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DAVID FISHER IL BRANCO (The Pack, 1976) Cave canem PETRONIUS PROLOGO Era la seconda domenica di settembre, l'ultimo giorno delle vacanze. Il giorno del rientro. Gli oggetti sopravvissuti ai piaceri estivi erano ammucchiati davanti alla porta d'ingresso, pronti per il traghetto che li avrebbe riportati alla vita di città. In tutto c'erano cinque valigie zeppe di vestiti, la televisione Motorola a dodici pollici, in bianco e nero, che non prendeva mai la NBC, gli scatoloni di cartone che una scritta a pastello identificava come «roba di casa» e pieni soprattutto di pentole, tegami e piatti non scheggiati, la griglia doppia, pulita e pronta per barbecue invernali accanto al caminetto, uno scatolone mezzo pieno di giocattoli ancora usabili, e la begonia rossa che la madre aveva curato con tanta attenzione nella speranza che riuscisse a sopravvivere al trauma del trapianto nell'appartamento. Il padre gridò alla madre che era al piano di sopra: «È tutto pronto?» «Tutto tranne il cane. Occupatene tu, d'accordo?» Non voleva essere una domanda. Gli oggetti da abbandonare consistevano in cinque spazzolini da denti, accessori da bagno assortiti, i resti dell'amaca verde che aveva subito strappi fatali in un improvviso temporale di luglio, una scatola di corn flakes, un coltello, due coperte leggere, un mucchio di vestiti ormai troppo piccoli, una spazzola per capelli dimenticata sotto un divano, là dove era caduta, e il cane. Il cane dell'estate, il cane di quella estate, era un bastardo, un miscuglio di molte razze la più palese delle quali era la terrier. I bambini lo avevano chiamato «Jake», come l'anziano addetto all'ascensore del loro palazzo. Salvato dal canile municipale in maggio, Jake aveva fatto il suo dovere tenendo compagnia ai bambini durante l'estate. Il padre salì di sopra ed entrò in camera. Cercò una sigaretta, trovando finalmente un pacchetto aperto di Marlboro nel beauty-case della moglie. Odiava quell'ultima incombenza estiva, l'annuale spedizione nel bosco con il cane dell'estate. «Tesoro, sei sicura che non vuoi che lo si porti con noi?
È stato davvero eccezionale con i bambini.» Ne era sicura. I cani dell'estate diventavano peste d'inverno. Volevano dire passeggiate presto il mattino e tardi la la sera, con il freddo, la pioggia, la neve; volevano dire trovare un vicino che desse loro da mangiare e li portasse fuori quando se ne andavano al weekend, peli sul tappeto, allergie degli ospiti, iniezioni, cucine puzzolenti. Ciononostante il padre odiava il pensiero che Jake morisse nel bosco durante l'inverno. «Però,» attaccò, esitante, «i bambini ormai sono grandicelli...» Lei lo interruppe. «No, non è vero. E non voglio in giro un cane che mi faccia la pipì sui mobili.» «Non pensi che potremmo trovare qualcuno in città disposto a prenderlo?» Tirò una lunga boccata nervosa dalla sigaretta. Lei si spazzolava i lunghi capelli castani, cento colpi di spazzola, sempre cento colpi. «No, non lo penso. Finiremmo col darlo al canile municipale e loro lo eliminerebbero con il gas, il che è proprio quello che sarebbe successo se non fossimo intervenuti noi.» Ventuno, ventidue, aveva il suo ritmo. «Quindi vuoi per favore portarlo nel bosco? Perlomeno lì ha una possibilità di sopravvivere.» «Bella possibilità,» disse il padre fra sé. Lei smise di spazzolarsi i capelli. «Cosa?» Aveva sentito benissimo. «Niente.» Si era arreso: era inutile litigare per il cane. «Va bene, lo porterò là.» Tenendo con la sinistra i tre metri e mezzo di filo comprato esattamente per quello scopo, prese un coltello da cucina e intaccò la corda, senza reciderla. Non si sarebbe spezzata facilmente, ma una trazione continua alla fine l'avrebbe rotta. Era la speranza di sopravvivenza del cane. Lasciata la corda sul tavolo di cucina, andò nella stanza dei bambini. I suoi due figli avevano spazzolato e pettinato Jake tutta la mattina e alla fine gli avevano messo un vivace fiocco azzurro al collo. Jake sentì arrivare l'uomo prima di vederlo e si preparò. GÍi occhi erano spalancati, le orecchie tese all'indietro e la bocca abbozzava un mezzo sorriso. L'uomo voleva dire una grattatina sulla testa, una tirata sotto il mento oppure cibo. «Salutate Jake, ragazzi, lo devo portare alla sua nuova casa.» Jake si tirò indietro mentre il bambino più grande lo afferrava con forza. Con troppa forza. Il cane cercò di liberarsi divincolandosi. «Non possiamo portarlo con noi?» chiese il figlio più piccolo. «Ce ne
occuperemmo noi, papà, lo faremmo davvero.» Il figlio più grande intervenne. «Non ve ne accorgereste neppure. Lo porteremmo fuori e gli daremmo da mangiare e lo laveremmo e tutto il resto.» «Mi dispiace, ragazzi, ma non si può. Jake non sarebbe felice in città. Non avrebbe un posto per correre, né altri cani con cui giocare. Sull'isola sarà libero.» «Ma, papà...» «Andiamo, fate i ragazzi grandi.» Il maggiore strinse il cane ancora più forte. Jake cominciò a uggiolare. «Non puoi prenderlo,» gridò il bambino più piccolo, «è mio!» «Bob-by!» lo ammonì il padre, scandendo le sillabe. «Smettila! Non voglio che ti comporti come un lattante.» Si chinò e afferrò il collare del cane. Jake non capiva. Il suo posto, lo sapeva per esperienza, era con i bambini. Però, spesso, l'uomo gli dava da mangiare, così non si oppose quando la corda gli fu legata al collare, anche se non era mai successo prima, e seguì docilmente l'uomo che lo portava verso il bosco. Ma nell'addentrarsi sempre più fra gli alberi, cominciò a esitare. Il bosco era buio e troppo lontano dalla sicurezza della casa. Cominciò ad avere paura. Tirò il guinzaglio, ma l'uomo tirò più forte e il collare gli si strinse intorno al collo. Molto spaventato puntò le due zampe posteriori per terra. Ma l'uomo proseguì inoltrandosi sempre più, più di quanto non avesse mai fatto prima. Finalmente si fermarono in una piccola radura. L'uomo legò la corda a un ramo ricurvo, poi tirò, forte, tre volte. Il cane non poteva capire che quella era una prova, che l'uomo doveva essere sicuro che la corda avrebbe tenuto perlomeno fino alla partenza del traghetto. Jake si rassicurò quando il padrone si chinò, gli grattò la testa e gli dette la solita tiratina scherzosa sotto il muso. Ma poi l'uomo si voltò e rientrò nel bosco. Il cane cercò di seguirlo, ma dopo tre metri e mezzo la corda lo fermò bruscamente. Tentò di nuovo. Di nuovo la corda lo arrestò. Si mise ad ascoltare, per sentire se l'uomo stesse tornando indietro, invece notò il rumore dei passi che si allontanavano. E, per la prima volta, capì di essere solo. Il cane tirò disperatamente la corda, conficcando le zampe nella terra per avere una presa più salda, ma non riuscì a liberarsi. Il collare lo soffocava ad ogni strattone e lo faceva respirare con difficoltà. Non si arrese. Tirò
con tutta la sua forza, ma non era sufficiente. Cominciò a guaire, e il guaire si trasformò in abbaiare, l'abbaiare in un ululato. Ululò più forte che poteva, dando voce alla sua paura e al suo stupore. L'uomo tornò a casa, cercando di non ascoltare i lamenti. Venivano gradualmente attutiti dalla folta vegetazione, così che quando arrivò a casa si sentivano appena e solo se non c'erano altri suoni. Il traghetto arrivò in perfetto orario e gli ultimi villeggianti si imbarcarono velocemente. Mentre la nave prendeva il largo per l'ultima traversata estiva, l'isola a poco a poco si dileguò nella prima nebbia serale, abbandonata alla sua manciata di abitanti. 1 Il grande cervo del bosco avvertì la loro presenza. Si diresse in una piccola radura e aspettò, alzando la testa nel vento invernale, attento a distinguere eventuali spostamenti. I rumori lo confondevano, era un movimento continuo fra le piante che apparentemente proveniva da tutti i lati, e lo circondava. Tuttavia non si mosse, batteva solo leggermente la zampa sul terreno coperto di neve. Un ramo secco si spezzò non lontano, a destra, e il cervo si voltò con tutto il corpo per affrontare il pericolo, ma nel bosco pieno di ombre non riusciva a scorgere il suo inseguitore. Spostò istintivamente il peso sulle zampe posteriori, preparandosi a scattare. Il bosco era in attesa. L'odore del pericolo si fece più forte e i suoni, semplici fruscii pochi secondi prima, diventarono rumori distinti. Il pericolo gli si stava avvicinando, lo stava assalendo. Lentamente, ma con decisione, il cervo cominciò a spostarsi dalla radura verso il bosco fitto e più sicuro. Ma adesso il pericolo era in pieno movimento, dietro di lui, davanti a lui, e tutt'intorno. Lo circondava, benché egli non riuscisse ancora a vedere niente. Un balzo: già correva agile e sicuro verso il rifugio delle piante. Uno sporco cane da presa marrone dorato gli bloccò la strada. Il cane alzò il muso per mostrare una fila di denti luccicanti. Dalla bocca vomitava un grugnito crudele e profondo. Il cervo si fermò bruscamente e si voltò per scappare. Da destra arrivò un pastore tedesco. Un'airedale marrone rossiccio gli si parò davanti. Il branco lo raggiunse rapidamente, impedendogli la corsa e costringendolo a voltarsi. Altri tre cani, un labrador, un setter irlandese e un altro pastore, più piccolo, sbucarono ululando dal bosco.
Il latrare del branco, il clamore spaventoso, confondevano il cervo e lo privavano dell'istinto. Fu preso dal panico, corse a sinistra, trovò la strada sbarrata da un bastardo ringhioso, si voltò, fece due, tre, quattro lunghi balzi, poi all'improvviso si fermò. Un sudicio collie arruffato saltò alla sua destra costringendolo a girarsi nuovamente. Poi il branco attaccò per uccidere. Non c'era più possibilità di fuga, il cervo doveva combattere. I cani alle sue spalle attaccarono per primi, azzannandogli le zampe posteriori. Il cervo si voltò verso di loro e cercò di infilzarli con le corna, ma erano troppo veloci. Il continuo voltarsi lo stancò e i suoi movimenti si fecero più fiacchi. Il labrador riuscì finalmente ad affondare i denti nei tendini della zampa posteriore sinistra. Il cervo se lo scrollò di dosso, poi gli si voltò contro. Ma prima che riuscisse a mettersi in posizione, il setter irlandese gli afferrò la stessa zampa, mordendo in profondità, questa volta senza lasciare la presa. Il cervo non riuscì a liberarsi del cane e il dolore bruciante lo fece cadere a terra. Il resto del branco gli fu subito addosso e cominciò a squarciarlo mentre ancora lottava. Larry Hardman odiava il negozio di Bloomingdale. Lo detestava, gli faceva ripugnanza. «Ti ci vuole ancora molto?» chiese impaziente alla moglie. Diane Hardman ignorò il marito, prese un paio di pigiami di flanella e li osservò con attenzione. «Non capisco cosa tu debba comprare da Bloomingdale per andare sull'isola,» disse con voce irritata. «Vestiti caldi, caro,» gli rispose, sottolineando «caro» con tono sarcastico. «Vestiti molto caldi, per me e per i bambini. Non vorrai che i tuoi figli muoiano di freddo durante le vacanze, vero?» Sì certo, non voleva che i suoi morissero di freddo durante le vacanze. «Però in qualche modo mio fratello e io siamo riusciti a sopravvivere sull'isola, senza pigiami di Bloomingdale da ventisei dollari.» Il suo sarcasmo era pari a quello di lei. Diane gli sorrise. «Lo so. Tua madre era spartana.» «E tu certo non lo sei,» ironizzò lui. «È vero, Larry, è proprio quello che non sono. Io sono una grande consumatrice.» Poi tornò ai suoi acquisti, facendo del suo meglio per raggiungere un conto tale da rendere Bloomingdale fiero di lei.
Il mattino seguente Larry e Diane, lui architetto di successo, lei modella diventata brillante donna di mondo, il figlio di sei anni, Josh, la figlia di quattro, Marcy, il basset hound di due, Dopey, avrebbero lasciato il loro appartamento condominiale da seicentocinquanta dollari al mese nella 78a Strada est, la cameriera e quasi tutte le apparecchiature che la General Electric e la Westinghouse erano in grado di fornire. Alle 7 e 48 avrebbero preso il treno della Long Island Railroad per Port Jefferson, a mezzogiorno il traghetto bisettimanale, che attraverso lo stretto di Long Island raggiunge l'isola di Burrows, e un po' dopo le due di pomeriggio si sarebbero sistemati sull'isola nella casa di Thomas e Frieda Hardman per una vacanza invernale di due settimane. Ma c'era dell'altro. Il loro problema non si limitava al viaggio verso l'isola: riguardava soprattutto Thomas e Frieda Hardman. Isolani, persone dalla forte fibra, ma vecchi. Larry voleva portare i suoi a vivere in città. Diane Hardman non voleva che i suoceri le fossero d'ingombro nell'appartamento o nella vita. I genitori di Larry erano diventati l'argomento principale della loro discussione a cena. «Sono vecchi,» osservava lui. «D'inverno l'isola è praticamente deserta. In caso di bisogno, non c'è nessuno che possa aiutarli.» «A parte la polizia.» «Non ci sono poliziotti sull'isola. Dipendono dalla polizia della contea di Suffolk e sono dall'altra parte dello stretto.» «Sempre nella contea di Suffolk.» «Sempre nella contea di Suffolk,» concesse lui. «A una telefonata di distanza.» «E a quaranta minuti con il bel tempo. Quando il tempo è cattivo l'isola è praticamente isolata.» Lei obiettò: «Hanno vissuto tutta la vita in quella tetra isola. Si sentirebbero completamente sperduti in città.» «Be', potresti aiutarli tu ad adattarsi.» «E come dovrei fare, Larry? Portando tuo padre a caccia del cervo negli Abercrombie? Mi dispiace ma ho già due bambini, un cane, un grande appartamento e un marito di cui occuparmi. E devo ancora vivere la mia vita!» «Oh!» lui alzò le sopracciglia, «ti stai occupando di noi? E in tutto questo tempo avevo creduto che a farlo fosse la cameriera che pago centotrenta dollari alla settimana. Non avevo notato che avevi cominciato a cucinare e a pulire.»
Lei gli rivolse il suo più gelido sorriso, accusando il colpo. Larry continuò a parlare. «Sai, potresti anche imparare qualcosa da mia madre. È una brava vecchia signora.» Diane alzò le dita ben curate e contò le cose che avrebbe potuto imparare. «Uncinetto, far la calza, far le marmellate, rammendare calzini, non devo dimenticare rammendare i calzini, vediamo, e fanno quattro.» E senso della responsabilità, pensò lui, senza aggiungerlo. Invece disse: «Farebbe bene ai bambini, avere i nonni vicino.» «Per loro è meglio un posto sull'isola dove andare in vacanza. Sai, il ritorno alla natura e tutto il resto. Passami i broccoli, per favore.» Larry le passò i broccoli. «Non farebbe male neppure a noi trascorrere un po' di tempo sull'isola. La sola cosa che facciamo qui è accumulare oggetti.» «Oh, per favore, Larry, credevo che questo argomento l'avessimo ormai superato. Te l'ho detto, mi dispiace che tu non sia contento di essere mio marito. Mi dispiace se...» «Perché rigiri tutto quello che dico? Non ho mai detto...» «Mi lasci finire, per favore?» Diane aspettò. «Per favore?» ripeté, ma non ottenne risposta. Allora posò con fermezza la forchetta sul piatto, era il suo modo per introdurre le dichiarazioni definitive. «Mi dispiace anche che tu odi abitare in città, ma non posso farci niente. Non posso ripulire l'aria. Non posso eliminare i delinquenti. Vi sono persone nate per vivere in città, che imparano a far fronte ai problemi e altre nate per la campagna, che hanno bisogno di sentire insetti stridere tutta la notte. Io, Larry, sono una cittadina. Quando attraverso il maledettissimo ponte della 59a Strada divento un'edera velenosa. Appartengo alla città. Sono proprio una di quelle persone per cui tu progetti quegli alti palazzi isolati e condizionati tutto l'anno. «Ora, se vuoi vivere in una capanna di legno, se è questo che ti renderebbe felice, prego, vai pure. Non voglio intralciarti. Devi essere felice, Larry. Ma ci vai senza me, e ci vai senza i bambini. D'accordo?» Fine dell'argomento. In seguito avevano raggiunto un compromesso. Diane aveva acconsentito a passare due settimane sull'isola. In quel periodo Larry avrebbe cercato di convincere i genitori a trasferirsi a Manhattan. Se avessero accettato sarebbero rimasti tre mesi nella stanza degli ospiti. Se poi si fossero decisi a restare per sempre, Larry avrebbe trovato loro un appartamento. Se, invece, si fossero rifiutati di lasciare l'isola, non avrebbe più solleva-
to la questione. Mai più. Tutto ciò era avvenuto prima di quel pomeriggio di compere a Bloomingdale e dei pigiami da ventisei dollari. Solo tre paia. Che a lui geli pure il sedere, aveva pensato lei. Con amore. Thomas Hardman era invecchiato come era invecchiata la sua isola. Un tempo erano stati tutti e due fiorenti e pieni di vita, ma i duri anni trascorsi avevano reso entrambi scarni e sparuti. In loro non era rimasta bellezza, i rigidi inverni li avevano ormai logorati e corrosi. Aria onesta, così chiamavano gli isolani di Burrows la loro caratteristica principale. Quando Thomas Hardman sorrideva, una profonda ruga gli divideva in due il viso, come la profonda gola divideva in due il centro dell'isola, e la faccia dell'uomo, costantemente bruciata dal vento, era coronata da morbidi capelli bianchi, in accordo con la neve che ricopriva il suolo dell'isola. Erano dei sopravvissuti, e in un certo senso era la loro sopravvivenza a tenerli uniti. Thomas Hardman spinse lentamente indietro la sedia di legno fino ad appoggiarsi alla parete posteriore dell'Emporio. Lo sfavillante fuoco nella vecchia stufa Franklin nera proiettava nette ombre sul suo viso. Tirò una boccata eccezionalmente lunga dalla pipa intagliata a mano e finalmente disse agli altri cinque uomini che erano nella stanza: «Va bene, facciamo presto in modo da arrivare a casa prima della tempesta.» La riunione mensile del Comitato dei residenti stabili dell'isola di Burrows era in corso. «Che cosa abbiamo per oggi?» Ned Stewart riferì che sua moglie, Margaret, stava preparando la lista degli acquisti in occasione del suo prossimo viaggio sulla terraferma. «Dite alle vostre mogli di telefonarle per le ordinazioni. Ricordatevi che il prezzo della carne è salito di nuovo.» La Cooperativa d'acquisto dell'isola aveva due anni di vita. All'inizio Don Curtis vi si era opposto, definendola «socialismo strisciante», ma alla fine gli alti prezzi del cibo avevano convinto anche lui. Adesso vi appartenevano tutte e sei le famiglie dell'isola. «Che ne dite di aumentare la tassa per i residenti estivi?» suggerì Charlie Cornwall. «Ci permetterebbe una maggiore disponibilità di liquidi.» «A quanto è adesso?» volle sapere George Fleming. «Venticinque dollari per gli adulti, quindici per i bambini,» rispose Thomas Hardman. «Grazie, Thomas.» George annuì con la testa. «A me sembra abbastanza alta. Dobbiamo incoraggiare le persone a venir qui, non tassarle a sangue.»
«Andiamo, George,» insisté Charlie Cornwall, «pochi dollari in più non danneggeranno nessuno.» «Invece sì,» protestò George, «specialmente le famiglie cattoliche numerose. Con cinque o sei figli, si arriva a più di cento dollari. I tempi sono cambiati, Charlie, ora chi ha i soldi vola per il mondo. I ricchi non corrono più a far le vacanze qui.» «Ma pochi dollari...» «Pochi dollari qui, pochi dollari là. Senza accorgercene la gente rimarrà a casa d'estate. Allora non riscuoteremmo nessuna tassa. Non possiamo essere avidi.» «Ma non l'abbiamo aumentata dal... dal...» Non sapeva da quando. Thomas Hardman lo aiutò: «Dal sessantasei.» «... dal sessantasei.» «Adesso la gente sta attenta ai dollari...» «Venti dollari in più?» Thomas Hardman li fece star zitti tutti e due. Alla fine si misero d'accordo di ridiscutere la questione, il che voleva dire che l'argomento sarebbe stato ripreso il mese seguente. «C'è altro?» Prima che qualcuno introducesse un altro problema, riaccese la pipa e aspirò profondamente, assaporando il dolce sapore del vecchio tabacco. Il resto della riunione fu dedicato agli affari di ordinaria amministrazione nella conduzione di un'isola con pochi contatti con l'esterno e quasi deserta. Si decise di concedere un altro permesso di circolazione, questo a Ted Goodall, che voleva comprare un piccolo trattore per il trasporto. Saliva così a cinque il numero dei veicoli a motore, compresa la sconquassata Chevrolet nera del 1961 di Thomas Hardman. Venne proposto che Myra Curtis scrivesse una lettera al parlamentare Biondo, del Long Island orientale, chiedendo fondi pubblici per aiutare a combattere l'erosione della costa. Don Curtis non era d'accordo, dicendo che il governo si ingeriva già abbastanza, ma acconsentì che Myra scrivesse la lettera. Venne deciso di lasciare in sospeso la riparazione del marciapiedi di legno finché i fondi del comitato non fossero aumentati. E alla fine il comitato approvò all'unanimità l'acquisto di due nuovi estintori per il Corpo invernale dei vigili del fuoco dell'isola di Burrows, cioè per George Fleming. «Sono tutte qui le questioni ufficiali?» domandò Thomas Hardman. «Non c'è altro?» Dopo qualche secondo di silenzio batté la mano sul barile che serviva da tavolo e aggiornò la riunione. Terminata la riunione ufficiale, cominciò
quella sociale ben più importante. Ted Goodall andò dietro il banco e versò a tutti un bicchiere della sua riserva di Johnny Walker. Poi li servì, lasciando in mezzo al tavolo la bottiglia piena quasi a metà. «Alla salute,» brindò, alzando il bicchiere. «Alla salute,» rispose un coro di voci. «E alla ricchezza,» aggiunse Charlie Cornwall, alzando il bicchiere un po' più in alto e provocando una gran risata. «Guarda quest'uomo, vuole tutto,» esclamò George Fleming. «Dato che ci siamo.» Don Curtis alzò il suo bicchiere, «a una nuova Cadillac!» La riunione mensile permetteva agli uomini di incontrarsi senza le donne. Era l'occasione per parlare in piena libertà, per fare segreti progetti maschili e, semplicemente, per uscire di casa. Bevevano un po' e facevano un sacco di pettegolezzi. «Ci si sentirà soli qui, senza di voi,» esclamò Charlie Cornwall, riferendosi all'imminente viaggio sulla terraferma dei Fleming, dei Curtis e dei Goodall. «Charlie, non vedi l'ora di liberarti di noi,» rise Ted Goodall. «Stiamo attenti,» disse Don Curtis. «Torneremo e scopriremo che si è incoronato re dell'isola.» «Re? Charlie non si accontenterebbe di essere re,» aggiunse George Fleming. «Perlomeno imperatore.» «Credete di essere spiritosi, vero?» rispose Charlie, passandosi la mano sui corti ricci grigi ormai radi. «Aspettate e vedrete cosa succederà quando cercherete di tornare a casa dopo le vacanze!» Spente le risate e organizzata una festa a sorpresa per il sessantacinquesimo compleanno di Harriet Fleming, George Fleming osservò casualmente che erano stati abbattuti due metri della sua staccionata. «Quel maledetto affare è stato rotto,» spiegò, «non buttato giù dal vento. Davvero strano.» Thomas Hardman tirò una lunga boccata dalla pipa, cercando di non farla spegnere. «Forse è stato Big Ben.» Don Curtis cercò di scherzare sul leggendario orso gigante che si diceva vivesse nel bosco. Suscitò solo alcuni stentati sorrisi. «Ve lo dico io cosa è stato,» ribatté serio Charlie Cornwall. «Sono stati quei cani. Si avvicinano sempre di più. La settimana scorsa ho trovato impronte in tutto il giardino. Proprio davanti a casa! Non era mai successo.»
«Andiamo, Charlie,» protestò Thomas Hardman. «I cani non buttano giù le staccionate.» Charlie scosse leggermente la testa in segno di amichevole disaccordo. «Non ne sarei sicuro, Tom. Si sa di animali che hanno fatto cose molto strane quando erano affamati. Questo inverno è stato davvero tremendo, e sai quanto me che il cibo rimasto in quei boschi è scarso.» «Così i più deboli...» moriranno, stava per concludere Tom, ma Ned Stewart lo interruppe. «Vi dirò un'altra cosa,» cominciò Ned, e il fatto che quell'uomo insolitamente riservato parlasse attirò immediatamente l'attenzione di tutti. «Quattro giorni fa tre di quei cani, uno piccolo e due grossi pastori, credo, sono usciti dal bosco e si sono messi a fissare la mia casa dall'altra parte della gola.» Mentre parlava Ned Stewart teneva gli occhi su un'asse scheggiata del pavimento. «Era come se mi minacciassero. Restavano là, seduti sulle zampe di dietro. Senza muoversi, senza far rumore, senza far niente. Mi davano i brividi.» Tom cercò di allentare la tensione con una battuta. «Forse avevano sentito il profumo di uno dei dolci di Maggie ed erano venuti a trovarvi.» Maggie Stewart era conosciuta come la peggior cuoca dell'isola. Ma nessuno rise. «Penso che dovremmo fare qualcosa,» esclamò nervosamente Charlie Cornwall. «Anch'io,» assentì George Fleming. Thomas Hardman capì che la riunione stava prendendo una piega pericolosa. «Che cosa vorreste fare di un branco di dieci, forse quindici, cani affamati?» «Chiamare l'accalappiacani,» propose Ted Goodall fra il serio e lo scherzoso mentre versava un secondo giro di whisky. «È il suo lavoro, no?» «Sì, certo.» George Fleming fece una risatina. «Lo vedo proprio traversare lo stretto a novembre e arrancare sulla neve cercando di accalappiare un branco di cani randagi.» Charlie Cornwall alzò il bicchiere ed esaminò attentamente il fuoco attraverso il Johnny Walker. «Non riescono neppure a tenere pulite le loro strade. Credi che si interessino a qualche cane su un'isola quasi deserta? Quei cani sono un problema nostro.» «Spariamogli,» disse Ned Stewart con insolita fermezza. «Cosa?» domandò Tom, incredulo.
«Ho detto: spariamogli, Tom.» Ned alzò gli occhi dal pavimentò e guardò Hardman. «Se avessero fissato la tua di casa, capiresti ciò che dico. Non erano cani normali. Avevano qualcosa di strano. Avevano uno scopo. Dobbiamo...» Tom posò il bicchiere. «Uno scopo! Sono cani!» Ned Stewart non distolse lo sguardo. «Dobbiamo attaccarli prima che siano loro ad attaccarci.» «Che vuol dire 'attaccare'? Ned, stai parlando di cani abbandonati. Piccoli animali innocui. Non attaccheranno nessuno. Hanno molta più paura di noi di quanta noi se ne abbia di loro.» «Quei cani hanno fame, Tom,» terminò calmo Ned Stewart. «Credo che tu abbia ragione,» convenne George Fleming. «Perché rischiare? Prendiamo i fucili e andiamo a cacciarli.» Tom si alzò guardando la pipa ormai spenta. Disse molto piano: «Pensate a ciò che state dicendo. Alcuni cani buttano giù un pezzo di staccionata, forse, e poi tre di loro fissano una casa, e voi siete già pronti a chiamare l'esercito. È assurdo, via. Ho sempre pensato che foste più intelligenti. Siete voi che state diventando un branco di animali.» Fece una pausa, sottolineando con il silenzio le sue parole. «È molto tempo che in quel bosco ci sono cani. Vi vengono abbandonati ogni autunno e sono destinati a farsi uccidere o a morire di fame. Non dobbiamo preoccuparci di loro, sono cani domestici, cani da casa, non sono lupi. Ci pensa la natura agli animali che non sono in grado di sbrigarsela da soli!» Thomas Hardman cominciava a perdere la calma. Era un uomo che, dopo sessantasette duri anni, amava ancora il mondo che Dio gli aveva dato. Aveva ucciso creature di Dio solo quando era stato assolutamente necessario, di solito per procacciarsi il cibo, una volta per difendersi. Aveva messo da poco la prima trappola della sua vita, e lo aveva fatto perché costretto dall'aumento dei prezzi del cibo. Non aveva mai fatto senza ragione del male a un animale indifeso, e non era sua intenzione cominciare adesso. «Sono davvero discorsi sciocchi,» rimproverò gli altri. «Si sentiva proprio la mancanza di un gruppo di vecchi uomini armati che girassero per i boschi con questo tempo. Lasciamo stare i cani durante l'inverno e in es'tate non ci saranno più. Come sempre. E nessuno si sarà fatto male.» «Forse Tom ha ragione,» ammise George Fleming, uomo non solito a difendere con fermezza le proprie opinioni. Ted Goodall, che si autodefiniva il filosofo rustico dell'isola, finalmente espresse il proprio parere. «Non ci si rimette nulla ad aspettare un po',»
sentenziò con il suo tono più aristocratico. «Se cominciano a dar noia, andremo insieme a ucciderli.» «Ted ha ragione,» si affrettò a dire Tom Hardman. «D'ora in poi basta controllare che i nostri ospiti estivi non abbandonino i propri animali prima di partire. Potremmo registrarli, o imporre una tassa, ma niente di più.» Charlie Cornwall rise forte, una risata voluta, forzata. La sua famiglia era arrivata sull'isola grosso modo quando vi si erano trasferiti gli Hardman, e Thomas Hardman era il suo miglior amico fin dal giorno in cui si erano incontrati. Quindi Charlie Cornwall poteva dire ad alta voce ciò che tutti stavano pensando. «Tom, credo che riusciresti a convincere una lepre a darti la pelliccia se volessi.» Si alzò drammaticamente in piedi, accanto a Hardman. Charlie Cornwall era alto quasi un metro e ottantacinque, e sovrastava Tom Hardman di dieci centimetri. Parlò abbassando gli occhi su Tom, e ciò fece effetto quasi quanto le sue parole. «Ho due opinioni. Non credo che ci vorrebbe molto ad andare là con i fucili e sparare a quei cani. Forse a qualcuno di noi farebbe anche bene, e l'isola non perderebbe niente.» Thomas Hardman riempì con noncuranza la pipa. «Ma d'altronde, forse hai ragione. Non siamo più giovani. Ted,» si voltò verso Ted Goodall, «sei il più giovane qui, e quanti anni hai, cinquantacinque?» «Cinquantasei.» «Cinquantasei.» Charlie lo ringraziò con un cenno. «Si invecchia, però. Quindi, cercar di seguire quei cani non è forse un'idea molto buona. Credo che si sia tutti d'accordo di aspettare. Ma, Tom, voglio dirti una cosa. Sei stato tu a convincerci, e se succederà qualcosa sarai tu il responsabile.» Thomas Hardman sostenne lo sguardo dell'amico. Non era un uomo che si lasciasse intimidire facilmente. «Non devi dirmi quali sono le mie responsabilità, Charlie. Lo capisco da solo, grazie.» Si decise di trattare in forma ufficiale il problema dei cani, se ancora fosse esistito, alla prossima riunione del Comitato dei residenti stabili dell'isola di Burrows. Tornando a casa, quel pomeriggio, Thomas Hardman trovò tracce fresche di animali appena oltre la gola che fiancheggiava la sua casa. «Quei vecchi pazzi faranno del male a qualcuno,» borbottò quella sera alla moglie mentre lei gli serviva la cena. Frieda Hardman intuiva perfettamente gli stati d'animo del marito e si
rendeva conto che era ancora molto turbato per la riunione del pomeriggio. «Sì, caro.» «Non capisco cosa sia successo, Ned Stewart era il peggiore di tutti. Non li ho mai visti comportarsi così.» Frieda gli servì un'altra porzione di patate fritte. Era l'età, lei lo sapeva, la paura di diventare vecchi e inutili. Il bisogno di dimostrare a se stessi di essere ancora capaci. «Forse è solo l'inverno,» osservò. «Non è mai stato brutto come quest'anno.» «E allora?» «Be', sai. Il tempo ha tenuto tutti in casa e li ha resi un po' nervosi per la forzata reclusione. Questo avvenimento dà loro qualcosa da fare.» Frieda Hardman era il complemento naturale del marito. Donna calma e riflessiva, era rimasta con Thomas per quarantun anni di matrimonio e non c'era stato un sol giorno in cui avesse messo in dubbio il loro amore. Decise che era la sera adatta per aprire un barattolo della sua marmellata di frutta estiva preferita. La testa di lui si soffermò pensierosa sul piatto. «Ma cani? Non capisco.» «Potrebbe essere qualsiasi cosa. Ma qui c'è il branco.» Cadde molta neve quella notte, e un nuovo manto bianco di quasi dieci centimetri ricoprì l'isola. Nel bosco i cani del branco si strinsero gli uni accanto agli altri per riscaldarsi, sotto un albero sempreverde che dava loro una parziale protezione dalla tempesta. Le ossa del cervo che avevano ucciso e divorato giorni prima erano sparse intorno a loro e quasi nascoste dalla neve. Un grande pastore tedesco, il capo, era riuscito ad intrappolare un coniglio e a rompergli il cranio con la grande forza dei canini. Permise agli altri pastori del branco, e al terrier bastardo malato, di dividere con lui la preda. Ma non fu sufficiente, il branco era affamato. Il coniglio era l'ultimo cibo che avrebbero trovato per due giorni. 2 L'isola di Burrows è un pezzo di terra quasi dimenticato davanti all'estremità orientale di Long Island. Pur formando un triangolo con le isole Shelter e Gardiners, si protende più di quelle nell'Atlantico e non gode quindi della difesa dai forti venti invernali, e dal conseguente freddo, che la Orient Point offre alle isole vicine. I suoi inverni sono lunghi e rigidi, e i
venti, le forti maree e le insidiose correnti rendono estremamente rischiosa la traversata dello stretto. La parte occidentale dell'isola, quella più protetta, è più arrotondata e larga dell'estremità orientale, appuntita dall'erosione del mare, così che l'isola assomiglia vagamente a una lacrima. Non molto tempo fa, i libri di geografia dello stato di New York chiamavano l'isola «Lacrima di Dio», invece di usare il suo nome storico. La più ampia sezione occidentale è parzialmente separata dalla più piccola parte orientale da una cicatrice geofisica che va sotto il nome di gola. Profonda da due metri e mezzo a tre, in alcuni punti la gola è tanto larga quanto profonda. Gli abitanti hanno eretto diversi ponticelli di legno, così che è ormai facile traversarla. Si crede, ma non vi è testimonianza scritta, che i primi a sbarcare sull'isola siano stati, verso la metà del Seicento, alcuni esploratori olandesi, che l'avrebbero abbandonata all'arrivo dell'inverno, per una terra più protetta. Il pirata George Proud, mentre sfuggiva ai galeoni inglesi, avrebbe sepolto parte del suo grande tesoro in una delle spiagge dell'isola, e un tempo la ricerca dei leggendari milioni in oro attirava orde di turisti estivi. Ma del tesoro non si è mai trovata traccia. Nella guerra d'indipendenza venne costituito sull'isola un piccolo avamposto, troppo piccolo per poter essere considerato un forte, per avvistare i convogli inglesi nello stretto di Long Island. Durante una tempesta una nave inglese per il trasporto delle truppe si sfasciò sugli scogli e i coloni combatterono una breve battaglia contro i sopravvissuti. Prima di ritirarsi sulla terraferma con le scialuppe di salvataggio, le giacche rosse riuscirono a uccidere il ventiquattrenne Jacob Burrows. Alla fine della guerra l'isola ricevette ufficialmente il nome di quell'unico caduto. L'isola venne «riscoperta» all'inizio del Novecento. Dopo essere stata abbandonata per più di un secolo alle cure di pochi agricoltori, gente alla Gatsby la trasformò in un luogo di villeggiatura estiva alla moda. Molte riviste snob la presentarono come un rifugio per i ricchi e vi si stabilì un considerevole numero di persone addette ai servizi. L'evoluzione del concetto «un'automobile per tutti» portò un flusso di villeggianti delle classi medie e mise in fuga gli abitanti più facoltosi. Poi l'avvento dei viaggi aerei a buon mercato mandò la borghesia alla ricerca di luoghi più esotici e il turismo estivo gradualmente si dissolse. D'inverno l'isola è abitata da sei famiglie di residenti permanenti, pochi cervi e qualche animale più piccolo.
