avevano costruito i villaggi sui margini e avevano ricavato orti e piantagioni. Era il terribile, distruttivo sistema di coltivazione chiamato slash and burn, che consisteva nell'abbattere gli alberi e poi bruciarli. I giganti della foresta, la cui enormità sfidava le minu scole scuri, venivano uccisi accendendo un fuoco lento alla base dei tronchi. Si continuava poi a far ardere il fuoco per settimane e setti mane fino a che il nucleo di legno duro non si consumava completa mente, provocando così il crollo di piante alte anche sessanta metri. La stessa strada era una lama mortale, una lancia affondata nel le viscere della foresta e intrisa nel veleno della civiltà. Kelly odiava la strada, canale d'infezione e di corruzione nel grembo virginale della vegetazione. Dallo spioncino, vide che adesso la strada era più larga di quan to la ricordasse. C'erano solchi profondi aperti dalle ruote dei ca mion che trasportavano il legname e i minerali, e dal traffico pesan te che aveva incominciato a sfruttare quell'arteria da quando il pre sidente Omeru era stato spodestato e la foresta assegnata in conces sione al potente consorzio straniero perché la sfruttasse. In base ai suoi studi e a una documentazione meticolosa, Kelly sapeva che la strada aveva già modificato i ritmi delle piogge. Lo squarcio ampio più di un chilometro e mezzo non era protetto dal l'ombrello della vegetazione. Il sole tropicale batteva sulla fascia
scoperta e riscaldava la terra indifesa, causando una forte corrente ascensionale che disperdeva le nubi gonfie di pioggia che si addensa vano ogni giorno sopra la foresta verde. Ormai, in quella zona mar toriata, le precipitazioni erano scarse, sebbene sulle foreste intatte, lontane pochi chilometri, la pioggia continuasse a scendere nella mi sura di settemilacinquecento millimetri l'anno. I bordi della strada erano aridi, caldi e polverosi. I manghi era no avvizziti nel caldo meridiano e la gente che viveva lungo la gran de arteria costruiva i baraza, tettoie di paglia sostenute da pali e pri ve di pareti, per proteggersi dal cielo sgombro di nuvole. Senza la foresta l'intero bacino dell'Ubomo sarebbe presto diventato un pic colo Sahara. Per Kelly, la strada costituiva una sorta di Sodoma e Gomorra della foresta. Era una tentazione per i suoi amici bambuti. I camio nisti avevano quattrini da spendere e volevano carne, miele e donne. I bambuti erano abili cacciatori e potevano fornire miele e carne; e le loro ragazze, minuscole e graziose, con i loro ampi sorrisi e i seni abbondanti, esercitavano una particolare attrazione sugli alti uomi ni bantu. La strada seduceva i bambuti e li allontanava dall'isolamento della foresta. Distruggeva il loro modo di vita tradizionale. Incorag giava i pigmei a eccedere nella caccia. Mentre un tempo avevano cacciato solo per sfamare se stessi e la loro tribù, adesso lo facevano per vendere la carne ai piccoli duka lungo la strada, gli empori che sorgevano in ogni villaggio. La selvaggina diventava sempre più scarsa e molto presto, Kelly lo sapeva, i bambuti avrebbero provato la tentazione di andare a caccia nel remoto centro della foresta, dove non si erano mai spinti, per tradizione e per motivi religiosi. Sul bordo della strada i bambuti scoprivano il vino di palma, la birra in bottiglie e i superalcolici. Come molti popoli dell'età della pietra, dagli aborigeni australiani agli inuit dell'Artico, avevano scarsa resistenza all'alcool. Un pigmeo ubriaco era uno spettacolo patetico. Nel cuore della foresta nessuna tradizione tribale vietava alle giovani bambuti di avere esperienze sessuali prima del matrimonio: era quindi concesso sperimentare il contatto fisico con l'altro sesso, purché il rapporto non fosse completo. Per loro l'atto sessuale era una naturale, piacevole espressione d'affetto, ed erano per natura allegre e cordiali: una facile preda per gli smaliziati camionisti che venivano dalle città. Vendevano le loro grazie per un gingillo, una bottiglia di birra o pochi scellini, e da quei baratti uscivano con la sifilide o la gonorrea o, peggio ancora, l'AIDS. Accecata dall'odio per quella strada, Kelly avrebbe voluto che ci fosse un modo per fermarla, per arrestare quel processo di degrado e di distruzione: ma sapeva che non c'era nulla da fare. La BOSS e il consorzio erano colossi che avanzavano a passo di marcia: la fore sta, il suo suolo, i suoi alberi, i suoi animali e la sua popolazione erano troppo fragili. Poteva solo sperare di contribuire a ritardare la catastrofe, salvando qualche frammento prezioso dal crogiolo del progresso, dello sviluppo e dello sfruttamento. Il camion lasciò la strada e in una nuvola di polvere rossa si fer mò dietro un duka. Kelly sbirciò e vide che era un tipico emporio con i muri d'argilla e il tetto ricoperto da fronde di palma ilala. C'e ra un camion carico di legname fermo davanti all'entrata, e l'autista e il suo compagno stavano contrattando l'acquisto di ignami dolci e carne di selvaggina affumicata. Patrick Omeru e il fratello cominciarono a scaricare una parte dei cesti di pesce per consegnarli al negoziante; e mentre lavorava no, parlavano con Kelly, evitando di guardare verso il suo nascon diglio. « Tutto bene, Kelly? » « Sì, Patrick. Sono pronta a muovermi », disse lei sottovoce.
« Aspetta, dottoressa. Devo assicurarmi che non ci sia pericolo. L'esercito pattuglia regolarmente la strada. Parlerò con il bottegaio: lui sa quando verranno i soldati. » Patrick continuò a scaricare il pesce. Davanti all'ingresso del du ka, il camionista si accordò e portò al suo veicolo la merce acquista ta. Salì a bordo e ripartì con un rombo e una nube di fumo, si im mise sulla strada tutta solchi trainando due enormi rimorchi, carichi di tronchi di mogano lunghi almeno dodici metri e con un diametro d'un metro e mezzo. Erano centinaia di tonnellate di legname pre zioso. Appena il camion si fu allontanato, Patrick chiamò il bottegaio uhali. Parlarono tra loro a voce bassa. Il bottegaio scosse la testa e indicò la strada. Patrick si affrettò a raggiungere il furgone del pesce. « Presto, Kelly! La pattuglia sarà qui da un momento all'altro, ma dovremmo sentire il motore da una certa distanza. Il bottegaio ha detto che i militari non entrano mai nella foresta. Hanno paura degli spiriti. » Rimosse i cesti di pesce che coprivano l'accesso al nascondiglio, e Kelly balzò sulla terra cotta dal sole. Era indolenzita e tormentata dai crampi. Si stirò e alzò le mani sopra la testa contorcendosi dalla vita in su per sciogliere i muscoli lungo la spina dorsale. « Devi andare via subito, Kelly », insistette Patrick. « La pattu glia! Vorrei tanto avere qualcuno che potesse accompagnarti. » Kelly rise e scosse la testa. « Nella foresta sarò al sicuro. » La prospettiva la rendeva felice, ma Patrick aveva l'aria preoccupata. « La foresta è un posto pericoloso. » « Anche tu hai paura dei dOinni, vero, Patrick? » scherzò Kelly mentre si caricava lo zaino sulle spalle. Sapeva che, come molti de gli uhali e degli hita, Patrick non s'era mai addentrato nella foresta. Avevano tutti il terrore degli spiriti. Appena potevano, i bambuti si affannavano a descrivere quegli esseri maligni e a inventare storie di incontri agghiaccianti. Era uno dei loro trucchi per tenere lontani i grossi negri dalle loro riserve segrete. « Certo che no, Kelly. » Patrick negò con troppo slancio. « Io so no istruito, non credo ai djinni e agli spiriti maligni. » Ma mentre parlava i suoi occhi scrutavano la muraglia impenetrabile degli albe ri che si innalzava appena al di là della fascia degli orti e delle pian tagioni. Rabbrividì e cambiò argomento. « Mi farai avere un messaggio nel solito modo? » chiese in tono ansioso. « Abbiamo bisogno di sapere come sta lui. » « Non preoccuparti. » Kelly gli sorrise e gli prese la mano. « Gra zie, Patrick. Grazie di tutto. » « Siamo noi che dobbiamo ringraziarti, Kelly. Che Allah ti dia la pace. » « Salaam aleikam », rispose lei. « Pace anche a te, Patrick. » Si voltò e sparì sotto le grandi foglie verdi dei banani. Dopo una doz zina di passi non fu più visibile dalla strada. Mentre attraversava gli orti, colse qualche frutto dagli alberi e riempì le tasche dello zaino con manghi e banane maturi. Era un'a bitudine dei bambuti che consideravano libero terreno di caccia gli orti e i villaggi. Prendevano tutto ciò che trovavano incustodito, ma per loro il furto non era tanto un divertimento quanto un modo per indurre i paesani a rinunciare al cibo e agli oggetti di valore con rag giri complicati. Kelly sorrise al ricordo dell'allegria con cui il vec chio Sepoo raccontava i suoi trucchi al resto della tribù, quando tornava dal villaggio agli accampamenti nel cuore della foresta. Adesso anche lei si serviva dei prodotti degli orti senza provare più rimorso di quanto ne avrebbe avuto Sepoo. A Londra sarebbe inorridita all'idea di fare la taccheggiatrice da Selfridges; ma via via che si avvicinava al margine della foresta cominciava di nuovo a pensare come un bambuti. Era il modo migliore per sopravvivere. In fondo all'ultimo orto c'era una recinzione di rami spinosi per
tenere lontane le creature della foresta che di notte saccheggiavano le colture; e a intervalli, piantati sui pali, c'erano luride bandierine e talismani juju per scoraggiare i demoni e i dVinni che avessero inten zione di avvicinarsi. I bambuti ridevano sempre come pazzi quando vedevano quelle manifestazioni della superstizione dei contadini; erano la prova del successo della loro ingegnosa propaganda. Kelly trovò un varco nella recinzione, largo quanto bastava per il pigmeo che l'aveva aperto. Passò. Davanti a lei stava la foresta. Alzò gli occhi e guardò uno stor mo di pappagalli grigi che volavano strillando fra le cime degli albe ri, trenta metri più in alto. L'ingresso della foresta era un intrico fittissimo. Dove la luce del sole era penetrata fino a terra, aveva fatto crescere una macchia di vegetazione secondaria. C'era una pista dei pigmei, ma Kelly fu costretta a chinarsi per entrarvi. Un bambuti di media statura era almeno trenta centimetri più basso di lei e, di conseguenza, il pas saggio nel sottobosco era stato ricavato a misura della loro altezza. Se erano tagliati di fresco, i rami stroncati erano facilmente indivi duabili ma, quando si disseccavano, diventavano acuminati come pugnali e, in più, si trovavano al livello del viso e degli occhi di Kel ly. Lei si muoveva con prudenza aggraziata. Non se ne rendeva con to ma nella foresta aveva imparato a comportarsi con la stessa agili tà elegante dei pigmei. Per i bambuti era un commento spregiativo dire che qualcuno camminava nella foresta come un wazungu. Wazungu era un termi ne insultante per indicare un estraneo, un forestiero. Persino il vec chio Sepoo ammetteva che Kelly camminava come se appartenesse al popolo dei veri uomini, non come una wazungu bianca. Lo schermo periferico del sottobosco era ampio qualche decina di metri e terminava bruscamente. Kelly si avventurò sul fondo del la vera foresta. Era come entrare in una grotta sottornarina, un luogo segreto e semibuio. La luce del sole filtrava attraverso strati successivi di fronde; l'intero mondo della foresta era inondato di verde, e l'aria, calda e umida, era odorosa di muffe e di funghi: un sollievo dopo la polvere e la luce spietata del sole del mondo esterno. Kelly si riempì i polmoni di quell'odore e si guardò intorno, battendo le palpebre mentre i suoi occhi si abituavano a quella luce bizzarra e incantevo le. Lì non c'era più il folto sottobosco: i grandi tronchi degli alberi si protendevano verso la cupola verde e sfumavano più avanti in una profondità egualmente verde. Le ricordavano la sala ipostila dell'immenso tempio di Karnak sulle rive del Nilo. Sotto i suoi piedi le foglie morte erano uno strato spesso e lussu reggiante come un prezioso tappeto orientale: davano elasticità al suo passo e frusciavano sotto i suoi piedi per avvertire le creature della foresta del suo avvicinarsi. Era imprudente accostare uno dei terribili bufali rossi senza annunciarsi o calpestare per caso una del le vipere letali che stavano acciambellate sul fondo della foresta. Kelly si muoveva svelta, accompagnata dal fruscio delle foglie morte sotto i piedi. A un certo punto si fermò per tagliare un basto ne da scavo e lo affilò con il coltello a serramanico. Camminava cantando, uno dei canti di lode alla foresta che le aveva insegnato Pamba, la moglie di Sepoo. Era un inno dei bam buti, perché la foresta era il loro dio. La veneravano come Madre e Padre. Non credevano affatto agli spiriti maligni di cui avallavano solennemente l'esistenza e raccontavano le imprese temibili ai con tadini. Per loro la foresta era un'entità vivente, una divinità genero sa o avara, che poteva dispensare favori o infliggere punizioni a co loro che sfidavano le sue leggi e la ferivano. Durante gli anni in cui aveva vissuto sotto il tetto della foresta, Kelly aveva imparato ad accettare in gran parte la filosofia dei bambuti, e adesso cantava al la foresta mentre l'attraversava a passo veloce. A metà del pomeriggio incominciò a piovere, uno degli acquaz
zoni massicci che ricorrevano con frequenza quotidiana. Le gocce che scendevano fitte e pesanti come pietre nelle fasce più alte della foresta rombavano come un lontano fiume in piena. Se fossero ca dute sulla terra nuda con la stessa violenza, avrebbero strappato via lo strato superficiale di humus e scavato cicatrici profonde, dilavato le pianure, sferzato le pendici delle colline, riempito i fiumi e causa to danni indescrivibili. Nella foresta, gli alberi spezzavano la forza del temporale, attu tivano gli sprazzi dell'acqua, li incanalavano e li facevano scorrere lungo i tronchi, disperdendoli benignamente sullo spesso tappeto di foglie morte e di muffa, in modo che la terra poteva assorbirne e frenarne la violenza malefica. I fiumi e i ruscelli, anziché intorbidir si di terra e venire intasati dagli alberi sradicati, continuavano a scorrere puri e cristallini. Mentre la pioggia le cadeva addosso, Kelly si sfilò la camicia di cotone e la mise in una tasca impermeabile dello zaino. Le cinghie le avrebbero scalfito le spalle nude; quindi sistemò la fascia intorno al la testa per avere le braccia libere come le donne pigmee. Continuò a camminare senza pensare di trovare un riparo dalla pioggia tiepi da come il sangue. Adesso era a torso nudo e portava soltanto un paio di calzoncini di cotone e le scarpe di tela. L'abbigliamento ridotto al minimo era naturale nella foresta. I bambuti portavano soltanto un perizoma di corteccia battuta. Quando i primi missionari belgi avevano scoperto i pigmei, era no inorriditi di fronte alla loro nudità; avevano fatto venire da Bru xelles abiti e giubbe e brache di calicò, tutti di taglia per bambini, e li avevano costretti a indossarli. Nell'umidità della foresta quegli in dumenti erano sempre bagnati e malsani, e per la prima volta i bambuti erano stati colpiti dalla polmonite e da altre malattie del l'apparato respiratorio. Dopo le costrizioni della vita cittadina, era piacevole camminare libera e seminuda. Kelly apprezzava la pioggia che le scorreva sul corpo. La sua pelle era chiara come il latte, quasi luminosa nella soffusa luce verde, e i piccoli seni sodi ondeggiavano a ogni passo. Mentre camminava, Kelly faceva provviste; si soffermò per rac cogliere alcuni funghi dalle lucide cappelle a cupola e le spore aran cione, i più deliziosi della trentina di specie commestibili. D'altra parte, più di cinquanta qualità erano immangiabili, e alcune erano molto tossiche e portavano alla morte certa poche ore dopo l'inge stione anche di un solo boccone. La pioggia cessò, ma gli alberi continuarono a grondare. A un certo momento Kelly si fermò e seguì con lo sguardo una liana avvolta intorno al tronco di un mogano. Estrasse le radici bianchissime dallo strato di foglie morte e infradiciate dalla pioggia con pochi colpi del bastone da scavo. Le radici erano dolci come la canna da zucchero e scricchiolavano sotto i denti. Erano nutrienti e davano energia. Le ombre verdi si fecero più vicine quando il giorno si spense e la luce cominciò a mancare. Kelly cercò un posto per accamparsi. Non voleva costruire un riparo impermeabile; per una sola notte, una cavità alla base d'un albero gigante sarebbe servita benissimo allo scopo. I suoi passi frusciavano sulle foglie morte anche se adesso erano fradicie. All'improvviso vi fu una specie di esplosione, un soffio d'aria sotto pressione come lo scoppio di un pneumatico, a circa tre metri da lei. Era uno dei suoni più terrificanti della foresta, peggio re del muggito d'un bufalo infuriato o del grugnito di uno degli enormi facoceri neri. Kelly spiccò istintivamente un balzo indietro portandosi lontana il più possibile. Con la mano che tremava si sfilò dalla testa la fascia che le cin geva la fronte e lasciò cadere lo zaino a terra. Contemporaneamen te, frugò in una delle tasche e tirò fuori la fionda.
Era appunto a causa di quella fionda che i bambuti l'avevano chiamata « piccola arciera ». Spesso la prendevano in giro allegra mente, tuttavia erano impressionati dall'abilità con cui usava l'ar ma. Nemmeno il vecchio Sepoo aveva imparato a usarla con effi cienza, anche se Kelly l'aveva istruito pazientemente. Alla fine Se poo aveva rinunciato dichiarando con alterigia che le uniche armi degne d'un cacciatore erano l'arco e le frecce, e che quella cosetta sciocca andava bene solo per i bambini. Così Kelly era diventata la « piccola arciera », Kara-Ki. Con un movimento rapidissimo, Kelly tirò verso l'orecchio de stro gli elastici pesanti. Il proiettile era una sferetta d'acciaio. A terra, davanti a lei, qualcosa si mosse. Sembrava un mucchio di foglie morte o un tappeto afghano dai colori della foresta, oro, ocra e malva spento, striato e stellato di rombi e punte di freccia in nero. Kelly sapeva che in realtà quella massa amorfa era un corpo serpentino avvolto su se stesso in spire grosse quanto il suo polpac cio, mimetizzato in modo ingegnoso e seducente. La vipera del Ga bon è il serpente africano più velenoso dopo il mamba. Al centro della piramide di spire, la testa era tirata all'indietro, come una freccia incoccata, sopra il collo incurvato a s. Aveva un muso porcino, piatto e squamoso; gli occhi inseriti in protuberanze cornee ricordavano il colore e la lucidità del topazio. Le pupille bril lanti come giaietto erano fisse su di lei. La testa era più grossa dei due pugni di Kelly e la lingua nera dardeggiava fra le labbra ghi gnanti. In una frazione di secondo Kelly prese la mira e tirò. La sferetta argentea volò, sibilando e scintillando come una goccia di mercurio nella tenue luce verde. Colpì la vipera del Gabon sulla punta del muso e le spaccò il cranio con tanta forza che la testa grottesca fu ributtata all'indietro e dalle narici scaturirono fiotti di sangue. Con un ultimo sibilo esplosivo, la vipera si contorse nell'agonia: le spire si mossero convulsamente scoprendo il ventre pallido screziato di squame diagonali. Kelly girò intorno alla vipera, cautamente, e si tenne pronta a usare il bastone da scavo. Quando la testa fracassata ricadde, si av vicinò e l'inchiodò al suolo. La tenne bloccata con tutto il suo peso mentre la vipera si attorceva intorno al legno; poi aprì il coltello a serramanico con i denti e, con un solo colpo, tranciò la testa del ser pente. Lasciò che il corpo decapitato finisse di sussultare e si guardò at torno in cerca di un posto adatto per accamparsi. C'era una cavità naturale alla base di uno degli alberi: era il riparo ideale per la notte. I bambuti non avevano mai imparato l'arte di accendere il fuoco e le donne portavano un tizzone ardente quando si trasferivano da un accampamento all'altro; ma Kelly usò l'accendino Bic di plastica e in pochi minuti un fuocherello divampò alla base dell'albero. Aprì lo zaino e si sistemò per accamparsi. Poi, armata del bastone da scavo e del coltello a serramanico, tornò al cadavere della vipera del Gabon. Pesava quasi dieci chili: troppi per le sue esigenze. Le for miche rosse serowe l'avevano già trovata. Niente rimaneva intatto a lungo nella foresta prima che arrivassero i divoratori di carogne. Kelly tagliò un grosso trancio al centro del corpo, raschiò via le formiche e lo spellò con movimenti esperti. La carne era pulita e bianca. Staccò due grossi filetti dall'osso e li mise sulle braci, depo nendoli su di una specie di padella di fuscelli verdi. Prese alcune fo glie aromatiche da un cespuglio, le sparse sul fuoco e il fumo profu mò e insaporì la carne. Poi infilò su uno stecco verde i funghi aran cione, lo mise sul fuoco come uno spiedino e lo girò con regolarità. I funghi avevano un sapore più intenso dei tartufi neri, e la car ne della vipera era una via di mezzo fra l'aragosta e il pollo. Le fati che della giornata le avevano aguzzato l'appetito, e Kelly non ricor dava di aver mai consumato un pasto più delizioso. Lo innaffiò con
l'acqua pura d'un ruscello vicino. Durante la notte fu svegliata da un fragoroso grufolio nei pressi del riparo. Non aveva bisogno di vederlo per capire che cosa aveva disturbato il suo sonno. I facoceri giganti possono pesare quasi tre cento chili e misurare novanta centimetri al garrese. Questi suini, i più grossi e rari del mondo, quando s'infuriano diventano pericolo si quanto i leoni, ma Kelly non aveva paura mentre lo sentiva ingoz zarsi dei resti della vipera. Dopo aver terminato, il facocero venne a fiutare intorno al campo, ma Kelly buttò qualche fuscello sulle bra ci e quando presero fuoco l'animale grugnì e si affrettò ad allonta narsi. L'indomani mattina Kelly fece il bagno nel ruscello, si pettinò e intrecciò i capelli ancora bagnati. Mangiò gli avanzi freddi della vipera e dei funghi e si rimise in cammino non appena vi fu luce sufficiente. Aveva una bussola nello zaino ma si orientava soprattutto con le incrostazioni dei funghi e i formicai, che si trovavano soltanto sul lato meridionale dei tronchi, e con la direzione dei corsi d'acqua che attraversava. A metà del pomeriggio trovò la pista che stava cercando e svoltò per seguirla verso sudovest. Dopo un'ora riconobbe un punto di ri ferimento, un ponte naturale su uno dei ruscelli, formato dal tronco massiccio di un albero antico. Sepoo le aveva detto che l'albero-ponte era li « fin dall'inizio del tempo », il che significava che c'era da quando lo ricordava. Il tem po e i numeri non erano concetti concreti per la mentalità dei pig mei che contavano: « uno, due, tre, tanti ». Nella foresta dove le stagioni non cambiavano le piogge e la temperatura, regolavano la loro vita sulle fasi della luna e a ogni plenilunio passavano da un campo all'altro. Perciò non sostavano mai abbastanza a lungo in un luogo per sterminare la selvaggina o i frutti, o per inquinare i corsi d'acqua e la terra con le loro deiezioni. L'albero-ponte era stato lucidato dal passaggio di intere genera zioni; Kelly lo esaminò con attenzione e cercò tracce di fango per capire se era stato usato di recente. Rimase delusa e si affrettò a raggiungere il sito dove aveva sperato di trovarli accampati. Erano ripartiti ma, a giudicare dalle tracce, quello era stato il loro ultimo camPO e quindi dovevano essersi spostati qualche settimana prima, con la luna piena. C'erano altre tre o quattro località in cui potevano trovarsi al momento; la più lontana era quasi a centosessanta chilometri, verso il cuore dell'immensa area che la tribù di Sepoo considerava sua. Era pressoché impossibile capire in quale direzione si fossero av viati. Come tutte le decisioni tribali, era stata presa all'ultimo mo mento con una discussione vivace cui tutti avevano diritto di inter venire. Kelly sorrise: poteva intuire come il dibattito si era risolto. L'aveva visto molte volte. Una delle donne, non sempre la più an ziana e la più importante, stanca dell'ostinazione sciocca degli uo mini e soprattutto del marito, aveva preso il suo fardello e aveva as sestato la fascia intorno alla fronte: poi, dopo essersi inclinata in avanti per bilanciare il peso, si era avviata lungo la pista. Gli altri, borbottando, l'avevano seguita in una fila sgranata. Nella comunità dei bambuti non c'erano capi. Ogni adulto, ma schio o femmina, aveva eguale autorità. Solo in alcune questioni, come la sistemazione delle reti da caccia, i più giovani s'inchinava no all'esperienza di uno dei vecchi cacciatori più famosi, ma solo dopo una discussione mirata a salvaguardare il proprio prestigio. Kelly girò lo sguardo sul campo deserto e sorrise nel vedere ciò che la tribù aveva abbandonato. C'erano un pestello e un mortaio di legno per la manioca, una bella zappa d'acciaio, una radio a transistor sventrata e vari altri oggetti evidentemente rubati nei vil laggi lungo la strada. I bambuti erano il popolo meno materialista della terra. Per loro le cose non significavano quasi nulla; e quando passava il divertimento del furto, se ne disinteressavano in fretta.
« Troppo pesanti da portare », avevano spiegato a Kelly. « Pos siamo sempre prenderne in prestito altri dai wazungu, se ne abbia mo bisogno. » I loro occhi brillavano a quella prospettiva; ridevano fragorosamente e si scambiavano pacche sulle spalle. Le sole cose che consideravano abbastanza importanti da con servare e tramandare ai figli erano le reti di corteccia intrecciata. Ogni famiglia ne aveva una lunga una trentina di metri, che unita alle altre formava la lunga rete comune. La selvaggina veniva spar tita, dopo i soliti accesi dibattiti, tra tutti coloro che avevano parte cipato alla caccia, secondo un sistema in vigore da tempo immemo rabile. Vivevano della generosità della foresta e quindi non avevano bi sogno di accumulare ricchezze. Indumenti nuovi si potevano ottene re con poche ore di lavoro: bastava staccare la corteccia e privarla della linfa con un martello di legno. Le armi erano rinnovabili: lan ce e archi erano ricavati dal mogano e le corde erano in fibra di cor teccia. Frecce e lance non avevano neppure le punte di ferro: le estremità acuminate venivano semplicemente indurite nel fuoco. Le grandi foglie di mongongo formavano i tetti delle capanne di albe relli incurvati, e un piccolo fuoco bastava a dare calore e conforto per la notte. Gli dèi della foresta donavano cibo in abbondanza: di cos'altro avevano bisogno? Erano l'unico popolo conosciuto da Kelly che fosse completamente soddisfatto della propria sorte, e questo spie gava in gran parte il loro fascino. Kelly aveva atteso il momento di ritrovarli, e le dispiaceva non averli incontrati. Sedette su un tronco del campo abbandonato, che stava per essere rapidamente riassorbito dalla foresta, pensando a ciò che avrebbe dovuto fare. Sarebbe stato inutile cercare di indovi nare la direzione in cui s'erano avviati, e peggio ancora tentare di seguirli. Le tracce erano state cancellate dalla pioggia e dal passag gio delle altre creature e Kelly conosceva con certezza solo un tratto relativamente piccolo della foresta. C'erano più di cinquantamila chilometri quadrati dove non aveva mai messo piede e dove avrebbe potuto perdersi. Doveva desistere nel suo tentativo di ritrovarli, e proseguire per il suo campo base a Gondala, « il luogo dell'elefante felice ». Tra qualche tempo, i bambuti l'avrebbero raggiunta: doveva solo avere pazienza. Rimase seduta ad ascoltare la foresta. Di primo acchito sembra va silenziosa e solitaria. Solo quando l'orecchio imparava a intende re la quiete apparente, ci si accorgeva che era sempre popolata dei suoni della vita. L'orchestra degli insetti suonava un'eterna musica in sottofondo; i ronzii e i riverberi sembravano violini, i ticchettii ri cordavano minuscole nacchere, i gemiti e i brusii erano quelli degli strumenti a fiato. Dalle fasce più alte gli uccelli lanciavano canti e richiami e le scimmie balzavano di ramo in ramo o mugolavano la mentosamente verso il cielo, mentre sullo strato di foglie cadute le antilopi nane si aggiravano furtive. Ora, mentre Kelly ascoltava con maggiore attenzione, le sembra va di udire a grande distanza il fischio che secondo il vecchio Sepoo era il canto del camaleonte crestato e annunciava che gli alveari tra boccavano: era incominciata la stagione del miele. Kelly sorrise e si alzò. Era una biologa e sapeva che i camaleonti non fischiano. Eppure... Sorrise di nuovo, prese lo zaino e si incam minò sulla pista, avviandosi verso Gondala. Lungo il cammino rico nosceva i vari punti di riferimento che si facevano sempre più nu merosi: la forma di certi tronchi d'albero e la confluenza delle piste, un banco di sabbia al guado di un fiume e le incisioni sui tronchi degli alberi che molto tempo prima aveva fatto con il machete. Si stava avvicinando a casa. A una svolta della pista si trovò davanti a un mucchio fumante di letame giallo, alto quanto le sue ginocchia. Si guardò intorno,
ansiosa, per cercare l'elefante che l'aveva depositato, ma era già sparito fra gli alberi come una grande ombra. Si chiese se poteva es sere il « Vecchio con un orecchio solo », un maschio dalle zanne po derose che spesso si aggirava nella foresta intorno a Gondala. Un tempo i branchi di elefanti avevano vagato nella savana, lun go la riva del lago e nella Lado Enclave a nord della foresta. Ma un secolo di persecuzioni spietate, da parte dapprima dei negrieri arabi e dei loro servitori armati di fucili ad avancarica, poi degli sportivi europei e dei cacciatori d'avorio con i mortali fucili a canna rigata, aveva decimato i branchi e aveva spinto i superstiti a rifugiarsi nella foresta. Kelly provava un profondo senso di soddisfazione al pensiero che, sebbene li vedesse raramente, spartiva la foresta con i grandi colossi intelligenti e che la sua casa prendeva il nome da uno di loro. A un ruscello si fermò per lavarsi, pettinarsi e indossare la ma glietta. Sarebbe arrivata a casa tra poche ore. Aveva appena finito di legare la treccia e di riporre il pettine quando fu agghiacciata da un suono nuovo, minaccioso. Si alzò e impugnò il bastone da sca vo. Il suono si ripeté, rauco e straziante al punto da penetrarle nel cervello come una lama. Il cuore le batté più forte e il respiro le mancò. Capitava raramente di sentire il richiamo d'un leopardo durante il giorno. Il felino maculato era un animale notturno, ma tutto ciò che succedeva d'insolito nella foresta andava trattato con prudenza. Il leopardo lanciò un altro richiamo, più vicino, a monte del fiume, e Kelly inclinò la testa per ascoltare. Il leopardo aveva qualcosa di molto strano. Un sospetto le saettò nella mente. Si acquattò e attese stringendo il bastone acuminato. Vi fu un lungo silenzio. La foresta ascoltava il leopardo. Poi il terribile suono lacerante si ripeté. Era sulla riva del fiume sopra di lei, a meno di quindici metri. Questa volta il sospetto diventò certezza. Kelly proruppe a sua volta in un urlo agghiacciante e si avventò verso il nascondiglio del la belva brandendo il bastone. Vi fu un movimento brusco fra le fo glie di loto e una figura minuscola corse via. Kelly sferrò un colpo con il bastone e centrò con uno schiocco sonante due natiche nude. Risuonò un urlo di dolore. « Vecchio perfido! » gridò Kelly, sferrando un altro colpo. « Cer cavi di spaventarmi! » E sbagliò la mira mentre la figura scavalcava un cespuglio con un salto e si rifugiava dietro quel riparo. « Piccolo diavolo! » Kelly lo stanò, e il pigmeo cominciò a corre re in tondo, fra urla di finto terrore e risate. « Ti faccio diventare il didietro blu come quello d'un babbui no! » minacciò Kelly vibrando colpi all'aria. Girarono per due volte intorno al cespuglio. Il pigmeo le sfuggiva sempre. Ormai ridevano entrambi. « Sepoo, piccolo mostro, non ti perdonerò mai! » Kelly era semisoffocata dall'ilarità. « Io non sono Sepoo. Sono un leopardo. » Il bambuti barcollò per le risate e per poco Kelly non lo raggiunse; poi guizzò via e stril lò allegramente. Alla fine, Kelly dovette desistere: si appoggiò esausta al bastone. Sepoo si buttò sulle foglie e si batté i pugni sul ventre, seguitando e abbracciandosi le ginocchia, e rise fino a che le lacrime gli scorsero sulle guance e colarono dietro le orecchie. « Kara-Ki. » Sepoo continuò a ruttare e a ridere singhiozzando. « Kara-Ki, l'intrepida, ha paura del vecchio Sepoo. » Era un'avven tura che il bambuti avrebbe raccontato ogni sera intorno al fuoco per una dozzina di lune. Sepoo impiegò un po' di tempo prima di ricomporsi, tanto era in preda all'ilarità. Kelly lo guardava con affetto e si associava alle sue risate più fragorose che a poco a poco divennero meno frequen ti. Alla fine poterono parlare in modo normale.
Si accosciarono a fianco a fianco. Da molto tempo i bambuti avevano perduto la loro lingua per adottare quella dei wazungu con i quali erano entrati in contatto. Parlavano un curioso miscuglio di swahili, hita e uhali, con un accento e pittoresche espressioni idio matiche esclusivamente loro. Quella mattina, Sepoo aveva ucciso un colobo con arco e frecce. Aveva salato la magnifica pelle bianca e nera per venderla sulla strada. Adesso accese il fuoco e cucinò la carne per pranzo. Mentre parlavano e mangiavano, Kelly notò che il suo compa gno era di un umore strano. Era difficile che un pigmeo restasse se rio a lungo. L'allegria irrefrenabile e le risate non si potevano repri mere e continuavano ad affiorare, tuttavia c'era qualcosa di nuovo. Non riusciva a definire esattamente cosa fosse cambiato rispetto al l'ultima volta che si erano incontrati. Sepoo aveva un'aria assorta, preoccupata e triste che affievoliva la luce del suo sguardo e gli in clinava verso il basso gli angoli della bocca. Kelly chiese notizia degli altri della tribù e di sua moglie Pamba. « Strilla come una scimmia in cima agli alberi e brontola come il tuono. » Sepoo sorrise con un affetto per nulla sminuito da quaran t'anni di matrimonio. « E una vecchia stizzosa ma quando le dico che voglio trovarmi una moglie giovane e carina mi risponde che, se c'è una ragazza tanto stupida da volermi, può pure prendermi. » Ri se della battuta e si batté la coscia con la mano, lasciando una trac cia di grasso di scimmia sulla pelle grinzosa. « E gli altri? » insistette Kelly, cercando di capire la causa del di sagio di Sepoo. Forse c'era qualche dissenso nella tribù. « Come sta tuo fratello Pirri? » Era una possibile causa di scontro: c'era una viva rivalità tra i fratelli. Sepoo e Pirri erano i grandi cacciatori e i maschi più vecchi della piccola unità tribale. Avrebbero dovuto essere amici, oltre che fratelli: ma Pirri non era un tipico bambuti. Il padre era un hita. Molto tempo prima la loro madre, ancora vergine, s'era spinta al margine della foresta e un gruppo di cacciatori hita l'aveva cattura ta. Era giovane e graziosa, e gli hita l'avevano tenuta per due notti nel loro campo e s'erano divertiti a turno con lei. Forse l'avrebbero uccisa senza pensarci due volte quando si fossero stancati, ma era fuggita in tempo. Pirri era nato da quell'avventura, ed era più alto degli altri uo mini della tribù, aveva la pelle più chiara e i lineamenti più fini, la bocca e il naso sottile degli hita. Era diverso anche nel carattere, più aggressivo e avido di tutti gli altri bambuti che Kelly aveva cono sciuto. « Pirri è Pirri », rispose evasivamente Sepoo ma, anche se il vec chio antagonismo era evidente, Kelly intuiva che era preoccupato per un altro motivo. Sebbene fossero a poche ore di cammino da Gondala, continua rono a parlare per tutto il giorno e la sera li trovò ancora acquattati accanto al fuoco mentre l'aria era carica della minaccia di pioggia. Kelly approfittò dell'ultima luce per tagliare i rami flessibili dei sele pe e, come le aveva insegnato Pamba, li piantò in cerchio nella terra soffice, piegandoli e intrecciandoli per formare l'intelaiatura della tipica capanna dei bambuti. Il vecchio Sepoo, intanto, si era allon tanato. Tornò quando Kelly stava completando la struttura; era curvo sotto un carico di foglie di mongongo per il tetto. La costru zione fu ultimata in un'ora. Quando scoppiò il temporale erano rannicchiati al riparo, con il fuoco acceso, a mangiare bistecche di scimmia. Finalmente Kelly si sdraiò sul materassino gonfiabile, e Sepoo si raggomitolò sopra le foglie. Ma nessuno dei due si addormentò su bito. Kelly sapeva che il vecchio era sveglio, e attendeva. Ora che l'oscurità nascondeva la sua tristezza, Sepoo si decise a bisbigliare. « Dormi, Kara-Ki? » « Sto ascoltando, vecchio padre », rispose Kelly, e Sepoo sospi
rò: un suono dolorosamente diverso dalle solite risatine. « Kara-Ki, la Madre e il Padre sono adirati. Non lo erano mai stati così », disse Sepoo. Alludeva al dio dei bambuti, la divinità ge mella della foresta, maschio e femmina uniti in una sola entità. Kel ly rimase in silenzio per qualche istante, per rispetto alla gravità del l'affermazione. « E una cosa seria », rispose alla fine. « Che cosa li ha fatti adi rare? » « Sono feriti », disse Sepoo a voce bassa. « Il fiume è arrossato dal loro sangue. » Era un concetto sbalorditivo, e Kelly rimase di nuovo in silenzio cercando di visualizzare ciò che intendeva Sepoo. Com'era possibile che nei fiumi scorresse il sangue della foresta? Alla fine fu costretta a chiedere: « Non capisco, vecchio padre. Che cosa mi stai di cendo? » « Le mie umili parole non possono descriverlo », bisbigliò Se poo. « E un sacrilegio terribile e la Madre e il Padre soffrono. Forse verrà il molimo. » Kelly s'era trovata una sola volta nel campo dei bambuti quando era apparso il molimo. Le donne erano escluse e lei era rimasta nel la capanna con Pamba e le altre quando il molimo era venuto: ma aveva udito la sua voce che muggiva come un bufalo e barriva come un elefante infuriato mentre si scatenava di notte nella foresta. Al mattino Kelly aveva chiesto a Sepoo: « Che cos'è il molimo? » « Il molimo è il molimo », era stata l'enigmatica risposta. « E la creatura della foresta. E la voce della Madre e del Padre. » Ora Sepoo diceva che forse il molimo sarebbe ritornato e Kelly fu scossa da un brivido superstizioso. Questa volta non sarebbe ri masta in una capanna con le donne, decise. Avrebbe scoperto qual cosa di più su quell'essere favoloso. Per il momento, comunque, ac cantonò il pensiero e decise di saperne di più del sacrilegio che era stato commesso nelle profondità della foresta. « Sepoo, se non puoi parlarmi di questa cosa terribile, perché non me la mostri? Mi condurrai a vedere i fiumi dove scorre il san gue degli dèi? » Sepoo sbuffò nel buio, tossì per schiarirsi la gola, e sputò sulle braci. Poi borbottò: « Sta bene, Kara-Ki. Te lo mostrerò. Domatti na, prima di raggiungere Gondala, lasceremo la strada e io ti mo strerò i fiumi dove scorre il sangue ». L'indomani mattina, Sepoo era di nuovo di buonumore, come se la conversazione di quella notte non fosse avvenuta. Kelly gli consegnò il regalo che gli aveva portato: un coltello svizzero multiu so. Sepoo rimase incantato da tutte le lame e gli attrezzi che si ripie gavano nel manico di plastica rossa, e subito si tagliò. Scoppiò a ri dere e si succhiò il pollice, poi lo mostrò a Kelly come prova dell'ef ficienza della minuscola lama. Kelly sapeva che con ogni probabilità l'avrebbe perso entro una settimana, o l'avrebbe regalato d'impulso a qualcuno della tribù, come aveva fatto con tutti gli altri regali. Ma per il momento la sua gioia era infantile e completa. « Ora devi mostrarmi i fiumi insanguinati », gli ricordò mentre si assestava intorno alla fronte la fascia dello zaino. Per un momento gli occhi del bambuti si rattristarono. Poi sorrise e girò su se stesso. « Vieni, Kara-Ki. Vediamo se sai muoverti nella foresta come una del vero popolo. » Poco dopo lasciarono la pista e Sepoo la precedette lungo per corsi segreti. Camminava a passo danzante come uno spiritello e il fogliame si chiudeva dietro di lui senza lasciar tracce del suo passag gio. Mentre Sepoo marciava eretto, Kelly era costretta a chinarsi sotto i rami, e a volte lo perdeva di vista. « Non è strano che gli antichi egizi attribuissero ai bambuti il do no dell'invisibilità », pensava Kelly mentre allungava il passo per non farsi distanziare.
Se si fosse mosso in silenzio l'avrebbe perduto: ma come tutti i pigmei cantava, rideva e chiacchierava con lei e con la foresta. La voce la guidava e fungeva da avvertimento per gli animali pericolo si, in modo da evitare ogni incontro. Kelly sapeva che si muoveva con l'andatura più svelta per met terla alla prova, ed era decisa a non farsi distanziare. Gli lanciava risposte e partecipava ai canti di lode; e quando Sepoo uscì sulla ri va del fiume, molte ore più tardi, lo raggiunse in pochi secondi. Sepoo sorrise con gli occhi infossati in una rete di grinze e scosse la testa in segno di approvazione riluttante. Ma Kelly non badò a lui. Era uno degli affluenti dell'Ubomo e nasceva dai Monti della Luna, ai piedi d'uno dei ghiacciai a cinquemila metri, il livello delle nevi perenni. Il fiume scendeva tra laghi e cascate, alimentato dalle piogge che sferzavano la più umida catena montuosa del mondo, at traversava le brughiere prive d'alberi, le foreste di gigantesche felci preistoriche fino ad addentrarsi nei boschetti di bambù, regno dei gorilla e delle antilopi bongo dalle corna a spirale. Scendeva poi per altri mille metri fra le colline accidentate e raggiungeva le vere fore ste pluviali dominate dai giganteschi mogani. I bambuti chiamavano quel fiume Tetwa, dai pescigatto argentei che abbondavano in quelle acque pure e si affollavano in banchi in torno alle rive di sabbia gialla. Le donne si liberavano dei perizomi quando si immergevano nel Tetwa per catturare i pescigatto. Ognu na di loro si armava d'una cesta di canne e corteccia; e tutte insieme circondavano il banco e, mentre gridavano sollevando spruzzi, estraevano i pesci guizanti. Ma questo era accaduto prima che il fiume incominciasse a san guinare. Adesso Kelly lo guardava inorridita. Il fiume era ampio cinquanta metri; la foresta cresceva fino al l'orlo dell'acqua e formava un baldacchino che quasi si congiunge va in alto. C'era solo una stretta fascia irregolare di cielo sopra il tratto centrale. Da una riva all'altra il fiume era rosso: non era il rosso intenso del sangue, ma più scuro e bruno. Le acque contaminate sembrava no viscose. Avevano perduto il loro splendore ed erano pesanti e opache, dense e lente come olio da motore usato. Anche le lingue di sabbia erano rosse, coperte da un pesante strato di fanghiglia. Le carcasse dei pescigatto erano sparse sulle ri ve, fitte come le foglie d'autunno, ammucchiate a moltitudini le une sopra le altre. I crani erano privi d'occhi e il lezzo della carne in pu trefazione era opprimente nell'aria umida sotto il baldacchino della foresta. « Cosa ha causato tutto questo, Sepoo? » mormorò Kelly, ma il vecchio alzò le spalle e arrotolò in una foglia una presa di tabacco corase indigeno. Mentre Kelly scendeva sulla riva, il bambuti accese il sigaro primitivo con la brace che portava al collo in una sacca di foglie verdi e lanciò grandi sbuffi di fumo azzurrognolo, chiudendo gli occhi per il piacere. Quando Kelly avanzò sulla lingua di sabbia, sprofondò nel fan go fin quasi alle ginocchia. Ne raccolse una manciata e la stropicciò fra le dita. Era untuoso, fine come l'argilla, e le macchiò la pelle di color sangue di bue. Cercò di pulirla, ma il colore aderiva; aveva le dita rosse come quelle di un assassino. Fiutò il fango: aveva un in tenso odore chimico. Tornò sulla riva e si fermò davanti a Sepoo. « Cosa ha causato tutto questo, vecchio padre? Cos'è accaduto? » Sepoo aspirò il cheroot, poi tossì e ridacchiò nervosamente evi tando il suo sguardo. « Avanti, Sepoo, dimmelo. » « Non lo so, Kara-Ki. » « Perché non lo sai? Non hai risalito il fiume per scoprirlo? » Sepoo fissò assorto la punta del sigaro. « Perché? » insistette Kelly.
« Ho avuto paura, Kara-Ki », mormorò Sepoo, e Kelly si rese conto che per i bambuti si trattava di un avvenimento sovrannatura le. Non avrebbero seguito verso monte il fiume soffocato, per timo re di ciò che potevano trovare. « Quanti fiumi sono ridotti così? » chiese Kelly. « Tanti, tanti », borbottò Sepoo: intendeva dire che erano più di quattro. « Dimmi i loro nomi », insistette lei, e il vecchio elencò i nomi di tutti i fiumi che Kelly aveva visitato nella regione, e alcuni che ave va soltanto sentito citare. Sembrava che quasi tutto il bacino dell'U bomo fosse stato colpito. Non era un'alterazione isolata e locale, ma un disastro su vasta scala che minacciava non solo i territori di caccia dei bambuti ma anche il cuore sacro della foresta. « Dobbiamo spingerci verso monte », disse Kelly in tono deciso, e Sepoo la guardò come se stesse per scoppiare in pianto. « Ti aspettano a Gondala », esclamò. Ma Kelly non commise l'errore di cominciare a discutere. L'aveva imparato dalle donne della tribù, e soprattutto dalla vecchia Pamba. Si issò lo zaino sulla schiena, regolò la fascia intorno alla fronte e s'incamminò. Per due cento metri procedette da sola e cominciò ad avvilirsi: l'area della foresta che le stava davanti le era sconosciuta e sarebbe stata una pazzia continuare se Sepoo non si fosse deciso ad accompagnarla. Poi sentì dietro di lei la voce del bambuti dichiarare che non avrebbe fatto un altro passo. Kelly sorrise di sollievo e proseguì. Per altri venti minuti Sepoo le andò dietro, giurando che stava per tornare indietro e abbandonarla; il suo tono diventava sempre più lamentoso, via via che si rendeva conto che Kelly non intendeva arrendersi. All'improvviso ridacchiò e cominciò a cantare: non ce la faceva più a fingersi disperato. Kelly gli gridò un commento scher zoso e cantò con lui. Poco dopo Sepoo le passò davanti per farle strada. Per due giorni seguirono il fiume Tetwa: a ogni chilometro la si tuazione diventava sempre più desolante. L'argilla rossa lo intasa va, le acque erano quasi fango puro, denso come semolino, e le ra dici morte e la vegetazione divelta cominciavano già a disfarsi nel gas della putredine; il lezzo si mescolava a quello degli uccelli, dei piccoli mammiferi morti e dei pesci marci che erano rimasti soffoca ti. Le carcasse erano sparse sulle rive o galleggiavano con i ventri gonfi sull'acqua contaminata. Nel tardo pomeriggio del secondo giorno raggiunsero il confine dei terreni di caccia della tribù di Sepoo. Non c'erano cartelli o se gnali, ma Sepoo si fermò sulla riva del Tetwa, staccò la corda dal l'arco e rovesciò le frecce nella faretra di corteccia, per assicurare alla Madre e al Padre della foresta che avrebbe rispettato il luogo sacro e non avrebbe ucciso alcuna creatura, non avrebbe tagliato ra mi e non avrebbe acceso fuochi. Poi cantò per placare la foresta e chiedere il permesso di avan zare. Oh, amata Madre della tribù, tu ci hai nutriti al tuo seno e ci hai cullati nellJoscurità. Oh, Padre rispettato dei nostri padri, tu ci hai insegnato le vie della foresta, ci hai dato come cibo le tue creature. Noi vi onoriamo, noi vi lodiamo... Kelly si tenne in disparte a osservarlo. Sembrava una presunzio ne unirsi al canto; perciò tacque. Nel suo libro, Il popolo degli alberi alti, aveva esaminato in det taglio la tradizione del cuore della foresta e la saggezza della legge dei bambuti. Il cuore della foresta era una riserva della fauna che poi si riversava nei territori di caccia per ripopolarli. Inoltre era una sorta di cuscinetto che separava ogni tribù da quelle vicine e smorzava gli attriti e le dispute territoriali. Era un al
tro esempio della saggezza del sistema che i bambuti avevano creato per regolare e gestire la loro esistenza. Quella notte Kelly e Sepoo si accamparono sulla soglia del terri torio sacro. Più tardi piovve, e Sepoo sentenziò che era un segnale delle divinità della foresta per spiegare che permettevano loro di continuare la marcia verso monte. Kelly sorrise nell'oscurità. Nel bacino dell'Ubomo pioveva in media trecento notti l'anno e, se non fosse piovuto anche quella notte, probabilmente Sepoo l'avrebbe interpretato come un segno d'assenso ancora più esplicito da parte della Madre e del Padre. Allo spuntar del giorno si rimisero in cammino. Quando un dui ker striato uscì trotterellando dal sottobosco davanti a loro e si fer mò a guardarli fiducioso da cinque passi di distanza, Sepoo tese istintivamente la mano verso l'arco, poi si trattenne con uno sforzo che lo fece tremare come se fosse in preda a un attacco di malaria. La carne della piccola antilope era saporita e tenera. « Vattene! » gridò irritato Sepoo. « Vai via! Non prendermi in gi ro! Non tentarmi! Sono irremovibile quanto tu sei astuto... » Il duiker lasciò la pista e Sepoo si girò verso Kelly. « Tu mi sei testimone, Kara-Ki. Non ho violato la legge. Quella creatura era stata mandata dalla Madre e dal Padre per mettermi alla prova. Un vero duiker non sarebbe stato così stupido da fermarsi tanto vicino. Sono stato forte, vero, Kara-Ki? » chiese pateticamente, e Kelly gli strinse la spalla muscolosa. « Sono fiera di te, vecchio padre. Gli dèi ti amano. » Si rimisero in cammino. A metà del terzo pomeriggio, Kelly si fermò all'improvviso e in clinò la testa in direzione di un suono che non aveva mai sentito nel la foresta. Era ancora sommesso e intermittente, smorzato dagli al beri: ma quando proseguì lo sentì diventare più forte a ogni chilo metro fino a somigliare al ringhio dei leoni che si avventano sulla preda, un suono terribile e cupo che la colmò di disperazione Il fiume Tetwa non scorreva più: era ostruito da rami e detriti. In certi punti aveva rotto gli argini e aveva allagato la foresta, co stringendoli a procedere a guado in una palude fetida, immersi fino alla vita. E all'improvviso la foresta finì: si trovarono nel sole, là dove il sole non era penetrato per milioni di anni. Davanti a loro c'era una scena che Kelly non avrebbe immagina to neppure nell'incubo più atroce. Continuò a guardarla fino a che la notte scese e la nascose miracolosamente ai suoi occhi. Allora si voltò e tornò indietro. Quella notte si svegliò e si accorse che stava piangendo. Sepoo le accarezzava il braccio per confortarla. Il viaggio di ritorno lungo il fiume moribondo fu più lento, co me se la tristezza l'appesantisse. Sepoo rallentava il passo per non distanziarla. Dopo cinque giorni, Kelly e Sepoo raggiunsero Gondala.