L'isola di Burrows cominciò così a morire. Da ottobre a febbraio il Bountiful Islander, uno dei quattro piccoli traghetti che raggiungeva l'isola durante l'estate, traversava due volte al mese lo stretto di Long Island, portando cibo, posta e gli occasionali visitatori invernali. Di solito tornava vuoto, ma nel suo secondo viaggio di gennaio di quasi un anno prima, aveva trasportato le spoglie mortali di Nathaniel Resnick, il vedovo morto solo e senza cure, dopo essere rimasto cinque interi giorni nel punto in cui era caduto. La sua morte, a sessantotto anni, riduceva la popolazione stabile dell'isola a sei coppie anziane. Si parlava di portare a una al mese le traversate invernali del traghetto. Thomas e Frieda Hardman si coprirono bene e presero la Chevrolet del '61 per andare ad aspettare il Bountiful Islander. Sul piccolo molo si unirono ai vicini per salutare le tre famiglie che andavano sulla terraferma in vacanza e per cura, e per ritirare il cibo ordinato. Poi accolsero allegramente il figlio di trentacinque anni, Larry, sua moglie di trentatré, Diane, i due bambini e Dopey, il basset hound di famiglia. Larry e Diane Hardman non vedevano i genitori di lui da quando, sette mesi prima, erano venuti in visita per un weekend. Larry li baciò e li strinse tutti e due. Diane li carezzò sulle guance. Frieda Hardman fece il suo più largo sorriso e disse a Diane quanto le fosse gradito il suo arrivo sull'isola. «È così bello essere di nuovo qui, signora Hardman,» rispose Diane. Le piccole bugie erano facili. I bambini furono abbracciati e stretti dai nonni e risposero con affetto sincero. Questo viaggio all'isola era la seconda più grande avventura delle loro giovani vite. L'anno prima Diane aveva insistito per portarli con sé a Parigi. «È splendido rivedervi,» disse Larry ai genitori, mentre salivano tutti in macchina. «Anche noi siamo contenti che siate tutti qui,» rispose suo padre. Thomas Hardman sapeva esattamente perché erano venuti all'isola e forse avrebbe preferito che fossero rimasti nel loro appartamento di New York. Odiava discutere con il figlio maggiore. E, sebbene provasse un senso di colpa nell'ammetterlo, sua nuora non gli piaceva proprio. «Mamma, hai un aspetto meraviglioso,» disse Larry dal sedile posteriore. «È vero, signora Hardman,» convenne Diane. Riusciva a chiamare i suoceri solo per cognome.
Frieda arrossì come tutte le madri quando ricevono dai figli un complimento sul loro aspetto. «Oh, sto ingrassando,» si schermì. «Non è vero,» replicò convinto Tom. «Scommetto che non pesa due chili di più del giorno in cui l'ho sposata.» Esitò un momento. «Be', forse due sì.» Poi nella macchina tutti tacquero, sforzandosi di trovare un argomento di conversazione. Finalmente fu Diane a rompere il silenzio. «Con la neve l'isola è davvero bella. Non l'avevo mai vista d'inverno.» Tom la corresse con gentilezza: «È bella anche senza la neve.» Un nuovo silenzio. Diane guardava fuori mentre attraversavano il fitto bosco e passavano ogni tanto davanti a una casa estiva tutta chiusa. Non si era mai resa conto che gli Hardman fossero così isolati. L'isola sembrava piccola, ma ormai erano dieci minuti che guidavano senza vedere nessun segno di vita. «Scommetto che avrete una fame da morire,» disse finalmente Frieda. «Sarà bello preparare per qualcuno che apprezza la buona cucina.» Larry rise. «Cosa c'è che non va con papà?» «Lui?» Sua madre aggrottò le sopracciglia. «Ancora non distingue il cibo buono da quello cattivo.» All'improvviso Dopey cominciò a ululare e non smise di emettere i suoi strani guaiti, neppure dopo essere stato zittito da Diane, tanto che fu necessaria una forte botta sul retro per calmarlo. «Deve essere la macchina,» suggerì Tom. «No,» disse Diane, «è stato in macchina altre volte. Di solito gli piace molto.» Il cane si accucciò sotto il sedile anteriore e continuò a gemere piano. «Nonna, mi farai i dolci al cioccolato?» volle sapere Josh il cui solo ricordo di Frieda era quello di una donna matronale che aveva trascorso la maggior parte della sua breve visita al loro appartamento a Manhattan davanti al forno a cucinare dolci. Frieda stava per rispondere che sarebbe stata molto felice di accontentarlo, ma Diane intervenne. «Josh, la nonna ha già abbastanza da fare senza dover passare tutto il giorno a cucinare per noi.» Frieda non si preoccupò di protestare, non era tipo da intervenire per forza se sapeva di non essere gradita. Per andare in macchina dal molo al ponte di legno vicino alla casa, non ci volevano in genere più di quindici minuti, ma la neve fresca rendeva il viaggio insolitamente difficile e ne furono necessari quasi venticinque.
La casa degli Hardman sorgeva sul lato orientale dell'isola, il bosco e la gola la separavano dal piccolo paese con i tre negozi e dal porto. Era in pietra e legno, terminata in data incerta, aveva due piani e una soffitta non finita. Il primo piano comprendeva la cucina-sala da pranzo, un grande salotto e una veranda chiusa. Una scala rivestita di moquette partiva da una nicchia in salotto e portava alle tre camere e ai due bagni, mentre un'altra scala movibile nel retro del secondo piano dava accesso alla soffitta. La cucina, il salotto e la camera da letto avevano il camino, ma era la cucina il cuore della casa, la stanza in cui Frieda e Tom avevano trascorso la maggior parte della loro vita. Le finestre della cucina davano sulla parte anteriore del giardino, sulla gola, sul limitare del bosco e sulla staccionata. Proprio dalla finestra sopra il lavandino Frieda Hardman aveva visto i suoi due figli diventare grandi. La veranda, chiusa per l'inverno, era stata aggiunta nel 1948, insieme al secondo bagno, ma a parte questi miglioramenti, la casa era sempre la stessa. La famiglia Hardman l'aveva presa in affitto per venti dollari al mese quando era arrivata sull'isola e l'aveva acquistata nel 1931 dopo le perdite catastrofiche subite dal proprietario nella Grande Crisi. Un tempo Tom Hardman aveva sperato che suo figlio vivesse lì. Ora si rendeva conto, con tristezza, che probabilmente la casa sarebbe morta con lui. Era proprio in cima a un crinale, il punto più alto dell'isola, e su tre lati la vista spaziava su campi aperti. Sul quarto lato, quello che si vedeva dalla cucina, il fitto bosco raggiungeva la gola. Vista dalla finestra di cucina, la gola formava con la casa un angolo da destra a sinistra. Di solito, in inverno, era mezza piena di neve. In primavera la neve, sciogliendosi, formava un ruscelletto che in piena estate diventava secco e polveroso. Nel punto in cui passava più vicino alla casa, la gola era larga poco più di due metri e la sua profondità variava fra un metro e mezzo e due e mezzo. Quando Larry era ancora molto piccolo, prima ancora che suo fratello Kenny nascesse, Tom aveva costruito una lunga staccionata per proteggere il figlio. Il solo accesso dal giardino era un ponticello di legno largo circa un metro e ottanta che attraversava la gola. I vicini più prossimi degli Hardman erano Charlie e Cornelia Cornwall, ma la loro modesta casa non era neppure visibile dalla cima della cresta. Era infossata in un piccolo avvallamento, a circa due chilometri e mezzo al di là dei campi. Seguendo la strada sterrata, coperta di neve e piena di curve, erano circa cinque chilometri. E a parte quell'anziana coppia, gli Har-
dman erano soli nella metà orientale dell'isola. Mentre Tom fermava la Chevrolet accanto al ponticello, Larry disse, a se stesso e agli altri nella macchina: «È ancora una casa così bella.» «Sembra uscita da una pagina di Currier e Ives,» aggiunse Diane, volendo fare un complimento che però sia Frieda che Tom interpretarono come un'allusione alle loro età. Diane era in qualche modo riuscita a far stare tutto in due grandi valigie Vuitton, una borsa e un piccolo beauty-case. Pur sapendo che i cosmetici le sarebbero serviti a poco, aveva preferito portarlo lo stesso con sé per sicurezza. Si mise in spalla la borsa, prese il beauty-case e traversò il ponticello. Dietro di lei, Tom sollevò la valigia più pesante. Larry cercò di prenderla. «Lascia, papà.» Tom la tenne stretta. «Ce la faccio,» disse brevemente. La valigia era pesante, troppo pesante per lui, in effetti, ma egli si sforzò di non darlo a vedere. Si concentrò sul peso della valigia, così non si accorse che la spazzatura era stata sparsa intorno alla piccola buca nella quale seppelliva i rifiuti non combustibili. La ragione della visita, cui tutti pensavano, non venne menzionata la prima sera. Ciascuno sapeva che se ne sarebbe parlato, ma prima si dovevano rinsaldare i legami familiari che il tempo e la distanza avevano allentato. Frieda preparò un buon pollo con contorno, e rimproverò gentilmente Diane che, pur controvoglia, si era sentita in dovere di offrire il proprio aiuto. La conversazione a tavola vagò attraverso gli anni. Parlarono dei vecchi amici di Larry, del suo lavoro, dell'isola, dei bambini. Torti inseriva spesso nel discorso ricordi dell'infanzia e dell'adolescenza del figlio. Diane ascoltò con calma, intervenendo ogni tanto con domande o precisazioni, mostrò un vero e proprio interesse per i racconti di Tom e di Frieda, rise prontamente, rispose alle poche frasi che le erano rivolte. Ma, in realtà, durante la conversazione decise di limarsi le unghie, pensò a una nuova pettinatura e si domandò se i larghi sorrisi del nuovo parrucchiere fossero solo amichevoli o se volessero essere invitanti. «Ho incontrato per caso Vernon Thomas,» ricordò improvvisamente Larry, come se fosse stato davvero importante. La famiglia Thomas veniva ogni anno in vacanza quando lui era un ragazzo e Vernon era vagamente suo amico. «...Nella 51a Strada est.» «Cosa fa?» volle sapere Tom. «Lavora per il comune,» spiegò Larry, un lavoro che gli assicurava una
buona pensione e che gli avrebbe permesso di ritirarsi a quarantun anni. Però non ricordava esattamente che tipo di lavoro. Mentre Larry parlava, Frieda guardava ogni tanto la nuora. Era senz'altro molto carina, pensò, come una modella delle riviste. Ma fredda, calcolatrice, non c'era calore nella sua bellezza. «È sempre grasso?» domandò Tom. Non le piacevano i suoi zigomi così alti. Né il suo naso sottile. E il trucco, il trucco a cena, come se non riuscisse a vivere senza quei cosmetici. «Non è più grasso,» disse Larry, e rise. «Ora è soltanto calvo.» Tutto troppo bello, troppo programmato. Diane non era affatto la donna che Frieda avrebbe desiderato per il figlio. Troppo cittadina. Suo figlio, ne era fermamente convinta, avrebbe sempre avuto il cuore nell'isola. «Hai saputo nulla di Kenny ultimamente?» domandò Larry a proposito del fratello minore. Diane sorprese Frieda che la fissava. Ma non appena la guardò, la suocera riportò gli occhi sugli uomini. Tom sospirò. «È ancora su in Connecticut. Non ne so niente.» «Non ha ancora idea di cosa voglia fare?» «Vuole divertirsi, soprattutto.» Diane osservò Frieda alzarsi e andare sulle mattonelle consumate davanti all'acquaio. Si rendeva conto di non piacere alla suocera e ne capiva il perché. Ma non le interessava. Adesso Larry era di sua proprietà ed era la sua vita con lui che importava. Tom scrollò le spalle. Kenny. Kenny era stato la più grande delusione della sua vita. «Non riesce a prendere decisioni,» disse, e abbandonò l'argomento. Come dessert Frieda servì crostata di mele fatta in casa con una pallina di gelato alla cioccolata, un mucchio di panna montata e ciliegie di giardino, conquistandosi così per sempre i nipoti. Diane, che contava le calorie, non prese nulla. Dopo cena i bambini giocarono con Dopey sul tappeto rotondo del salotto mentre gli adulti rimasero a tavola immersi nei ricordi. Alle dieci Josh e Marcy erano imbacuccati nei loro pigiami di flanella di Bloomingdale e dormivano al secondo piano. Meno di un'ora dopo, nella camera sopra la cucina, Larry si rannicchiò accanto a Diane. Lo schioppettante fuoco che Tom aveva acceso riempiva la stanza di calore e luce e le ombre guizzanti giocavano sulle pareti. Larry restò fermo per qualche attimo, ascoltando il respiro regolare della moglie.
Dormivano con il corpo di lei raggomitolato dentro quello di lui, la schiena di lei rivolta verso di lui. La faccia di Larry era immersa nei capelli scuri della moglie, ed egli ne aspirava il profumo delicato. Dopo tutti questi anni, dieci anni, pensò, ci troviamo ancora così bene insieme. Infilandole una mano sotto il pigiama, passò sui suoi seni e cominciò a carezzarglieli con delicatezza. Sentì il calore di lei passare in lui. I suoi seni erano un po' piccoli, ma rotondi, fermi e sensibili. I capezzoli le si irrigidivano non appena lui li toccava; li massaggiò teneramente tenendoli fra il pollice e l'indice. Le si fece più vicino e le passò la mano sul corpo, baciando il calore del collo. Diane si stirò languidamente, poi sembrò riacquistare coscienza, e si liberò divincolandosi. «Non con i tuoi genitori...» sussurrò. Larry non disse nulla, ma le tolse la mano da sotto il pigiama e la tenne per la vita, sfiorandole delicatamente il fianco. Lasciò passare qualche minuto, per non dare l'impressione di sentirsi respinto, poi si allontanò e si girò sul fianco sinistro. Per il resto della notte dormirono schiena contro schiena, nello splendore morente del fuoco. In quella stessa notte il bastardo terrier a pelo raso, per così breve tempo soprannominato Jake, perse la sua battaglia. Come aveva sperato il padre in settembre, il cane dell'estate era riuscito a rompere la corda e a liberarsi in poche ore. Guidato dai sensi nel bosco sconosciuto, era corso alla casa ma l'aveva trovata chiusa e vuota. Passò così la sua prima notte all'aperto da solo, al freddo, e immobile per la paura, ma il secondo giorno il branco sentì i suoi lamenti e lo soccorse. All'inizio aveva avuto timore dei cani più grandi, ma a poco a poco essi si erano conquistati la sua fiducia. Imparò a cacciare con loro e assaporò la sua prima carne di coniglio, di scoiattolo e di cervo. Il grande pastore si era occupato di lui quel primo giorno. Jake era il più piccolo di tutti, a parte un dachshund, e il capo, rendendosi conto delle sue necessità, controllava che ricevesse la sua parte di ogni preda. Ma con l'arrivo della neve le prede erano diventate più scarse. Alla fine anche lui, come il resto del branco, aveva imparato a mangiare le proprie feci. Di notte rannicchiava il suo piccolo corpo fra le gambe grigie del capo per farsi riscaldare e sentirsi protetto. Il rapporto era semplice: il cane piccolo aveva bisogno di aiuto e il cane grande lo rassicurava. Ma non fu sufficiente. Jake era proprio troppo piccolo per sopravvivere ai rigori dell'inverno sull'isola. Anche se ci fosse stato abbastanza cibo, e,
oltretutto, mancava completamente, il clima era troppo duro per lui, come lo era per tutti i cani piccoli, a parte lo strano dachshund. Cominciò ad avere delle difficoltà a restare con il branco durante gli spostamenti, e poiché si muoveva piano, il sangue gli circolava meno e diventava più freddo. La prima notte della visita di Larry e Diane Hardman, si raggomitolò contro il pastore grigio, mugolò per un po', chiuse gli occhi, e morì congelato. Il mattino dopo, presto, il labrador affamato cominciò a rosicchiare il suo corpo, spezzando una zampa congelata nel tentativo di cibarsi dei resti del piccolo cane. Il branco, tranne il pastore, rimase a guardarlo, ma il povero animale era troppo congelato e il labrador non riuscì ad arrivare alla carne. Il pastore esplorò senza successo la zona cercando piccola selvaggina. Infine il branco passò a una caccia indolente, e le propaggini della tempesta che stava infuriando sulla terraferma seppellirono la carogna del piccolo bastardo sotto la neve fresca. La mattina seguente, Larry e Thomas Hardman passarono a meno di venti metri dal corpo, ma ormai era già coperto e non lo videro. All'inizio camminarono in silenzio, ascoltando il ritmico scricchiolio della crosta di neve sotto gli stivali e aspettando tutti e due il momento giusto per cominciare l'inevitabile conversazione. Finalmente Larry cominciò. Senza guardare il padre, disse: «Sai perché siamo qui, vero, papà?» Thomas Hardman voleva conoscere a fondo il nemico prima di rispondere all'attacco. Solo allora si sarebbero scontrati faccia a faccia, senza illusioni, senza pensieri nascosti, senza scuse. Così si faceva da uomo a uomo, fra padre e figlio. Alla fine, dopo aver chiarito ciascuno il proprio pensiero, si sarebbero capiti. Da padre a figlio, da uomo a uomo. «No, figlio,» mentì. «Non capisco bene cosa intendi dire.» Camminavano con fatica, Tom Hardman un passo avanti. Larry tirò su il collo di pelliccia del suo giaccone invernale e un po' di neve bagnata gli cadde per la schiena. «Voglio che tu e la mamma veniate a New York con noi.» «Ah, si tratta di questo?» rispose Tom con un tono esagerato, quasi ironico. «Figlio, pensavo che ormai l'avessimo già escluso.» «So cosa provi per quest'isola, papà, ma questa volta devi affrontare i fatti. Qui non c'è nessuno che possa aiutarvi se vi ammalate o avete un incidente. Non c'è nessuno che possa darvi il minimo soccorso.» Non era e-
sattamente ciò che Larry aveva deciso di dire, era meno forte di quanto avesse sperato, ma serviva come punto di partenza. «Hai ragione, figlio, Burrows è piuttosto isolata. Così ho una proposta. Poiché Nat Resnick è morto l'anno scorso, la sua casa è vuota. Perché tu, Diane e i bambini non vi trasferite sull'isola?» La battaglia era cominciata. Tom Hardman si fermò e si voltò verso il figlio. «La risposta è no, Larry,» disse brusco. «Questa è la mia casa. Questa è la terra a cui appartengo, alla quale appartiene tua madre, e alla quale forse appartieni anche tu. Quando lascerò l'isola, me ne andrò come ha fatto Nat Resnick.» Era la risposta che Larry si aspettava, proprio ciò che si era preparato a controbattere. Non era affatto una risposta, era solo testardaggine. «Dimmi, papà, pensi davvero che sia per egoismo che voglio farvi lasciare l'isola? Credi che per me sarebbe un vantaggio se voi foste a New York? Non capisco, perché mi incolpi di volere che viviate più a lungo? Per favore dimmelo, perché non lo capisco.» Tom Hardman si passò la lingua sulle labbra cercando il bocchino di un'inesistente pipa per morderlo. Poi rispose con voce accondiscendente: «No, figlio, penso proprio di no.» Si voltò e si addentrò nel bosco. Larry arrancò dietro a lui, replicando e facendo del suo meglio per non scivolare sui cumuli di neve bagnati e scoscesi. Thomas Hardman ascoltava le parole del figlio, però seguiva solo i suoi pensieri. Amava quell'isola, era solito dire, da quando aveva aperto gli occhi. In realtà non era nato a Burrows, ma i suoi genitori ve l'avevano portato un mese dopo il suo quinto compleanno, per cui era come se avesse trascorso lì tutta la vita. Adesso il figlio voleva che lasciasse la sua terra perché l'età l'aveva giocato e l'aveva fatto invecchiare. Questo figlio che aveva abbandonato l'isola quando era ancora un ragazzo, come poteva capire un uomo che non l'aveva mai lasciata? Perché voglio che viviate più a lungo, aveva detto Larry. A Tom Hardman quelle parole erano rimaste in mente. Come poteva spiegargli la differenza fra vivere ed esistere? «E cosa succederà quando uno di voi due morirà?» si sentì chiedere. «Moriremo,» urlò. «Non mi sembra che ci sia molta scelta.» No, non era giusto. Doveva essere una conversazione fra uomini, si ricordò, e invece stava trattando suo figlio come un bambino. Fermandosi di nuovo, si voltò per guardare Larry. «Quando tua madre o io moriremo, figlio, allora chi rimarrà dovrà decidere cosa sia giusto fare. Ma non è una decisione che si prende prima.»
Larry teneva gli occhi fissi sulla neve mentre seguiva il padre. Il terreno morbido rendeva difficile il camminare. Ad ogni passo era necessario spingere con decisione la punta della scarpa nella neve, controllarne la resistenza, e solo dopo che si era dimostrata salda, appoggiarvi tutto il proprio peso. Quando era possibile egli camminava sulle tracce del padre. L'ironia della situazione non gli sfuggiva. Alla fine avrebbe vinto quella battaglia. Il tempo, non la logica, era la sua grande arma, che non avrebbe lasciato a suo padre e a sua madre altra scelta che arrendersi. Ma non voleva aspettare fino a allora, fino a quando il vecchio uomo fosse stato costretto a cedere. Voleva che suo padre si trasferisse adesso, che prendesse quella decisione liberamente e che imparasse a godersi gli anni di vita che gli restavano. Convincerlo sarebbe stato difficile, lo sapeva. Il vecchio è troppo orgoglioso, aveva spiegato a Diane, ci vorrà un po' di tempo. Questo, quindi, era solo il primo attacco. Una semplice spedizione esplorativa. Ciò lo spinse a insistere nella battaglia. «Papà, so che non vuoi sentirlo dire, ma la tua isola sta morendo. È stata dimenticata e tu e la mamma dimenticati insieme a lei. Qui non c'è più vita per voi.» Adesso Thomas Hardman ascoltava ogni parola. «Quando è stata l'ultima volta che ti sei seduto e rilassato? Quella che conduci qui non è vita, è una lotta per la sopravvivenza. Diane e io vogliamo che vi godiate questi anni. Che vediate i vostri nipoti crescere. Ve ne siete guadagnati il diritto.» Tom sapeva che le intenzioni del figlio erano buone. «Lasciate questa maledetta isola e venite con noi.» Tom Hardman fu preso da una profonda rabbia nel sentire il figlio maledire l'isola; così, senza l'attimo di riflessione che si era ripromesso, si voltò verso di lui. «Hai dimenticato tutto quello che ti ho insegnato, vero? Quella città ti ha confuso la mente. L'aria che respiri, la gente che ti spinge e ti stringe di continuo non ti fanno ragionare. Be', non fa per me. Preferisco morire qui, grazie.» Non aspettò una risposta, ma si rimise a camminare, più veloce di prima, nel bosco coperto di neve. Da venticinque minuti procedevano fra le piante quando Tom si fermò accanto al grande albero sempreverde e si chinò. All'inizio Larry non riuscì a capire cosa stesse facendo, poi vide alzarsi come degli spruzzi di neve. Avvicinatosi scorse alcune macchie rosa chiaro, poi il coniglio, mimetizzato nel bianco, prigioniero in una leggera trappola d'acciaio.
Larry osservò il padre che cercava di aprire la tagliola. «Credevo che tu non tendessi trappole,» disse, quasi con un senso di vittoria. Dopo alcuni tentativi, Tom andò dietro l'albero e riapparve con un grosso ramo ricurvo. Tenendolo con tutte e due le mani, lo sollevò in alto poi lo calò con forza sul coniglio. Sulla neve cessò ogni movimento. «Quando si ha fame,» rispose, liberando il coniglio morto con il coltello da tasca, «si fa quello che si deve fare per sopravvivere.» Aveva ucciso. «Ci sono altre cose nella vita oltre a sopravvivere, lo sai. Se tu...» Tom non voleva che la discussione continuasse. «A volte sopravvivere basta.» Larry si chinò per aiutare il padre. «Non toccarlo!» gli urlò Tom. Poi aggiunse, sarcasticamente: «Non vorrei che ti sporcassi di sangue i vestiti di città.» Sapeva che suo figlio non avrebbe mai capito. In casa, accanto al calore del caminetto, anche Diane stava facendo una prova. Il suo scopo non era quello di convincere Frieda Hardman a venire in città, ma piuttosto di controllare la saldezza della sua decisione. «Pensa che Larry riuscirà a convincerlo?» domandò. Tutte e due conoscevano la domanda. Frieda stava facendo un golf nel quale Josh sarebbe cresciuto. Senza perdere un punto, rispose con sicurezza: «No.» Diane era appollaiata sulla poltrona, con una rivista sulle ginocchia e le gambe parzialmente ripiegate sotto il corpo, in attesa che sua suocera commentasse la risposta. Lei non lo fece, costringendo Diane a domandare: «Perché?» Frieda smise di lavorare a maglia. «Thomas Hardman mi ha portato su quest'isola quarantun anni fa, e da allora siamo sempre stati qui. Non vede alcun motivo di andarsene adesso.» «E lei?» Tornò ai suoi ferri. «Sono sua moglie.» E questo è qualcosa, pensò, che non potrai mai capire. Nel tornare a casa i due uomini sentirono in lontananza il chiassoso abbaiare del branco. «È solo un gruppo di cani abbandonati,» spiegò Tom. «Hanno fame.» «Sono rumorosi,» osservò Larry. «Sono pericolosi?» «Non sono che cani,» gli disse Tom, con una punta di irritazione nella voce.