Gondala era un sito unico in quella parte della foresta. Era una radura di gialla erba degli elefanti, estesa per meno di una quaranti na di ettari che, all'estremità, saliva verso una catena di colline bo scose. Per una parte della giornata gli alberi altissimi gettavano l'ombra sulla radura e la mantenevano più fresca, proteggendola dai raggi del sole tropicale. Due ruscelli delimitavano quel cuneo di terreno aperto, mentre il pendio offriva una magnifica veduta sopra le cime degli alberi, verso nordovest. Era uno dei pochi punti del bacino dell'Ubomo dove la visuale non era bloccata dai giganti ar borei. Nella radura l'aria fresca era meno umida che nel profondo della foresta. Kelly si soffermò come sempre e guardò le vette, lontane cento cinquanta chilometri. Di solito i Monti della Luna erano nascosti da una coltre di nubi. Quella mattina, come per darle il benvenuto, si
erano liberati dal velo e spiccavano nitidi in tutto il loro splendore. Il massiccio innevato di monte Stanley era proteso verso l'alto fra le faglie della grande Rift Valley fino a un'altezza di oltre cinquemila metri. Era d'un bianco-ghiaccio puro e irradiava una crudele bel lezza. Kelly distolse gli occhi a fatica e guardò la radura. Là c'erano la sua casa e il laboratorio, un'ambiziosa costruzione di tronchi, argil la e paglia che aveva edificato in tre anni di lavoro con l'aiuto dei suoi amici. Gli orti sulle pendici più basse erano irrigati dai ruscelli e recin tati per proteggerli dagli animali della foresta. Non c'erano aiuole: era un orto che assicurava alla piccola comunità di Gondala gran parte del nutrimento. Quando lasciarono la foresta, alcune delle donne che lavoravano negli orti li videro e corsero a salutare Kelly con grida di gioia. Al cune erano bambuti, ma in maggioranza erano uhali dalle lunghe gonne colorate. La circondarono e la scortarono fino a casa. Il chiasso fece uscire una figura solitaria sull'ampia veranda del laboratorio. Era un vecchio con i capelli argentei come le nevi di monte Stanley. Indossava un abito blu da safari e un paio di sanda li. Si schermò gli occhi, la riconobbe e sorrise. I denti erano ancora bianchi e perfetti e la faccia scura rivelava la sua intelligenza. « Kelly. » Le tese le mani, e lei gli corse incontro. « Kelly! Co minciavo a preoccuparmi per lei. L'aspettavo diversi giorni fa. E un piacere vederla. » « Anche per me è un piacere vederla, signor presidente. » « Su, su, figliola. Non lo sono più, almeno secondo Ephrem Taffari; e quando mai abbiamo fatto cerimonie, noi due? » « Victor », si corresse Kelly. « Mi è mancato molto, e ho parec chie cose da dirle. Non so da dove cominciare. » « Più tardi. » Il vecchio scosse la testa e l'abbracciò. Aveva più di settant'anni, ma era solido come un uomo molto più giovane. « Prima voglio mostrarle che ho avuto cura del suo lavoro mentre era assente. Avrei dovuto continuare a fare lo scienziato, invece di darmi alla politica. » La prese per mano e la condusse in laborato rio. Subito si impegnarono in una discussione tecnica. In gioventù, il presidente Victor Omeru aveva studiato a Lon dra. Era tornato nell'Ubomo con una laurea in ingegneria elettroni ca e per qualche tempo aveva lavorato per l'amministrazione colo niale; poi s'era dimesso per guidare il movimento indipendentista. Comunque aveva conservato un vivo interesse per le scienze, e le sue conoscenze impressionavano Kelly. Quando era stato spodestato dal sanguinoso golpe di Ephrem Taffari, era fuggito nella foresta con un gruppo di fedelissimi e s'e ra rifugiato a Gondala presso Kelly Kinnear. Nei dieci mesi trascor si, l'abitato nella radura s'era trasformato nel quartier generale del movimento di resistenza degli uhali contro la tirannia di Taffari, e Kelly era diventata uno dei suoi agenti più fidati. Quando non rice veva visitatori provenienti dall'esterno della foresta e non preparava i piani per la controrivoluzione, lavorava come assistente di Kelly; in poco tempo era diventato un collaboratore prezioso. Per un'ora si dedicarono ai vetrini, alle storte e ai ratti del labo ratorio, come se rimandassero di proposito il momento in cui avreb bero dovuto analizzare una realtà assillante e sgradevole. La ricerca di Kelly era ostacolata dall'equipaggiamento inade guato e dalla carenza di materiale sacrificabile. Era necessario tra sportare tutto a Gondala e, da quando il finanziamento era stato re vocato e Victor Omeru era stato deposto, le difficoltà s'erano ag gravate. Tuttavia avevano fatto alcune scoperte interessanti: in par ticolare erano riusciti a isolare una sostanza antimalarica nella linfa del selepe. Il selepe era un albero comune nella foresta, e i pigmei lo usavano per costruire le capanne e combattere la febbre. La malaria era un pericolo che riemergeva in Africa: apparivano
sempre più frequenti le varietà resistenti alle terapie. In breve tempo avrebbe potuto ridiventare il peggior flagello del continente, AIDS a parte. Sembrava un'ironia che quelle malattie terribili avessero avu to origine nella culla dell'umanità, la grande Rift Valley nell'Africa orientale, dove l'uomo aveva incominciato a camminare eretto e a muovere i primi passi verso la gloria e l'infamia. Non era possibile che i rimedi definitivi per entrambe le malattie potessero venire dal la stessa area del globo? Kelly e Victor Omeru manifestarono anco ra una volta quella speranza come avevano fatto già un migliaio di volte. Oltre al rimedio antimalarico, stavano considerando altre possi bilità. L'unica malattia che colpiva i bambuti era il cancro al pan creas, causato da qualche fattore alimentare o dell'ambiente. Le donne della tribù lo curavano con infusi della radice d'una liana che conteneva una linfa amara e lattiginosa, e Kelly aveva assistito ad alcune guarigioni apparentemente miracolose. Con l'aiuto di Victor Omeru aveva isolato dalla linfa un alcaloide che speravano fosse l'agente attivo, e lo stavano sperimentando con risultati incorag gianti. Usavano lo stesso alcaloide per curare tre uhali del campo, am malati di AIDS. Era troppo presto per esserne certi, ma anche in quel caso i risultati erano interessanti. Li discussero con entusiasmo: l'a nimaziorne e la gioia dell'incontro durarono fino al termine del fru gale pranzo a base di insalata che consumarono sulla veranda. Per Kelly era una gioia conversare con un uomo tanto colto. La presenza di Victor Omeru aveva trasformato la sua esistenza solita ria a Gondala. Voleva bene ai suoi amici bambuti, ma quelli anda vano e venivano senza preavviso e, anche se il loro modo di vivere semplice e felice era sempre una gioia, niente poteva sostituire lo sti molo di un'intelligenza superiore. Victor Omeru era un uomo che poteva rispettare e ammirare senza riserve. Agli occhi di Kelly non aveva difetti: era ricco di umanità e di compassione per i suoi simili e, nel contempo, nutriva un rispetto profondo e un interesse per il mondo in cui vivevano e per le altre creature che lo dividevano con loro. Kelly lo vedeva come un vero patriota, completamente devoto alla sua piccola nazione: ed era anche l'unico africano superiore al tribalismo che avesse mai conosciuto. Omeru aveva trascorso tutta la sua vita politica opponendosi a quella terribile maledizione che costituiva l'elemento più tragico della realtà africana. Avrebbe do vuto essere un esempio per il resto del continente e per i suoi colle ghi dell'ouA. Quando, praticamente da solo, aveva ottenuto l'indipendenza dall'amministrazione coloniale, la preponderanza numerica degli uhali lo aveva portato alla presidenza, annullando d'un sol colpo i secoli della brutale dominazione dell'aristocrazia hita. La crisi più grave che il presidente aveva affrontato era avvenuta nei primi giorni d'indipendenza. Gli uhali si erano ribellati agli hita in una feroce e selvaggia rappresaglia. In cinque giorni terribili era no morti ventimila hita. La folla aveva incendiato i manyatta. Gli hita sopravvissuti alle fiamme erano stati fatti a pezzi con zappe e machete: gli utensili con cui gli uhali asserviti avevano coltivato i campi e tagliato la legna da ardere erano stati usati contro i pa droni. Le orgogliose donne hita, alte, belle e maestose, erano state spo gliate delle lunghe vesti tradizionali e delle trecce; erano state co strette a sfilare nude fra la folla urlante degli uhali e bersagliate di escrementi. Alcune erano state impalate sulle staccionate dei ma nyatta. Le donne più giovani e le bambine erano state legate per le cavi glie a due buoi. Poi la folla aveva incitato i buoi a muoversi e le vit time erano state dilaniate. Kelly non aveva assistito a quelle atrocità. A quel tempo studia
va in Inghilterra. Ma la leggenda, divenuta storia, narrava che Vic tor Omeru era intervenuto personalmente per implorare la folla, al lo scopo di salvare gli hita. Per mezzo del suo carisma aveva fatto cessare il massacro e salvato la tribù degli hita dal genocidio e dal l'estinzione. Ma erano morti a migliaia, e cinquantamila si erano ri fugiati nei Paesi confinanti, lo Zaire e l'Uganda. Era stata necessaria una saggia gestione del potere per raffred dare la tremenda animosità del popolo, convincere gli hita esuli a tornare nell'Ubomo, restituire loro mandrie e pascoli e indurre i lo ro giovani ad abbandonare le tradizioni pastorali per dedicarsi allo studio e alla crescita della nazione che Omeru cercava di costruire. Per compensare quei primi, terribili giorni dell'indipendenza, Victor Omeru aveva sempre ecceduto nel favorire gli hita. Per di mostrare la sua fiducia, aveva permesso loro di assumere gradual mente il controllo del piccolo esercito e della polizia. Lo stesso Ephrem Taffari aveva viaggiato all'estero per completare gli studi grazie a una speciale borsa di studio che Victor Omeru aveva finan ziato attingendo al proprio magro stipendio presidenziale. E adesso Victor Omeru pagava quella generosità. Ancora una volta la tribù uhali gemeva sotto la tirannia degli hita. Come accade spesso in Africa, il ciclo dell'oppressione e della brutalità aveva compiuto il suo corso. Tuttavia, mentre discuteva con lui sulla veranda del bungalow, Kelly sentiva la sofferenza e la preoccupazione che Omeru nutriva ancora per la sua nazione e per il suo popolo. Sembrava una crudeltà renderlo ancora più infelice; ma non po teva nasconderglielo « Victor, sta succedendo qualcosa di spaventoso nei fiumi della foresta, nel cuore sacro della terra dei bambuti. Qualcosa di tanto terribile che non so come descriverlo. » Omeru ascoltò senza interrompere. Alla fine disse a voce bassa: « Taffari sta massacrando la nostra gente e la nostra terra. Gli av voltoi sentono nell'aria l'odore della morte e si radunano: ma noi li fermeremo ». Kelly non l'aveva mai visto così adirato. Il viso era duro, gli oc chi cupi e minacciosi. « Loro sono potenti, Victor. Ricchi e potenti. » « Nessun potere eguaglia quello degli uomini onesti e di una cau sa giusta », rispose Omeru. La sua decisione era contagiosa. Kelly sentì la disperazione dileguarsi. Adesso era nuovamente piena di fi ducia. « Si », mormorò. « Troveremo un modo per fermarli. Lo trove remo, per amore di questa terra. »
Formosa significa « bella ». Il nome era appropriato, pensò Tug Harrison, mentre la Rolls-Royce Silver Spirit lasciava la piana lito ranea e saliva tra le verdi montagne. Nel momento in cui la strada si curvava in un tornante, Tug guardò al di là dell'ampio stretto di Formosa e immaginò di vedere la Cina continentale acquattata co me un drago a più di centocinquanta chilometri nella distanza az zurra. Poi la strada svoltò di nuovo, e loro rientrarono nelle foreste di cipressi e di cedri. Erano milleduecento metri al di sopra dell'umida pianura tropi cale e del traffico di Taipei, una delle città più animate e ricche del l'Asia. Lassù l'aria era fresca e dolce: non c'era bisogno del perfet to impianto di condizionamento della Rolls Royce. Tug si sentiva rilassato e sereno. Era una delle fortune di chi possedeva un jet personale. Il Gulf Stream volava quando lui era pronto e lo portava dovunque voleva andare, senza i fastidi dei grandi aeroporti e delle folle punolenti. Non c'erano chilometri di corridoi da attraversare, né consegne dei bagagli che imponevano lunghe attese (ammesso che non si fossero persi), né doganieri irri
tati, facchini e tassisti. Tug aveva fatto il viaggio da Londra in comode tappe. Abu Dhabi, Bahrain, Brunei, Hong Kong... aveva trascorso un giorno o due in ognuno di quei centri, dove aveva in gioco importanti inte ressi. La sosta a Hong Kong era stata particolarmente produttiva. I più ricchi e prudenti degli uomini d'affari di Hong Kong erano im pegnati a trasferire all'estero i capitali prima che entrasse in vigore il trattato secondo il quale il territorio sarebbe passato alla Cina continentale. Nella suite che aveva permanentemente al Peninsula Hotel, Tug aveva firmato due accordi che nei prossimi due anni gli avrebbero reso dieci milioni netti di sterline. Quando era atterrato all'aeroporto di Taipei, la torre di control lo aveva indicato al Gulf Stream di andare a parcheggiare dietro gli hangar della Cathay Pacific: e là l'attendeva la Rolls Royce con il figlio più giovane della famiglia Ning. La Dogana e l'Immigrazione, sotto forma di due addetti in uni forme tutti inchini e sorrisi, erano stati condotti a bordo dal suo ospite. Avevano timbrato il passaporto diplomatico di Tug e aveva no apposto i sigilli al bar privato; e in cinque minuti se n'erano an dati. Intanto le valige Louis Vuitton di Tug erano state caricate nel portabagagli dell'auto da una squadra di servitori in giacca e guanti bianchi. Un quarto d'ora dopo l'atterraggio, la Rolls lo portò fuori dei cancelli dell'aeroporto. Tug era così soddisfatto che si sentiva portato a filosofeggiare. Pensava ad altri viaggi che aveva fatto quando era giovane e pove ro. A piedi, in bicicletta, in autobus traballanti aveva attraversato e riattraversato il continente africano. Ricordava la sua prima mac china, un furgone Ford v-8 con i parafanghi anteriori che sembra vano orecchie d'elefante, le gomme lisce che si bucavano ogni ot tanta chilometri, e un motore tenuto insieme dal filo di ferro e dalla speranza. A quel tempo ne era stato infinitamente orgoglioso. Anche il suo primo volo a bordo di uno dei vecchi idrovolanti Sunderland che un tempo facevano servizio di linea in Africa e scendevano a fare rifornimento sullo Zambesi, sui grandi laghi e in fine sul Nilo, aveva impiegato dieci giorni per condurlo a Londra. Per apprezzare il lusso era necessario aver provato i disagi, pen sava Tug. I primi tempi erano stati molto duri. Erano stati entusia smanti, ma... diavolo! Il contatto della seta sulla pelle e dei sedili della Rolls contro la schiena era veramente meraviglioso. Pregustò con Vivo piacere i negoziati che l'attendevano. Sarebbero stati diffi cili e senza quartiere: ma così dovevano essere. Amava i fendenti e gli affondi delle trattative e cambiare stile per adeguarsi a quello degli avversari. A seconda delle circostanze, sapeva brandire la sciabola o nascondere lo stiletto. Quando era ne cessario sapeva gridare e battere i pugni sul tavolo e imprecare con il vigore d'un minatore australiano o di un operaio petrolifero texa no; e sapeva sorridere e mormorare parole soavemente velenose proprio come l'uomo che stava per incontrare. Sì: amava ogni mo mento di quella sfida. Era questo che lo manteneva giovane. Sorrise cordialmente e cominciò a discutere di netsuke e di cera miche orientali con il giovane che gli sedeva accanto sul sedile di pelle verde della Rolls. « Il generalissimo Chiang Kai-shek portò qui, nel 1949, il meglio dei tesori d'arte cinesi », stava dicendo Ning Deng Kong. Tug annui. « Tutti gli uomini civili devono essergliene riconoscenti », disse. « Se non l'avesse fatto, sarebbero andati distrutti durante la rivolu zione culturale maoista. » Tug studiava il figlio minore del suo ospite. Anche se finora non aveva dimostrato di avere un ruolo centrale nel quadro della dina stia finanziaria dei Ning ed era stato messo in ombra dai fratelli più
anziani, Tug aveva un ampio dossier sul conto di Deng. Alcuni indizi facevano pensare che Deng, pur essendo il flglio minore, fosse il preferito del padre: era il figlio della vecchiaia, nato dalla terza moglie, una bella inglese. Come accade spesso, la mesco lanza del sangue orientale e occidentale aveva messo in evidenza i tratti migliori di entrambi i genitori. Sembrava che Ning Deng Kong fosse un esemplare degno di attenzione, perché era intelligen te, subdolo, spietato e fortunato. Tug Harrison non sottovalutava mai il fattore fortuna. Alcuni l'avevano e altri, per quanto abili, non l'avevano affatto. Sembrava che il vecchio Ning Heng H'Sui lo stesse allenando con ogni cura come un puledro purosangue per prepararlo con pa zienza e diligenza alla prima grande corsa. Aveva dato a Deng tutti i vantaggi senza permettergli di rammollirsi. Dopo la laurea all'università Chiang Kai-shek, Ning Deng Kong era entrato nell'esercito taivvanese per il servizio militare. Il padre non aveva cercato di farlo esentare. Tug immaginava che an che questo doveva aver avuto lo scopo di rafforzarlo. Tug Harrison aveva una copia del dossier del servizio militare del giovane. Se l'era cavata molto bene, e aveva finito la ferma con il grado di capitano assegnato allo stato maggiore. Naturalmente il comandante dell'esercito taivvanese era amico di Ning Heng H'Sui; ma la scelta non poteva essere basata solo sulle preferenze. C'era solo una piccola ombra nello stato di servizio di Deng; si trattava di una denuncia su cui la polizia militare aveva indagato: la morte di una ragazza in un bordello di Taipei. Il rapporto sull'indagine era stato eliminato dallo stato di servizio; restava solo l'affermazio ne che l'accusa era infondata, accompagnata dalla dichiarazione del procuratore generale per il non luogo a procedere. Ancora una vol ta Tug Harrison aveva l'impressione che ci fosse stato l'intervento del vecchio patriarca, e questo accresceva il suo rispetto per il pote re e l'influenza della famiglia. Dopo il servizio militare, Ning Deng Kong era entrato nel cor po diplomatico taivvanese. Forse il vecchio Deng non lo aveva an cora giudicato pronto per un incarico nella Lucky Dragon. Anche in quel caso, i progressi del giovane Deng erano stati fulminei: do po quattro anni era stato nominato ambasciatore, sia pure presso un piccolo, insignificante Paese africano. Comunque se l'era cavata bene. Tug si era procurato una copia del suo stato di servizio, forni ta dal ministero degli Esteri taivvanese. Gli era costato diecimila sterline in bustarelle, ma lo considerava un buon affare. In quel dossier aveva trovato altri indizi sugli inconsueti gusti erotici di Deng. Nello Zambesi era stato ripescato il corpo di una ragazzina ne gra, divorato solo parzialmente dai coccodrilli. Nei genitali e sul se no della ragazza c'erano mutilazioni che avevano indotto la polizia ad approfondire l'indagine. Si era scoperto che, a quel tempo, l'am basciatore cinese alloggiava in un padiglione di caccia sulla riva me ridionale dello Zambesi, vicino al villaggio della ragazza. Quest'ulti ma era stata vista entrare nel bungalow di Deng la sera tardi, pri ma della scomparsa, e, da allora, se ne erano perse le tracce. L'in chiesta era arrivata a questo punto, e poi era stata insabbiata per ordine del presidente. Esaurito il mandato, Deng era tornato a Taivvan per entrare finalmente nella Lucky Dragon, abbandonando il servizio diplomatico. Il padre gli aveva assegnato una carica che corrispondeva a quel la di vicepresidente, e Tug Harrison lo giudicava interessante. Non era solo astuto, ma anche bello, persino secondo i canoni occidenta li. L'influenza della madre era visibile nei lineamenti: sebbene i ca pelli fossero nerissimi, le palpebre non presentavano la piega epi cantica. Parlava inglese in modo perfetto. Se Tug avesse chiuso gli occhi, avrebbe potuto credere di conversare con un giovane inglese del ceto più elevato. Era compito e garbato, e rivelava appena una
venatura di crudeltà e di ferocia. Si, decise Tug, quel giovane aveva grandi prospettive. Suo padre poteva essere fiero di lui. Tug provò la solita fitta di rimpianto quando pensò ai suoi figli, tutti e tre deboli, inetti e spendaccioni. Poteva consolarsi solo pen sando che il torto era interamente dalla parte materna. Erano figli di tre donne diverse che aveva scelto per la loro bellezza fisica. Quando si è giovani non si può ragionare con un pene eretto: sem bra che blocchi l'aMusso del sangue al cervello. Aveva sposato quattro donne che non avrebbe mai assunto neppure come segreta rie, e tre gli avevano dato figli maschi a loro immagine e somiglian za: belli, pigri e irresponsabili. Tug aggrottò la fronte. Molti uomini dedicano più attenzione al l'allevamento dei loro cani e dei loro cavalli che non alla scelta d'u na fattrice per i loro figli. La paternità era l'unico compito di tutta la sua vita in cui Tug Harrison aveva fallito. « Sono ansioso di vedere la collezione d'avori di suo padre », dis se a Deng, mentre scacciava dalla mente i rimpianti inutili. « E mio padre sarà felice di mostrargliela. » Deng sorrise. « E la sua gioia più grande dopo la Lucky Dragon. » In quel momento la Rolls superò un'altra curva a gomito: più avanti c'era il cancello della tenuta dei Ning. Tug ne aveva visto una foto, ma non era preparato alla realtà. Il cancello gli ricordava le sculture gigantesche e sgargianti dei Tiger Balm Gardens di Hong Kong. Il « Drago fortunato » che dava il nome alla società era avvolto intorno all'ingresso come un mostro preistorico: luccicava di pia strelle di ceramica verde-smeraldo e di foglia d'oro. Gli artigli erano protesi, le ali spiegate erano larghe almeno quindici metri, gli occhi ardevano come braci e le fauci da coccodrillo erano socchiuse e irte di zanne acuminate. « Bontà divina », mormorò Tug, e Deng rise come per scusarsi. « Un piccolo capriccio di mio padre », spiegò. « I denti sono di vero avorio e gli occhi sono due rubini cabochon dello Srl Lanka: pesano un po' più di cinque chili fra tutti e due. Sono unici, valutati oltre un milione di dollari. Perciò ci sono i guardiani armati. » I due guardiani si misero sull'attenti al passaggio della Rolls. In dossavano uniformi paramilitari con il cinturone bianco e gli elmetti d'acciaio brunito come quelle delle guardie d'onore alla tomba di Chiang Kai-shek a Taipei. Portavano armi automatiche e Tug Har rison immaginò che avessero altri compiti, oltre a proteggere gli oc chi del « Drago fortunato ». Aveva sentito dire che il giovane Deng, servendosi della sua esperienza militare, aveva reclutato per sonalmente i guardiani tra i marines taivvanesi, uno dei reggimenti d'élite del mondo, per proteggere il padre. Il vecchio Ning Heng H'Sui s'era lasciato alle spalle molte vedo ve e numerosi orfani mentre si apriva la strada verso il potere. Si di ceva che un tempo fosse il capo d'una delle potenti società segrete di Hong Kong e che mantenesse tuttora stretti legami con i Tong. Adesso era collezionista, artista e poeta, ma molti ricordavano i vecchi tempi e sarebbero stati felici di saldare certi conti. Tug non provava ripugnanza per il passato del vecchio come non ne provava per i gusti sessuali del figlio. Anche lui aveva i suoi segreti, e conosceva l'ubicazione di diverse tombe anonime sparse nei territori selvaggi dell'Africa. Aveva vissuto tutta la vita a fianco e in concorrenza con predoni spietati. Non formulava giudizi mora li. Accettava l'umanità così com'era, e cercava piuttosto il profitto che poteva ottenere dalla sua forza e dalla sua debolezza. Deng rispose con un cenno al saluto delle guardie e la Rolls passò sotto il ventre arcuato del drago per entrare in una terra fan tastica di giardini e di laghi, pagode e ponti cinesi. Banchi di khoi dai colori scintillanti guizzavano nelle acque dei laghetti e stormi di colombi nivei volteggiavano intorno ai tetti delle pagode. I prati erano verdi e levigati come un kimono di seta teso sui fianchi d'una
bella ragazza. I rododendri erano in fiore. Era uno scenario tran quillo e incantevole, in contrasto con il drago di pessimo gusto che dominava l'entrata. La Rolls si fermò davanti all'ingresso di una costruzione che ri cordava a Tug una miniatura del Palazzo d'inverno di Pechino. Le fontane che la circondavano lanciavano nell'aria fresca trine scintil lanti di spruzzi. Una schiera di servitori in giacca bianca attendeva ai due lati della porta per accogliere Tug. Tutti s'inchinarono quan do Deng lo condusse nell'interno. I pannelli delle pareti erano stati aperti, e i giardini sembravano integrarsi con l'arredamento. I mobili erano semplici e squisiti. I pavimenti di cedro rosso erano lucidi, e l'odore del legno profuma va l'aria. Alcuni oggetti di ceramica che avrebbero fatto onore a qualunque museo erano disposti in piena vista, e al centro della stanza dominava un'unica composizione floreale: rami fioriti di ci liegio. « Una cameriera le preparerà il tè, sir Peter », disse Deng. « L'altra farà scorrere l'acqua per il bagno e disferà le valige. Poi immagino che vorrà riposare per un'ora. Mio padre l'invita a pran zare con lui alle dodici e mezzo. Ritornerò pochi minuti prima del l'ora fissata per condurla alla casa principale. » Tug comprese che quella era solo una delle foresterie, ma non si mostrò impressionato. Deng continuò: « Naturalmente tutti i servi tori sono ai suoi ordini. Se c'è qualcosa che le occorre... » disse con un sorriso malizioso, « chieda a uno di loro. Lei è l'ospite d'onore di mio padre, che si sentirebbe profondamente umiliato se dovesse mancarle qualcosa ». « Lei e suo padre siete troppo gentili. » Tug ricambiò l'inchino del giovane. Un tempo, non molti anni prima, Tug avrebbe appro fittato di quell'invito discreto, ma adesso era lieto che l'irrazionale e incontrollabile richiamo della sessualità fosse sparito dalla sua esi stenza. Gran parte del tempo e dell'energia della sua gioventù era stata dedicata al sesso. Alla fine quello sforzo non aveva dato molti frutti, a parte i tre figli inutili e un paio di milioni di sterline l'anno che pagava a titolo di alimenti. No, era meglio che fosse tutto fini to. La sua esistenza, adesso, era più calma e razionale. La gioventù era un periodo sopravvalutato della vita di un uomo, colmo di con fusione, di ansie e d'infelicità. Le due ragazze cinesi che lo aiutarono a scendere i gradini della vasca per entrare nell'acqua fumante e profumata indossavano sol tanto corti gonnellini bianchi, e Tug osservò la carnagione chiara e i capezzoli simili a fiori di ciliegio con l'ammirazione dell'intenditore e solo un breve fremito nostalgico all'inguine. « No », si ripeté mentre s'immergeva nell'acqua. « Sono contento di non essere più giovane. » Quando uscì dalla vasca, rifiutò le vesti ricamate che le ragazze gli avevano preparato e scelse invece uno dei suoi abiti scuri confe zionati in Savile Row, una camicia di Turnbull & Asser e una cra vatta MCC che il cameriere gli aveva stirato. « Quel costume mi farebbe sentire come un pagliaccio. Il vecchio Heng lo sa: perciò ha tentato di farmelo indossare. » Il giovane Deng venne a prenderlo all'ora fissata. Guardò l'abi to di Tug ma non cambiò espressione. Non ci sono cascato, vero? pensò soddisfatto Tug. Non sono nato ieri, eh? Si avviarono per il sentiero coperto, soffermandosi ad ammirare le ninfee e i rododendri, fino a quando varcarono un arco grondan te di glicini azzurri che rivelò all'improvviso la costruzione principa le della tenuta. Era sorprendente: una creazione di marmo bianco e di tegole di ceramica, moderna e tuttavia eternamente classica. Tug non cambiò l'andatura, e intuì la delusione del giovane: aveva immaginato che, come gli altri visitatori, anche lui si fermasse a guardare a bocca aperta.
Il patriarca Ning Heng H'Sui sembrava vecchissimo: aveva al meno dieci anni più di Tug. La pelle era secca e grinzosa come quel la della mummia di Ramsete II al museo del Cairo, e macchiata dal l'età. Sulla guancia sinistra spiccava un neo grosso come una mora matura, e dello stesso colore. Secondo una superstizione cinese mol to diffusa, i peli che nascono su un neo portano fortuna, e Ning Heng H'Sui non li aveva mai tagliati. Era un ciuffetto che spuntava dal minuscolo cavolfiore violaceo e pendeva in una nappa argentea sotto il mento, sino a sfiorare la semplice tunica di seta cruda color panna. E a me aveva cercato di affibbiarne una con un drago ricamato, pensò Tug, mentre gli stringeva la mano. Era asciutta e fredda, con le ossa leggere come quelle di un uccello. Heng era incartapecorito dagli anni; solo gli occhi erano vivi e ardenti. Tug immaginava che i giganteschi draghi antropofagi di Komodo avessero occhi come quelli. « Mi auguro che avrà riposato dopo il viaggio, sir Peter, e che si trovi bene nella mia povera casa. » La voce era esile e secca come il fruscio del vento tra le foglie d'autunno, ma Heng si esprimeva in ottimo inglese. Si scambiarono convenevoli mentre si studiavano. Era il loro primo incontro. Fino a quel momento, Tug aveva trattato con i figli maggiori. E adesso tutti i figli erano lì, dietro il padre: i tre fratelli maggio Heng H'Sui ordinò loro di farsi avanti, a uno a uno, con un cenno della mano: tutti salutarono cerimoniosamente l'ospite in or dine di anzianità. Poi Deng aiutò il padre a tornare al sedile rivolto verso il giar dino. A Tug non sfuggì che era il più giovane, anziché il più anzia no, ad avere quell'onore. Sebbene gli altri fratelli non si scambiasse ro occhiate e non mutassero espressione, Tug sentiva la presenza della rivalità, così forte da avvelenare la dolce aria di montagna. Erano informazioni utili sul conto della famiglia. I servitori portarono il tè al gelsomino in tazze così trasparenti che Tug riuscì a vedere i contorni delle proprie dita attraverso la porcellana. Riconobbe il fregio a foglie, color crema su fondo bian co, così sobrio che quasi sfuggiva a un esame superficiale. La tazza era il capolavoro d'un vasaio del quindicesimo secolo, al tempo del l'imperatore Ching Ti della dinastia Ming. Tug vuotò la tazza e poi, mentre stava per posarla sul vassoio laccato, la lasciò scivolare dalle dita. La tazza cadde sul pavimento di cedro e s'infranse in cento pezzi preziosi. « Mi dispiace infinitamente », si scusò. « Sono stato molto goffo. » « Non è nulla. » Heng H'Sui inchinò garbatamente la testa e ac cennò a un servitore di spazzar via i frammenti. Il servitore s'ingi nocchiò tremando: sentiva la collera del padrone. « Spero che non fosse preziosa », disse Tug per metterlo alla pro va e per ripagare il trucco della veste ricamata. Un uomo incolleri to, con l'odio nel cuore, non è più perfettamente lucido Tug studiò Heng H'Sui in attesa di una reazione. Il cinese sapeva che l'ospite era a conoscenza del valore della tazza. « Assolutamente no, sir Peter, le assicuro. Una sciocchezza. Non ci pensi più », disse il vecchio, ma Tug comprese di averlo colpito. Dietro la maschera incartapecorita c'era un uomo vibrante di pas sioni. Tuttavia dimostrava classe, stile e autocontrollo. Un degno avversario, pensò Tug: non si faceva illusioni sui rapporti creati fra loro solo a causa della collaborazione reciprocamente utile e con ogni probabilità transitoria fra la BOSS e la Lucky Dragon. Rompendo la tazza, Tug aveva acquisito un vantaggio momen taneo sul patriarca. L'aveva sbilanciato. Il vecchio finì di bere il tè dalla tazza identica a quella rotta da Tug, quindi tese la mano con un comando sommesso. Uno dei ser
vitori s'inginocchiò e gli mise nella mano grinzosa un piccolo drap po di seta. Heng H'Sui asciugò scrupolosamente la tazza, l'avvolse nella seta e la porse a Tug. « Un dono per lei, sir Peter. Spero che la nostra amicizia non sia fragile come questo gingillo. » Tug riconobbe che Heng aveva riconquistato il vantaggio. Non poteva far altro che accettare il dono lussuoso e la brutta figura che il sottile rimprovero implicava. « Lo terrò caro per la generosità del donatore », disse Tug. « Mio figlio », continuò Heng indicandolo con un guizzo della mano dalle vene bluastre, « mi ha detto che ha espresso il desiderio di vedere la mia collezione di avori. Ne ha una anche lei, sir Peter? » « No, ma m'interessano tutti gli oggetti africani. Mi lusingo di avere una buona conoscenza degli elefanti dell'Africa. So quanto valore attribuisce all'avorio il suo popolo. » « Ah, sir Peter, non discuta l'efficacia dei talismani con un cine se, soprattutto dei talismani d'avorio. La nostra esistenza è regolata dall'astrologia e dai tentativi d'ingraziarci la fortuna. » « La Lucky Dragon? » suggerì Tug. « Certamente, la Lucky Dragon. » Le guance di pergamena di Heng sembrarono sul punto di lacerarsi quando sorrise. « E il drago al mio cancello ha le zanne di avorio puro. La mia vita è dominata dal fascino dell'avorio: incominciai la mia carriera come intagliato re nella bottega di mio padre. » « Lo so, i netsuke con il suo sigillo valgono quanto quelli dei grandi maestri dell'antichità », disse Tug. « Ah, li feci quando avevo la vista acuta e la mano sicura. » Heng scosse la testa con modestia, ma non negò il valore delle sue creazioni. « Mi piacerebbe vedere qualche esempio del suo lavoro », chiese Tug, e Heng accennò al figlio minore di aiutarlo ad alzarsi. « Li vedrà, sir Peter. Li vedrà. » Il museo dell'avorio era a una certa distanza dalla casa. Si avvia rono lentamente lungo il sentiero coperto, a passo lento per non af faticare Heng H'Sui. Il vecchio si soffermò per dar da mangiare ai khoi in uno dei la ghetti, e sorrise mentre i pesci agitavano l'acqua disputandosi il cibo. « L'avidità, sir Peter. Dove saremmo io e lei senza l'avidità? » « Una sana avidità è il combustibile del sistema capitalista », ri conobbe Tug. « E la stupida avidità irriflessiva degli altri arricchisce me e lei, vero? » Tug assentì con la testa. Proseguirono. Alla porta del museo c'erano altri guardiani in uniforme para militare con gli elmetti argentei. Evidentemente si alternavano, gior no e notte. « Uomini scelti. » Heng notò la sua occhiata. « Mi fido di loro più che di tutti i moderni congegni elettronici. » Deng lasciò per un momento il braccio del padre e batté il codi ce sul pannello di controllo del sistema d'allarme. I massicci batten ti scolpiti si aprirono automaticamente e Deng si scostò per far passare il padre e l'ospite. Il museo era privo di finestre. Non c'era luce naturale, e l'illumi nazione artificiale era congegnata con molta abilità. L'impianto di condizionamento era regolato in modo da correggere l'umidità del l'aria e proteggere l'avorio. I battenti scolpiti si chiusero dietro di loro con un sibilo pneumatico. Tug avanzò di tre passi nella spaziosa anticamera, poi si fermò, fissando ciò che stava in mostra al centro del pavimento di marmo. « Le riconosce? » chiese Heng H'Sui. « Naturalmente. » Tug annuì. « Le avevo viste molto tempo fa nel palazzo del sultano di Zanzibar prima della rivoluzione. Molti si
chiedevano dove fossero finite. » « Sì, le ho acquistate dopo la rivoluzione del 1964, quando il sul tano andò in esilio », confermò Heng H'Sui. « Pochissimi sanno che le ho io. » Le pareti erano dipinte di azzurro, il particolare azzurro lattigi noso del cielo africano al meriggio. Il colore era stato scelto per far spiccare gli oggetti in mostra, e anche le dimensioni dell'anticamera erano state studiate apposta per mettere in risalto la coppia di zanne. Ognuna era lunga più di tre metri, e la base era più grossa della vita d'una ragazza. Vi era una dicitura in arabo su ciascuna delle zanne, apposta cent'anni prima da uno scrivano del sultano Bargha sh, che registrava il loro peso all'arrivo a Zanzibar. Tug decifrò la scritta: la zanna più pesante era di quasi centodieci chili, l'altra po co meno. « Oggi sono più leggere. » Heng H'Sui prevenne la sua doman da. « Fra tutte e due, prosciugandosi, hanno perduto una decina di chili, ma ci vogliono ancora quattro uomini per reggerne una. Pensi come doveva essere quell'elefante. » Erano le zanne più famose esistenti al mondo. Tug, appassiona to di storia africana, conosceva la vicenda di quegli oggetti straordi nari. Erano stati presi vent'anni prima sulle pendici meridionali del Kilimangiaro da uno schiavo che si chiamava Senoussi. Il suo pa drone era un delinquente, Shundi, uno dei più crudeli e disonesti negrieri e trafficanti d'avorio della costa orientale africana, un'area famosa per i saccheggi degli schiavisti. Quando Senoussi aveva tro vato il vecchio elefante, non aveva osato ucciderlo. S'era acquattato sul moschetto e aveva studiato per ore quell'essere straordinario pri ma di trovare il coraggio di avvicinarsi e di piantargli una palla nel cuore. Secondo il racconto che Senoussi aveva fatto più tardi al padro ne, l'elefante aveva corso per un centinaio di metri prima di stra mazzare. Era vecchissimo, con i quarti e gli ultimi molari quasi completamente usurati, alla vigilia della lenta morte per fame della senescenza. Sebbene non fosse enorme, aveva il collo e le zampe an teriori ipersviluppati per reggere il grande peso delle zanne. Senous si aveva notato che era costretto a sollevare la testa e le punte delle zanne per potersi muovere. Quando Shundi aveva messo in mostra le zanne sul mercato del l'avorio a Zanzibar, avevano fatto sensazione fra i commercianti, che pure erano abituati a trattarne di molto grosse. Il sultano le ave va acquistate per mille sterline, una somma enorme per quei tempi. Tug le aveva viste per la prima volta nel palazo dei successori del sultano, sul lungomare di Zanzibar. Ora si avvicinò con reverenza e ne accarezzò una, alzando lo sguardo verso gli archi massicci d'avorio che quasi s'incontravano sopra la sua testa. Erano tesori leggendari: ai suoi occhi sembrava no rappresentare la storia e l'anima del continente africano. « Ora mi permetta di mostrarle il resto della mia piccola collezio ne », disse Ning Heng H'Sui, e si avviò verso l'arcata seminascosta nel muro di fondo dell'anticamera. L'interno del museo era un labirinto di corridoi fiocamente illu minati. Il pavimento era ricoperto di moquette Wilton blu che smorzava il suono dei passi. Le pareti avevano lo stesso colore ma, su un lato e sull'altro del passaggio, erano state inserite le vetrine. Le proporzioni d'ogni vetrina erano studiate per adattarsi alla forma e alla grandezza dell'oggetto che conteneva. L'illuminazione era congegnata in modo che ogni tesoro venisse rivelato in tutti i dettagli e sembrasse fluttuare nell'aria. I primi erano oggetti religiosi e sacri: una Bibbia, con la coperti na d'avorio intagliato e adorna di pietre preziose, recava il simbolo della Russia imperiale, l'aquila bicipite. « Pietro il Grande », mormorò Heng. « La sua Bibbia perso
nale. » C'era una copia della Torah: la pergamena gialla era arrotolata su un'asta d'avorio e racchiusa in una custodia pure d'avorio che recava incisa la stella di Davide. « Messa in salvo dalla grande sinagoga di Costantinopoli quando fu distrutta dall'imperatore bizantino Teodosio », spiegò Heng. Fra gli altri tesori c'erano icone d'avorio tempestate di diamanti e statuette induiste di Visnù, una copia del Corano con la copertina d'avorio e oro battuto, e antiche immagini cristiane della Vergine e dei santi. Via via che procedevano lungo i corridoi, il carattere degli og getti in mostra diventò più profano. C'erano ventagli, pettini e col lane provenienti dall'antica Roma e dalla Grecia, poi un oggetto straordinario che sembrava un matterello lungo sessanta centimetri, con una testa di gallo intagliata a un'estremità. Tug non lo riconob be, e Heng spiegò, impassibile: « Apparteneva a Caterina la Grande di Russia. I medici l'avevano convinta che l'avorio era un rimedio sovrano contro la sifilide. E un pene artificiale d'avorio, costruito secondo le indicazioni dell'imperatrice ». Ogni tanto Heng ordinava al figlio di aprire una vetrina in modo che Tug potesse toccare gli oggetti in mostra ed esaminarli più da vicino. « Il vero piacere dell'avorio consiste nella sensazione che dà a toccarlo », spiegò Heng. « E sensuale come la pelle di una bella don na. Osservi la grana, sir Peter, l'incantevole tratteggio che nessuna sostanza artificiale può riprodurre. » C'era un oggetto rotondo, grande come un pallone da calcio e lavorato a trina. All'interno c'erano otto perfette sfere, disposte una dentro l'altra come gli strati di una cipolla. L'artista aveva inta gliato le sfere interne attraverso le minuscole aperture negli strati esterni. Al centro era inciso un bocciolo di rosa, perfetto in ogni dettaglio. « Tremila ore di lavoro. Cinque anni della vita d'un maestro. Come gli si può attribuire un valore? » chiese Heng. Due ore dopo essere entrati nel museo arrivarono finalmente nella sala che conteneva i netsuke. Durante lo shogunato di Tokugawa in Giappone, soltanto gli aristocratici erano autorizzati a portare ornamenti personali. Fra i ricchi della nuova classe emergente il bottone nersuke, che veniva portato sulla fusciacca e usato per reggere un portapillole o la borsa per il tabacco, era un oggetto indispensabile dell'abbigliamento. La bellezza e la complessità della lavorazione accrescevano il prestigio del proprietario. Heng aveva messo insieme una collezione di oltre diecimila pez zi. Ma, come spiegò a Tug, poteva mostrargli solo alcuni dei prefe riti, incluse le sue creazioni. Erano in vetrine separate: e anche que sta volta Tug fu invitato a prenderli in mano per ammirarli. « Naturalmente sono stato costretto a cercare le mie opere e a ri comprarle. » Heng sorrise e si tirò il ciuffo di peli che gli pendeva dalla guancia. « In tutto il mondo ho agenti che stanno ancora cer cando. Penso che vi sia un centinaio dei miei lavori che finora mi sono sfuggiti. Le offro diecimila dollari se me ne trova uno, sir Peter. » « E li valgono davvero », ammise Tug mentre esaminava uno dei bottoni d'avorio. La lavorazione era straordinaria, e i soggetti spa ziavano dagli uccelli ai mammiferi fino agli uomini, alle belle donne e ai bambini in tutte le pose e le attività, dalla guerra all'amore, dal la morte al parto. L'artista Heng era riuscito a trasformare anche la cosa più bana le in un elemento straordinario ed eccitante. I soggetti che avrebbe ro potuto apparire semplicemente pornografici e volgari erano inve ce spirituali, eterei e toccanti. « Ha un dono molto raro », dichiarò Tug. « Il cuore e l'occhio
del grande artista. » Per qualche attimo i due uomini rimasero in sintonia; lasciarono il museo e tornarono alla casa dove i servitori avevano preparato il necessario per scrivere e leggeri rinfreschi su un lungo tavolo lacca to. I due si tolsero le calzature e sedettero sui cuscini intorno al ta volo. Finalmente si misero al lavoro. A Londra, Tug aveva discusso e firmato un documento d'intenti con i figli maggiori di Ning, soggetto alla ratifica del patriarca. Tug non aveva mai pensato che fosse una procedura semplice, e non ri mase deluso. Un po' più tardi di mezzanotte si aggiornarono e Tug fu riac compagnato da Deng alla casa per gli ospiti. Le due cameriere lo attendevano con tè e rinfreschi. Lo aiutarono a indossare il pigia ma, poi scoprirono il letto ampio e basso e attesero. Tug le congedò, e le donne uscirono subito. Non era riuscito a trovare dove fossero nascosti la telecamera e il microfono, ma era certo che ci fossero. Spense la luce e per un po' rimase sdraiato, soddisfatto dei progressi compiuti. Poi si addormentò profonda mente; al risveglio si sentì pronto per la battaglia. A metà del pomeriggio successivo, Tug e Heng H'Sui si strinsero la mano. In base a tutto ciò che Tug aveva saputo sul conto del vec chio, era convinto che, come lui, avesse una sua particolare integri tà. Fra loro una stretta di mano valeva quanto un documento uffi ciale. Naturalmente, a questo punto sarebbero entrati in scena gli avvocati delle due parti e avrebbero complicato e confuso tutto, ma non sarebbero riusciti a inficiare le colonne portanti dell'accordo. Fra Tug e Heng c'era un patto sacrosanto: l'onore dei bucanieri. « C'è un'altra cosa che vorrei discutere con lei », mormorò Heng, e Tug aggrottò la fronte. « No, no, sir Peter, è una questione personale che non fa parte dell'accordo. » Tug si rilassò. « Farò il possibile per esserle utile. Di che si tratta? » « Di elefanti », rispose Heng. « Avorio. » « Ah. » Tug annuì con un sorriso. « Come ho fatto a non pen sarci? » « Quando quel pazzo sanguinario di Idi Amin Dada prese il po tere in Uganda, i più grossi elefanti ancora vivi nel continente afri cano si trovavano nel parco nazionale dell'Uganda presso le cascate Murchinson, alle sorgenti del Nilo », spiegò Heng. « Sì », disse Tug. « Ho visto in quel parco una dozzina di animali con zanne che pesavano una cinquantina di chili l'una. I fedelissimi di Amin li uccisero, e lui s'impadronì dell'avorio. » « Non tutti, sir Peter. So da fonte attendibile che alcuni esempla ri, i più grossi, sfuggirono all'annientamento. Attraversarono il confine, entrarono nell'Ubomo e raggiunsero le foreste pluviali sul le pendici dei Monti della Luna, l'area che ora fa parte della conces sione del nostro consorzio. » « E possibile », ammise Tug. « Non solo è possibile: è un fatto », lo corresse Heng. « Mio fi glio Deng », continuò indicandolo, ccha un agente fidato nell'Ubo mo, un indiano che ha collaborato con lui in molte occasioni. Si chiama Chetti Singh. Lo conosce? » « Ne ho sentito parlare vagamente. » Tug aggrottò la fronte. « Mi faccia riflettere... Sì, è implicato nell'esportazione illegale di avorio e corni di rinoceronte. Ho sentito dire che è l'organizzatore del bracconaggio africano. » « Chetti Singh è andato nelle foreste del bacino dell'Ubomo cir ca dieci giorni fa », continuò Heng. « Ha visto con i suoi occhi un elefante maschio con zanne grandi quasi come quelle che le ho mo strato oggi. » « E io come potrei aiutarla? » insistette Tug. « Voglio quelle zanne », mormorò Heng. La passione del colle
zionista era appena velata dalla maschera erosa dal tempo. « Voglio quell'avorio, più del minerale e del legname pregiato della foresta. » « Il presidente Taffari può firmare una speciale licenza di caccia. Credo che sia previsto dalla costituzione; e se no, la si può cambia re. Immagino che il suo collaboratore Chetti Singh riuscirà a procu rarle quelle zanne. E l'asso dei bracconieri. In questo caso, mande rò nell'Ubomo il mio Gulf Stream per ritirare le zanne e portarle qui a lei. Non credo che ci saranno problemi, signor Ning. » « Grazie, sir Peter. » Heng sorrise. « C'è qualcosa che posso fare per lei, in cambio? » « Si. » Tug si tese verso il vecchio. « Si, c'è qualcosa. » « Non ha che da chiedere », disse Heng. « Prima devo parlarle della nuova isteria che travolge il mondo occidentale. Per sua fortuna, lei non è soggetto alle stesse pressioni. C'è un nuovo modo di pensare, soprattutto fra i giovani ma anche, purtroppo, fra coloro che dovrebbero essere più furbi. Questa filo sofia sostiene che non abbiamo il diritto di utilizare le risorse natu rali del nostro pianeta. Non deve esserci permesso di estrarre le ric chezze dalle miniere perché gli scavi sfigurano la bellezza della natu ra. Non deve essere consentito tagliare gli alberi per sfruttarne il le gname perché non appartengono a noi bensi ai posteri. Non possia mo uccidere un essere vivente per prenderne la carne, la pelle o l'a vorio perché ogni vita è sacra. » « Sciocchezze. » Heng fece un gesto brusco. Gli occhi scuri bril larono. « L'uomo è diventato ciò che è oggi perché ha sempre fatto queste cose. » Toccò i pannelli di cedro della parete, l'orlo della tu nica di seta, l'anello d'oro e avorio che portava al dito, la preziosa tazza di ceramica sul tavolo. « Tutte queste cose sono state estratte dalle miniere, abbattute nelle foreste, tolte a esseri che sono stati uc cisi. Come potremmo altrimenti procurarci, per esempio, il cibo che ci nutre? » « Io e lei ne siamo consapevoli », disse Tug. « Ma questa nuova pazzia è una forza temibile quanto un irrazionale fanatismo religio so. Una specie di jihad, di guerra santa. » « Senza offesa, sir Peter, gli occidentali sono emotivamente im maturi. Mi piace pensare che noi orientali siamo piu sofisticati. Non ci lasciamo travolgere con tanta facilità da questo comportamento esagerato. » « Perciò mi appello a lei, signore. La mia società, la BOSS, è di ventata recentemente vittima di questa campagna. L'attenzione del pubblico britannico è stata richiamata sulle nostre attività nell'Ubo mo da gruppi che si danno nomi puerili come 'Greenpeace' o 'Ami ci della Terra'. » Heng fece una smorfia e Tug annui. « Lo so che sembra sciocco e innocuo, ma una di queste organizzazioni è guidata da una giova ne fanatica che ha scelto come bersaglio la mia società. E già riusci ta a causarci certi danni. C'è un declino modesto ma avvertibile nel le vendite e nel reddito, attribuibile direttamente alla sua campagna diffamatoria. Alcuni dei nostri principali mercati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti danno segno di nervosismo e ci chiedono di riti rarci dall'Ubomo, o almeno di ridurre la nostra partecipazione. Io stesso ho ricevuto lettere d'insulti e minacce di morte. » « Le ha prese sul serio? » « No, signor Ning, anche se quelli sono individui che fanno sal tare in aria i laboratori e danno fuoco alle pelliccerie. Comunque, ritengo prudente tenere nell'ombra il ruolo della BOSS nell'Ubomo, o almeno migliorare le pubbliche relazioni. » « Lei cosa propone, sir Peter? » « Innanzi tutto ho già scritturato un produttore cinematografico indipendente molto noto in Europa e in America, perché realizzi un documentario televisivo sull'Ubomo con particolare interesse per i benefici che la nostra partecipazione arrecherà al Paese. » « Non avrà intenzione di mostrare alle telecamere tutte le attività
del consorzio, sir Peter? » La domanda di Heng aveva un tono al larmato. « Naturalmente no, signor Ning. Il produttore verrà guidato con abilità in modo da presentare il nostro consorzio nella luce migliore. Forse sarà necessario preparargli qualche scena appositamente per ché la filmi. » « Vuol dire organizzare una messa in scena? » suggeri Heng. « Appunto, signor Ning. Lo terremo lontano dalle aree più deli cate delle nostre operazioni. » Heng annui. « Mi sembra giusto. E a quanto pare lei ha organiz zato già tutto senza bisogno del mio aiuto. » « Signor Ning, lei è in una posizione migliore della mia. I cosid detti 'verdi'non possono raggiungerla qui a Taivvan. I cinesi sono troppo pratici per abbracciare una mentalità tanto immatura, so prattutto perché i prodotti delle miniere e delle foreste verranno spediti qui. Lei è invulnerabile a questa influenza puerile ma perico losa. » « Si. » Heng annui. « Tutto ciò che ha detto è molto sensato: ma a che cosa ci conduce? » « Voglio che la Lucky Dragon diventi l'elemento di punta del consorzio. Voglio che sia uno dei suoi uomini migliori, anziché uno dei miei, a recarsi nell'Ubomo e ad assumere il comando delle ope razioni. Ritirerò i miei geologi, i botanici e gli architetti, e lei man derà esperti cinesi. A poco a poco venderò la mia parte a società prestanome di Hong Kong e di altre città orientali. Anche se io e lei continueremo a incontrarci regolarmente e a dirigere con discrezio ne l'attività del consorzio, io e la BOSS Ci ritireremo gradualmente dalla scena. » « E diventerà l'uomo invisibile, sir Peter. » Heng rise, divertito. « L'uomo invisibile. Mi piace. » Anche Tug rise. « Posso chieder le chi manderebbe nell'Ubomo per assumere la direzione? » Ning Heng H'Sui smise di ridere e si tirò pensosamente il ciuffo di peli bianchi. I suoi figli, seduti al lungo tavolo laccato, si irrigidirono cercan do di nascondere l'ansia e osservarono il padre con espressioni im passibili che venivano smentite dal loro sguardo. « Ah! » Heng tossì e s'inumidì le labbra con il tè. « Sarà necessa rio riflettere, sir Peter. Vuole concedermi una settimana o più per decidere? » « Naturalmente, signor Ning. Non è una decisione da prendere alla leggera. Abbiamo bisogno di qualcuno abile, impegnato e... » Tug esitò mentre sceglieva l'aggettivo da usare, e scartava « spieta to » perché era troppo esplicito. « Ed energico, sebbene diploma tico. » « Le telefonerò per comunicarle la mia decisione. Dove potrò trovarla, sir Peter? » « Partirò per Sydney domattina, quindi proseguirò per Nairobi e Kahali nell'Ubomo per incontrare il presidente Taffari. Comunque, il mio aereo è dotato di un sistema di comunicazione via satellite. Potrà contattarmi in volo facilmente, come se fossi nella stanza ac canto. » « Questi miracoli moderni. » Heng scosse la testa. « A volte per un vecchio è difficile abituarsi. » « Mi sembra che lei sia vecchio solo per l'esperienza e la sagacia, signor Ning. In quanto a coraggio ed energia, è veramente giova ne », disse Tug con una buona dose di sincerità, e Ning Heng H'Sui inclinò con garbo la testa. Deng aveva atteso con pazienza il momento più adatto per pre sentare al padre il dono che aveva portato dall'Africa. Erano tra scorse quasi due settimane da quando Peter Harrison s'era recato a Taivvan e suo padre non aveva ancora annunciato alla famiglia qua le dei figli intendeva mandare nell'Ubomo a dirigere le attività del consorzio.
Tutti i fratelli sapevano che doveva toccare a uno di loro. L'ave vano compreso nel momento in cui l'inglese aveva avanzato la sua richiesta. Deng aveva visto gli altri irrigidirsi nel sentire le sue pa role, e la propria eccitazione specchiarsi nei loro occhi. Da allora, i fratelli avevano girato l'uno intorno all'altro come cani sospettosi. L'entità degli investimenti della Lucky Dragon nel consorzio dell'U bomo non aveva precedenti. Quando il progetto fosse stato comple tamente finanziato e sviluppato, la famiglia si sarebbe impegnata a raccogliere quasi un miliardo di dollari, per la maggior parte otte nuti in prestito da banche di Hong Kong e del Giappone. Doveva essere uno dei figli. Ning Heng H'Sui non avrebbe mai avuto tanta fiducia in un estraneo. Solo l'età avanzata lo costringe va a delegare il compito a uno di loro. Ancora poco tempo prima avrebbe preso nelle sue mani il comando della situazione nell'Ubo mo; ma ormai doveva assegnarlo a uno dei figli; e ognuno sarebbe stato pronto a uccidere pur di avere quell'onore. Il comando sareb be stato l'investitura suprema e avrebbe indicato chiaramente chi era l'erede prescelto da Heng. Deng aspirava all'onore con una passione così intensa che gli impediva di dormire e gli guastava l'appetito. Nelle due settimane trascorse dalla visita di sir Peter era diventato più magro e pallido. Adesso, quando si allenava in palestra, si vedeva che era scarno, quasi emaciato. Le costole spiccavano sotto lo strato duro ed elasti co dei muscoli. Ma, quanto a violenza, i colpi e i calci non avevano perso nulla. Quando combatteva, i suoi occhi scuri, infossati e cer chiati, scintillavano con un'intensità febbrile. Trovava ogni pretesto per stare in compagnia del padre. Anche quando il vecchio dipingeva o meditava con i sacerdoti confuciani nel tempio nei giardini della tenuta, o catalogava la collezione d'a vori, Deng cercava di stargli vicino. Tuttavia intuiva che non era ancora il momento giusto per il dono. Pensava che la scelta del pa dre doveva avvenire alla fine fra lui e il secondo fratello, Wu. Il maggiore, Fang, era duro e spietato, ma era privo di astuzia: un buon esecutore, non un capo. Il terzo, Ling, aveva un tempera mento inaffidabile. Era astuto quanto Wu o Deng, ma si spaventa va facilmente e tendeva ad alterarsi quando le cose non andavano bene. Ling non sarebbe mai diventato il capo della Lucky Dragon. Forse sarebbe diventato il numero due, ma non il Numero Uno. No, pensava Deng, i candidati erano lui e Wu. Fin da bambino aveva riconosciuto in Wu il suo rivale più importante, e perciò lo odiava con cocciuto malanimo. Finché era viva, la madre inglese aveva protetto Deng dai fra telli. Ma, dopo la sua morte, era stato in loro balia. C'erano voluti molti anni per imparare a destreggiarsi da solo e a conquistare sem pre di più il favore del padre. Deng si rendeva conto che quella era la sua grande occasione, la sua unica opportunità di conquistare la supremazia. Il padre era vecchio, decrepito. Nonostante l'energia in apparenza infinita, Deng intuiva che era prossimo alla morte. Poteva accadere da un momento all'altro: e quel pensiero lo agghiacciava. Sapeva che, se non avesse consolidato la propria successione mentre il padre era ancora vivo, Wu gliel'avrebbe strappata con l'aiuto dei due fratelli non appena il vecchio avesse chiuso gli occhi. E intuiva che il padre stava per prendere una decisione sul progetto dell'Ubomo. Quello era il suo momento, la pausa nella marea; adesso la sua fortuna doveva cambiare, altrimenti sarebbe rimasto arenato per sempre sulle barene di fango. « Onorevole padre, ho qualcosa per te. Un piccolo, umile pegno del mio rispetto e della mia gratitudine. Posso presentartelo? » Sembrava che la fortuna cospirasse con Deng per offrirgli un'occasione propizia. Quel giorno il vecchio era scattante, lucido, e le sue declinanti forze fisiche sembravano rinsaldate. Aveva man giato un fico maturo e una mela per colazione, e aveva composto
una stanza classica mentre Deng l'accompagnava al tempio. Era un'ode alla vetta della montagna che torreggiava sopra la tenuta. La poesia incominciava: Amata dalle nuvole che le accarezzano il viso... Era bella, anche se non valeva quanto i suoi dipinti e gli intagli d'avorio. Ma quando il vecchio l'aveva recitata, Deng aveva giun to le mani. « Mi sbalordisce vedere quanto genio risiede in una sola persona. Vorrei averne ereditato qualche granello. » Forse aveva esagerato un po'; ma il vecchio aveva accettato l'e logio e per un momento aveva stretto più forte il polso di Deng. « Sei un buon figlio », aveva detto. « E tua madre... » La voce s'era smorzata mestamente. « Tua madre era una donna... » Poi aveva scosso la testa e Deng, incredulo, aveva avuto l'impressione che avesse gli occhi pieni di lacrime. Doveva essere uno scherzo del l'immaginazione. Suo padre non cedeva alla debolezza e al senti mentalismo. Quando aveva rialzato lo sguardo gli occhi del vecchio erano limpidi e luminosi, e sulle labbra aleggiava un sorriso. Quella mattina Heng rimase al tempio più a lungo del solito. Voleva ispezionare i lavori della sua tomba. Uno degli indovini più famosi dell'isola era venuto a scegliere il punto esatto in modo che la tomba non si trovasse sulla testa o sulla coda del drago della ter ra, perché questo avrebbe disturbato l'eterno sonno del vecchio. L'indovino aveva lavorato con una bussola e un sacchetto magico per quasi un'ora, e aveva diretto il lavoro dei sacerdoti e dei servi tori perché sistemassero nel modo appropriato il sarcofago mar moreo. I preparativi per il suo funerale avevano messo Heng di buonu more; e quando finirono, Deng ne approfittò e chiese il permesso di presentare il suo dono. Heng sorrise e annuì. « Puoi portarmelo, figlio. » « Purtroppo, padre, la natura del dono lo rende impossibile. Devo condurti a vederlo. » L'espressione di Heng cambiò. In quei giorni lasciava raramente la tenuta. Sembrò sul punto di rifiutare. Ma Deng aveva previsto quella reazione. Non doveva far altro che alzare una mano: la Rolls Royce parcheggiata dietro le siepi di ligustro al di là dei laghetti si sa rebbe avvicinata silenziosamente. Prima che il vecchio potesse protestare, Deng lo aiutò a pren dere posto sul sedile posteriore e gli copri le ginocchia con un plaid di cashmere. L'autista sapeva già dove condurli. Mentre la Rolls scendeva la strada di montagna per raggiungere la piana del litorale, Heng e Deng erano isolati, protetti sia dal caldo e dall'umidità, sia dalla folla che intasava la strada con motorini e autobus, tassi e ca mion stracarichi. Entrato in Chung Ching South Road, nell'area di Hsimending, l'autista rallentò ed entrò nel complesso del magazzino della Lucky Dragon. Le guardie scattarono sull'attenti appena riconobbero i due uomini sul sedile posteriore. Una delle porte del magazzino era spalancata, e dopo che la macchina fu entrata, venne richiusa in fretta. La Rolls andò a fer marsi su una delle rampe di carico e Deng aiutò il padre a scendere e lo prese per il gomito per condurlo a una sedia di tek scolpita co me un trono e coperta di cuscini di seta ricamati, che dominava il tratto sotto la rampa. Appena il padre si fu accomodato, Deng fece cenno a uno dei servitori di portare una tazza di tè. Poi sedette su uno dei cuscini, ai piedi del padre. Bevvero il tè e parlarono a voce bassa di vari argo menti. Deng protraeva l'attesa, cercando di accentuare nel padre l'ansia dell'aspettativa. Se anche c'era riuscito, comunque, il vec chio non lo dava a vedere. Lanciava solo qualche sguardo distratto al pavimento.
Dieci robusti operai s'inginocchiarono in fila davanti al trono. Deng li aveva fatti vestire di tuniche nere con fasce rosse intorno alla fronte e l'emblema della Lucky Dragon, anch'esso rosso, che spiccava sulla schiena. Li aveva addestrati con grande cura, e ades so stavano immobili con le teste abbassate in segno di rispetto. Finalmente, dopo dieci minuti di tè e di conversazione, Deng disse al padre: « Ecco il dono che ti ho portato dall'Africa ». Indicò la fila delle casse allineate dietro gli operai. « E così modesto che mi vergogno di offrirtelo. » « Tè? » Heng sorrise. « Casse di tè? Tè sufficiente per tutto il re sto della mia vita. E un bel dono, figlio mio. » « E un misero dono, ma posso far aprire le casse? » chiese Deng, e il vecchio annuì per dare il suo consenso. Deng batté le mani e i dieci operai balzarono in piedi e corsero ad afferrare una delle casse e la portarono avanti. Lavorarono in fretta e con efficienza. Con una mezza dozzina di colpi di martello e torcendo una sbarra, sollevarono il coperchio della prima cassa. Heng mostrò i primi segni di animazione e si sporse dal seggio. Due operai estrassero la prima zanna dal nido di tè nero. Deng aveva organizzato le cose in modo che fosse una delle più grosse e belle dell'intero contingente di avorio rubato. Aveva chie sto a Chetti Singh di marcare la cassa che le conteneva prima che il carico lasciasse il magazzino del sikh nel Malawi. La zanna era lunga più di due metri, ma non era spessa e tozza come quelle che, di solito, provenivano dalle zone più a nord dello Zimbabwe. Tuttavia, da un punto di vista puramente estetico, era più elegante, con un diametro proporzionale alla lunghezza, e la curva affusolata era più agile. Non era incrinata né danneggiata, e la patina era color giallo crema. Heng batté impulsivamente le mani per il piacere e si lasciò sfug gire un'esclamazione. « Bellissima! » mormorò. « La più bella creazione della natura, più delle perle e delle piume dei più splendenti uccelli tropicali. » S'interruppe bruscamente quando sentì sotto le dita un tratto ruvi do della zanna. Si chinò a osservarla e proruppe in un'altra escla mazione: « Ma c'è un timbro governativo. Z.W. C'è un numero del governo dello Zimbabwe. E avorio legale, Deng ». Batté ancora le mani. « Avorio legale, figlio mio, molto più prezioso grazie a questi numeri. Come hai fatto? Quante altre zanne ci sono? » Il piacere sfrenato del padre conferiva a Deng un immenso prestigio. Dovet te fare uno sforzo per conservare un atteggiamento umile e devoto. « Ognuna di queste casse è piena d'avorio, onorato padre. Ogni zanna è marcata. » « Dove le hai prese? » insistette Heng. Poi alzò la mano per im pedirgli di rispondere. « Aspetta! » ordinò. « Aspetta. Non dirmelo. » Tacque fissando per un po' il figlio, poi soggiunse: « Sì. Ecco. So da dove viene que sto avorio ». Con un cenno della mano fece allontanare gli operai nerovestiti e si tese verso Deng. Abbassò la voce in un bisbiglio. « Qualche tempo fa ho letto che una banda di bracconieri ha assal tato un magazzino governativo nello Zimbabwe. In una località chiamata Chiwewe. I banditi sono stati annientati, ma l'avorio non è stato recuperato. Non è così, figlio mio? » « Anch'io ho letto quell'articolo, onorato padre. » Deng abbas sò gli occhi e attese, mentre il silenzio si protraeva. Poi Heng riprese a parlare. « L'uomo che ha progettato l'assalto era astuto e audace. Non ha avuto paura di uccidere per prendere ciò che voleva », bisbigliò. « E il tipo d'uomo che ammiro, il tipo d'uomo che ero in gioventù. » « Il tipo d'uomo che sei tuttora, padre », disse Deng. Ma Heng scosse la testa. « L'uomo che sarei fiero di avere per figlio », continuò Heng. « Ora puoi mostrarmi il resto del tuo dono. »
La posizione di Deng, agli occhi del padre, era ormai così soli da che il giovane si agitò felice sul cuscino e gridò agli operai di aprire le altre casse. Per due ore, Heng esaminò il carico di zanne. Si entusiasmava per ogni pezzo. Ne scelse una dozzina delle più belle o eccezionali per la sua collezione. Gli interessava soprattutto l'avorio deforme. Il nervo di una zanna, ancora immatura, era stato danneggiato da un proiettile di piombo martellato a mano e sparato dal moschetto d'un bracconiere indigeno. Di conseguenza la zanna si era spaccata in quattro parti separate che si erano poi avvolte l'una intorno alle altre come i capi d'una corda di canapa. La palla di piombo, grave mente corrosa, era tuttora inserita alla radice della zanna, e le spira li intrecciate ricordavano la protuberanza ossea del leggendario uni corno. Heng la giudicò ammirevole. Raramente Deng l'aveva visto così animato e loquace; ma al termine delle due ore il vecchio appariva stanco, e Deng lo aiutò a risalire sulla Rolls-Royce e ordinò all'autista di ritornare alla te nuta. Heng appoggiò la testa sulla spalliera e chiuse gli occhi. Quando Deng fu sicuro che si fosse addormentato, gli assestò sulle ginoc chia il plaid di cashmere. Una delle mani del vecchio era caduta sul sedile; Deng gliela posò sulle ginocchia e prima di coprirla con il cashmere l'accarezzò delicatamente. La mano era esile e ossuta, e la pelle era fredda come quella di un cadavere. All'improvviso le dita lunghe e sottili si strinsero intorno al polso di Deng e il vecchio parlò senza aprire gli occhi. « Non ho paura della morte, figlio mio », mormorò. « Ma ho il terrore che quanto ho realizzato venga distrutto da mani inette. Tuo fratello Wu è forte e astuto, ma non ha il mio spirito. Non ama le cose belle. Non ama la poesia, la pittura e l'avorio. » Heng aprì le palpebre e girò la testa per fissare il figlio con occhi da lucertola, lu minosi e implacabili. « Sapevo che tu avevi ereditato il mio spirito, Deng, ma fino a oggi ho dubitato che ci fosse in te l'acciaio del ve ro guerriero. Perciò esitavo a scegliere fra te e Wu. Ma il dono che mi hai offerto oggi ha cambiato tutto. So come ti sei procurato l'a vorio. So che è stato necessario spremere il succo della ciliegia ma tura. » Era l'eufemismo che Heng usava per alludere al sangue. « E so che non ti sei tirato indietro. E so che sei riuscito in un'impresa diEcile, poco importa se grazie alla fortuna o all'astuzia. Io ap prezzo astuzia e fortuna in eguale misura. » La stretta delle sue dita si accentuò fino a diventare dolorosa, ma Deng non trasalì e non si svincolò. « Ti manderò nell'Ubomo, figlio mio, quale rappresentante della Lucky Dragon. » Deng chinò la testa sulla mano del padre e la baciò. « Non ti deluderò », promise, e una lacrima di gioia e d'orgoglio andò a ca dere, brillante come una gemma, sulla pelle secca della mano del vecchio. Ning Heng H'Sui diede l'annuncio ufficiale della sua scelta l'in domani mattina, mentre stava seduto a capo della tavola laccata che si affacciava sul giardino. Deng osservava i volti dei fratelli mentre il vecchio parlava. Wu rimase impassibile come il ritratto d'avorio che il padre gli aveva fatto anni prima. Aveva una faccia mite, levigata, color giallo cre ma, ma gli occhi erano terribili mentre ricambiava lo sguardo di Deng. Quando il vecchio tacque, vi fu un momento di silenzio che parve protrarsi per un'eternità, mentre i tre fratelli maggiori con templavano il mondo che, per loro, era cambiato per sempre. Quindi parlò Wu. « Onorevole padre, tu sei saggio in ogni cosa. I tuoi figli s'inchinano a te come gli steli del riso s'incurvano al ven to del nord. » Tutti e quattro s'inchinarono sino a sfiorare con la fronte il pia no del tavolo; ma quando si raddrizzarono, gli altri tre fissarono
Deng. In quel momento Deng si rese conto che forse aveva acqui sito troppo prestigio. La sua importanza era ormai più grande di quella dei fratelli sommati insieme, e un brivido di paura gli corse lungo la schiena, perché si sentì osservato con occhi di coccodrillo. Sapeva che non avrebbe potuto fallire nell'Ubomo. Altrimenti lo avrebbero fatto a pezzi. Quando tornò nel suo appartamento, la paura svanì e lasciò il posto all'euforia del successo. C'erano molte cose da fare prima di tornare in Africa, ma per il momento non riusciva a pensarci. Il giorno dopo, senza dubbio, ma non ora. Era troppo carico d'eccita zione, e la sua mente era irrequieta e sfuocata. Doveva rinfrancarsi, bruciare l'energia in eccesso che lo rendeva così teso fisicamente e mentalmente. E sapeva come fare. Aveva un suo rito speciale per purificare l'anima. Certo, era pericoloso. Terribilmente pericoloso. Già in più di un'occasione l'aveva portato sull'orlo del disastro. Ma il pericolo faceva parte dell'efficacia del rito. Sapeva che se qualcosa fosse an dato storto avrebbe perduto tutto. I successi monumentali degli ulti mi giorni, la predilezione del padre e la superiorità nei confronti dei fratelli sarebbero stati cancellati. Il rischio era enorme, proporzionato alla gratificazione effimera che avrebbe raggiunto. Forse era l'impulso del giocatore d'azzardo che amoreggia con l'autodistruzione. Dopo ogni episodio promette va a se stesso che non avrebbe più ceduto a quella pazzia, ma la ten tazione si rivelava sempre troppo forte, soprattutto in momenti co me quello. Appena entrò nel suo appartamento la moglie gli preparò il tè e chiamò i figli perché gli rendessero omaggio. Deng parlò per qual che istante e prese sulle ginocchia il figlio minore; ma era distratto e li congedò quasi subito. I bambini se ne andarono con evidente sol lievo. Quegli incontri formali erano un peso per tutti. Deng non ci sapeva fare con i bambini, neppure con i suoi. « Mio padre mi ha scelto per andare nell'Ubomo », annuncio al la moglie. « E un grande onore », disse lei. « Ti faccio i miei rallegramenti. Quando partiremo? » « Andrò solo », disse Deng; vide l'espressione di sollievo negli occhi della moglie e s'infastidì perché non cercava di nasconderlo. « Naturalmente ti manderò a chiamare non appena mi sarò organiz zato. » Lei abbassò gli occhi. « Aspetterò. » Ma Deng non riusciva a badarle. L'eccitazione gli turbinava nella mente. « Ora riposerò per unsora. Non voglio essere disturbato. Poi do vrò andare in città. Ho molto da fare prima della partenza. Stanotte non tornerò; probabilmente mi fermerò nell'appartamento di Tun hua Road. Ti manderò un messaggio prima di tornare. » Quando fu solo nella sua stanza afferrò il telefono. Lo mise sul tavolo e lo fissò, ripetendo fra sé ogni parola che avrebbe detto. Ansimava come se avesse salito, correndo, le scale. Le dita gli tre mavano un po' quando lo prese. L'apparecchio era munito di uno speciale rimescolatore: era impossibile intercettare le comunicazioni e rintracciare il numero che stava componendo. Pochissime persone conoscevano quel numero. Una volta lei gli aveva detto di averlo dato soltanto a sei dei suoi clienti più impor tanti. Rispose al secondo squillo e riconobbe subito la voce. Lo sa lutò con il nome in codice che gli aveva assegnato. « Non è venuto a farmi visita per quasi due anni, Uomo della Montagna Verde. » « Sono stato via. » « Sì, lo so. Ma ho sentito la sua mancanza. » « Vorrei venire stanotte. » « Vuole il trattamento speciale? » « Sì. » Deng sentì lo stomaco contrarsi a quel pensiero. Era so
praffatto dalla paura, dal disgusto e dall'eccitazione. « Il preavviso è molto breve », disse la donna. « E il prezzo è sa lito dopo la sua ultima visita. » « Il prezzo non ha importanza. Può provvedere? » Deng avver tiva la forzatura della propria voce. La donna taceva, volutamente. Deng provava l'impulso di urlare. Poi lei disse: « E fortunato ». Il tono cambiò, divenne oscenamente sommesso e viscido. « Mi è arri vata merce nuova. Posso offrirle una scelta fra due esemplari. » Deng deglutì e si schiari la gola prima di ritrovare la forza per chiedere: « Giovani? » « Giovanissime. Tenere. Intatte. » « Quando sarà pronta? » « Stasera alle dieci. Non prima. » « Nel padiglione sul mare? » chiese Deng. « Sì. L'aspetteranno al cancello. Alle dieci », ripeté la donna. « Né prima né dopo. » Deng prese la macchina e andò in Tunhua Road. Era il quar tiere più prestigioso della città e l'appartamento costava molto ca ro; ma era pagato dalla Lucky Dragon. Lasciò la Porsche nel garage sotterraneo e salì con l'ascensore all'ultimo piano. Quando ebbe finito di fare la doccia e di cambiar si erano soltanto le sei. Aveva tutto il tempo per prepararsi. Uscì a piedi e si avviò in Tunhua Road. Amava il renao di Tai pei: era una delle cose di cui più sentiva la mancanza quando era lontano. Renao era un concetto quasi impossibile da tradurre dal cinese in un'altra lingua. Significava festoso, vivace, allegro e ru moroso. Era il mese degli spettri, il settimo mese lunare, quando gli spet tri ritornano dall'inferno per infestare la terra e bisogna placarli con doni in denaro e cibi. Ed era necessario tenerli lontani con fuo chi d'artificio e processioni del drago. Deng si fermò per ridere e applaudire una delle processioni guidate da un drago mostruoso con un enorme muso di cartapesta e cinquanta paia di gambe umane sotto il corpo serpentino. I petar di esplodevano con sprazzi di fumo azzurro intorno alle caviglie de gli spettatori; i musicisti suonavano i tamburi e i gong e i bambini strillavano. Era un magnifico renao che ingigantiva l'eccitazione di Deng. Prosegui tra la folla animata fino a quando raggiunse il quartie re dell'East Garden e lasciò la strada principale per addentrarsi in un vicolo. Deng si serviva di quell'indovino da dieci anni. Era un vecchio con i radi capelli grigi e un grosso neo come quello di Heng H'Sui. Portava vesti tradizionali e il copricapo dei mandarini, e sedeva a gambe incrociate nel cubicolo, circondato dagli strumenti della sua arte. Deng lo salutò rispettosamente e, quando fu invitato a farlo, sedette di fronte a lui. « Non si è fatto vedere per molto tempo », disse il vecchio in to no d'accusa, e Deng si scusò. « Sono stato lontano da Taivvan. » Discussero il compenso e la divinazione che Deng desiderava. « Sto per intraprendere un compito », spiegò Deng. « Vorrei avere la guida degli spiriti. » Il vecchio annui e consultò gli almanacchi e le guide stellari, mormorando fra sé. Finalmente porse a Deng una ciotola di cera mica piena di pezzetti di bambù. Deng li scosse vigorosamente e li rovesciò sulla stuoia che ave va davanti. Ogni pezzetto di bambù recava caratteri ed emblemi di pinti. Il vecchio studiò il modo in cui erano caduti. « Questo compito non sarà intrapreso qui a Taivvan ma in una terra oltre l'oceano », disse. Deng si rilassò un poco. Il vecchio non aveva perduto le sue facoltà. Annui per incoraggiarlo.
« E un compito molto complesso, e vi sono coinvolti molti indi vidui. Forestieri, diavoli stranieri. » Deng annui di nuovo. « Vedo alleati potenti, ma anche potenti nemici che si opporran no a lei. » « Conosco i miei alleati, ma non so chi saranno i miei nemici », disse Deng. « Conosce il suo nemico. Si è già opposto a lei, e in quell'occa sione è stato sconfitto. » « Può descriverlo? » L'indovino scosse la testa. « Lo riconoscerà quando lo vedrà di nuovo. » « Quando? » « Non dovrebbe viaggiare durante il mese degli spettri. Deve prepararsi qui a Taivvan. Parta il primo giorno dell'ottavo mese lu nare, non prima. » « Sta bene. » Questo si accordava con i progetti di Deng. « Sconfiggerò ancora una volta quel nemico? » « Per rispondere a questa domanda sarà necessaria un'altra divi nazione », bisbigliò il vecchio e Deng fece una smorfia per quel trucco che mirava a raddoppiare il compenso. « Sta bene », disse. L'indovino rimise i pezzetti di bambù nella ciotola. Deng li agitò e li rovesciò sulla stuoia. « Ora i nemici sono due. » Il vecchio prese due bastoncini dal mucchio. « Uno è l'uomo che conosce, l'altro una donna che non ha ancora incontrato. Si opporranno insieme alle sue iniziative. » « Li batterò? » chiese Deng in tono ansioso. Il vecchio esaminò con attenzione la posizione dei pezzetti di bambù. « Vedo una montagna ammantata di neve e una grande foresta. Questo sarà il campo di battaglia. Ci saranno spiriti maligni e de moni... » La voce dell'indovino si smorzò. Prese dal mucchio un al tro bastoncino. « Che altro vede? » insistette Deng, ma il vecchio tossi, sputò e non lo guardò in faccia. Il pezzetto di bambù era dipinto di bianco, il colore della morte e del disastro. « E tutto. Non vedo altro », mormorò. Deng prese dalla tasca un biglietto da mille dollari di Taivvan e lo posò accanto al mucchietto. « Vincerò i miei nemici? » chiese. La banconota spari sotto le di ta ossute del vecchio. « Acquisirà un grande prestigio », assicurò l'indovino, ma conti nuò a non guardarlo negli occhi. Deng usci dal chiosco, sconcerta to dalla risposta ambigua. Aveva più che mai bisogno di consola zione, ma erano le otto passate da poco. La donna gli aveva detto di non presentarsi prima delle dieci. Il vicolo del Serpente non era lontano, ma lungo il percorso Deng si fermò nel cortile del tempio della Montagna del Drago e bruciò un mucchio di denaro in una delle fornaci sgargianti con lo scopo di placare gli spettri ancestrali che si aggiravano nella notte intorno a lui. Lasciò il tempio e attraversò il mercato notturno dove i vendito ri offrivano un sorprendente assortimento di oggetti e le prostitute svolgevano la loro attività nelle baracche di legno. I bottegai e le donne pesantemente truccate mercanteggiavano a gran voce con i potenziali clienti, e gli spettatori partecipavano alla scena con com menti, consigli e risate. Era un vero renao e Deng si sentiva risol levato. Entrò nel vicolo del Serpente. I negozi she si succedevano uno dopo l'altro e, davanti a ogni chiosco, c'erano gabbie di reti metal liche; le vetrine erano piene di grossi e colorati serpenti che davano il nome alla strada. Molti negozi avevano una mangusta viva legata a guinzaglio da vanti alla porta. Deng si fermò ad assistere a una battaglia fra uno
dei piccoli, agili predatori e un cobra lungo almeno un metro e ven ti. Il cobra si erse per fronteggiare la mangusta e la folla accorse gridando di gioia. Con il cappuccio esteso, il cobra ondeggiava co me un fiore sullo stelo e seguiva con lo sguardo la mangusta che gli girava intorno. La bifida lingua nera dardeggiava e captava nell'a ria l'odore dell'avversaria. La mangusta si accostò saltellando e schizzò indietro quando il cobra si avventò. Per un istante il ser pente rimase sbilanciato, e la mangusta scattò per ucciderlo. Affer rò con i denti acuminati la nuca squamosa e strinse con forza. Il corpo del serpente sferzò l'aria e si torse convulsamente. Il padrone del negozio she separò la mangusta dalla vittima e portò all'interno il rettile che si contorceva ancora, seguito da due o tre clienti sma niosi. Deng non andò con loro. Aveva un negozio she di sua filducia, e voleva un tipo particolare di serpente, il più raro, il più costoso e il più efficace. Il dottore dei serpenti lo riconobbe tra i curiosi che affollavano il vicolo. La sua bottega era famosa. Non aveva bisogno di inscena re combattimenti con le manguste per attirare i clienti. Sorrise, s'in chinò e fece accomodare Deng nel retrobottega, nascosto agli oc chi del pubblico da una tenda. Non era necessario che Deng spiegasse cosa voleva. Il nego ziante lo conosceva bene da molti anni. Deng gli aveva assicurato una fornitura dei serpenti africani più velenosi, tramite Chetti Singh, e aveva addirittura effettuato la prima consegna per mezzo del corriere diplomatico, esigendo, ovviamente, una percentuale per ogni carico. Inoltre, Deng lo aveva convinto a vendere anche rari uccelli africani; era sempre Chetti Singh a fornirli, e il traffico rendeva or mai un quarto di milione di dollari americani ogni anno. In Europa e in America c'erano molti collezionisti pronti a pagare somme enormi per una coppia di jabiru o di ibis calvi. I pappagalli africa ni, sebbene non fossero variopinti come quelli sudamericani, erano egualmente molto richiesti. Chetti Singh provvedeva a fornirli, e Deng incassava una percentuale anche su quelli. Ma la principale fonte di reddito del dottore dei serpenti era an cora la fornitura di rettili velenosi. Più erano velenosi, e più erano apprezzati dai gentiluomini cinesi dall'incerta potenza virile. Il mamba africano era sconosciuto a Taivvan e nella Cina continentale prima che Chetti Singh effettuasse la spedizione iniziale. Adesso erano i più apprezzati dell'isola, e spuntavano prezzi fino ai duemi la dollari l'uno. Il dottore dei serpenti aveva un esemplare magnifico pronto in una gabbia di rete metallica sul tavolo d'acciaio inossidabile e, pri ma di avvicinarsi, infilò un paio di guanti alti fino al gomito: una precauzione che non avrebbe preso se avesse dovuto maneggiare un cobra. Socchiuse lo sportello scorrevole della gabbia e infilò all'interno un'asta biforcuta d'acciaio. Bloccò con destrezza la testa del mam ba, che sibilò e si avvolse intorno all'asta. Il dottore dei serpenti aprì completamente la gabbia e afferrò il mamba per la testa, strin gendo pollice e indice dietro le protuberanze del cranio, in modo che non potesse liberarsi. Nel momento in cui allentò la pressione dell'asta biforcuta, il serpente gli si avvolse intorno all'avambraccio. Era lungo più di un metro e ottanta ed era inferocito; sfoderava tutta la sua forza per liberare la testa, ma il dottore dei serpenti continuava a stringerlo. Le fauci del mamba si aprirono, le corte zanne si ersero nella bocca molle e mucosa. Il veleno trasparente sgocciolò nei canali aperti e cadde dalle punte come rugiada dalle spine di una rosa. Il dottore dei serpenti gli appoggiò la testa su una piccola incu dine e gli schiacciò il cranio con un colpo secco d'un mazzuolo di legno. Il corpo del mamba si agitò furiosamente nelle convulsioni
della morte. Deng rimase ad assistere, impassibile, mentre il dottore dei ser penti appendeva a un gancio il corpo sussultante, apriva la cavità ventrale con un rasoio e versava il sangue in un comune bicchiere di vetro. Con la destrezza d'un chirurgo, estrasse poi le sacche veleni fere dal collo del mamba e le mise in una ciotola; poi tolse il fegato e la vescicola della bile e li mise in un'altra scodellina. Scuoiò il serpente: fece un taglio rotondo intorno al collo con il rasoio e tolse la pelle come una calza di nylon dalla gamba di una donna. Il corpo nudo era roseo e lucido. Il dottore dei serpenti lo staccò dal gancio e lo posò sul tavolo. Con mezza dozzina di colpi lo fece a pezzi e li buttò in un paiolo che bolliva su un fornello a gas. Aggiunse erbe e spezie e intonò un incantesimo che era rimasto immutato dal tempo della dinastia Han, duecento anni prima di Cristo, quando i primi dottori dei serpenti avevano messo a punto la loro arte. Mentre la carne bolliva, l'uomo si girò verso il tavolo. Mise bile e fegato in un piccolo mortaio e li ridusse in poltiglia con un pestel lo di ceramica. Finalmente alzò lo sguardo verso Deng con aria in terrogativa. « Vuole prendere il succo di tigre? » chiese. Era una domanda retorica. Deng beveva sempre il veleno. Anche questo faceva parte del brivido: giocare con la morte. Sarebbe bastato che avesse una minuscola vescica nelle gengive o un graffio sulla lingua, una scalfittura nella gola o una piccola lace razione nelle viscere, un'ulcera gastrica o duodenale perché il vele no del mamba l'uccidesse in pochi minuti fra atroci dolori. Il dottore dei serpenti aggiunse nel mortaio le sacche trasparenti del veleno e le pestò insieme col fegato. Poi versò la poltiglia nel bicchiere di sangue scuro e, mentre mescolava, aggiunse qualche goccia di liquido da altre tre bottiglie. L'intruglio era torbido e denso come melassa. Porse il bicchiere a Deng. Deng respirò profondamente e tracannò il liquido in una sorsa ta. Era amaro come il fiele. Posò il bicchiere vuoto sul piano del tavolo e incrociò le mani. Rimase seduto senza tradire la minima emozione, mentre il dottore dei serpenti recitava gli incantesimi del libro magico. Se il veleno non l'avesse ucciso, Deng sapeva che la pozione avrebbe armato la sua virilità. Avrebbe trasformato il suo pene flaccido in una lancia d'acciaio, i suoi testicoli in palle da cannone. Attese in silenzio i primi sintomi dell'avvelenamento. Dopo dieci minuti non avvertì alcun effetto sgradevole; ma il pene fremeva e già si ergeva parzialmente. Si mosse un poco per fargli spazio nei pantaloni, e il dottore dei serpenti annuì e sorrise, felice di consta tare che la terapia era riuscita. Andò a prendere il paiolo dal fornello e versò un po' del liquido in una ciotola da riso, quindi aggiunse un pezzo di carne del mam ba, bianca e quasi sfatta. Porse a Deng la ciotola e un paio di bac chette d'avorio. Deng mangiò la carne e bevve il brodo; quando ebbe finito, accettò una seconda ciotola. Infine ruttò rumorosamente per mani festare il suo apprezzamento, e anche questa volta il dottore dei serpenti annuì e sorrise. Deng consultò l'orologio. Erano le nove. Si alzò e s'inchinò. « Grazie per l'assistenza », disse in tono cerimonioso. « E un onore che i miei umili sforzi le siano graditi. Le auguro una spada d'acciaio e molte ore felici nel fodero di velluto. » Non parlarono del pagamento. Il dottore dei serpenti avrebbe fatto una deduzione dalla percentuale di Deng sulla prossima spe dizione di serpenti e uccelli africani. Deng si affrettò a tornare al palazzo in Tunhua Road. Sedette al volante della Porsche e per qualche minuto si godette la sensazio
ne piena dell'erezione prima di accendere il motore e di uscire dal garage. Impiegò quaranta minuti per arrivare al padiglione sul mare. Il giardino era cinto da un alto muro sovrastato da piastrelle di cera mica su ogni lato, tranne dalla parte del mare. Le lanterne di carta colorata erano appese al cancello. Sembrava l'ingresso di un giardi no dei piaceri o di una fiera. Deng sapeva che le lanterne erano state accese apposta per lui. I guardiani erano stati preavvertiti del suo arrivo e non lo fer marono. Deng andò a parcheggiare sul promontorio roccioso. Chiuse a chiave la porta e per un momento indugiò ad aspirare l'o dore del mare. C'era una lancia a motore ormeggiata al molo pri vato: sarebbe stata necessaria più tardi. Deng sapeva che tra meno di due ore la lancia avrebbe navigato dove l'acqua era profonda mille metri, sopra gli abissi del mar Cinese orientale. Un oggetto zavorrato, per esempio un corpo umano, gettato in quel punto sa rebbe disceso fino al limo primordiale del fondo e non sarebbe mai stato recuperato. Deng sorrise. L'erezione si era abbassata di po chissimo. Raggiunse il padiglione: anche quello era tradizionale e ricorda va a Deng la casa tra i salici che fregiava i piatti di porcellana blu. Un servitore lo ricevette alla porta, lo condusse in una stanza e gli servì il tè. Alle dieci in punto la donna entrò, varcando la tenda di perline. Era snella come un ragazzo nell'aderente tunica di broccato con i pantaloni di seta. Deng non era mai riuscito a indovinare la sua età, perché era truccata come una cantante dell'Opera di Pechino. Gli occhi a mandorla erano contornati di nero, le palpebre e le guance erano imbellettate di quel color carminio che i cinesi trova vano così attraente. La fronte e il naso erano bianchi come la cene re, le labbra di uno scarlatto intenso. « Benvenuto nella mia casa, Uomo della Montagna Verde », dis se in tono lezioso, e Deng s'inchinò. « Sono onorato, Fiore di Mirto. » La donna sedette su un sofà accanto a Deng. Conversarono educatamente fino a che Deng indicò la borsa di finta pelle che aveva posato sul tavolino. La donna parve notarla per la prima volta ma non si degnò di toccarla. Inclinò la testa, e la sua assistente entrò a passi silenziosi. Doveva averli spiati dietro la tenda di perline. Uscì di nuovo, senza far rumore, e portò via la borsa. Impiegò pochi minuti per contare il denaro e metterlo al sicuro. Poi tornò e s'inginocchiò accanto alla padrona. Si scambiarono un'occhiata. Il prezzo pattuito era stato pagato. « Ha detto che posso scegliere fra due? » chiese Deng. « Sì », disse la donna. « Ma vuole prima assicurarsi che la stanza sia di suo gusto e che l'equipaggiamento sia in ordine? » Condusse Deng nella stanza speciale in fondo al padiglione. Il mobile centrale era un lettino da ginecologo completo di staf fe. C'era un telo di plastica che si poteva togliere e distruggere do po l'uso, e c'era un lenzuolo, sempre in plastica, pronto sul pavi mento. Le pareti e il soffitto erano rivestiti di piastrelle lavabili. Come una sala operatoria, poteva venire pulita e sterilizzata. Deng si accostò al tavolo dov'erano allineati gli strumenti. C'e rano corde di seta di lunghezza e spessore diversi, allineate sul vas soio. Ne prese una e la fece scorrere fra le dita. L'erezione, che si era un po' afflosciata, riprese forza. Poi rivolse l'attenzione agli al tri oggetti, una serie completa di strumenti ginecologici di acciaio inossidabile. « Molto bene », confermò. « Venga », disse la donna, e gli prese la mano. « Ora può sce gliere. » Lo condusse a una finestrella nel muro di fondo. Si fermarono
tenendosi per mano e guardarono attraverso il finto specchio. Dopo pochi istanti l'assistente fece entrare due ragazzine. Erano vestite di bianco; nella tradizione cinese, il bianco era il colore della morte. Avevano lunghi capelli neri e graziosi visetti scuri e rinca gnati. Cambogiane o vietnamite, pensò Deng. « Chi sono? » chiese. « Appartengono al boat people », rispose la donna. « La loro barca è stata catturata dai pirati nel mar Cinese meridionale. Tutti gli adulti sono stati uccisi. Sono orfane, senza nome e senza posi zione. Nessuno sa che esistono; nessuno sentirà la loro mancanza. » L'assistente cominciò a spogliare le due bambine. Lo fece abil mente, solleticando lo spettatore nascosto come un'artista dello strip-tease. Una delle ragazzine aveva almeno quattordici anni. Quando fu nuda, Deng vide che aveva i seni colmi e un cespuglio scuro di pe lo pubico; ma l'altra era appena adolescente. I seni erano boccioli e la lanugine sul pube non nascondeva la fessura dei genitali. « La più giovane! » mormorò Deng con voce roca. « Voglio la più giovane. » « Sì », disse la donna. « Immaginavo che l'avrebbe scelta. Gliela porteranno fra pochi minuti. Può impiegare tutto il tempo che vor rà. Non c'è fretta. » Uscì, e all'improvviso la musica scatun dagli altoparlanti nasco sti. Era una fragorosa musica cinese con gong e tamburi che avreb be coperto ogni altro suono, anche le urla di una bambina.
I coloni dell'epoca vittoriana avevano costruito la Govemment House dell'Ubomo su di un'altura affacciata sul lago e l'avevano circondata di prati e alberi esotici importati dall'Europa perché ri cordassero loro la patria. Di sera, la brezza scendeva dai Monti del la Luna a occidente; portava il ricordo dei ghiacciai e delle nevi eterne e attenuava il caldo. La Govemment House era ancora come all'epoca coloniale, non più pretenziosa di un comodo ranch di mattoni con i soffitti al ti, circondata su ogni lato da una vasta veranda protetta dalle zan zariere. Victor Omeru l'aveva conservata così. Non voleva spendere denaro in grandiosi edifici pubblici mentre il suo popolo viveva nel l'indigenza. Gli aiuti che aveva ricevuto dall'America e dall'Europa erano stati devoluti interamente all'agricoltura, alla sanità e all'i struzione, non al suo lusso personale. Quella sera, le verande e i prati erano affollati quando Daniel Armstrong e Bonny arrivarono con il Land Rover militare che era stato messo a loro disposizione. Un caporale hita in tuta mimetica, con un mitra appeso alla spalla, indicò loro di parcheggiare fra altri due veicoli con le targhe del corpo diplomatico. « Come ti sembro? » chiese ansiosa Bonny mentre si controllava il rossetto nello specchietto retrovisore. « Sexy », rispose sincera mente Daniel. Si era acconciata i capelli in una grande criniera ros sa e indossava una minigonna verde, aderente e cortissima. Sebbene fosse una ragazza imponente, aveva uno splendido paio di gambe. « Dammi una mano. Accidenti alla gonna! » Il Land Rover era alto, e la gonna si sollevò ancora di più quando Bonny scese, met tendo in mostra per un attimo un paio di mutandine di pizzo che fecero trasalire il caporale. C'erano riflettori montati sugli jacaranda e una banda militare suonava musica jazz con un tipico ritmo africano che sollevò lo spi rito di Daniel e diede elasticità al suo passo. « Tutto in tuo onore », rise Bonny. « Scommetto che Taffari lo dice a tutti gli ospiti. » Il capitano Kajo, che li aveva ricevuti all'aeroporto, andò loro incontro non appena entrarono nel prato. Sebbene guardasse le gambe di Bonny da venti passi di distanza, si rivolse a Daniel.
« Ah, dottor Armstrong, il presidente ha chiesto di lei. Stasera è l'ospite d'onore. » Li condusse sulla veranda. Daniel individuò subito il presidente Taffari, anche se gli voltava le spalle. Era il più alto, tra tutti gli ufficiali hita. Indossava una giacca militare marrone, un modello ideato da lui, ed era a testa scoperta. « Signor presidente. » Il capitano Kajo lo chiamò con deferenza, e Taffari si voltò con un sorriso, mettendo in mostra le medaglie che gli decoravano il petto. « Posso presentarle il dottor Daniel Armstrong e la sua assistente, la signorina Mahon? » « Dottore! Ammiro moltissimo i suoi lavori, non avrei potuto scegliere persona più qualificata per mostrare al mondo il mio Pae se. Finora siamo stati tenuti nell'oscurantismo e nell'isolamento medievali dal vecchio tiranno reazionario che abbiamo rovesciato. E tempo che l'Ubomo prenda il suo posto. Lei ci aiuterà, dottore. Ci aiuterà a portare nel ventesimo secolo il mio amato Paese vol gendo l'attenzione del mondo su di noi. » « Farò tutto il possibile », gli assicurò cautamente Daniel. Seb bene l'avesse visto in fotografia, non era preparato all'eloquenza e alla presenza di Taffari. Era un uomo che irradiava forza e sicurez za, più alto di Daniel di tutta la testa, e aveva il viso di un faraone egizio scolpito nell'ambra. Il suo sguardo si staccò da Daniel e si posò su Bonny Mahon. Lei lo ricambiò sfrontatamente e si inumidì il labbro inferiore con la punta della lingua. « E lei si occupa della fotografia. Sir Peter Harrison mi ha man dato una registrazione del suo Sogno dell'Artico. Se fotograferà l'Ubomo con la stessa partecipazione, ne sarò veramente felice, si gnorina Mahon. » Le guardò il seno, le lentiggini dorate che lasciavano il posto a una stretta fascia di pelle nivea e perfetta al di sopra della scollatu ra dell'abito verde. L'infossatura fra i seni era profonda e marcata. « E molto gentile, signor presidente », disse Bonny e Taffari rise. « Nessuno mi ha mai definito 'gentile' », confessò divertito, poi cambiò argomento. « Cosa pensa finora del mio Paese? » « Siamo arrivati oggi », osservò Bonny. « Ma il lago è incantevo le e la gente è così alta, gli uomini così belli. » Lo disse come un complimento personale. « Gli hita sono alti e belli », la corresse Taffari. « Ma gli uhali sono piccoli e brutti come scimmie. Anche le donne. » Gli ufficiali hita che gli stavano intorno risero e Bonny deglutì, scandalizzata. « Nel posto da dove vengo non si parla con disprezzo di altri gruppi etnici. Viene definito razzismo ed è fuori moda. » Taffari la fissò per un momento. Senza dubbio non era abituato a sentirsi contraddire. Poi sorrise, un sorrisetto freddo. « Ecco, si gnorina Mahon, in Africa noi diciamo la verità. Se qualcuno è brutto o stupido, lo diciamo. Viene definito tribalismo e le assicuro che è di gran moda. » Gli ufficiali risero fragorosamente e Taffari si rivolse di nuovo a Daniel. « La sua assistente è una donna dalle convinzioni energiche, dot tore, ma mi sembra che lei sia nato in Africa, quindi penso che possa comprendere meglio: lo si vede dal suo lavoro. Ha puntato il dito sui problemi del continente, e la miseria è il più terribile L'A frica è povera, dottore, è passiva e supina. Io intendo cambiare tut to ciò. Intendo dare al mio paese lo spirito e la fiducia necessari per sfruttare le nostre ricchezze naturali e sviluppare la forza e la genia lità innata del nostro popolo. Voglio che lei documenti le nostre imprese. » Gli ufficiali, che indossavano tutti giacche militari marrone, ap plaudirono quell'uscita. « Farò del mio meglio », promise Daniel.