In casa i bambini stavano costruendo castelli fantastici con blocchi di plastica mentre Diane finiva di sfogliare il numero di dicembre di Vogue, e Frieda si sforzava per pareggiare le maniche del grosso maglione. Il grande pastore guidò i cani sul lato occidentale della gola. Poi il branco cominciò a muoversi lungo il suo orlo, superando lentamente le piccole case dell'isola, isolate e deserte. Era alla ricerca di qualcosa. 3 Quella notte Larry non riuscì a dormire. Sebbene gli facessero male le gambe per la lunga passeggiata sulla neve e il corpo fosse stanco, la mente era così ingombra di pensieri che riusciva solo a restare sdraiato sul letto, ascoltando il profondo respiro della moglie. La casa emanava un caldo senso di calma e serenità. Più volte egli si alzò e andò alla finestra. Un tempo quella camera era stata la sua. Da allora le pareti erano state ridipinte, la scrivania che aveva intagliato con il suo coltello da boy scout era stata sostituita, e quel particolare odore di ragazzo che sembrava permeare la stanza era scomparso, ma quella era ancora la sua stanza, e lo sarebbe stata sempre. Passò le dita sulla vernice screpolata del davanzale della finestra, cercando ricordi. Poi si chinò e guardò fuori come faceva da bambino. La luna piena formava un sentiero luminoso che dal cielo arrivava direttamente alla sua finestra e diamanti fantastici luccicavano sulla neve. Il grande albero inclinato al limitare del bosco sembrava essersi piegato qualche altro centimetro, e Larry ricordò la notte di autunno in cui aveva per la prima volta esaminato la sua ombra e si era spaventato, pensando che fosse quella di una strega. Quel pensiero ne risvegliò un altro, poi un altro ancora, finché i ricordi non lo sommersero. Quel Natale, quando si era addormentato in piedi davanti alla finestra, aspettando che Papà Natale gli portasse la bicicletta promessa. L'estate in cui prima aveva avuto la varicella, poi il morbillo, ed era stato costretto a restare da solo, a letto in quella stanza scura, a guardare scorrere l'estate. Il giorno in cui avevano sepolto lo zio Harry, lo zio Harry con quel solo ridicolo ciuffo di capelli sul davanti di una testa altrimenti calva, ed egli aveva guardato da quella finestra mentre trasportavano la bara alla macchina. Altri ricordi. Papà che tornava a casa la sera. I cervi che giocavano in giardino. Kenny che veniva
portato a casa dall'ospedale. Qualcosa si mosse nel giardino. Quanti pensieri, quanti visi gli turbinavano nella mente, voci, gesti, bambini che giocavano. Qualcosa si mosse di nuovo. La sua memoria si arrestò e lo lasciò nella realtà della notte. Fissò il giardino. Non c'era niente. Non si muoveva niente. Un movimento immaginario? Rami sfiorati da una brezza irregolare? I suoi occhi esplorarono attentamente il giardino, dalla gola alla casa. E di nuovo non notò nulla. Finalmente guardò il limitare del bosco, al di là della gola, appena al disopra della staccionata. Solo allora vide due sfere di fuoco verde riflettere la luce della luna. Occhi che sembravano fissarlo direttamente. Il cuore cominciò a battere forte, si sforzò di vedere cosa stesse uscendo dal bosco, ma le ombre della notte glielo impedivano. La brezza spostò lentamente i rami degli alberi, lasciando che la luce cadesse sull'orlo della gola. Un altro paio d'occhi guardò la casa. Poi scomparve. Larry non riusciva a muoversi. Quella terribile fantasia, quell'incubo infantile si stava realizzando. Le cose della foresta gli si avvicinavano, lo cercavano. Gli occhi cominciarono a muoversi. Venivano verso la casa. Li vide chiaramente solo quando traversarono il ponticello. Due piccoli animali. Cani? Aspettò e guardò. Entrarono nel giardino, illuminati dalla luna. Cani. Uno più grande dell'altro, era impossibile distinguerne la razza. Con cautela girarono intorno alla casa, apparentemente in cerca di qualcosa. Larry rimase assolutamente immobile, come ipnotizzato dalla loro presenza. Ispezionarono la casa. Dopo averne esaminato il davanti, si spostarono sul lato, vicino alla veranda, fuori dal suo campo visivo. Si chinò seguendo i loro movimenti, cercando di non perderli di vista, ma erano scomparsi. Sollevò la testa e fissò di nuovo il giardino. Dal bosco erano venuti altri otto cani ora fermi al di là del ponte, a guardare la casa. Passò del tempo, Larry non era in grado di dire quanto, poi i due esploratori ricomparvero dal retro della casa. Si fermarono in mezzo al giardino, guardando gli altri cani come per trasmettere loro un messaggio. Questi cani cominciarono allora a camminare lungo la gola, allontanandosi dal bosco. Camminavano in linea retta, quasi marciando. Erano dodici, più i
due ancora nel giardino. Quattordici. I loro corpi proiettavano ombre nere alla luce della luna. A parte un cane che doveva arrancare per tenere il passo, sembravano tutti all'incirca della stessa taglia. Le ombre passarono accanto alla casa, fuori dalla vista di Larry. I due cani continuavano a restare nel giardino. Finalmente il più piccolo si alzò e attraversò trotterellando il ponticello, seguendo la lunga fila. Quello rimasto nel giardino sembrava grigio, ma Larry non era sicuro se fosse il suo vero colore o il riflesso della luna. Il cane aspettò che il resto del branco fosse ben lontano dalla casa, poi alzò il muso alle stelle ed emise un lungo ululato raccapricciante. Larry rabbrividì. Il cane tacque; si voltò e guardò la casa un'ultima volta, poi abbandonò il giardino per raggiungere il branco. Larry, agghiacciato, rimase in ginocchio accanto alla finestra, fissando il giardino, come se si aspettasse che le orme attorno alla casa sparissero all'improvviso. A poco a poco cominciò a riacquistare coscienza del proprio corpo. Aveva la bocca inaridita. Le gambe, che già erano indolenzite, gli facevano male. Sentì una goccia di sudore scendere giù per la schiena. La notte era fredda e limpidissima. Il pastore, seduto nel giardino, guardava il branco sfilare sulla cresta. Non c'è cibo qui, aveva comunicato, dobbiamo andare avanti, oltre la protezione del bosco. Il branco non poteva più passare la notte a dormire. La morte lo aveva visitato. I cani avrebbero dovuto cacciare finché non avessero trovato cibo. Qualsiasi cibo. Il mattino seguente Larry consumò in un silenzio insolito la lauta colazione preparata da sua madre; pensava ancora ai cani di quella notte. Decise di non dire niente né a Diane né a Frieda - non c'era motivo di spaventarle - ma quando fosse stato solo con il padre aveva intenzione di scoprire qualcosa di più su quel branco. Era preoccupato. Più di quanto, si rendeva conto, avrebbe dovuto esserlo. Non erano che cani, e i cani si possono scacciare, ignorare, o persino uccidere, se necessario. Però c'era qualcosa di strano in quel branco. L'atteggiamento di comando del grande cane nel giardino. La perfezione, l'organizzazione della loro marcia. Finalmente capì cosa lo metteva tanto a disagio. Sembrava che i cani avessero uno scopo. Il mattino fu come la notte precedente, freddo e limpido. Un mattino in cui sentirsi vivi. Un tipico mattino dell'isola. Larry aveva dimenticato
quanto l'isola potesse essere bella, un pegno che aveva pagato scegliendo la città. Suo padre passò il mattino facendo dei lavoretti in casa, così Larry non ebbe occasione di parlargli. Andò due volte alla finestra di cucina a controllare il giardino. Le impronte c'erano sempre, ma alla luce del giorno sembravano meno minacciose. La possibilità di restare solo con il padre si presentò nel primo pomeriggio, quando uscirono nuovamente insieme per andare a tagliare legna. Larry prese l'ascia dal manico lungo e cominciò a lavorare. All'inizio non disse niente, cercando di rispondere a ogni colpo del padre con uno dei suoi. Solo quando Tom Hardman si fermò per riprendere fiato, il figlio cominciò a parlare. «Quei cani che abbiamo sentito ieri,» iniziò, come per domandare al padre se ricordasse gli ululati, «li ho visti ieri notte in giardino.» Fisicamente Tom Hardman non era un uomo grosso, ma possedeva una grande forza formatasi in anni di colpi d'accetta su duri pezzi di legno. Non disse nulla, mentre alzava di nuovo l'ascia e la calava con violenza. «Mi domando da dove vengano,» continuò Larry. «Da quanto tempo siano qui.» Giù! L'ascia di Tom si scagliò sul legno. «Ti disturbano?» Larry non esitò. «Credo di sì. Credo che mi abbiano un po' scosso.» Giù. Il colpo profondo rimbombò nell'aria tersa. «Sì. Hanno spaventato anche altre persone dell'isola. Qualcuno voleva andarli a cacciare.» Giù! «Sono stato io a convincerli di non farlo.» Si fermò, appoggiandosi pesantemente al manico di legno ricurvo. «Larry, sono solo cani. Forse cani maledettamente affamati, ma sempre cani.» «Sono pericolosi?» La stessa domanda. «No,» rispose, ancora convinto che non lo fossero. «Vedi, figlio, questi cani sono...» Non terminò mai la frase. Un grido disperato lacerò l'aria. Larry riconobbe istantaneamente la voce di Diane. Davanti alla casa. Lasciò cadere l'ascia e cominciò a correre. Tom, con l'ascia in mano, lo seguì un passo indietro. Sulle prime Larry non capì esattamente cosa stesse succedendo. Vide solo Diane, in piedi senza giaccone in mezzo al giardino, il pugno stretto contro la bocca. Solo quando seguì il suo sguardo fino al ponte li vide. Erano cinque, il pastore grigio davanti, e sedevano calmi dall'altra parte della gola. Verso di loro, tenendosi la bambola al petto, stava andando sua figlia.
«Marcy!» urlò. La bambina si voltò e gli sorrise, poi indicò i cinque animali. «Cani Dopey,» spiegò innocentemente, riprendendo a camminare. Diane si diresse verso di lei, ma prima che avesse fatto due passi Larry la prese per un braccio e la fermò. «Aspetta,» l'ammonì, «non eccitarli.» Tom era dietro a loro, sulla destra. Lentamente, con cautela, facendo in modo che ogni mossa sembrasse naturale, alzò l'ascia e cominciò a camminare verso il ponticello. «Tesoro,» disse dolcemente a Marcy, «vieni dal nonno.» «Dopey,» spiegò di nuovo la bambina, come se fosse la cosa più chiara del mondo, e continuò ad andare verso di loro. I cinque cani la osservavano attentamente. Ai loro occhi daltonici era un insieme di grigi e neri, senza contorni distinti, che si avvicinava. Più che vederla la percepivano, e da qualche parte, nei loro sensi, si risvegliarono memorie del passato, di altri bambini, di giochi, di case calde, di cibo. Marcy si avvicinò ancora. In casa, in silenzio, Frieda era accanto all'acquaio, a guardare, come aveva guardato i propri figli tanti anni prima. Senza neppure rendersene conto, continuava a lavare e ad asciugare i piatti della colazione. Dietro di lei Josh, ignaro, dormiva soddisfatto davanti al caminetto spento abbracciato al suo cane. Il pastore si alzò e andò incontro alla bambina. Ma in quel momento, vide, con la coda dell'occhio, un uomo che gli si avvicinava. Guardando verso Tom, emise un breve e brusco ringhio. L'avvertimento venne compreso. L'uomo si fermò. Il pastore incontrò la bambina a metà strada, fra il ponticello e gli altri cani. L'annusò, rendendosi immediatamente conto che quello non era il bambino che aveva conosciuto un tempo. Il suo odore era diverso. Appoggiò il grosso muso sul suo braccio, spingendola, chiedendo che lo carezzasse. Lei gli tirò l'orecchio. E rise. Lui saltò indietro, guardandola sospettosamente, poi avanzò di nuovo. Questa volta lei gli grattò la testa con la mano libera. Larry circondò Diane con un braccio e la strinse. Aveva la pelle d'oca. Rimasero immobili uno accanto all'altra. A guardare. Con la paura perfino di respirare. Con la paura di disturbare quel delicato equilibrio. Lacrime silenziose scendevano lungo il viso di Diane e le cadevano sulla camicetta. Il cane si ritirò leggermente e cominciò ad uggiolare, ricordando. Guar-
dò al di là della bambina, al di là del ponticello, le figure nel giardino. Si fondevano in ombre scure. I loro odori erano fusi insieme, odori dolci, ma non quelli che conosceva. Il cane più piccolo, il dachshund, si alzò sulle tozze zampe e si diresse con la sua strana andatura ondeggiante verso il pastore e la bambina. Il pastore si voltò e gli lanciò un'occhiata, costringendolo a fermarsi a metà di un saltello e ad accucciarsi. Giratosi verso la bambina, il pastore l'annusò di nuovo. Lei gli dette un buffetto sul muso e rise. Gli dette un secondo buffetto. Il cane la spinse scherzosamente, mandandola indietro. «Cane buono.» Lei rise, toccandolo di nuovo. Il cane la spinse un'altra volta. Adesso le spinte erano più ferme, meno scherzose. Thomas Hardman borbottò qualcosa sotto voce, troppo piano perché Larry e Diane potessero sentire. La sua preghiera personale. Larry restava immobile, impotente. Sono solo cani, continuava a pensare, solo cani. Non poteva far nulla per aiutare la figlia. Poteva solo star fermo al freddo a guardare quel grande pastore, più grande di lei, che la spingeva. Qualsiasi suo movimento verso i cani avrebbe potuto spaventarli, e non si poteva immaginare cosa avrebbero fatto allora. Era meglio, lo sapeva, stare fermi, e aspettare, e soffrire. Impotenti. Il pastore spinse nuovamente Marcy, e questa volta lei quasi cadde indietro. Riacquistato subito l'equilibrio, riuscì a rimanere in piedi. Involontariamente, Diane scattò in avanti. Larry le strinse più forte il braccio, lasciandole alcuni segni rossi sulla pelle. «Cane cattivo!» Marcy rimproverò il pastore, e lo colpì sul muso con la bambola. Per la prima volta l'animale mostrò i denti lucenti, e dal profondo della gola emise un basso ringhio minaccioso. Poi la spinse di nuovo, e solo allora, finalmente, Marcy capì cosa voleva il cane. Togliendo la bambola da sotto il braccio, la tenne davanti a sé per fargliela vedere. Lui l'annusò. Poi la prese in bocca, stringendola per il braccio di gomma, e la scosse violentemente. Il vestito della bambola fluttuò nell'aria, e una specie di pianto uscì dalla parte centrale del giocattolo, che però rimase intatto. Il pastore lo posò sulla neve e lo toccò con delicatezza con le zampe, trascinandolo sul terreno. Non si rendeva conto di che cosa fosse, né da dove provenisse il pianto. Aveva un odore diverso da quello della bambina. Lo leccò; non era cibo. Però aveva qualcosa di familiare, qualcosa che aveva già conosciuto.
Prese la bambola fra i denti e si diresse verso gli altri cani, allontanandosi dalla bambina, e dal ponticello. «Bambola mia!» gridò Marcy, andando verso di lui. Dalla porta di cucina la raggiunse una voce calma. «Marcy,» chiamò Frieda, «vieni a prendere un biscotto.» La bambina esitò, guardò il cane con la sua bambola, guardò la nonna, restò qualche secondo incerta, poi cominciò a correre felice verso la casa. Diane si liberò dalla stretta di Larry e si precipitò verso la figlia, la prese fra le braccia e si diresse in casa, tenendola stretta al petto. Tom e Larry stettero a guardare il cane che portava la bambola agli altri animali. Ogni cane, a turno, l'annusò, la toccò, la leccò, la spinse. Alla fine il pastore e il labrador cominciarono a romperla, a strapparla, a spezzarla, finché, contemporaneamente a un ultimo pianto artificiale, il suo interno balzò fuori. «Prendi il fucile!» disse Larry al padre. «Larry non...» «Prendi il fucile!» ordinò. Aveva le labbra secche e tirate, gli occhi fissi sui cani che finivano di fare a pezzi la bambola. Il Winchester trenta-trenta era appeso sopra il caminetto del salotto. A Thomas Hardman il fucile serviva a poco, ma la sua presenza gli dava sicurezza. Lo aveva usato per insegnare a Larry a rispettare le armi e la precisione, e l'aveva usato di nuovo per insegnare a Kenny le stesse lezioni. Due volte l'anno, fosse stato usato o no, lo tirava giù dal suo sostegno decorativo e ne oliava attentamente ogni parte. Le cartucce erano nascoste in una scatola da scarpe in cima all'armadio della camera, fuori dalla portata dei bambini. In effetti anche Tom doveva allungarsi per raggiungerla. Con un leggero sforzo tirò giù la scatola, poi scelse sei pallottole e le portò a Larry. Suo figlio prese l'arma e le munizioni senza una parola, infilò una pallottola nel caricatore e sollevò il fucile alla spalla. Erano almeno dieci anni che non teneva in mano il Winchester e fu sorpreso di essersi dimenticato quanto fosse pesante. Poggiò il calcio bene alla spalla, se lo accomodò, e mirò lungo la canna al pastore grigio, il capo. Non c'era più nulla che Thomas Hardman potesse dire. Continuava a rifiutarsi di credere che i cani fossero pericolosi, ma capiva che le sue obiezioni non avrebbero avuto alcun effetto sul figlio. Il suo solo desiderio era di uscire da questa situazione angosciante. Il pastore si spostò a destra. Larry spostò la mira leggermente a sinistra,
finché il mirino non fu di nuovo puntato sulla testa del cane. Aspettò, trattenne il respiro, poi tirò dolcemente il grilletto. La pallottola si diresse più a destra di quanto Larry avesse mirato, sfiorò il pastore grigio e si piantò nella testa del pastore più piccolo accanto a lui. La testa del cane esplose, spruzzando sangue, pezzi di cervello, di pelle e di pelo sugli altri cani. Il corpo decapitato cadde, e gli ultimi involontari battiti del cuore fecero uscire dalla vena recisa un piccolo rivolo di sangue rosso brillante sulla neve. Il rumore del colpo mise in fuga verso il bosco gli altri cani. Tutti tranne il pastore. Il cane grigio restò fermo, con le orecchie erette, la coda alta, fissando Larry, quasi incredulo. Poi emise un disperato ululato per il tradimento. Larry fu incapace di sparare subito. Poi infilò un'altra pallottola nel fucile, prese velocemente la mira e fece di nuovo fuoco. Sbagliò anche questa volta. Il pastore restò immobile, freddo, incrollabile. Alla fine si voltò e trotterellò spavaldo verso la protezione del bosco. L'ultimo colpo di Larry, che quasi lo raggiunse, non gli fece cambiare passo. Larry abbassò il fucile e guardò il cane scomparire nel bosco. «Bastardo!» inveì piano. Il sangue gli ribolliva per l'eccitazione e, anche se non l'avrebbe mai ammesso, si sentiva profondamente soddisfatto. Aveva protetto la sua prole, aveva dato prova di sé. Una cosa da isola. Il suo primo colpo era stato accidentalmente perfetto. La forza della pallottola aveva quasi reciso la testa dal corpo e spinto questo indietro. Il cane giaceva dove era caduto. Dal giardino né Larry né Tom potevano vedere la pozza di sangue che si stava formando vicino al collo dell'animale, dove era prima la testa. Il pastore grigio si fermò a pochi metri dall'inizio del bosco e si voltò per guardare un'ultima volta il corpo del compagno. Il suo sguardo andò dal pastore morto al cacciatore, al di là della gola. Avrebbe riunito rapidamente il suo branco e sarebbero di nuovo andati alla ricerca di cibo. Però questa volta in modo diverso. Questa volta sarebbero stati liberi dai loro ricordi, dimentichi della loro precedente abitudine all'obbedienza. Quella singola, micidiale pallottola aveva reciso tutti i legami umani. Larry si versò un cucchiaio di sugo fumante sulla carne. Quella giornata gli aveva fatto venire appetito ed era impegnato su una quarta fetta di arrosto. «Sapete,» disse con la bocca mezzo piena, «non ho mai visto niente di simile al modo in cui quel pastore ha preso la bambola.» Traboccava anco-
ra di energia. «Pensi che torneranno?» domandò al padre. Diane intervenne. «Per favore, Larry,» lo pregò, «per favore non parlarne.» Questa volta non si era cambiata per il pranzo. «Dobbiamo parlarne,» la informò lui con il suo tono più serio. «Dobbiamo capire cosa sta succedendo.» Tom non aveva una vera risposta. «Gli animali sono imprevedibili,» disse, con la testa chinata sul piatto. «Non c'è ragione per cui debbano ritornare.» «E allora?» «Nessuno ha mai detto che i cani siano ragionevoli.» Frieda cercò di cambiare argomento, osservando che i bambini si erano già addormentati. Poiché nessuno la seguì nel discorso, si alzò e cominciò a lavare i piatti. Diane rimase a tavola e la guardò. «Sei sempre contrario a dar loro la caccia?» domandò Larry. «Adesso, voglio dire.» Erano seduti ai lati opposti della tavola, faccia a faccia, ma nessuno dei due sollevò lo sguardo nel parlare. «Sono incerto,» rispose Tom. «Non le hanno fatto male, no?» «Questa volta!» «Questa volta,» ammise Tom, guardando finalmente il figlio. «Ma, Larry, questi non sono cani selvaggi. Sono animali domestici abbandonati. Cani di città, per lo più. Credo che non le abbiano fatto del male proprio perché conoscono i bambini. Questi cani hanno vissuto tra gli uomini, non sono cani da caccia.» «Pensi che faccia differenza?» «Sì, penso di sì. Erano stati abituati a fidarsi degli esseri umani. Più duramente ci comportiamo nei loro confronti e più difficile sarà controllarli, ammesso che qualcuno sopravviva all'inverno.» Aggiunse esplicitamente: «Del che io dubito.» «Quindi pensi che io oggi abbia sbagliato?» Tom non disse niente. «Lo pensi?» Nel parlare Tom giocherellò con il dolce che era nella piccola ciotola di porcellana. «Non lo so, né credo lo potremo sapere. Ormai è fatta, non serve a niente porsi domande.» Mentre la discussione a bassa voce continuava, Diane faceva del suo meglio per allontanare ogni pensiero che riguardasse l'isola. Si concentrò invece su New York, prendendo mentalmente un appunto delle cose da fare non appena fossero tornati a casa. Avrebbero
dato una festa, decise, una grande festa, la scusa l'avrebbe trovata. Questa discussione, i cani, l'isola, non le interessavano affatto. Era un argomento per i due uomini, padre e figlio, che essi avrebbero potuto continuare a lungo quella sera se Frieda non avesse sollevato gli occhi dai piatti che stava asciugando e non avesse visto una faccia coperta di sangue premuta contro la finestra di cucina. «Oh, mio Dio,» disse con una voce non più forte di un sussurro, «oh, mio Dio.» Un vassoio di porcellana le scivolò dalle mani impietrite per la paura e si frantumò per terra. La faccia cominciò a scivolare giù lungo la finestra. Una mano insanguinata si sollevò e cercò qualcosa cui attaccarsi, ma non trovò niente e scomparve, lasciando solo una sottile riga di sangue sul vetro. Diane sollevò lo sguardo al rumore del piatto. Vide la faccia appena prima che scomparisse, seguendola con gli occhi sbarrati per il terrore, e cercò di urlare, ma non ne fu capace. Larry e Tom videro la faccia un istante dopo Diane. «Gesù,» riuscì soltanto a dire Larry. Tom fu il primo ad arrivare alla porta della cucina, la spalancò e corse fuori, con Larry che lo seguiva a un passo di distanza. Il corpo era caduto proprio sotto la finestra, e lo raggiunsero prima che si fosse del tutto adagiato sulla neve. La faccia era parzialmente coperta da lunghi capelli neri intrisi di sangue, così che Frieda ci mise qualche secondo a riconoscere l'amica. «Cornelia?» domandò. «Cornelia?» Cornelia Cornwall aprì gli occhi, una smorfia sulla faccia, le labbra coperte di sangue secco. Riuscì a pronunciare una parola. «Cani,» disse. Larry e Tom ora trascinandola, ora tenendola in braccio, la portarono in casa. Frieda entrò in fretta dietro a loro, chiudendo la porta con il chiavistello, poi bagnò un asciugamano pulito, mentre il marito e il figlio stendevano la donna coperta di sangue sul divano del salotto. Il sangue usciva da due tagli, uno sulla fronte e uno sulla parte superiore della testa e Tom fece del suo meglio per arrestare l'emorragia. Cornelia giaceva immobile sul divano, lo sguardo fisso davanti a sé, gli occhi spalancati per il terrore. Nel premerle l'asciugamano contro i tagli, Tom si chinò su di lei. «Corny,» disse con la sua voce dolce e calma, «sono Tom. Dimmi cosa è successo. Dov'è Charlie?» Lei sorrise. «Charlie? Sta tornando dalla città.» Si fermò e ricordò. Lo
strano sorriso si dissolse, e alla sua mente riapparve la scena di poco prima. «Ma i cani... i cani...» All'improvviso balzò su e strinse Tom al collo. «Aiuta Charlie. Per favore, Tom. Aiutalo.» La sua voce si alzò di tono. «Aiuta Charlie.» E poi urlò. «Aiutalo! Aiutalo! Gli stanno facendo male! Oh, no, no! Basta, per carità, basta!» Respinse con le mani assalitori invisibili. Tom le passò intorno le braccia, avvicinandosela. «Va bene, Corny, va bene, adesso andiamo a aiutarlo.» La donna fu scossa da gemiti in tutto il corpo, finché si appoggiò all'amico e cominciò a piangere. A un'occhiata di Tom, Frieda prese il suo posto sul divano e tenne Corny più stretta che poteva. Alzandosi con uno stanco sospiro, Tom disse preoccupato a Larry: «Sarà meglio andar là.» Larry annuì. «Cosa pensi sia successo?» «Non voglio pensarci,» rispose il padre. Per la seconda volta in quel giorno, il Winchester venne tolto dai suoi ganci sopra il caminetto. La scatola da scarpe era stata lasciata sulla mensola e Tom si mise una manciata di pallottole in tasca. «Sarà meglio che anch'io abbia un'arma,» osservò Larry. Tom si guardò intorno finché il suo sguardo si posò sul lungo attizzatoio dalle punte di acciaio. «Ecco,» disse sollevandolo. «Prendi questo.» L'attizzatoio era lungo quasi un metro, di acciaio nero. Vicino alla punta sporgeva un aguzzo aculeo ricurvo dorato. Larry fece roteare il pezzo di metallo con la mano destra, per controllarne l'equilibrio. «Va bene.» Diane si era ritirata in un angolo della stanza. Alla vista di Cornelia era stata sopraffatta dall'orrore per ciò che sarebbe potuto accadere quel pomeriggio. Ma ora si avvicinò. «Tu là non ci vai,» disse a Larry. Era un ordine. Larry la ignorò, infilandosi il caldo giaccone da sci sul pesante maglione. La donna ripeté più dolcemente. «Non andarci, Larry. Chiama la polizia, chiama le altre persone dell'isola. Non sai cosa ci sia là fuori.» Larry guardò il padre. «Andiamo.» Diane si mise fra i due uomini e la porta di cucina. «Per favore, Larry. Su quest'isola non ci abitiamo neppure.» I suoi occhi la trafissero. «Non ti lascerò andare!» «Levati di mezzo, Diane,» le ordinò con fermezza. Per un brevissimo istante rimasero fermi a guardarsi. Gli amori, gli odi, i
problemi di dieci anni di matrimonio erano racchiusi in quei pochi secondi. In un attimo tutti e due compresero che la loro vita insieme non sarebbe più stata la stessa. Larry stava reclamando quei poteri che le aveva così amorevolmente ceduto. «Tieni i bambini di sopra. Controlla che tutte le porte e le finestre siano chiuse. Se ce la fai portala,» Larry indicò con la testa Cornelia, «Portala di sopra e rimani con lei.» Fece una pausa. «Hai capito cosa ti ho detto?» «Ma cosa pensi?» «Hai capito tutto quello che ti ho detto?» ripeté con voce irritata. Lei rispose incerta: «Sì. Credo di sì.» «Bene. Allora fallo.» La moglie cominciò a muoversi. «E, Diane...» Sapeva che l'avrebbe fermata. Ne era certa. Ora si sarebbe scusato. «Questa volta non perdere di vista i bambini neppure per un attimo.» Non c'era modo di rispondergli. Tom, in piedi dietro il figlio, lo ascoltò dare ordini. Non era necessario aggiungere altro, decise. Larry aveva pensato a tutto. Per un momento accantonò l'angoscia profonda per la sorte dell'amico e provò soltanto orgoglio. Puro orgoglio paterno. In quel giorno, in quell'ora, aveva goduto del raro privilegio di osservare il figlio assumere finalmente il controllo della propria vita. Adesso, pensò, adesso, quando avremo tempo, potremo parlare di New York. Da uomo a uomo. Le famiglie dovrebbero essere unite, e forse la città non era il peggior posto in cui vivere. Diane scomparve di sopra a sorvegliare i bambini. Larry non condivideva la fiducia del padre. Quella che aveva vinta, lo sapeva, era solo la prima scaramuccia. Diane era un avversario troppo duro per arrendersi docilmente. Avrebbe cercato altri campi di battaglia: i negozi alla moda, scuole private, feste sfarzose, finché la guerra non si fosse volta in suo favore. E allora, solo allora, se lui avesse voluto continuare a combattere, avrebbero potuto distruggersi l'un l'altra. Tom guardò sua moglie, dall'altra parte della lunga stanza. Si stava occupando di Corny e non sollevò lo sguardo quando i suoi uomini uscirono. La notte era scura e il freddo stava aumentando rapidamente. Nuvole, messaggere del cattivo tempo proveniente dall'Atlantico, avevano coperto la luna e le stelle. Tom si mise davanti, tenendo il fucile carico al fianco, il figlio lo seguiva a cinque metri. Traversarono il ponticello e voltarono a destra, passando accanto alla Chevrolet, parzialmente sepolta sotto un cumulo di neve. «Prendiamo la macchina?» domandò Larry.
Tom scosse la testa e disse forte voltandosi: «Si fa prima a piedi. Inoltre fa troppo rumore. Dobbiamo essere in grado di sentire tutto.» Continuarono a camminare faticosamente, cominciando a traversare il campo senza alberi che li separava dalla casa dei Cornwall. A piedi si faceva prima, e potevano vedere chiaramente qualsiasi cosa si fosse loro avvicinata. Larry ascoltava con attenzione, mentre i loro stivali facevano ritmicamente scricchiolare la neve. Osservava il respiro che gli usciva fumante dalla bocca e scompariva rapidamente davanti a lui. E stava bene. Non era molto spaventato. Si sentiva pieno di vita e quasi eccitato da quella strana avventura. Il suo cuore batteva veloce. La vita è questa, pensava. No, si interruppe e riformulò la frase, questo è ciò che io voglio sia la mia vita. Aria pulita, acqua fresca, campi aperti, quest'isola. Ricordò la prima notte passata all'aperto, un campeggio in ottobre insieme al padre. Avevano montato una piccola tenda nel bosco, ma avevano dormito fuori, ed egli aveva contato le stelle, finché poi non si era addormentato. Non distavano più di un chilometro da casa, ma erano così isolati che avrebbero potuto essere gli ultimi sopravvissuti della civiltà. Quella notte di autunno, sdraiato nel bosco con il padre, aveva provato per la prima volta un senso di libertà totale. E adesso, mentre attraversavano insieme i campi deserti coperti di neve, lo provava di nuovo. Era passato molto tempo. Tom continuava a camminare e, ignaro dei pensieri del figlio, stava meditando sulla sorte di Charlie Cornwall. Cosa era successo? Perché i cani avevano attaccato? E dove erano adesso? Cercava di sentirli, ma udiva soltanto il vento che soffiava sul campo e lo scricchiolio della neve sotto gli stivali. Fin dove riusciva a vedere, niente si muoveva, ma alzò ugualmente di qualche centimetro la canna del Winchester e avvicinò il dito al grilletto. Per prudenza. Andavano verso la casa, erano due figure solitarie che traversavano un campo di neve intatta. Videro per la prima volta la casa quando arrivarono alla collinetta che la sovrastava a cento metri di distanza. Una luce brillava fiocamente in cucina e sembrava che ce ne fosse un'altra in una camera al piano di sopra. Da quella distanza tutto sembrava tranquillo. Cominciarono a scendere. Si fermarono. Una folata di vento aprì la porta di cucina, che cominciò a oscillare avanti e indietro su cardini cigolanti. La casa era stata lasciata aperta. Dall'interno non proveniva nessun suono, nessun cenno di movimento. «Pronto?» domandò Tom inquieto.