« Ne sono sicuro, dottor Armstrong. » Taffari guardava di nuo vo Bonny, ma continuò a parlare a Daniel. « Stasera c'è qui l'am basciatore britannico, e sono sicuro che vorrà salutarlo. » Chiamò Kajo con un cenno. « Capitano, accompagni il dottor Armstrong da sir Michael. » Bonny si mosse per seguire Daniel, ma Taffari la trattenne toc candole il braccio. « Non se ne vada, signorina Mahon. Ci sono al cune cose che vorrei spiegarle, per esempio le differenze fra gli uha li e gli alti, bellissimi hita che ammira tanto. » Bonny si voltò, sporse un fianco con una mossa provocante e incrociò le braccia sotto i seni, sollevandoli come se volesse farli schizzare fuori dell'abito verde. « Non deve giudicare l'Africa se condo i criteri dell'Europa », disse Taffari. « Qui facciamo le cose in modo diverso. » Con la coda dell'occhio Bonny vide che Daniel aveva lasciato la veranda e seguiva Kajo sul prato, nella luce dei riflettori. Si tese verso Taffari e lo guardò negli occhi. « Bene ! » disse. « Ho sempre cercato modi nuovi e diversi. » In quel momento Daniel si fermò ai piedi della scala e sorrise quando riconobbe una figura ben nota in mezzo al prato affollato. Poi si avvicinò tendendo la mano. « Sir Michael, caspita! Ambasciatore britannico, nientemeno. Ah, furbacchione! Quando è successo? » Michael Hargreave gli strinse il gomito in uno slancio di amici zia poco britannico e poco diplomatico. « Non hai ricevuto la mia lettera? E stata una cosa improvvisa. Mi hanno trascinato via da Lusaka in un batter d'occhio. Sua maestà mi ha battuto la spada sulle spalle: 'Si alzi, sir Michael', e tutto il resto. Poi mi hanno spe dito qui. Ma hai ricevuto la mia lettera? » Daniel scosse la testa. « Congratulazioni, sir Michael. Era ora. L'avevi meritato. » Hargreave gli lasciò la mano, un po' imbarazzato. « Perché non hai un bicchiere pronto, vecchio mio? Non toccare il whisky. E di produzione locale. Sono convinto che in realtà sia piscio di cocco drillo. Prova il gin. » Chiamò il cameriere. « Non capisco perché non hai ricevuto la mia lettera. Ho cercato di telefonarti all'appar tamento di Londra ma non ha risposto nessuno. » « Dov'è Wendy? » « E tornata a Lusaka a fare i bagagli. Il mio sostituto ha pro messo di badare al tuo Land Rover e al resto. Wendy arriverà fra un paio di settimane. A proposito, ti abbraccia. » « Sapeva che mi avresti incontrato qui? » Daniel era sorpreso. « Tug Harrison ci ha fatto sapere che saresti venuto nell'U bomo. » « Conosci Harrison? » « Tutti, in Africa, conoscono Tug. Ha le mani in pasta in quasi tutte le torte. Mi ha chiesto di tenerti d'occhio. Mi ha parlato della tua missione. Dovrai filmare Taffari e far fare bella figura a lui e alla BOSS. E quanto mi ha detto. Giusto? » « E un po' più complicato, Mike. » « Come se non lo sapessi! Ci sono complicazioni che neppure immagini... » Hargreave condusse Daniel in un angolo deserto del prato, lontano dagli altri invitati. « Ma, innanzi tutto, cosa pensi di Taffari? » « Non comprerei da lui una macchina di seconda mano senza controllare le gomme. » « Controlla anche il motore, già che ci sei. » Michael sorrise. « Tutto fa sospettare che, in confronto a lui, Idi Amin Dada finirà per essere considerato una specie di Madre Teresa di Calcutta. Ho visto che ti ha tenuto un breve pistolotto molto lirico sui suoi piani per la pace e la prosperità di questa terra. » « E stato un pistolotto abbastanza lungo. » « In pratica i suoi piani prevedono la pace per gli hita, la pro
sperità per Ephrem Taffari, e al diavolo gli uhali. I miei amici del l'M15 dicono che ha già conti numerati in Svizzera e nelle Isole del la Manica, grazie agli aiuti americani. » « La cosa non dovrebbe sorprenderti. Lo fanno tutti, no? » « Sì, devo ammetterlo. Ma è una vera carogna con gli uhali. Ha fatto fuori il vecchio Victor Omeru, che era un tipo onesto, e ades so prende a calci l'intera tribù. Corrono brutte voci, molto brutte. Noi non approviamo. Persino il primo ministro è già disgustato, e questo mi fa ricordare che ho notizie di un tuo amico. » « Un mio amico? » « La Lucky Dragon. Ti dice niente, eh? E non indovinerai mai chi mandano a dirigere l'operazione da queste parti. » « Ning Deng Kong », disse Daniel a voce bassa. Doveva essere così. Era venuto nell'Ubomo per questa ragione. L'aveva intuito. Era lì che avrebbe ritrovato Deng. « Hai letto la mia posta! » disse Michael in tono d'accusa. « Sì, proprio Ning Deng Kong. Arriverà la settimana prossima, e Taf fari darà un'altra festa di benvenuto. Ogni scusa è buona per il no stro Ephrem: persino tu. » S'interruppe e fissò Daniel. « Ti senti be ne, amico? Prendi gli antimalarici? Sei diventato pallido come un lenzuolo. » « No, sto benissimo. » Ma la voce di Daniel era roca. Aveva una terribile visione della stanza da letto a Chiwewe, con i corpi marto riati di Mavis Nzou e delle sue figlie. Era sconvolto, nauseato. Vo leva pensare a qualcosa d'altro... qualunque cosa che non fosse Ning Deng Kong. « Dimmi tutto ciò che devo sapere di Taffari e dell'Ubomo », chiese a Michael. « Non è uno scherzo, caro mio. Posso solo darti le linee genera li, ma se verrai all'ambasciata ti darò informazioni complete e ti permetterò di dare un'occhiatina a certi dossier. Riservatissimi. Ho persino un paio di bottiglie di Chivas autentico. » Daniel scosse la testa. « Domani andremo sulla riva del lago per incominciare le riprese. Taffari ci ha messo a disposizione l'intera Marina: una vecchia motovedetta della seconda guerra mondiale. Comunque potrei venire all'ambasciata domani sera. » Quando venne il momento di andare, Daniel cercò Bonny Ma hon ma non riuscì a trovarla. Vide il capitano Kajo al bar in com pagnia di un gruppo di ufficiali e lo raggiunse. « lo vado, capitano Kajo. » « Bene, dottore. Il presidente Taffari è già andato via. Può an dare anche lei. » Era facile capire che Kajo era ubriaco: bastava guardarlo negli occhi: erano velati da una nebbia color caffè. Se fosse stato un bianco, li avrebbe avuti iniettati di sangue. « Ci vediamo domattina, capitano? A che ora? » « Alle sei alla foresteria, dottore. Verrò a prenderla. Non dob biamo arrivare in ritardo: la Marina ci starà aspettando. » « Ha visto la signorina Mahon? » chiese Daniel. Un altro uffi ciale hita rise, e Kajo sogghignò. « No, dottore. Prima era qui. Ma è un'ora che non si vede. De v'essere andata via. Sì, ora che ci penso l'ho vista andare. » Kajo si voltò e Daniel si sforzò di non avere un'aria troppo seccata mentre entrava nel parcheggio per prendere il Land Rover. La foresteria era immersa nel buio quando si fermò ai piedi del la veranda. Bonny poteva essere a letto, già addormentata. Anche se aveva cambiato opinione su di lei provò una fitta di delusione quando accese la luce nella stanza e vide che i servitori avevano si stemato i letti e preparato le zanzariere. Bonny gli aveva dato una ragione per farla finita... perché non era più soddisfatto di quella prospettiva? Aveva bevuto abbastanza gin di produzione locale per farsi ve nire il mal di testa. Prese la borsa di Bonny ai piedi del letto e la portò nella seconda camera. Poi andò in bagno, infilò i cosmetici e
gli articoli da toeletta nella sacca di spugna e li buttò nel lavabo della seconda stanza, in fondo al corridoio. Mise la testa sotto l'ac qua fredda e prese tre compresse di Anadin. Buttò gli indumenti sul pavimento e s'infilò, nudo, sotto la zanzariera. Si svegliò quando la luce di un paio di fari sciabolò attraverso le tende sulla parete dietro il letto. Le gomme stridettero sulla ghiaia del viale. Ci fu un suono di voci, poi una portiera sbatté e il veicolo ripartì. Daniel sentì Bonny salire i gradini della veranda ed entrare nella foresteria. Un minuto più tardi la porta della camera si aprì furtivamente. Daniel accese la lampada sul comodino, e Bonny si fermò di colpo. Reggeva le scarpe con una mano e la borsetta con l'altra. I capelli erano scarmigliati e brillavano nella luce come fili di rame, mentre il rossetto era impiastricciato sul mento. Bonny rise, e Daniel si accorse che era ubriaca. « Hai idea del rischio che corri, cretina? » le chiese rabbiosamen teZ « Siamo in Africa. Ti beccherai l'AIDs. » « Ah, ah! Siamo gelosi, vero? Come puoi sapere che cosa ho fatto, tesoro? » « Non è un gran segreto. Alla festa lo sapevano tutti. Hai fatto quel che fa ogni brava puttanella. » Bonny gli sferrò un ceffone, mirando alla testa. Daniel lo schi vò, e lo slancio la portò fino al letto. Si tirò addosso la zanzariera e cadde. La minigonna si sollevò fino alla vita. Le natiche erano nu de e bianche come uova di struzzo. « A proposito », disse Daniel, cchai lasciato le mutandine da Ephrem. » Bonny si sollevò sulle ginocchia e abbassò la gonna. « Sono nella borsetta, cocco. » Si alzò in piedi barcollando. « Dove diavolo hai messo la mia roba? » « In camera tua. La tua nuova camera in fondo al corridoio. » Bonny scattò. « E questo che vuoi? » « Non penserai che voglia gli avanzi di Ephrem, per caso? » Da niel cercò di mantenere un tono ragionevole. « Su, vattene da brava puttana. » Bonny raccattò la borsetta e le scarpe e andò alla porta. Poi si voltò, vacillando, con la dignità degli ubriachi. « E proprio vero quello che dicono », dichiarò con aria di soddi sfazione vendicativa. « Sono grossi. Più grossi e più divertenti di te! » E sbatté la porta. A colazione, Daniel stava bevendo la seconda tazza di tè quan do Bonny comparve sulla veranda e, senza salutarlo, sedette a tavo la di fronte a lui. Indossava la solita uniforme da lavoro, jeans stinti e top di de nim, ma aveva gli occhi gonfi e l'espressione disgustata di chi è af flitto dai postumi della sbronza. Lo chef della foresteria era un anacronismo, un sopravvissuto dell'epoca coloniale, e servì una tra dizionale colazione all'inglese. Nessuno dei due parlò mentre Bonny divorava un piatto di uova e pancetta. Poi alzò gli occhi. « E adesso cosa succede? » « Tu giri il documentario », disse Daniel. « Esattamente com'è scritto nel tuo contratto. » « Mi vuoi ancora fra i piedi? » « Come cameraman, sì. Ma d'ora in poi avremo esclusivamente rapporti di lavoro. » « Per me va benissimo », disse Bonny. « Stava diventando un po' fastidioso: non sono brava a fingere. » Daniel si alzò di scatto e andò a prendere la sua roba in camera da letto. Era troppo furioso per mettersi a discutere. Prima che fosse pronto, il capitano Kajo arrivò con il Land Ro ver e due soldati che aiutarono a portar fuori la pesante attrezzatu ra video e caricarla sul fuoristrada. Daniel lasciò che Bonny sedesse in cabina accanto al capitano Kajo e salì dietro con i soldati hita
armati fino ai denti. La città di Kahali era più o meno come la ricordava dall'ultima visita. Le strade erano ampie e polverose, e le buche avevano eroso l'asfalto. Le costruzioni sembravano prese dal set di un vecchio film western. La differenza principale era nell'atmosfera e nella gente. Le donne uhali portavano ancora le lunghe vesti colorate e i turbanti e l'influenza musulmana era visibile nel loro comportamento; ma le espressioni dei volti erano guardinghe. C'erano pochi sorrisi e nes suna risata nel mercato all'aperto dove le donne stavano accosciate con le mercanzie esposte sui teli. Pattuglie militari sorvegliavano la piazza del mercato e gli angoli delle strade. La popolazione disto glieva lo sguardo al passaggio del Land Rover. I turisti erano pochissimi, impolverati, con gli abiti sgualciti e la barba lunga; probabilmente partecipavano a un tipo particolare di safari che consisteva nell'attraversare il continente africano a bordo di un enorme camion. Contrattavano al mercato per acquistare po modori e uova. Daniel sogghignò. Quelli pagavano per conoscere il purgatorio. Il safari della traversata dell'Africa significava dissente ria amebica e punture d'insetti, ottomila chilometri di buche e di posti di blocco. Probabilmente era l'unica « vacanza tutto compre so » del mondo i cui clienti non sarebbero più tornati: una sola vol ta bastava per tutta la vita. La motovedetta li aspettava al molo. I marinai nelle uniformi blu e con i piedi scalzi portarono a bordo l'attrezzatura video e il comandante strinse la mano a Daniel. « La pace sia con lei », disse in swahili. « Ho l'ordine di condur la dove vuole. » Lasciarono il porto e si diressero verso nord, parallelamente alla riva del lago. Daniel si piazzò sul ponte di prua, e quasi subito ri trovò il buonumore. L'acqua era di un blu splendido e scintillava nel sole. Una sola nuvola spiccava sull'orizzonte, a nord, bianca come un gabbiano e non molto più grande. Era la colonna degli spruzzi che saliva nel punto in cui il lago traboccava dalle rocce in una gola profonda e diventava il Nilo. Per duemila anni s'era discusso quale fosse la vera sorgente del Nilo Bianco, e i pareri erano discordi. Era costituita dalle cascate dove il Nilo Vittoria, uscendo dal lago Vittoria, si univa al Nilo Al berto nel lago Alberto e poi traboccava all'inizio di quell'incredibile percorso che lo portava fino al Cairo e al Mediterraneo? Oppure era ancora più in alto, come aveva scritto Erodoto qualche secolo prima della nascita di Cristo? O forse il fiume scaturiva da un lago senza fondo situato fra i monti del Bahr el-Jebel e alimentato dalle loro nevi eterne? Daniel si voltò verso ovest e cercò di distinguere la massa delle leggendarie vette montane; ma quel giorno, come accadeva spesso, c'era una diffusa nuvolosità celestina che si mescolava all'azzurro del cielo africano. Molti dei primi esploratori erano passati vicino ai Monti della Luna senza sospettare la loro esistenza. Persino Henry Morton Stanley, quell'implacabile bastardo gallese americanizzato, era vis suto per mesi nella loro ombra, prima che le nubi perpetue si squar ciassero e gli offrissero la sbalorditiva visione delle vette nevose e dei ghiacciai splendenti. Daniel provava una sensazione mistica nel navigare sulle acque che erano il sangue vitale disceso dalle monta gne nel cuore del continente selvaggio. Si voltò a guardare il ponte scoperto della motovedetta. Bonny Mahon stava girando. Teneva la Sony in bilico sulla spalla e la puntava verso la riva. Daniel fece una smorfia di riluttante appro vazione. Indipendentemente dai loro problemi personali, era una vera professionista. Con ogni probabilità sarebbe riuscita a fare una buona inquadratura del diavolo mentre entrava nell'inferno... quel pensiero lo fece sorridere e smussò l'irritazione che provava
per lei. Daniel tornò nella sala delle carte nautiche sotto il ponte e aprì le mappe e i progetti architettonici che la BOSS gli aveva fornito. Il luogo che era stato scelto per l'hotel e il casinò si trovava cir ca a undici chilometri dal porto di Kahali. Daniel vide che c'era una baia naturale, con un'isola che proteggeva l'accesso. Il fiume Ubomo scendeva la scarpata della Rift Valley dopo aver attraversa to le foreste e sboccava in quella baia. Sulla carta sembrava il posto ideale per il complesso che secon do Tug Harrison poteva fare dell'Ubomo una delle destinazioni più appetibili per i turisti dell'Europa meridionale. Per Daniel c'era un unico inconveniente: sulla baia sorgeva già un grosso villaggio di pescatori. Si chiese cosa intendevano fare Tug Harrison e Ning Deng Kong. I turisti europei non avrebbero avuto piacere di spartire la spiaggia con i pescatori indigeni, e l'o dore del pesce seccato al sole non avrebbe stuzzicato l'appetito e accresciuto le attrattive romantiche della Fish Eagle Bay Lodge, il padiglione nella baia dell'aquila pescatrice, secondo il nome dato al progetto. Il comandante chiamò Daniel, che abbandonò le carte e uscì sul ponte scoperto proprio mentre la motovedetta doppiava il promon torio. Davanti a loro si apriva la baia dell'aquila pescatrice. Daniel comprese subito perché era stato scelto quel nome. L'iso la all'imboccatura della baia era coperta dalla foresta. Nutriti dalle acque limpide e dolci del lago, i fichi e i mogani avevano raggiunto altezze impressionanti, e protendevano i loro rami sopra la spiaggia sassosa. Centinaia di coppie d'aquile pescatrici avevano costruito i nidi lassù. Con il piumaggio castano e ruggine e la testa bianca, era no i più spettacolari fra i rapaci africani. Erano posate un po' do vunque; alcune però volteggiavano nel cielo ad ali spiegate e le teste sollevate per lanciare il loro grido caratteristico, elemento indispen sabile del paesaggio africano. La motovedetta gettò l'ancora. Fu calato un gommone Zodiac per portare sull'isola Daniel e Bonny. Per un'ora filmarono la colo nia delle aquile. Il capitano Kajo gettava pesci morti dalle rupi e Bonny riprendeva sequenze esaltanti di aquile che si contendevano il cibo e s'impegnavano nei rituali duelli aerei, agganciandosi con gli artigli e turbinando nell'aria. Daniel l'aiutò poi a portare la Sony su per il liscio tronco mas siccio di un fico selvatico per filmare gli aquilotti nel nido. I genito ri li attaccavano stridendo e lanciandosi in picchiata con gli artigli protesi e i rostri gialli socchiusi, poi viravano all'ultimo momento mentre il vento provocato dalle grandi ali minacciava di far loro perdere l'equilibrio. Quando Bonny e Danny ritornarono a terra, l'antagonismo personale era ormai accantonato: avevano ripreso a lavorare da collaboratori e professionisti. Tornarono allo Zodiac e si diressero verso la motovedetta. Ap pena salirono a bordo il comandante fece levare l'ancora e avanzò lentamente nella baia. Era un luogo spettacolare con le rupi vulcani che che emergevano a perpendicolo dall'acqua blu e le spiagge di sabbia arancione che spiccavano fra le rocce nere. Ripresero lo Zodiac e toccarono terra in una delle spiagge alla foce dell'Ubomo. Daniel e Bonny lasciarono il capitano Kajo e due marinai sulla spiaggia con il gommone e salirono fino al punto più alto dei dirupi, dove furono ricompensati da una veduta panorami ca della baia e del lago. Potevano guardare dall'alto il grosso villaggio di pescatori alla foce dell'Ubomo. Una ventina di barche erano tirate a riva, altre costellavano le acque del lago. La piccola flotta, con le vele simili ad ali di gabbiano, rientrava nella baia al termine della notte di la voro, per portare a riva la pescata. Lungo la spiaggia le reti erano stese ad asciugare al sole e l'odo re del pesce giungeva fino alla cima della scogliera. I bambini nudi
giocavano sulla riva o sguazzavano in acqua. Gli uomini lavoravano sui dhow oppure stavano seduti a rammendare le reti. Nel villaggio, le donne si muovevano con grazia e battevano il grano negli alti mortai di legno, ondeggiando ritmicamente nella cadenza dei pestel li, o stavano chine sulle pentole a treppiede sistemate sopra i fuochi accesi. Daniel indicava le scene che voleva riprendere, e Bonny seguiva le sue istruzioni manovrando la telecamera per registrare tutto. « Cosa ne sarà di questa gente? » chiese, continuando a guardare nel mirino della Sony. « Fra tre settimane cominceranno a scavare le fondamenta del casinò... » « Immagino che li trasferiranno in qualche altro posto », disse Daniel. « Nella nuova Africa, i padroni spostano la gente come tan te pedine su una scacchiera... » S'interruppe e si schermò gli occhi per guardare la strada che si snodava lungo la riva in direzione della capitale. La polvere rossa si sollevava in una nube, lentamente, al di là delle acque blu del lago, trasportata dalla brezza che soffiava dalle montagne. « Lasciami dare un'occhiata », chiese a Bonny, e lei gli passò la telecamera. Daniel zumò al massimo e inquadrò la colonna dei vei coli che si avvicinava. « Camion dell'esercito », disse. « E rimorchi... Direi che sui ri morchi ci sono i bulldozer. » Restituì la telecamera, e Bonny studiò la scena. « Un'esercitazione militare? » disse. « Siamo autorizzati a fil marla? » « In qualunque altra località dell'Africa non mi azzarderei a puntare la telecamera su un convoglio militare, ma in questo caso abbiamo il firmano personale del presidente Taffari. Avanti! » Bonny si affrettò a piazzare il treppiede che usava soltanto per le riprese con il teleobiettivo e zumò sul convoglio. Daniel, intanto, si avvicinò al ciglio del dirupo e guardò la spiaggia. Il capitano Kajo e i marinai della motovedetta erano sdraiati sulla sabbia. Probabil mente Kajo dormiva per smaltire la sbronza della sera prima. Nel punto dove si trovava non poteva vedere il villaggio. Daniel tornò indietro per osservare Bonny al lavoro. Il convoglio si stava avvicinando alla periferia del villaggio. Una folla di bambini e di cani randagi corse a incontrarlo. I bambini sal tellavano a fianco dei camion, ridevano e si sbracciavano, mentre i cani abbaiavano istericamente. I veicoli si fermarono nello spiazzo al centro dell'abitato che serviva anche come campo di calcio. I sol dati in uniformi mimetiche, armati di AK 47, balzarono a terra e si schierarono in plotoni. Un ufficiale hita salì sulla cabina del primo camion e cominciò a dare ordini agli abitanti con un megafono. La voce giungeva a in termittenza sulla cresta della rupe dove stava Daniel. Non riuscì ad afferrare tutte le frasi in swahili; ma il senso era chiaro. L'ufficiale stava accusando i paesani di ospitare dissidenti politi ci, di ostacolare le riforme agrarie ed economiche del nuovo gover no e di dedicarsi ad attività controrivoluzionarie. Mentre parlava, una squadra di soldati scese sulla spiaggia, rastrellò i bambini e i pe scatori e li condusse sulla piazza. Gli abitanti del villaggio cominciavano ad agitarsi. I bambini si nascondevano dietro le gonne delle madri, gli uomini protestavano e gesticolavano. I soldati si misero a battere il villaggio e ordinaro no a tutti di uscire dalle casupole. Un vecchio cercò di resistere e un militare lo colpì con il calcio dell'AK 47. Quando il vecchio stramaz zò nella polvere lo lasciarono dov'era e proseguirono; aprirono le porte a calci e gridarono ordini. Sulla spiaggia un altro gruppo di soldati aveva aspettato i pescherecci che rientravano e stava facendo scendere gli uomini sotto la minaccia delle baionette. Bonny non alzava gli occhi dalla telecamera. « Grandioso! Dio,
è grandioso. E roba da premio Emmy, e non scherzo! » Daniel non rispose. Quell'esaltazione soddisfatta non avrebbe dovuto scandalizzarlo più di tanto: anche lui era un giornalista e ca piva l'importanza di trovare materiale nuovo e provocatorio per scuotere il pubblico televisivo, abituato a una dieta di violenze e di sordini: ma ciò che vedeva era osceno quanto le scene delle ss che rastrellavano i ghetti europei. I soldati cominciarono a caricare gli abitanti sui camion. Le donne urlavano e cercavano di ritrovare i figli tra la folla. Alcuni erano riusciti a raccogliere qualche fagotto, ma quasi tutti erano a mani vuote. I due bulldozer gialli scesero dai rimorchi. Avevano i motori ac cesi e il fumo bluastro usciva dallo scappamento. Uno girò su se stesso e abbassò la grande pala frontale. La pala lampeggiò nella lu ce pomeridiana, sfondò la casupola piu vicina, e il tetto di paglia crollò. « Magnifico! » mormorò Bonny. « Non potevo desiderare di me glio. Una inquadratura incredibile. » Le donne gemevano e ululavano: era il suono agghiacciante con cui le africane esprimono l'angoscia. Uno degli uomini si diede alla fuga e si lanciò verso un vicino campo di sorgo. Un soldato gli inti mò qualcosa, ma quello abbassò la testa e corse ancora più svelto. Una breve raffica echeggiò come una successione di mortaretti. L'uomo stramazzò nella polvere e restò immobile. Una donna urlò e corse verso di lui, portando un bimbo legato sulla schiena con uno scialle e uno un poco più grande fra le braccia. Un soldato le sbarrò il passo con la baionetta e la costrinse a tornare verso il camion. « L'ho ripresa! » esclamò esultante Bonny. « Tutta la scena. La sparatoria e il resto. Tutto registrato. Merda, è grandioso! » I soldati erano ben addestrati. Tutto si svolse in fretta. In meno di mezz'ora l'intera popolazione del villaggio era stata rastrellata, a parte i pescatori ancora sul lago. Il primo camion carico partì, av viandosi nella direzione da cui era arrivato. Le capanne cadevano una dopo l'altra mentre i due bulldozer si muovevano avanti e indietro. « Dio, spero di non restare a corto di nastro », mormorò preoc cupata Bonny. « E un'occasione che capita una sola volta nella vita. » Daniel non aveva parlato dall'inizio dell'operazione. Faceva parte dell'Africa. Aveva visto annientare altri villaggi. Ricordava il campo dei guerriglieri nel Mozambico. Poi aveva visto i ribelli del Renamo agire in un villaggio, aveva assistito ai trasferimenti forzati da parte dei sostenitori dell'apartheid nel Sudafrica, ma non si era mai abituato al punto di diventare insensibile a quelle sofferenze. Con un senso di nausea profonda assistette al resto del dramma. Gli ultimi pescherecci toccarono terra. I soldati erano in attesa di trascinare via gli equipaggi. L'ultimo camion si allontanò in una nube di polvere rossa; e non appena sparì alla vista, uno dei bulldo zer gialli scese lentamente sulla spiaggia e ammucchiò le barche ab bandonate in una catasta, come legna da ardere. Quattro soldati sollevarono i corpi del vecchio e dell'uomo che aveva tentato di fuggire. Li reggevano per i polsi e per le caviglie, con le teste penzolanti. Li buttarono sulla catasta di barche distrutte e di vele lacerate. Uno dei militari gettò un fascio di paglia incendia ta in cima al mucchio di legna. Le fiamme si alzarono e cominciaro no ad ardere con tanta violenza che i soldati furono costretti a in dietreggiare alzando le mani per proteggersi la faccia. I bulldozer si muovevano avanti e indietro sui resti delle casupo le, schiacciandole sotto i cingoli d'acciaio. Poi risuonò un fischio e i soldati si schierarono e risalirono sui camion. I bulldozer tornarono sui rimorchi e l'intera colonna ripartì. Quando si furono allontanati rimasero soltanto il sussurro smor zato della brezza serotina lungo la rupe e il crepitio lontano delle
fiamme. « Bene. » Daniel si sforzò di mantenere un tono neutro. « Il luo go è sgombro per il nuovo casinò. L'investimento di Taffari per la felicità del suo popolo è assicurato... » Non riuscì a continuare. « Bastardo! » sibilò. « Maledetto bastardo assassino! » Tremava di collera e d'indignazione. Dovette compiere un im menso sforzo di volontà per dominare l'emozione. Si accostò al ci glio della rupe affacciata sulla spiaggia. La motovedetta era sempre ancorata nell'acqua più profonda al centro della baia, il gommone era tirato in secco sulla spiaggia e uno dei soldati montava di guar dia, ma il capitano Kajo e l'altro marinaio non dormivano più sulla sabbia. Evidentemente erano stati svegliati dagli spari e dal chiasso nel villaggio distrutto. Daniel si guardò intorno e finalmente scorse Kajo. Stava salen do il dirupo a circa ottocento metri di distanza, e sembrava agitato. Li stava cercando; a intervalli di pochi minuti sostava per gridare e si guardava intorno con aria ansiosa. Daniel si chinò e si rivolse bruscamente a Bonny. « Nessuno deve sapere cosa abbiamo filmato. E dinamite. » « Lo so. » « Dammi la cassetta. Ci penserò io, caso mai vogliano controlla re le tue riprese. » Bonny estrasse la cassetta dalla telecamera e gliela consegnò. Daniel l'avvolse in un maglione e l'infilò in fondo allo zaino. « Be ne, andiamo via prima che Kajo ci trovi. Non deve immaginare che abbiamo visto quello che abbiamo visto. » Bonny raccolse in fretta l'equipaggiamento e lo seguì. Daniel si avviò verso l'entroterra, allontanandosi dai resti del villaggio e dalla riva del lago. Pochi minuti dopo si trovarono fra l'erba alta e i ce spugli della savana. Daniel descrisse un ampio cerchio in mezzo all'erba degli elefan ti fino a che raggiunse di nuovo la riva del lago presso l'imbocco della baia, di fronte all'isola dell'aquila pescatrice. Scesero dalle rocce alla spiaggia e Daniel si fermò perché Bonny potesse riprende re fiato. « Non capisco come abbiano permesso che venissimo a girare qui proprio il giorno in cui intendevano distruggere il villaggio », anslmo lel. « Un tipico pasticcio africano », rispose Daniel. « Qualcuno ha dimenticato di avvertire qualcun altro. Nell'ultimo tentativo di gol pe nello Zambia, uno dei cospiratori è piombato nella stazione ra dio e ha annunciato la rivoluzione mentre tutti i suoi compagni era no ancora in caserma a fare colazione. Aveva sbagliato giorno: do veva essere per la domenica seguente. A.V.A. Te la senti di conti nuare? » Bonny si alzò. « A.V.A.? » chiese. « Africa Vince Ancora. » Daniel sorrise cupamente. « An diamo ! » Con aria disinvolta si avviarono a fianco a fianco sulla sabbia bagnata della battigia. Si vedeva in distanza lo Zodiac tirato in secco, ma il villaggio demolito era ancora nascosto dal dirupo. Avevano percorso non più di duecento metri quando Kajo li chiamò dalla cima della scogliera. Si fermarono a guardarlo e agita rono le braccia in segno di saluto come se l'avessero appena notato. « Se la sta facendo addosso », mormorò Bonny. « Non sa se ab biamo assistito all'operazione o no. » Kajo scese in gran fretta, sdrucciolando nei tratti più ripidi. Era senza fiato quando raggiunse la spiaggia e si fermò davanti a loro. « Dove eravate andati? » chiese. « Sulla punta », disse Daniel. « Abbiamo filmato il posto dove sorgerà il casinò. Adesso andremo a riprendere quello dell'albergo alla foce del fiume, dove il villaggio dei pescatori... »
« No! No! » Kajo afferrò il braccio di Daniel. « Basta così. Basta con le riprese. Dobbiamo tornare alla motovedetta. Per oggi abbia mo finito. » Daniel si svincolò e continuò a discutere per un po'. Fi nalmente, con ostentata riluttanza, si lasciò guidare verso lo Zodiac che lo riportò alla motovedetta. Appena arrivarono sul ponte, Kajo andò a parlare con il coman dante. Tutti e due guardarono l'estremità della baia. Si vedevano ancora le spire di fumo che salivano dai pescherecci incendiati. Il comandante, con aria preoccupata, diede l'ordine di ripartire con voce troppo alta e ansiosa. Prima che Daniel potesse trattenerla, Bonny andò a poppa e puntò la Sony verso la riva. Il capitano Kajo si precipitò giù dal ponte di comando e gettò un grido. « No! Aspetti! Non deve filmarlo... » « Perché? E solo un incendio nella boscaglia, vero? » Bonny ab bassò la telecamera. « No! Sì! E un incendio nella boscaglia, ma è materiale riser vato. » « Un incendio nella boscaglia sarebbe top secret? » chiese ironi camente Bonny. Ma obbedì e abbassò la telecamera. Appena rimasero soli, Daniel la rimproverò. « Non far troppo la furba. Quello scherzetto poteva ritorcersi a nostro danno. » « Al contrario. Ho convinto Kajo che siamo innocenti », ribatté lei. « Quando mi restituirai la cassetta? » « La terrò io. Kajo ha ancora dei sospetti. Scommetto che quan do arriveremo a Kahali controllerà il tuo equipaggiamento. » Era già buio quando la motovedetta attraccò nel porto. Durante il trasferimento delle apparecchiature di Bonny al Land Rover del l'esercito che attendeva sul molo, la scatola d'alluminio che conte neva le cassette scomparve. Anche se lei inveì contro Kajo e minac ciò di lagnarsi della sua inefficienza con il presidente Taffari, il ca pitano continuò a sorridere con aria mite. « Non si preoccupi, si gnorina Mahon. Salterà fuori. Glielo garantisco personalmente. » L'indomani mattina Kajo si presentò alla foresteria, tutto scuse e sorrisi, e consegnò la scatola. « C'è tutto, signorina Mahon. Uno stupido portatore uhali l'aveva smarrita. La prego di accettare le mie scuse più sentite. » « Puoi stare sicura che hanno visionato tutti i nastri », commen tò Daniel quando Kajo se ne fu andato. Batté la mano sulla tasca della sahariana. « Porterò la registrazione dell'attacco al villaggio a Mike, all'ambasciata britannica. E l'unico posto sicuro. Vieni anche tu? » « Ho un appuntamento. » Bonny lo fissò con aria di sfida. « Se vai a trovare il tuo nuovo amichetto, sii molto prudente. E un consiglio da amico. Hai visto il suo stile. » « Ephrem è un uomo onesto », scattò Bonny. « Non posso crede re che sapesse del rastrellamento. » « Credi pure ciò che vuoi, ma non parlare a nessuno di questa registrazione. Neppure a Tug Harrison. » Bonny lo guardò, raggelata e pallidissima. « Cosa stai dicendo? » chiese. « Andiamo, Bonny, non sono tanto stupido. Ho controllato la telefonata che hai fatto dal Norfolk Hotel a Nairobi. E chiaro che riferisci tutto a Harrison. Quanto ti paga per spiarmi? » « Sei pazzo! » Bonny cercò di cavarsela ostentando una grande sicurezza. « Sì, probabilmente è vero. Ero caduto nella tua trappola, no? Tu saresti ancora più pazza se parlassi a Tug di questo nastro. » Poi la lasciò e si recò all'ambasciata britannica. Il giardino era cintato da mura e il cancello era sorvegliato da soldati della guardia personale del presidente Taffari, in uniformi mimetiche e berretti marrone. Michael Hargreave uscì dall'ufficio per ricevere Daniel. « Buongiorno, sir Mickey. »
« Danny! Ho parlato ieri sera con Wendy. Ti abbraccia. » « Quando arriverà? » « Purtroppo tarderà qualche settimana. Sua madre non sta bene, e Wendy ha dovuto correre a casa invece di arrivare direttamente da Lusaka... » Michael Hargreave condusse Daniel nel suo ufficio continuando a chiacchierare; ma appena ebbe chiuso la porta cambiò tono. « Ho notizie per te, Danny. Il cinese è arrivato. E atterrato sta mattina con il jet privato della BOSS. Secondo le mie informazioni è venuto da Taivvan passando per Nairobi. Si è insediato nel quartier generale della BOSS alla Lake House per prendere il comando in qua lità di capo del consorzio, e Taffari sta organizzando una festa in suo onore per venerdì sera Immagino che riceverai un invito. » « Dovrebbe essere interessante. » Daniel sorrise, cupo. « Sono molto ansioso di rivedere quel signore. » « Forse succederà prima di quanto immagini. » Michael Hargrea ve diede un'occhiata all'orologio. « Devo scappare, ragazzo mio. Vado a tenere un discorso a un pranzo del Rotary dell'Ubomo, ci crederesti? I dossier che ti avevo promesso li ha la mia segretaria. Metterà a tua disposizione un ufficio per lavorare. Dai una sbircia tina, poi restituiscili. Niente appunti, niente fotocopie, ti prego Puoi solo guardarli. » « Grazie, Mike. Sei un eroe. Ma posso chiederti un altro fa vore? » « Sentiamo. Non sai che il motto della famiglia Hargreave è 'Sempre a disposizione'? » « Mi conserveresti una busta nella tua cassaforte personale, Mike? » Michael mise nella cassaforte la busta chiusa con la registrazione degli avvenimenti della baia dell'aquila pescatrice, poi strinse la ma no a Daniel e se ne andò. Daniel lo guardò dalla veranda mentre Michael partiva a bordo della macchina ufficiale con l'autista in uniforme. Aveva l'Union Jack sul parafango, ma era comunque una Rover vecchia di dieci anni e molto bisognosa d'una riverniciatura. L'ambasciatore a Ka hali non aveva diritto a una Rolls-Royce. Daniel tornò a esaminare i dossier che la segretaria di Michael gli aveva preparato. Quando uscì dall'ambasciata tre ore dopo, la sua impressione iniziale di Ephrem Taffari era cento volte più chiara. « E un tipo duro e furbo », mormorò mentre metteva in moto il Land Rover. « Lui e Bonny dovrebbero divertirsi molto insieme. »
La scorta in motocicletta con le sirene spiegate era costretta a ri durre la velocità per le condizioni della strada che attraversava il nuovo quartiere di baracche abusive spuntato intorno alla capitale. L'asfalto era costellato di profonde buche e polli e maiali correvano da ogni parte starnazzando e grugnendo. La macchina presidenziale, altro dono dello stesso sceicco me dio-orientale, era una Mercedes nera. Era un segno di grande consi derazione, il fatto che il presidente Taffari l'avesse mandata alla Lake House sul lungolago a prendere l'ospite per condurlo all'u dienza. Ning Deng Kong, seduto dietro l'autista, osservava con in teresse quelle prime immagini dell'Ubomo. Dopo ciò che aveva visto in Asia e nelle altre parti dell'Africa, la miseria e la degradazione della baraccopoli che stava attraversando non lo sconvolgevano. Aveva imparato dal padre a considerare l'u manità brulicante come una fonte di manodopera a basso costo o come un mercato per le merci e i servizi che aveva da vendere. « Senza gli esseri umani non c'è profitto », gli aveva ricordato il padre in numerose occasioni. « Più sono numerosi e meglio è. Quando la vita umana vale poco si possono accumulare grandi for
tune. Noi della Lucky Dragon dobbiamo opporci ai tentativi di li mitare l'incremento demografico nel Terzo Mondo. La gente è una merce fondamentale. » Deng sorrise al pensiero dell'opinione paterna, nata dallo stu dio della storia. Suo padre riteneva che, quando le popolazioni umane erano frenate e limitate da fattori estranei, allora l'uomo co mune era in grado di ritrovare la dignità e un certo dominio sul pro prio destino. Le terribili stragi delle grandi epidemie medievali ave vano spezzato il sistema servile e feudale dell'Europa. Avevano fal cidiato a tal punto la popolazione che i pochi uomini rimasti erano diventati preziosi, proprio in virtù del loro numero ridotto, e ave vano quindi potuto rivalutare il prezzo del loro lavoro. Le grandi guerre di questo secolo avevano distrutto il sistema classista fondato sull'ereditarietà dei privilegi e delle ricchezze, aprendo in tal modo la strada all'era aberrante dei diritti umani, in cui agli uomini comuni delle razze inferiori veniva fatto credere che erano eguali a coloro che in realtà gli erano superiori. Dal punto di vista di Deng e di suo padre, gli uomini comuni non potevano go dere di quei diritti divini, come le antilopi selvatiche non meritava no una protezione speciale contro i leoni. Quando la massa dell'umanità raggiungeva proporzioni tali da rendere irrisorio il prezzo della vita, era giunta l'era delle buone oc casioni per i grandi predatori. I predatori come la Lucky Dragon. In Africa, quell'epoca era sempre più vicina, dato che ormai, in quel continente, gli esseri umani brulicavano come api sciamanti. Pensò alla bambina cambogiana, il cui cadavere giaceva ormai negli abissi bui del mar Cinese. C'erano milioni, decine di milioni, di persone come lei, in India, in Cina, in Africa e nel Sudamerica, per gli uomini come lui. Deng si era reso conto che l'esplosione demografica africana era un'occasione unica. Era per questo, soprattutto, che la Lucky Dragon era attratta verso il continente. E per questo si stava recan do a un incontro con il presidente di un Paese che presto gli avrebbe ceduto la sua ricchezza. Ne avrebbe estratto il succo, avrebbe getta to la buccia vuota e ne avrebbe colto un altro dall'albero. Sorrise di quella metafora e alzò gli occhi verso la collina verdeggiante su cui sorgeva la Govemment House. Il presidente Ephrem Taffari aveva fatto schierare una guardia d'onore in uniformi marrone e caschi bianchi per accoglierlo, e ave va fatto stendere una passatoia rossa attraverso il prato. Si avviò lungo la passatoia per ricevere Ning Deng Kong e stringergli la ma no. Lo condusse poi sull'ampia veranda e lo fece accomodare su una poltrona intagliata sotto il ventilatore appeso al soffitto. Un servitore uhali in veste bianca, fusciacca scarlatta e fez in fiocchettato gli presentò un vassoio d'argento carico di bicchieri. Deng rifiutò lo champagne e scelse una spremuta d'arancia. Ephrem Taffari gli sedette di fronte e accavallò le gambe, sorri dendo con tutto il garbo di cui era capace. « Ho voluto che il nostro primo incontro fosse assolutamente in formale », spiegò, indicando con un gesto di scusa la camicia sporti va e i sandali che indossava. « Quindi spero che vorrà perdonare il mio abbigliamento casual e il fatto che non sia presente nessuno dei miei ministri. » « Certo, eccellenza. » Deng assaggiò la spremuta. « Anch'io so no lieto di avere questa occasione per conoscerla e poterle parlare li beramente senza l'impaccio di altre persone. » « Sir Peter Harrison mi ha parlato molto bene di lei, signor Ning. E stimo molto la sua opinione. Sono certo che i nostri rap porti saranno soddisfacenti per entrambi. » Per altri dieci minuti si scambiarono complimenti e dichiarazioni d'amicizia e di buona volontà. Tutti e due si trovavano a loro agio fra le circonlocuzioni fiorite che facevano parte delle loro culture; e comprendevano istintivamente le mosse e le contromosse mentre si
avvicinavano al vero scopo dell'incontro. Finalmente Deng prese una busta chiusa dalla tasca interna del la giacca di seta bianca. La busta era molto elegante, lucida e color panna, con un drago impresso sulla falda posteriore. « Io e mio padre teniamo a dimostrarle, signor presidente, che il nostro impegno verso questo Paese è incrollabile. E la preghiamo di accettare questo quale pegno sincero della nostra amicizia. » Deng si comportava come se si trattasse di un dono non solleci tato, ma entrambi sapevano che era stato oggetto di lunghe, intense contrattazioni. C'erano stati altri offerenti, incluso lo sceicco che aveva donato la motovedetta e la Mercedes presidenziale. C'era vo luta tutta l'influenza di sir Peter Harrison perché la preferenza ve nisse accordata al consorzio della BOSS e della Lucky Dragon. La busta conteneva la seconda rata dovuta personalmente a Ephrem Taffari. La prima era stata pagata più di dieci mesi innan zi, alla firma dell'accordo iniziale. Il presidente Taffari prese la busta e la girò per esaminarla. Le lunghe dita eleganti spiccavano, scure, sulla carta color crema. Aprì la busta con l'unghia del pollice ed estrasse i due documen ti. Uno era una ricevuta di deposito su un conto numerato presso una banca svizzera. L'ammontare del versamento era dieci milioni di dollari americani. L'altro era una cessione di azioni, registrata nel Lussemburgo. Il trenta per cento dei titoli del consorzio adesso era trasferito a nome di Ephrem Taffari. Il nome ufficiale del con sorzio era: « Ubomo Development Corporation ». Il presidente rimise i documenti nella busta: poi la infilò nel ta schino della camicia a fiorami. « I progressi non sono stati rapidi come speravo », disse in tono sempre cortese ma più energico. « Spero che tutto cambierà con il suo arrivo, signor Ning. » « Sono al corrente dei ritardi. Come sa, il mio direttore operati vo è a Kahali da una settimana e mi ha fatto un rapporto completo sulla situazione. Credo che la responsabilità sia da attribuire in par te alla precedente gestione della BOSS. C'era una certa riluttanza a sfruttare tutti i fattori disponibili. » Deng fece un gesto di depreca zione. « Il signor Purvis della BOSS, che ora è fortunatamente in viaggio per tornare a Londra, era un individuo sensibile. Lei sa quanto sono schizzinosi gli inglesi, a volte. Il mio direttore operati vo mi comunica che siamo a corto di manodopera. » « Le assicuro, signor Deng, che avrà tutta la manodopera ne cessaria. » Il sorriso di Taffari divenne più forzato di fronte a quel rimprovero sottinteso. « Trentamila », puntualizzò Deng. « Era la stima iniziale appro vata da lei, eccellenza. Finora ne abbiamo avuti meno di dieci mila. » « Avrete il resto prima dell'inizio del mese prossimo. » Taffari non sorrideva più. « Ho dato ordini all'esercito. Tutti i prigionieri politici e i dissidenti verranno mandati nei campi di lavoro nella fo resta. » « Fanno tutti parte della tribù uhali? » chiese Deng. « Naturalmente », ribatté Taffari. « Non avrà pensato che le mandassi gli hita, vero? » Deng sorrise dell'assurdità di quell'idea. « Il mio direttore ope rativo mi assicura che gli uhali sono buoni lavoratori, resistenti, in telligenti e docili. Per cominciare, avremo bisogno di loro soprattut to nella foresta. Sembra che stiamo incontrando problemi causati dal terreno e dal clima. Le strade sono in cattivo stato e i macchina ri s'impantanano. Saremo costretti a usare un maggior numero di uomini. » « Sì, avevo avvertito quelli della BOSS », replicò Taffari. « Erano piuttosto restii all'idea di servirsi di quelli che consideravano... » Esitò un attimo. « Purvis li chiamava schiavi. » Sembrava divertito da quella definizione pedantesca.
« Ah, gli occidentali », mormorò Deng in tono comprensivo. « Gli inglesi sono già tremendi, ma gli americani sono anche peggio. Non capiscono l'Africa e l'Oriente. La loro mentalità si ferma a Suez... » S'interruppe. « Le assicuro, signor presidente che adesso è un orientale a dirigere le attività del consorzio. E vedrà che io non soffro di questi scrupoli occidentali. » « E un sollievo poter collaborare con qualcuno che capisce le ne cessità della vita », dichiarò Taffari. « E questo mi porta a parlare del progetto dell'hotel e del casinò nella baia dell'aquila pescatrice. Ho saputo dal mio direttore opera tivo che non è stato fatto ancora nulla, a parte i rilevamenti iniziali nella zona. Mi ha detto che c'è ancora un villaggio di pescatori. » « Non c'è più. » Taffari sorrise. « L'area è stata sgombrata due giorni fa, poco dopo che Purvis è partito per Londra. Il villaggio era un nido di attività controrivoluzionaria. I miei soldati hanno ra strellato i dissidenti, e duecento prigionieri sono già in viaggio per l'area della concessione nella foresta per unirsi al resto della mano dopera. Si possono cominciare i lavori per la costruzione dell'al bergo. » « Eccellenza, mi accorgo che io e lei lavoreremo bene insieme. Posso mostrarle le modifiche che ho apportato al programma dei lavori preparato da Purvis? » Aprì la borsa ed estrasse un grande progetto elaborato dal computer che coprì l'intero tavolo. Taffari ascoltò con interesse mentre Deng indicava come aveva ristrutturato quasi tutte le attività del consorzio. Al termine di quella specie di conferenza, Taffari non nascose la sua ammirazione. « Ha realizzato tutto questo da quando è arrivato nell'Ubomo? » chiese. Deng scosse la testa. « No, eccellenza. In parte la ripianificazione è stata effettuata prima che partissi da Taipei. Ho potuto avvalermi dei consigli di mio padre e della collaborazione degli esperti della Lucky Dragon. Solo una parte della pianificazione si è resa necessaria dopo il mio arrivo a Kahali, su consiglio del mio direttore operativo, e in segui to al suo rapporto sulle condizioni e sui problemi che abbiamo in contrato nella foresta. » « Straordinario! » esclamò. « Mi sembra che l'opinione di sir Pe ter Harrison sul suo conto sia ben fondata. » « La pianificazione è una cosa », osservò modestamente Deng. « L'esecuzione è tutta un'altra faccenda. » « Sono sicuro che dedicherà la stessa energia e lo stesso impegno a questa parte dell'operazione. » Taffari diede un'occhiata all'oro logio. « Attendo un ospite per pranzo. » « Mi scusi, eccellenza. Mi sono trattenuto troppo a lungo. » Deng fece per alzarsi. « No, signor Ning. Anzi, insisto perché pranzi con noi. Forse la divertirà conoscere l'altro invitato. Fa parte del team televisivo scritturato da sir Peter Harrison. » « Ah, sì. » Deng sembrava dubbioso. « Sir Peter ha spiegato a me e a mio padre perché ha chiamato nell'Ubomo una società di produzione cinematografica. Tuttavia non sono certo di essere d'ac cordo con lui. Gli inglesi dicono che è meglio non svegliare il can che dorme. Secondo me, forse sarebbe opportuno non attirare l'at tenzione del mondo sulle nostre attività. Preferirei annullare il pro getto e allontanare i documentaristi dall'Ubomo. » « Purtroppo è tardi. Abbiamo già avuto fin troppa pubblicità negativa. C'è una donna, protetta dal deposto presidente Ome ru... » Discussero per altri dieci minuti il piano architettato da sir Peter per smontare le mosse propagandistiche di Kelly Kinnear con una controcampagna. « Comunque », osservò Taffari, « possiamo sempre sopprimere le parti del documentario che non ci piacciono. Sir Peter Harrison ha incluso nel contratto una clausola relativa all'approvazione. Po
tremmo addirittura buttare al macero iì prodotto finale e distrugge re tutte le copie, se lo riterrà opportuno. » « Naturalmente lei sta prendendo le precauzioni necessarie per ché quella gente non veda nessuna delle aree più delicate, vero? I campi di lavoro dei detenuti, le operazioni di abbattimento degli al beri e l'estrazione dei minerali. » « Si fidi di me, signor Deng. Quelli vedranno solo il progetto pilota. Sono sempre accompagnati da un ufficiale di mia fiducia. » Taffari s'interruppe quando sentì avvicinarsi un veicolo. « Ah! Ecco la persona di cui stavamo parlando. Il cameraman, in compagnia del capitano Kajo. » « Il cameraman? » chiese Deng mentre Bonny Mahon e Kajo at traversavano il prato. « E inesatto, lo riconosco », rise Taffari. « Ma non so se esiste il termine 'cameravvoman'. » Si alzò e andò incontro all'ospite. Il capitano Kajo si mise sull'attenti e salutò. Taffari non badò a lui; aveva svolto il suo lavoro, consegnando Bonny a destinazione. Kajo girò sui tacchi e tornò ad attendere a bordo del Land Rover dell'esercito. Sapeva che poteva essere un'attesa molto lunga. Deng studiò la donna mentre Taffari la conduceva sulla veran da. Era troppo alta e aveva il seno decisamente abbondante. La struttura ossea era troppo solida, i lineamenti non erano raffinati. Il naso e la bocca erano troppo grossi; le lentiggini e i capelli rossi gli ripugnavano. La voce e la risata, mentre scherzava con Taffari, era no chiassose e volgari. La sua sicurezza e le membra muscolose da vano a Deng la sensazione di sentirsi minacciato come se sfidasse la sua mascolinità. Non gli piaceva che una donna fosse forte ed energica come un uomo. La paragonò, sfavorevolmente per lei, alle donne delicate della sua razza, con la carnagione d'avorio, i capelli neri e lisci e l'atteggiamento modesto e sottomesso. Comunque si alzò educatamente, sorrise e le strinse la mano. Si capiva che Taffari era molto preso da quella donna. Sapeva che il presidente aveva una dozzina di mogli hita, fra le più belle della tribù; ma immaginava che fosse attratto dalla novità di quella creatura grossolana. Forse pensava che avere come giocat tolo una donna bianca accrescesse il suo prestigio. Deng, tuttavia, intuiva che si sarebbe stancato presto di lei e l'avrebbe accantonata con la stessa facilità con cui l'aveva scelta. « Il signor Ning è il massimo dirigente dell'Ubomo Development Corporation », disse Taffari a Bonny. « Tecnicamente è il suo prin cipale. » Bonny rise. « Bene, posso riferirgli che stiamo facendo un gran lavoro. » « Mi fa piacere, signorina Mahon. » Deng non sorrise. « Si trat ta di un compito importante. Cosa avete realizzato finora? » « Abbiamo lavorato qui a Kahali e sul lago. Abbiamo già filma to il sito dove sorgeranno l'hotel e il casinò. » Deng e Taffari ascoltarono con attenzione il suo resoconto. « E poi dove vi trasferirete? » chiese Deng. « Quando avremo finito qui andremo nell'interno, nella zona della foresta. Un posto che si chiama Sengi-Sengi. Ho capito bene, eccellenza? » Bonny guardò Taffari. « Sì, mia cara signorina Mahon », le assicurò Taffari. « Sengi Sengi è il progetto pilota per l'utilizzazione dei tesori della foresta. » Deng annuì. « Anch'io andrò a visitarlo alla prima occasione. » « Perché non viene mentre filmiamo? » propose Bonny. « Se ci fosse anche lei, il documentario avrebbe maggior peso. » S'interrup pe, colpita da un altro pensiero. Poi, con un sorriso fanciullesco, si rivolse a Ephrem Taffari. « Ma sarebbe davvero magnifico se ci fos se anche lei, signor presidente. Potremmo intervistarla sul luogo del progetto, a Sengi-Sengi. E lei ci spiegherebbe le sue speranze e i suoi sogni per l'Ubomo. Ci pensi. » Ephrem Taffari sorrise e scosse la testa. « Sono molto occupato.
Non credo che potrò trovare il tempo. » Ma Bonny si accorse che la proposta lo tentava. Era un politico e apprezzava la prospettiva di un'apparizione di fronte a un grande pubblico. « Sarebbe importantissimo », insistette Bonny. « Per l'Ubomo e per la sua immagine personale. C'è gente, nel mondo, che ha sentito parlare solo vagamente di lei. Se potessero vederla, cambierebbero idea. Le assicuro, da un punto di vista professionale, che sullo schermo lei farebbe una figura meravigliosa. E alto e bello e la sua voce è sensazionale. Glielo giuro, la farei apparire come un vero divo. » Taffari apprezzava l'idea e gradiva il complimento. « Be', ecco, forse... » Entrambi si rendevano conto che Taffari voleva essere adulato ancora un po'. « Potrebbe raggiungere Sengi-Sengi in elicottero », osservò Bonny. « Sarebbe questione di mezza giornata, non di più... » S'in terruppe, imbronciandosi, e gli toccò il braccio. « A meno che, na turalmente, decidesse di fermarsi per un giorno o due. Per me an drebbe anche meglio. »
Daniel e Bonny, accompagnati come sempre dal capitano Kajo, partirono da Kahali. Anche se la distanza era di poco superiore ai trecentoventi chilometri, impiegarono due giorni; gran parte del tempo fu infatti dedicata, anziché al viaggio, alle riprese della cam pagna che si trasformava, delle tribù rurali e dei caratteristici man yatta che incontravano lungo il percorso. Il capitano Kajo provvedeva ad appianare i problemi e a trattare con gli anziani delle tribù. Per pochi scellini dell'Ubomo faceva in modo che potessero fare ciò che volevano nei villaggi degli hita. Si fermarono a riprendere le ragazze agli stagni, coperte da minuscole gonne ornate di perline mentre facevano il bagno e s'intrecciavano i capelli. Le nubili si acconciavano le pettinature con un miscuglio di argilla rossa e di sterco bovino fino a trasformarle in sculture com plicate che le facevano sembrare ancora più alte. Filmarono anche le donne sposate che tornavano al villaggio in lunghe file, avvolte nelle fluenti, rosse toghe matronali, reggendo sulla testa le zucche piene d'acqua di sorgente. Ripresero le mandrie di bovini pezzati con le grandi corna e la schiena gibbosa sullo sfondo delle acacie e delle dorate praterie del la savana. Filmarono i mandriani che salassavano un grande toro nero tor cendogli intorno al collo un cinghiolo di cuoio per far spiccare la vena, e poi la laceravano con una punta di freccia e catturavano il getto scarlatto in una zucca a bottiglia. Quando la zucca era riempi ta per metà, sigillavano la ferita sul collo del toro con una manciata d'argilla e finivano di riempire la zucca con latte appena munto. Poi aggiungevano un po' d'urina di vacca perché la mistura qua gliasse. « Basso contenuto di colesterolo », commentò Daniel mentre Bonny faceva smorfie di ripugnanza. « E guarda che figure hanno gli hita. » « Li guardo », gli assicurò Bonny. « Oh, alleluia, li sto guar dando ! » Gli uomini portavano soltanto una coperta rossa su una spalla, trattenuta da una cintura. Lasciavano che le falde si aprissero con disinvoltura nella brezza, soprattutto quando Bonny era lì vicino. Lasciavano che riprendesse tutto ciò che voleva e fissavano l'obietti vo con arroganza mascolina. I lobi allungati degli orecchi erano or
nati da orecchini di osso e d'avorio. Lungo la strada, il Land Rover incontrava camion carichi di mi nerali e di legname che provenivano dalla direzione opposta. Il peso dei veicoli enormi, per quanto distribuito su una dozzina di assali e file di pneumatici massicci, scavava solchi profondi nella strada e sollevava una nebbia di polvere che copriva gli alberi per oltre un chilometro e mezzo ai due lati della strada d'uno spesso strato di talco di color rosso scuro. Bonny era entusiasta dell'effetto della lu ce solare attraverso la nube di polvere e delle sagome dei camion che ne uscivano come mostri preistorici. Quando, il secondo giorno, attraversarono finalmente il fiume con il traghetto e raggiunsero il limitare delle grandi foreste, persino Bonny rimase impressionata dall'altezza e dal diametro degli alberi. « Sembrano colonne che sostengono il cielo », mormorò, pun tando la telecamera. L'aria e la luce cambiarono quando si lasciaro no alle spalle la savana arida ed entrarono nel mondo umido e lus sureggiante della foresta. All'inizio seguirono la strada principale, con i bordi aperti e am pi un chilometro e mezzo. Poi, dopo un'ottantina di chilometri, svoltarono in una delle strade nuove, appena create nella foresta vergine. Più si addentravano e più gli alberi erano vicini alla strada, fino a che i rami si congiunsero sopra di loro, e si trovarono in una galleria invasa da una luce screziata e verdastra. Persino i muggiti dei camion che incrociavano sembravano smorzati, come se gli alberi attutissero quel suono estraneo e offen sivo. La superficie della strada era stata rivestita di tronchi stesi a fianco a fianco, e sui tronchi era sparso uno strato di ghiaia che of friva maggiore presa ai grandi veicoli. « Al ritorno, i camion che trasportano i minerali portano la ghiaia dalle cave in riva al lago », spiegò il capitano Kajo. « Se non lo facessero, la strada diventerebbe una palude fangosa. Qui piove quasi tutti i giorni. » A intervalli poco superiori a un chilometro si vedevano squadre di centinaia di uomini e di donne che spargevano la ghiaia e posava no nuovi tronchi per consolidare la superficie. « Chi sono? » chiese Daniel. « Detenuti », rispose laconicamente Kajo. « Invece di spendere quattrini per tenerli rinchiusi e sfamarli, lasciamo che lavorino per pagare il loro debito alla società. » « Mi sembrano molti, per un Paese tanto piccolo », osservò Da niel. « Dovete avere un alto tasso di criminalità nell'Ubomo. » « Gli uhali sono bricconi, ladri e piantagrane », spiegò Kajo, poi rabbrividì mentre guardava, al di là delle file di prigionieri al lavo ro, la foresta impenetrabile. « Odio questo posto », disse con una veemenza brusca e insolita. « E buio e malefico, adatto soltanto alle scimmie e ai loro parenti stretti, i pigmei. » « Vedremo qualche pigmeo? » chiese incuriosita Bonny. « Qualcuno viene a commerciare lungo la strada », borbottò Kajo. « E le donne si prostituiscono ai camionisti. Ma quelli selvati ci sono veri animali della foresta. Non li vedrete: non li vede mai nessuno. » Rabbrividì ancora. « Odio questo posto. Dovremo abbat tere tutti gli alberi e venderli e al loro posto creare pascoli perché il nostro bestiame possa moltiplicarsi. » Lo disse con l'ardente amore degli hita per il bestiame, il grande tesoro della tribù. « Se gli alberi sparissero, non pioverebbe più. E allora i fiumi che scendono al lago e dissetano le vostre mandrie si prosciughereb bero. In natura ogni cosa è collegata all'altra. Distruggendone una, le si danneggia tutte. » Daniel cominciò a spiegare, ma Kajo sbuffò e continuò a lottare con il volante mentre il Land Rover procedeva sobbalzando sui tronchi. « Non è necessario che mi faccia la predica, dottor Armstrong. Ho una laurea e, per quanto possa sembrarle strano, so leggere. Co
nosco le teorie elitiste dei bianchi che quelli come lei amano propa gandare. Per voi bianchi ricchi è facile dirci che dobbiamo morire di fame con le nostre bestie perché possiate venir qui come turisti, go dervi per qualche giorno il panorama, ammirare gli animali selvati ci, e poi tornare nei vostri attici a New York e nelle vostre case di campagna in Inghilterra... » S'interruppe. « Mi perdoni, dottore. Non volevo offenderla, ma noi africani dobbiamo vivere qui. An che noi abbiamo il diritto alla bella vita. Gli alberi che ammira tan to ci appartengono. Dobbiamo pensare a una popolazione che cre sce di continuo: quella dell'Ubomo ha un incremento del sei per cento ogni anno. Abbiamo bisogno di cibo, alloggio e istruzione, e abbiamo bisogno di terra. I nostri chiedono terra. Queste foreste sono inutili se non le sfruttiamo. Dovremmo abbatterle e bruciarle, e usare la terra per piantare orti e pascoli... » Daniel si sentiva rattristato da quelle parole. Kajo era colto e in telligente. Se si aggrappava ancora alle idee tradizionali, che speran za c'era di convincere i campagnoli ignoranti come quelli che aveva no ripreso nei manyatta? « Le teorie elitiste dei bianchi », aveva detto Kajo. Era una con cezione che poteva trasformare un continente in un deserto. Un giorno il Sahara avrebbe potuto estendersi dal Cairo alla montagna piatta che vegliava sul capo di Buona Speranza. Finalmente arrivarono a Sengi-Sengi. La strada terminava in un abitato in mezzo alla foresta. Gli alberi più grandi erano rimasti in piedi, ma quelli più piccoli e il sottobosco erano stati rimossi per far posto ai complessi che alloggiavano i lavoratori, alle officine e agli uffici amministrativi. Le baracche che ospitavano la manodopera erano costruite con materiali trovati sul posto. Erano di legname grezzo intonacato d'argilla rossa e i tetti erano di paglia. Officine e uffici erano pre fabbricati, costruiti in sezioni che si potevano smontare e trasferire in un'altra località con poca fatica e poca spesa. Kajo fermò il Land Rover davanti all'ufficio principale, un'alta struttura temporanea eretta su pilastri di mattoni per permettere al l'aria di circolare sotto il pavimento, rinfrescare l'interno e mante nerlo asciutto durante gli acquazzoni quotidiani. Li condusse su per i gradini. « Devo presentarvi il direttore operativo dell'uDc. » « Cosa significa uDc? » chiese Bonny. « Ubomo Development Corporation », rispose Kajo. Non ebbe il tempo di aggiungere altre spiegazioni perché la segretaria del diret tore alzò gli occhi dalla macchina per scrivere. Era una hita sui venticinque anni, probabilmente diplomata al nuovo istituto tecnico di Kahali. Era truccata e vestita all'occidenta le. Il suo abbigliamento appariva incongruo, dopo le bellezze al na turale che avevano filmato nei manyatta. « Dovete essere quelli del documentario », disse in swahili. « Vi stavamo aspettando. » « Ci sono stati ritardi... » cominciò a spiegare Kajo, ma s'inter ruppe perché in quel momento la porta dell'ufficio si aprì e ne uscì il direttore operativo con un gran sorriso sulle labbra. « Benvenuti a Sengi-Sengi », disse andando loro incontro. « A vreste dovuto arrivare ieri, ma meglio tardi che mai. » Kajo stava davanti a Daniel e per un momento gli faceva da schermo con i suoi due metri di statura. Poi si spostò: Daniel e il di rettore operativo si trovarono uno di fronte all'altro. « Signor Chetti Singh », disse Daniel a voce bassa, « non mi aspettavo di rivederla. E un grande piacere. » Il sikh si fermò di colpo come se fosse andato a sbattere contro una parete di vetro e fissò Daniel. « Vi conoscete? » chiese il capitano Kajo. « Che felice combina zione. » « Siamo vecchi amici », rispose Daniel. « Abbiamo un comune interesse per la fauna selvatica, soprattutto gli elefanti e i leopardi. »
Sorrise e tese la mano a Chetti Singh. « Come sta, signor Singh? L'ultima volta che ci siamo visti lei aveva avuto un piccolo inciden te, vero? » Chetti Singh era diventato cinereo; ma, con uno sforzo evidente, si riprese dal trauma. Per un momento i suoi occhi sfolgorarono e Daniel pensò che stesse per balzargli addosso; invece accettò il suo fare fintamente amichevole e cercò di sorridere... ma non fu altro che il ghigno di un animale che snudava i denti. Si mosse per stringere la mano di Daniel, ma dovette usare la si nistra. La manica destra era vuota, ripiegata e appuntata alla spal la. Daniel vide che la mutilazione era al di sotto del gomito. Il leo pardo doveva aver stritolato l'osso in modo tale che i chirurghi non avevano potuto ricomporre i frammenti. Anche se, a prima vista, non si scorgevano cicatrici o altre lesioni, la figura un tempo corpu lenta del sikh aveva perso ogni grammo di grasso superfluo. Era magro come una vittima dell'AIDs, e il bianco degli occhi aveva una malsana colorazione giallastra. Si capiva che aveva passato momen ti terribili e che non s'era ancora ripreso completamente. La barba era sempre folta e lucida, spartita e ripiegata sotto il mento e infilata nel turbante candido. « E davvero un piacere rivederla, dottore. » Gli occhi smentivano le parole. « Grazie per la sua cortese comprensione, ma fortunata mente mi sono ripreso, a parte l'appendice mancante. » Agitò il moncherino. « E un fastidio, ma prevedo di ricevere una compensa zione soddisfacente da coloro che ne sono stati responsabili, non importa. » Il suo tocco era freddo come la pelle di una lucertola; ma ritirò subito la mano dalla mano di Daniel e si rivolse a Bonny e Kajo. Il sorriso divenne più naturale; li salutò cordialmente. Quando si girb di nuovo verso Daniel non sorrideva più. « Dunque, dottore, è venuto a renderci tutti famosi con il suo documentario televisivo. Diventeremo tutti divi del cinema... » Spia va il viso di Daniel con una strana espressione avida, come un pito ne che scruta una lepre. Lo shock dell'incontro era stato violento per Daniel quasi quan to lo era evidentemente stato per il sikh. Michael Hargreave gli ave va riferito che Chetti Singh era sopravvissuto all'attacco del leopar do; ma erano trascorsi mesi da allora, e non aveva previsto che Chetti Singh comparisse nell'Ubomo, a migliaia di chilometri dal luogo dove l'aveva visto l'ultima volta. Poi, ripensandoci, si rese conto che avrebbe dovuto essere preparato a qualcosa di simile. C'era un forte legame tra Ning Deng Kong e il sikh. Se Ning diri geva le operazioni nell'Ubomo, era logico che avesse scelto come as sistente qualcuno che conosceva bene il terreno e aveva già un'orga nizzazione sul posto. Riflettendo a posteriori, era ovvio che Chetti Singh aveva rap presentato per Ning la scelta ideale. L'organizzazione del sikh era infiltrata in ogni Paese dell'Africa centrale. Aveva agenti locali. Sa peva chi doveva corrompere e chi intimidire. Ma soprattutto era privo di scrupoli e legato a Ning Deng Kong dalla lealtà, dalla paura e dall'avidità. Daniel avrebbe dovuto prevedere che Chetti Singh si annidasse nell'ombra di Deng, e avrebbe dovuto essere preparato ad affron tare la sua vendetta. Non aveva bisogno dell'espressione del sikh per capire che si trovava in un pericolo mortale. L'unica via d'uscita da Sengi-Sengi era la strada che attraversa va la foresta: e ogni chilometro era controllato dalle guardie del consorzio e dai posti di blocco dei militari. Chetti Singh l'avrebbe ucciso. Non c'era il minimo dubbio. Non aveva armi né altro per difendersi. Chetti Singh comandava nella zona e poteva scegliere il luogo e il momento per agire. Il sikh stava conversando con il capitano Kajo e Bonny. « E troppo tardi perché possa offrirmi di farvi da guida. Fra poco sarà
buio, e vorrete sistemarvi negli alloggi che vi abbiamo preparato. » S'interruppe e sorrise cordialmente: « E poi ho ottime notizie. Pro prio adesso ho ricevuto un fax da Kahali. Il presidente Taffari, in carne e ossa, verrà a Sengi-Sengi in elicottero. Arriverà domattina e molto graziosamente ha acconsentito a un'intervista sul posto. E un grande onore, vi assicuro. Il presidente Taffari non è un uomo da prendere alla leggera, e sarà accompagnato dal massimo dirigente dell'uDc, nientemeno che il nostro Ning Deng Kong. E un altro personaggio eminente. Forse anche lui acconsentirà ad avere una parte nel vostro documentario... »
Pioveva quando la segretaria di Chetti Singh li accompagnò agli alloggi. La pioggia scrosciava come raffiche di pallini da caccia sui tetti delle costruzioni e la terra già saturata esalava una nebbia az zurra come fumo nella penombra della foresta. !''' Fra gli edifici erano state sistemate le passerelle di legno e la se gretaria fornì a tutti ombrelli di plastica con il vistoso slogan « UDG significa una vita migliore per tutti ». L'alloggio per gli ospiti era una fila di stanzette simile a una scu deria in una lunga baracca Nissen. Ogni stanza aveva mobili rudi mentali, un letto, una sedia, un armadio e uno scrittoio. Al centro della baracca c'era un gabinetto in comune. Daniel controllò attentamente la sua camera. La porta aveva una serratura così fragile da cedere a una pressione decisa, e senza dubbio Chetti Singh aveva il duplicato della chiave. La finestra era coperta da una zanzariera e un'altra zanzariera pendeva sopra il let to: non era una grande protezione. Le pareti erano così sottili che sentiva Kajo muoversi nella camera accanto. Prometteva d'essere un soggiorno piacevole. D'accordo, gente, facciamo un giochetto, si disse. Indovinate quando Chetti Singh farà il primo tentativo per toglierci di mezzo. Il primo premio è una settimana di vacanza a Sengi-Sengi. Il secon do premio, due settimane di vacanza a Sengi-Sengi. La cena fu servita nella mensa per i dirigenti, un'altra baracca Nissen, ma arredata piacevolmente come un bar. Quando Daniel e Bonny entrarono, videro un assortimento di ingegneri e tecnici tai wanesi e britannici che riempivano la mensa di fumo di sigaretta e di chiacchiere. Nessuno badò a lui, ma Bonny fece sensazione come al solito, soprattutto fra gli inglesi che giocavano a freccette e beve vano birra al bancone. I taivvanesi stavano sulle loro e Daniel intuì la tensione fra i due gruppi. Ne ebbe la conferma quando uno degli ingegneri britannici gli confidò che da quando Ning aveva preso la direzione dell'uDc aveva cominciato a estromettere tecnici e dirigenti per sostituirli con i suoi cinesi. Bonny fu subito adottata dal contingente britannico: dopo cena, Daniel la lasciò a giocare a freccette con un paio di robusti ingegne ri minerari. Ma lei lo bloccò mentre si avviava alla porta: gli sorrise con aria maliziosa e mormorò: « Goditi il tuo letto solitario, te soro ». Daniel rispose con un sorriso gelido: « La folla non mi è mai piaciuta ». Mentre si incamminava nell'oscurità sulla passerella resa sdruc ciolevole dal fango, provò uno strano prurito al centro della schie na. Era il punto dove qualcuno avrebbe potuto piantare un coltello dopo essersi avvicinato furtivamente. Allungò il passo. Quando arrivò alla porta della sua stanza, la spalancò ma rima se in attesa. Poteva esserci qualcuno che l'aspettava nell'oscurità. Gli lasciò il tempo di muoversi prima di tendere il braccio per ac cendere la luce. Solo allora si azzardò a entrare cautamente. Chiuse la porta, tirò le tende e sedette sul letto per slacciarsi gli scarponi.
C'erano troppi sistemi che Chetti Singh poteva scegliere per to glierselo di mezzo. Sapeva che non poteva stare in guardia contro tutti. In quel momento sentì qualcosa muoversi nel letto su cui era seduto. Era un movimento furtivo, da rettile, sotto il lenzuolo sotti le, e gli sfiorava la coscia. Un dardo gelido di paura gli saettò lungo la spina dorsale e fece irrigidire ogni muscolo del corpo. Aveva sempre avuto una paura irragionevole dei serpenti. Uno dei suoi primi ricordi era un cobra nella sua nursery. Aveva com piuto quattro anni da poco, ma ricordava nettamente l'ombra grot tesca che il cappuccio del rettile gettava sulla parete, mentre si erge va nella luce diffusa della lampada che sua madre aveva messo ac canto al letto. Ricordava i sibili esplosivi con cui il serpente aveva sfidato le sue urla di terrore, prima che suo padre accorresse in pi giama. Adesso sapeva con assoluta certezza che la cosa sotto il lenzuolo era un serpente. Sapeva che Chetti Singh o uno dei suoi uomini l'a veva messo lì apposta. Doveva essere una delle specie più letali, uno dei mamba agili e lucenti con le labbra sottili e ghignanti, o un co bra della foresta, nero come la morte, o una delle tozze, ripugnanti vipere del Gabon. Daniel balzò dal letto e si girò di scatto. Il cuore gli martellava nel petto all'impazzata mentre si guardava intorno per cercare un'arma. Afferrò la sedia e, con la forza della paura, ne staccò una gamba. Con quell'arma in mano ritrovò l'autocontrollo. Respirava ancora affannosamente quando fu assalito da un senso di vergogna. Quando era ranger non aveva esitato di fronte alle cariche di bufali, elefanti, grandi felini. Da soldato, s'era lanciato con il paracadute in territorio nemico e s'era battuto in scontri a corpo a corpo. Ma adesso ansimava e tremava di fronte a un fantasma della sua imma ginazione. S'impose di tornare accanto al letto. Afferrò con la mano sini stra un angolo del lenzuolo, sollevò la gamba della sedia con l'altra mano, e diede uno strattone. Un topo striato della foresta era al centro del lenzuolo bianco. Aveva lunghi baffi candidi e gli occhi vivi e curiosi sbattevano nella luce inattesa. Daniel riuscì a stento a frenare il colpo. L'uomo e il topo rima sero a fissarsi sbalorditi. Poi Daniel incurvò le spalle, scosso da un'ilarità nervosa. Il topo proruppe in uno squittio e schizzò dal let to, attraversò correndo la stanza e sparì in un foro del battiscopa. Daniel si buttò sul letto e si piegò in due per le risate. « Mio Dio, Chetti Singh », mormorò, « non ti fermi di fronte a nulla, vero? Quali altri nefandi trucchi mi prepari? »
L'elicottero arrivò da est. Sentirono il fragore dei rotori molto prima che apparisse nello squarcio della foresta, là in alto. Discese nella radura con tutta la grazia di una donna grassa che siede sul ga binetto. Era un Puma di fabbricazione francese, ed era evidente che ave va all'attivo molti anni di servizio, probabilmente presso altre forze armate. Il pilota spense i motori, e le pale rallentarono e si fermarono. Il presidente Taffari balzò al suolo. Era agile e bello, nell'uniforme da combattimento con gli scarponi da paracadutista. Bonny si avvicinò con la telecamera e Taffari sfoggiò un sorriso luminoso e ampio quasi quanto la fila dei nastrini che ostentava sul petto. Poi si fece avanti, verso il comitato dei festeggiamenti guidato da Chetti Singh. Ning Deng Kong scese dal Puma servendosi della scaletta. Por tava un abito color panna, e la sua carnagione aveva quasi la stessa sfumatura crema che contrastava con gli occhi, scuri e lucenti come onice levigato. Deng si guardò intorno in fretta, come se cercasse qualcosa o
qualcuno, e vide Daniel che si teneva un po' indietro, fuori dell'in quadratura della telecamera. Gli occhi di Ning Deng Kong gli sfio rarono il viso solo per un istante, come la lingua nera di una vipera, quindi passarono oltre. Non cambiò espressione, non diede segno di averlo riconosciuto; ma Daniel sapeva con certezza che Chetti Singh era riuscito a far pervenire un messaggio al padrone per avvertirlo della sua presenza nell'Ubomo. Daniel era stupito della propria rea zione. Aveva saputo che Deng sarebbe arrivato con l'elicottero, si era preparato a rivederlo, ma era pur sempre un trauma fisico, co me un pugno sotto le costole. Dovette fare uno sforzo per risponde re in modo normale alla stretta di mano e al saluto del presidente Taffari. « Ah, dottore! Come vede, Maometto è venuto alla montagna. Ho deciso di dedicare il pomeriggio alle riprese. Che cosa vuole che faccia? Sono ai suoi ordini. » « Le sono molto grato, signor presidente. Ho preparato un pia no per le riprese. Avrò bisogno che lei mi dedichi cinque ore in tota le, e in questo tempo sono compresi il trucco e le prove... » Daniel resistette all'impulso di lanciare un'occhiata a Deng fino a che in tervenne Chetti Singh. « Dottor Armstrong, vorrei presentarle l'amministratore delega fo dell'uDc, il signor Ning. » Daniel si sentì sopraffare da uno strano senso d'irrealtà mentre stringeva la mano di Ning e gli diceva con un sorriso: « Ci conoscia mo già. Ci siamo incontrati nello Zimbabwe, quando lei era amba sciatore. Forse non lo ricorderà... » « Mi perdoni. » Deng scosse la testa. « Incontravo tanta gente nell'espletamento dei miei doveri ufficiali. » Fingeva di non ricorda re. Daniel s'impose di continuare a sorridere. Sembrava incredibile che avesse visto quell'uomo per l'ultima volta sulla scarpata della valle dello Zambesi, poche ore prima di scoprire i cadaveri mutilati e straziati di Johnny e dei suoi cari. Era come se l'angoscia e la rab bia fossero diventate ancora più forti perché erano state represse per tanto tempo. Avrebbe voluto urlare: « Lurido macellaio! » Avrebbe voluto stringere i pugni e tempestare quella faccia liscia e inespressiva, sentire le ossa spezzarsi sotto le sue nocche. Avrebbe voluto fare schizzare dalle orbite gli implacabili occhi da squalo. Avrebbe voluto lavarsi le mani con il sangue di Ning Deng Kong. Gli voltò le spalle appena possibile. Non si fidava più di se stes so. Per la prima volta si sentiva pienamente consapevole di ciò che doveva fare. Doveva uccidere Ning Deng Kong, o farsi uccidere. Non prevedeva di ricavarne una soddisfazione personale. Era il compimento della promessa fatta sul cadavere dell'amico. Era un dovere, un debito alla memoria di Johnny Nzou.
« Può sembrare che io sia sul ponte d'una corazzata. » Ephrem Taffari sorrise alla telecamera. « Ma vi assicuro che non è così. Questa è la piattaforma di comando dell'Unità Mineraria Mobile Numero Uno, meglio nota con il soprannome affettuoso di MOMU. » Sebbene Taffari fosse l'unico inquadrato, il resto della piatta forma era affollato dal personale del consorzio. L'ingegnere capo e il geologo avevano spiegato al presidente il discorso che doveva te nere, assicurandosi che avesse afferrato i dettagli tecnici. L'equipag gio dell'unità era ancora al quadro dei comandi della MOMU. Il fun zionamento del complesso macchinario non poteva fermarsi neppu re per un visitatore tanto illustre. Daniel dirigeva la sequenza; Chetti Singh e Deng facevano da spettatori e si tenevano sullo sfondo. Bonny aveva provveduto per sonalmente al trucco di Taffari, e ci sapeva fare quanto i truccatori con cui Daniel aveva avuto modo di lavorare. « Mi trovo a più di venti metri dal suolo », continuò Taffari, « e avanzo alla velocità vertiginosa di cento metri l'ora. » Sorrise di
quella battuta. Daniel doveva ammettere che era un attore nato, completamente a suo agio di fronte all'obiettivo. Con quell'aspetto e quella voce poteva conquistare l'interesse di qualunque pubblico femminile. « Il veicolo su cui viaggio pesa mille tonnellate... » Daniel prendeva appunti per il montaggio mentre Taffari parla va. A questo punto avrebbe inserito un'immagine della gigantesca MOMU che si spostava sui cingoli. C'erano dodici cingoli separati, larghi tre metri ciascuno, per assicurare la stabilità anche sul terreno più irregolare. I pistoni idraulici d'acciaio regolavano automatica mente l'assetto della piattaforma principale, e controbilanciavano i movimenti dei cingoli sul fondo della foresta. Le dimensioni della macchina non erano molto inferiori a quelle della corazzata cui aveva alluso Taffari. Era lunga più di centocin quanta metri e larga quaranta. Taffari si voltò e tese il braccio al di sopra della ringhiera. « Là sotto », disse, « ci sono le fauci e le zanne del mostro. Scen diamo a dare un'occhiata. » Dirlo era facile, ma si trattava di spostarsi in una posizione nuo va e di regolare l'angolazione per poi provare l'inquadratura. Era un piacere lavorare con Taffari, ammise Daniel. Gli bastava una so la spiegazione e sapeva cosa dire. Parlava con naturalezza e senza impappinarsi sebbene fosse costretto ad alzare la voce per vincere il clangore del macchinario. L'inquadratura era veramente buona, da un punto di vista filmi co. Gli escavatori erano montati su lunghe gru: come i colli d'un branco di giraffe d'acciaio che bevono a una pozza, si muovevano indipendentemente, si alzavano e si abbassavano. Le lame degli escavatori roteavano con energia rabbiosa, fendevano la terra e la gettavano sui nastri trasportatori. « Questi escavatori possono arrivare trenta metri al di sotto della superficie. Scavano una trincea larga sessanta metri ed estraggono più di diecimila tonnellate di minerale in un'ora. Non si fermano mai. Continuano a lavorare notte e giorno. » Daniel guardò la profonda trincea che la MOMU stava aprendo nella terra rossa. Sarebbe stato un posto adatto per sbarazzarsi di un cadavere... il suo cadavere. Alzò gli occhi: Ning Deng Kong e Chetti Singh lo fissavano con attenzione. Erano ancora sulla piatta forma di comando, venti metri più in alto. Le teste erano vicine e quasi si toccavano. Le voci erano sommerse dal rombo dei grandi escavatori e del nastro trasportatore, ma le loro espressioni non la sciavano dubbi sull'argomento della discussione. Per un istante, Daniel incontrò i loro sguardi, poi entrambi si allontanarono dalla ringhiera. Da quel momento gli divenne difficile concentrarsi sul la voro: tuttavia doveva approfittare di ogni minuto in cui Ephrem Taffari si teneva a sua disposizione. Daniel e Bonny risalirono la scaletta d'acciaio fino alla piatta forma centrale della MOMU. Chetti Singh e Ning Deng Kong erano spariti, e Daniel si sentì ancora più irrequieto. Dall'alto della piattaforma potevano vedere i tube mills, quattro massicci tamburi d'acciaio piazzati orizzontalmente sul ponte della MOMU. Giravano come il cestello di una lavatrice, ma erano lunghi quaranta metri, e ognuno era carico di cento tonnellate di sfere di ghisa. La terra rossa prelevata dalla trincea e fatta scorrere sui na stri trasportatori piombava nelle fauci aperte dei tamburi. Via via che la terra passava all'interno di un cilindro, le zolle e le pietre ve nivano ridotte in una polvere finissima dalle sfere roteanti. La pol vere che usciva all'estremità posteriore dei tube mills finiva diretta mente nei separatori. Daniel scese assieme a Bonny le passerelle d'acciaio fino a che arrivarono sopra i separatori. Taffari proseguì la spiegazione conti nuando a rivolgersi all'obiettivo. « I due minerali che ci interessano sono o molto pesanti o ma
gnetici. La terra rara chiamata monazite viene raccolta da potenti elettrocalamite. » La voce era quasi sommersa dal ruggito dei mac chinari, ma Daniel non si preoccupava. Più tardi avrebbe chiesto a Taffari di registrare il discorso e poi, in studio, avrebbe eseguito il montaggio in modo che l'audio risultasse ottimo. « Quando la monazite è stata estratta, il resto finisce nelle vasche dei separatori dove facciamo galleggiare il materiale leggero e cattu riamo il platino, più pesante », continuò il presidente. « E una fase molto delicata dell'operazione. Se usassimo catalizzatori e reagenti chimici nei separatori potremmo recuperare il novanta per cento del platino. Ma le sostanze chimiche che uscirebbero dalle vasche sareb bero pericolose. Verrebbero assorbite dal terreno e le piogge le tra sporterebbero nei fiumi dove ucciderebbero ogni cosa... mammife ri, uccelli, insetti, pesci e piante. Come presidente della Repubblica Democratica Popolare dell'Ubomo, ho impartito l'ordine preciso di non usare reagenti chimici di alcun tipo durante le operazioni di estrazione del platino in questo Paese. » Taffari s'interruppe e fissò con fermezza l'obiettivo. « Su questo punto avete il mio impegno personale. Senza usare i reagenti, la percentuale del platino recupe rato scende al sessantacinque per cento: e ciò significa che vanno perse decine di milioni di dollari. Tuttavia io e il mio governo prefe riamo accettare questa perdita piuttosto che correre il rischio di in quinare chimicamente l'ambiente. Siamo decisi a fare quanto è in nostro potere perché questo diventi un mondo sicuro e felice per i nostri e i vostri figli. » Era più che convincente. Ascoltando la voce profonda e rassicu rante e guardando quel volto nobile, non era possibile dubitare del la sua sincerità. Persino Daniel era toccato da quelle parole, e, per un momento, le sue facoltà critiche erano bloccate. « Quel bastardo riuscirebbe a vendere salsicce di maiale in una sinagoga », pensò cer cando di ritrovare il consueto cinismo. « Stop », ordinò. « Basta così. E stato meraviglioso, signor presi dente. La ringrazio moltissimo. Se vuole tornare alla mensa per il pranzo, potremo finire. E questo pomeriggio gireremo le sequenze conclusive con le mappe e i modelli. » Chetti Singh ricomparve come un genio inturbantato uscito da una lampada, per scortare Taffari al campo base dove lo attendeva un sontuoso buffet. I viveri e i liquori erano arrivati da Kahali a bordo dell'elicottero. Quando gli altri se ne furono andati, Daniel e Bonny ripresero le ultime sequenze sulla MOMU che non richiedevano la presenza di Taffari. Filmarono i pesanti concentrati di platino che si riversava no nei grandi recipienti in un torrente nero. Ogni recipiente aveva la capacità di cento tonnellate, e quando era pieno cadeva automatica mente sul pianale di un rimorchio e veniva portato via. Interruppero le riprese poco dopo le tre e quando tornarono al campo base di Sengi-Sengi il pranzo ufficiale stava terminando. Quasi tutti i commensali erano sotto l'effetto del gin e del vino, ma Ephrem Taffari era lucido e compito come sempre. Al centro della sala per le conferenze, nella baracca dove aveva sede il quartier generale, c'era un modello in scala d'un tipico pano rama minerario che includeva l'unità MOMU. Era stato creato per il lustrare l'intera procedura, ed era stato realizzato a Londra dai tec nici della BOSS. Era un autentico capolavoro, completo in ogni det taglio e in scala perfetta. Daniel si proponeva di alternare immagini del modello e inqua drature riprese dal Puma che mostrassero la MOMU in azione nella foresta, ed era certo che sullo schermo sarebbe stato difficile notare la differenza. Il modello in scala mostrava il solco ampio sessanta metri aperto attraverso la foresta dai boscaioli e dai bulldozer che precedevano la MOMU. Daniel contava di dedicare qualche giorno alla ripresa delle operazioni. L'abbattimento dei grandi alberi avrebbe offerto imma
gini sensazionali. Gli arabeschi ponderosi dei bulldozer gialli che trascinavano i tronchi fuori della giungla, le squadre di operai che li caricavano sui camion, tutto sarebbe stato ottimo materiale per il documentario. Nel frattempo, Daniel doveva approfittare al massimo della giornata che Taffari aveva concesso alle riprese. Guardava Bonny che gli stava intorno, bisbigliando e ridacchiando mentre truccava la faccia del presidente. Faceva di tutto perché non si potessero nu trire dubbi sul fatto che erano amanti. Taffari aveva bevuto abba stanza per perdere almeno in parte le sue inibizioni e l'accarezzava apertamente, fissando a occhi sgranati i grossi seni che lei offriva al suo sguardo. Si crede veramente la first lady dell'Ubomo, pensò meravigliato Daniel. Non ha la più lontana idea del modo in cui gli hita trattano le mogli. Mi piacerebbe che succedesse davvero. Bonny merita tutto ciò che le capita. Si alzò, interrompendo la scena. « Se è pronto, signor presiden te, vorrei che si mettesse qui, accanto al tavolo. Bonny, devi inqua drarlo da questa parte. Cerca di mettere a fuoco tanto il generale Taffari quanto il plastico... » Taffari si spostò sul segno tracciato per terra. Provarono la ri presa. Se la cavò benissimo già al primo tentativo. « Perfetto, signore. Ora possiamo partire. Pronta, Bonny? » Taffari aveva un frustino militare d'avorio e corno di rinoceron te, sovrastato dalla figurina intagliata di un elefante: sembrava più che altro un bastone da feldmaresciallo. Forse stava pregustando il giorno in cui avrebbe potuto concedere a se stesso quella promozio ne, pensò ironicamente Daniel. Taffari usò il bastone per indicare i particolari del modello. « Come potete vedere, la trincea mineraria è uno stretto percorso nella foresta, non più ampio di sessanta metri. Lungo questo per corso abbattiamo tutti gli alberi ed eliminiamo il sottobosco perché la MOMU possa procedere. » S'interruppe e poi, con un'espressione molto seria, alzò il viso verso la telecamera. « Non si tratta però di distruzione indiscrimina ta bensì di un raccolto prudente, come quello di un agricoltore che amministra i suoi campi. Meno dell'uno per cento della foresta è coinvolto in questa stretta fascia di attività, e dietro la MOMU avanza una schiera di bulldozer che colmano la trincea e ricompattano il suolo, consolidandolo. In quanto alla trincea, segue meticolosamen te i contorni del terreno per evitare l'erosione. Non appena viene ri colmata, interviene una squadra di botanici che vi piantano semi e virgulti. Si tratta di piante selezionate con cura: alcune sono a cre scita rapida e hanno la funzione di coprire il terreno, altre hanno una crescita più lenta, ma fra cinquant'anni saranno mature e pron te per essere utilizzate. Io non ci sarò più, allora, ma ci saranno i miei nipoti. L'operazione è stata pianificata in modo che non sfrut teremo mai più dell'uno per cento della foresta ogni anno. Non è necessario essere un matematico per capire che verrà l'anno 2090 prima che abbiamo terminato il lavoro; e a quel tempo gli alberi che stiamo piantando nel 1990 avranno un secolo e noi potremo rico minciare il ciclo senza pericoli. » Taffari sorrise con aria rassicuran te. « Fra mille anni le foreste dell'Ubomo continueranno a dimo strare la loro generosità per generazioni e generazioni, e a offrire un rifugio agli stessi esseri viventi che ospitano oggi. » Era tutto sensato, pensava Daniel. Aveva visto la prova in atto. La stretta fascia attraverso la foresta non poteva minacciare seria mente alcuna specie. Taffari proponeva la stessa filosofia in cui an che lui credeva implicitamente, la filosofia delle risorse rinnovabili, l'utilizzazione pianificata e disciplinata che permetteva a quelle ri sorse di ricostituirsi. Per il momento aveva dimenticato l'animosità nei confronti di Ephrem Taffari. Aveva voglia di applaudirlo.
Invece si schiarì la gola e disse: « Signor presidente, è stato straordinario. Farà riflettere molta gente. La ringrazio ».
Seduto sulla sponda posteriore del Land Rover, Chetti Singh al lisciò sulla coscia il documento. Aveva imparato a muovere la mano sinistra con grande destrezza. « Questo pezzo di carta rovina tutto il divertimento », commentò. « Non deve essere divertente », obiettò in tono brusco Ning Deng Kong. « Dev'essere un dono per il mio onorevole padre. E lavoro. » Chetti Singh gli lanciò un'occhiata e un sorriso mite e insincero. Non gli piaceva il cambiamento che era apparso evidente da quando Ning era tornato da Taipei. C'erano in lui una nuova forza, una si curezza nuova. Per la prima volta Chetti Singh ne aveva paura, ed era una sensazione che non gli piaceva affatto. « Comunque il lavoro va meglio quando è divertente », ribatté per farsi coraggio; ma non riusciva a sostenere lo sguardo cupo e implacabile di Deng. Abbassò gli occhi sul documento e lesse a vo ce alta. REPUBBLICA DEMOCRATICA POPOLARE DELL'UBOMO LICENZA PRESIDENZIALE SPECIALE Di CACCIA Al titolare della presente, signor Ning Deng Kong, o al suo agente au torizzato, con la presente viene consentito per decreto presidenziale di cac ciare, prendere in trappola o uccidere le seguenti specie protette della fauna selvatica nel territorio della Repubblica dell'Ubomo, e per la precisione cin que esemplari di elefante (Loxodonta africana). Gli viene inoltre consentito, per motivi di ricerca scientifica, di collezio nare e avere in suo possesso, per esportarle o venderle, le parti dei predetti esemplari, incluse le pelli, le ossa, la carne e/o le zanne d'avorio. EPHREM TArFARI PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA La licenza era stata preparata in gran fretta. Non esistendo pre cedenti cui uniformarsi, in seguito alla richiesta di Deng il presi dente l'aveva scribacchiata su un foglio di carta, la tipografia gover nativa l'aveva riprodotta sotto lo stemma della repubblica, e, dopo dodici ore, l'aveva sottoposta alla firma presidenziale. « Io sono un bracconiere », spiegò Chetti Singh. « Il più abile dell'Africa. Questo pezzo di carta mi trasforma in un semplice agente, un subordinato, un apprendista macellaio... » Deng gli voltò le spalle, spazientito. Il sikh lo irritava. Aveva cose ben più serie cui pensare. Mosse qualche passo nella radura, assorto. Il terreno era fangoso e segnato da solchi e l'umidità ap pannava le lenti degli occhiali da sole. Li tolse e li infilò nel taschino della camicia. Si guardò intorno, scrutò la compatta muraglia verde della giungla che circondava la radura. Era buia e minacciosa. Re presse il senso di disagio che gli ispirava e lanciò un'occhiata all'o rologio. « E in ritardo », commentò in tono secco. « Quando verrà? » Chetti Singh scrollò le spalle e piegò la licenza di caccia. « Non ha il nostro senso del tempo. E un pigmeo. Verrà quando gli farà comodo. Forse è già qui e ci sta spiando. Forse verrà domani oppu re la settimana prossima. » « Non posso perdere altro tempo », scattò Deng. « C'è un lavo ro importante di cui devo occuparmi. » « Più importante del dono per il suo onorevole padre? » chiese Chetti Singh con un sorriso ironico. « Maledetti negri! » Deng si voltò di nuovo. « Non ci si può fi dare di loro. » Deng fece un altro giro della radura, affondando i piedi nel fango rosso, e tornò a fermarsi di fronte al sikh. « E Armstrong? » chiese. « Dovremo occuparci anche di lui. » « Ah, sì! » Chetti Singh sogghignò. « Questo sarà davvero diver
tente. » Si massaggiò il moncherino del braccio. « Ho sognato ogni notte il dottor Armstrong per quasi un anno, eppure non avrei mai pensato di avere un'occasione così propizia qui a Sengi-Sengi. Co me un pollo legato, non importa. » « Dovrà sistemarlo finché è ancora qui », insistette Deng. « Non può lasciare che se ne vada vivo. » « Il cielo non voglia », commentò Chetti Singh. « Ho dedicato abbondanti contemplazioni al problema. Desidero che la dipartita del buon dottore sia adeguatamente simbolica e dolorosa, ma anche spiegabile come uno sfortunato incidente. » « Basta che non aspetti troppo », l'avvertì Deng. « Ho a disposizione altri cinque giorni », fece notare Chetti Singh. « Ho visto il programma per le riprese. Non potrà finire il la voro a Sengi-Sengi prima di allora... » Deng l'interruppe, spazientito. « E la donna dai capelli rossi? L'assistente? » « Per ora il presidente Taffari si sollazza con lei, tuttavia ritengo opportuno fare in modo che accompagni il dottor Armstrong nel lungo viaggio... » Il sikh si interruppe bruscamente e si alzò. Scrutò la foresta e quando Deng aprì la bocca per dire qualcosa lo zittì con un gesto imperioso. Rimase in ascolto ancora per un minuto con la testa inclinata, prima di riprendere a parlare. « Credo che sia arrivato. » « Come fa a saperlo? » Deng aveva abbassato la voce. Si schiarì nervosamente la gola e scrutò la giungla. « Ascolti. Gli uccelli... » disse Chetti Singh. « Non sento niente. » « Appunto. » Il sikh annuì. « Tacciono. » Si avviò verso la mura glia verde. Alzò la voce e chiamò in swahili: « La pace sia con te, fi glio della foresta. Vieni avanti, così potremo salutarci da amici ». Il pigmeo apparve come per un gioco di luce in uno squarcio tra la vegetazione. Era incorniciato dalle foglie verdi e i raggi di sole, filtrati fra i rami più alti, guizzavano sulla pelle lucida e facevano spiccare i muscoli della figura piccola e poderosa. La testa era ben delineata, il naso largo e piatto, e la barbetta nera e lanosa era sfu mata d'argento. « Io ti vedo, Pirri, grande cacciatore. » Chetti Singh lo salutò ce rimoniosamente e il pigmeo avanzò nella radura con passo agile ed elegante. « Hai portato il tabacco? » chiese in swahili con franchezza in fantile. Chetti Singh ridacchiò e gli porse una lattina di Uphill Rho desian. Pirri svitò il coperchio, pescò un po' di tabacco giallo, lo infilò sotto il labbro superiore e mugolò di piacere. « Non è piccolo come immaginavo », commentò Deng mentre l'osservava. « Ed è anche più chiaro. » « Non è un bambuti purosangue », spiegò Chetti Singh. « Il pa dre era un hita, o almeno così dicono. » « Sa cacciare? » chiese dubbioso il cinese. « Sa uccidere un ele fante? » Chetti Singh rise. « E il più grande cacciatore della sua tribù, e questo non è tutto. Grazie al sangue misto ha anche altre virtù che i suoi fratelli non possiedono. » « Quali? » « Capisce il valore del denaro », spiegò il sikh. « Le ricchezze e le proprietà non significano nulla per gli altri bambuti, ma Pirri è di verso. E abbastanza civilizzato per comprendere il significato dell'a vidità. » Pirri li ascoltava. Non capiva l'inglese e girava la testa verso di loro mentre parlavano, senza smettere di succhiare il tabacco. Ave va addosso soltanto un perizoma di corteccia, e portava l'arco sulle spalle e il machete appeso al fianco in un fodero di legno. All'im provviso interruppe la discussione.
« Chi è questo wazungu? » chiese in swahili indicando Deng con un movimento del mento lanoso. « E un capo famoso e ricco », gli assicurò Chetti Singh, e Pirri attraversò la radura per scrutare Deng con aria incuriosita. « Ha la pelle del colore della malaria e gli occhi del mamba », annunciò candidamente. Deng capiva lo swahili quanto bastava per irritarsi. « Conoscerà l'avidità, ma di certo non sa cos'è il rispetto. » « I bambuti sono così. » Chetti Sing cercò di placarlo. « Sono co me bambini, e dicono quello che gli passa per la testa. » « Gli chieda dell'elefante », ordinò Deng. Il sikh cambiò tono e rivolse a Pirri un sorriso accattivante. « Sono venuto a chiederti degli elefanti », disse. Pirri si grattò l'inguine con aria pensierosa. « Ah, gli elefanti! » disse. « Che cosa vuoi sapere degli elefanti? » « Tu sei il più grande cacciatore dei bambuti », continuò Chetti Singh. « Niente si muove nella foresta senza che Pirri lo sappia. » « Questo è vero », ammise Pirri, e studiò Deng con attenzione. « Mi piace il braccialetto del ricco wazungu », disse. « Prima che parliamo di elefanti, deve regalarmelo. » « Vuole il suo orologio », disse Chetti Singh a Deng. « Avevo capito! » scattò il cinese. « E un impertinente. Cosa se ne può fare un selvaggio d'un Rolex d'oro? » « Probabilmente lo venderà a un camionista per un centesimo del valore », rispose Chetti Singh, divertito della rabbia e della fru strazione di Deng. « Gli dica che non mi faccio ricattare. Non gli darò l'orologio », dichiarò con fermezza il cinese, e Chetti Singh alzò le spalle. « Glielo riferirò », disse. « Ma allora, niente dono per il suo ono revole padre. » Deng esitò, poi aprì il fermaglio del bracciale d'oro e lo porse al pigmeo. Pirri tubò di gioia e rigirò l'orologio fra le mani, facen do brillare i diamanti sul quadrante. « E bello », rise. « E così bello che adesso ricordo molte cose de gli elefanti della foresta. » « Parlami degli elefanti », lo invitò Chetti Singh. « C'erano trenta elefanti, tra femmine e piccoli, nella foresta presso Gondala », disse Pirri. « E due grossi maschi con i lunghi denti bianchi. » « Lunghi quanto? » chiese Chetti Singh. Deng, che aveva segui to la conversazione, si tese ansiosamente. « Uno dei due elefanti è più grosso. Ha i denti lunghi così » spiegò Pirri. Si tolse l'arco dalla spalla, lo tese sopra la testa e si al zò in punta di piedi. « Lunghi così », ripeté. « Sono lunghi fin dove arriva il mio arco, dalla punta alle labbra, senza contare la parte na scosta nella testa. » « Quanto grossi? » chiese Deng in pessimo swahili, con voce ar rochita dall'avidità. Pirri si girò verso di lui e si portò intorno alla vita le mani infantili. « Così », disse. « Sono grossi quanto me. » « Dev'essere un elefante enorme », mormorò incredulo Chetti Singh, e Pirri s'irritò. « E il più grande di tutti gli elefanti e l'ho visto con i miei occhi. Lo dico io, Pirri, ed è vero. » « Voglio che uccidi quell'elefante e mi porti le zanne », ordinò Chetti Singh, e Pirri scosse la testa. « L'elefante non è più a Gondala. Quando sono venute nella fo resta le macchine di ferro giallo, è scappato perché facevano troppo fumo e troppo rumore. E andato nel cuore sacro del territorio, dove nessuno può cacciare. Così hanno ordinato la Madre e il Padre. Non posso uccidere l'elefante in quel territorio. » « Ti pagherò moltissimo per i denti dell'elefante », mormorò Chetti Singh in tono suadente, ma Pirri scosse la testa con fer
mezza. « Gli offra mille dollari », disse Deng in inglese, ma il sikh ag grottò la fronte. « Lasci fare a me. Non roviniamo tutto con l'impazienza. » Chetti Singh si rivolse di nuovo a Pirri e disse in swahili: « Ti darò dieci pezze di stoffa bellissima che piace tanto alle donne, e cin quanta manciate di perle di vetro... quanto basta perché mille vergi ni allarghino le gambe per te ». Pirri continuò a scuotere la testa. « E il cuore sacro del territo rio. La Madre e il Padre si infurieranno, se andrò a caccia là. » « Oltre alle stoffe e alle perle, ti darò venti lame di scure, tutte di ferro, e dieci splendidi coltelli con la lama lunga quanto la tua mano. » Pirri si dimenò come un cagnolino. « E proibito dalla legge e dalla tradizione. La mia tribu mi odierà e mi caccerà via. » « Ti darò venti bottiglie di gin », promise Chetti Singh. « E tutto il tabacco che potrai sollevare da terra. » Pirri si massaggiò freneticamente l'inguine e roteò gli occhi. « Tutto il tabacco che posso portare! » Aveva la voce rauca. « Non posso. Loro chiameranno il molimo. Attireranno su di me la male dizione della Madre e del Padre. » « E io ti darò cento talleri d'argento di Maria Teresa. » Chetti Singh frugò nella tasca della sahariana e pescò una manciata di mo nete. Le fece balenare e tintinnare nel cavo dell'unica mano. Per un lungo istante Pirri le fissò avidamente. Poi gettò uno strillo, spiccò un salto in aria e sguainò il machete. Chetti Singh e Deng indietreggiarono, temendo che li aggredisse. Invece Pirri ro teò su se stesso e, con la lama alta sopra il capo, si avventò contro la muraglia della foresta, vibrando un fendente contro un cespuglio. Fra grida di rabbia, continuò a colpire più e più volte la vegetazio ne. Foglie e fuscelli volarono nell'aria, molti rami si spezzarono, frammenti di corteccia e di legno bianco piovvero dai tronchi mar toriati. Alla fine Pirri si fermò e si appoggiò alla lama. Ansimava, il su dore gli scorreva sul volto e sgocciolava nella barba. Singhiozzava per la fatica e il disgusto di se stesso. Poi si raddrizzò e tornò ad av vicinarsi a Chetti Singh. « Ucciderò per te questo elefante e ti porte rò i suoi denti. Allora tu mi darai tutte le cose che mi hai promesso, senza dimenticare il tabacco. » Chetti Singh guidò il Land Rover lungo la rudimentale pista nel la foresta. Impiegarono quasi un'ora per raggiungere la strada dove lavoravano le squadre di forzati e passavano rombando i grossi vei coli carichi di minerali e di tronchi. Mentre si inserivano nel traffico pesante diretto a Sengi-Sengi, Chetti Singh si voltò a sorridere all'uomo che gli stava accanto. « Così abbiamo provveduto al dono per suo padre. Adesso dob biamo applicare tutto l'ingegno e l'astuzia per un piccolo regalo per me... Ia testa del dottor Daniel Armstrong su un piatto d'argento e con una mela in bocca. »
Daniel aveva atteso quel momento. Era sul ponte di comando della MOMU, e pioveva. L'aria era resa azzurra dalla pioggia e la visibilità era ridotta a una quindicina di metri al massimo. Bonny s'era riparata nella cabina in fondo alla piattaforma per proteggere il prezioso equipaggiamento e le due guardie hita erano scese sul ponte inferiore. Per il momento, Daniel era solo. Ormai s'era abituato alla pioggia. Da quando era arrivato a Sen gi-Sengi aveva sempre gli indumenti fradici. Adesso era nell'angolo tra la parete d'acciaio e la cabina di comando e il ponte volante, che lo riparava solo in parte dalla pioggia battente. Ogni tanto uno sprazzo più violento gli investiva la faccia e lo costringeva a soc
chiudere gli occhi. All'improvviso la porta della cabina di comando si aprì e Ning Deng Kong uscì sul ponte volante. Non aveva visto Daniel: rag giunse il parapetto sotto il tendone e si sporse per guardare le grandi lame lucenti degli escavatori che affondavano nel terreno venti me tri sotto di lui. Era il momento di Daniel. Per la prima volta erano soli, e Deng era vulnerabile. « Per Johnny », mormorò e si avviò sulle lastre d'acciaio del ponte, senza far rumore. Arrivò alle spalle del cinese. Non doveva far altro che chinarsi e afferrarlo per le caviglie. Un movimento rapido, una spinta, e Deng sarebbe precipitato fra le lame letali. La fine sarebbe stata istantanea, e il cadavere smembra to e sfracellato sarebbe finito nei tube mills, ridotto in poltiglia e mescolato a centinaia di tonnellate di polvere. Daniel si mosse: ma prima di toccare Deng esitò, inorridito dal l'idea di ciò che stava per fare. Era un assassinio a sangue freddo. Aveva ucciso altre volte, in guerra, ma non così. Per un momento la ripugnanza ebbe il sopravvento. « Per Johnny... » cercò di convincersi, ma era troppo tardi. Deng si voltò di scatto verso di lui. Il movimento fu agile come quello di una mangusta di fronte a un cobra. Alzò le mani, irrigidite nella posa tipica dell'esperto d'arti marziali. Fissò Daniel con occhi scuri e feroci. Per un momento rimasero in equilibrio sull'orlo della violenza, poi Deng bisbigliò: « Ha perso l'occasione, dottore. Non ne avrà altre ». Daniel indietreggiò. Aveva tradito Johnny per debolezza. Un tempo non sarebbe accaduto. Avrebbe tolto di mezzo Deng con pronta efficienza e se ne sarebbe compiaciuto. Adesso il taivvanese stava in guardia, ed era ancora più pericoloso. Daniel gli voltò le spalle, disgustato, poi trasalì. Una delle guar die hita aveva salito la scaletta, silenzioso come un leopardo. Stava appoggiato alla ringhiera del ponte con il berretto marrone inclinato su un occhio: aveva un Uzi contro il fianco e lo puntava al ventre di Daniel. Aveva assistito alla scena. Quella notte Daniel rimase sveglio fin dopo mezzanotte, snerva to dal pericolo corso e nauseato dagli impulsi che gli avevano per messo di concepire una vendetta tanto brutale. Ma neppure la crisi di coscienza incrinava la volontà di fare giustizia; e l'indomani mat tina, al risveglio, si accorse che la sua decisione era incrollabile, per quanto i suoi nervi fossero scossi. E fu questo che portò alla rottura definitiva con Bonny Mahon. Lei arrivò in ritardo per l'inizio del lavoro, e lo fece aspettare per quasi quaranta minuti sotto la pioggia battente prima di decidersi a uscire. « Quando ho detto le cinque non intendevo le cinque del pome riggio », ringhiò Daniel, e lei gli sorrise soddisfatta. « Cosa vuoi, padrone? Che faccia harakiri? » chiese. Daniel sta va per prorompere in un torrente d'insulti; poi si rese conto che Bonny doveva essere arrivata direttamente dal letto di Taffari senza neppure fare il bagno perché captò una zaffata d'odore muschiato, e le voltò le spalle. Era così furioso che temeva di aggredirla. In nome del cielo, Armstrong, calmati, si disse in silenzio. Stai andando a pezzi. Lavorarono in un clima di spiccato antagonismo per il resto del la mattinata: filmarono i bulldozer e le seghe a catena che sgombra vano il percorso per la mostruosa MOMU. Era faticoso procedere nel fango sotto la pioggia; inoltre i tron chi che cadevano e i potenti macchinari al lavoro rappresentavano un pericolo. Tutto questo non contribuiva a migliorare l'umore di Daniel che riuscì comunque a tenere la lingua a freno fino a poco prima di mezzogiorno, quando Bonny lo informò che era rimasta
senza nastro e doveva tornare al campo per prenderne dell'altro. « Com'è possibile che un cameraman sia così idiota da restare senza nastro a metà di una ripresa? » chiese Daniel, e Bonny si girò di scatto verso di lui. « So che cosa ti brucia, cocco. Non è la mancanza del nastro ma qualcosa d'altro. Mi odi perché Ephrem se la spassa e tu no. Ah, la gelosia, il mostro dagli occhi verdi! » « Hai un'idea veramente esagerata delle tue grazie », ribatté Da niel con eguale indignazione. La sfuriata crebbe d'intensità fino a che Bonny gli urlò in faccia: « Nessuno può permettersi di parlarmi così, bello mio. Puoi prendere il tuo lavoro e i tuoi insulti e ficcarteli in un orecchio o in qualche altro orifizio adatto ». Poi si avviò, sguazzando nel fango rosso, per tornare al Land Rover. « Lascia la telecamera a bordo », le gridò Daniel. L'equipaggia mento video era tutto preso a nolo. « Hai già il biglietto di ritorno per Londra, e ti spedirò l'assegno per quel che ti devo. Sei licen ziata. » « No, cocco. Arrivi troppo tardi. Ho dato le dimissioni. E non dimenticarlo! » Bonny sbatté la portiera del Land Rover e accese il motore. Le quattro ruote girarono all'impazzata sollevando spruzzi di fango rosso, e Bonny si lanciò lungo la pista. Il malumore di Da niel crebbe ancora quando, troppo tardi, gli vennero in mente tutte le risposte pungenti che avrebbe potuto lanciarle finché ne aveva avuto la possibilità. Anche Bonny era furiosa, ma il suo malumore era più duraturo e vendicativo. Si lambiccò il cervello, cercando la vendetta peggiore che poteva inventare, e, poco prima di arrivare al campo di Sengi Sengi, le balenò un'idea. « Ti pentirai di tutte le carognate che mi hai detto, caro Danny », promise a voce alta con un sorriso spietato. « Non farai più una ri presa nell'Ubomo: né tu né il cameraman che assumerai per rim piazzarmi. Ci penserò io. »
Era alto e agile e, nella luce fioca sotto la zanzariera, la sua pelle era splendente come il carbone, ancora madida del sudore dell'amo re. Ephrem Taffari era riverso sul lenzuolo bianco e gualcito e Bonny pensava che era probabilmente l'uomo più bello che avesse mai conosciuto. Abbassò la testa e gli posò la guancia sul petto nudo. Era liscio e glabro, e la pelle scura era fresca. Soffiò delicatamente su un capez zolo e lo vide contrarsi. Bonny sorrise, soddisfatta. Ephrem era un amante meraviglioso, più di qualunque bianco. Non c'era mai stato uno come lui, e voleva fare qualcosa per renderlo contento. « C'è una cosa che devo dirti », mormorò. Pigramente, Taffari le scostò dal viso i capelli rossi. « Che cosa? » le chiese con voce sazia e profonda, quasi disinte ressata. Bonny sapeva che la frase successiva avrebbe destato tutta l'at tenzione di Taffari. Perciò attese. Era un'occasione troppo dolce per sprecarla. Voleva trarne tutta la soddisfazione possibile. Era un duplice piacere: la vendetta contro Daniel Armstrong e il favore a Ephrem Taffari, che gli avrebbe provato la sua lealtà e il suo va lore. « Che cosa? » ripeté lui. Le afferrò i capelli e li torse abbastanza per farle male. Era un maestro in quelle cose, e Bonny si sentì man care il respiro: adorava quell'atteggiamento sadico. « Te lo dico per dimostrarti che sono completamente tua, e quanto ti amo », mormorò. « Dopo stanotte non potrai più dubitare della mia lealtà. » Taffari rise e le scosse la testa continuando a stringerle i capelli. « Questo lascialo giudicare a me, piccolo giglio rosso. Dimmi co
sa c'è di tanto terribile. » « E davvero terribile, Ephrem. Per ordine di Daniel Armstrong ho filmato l'allontanamento forzato degli abitanti della baia dell'a quila pescatrice per fare posto al nuovo casinò. » Ephrem Taffari trattenne il respiro per venti battiti del cuore. Poi lo esalò lentamente e disse a voce bassa: « Non so di cosa stai parlando. Spiegati ». « lo e Daniel eravamo su un dirupo quando i soldati sono arriva ti nel villaggio. Daniel mi ha ordinato di riprendere la scena. » « Che cosa avete visto? » « Li abbiamo visti demolire il villaggio con i bulldozer e bruciare la barche. Li abbiamo visti caricare gli abitanti sui camion e portarli via... » Bonny esitò. « Continua », ordinò Taffari. « Cos'altro avete visto? » « Li abbiamo visti uccidere due uomini. Hanno ammazzato un vecchio con una botta in testa e hanno sparato a un altro che cerca va di scappare. Poi hanno gettato i cadaveri nel fuoco. » « Hai filmato tutto questo? » chiese Ephrem. Il suo tono ispirò a Bonny un senso improvviso d'incertezza e di paura. « Daniel mi ha costretta. » « Non so niente di queste atrocità. Non avevo dato io l'ordine », disse Taffari. Con un senso di sollievo, Bonny gli credette. « Ero sicura che non ne sapessi niente. » « Devo vedere il filmato. E una prova a carico di quelli che han no commesso un simile abuso. Dov'è? » « L'ho consegnato a Daniel. » « Che cosa ne ha fatto? » chiese Taffari. Adesso la sua voce era terribile. « Ha detto che l'aveva depositato all'ambasciata britannica, a Kahali. L'ambasciatore, sir Michael Hargreave, è un suo vecchio amico. » « Ha mostrato il filmato all'ambasciatore? » volle sapere Taf fari. « Non credo. Ha detto che era dinamite e che se ne sarebbe ser vito quando fosse venuto il momento. » « Quindi tu e Armstrong siete i soli a sapere che esiste il fil mato? » A questo Bonny non aveva pensato: e la sensazione che adesso provava non era piacevole. « Sì, credo. A meno che Daniel l'abbia detto a qualcuno. Io non ne ho parlato. » « Bene. » Taffari le lasciò i capelli e le accarezzò la guancia. « Sei una brava ragazza. Ti sono grato. Hai dimostrato di essermi amica. » « E qualcosa di più dell'amicizia, Ephrem. Non ho mai provato per un altro uomo ciò che provo per te. » « Lo so », bisbigliò Taffari. Alzò la testa e la baciò sulle labbra. « Sei una donna meravigliosa. I miei sentimenti per te diventano sempre più forti. » Bonny si strinse a quell'agile corpo felino in uno slancio di grati tudine. « Dobbiamo farci restituire il filmato da sir Michael. Potrebbe causare danni indicibili al Paese e anche a me. » « Avrei dovuto dirtelo prima », mormorò Bonny. « Ma solo adesso ho capito quanto ti amo. » « Non è troppo tardi », le assicurò Taffari. « Domattina parlerò con Armstrong. Gli darò la mia parola che i colpevoli dovranno render conto alla giustizia. Deve consegnarmi il filmato perché ven ga usato come prova. » « Non credo che lo farà », disse Bonny. « Sono riprese troppo sensazionali. Per lui valgono milioni. Non vorrà privarsene. » « Allora dovrai aiutarmi a recuperare il nastro. Dopo tutto l'hai
filmato tu. Mi aiuterai, vero, mio bel giglio bianco e rosso? » « Lo sai, Ephrem. Farei qualunque cosa per te », sussurrò Bonny. Senza aggiungere una parola Taffari fece l'amore con lei, l'amo re splendido e devastante di cui era capace. Poi Bonny si addormentò. Quando si svegliò si accorse che pioveva di nuovo. Pioveva sem pre, nell'orribile inferno verde della giungla. La pioggia scrosciava, tamburellando sul tetto del bungalow dei VIP. L'oscurità era com pleta. Bonny tese istintivamente la mano per cercare Taffari, ma il let to era vuoto. Le lenzuola erano già fredde. Doveva essersi alzato da un po'. Forse era andato in bagno, pensò Bonny, e sentì alla vescica la pressione che l'aveva svegliata. Rimase distesa, in ascolto, ad attendere il ritorno di Taffari; ma dopo cinque minuti scostò la zanzariera e si avviò brancolando nel buio verso la porta del bagno. Urtò contro una sedia e si fece male al piede. Trovò l'interruttore e batté le palpebre nella luce improvvi sa riflessa sulle piastrelle bianche. Il bagno era vuoto, ma l'asse del water era sollevata: Taffari era stato lì prima di lei. Bonny l'abbassò e sedette, nuda, ancora stordi ta dal sonno, con i capelli rossi aggrovigliati sugli occhi. Fuori, la pioggia martellava. Un lampo illuminò la finestra. Bonny si tese per prendere il rotolo di carta igienica, accostandosi al divisorio prefabbricato. Sentì un suono indistinto di voci maschili nella stanza accanto. Ormai si stava svegliando completamente. Incuriosita, appoggio l'orecchio alla parete e riconobbe la voce di Taffari. Era energica, autoritaria. Qualcuno rispose, ma uno scroscio di pioggia le impedì di capire chi fosse. « No », disse Taffari. « Questa notte. Voglio che sia fatto imme diatamente. » Bonny, adesso, era allarmata. In quel momento la pioggia cessò con drammatica subitaneità. Nel silenzio senti la ri sposta e riconobbe chi era. « Firmerà un mandato, signor presidente? » Era Chetti Singh. L'accento era inequivocabile. « I suoi soldati potrebbero provvedere all'esecuzione. » « Non dica assurdità. Voglio che sia fatto con molta discrezione. Si sbarazzi di lui. Può farsi aiutare da Kajo, ma si sbrighi. Niente domande, niente documenti scritti. Lo elimini e basta. » « Ah, si. Capisco. Diremo che era andato a filmare nella giun gla. Più tardi manderemo una squadra che non troverà nulla. Un vero peccato. Ma... e la donna? Ha assistito alle attività nella baia dell'aquila pescatrice. Vuole che sistemi anche quella? » « Non faccia l'idiota! Avrò bisogno di lei per ritirare il nastro al l'ambasciata. Poi, quando il filmato sarà al sicuro in mano mia, prenderò in considerazione il problema della donna. Per il momen to, porti Armstrong nella giungla e si liberi di lui. » « Le assicuro, signor presidente, che nulla mi darebbe un piacere più grande. Impiegherò circa un'ora per organizzare tutto con Kajo, ma sarà tutto finito prima dello spuntar del giorno. Le do la mia solenne promessa. » Si senti il rumore di una sedia smossa e di passi pesanti. Poi una porta sbatté e nel salotto del bungalow tornò il silenzio. Per un momento Bonny rimase immobile, agghiacciata. Poi bal zò in piedi, corse all'interruttore e fece piombare il bagno nell'oscu rità. Tornò verso il letto a tentoni e s'infilò sotto la zanzariera. Ri mase sdraiata, rigida, in attesa che Ephrem Taffari tornasse. La sua mente turbinava. Era spaventata e confusa. Non si aspet tava una cosa simile. Aveva pensato che Ephrem s'impadronisse della cassetta, arre stasse Daniel e lo cacciasse dal Paese dichiarandolo persona indesi derabile. Le sue idee non erano mai state molto chiare, ma non ave
va immaginato neppure per un momento che Taffari potesse fare uccidere Daniel, ordinasse di schiacciarlo come un insetto, senza pietà e senza rimorsi. Con un sussulto, si rese conto d'essere stata molto ingenua. Era uno shock quasi insopportabile. Non aveva mai odiato Da niel. Tutt'altro: aveva provato affetto per lui, per quanto ne era ca pace, fino a che aveva cominciato ad annoiarla e irritarla. Natural mente, dopo che s'era messa con Ephrem Taffari, Daniel l'aveva in sultata e licenziata, ma non del tutto a torto... e non l'odiava, non l'odiava certo al punto di volerlo morto. « Non immischiarti », si disse. « Ormai è troppo tardi. Danny de ve affrontare il rischio. » Continuò ad aspettare che Taffari tornasse a letto, ma lui non comparve. Bonny pensò di nuovo a Daniel. Era uno dei pochi uo mini che le avessero ispirato ammirazione e simpatia. Era gentile, divertente e bello... poi s'interruppe. Non fare la sentimentale, pensò. Non è andata come pensavi, ma tanto peggio per Danny. Però c'era stata una minaccia velata anche per lei in ciò che aveva detto Ephrem Taffari: « Quando il fil mato sarà al sicuro in mano mia, prenderò in considerazione il pro blema della donna ». Taffari non era ancora tornato. Bonny si sol levò a sedere sul letto e rimase in ascolto. La pioggia era cessata completamente. Controvoglia, sollevò la zanzariera e raccolse la ve staglia ai piedi del letto. Andò alla porta che dava sulla veranda del bungalow e l'apri senza far rumore. S'incamminò lungo la veranda. La finestra del salotto era illu minata. Bonny si piazzò in una posizione che le permetteva di vede re l'interno restando nell'ombra. Ephrem Taffari era alla scrivania e le voltava le spalle. Indossava una maglietta kaki e calzoni mime tici. Fumando una sigaretta, studiava le carte sparse davanti a lui. Sembrava tutto preso dal lavoro. Bonny calcolò che avrebbe impiegato meno di dieci minuti per raggiungere i bungalow per gli ospiti nella parte orientale del com plesso e tornare a letto. Le passerelle di legno erano bagnate e sporche di fango. Lei era scalza. Poteva darsi che Daniel non fosse nella sua camera. Pensò a tutte le scuse per non andare ad avvertirlo. Non gli devo niente, pensò. E le sembrò di sentire di nuovo la voce di Ephrem: « Porti Armstrong nella giungla e si liberi di lui ». Si scostò dalla finestra illuminata. Non sapeva ancora cosa in tendeva fare, ma poi si sorprese a correre lungo la passerella, sotto gli alberi scuri grondanti di pioggia. Scivolò e cadde in ginocchio, ma si rialzò di scatto e continuò a correre. La vestaglia s'era mac chiata di fango rosso. Attraverso gli alberi vide che c'era una sola luce accesa nella fila delle camere per gli ospiti. Le altre erano al buio. Quando si avvici nò, vide con sollievo che era la luce della stanza di Daniel. Non sali sulla veranda ma saltò dalla passerella e girò intorno al la costruzione. La tenda della finestra di Daniel era chiusa. Bonny grattò sulla rete antizanzare, e sentì subito una sedia che veniva smossa sul pavimento. Grattò di nuovo e la voce di Daniel chiese sommessamente: « Chi è? » « Per l'amor di Dio, Danny, sono io. Ti devo parlare. » « Entra. Ti apro la porta. » « No, no. Esci tu. E tremendo. Non devono vedermi. Sbrigati. Sbrigati! » Mezzo minuto più tardi, Daniel apparve nell'oscurità, illumina to alle spalle dalla finestra. « Danny, Ephrem sa delle riprese della baia dell'aquila pesca trice. » « Come l'ha scoperto? » « Non ha importanza. »
« Sei stata tu, vero? » « Accidenti... sono venuta a metterti in guardia. Lui ha ordinato di eliminarti subito. Chetti Singh e Kajo stanno per venire a pren derti. Ti porteranno nella giungla. Non vogliono lasciare prove. » « Come fai a saperlo? » « Non far domande cretine. Credimi, lo so. Non posso perdere altro tempo. Devo tornare, o lui si accorgerà che sono uscita. » Bonny si mosse ma Daniel l'afferrò per il braccio. « Grazie, Bonny », disse. « Sei migliore di quello che credi. Vuoi fuggire con me? » Lei scrollò la testa. « Me la caverò » disse. « Ma tu vattene. Hai un'ora al massimo. Fila! » Si svincolò e corse via fra gli alberi. Daniel la scorse ancora per un momento. Le luci del bungalow trasformavano i capelli scarmi gliati in un alone roseo, e la lunga vestaglia bianca la faceva sem brare un angelo. « Che razza di angelo », mormorò Daniel. E per un minuto restò immobile nell'oscurità per decidere cosa poteva fare. Finché aveva come unici avversari Chetti Singh e Ning Deng Kong, qualche possibilità l'aveva. Come lui, erano frenati dalla ne cessità di agire nella massima segretezza. Nessuno aveva potuto at taccarlo apertamente. Ma adesso Chetti Singh era autorizzato a uc ciderlo da una speciale licenza presidenziale. Danny sorrise amara mente, un sogghigno da lupo. Poteva prevedere che il sikh agisse in fretta e spietatamente. Bonny aveva ragione. Doveva lasciare Sengi Sengi entro pochi minuti, prima che arrivassero i carnefici. Dall'angolo dell'edificio lanciò un'occhiata alla veranda e al complesso. Tutto era buio e tranquillo. Tornò nella sua stanza e prese dall'armadio la borsa da viaggio che conteneva i documenti personali, il passaporto, i biglietti d'aereo, le carte di credito e i tra veller's cheque. A parte gli indumenti e gli oggetti da toeletta, nella stanza non c'era nient'altro che avesse valore. Indossò una giacca a vento leggera e si assicurò di avere ancora in tasca la chiave del Land Rover. Spense le luci e uscì. Il fuoristra da era parcheggiato in fondo alla veranda. Aprì la portiera senza far rumore e buttò la borsa sul sedile del passeggero. L'equipaggia mento VTR preso a nolo era ammucchiato dietro, e negli armadietti c'era un assortimento di materiale per il campeggio e il pronto soc corso; ma non c'erano armi, a parte il suo vecchio fucile da caccia. Mise in moto il Land Rover. Il rumore sembrava troppo forte nell'oscurità. Non accese i fari e azionò adagio la leva del cambio, tenendo bassi i giri del motore. Attraversò lentamente il complesso buio e puntò verso il cancello. Sapeva che di notte non veniva mai chiuso, e che c'era una sola guardia. Daniel non s'illudeva di poter arrivare lontano con il fuoristra da. C'era una sola strada che andava da Sengi-Sengi al traghetto sul fiume Ubomo, e ogni otto chilometri c'era un posto di blocco. Una chiamata via radio da Sengi-Sengi avrebbe messo tutti in al larme. Le guardie l'avrebbero atteso con il dito sul grilletto degli AK 47. No, avrebbe potuto considerarsi fortunato se fosse riuscito a su perare il primo posto di blocco; poi sarebbe stato costretto ad ad dentrarsi nella giungla. Era una prospettiva che non lo attirava. Era stato addestrato per sopravvivere e combattere nel bushveld rhode siano, molto più a sud. Non avrebbe saputo destreggiarsi allo stesso modo nella foresta pluviale, ma non aveva altre possibilità. Per prima cosa doveva allontanarsi da Sengi-Sengi. Poi avrebbe affrontato ogni problema via via che si fosse presentato. « E questo è il numero uno », pensò quando all'improvviso i ri flettori dell'entrata principale si accesero in una fulgida aurora alo gena. L'intero complesso s'illuminò. C'erano cinque o sei figure che arrivavano correndo dall'allog gio delle guardie. S'erano vestiti in fretta: qualcuno era in mutande e canottiera. Daniel riconobbe il capitano Kajo e Chetti Singh.