«Sì,» rispose con voce secca Larry. Si schiarì la gola e si avviò con attenzione verso la casa. Mentre scendeva scoprì le prime impronte. 4 Qualcosa di orribile era accaduto a quella graziosa casetta. Qualcosa. Il giardino era pieno di impronte di animali. La neve davanti alla casa era calpestata, in qualche punto si vedeva il marrone della terra e c'era un'ampia zona macchiata. Alla fioca luce riflessa proveniente dall'interno, era impossibile dire di che colore fosse la macchia, e nessuno dei due uomini voleva credere a ciò che tuttavia immaginava. Una sola fila di grosse impronte umane, provenienti dalla strada a destra, arrivava alla chiazza di neve macchiata. Una traccia più liscia, come se un corpo pesante fosse stato trascinato sulla neve, andava dalla chiazza verso i campi dietro la casa dei Cornwall. C'erano macchie sulla traccia e, accanto, numerose impronte. Tom e Larry si avvicinarono alla casa con cautela, evitando la neve sporca, senza distogliere mai gli occhi dalla porta che lentamente si apriva e si chiudeva. Non si dicevano niente, ma le loro menti lavoravano all'unisono. Tom andò direttamente verso la casa, mentre Larry si girò e cominciò a esaminare con attenzione la zona circostante. Tom Hardman non volle immaginare quali orrori potessero attenderlo all'interno. Tirando un lungo sospiro, impugnò meglio il fucile e aprì con un piede la porta di cucina. All'interno non si notava alcun movimento. Rimase nervosamente sulla soglia, lasciando che gli occhi si abituassero alla luce, poi entrò in silenzio. «Charlie?» Sapeva che non ci sarebbe stata risposta. «Charlie, ci sei?» Ma doveva provare. La casa sembrava intatta, tutto era al suo posto. Traversò cautamente la cucina e arrivò al salotto. Chiamò di nuovo. «Charlie?» Gli rispose il vento, facendo cadere un giornale dal basso tavolino da caffè sul tappeto consumato. Non ci fu altro rumore. A ogni passo si fermava, e ascoltava. Lentamente, prudentemente, traversò il pianterreno fino alle scale. Sotto il suo peso, il primo gradino emise un forte scricchiolio e Tom fu costretto a fare una pausa più lunga del solito prima di provare con il secondo. Sembrava che le luci al piano superiore provenissero dal retro della casa. Era al settimo gradino quando sentì la porta di cucina sbattere dietro di
sé. Si immobilizzò, mentre gocce di sudore gli si formavano sulla fronte. Senza respirare voltò la testa e guardò la porta. Questa improvvisamente si aprì. Era Larry che, udito il colpo, si era diretto istintivamente verso la porta. Con un rapido movimento l'aveva raggiunta e spalancata con un calcio, alzando l'attizzatoio sopra la testa, pronto a colpire. Ma la casa era silenziosa. «Papà?» chiamò. Thomas Hardman respirò di nuovo. «Qui,» rispose. Larry andò in salotto. «Era soltanto il vento.» Guardandosi intorno, nella stanza fredda e vuota, chiese: «Hai trovato niente?» Tom ebbe qualche difficoltà a riprendere fiato. «No. Niente. Stavo andando di sopra.» «Vuoi che lo faccia io?» Non voleva. Charlie Cornwall era il suo migliore amico. Qualsiasi cosa gli fosse successo, lo sapeva, era colpa sua. Li aveva convinti a non andare alla caccia dei cani; li aveva persuasi ad aspettare. Qualunque cosa ci fosse lassù, era una cosa privata, fra lui e Charlie. «Rimango qui,» disse Larry. La scala scricchiolò fino in cima. Al secondo piano c'erano due camere e un bagno. La porta del bagno e la porta di una delle camere erano chiuse. Cercando di muoversi in silenzio, ma incapace di impedire che le vecchie assi cigolassero sotto il suo peso, Tom percorse il corridoio, fermandosi alla prima camera, che era aperta e illuminata. Il pigiama di Charlie era ordinatamente posato sul letto. Traversò il corridoio per andare al bagno. Silenziosamente, afferrò la maniglia e si appoggiò alla porta, in ascolto. Silenzio. Allora girò la maniglia e aprì la porta. La stanza era buia, ma in un angolo si intravedeva qualcosa di chiaro, appoggiata alla vasca. Tom riuscì a trovare l'interruttore, sollevò agilmente il fucile e prese la mira. Sul pavimento c'era solo un piccolo asciugamano azzurro. Davanti alla seconda camera, Tom esitò un attimo, poi spalancò la porta. Come si immaginava, la stanza era vuota. La tensione lo abbandonò, abbassò la canna del fucile e ridiscese. Quando vide il figlio scosse tristemente la testa. «Allora è ancora fuori,» constatò Larry. «Immagino di sì,» rispose cupamente Tom. «Seguiamo le tracce.» Sembrava la sola scelta possibile, ma, per Larry, non aveva senso. Era sicuro che di notte non avrebbero trovato niente, e non gli sembrava che ci fosse
un motivo impellente per andare in giro a rischiare. Qualsiasi cosa fosse successa a Charlie Cornwall ormai era finita. Finita. E ancora non sapevano cosa ci fosse là fuori. Meglio aspettare. Aprì la bocca per dire al padre queste cose ovvie, ma si fermò. Da un tavolino accanto a una poltrona troppo imbottita, Tom aveva preso un paio di occhiali da lettura con la montatura in argento e li stava guardando con attenzione. Poi li ripose con cura, esattamente come li aveva trovati. E Larry capì che dovevano seguire la traccia. Prima di uscire Tom sollevò la cornetta del telefono e formò il numero di Ned Curtis. Dopo dieci squilli riappese e si diresse alla porta. Quando furono sulla soglia Larry controllò che il bottone del collo della giacca fosse ben agganciato. «A chi hai telefonato?» domandò. Il freddo cominciava a penetrargli sotto i vestiti. «A Ned Stewart,» rispose quasi con rabbia Tom. Poi guardò la casa per l'ultima volta, spense la luce di cucina e sbatté la porta. «Vado avanti io,» disse. Camminarono lungo la traccia sulla neve, cercando qualche segno della sorte di Charlie Cornwall. Avevano percorso circa duecento metri quando trovarono un pezzetto di stoffa mezzo sepolto nella neve. Tom lo prese per guardarlo. Era un quadrato di flanella macchiato, e questa volta non c'erano dubbi sulla natura della macchia. Il tessuto era intriso di sangue. «Adesso forse dovremmo tornare indietro,» suggerì a bassa voce Larry. Tom piegò in quattro il pezzo di stoffa e se lo mise nella tasca della giacca. Senza rispondere, continuò a camminare. Larry si fermò per un istante a guardare, lasciando che andasse avanti, poi controllò la zona alle loro spalle e lo seguì. La casa scomparve dietro una piccola salita. Le gambe di Larry cominciavano a sentire lo sforzo del camminare nella neve. Ormai il freddo era parte di lui e lo tormentava. Sentì pulsare il sangue nel mignolo del piede sinistro. Tuttavia proseguì, dietro il padre, lanciando sguardi a destra e a sinistra e voltandosi per controllare. Cammina, pensava, cammina, cammina, cammina. Prese una cadenza: uno: uno, due, tre. Era così impegnato nel contare, nel camminare, nello sforzarsi di ignorare il freddo, nel cercare di conservare una riserva di energie, che andò quasi a sbattere addosso al padre. Tom si era fermato accanto alla traccia e fissava la neve. «Che c'è?» domandò Larry. Tom indicò qualcosa sulla neve con la canna del Winchester. Larry, sul-
le prime, non riuscì a capire esattamente di cosa si trattasse. Era una striscia contorta lunga circa quindici centimetri e larga tre, scura contro il chiarore della neve. Solo dopo qualche secondo i contorni presero forma nella sua mente e si rese conto che stava osservando un pezzo di cuoio capelluto umano. Era quasi tutto rivestito di ricci grigi e bianchi e le parti senza capelli erano già diventate nere. All'inizio gli fu impossibile distogliere gli occhi. Poi sentì rivoltarsi lo stomaco e vomitò. Tom non si mosse. Restò in piedi come inchiodato, con gli occhi fissi su quella carne e su tutti gli orrori che rappresentava. Chinatosi, Larry prese una manciata di neve fresca e se la mise in bocca, cercando di lavare via il sapore putrido di vomito. Il sapore scomparve a poco a poco, ma il bruciante dolore nello stomaco rimase. Riuscì a tirare il fiato, ma non fu capace di guardare ancora la striscia di cuoio capelluto. L'istinto aveva preso il sopravvento sulla realtà, e egli sapeva che dovevano andarsene da quel campo, che dovevano tornare a casa, al sicuro. «Andiamo ora, papà!» lo esortò disperato. Non sembrò che Tom lo avesse sentito, così Larry afferrò la giacca del padre, la tirò leggermente, e ripeté le parole. Allora l'anziano uomo si voltò verso di lui e disse con voce remota: «Lasciami solo, figlio.» Larry ripeté, questa volta con più forza. «Papà, dobbiamo tornare a casa.» Thomas Hardman guardò il figlio che, lo sapeva, non avrebbe mai potuto capire il tormento che provava. «Non vedi, figlio,» continuò, mezzo soffocato, «è tutta colpa mia. Sono stato io.» Alzò la voce, mentre chiudeva gli occhi e confessava. «Sono stato io!» Poi si calmò. Aprì gli occhi e guardò impotente Larry. Gli tremò il labbro inferiore, mentre una lacrima gli scendeva lungo il volto. «Sono stato io,» disse con voce rotta, «quanto mi dispiace.» Il vecchio pianse. Larry gli prese il Winchester e guardò i campi mentre il padre dava sfogo al proprio dolore. Aspettò che cercasse di trattenere le lacrime, poi disse deciso. «Dobbiamo tornare a casa. Capisci?» Tom si asciugò gli occhi. «Sto bene ora.» Non era vero. Era sull'orlo di una crisi e Larry lo sapeva, ma dovevano cominciare a muoversi. C'erano i cani. Da qualche parte. All'inizio camminarono insieme, poi Larry si portò avanti di tre metri, voltandosi spesso per
assicurarsi che il padre lo seguisse. Il vecchio era immerso in un turbinio di pensieri, e ce la faceva a mala pena a star dietro. Larry attraversò il campo, tagliando diagonalmente la traccia, diretto alla collinetta sopra la casa dei Cornwall. Quando ci arrivarono, considerò per un attimo la possibilità di telefonare per chiedere aiuto, poi pensò che era meglio portare subito il padre a casa. Inoltre dubitava che Tom potesse sopportare la tensione di aspettare nella casa di Charlie Cornwall. Non dopo quello che era successo. Larry contava i passi, cercando di non pensare a niente. Controllava di continuo il padre, rallentando quando lui restava indietro e aspettando che lo raggiungesse. Tom non sentiva niente della notte. La sua mente era concentrata sulla voce di Charlie Cornwall. «Se succederà qualcosa sarai tu il responsabile.» Adesso era successo qualcosa. Chi sarebbe stato il prossimo? Si era sbagliato, e il suo miglior amico era morto. Ora i cani dovevano morire, a lui spettava il compito di cacciarli e ucciderli. Se ne rendeva conto. Ma ciò non avrebbe attenuato il grande senso di colpa che provava. Il freddo non lo disturbava affatto. Larry canticchiava brani di canzoni che ricordava. Si rifiutava di pensare al freddo, o alla sorte di Charlie Cornwall. Adesso contava solo tornare a casa, tornare a casa al sicuro. Larry calcolò che fossero quasi esattamente a metà strada fra la casa dei Cornwall e la loro quando sentirono per la prima volta l'agghiacciante coro di ululati. Diane aveva eseguito esattamente gli ordini del marito. I bambini dormivano nella loro stanza al piano superiore. Con l'aiuto di Frieda era riuscita a far salire Cornelia nella seconda stanza. Tutte le porte e tutte le finestre erano chiuse e sembrava che non ci fosse altro da fare. Così prese la bottiglietta di Ultra Lucent Caramel Frost dal beauty-case e, mentre Frieda cercava di consolare Corny, si dipinse con cura le unghie. Gli incoerenti discorsi di Cornelia non avevano, per lei, alcun significato. Non vi trovava alcun filo logico. Charlie al negozio. Charlie in macchina. Cani. Un anniversario di qualcosa. Nessun nipote. Cani alla porta d'ingresso. Charlie in macchina. Una volta, in mezzo a un ricordo, Corny rivisse mentalmente il terrore. Si alzò a sedere sul letto e urlò. A quel punto Diane era uscita dalla stanza. Dopo aver controllato Josh e Marcy, che al suo arrivo si mossero ma non si svegliarono, si era messa alla finestra in fondo al corridoio ad aspettare il marito. Il giardino era bellis-
simo con la sua coltre bianca. I rami più alti degli alberi vicino al bosco erano coperti di neve. Un riflesso della luce di cucina illuminava la zona, proiettando lunghe ombre. Diane rimase a guardare la scena invernale, agitando distrattamente le unghie perché asciugassero all'aria, ma questa volta non ne coglieva la bellezza. Voleva che il marito tornasse. Si era molto calmata, e anche se internamente era ansiosa, all'apparenza sembrava tranquilla. È sempre riuscito a cavarsela, pensava. Ma in città. Nel mondo che conosceva. Sull'isola di Manhattan era un cacciatore. Qui quasi uno straniero. Che poteva saperne di cani selvaggi? O di sopravvivenza all'aperto? Fino a quel pomeriggio lei non sapeva neppure che fosse capace di maneggiare un fucile. Si appoggiò al davanzale e aspettò, pensando ai brutti cani ispidi che erano usciti dal bosco. Sporche bestie, selvagge e crudeli. Ma assassine? Era possibile? Era lì da solo pochi minuti quando sentì il pelo di un animale sfiorarle la gamba. Riuscì appena a soffocare un grido, mentre Dopey le si strusciava contro. Si chinò per carezzarlo, più nervosa di quanto non fosse stata attimi prima. I cani erano ancora a una discreta distanza, ma si avvicinavano rapidamente. Era impossibile dire esattamente quanto fossero lontani. Ma si stavano certamente dirigendo verso di loro. Larry affrettò il passo. Non era sicuro che il branco si fosse accorto della loro presenza. La vista dei cani, lo sapeva, non era molto buona ed erano certamente troppo lontani per usare l'eccellente olfatto. La logica gli diceva che era difficile, forse impossibile, che i cani li trovassero a quella distanza. Tuttavia ne era sicuro. I cani si dirigevano contro di loro. Cominciò a correre, sollevando il più possibile le gambe dentro e fuori la neve. Il padre si sforzava di mantenere la sua andatura. Il pastore grigio guidava il suo branco attraverso i campi. Pochi attimi prima i cani si riposavano in pace, sazi. Avevano ucciso e si erano sfamati. Poi l'eccezionale olfatto del pastore tedesco si era risvegliato, e il naso del cane, forse un milione di volte più sensibile di quello dell'uomo, aveva colto nel vento un odore familiare. Era stato velocemente esaminato, considerato accettabile, e trasmesso a quella parte del cervello che traduceva l'odore in messaggio. Il messaggio era semplice: il nemico era in circolazione. Il pastore era incapace di ricordare che quell'uomo aveva ucciso il suo compagno, però sentiva una profonda tristezza associata a quell'odore. La sua mente non era in grado di effettuare tutti i passaggi che avrebbero por-
tato alla vendetta, ma il cane sapeva con certezza che quello era il nemico e che quel nemico doveva morire. Così, abbaiando a quell'inconfondibile odore in continuo movimento, i cani si avvicinavano a Thomas e Larry Hardman. Diane tornò in camera, a sedersi con le due donne anziane. Adesso Corny era calma, mezzo addormentata. A Diane sembrò di sentire, in lontananza, un abbaiare di cani. Un'immaginazione troppo fervida, decise, ma un brivido involontario le percorse il corpo. Nonostante il freddo, Larry stava cominciando a sudare mentre correva sulla neve. Tom non riusciva a reggere il passo e restava sempre più indietro. Ora i cani erano più vicini, i latrati assordanti. Larry non aveva più dubbi sul loro bersaglio, ma per qualche motivo non aveva paura. Invece, inspiegabilmente, provava eccitazione a correre nella notte fredda e limpida, si sentiva fiducioso, capace di controllare la situazione, una macchina perfettamente funzionante, immune dal pericolo. Tom si rese conto delle urla dei cani quando era a circa quattrocento metri da casa. All'inizio gli ululati lo terrorizzarono e cercò di correre più veloce. Ma poi confusi pensieri si impadronirono del suo corpo; ed egli prima rallentò, poi si fermò del tutto. Era arrivato il momento di affrontare e uccidere quegli animali. Si voltò verso il branco e aspettò. Abbassò lo sguardo sulla neve e immaginò di vedere ai suoi piedi il corpo dilaniato di Charlie. Adesso avrebbe affrontato quel branco di cani selvaggi, quei barbari animali che mutilavano e uccidevano. E li avrebbe distrutti. Era così semplice. Larry, in cima alla collinetta, vide la casa illuminata. Ce l'avevano fatta. Erano salvi. I cani non li avrebbero presi, e il giorno dopo, alla luce del sole, sarebbero andati a caccia del branco e l'avrebbero distrutto. Si guardò alle spalle, pensando di trovare il padre. Invece lo vide fermo sulla neve, in atteggiamento di sfida, lo sguardo rivolto ai cani che si stavano avvicinando. Fu percorso da un fremito di paura. «Papà,» urlò al vento. «Papà!» Tom alzò gli occhi sul figlio e fece un breve cenno con la mano. Non preoccuparti, diceva il gesto, ci penso io a ucciderli. I cani emersero da un leggero avvallamento del campo e si slanciarono contro di loro, un'onda furiosa in un mare bianco. Non appena si rese conto delle intenzioni del padre, Larry cominciò a correre affannosamente verso di lui, chiamandolo, implorandolo, sollevando nubi di neve. Thomas Hardman non lo sentiva. Il suo odio per i cani
non lasciava spazio ad altro nella sua mente. La corsa del branco era ordinata, aggraziata. Ad ogni balzo sembrava che diversi cani scomparissero nella neve, riapparendo all'improvviso quando saltavano verso l'alto. L'ultimo cane era il dachshund, che aveva grandi difficoltà a correre sulla neve. Il pastore era in testa. La bocca aperta, i denti d'avorio splendenti, le orecchie all'indietro, il grigio condottiero dirigeva la sua orda direttamente contro le vittime. Thomas Hardman sollevò l'attizzatoio e attese. Senza preoccuparsi di mirare, Larry sparò. La pallottola si conficcò senza danni nella neve, sollevando uno spruzzo di fiocchi. Per nulla spaventati, i cani continuarono ad avanzare, verso Thomas Hardman. Gli balzarono addosso in tre, contemporaneamente. Agitando l'attizzatoio, Tom lo calò sulla testa di un grosso levriero e sentì il cranio del cane frantumarsi sotto il colpo. Per il suo amico. E continuò a essere contento anche quando il peso degli altri due cani lo gettò sulla neve, mentre ancora cercava di agitare la sua mazza di metallo. Larry barcollò, inciampò, cadde in avanti, poi si riprese, spingendosi verso il padre. Thomas Hardman era scomparso in un turbine di neve sollevato dai cani feroci, e Larry non vedeva che cani ringhianti in lotta l'uno contro l'altro per arrivare alla preda. Non riusciva neppure a sentire le urla del padre. Ma prima che potesse raggiungere quel groviglio di corpi, il pastore gli andò contro. Alzando il fucile, Larry mirò al cane che si avvicinava e tirò il grilletto. Il fucile fece clic, ma non sparò. Premette di nuovo il grilletto. Poi il pastore gli fu addosso, un missile di trentatré chili. Afferrata la canna del Winchester, Larry cercò di rotearlo come una mazza. La vicinanza del cane gli impedì di vibrare il colpo con forza, ma il fucile prese l'animale su un fianco, colpendolo alle costole e facendolo sbandare di lato. Il cane fu trafitto dal dolore, e cadde a terra, momentaneamente stordito, mentre i ringhi diventavano guaiti. Larry corse dal padre, ormai completamente sepolto dal branco. Roteò ripetutamente il fucile, colpendo gli animali. Schizzò del sangue, che si mescolò alla neve. I cani sembrarono esitare un momento, poi diversi si allontanarono. Larry vide suo padre. Un lato della faccia di Thomas Hardman era squarciato e il sangue sgorgava dalla ferita. Larry si chinò e in quel momento uno scarno collie lo colpì con forza su un fianco, facendolo cadere in ginocchio. Il cane bianco e oro cercò di affondare i denti
aguzzi sopra l'occhio sinistro di Larry, ma, in qualche modo, il giovane riuscì a spingere la canna del Winchester contro la gola del cane. Allungò all'improvviso una gamba in avanti, dandogli un forte calcio nello stomaco, poi lo colpì con il fucile sulla schiena, con tanta forza che il Winchester si spezzò in due e la canna volò via. Come arma la canna era inutile. Larry si guardò disperatamente intorno, ma non c'erano armi sulla neve. Suo padre era sempre steso per terra, con i cani che gli si accalcavano addosso. Egli udì l'orribile suono della carne che veniva strappata dalle ossa, sentì suo padre gridare. Tom continuò a lottare per qualche secondo, poi il suo corpo perse ogni forza. Larry non si accorse dell'esatto momento in cui il padre morì. Terrorizzato, scappò, voltandosi e correndo verso casa. Arrivò al ponticello. Dietro di sé sentì avvicinarsi due o tre cani. Ora li aveva visti, era stato testimone della loro terribile capacità di distruzione e sapeva che stava correndo per salvarsi la vita. L'unico colpo che Larry aveva sparato era riecheggiato nella casa. Ma ancor prima che le donne si rendessero conto del suo significato, l'abbaiare del branco aveva rotto il silenzio. Gli ululati e i latrati risvegliarono i ricordi di Corny che fu presa da una nuova crisi isterica. Frieda fece del suo meglio per calmarla, mentre Diane correva alla finestra per vedere cosa stesse succedendo. Dapprima, nell'oscurità, non riuscì a scorgere nulla. Poi, in lontananza, avvertì un movimento, anche se era troppo buio per capire esattamente di cosa si trattasse. Mentre ascoltava, contava i secondi, e la sua attesa fu ricompensata quando vide una figura attraversare di corsa il ponticello. Ancor prima che si voltasse per scendere di sotto, apparvero tre cani. Si precipitò in cucina. Larry andò a sbattere contro la porta chiusa con i cani alle calcagna. Sapendo istintivamente che era la sua sola possibilità, corse alla finestra di cucina e ne ruppe il vetro con un pugno. Vi infilò velocemente la mano per aprire la maniglia. Spalancò con un grugnito la finestra, cominciando contemporaneamente ad arrampicarsi. Cadde a testa in giù sull'acquaio e poi sul pavimento della cucina. Solo quando si fu rialzato vide Diane, impotente, dall'altra parte della stanza. A quattro passi dalla porta chiusa. A quattro passi dalla possibilità di aiutarlo. La mano gli sanguinava, le gocce di sangue formavano macchie nette sul pavimento e si accorse di essersi tagliato con il vetro della finestra. Ma gli
sembrò di non avere niente da dire. Diane cercò di parlare, ma non ci riuscì. Rimase impietrita sulla porta della cucina, quando il primo cane entrò con un balzo attraverso la finestra aperta. 5 Il primo cane a entrare in casa fu un'airedale rossiccia. Atterrò sul bordo dell'acquaio scivolando leggermente sulla formica, poi saltò contro Larry. Lui le dette un pugno, prendendola sul muso, di lato e facendola cadere goffamente sul pavimento di linoleum. Ma prima che egli potesse riprendersi, altri due cani, un boxer nero e un dalmata bianco e marrone, balzarono attraverso la finestra e si lanciarono su di lui. Larry si difese a pugni e a calci, e in qualche modo riuscì a tenerli lontani. «Chiudi la finestra,» urlò a Diane. «Chiudi quella maledetta finestra!» Lei si appoggiò alla porta, cercando di comandare al corpo di muoversi, ma incapace di farlo rispondere ai propri ordini. Pietrificata, rimase a guardare. Gli occhi di Larry si dilatarono e grosse vene gli si gonfiarono sulla fronte. I cani lo spinsero a poco a poco contro l'acquaio. Al piano di sopra Josh si svegliò e scese dal letto. Gli avevano insegnato ad aprire le porte chiuse, così non ebbe difficoltà a girare la vecchia maniglia. Lasciò la sorella sola e cominciò a scendere. L'airedale colpita affondò i denti d'avorio nel giaccone di Larry, non riuscì a mantenere la presa, ma cadendo all'indietro, strappò il tessuto. La cagna fece immediatamente un altro salto, questa volta più alto, cercando di raggiungere Larry al viso. Frieda ascoltava la battaglia che infuriava al piano di sotto tenendosi al petto la testa di Corny. E pregando. Il boxer e il dalmata collaboravano all'attacco, ma, poiché Larry era stato spinto nell'angolo in cui l'aquaio si univa alla madia, per i cani era difficile raggiungerlo più di uno alla volta. Larry infilò freneticamente la mano nel lavandino pieno di acqua insaponata, cercando un'arma. All'improvviso toccò la lama di un coltello per l'arrosto. Mentre l'airedale spiccava un altro salto, afferrò il coltello e vibrò il colpo. La lama sprofondò negli intestini del cane e ci fu un'esplosione di san-
gue. L'airedale continuò la corsa per forza d'inerzia, strappando il coltello dalle mani di Larry, poi cadde su un fianco, con la lama conficcata nello stomaco. Giacque lì, ansimando adagio, mentre la vita le scorreva via sul linoleum del pavimento. Gli altri cani si tirarono indietro, percependo che le sorti della battaglia si erano rivoltate, e saltarono prima sull'acquaio, poi uscirono dalla finestra. Josh entrò in cucina e per poco non scivolò sul sottile strato di sangue che stava spandendosi sul pavimento. Si guardò intorno, non riuscendo a capire cosa fosse successo, poi corse dalla madre, gettandole le braccia intorno alle gambe. Diane, finalmente, reagì. Strinse il figlio e cominciò a singhiozzare. Larry non si rendeva conto del pianto della moglie. Il suo cervello si rifiutava di accettare nuove sensazioni mentre cercava di assorbire le emozioni degli ultimi minuti. Aveva i vestiti chiazzati di sangue, sangue del padre, del cane e della sua mano ferita. Chiuse gli occhi e scivolò lungo la madia, finché si sedette, chinando la testa fra le gambe. Era estate in Central Park. Era nella Sheep Meadow con Josh e Marcy e faceva volare un aquilone d'argento con una lunga coda. Il vento lo spingeva più alto di tutti gli altri aquiloni, finché non fu che una silenziosa macchia contro il blu del cielo. Dopey giocava ai suoi piedi, rotolandosi sull'erba mentre i bambini correvano contenti. E su tutti splendeva il sole, il caldo sole estivo che li riscaldava. «Più in alto, papà,» strillò contenta Marcy, «fallo andare più in alto.» «Larry?» La voce era lontana. Non la riconobbe. «Larry?» Qualcuno chiedeva implorante la sua attenzione. «Per favore, svegliati.» Vide le cinque lettere del suo nome che fluttuavano in un vuoto nero. Erano blu con i bordi bianchi e, nel loro fluttuare, si accendevano e si spegnevano. «Larry. Larry, per favore. Per favore svegliati.» Aprì gli occhi senza volerlo, e la luce li colpì. Troppa luce, troppa tutta in un momento, dovette chiuderli di nuovo. «Apri gli occhi, Larry.» Li aprì una seconda volta. C'era una donna, vicino a lui. Sentì sul viso gelato il caldo respiro di lei. Aveva un volto rotondo, e i suoi occhi erano gonfi. Diane. Sua moglie. I collegamenti erano difficili. «Larry?» Adesso capiva. Era la sua voce che lo chiamava. Riuscì ad aprire un po' di più gli occhi. Cosa voleva? «Larry?» Ogni respiro bruciava. La gola, inaridita dal freddo, si infiammava a ogni inspira-
zione. La mano e il fianco gli facevano male. Un dolore acuto, bruciante, alla mano, un pulsare cupo, pesante, al fianco. Diane gli stava passando sulla faccia un panno bagnato. Una sensazione piacevole. Le gambe, piegate ai ginocchi, gli dolevano. Riuscì a allungarle sul pavimento insanguinato. Ma perché era seduto lì? Aveva la mente vuota. Non era avvenuto niente. Il tempo non esisteva più. «Cosa è successo?» domandò a Diane. «Oh, Larry,» riuscì a dire, prima che un altro attacco di lacrime le soffocasse la voce. Larry cercò di ricordare. Ieri notte, ricordava ieri notte. I cani! Lo avevano spaventato. Rabbrividì. Poi, adesso si stava concentrando, ricordò il pomeriggio. Marcy stava giocando in giardino e... e i cani. Cani? Il branco. Li vide chiaramente. Ne aveva ucciso uno con il Winchester. Rivide esplodere la testa del pastore, questa volta al rallentatore, migliaia di pezzetti di carne e di cervello che schizzavano nell'aria. Ma poi... Poi... Cosa era successo? Qualcosa di importante. Ma non riusciva a ricordarsene. L'onda passò su di lui e sulla spiaggia umida. Si rotolò in quel fresco e spinse il suo corpo nudo contro quello di lei. La sua mano destra le toccò il fianco e scivolò in alto finché non le si posò sul seno. Il suo corpo era meraviglioso, seni eretti e saldi, anche ora che giaceva sulla schiena, pelle bronzea tesa su curve pronunciate, e gambe lunghe, perfette, che sembravano fatte apposta per circondare il corpo di lui. Le gocce che le erano rimaste sui peli riflettevano il chiaro di luna di quella notte hawaiana. Adesso fece scorrere la mano sulle sinuosità del suo corpo e si fermò a carezzarle delicatamente l'interno della coscia. Lei si inarcò di piacere, e la mano di lui le risalì il corpo finché non trovò il cuore del suo sesso. Lei sorrise. Lui si appoggiò sul gomito sinistro posando le proprie labbra su quelle di lei. Le infilò la lingua profondamente in bocca, esplorando, e lei lo tirò più vicino. Le sue gambe abbronzate gli circondarono il corpo, stringendoglisi intorno finché non furono tutt'uno, e lui sentì il calore dentro di lei. Un cane abbaiò. Vide immediatamente la faccia del padre, dilaniata e coperta di sangue. Cominciò a ricordare tutto insieme. I cani, la battaglia nella neve, il padre sepolto sotto il branco inferocito. E lo scalpo insanguinato di Charlie Cornwall. Ricordò ogni dettaglio. Il peso di quei ricordi lo spossò. «Sto bene,» disse con voce quasi impercettibile, «sto bene ora.» Dopey aveva seguito Josh nella stanza e era stato il suo abbaiare che aveva risvegliato la memoria di Larry. Gli odori che riempivano la cucina lo avevano eccitato. Annusò la carogna dell'airedale e un suono simile in par-
te a un latrato, in parte a un guaito gli uscì dalla gola. «Smetti, Dopey sciocco!» ordinò Josh colpendo il cane sul naso. Dopey piagnucolò e corse via dalla stanza. Sembrava che il dolore lancinante al fianco si stesse calmando e, appoggiandosi alla madia, Larry riuscì ad alzarsi. Diane lo guardava come aspettandosi che dicesse qualcosa. I loro occhi si incontrarono, ma non c'era niente che egli potesse dire. La bocca gli bruciava, ancora intrisa del sapore di vomito. Appoggiato all'acquaio, aprì l'acqua fredda e mise la testa sotto il rubinetto. Il freddo gli fece riacquistare completamente coscienza. Si riempì la bocca d'acqua, inghiottì, poi si rilassò mentre gli scendeva deliziosamente nello stomaco. Gocciolante ma rinfrescato, si voltò verso la moglie. Lei non gli aveva tolto gli occhi di dosso. «I cani,» sospirò lui, scoprendo che gli facevano male le costole quando parlava. Era molto difficile continuare. «I cani,» spiegò. Ma quali erano le parole giuste? Come poteva far capire quello che era successo là fuori? La mano sinistra gli vagò in aria come se cercasse di afferrare le parole adatte. «Mio padre...» No, non andava bene. «Loro...» e solo allora si rese conto che non c'erano parole per spiegare quell'orrore. «I cani,» disse infine. «Il branco.» Frieda Hardman entrò in cucina e gli occhi del figlio le parlarono. La faccia le si contrasse di dolore, e si accasciò su una sedia. Rimase per un momento in silenzio, a pensare, poi incrociò le braccia e pianse. Raccogliendo le forze che gli restavano, Larry l'aiutò ad alzarsi e la portò in salotto. «Abbiamo niente da darle?» domandò Larry, con voce stanca, alla moglie. «Non so,» Diane esitò, sforzandosi di trovare una risposta utile. «Ho delle pillole. Sai, il mio Valium.» I suoi tranquillanti. Le sue pillole quotidiane, le chiamava. Pillole per non mangiare. Pillole per dormire. Pillole per tirarsi su; pillole per calmarsi. Le sue pillole per superare la giornata. «Prendile!» ordinò con la voce che cominciava a riacquistare il suo tono. Frieda inghiottì le pillole senza difficoltà, e a poco a poco il suo pianto divenne un profondo respiro. Con l'aiuto di Diane, Larry riuscì a portarla di sopra e a metterla a letto. Si addormentò quasi subito. Solo allora Larry si cambiò i vestiti bagnati e insanguinati.
L'aria fredda che entrava dalla finestra rotta, il pavimento coperto di sangue e la carogna dell'airedale riportavano alla mente la battaglia che si era svolta in cucina. Prima di tutto si doveva pensare alla finestra, e Larry cominciò a cercare qualcosa per coprire il vetro rotto. Diane lo seguiva da vicino, come se avesse paura ad allontanarsi dal suo fianco, mentre Josh si stringeva alla sua gamba. «Papà,» cominciò il bambino, «come...» «Portalo via!» comandò alla moglie. «Non voglio che resti qui.» Diane prese per mano il bambino ed era quasi arrivata alla porta quando si fermò. «Non ci starebbe,» disse senza riflettere, «se tu non ci avessi trascinato su quest'isola!» Larry chiuse gli occhi. Non era il momento di litigare. Non adesso, non lì. «Diane!» l'ammonì. La tensione della notte esplose in un torrente di accuse. «Sei stato tu, Larry! Ci hai fatto venire qui. Io non volevo. Mi hai costretto a portare i bambini in questo... in questo posto per i tuoi motivi egoistici. Non ti importava niente di noi. T'importava solo dei tuoi preziosi...» La sua voce si alzò di tono mentre Larry aspettava impassibile che l'invettiva terminasse. «Ti odio!» gridò con voce stridula. «Ti odio! Ti odio!» Gli corse addosso, battendogli i pugni sul petto. Lui lasciò che si sfogasse, ma quando cominciò a piangere, le strinse forte i polsi. Alla fine, esasperato, le lasciò il polso sinistro e le dette un forte schiaffo in faccia con la mano destra aperta. Lo schiocco del colpo risuonò nella stanza. Le lasciò andare l'altro polso, ma il braccio di lei rimase alzato. Sospeso a mezz'aria. Lo fulminò con uno sguardo, non disse niente, poi uscì velocemente dalla stanza, seguita da uno Josh con gli occhi spalancati. Rimasto solo, Larry sentì il cuore battere selvaggiamente. Si lavò la mano ferita meglio che poté, esaminando il taglio per verificare se ci fossero frammenti di vetro. Quando ritenne di averla pulita bene, si fasciò con un asciugamano e si sedette al tavolo di cucina. Gli ultimi quarantacinque minuti erano stati un'eternità. Sapeva che non poteva essere più tardi delle nove, ma gli sembrava che fossero passati giorni da quando aveva sparato in giardino. Tutto era successo così velocemente. Aveva avuto tempo solo di reagire in modo automatico, senza pensare. Puro istinto animale. Anche ora la sua mente non andava al di là dei semplici fatti. I cani erano diventati assassini. Qualcosa aveva trasformato quegli animali domestici - animali domestici, rise a quelle parole -
qualcosa li aveva trasformati in bestie selvagge. Cornwall era morto. Suo padre era morto. Thomas Hardman, il vecchio, roccioso Thomas Hardman, morto? Quel dolce uomo gentile? Non sembrava possibile. Larry ricordò la lotta e cominciò a esaminarsi la coscienza. Avrebbe potuto salvarlo? Avrebbe potuto far qualcosa per aiutarlo? Cosa? Era scappato. Cercò di ricordare cosa pensasse mentre scappava. Senz'altro era preso dal panico. Ma era sicuro che il padre fosse già morto quando era scappato? Ne era stato davvero sicuro? Sì, si disse, sì, sì, sì. Il vecchio era morto. Quell'ostinato vecchio era morto. Però sapeva che non era possibile esserne sicuri. Si vide di nuovo correre. Sentì l'aria fredda che gli bruciava i polmoni. Suo padre si era fermato sul sentiero ad aspettare il branco. Scappare! Il vecchio aveva voluto morire, poiché si considerava responsabile della morte di Charlie. Avrebbe potuto salvare la vita del padre? Era stato preso dal panico? Era morto il vecchio? Larry si rese conto che non l'avrebbe mai saputo. Cercò di distogliere la mente dal passato. «È fatta,» disse ad alta voce. Adesso doveva prendere la sua famiglia, sua madre e Corny e portarle via dall'isola il più in fretta possibile. Doveva organizzare un piano. Ma con la mente stava ancora scappando, faceva lunghi salti verso la salvezza. L'immagine non voleva scomparire. Lasciare l'isola, quella era la cosa importante. Il mattino sarebbero saliti tutti in macchina e sarebbero andati in città. Avrebbero fatto venire una barca di soccorso. ... Ma era scappato! Era la sola possibilità. La sola possibilità. Il vecchio si era fermato. Si era fermato! Thomas Hardman era già morto mentre lui scappava. ... In città avrebbe cercato di trovare un accordo con Diane. Non avrebbero potuto continuare a vivere come prima, lo sapeva, ma erano persone intelligenti e ragionevoli e avevano i bambini a cui pensare. Forse non avrebbe dovuto colpirla. Forse non avrebbe dovuto scappare. Si torse angosciosamente le mani. Gli cadde la fasciatura per terra e notò che la mano era ancora macchiata di sangue. Il sangue del padre? Il sangue di un cane? Il suo? Non importava. Quello che importava era la morte del padre, e lasciare l'isola. Era talmente preoccupato per il passato e per il futuro, che gli ci vollero diversi minuti prima di sentire l'abbaiare del branco. Si irrigidì. Erano tornati. Andò lentamente alla finestra rotta. L'aria era fredda sui suoi capelli bagnati. Fuori, formando un semicerchio sulla neve, sedeva il branco. Quegli animali assassini erano tornati. Non avevano ancora finito di uccidere. Senza volerlo rise.