Kajo brandiva una pistola automatica e Chetti Singh gli correva a fianco, gridando e agitando il braccio in direzione del Land Ro ver. Il turbante candido spiccava nel chiarore dei riflettori. Una del le guardie stava cercando di chiudere il cancello e aveva già accosta to uno dei battenti di rete metallica. Daniel accese i fari, premette la mano sul clacson e si diresse verso l'uomo, che balzò agilmente a lato. Il fuoristrada andò a urta re contro il battente non ancora bloccato e lo spostò con violenza. Daniel passò rombando. Avvertì alle sue spalle il crepitio dei fucili automatici, sentì mez za dozzina di proiettili penetrare nella carrozzeria d'alluminio del Land Rover, ma si chinò sul volante e continuò a premere l'accele ratore. La prima curva della strada parve avventarsi verso di lui. Un'al tra raffica investì la parte posteriore del fuoristrada. Il lunotto esplose in un turbine di frammenti di vetro e qualcosa lo colpì alla schiena, in alto, a un paio di centimetri dalla spina dorsale. Era sta to ferito da un proiettile già una volta, in quella guerra lontana, e riconosceva la sensazione. A giudicare dalla posizione della ferita, alta e vicina alle vertebre, doveva essere mortale, al polmone. Si aspettava di sentire l'afflusso soffocante del sangue arterioso. « Continua a correre finché puoi », pensò, e lanciò il Land Rover verso la curva a tutta velocità. Il fuoristrada si sollevò su due ruote ma non si rovesciò. Quando guardò nello specchietto retrovisore le luci del campo erano nascoste dagli alberi: si intravedeva un vago chiarore nell'o scurità. Sentiva il sangue caldo scorrere sulla schiena, ma non provava l'atteso senso di soffocamento e di debolezza. La ferita era come in torpidita. Riusciva a pensare chiaramente. Poteva proseguire. Sapeva dov'era situato il primo posto di blocco. « Circa otto chi lometri più avanti », si disse. « Al primo fiume. » Si sforzò di rammentare come ci arrivava la strada. Era passato di là mezza dozzina di volte durante le riprese degli ultimi tre giorni. Ricordava ogni curva, ogni svolta. Prese una decisione. Si inclinò contro la spalliera. La ferita era dolorosa come una coltellata, ma non perdeva molto sangue. « Emorragia interna », pensò. « Questa volta non te la caverai, Danny. » Ma proseguì in attesa che la debolezza lo vincesse. C'erano cinque strade che si diramavano da quella principale, prima del posto di blocco. Alcune erano in disuso e invase dalla ve getazione, ma almeno due venivano usate ogni giorno per portar via il legname. Scelse la prima, a poco più di tre chilometri da Sengi Sengi. Svoltò e si diresse verso ovest. Il confine dello Zaire era da quella parte, a meno di centocinquanta chilometri; ma la pista pene trava soltanto per otto chilometri nella foresta prima di intersecare lo scavo della MOMU. Doveva abbandonare il Land Rover e cercare di percorrere a piedi gli altri centoquaranta chilometri attraverso la foresta scono sciuta. L'ultimo tratto del viaggio si sarebbe svolto fra le montagne, i ghiacciai e i nevai. Poi pensò alla ferita alla schiena e comprese d'essere un illuso. Non ce l'avrebbe fatta ad arrivare tanto lon tano... La pista era piena di solchi, segnata dalle gigantesche gomme scolpite dei camion per il trasporto del legname. Era una palude di fango che aveva la consistenza e il colore delle feci, e il Land Rover avanzava con le quattro ruote motrici, sobbalzando sui solchi pro fondi. Il fango schizzava e incrostava i vetri dei fari, oscurando la luce che ormai rischiarava la strada per non più di venti passi. La ferita alla schiena era dolorosa, ma Daniel aveva ancora la mente lucida. Si toccò la punta del naso con l'indice per controllare la coordinazione. No, non l'aveva ancora perduta. All'improvviso scorse una luce più avanti, sulla pista. Un ca
mion veniva verso di lui. Subito si rese conto della possibilità che gli si offriva. Rallentò e scrutò il limitare della giungla che serrava il percorso. Intravide quasi per istinto un varco tra il fogliame e vi spinse il fuoristrada. Per una cinquantina di passi avanzò nel sottobosco pressoché impenetrabile che graffiava le fiancate. Rami e alberelli giovani ur tavano contro lo chassis. Il fondo molle della foresta succhiava le ruote; la velocità si ridusse fino a che il fuoristrada rimase bloccato. Daniel spense il motore e i fari. Rimase immobile nell'oscurità e ascoltò il camion che passava rombando diretto a est, verso Sengi Sengi, lungo la strada da cui era venuto. Quando il fragore del po tente diesel fu svanito nel silenzio, si chinò in avanti e si fece forza per esaminare la ferita alla schiena. Girò un braccio dietro le spalle e cercò a tentoni il punto doloroso. Gettò un'esclamazione e ritrasse di scatto la mano. Accese la lu ce interna ed esaminò la scalfittura sull'indice. Poi tornò a tastare delicatamente la ferita e rise per il sollievo. Una scheggia di vetro schizzata dal lunotto posteriore gli era penetrata nella schiena e s'e ra fermata contro le costole. Era una lunga ferita superficiale, e il vetro era ancora affondato nella carne. Lo estrasse e l'esaminò. Era insanguinato e scabro; e la ferita aveva ripreso a sanguinare. Ma non sarebbe morto per così poco, si disse. Gettò la scheggia dal finestrino e prese la cassetta del pronto soccorso che stava nella parte posteriore del veicolo, sotto l'attrez zatura per le riprese. Era difficile curarsi una ferita alla schiena; ma riuscì a spalmarla abbondantemente con del Betadine e a fasciarla alla meglio, anno dando i capi della benda sul petto. Nel frattempo, tendeva l'orec chio per ascoltare se si muovessero altri veicoli sulla pista, ma senti va soltanto i suoni della giungla... insetti, uccelli, mammiferi. Prese la Maglite e tornò a piedi fino alla strada per esaminare i solchi fangosi. Come aveva sperato, il grosso camion aveva schiac ciato con le ruote multiple le tracce del Land Rover, che erano ri maste solo nel punto in cui aveva abbandonato la pista. Prese un ramo morto e le cancellò con cura. Poi scrutò il fogliame che il fuo ristrada aveva danneggiato entrando nella foresta. Lo ridispose nel modo più naturale possibile e spalmò di fango le estremità spezzate dei rami perché non attirassero l'attenzione. Dopo mezz'ora di lavoro ebbe la certezza che nessuno avrebbe po tuto sospettare che un veicolo aveva lasciato la strada in quel punto e s'era nascosto a non più di quindici metri di distanza. Quasi immediatamente il risultato del suo lavoro fu messo alla prova. Vide i fari avvicinarsi dalla direzione di Sengi-Sengi. Indie treggiò di qualche passo nella foresta e si buttò al suolo. S'impia stricciò il viso e il dorso delle mani con il fango. La giacca a vento era verde-bosco, e sarebbe stato impossibile notarla. Daniel osservò il veicolo che si avvicinava lungo la pista. Si muoveva lentamente: e quando arrivò all'altezza del suo nascondi glio vide che era un mezzo da trasporto mimetizzato. Era carico di soldati hita, e gli sembrò di scorgere il turbante bianco di Chetti Singh nella cabina. Ma non era sicuro. Uno dei militari puntava un riflettore lungo il bordo della strada. Era evidente che cercavano lui. Daniel abbassò il viso nell'incavo del braccio quando il raggio del riflettore passò sulla sua testa. Il camion proseguì senza rallenta re e sparì. Daniel si alzò e tornò al Land Rover impantanato. Frugò negli armadietti e scelse le cose più importanti, la bussola sopra ogni altra cosa, e mise tutto in uno zaino. Dalla cassetta del pronto soccorso prese il necessario per le medicazioni, oltre ad antisettici e antimala rici. Non c'erano viveri sul fuoristrada: avrebbe dovuto nutrirsi a spese della foresta. Inoltre non poteva portare lo zaino nel modo normale senza che si riaprisse la ferita e perciò lo caricò sull'altra
spalla. Immaginava che la ferita avesse bisogno di qualche punto, ma non era ovviamente in grado di provvedere. « Devo attraversare la trincea della MOMU prima dell'alba », pen sò. « E l'unico posto dove sarò allo scoperto. » Abbandonò il Land Rover e s'incamminò verso ovest. Era diffi cile orientarsi nell'oscurità, in mezzo alla foresta. A intervalli di po che centinaia di metri era costretto ad accendere la torcia elettrica e a consultare la bussola. Il terreno era molle e irregolare, e Daniel si muoveva lentamente fra gli alberi. Quando arrivò allo scavo della MOMU, il cielo aperto sopra di lui si stava colorando delle prime luci. Riusciva a scorgere gli alberi sull'altro lato della trincea, ma la MOMU era passata di là alcune settimane prima e adesso lavorava una decina di chilometri più a nord. Quella parte della foresta dove va essere deserta, a meno che Kajo e Chetti Singh avessero mandato una pattuglia per intercettarlo. Era un rischio che doveva correre. Lasciò la protezione della fo resta e incominciò la traversata. Affondò fino alle caviglie nel fango rosso che gli risucchiava gli scarponi. A ogni secondo si aspettava di sentire un grido o uno sparo e già era ansimante per lo sforzo, quando arrivò finalmente agli alberi. Camminò per un'altra ora prima di fermarsi a riposare. Faceva già caldo, e l'umidità era quella di un bagno turco. Daniel si spogliò e tenne soltanto i calzoncini e gli scarponi; arrotolò gli altri indu menti e li seppellì nella terra soffice. Aveva la pelle indurita dal sole e una resistenza naturale alle punture degli insetti. Nella valle dello Zambesi era riuscito a tollerare persino quelle delle mosche tse-tse. Finché teneva coperta la ferita alla schiena, pensò, tutto sarebbe an dato per il meglio. Si alzò e proseguì. Si orientava con la bussola e l'orologio, cal colando l'andatura per avere un'idea della distanza percorsa. Ogni due ore erano sedici chilometri. Con quel ritmo avrebbe impiegato otto giorni per raggiungere il confine dello Zaire; ma naturalmente non ce l'avrebbe fatta a mantenerlo. Davanti a lui c'erano le monta gne, i ghiacciai e i nevai, e aveva abbandonato quasi tutti gli indu menti. Sarebbe stato interessante attraversare i ghiacciai abbigliato com'era, pensò mentre si preparava un nido tra le foglie sfatte e si raggomitolava per dormire. Quando si svegliò, la luce era molto fioca. Aveva fame e la feri ta alla schiena gli faceva male. Quando la toccò, si accorse che era gonfia e scottava. Mi manca solo una bella infezione, pensò, e cam biò la medicazione meglio che poteva. A mezzogiorno era tormentato dalla fame. Trovò un nido di grasse larve bianche sotto la corteccia di un albero morto. Avevano il sapore dei tuorli d'uovo crudi. « Quello che non ammazza, ingrassa », si disse, e continuò la marcia verso ovest con la bussola in mano. Nel primo pomeriggio credette di riconoscere una varietà di funghi commestibili e provò a mangiucchiarne un pezzetto. Nel tardo pomeriggio arrivò sulla riva di un fiumicello limpido. Stava bevendo, quando scorse sul fondo una sagoma scura a forma di sigaro. Recise un ramo e ne appuntì un'estremità, intagliando due spuntoni aguzzi. Poi tagliò uno dei nidi pensili di formiche dai rami di un kapok e buttò i grossi insetti rossi sull'acqua tenendosi scostato dalla riva, con la lancia rudimen tale stretta in pugno. Quasi subito un pesce salì dal fondo e cominciò a ingurgitare le formiche. Daniel gli piantò la punta della fiocina nelle branchie e lo sollevò di peso sulla riva. Era un pescegatto lungo quanto il suo braccio. Mangiò a sazietà la grassa carne gialla e affumicò il resto della carcassa su un fuoco di foglie verdi. Poteva bastare per un paio di giorni: l'avvolse nelle foglie e lo mise nello zaino. Ma quando si svegliò, l'indomani mattina, la schiena gli doleva in modo atroce e aveva il ventre gonfio per la dissenteria. Non sape va se erano state le larve, il fungo oppure l'acqua del fiumicello; ma
prima di mezzogiorno cominciò a sentirsi debolissimo. La diarrea era quasi continua e la ferita era come un tizzone ardente fra le sca pole. E più o meno allora ebbe la prima sensazione d'essere seguito. Era un istinto che s'era accorto di possedere quando era capopattu glia degli Scout, nella valle. Johnny Nzou s'era sempre implicita mente fidato di quel suo sesto senso che non li aveva mai traditi. Era come se Daniel fosse in grado di captare la concentrazione ma levola del cacciatore che seguiva le sue tracce. Vincendo il dolore e la debolezza, si voltò e percepì la presenza. Sapeva che il cacciatore era là. Doveva nascondere le tracce, si disse, sebbene sapesse che que sto avrebbe rallentato il cammino; comunque, quasi sicuramente avrebbe confuso l'inseguitore, reale o immaginario, a meno che fos se davvero molto abile o a meno che le sue capacità di mascherare le tracce si fossero atrofizzate. Giunto a un fiume si avviò nell'acqua, e da quel momento usò tutti i sotterfugi per coprire le tracce e fuorviare il cacciatore. A ogni chilometro diventava sempre più debole. La diarrea non gli da va tregua, la ferita cominciava a puzzare, e sapeva con la certezza di un chiaroveggente che l'inseguitore invisibile era ancora dietro di lui... e si avvicinava sempre di più.
Con il passare degli anni Chetti Singh, il capobracconiere, aveva messo a punto vari sistemi per contattare i suoi cacciatori. In certe zone era più facile. Nello Zambia o nel Mozambico era sufficiente raggiungere un villaggio remoto e parlare con una moglie o un fra tello, nella certezza che avrebbero inoltrato il messaggio. Nel Bot swana o nello Zimbabwe poteva addirittura affidare alla posta una lettera o un telegramma; ma contattare un pigmeo selvaggio nella foresta pluviale dell'Ubomo era l'impresa più incerta e poteva ri chiedere parecchio tempo. L'unico modo per riuscirci era raggiungere la strada principale e fermarsi a ogni duka, a ogni emporio, abbordare ogni bambuti se miaddomesticato che incontrava e corromperlo perché portasse un messaggio a Pirri nella foresta. Era sorprendente che i pigmei sel vaggi mantenessero una rete di comunicazioni nelle immense aree segrete della giungla... ma del resto erano un popolo socievole e lo quace. Il cercatore di miele di una tribù incontrava una donna di un'al tra tribù che raccoglieva erbe medicinali, e così veniva passata la pa rola, gridata dall'alto di una collina in una cantilena penetrante a un altro vagabondo al di là della valle, oppure portata su una canoa lungo i grandi fiumi fino a quando raggiungeva il destinatario. A volte occorrevano settimane; a volte, se il mittente era fortunato, potevano bastare pochi giorni. Questa volta Chetti Singh ebbe molta fortuna. Due giorni dopo che aveva affidato il messaggio a un gruppo di donne pigmee in riva a un fiume, Pirri si presentò all'appuntamento nella foresta. Come sempre, apparve con la subitaneità teatrale di uno spirito della fore sta e chiese tabacco e doni. « Hai ucciso il mio elefante? » chiese Chetti Singh, e Pirri si fru gò nel naso e si grattò fra le gambe per l'imbarazzo. « Se non mi avessi fatto chiamare, adesso l'elefante sarebbe morto. » « Ma non è morto », osservò Chetti Singh. « Quindi non hai me ritato i doni meravigliosi che ti ho promesso. » « Almeno un po' di tabacco? » implorò Pirri. « Sono il tuo schia vo fedele e il mio cuore è colmo d'amore per te. Una piccola man ciata di tabacco? » Chetti Singh gli diede la metà del tabacco che aveva chiesto e, mentre Pirri si accosciava per gustarlo, continuò: « Tutto ciò che ti
ho promesso... ti darò il doppio se ucciderai per me un altro essere e mi porterai la testa ». « Che animale è? » chiese Pirri in tono diffidente, e socchiuse gli occhi. « Un altro elefante? » « No », disse Chetti Singh. « E un uomo. » « Vuoi che uccida un uomo! » Pirri si alzò, allarmato. « Se lo faccio, verranno i wazungu, mi prenderanno e mi metteranno una corda intorno al collo. » « No », disse Chetti Singh. « I wazungu ti daranno ricchi doni, come me. » Si girò verso il capitano Kajo. « Non è vero? » « E vero », confermò Kajo. « L'uomo che devi uccidere per noi è un bianco. E un uomo malvagio, fuggito nella foresta. Noi, gli uo mini del governo, ti ricompenseremo se gli darai la caccia. » Pirri squadrò Kajo, l'uniforme, la pistola e gli occhiali scuri, e comprese che era un potente wazungu del governo: quindi rifletté con impegno. Aveva già ucciso diversi wazungu bianchi, quand'era giovane, nella guerra dello Zaire. Il governo l'aveva pagato per far lo, ed era stato facile. I wazungu bianchi erano stupidi e goffi nella foresta. Era facile seguirli, era facile ucciderli. Non capivano nep pure che lui era lì, fino a che morivano. « Quanto tabacco? » chiese. « Da parte mia, tutto il tabacco che puoi portare », disse Chetti Singh. « Altrettanto da parte mia », disse il capitano Kajo. « Dove lo troverò? » chiese Pirri, e Chetti Singh gli spiegò dove doveva cominciare le ricerche e dove pensava che l'uomo fosse di retto. « Vuoi solo la sua testa? » chiese Pirri. « Per mangiarla? » « No. » Chetti Singh non si offese. « Così saprò che hai ucciso l'uomo giusto. » « Prima ti porterò la testa dell'uomo », promise allegramente Pirri, « poi ti porterò i denti dell'elefante, e avrò più tabacco di ogni altro uomo al mondo. » E il piccolo fantasma bruno si dileguò nella foresta.
La mattina presto, prima che il caldo diventasse opprimente, Kelly Kinnear si mise al lavoro nell'ambulatorio di Gondala. Aveva più pazienti del solito: quasi tutti presentavano piaghe tropicali in fette, grosse ulcere suppuranti che se non venivano curate divorava no i tessuti fino all'osso. Altri erano stati colpiti dalla malaria o avevano gli occhi gonfi e lacrimosi per un'oftalmia causata dalle mosche. C'erano anche alcuni casi di AIDs. Non aveva bisogno di esaminare il sangue per riconoscere i sintomi, il gonfiore delle ghiandole linfatiche e la patina bianca che copriva la lingua e la gola. Kelly consultò Victor Omeru, e lui si disse d'accordo: avrebbero dovuto provare sui malati di AIDS la nuova terapia, basata sull'uso di un estratto della corteccia del selepe, che sembrava tanto promet tente. L'aiutò a preparare la dose: il quantitativo era una scelta ne cessariamente arbitraria, e lo stavano discutendo quando ci fu un trambusto improvviso davanti all'ingresso dell'ambulatorio. Victor guardò dalla finestra e sorrise. « Sono arrivati i suoi pic coli amici », disse a Kelly, e lei, ridendo di gioia, uscì nel sole. Sepoo e sua moglie Pamba erano accosciati ai piedi della veran da, e chiacchieravano e ridevano con gli altri pazienti in attesa. Quando la videro gridarono allegramente e accorsero per prenderle le mani e raccontarle cos'era successo dal loro ultimo incontro. Cer cavano di darsi sulla voce a vicenda perché ognuno voleva essere il primo a riferire i pettegolezzi più piccanti della tribù. La tennero per mano e andarono a sedersi con lei sul gradino più alto della ve randa, senza smettere di parlare all'unisono. « Ssvilli ha avuto un bambino. E un maschio, e ha promesso che
lo porterà qui da te al prossimo plenilunio », disse Pamba. « Presto ci sarà una grande caccia con le reti, e parteciperanno tutte le tribù... » disse Sepoo. « Ti ho portato un fascio delle radici che ti ho promesso l'ultima volta che ci siamo incontrate », strillò Pamba, che non intendeva la sciarsi mettere in ombra dal marito. Gli occhi vivaci erano semina scosti in una ragnatela di grinze, e le mancava metà dei denti. « Ho ucciso due colobi », si vantò Sepoo. « E ti ho portato una delle pelli, così potrai farti un cappello bellissimo, Kara-Ki. » « Sei molto gentile, Sepoo », lo ringraziò Kelly. « Ma che notizie arrivano da Sengi-Sengi? E le macchine che mangiano la terra e di vorano la foresta? Si sa qualcosa del grosso uomo bianco con i ca pelli ricci e della donna con i capelli di fuoco che guarda sempre dentro la piccola scatola nera? » « E strano », disse Sepoo con aria d'importanza. « C'è una notizia strana. L'uomo dai capelli ricci è fuggito da Sengi-Sengi. E scappato a nascondersi nella foresta. » Parlava in fretta per impedire che Pam ba lo prevenisse. « E i wazungu del governo a Sengi-Sengi hanno of ferto a mio fratello Pirri grandi tesori come ricompensa perché dia la caccia all'uomo e lo uccida. » Kelly lo fissò inorridita. « Deve ucciderlo? » balbettò. « Vogliono che Pirri lo uccida? » « E gli tagli la testa », confermò soddisfatto Sepoo. « Non è stra no ed eccitante? » « Devi impedirlo! » Kelly balzò in piedi e fece alzare Sepoo. « Non devi lasciare che Pirri lo uccida. Devi salvare il bianco e por tarlo qui a Gondala. Mi hai sentito, Sepoo? Vai, subito! Presto! Devi fermare Pirri. » « E io andrò con lui per assicurarmi che faccia quello che gli hai detto, Kara-Ki », promise Pamba. « E un vecchio stupido, e se sente fischiare il camaleonte del miele o se incontra uno dei suoi amici nella foresta dimenticherà tutto quello che gli hai detto. » Si rivolse al marito. « Vieni, vecchio », disse pungolandolo con il pollice. « Andiamo a cercare il wazungu bianco per condurlo da Kara-Ki. Andiamo prima che Pirri lo uccida e porti la testa a Sengi-Sengi. »
Pirri il cacciatore piegò a terra il ginocchio ed esaminò le tracce. Si assestò l'arco sulla spalla e scosse la testa con riluttante ammira zione. « Sa che sono qui, dietro di lui », mormorò. « Come può saper lo? A meno che, naturalmente, sia uno dei bundi. » Toccò la traccia dove il wazungu era uscito dall'acqua. L'aveva fatto con grande abilità, lasciando segni che soltanto uno abile co me Pirri poteva riconoscere. « Sì, sai che ti sto seguendo. » Pirri annuì. « Ma dove hai impa rato a muoverti e a coprire le tue tracce quasi come un bambuti? » mormorò. Aveva trovato le tracce del wazungu dove aveva attraversato la grande strada che la macchina gialla divoratrice della terra e degli alberi aveva aperto nella foresta. La terra era molle, in quel tratto, e il wazungu aveva lasciato orme che anche un cieco avrebbe potuto seguire in una notte buia. Era diretto a ovest, verso le montagne, come aveva detto Chetti Singh. Pirri aveva pensato che sarebbe stata una caccia rapida e facile, soprattutto quando aveva trovato il punto dove il wazungu aveva staccato un pezzo di fungo velenoso da un albero morto e ne aveva mangiato un po'. Aveva trovato il segno del morso nel pezzo di fungo gettato via, e aveva riso. « Le tue budella diventeranno acqua e scorreranno come il grande fiume, o stupido wazungu. Ti uccide rò mentre starai accoccolato per cagare. » Poi aveva trovato il posto dove il wazungu aveva dormito la notte prima e, li accanto, dove aveva vuotato le budella per la pri
ma volta. « Ormai non andrai lontano prima che ti raggiunga e ti uccida », aveva detto ridendo. S'era rimesso in cammino, silenzioso come una spira di fumo scuro che si confondeva tra le ombre e i colori scuri della foresta, seguendo la facile pista a una velocità doppia di quella dell'uomo che aveva lasciato le tracce. Aveva trovato a intervalli spruzzi di le tame giallo avvelenato. Poi le tracce erano arrivate sulla riva di un fiumicello, s'erano immerse nell'acqua ed erano sparite. Pirri aveva lavorato per quasi mezza giornata, esaminando en trambe le rive per oltre un chilometro e mezzo, verso monte e verso valle, prima di trovare il punto dove il wazungu era uscito dal l'acqua. « Sei furbo », ammise. « Ma non sei furbo come Pirri. » Riprese a seguire le tracce, più lentamente perché l'uomo che seguiva era abile, lasciava segni falsi e sfruttava l'acqua, e Pirri era costretto a decifrare ogni suo inganno. Aggrottava la fronte mentre rifletteva e poi sorrideva soddisfatto. « Ah, sì, varrà la pena di ucciderti. Sare sti riuscito a sfuggire a un cacciatore meno grande. Ma io sono Pirri. » Nel tardo pomeriggio del secondo giorno raggiunse una radura e, per la prima volta, avvistò il wazungu. All'inizio credette che fos se una delle rare antilopi della foresta, inerpicatasi sul pendio di fronte a lui. Colse un guizzo di movimento in una delle radure, a circa un chilometro e mezzo. Per un istante persino la sua vista for midabile si confuse. Non sembrava un uomo, soprattutto un bian co: e poi, mentre spariva fra gli alberi alti al limitare della foresta, si accorse che s'era coperto di fango dalla testa ai piedi e portava un cappello di corteccia e di foglie che alterava il contorno del capo e rendeva difficile riconoscerne la sagoma umana. « Ah! » Pirri si soffregò il ventre, felice, e si concesse un altro pizzico di tabacco per festeggiare l'avvistamento. « Sì, sei davvero furbo, mio wazungu. Persino io non riuscirò a prenderti prima che scenda l'oscurità. Ma domattina la tua testa sarà mia. » Quella notte Pirri dormì senza accendere il fuoco al margine del la radura dove aveva visto per l'ultima volta il bianco, e si rimise in cammino non appena la luce fu sufficiente per distinguere le tracce. A metà della mattina trovò il wazungu. Era sdraiato ai piedi di un colossale mogano africano, e a prima vista Pirri pensò che fosse già morto. Aveva cercato di coprirsi con le foglie in un ultimo, pa tetico tentativo di sfuggire al cacciatore implacabile. Pirri si avvicinò molto lentamente, prendendo ogni precauzione. Stringeva nella destra il machete a lama larga, e l'arma era affilata come un rasoio. Quando arrivò finalmente a fianco di Daniel Armstrong si ac corse che, per quanto sofferente e dimagrito, non era ancora morto. Era privo di sensi ma respirava, con un sommesso gorgoglio, tutto raggomitolato come un cane ferito sotto la coltre di foglie morte. La testa era inclinata e il sudore aveva cancellato il fango sotto la li nea della mascella, lasciando una traccia bianca. Era il segno ideale per sferrare il colpo che l'avrebbe decapitato. Pirri controllò con il pollice la lama del machete. Era abbastan za affilata per radersi la barba. L'alzò sopra la testa con entrambe le mani. Il collo dell'uomo non era più grosso di quello d'uno dei duiker della foresta, la preda abituale di Pirri. Il machete sarebbe affondato nella carne e nell'osso con la stessa facilità e la testa si sa rebbe staccata dal tronco. L'avrebbe appesa per i capelli a un ramo per circa un'ora, in modo che il sangue finisse di colare, poi l'avreb be affumicata a un fuoco lento di foglie verdi e d'erbe per conser varla prima di metterla in una reticella di corteccia per portarla a Chetti Singh e ritirare la ricompensa. Pirri provò un guizzo di rimpianto mentre indugiava con la lama levata prima di sferrare il colpo. Era un vero cacciatore e perciò provava sempre un senso di tristezza per la selvaggina al momento
di colpirla. Il credo della tribù gli imponeva di rispettare e onorare gli animali che uccideva, soprattutto quando s'erano dimostrati astuti e coraggiosi. « Muori in fretta », implorò silenziosamente. Stava per vibrare il colpo quando una voce calma risuonò alle sue spalle: « Fermati, fratello mio, o ti pianterò nel fegato questa freccia avvelenata ». Sbalordito, Pirri spiccò un salto e si voltò fulmineamente. Sepoo era cinque passi più indietro. Teneva l'arco teso e la frec cia accostata alla guancia. Il veleno sulla punta era denso e viscoso come caramello. La mira era rivolta infallibilmente al petto di Pirri. « Tu sei mio fratello! » esclamò inorridito Pirri. « Sei il frutto del grembo di mia madre. Non vorrai scagliare quella freccia! » « Se lo credi, Pirri, fratello mio, sei ancora più stupido di quan to ti giudico. Kara-Ki vuole il wazungu bianco e lo vuole vivo. Se verserai una sola goccia del suo sangue, questa freccia ti attraverse rà dal petto alla schiena. » « E io », disse Pamba dalle ombre della foresta, « ballerò e cante rò intorno a te mentre ti torcerai al suolo. » Pirri indietreggiò. Sapeva che sarebbe riuscito a convincere Se poo a fare o a non fare qualunque cosa: ma Pamba era diversa. Aveva un gran rispetto e un vero timore della cognata. « Mi hanno offerto grandi tesori per uccidere questo wazungu. » La voce di Pirri era stridula. « Li dividerò in parti eguali con voi. Tutto il tabacco che potete portare! Ve lo darò! » « Colpiscilo alla pancia », ordinò allegramente Pamba, e il brac cio di Sepoo tremò per lo sforzo mentre il bambuti chiudeva un oc chio per assestare la mira. « Aspetta! » urlò Pirri. « Io ti amo, mia cara sorella. Non puoi permettere che questo idiota mi uccida. » « Ora prenderò una presina di tabacco », disse freddamente Pamba. « Se sarai ancora qui quando finirò di sternutire... » « Me ne vado! » Si tuffò nel sottobosco e nell'attimo in cui si sottrasse alla mira gridò: « Vecchia scimmia immonda... » Lo sentirono sferrare colpi con il machete contro i cespugli per sfogare la rabbia e la frustrazione. « Solo un marcio babbuino de crepito come Sepoo poteva sposare una vecchiaccia bavosa... » I suoni deliranti della sua furia si attenuarono mentre si allonta nava nella foresta. Sepoo abbassò l'arco e si girò verso Pamba. « Non mi ero divertito tanto dal giorno che Pirri cadde nella sua trappola, addosso al bufalo che vi era già finito dentro! » sghignaz zò. « Però ti ha descritto bene, mia amabile moglie. » Pamba non gli badò e si avvicinò a Daniel Armstrong che giace va privo di sensi, semisepolto dal terriccio e dalle foglie morte. S'in ginocchiò accanto a lui e lo esaminò in fretta ma attentamente, e gli tolse le formiche dalle narici e dagli angoli degli occhi. « Dovrò darmi da fare per salvarlo e portarlo a Kara-Ki », disse mentre frugava nel sacchetto delle medicine. « Se perdo questo, non so dove gliene troveremo un altro. »
Mentre Pamba curava Daniel, Sepoo costruì una capanna intor no a lui, poi accese un fuocherello per scacciare l'umidità e le zan zare. Si accosciò sulla soglia e guardò la moglie al lavoro. Per medicare e curare, Pamba era la donna più esperta di tutti i bambuti; con dita svelte ed efficienti pulì la ferita sulla schiena del wazungu e applicò un impiastro di radici e foglie bollite. Poi gli ver sò in gola quantità abbondanti di un infuso caldo che doveva servi re a frenare la diarrea e a sostituire i liquidi perduti dall'organismo Mentre lavorava, continuava a canticchiare e a mormorare paro le d'incoraggiamento all'uomo privo di sensi. I seni nudi pendevano vizzi e vuoti come borse per il tabacco dal petto ossuto, e la collana di avorio e di vetro tintinnava a ogni movimento.
Daniel riprese i sensi dopo meno di tre ore. Alzò gli occhi, stor dito, verso i due vecchi minuscoli accovacciati intorno a lui nella ca panna fumosa, e chiese in swahili: « Chi siete? » « Io sono Sepoo », rispose l'uomo. « Famoso cacciatore e stima to saggio dei bambuti. » « E io sono Pamba, moglie del più grande bugiardo della foresta dell'Ubomo », disse la donna con una risata. L'indomani mattina la diarrea era cessata, e Daniel poté man giare un po' del bollito di carne di scimmia e di erbe che Pamba gli aveva preparato. Il giorno dopo l'infezione alla schiena s'era atte nuata, e Daniel si sentiva abbastanza in forze per mettersi in cam mino verso Gondala. All'inizio camminava lentamente e si appoggiava a un bastone, perché aveva ancora le gambe deboli e gli sembrava di avere la testa piena di ovatta e distaccata dal collo. Pamba gli teneva compagnia, lo guidava a passo tranquillo nella foresta e continuava a chiacchie rare e a ridere allegramente. Sepoo si spingeva più lontano, per cac ciare e raccogliere cibo secondo l'usanza dei bambuti. Daniel aveva già intuito l'identità della misteriosa Kara-Ki che aveva mandato i pigmei a salvarlo; ma appena Pamba gliene diede la possibilità la interrogò, cercando di farsela descrivere. « Kara-Ki è molto alta », disse Pamba. Ma Daniel si rendeva conto che per un bambuti tutti sono molto alti. « E ha il naso lungo a punta. » I bambuti avevano il naso largo e schiacciato. La descrizione di Pamba poteva valere per qualunque wazungu; Daniel non insistette e segui zoppicando la pigmea. Verso il crepuscolo, Sepoo usci all'improvviso dalla foresta, portando sulle spalle la carcassa di un duiker. Quella notte banchet tarono con il fegato e il filetto. L'indomani mattina Daniel si sentì abbastanza forte per abbandonare il bastone, e Pamba accelerò l'andatura. Nel pomeriggio seguente arrivarono a Gondala. I pigmei non avevano avvertito Daniel dello spettacolo che l'attendeva: quando usci dalla foresta, si trovò di fronte alla piccola comunità, agli orti e ai ruscelli; le montagne incappucciate di neve formavano uno sfon do grandioso. « Daniel. » Kelly Kinnear lo accolse sui gradini della veranda; e, anche se s'era aspettato di trovarla, Daniel non era preparato alla gioia che gli dava il rivederla. Era fresca, viva e attraente; tuttavia senti in lei un certo riserbo quando gli si avvicinò e gli strinse la ma no. « Temevo che Sepoo non arrivasse in tempo... » Poi Kelly s'in terruppe e indietreggiò d'un passo. « Dio, ha un'aria da far paura Cosa diavolo le è successo? » « Grazie per il complimento. » Daniel sorrise malinconico. « Ma per rispondere alla domanda... mi sono successe tante cose dall'ulti ma volta che ci siamo visti. » « Venga in ambulatorio. Voglio darle subito un'occhiata. » « Prima non potrei fare un bagno? Puzzo tanto che non mi sop porto. » Kelly rise. « Si, ha un odore un po' forte, ma non più della mag gior parte dei miei pazienti. Ci sono abituata. » Lo condusse nell'arnbulatorio e lo fece stendere sul lettino. Do po aver esaminato la ferita, commentò: « Pamba ha fatto un ottimo lavoro. Le faro un'iniezione di antibiotici e dopo il bagno le mette rò una nuova medicazione. Ci sarebbe voluto qualche punto, ma è troppo tardi. Avrà una cicatrice interessante da aggiungere alle altre ». Girò la testa per sorridergli mentre si lavava le mani nel catino. « Ha l'aria di aver preso parte a diverse zuffe. » « La colpa è sempre stata degli altri », assicurò Daniel. « E, a proposito di zuffe, non mi ha permesso di spiegarmi l'ultima volta che ci siamo visti. E saltata sulla motocicletta senza darmene il
tempo. » « Lo so. E il mio sangue irlandese. » « E adesso posso spiegarmi? » « Perché prima non fa il bagno? » La vasca era di ferro zincato, sistemata in una capanna, ed era abbastanza grande per contenere Daniel se teneva le ginocchia solle vate sotto il mento. Gli inservienti l'avevano riempita con secchi d'acqua scaldata sul fuoco all'aperto. C'erano anche indumenti pu liti: calzoncini kaki e una camicia, stinti e lisi ma lindi e ben stirati, e un paio di sandali di cuoio non conciato. Uno degli inservienti portò via i vecchi calzoncini puzzolenti e macchiati di sangue e gli scarponi infangati. Quando Daniel si fu vestito, tornò da Kelly nell'ambulatorio. « Che trasformazione », commentò lei. « Adesso sistemiamo la schiena. » Daniel sedette sull'unica sedia e Kelly si avvicinò. Le sue dita erano leggere e fresche. Quando gli parlava, Daniel sentiva il respi ro di lei sul collo: il contatto delle mani e l'alito profumato erano piacevoli. « Non l'ho ancora ringraziata di aver mandato i pigmei a salvar mi la vita », disse. « Fa parte del mio lavoro. Non è niente. » « Ho un debito con lei. » « Me ne ricorderò. » « Era l'ultima persona che mi aspettavo di trovare qui », disse Daniel. « Ma quando Pamba l'ha descritta ho cominciato a sospet tare. Come ha fatto a entrare nell'Ubomo? E cosa diavolo ci fa? Se Taffari la cattura, la farà fucilare sulla spiaggia o le metterà in testa un nido di calabroni. » « Ah, dunque sta cominciando a scoprire la verità su Ephrem Taffari. Non è il salvatore della patria che lei credeva, eh? » « Non ricominciamo a litigare », ribatté Daniel. « Sono ancora troppo debole per difendermi. » « E debole come un toro Guardi che muscoli. Bene, e adesso l'i niezione. Si sdrai sul lettino, e via i calzoni. » « Ehi, non può farla nel braccio? » « Non ha niente che io non abbia già visto. Avanti! » Borbottando, Daniel si sdraiò bocconi e abbassò a metà i cal zoncini. « Non c'è niente da vergognarsi, anzi non e niente male », assicu rò Kelly mentre faceva l'iniezione. « Bene, ecco fatto. Si vesta e ven ga a cena. Ho un'altra sorpresa per lei. Un ospite, qualcuno che lei non incontra da anni. » Nel tramonto, si avviarono dall'ambulatorio all'alloggio di Kelly in fondo alla radura. Si fermarono un momento a guardare il sole che trasformava i Monti della Luna in uno splendore d'oro e di fiamme. « Porto sempre con me il ricordo di questa bellezza, dovunque io vada », mormorò Kelly. « E uno dei motivi per cui torno sempre. » Daniel si sentì commosso da quella reazione non meno che dalla grandiosità della scena. Avrebbe voluto prenderle il braccio, ma si tenne a distanza. Dopo qualche minuto proseguirono. Nella veranda del bungalow di Kelly c'era un tavolo apparec chiato. E al tavolo era seduto qualcuno che si alzò al loro avvici narsi. « Dottor Armstrong, è un piacere rivederla. » Daniel lo fissò sbalordito. Poi gli corse incontro. « Avevo sentito dire che era morto, signor presidente. Ucciso da un attacco di cuore o da Taffari. » « La notizia della mia morte era piuttosto esagerata. » Victor Omeru rise e strinse la mano di Daniel. « Ho trovato una bottiglia di whisky nell'armadietto dei medici nali », disse Kelly. « Mi sembra l'occasione adatta per berlo. » Versò
un po' di liquore dorato nei bicchieri e propose un brindisi. « All'U bomo! E che venga liberato presto dalla tirannia. » La cena era molto semplice ma abbondante: pesce di fiume e verdure degli orti di Gondala. La conversazione non si arenò nep pure per un istante. Victor Omeru spiegò a Daniel le fasi della rivoluzione, la sua fu ga nella foresta e ciò che aveva fatto in seguito. « Con l'aiuto di Kelly sono riuscito a fare di Gondala il quartier generale della resistenza contro la brutale dittatura di Taffari », concluse, ma Kelly insistette. « Victor, dica a Daniel cos'ha fatto Taffari al Paese e ai suoi abitanti dopo aver preso il potere. Daniel si è lasciato convincere che Taffari è una specie di Cristo negro. Anzi, è venuto qui a girare un documentario per esaltare le virtù di quell'uomo... » « No, Kelly », l'interruppe Daniel. « Non è affatto così. E una storia molto più complicata. Ho accettato di realizzare il documen tario per ragioni personali. » Raccontò dello sterminio della fami glia di Johnny Nzou, delle responsabilità di Ning Deng Kong, del la presenza della Lucky Dragon nell'Ubomo e precisò il ruolo di Chetti Singh. « Sarò molto sincero », disse alla fine. « Quando sono venuto qui, non pensavo a Taffari e ai problemi dell'Ubomo. Volevo ven dicarmi, e il contratto per il documentario serviva allo scopo. Poi, una volta arrivato, ho cominciato a scoprire cosa succedeva vera mente nel Paese... » Descrisse le atrocità della baia dell'aquila pe scatrice e dei forzati che aveva visto e filmato. Victor Omeru e Kelly si scambiarono un'occhiata. Poi il vecchio annuì e si rivolse a Da niel. « Taffari ha catturato almeno trentamila uhali e li costringe a la vorare nelle miniere e nella foresta. Sono schiavi che vivono in con dizioni spaventose: muoiono nei campi come le mosche... per la fa me, le percosse, le esecuzioni. Non so neppure descriverle tanto or rore. » « E sta devastando la foresta », intervenne Kelly. « Sta distrug gendo milioni di ettari di foresta pluviale. » « Ho visto al lavoro l'unità mineraria », puntualizzo Daniel. « Per la verità, se non altro questo è in linea con le mie convinzioni sullo sfruttamento controllato delle risorse naturali di un Paese, in base al principio della rinnovabilità. » Kelly e Victor Omeru lo fissarono increduli. Poi Kelly esclamò, in tono furioso: « Approva quel che sta facendo alla foresta? Ma è impazzito? E una devastazione, un saccheggio. Avevo avuto ragio ne sul suo conto, la prima volta! E d'accordo con i predoni! » « Calma, Kelly. » Victor Omeru alzò le mani. « Non sia così im pulsiva. Lasci che Daniel ci racconti che cosa ha visto e che cosa ha filmato. » Con uno sforzo evidente, Kelly si dominò. Ma era ancora palli da di rabbia, e le brillavano gli occhi. « D'accordo, Daniel Armstrong, ci dica cosa le ha mostrato Taf fari e cosa le ha permesso di filmare. » « Mi ha mostrato la MOMU in funzione... » « La MoMu? » esclamò Kelly. « Al singolare? » « Kelly, la prego. » Omeru l'interruppe di nuovo. « Lasci che Da niel finisca. » La donna ansimava, tuttavia annuì e sedette mentre Daniel ri prendeva a parlare. « Io e Bonny abbiamo filmato la MOMU e Taffari ha spiegato che dopo il passaggio del veicolo la trincea sarebbe stata colmata e ri piantata. » « Ripiantata! » scattò Kelly. Omeru alzò le spalle, rassegnato, e la lasciò continuare. « Mio Dio! Le ha parlato dei reagenti chimici che hanno incominciato a usare nelle settimane scorse per raffinare il platino mentre passa attraverso i tube mills della MoMu? »
« Sì. » Daniel annuì. « Ha dichiarato che non permetterà di usare reagenti e catalizzatori durante il processo d'estrazione, anche se ciò comporta una notevole riduzione nella produzione del platino e del la monazite. » « E gli ha creduto? » chiese Kelly. « L'ho visto con i miei occhi », rispose Daniel, che cominciava a irritarsi. « L'ho filmato. Certo che gli ho creduto. » Kelly si alzò di scatto; andò a prendere una carta dell'Ubomo e l'aprì davanti a Daniel. « Mi mostri dove ha visto in azione la MOMU », ordinò. Daniel esaminò la carta e indicò un punto un po' più a nord di Sengi Sengi. « All'incirca qui. Pochi chilometri a nord del campo. » « Fesso! » gridò Kelly. « Taffari l'ha imbrogliata. Le ha mostrato il progetto pilota. Una commedia inscenata per lei. La vera attività mineraria si svolge qui. » Batté il pugno su un'area di ottanta chilo metri, ancora più a nord. « Qui, a Wengu. Ed è maledettamente di verso da quel che le ha mostrato Taffari. » « Diverso in che senso? » chiese Daniel. « Fra parentesi, non mi piace sentirmi dare del fesso. » « Si è lasciato imbrogliare. » Kelly cambiò tono. « Ma le spiego in che modo l'attività principale è diversa dal progetto pilota. In nanzi tutto, è... » « Un momento, Kelly », intervenne gentilmente Victor Omeru. « Non gli dica niente. Sarebbe molto più impressionante e credibile se glielo mostrasse. » Kelly lo fissò per un momento, poi annuì. « Ha ragione, Victor. Lo porterò a Wengu e glielo mostrerò. E dacché saremo là, potrà filmare cosa sta facendo alla foresta quel bastardo, e potrà mostrar lo al suo amicone sir Tug Harrison della malora, se non lo sa già. » « Non sono un operatore », obiettò Daniel. « Se lei non sa usare una telecamera dopo averci lavorato per an ni, dottor Daniel, allora non è molto sveglio. » « D'accordo, potrei usare una telecamera in modo non proprio artistico ma passabile. Se l'avessi. Dove pensa che possa trovare una telecamera in mezzo alla foresta? » « Dov'è finita quella sua amichetta dai capelli rossi? » chiese Kelly. « Bonny non è la mia amichetta. La smetta di sparare accuse alla cieca... » Daniel s'interruppe e la fissò. « Accidenti! » esclamò. « Ha ragione. Ho lasciato la telecamera sul Land Rover. Se gli scagnozzi di Taffari non l'hanno trovata, è ancora là. » « Perché non va a prenderla? » chiese soavemente Kelly. « La fa rò accompagnare da Sepoo. » « Ti ho portato la testa del wazungu bianco », annunciò dram maticamente Pirri il cacciatore. Si tolse dalla spalla la sacca di rete e la buttò ai piedi di Chetti Singh. La testa rotolò fuori della sacca e Chetti Singh spiccò un balzo indietro con un grido di ripugnanza. La testa era priva di pelle, la carne era putrefatta e il lezzo così violento da dare la nausea. « Come faccio a sapere che è la testa del wazungu bianco? » « Perché lo dico io, Pirri il cacciatore. » « Non è certo una prova assoluta, non importa », disse Chetti Singh in inglese, poi tornò a parlare in swahili. « Quest'uomo è morto da molto tempo e le formiche e i vermi l'hanno quasi divora to. Non l'hai ucciso tu, Pirri. » « No », ammise Pirri. « Questo stupido wazungu aveva mangiato un fungo velenoso ed è morto nella foresta prima che potessi tro varlo e ucciderlo. Le formiche l'avevano mangiato, come hai detto tu, ma ti ho portato la testa perché così diceva il nostro accordo. » Pirri chiamò a raccolta tutta la sua dignità e si erse in tutti i suoi
centotrentacinque centimetri di altezza. « Ora tu devi darmi quel che avevi promesso, soprattutto il tabacco. » Era una speranza molto remota, e persino Pirri se ne rendeva conto. Per prendere la testa aveva scavato in una delle fosse comuni che le guardie hita avevano aperto nella foresta per seppellire i pri gionieri morti nei campi di lavoro forzato. « Sei certo che sia la testa del wazungu bianco? » chiese Chetti Singh. Non credeva al pigmeo, ma d'altra parte doveva placare Ning Deng Kong e il presidente Taffari. Non osava confessare a quei due la possibilità che Armstrong si fosse salvato. Pirri gli offri va una via d'uscita dal problema. « E il wazungu », confermò Pirri. Il sikh rifletté per qualche istante. « Prendila. » Toccò con la punta del piede la testa puzzolente. « Portala nella foresta e seppelliscila. » « E la mia ricompensa? Il tabacco, soprattutto? » Il tono di Pirri divenne lagnoso e implorante. « Non mi hai portato la testa intera: mancano la pelle e i capelli. Quindi non posso darti l'intera ricompensa. E te la darò solo quan do mi porterai i denti dell'elefante, com'eravamo d'accordo. » Pirri lanciò un urlo di rabbia e sfoderò il machete. « Mettilo via », disse il sikh in tono conciliante. « Altrimenti ti faccio scoppiare la testa con questa. » E mostrò al pigmeo la pistola Tokarev nascosta nella tasca della sahariana. La smorfia di Pirri si trasformò in un sorriso. « Era solo uno scherzo, padrone. Io sono il tuo schiavo. » Rinfoderò il machete. « Andrò a prendere i denti dell'elefante, come tu comandi. » Raccol se la testa mozza ma quando rientrò nella foresta si sentiva le visce re e il petto pieni di tanta collera che credeva di scoppiare. « Nessuno può imbrogliare Pirri », mormorò, e mentre correva sferrò un fendente con il machete a un tronco. « Pirri ucciderà l'uo mo che l'imbroglia », promise. « Tu vuoi una testa, uomo con un braccio solo. Ti darò una testa. La tua. » « Daniel Armstrong è morto », annunciò Chetti Singh. « Il bam buti mi ha portato la testa. E morto nella giungla. » « Non ci sono dubbi? » chiese il presidente Taffari. « Nessuno », affermò Chetti Singh. « L'ho vista personalmente con i miei occhi. » « Quindi resta un unico testimone, la donna. » Ning Deng Kong sembrava sollevato. « Dovrebbe sbarazzarsi immediatamente di lei, eccellenza. Dovrà sparire nella foresta come Armstrong. » Ephrem Taffari prese il bicchiere vuoto e fece tintinnare i cubet ti di ghiaccio. Il capitano Kajo corse verso il piccolo bar dello stu dio presidenziale e gli preparò un gin and tonic. « Non ha dimenticato la cassetta? » chiese Taffari mentre Kajo gli porgeva rispettosamente il bicchiere. « No », disse Deng. « Ma quando la donna avrà recuperato il nastro all'ambasciata, dovremo liberarci di lei. » Esitò per un mo mento. « Potrei provvedere personalmente. » Ephrem Taffari gli sorrise. « Ah, sì », disse, annuendo. « Ho sentito dire che ha un hobby piuttosto inconsueto, signor Ning. » « Non so che cosa intenda, signor presidente », rispose seccamen te il cinese. « Volevo solo assicurarmi che il lavoro venisse fatto nel modo dovuto. Non vogliamo altri conti in sospeso. » « Giustissimo, signor Ning », disse Taffari. « Quella donna sta diventando una noia. Non m'interessa più. Quando avremo recupe rato il nastro, sarà sua. Ma si assicuri che non ci siano errori. » « Si fidi di me, signor presidente. » « Oh, sì, signor Ning, mi fido di lei come lei si fida di me. Dopo tutto siamo soci, no? » « Per la verità, con Danny siamo d'accordo che verrà a ripren
derlo personalmente. » Sir Michael Hargreave si guardò le unghie, poi mise una mano in tasca e andò alla finestra del suo studio nel l'ambasciata britannica. Guardò il lago. « Non mi aveva detto che avrei dovuto consegnarlo a una terza persona. Deve capire la mia posizione, signorina... ah... signorina Mahon. » Il ventilatore del soffitto girava e strideva mentre Bonny riflette va velocemente. Sapeva che non doveva apparire troppo ansiosa, sebbene immaginasse quali potevano essere le conseguenze se fosse tornata da Ephrem Taffari a mani vuote. « Non credevo che sarebbe stato un problema. » Si alzò. « Danny mi ha chiesto di ritirarlo. Probabilmente si arrabbierà se non glielo porto, ma non credo che il nastro sia molto importante. Mi dispia ce, ma non ho pensato di chiedere a Danny di scrivere un biglietto. Comunque grazie per avermi ricevuta. Spiegherò a Danny che non ha ritenuto opportuno consegnare il nastro a me. » Tese la mano e sfoggiò il sorriso più sexy, spingendo in avanti il seno. Sir Michael abbassò lo sguardo. Poi decise. « Senta, immagino che sia tutto in regola dato che è l'assistente di Danny. Non è un'estranea... » Esitò ancora. « Non le chiedo di farlo, se non lo ritiene giusto », disse Bonny. « Sono sicura che Danny capirà se non si fida di me. » « Buon Dio, mia cara signorina, non è una questione di fi ducia. » « Io pensavo di sì. » Bonny sbatté le palpebre. « Le dispiacerebbe firmarmi una ricevuta? Mi scusi, ma devo mettermi in regola con Danny. » « Capisco benissimo, sir Michael. » Hargreave scribacchiò una ricevuta su un foglio di carta intesta ta dell'ambasciata e Bonny firmò e aggiunse il numero del passa porto. Sir Michael andò nella stanza accanto; Bonny lo sentì girare una chiave in una serratura. Poi ci fu il suono metallico di una cassafor te d'acciaio che si apriva e si chiudeva. Dopo pochi minuti l'amba sciatore tornò e le porse una grossa busta con il nome di Danny in stampatello. Bonny si sforzò di nascondere il sollievo; ma, quando la prese, le tremava la mano. « Mi saluti Danny », disse sir Michael mentre l'accompagnava al la porta. « Quando tornerà da Sengi-Sengi? » « Io parto oggi per andare a raggiungerlo... » Bonny, adesso, si controllava meglio e chiacchierava con disin voltura. Si strinsero la mano. « Sabato prossimo ci sarà uno dei nostri soliti cocktail », disse Michael. « Se lei e Danny sarete tornati in città, dovrete venire asso lutamente. Dirò alla signorina Rogers di mandare l'invito. » La notizia della scomparsa di Daniel Armstrong non era stata ancora segnalata all'ambasciata. Ephrem Taffari voleva che tutti i conti in sospeso venissero chiusi prima che fosse dato l'allarme. Bonny uscì e raggiunse il capitano Kajo che attendeva al volante di un Land Rover militare. Strinse la busta sulle ginocchia, ma riu scì a sorridere a sir Michael mentre varcavano il cancello dell'amba sciata. Poi esalò un gran sospiro e si abbandonò contro la spalliera. « Il presidente Taffari la sta aspettando sullo yacht, signorina Mahon », disse il capitano Kaio, e prese la strada che conduceva al porto. Lo yacht era ormeggiato al molo della Marina militare, dietro lo stabilimento per la lavorazione del pesce. Era stato il giocattolo di un ricco affarista asiatico, uno di quelli che Taffari aveva espulso e rispedito in Gran Bretagna dopo aver preso il potere. Naturalmente aveva confiscato tutte le proprietà dell'uomo, e la barca era diven tata lo yacht presidenziale. Era un quindici metri di Camper & Nicholson, elegante e attrez zato con tutti i comfort, anche se gran parte delle apparecchiature
elettroniche non funzionava più, e non era stata sostituita, e la verniciatura e le vele non erano più nuovissime. Ma il bar era ben fornito e, dato che lo yacht prendeva raramente il largo, il fatto che non fosse tecnicamente in ordine non aveva grande importanza. Nella cabina principale c'erano due uomini, seduti al tavolo di tek rosso. Il presidente Taffari stava esaminando il rapporto mensile dei lavori e il rendiconto dell'uDc. Sorrideva e annuiva. Ning Deng Kong l'osservava: quando Taffari posò il documento e alzò gli oc chi, sorrise a sua volta. « Sono davvero impressionato, signor Ning. E arrivato nell'Ubo mo da pochissimo tempo per assumere la direzione della società, ma i risultati sono davvero spettacolari. » « E molto generoso, eccellenza. » Deng accennò un inchino. « Ma posso dire che mi aspetto un miglioramento anche più eviden te nei mesi prossimi. Il mio predecessore inglese aveva lasciato molti problemi, ma li sto risolvendo. » « E il deposito per la manutenzione dei veicoli? E uno dei più se ri motivi di preoccupazione. » Il sorriso di Taffari svanì. « E giusto, signor presidente. Abbiamo in servizio più di mille veicoli pesanti, senza contare le installazioni MOMU vere e proprie. Le spese di manutenzione ammontavano a più di tre milioni di dol lari al mese quando sono arrivato qui. Come può vedere, sono riu scito a ridurle di circa il quaranta per cento... » La discussione durò un'altra ora. Poi sul ponte risuonò un passo e qualcuno bussò con discrezione alla porta della cabina. « Chi è? » chiese Taffari. « Il capitano Kajo, signor presidente, e la signorina Mahon. » Taffari lanciò a Deng un'occhiata d'intesa. Il cinese annuì. Era quella, la ragione per cui l'incontro si svolgeva a bordo dello yacht anziché nella sala del consiglio d'amministrazione della Lake House. « Avanti! » ordinò Taffari. La porta si aprì. Kajo entrò e salutò, impacciato. « La signorina Mahon sta aspettando a bordo del Land Rover, sul molo », annunciò. « Ha ritirato il pacchetto? » chiese ansiosamente Taffari. « Sì, signor presidente. L'ha portato. » Taffari e Deng si scambiarono un'altra occhiata. Avevano ri preso a sorridere. « Sta bene, capitano. » Taffari annuì. « Conosce gli ordini. » « Sì, signor presidente. Devo accompagnare il signor Ning e la signorina Mahon all'isola Lamu e... » « Non è necessario che li ripeta, capitano », l'interruppe Taffari. « Li esegua alla lettera. Ora può condurre a bordo la signorina Mahon. » Bonny entrò correndo e raggiunse Ephrem Taffari senza badare all'altro uomo seduto a tavola. « E qui, Ephrem! » esclamò. « Eccola. » Posò la busta davanti a lui. Taffari la prese, l'aprì e tirò fuori la cassetta. « Sicura che sia questa? » « Sì, c'è la mia annotazione sull'etichetta. E proprio quella. » « Bene. Sono molto contento », le disse Taffari. « Venga a seder si accanto a me, mia cara. » Bonny obbedì prontamente, e Taffari le posò la mano sulla co scia sotto il piano del tavolo. « Capitano Kajo », ordinò. « C'è una bottiglia di champagne in frigo. Dobbiamo festeggiare. » Kajo andò al bar e prese la bottiglia. Il tappo saltò, e un po' di spuma traboccò sul tappeto. Era spumante australiano, non cham pagne; ma nessuno protestò. Kajo si voltò di nuovo verso il bar ed esaminò i bicchieri allineati mentre versava il vino. Porse a Bonny iì primo, poi distribuì gli altri.
Taffari brindò. « A lei, mia cara. Ha salvato me e il mio Paese da una situazione potenzialmente pericolosa. » « Grazie, signor presidente. » Bonny bevve un sorso di spuman te. Notò che aveva un retrogusto leggermente amaro, ma non disse nulla; aveva imparato a non dare a Taffari il minimo pretesto per offendersi. E quando Kajo le riempì di nuovo il bicchiere, bevve senza discutere. Adesso il gusto sgradevole si notava meno. « Pensavo che potremmo fare una crociera sul lago », disse Taf fari. Bonny sorrise, ma si sentiva le guance stranamente intorpidite. « Sarebbe divertente », cercò di rispondere, ma le parole le usci rono confuse dalle labbra. S'interruppe e guardò gli uomini. Le fac ce sembravano allontanarsi e la testa le ronzava. Il ronzio diventò più forte, la vista si oscurò. C'era solo una minuscola breccia al centro della tenebra: poteva vedere la faccia di Ephrem Taffari co me attraverso un telescopio rovesciato, piccola e lontana. La voce echeggiò tonante nella mente drogata di Bonny. « Ad dio, mia cara », disse Taffari, mentre lei lasciava cadere la testa sul tavolo. Nella cabina il silenzio durò per un minuto. Poi il presidente Taffari prese i documenti e li mise nella borsa. Si alzò, e Kajo corse ad aprirgli la porta. Taffari si soffermò sulla soglia e si voltò. Ning Deng Kong era ancora seduto di fronte alla ragazza priva di sensi e la fissava con una strana intensità. Quando arrivò alla passerella, Taffari si fermò di nuovo per parlare al capitano Kajo. « Si assicuri che lo yacht sia lavato com pletamente prima di tornare in porto. Sa usare la pompa a pres sione? » « Sì, eccellenza. » Taffari scese la passerella e salì sulla Mercedes. Kajo si piantò sull'attenti e lo salutò mentre si allontanava. Il motore diesel dello yacht era già in funzione, e l'acqua gorgo gliava sotto la poppa. Kajo tolse le cime e andò al timone. Fece al lontanare lo yacht dal molo e puntò verso l'ingresso del porto. Erano necessarie due ore per arrivare all'isola Lamu, e il sole era già tramontato quando Kajo gettò l'ancora al riparo dello scoglio disabitato a forma di ferro di cavallo. « Siamo arrivati, signor Ning », disse nel portavoce. « Per favore, capitano, mi aiuti. » Kajo scese nella cabina. Bonny Mahon era ancora distesa sulla moquette, priva di sensi. La portarono nel pozzetto e, mentre Kajo la sosteneva, Ning le legò i polsi e le caviglie alle ringhiere di acciaio inossidabile. Dispose poi un telo di nylon sotto di lei, con l'estremi tà che pendeva da poppa, in modo che più tardi fosse facile lavare la tolda. « Non ho bisogno d'altro », disse a Kajo. « Prenda il gommone e raggiunga l'isola. Ci resti finché la chiamerò. Qualunque cosa sen ta, non si muova. Ha capito? » « Sì, signor Ning. » Deng rimase accanto al parapetto di poppa mentre Kajo, a bor do del gommone, spariva nell'oscurità. Il piccolo motore fuoribor do da tre cavalli scoppiettava in sordina. Poi il fascio luminoso del la torcia elettrica guizzò nel buio. Finalmente raggiunse l'isola e il motore tacque. La torcia si spense. Deng si girò verso la ragazza. Era pallidissima nelle luci del pozzetto e i capelli erano un disordinato cespuglio di fili di rame. Deng si concesse qualche altro momento d'attesa. Fisicamente quella donna non lo attraeva, ed era molto più vecchia di quanto gli piacesse; tuttavia si sentiva eccitato. Molto presto sarebbe stato così assorto che quelle piccole considerazioni negative non avrebbero più avuto importanza. Si guardò intorno, attentamente, per esaminare la situazione. L'isola Lamu era a circa venti chilometri dalla terraferma, e le ac que erano infestate dai coccodrilli che avrebbero divorato immedia
tamente i rifiuti gettati fuoribordo. E, comunque, aveva la protezio ne del presidente Taffari. Tornò accanto alla ragazza, le sistemò intorno al braccio un lac cio emostatico, e massaggiò le vene nell'incavo del gomito fino a che spiccarono bluastre nelle luci del pozzetto. Aveva usato quella droga in molte occasioni precedenti, e teneva sempre a disposizione l'antidoto e una siringa monouso. Pochi secondi dopo che ebbe iniettato l'antidoto, Bonny Mahon aprì gli occhi e lo guardò intontita. « Buonasera, signorina Mahon. » La voce di Deng era roca per l'eccitazione. « Adesso io e lei ci divertiremo un po' . »
Fra Daniel e Sepoo s'era stabilita subito un'intesa. Era strano, perché erano completamente diversi in tutto, dalla statura al colore della pelle alla mentalità. Doveva essere qualcosa di spirituale, pensava Daniel, mentre se guiva Sepoo nella foresta. Erano figli dell'Africa, e la sua anima era la loro anima, il suo sangue scorreva nelle loro vene. Capivano e amavano la bellezza e la selvaggia ferocia di quella terra e ne ap prezzavano la ricchezza. Comprendevano e amavano le sue creature e si consideravano una delle tante specie che la abitavano. Quando si accampavano, la notte, sedevano vicini di fronte al fuoco e parlavano sottovoce. Sepoo rivelava i segreti e i misteri del la foresta e le credenze del suo popolo; e Daniel capiva. In una certa misura erano anche le sue convinzioni, e accettava le ragioni che de terminavano le consuetudini di quella gente, via via che Sepoo le spiegava, ammirando la saggezza e la virtù di quelle tradizioni. Sepoo lo chiamava « Kuokoa » che significava: « quello che ho salva to ». Daniel accettava il nome, sebbene sapesse che voleva essere un monumento alla prodezza del vecchio e un memento del suo debito. Arrivarono alla trincea della MOMU nella foresta presso Sengi Sengi nel tardo pomeriggio, e attesero fino a quando venne buio. Poi, nella notte, attraversarono il terreno scoperto. Sepoo condusse Daniel alla strada dei tagliaboschi dove aveva abbandonato il Land Rover una decina di giorni prima, ma non po té guidarlo direttamente al veicolo impantanato. Solo l'indomani trovarono il fuoristrada come l'aveva lasciato Daniel, dietro lo schermo fitto della vegetazione, affondato nel fango molle fino ai mozzi delle ruote. Intorno non c'erano tracce umane recenti, anche se alcune scim mie s'erano arrampicate e avevano lasciato le impronte fangose del le zampe sul cofano e sui finestrini. Daniel, però, aveva chiuso le portiere e i vetri prima di abbandonare il fuoristrada, e le scimmie non avevano potuto penetrare nell'interno. L'attrezzatura video era ancora nelle cassette di alluminio. Daniel tirò fuori tutto per con trollare. La telecamera non funzionava. Forse le batterie erano sca riche, o forse l'umidità s'era infiltrata nel meccanismo. Daniel notò minuscole gocce dietro la lente e sull'involucro. Era una delusione, ma poteva solo augurarsi che fosse possibile ricaricare le batterie o che una ripulitura rudimentale, quando fosse tornato a Gondala, bastasse a rendere di nuovo funzionante il tutto. Diede a Sepoo la cassetta con i nastri e tenne per sé la telecamera, la lente e le batterie di ricambio, un carico di una cinquantina di chili che era necessario portare a spalle attraverso la foresta. Il percorso di ritorno, a causa del peso, richiese quasi il doppio dell'andata. Piovve quasi di continuo. Appena arrivò a Gondala, Daniel chiese la collaborazione di Victor Omeru, che era laureato in ingegneria elettronica. Victor Omeru aveva costruito e installato un generatore a turbi na sotto la cascata all'imboccatura della radura di Gondala: produ ceva duecento volt e quasi dieci kilovvatt di potenza, sufficienti per assicurare l'illuminazione alla comunità e far funzionare le apparec
chiature del laboratorio di Kelly. Omeru mise in carica le batterie, e scoprì che una sola era difet tosa. La telecamera e la lente erano un altro problema. Daniel non avrebbe saputo da che parte incominciare a cercare il guasto; ma il vecchio presidente smontò l'apparecchio e lo asciugò. Controllò i circuiti e s'accorse che uno dei transistor era saltato. Lo sostitui con un altro Drelevato dallo spettroscopio di Kelly. In ventiquattr'ore ri mise in funzione la telecamera. Poi smontò le lenti, le puli e le asciugò e le rimontò. Daniel si rendeva conto della difficoltà del compito che il vec chio s'era addossato in quelle condizioni primitive. « Se non riavrà il suo Paese, signore, potrà comunque lavorare per me », disse. « Non è una buona idea », lo avverti Kelly. « Molto probabilmen te finirebbe lei, Daniel, per lavorare per lui. » « Dunque », disse Daniel, « adesso ho una telecamera. Che cosa volete che filmi? » « Partiremo domattina alle prime luci », disse Kelly. « Verrò con voi, Kelly », annunciò Victor Omeru. « Non mi pare prudente. » Kelly aveva un'aria dubbiosa. « Lei è troppo prezioso. » « Dopo le mie fatiche merito una ricompensa, no? » Omeru si ri volse a Daniel. « E le apparecchiature potrebbero guastarsi ancora. Su, dottor Armstrong, metta una buona parola per me. » « Siete due maschilisti », protestò Kelly. « Vi mettete d'accordo contro di me perché sono una donna. Dovrò chiedere l'aiuto di Pamba. » « No, diavolo! » Daniel scosse la testa. « Sarebbe troppo! » Co munque, condivideva i timori di Kelly. Victor Omeru aveva più di settant'anni, e il viaggio sarebbe stato faticoso: c'erano quasi ottan ta chilometri per arrivare a Wengu. Stava per dirlo, quando Victor Omeru lo precedette. « Scherzi a parte, l'Ubomo è il mio Paese. Non posso fidarmi dei resoconti di seconda mano. Devo vedere con i miei occhi ciò che Taffari sta facendo alla mia terra e alla mia gente. » Era impossibile ribattere. Quando la spedizione parti da Gonda la, l'indomani mattina, Victor Omeru era con loro. Sepoo aveva reclutato otto uomini del suo clan perché facessero da portatori e Pamba si era autonominata direttrice della carovana per assicurarsi che s'impegnassero e non abbandonassero i carichi, secondo l'abitudine dei bambuti, per andare a pesca o in cerca di miele. Tutti gli uomini del clan avevano un sacro terrore della lin gua di Pamba. Il terzo giorno raggiunsero il primo dei fiumi sanguinanti. I bambuti posarono i carichi e si raccolsero sulla riva. Non ridevano e non scherzavano. Persino Pamba era muta e triste. Daniel scese nel fetido fango rosso tra gli animali morti e la ve getazione avvelenata, e ne raccolse una manciata. La fiutò, la gettò lontano e cercò di pulirsi le dita. « Che cos'è, Kelly? » chiese, alzando gli occhi verso di lei. « Che cosa ha causato tutto questo? » « Il reagente che Taffari ha giurato di non usare. » Kelly indossa va solo un paio di calzoncini, una maglietta di cotone e una fascia colorata intorno alla fronte. Fremeva di sdegno. « Victor e io abbiamo esaminato ciò che esce dalla zona delle atti vità minerarie. All'inizio era fango, e questo era già abbastanza gra ve. Ma nelle ultime settimane c'è stato un cambiamento. Hanno co minciato a usare un reagente. Vedi, le molecole di platino sono rive stite di solfuri. I solfuri riducono del quaranta per cento l'efficienza del processo di estrazione. Quindi usano un reagente per sciogliere il rivestimento di solfuri e liberare il platino. » « E che cos'è il reagente? » chiese Daniel. « Arsenico. » Kelly sibilò la parola come un gatto infuriato.
« Usano una soluzione al due per cento di arsenico bianco per stac care i solfuri. » Daniel la fissò incredulo. « Ma è pazzesco. » « L'hai detto tu », confermò Kelly. « Quelli non sono individui razionali e responsabili. Avvelenano la foresta in un'orgia di avi dità. » Daniel risalì dal fiume morto e si fermò accanto a lei. A poco a poco si sentì contagiato dallo sdegno. « Bastardi », mormorò. Kelly sembrò intuire che quello era il momento della conversione completa alla sua causa, perché gli pre se la mano. Non fu un gesto gentile o affettuoso. La stretta era de cisa, imperiosa. « Non hai ancora visto tutto. Questo è solo l'inizio. Il vero orro re è a Wengu. » Kelly gli scosse il braccio con forza. « Vieni! » ordi nò. « Vieni a vedere. E dopo che avrai visto, ti sfido a restare indif ferente. » La piccola colonna proseguì, ma dopo altre cinque ore di marcia i portatori bambuti si fermarono, posarono a terra i carichi e bisbi gliarono fra loro. « E adesso cosa succede? » chiese Victor Omeru, e Kelly spiegò. « Abbiamo raggiunto il confine della zona di caccia del clan. » Tese il braccio per indicare. « Da questo momento entriamo nel cuore sacro del territorio dei bambuti. Sono turbati e perplessi. Fi nora soltanto Sepoo ha visto cosa succede a Wengu. Gli altri sono restii a proseguire. Hanno paura della collera del dio della foresta. La Madre e il Padre della foresta. Capiscono che è stato commesso un sacrilegio terribile e hanno paura. » « Cosa possiamo fare per convincerli? » chiese Daniel, ma Kelly scosse la testa. « Dobbiamo tenercene fuori. E un problema del clan. Dobbiamo lasciar fare a Pamba. » La vecchia sfoggiò tutta la sua abilità. Parlò agli altri, arringan doli con toni striduli, alternati a sussurri simili al tubare di una co lomba; e arrivò a prendere fra le mani il volto di qualcuno per bi sbigliargli all'orecchio. Cantò un breve inno alla foresta e li asperse d'unguento per assolverli. Poi eseguì una danza solitaria, spiccando balzi e girando in cerchio. I seni avvizziti le battevano contro il ven tre e la gonna di corteccia si sollevava nelle piroette, scoprendo le natiche sorprendentemente lucide e compatte. Dopo un'ora, uno dei portatori si decise; prese il carico e si av viò. Gli altri, sorridendo timidamente, lo seguirono, e la carovana si addentrò nel territorio sacro. Sentirono le macchine all'alba del giorno dopo. Via via il rumo re divenne più forte. I fiumi che dovevano attraversare arrivavano alla cintura, e il rosso fango avvelenato era denso come il miele. A parte il rombo lontano dei macchinari, la foresta era silenziosa. Non c'erano uccelli, scimmie o antilopi, e anche i bambuti taceva no. Si tenevano vicini gli uni agli altri, spaventati, e, a ogni passo, lanciavano occhiate ansiose nella foresta. A mezzogiorno Sepoo fece fermare la colonna e conferì sottovo ce con Kelly. Tese il braccio verso est. Kelly annuì e chiamò Daniel e Victor Omeru. « Sepoo dice che ormai siamo molto vicini. Nella foresta i suoni ingannano. Le macchine lavorano a pochi chilometri da qui. Non possiamo spingerci oltre perché al margine della foresta ci sono le guardie della compagnia. » « Che cosa conta di fare? » chiese Victor Omeru. « Sepoo dice che verso est c'è una fila di colline. Da lassù potre mo vedere l'area degli scavi. Pamba resterà qui con i portatori. Noi quattro, io, Sepoo, lei e Daniel, proseguiremo fino alle colline. » Daniel prese la telecamera e la controllò con l'aiuto di Omeru. « Andiamo », ordinò Kelly. « Prima che faccia buio o ricominci a piovere. »
Salirono in fila indiana sulla collina, con Sepoo in testa. Ma an che quando arrivarono in cima si trovarono circondati dalla foresta. Gli alberi enormi svettavano e il sottobosco limitava la visibilità a non più d'una decina di metri. Sentivano il rombo dei diesel sotto di loro, più vicino e più nitido. « E adesso? » chiese Daniel. « Da qui non si vede un accidente. » « Sepoo ci aiuterà », promise Kelly. Poco dopo giunsero alla ba se di un albero che spiccava come un gigante fra i giganti vegetali. « Venti pigmei che si tengono per mano non bastano a cinger lo », mormorò Kelly. « Abbiamo fatto la prova. E il sacro albero del miele. » Indicò la scaletta primitiva che saliva lungo il tronco mas siccio. I pigmei avevano piantato nella corteccia liscia i pioli di legno per arrivare ai rami più bassi; e di là avevano teso corde di liane e fissato scalini di legno che salivano fino a sparire dalla vista una trentina di metri più in alto. « E un tempio dei bambuti », spiegò Kelly. « Lassù, fra i rami più alti, pregano e lasciano offerte alla divinità della foresta. » Sepoo salì per primo perché era il più leggero, e alcuni dei pioli e degli scalini erano marci. Ne intagliò di nuovi e li piantò con il ma nico del machete. Poi fece cenno agli altri di seguirlo. Kelly si mosse, fermandosi ogni tanto per aiutare Victor Omeru. Daniel salì per ultimo, portando la telecamera appesa alla spalla: ogni tanto, alzava un braccio per piazzare sui gradini i piedi del vec chio presidente quando questi non ci riusciva da solo. L'ascesa fu lenta ma, alla fine, raggiunsero senza incidenti la galleria superiore della foresta. Era come la terra alla sommità dello stelo del fagiolo magico, una piattaforma aerea formata da rami intrecciati e da detriti. Nuo ve piante avevano messo le radici nello strato sospeso di foglie sfat te e formavano un meraviglioso giardino pensile dove sbocciavano fiori strani e bellissimi e tutta una nuova gamma di vita prosperava più vicina al sole. Daniel vide farfalle con le ali spalancate grandi quanto le sue mani e insetti volanti che splendevano come smeraldi e rubini. C'erano persino gigli e gardenie selvatiche che crescevano in quella terra incantata. Vide sfrecciare un uccello così colorato e splendido che dubitò dei propri occhi mentre quello svaniva come uno sbuffo di fumo tra il fogliame. Sepoo concesse agli altri un riposo brevissimo, poi riprese ad ar rampicarsi. A quell'altezza il tronco dell'albero era molto meno spesso, ma lo era pur sempre quanto i vicini lo erano alla base. La luce cambiò. Era come emergere dal profondo dell'oceano. Il verde chiarore sottornarino s'intensificò fino a che, all'improvviso, erup pero alla luce del sole lanciando esclamazioni di stupore. Erano sui rami più alti del sacro albero del miele. Ai loro piedi si estendeva la coltre della foresta, movimentata come le onde del l'oceano, verde e intatta da ogni parte, eccettuato il nord. Tutti gli occhi si volsero in quella direzione, e le esclamazioni di meraviglia si spensero. Sgranarono gli occhi, tra l'orrore e l'incredulità. A nord la foresta era sparita. Dalla base della verde collina su cui stavano e a perdita d'occhio, sino ai primi contrafforti delle montagne innevate, la foresta era stata cancellata. Dove un tempo sorgevano gli alberi altissimi si estendeva una rossa piana desolata. Nessuno di loro riusciva a parlare o a muoversi. Si tenevano ag grappati e guardavano in silenzio. Giravano lentamente la testa per scrutare l'immensità della devastazione. La terra sembrava rastrellata dagli artigli di un rapace, perché era stata sferzata dalle torrenziali acque piovane. Gli strati superfi ciali di humus erano stati strappati via e avevano lasciato solo spo gli canyon erosi; il fango rosso era andato a intasare i fiumi che scorrevano in tutta la foresta. Era un desolato paesaggio lunare. « Dio misericordioso! » esclamò Victor Omeru. « E un abominio. Quanta terra ha contaminato? Qual è la portata di questa distru
zione? » « E impossibile fare un calcolo », mormorò Kelly. Sebbene aves se già visto lo spettacolo, era stordita dall'orrore. « Trecentomila et tari... forse mezzo milione, non lo so. Ma ricordi che sono al lavoro da meno di un anno. Pensi a ciò che sarà fra un anno se a quei mo stri... » Indicò la fila delle MOMU sgranate lungo il margine della fo resta, ai piedi della collina. « ...se a quei mostri sarà permesso conti nuare. » Daniel dovette compiere uno sforzo per staccare gli occhi dal pa norama devastato e concentrarsi sulla fila delle macchine gialle. Vi ste da lassù sembravano minuscole e innocue come i giocattoli la sciati sulla sabbia da un bambino. Le MOMU erano disposte in for mazione scaglionata, come una schiera di mietitrebbia negli sconfi nati campi di grano canadesi. Si muovevano così lentamente da ap parire immobili. « Quante sono? » chiese Daniel, e le contò a voce alta. « Otto, nove, dieci! » esclamò. « Procedono a fianco a fianco su un fronte ampio circa quattrocento metri. » « Non sembra possibile che dieci macchine possano aver inflitto danni così tremendi. » La voce di Victor Omeru tremava per l'incer tezza. « Sono locuste giganti... spietate, assurde, terribili. » I trattori precedevano la linea delle MOMU, e falciavano la fore sta per far spazio alle mostruose macchine mangiaterra che li segui vano. Mentre stavano guardando la scena, un albero enorme tremò e ondeggiò. Poi cominciò a barcollare ponderosamente mentre le la me d'acciaio tranciavano la base del tronco. Anche a quella distan za si poteva sentire il grido del legno vivo che si schiantava. Sem brava l'urlo di morte di un animale ferito. Poi l'albero precipitò più velocemente, il grido divenne più alto e stridulo, fino a che il tronco crollò sulla terra rossa e la massa del fogliame sussultò e poi rimase immobile. Daniel distolse lo sguardo. Sepoo stava appollaiato accanto a lui su un ramo, e piangeva. Le lacrime scorrevano lente sulle guance grinzose e gli cadevano sul petto nudo. Era una sofferenza intima, terribile, troppo dolorosa perché Daniel potesse sopportarla. Si voltò in tempo per vedere un altro albero che cadeva, poi un altro ancora. Si tolse dalla spalla la telecamera e se la portò agli oc chi, regolò il teleobiettivo e incominciò a girare. Filmò la pianura rossa devastata dove non restava una sola cosa viva: né un mammifero, né un uccello, né una foglia Filmò la schiera di macchine gialle che avanzavano inesorabili in formazione, scortate da un'orda infinita di camion simili a formi che operaie che, al seguito della regina, portassero via la successione delle uova deposte. Filmò il veleno rosso che eruttava dagli scivoli posteriori delle MOMU e cadeva sulla terra devastata dove il primo acquazzone l'a vrebbe portato via e l'avrebbe sparso in ogni ruscello, in ogni corso d'acqua per centocinquanta chilometri. Filmò la caduta degli alberi davanti alla fila delle macchine gial le e le gigantesche seghe meccaniche montate su trattori modificati per quell'uso. Zampilli di segatura bianca volavano nell'aria mentre le lame rotanti affondavano e i tronchi degli alberi cadevano, divisi in sezioni. Filmò le gru mobili che sollevavano le sezioni sui pianali dei ri morchi. Filmò le orde di schiavi uhali nudi che lavoravano nel fango ros so per tenere aperte le strade ai camion e ai rimorchi impegnati a portar via i tesori strappati alla foresta. Aveva sperato che il fatto servisse a isolarlo dalla realtà, gli per mettesse di rimanere distaccato e obiettivo. Era una speranza vana. Più a lungo osservava la distruzione e più si infuriava, fino a che la sua rabbia raggiunse la stessa intensità di quella della donna che se
deva sul ramo accanto a lui. Kelly non aveva bisogno di esprimere a voce la sua indignazione. Daniel la sentiva come elettricità statica nell'aria intorno a lei. Non lo sorprendeva sentirsi in sintonia con i suoi sentimenti: gli sembra va giusto e naturale. Erano molto vicini, ormai; s'era stabilito un le game nuovo, che aveva rafforzato l'attrazione e la simpatia che già erano scoccate fra loro. Rimasero sull'albero fino a notte; poi si trattennero per un'altra ora, seduti nell'oscurità, come se non riuscissero a sottrarsi a quel fascino terribile. Ascoltarono il rombo dei motori nella notte e guardarono i riflettori e i fari che illuminavano a giorno la foresta e la rossa pianura devastata. Non si fermavano mai: continuavano ad abbattere, scavare, vomitare veleno e morte. Quando ricominciò a piovere e i lampi e i tuoni scrosciarono nel cielo, ridiscesero a terra e tornarono lentamente al luogo dove Pam ba attendeva con i portatori. L'indomani mattina si rimisero in cammino attraverso la foresta fumante e silenziosa per tornare a Gondala. Si fermarono solo quanto bastava perché Daniel filmasse i fiumi inquinati e sangui nanti. Victor Omeru si avventurò nel fango sino alle ginocchia e parlò rivolto all'obiettivo, per esprimere tutta la loro angoscia e la loro rabbia. La voce era profonda e autorevole, piena di preoccupazione per la sua terra e la sua gente. I capelli argentei e il nobile volto scuro avrebbero sicuramente catturato l'attenzione del pubblico. Le sue credenziali erano irreprensibili. La sua reputazione internazionale era tale che nessuno avrebbe potuto dubitare della verità di ciò che descriveva. Se Daniel avesse potuto mostrare quel materiale al resto del mondo, sapeva che sarebbe riuscito a comunicare ad altri il suo sdegno. Avanzarono lentamente. I portatori bambuti erano ancora sgo menti. Anche se non avevano assistito alle attività estrattive, Sepoo le aveva descritte. E avevano visto i fiumi sanguinanti. Tuttavia, an cora prima che raggiungessero il confine tra il cuore sacro del terri torio e le loro zone di caccia tradizionale, trovarono un nuovo moti vo di angoscia, ancora più grave. Incontrarono le tracce di un elefante. Tutti le riconobbero, e Se poo lo chiamò per nome: « Il vecchio dall'orecchio strappato », dis se e tutti annuirono. Era il maschio al quale mancava metà dell'o recchio sinistro. Risero per la prima volta dopo diversi giorni come se avessero incontrato nella foresta un vecchio amico; ma la loro ilarità durò poco, quando esaminarono le orme. Allora gridarono, si torsero le mani e piagnucolarono per la paura e l'orrore. Kelly chiamò Sepoo. « Cos'è successo, vecchio amico? » « Sangue », rispose Sepoo. « Sangue e urina dell'elefante. E feri to. Sta per morire. » « Com'è successo? » esclamò Kelly. Anche per lei l'elefante era un vecchio amico. L'aveva incontrato spesso nella foresta, quando il grosso maschio si aggirava nell'area intorno a Gondala. « Un uomo l'ha ferito. Qualcuno lo sta cacciando nel cuore sa cro del territorio. E contrario alla legge e alla tradizione. Guarda! Ecco le orme dell'uomo sopra quelle dell'elefante. » Sepoo indicò le impronte dei piccoli piedi nudi visibili nel fango. « Il cacciatore è un bambuti. Dev'essere un uomo del nostro clan. E un sacrilegio terri bile, un'offesa alla divinità della foresta. » I pigmei erano sconvolti e inorriditi. S'intrupparono come bam bini sperduti, tenendosi per mano per cercare conforto in quei gior ni tremendi in cui tutto era sovvertito... prima le macchine nella fo resta e i fiumi sanguinanti, e adesso il sacrilegio commesso da uno di loro. « Io conosco l'uomo », gridò Pamba. « Riconosco l'impronta dei suoi piedi. E Pirri. »
Tutti gemettero e si coprirono il viso perché Pirri aveva ucciso nel luogo sacro e la vergogna e la vendetta della divinità della fore sta avrebbero colpito tutti loro. Pirri il cacciatore si muoveva come un'ombra. Posava delicata mente i piedi minuscoli sulle grandi orme dell'elefante, dove il peso aveva compattato la terra. Nessun fuscello si sarebbe spezzato, nes suna foglia morta avrebbe frusciato per tradirlo. Pirri aveva seguito l'elefante per tre giorni. In quel periodo tutto il suo essere si era concentrato sul grande animale, al punto che, mi sticamente, era diventato parte dell'essere cui dava la caccia. Quando il grosso maschio s'era fermato a banchettare con le pic cole bacche rosse del selepe, Pirri aveva riconosciuto i segni e aveva avvertito in gola il succo acidulo. Dove l'elefante aveva bevuto a uno dei ruscelli, Pirri s'era fermato sulla riva e aveva sentito con l'immaginazione l'acqua pura che gli gorgogliava nel ventre. Dove l'elefante aveva lasciato cadere un mucchio di letame giallo e fibroso sul fondo della foresta, Pirri aveva sentito gli intestini contrarsi e lo sfintere dilatarsi. Pirri era diventato l'elefante e l'elefante era diven tato Pirri. Quando finalmente lo raggiunse, lo vide addormentato in piedi in un fitto roveto. I rami erano intrecciati e coperti di spine adunche dalla punta rossa, così acuminate che potevano strappare la pelle di un uomo. Per quanto Pirri si muovesse lentamente e senza far ru more, l'elefante percepì la sua presenza e si svegliò. Allargò le orec chie, una ampia come una vela maestra, l'altra lacera e deformata, e rimase in ascolto. Ma non udì nulla perché Pirri era un provetto cac ciatore. L'elefante stese la proboscide, aspirò l'aria e se la soffiò in boc ca. Le ghiandole olfattive del labbro superiore si aprirono come boccioli di rosa. Assaporò l'aria ma non sentì nulla, perché Pirri s'e ra avvicinato tenendosi sottovento alla lieve brezza della foresta e s'era impiastricciato dalla testa crespa alle piante dei piedi con il le tame dell'elefante. Non aveva odore d'uomo. Poi l'elefante emise un suono, un rombo sommesso nel profon do del ventre, un suono palpitante nella gola. Era il canto degli ele fanti. Il maschio cantava nella foresta per scoprire se quello di cui sentiva la presenza era un altro elefante oppure un nemico mortale. Pirri si acquattò al margine del roveto e ascoltò il canto dell'ele fante. Poi si portò le mani sulla bocca e sul naso, ingurgitò l'aria nella gola e nel ventre e la esalò con un rombo sommesso e un pal pito. Pirri cantò il canto degli elefanti. Il maschio sospirò e cambiò il canto per mettere alla prova la presenza sconosciuta. Pirri rispose fedelmente, seguì la cadenza e il timbro del canto, e l'elefante gli credette. Agitò le orecchie in un gesto di contentezza e di fiducia. Accetta va l'idea che un suo simile l'avesse trovato e si fosse avvicinato. Si mosse con noncuranza e il roveto scricchiolò davanti alla sua mole. Avanzò per andare incontro a Pirri, scostando i rami spinosi. Pirri vide le zanne curve d'avorio apparire in alto sopra la sua te sta. Erano più grosse di quanto lo fosse lui in vita, e più lunghe di quanto potesse raggiungerle con la lancia per elefanti. La lancia per elefanti era un'arma che Pirri aveva costruito con la molla della sospensione d'un camion che aveva rubato da uno dei duka lungo la strada. L'aveva riscaldata e battuta fino a che l'ac ciaio aveva perso la tempra, in modo da poterla modellare più facil mente. Poi l'aveva lavorata e affilata, fissandola a un'asta di legno duro ed elastico, e, infine, l'aveva legata con strisce di cuoio non conciato. Quando il cuoio s'era asciugato, era diventato duro e soli do quanto l'acciaio che avvolgeva. Mentre la testa dell'elefante torreggiava sopra di lui, Pirri si la sciò cadere e rimase immobile come un tronco o un mucchio di fo glie morte. L'elefante era così vicino che riusciva a distinguere ogni
solco e ogni grinza della pelle grigia. Alzò la testa e vide le secrezioni delle ghiandole facciali che scorrevano come lacrime sulle guance. Allora si decise. Anche con la lancia che aveva fabbricato, aguzza e pesante non ché lunga quasi il doppio della sua statura, non sarebbe riuscito a far penetrare la punta nella pelle, nella carne e nelle costole per tra passare il cuore o i polmoni del grosso maschio. Il cervello, all'inter no dell'armatura ossea, era al di fuori della sua portata. C'era un solo modo, per un uomo della taglia di Pirri, di uccidere con la lan cia una bestia così enorme. Rotolò su se stesso, si rialzò e balzò sotto il ventre dell'elefante. Si piazzò fra le zampe posteriori e affondò la punta della lancia, dal basso in alto, nell'angolo dell'inguine. L'elefante barrì quando la lama penetrò nella pelle flaccida tra passando la vescica. L'acciaio affilato la lacerò e l'urina calda erut tò in uno zampillo giallo. L'elefante fu scosso da un sussulto con vulso, inarcò il dorso e cominciò a correre. Fuggì nella foresta barrendo di dolore e le fronde si schiantarono davanti a lui. Pirri si appoggiò alla lancia insanguinata e ascoltò l'elefante che si allontanava. Attese fino a che il silenzio fu completo, poi si asse stò il perizoma e incominciò a seguire la traccia sgocciolante di san gue e di urina sul fondo della foresta. Forse l'elefante avrebbe impiegato ore a morire, ma ormai era spacciato. Pirri il cacciatore gli aveva inferto un colpo mortale e sa peva che l'animale sarebbe morto prima del tramonto dell'indo mani. Pirri lo seguì lentamente: ma non aveva nel cuore la gioia arden te del cacciatore, soltanto un senso di vuoto e il rimorso terribile del sacrilegio. Aveva offeso la sua divinità, e sapeva che adesso la sua divinità doveva respingerlo e punirlo.
L'indomani mattina, Pirri il cacciatore trovò il corpo dell'elefan te. Era inginocchiato, con le zampe ripiegate. La testa era sostenuta dalle massicce zanne d'avorio semisepolte nella terra soffice. L'ulti mo acquazzone l'aveva lavato e la pelle era nera e lucida, gli occhi aperti. Sembrava vivo. Pirri si avvicinò con estrema prudenza e tese un lungo ramoscello sottile per toccare un occhio, frangiato dalle lun ghe ciglia. La palpebra non batté, e Pirri notò il velo opaco e gglati noso della morte che era calato sulla pupilla. Si raddrizzò e posò la lancia. La caccia s'era conclusa. Secondo la tradizione, avrebbe dovuto cantare una preghiera di ringraziamento alla divinità della foresta per tanta generosità. Pro nunciò addirittura le prime parole della preghiera; poi s'interruppe, vinto dal senso di colpa. Sapeva che non avrebbe potuto più cantare la preghiera del cacciatore, e una tristezza profonda pervase il suo essere. Accese un fuocherello, tagliò la ricca carne grassa dalla guancia dell'elefante e la cucinò allo spiedo sulla brace. Per una volta, quel boccone squisito gli sembrò privo di sapore. Lo sputò nel fuoco e ri mase seduto a lungo accanto al cadavere, prima di scuotersi e di li berarsi dell'angoscia che l'opprimeva. Estrasse il machete dal fodero e cominciò a tagliare una delle grandi zanne gialle dal canale osseo. L'acciaio risuonava a contatto con il cranio e le schegge volavano intorno ai suoi piedi. Fu così che lo trovarono gli uomini del suo clan, attratti dal suo no del machete che affondava nell'osso. Uscirono in silenzio dalla foresta, guidati da Sepoo e Pamba, e si disposero in cerchio intorno a Pirri e all'elefante. Pirri alzò gli occhi, li vide e lasciò cadere il machete. Si alzò con
le mani macchiate di sangue e non trovò il coraggio di sostenere il loro sguardo. « Dividerò la ricompensa con voi, fratelli miei », mormorò, ma nessuno gli rispose. Uno alla volta i bambuti gli voltarono le spalle e tornarono a scomparire nella foresta, silenziosamente com'erano apparsi, fino a che rimase solo Sepoo. « Per ciò che hai fatto la divinità della foresta ci manderà il moli mo », disse Sepoo. Pirri restò immobile con la disperazione nel cuore e non poté al zare la testa per guardare negli occhi suo fratello.
Daniel cominciò a visionare le cassette non appena arrivarono a Gondala. Kelly gli mise a disposizione un angolo del laboratorio, e Victor Omeru gli rimase a fianco per fare commenti e dare consigli mentre prendeva appunti per il montaggio. Il materiale era di buona qualità. Come cameraman si giudicava efficiente, ma privo delle brillanti qualità artistiche di Bonny Ma hon. Aveva compilato una cronaca sobria e onesta dell'attività nella riserva di Wengu e di alcune delle conseguenze. « Non ha alcun calore umano », disse a Victor e a Kelly quella se ra. « Si rivolge alla ragione, non al cuore. Ho bisogno di qualcosa di più. » « Che cosa ti occorre? » chiese Kelly. « Dimmelo, e io te lo tro verò. » « Voglio il presidente Omeru », disse Daniel. « Lei ha presenza e stile, signore, e mi servono altre sue immagini. » « Le avrà. » Victor Omeru annuì. « Ma non pensa che sarebbe ora di rinunciare alle formalità, Daniel? Dopotutto, abbiamo scala to insieme l'albero sacro del miele, e questo ci autorizza a chiamarci per nome. » « Senza dubbio, Victor », assentì Daniel. « Ma neppure lei baste rà per convincere il mondo. Io devo mostrare ciò che accade agli es seri umani. Devo mostrare i campi di lavoro dove sono rinchiusi gli uhali. Possiamo farlo? » Victor Omeru si tese verso di lui. « Sì », disse. « Come lei sa, so no il capo del movimento della resistenza contro la tirannia di Taf fari. Diventiamo ogni giorno più forti. Per ora il movimento è clan destino, ma ci stiamo organizzando e reclutiamo tutta la gente più importante e influente che vuole ribellarsi a Taffari. E ovvio che in maggioranza sono uhali; ma persino alcuni hita sono disgustati dal regime. Potremo condurla a vedere i campi di lavoro. Anche se non potrà entrarvi, la porteremo comunque vicino, quanto basta per fil mare alcune delle atrocità che vi vengono perpetrate ogni giorno. » « Sì », confermò Kelly. « Patrick e gli altri giovani capi della resi stenza arriveranno qui nei prossimi giorni per conferire con Victor. Lui potrà organizzare tutto. » S'interruppe e rifletté per un momen to. « Poi ci sono i bambuti. Potrai mostrare al pubblico il modo in cui la distruzione della foresta influirà sui pigmei e annienterà il loro modo di vivere tradizionale. » « E appunto il genere di materiale che mi occorre », disse Daniel. « Che cosa mi suggerisci? » « La cerimonia del molimo », disse Kelly. « Sepoo mi ha detto che il molimo sta per venire, e ha acconsentito a farti assistere. »
Patrick, il nipote di Victor Omeru, arrivò a Gondala un giorno prima del previsto. Era accompagnato da una dozzina di altri uhali. I pigmei li avevano guidati nella foresta. Anche molti altri delegati erano parenti di Victor Omeru, ed erano tutti giovani istruiti e votati alla causa.
Quando Daniel mostrò loro le riprese che aveva già fatto e spie gò quale materiale gli occorreva, Patrick Omeru e i suoi si mostraro no entusiasti. « Lasci fare a me, dottor Armstrong », disse Patrick. « Organiz zerò tutto io. Certo, sarà piuttosto pericoloso. I campi sono protetti dagli hita, ma la porteremo il più vicino possibile. » Quando Patrick e i suoi uomini lasciarono Gondala, Daniel e Se poo andarono con loro. I due ritornarono dopo nove giorni. Daniel era molto dimagrito: si vedeva che aveva viaggiato senza sosta. I suoi indumenti erano macchiati di fango e laceri, e Kelly si accorse subito che era sull'orlo dello sfinimento quando lo vide salire barcollando sulla veranda del bungalow. D'impulso, gli corse incontro. Si abbracciarono con una spontaneità che sorprese entrambi e restarono avvinghiati per qual che istante; ma quando Daniel cercò la sua bocca, Kelly si svincolò e si limitò a stringergli la mano. « Victor e io eravamo preoccupati », confessò. Arrossi in un mo do che Daniel giudicò incantevole e si affrettò a scostarsi. Nel pomeriggio, dopo che ebbe fatto il bagno, mangiato e dor mito per due ore, Daniel mostrò il nuovo materiale. C'erano scene delle squadre di forzati al lavoro sulle strade: erano state riprese da lontano, per mezzo del teleobiettivo. Gli hita di guardia stavano intorno a loro con i bastoni stretti in pugno e colpivano indiscriminatamente gli uomini e le donne semi nudi che faticavano nel fango. « Ho fin troppo materiale di questo tipo », spiegò Daniel. « Ma terrò solo le sequenze più sconvolgenti. » C'erano riprese delle squadre che, in colonna, venivano ricon dotte esauste nei campi al termine della giornata e altre immagini delle loro miserabili condizioni di vita, girate attraverso le recin zioni. C'era anche una serie di interviste, fatte nella foresta, con i pri gionieri fuggiti dai campi. Uno degli uomini s'era spogliato davanti all'obiettivo e aveva mostrato le ferite inflittegli dalle guardie. Ave va la schiena lacerata dai colpi di frusta, la testa percorsa da cicatrici e tagli non ancora rimarginati dove era stato colpito dalle bastonate. Una giovane donna mostrava i piedi: la carne putrefatta cadeva a brandelli. Parlava in swahili e descriveva le condizioni del campo. « Lavoriamo tutto il giorno nel fango... i nostri piedi non si asciuga no mai. I graffi s'infettano, cosi, fino a che non possiamo più cam minare e neanche lavorare. » E scoppiava in un pianto sommesso. Daniel era seduto su un tronco accanto a lei, e alzava la testa verso la telecamera piazzata sul treppiede. « I soldati nelle trincee francesi, durante la prima guerra mondiale, lo chiamavano 'piede da trincea'. E una micosi contagiosa che rende invalido il malato e gli fa marcire letteralmente i piedi se non viene curata. » Daniel si ri volgeva alla donna e chiedeva in swahili: « Cosa succede quando non potete più lavorare? » « Gli hita dicono che non ci daranno più da mangiare, perché mangiamo troppo e non siamo più utili. Portano i malati nella fo resta... » Daniel spense il VTR e parlò a Kelly e Victor Omeru. « State per vedere le sequenze più sconvolgenti che io abbia mai filmato. Sono simili alle scene delle squadre della morte naziste in Polonia e in Russia. La qualità delle immagini è mediocre: abbiamo girato re stando nascosti. E orribile. Preferisci non vederle, Kelly? » Kelly scosse la testa. « No, voglio vedere », disse decisa. « D'accordo, ma ti ho avvertito. » Daniel rimise in funzione il VTR. Si tesero verso il minuscolo schermo che si riaccendeva. Era una radura nella foresta. Un bulldozer dell'uDc scavava una trincea nella terra molle, lunga quaranta o cinquanta metri e pro fonda almeno tre, a giudicare dal fatto che il veicolo quasi vi scom pariva.
« Patrick ha saputo dalle sue spie dove stavano scavando », spie gò Daniel. « Ci siamo messi in posizione la notte prima. » Il bulldozer terminò il lavoro e usci dalla trincea, fermandosi po co lontano. La ripresa s'interruppe. « La prossima sequenza è stata girata tre ore dopo », spiegò Da niel. Nella foresta apparve una colonna di prigionieri, sorvegliata dal le guardie hita. Si vedeva che tutti erano malati o invalidi. Barcolla vano e zoppicavano. Alcuni si sostenevano a vicenda, altri usavano grucce rudimentali. Qualcuno veniva portato in barella dai compa gni. Qualche donna aveva il figlioletto legato alla schiena. Le guar die li fecero scendere nella trincea, e i prigionieri sparirono. Le guardie si schierarono sul bordo della fossa. Erano almeno cinquanta in uniforme da paracadutisti, e armati di mitra. Comin ciarono a sparare, con aria perfettamente indifferente, e continuaro no a lungo: quando un parà scaricava l'Uzi, lo ricaricava e riprende va a sparare. Molti ridevano. All'improvviso uno dei prigionieri emerse dalla fossa. Era quasi incredibile che potesse essere ancora vivo. Aveva una gamba sfracel lata e si trascinava sui gomiti. Un ufficiale hita estrasse la pistola dalla fondina e gli sparò alla nuca. L'uomo stramazzò bocconi; l'uf ficiale lo spinse con un piede e lo ributtò nella fossa. Uno alla volta i soldati smisero di sparare. Alcuni accesero una sigaretta e rimasero in gruppo sul ciglio della trincea, a fumare e ri dere, chiacchierando. Il guidatore del bulldozer risali a bordo e avanzò. Abbassò la pala e spinse la terra ammucchiata nella fossa. Quando lo scavo fu colmato, il bulldozer si mosse avanti e indietro per compattare la terra. I soldati s'incolonnarono, allontanandosi nella direzione da cui erano arrivati. Camminavano disordinatamente e continuavano a parlare e fumare. Daniel spense il VTR. Kelly si alzò senza dire una parola e uscì sulla veranda. I due uomini rimasero in silenzio per lunghi istanti, poi Victor Omeru disse a voce bassa: « Ci aiuti, Daniel. Aiuti la mia povera gente ».