Il pastore grigio alzò il muso al cielo e un lungo lamento riempì l'aria, un grido di trionfo, una minaccia e un pianto disperato. Il suo branco si era saziato. Aveva ucciso e mangiato e adesso sarebbe sopravvissuto. Gli ultimi legami con la vita domestica erano stati spezzati. Non c'erano più ricordi di case, di padroni umani. Il branco era sopravvissuto e avrebbe continuato a sopravvivere. Il pastore abbaiò di nuovo, un suono lugubre che riecheggiò nella casa. Larry guardò incredulo. Gli occhi gli mostravano l'evidenza, un branco di cani seduti in giardino. Ma quelli non erano cani. I cani erano animali domestici, docili, che vivevano nelle case, dormivano sui letti, venivano se chiamati, andavano a prendere il giornale e si rotolavano a comando. Non avevano una mente propria, non pensavano, né facevano domande, né elaboravano idee. Erano guidati e obbedivano. Aveva avuto cani quando abitavano sull'isola. Uno, un segugio che si chiamava Piato, era saltato nel lago pensando che Larry stesse annegando, rischiando la vita per salvare la sua. Ma anche Piato non era che un cane dalle lunghe orecchie. Un animale fedele, leale e pieno d'amore. Il miglior amico dell'uomo. Ma quegli animali in giardino, quelle aberrazioni, cosa erano? Vedendoli adagiati pigramente sulla neve, Larry non riusciva a credere a ciò che sapeva essere vero. Sembravano così mansueti. Un grande labrador fece un piccolo cerchio prima di sedersi comodamente. Un bel cane. Una volta il compagno fedele di qualche uomo. Senz'altro aveva imparato a mangiare dalla mano umana, era stato vaccinato contro il cimurro, si era accovacciato accanto al fuoco nelle notti invernali o aveva dormito ai piedi del letto di un bambino. Doveva aver avuto un nome. Lucky? Big Red? Come si poteva chiamare un cane come quello? Junior? Tutti quei cani avevano avuto un padrone, avevano camminato al guinzaglio e avevano giocato con bambini. Cosa li aveva portati in quel giardino? Cosa li aveva trasformati in crudeli assassini? Perché ormai era innegabile che fossero tali. Erano undici, tutti grandi tranne il dachshund. Sedevano immobili sulla neve, osservando la casa. Solo il dachshund non era tranquillo. Girava freneticamente di cane in cane, annusava, spingeva, giocava da solo in un angolo del giardino. All'inizio Larry non riuscì a vedere che cosa avesse tra le zampe. Sembrava una specie di giocattolo che il cane continuava a sollevare, a mordere, a far di nuovo cadere sulla neve. Cercò di mettere a fuoco la vista, per capire di che cosa si trattasse, ma il cane rimaneva in una
zona buia. Finalmente il dachshund prese l'oggetto fra i denti e lo fece rotolare alla luce, continuando a mordere. E all'improvviso Larry capì che cos'era. Vomitando, si chinò sull'acquaio. In mezzo al branco, il pastore aspettava. Sebbene la sua capacità visiva fosse molto migliore di notte che di giorno, quando la troppa luce quasi l'accecava, il cane non scorse Larry alla finestra finché lui non si mosse. Il movimento attirò l'attenzione dell'animale, ma anche allora non poteva essere sicuro che si trattasse del suo nemico. Percepiva solo una forma indistinta dietro la finestra. Larry si appoggiò sui gomiti, singhiozzando. Maledetti, schifosi, vigliacchi, bastardi! Voleva ucciderli tutti, distruggerli. Si guardò intorno, cercando un'arma. Qualunque cosa in grado di infliggere dolore sarebbe andata bene. Ma i suoi occhi si fermarono sul corpo insanguinato dell'airedale. Con due rapidi passi le fu subito vicino. Avrebbe fatto vedere a quei cani. Prese l'ispida coda alla base e trascinò il corpo sul pavimento. Le interiora erano parzialmente uscite dal corpo e lasciavano una sottile striscia di sangue e pezzetti d'intestino. Spalancò la porta di cucina e scese sul basso gradino di legno. Non aveva paura del branco. Girate le spalle agli animali, prese la coda con tutte e due le mani e trascinò con violenza il corpo sulla neve. Borbottando imprecazioni, Larry cercò di sollevarlo per la coda. La sua intenzione era di lanciarlo in aria per mostrar loro la sua forza. Ma il corpo pesava diciotto ingombranti chili, troppi per poterli scagliare molto lontano. Fu costretto ad accontentarsi di mezzo giro, e la carogna ruzzolò in giardino, imbrattando la neve di sangue. Larry restò trionfante sul gradino, guardando negli scuri occhi a mandorla il pastore grigio. Adesso sapevano che non aveva paura di loro. Aveva dimostrato che poteva affrontarli. Avrebbe combattuto e avrebbe vinto. Il pastore rispose allo sguardo con espressione di sfida. Il suo messaggio era chiaro. Avrebbe combattuto fino alla morte. L'assedio era cominciato. 6 Con la grande tempesta invernale che aveva colpito la terraferma, arrivò un freddo polare e i cani soffrirono durante la notte. L'aria glaciale faceva gelare l'umidità depositata sui peli e dovevano periodicamente scrollarsi di
dosso i ghiaccioli che si formavano. Mentre la notte diventava più fredda, alcuni cani si ritirarono nel bosco dove i grossi tronchi dei vecchi alberi potevano proteggerli dal vento. Il pastore non si mosse. Era la prima notte senza la sua compagna. Il suo corpo, adesso parzialmente coperto dalla neve che infuriava, era sempre al di là del ponticello di legno. Ma barriere insuperabili dividevano il pastore dal suo nemico. Alla fine sarebbe uscito, e quando lo avesse fatto, il cane grigio sarebbe stato ad aspettare. In casa, Larry era impegnato a erigere una barricata. Non sarebbero entrati ancora. Aveva trovato un martello, dei chiodi e alcune assi. Adattato uno spesso pezzo di cartone alla finestra rotta, aveva chiuso con i chiodi tutte le finestre del pianterreno. Poi aveva messo una lunga asse sulla porta del salotto e aveva inchiodato anche quella. I cani sono molto forti, pensava mentre lavorava. Non ricordava esattamente quali razze, né dove l'avesse appreso, ma sapeva per certo che alcuni cani erano in grado di compiere grandi atti di forza. Ma non sarebbero entrati in quella casa. Ci avrebbe pensato lui. Appoggiò verticalmente un'altra lunga asse alla parete di cucina, fra l'acquaio e la porta, e la fissò con un chiodo. Adesso, se i cani avessero attaccato, bastava che la girasse orizzontalmente e ci piantasse in fretta qualche altro chiodo. E intanto sarebbero potuti uscire dalla casa in caso d'emergenza. Mentre lavorava stava in ascolto di eventuali rumori provenienti dall'esterno. Erano intelligenti quei cani, pensò Larry. Non quanto un uomo, ma sempre maledettamente intelligenti. Dovevano esserlo. Erano sopravvissuti per metà di un inverno brutale, organizzati in un branco e guidati da un capo. Intelligenti. Ricordò tutti i cani eroici che aveva visto sullo schermo; Rin Tin Tin, era un altro pastore, sembrava che i pastori fossero i cani più intelligenti. Lassie, il collie, piuttosto intelligente anche lui. Poi c'era il cane di Roy Rogers, un altro pastore, qualunque fosse il suo nome. E tanti altri. Sapeva che le loro gesta non erano vere, sapeva che non facevano davvero quello che si vedeva, ma si rendeva anche conto che erano capaci di imparare innumerevoli trucchi. Animali intelligenti. I cani per ciechi, ricordò improvvisamente, probabilmente i più intelligenti di tutti. E anche loro, di solito, erano pastori. Dopo aver sigillato il pianterreno, controllò il piano superiore, decidendo di lasciare aperta solo la finestra alla fine del corridoio. Era troppo alta perché i cani potessero raggiungerla e un po' d'aria fresca avrebbe fatto bene. Finalmente, quando fu certo che la casa fosse sicura, cominciò a con-
trollare i suoi occupanti. Corny stava sorridendo quando lui entrò nella sua stanza. Seduta in mezzo al pavimento, sfogliando un vecchio numero di Life, alzò gli occhi su Larry come se andasse tutto bene. «Salve, Corny,» le disse affettuosamente. Sua madre dormiva sempre, con la faccia semi-nascosta in un cuscino di piume. Corny smise di girare le pagine e lo guardò attraversare la stanza. Egli coprì con una pesante trapunta le fragili spalle di Frieda. Sperava che non sognasse. «Stai bene, Corny?» domandò. Lei aggrottò le sopracciglia. «Sto bene, ma papà ha detto che non posso uscire a giocare con i cani.» Si rese conto che la mente di Corny continuava a rifiutarsi di accettare la realtà, e respingendo l'orrore, la proiettava in un'epoca più piacevole. «Be', resta un po' e poi vedremo cosa succede,» disse con il tono più naturale possibile. Ma nell'uscire si assicurò che la porta fosse chiusa a chiave. I bambini dormivano tutti e due profondamente, uno contro l'altro. Nella penombra Diane si stava curando le unghie, seduta su una sedia a dondolo. Non lo guardò quando entrò nella stanza. Lui capiva che era importante parlare adesso, prima che le barriere fra di loro si solidificassero, ma non sapeva come cominciare. «Stai bene?» «Sto bene.» Si concentrò sulle unghie rilucenti, modellandole attentamente con una Umetta. La battaglia in cucina sembrava lontana. Larry sentiva il bisogno di parlarne. «Sono uh...» Ancora le parole non venivano. «Ho chiuso tutto di sotto,» borbottò, «non possono entrare.» La luce del corridoio riflessa sulla parete della camera permetteva a Diane di vedere la faccia del marito. Era sempre un uomo attraente, ancora giovane. Di successo. Aveva tenuto fede alle sue promesse matrimoniali. Diane tirò un profondo respiro. «Mi dispiace, Larry,» si scusò senza calore, come se recitasse una parte imparata a memoria, «ho perso il controllo.» «Però ora stai bene?» «Credo di sì.» «I bambini?» Parlava piano, per non svegliarli. «Stanno bene.» Ogni frase era soppesata. Stava molto attenta a non irritarlo. Si rendeva conto che probabilmente il loro matrimonio non era in pericolo, solo il loro rapporto. «I cani sono in giardino,» le annunciò. Non era affatto quello che avreb-
be voluto dire. Ma fu quello che venne fuori e rimase sospeso pesantemente in aria. Anche Diane aveva sentito il loro abbaiare, e non era sorpresa che fossero tornati. Era come se se lo fosse aspettato, come se fosse stato inevitabile. «C'è niente... qualcosa che possa fare?» Cosa? Cosa poteva fare, si chiese amaramente. Convocare una riunione dei cani e votare se dovessero minacciare la casa? Organizzare una raccolta di fondi? La sua rabbia stava per affiorare, ma riuscì a controllarsi. «No, niente. Basta che tu guardi i bambini.» «Se c'è qualcosa...» cominciò speranzosa. Lui la interruppe. «Sì, lo so.» Non c'era altro da dire. Stava chiudendo la porta quando lei lo fermò bruscamente. «Larry?» «Cosa?» Questa volta la sua voce aveva una sfumatura di irritazione. A metà frase la voce di Diane si ruppe. «Puoi portarci via di qui?» Sembrava così indifesa, Larry riconosceva il suo tono. «Sì,» cercò di dirle, ma la parola gli si bloccò in gola. Si schiarì tossendo e le disse che avrebbe tentato. Poi chiuse la porta e scese nuovamente disotto. Diane rimase seduta nell'oscurità della stanza con i figli addormentati. Nel farsi la manicure all'unghia del medio della mano sinistra, scoprì l'inizio di una piccola incrinatura e si domandò se si fosse ricordata di portare quella maledetta crema rinforzante. Aiuto. Erano successe tante cose così rapidamente che Larry non aveva avuto tempo di pensare a chiedere aiuto. Prima Corny, poi suo padre, poi la battaglia in cucina e, alla fine, la necessità di chiudere la casa. Ma ora, nei suoi primi momenti liberi, si rese conto che avevano davvero bisogno di aiuto dall'esterno. Qualcuno che impedisse ai cani di arrivare alla sua famiglia, che non permettesse loro di uccidere di nuovo, che distruggesse il branco. Avrebbe potuto farlo da solo, ammise, con le armi adatte. Un fucile sarebbe andato bene, ma il Winchester si era spezzato. C'erano dei coltelli, ma per usarli avrebbe dovuto lottare corpo a corpo, e non poteva rischiare. Che sarebbe successo se i cani avessero attaccato di nuovo prima dell'arrivo dei soccorsi? Pensava che con la casa barricata fossero temporaneamente al sicuro, ma cosa avrebbe fatto se i cani fossero entrati? Li avrebbe combattuti, naturalmente, ma con che cosa? Con i coltelli? Non sarebbero bastati. In casa, da qualche parte, doveva esserci un'arma vera. Ma non a-
veva trovato niente, né nei cassetti, né sotto l'acquaio, né nella lunga cassa vicino alla finestra. E il Winchester, Larry lo sapeva, era la sola arma da fuoco che il padre tollerasse in casa. Tutto il suo arsenale consisteva in tre lunghi coltelli da cucina, il martello e la lama rotta di una sega a mano che aveva trovato fra gli attrezzi. Distribuì con cura quelle armi in vari posti del pianterreno. Lasciò il coltello più lungo in cucina. Mise un secondo coltello sulla mensola del caminetto, e un terzo sull'alto tavolo accanto alle scale, nell'improbabile caso che fosse costretto a ritirarsi di sopra. Si infilò il martello nella cintura. Almeno temporaneamente se lo sarebbe tenuto addosso. Poi, con del nastro adesivo, fissò la lama della sega, con i denti rivolti in alto, sulla parte inferiore della finestra rotta. Se il branco avesse cercato di entrare da quella parte, c'era una tagliente sorpresa a aspettarli. Infine afferrò la lunga paletta metallica per il carbone, appesa accanto al caminetto, e la poggiò sulla madia. Adesso, pensò, se vengono sono pronto. I cani erano sempre seduti in giardino, ad aspettare. Come gli implacabili leoni di pietra davanti alla biblioteca pubblica di New York, considerò Larry. Ma cosa aspettavano? Perché erano tornati? Per il cibo? Impossibile. Rabbrividì. Vendetta? Assolutamente no. I cani erano intelligenti, o perlomeno quel pastore era intelligente, ma neppure lui poteva avere tanta capacità di ragionamento. Allora cosa aspettavano? E quanto avrebbero aspettato? Per lui attendere sarebbe stato difficile, era chiaro. Le ferite gli facevano male, ma non usciva più sangue, e non sembrava che si fosse fatto niente di grave. Però alla fine sarebbero stati presi dalla tensione. La presenza dei cani era opprimente. Si vedevano da molte finestre, e la terribile minaccia che rappresentavano non poteva essere ignorata. Alla fine, Larry lo sapeva, sarebbe stato insopportabile vivere con quella paura. Si rese conto che doveva farsi aiutare da professionisti. Nessuno in casa era in grado di dargli una mano. I bambini erano troppo piccoli, sua madre troppo vecchia, Corny troppo fuori di sé, e Diane? Diane era semplicemente incapace. Se lui non poteva occuparsi dei cani da solo, avrebbe avuto bisogno di altri uomini, uomini armati, per distruggere il branco. Allora perché non aveva ancora chiamato la polizia? Era più semplice e molto più sicuro che si occupasse lei dei cani. Perché non l'aveva fatto? Rilassandosi nella comoda poltrona di Thomas Hardman, scrutò nella propria mente alla ricerca di una risposta. Vendetta? Vendetta per quello che ave-
vano fatto a Charlie Cornwall e a suo padre? In parte questo era senz'altro vero. Era per Frieda? Sì, anche. Paura? Sì. Alla fine si sarebbe scoperto che era scappato mentre il padre veniva dilaniato. Avrebbe dovuto imparare a vivere con quel ricordo. Sarebbe stato difficile, si rese conto, ma possibile. Distruggere da solo il branco l'avrebbe reso più facile. Machismo, questo era il vero motivo. Il suo disperato bisogno di dimostrare che lui, da solo, era in grado di proteggere la famiglia. Il suo bisogno di dimostrare che un uomo è superiore a un branco di animali irragionevoli, che una mente umana poteva superare in astuzia qualsiasi numero di cani. Finora, però, non c'era riuscito. La morte del padre era la dimostrazione del suo fallimento. Così doveva distruggerli, o vivere per sempre con il suo fallimento. Li avrebbe uccisi, e così le avrebbe fatto vedere. Quel pensiero lo sorprese. Le? A Diane? Diane lo amava, non c'erano dubbi. Forse era stato troppo indulgente con lei, forse non era stato esigente quanto avrebbe dovuto. Ma ora le avrebbe fatto vedere. Ora avrebbe ristabilito la sua superiorità. C'era anche dell'altro. Cercò di arrestare l'attività della mente, ma essa continuava a mettere a nudo altre verità. Per quanto lo negasse, il motivo veniva alla superficie. Alla fine dovette ammettere che le emozioni della notte lo avevano eccitato molto più di qualsiasi altra cosa ultimamente. Che si era nuovamente sentito vivo, dopo tanti anni morti in città. Non era disposto a rinunciare a quella straordinaria sensazione. Era possibile che fosse così semplice? Un'avventura di vita e di morte. Avrebbe osato mettere in pericolo, per quello, la sua famiglia? Non poteva rispondere. Diane stirò le lunghe gambe nel letto, attenta a non disturbare i sogni dei figli. Il sonno non voleva venire. Invece un mucchio di pensieri le turbinava in testa. Larry, i cani, i bambini, il problema di trovare una nuova cameriera al posto di quella di Haiti che se ne era andata dopo essere stata trattata male, di nuovo Larry. Il marito, pensò, non era un combattente. Troppo sensibile, forse anche insicuro, sebbene non ci fossero motivi perché lo fosse. Aveva una bella moglie, si considerava senz'altro bella, un'ottima professione e molti amici. Quanto di questo fosse dovuto a lei, Diane non lo sapeva. In parte, decise, e abbandonò la questione. Larry aveva molte ragioni per essere felice. Lei aveva fatto del suo me-
glio perché il loro matrimonio riuscisse. Gli aveva fatto due bei figli e aveva sempre anteposto la sua carriera ai propri interessi. Ma non era bastato. A un certo punto il loro matrimonio non aveva più funzionato. Si addormentò cercando di capire cosa fosse andato storto. Ci vollero almeno dieci secondi perché il telefono emettesse un segnale indistinto. Larry fece il numero del centralino e aspettò mentre l'apparecchio squillava. Sette volte. Nove volte. Il cavo sottomarino che collegava l'isola alla terraferma era stato costruito nel 1957 e, tranne che con tempo pessimo, di solito la comunicazione era buona. Quattordici. Quindici. Se... «Centralino.» «È un'emergenza, centralino. Mi passi la polizia, per favore.» Altri scatti. Squilli. Sei. Sette. Otto. Al disopra del ronzio all'orecchio, cercava di sentire eventuali suoni dal giardino. Forse se n'erano andati. Una voce sonora, esausta, interruppe il suo pensiero. «Polizia della contea di Suffolk. Sergente Stromfeld.» Cosa poteva dirgli? Che un branco di cani selvaggi stava terrorizzando una casa piena di persone? Suonava... ridicolo. Cani? «Pronto?» Si schiarì la gola. «Sì. Mi scusi, sergente. Mi chiamo Larry Hardman. Telefono da...» «Può parlare più forte, per favore? Non la sento molto bene.» Alzò la voce. «Mi chiamo Larry Hardman e telefono dall'isola di Burrows.» Fece una pausa per tirare un profondo respiro, poi perse completamente il controllo di sé. «Hanno ucciso mio padre!» gridò, «e un altro uomo, un vicino. Sull'isola c'è un branco di cani selvaggi.» «Aspetti, aspetti un secondo. Cosa ha detto? Chi li ha uccisi?» «Cani,» disse chiaramente Larry, «un branco di cani.» Perché non capiva? «Sono in giardino...» Il sergente Stromfeld cambiò posizione sulla sua sedia girevole mentre ascoltava quella storia fantastica. Quell'uomo, Harding, o Hardman, non importava, non era molto lucido, e quello che diceva non sembrava molto chiaro, ma era evidente che sull'isola di Burrows avevano dei problemi. «Quanti morti ha detto che ci sono stati?» lo interruppe. «Perlomeno due,» gli disse Larry. «C'è un altro vicino con cui non riusciamo a metterci in contatto. Non risponde al telefono.» «E li hanno uccisi dei cani?» «Lo so che sembra incredibile, ma...» Erano dodici anni che il sergente Stromfeld serviva con fierezza le brave
persone della contea di Suffolk. Era intervenuto dopo incidenti aerei all'aeroporto MacArthur, aveva raccolto pezzi di corpi che galleggiavano dopo essere rimasti in acqua per settimane, aveva tenuto fra le braccia bambini investiti da macchine e una volta aveva perfino soccorso un canarino che era finito in un camion della nettezza urbana. Aveva arrestato due ladri di banca, fatto contravvenzioni a innumerevoli guidatori imprudenti, trovato dozzine di bambini sperduti e interrotto più liti familiari di quanto riuscisse a tenere il conto. In quei dodici anni aveva estratto diciannove volte la pistola, due volte aveva sparato per avvertimento e una volta per colpire un ladro di buste paga e, fortunatamente, aveva sbagliato. Aveva avuto anche la sua parte di problemi con i cani; potenzialmente rabbiosi, investiti, smarriti, morti e feroci. Aveva visto cani saltare da veicoli in corsa, attaccare a comando e, una volta, assalire un bambino. Ma non aveva mai, mai visto né sentito dire di un cane che avesse ucciso un essere umano. E non riusciva proprio a considerarlo possibile. «Dove sono i cani adesso?» domandò quando Larry Hardman ebbe finito. «Sono seduti in giardino.» Il sergente Stromfeld fece una pausa. «Sono cosa?» «Seduti là fuori, ce ne sono undici che guardano la casa.» «Perché?» Il sergente Stromfeld si sforzò di evitare che il tono della voce tradisse la sua incredulità. «Senta!» sbraitò irritato Larry, «non so cosa vogliono! E so che è difficile crederci. Ma sono là, mi creda, seduti ad aspettare...» Le chiamate degli ubriachi mattutini erano all'ordine del giorno per la polizia. Volkswagen volanti, leoni in fuga, atterraggi di marziani, Adolf Hitler sull'autostrada di Long Island e, dopo il film L'esorcista, un'infinità di gente posseduta dal diavolo. Erano le solite cose, che quasi ci si aspettava. A Stromfeld non sembrava che quel tipo fosse ubriaco, ma cani assassini seduti in giardino erano difficili da accettare. Aveva un cane anche lui, Fumfer, un collie, e non credeva fosse in grado di prendere uno scoiattolo, figuriamoci di uccidere un essere umano. Nonostante questo, il regolamento gli imponeva di rispondere a ogni chiamata con gentilezza e professionalità, quale che fosse la sua opinione personale. Girò la sedia e guardò la tabella degli uomini in servizio appesa alla parete verde che si stava screpolando. La tempesta aveva davvero messo sottosopra tutto. Metà degli agenti non potevano venire a lavorare, e la metà che era in servizio aveva lavorato tanto che dormiva in piedi. «Aspetti un minuto, signor Harding, controllo una cosa.» Si poteva arrivare
all'isola solo con la barca o con l'elicottero. Era tutta la settimana che il mare era troppo mosso per le barche piccole, e quelle più grandi stavano lavorando su quella maledetta petroliera che si era incagliata. Le violentissime raffiche di vento non permettevano di usare gli elicotteri. Larry aspettò paziente all'altro capo del telefono. La polizia non li avrebbe soccorsi, lo sapeva... «Signor Harder, mi dispiace di averla fatta aspettare, ma sto cercando di trovare un modo per aiutarla. Vede, anche noi siamo in una situazione di emergenza. La linea elettrica è in parte saltata, ci sono persone bloccate in automobile e ci hanno segnalato almeno due serie fughe di gas che stiamo cercando di bloccare.» Larry sentì un abbaiare quasi melodioso provenire dall'esterno. Erano ancora là. «Che vuol dire tutto questo?» Il sergente non gli dette una risposta diretta. «Ecco cosa deve fare. Mi dica esattamente dove vi trovate, e non appena il tempo migliora vi mando qualcuno. Ma finché restate in casa penso che non corriate alcun pericolo. Chiaro?» Anche troppo chiaro. Dalla polizia non ci si poteva aspettare aiuto. «Quanto pensa che ci vorrà prima che arrivi qualcuno?» «Gesù,» disse il sergente Stromfeld, guardando la luce al neon come se quella fosse una risposta. «Vorrei poterglielo dire. Forse due giorni, o anche più. Qui continua a nevicare maledettamente, sa.» Larry non lo sapeva. E non gliene importava. Due giorni! Facendo del suo meglio per non perdere la calma, dette al sergente Stromfeld indicazioni precise per arrivare alla casa. «E dica ai suoi uomini che faranno bene a portare dei fucili.» Stromfeld lo appuntò nel suo blocco. «Glielo dirò, signore.» «Senta, c'è qualcun altro che ci potrebbe soccorrere prima?» Stromfeld consultò l'elenco dei servizi d'emergenza. «Potrebbe provare con la guardia costiera,» suggerì. «Ma le consiglierei di restare in casa. Siete al sicuro, no?» «Certo, grazie,» disse Larry, cercando di non sembrare sarcastico. «E controlli che le porte siano chiuse bene, in modo che non possa entrare nessuno.» Se ai matti si mostrava simpatia, era più facile liberarsene. «Grazie,» ripeté Larry. E sbatté giù il telefono. Stromfeld scrisse un breve rapporto sulla telefonata e lo passò all'impiegata addetta allo smistamento. Lei l'avrebbe messo nella sua agenda e avrebbe mandato sull'isola i primi uomini disponibili, non appena il mare si fosse calmato. Personalmente Stromfeld pensava che il viaggio si sarebbe
dimostrato una perdita di tempo, ma non poteva farci niente, era parte del suo lavoro. Il pastore grigio si alzò in piedi e cominciò a ispezionare le fila del branco. I cani si erano accovacciati a coppie per riscaldarsi. Ora cominciavano a muoversi. Il boxer annusò la neve per trovare un posto adatto per urinare. Si avvicinò alla casa, poi le girò intorno, alzando periodicamente la gamba. Gli altri cani guardavano impassibili; il significato era chiaro. Il boxer stava delimitando il suo territorio. Un momento dopo il collie lo seguì, e prolungò la linea tracciata dal boxer. Il cane da presa dorato ripeté il rituale. Mentre la luce del mattino cominciava a rischiarare il giardino, ciascun cane estese quella barriera. Come i loro antenati avevano fatto migliaia di anni prima, e come continuavano a fare i loro parenti selvaggi nelle foreste, il branco rivendicava il proprio territorio. La linea di urina circondava metà casa. L'attenzione del pastore era totalmente concentrata sull'edificio. Il nemico, lo capiva, era dentro. Il branco non sarebbe stato sicuro finché fosse esistita quella minaccia. Avrebbero aspettato. Il labrador fu l'ultimo a svegliarsi. Nella notte aveva sognato il calore che gli davano i suoi padroni. Adesso, alzandosi, la zampa sinistra gli faceva male. A diciassette mesi aveva rincorso una macchina, e una ruota posteriore gliel'aveva rotta. Era guarita in un'estate, ma nelle notti molto fredde sentiva ancora dolore. Quel mattino la temperatura era sei gradi sotto zero, e il cane non riusciva a liberarsi del male camminando. Diane sonnecchiava quando Larry entrò nella stanza. Dalla finestra cominciavano a filtrare raggi di luce ed egli stava controllando la casa. Si chinò su di lei e le sfiorò le labbra con un bacio. «Ti amo davvero,» sussurrò, e uscì dalla stanza. Sebbene avesse udito le sue parole e sentito il suo bacio, Diane tenne gli occhi chiusi e non disse niente. Larry non fu affatto stupito che neppure la guardia costiera potesse aiutarli. Erano già fin troppo impegnati nella ricerca dei superstiti della nave che si era incagliata e nel tentativo di rispondere alle richieste di soccorso delle altre imbarcazioni in difficoltà nella tempesta. Due giorni, gli aveva detto il telefonista, restate in casa fino ad allora. E non preoccupatevi, aveva aggiunto, sono «solo cani». Larry lo aveva ringraziato, riappendendo rassegnato la cornetta. Dall'esterno non sarebbe venuto nessun aiuto. Aveva provato, si era onestamente
sforzato. Di questo, sua moglie, non l'avrebbe mai potuto rimproverare. Ora dipendeva da lui. Solo da lui. Ne era contento. Dipendeva tutto da lui, La luce dell'alba filtrava attraverso le nubi minacciose, quando si mise a sedere e cominciò a elaborare il suo piano. Il ragionamento era metodico, si trattava, essenzialmente, di un problema di ingegneria: come si fa a portare sei persone da un punto A a un punto B, superando un ostacolo inamovibile, con risorse limitate? Il tipo di problema che aveva risolto innumerevoli volte. Assolutamente risolvibile. La prima cosa da prendere in considerazione... Esitò. E se avesse sbagliato? Non avrebbe sbagliato. Non c'era margine d'errore in quel progetto. Una volta che l'appropriato mezzo di trasporto per la fuga fosse stato determinato, era... Ma se avesse sbagliato? Se qualche particolare non avesse funzionato, o se fosse successo qualcosa di assolutamente imprevisto e imprevedibile? Chi avrebbe salvato i suoi figli? E le donne, sua moglie, sua madre e Corny? Analizzò con calma tutti gli aspetti del problema. Era la sua professione assicurarsi che l'imprevedibile fosse predetto e considerato nel piano. Le direzioni dei venti. I luoghi più colpiti dalle tempeste. Le zone di pressione. Le fughe di gas. Anche i terremoti, e gli incendi. Era così che si guadagnava da vivere. Era così che i giganteschi edifici che innalzava restavano in piedi. Ma se... Le persone nella casa erano sotto la sua responsabilità. Lui era l'uomo, quindi, per definizione storica, era compito suo. Non appena se ne rese conto, ne capì anche la conseguenza: non poteva ritornare sulla neve. A causa delle altre persone in casa, non poteva rischiare la vita. Quindi non c'era niente da fare se non aspettare che arrivassero i soccorsi. Era la risposta logica al problema. Ne era contemporaneamente dispiaciuto e molto contento. Ma aspettare sarebbe stato terribilmente difficile. Se solo avessi un fucile, pensò. Un fucile. Potrei restare in casa e ucciderli uno a uno. Ma non aveva fucile. Kenny aveva un fucile. Molti fucili, in effetti. E Kenny conosceva i cani. Li conosceva davvero. Kenny poteva aiutarlo. Larry considerò attentamente questo nuovo pensiero. Kenny, il fratellino Kenny, era un vero fanatico delle armi. No, non un fanatico, si corresse, un
esperto. Kenny sapeva smontare e rimontare qualsiasi arma leggera in commercio. Le armi erano il suo hobby. Aveva vinto ogni tipo di premio per le armi nel Vietnam. E aveva sempre avuto cani, cani da caccia, naturalmente, ma cani. Era curioso quanto potessero essere diversi due fratelli, pensò Larry. Uno un uomo mite. L'altro aveva licenze di caccia in più stati di quanti probabilmente ricordasse. Uno un rispettato membro della comunità. L'altro... Larry si sentiva caritatevole. L'altro non aveva ancora trovato una professione che lo interessasse. Era un vagabondo. Ma un vagabondo che sapeva sparare maledettamente bene. Dove diavolo era adesso? Larry cercò di ricordare l'ultima telefonata. Da qualche parte in Connecticut. Avrebbe potuto trovare il numero. E Kenny sarebbe riuscito ad arrivare sull'isola. Era un cacciatore e quel tipo di tempo sarebbe stato una sfida per lui. Avrebbe chiamato alcuni amici, avrebbero affittato una barca, avrebbero traversato lo stretto e ucciso i cani. Ce l'avrebbero fatta! Doveva solo prendere il telefono e chiamare Kenny. Era semplice. Una telefonata al fratello minore e dopo poche ore sarebbero stati salvi. Larry rimase seduto a guardare il telefono. Ma non riusciva a sollevare la cornetta. Il cane da presa dorato cercò di scuotersi di dosso il freddo del mattino, poi traversò il ponticello di legno e andò nel bosco. Il pastore lo guardò allontanarsi e lasciare un buco nella fila, ma non fece niente. Sarebbe tornato. Il cane da presa era rientrato nel bosco seguendo l'odore che portava al corpo di Thomas Hardman. 7 Frieda Hardman era in piedi accanto alla finestra della camera e guardava i cani. Dal suo favorevole punto di osservazione, notò con quanta intelligenza si fossero distanziati nel giardino. Quasi umani, pensò. Ne osservò due giocare sulla neve, trastullarsi con qualcosa. Era troppo lontana per vedere cosa fosse. I suoi pensieri andarono al marito. Sapeva che era morto. Non si concedeva nessuna illusione, nessuna falsa speranza, era troppo realista per farlo, ma si rifiutava di immaginare il modo in cui era morto. Non voleva pensare al suo corpo dilaniato. Lo avrebbe invece ricordato vivo, forte e
fiero. Thomas Hardman le aveva fatto trascorrere una buona vita, lei era stata felice nel loro matrimonio, e credeva che lo fosse stato anche lui. Mentre guardava i cani giocare, notò un pezzetto di stoffa rossa impigliato in un cespuglio. Non si nascose che era un pezzo della camicia di Tom e che forse quella sarebbe stata la sola testimonianza della sua sorte che avrebbe mai visto. Corny era indaffarata a ritagliare vivaci foto colorate dalla vecchia rivista e non si era neanche accorta che l'amica era scesa dal letto. Per un attimo Frieda pensò di sedersi con lei sul pavimento, ma le pillole la confondevano e la rendevano stanca, tanto che dovette stendersi e chiudere nuovamente gli occhi. «Vengono?» Diane entrò in cucina e indirizzò la domanda a Larry che, appoggiato all'acquaio, guardava il branco dalla finestra. «Chi?» Non si voltò. I cani continuavano a stupirlo. Restavano al loro posto in giardino, calmi, addirittura contenti, apparentemente in attesa, ignari del freddo, come se avessero prove irrefutabili di una futura vittoria. «L'esercito. La marina. Non lo so, chiunque hai chiamato prima.» Il pastore era il più strano di tutti. Non si trattava del suo aspetto, era magro sui fianchi e aveva il manto arruffato. Era piuttosto il controllo assoluto che aveva sul resto del branco. Larry era quasi convinto che il cane comunicasse in modo intelligente con gli altri animali. Ma come? E perché proprio quel cane? Cosa lo rendeva così speciale? «La polizia della contea di Suffolk,» rispose, «e la guardia costiera degli Stati Uniti. No, non vengono.» Si corresse. «Perlomeno non subito.» Diane aprì uno degli sportelli sopra il frigorifero cercando un barattolo di caffè solubile, invece trovò mezzo chilo di caffè normale. Naturalmente, pensò con amarezza, solo roba genuina. Lo rimise a posto, prendendo la caraffa di succo d'arancia naturale dal frigorifero. Dopo essersene versata un bicchiere, si sedette al tavolo di cucina, mentre il marito le volgeva sempre le spalle. «Larry,» esclamò con fermezza, «voglio che tu...» Fece una pausa. «Vuoi per favore voltarti e parlarmi?» La faccia di Diane, bianca e gonfia, lo fissava. Egli notò sotto i grandi occhi delle deboli ombre viola, e si rese improvvisamente conto di quante poche volte l'avesse vista senza trucco. «Perché non vengono?» domandò. «Non vengono,» rispose, pronunciando distintamente ogni parola, «perché sono sommersi di problemi a causa della tormenta. Evidentemente non
ci considerano in immediato pericolo.» Pensò alla tempesta che colpiva con tanta forza la terraferma. Anche quello era un bell'esempio d'ironia. Una tormenta era esattamente ciò di cui ci sarebbe stato bisogno per mandar via i cani dalla casa, per costringerli a cercare riparo nel bosco. Così, che succede? Una violenta tempesta di neve sfiora appena l'isola, le passa a pochi centimetri di distanza, la prima tempesta in... in chissà quanti anni a non toccare l'isola? Perché? Di nuovo non aveva risposte, provava solo una sensazione di disagio. «Cosa facciamo allora?» Larry notò che la sua voce era notevolmente controllata, considerando il suo normale temperamento. Aspettiamo, le disse. Aspettiamo finché la polizia della contea di Suffolk non abbia riparato tutte le linee elettriche cadute, o finché la guardia costiera non abbia raccolto nel mare agitato l'ultimo superstite. Diane stabilì che quella mattina era il marito ad avere il controllo della situazione. Guardandolo, si ricordò del proprio aspetto e si domandò quanto fosse orribile. Di solito la prima cosa che faceva al mattino era truccarsi. Ma quel mattino, quell'unico mattino, non le era neppure venuto in mente. Adesso, ripensandoci, era certa di essere in un disordine tremendo. I capelli dovevano essere simili alla parrucca di una maschera. Il trucco che si era messa per la cena della sera prima, solo un tocco di colore agli occhi e una leggera passata di rossetto, se n'era andato da tempo. E poiché erano giorni che non andava in palestra, l'abbronzatura era, nel caso migliore, gialla, se non già scomparsa del tutto. Cercò di mettersi a posto i capelli con le mani, poi si fermò. Non importava, pensò, davvero non importava. Larry era sorpreso di quanto si sentisse bene, considerando gli orrori del giorno precedente e la notte insonne. La splendente bellezza del nuovo mattino sembrava rendere falso tutto ciò che sapeva essere vero. Sentiva di avere il controllo della situazione. Era contento che la chiara visibilità del giorno lo mettesse in posizione di vantaggio. Si sentiva emotivamente rigenerato. Alla luce del mattino, tutto sembrava possibile. I muscoli gli facevano ancora male e la mano gli pulsava, ma erano i dolori della sopravvivenza e non lo disturbavano. Come mi sento? si domandò. Vivo, si rispose. Doveva ammettere che verso l'alba si era sentito stanco, ma la luce del sole l'aveva svegliato. Ciò di cui aveva davvero bisogno era: una tazza di caffè, vestiti puliti e una buona rasatura. Si sarebbe fatta la barba sopra l'acquaio, decise, e avrebbe continuato a controllare i cani. «Quello che mi sembra davvero interessante,» disse, versandosi un bic-
chiere di succo d'arancia, «è il fatto che non si muovano. Non fanno niente. Non so molto sui cani, ma so che non è normale.» Nel frigorifero c'erano delle uova, ma aveva già deciso di non cucinare niente che emanasse un forte odore. Non c'era motivo di eccitarli. I cibi freddi sarebbero bastati. Dal tavolo, Diane non poteva vedere fuori. Le andava bene, poiché stava facendo del suo meglio per eliminare i cani dalla mente. Eliminarli dalla vista, era come eliminarli dalla mente. Sembrava che per lei funzionasse. La vita era meno complicata se i problemi venivano considerati solo quando diventavano inevitabili. «Perché non chiami Kenny?» suggerì, sapendo che questa domanda avrebbe attratto l'attenzione del marito. Guardando di nuovo fuori, Larry decise che non avevano l'aspetto tanto crudele. Il dachshund sembrava divertente, come tutti i dachshund. Il cane da presa dorato era bellissimo, molto simile alla cagna che aveva Kenny quando erano bambini. Il labrador sembrava amichevole, un bel cagnone, un cane sorridente. E il pastore? Forse, in modo malvagio, era valoroso. Alla fresca luce del mattino era difficile credere che quegli animali fossero capaci di tanta distruzione. Chiamare Kenny? La domanda rimase sospesa in aria mentre guardava il branco. «Ci ho pensato, sai, ci ho davvero pensato. Ho addirittura trovato il suo numero nell'agenda di papà. Ma non l'ho chiamato.» Alzò le spalle. «Non so perché.» Lo sai, pensò lei. Sì, lo so, pensò lui. Diane non era mai riuscita a capire perché quei due fratelli fossero diventati così diversi. Larry aveva solo tre anni più di Kenny; erano abbastanza vicini in età da avere qualcosa in comune. Ma non avevano niente. Erano persone diverse, opposte, gelose e piene di risentimento l'una verso l'altra. La prima volta che se ne era accorta era stato il giorno in cui si erano fidanzati. Il sottile litigio era cominciato il momento in cui Kenny era entrato nell'appartamento di Larry. Agli inizi aveva attribuito il modo di fare di Kenny a mancanza di carattere, in seguito aveva capito che era determinato dal suo rapporto con Larry. In realtà a lei Kenny non piaceva molto ed era contenta che restasse lontano. Ma pensava che in quel momento avrebbe potuto essere di aiuto. E ciò bastava perché Larry lo chiamasse. «Voglio che tu gli telefoni,» disse recisamente. Larry si voltò. Aveva ragione. Kenny poteva aiutarli. In effetti a Kenny
sarebbe piaciuto molto andare a salvarli. Avrebbe rafforzato la sua sensazione di supremazia. «Diane.» Era l'inizio di una richiesta. «Vorrei...» Non andò oltre. La sua domanda venne interrotta dal rumore di un vetro infranto, e, un attimo dopo, da un acuto grido impaurito. «I bambini,» cominciò Diane, ma Larry aveva già preso la paletta del caminetto e era sulle scale. In tre passi arrivò al corridoio del primo piano. La porta della camera dei bambini era chiusa, ma Larry sentì un rumore di lotta provenire dall'interno. Facendo mezzo passo indietro, aprì la porta con un calcio del piede destro e fu dentro prima che la maniglia sbattesse sulla parete. Josh e Marcy smisero di lottare e lo guardarono. «Cosa c'è, papà?» domandò Josh. Marcy fece una risatina, ripetendo la domanda del fratello più grande. «Cos-sa c'è pa-pà?» «Restate qui,» ordinò, «non uscite dalla stanza!» Chiuse la porta e nel voltarsi per andare nella seconda camera andò quasi a sbattere contro Diane. «Rimani con loro,» le ordinò seccamente. Traversò rapido il corridoio e andò nella stanza della madre. Quando fu sulla porta, dall'interno si udì un lungo strillo. Era la voce di Corny. Alzò la paletta e aprì la porta. Corny era sul pavimento. Aveva davanti un paniere da cucito rovesciato, e dozzine di bottoni di tutti i colori, di tutte le forme e di tutte le dimensioni erano sparsi sul pavimento. Stava sorridendo, e mentre Larry la guardava attonito, gridò di nuovo. Poi rise. Frieda non era nella stanza. «Dov'è mia madre?» domandò Larry il più gentilmente possibile. «Dov'è?» Corny rise di nuovo. «Sono qui,» disse stancamente Frieda Hardman, alzandosi da dietro il letto con grossi pezzi della vecchia lampada da tavolo in mano. «L'ho fatta cadere,» disse, scusandosi. «Stai bene?» «Sì, sto bene, figlio.» Larry indicò con la testa Corny. «E lei?» Sua madre gli rispose con una lunga occhiata, triste e impotente. «Larry, non...» Fece una pausa. «Non so cosa fare. Abbiamo bisogno... Lei ha bisogno...» «Lo so, mamma, lo so. Va bene, verranno presto ad aiutarci. Ho chiamato Kenny. Viene a aiutarci. Arriverà non appena potrà,» mentì Larry. La faccia di Frieda si illuminò quando fu nominato il figlio minore.
«Grazie al cielo.» «Mi ha detto di dirti che ti vuole molto bene.» Lei sorrise, ma non rispose. «Stai davvero meglio?» Capì cosa intendeva dire. «Sì, figlio, sto meglio. Sono solo preoccupata per...» Il nome di Corny rimase sottinteso. «Non possiamo fare niente?» «Presto, mamma, presto. Te lo prometto. Resta qui con lei. Non lasciarla sola.» Cominciò ad andarsene, poi si fermò alla porta. «Vuoi un'altra pillola?» Frieda indicò una bottiglietta sul piccolo comodino. «Diane mi ha lasciato queste. Ne prenderò una più tardi.» «Forse dovresti darne una a Corny per calmarla.» Corny non sollevò neppure la testa quando fu pronunciato il suo nome. Sua madre annuì e Larry chiuse la porta. L'assoluta sicurezza che aveva provato pochi minuti prima se n'era scomparsa; adesso provava solo un'opprimente stanchezza. Una voce brusca rispose al telefono. «Sì?» «Kenny? Sono Larry.» Ci fu una breve pausa prima che Kenny rispondesse. «Be', fratellone, come diavolo stai? È un sacco di tempo che non ti sento.» Larry cercò di immaginarsi il fratello all'altro capo del telefono. Immaginò che Kenny stesse sorridendo per la chiamata. «Lo so. Mi dispiace di chiamarti così presto ma,» si fermò di colpo, poi riuscì a riprendere: «Senti, ho bisogno del tuo aiuto.» Ecco, è fatta, pensò Larry. E ora, ne era sicuro, il sorriso del fratello si sarebbe allargato. La voce di Kenny era chiara, e Larry si immaginò che fosse sveglio da diverso tempo. In effetti non aveva quasi dormito. Quando il telefono aveva squillato, stava dividendo il suo materasso sul pavimento con una ragazzina bionda, Laura o Linda, non era sicuro sul nome, che conosceva ormai da quasi dodici ore. Due bottiglie vuote di Almaden Chablis, i mozziconi di quattro sigarette di marijuana e le coperte e i lenzuoli spiegazzati testimoniavano l'intensità della loro crescente amicizia. Adesso con la sua solita voce disinvolta, domandò al fratello maggiore quale fosse esattamente il problema. Larry pronunciò le parole con attenzione. «Sono sull'isola, Kenny, con Diane e í bambini.» Fece un'altra pausa, chiedendosi quale fosse il modo migliore di continuare. Con Kenny, lo sapeva, di solito era meglio andare
diritti al punto. «Papà è morto,» riferì, il più impassibilmente possibile. Silenzio. Poi un incredulo «Cosa?» Il tono disinvolto era scomparso. «Papà è morto, Kenny. Senti, non so...» «Aspetta un secondo. Solo un secondo.» Kenny cercò di schiarirsi la mente dai fumi della notte. «Cosa è successo?» La ragazza notò il cambiamento nella sua voce e si alzò a sedere accanto a lui. Larry fece del suo meglio per parlare in modo normale. «Non so esattamente come spiegarti quello che è successo qui, ma sull'isola c'è un branco di cani, e i cani...» Larry dovette fermarsi e tirare un profondo respiro prima di continuare. La bionda aveva cominciato a carezzare la grande schiena pelosa di Kenny. Voltandosi di lato, lui le spinse via la mano. «Vuoi dire lupi, vero? Non vuoi dire cani.» «Voglio dire cani,» replicò con fermezza Larry. «Ti ho detto che era difficile crederci, ma...» «Larry,» cominciò a spiegare pazientemente Kenny, «non possono essere cani. Almeno non sull'isola di Burrows. Vedi, un tempo i cani erano animali gregari, ma hanno perso quell'istinto. Sono troppo gelosi l'uno dell'altro. Litigano su tutto. Tranne poche razze cacciatrici, i cani non formano branchi.» Nell'ascoltare la conferenza del fratello, Larry provava sempre più rabbia e frustrazione. Alla fine, quando non ce la fece più a sopportare, esplose. «Maledizione, non sono un idiota,» urlò nella cornetta, sbattendo il pugno sul tavolo. «Ti sto dicendo quello che ho visto con i miei occhi. Non m'importa se sembri possibile o no, ma c'è un branco di cani seduti in giardino che cercano di entrare in questa casa. E hanno ucciso tuo padre, e Charlie Cornwall e... e...» Si rese conto di urlare e si fermò. «Mi dispiace, Kenny, è solo che...» Kenny accettò le scuse. «Capisco, Larry.» «Sì,» borbottò Larry, cercando di riacquistare il controllo di sé. Con calma, Kenny cominciò a fare domande precise. «Di che razze sono?» Larry, nel rispondere, guardò fuori della finestra di cucina. «Sono tutti diversi. Un pastore, un boxer, un dalmata, c'è un labrador, un paio di cui non saprei dire la razza, un dachshund...» Quel branco di cani di tutti i tipi, come lo descriveva Larry, non sembrava possibile, ma Kenny era sicuro che il fratello fosse in grado di riconocere i cani, anche se non sapeva come comportarsi con loro.
«...papà aveva detto che sono stati abbandonati dai turisti. Non so, immagino che si siano riuniti in branco per sopravvivere.» «Capisci quale sia il capo?» La bionda si allungò accanto a lui e cominciò a carezzarsi il corpo liscio. «È un pastore, un pastore grigio.» Kenny la ignorò completamente. «C'era da immaginarselo.» «Perché?» «I pastori sono cani davvero intelligenti, forse i più intelligenti di tutti. E ci vuole un cane davvero insolito per tenere unito un branco di razze diverse. Quanto è grosso?» Larry fissò il cane grigio, sdraiato pigramente sulla neve. «Una trentina di chili, immagino, non saprei dire esattamente.» «Meno male, ne ho visti di più di sessanta chili. Senti, ci sono cani rossastri, o neri e rossastri?» Sperava di no. «Non ne sono sicuro, mi sembra di no. Perché?» Si sentiva così impotente, così in balia di Kenny. «Solo per curiosità. Non c'è un vero motivo.» A parte il fatto che erano le grandi razze da caccia. Avevano il miglior naso, la migliore vista, e erano forti e intelligenti. Insieme all'intelligenza del pastore, avrebbero costituito un avversario formidabile per qualsiasi essere umano. «Adesso, Larry, dimmi esattamente cosa è successo.» «Prima hanno attaccato Charlie Cornwall, lo hanno trascinato lontano dalla sua casa. Quando papà e io...» «Perché hanno attaccato?» La bionda, stanca di essere ignorata, si alzò dal materasso e cominciò a farsi scivolare le mutandine di raso dorato sulle lunghe gambe. Senza perdere la concentrazione neppure per un momento, Kenny si allungò e le prese, impedendole di mettersele. «Chi lo sa? Fame, immagino.» Per un attimo si domandò se dire a Kenny del suo sparo del primo pomeriggio, poi decise di no. «Cosa è successo esattamente?» «Quando papà e io siamo andati a cercarlo, ci hanno attaccati.» Mentre pronunciava quelle parole apparentemente semplici, Larry si sentiva come se stesse confessando un peccato terribile. «E lo hanno...» strinse forte il pugno, conficcandosi le unghie nel palmo della mano, mentre cercava disperatamente di spiegare, «e lo hanno semplicemente ucciso, Kenny.» Kenny lasciò andare le mutandine dorate, e la bionda se le infilò lentamente. «E tu non c'eri?» domandò piano. «Certo che c'ero.»
«E non l'hai aiutato? Per amor del cielo,» disse Kenny, con un tono che si faceva più alto a ogni parola, «era vecchio!» Larry implorò comprensione. «Ho cercato, Kenny, ho lottato. Ne ho uccisi uno o due. Ma il Winchester si è spezzato e loro gli erano sopra. Non potevo farci niente, lo giuro, Kenny, non potevo farci niente. Ho cercato, ho cercato davvero...» La richiesta di compassione gli usciva furiosamente. Kenny tirò un sospiro, poi cercò di calmare il fratello maggiore. Non sarebbe servito a nessuno se Larry avesse perso il controllo di sé. «Va bene, fratellone,» disse con voce forzatamente disinvolta, «calma.» Aspettò un momento, poi chiese: «Come la sta prendendo la mamma?» Ci volle ancora un po' prima che Larry si calmasse e potesse parlare di nuovo. «Sembra che stia bene. Siamo tutti in casa e ho chiuso porte e finestre. Non credo che possano entrare, e tu?» Kenny non rispose immediatamente. «Non lo credi neppure tu, vero?» domandò Larry con voce p;ù pressante. Se avevano abbastanza fame, i cani erano capaci di tutto, lo sapeva. Erano capaci di passare attraverso una finestra, o di fare a pezzi una porta, o addirittura di romperla a morsi. Ringraziò in silenzio il cielo che non ci fossero le grandi razze cacciatrici con il loro olfatto straordinario. «No,» riuscì a rispondere alla fine con apparente tranquillità, «non possono entrare in casa, vecchio mio. Siete al sicuro come un orso nella tana, finché non arriverò io.» È stato un errore, pensò Larry, ascoltando la finta freddezza del fratello, non avrei mai dovuto chiamarlo. Avrei dovuto farcela da solo, li avrei dovuti uccidere da solo. Sarà felice di sentirmi chiedere aiuto. Sensazioni di vergogna da lungo tempo nascoste gli tornarono all'improvviso in mente, sensazioni che pensava profondamente sepolte nella memoria. Kenny che lo riportava a casa dalla gola dopo che era inciampato e si era rotto il piede, Kenny che lo soccorreva in un litigio e prendeva a pugni l'altro avversario, Kenny che si arrampicava su una quercia gigantesca per liberare un aquilone, Kenny che si tuffava nello stretto e lo tirava fuori da una corrente pericolosa. Kenny, sempre Kenny. Come odiava ammetterlo! Il giorno in cui se n'era andato dall'isola, aveva giurato che non avrebbe più avuto bisogno di Kenny. E adesso era costretto a chiedere a quel parassita sociale, quel fanatico di armi, di venire a soccorrerlo, e ciò gli dava terribilmente fastidio. Anche Kenny capiva le implicazioni di quella telefonata. Sapeva che Larry lo considerava un fannullone, un vagabondo buono a nulla, che pas-
sava di città in città, di lavoro in lavoro, di donna in donna. Immaturo, l'aveva chiamato l'ultima volta che si erano parlati. Stai sprecando la vita, gli aveva urlato. Ma ora gli stava chiedendo aiuto, e Kenny assaporava quel momento. In seguito avrebbe pianto il padre, ma adesso riusciva a pensare solo all'avventura che lo aspettava, a come uccidere i cani selvaggi e all'occasione di dimostrare che Larry aveva torto. «Restate chiusi lì, io prendo due amici e arrivo il più presto possibile.» «Non occorre ricordarti di portare i fucili,» disse Larry. «No, non ce n'è bisogno,» si vantò Kenny, «ricordati, il cacciatore sono io. Tu sei quello che vive in città.» Stava già pensando all'aspetto logistico. «Un sacco di strade sono impraticabili, è stata una brutta tempesta.» «Qui ci ha sfiorati appena,» spiegò Larry, ignorando il sarcasmo di Kenny. «È nevicato solo a intervalli da quando siamo arrivati.» «Con un po' di fortuna possiamo prendere tutto e arrivare al porto per le quattro. Poi dipende da quanto ci metteremo a trovare una barca. Forse non ce la faremo prima di domattina.» «Fai il più presto possibile.» «Certo. Ora descrivimi di nuovo tutta la situazione, questa volta un po' più lentamente.» Larry riferì un'altra volta tutti i particolari. E nel frattempo si domandò come facesse un essere umano ad accettare con tanta noncuranza la notizia della morte di un genitore. Sembrava così tipico di Kenny. «Non aver paura,» disse quasi allegramente Kenny, quando lui ebbe finito, «arrivo.» Larry borbottò un ringraziamento e riappese. «Viene con alcuni amici,» disse stancamente a Diane. «Arriveranno stasera se riescono a trovare una barca che li porti qui. Altrimenti domani.» Diane sorrise, provando un'incredibile ondata di soddisfazione. Sapeva che per lui era stato terribilmente difficile fare quella telefonata, così mascherò con cura le sue emozioni. Non serviva a niente fargli altro male. Gli aiuti erano in arrivo. Rimasero seduti in silenzio, insieme. Non erano mai stati più distanti l'uno dall'altra. Kenny si allungò e riappese la cornetta. La bionda si stava rimirando in uno specchio a muro. Kenny vedeva il riflesso dei suoi seni alti e fieri, ma riusciva a pensare solo ai cani. Aveva sentito di cani domestici che diven-
tavano selvaggi e che si riunivano addirittura in branchi. Ma che attaccassero esseri umani? Che minacciassero una casa? Il capo del branco, il pastore grigio, doveva essere un cane insolito. Un cane spaventosamente intelligente. Un cane quale aveva creduto esistesse solo nelle leggende o nelle favole. Lei si voltò per guardarlo. «Vai da qualche parte?» «A caccia,» rispose, e si allungò per averla un'ultima volta. Il setter irlandese marrone scuro si bloccò, puntando la foresta, con il peso spostato leggermente in avanti, la coda tesa, la testa eretta. Un alsaziano si levò e traversò velocemente il ponticello, con il muso vicino al suolo, cercando una traccia. Al limitare del bosco salì con i suoi cinquantacinque chili sopra i rami di un albero caduto e continuò a fiutare. Finalmente sentì l'odore e accelerò il passo. Poi il cane si fermò. Aveva visto la sua preda muoversi faticosamente sulla neve profonda. Un grosso ramo si era rotto sotto il peso della nuova neve, e il suo carico bianco aveva investito la residenza invernale di un piccolo scoiattolo marrone, costringendo il roditore a trovare un'altra tana. Il setter aveva captato il rumore del ramo che si spezzava, poi l'odore dello scoiattolo, ma era stato l'alsaziano a inseguire la preda. Sulle prime lo scoiattolo si era preoccupato, balzando da un posto apparentemente sicuro a un altro. A un certo punto gli era sembrato che nel bosco qualcosa si muovesse, e si era freneticamente arrampicato fino a metà di un tronco, ma dopo una lunga esitazione, aveva deciso che non c'era pericolo ed era sceso per continuare a cercare una nuova tana. L'alsaziano si era avvicinato di sei metri, mentre lo scoiattolo era impegnato nel dissotterrare ciò che pensava potesse essere cibo. Il cane si bloccò di nuovo, con la gamba anteriore sinistra sospesa a mezz'aria. Lo scoiattolo si mosse, questa volta più allo scoperto. L'alsaziano esaminò inconsciamente tutte le variabili e l'istinto gli disse che era quello il momento di attaccare. Con rapidità incredibile per un animale così grande, fu sul roditore prima che potesse muoversi per scappare. Con un solo colpo, i denti del cane si chiusero sulla testa dello scoiattolo. L'animalino terrorizzato riuscì a dare un morso al cane con i denti anteriori, prima di morire. L'alsaziano agitò il corpo come se fosse stato una bambola di stracci. Poi lo posò sulla neve, quasi con gentilezza, e alzò il lungo muso appuntito in un canto di vittoria.
Al di là della gola, nel giardino della casa degli Hardman, il resto del branco lo udì e rispose al suo segnale. Una sinfonia di ululati, di latrati, di ringhi e di cupo abbaiare ruppe il freddo silenzio. Divenne sempre più forte, mentre i cani cercavano di superarsi a vicenda. Diane andò accanto a Larry, davanti alla finestra di cucina. «Cos'è, perché abbaiano?» domandò. «Non lo so.» Scosse il capo perplesso. «Non so cosa significhi. Forse giocano.» O forse è l'inizio dell'attacco, pensò. Mentre lei gli era accanto, a guardare, il suo braccio cercò inconsciamente sicurezza intorno al petto di lui. Di sopra, Josh e Marcy si alzarono in punta di piedi cercando di guardare fuori dalla finestra. Sforzandosi, Josh riusciva a vedere appena il giardino. «I cani sono seduti là,» spiegò fieramente alla sorella. Dopey emise un improvviso latrato. «Stai zitto, stupido,» disse Josh, e Dopey, con la coda fra le gambe, si infilò sotto il letto. Nella camera di fronte Corny stava silenziosamente osservando la scena sottostante. Strane sensazioni si mescolavano in lei. Decisamente qualcosa non andava bene, qualcosa che Charlie avrebbe dovuto sistemare non appena fosse tornato a casa. Dietro di lei, Frieda si sedette sul letto, svegliata dal branco. Si passò una mano sugli occhi, cercando di togliersi il sonno di dosso, sorpresa di svegliarsi a metà mattina. Il grido euforico di Kenny esplose nell'aria. Forte, lungo e felice. Nel bagagliaio della Land Rover avevano infilato tre fucili, due scatole piene di pallottole, due pistole nelle fondine, sei razzi da segnalazione, tre sarchi a pelo e grandi riserve di cibo. Ma Kenny e i suoi due compagni, Bob Pledge e Len Hirschfeld, si erano preoccupati di sistemare davanti, a portata di mano, il più importante materiale di sopravvivenza, un'intera cassa di birra Budweiser fredda. «Andiamo a uccidere degli sporchi cani,» gridò Kenny nel tirare la linguetta della prima lattina di birra e facendo manovra con la grande macchina a quattro ruote motrici sulla strada ingombra di neve. «Prendi Stewart Road,» suggerì Pledge, «è la via più veloce per l'autostrada.» Non era affatto contento di quel viaggio. C'erano già troppe strade impraticabili, e il cielo minacciava altra neve. Non osava neppure immaginare come sarebbe stato il tempo sullo stretto di Long Island. Ma non ave-
va proprio potuto tirarsi indietro, dopo che Kenny gli aveva detto che la sua famiglia era in un serio pericolo su quell'isola che sapeva il diavolo come si chiamava. «Passami un'altra di quelle fottute lattine, se vuoi essere gentile,» tuonò Len Hirschfeld, dopo aver tracannato il primo barattolo. Era deciso a godersi ogni attimo di quello stupido viaggio, o almeno tutto quello che fosse riuscito a ricordarsi di esso. Si fecero strada attraverso un mucchio di neve che bloccava Joan Avenue e arrivarono a Stewart Road. A un solo brusco latrato del pastore, il branco fece silenzio. I cani osservarono l'alsaziano portare il corpo dello scoiattolo al di qua del ponticello e posarlo sulla neve, davanti al pastore, per poi tornare al suo posto nella fila. Il capo annusò il roditore morto, ne rivoltò il corpo con il muso, poi camminò davanti al branco. E ululò. Lentamente, l'ululato era un comando, i cani si alzarono. Larry rabbrividì involontariamente. Il braccio di Diane gli strinse di più la vita. «Si alzano, Marcy,» disse Josh alla sorella. «Ti va di giocare?» domandò Corny a Frieda, sedendosi sul letto accanto a lei, ignara del dramma che si stava svolgendo sotto la loro finestra. «Potremmo giocare a carte.» Il pastore andò su un lato della casa, fuori dal campo visivo di Larry e Diane. Uno a uno, i cani lo seguirono, conservando fra loro una distanza di circa tre metri e mezzo. «Vieni,» esclamò Larry prendendo Diane per un braccio. Corsero alla finestra del salotto a osservare il pastore. La strana processione sfilò davanti a loro. Nell'incedere, a brevissima distanza da Larry e Diane, così vicino che si potevano vedere i sassolini impigliati nel manto, il pastore continuò a fissare davanti a sé, non dando segno di essersi accorto degli osservatori. Premendo la guancia contro la finestra, Larry riuscì a vedere il pastore finché non girò l'angolo della casa. Con Diane dietro, traversò la stanza per andare alla finestra romboidale vicino alla scala. Il pastore apparve proprio mentre il dachshund, che era rimasto pazientemente ad aspettare in giardino, cominciava a trotterellare in fondo alla fila.
«Che succede, Larry?» domandò Diane, con la voce al limite dell'isterismo. «Che succede?» «Non lo so,» sussurrò. Mise mano alla cintura e prese il martello. Stringendolo forte, si rese conto solo allora che gli tremavano le mani. Il pastore tornò in giardino mentre il dachshund spariva dietro il primo angolo. Sempre senza guardare la casa, il capo riprese a percorrere quel suo strano cerchio, ripassando nel giardino, seguito dai cani del branco. La casa, intuì Larry, quasi come un presentimento, era adesso circondata. 8 I cani continuavano a girare intorno alla casa con andatura costante. Sembrava che la loro marcia non avesse uno scopo particolare, ma il perfetto ordine in cui si svolgeva era già sufficiente a spaventare Larry e Diane Hardman. Si erano messi a finestre diverse, Diane in cucina, Larry in salotto, in attesa che i cani interrompessero la processione, che il branco rivelasse le proprie intenzioni. Ma i cani continuarono a sfilare per più di un'ora, ignorando l'esistenza della preda intrappolata in casa. Poi, di nuovo senza un'apparente comunicazione, la processione si interruppe. Ogni cane rimase al suo posto. Il pastore grigio si fermò davanti alla porta di cucina, esattamente nel punto da cui era partita la strana passeggiata. Un attimo dopo alzò il muso e ululò. Per Larry il suono era più profondo, più sinistro di quanto fosse stato prima. Poi gli altri cani si unirono al capo. Questa seconda volta il coro non era melodioso. Era piuttosto un frastuono di ululati, uggiolii e ringhi selvaggi. Suoni odiosi. Il clamore riecheggiò sui muri della casa, imponendosi all'attenzione di tutti. Larry vide che Diane lo guardava per sapere cosa fare. Le urlò: «Resta lì! E grida se vengono verso la casa!» Poi corse di sopra e andò in bagno. Subito dopo entrò nella stanza dei bambini. Josh e Marcy erano seduti per terra e stavano costruendo con blocchi di plastica qualcosa simile a un alto castello sbilenco. «Che succede, papà?» domandò Josh, con una punta di nervosismo nella voce. «Sì, papà,» ripeté Marcy, «che succede?» «Un gioco,» disse loro, «stiamo facendo un bel gioco con i cani che sono fuori.» Strappando diversi batuffoli di cotone dal rotolo che aveva preso
in bagno, spiegò: «Dobbiamo metterci tutti del cotone nelle orecchie e lasciarlo lì. Capito?» «Se lo può mettere anche Dopey il cotone nelle orecchie?» domandò Marcy. Dopey era mezzo infilato sotto il letto, con la testa e la parte superiore del corpo nascoste dai bordi di una trapunta dai colori accesi. «Non credo che ne abbia una gran voglia, tesoro. Chiediamoglielo più tardi.» Mentre Larry stava riempiendo di cotone le orecchie dei bambini, Josh domandò: «Come si fa a vincere?» «È una sorpresa,» rispose, inventando al momento, «non voglio rovinarvela.» Marcy non era molto interessata al gioco. «Ho fame,» si lamentò, «papà, ho fame subito.» «Fra poco,» promise Larry. «Fra poco mangeremo.» Dopo aver lasciato i bambini, si fermò in camera della madre per vedere come le due donne anziane reagissero al frastuono. Entrambe sembravano ignorarlo. Frieda era sdraiata sul letto, con gli occhi aperti fissi sul soffitto. Corny era tornata sul pavimento e stava cucendo con cura dei pezzi di stoffa su un maglione rosso e blu. «State bene tutte e due?» domandò Larry. Frieda girò la testa verso di lui e sorrise. «Oh, stiamo bene.» Corny sospirò senza guardarlo. «È solo che c'è troppo da fare. Siamo così occupate.» Senza aggiungere altro, Larry lasciò la stanza e tornò giù. Mentre era di sopra, lo stridore delle grida dei cani era aumentato. «Non possono continuare ancora per molto,» disse in tono ottimista alla moglie nel passarle il cotone. Diane se lo infilò nelle orecchie, poi aiutò Larry a metterselo. Almeno attutiva un po' il suono. Quindi riuscì a preparare dei panini per i bambini e le donne. Larry rifletté che quelle erano, grosso modo, tutte le sue capacità culinarie. Frantumò con cura una pillola di Valium e la mescolò al tonno dei bambini. Sebbene normalmente odiasse le pillole di Diane, doveva ammettere che in quel momento erano utili. Rimase con i figli mentre mangiavano, raccontando loro una lunga storia sui cani che inventava via via. Quei cani, disse, quei simpatici cagnoni, sceglievano una casa fra tutte quante le cose del mondo, una casa dove ci fossero un bravo bambino e una brava bambina, e nel mezzo della notte andavano a visitarla. Marcy guardò Josh con aria furba e fece una risatina.