Nella foresta si sparse la voce che stava per venire il molimo, e i clan cominciarono a radunarsi nel luogo destinato alle riunioni tri bali, accanto alla cascata di Gondala. Qualche clan arrivò da una distanza di oltre trecento chilometri, al di là del confine con lo Zaire, perché i bambuti non riconosceva no altre delimitazioni territoriali che le loro. Da ogni area e da ogni angolo della foresta continuarono ad affluire fino a che vi furono più di mille pigmei accorsi per la terribile apparizione del molimo. Ogni donna costruì una capanna di fronde con la porta rivolta verso quella di un'amica o di una parente, e tutti si radunarono in gruppi sparsi in varie zone dell'accampamento. Neppure la minaccia del molimo poteva smorzare la loro indole gioiosa: infatti, qua e là, scoppiavano alte risate. Gli uomini incontravano vecchi amici e compagni di avventure che non vedevano dall'ultima grande caccia in comune con le reti, e si scambiavano tabacco e racconti incredibili, spettegolando con la stessa allegria delle donne. I bambini strillavano e correvano fra le capanne, giocavano come cuccioli e nuotavano nell'acqua ai piedi della cascata come giovani lontre. Uno degli ultimi ad arrivare fu Pirri il cacciatore. Le sue tre mo gli barcollavano sotto il peso dei grossi sacchi di tabacco. Pirri ordinò alle mogli di costruire la capanna con la porta rivol ta verso quella di suo fratello Sepoo. Ma quando il lavoro fu termi nato, Pamba chiuse la porta della capanna di Sepoo e praticò un al tro varco nella direzione opposta. Secondo la consuetudine dei bam buti era uno sgarbo terribile, e le donne intorno ai fuochi ne discute
vano animatamente, ciarliere come pappagalli al tramonto. Pirri chiamò i vecchi amici. « Guardate quanto tabacco. E anche vostro. Venite a riempire le borse. Pirri vi invita, prendetene quanto volete. Guardate! Pirri ha le bottiglie di gin. Venite a bere con Pir ri. » Ma nessuno degli uomini approfittò dell'offerta. La sera, quando un gruppo dei cacciatori e dei narratori di storie più famosi delle tribù si radunò intorno al fuoco assieme a Sepoo, Pirri uscì baldanzoso dall'oscurità reggendo due bottiglie di gin e prese posto nel cerchio. Si attaccò alla bottiglia, poi la passò all'uo mo seduto alla sua sinistra. « Bevi! » ordinò. « E falla passare, per ché tutti godano della fortuna di Pirri. » Il bambuti posò la bottiglia senza bere, si alzò e si allontanò dal fuoco. Uno dopo l'altro gli uomini si alzarono e lo seguirono nel buio, fino a che Pirri rimase solo con Sepoo. « Domani verrà il molimo », disse sottovoce Sepoo, quindi si alzò a sua volta e si allontanò. Pirri il cacciatore rimase solo nella notte con il gin e la borsa gonfia di tabacco.
L'indomani mattina Sepoo andò al laboratorio a chiamare Da niel, che lo seguì, portando in spalla la telecamera. Camminavano in fretta perché ormai Daniel aveva imparato i trucchi per camminare nella foresta, e le sue dimensioni ingombranti non erano più un grande impaccio. Riusciva a reggere l'andatura di Sepoo. Si avviarono da soli, ma, via via, altri si unirono a loro. Usciva no in silenzio dalla foresta, oppure si materializzavano come spiriti, sia avanti sia dietro a loro, fino a che vi fu una moltitudine di bam buti che procedeva verso il luogo del molimo. Quando arrivarono, si accorsero che molti altri li avevano prece duti e stavano accosciati intorno alla base di un enorme kapok. Per una volta, non ridevano o scherzavano. Avevano tutti un'aria solen ne e stavano in silenzio. Daniel si accosciò fra loro e filmò i loro volti cupi. Tutti guarda vano il kapok. « E la casa del molimo », bisbigliò Sepoo. « Siamo venuti a pren derlo. » Qualcuno gridò un nome: « Grivi! » Un uomo si alzò e si accostò alla base dell'albero. Da un'altra direzione un altro chiamò: « Sepoo! » E Sepoo andò ad affiancarsi al primo prescelto. Quindici bambuti si raccolsero ai piedi del kapok. Alcuni erano vecchi e famosi, altri giovanissimi. Giovani o vecchi, esperti o novi zi, tutti avevano eguale diritto di partecipare alla cerimonia del mo limo. Sepoo gettò un grido e i prescelti si arrampicarono sull'albero. Sparirono tra il fogliame e per un po' si sentirono le loro grida e i lo ro canti. Poi ridiscesero portando un bambù. Lo posarono ai piedi dell'albero e Daniel si avvicinò per esami narlo. Non era lungo più di cinque metri. Era conciato e secco, e do veva essere stato tagliato molti anni prima. Vi erano incisi simboli stilizzati e rozze raffigurazioni di animali, ma non era altro che un bambù. « E questo il molimo? » mormorò Daniel a Sepoo mentre gli uo mini della tribù si radunavano tutto intorno in atteggiamento reve rente. « Sì, Kuokoa, è il molimo », affermò Sepoo. « Che cos'è il molimo? » insistette Daniel. « Il molimo è la voce della foresta », cercò di spiegare Sepoo « E la voce della Madre e del Padre. Ma prima che possa parlare, biso gna portarlo a bere. » I prescelti sollevarono il molimo: lo portarono al fiume e lo im mersero nell'acqua scura. I pigmei si schierarono, solenni e attenti,
nudi e con gli occhi brillanti. Attesero per un'ora e per un'altra, mentre il molimo beveva l'acqua pura del ruscello. Poi lo portarono sulla riva. Era lucido e grondante d'acqua. Sepoo si avvicinò al bambù e accostò le labbra all'estremità aperta. Gonfiò il petto e il molimo parlò. Era la voce sorprendentemente chiara e dolce di una ragazzi na che canta nella foresta, e tutti i bambuti rabbrividirono e ondeg giarono come le fronde più alte di un albero investito da un vento improvviso. Poi il molimo cambiò voce, e gridò come un duiker imprigionato dalla rete d'un cacciatore. Ciangottò come il pappagallo grigio in volo e fischiò come il camaleonte del miele. Era tutte le voci e tutti i suoni della foresta. Un altro uomo diede il cambio a Sepoo, e poi un altro. C'erano voci di uomini e di spettri e di altre creature che tutti gli uomini sentivano ma che non avevano mai visto. All'improvviso il molimo gridò come un elefante. Era un terribi le suono di collera e i bambuti avanzarono e si affollarono in un'or da convulsa. Il tubo di bambù sparì in mezzo a loro ma continuò a barrire, a ruggire, a tubare, a fischiare e a ululare con cento voci di verse. Poi si compì un fatto strano e magico. Davanti agli occhi di Da niel, il gruppo degli uomini cambiò. Non erano più individui, perché erano troppo accalcati. Come un banco di pesci o uno stormo di uc celli è in un certo senso un'unica creatura, i bambuti si fusero in una sola entità. Diventarono un solo essere. Diventarono il molimo. Di ventarono la divinità della foresta. Il molimo era incollerito. Muggiva e squittiva con la voce del bu falo e del facocero gigante. Si lanciò nella foresta con cento gambe che non erano più umane. Girò sul proprio asse come una medusa nella corrente. Palpitò e cambiò forma, corse prima in una direzione e poi nell'altra, schiacciando nella sua furia la vegetazione del sotto bosco. Attraversò il fiume sollevando spruzzi candidi, e lentamente ma con decisione incominciò a muoversi verso il luogo del raduno della tribù, a valle della cascata di Gondala. Le donne sentirono da lontano il molimo che stava arrivando. Abbandonarono i fuochi, afferrarono i figli e corsero nelle capanne. Fra gemiti di terrore, chiusero le porte e si acquattarono nell'oscuri tà stringendo al seno i bambini. Il molimo avanzò nella foresta. La voce terribile cresceva e si ab bassava mentre si avventava nel sottobosco e caricava in una dire zione e nell'altra. Alla fine piombò sull'accampamento. Calpestò i fuochi e i bambini urlarono quando alcune delle fragili capanne ven nero urtate dalla sua collera irrefrenabile. Il mostro infuriò nel campo, come se cercasse la causa del suo sdegno. All'improvviso girò su se stesso e puntò deciso verso l'ango lo più lontano, dov'era la capanna di Pirri. Le mogli di Pirri lo sentirono: si precipitarono fuori e fuggirono nella giungla, ma Pirri non fuggì. Non era andato al kapok con gli altri uomini a prendere il molimo. Adesso stava rannicchiato nella capanna, con le mani sopra la testa, e attendeva. Sapeva che era inu tile fuggire. Doveva attendere la rappresaglia della divinità della fo resta. Il molimo girò intorno alla capanna di Pirri come un millepiedi gigante, sollevò la terra a calci, urlò come un elefante maschio in preda alla sofferenza della vescica lacerata. All'improvviso, caricò la capanna dove si nascondeva Pirri. La schiacciò e calpestò tutti gli averi del bambuti. Ridusse in polvere il tabacco; frantumò le bottiglie del gin e il liquore intrise la terra. Gettò nel fuoco con un calcio l'orologio d'oro e disperse gli altri te sori. Pirri non tentò di fuggire dalla sua collera o di proteggersi. Il molimo lo calpestò. Fra barriti di furore, lo prese a calci e a pugni. Gli schiacciò il naso, gli spezò i denti, gli incrinò le costole e
gli riempì le membra di lividi. All'improvviso lo lasciò e si precipitò nella foresta da cui era uscito. La voce era cambiata, non era più furiosa. Gemeva e si la mentava come se piangesse la morte e l'avvelenamento della foresta e i peccati della tribù che avevano attirato il disastro su tutti. Si riti rò lentamente, e la sua voce si smorzò fino a che si perse in lonta nanza. Pirri si alzò. Non cercò di raccogliere i suoi tesori dispersi. Prese l'arco e la faretra. Abbandonò la lancia per la caccia agli elefanti e il machete. Si allontanò zoppicando nella foresta. Andò solo. Le sue mogli non l'accompagnarono perché ormai erano vedove. Avrebbero trovato altri mariti nella tribù. Pirri era morto. Il molimo l'aveva ucciso. Nessun uomo l'avrebbe più rivisto. Anche quando avessero incontrato il suo spettro che vagava fra gli alberi alti, uomini e donne non avrebbero dato segno di ricono scerlo. Per la sua tribù, Pirri era morto per sempre.
« Ci aiuterà, Daniel? » chiese Victor Omeru. « Sì », rispose Daniel. « Vi aiuterò. Porterò le registrazioni in In ghilterra. Farò in modo che vengano trasmesse dalle televisioni a Londra, a Parigi e a New York. » « Cos'altro farà per aiutarci? » chiese Victor. « Cos'altro vuole che faccia? » ribatté Daniel. « Cos'altro potrei fare? » « Lei è un soldato, un buon soldato a quanto ho sentito dire. Parteciperà alla nostra lotta per la riconquista della libertà? » « Ero un soldato molto tempo fa », lo corresse Daniel. « In una guerra crudele e ingiusta. Ho imparato a odiare la guerra come nes sun altro può odiarla se non ne fa l'esperienza. » « Daniel, le chiedo di partecipare a una guerra giusta. Questa volta le chiedo di opporsi alla tirannia. » « Non sono più un soldato. Sono un documentarista, Victor. Non è la mia guerra. » « E ancora un soldato », lo contraddisse Victor Omeru. « Ed è la sua guerra. E la guerra di ogni uomo onesto. » Daniel non rispose subito. Lanciò un'occhiata a Kelly, come per chiederle aiuto. Poi vide la sua espressione e comprese. Tornò a guardare Victor Omeru, e il vecchio si tese verso di lui. « Noi uhali siamo un popolo pacifico. Da soli non abbiamo la capacità di rovesciare il tiranno. Abbiamo bisogno di armi. Abbia mo bisogno di qualcuno che ci insegni a usarle. Ci aiuti, Daniel. Io troverò i giovani coraggiosi che le occorrono: ma prometta che li ad destrerà e li comanderà. » « Non voglio... » cominciò Daniel, ma Victor Omeru lo pre venne. « Non rifiuti subito. Non dica altro, per ora. Ci dorma sopra. Domattina mi darà la risposta. Ci pensi, Daniel. Pensi agli uomini e alle donne che ha visto nei campi, a coloro che ha visto uccidere o deportare nella baia dell'aquila pescatrice, alla fossa comune nella foresta. Mi dia una risposta domattina. » Victor Omeru si alzò. Si fermò accanto a Daniel e gli posò la ma no sulla spalla. « Buonanotte, Daniel », disse. Scese i gradini e, nel chiaro di lu na, si avviò verso il suo piccolo bungalow al di là degli orti. « Cosa hai intenzione di fare? » chiese sottovoce Kelly. « Non lo so. Davvero, non lo so. » Daniel si alzò . « Te lo dirò do mani. Per ora farò quello che mi ha suggerito Victor. Vado a letto. » « Sì. » Anche Kelly si alzò. « Buonanotte. » Kelly era molto vicina, e teneva il viso sollevato verso di lui. Daniel la baciò. Il bacio durò a lungo.
Kelly si scostò leggermente e disse: « Vieni ». Lo condusse sulla veranda fino alla sua camera da letto. Era ancora buio quando Daniel si svegliò l'indomani mattina sotto la zanzariera, a fianco di Kelly. Lei gli teneva un braccio sul petto e gli respirava sul collo. Daniel la sentì svegliarsi. « Farò ciò che vuole Victor », disse lui. Per qualche istante Kelly trattenne il respiro, poi disse: « Non l'ho fatto per corromperti ». « Loso. » « Quel che è successo stanotte fra noi è un'altra cosa », sussurrò Kelly. « Io lo desideravo dalla prima volta che ci siamo incontrati... no, prima ancora. Da quando ho visto la tua immagine sullo scher mo mi sono un po' innamorata di te. » « Anch'io ti ho attesa a lungo, Kelly. Sapevo che dovevi esistere. E finalmente ti ho trovata. » « Mi dispiacerebbe perderti così presto », gli rispose e lo baciò. « Ti prego di tornare da me. » Daniel lasciò Gondala due giorni dopo. Lo accompagnarono Se poo e quattro portatori bambuti. Si fermò al limitare della foresta e si voltò. Kelly era sulla veran da del bungalow e lo salutava con la mano. Sembrava molto giova ne, e Daniel provò una stretta al cuore. Non voleva andarsene... non subito dopo averla trovata. Agitò il braccio e, pur riluttante, si avviò. Mentre salivano le pendici più basse della montagna la foresta lasciò il posto ai bambù, così fitti in certi tratti che erano costretti a procedere carponi nelle gallerie aperte dai facoceri. Sopra le loro te ste, i bambù erano una massa compatta. Salirono ancora e finalmente uscirono nella brughiera dell'alta montagna, quattromila metri al di sopra del livello del mare, dove i seneci giganti erano schierati come battaglioni di guerrieri corazzati, con le teste coronate di fiori rossi. I bambuti si stringevano nelle coperte che Kelly gli aveva fornito, ma erano frastornati e sofferenti, completamente al di fuori del loro ambiente naturale. Prima di raggiungere il passo più alto, Daniel li rimandò indietro. Sepoo contestò la decisione. « Kuokoa, ti perderai sulle monta gne senza Sepoo che ti guida, e Kara-Ki si arrabbierà. Tu non l'hai mai vista arrabbiata veramente. E uno spettacolo che solo i più co raggiosi possono affrontare. » « Guarda lassù. » Daniel indicò i picchi che spuntavano fra le nu bi. « Lassù c'è un freddo che nessun bambuti ha mai conosciuto. Quel bianco è ghiaccio e neve, così gelidi che bruciano come il fuoco. » Daniel proseguì da solo, portando le preziose registrazioni sotto la giacca, contro la pelle, e costeggiando la morena del ghiacciaio Ruwatamagufa entrò nello Zaire due giorni dopo aver lasciato Se poo. Aveva tre dita delle mani e un dito del piede colpiti da un prin cipio di congelamento. Il commissario distrettuale zairano a Mutsora era abituato ai profughi che arrivavano dalle montagne, ma capitava raramente che fossero bianchi con il passaporto britannico e biglietti da cinquanta dollari da regalare. Non lo rimandò indietro. Due giorni dopo Daniel era a bordo del battello a vapore che scendeva il fiume Zaire; e dieci giorni più tardi atterrò all'aeroporto di Heathrow. Aveva ancora le cassette in tasca. Dall'appartamento di Chelsea, Daniel telefonò a Michael Har greave, all'ambasciata di Kahali. « Buon Dio, Danny! Ci avevano detto che tu e Bonny Mahon eravate scomparsi nella foresta presso Sengi-Sengi. L'esercito ha mandato le pattuglie a cercarvi. » « Questa linea è sicura, Mike? »
« Non mi ci giocherei la reputazione. » « Allora ti racconterò tutto quando ci rivedremo. Intanto man dami il pacchetto che ti avevo affidato. Spediscilo con il primo cor riere diplomatico. » « Un momento, Danny. Il pacchetto l'ho consegnato a Bonny Mahon. Mi ha detto che doveva ritirarlo a nome tuo. » Daniel rimase in silenzio per un attimo. « Piccola stupida! Ha fatto il loro gioco. Bene, allora è chiaro. E morta, Mike, questo è si curo. Ha consegnato il pacchetto e loro l'hanno uccisa. Credevano che io fossi morto, perciò l'hanno fatto. Un lavoretto pulito. » « Chi sono 'loro'? » chiese Michael. « Adesso no, Mike. Non posso dirtelo. » « Mi dispiace per il pacchetto, Danny. Bonny è stata molto con vincente. Ma non avrei dovuto cascarci. Sto rimbecillendo. » « Non è niente di grave. Ho ben altro per rimpiazzarlo. » « Quando ti vedrò? » « Presto, spero. Te lo farò sapere. » Il preavviso era stato breve, ma lo studio gli diede ugualmente una moviola. Daniel lavorò senza sosta: serviva ad attenuare la tri stezza e il rimorso per la sorte di Bonny Mahon. Si sentiva responsa bile. Non era necessario che il documentario fosse perfetto, e non era neppure necessario doppiare in inglese i dialoghi in swahili. Do po quarantotto ore aveva una copia pronta. Era impossibile contattare Tug Harrison. Tutte le chiamate di Daniel venivano bloccate dal centralino della BOSS e non ricevevano risposta. Il numero di Holland Park, naturalmente, non era sull'e lenco; e Daniel non lo ricordava anche se l'aveva chiamato una vol ta da Nairobi per scoprire cosa stava combinando Bonny Mahon. Perciò si piazzò di guardia alla casa. Si appoggiò a una macchina con un giornale in mano come se aspettasse qualcuno e sorvegliò l'entrata. Ebbe fortuna. La Rolls-Royce di Tug si fermò davanti al porton cino poco dopo mezzogiorno, e Daniel lo bloccò mentre saliva la scala. « Armstrong... Danny! » La sorpresa di Tug era sincera. « Avevo sentito dire che era scomparso nell'Ubomo. » « Non è esatto, Tug. Non ha ricevuto i miei messaggi? Ho telefo nato al suo ufficio una mezza dozzina di volte. » « Non mi hanno passato la comunicazione. A questo mondo ci sono troppi tipi eccentrici. » « Devo mostrarle una parte del materiale che ho potuto girare nell'Ubomo », disse Daniel. Tug esitò e consultò l'orologio con aria dubbiosa. « Non cerchi di prendermi in giro, Tug. Questo materiale può mandare a picco lei e la BOSS. » Tug socchiuse gli occhi . « E una minaccia? » « E solo un consiglio amichevole. » « Sta bene, entri. » Tug aprì il portoncino. « Diamo un'occhiata a quel che mi ha portato. » Tug Harrison sedette alla scrivania e guardò la registrazione dal l'inizio alla fine, senza muoversi e senza pronunciare una parola. Dopo l'ultima dissolvenza al nero, premette il tasto del telecoman do, riavvolse il nastro e lo visionò una seconda volta, sempre senza fare commenti. Poi spense l'apparecchio e parlò senza guardare Daniel. « E au tentico », disse. « Non avrebbe potuto falsificarlo. » « Sa benissimo che è autentico », disse Daniel. « Sapeva delle atti vità minerarie e del diboscamento. E il suo stramaledetto consorzio. Gli ordini li ha dati lei. » « Mi riferisco ai campi di lavoro e all'uso dell'arsenico. Di que sto non sapevo niente. » « Chi le crederà, Tug? » Tug Harrison alzò le spalle. « Dunque Omeru è ancora vivo. »
« Sì. E vivo e pronto a testimoniare contro di lei. » Tug cambiò di nuovo argomento. « Naturalmente esistono altre copie di questo nastro? » chiese. « Domanda sciocca », disse Daniel. « Quindi è una minaccia diretta? » « Seconda domanda sciocca. » « Ha intenzione di mostrare al pubblico questo materiale? » « Tre in fila », disse in tono cupo Daniel. « Naturalmente. C'è una sola cosa che può impedirmelo. Lei e io dobbiamo fare un patto. » « Che patto propone? » chiese Tug a voce bassa. « Io le darò il tempo per tirarsi fuori, per vendere la sua parte al la Lucky Dragon o a chiunque altro sia disposto a comprare. » Tug non rispose immediatamente ma Daniel scorse nei suoi occhi un lampo di sollievo. « E in cambio, cosa vuole? » « Finanzierà la controrivoluzione di Victor Omeru contro il regi me di Taffari. Oopotutto, non sarà il primo golpe che avrà orche strato in Africa, vero? » « Quanto mi costerà? » chiese Tug. « Una frazione minima di quello che perderebbe se diffondessi il documentario prima che lei potesse tirarsene fuori. Potrei consegna re una copia al ministero degli Esteri e un'altra all'ambasciatore americano entro mezz'ora. Potrei mandarlo in onda sul canale na zionale della BBC alle sei... » « Quanto? » insistette Tug. « Cinque milioni in contanti, da versare immediatamente su un conto svizzero. » « Intestato a lei? » « E a Omeru. » « Che altro vuole? » « Voglio che si metta in contatto con il presidente dello Zaire. E amico suo, e odia Taffari. Vogliamo che permetta il transito clande stino d'armi e munizioni attraverso il confine con l'Ubomo. Non dovrà far altro che chiudere un occhio. » « E tutto? » « Sì. » Daniel annuì. « Sta bene, accetto », disse Tug. « Mi dia il numero del conto. Farò accreditare la somma prima di domani a mezzogiorno. » Daniel si alzò. « Si consoli, Tug. Non tutto è perduto. Victor Omeru sarà molto ben disposto verso di lei, appena sarà reinsediato al posto che gli spetta. Sono certo che accetterà di rinegoziare il con tratto con lei... questa volta con le necessarie garanzie. » Quando Daniel Armstrong se ne fu andato, Tug Harrison rimase per cinque minuti immobile a fissare il quadro di Picasso. Poi guardò l'orologio. Fra Londra e Taipei c'erano nove ore di differenza. Prese il telefono e compose il prefisso internazionale, se guito dal numero privato di Ning Heng H'Sui. Fang, il figlio mag giore, ricevette la chiamata e la passò al padre. « Ho una proposta molto interessante da farle », disse Tug. « Vo glio venire a parlarle. Potrei arrivare a Taipei entro ventiquattr'ore... Ia troverò? » Fece altre due telefonate, una a casa del suo capopilota per avver tirlo di far preparare il Gulf Stream, e un'altra al Crédit Suisse di Zu rigo. « Signor Mulder, entro le prossime ventiquattr'ore effettuerò un grosso trasferimento dal conto numero due. Cinque milioni di sterli ne. Si assicuri che non ci siano ritardi quando riceverà le istruzioni. » Riattaccò e fissò di nuovo il quadro senza vederlo. Doveva deci dere la giustificazione che avrebbe dato a Ning per l'intenzione di vendere la sua parte dell'uDc. Doveva dirgli che era in crisi di liquidi tà? O che aveva bisogno della somma per una nuova acquisizione? Quale sarebbe apparsa più credibile a Ning?
Quale sarebbe stato il prezzo? Non doveva essere troppo basso, perché avrebbe destato subito i sospetti del vecchio, astuto orientale. Ma non doveva essere neppure troppo alto. Abbastanza basso per stuzzicare la sua avidità, abbastanza alto per non metterlo in allarme. Avrebbe potuto riflettere durante il volo a Taipei. « Quel giovane idiota di Deng mi ha messo in questa situazione. E giusto che sia suo padre a pagare. » Pensò a Ning Deng Kong. Era stata una scelta troppo riuscita, si disse con un sorriso amaro. Aveva chiesto un uomo spietato, e l'ave va avuto. Naturalmente Tug aveva saputo dei forzati, ma non del modo in cui venivano trattati. Non aveva voluto saperlo. Non aveva conosciu to con certezza neppure l'utilizzazione dei reagenti all'arsenico, an che se aveva sospettato che Deng se ne servisse. I dati sull'estrazione del platino erano troppo elevati, i profitti troppo grandi perché non fosse così. Aveva preferito non conoscere i particolari sgradevoli. Ma, pensò con filosofia, il rendimento dell'attività mineraria avreb be facilitato la vendita della sua parte alla Lucky Dragon. Ning Heng H'Sui si sarebbe convinto di fare il più splendido affa re della sua vita. « Buona fortuna, Lucky Dragon », borbottò Tug. « Ne avrai pro prio bisogno. »
Esattamente tre mesi dopo la precedente traversata, Daniel si fer mò sulla morena ai piedi del ghiacciaio Ruwatamagufa. Questa volta era equipaggiato a dovere e non avrebbe rischiato il congelamento. E non era solo. La fila dei portatori curvi sotto i carichi si estendeva a perdita d'occhio nelle nebbie della montagna. Erano tutti uomini della tribù konjo, austeri montanari perfettamente in grado di portare carichi pesanti a quell'altitudine. Erano seicentocinquanta, e ognuno porta va quaranta chili. In tutto erano ventisei tonnellate di armi e di munizioni. Non c'erano armi sofisticate, ma solo gli strumenti collaudati dei guerri glieri e dei terroristi, gli onnipresenti AK 47 e gli Uzi, la mitraglietta leggera RPD e il lanciarazzi RPG, le pistole automatiche Tokarev e le granate a frammentazione americane M 26, o almeno copie discrete prodotte in Iugoslavia o in Romania. Era tutto materiale che ci si poteva procurare in poco tempo nel la quantità desiderata, purché il compratore pagasse in contanti. Daniel era rimasto sbalordito da tanta facilità. Tug Harrison gli ave va dato i nomi e i numeri telefonici di cinque commercianti, uno in Florida, due in Europa e due in Medio Oriente. « Scelga lei », aveva detto Tug. « Ma controlli quello che compra prima di pagare. Parte del materiale è in circolazione da quarant'an ni. » Daniel e i suoi istruttori avevano aperto personalmente ogni cassa ed esaminato ogni pezzo. Daniel aveva calcolato che gli occorrevano come minimo quattro istruttori. Era tornato nello Zimbabwe per cercarli. Erano tutti uo mini che avevano combattuto con lui o contro di lui nella guerra del la boscaglia. Tutti parlavano swahili ed erano tutti negri. Nell'Ubo mo, una faccia bianca avrebbe attirato troppa attenzione. Il leader dei quattro era un ex sergente maggiore degli Scout di Ballantyne, un uomo che aveva combattuto con Roland Ballantyne e Sean Courtney. Era uno splendido guerriero matabele e si chiama va Morgan Tembi. Nel gruppo c'era un'altra recluta, un cameraman che doveva so stituire Bonny Mahon. Shadrach Mbeki era un esule sudafricano ne gro che aveva dimostrato le sue capacità lavorando per la BBC: era l'operatore più in gamba che Daniel era riuscito a trovare. A nord, il monte Stanley era nascosto fra le nubi che scendevano sino a formare una fredda coltre grigia appena trenta metri sopra le
loro teste; ma a est, al di sotto delle nubi, il cielo era aperto. Daniel guardò la foresta tremila metri più in basso. Sembrava un oceano sconfinato, tranne a nord, dove un cancro scuro aveva eroso il ver de. La zona sfruttata e devastata era più ampia e profonda di quan do Daniel l'aveva vista per l'ultima volta, pochi mesi prima, da quella stessa posizione. Le nubi e la nebbia li avvolsero all'improvviso e nascosero la carneficina lontana. Daniel si scosse e guardò in basso. La lunga co lonna dei portatori si snodava dietro di lui. Sepoo l'attendeva dove incominciava la foresta di bambù, a quota tremila metri. « E bello rivederti, Kuokoa, fratello mio. Kara-Ki ti manda il suo cuore », disse a Daniel. « Vuole che vada subito da lei. Dice che non può più aspettare. » Gli uomini del clan di Sepoo avevano aperto una pista fra i bam bù e l'avevano allargata in modo che i portatori potessero passare senza essere costretti a chinarsi. Al di là della fitta coltre di bambù, là dove incominciava la vera foresta pluviale a un'altitudine di duemila metri, Patrick Omeru era in attesa con le squadre delle reclute uhali per dare il cambio ai mon tanari. Daniel pagò i konjo e li guardò allontanarsi. Poi i bambuti li guidarono lungo la nuova pista, verso Gondala. Dopo il messaggio di Kelly, Daniel non seppe più adattarsi al l'andatura della colonna. Si affrettò a precederla in compagnia di Sepoo. Kelly era già sulla pista e stava venendo verso di loro. S'in contrarono all'improvviso a una curva del sentiero. Kelly e Daniel si fermarono e si guardarono come se fossero in capaci di muoversi e di parlare, fino a che Kelly disse, con voce un po' roca, senza distogliere gli occhi dal viso di Daniel: « Vai avanti, Sepoo. Molto, molto avanti ». Sepoo rise felice e si incamminò senza voltarsi.
Durante l'assenza di Daniel, Victor Omeru aveva costruito il nuovo quartier generale al margine della foresta, al di là della casca ta di Gondala, in modo da renderlo invisibile anche nel caso di un'e ventuale ricognizione aerea. Era un semplice baraza con i mezzi mu ri e il tetto di paglia. Adesso era in compagnia di Daniel sul piccolo podio eretto a un'estremità della capanna. Daniel si apprestava a conoscere i capi della resistenza. Molti li vedeva per la prima volta. Stavano seduti sulle lunghe panche, di sposte davanti al podio, come studenti in un'aula. Erano trentotto, quasi tutti esponenti della tribù uhali, ma c'erano anche sei hita che, disgustati dal comportamento di Taffari, s'erano schierati con Vic tor Omeru non appena avevano saputo che era ancora vivo. Quegli hita avrebbero avuto un'importanza vitale nel piano d'azione che Daniel aveva ideato e discusso con Victor. Due degli hita avevano posizioni altolocate nell'esercito e uno era un pezzo grosso della polizia. Gli altri tre erano funzionari go vernativi che avrebbero potuto fornire permessi e licenze per i viaggi e i trasporti. E tutti sarebbero stati in grado di procurare informa zioni preziose. All'inizio erano state sollevate obiezioni all'idea che il nuovo ca meraman di Daniel filmasse la riunione, ma Victor Omeru era inter venuto, e adesso Shadrach Mbeki lavorava con tanta discrezione da far dimenticare la sua presenza. In cambio della collaborazione, Omeru aveva permesso a Daniel di girare un documentario su ogni fase della controrivoluzione. Daniel aprì la riunione presentando i quattro istruttori matabele. Si alzarono a uno a uno e Daniel espose i punti salienti del loro cur riculum vitae. Erano uomini imponenti, ma tutti guardavano con soggezione Morgan Tembi. « Fra tutti e quattro hanno addestrato migliaia di combattenti », puntualizzò Daniel. « A loro non interessano le esercitazioni da pa
rata. Vi insegneranno a usare le armi che abbiamo portato dalle montagne, e ad adoperarle nel miglior modo possibile. » Si rivolse a Patrick Omeru, che era seduto in prima fila. « Patrick, può venire qui e dire quanti uomini ha a sua disposizione e dove si trovano al momento? » Durante l'assenza di Daniel, Patrick s'era dato da fare. Aveva reclutato quasi millecinquecento giovani. « Bene, Patrick, sono più di quanto ci occorrano », disse Daniel. « Avevo in mente un nucleo di mille uomini... quattro unità di due centocinquanta, ognuna al comando di un istruttore. Se fossero di più sarebbe difficile nasconderli e piazzarli. Tuttavia potremo ser virci degli altri per ruoli di supporto. » La riunione durò tre giorni e, al termine dei lavori, Daniel prese di nuovo la parola. « I nostri piani sono semplici, e funzionali... quindi ci sono meno cose che possono andar storte. Tutta la nostra strategia si basa su due princìpi. Il primo è che dobbiamo muoverci in fretta. Dovremo essere in grado di agire entro poche settimane, anziché entro qualche mese. Il secondo è il fattore sorpresa. La nostra segretezza dev'esse re totale. Se Taffari viene a sapere i nostri piani, reagirà con tale violenza che non avremo la minima possibilità di successo. Ecco, si gnori: rapidità e segretezza. C'incontreremo di nuovo qui il primo del mese prossimo. Nel frattempo il presidente Omeru e io prepare remo un piano d'azione dettagliato. Fino a quel momento prendere te gli ordini dai vostri istruttori nei campi d'addestramento. Buona fortuna a tutti. »
Pirri era confuso, infuriato e pieno di disperazione e di odio. Da mesi, ormai, viveva solo nella foresta senza un altro uomo con cui parlare, senza una donna con cui ridere. La notte giaceva solo nella capanna di foglie, lontano dalle abitazioni degli altri, e pensava alla moglie più giovane che aveva sedici anni e piccoli seni tondi. Ricor dava il calore sensuale del suo corpo, e gemeva nell'oscurità mentre pensava che non avrebbe più potuto godere di quel piacere. Durante il giorno era intontito e non pensava a nulla. Non anda va più a caccia con la determinazione di un tempo. A volte restava seduto per ore a guardare una delle polle scure della foresta. Per due volte aveva sentito il richiamo del camaleonte del miele e non l'aveva seguito. Era diventato magro e la sua barba aveva incomin ciato a imbiancarsi. Una volta aveva sentito un gruppo di donne bambuti nella foresta; ridevano e chiacchieravano mentre raccoglie vano funghi e radici. S'era avvicinato furtivamente e, nello spiarle, aveva avuto l'impressione che il suo cuore stesse per spezzarsi. Desi derava avvicinarsi a loro, ma sapeva che non poteva farlo. Poi, un giorno, mentre si aggirava tutto solo, Pirri incontrò le tracce d'un gruppo di wazungu. Le studiò e vide che erano venti, e che si muovevano con decisione come se fossero in viaggio. Era molto strano trovare altri uomini nella foresta, perché hita e uhali avevano paura di spiriti e mostri e non si addentravano mai fra gli alberi alti, se potevano evitarlo. Pirri ritrovò in parte la curiosità d'un tempo, e seguì le tracce dei wazungu. Si muovevano con abili tà e lui impiegò diverse ore per raggiungerli. E allora scoprì una co sa straordinaria. Nel cuore della foresta trovò un campo dovierano radunati mol ti uomini. Erano tutti armati con i banduki e avevano una strana appendice a forma di banana... come una coda o un pene. E mentre Pirri, dal suo nascondiglio, li osservava sbalordito, gli uomini spa rarono con i banduki e fecero un chiasso terribile che mise in fuga gli uccelli e le scimmie. Era straordinario; ma la cosa più strana era che quegli uomini non erano hita. Di quei tempi soltanto i soldati hita in uniforme avevano i banduki. Questi erano uhali.
Pirri pensò a ciò che aveva visto per molti giorni; e poi l'istinto avido che era rimasto sopito in lui fin dalla venuta del molimo co minciò a ridestarsi. Pensò a Chetti Singh e si chiese se gli avrebbe dato molto tabacco, qualora gli avesse raccontato degli uomini ar mati nella foresta. Odiava Chetti Singh, che l'aveva ingannato e frodato, ma quando pensava al tabacco gli veniva l'acquolina in bocca. Gli sembrava di sentirne il sapore. La fame di tabacco era come una sofferenza nel petto e nel ventre. L'indomani andò a cercare Chetti Singh. Camminava cantando e fischiando. Stava ritornando in vita dopo che il molimo l'aveva ucciso. Si fermò per dare la caccia a un colobo che aveva visto su un ramo, intento a mangiare il frutto giallo del mongongo. Ritrovò l'abilità di un tempo e si avvicinò fino a venti passi dalla scimmia senza che quella sospettasse la sua presenza; poi scagliò una freccia avvelenata che la colpì a una zampa. La scimmia fuggì strillando fra i rami, ma non andò lontana. Cadde al suolo, paralizzata dal veleno, con le labbra contratte in una terribile smorfia di sofferenza, mentre tremava e sbavava prima di morire. Il veleno della freccia di Pirri era fresco e potente. Aveva trovato il nido dei minuscoli coleotteri pochi giorni prima, e li aveva raccolti, schiacciati e ridotti in poltiglia in un crogiolo di corteccia. Con quella sostanza aveva poi spalmato la punta delle frecce. Con la pancia piena di carne di scimmia e la pelle umida ripiega ta nella sacca di corteccia, Pirri proseguì verso l'appuntamento con il sikh. Pirri attese due giorni nella radura che un tempo era stata un campo di taglialegna ma che ormai stava ritornando in possesso del la foresta. Si chiedeva se il bottegaio uhali del piccolo duka lungo la strada principale avesse inoltrato il messaggio a Chetti Singh. Poi cominciò a pensare che Chetti Singh avesse ricevuto il mes saggio e non volesse venire. Forse aveva saputo che il molimo l'ave va ucciso, e lo teneva al bando. Forse nessuno avrebbe più parlato con Pirri. L'euforia lo abbandonò mentre, solo nella foresta, atten deva l'arrivo di Chetti Singh, e la disperazione e la confusione lo so praffecero di nuovo. Chetti Singh venne nel pomeriggio del secondo giorno. Pirri sen ti il Land Rover molto prima che comparisse: e all'improvviso la rabbia e l'odio trovarono un obiettivo su cui concentrarsi. Ricordò che Chetti Singh l'aveva imbrogliato e raggirato molte volte. Non gli aveva mai dato tutto ciò che prometteva: il tabacco era sempre meno di quanto pattuito e il gin era annacquato. Poi pensò che Chetti Singh l'aveva convinto a uccidere l'elefan te. Pirri non era mai stato furioso come in quel momento, al punto da non riuscire neppure a sfogarsi urlando e aggredendo gli alberi. Aveva la gola stretta e chiusa, e gli tremavano le mani. Chetti Singh aveva attirato su di lui la maledizione del molimo. Chetti Singh ave va ucciso la sua anima. Dimenticò i wazungu armati nella foresta. Dimenticò persino la fame di tabacco mentre attendeva Chetti Singh. Il Land Rover infangato avanzò nella radura, aprendosi un var co nella vegetazione secondaria. Si fermò. La portiera si aprì e Chetti Singh scese. Si guardò intorno e si asciugò la faccia con un drappo bianco. Ultimamente aveva acquistato molto peso, ed era più grasso di quanto lo fosse prima di perdere il braccio. La camicia era macchia ta di sudore fra le scapole, nel punto in cui s'era appoggiato al sedi le di pelle. Si asciugò la faccia e si assestò il turbante plima di gridare alla foresta: « Pirri! Vieni fuori! » Pirri ridacchiò e mormorò, imitando il sikh: « Pirri! Vieni fuo ri! » Poi la sua voce divenne amara: « Guarda quanto gronda il grassone, come un pezzo di carne di maiale sulle braci. Pirri, vieni fuori! »
Chetti Singh si aggirò impaziente nella radura. Dopo un po' si aprì i pantaloni e urinò, poi li richiuse e guardò l'orologio. « Pirri, sei lì? » Non ebbe risposta. Disse qualcosa, rabbiosamente, in una lingua che Pirri non conosceva... ma si capiva che era un insulto. « Me ne vado », gridò Chetti Singh, e tornò al Land Rover. « Oh, padrone! » gli gridò Pirri. « Io ti vedo! Non andare! » Il sikh si voltò di scatto. « Dove sei? » « Sono qui, padrone. Ho qualcosa per te che ti renderà molto fe lice. Qualcosa di grande valore. » « Che cos'è? » chiese Chetti Singh. « Dove sei? » « Sono qui. » Pirri uscì dall'ombra con l'arco appeso alla spalla. « Che stupidaggine è questa? » chiese Chetti Singh. « Perché ti nascondi? » « Sono il tuo schiavo. » Pirri sorrise con fare implorante. « E ho un dono per te. » « Di cosa si tratta? Denti di elefante? » chiese Chetti Singh con una sfumatura di avidità nella voce. « Molto meglio. Qualcosa che vale molto di più. » « Mostramelo », ordinò Chetti Singh. « Mi darai il tabacco? » « Ti darò tutto il tabacco che il dono potrà valere. » « Te lo mostrerò », promise Pirri. « Seguimi, padrone. » « Dove? E molto lontano? » « Non molto. Così. » Pirri indicò un piccolo arco di cielo con due dita: meno di un'ora di cammino. Chetti Singh sembrava dubbioso. « E una cosa che ha grande bellezza e grande valore », insistette Pirri. « Ti piacerà moltissimo. » « D'accordo », disse il sikh. « Portami a vedere questo tesoro. » Pirri s'incamminò lentamente per lasciare che Chetti Singh gli stesse dietro. Procedettero in un ampio cerchio nella parte più fitta della foresta e attraversarono per due volte lo stesso corso d'acqua. Nella foresta il sole non penetrava, e bisognava orientarsi secondo il terreno e la direzione dei fiumi. Pirri mostrò a Chetti Singh lo stesso fiume da due direzioni di verse. Ormai il sikh era completamente sperduto, e camminava alla cieca dietro il pigmeo senza rendersi più conto delle distanze. Dopo due ore Chetti Singh sudava abbondantemente e aveva la voce rauca. « E ancora molto lontano? » chiese. « E vicinissimo », gli assicurò Pirri. « Riposerò un poco », disse il sikh e sedette su un tronco. Quan do rialzò lo sguardo, Pirri era sparito. Non si allarmò. Era abituato agli andirivieni elusivi dei bambuti. « Torna qui ! » ordinò. Ma non ebbe risposta. Rimase solo a lungo. Chiamò un paio di volte il pigmeo, ogni volta con voce più stridula. Cominciava a essere in preda al panico. Dopo un'altra ora cominciò a supplicare. « Ti prego, Pirri. Ti darò tutto ciò che chiedi. Fatti vedere, per favore. » Pirri rise. La sua risata echeggiò fra gli alberi e Chetti Singh bal zò in piedi e si allontanò dalla pista. Si avviò barcollando nella dire zione da cui gli sembrava di aver sentito giungere la risata. « Pirri ! » implorò . « Ti prego, vieni qui. » Ma la risata giunse da una direzione nuova. Chetti Singh corse da quella parte. Dopo qualche tempo si fermò e si guardò intorno affannosa mente. Grondava di sudore e ansimavav Una risata beffarda tremo lava nell'aria umida. Chetti Singh si girò e l'inseguì barcollando. Era come inseguire una farfalla o uno sbuffo di fumo. Il suono fluttuava fra gli alberi, prima in una direzione, poi nell'altra. Chetti Singh piangeva. Il turbante, impigliatosi in un ramo, s'e ra sciolto, ma non si fermò a riprenderlo. I capelli e la barba gli ca devano sul petto e sulle spalle, intrisi di sudore. Cadde, si rialzò a fatica e continuò a correre, con gli indumenti
sporchi di fango e di muffa. Urlò il suo terrore agli alberi e la risata divenne più fioca, fino a quando non la sentì più. Il sikh si lasciò cadere in ginocchio e alzò la mano in atto di sup plica. « Ti prego », bisbigliò con il viso striato di lacrime. « Ti prego, non lasciarmi qui solo. » La foresta taceva e l'aria era carica di minaccia. Pirri lo seguì per due giorni, lo guardò vacillare, delirare e im plorare, lo vide diventare sempre più debole e disperato, inciampare nei rami morti, cadere nei ruscelli, strisciare sul ventre e tremare per il terrore e la solitudine. Gli indumenti erano strappati dagli spini, e solo pochi brandelli gli pendevano ancora addosso. La pelle era graffiata; mosche e altri insetti già ronzavano intorno alle ferite. La barba e i capelli lunghi erano aggrovigliati, gli occhi stralunati e folli. Il secondo giorno, Pirri uscì dalla foresta proprio davanti a lui e Chetti Singh urlò e cercò di rimettersi in piedi. « Non lasciarmi solo », urlò. « Ti prego, ti darò tutto ciò che vuoi, ma non lasciarmi. » « Anch'io sono solo come te », disse Pirri con l'odio nel cuore. « Sono morto. Il molimo mi ha ucciso. Stai parlando a un morto, a uno spettro. Non puoi chiedere pietà allo spettro di un uomo che hai assassinato. » Lentamente, Pirri incoccò una freccia al piccolo arco. La punta era spalmata di veleno nero e viscoso. Chetti Singh lo guardò a bocca aperta. « Che cosa fai? » balbet tò. Conosceva il veleno e aveva visto molti animali morire uccisi dalle frecce dei bambuti. Pirri alzò l'arco e si accostò la freccia al mento. « No! » Chetti Singh alzò la mano per fermarla nello stesso atti mo in cui Pirri la scagliava. La freccia, diretta al petto, lo colpì nel palmo della mano aperta e si piantò con la punta affondata fra le ossa dell'indice e del medio. Chetti Singh la fissò. « Ora siamo morti tutti e due », disse Pirri a voce bassa e svanì nella foresta. Chetti Singh afferrò con i denti l'asta della freccia. Era piantata saldamente. Tirò con tutte le sue forze e la freccia si staccò. La gettò via, inorridito, e guardò la ferita sul palmo. La carne era già violacea per il veleno. Poi incominciò il dolore. Era più forte di quanto avesse mai immaginato. Era come un fuoco nel sangue: lo sentiva salire nel braccio e dilagare nel petto. Era così terribile che per un momento gli tolse il respiro e gli impedì di urlare. Poi ritrovò la voce e le grida della sua sofferenza echeggiarono fra gli alberi. Pirri si fermò per ascoltare. Proseguì solo quando nel la foresta ritornò il silenzio.
« Siamo pronti », disse Daniel. La sua voce, sebbene non fosse alta, giunse a tutti gli uomini presenti nel quartier generale di Gon dala. Erano gli stessi che s'erano riuniti un mese prima, eppure erano diversi. Sui loro volti c'era un'aria sicura e decisa che prima non avevano. Daniel aveva parlato con gli istruttori matabele prima della riu nione. Erano soddisfatti. Nessuno era stato allontanato dai campi di addestramento se non per ferite o malattia. « Adesso sono amabutho », aveva detto Morgan Tembi a Daniel. « Sono guerrieri. » « Avete fatto un buon lavoro », disse Daniel. « Potete essere fieri di quanto avete realizzato in così poco tempo. » Si girò verso la lavagna e scostò il telo che la copriva. La lava gna era piena di diagrammi.
« Signori, questo è il nostro piano di battaglia », disse. « Lo ri passeremo fino a che ognuno di voi sarà in grado di recitarlo nel sonno », continuò. « Ecco le vostre quattro formazioni, ognuna di duecentocinquanta uomini. A ognuna sono assegnati obiettivi diver si... Ia caserma principale dell'esercito, l'aeroporto, il porto, i cam pi di lavoro... » Daniel esaurì l'elenco. « Ora la cosa più importante: la sede della radio e della televisione a Kahali. Le forze della sicu rezza di Taffari sono efficienti. Anche con il vantaggio della sorpre sa iniziale non possiamo sperare di tenere tutti i nostri obiettivi più a lungo di poche ore, senza il sostegno della popolazione. Dobbia mo occupare la stazione radiotelevisiva. Il presidente Omeru rag giungerà la capitale in anticipo e si terrà nascosto nel vecchio quar tier generale, pronto a uscirne per trasmettere un appello ai cittadi ni. Non appena il popolo lo vedrà in televisione e saprà che è vivo e alla testa dell'insurrezione, possiamo prevedere che tutti si uniranno a noi. Usciranno per le strade per prendere parte alla battaglia. Le truppe d'assalto di Taffari sono meglio armate di noi, ma le schiac ceremo con la superiorità numerica. « Tuttavia c'è un'altra condizione che dobbiamo soddisfare per assicurarci il successo. Dobbiamo togliere di mezzo Taffari, imme diatamente entro la prima ora dell'attacco. Dobbiamo schiacciare la testa del serpente. Senza Taffari, crolleranno. Non c'è nessuno in grado di prendere il suo posto. Ha fatto assassinare tutti i possibili rivali. Dobbiamo eliminarlo con il primo colpo a sorpresa. » « Non sarà facile. » Patrick Omeru si alzò. « Sembra che possie da una specie di sesto senso. E già sopravvissuto a due attentati da quando ha preso il potere. Comincia a correre la voce che si serva della stregoneria come Idi Amin Dada... » « Si sieda, Patrick », l'interruppe bruscamente Daniel. « Stregoneria » era una parola pericolosa, persino di fronte a un gruppo di uomini istruiti e intelligenti. Erano pur sempre africani, e la stregoneria aveva radici profonde in Africa. « Taffari è un porco, ma è molto astuto. Lo sappiamo. Rara mente si attiene a una routine. Cambia i piani all'ultimo momento. Annulla gli impegni senza un motivo e ogni notte dorme nella casa di una moglie diversa, a caso. E astuto, ma non è certo un mago. Vi assicuro che il suo sangue scorrerà rosso come quello di qualsiasi al tro uomo. » I presenti applaudirono: l'atmosfera migliorò. Erano ridiventati sicuri e decisi. « Tuttavia c'è una routine che Taffari rispetta con assiduità. Al meno una volta al mese va a visitare gli scavi di Wengu. Gli piace vedere il suo tesoro che esce dalla terra. A Wengu è isolato: è l'uni co posto dell'intero Paese dov'è vulnerabile. » Daniel s'interruppe. « Noi abbiamo la fortuna di avere informazioni preziose grazie al maggiore Fashoda. » Indicò l'ufficiale hita che era sul podio accan to a lui. « Come tutti sapete, il maggiore Fashoda è l'ufficiale addet to ai trasporti dello stato maggiore di Taffari. E lui a occuparsi de gli spostamenti di Taffari, che si serve sempre di un elicottero Puma per visitare Wengu. Ha ordinato di tenere pronto un Puma per lu nedì quattordici, e ciò indica che molto probabilmente in quella da ta effettuerà un'ispezione a Wengu. Questo ci lascia cinque giorni per i preparativi finali. »
Ning Deng Kong era seduto accanto al presidente Taffari sullo strapuntino imbottito del Puma. Attraverso il portello aperto vede va il verde delle cime degli alberi, mentre l'elicottero volava basso. Il vento li investiva e nella cabina c'era un gran rumore. Erano co stretti ad alzare la voce per farsi sentire. « Si sa qualcosa di Chetti Singh? » gridò Ephrem Taffari acco stando la bocca all'orecchio di Deng. « No », gridò in risposta Deng. « Abbiamo trovato il suo Land
Rover, ma di lui non c'era traccia. Ormai sono passate due settima ne. Dev'essere morto nella foresta, come Armstrong. » « Era efficiente », disse Taffari. « Sapeva come far lavorare i for zati. Sapeva tener bassi i costi. » « Sì », ammise Deng. « Sarà difficile sostituirlo. Parlava la lin gua locale. Capiva l'Africa. Capiva... » Deng si morse la lingua; era stato sul punto di dire « questi sporchi negri ». « Capiva il siste ma », concluse, incerto. « Già nel breve tempo trascorso dalla sua scomparsa c'è stato un netto calo nella produzione e nei profitti », puntualizzò Taffari. « Ci sto lavorando », assicurò Deng. « Ho chiamato uomini ef ficienti per rimpiazzarlo. Esperti che vengono dal Sudafrica, in gamba quanto Chetti Singh. Anche loro sanno come far sgobbare questa gente. » Taffari annui e si alzò. Si avviò lungo la cabina per andare a parlare con la sua compagna. Come al solito, il presidente viaggiava con una donna. La sua ultima fiamma era una hita, una cantante di blues d'un night club di Kahali, con un viso da Nefertiti negra. Era accompagnato anche da un distaccamento della sua guardia presidenziale: venti paraca dutisti scelti al comando del maggiore Kajo. Kajo era stato promos so dopo la scomparsa di Bonny Mahon. Taffari apprezzava la lealtà e la discrezione, e Kajo aveva davanti una carriera promettente. Deng, ormai, detestava le ispezioni presidenziali alle concessio ni. Odiava volare a bassa quota con uno dei vecchi Puma dell'avia zione militare dell'Ubomo. I piloti erano troppo spericolati: dal suo arrivo c'erano già stati due incidenti mortali. Ancor più che per il pericolo fisico, Deng era preoccupato per le domande acute di Taffari e per l'occhio attento con cui seguiva i dettagli della produzione. Sotto l'atteggiamento marziale, quell'uo mo nascondeva una mentalità da contabile. Capiva la finanza ed era in grado di notare quando i profitti scendevano al di sotto delle previsioni. Aveva l'istinto del denaro, e intuiva quando lo imbro gliavano. Naturalmente Deng truccava i bilanci del consorzio, ma non in modo eccessivo e vistoso. Si limitava a mostrare una certa preferen za verso la Lucky Dragon. Lo faceva con abilità. Neppure un esper to revisore sarebbe riuscito a scoprirlo, ma il presidente Taffari si era già insospettito. Deng approfittò di quella tregua, mentre era seduto fra due pa racadutisti armati fino ai denti e si sentiva assalire da un incipiente mal d'aria, per riconsiderare le disposizioni finanziarie e cercare i punti deboli del sistema che Taffari avrebbe potuto individuare. Alla fine decise che, almeno temporaneamente, sarebbe stato opportuno ridurre l'ammontare delle somme di cui si appropriava. Sapeva che, se i sospetti di Taffari fossero diventati certezze, non avrebbe esitato a porre fine al suo contratto con l'aiuto di un Kalashnikov. E ci sarebbe stata un'altra tomba senza nome nella fo resta, oltre a quelle di Chetti Singh e di Daniel Armstrong. Il Puma virò bruscamente e Deng si aggrappò al sedile. Attra verso il portello aperto intravide la nuda terra rossa degli scavi e la fila delle MOMU gialle sgranate lungo il margine della foresta. Erano arrivati a Wengu.
Daniel guardò il Puma girare in cerchio sulla pista, rallentare e infine scendere contro uno sfondo di cumuli violacei. C'erano pozze d'acqua piovana sullo spiazzo di cemento e la manica a vento