I cani, continuò Larry, rimanevano a lungo davanti alla casa, abbaiando, giocando e divertendosi. E quando se ne andavano, al loro posto, i bambini trovavano un mucchio di regali meravigliosi. «Che regali?» domandò Josh. «Guantoni da baseball, bambole, slitte, camicie da cow-boy, Big Jim, tutto quello che può far contenti un bravo bambino e una brava bambina.» «E succederà così anche a noi?» Marcy sorrise, con le esse che le sibilavano attraverso il buco lasciato da un dente. «Forse,» alzò le spalle. «Non si sa mai finché i cani non se ne vanno.» Di solito Larry non credeva nei ricatti per controllare i bambini, ma quella era un'eccezione. I bambini avrebbero ricevuto i regali, e c'era la speranza che ricordassero i cani in giardino senza il trauma che avrebbe altrimenti accompagnato quella terribile esperienza. «Ti voglio bene, papà,» gli disse Marcy. Quelle parole lo riportarono alla realtà. «E io voglio bene a te, tesoro, molto.» La serratura della loro camera si era spezzata quando era entrato violentemente, ma la porta si chiudeva ancora. Uscendo si assicurò che fosse chiusa il meglio possibile. Diane gli preparò un panino e si sedette al tavolo mentre lui mangiava. Dapprima Larry si sforzò di capire cosa stesse facendo il branco, che volesse dire tutto quell'abbaiare. Ma a poco a poco si rese conto della tensione sul viso della moglie. Aveva gli occhi spenti, linee sottili le pulsavano sulla fronte e le sue labbra secche cominciavano a screpolarsi. Le domandò piano: «Come va?» «Sto bene,» disse in un sussurro. «Non mangi?» Lei alzò le spalle. «Non ho fame.» «Diane,» cominciò con tono paterno, poi si rese conto che non aveva idea di cosa volesse dire. Ma dopo una pausa trovò le parole giuste. «Non capisco perché facciano così. Non riesco a spiegarlo, so solo che è pazzesco, che non dovrebbe succedere, ma sta succedendo. Vorrei sapere cosa fare, ma non ne ho idea. Presto sarà tutto finito e allora...» Diane, come sempre, colse l'aspetto ovvio del problema. «Forse dovremmo dar loro qualcosa da mangiare,» lo interruppe. Larry esaminò l'idea, poi la scartò. Ma subito dopo la riprese in considerazione. Forse era giusto. Forse i cani erano abituati a ricevere cibo dagli uomini. Anche se non avevano fame, e rabbrividì al pensiero del perché non l'avessero. Forse sentivano l'odore del cibo venire dalla casa. E forse
l'offerta li avrebbe calmati. «Quanto cibo pensi ci sia qui?» «Siamo arrivati con il traghetto che portava le provviste. Molto, immagino. Perché?» «Andiamo,» disse, alzandosi da tavola, «proviamo a fare qualcosa.» Cominciarono dal vecchio frigorifero, tirando fuori tutto quello che i cani potevano trovare appetitoso e ammucchiandolo sul tavolo della cucina. Esaminarono con cura gli armadietti. Diane guardò in quelli più piccoli. «Che ne dici di questi?» domandò, sollevando un barattolo ben chiuso. «Ce n'è una mezza dozzina.» Sulle prime Larry ebbe qualche dubbio sul contenuto dei barattoli. Poi ricordò l'annuale procedimento di conservazione di sua madre. L'odore di frutta cotta che riempiva la casa per giorni, un altro ricordo di campagna scomparso dalla sua memoria cittadina. «Provane qualcuno. Trova qualcosa in cui versarli. Chi sa cosa mangeranno.» Probabilmente niente, pensò, scoraggiandosi. Tutto quell'affare era una perdita di tempo. Non era possibile che il piano funzionasse, però se c'era anche il minimo dubbio, be', erano successe le cose più strane, e così almeno assolveva un compito importante. Li teneva occupati. Diane lavò un piatto di plastica blu e vi vuotò dentro quattro barattoli. I coperchi erano stretti bene, ma sforzandosi, con qualche colpo e dell'acqua calda, riuscì ad aprirli. Con uno scopo, una possibilità di collaborare, si dimostrò una lavoratrice capace e volenterosa. Mentre sbattevano sportelli e trascinavano oggetti per la cucina, il branco continuava il suo schiamazzo. Anche con il cotone nelle orecchie, era una lenta tortura. Josh entrò in cucina, gridando: «Fateli smettere, non voglio più giocare a questo gioco.» Larry lo riportò di sopra e fece vedere ai figli come coprirsi solo le orecchie con i soffici cuscini. Per il momento rimasero soddisfatti, e lui tornò a occuparsi del cibo che si accumulava sempre più. Gli ingredienti del bizzarro banchetto ricoprivano la tavola. Mucchi di carne che si stava scongelando, verdure, biscotti, pane, burro, gelato, frutta in scatola, e anche il contenuto della maggior parte dei barattoli di cibo per cane che avevano portato sull'isola per Dopey. Un odore pesante, quasi piacevole, riempiva la stanza. «C'è altro?» domandò Larry. «Non saprei.» Diane sollevò un piccolo pacchetto. «Questo?» domandò. Larry vide che sulla confezione rossa c'erano il teschio e le ossa incrociate. Veleno per topi! Considerò per un momento l'idea, poi la respinse. «Possono annusarlo e
tenersi lontani da tutto. Non ne vale la pena.» «Che ne dici di qualcuna delle mie pillole? Il Valium e il...» Di nuovo le pillole. La sua risposta a ogni problema. «D'accordo,» disse, prima esitando, poi alzando le spalle. «Sì, perché no? Proviamo.» Misero da parte alcune capsule multicolori da usare in caso di bisogno, poi cominciarono a mescolare i tranquillanti: Diane aprì le capsule di plastica verde e bianca e sparse sul cibo il loro contenuto, Larry vuotò un intero flacone di aspirina sopra un foglio di giornale, piegò con cura il foglio in quattro, poi lo colpì con il martello, polverizzando le compresse. Se va bene, pensò, può darsi che questi medicinali li calmino. Potrebbero anche farli dormire. Operlomeno farli star zitti. Qualsiasi cosa. Finalmente furono pronti. Larry non riusciva a calcolare il peso del cibo, ma era la quantità sufficiente a quattro adulti, due bambini e un cane per due settimane almeno. Adesso speravano che undici cani la divorassero in un pomeriggio. Fuori l'esasperante coro continuava. Diane si sedette al tavolo. Appoggiate le mani alla fronte, si tirò indietro le lunghe ciocche dei capelli neri. «Come facciamo a darglielo?» domandò con voce stanca. Larry sollevò di scatto la testa. «Cosa?» Il fatto che avesse detto esattamente quello che lui stesso si stava chiedendo lo sorprese. Era passato molto tempo dall'ultima volta in cui i loro pensieri erano coincisi. Diane ripetéla domanda. Lui non aveva una risposta immediata. La porta d'ingresso e tutte le finestre del pianterreno erano chiuse con í chiodi, e voleva lasciarle così. La porta di cucina era esclusa, aveva semplicemente paura di rischiare a usarla. E, con i cani sparsi com'erano intorno alla casa, un solo mucchio di cibo non sarebbe bastato. Tutti i cani dovevano vedere il cibo e sentirne l'odore. Dovevano esserne tentati. Poi, se andava bene, la tentazione sarebbe stata abbastanza forte da superare lo strano potere che il pastore sembrava avere su di loro. Ciò lasciava... Come facciamo, noi due, a darglielo. Noi due? Era quasi divertente. Era passato molto tempo da quando aveva considerato la loro relazione in termini di «noi due». Come se la sola cosa che ancora facessero insieme fosse andare ai pranzi e ai cocktail. Forse, finito tutto, avrebbero potuto restare seduti, parlare e... Più tardi. Si sforzò di tornare al problema. Dare il cibo ai cani. Il pianterreno era escluso. Rimanevano il primo piano e la soffitta. Sarebbero andati
bene tutti e due, ma tutti e due presentavano delle difficoltà. Se avesse deciso di spostarsi di finestra in finestra al primo piano, avrebbe dovuto trasportare pesanti quantità di cibo in numerosi posti diversi, e non era sicuro di avere abbastanza energia per farlo. Voleva anche dire disturbare le due donne anziane e i bambini. Noi due? Era piacevole. Sorrise al pensiero. La soffitta sarebbe stata più pericolosa perché avrebbe dovuto stare in equilibrio sull'abbaino. Un passo falso e sarebbe caduto. Sarebbe anche stato difficile dare il cibo ai pochi cani sul retro della casa. Però la soffitta restava l'unico posto dal quale poteva osservare quasi tutto il branco. «Pensavo che forse potrei gettare il cibo da sopra,» propose, e aspettò la sua reazione. «Dalla soffitta.» «Sarà possibile?» Nessun riferimento al pericolo. «Probabilmente più che da qualsiasi altra parte.» Lei non esitò neppure. «Va bene, allora, portiamo il cibo su.» Pensando che fosse più ragionevole trasportare per prima la roba pesante, mentre era meno stanca, Diane cominciò con la carne. Tenendo i pezzi dentro un giornale, li portò alla scala, diciannove passi, e li diede a Larry che li portò di sopra. Lavoravano in silenzio, come due ingranaggi, il movimento di uno determinava il movimento dell'altro. Ci vollero venticinque minuti a trasportare tutto il cibo al primo piano e a ammucchiarlo su sei fogli aperti di giornale. Larry fece una breve pausa e guardò Diane impegnata a mettere i vari cibi l'uno sull'altro. Con i capelli tirati all'indietro e il sudore sulla fronte, sembrava più la moglie di un contadino che l'elegante cittadina. Mentre Diane cominciava a spostare il cibo nel corridoio, fino alla base dell'altra scala, Larry aprì la botola che portava in soffitta e alla sua infanzia. Un'ondata di ricordi lo investì. A metà pomeriggio la temperatura cominciò di nuovo a scendere, ma il branco sembrava indifferente al freddo. Ululavano con furia contro la casa, come se l'intensità dei loro ululati potesse abbattere i muri che proteggevano il nemico. L'istinto di branco aveva preso completamente il sopravvento: il nemico di uno era diventato il nemico di tutti. «Più avanti è pericoloso,» ammonì un poliziotto in divisa pesante avvicinatosi alla macchina di Kenny. «Le strade sono ancora interrotte. Gli spazzaneve sono al lavoro, ma avanzano piano. Fareste meglio a tornare
indietro e a riprovare domattina.» Kenny annuì con la testa e non prestò attenzione. Era impegnato a cercare un modo per superare quello stupido poliziotto. «Grazie agente,» urlò mentre quello tornava al tepore della sua macchina. «Maledizione!» esplose Len Hirschfeld. «Immagino non ci sia niente da fare, eh, Kenny?» A Kenny non fu difficile notare il sollievo nella voce di Len. «Credo di no, Len,» rispose. No, non è affatto finita, si disse. Per nessun motivo avrebbe perso questa nuova occasione di salvare la vita di Larry. Per nessun motivo. La situazione nella casa doveva essere davvero disperata, pensò Kenny, altrimenti Larry non avrebbe mai chiamato. Avrebbe messo Larry davanti alla sua debolezza. Gli avrebbe fatto vedere, gli avrebbe dimostrato, chi dei due fratelli era veramente qualcuno. «Maledetti agenti,» esplose Lenny, «sempre a dare ordini. Passami un'altra birra.» Kenny sapeva di cosa fossero capaci i cani: cani da guerra che toglievano reticolati di filo di ferro, cani da slitta che sopravvivevano alle peggiori tempeste dell'Alaska, cani da guardia che facevano a brandelli gli intrusi. Se i cani avevano abbastanza determinazione, abbastanza fame, pensò, Larry non poteva far nulla per fermarli. Girò la Land Rover e percorse un paio di centinaia di metri, superando una curva e uscendo dalla vista dell'agente. Abbastanza fame? Quanto cibo ci voleva per un branco di cani? I cani avevano una caratteristica nel mangiare, sapeva, un cane mangia finché non è sazio, poi smette. Ma non appena c'è un altro cane, il primo ricomincia a mangiare, ingozzandosi al di là delle sue necessità. Senza avvisare fece una brusca curva a destra in un campo coperto di neve, e accelerò al massimo. «Che diavolo fai?» gridò Len mentre per il balzo della Land Rover si rovesciava addosso metà lattina di birra. Kenny guidava la macchina sulla neve, cambiando di continuo marcia perché le ruote non perdessero la presa e facendo del suo meglio per non andare a finire sui cumuli di neve fresca. «Cosa ti sembra che faccia?» gridò a Hirschfeld il cui volto era diventato terreo. «Vado al porto, ecco che diavolo sto facendo!» Controllò davanti, poi si voltò con espressione dura. «Pensi che questo sia una gran cosa, Len? Questo è niente! Avresti dovuto
vedere la merda che abbiamo traversato per arrivare a Khe Sanh. I musi gialli ci tiravano addosso di tutto. Quello,» gridò sopra il frastuono del motore in tensione, «quello sì era grande.» Quanto cibo ci voleva, si chiedeva. Len rispose con un mezzo sorriso spaventato. «Oh.» «Come fai a sapere dove stai andando?» domandò Pledge con un filo appena di voce. Erano le prime parole che pronunciava da quando si erano fermati al blocco stradale. Pledge era una persona silenziosa che raramente diceva qualcosa su qualsiasi argomento. Così quando parlava le persone lo ascoltavano con attenzione. Che importanza ha se è silenzioso, lo aveva difeso una volta Kenny, quell'uomo sapeva cacciare un topo nella bocca di un gatto. «Vado a est, no? Prima o poi arriverò a quel maledetto oceano, basta andare avanti,» urlò Kenny mentre avanzavano a scossoni e rimbalzi attraverso quello che in estate era un campo di granturco. «Sei davvero un tipo,» disse Pledge, ridendo. «Che tipo?» volle sapere Kenny. «Non saprei dire quale tipo,» Pledge fece una risatina, «ma qualunque sia, ce n'è uno solo, e quello sei tu!» Somigliava abbastanza a un complimento per essere accettabile, così Kenny rispose con un urlo contento. Gli piaceva proprio essere l'unico di quel tipo. Poi, quando furono in mezzo al campo, Kenny vide il primo fiocco di neve fresca cadere sul parabrezza. Qualche secondo dopo ne seguì un altro, e poi sembrò che il cielo si squarciasse, liberando una tormenta. Kenny portò il riscaldamento al massimo, aumentò la velocità dei tergicristalli speciali Duco e mormorò in silenzio una breve preghiera chiedendo che la maledetta Land Rover non gli si rompesse di nuovo. La soffitta era fiocamente illuminata dal sole del tardo pomeriggio che filtrava attraverso due finestre sporche. Larry accese la lampadina e un'opaca luce gialla proiettò nuove ombre che si intersecarono nella stanza riempiendola. Larry era sul terzo piolo e guardava la piccola soffitta, ricordando le centinaia di ore che vi aveva passato a giocare, un altro frammento della sua infanzia dimenticato. Un tempo quella soffitta era stata piena di vecchi mobili, di album di fotografie, di giornali, di pile informi di Saturday Evening Post, Life, Look, Colliers, Redbooks. Disteso sui mucchi polverosi di
carta lucida, aveva divorato le parole e le figure. In quella soffitta aveva viaggiato verso i più remoti paesi della terra. Era stato un pompiere, un poliziotto, un cowboy e un indiano, un atleta, un soldato e anche uno scrittore. In quella soffitta, era stato re. Adesso quel ciarpame non c'era più. Il posto era stato ripulito di quasi tutti i mobili e di tutte le riviste. Pericolo d'incendi, naturalmente. Ma la stanza conservava il suo aroma amichevole. Mentre i suoi occhi si mettevano lentamente a fuoco, distinse le ragnatele negli angoli. Appoggiati alla parete di fronte c'erano un vecchio tavolo da gioco e una scacchiera. Non se li ricordava. Ma dall'altra parte della stanza vide anche la metà inferiore del letto a castello che aveva un tempo diviso con Kenny. La parte superiore, la metà mancante, era stata sua per diritti d'età. Gliel'avevano regalata i genitori, per aiutarlo a sopportare il dolore che aveva provato per l'arrivo in casa di un altro bambino. In piedi sulla scala, per un attimo fu di nuovo pompiere, poliziotto, cowboy e indiano. Poi, veloci come erano venuti, i ricordi scomparvero e l'incessante abbaiare del branco, gli riempì la mente. Salì gli ultimi tre pioli e, stando attento a non camminare sul materiale isolante, ricordando che avrebbe potuto sfondare il pavimento se l'avesse fatto, andò alla finestra passando sopra le travi scricchiolanti. Guardando giù, attraverso la polvere ormai solidificatasi sul vetro, poteva vedere qualche cane. Erano in piedi, e si muovevano a scatti, ululando, tendendosi in avanti, senza però avanzare davvero, come se venissero trattenuti da un invisibile guinzaglio. Larry afferrò la finestra più forte che poté e la spinse cercando di aprirla, ma gli anni avevano fatto seccare ed espandere il legno che era adesso bloccato al telaio. Si piegò con attenzione in avanti per vedere se la finestra e il telaio fossero incollati insieme, ma c'era una sottile linea scura di separazione. Non erano fissati, erano solo incastrati. Tentò una seconda volta, spingendo in alto con le palme delle mani premute contro la metà inferiore della finestra. Non si smosse neppure questa volta. Arrabbiato, colpì il legno con il martello, facendo cadere sul pavimento piccole schegge di legno e di vernice. La forza del colpo sbloccò la finestra e Larry riuscì finalmente a aprirla. «Va tutto bene?» gli gridò Diane. «Sì,» rispose, inspirando l'aria fredda. Poi si mise al lavoro. Per prima cosa dispose alcune assi sulle lunghe travi orizzontali per formare una piattaforma al cibo, poi cominciò una serie apparentemente interminabile di viaggi su e giù per la scala. Fino a quel momento era stato
attento a non badare alla propria stanchezza, ma, ben presto, essa diventò il problema più importante. Si sforzò di concentrarsi su un bagno o una doccia calda o, meglio di tutto, sul materasso di piume del letto matrimoniale nella camera sul davanti. E si impose di continuare a lavorare. Quasi per ironia, pensò, era proprio il continuo ululare dei cani a tenerlo sveglio. Se si fossero zittiti, si sarebbe addormentato, e allora avrebbero potuto impadronirsi della casa. Se solo non fosse stato così stanco, avrebbe riso a quella constatazione. Larry e Diane si scambiarono solo poche parole mentre lavoravano. Larry non si rese neppure conto che tutto il cibo era stato trasportato in soffitta finché Diane non glielo disse. Si portò le mani alla schiena, spingendo forte nello sforzo di alleviare il sordo dolore che provava. «Ecco fatto,» ripeté lei, «è tutto su.» Poi domandò, con voce preoccupata: «Stai bene?» «Sono solo stanco,» ammise lui. Prima di fare l'ultimo viaggio su per la scala, mise la testa sotto il rubinetto dell'acqua fredda del bagno. «Quando comincerò a tirare il cibo,» spiegò a Diane, «dovrai dirigermi. Non riuscirò a vedere da tutte le parti della casa.» «Dimmi quando,» rispose concisa Diane. Guardò Larry scomparire in soffitta, poi tornò alla sua postazione alla finestra di cucina. Tutto era confuso, pensò, erano successe troppe cose contemporaneamente e le riusciva impossibile capire quali delle contrastanti emozioni che provava erano vere e quali false. E la tensione, l'incessante tensione! Ma doveva ammettere che partecipare a qualcosa d'importante le faceva provare una sensazione piacevole. In soffitta si gelava, ma il freddo servì a svegliare Larry. L'odore putrido che si levava dall'umida pila di cibo cominciava a nausearlo, così, senza più aspettare, prese un pezzo di carne e si sporse dalla finestra per lanciarlo, tenendosi forte con la mano sinistra al telaio. Il primo pezzo di carne volò attraverso l'aria e atterrò con un tonfo soffocato a meno di un metro dall'alsaziano ringhiante. Il cane, sorpreso e spaventato, fece un salto indietro, momentaneamente silenzioso, poi guardò con curiosità il nuovo foro sulla neve. Sospettando forse un pericolo, non vi si avvicinò. Larry tirò un altro pezzo di carne quasi nello stesso punto. L'alsaziano si tirò indietro un altro po', incapace di comprendere le piccole esplosioni sulla neve, ma riluttante ad abbandonare il suo posto nel cerchio. Poi guar-
dò gli altri cani come per chiedere consiglio ma essi continuavano quel folle coro, e si fermarono solo quando il cibo gli cominciò a cadere vicino. Larry continuava a lanciare, acquistando a poco a poco un ritmo nell'azione. Piegarsi, sollevare, sporgersi, tirare! Adesso tutti i cani che vedeva erano in piedi e si allontanavano dai fori sulla neve. Il braccio destro cominciò a fargli male, ma non poteva farci molto. Tirare. Tirare. Il cibo atterrava con un tonfo sordo e scompariva nella neve. Niente di tutto ciò era veramente possibile, lo sapeva. Era troppo assurdo. Lui era un architetto di successo, un professionista apprezzato, intelligente, rispettato. Non era possibile che stesse sporgendosi da un davanzale, tirando pezzi di carne a un branco di cani assassini, mezzo pazzo per la paura. Non era proprio possibile. Ma era vero. E quelle cose giù in giardino, quei cani, erano pronti a uccidere. Avevano già ucciso. Quegli allegri animali domestici in giardino. Avevano dilaniato suo padre e gli avevano strappato la carne dalle ossa. Qualche cane, quando il cibo atterrava, reagiva immediatamente, saltando e allontanandosi. Altri osavano esplorare più da vicino, ma nessuno diede neppure un piccolo morso al cibo. Avrebbero accettato quell'offerta? Ritenendo di aver tirato abbastanza cibo ai cani sul davanti della casa, Larry cominciò a gettarlo alla cieca, mirando di lato. «Come tiro?» gridò a Diane. Lei dovette lasciare la finestra per rispondergli. «Lo mandi troppo lontano!» urlò. Lui sentì appena la sua risposta. Al tiro successivo cercò di ridurre la distanza. Il pastore l'aveva visto quasi subito. Quando Larry si era sporto dal davanzale ghiacciato, dei pezzetti di ghiaccio erano scivolati lungo il muro colpendo la grondaia metallica con un leggero tintinnio. Il cane aveva alzato gli occhi sull'uomo che si stagliava contro il tetto bianco, aveva raddrizzato le orecchie, ma non si era mosso. Non capiva cosa stesse facendo. Aspettò che il nemico avesse terminato i suoi strani movimenti, e solo allora si alzò per indagare. Larry osservò il pastore che camminava lentamente in mezzo al branco. Ogni tanto il cane si fermava, annusava del cibo, poi continuava. La decisione del branco sarebbe stata quella che avrebbe preso lui, si rese conto Larry. Se lui avesse mangiato, il resto del branco avrebbe mangiato. E se avessero mangiato, cosa sarebbe successo? Il cielo era scuro e nuovamente minaccioso. Presto sarebbe nevicato di
nuovo. Diane ha proprio ragione, pensò Larry. È una stampa di Currier e Ives. Gli alberi del bosco imbiancati, i campi aperti, la staccionata marrone scuro coperta di neve, il ponticello, l'automobile ferma al di là del ponticello, e anche, spaventosamente belli... La sua mente interruppe bruscamente quel pensiero. Dal subconscio ne emerse subito un altro, la risposta che aveva cercato. La via di fuga dalla casa. La risposta era ferma al freddo, proprio davanti a lui. 9 Mi fa male la testa, mamma,» si lamentò Marcy. «Lo so, tesoro. Fa male anche a me,» disse Diane alla figlia. «Perché abbaiano tanto?» domandò Josh. Diane era seduta sul bordo del letto, facendo del suo meglio per confortare e rassicurare i figli. E cercando di rassicurare anche se stessa. «Sono animali,» cercò di spiegare, ma sapeva che quella non era una spiegazione, «e talvolta gli animali fanno cose che le persone non capiscono.» Non era mai stata troppo brava a dare spiegazioni ai bambini. «Dopey no,» arguì Marcy. Il piccolo cane era impegnato a farsi la tana sotto la spessa coperta fatta a mano. «È perché Dopey ha persone che gli vogliono bene e gli dicono quello che è giusto e quello che è sbagliato.» Che risposta stupida, pensò, completamente inadatta. Non capiscono di cosa stia parlando. «I cani che sono fuori non hanno nessuno che li ami, così non sanno quando sono buoni e quando sono cattivi.» I cani che sono fuori, le venne quasi da ridere. Non erano affatto cani. I cani erano animali docili al guinzaglio, con il pelo ben rasato e nomi fantasiosi. Animali da amare. Beni costosi, di valore. Quelli fuori? Quelle cose crudeli? Quelli erano animali selvaggi. Non erano cani. «Non può dirglielo papà?» «Sta cercando di farlo, tesoro.» E, con sua sorpresa, dovette ammettere che lo stava proprio facendo. Josh si alzò a sedere sul letto, facendo volar via la trapunta a vivaci colori. «Mamma, possiamo andare ad aiutare...» La faccia rosea di Marcy si illuminò. «Shh!» ordinò autoritariamente. «Sentite!» Ascoltarono tutti. Altrettanto all'improvviso e apparentemente in modo altrettanto irrazionale di come era cominciato, il folle coro del branco ces-
sò. Rimasero immobili sul letto, tesi ad ascoltare, con la paura di emettere anche il più piccolo suono, con la paura di infrangere quei magico silenzio. Larry era seduto sulla finestra della soffitta e osservava il crepuscolo che avanzava, quando gli ululati si interruppero. Era lì da ormai un'ora, cercando di fare uno schizzo più dettagliato possibile del panorama. Ogni tanto guardava il branco per vedere se si fossero avvicinati al cibo, che però restava intatto, e aveva praticamente abbandonato la speranza che lo accettassero. L'improvviso silenzio lo sorprese. Si sforzò di capire quale incomprensibile necessità li trattenesse nel giardino. Se non era il cibo, cosa era? Appoggiò il blocco e la matita sulle ginocchia e si mise a osservarli, cercando la chiave del mistero del loro strano comportamento. Il pastore, notò, aveva cominciato a muoversi non appena il branco si era zittito, facendo il giro della casa. Larry lo guardò venire verso l'angolo più vicino e lo perse di vista quando girò dietro quello più lontano. Che diavolo fa, adesso? Mentre il pastore terminava il suo secondo giro intorno alla casa, Larry capì cosa stava succedendo, anche se non ne capiva il motivo. Perché adesso, uno a uno, gli altri cani si accodavano al pastore, e la crescente catena di cani silenziosi seguiva il capo intorno alla casa. Il branco stava nuovamente raggruppandosi. Chiuse con violenza la finestra della soffitta e corse giù. «Cosa ne pensi?» domandò Diane dal suo posto di osservazione in cucina. «Non lo so,» le disse lui. «Per me niente di quello che fanno ha un senso.» «Forse se ne stanno andando.» Larry considerò quella possibilità, solo per respingerla immediatamente. Sarebbe stato troppo bello. «Guarda!» disse Diane, indicando fuori della finestra. I cani avevano smesso di girare intorno alla casa e si erano radunati in giardino. Erano seduti in fila davanti al capo. Il pastore aspettò che i cani si fossero sistemati, poi trotterellò di fronte al branco. Infilò il muso appuntito nella neve e prese in bocca un pezzo di carne. «La prende! «esclamò Diane, afferrando il braccio di Larry e stringendolo forte.
Allontanandosi di qualche passo dalla casa, il pastore lasciò cadere la carne. Poi si spostò di lato e infilò un'altra volta il muso nella neve. Prese qualcosa che sembrava una parte di un filone di pane e la fece cadere accanto alla carne. Affondò altre tre volte il naso nella neve, emergendone con cibo, finché non ebbe eretto una piccola pila. Poi si voltò verso il branco. Come per assicurarsi di avere la loro attenzione. Con lenta ostentazione, il pastore sollevò la gamba posteriore destra e orinò sul cibo. Diane rimase a bocca aperta, poi il suo odio esplose. «Quello sporco animale disgustoso.» Il pastore guardò la casa, emise un penetrante ululato, quindi tornò al suo posto nella fila, gambe allungate, orecchie dritte, di nuovo in paziente attesa. «Rimangono,» borbottò cupamente Larry. Diane allentò la stretta. Lui poteva sentire che l'ottimismo che l'aveva sostenuto per tutto il giorno stava venendo meno. «Perché, Larry?» domandò con voce stupita. «Cosa vogliono?» «Me,» rispose lui piano. Diane rise nervosamente. «Cosa?» «Me, Diane. Lo so che sembra assolutamente pazzesco, ma quei cani vogliono me.» Gli sembrava così chiaro adesso, così inevitabile. Non era più il cibo che cercavano í cani. Quello che volevano, per qualche inspiegabile motivo, era lui. Quello era il loro messaggio, quando avevano rifiutato il cibo. Non bastava, volevano dire, non bastava neppure lontanamente. Diane non capì e alzò la voce nel contraddirlo. «Che significa, Larry? Quegli animali là fuori, Larry, sono degli stupidi cani. Non hanno pensieri di questo genere.» Spiegarlo era difficile, perché non lo capiva del tutto neppure lui. Ma lo sapeva. Con certezza. «Il pastore mi considera suo nemico. Forse a causa della sua compagna, forse per una dozzina di altre ragioni. Ma quel cane è là fuori ad aspettarmi. E finché non esco...» Non terminò la frase. «Non è possibile,» cominciò Diane, cercando di convincere tanto se stessa quanto il marito. «Sono cani. Non hanno l'intelligenza...» «Il pastore ce l'ha,» ribatte lui secco per non lasciare più spazio al dubbio, e la sicurezza della sua voce la confuse ancora di più. La realtà non era più la realtà; era l'incubo all'esterno, quell'impossibile, terribile incubo, a essere la realtà.
«Ascolta,» lo sentì confusamente dire. «Andrà tutto bene. Siamo al sicuro qui. Non possono raggiungerci...» Due forti mani le afferrarono le braccia e una voce la raggiunse da una grande distanza. «Domani arriverà Kenny. E io ho un piano, Diane. Sto mettendo a punto un piano!» Era così stanca. Domani, pensò, saremo a casa e andrà tutto bene. Domani saremo al caldo. E al sicuro. Chiuse gli occhi e gli cadde nelle braccia, senza più sentirlo. «Maledetto merda di cavallo figlio di puttana bastardo...» «Sei arrabbiato!» disse seccamente Bob Pledge. «Perdio se sono arrabbiato!» ammise felicemente Kenny. «La maledetta notte è già qui e lo sa il diavolo dove siamo.» Erano mezzo usciti da una strada sterrata, bloccati su un cumulo di neve e gli restava solo un quarto di serbatoio di benzina. Pledge guardò dietro Hirschfeld. «Ci siamo perduti,» commentò inutilmente. «Allora parliamo d'altro,» rispose Hirschfeld. «Ce n'è più di birra?» Il freddo cominciava a penetrare all'interno, ma Kenny non lo sentiva. La sua mente era troppo presa dalla rabbia. L'unica maledetta volta che Larry era crollato e gli aveva chiesto aiuto, e cosa succede? Bloccato in un mucchio di neve chi sa dove, ecco cosa succede. Il maledetto Larry ha sempre maledettamente ragione. Irresponsabile. Non sa prendersi cura di sé. Ha maledettamente ragione. Spinse di nuovo il motore al massimo. I pesanti pneumatici morsero la terra coperta di neve, scivolarono, fecero di nuovo presa. Mettendo rapidamente la marcia indietro, Kenny cercò di liberare la Land Rover. Indietro - cambio - avanti - cambio - indietro - cambio - avanti. C'era stato! Vietnam! Il corpo dei marines degli Stati Uniti! Sì, cosa sarebbe successo a Larry se gli avessero sparato addosso con quei mortai? L'avrebbe voluto vedere parlare di responsabilità, allora! Un maledetto eroe, ecco cosa era lui laggiù, un maledetto eroico patriota. «Ninna nanna, ninna nanna,» cantò forte Hirschfeld. «Stai zitto!» ordinò Kenny... Cambio-indietro-cambio-avanti... All'improvviso la Land Rover fece un balzo, libera, scaraventando le loro teste all'indietro, ed erano di nuovo in moto. Kenny si piegò in avanti, come se cercasse di far andare la macchina più forte. Non avrebbe sprecato quest'occasione. Maledizione! Era impossibile, era un eroe, e aveva le meda-
glie per dimostrarlo. La risposta era la vecchia Chevrolet coupé. Una volta che ci fosse arrivato, Larry lo sapeva, i cani non avrebbero potuto far niente per impedirgli di scappare. La macchina in se stessa era un'arma. Il solo problema era arrivarci. Fissò il rozzo schizzo che aveva disegnato. Un quadrato rappresentava la casa. Una serie di piccole x erano i cani. Due trattini paralleli indicavano il ponticello e un rettangolino era la macchina. Altre linee ondulate rappresentavano il contorno del terreno. Sebbene fosse difficile, se non impossibile, capire le ondulazioni del terreno coperto di neve, aveva deciso che una stima qualsiasi era meglio di niente. E, molto tempo prima, aveva imparato a introdurre ogni variabile nei suoi progetti. Lo schizzo completo assomigliava alla tavola di un gioco. Lo scopo del gioco era semplicemente quello di portare sei giocatori dal quadrato al rettangolo prima che le x riuscissero a farli a pezzi. Nei brevi attimi che gli ci erano voluti per portare la remissiva Diane di sopra, era scesa la notte. «La mamma è molto stanca,» aveva spiegato ai bambini nel metterla nel loro letto, «così pensateci voi a lei.» «Quando mangiamo, papà?» gli bisbigliò con fare da cospiratore Josh. Diane era immobile, con il respiro pesante, ma regolare. Era stato un giorno duro per lei, lo sapeva, molto più duro di quanto pensava fosse in grado di sopportare. E si era comportata bene. Più che bene, benissimo. Aveva aiutato. «Prima dormite,» rispose con un sussurro al figlio. Corny si era addormentata sul pavimento e Larry la coprì con cura con una coperta. Ma sua madre era sveglia, essendosi esaurito l'effetto delle pillole. «Ciao, mamma,» le disse piano, sedendosi accanto a lei. Lei gli sorrise senza sollevare la testa dal cuscino. «Come ti senti?» le domandò. Frieda chiuse gli occhi e gli rispose lentamente. «Sto bene.» Era il loro primo momento di intimità da quando... Sembrava da sempre. «È stato orribile?» Le vennero le lacrime agli occhi. «È successo tutto così in fretta,» le disse lui con lo stesso tono calmo di voce. «C'erano i cani e lui voleva combatterli.» Lei nascose la testa nel cuscino e singhiozzò. Larry le carezzò delicatamente le spalle e il collo. «Non voleva essere sconfitto, mamma,» le sussurrò. «Non voleva arrendersi,.» Desiderava piangere, aveva bisogno di piangere, ma non in quel momento. Più tardi, si promise, più tardi. Baciandola sul collo e stringendole forte la mano, la la-
sciò che singhiozzava in silenzio. Non avrebbe disturbato nessuno, come aveva sempre fatto. Larry contò nove rintocchi mentre l'orologio sul caminetto batteva le ore. Nove? Non sembrava possibile. Già tre ore? Non aveva idea di quanto fosse rimasto seduto sulla poltrona, a studiare lo schizzo, ma non gli sembrava certo che fosse stato così tanto. Riportò l'attenzione sul foglio spiegazzato. Lo affascinava e allo stesso tempo lo frustrava. La risposta era lì, su quel pezzo di carta. Era lì, lui doveva semplicemente trovarla. Come fare a superare i cani e ad arrivare alla sicurezza della macchina? Era impossibile percorrere quel tragitto camminando normalmente. Gli si chiusero gli occhi. Si costrinse a aprirli. Non poteva dormire. Una galleria? Ridicolo. E, in ogni caso, che differenza faceva? Nessuno di quei piani era necessario. Il mattino sarebbe arrivato Kenny e avrebbe rimandato il branco nel bosco. Larry si rese conto di quanto desiderasse crederci. Ma Kenny... Larry lo conosceva così bene, e nel caso gli fosse andato storto qualcosa, doveva esserci un piano di riserva. Ogni volta che c'era di mezzo Kenny doveva esserci un piano di riserva. Accettato quel fatto, lavorò nella notte. La mancanza di sonno cominciava a farsi sentire, acuendo i dolori degli ultimi due giorni, rendendogli impossibile concentrarsi a lungo. La poltrona era troppo comoda, si rese conto, così si spostò su una sedia di cucina più dura. La risposta era ovvia. Lo sapeva. Perché, allora, non riusciva a vederla? Esaminò di nuovo le possibilità, eliminandole una a una. Non potevano passare in mezzo al branco. Non potevano passare sotto il branco. E non potevano girare intorno al branco. Quindi doveva passargli sopra. Era così semplice. Poi avrebbe portato la macchina rasente la casa, avrebbe aperto una portiera e avrebbe portato al sicuro la sua famiglia. Il quadratino che, sul blocco, rappresentava la casa, si dissolse lentamente nelle x e per un attimo le x furono dentro il quadrato: i cani erano nella casa! Quella terribile immagine lo fece svegliare all'improvviso e lo fece concentrare di nuovo sul problema. Sopra il branco. Tracciò una linea retta dalla porta di cucina alla macchina. No, non la porta di cucina. Non era abbastanza alta. Dalla finestra della soffitta. Cancellò la prima linea e ne tracciò un'altra, questa volta da grosso modo dov'era la finestra della soffitta al rettangolo. Quella sarebbe
stata la via di fuga. Ma come? Più la fissava e più la linea retta sullo schizzo gli sembrava familiare. Come se dovesse essere lì. Come se l'avesse già vista su mille altri disegni, progetti, veline. Naturalmente l'aveva già vista! L'aveva vista su tutti i progetti di tutte le ville alle quali aveva lavorato. La linea telefonica. Il filo robusto del cavo telefonico che collegava ogni casa al resto del mondo. La corda di salvataggio. E poi capì perché sul tetto, all'improvviso, era stato tutto chiaro. Il cavo era stato la chiave. Il lungo, lento cavo nero andava dalla casa a un palo di legno molto al di là della gola. Con lo sguardo, aveva inconsciamente seguito il filo, in linea retta, ma invece di arrivare fino al palo, si era fermato quando era passato sopra la macchina. Era stato il filo ad attrarre la sua attenzione, non la macchina, e non era stato abbastanza intelligente da capirlo. Il maledetto filo del telefono! Il maledetto Graham Alexander Bell! C'era una via di fuga. Sopra di loro. Alle prime luci del mattino sarebbe tornato in soffitta e avrebbe provato la resistenza del filo. Doveva essere abbastanza forte da sostenere il suo peso. Non appena fosse stato sicuro che il filo lo avrebbe tenuto... Si impose la calma. Che diavolo stava succedendo? Dove gli era andato a finire il cervello? Nessuna di quelle azioni da superman sarebbe stata necessaria. Il mattino sarebbe arrivato Kenny. Il mattino o, al più tardi, il primo pomeriggio, però sarebbe arrivato. E potevano facilmente resistere fino ad allora. Non era necessario rischiare la vita con una sciocca azione di equilibrismo. Poteva calmarsi finché Kenny non fosse arrivato, non preoccuparsi, calmarsi... Le palpebre gli si chiusero pesantemente; stava scivolando nell'incoscienza. Si impose di svegliarsi. Non doveva dormire! Si riempì la mente di terribili ammonimenti, ma anche così riuscì appena a tenere gli occhi aperti. Le palpebre erano così pesanti, e il sonno sembrava caldo, sicuro. «Non dormirò!» disse ad alta voce. Questa volta si alzò e andò all'acquaio. L'acqua fredda in faccia fu di aiuto. L'acqua gocciolò sui vestiti e sul pavimento, mentre lui andava alla finestra a guardare in giardino. Erano sempre lì. Il riflesso della luce di cucina fece splendere i verdi occhi ardenti del pastore. Non dormono mai, loro! Decise di saltellare un po' per farsi circolare il sangue. Su-in-alto-duetre-quattro. Lo stirarsi metteva in risalto ogni dolore. Potevano vederlo da là fuori? Su-due-tre-quattro. Dopo aver fatto una dozzina di salti, dovette
fermarsi a prendere fiato. Cani, pensò. «Cani,» disse ad alta voce. «Freddo cane.» Poi: «Muso di cane.» «Accalappiacani. Figlio di un cane.» Buono questo. «Figlio di un cane,» ripeté «Stanco come un cane. Vita da cani. Canile.» Era di nuovo completamente sveglio. «Giorno da cani. Fame cane. Cane mangia da cane. Mondo cane. Canestro.» No, canestro decisamente non c'entrava. «Mondo cane. Can can. Stanco come un cane.» Era una ripetizione? Difficile ricordarlo. «Cane...» Cominciavano a venire più lentamente adesso. «Merda di cane. Città da cani. Corsa di cani.» Non ne trovava più. «Cane... e gatto. Cane...» Seduto al tavolo da cucina, si raffigurava ogni parola che pronunciava. Le quattro lettere: e, a, n, e. Cane, una parola sciocca per indicare un animale sciocco. «Solo come un cane,» ricordò. «Cave canem.» Questa volta non c'era nulla che potesse tenerlo sveglio. Si addormentò con il gomito appoggiato al tavolo di cucina. Stava salendo su un trenino di un luna park con una Diane più giovane. Entrarono nel buio attraverso due alte porte di legno che si aprirono all'improvviso; erano nel sedile anteriore di una carrozza rossa con decorazioni a spirale dorate sui fianchi. Una strega sghignazzante si piegò in avanti e fece una risata, ma la lanterna che teneva in mano illuminò il loro cammino, mentre dal suo antro passavano in una caverna, dove schivarono per un pelo una frana. Proprio mentre stavano per essere schiacciati da un macigno gigantesco, la carrozza rossa fece una brusca curva a destra e vennero intrappolati in una gabbia per animali, da dove guardavano attraverso le sbarre gli spettatori che li indicavano ridendo. Un'altra veloce curva e cominciarono a sprofondare nell'oscurità. Diane emise un breve grido e, nell'inattesa caduta, i lunghi capelli le volarono all'indietro. Nel sogno Larry rise. Rallentarono, quasi fermandosi, nel buio più nero. Inaspettatamente, sottili fili di ragnatela gli toccarono i capelli, solleticandoli con terrore, e urlarono. E poi risero. La carrozza accelerò e cominciò a salire, con le ruote che facevano un suono secco sulle rotaie mentre saliva sempre più in alto. Più in alto. Poi li fece precipitare in un covo di pirati dove poterono assistere a un'impiccagione pubblica. Un bucaniere con un occhio solo lanciò un urlo e agitò contro di loro la scimitarra. Ma avevano già svoltato un altro angolo, verso una nuova avventura. Su in alto c'era un'altra porta e, al buio, Larry non riusciva a vedere cosa fosse esattamente. Nell'avvicinarsi, si rese conto che erano le gigantesche fauci di un bulldog che si aprivano e si chiudeva-
no in continuazione. Grandi occhi luminosi li fissavano con aria minacciosa. Due luccicanti incisivi, affilati e insanguinati, li stavano per accogliere. Larry si gettò con tutto il peso sul davanti della carrozzella, cercando di fermarla. Non in bocca, implorò. Ma la carrozzella continuava ad avvicinarsi. Gli occhi divennero ancor più grandi. Le fauci si chiusero con forza, poi si aprirono di nuovo, in attesa. E alla fine passarono sopra i grossi denti, entrando nella bocca del cane. Le spaventose mascelle si chiusero dietro di loro. Non vide più nulla. Sulla sua spalla una mano lo scuoteva con gentilezza. «Larry,» lo chiamava sussurrando una voce remota. «Svegliati! Larry. Devi venire di sopra. C'è un cane di sopra.» Si stropicciò gli occhi per schiarirsi la vista. Corny Cornwall era chinata su di lui. Un sogno? No, il suo corpo fu lentamente messo a fuoco. «Cosa, Corny?» domandò irritato. Si era addormentato, maledizione, si era addormentato. «C'è un cane di sopra. Devi venire su e mandarlo via. Non deve stare in casa.» Larry respirò profondamente, cercando di schiarirsi la mente. «Va bene, Corny,» rispose con gentilezza. «Fammi vedere dov'è il cane.» Come aveva fatto ad addormentarsi? Quanto aveva dormito? Perlomeno un'ora, calcolò. Forse anche di più. Salirono insieme, Larry un passo indietro per sorreggere la vecchia donna. A metà scale l'orologio cominciò a scandire le ore, annunciando le tre. Aveva dormito tre ore. Non sembrava possibile. Presto sarebbe sorto il sole e allora avrebbe dovuto cominciare a lavorare. A lavorare? Il piano, ricordò improvvisamente. I particolari non gli erano chiari, avrebbe dovuto controllare i suoi appunti. In cima alle scale, Corny voltò verso la sua stanza. La porta era rimasta aperta. Larry entrò nel corridoio e cominciò a seguirla. «Dov'è il cane, Corny?» domandò. «L'ho chiuso in bagno,» gli disse. «È entrato dalla finestra del corridoio ed è andato in bagno, così gli ho chiuso la porta dietro.» «Brava.» Le sorrise. Era freddo nel corridoio, molto più freddo che al pianterreno. Doveva chiudere la finestra. La porta del bagno era veramente chiusa. Mentre stava per aprirla, Larry si fermò e guardò Corny. «Va tutto bene,» sussurrò piuttosto forte, poi aprì la porta. Il cane da presa dorato lo colpì in pieno petto.
La sorpresa, quanto l'impatto, lo mandò a sbattere contro il muro. Cadde pesantemente, facendosi male alle braccia e alle gambe. Il cane gli fu sopra addirittura mentre stava cadendo, attaccandolo, mordendolo, addentandogli selvaggiamente ogni parte esposta del corpo, cercando di raggiungergli la faccia. Diane comparve quasi immediatamente sulla porta. Questa volta non si tirò indietro, questa volta, senza esitare, si gettò sul cane. Lo prese per un fianco, cercando di tirarlo via, ma, data la sua forza, le era impossibile smuoverlo. Istintivamente, Larry si rannicchiò il meglio che poté, cercando disperatamente di proteggersi il corpo. Dette calci al cane, forti colpi alla cieca, finché, finalmente, uno di quei calci disperati lo prese al petto, gettandolo un po' all'indietro. Ma Larry non ebbe tempo di riprendersi, perché la bestia gli fu di nuovo subito addosso, un incredibile fascio di violenza di ventotto chili, i cui denti cercavano una presa mortale. Le unghie del cane gli passarono sulla faccia, lacerando la pelle. In qualche modo Larry riuscì ad allontanare di nuovo il cane. Ma la furia dell'attacco l'aveva spossato. Si appoggiò esausto alla parete, guardando con aria stupida il ringhiante animale accovacciato davanti a lui, che si stava preparando a un nuovo balzo. Diane tornò di corsa nella stanza dei bambini, a cercare un'arma. Qualsiasi cosa, qualsiasi cosa sarebbe andata bene. Non c'era niente. I ringhi che venivano dal corridoio la incitavano. Disperatamente, afferrò la sottile base bianca di una lampada da tavolo, strappando il filo dalla presa. Il paralume cadde a terra, mentre lei tornava di corsa dal marito in pericolo. Diane cercava un'occasione per colpire il cane, ma quello si muoveva troppo velocemente, senza lasciare aperture, parti vulnerabili. L'animale aveva preso Larry per la coscia e non mollava, con i denti affilati affondati nella carne. Urlando selvaggiamente, Larry cercò di strapparsi il cane dalla gamba sanguinante. Nel farlo, lasciò scoperto il collo. L'animale liberò la gamba e puntò alla gola, proprio mentre Josh usciva correndo dalla sua stanza. Il bambino andò addosso al cane da dietro e gli diede una spinta. Automaticamente, il cane si voltò e, senza guardare, dette un morso al nuovo nemico, afferrandogli l'avambraccio e affondando i denti. E allora successe qualcosa. Il cane dorato, guardando il bambino, cambiò quasi istantaneamente. Per un attimo non fu più lo stesso animale cru-
dele, come se la vista del piccolo gli avesse fatto ricordare qualcosa da tempo dimenticata. Rimase immobile un altro secondo e Diane gli fracassò la lampada sul cranio, uccidendolo all'istante. Larry giaceva piegato in due sul pavimento, conscio del dolore e di una rabbia opprimente. Era stato battuto. Il cane aveva sconfitto la sua arma più potente, la sua intelligenza umana, rendendolo vulnerabile. L'animale era penetrato nelle sue mura. Lui aveva lasciato una sola apertura, una finestra del corridoio del primo piano, e il cane l'aveva scoperta e aveva lanciato il suo attacco. Fisicamente la bestia aveva vinto. Lui era vivo solo perché all'ultimo momento le sue remore ereditarie l'avevano tradita. Però la vittoria dell'animale era stata più grande. La gamba gli faceva male, ma il dolore peggiore era la consapevolezza di valere meno di quanto avesse creduto. Suo padre era morto quando lui l'aveva lasciato indietro, quando era scappato. E adesso era stata sua moglie a dover agire per salvargli la vita. I cani, quei putridi, disgustosi cani, l'avevano umiliato, l'avevano sminuito come uomo. Diane si chinò su di lui. «Come ti senti?» domandò. In qualche modo aveva assistito i bambini e calmato le due donne anziane. Larry non riuscì a guardarla. «Bene,» borbottò, «va bene.» Il corpo del cane da presa giaceva a breve distanza da lui, i peli marrone dorati intrisi di sangue. Diane gli strappò la gamba dei pantaloni per esaminare la ferita, ma Larry si rendeva appena conto delle sue azioni. Gli era difficile distogliere gli occhi dal corpo del cane. «Pensi che avesse la rabbia? Ha morso anche Josh, abbastanza profondamente,» gli disse Diane. Da morto, il cane era quasi bello. Rabbia? «Lava bene le ferite,» le rispose. Che ne sapeva lui della rabbia? Iniezioni? Ne aveva vagamente sentito parlare. Dozzine, per un lungo periodo, punture dolorose nel fegato. All'improvviso ricordò. «Dobbiamo tagliare la testa del cane.» Se lei reagì, lui non se ne rese conto. «Perché?» La chiarezza dei suoi pensieri lo sorprese. «Dobbiamo portarla con noi. Possiamo vedere se aveva la rabbia.» «Ce la fai a alzarti in piedi?» Andarono insieme in cucina dove lei gli lavò le ferite e gli fasciò stretta la coscia. Il dolore era continuo, ma sopportabile. Un altro debito, lo sapeva, che avrebbe dovuto essere saldato.
Il pastore aveva sentito il rumore della lotta: il cane ascoltò, capì e non fu sorpreso quando la battaglia terminò senza un ululato di vittoria. Era stato un tentativo efficace. Nella cittadella del nemico era stata aperta una breccia. E il nemico si stava stancando. Sarebbe stato il nemico stesso a fornire il varco finale. Fino a quel momento il branco avrebbe seguito la sua guida. Ma sapeva che alla fine avrebbe trionfato, che avrebbe ucciso quel nemico. 10 La pelle alla base del collo del cane si tagliava con facilità. Larry aveva posato il corpo dell'animale sulla madia, con la testa e il collo sopra l'acquaio. Affondò con cura la lama nella carne, vicino a quella che immaginava essere la clavicola, facendo più forza sul coltello quando era necessario recidere tendini e muscoli. Al primo taglio, Larry scoprì un collare consumato. Lo tolse, domandandosi come potessero essere le persone che lo avevano allacciato, che avevano posseduto quel cane, lo avevano educato, e poi l'avevano abbandonato sull'isola a morire. In punto di morte, la bestia era nuovamente tornata un animale domestico. Gettò il collare sul pavimento, vicino a un sacco della spazzatura aperto. Fece un taglio netto, e poco sangue appena gocciolò nell'acquaio. Larry provò ribrezzo soltanto quando la testa si piegò all'indietro e gli occhi marrone si aprirono con la fissità della morte. Diane passò il resto della notte andando da un piano all'altro, accudendo chi sembrava averne più bisogno. Prima i bambini, poi Larry, poi di nuovo i bambini, finalmente le due donne. I denti del cane avevano lasciato numerosi fori sull'avambraccio di Josh. Non sanguinavano molto, ma il braccio era gonfio e la zona intorno al morso aveva cominciato ad assumere un malsano colore giallo marrone che la preoccupava molto. Pareva comunque che Josh prendesse tutto bene e dopo che Diane gli ebbe pulito e fasciato con cura il braccio, smise di piangere. Larry, notò, era diventato stranamente calmo, ma sembrava pieno di energia. Immaginando che fosse una conseguenza della lotta, non gli diede molta importanza. Tra poche ore si sarebbe levato il sole e la dura prova sarebbe presto finita. Larry sarebbe stato bene, le sue ferite erano pulite e meno profonde di quelle di Josh, così quello che la preoccupava di più era l'effetto psicologico che il branco poteva aver avuto sui bambini. Aveva
già deciso di consultare uno psichiatra infantile al ritorno in città, e contava su di lui perché gli orrori degli ultimi giorni non lasciassero tracce permanenti. Sperava che i bambini superassero quella prova, ne traessero un insegnamento e forse divenissero anche più resistenti. Ma, dio, sperava che non restasse in loro una ferita indelebile. Larry scoprì che afferrando il muso e sollevando la testa, riusciva a tagliare con più facilità. Non provava alcuna compassione per il cane. Aveva attaccato e aveva cercato di ucciderlo e invece era stato ucciso. Il suo solo rimpianto era di non star decapitando il pastore, quel truculento mostro grigio, che sedeva così irraggiungibile sulla neve. Tagliava verso l'alto, incidendo una linea frastagliata in direzione dell'orecchio. Era stata pura fortuna, ecco tutto. Era impensabile che il branco potesse sapere che quella finestra era aperta. Il cane era chiaramente salito sulla pila di rifiuti sul retro, da lì era saltato sul tetto della veranda e poi era passato dalla veranda alla finestra aperta. Non potevano saperlo. Continuò a tagliare, ora dietro al collo, lasciando la testa appesa per poco più di un pezzetto di pelle. La lingua pendeva grottescamente. Il pastore non era certamente stupido, anzi, era un animale insolitamente intelligente. Ma era abbastanza intelligente da vedere una finestra aperta e capire che era una via di accesso alla casa? Impossibile. Era fortuna. Sciocca, stupida, pura, vecchia fortuna. Il cane da presa era venuto solo per lui. Su quello non potevano esserci dubbi. Doveva aver visto Corny, o almeno doveva averla fiutata quando lei era andata a chiudere la porta del bagno. Ma non l'aveva attaccata; aveva aspettato lui. In qualche modo, in qualche incredibile, mistico modo, il pastore aveva comunicato al cane da presa il suo odio per Larry. Il cane lo aveva aspettato! Doveva esserci una spiegazione razionale, e decise che avrebbe consultato un esperto non appena fossero tornati a casa. Larry sollevò con cura dall'acquaio la testa recisa dell'animale e la lasciò cadere in una busta di plastica. Dopo aver fatto un nodo alla busta, la infilò in un sacco per la spazzatura marrone e la mise in frigorifero. Probabilmente non aveva importanza dove veniva tenuta, ma Larry non ne era sicuro, e il tenerla al fresco non poteva fare danni. Sulle prime pensò che potesse essere complicato sbarazzarsi del corpo del cane, ma trovò rapidamente una soluzione. Se ne sarebbe servito per dimostrare una cosa. Avrebbe comunicato al pastore il proprio odio. Larry cominciava ad aspettare con ansia l'inevitabile confronto con il pastore. Sorrideva amaramente mentre risaliva in soffitta.
Sulla terraferma, quel mattino, il sole non voleva spuntare. Poi le scure nubi tempestose si schiarirono un po' e fu l'alba. La Land Rover arrivò sul molo poco prima che si facesse luce completamente e i tre passeggeri scesero sotto una leggera nevicata. La loro attenzione venne subito attratta dalle acque infuriate dello stretto. L'alta marea era prossima e onde di un metro e mezzo si infrangevano sui piloni, mandando spruzzi di schiuma nell'aria. Le poche barche da pesca ormeggiate nell'insenatura salivano sulle acque, poi, come se il mondo sotto di loro scomparisse improvvisamente, precipitavano sbattendo sulle onde. «Gesù Cristo!» disse impressionato Len Hirschfeld, «guarda come balla quella maledetta acqua.» Kenny spostò i piedi a disagio. «Non è proprio tempo da vela,» ammise. «Non possiamo uscire con questo tempo,» disse Hirschfeld con decisione. Kenny non gli prestò attenzione. Essendo cresciuto sull'isola, era un marinaio esperto. Le acque erano più agitate di quanto avesse pensato, ma la traversata non era certamente impossibile. Non appena avessero trovato una buona barca, potevano passare a nord di Orient Point, restando vicini a terra, attaccati alla spiaggia... Bisognava procedere con ordine. Trovare una buona barca. «Guardiamo cosa succede,» disse, senza sbilanciarsi. Tagliando la fitta foschia che sovrastava il porto, andarono al Tony's Fishnet, un piccolo bar di alluminio e plastica. Una grande rete era appesa al soffitto insieme a due ciambelle di salvataggio, una della Maria Elgarant e l'altra della Miss Meredith. In un angolo, un gruppo di pescatori invernali che avevano sperato di uscire erano raccolti intorno a una caffettiera argentata piena di macchie. Kenny andò da loro. Rimase qualche minuto in silenzio, vicino al tavolo, aspettando che dessero segno di essersi accorti della sua presenza. Ma l'attenzione del gruppo era attratta da un uomo bruciato dal vento la cui faccia era così coperta di rughe che a Kenny venne in mente una tenda alla veneziana. Il vecchio pescatore stava raccontando una lunga storia confusa su un pescatore di aragoste di Long Island che aveva cercato di applicare un computer alla sua barca. Kenny non capiva il significato della storia però continuò ad ascoltare, ridendo quando gli sembrava il momento giusto. Sapeva che i pescatori si erano accorti di lui, ma c'era un protocollo che andava osservato, così aspettò con pazienza.
Finalmente il narratore finì, provocò una grande risata, si appoggiò allo schienale della sedia, bevve il resto del caffè, e si rivolse a Kenny. «Ragazzo?» «Ho un problema,» esclamò senza tergiversare Kenny. «Devo andare all'isola di Burrows.» «Hai un problema davvero!» commentò ad alta voce uno dei pescatori più giovani, guardandosi in giro in attesa di una risata. «Ho intenzione di pagare,» disse Kenny. Quello che aveva raccontato la storia tirò un profondo respiro, come se volesse essere sicuro di avere abbastanza aria per portare a termine una lunga dichiarazione, ma in realtà solo per assicurarsi che tutti gli prestassero attenzione. «Ragazzo,» disse con calma, «puoi pagare una barca da pesca nuova? Perché è ciò che ti può costare. Il canale è molto basso vicino all'isola, troppo basso per quello che pescano la maggior parte delle nostre barche, e oggi c'è un bel vento laggiù. È per questo che adesso non siamo fuori. E non c'è nessuno qui che voglia essere in acque basse, e neppure vicino, quando quel vento comincia a soffiare.» «Devo arrivare là,» continuò Kenny, «sono disposto a pagare molto.» Il narratore guardò Kenny come per domandare se avesse sentito quello che aveva appena detto. «Buona fortuna, ragazzo,» gli disse, poi gli girò le spalle e tornò a un'altra conversazione. Kenny capì di essere stato congedato. Ma nel tornare da Pledge e Hirschfeld dall'altra parte della piccola stanza, mentì con sicurezza: «Ci pensano.» Dietro di lui, il narratore si piegò in avanti e disse qualcosa che provocò un grande scoppio di risa. Tonfi ritmici sulle scale spinsero Frieda Hardman alla porta della sua camera. L'aprì quanto bastava per capire la causa di quello strano suono in corridoio. Vide Larry che saliva le scale allndietro, trascinando qualcosa di pesante. Non riusciva a vedere cosa fosse, anche dopo aver aperto la porta un po' di più. Arrivato in cima alle scale, Larry si riposò un attimo, poi continuò a tirare il suo strano carico lungo il corridoio. Si trattava di un grande lenzuolo bianco con qualcosa avvolto dentro. Larry lo trascinava tenendolo per i quattro angoli. Mentre le passava davanti - chiuse per un attimo la porta per non dare al figlio l'impressione di spiare - Frieda intravide, avvolto nel lenzuolo, quello che sembrava il corpo di un cane marrone. Capì immediatamente che era il cane che aveva attaccato nel corridoio.
Dopo che lui fu passato, andò dall'altra parte della porta e guardò attraverso la fessura fra i cardini. Larry aveva un aspetto così stanco, così esaurito. In fondo al lenzuolo c'era una macchia, e anche se sembrava marrone, sapeva che era sangue. In fondo alla scala a pioli che portava in soffitta, Larry si mise quella specie di sacco sulla spalla destra. Salì lentamente la scala, portando in soffitta il lenzuolo e il suo macabro contenuto. La sola cosa in tutto quel mondo coperto di neve che il sergente Stewart Stromfeld desiderasse era un po' di sonno. Le poche ore che era riuscito a riposarsi sullo scomodo lettino di una cella nel retro praticamente non gli avevano che stimolato l'appetito per quel tipo di cibo. Era rimasto incastrato nella stazione dall'inizio della tempesta, sopravvivendo con i panini di roast beef freddo che Jerry gli portava dalla porta accanto, cercando di fare in modo che meno della metà dell'organico risolvesse un numero di situazioni di emergenza eccessivo anche per la forza al completo. Nelle ultime ventiquattr'ore c'erano stati due bambini dispersi, un parto in una macchina bloccata, il tetto di una sala di bowling che era crollato, una Cadillac che era entrata nel salotto di una brava famiglia borghese e la scoperta di impronte lunghe un metro alla fine di Maple Street a Port Jefferson, accompagnata da un rapporto sull'avvistamento di un uomo «alto circa tre metri, completamente coperto di peli, che camminava eretto e che era scappato quando era stato visto dalla canuta bibliotecaria alta un metro e sessantacinque». E poi c'erano quelle persone dell'isola di Burrows che telefonavano di nuovo per chiedere alla polizia di essere salvati da un branco di cani selvaggi. Stromfeld voleva suggerir loro di raccontarlo alla Società protettrice degli animali, ma sapeva che il capitano Kelly non avrebbe apprezzato il suo tentativo di umorismo. «Senta,» comunicò al suo interlocutore, «mi piacerebbe poter mandare qualcuno ad aiutarvi, ma la tempesta sta peggiorando. Qui nevica un'altra volta e questo pomeriggio dovrebbero cadere altri dieci centimetri. Siamo noi ad avere un bisogno disperato di aiuto.» Si riprese. Come professionista, non doveva lamentarsi con i civili. «Farò del mio meglio per mandarvi qualcuno domattina al più presto,» gli promise con gentilezza. «Non appena avremo gli uomini passeremo su tutte le isole. Ci fermeremo prima a Burrows, glielo prometto.» «Che ne dice della guardia costiera?» domandò la voce al telefono. «Impossibile. Hanno appena perduto una piccola barca che raccoglieva i superstiti del relitto greco. Ora sono fuori a cercare l'equipaggio. Rispondono solo alle chiamate d'emergenza, e se non è un'emergenza si deve a-
spettare il turno.» «Ma questa è un'emergenza,» spiegò la voce. «Dovete aspettare lo stesso il vostro turno.» Dall'altra parte del telefono ci fu un silenzio riluttante. Andiamo, disse silenziosamente il sergente Stromfeld, non posso restare qui tutto il giorno. «Sergente,» gli crepitò finalmente la voce nell'orecchio, «sa quanto è il periodo di incubazione della rabbia?» Rabbia? «Senta, io non me ne preoccuperei. Sull'isola non c'è stato un caso di rabbia da...» «Lo sa?» insisté la voce. «Non esattamente. Direi di andare dal dottore il prima possibile.» Come faceva a saperlo? Era un poliziotto, non un dottore. La persona all'altro capo del telefono fece un profondo sospiro. «Grazie, agente.» Dopo una breve pausa, concluse: «Se solo potete venire prima...» «Se possiamo veniamo,» terminò il pensiero. «Sappiamo dove siete.» Dopo aver riappeso, il sergente Stromfeld si mise a battere il rapporto a macchina. Dal punto di vista della credibilità, decise che aveva più fiducia nel branco di cani selvaggi che nel mostro di tre metri. Diane riappese il telefono, poi rimase in silenzio, ascoltando il marito che si muoveva in soffitta. Non era più stanco. Anzi, si sentiva sveglio e riposato. L'aria fredda in faccia, mentre si sporgeva dalla finestra per guardare il branco, gli dava una sensazione meravigliosa. I cani erano calmi, si limitavano a cambiare ogni tanto posizione. Neppure loro dovevano stare troppo comodi là fuori, pensò. Peccato. Peccato davvero. Larry aveva abbastanza fiducia in se stesso da alzarsi in piedi sul davanzale. Il costante venticello gli faceva fluttuare la camicia e gli gonfiava i pantaloni, ma quell'aria rude, da capitano di nave, gli piaceva. Stando in piedi aveva anche una vista molto migliore della zona. Come ricordava, il cavo del telefono passava esattamente sopra la macchina. Addirittura, il centro del cavo, il punto dove si avvicinava più a terra, sembrava quasi esattamente sulla macchina. Il salto dal cavo al tetto dell'auto coperto di neve non doveva essere più di un metro e mezzo, due. Sporgendosi un po' vide che il cavo era attaccato a un terminale all'angolo del tetto della casa, circa a cinque metri di altezza. In qualche modo avrebbe dovuto controllare la resistenza di quel collegamento. Se non era abbastanza resistente da sopportare il suo peso, avrebbe dovuto trovare un
modo per rinforzarlo. L'altro capo del cavo, quello attaccato al palo, non poteva essere controllato. Il dolore gli era scomparso con l'eccitazione. Apparentemente molte ore prima, Diane gli aveva fasciato la coscia e gli aveva lavato i graffi in faccia. Il solo residuo della lotta che gli desse veramente noia era una leggera ferita sulla palpebra che faceva periodicamente battere, però ci si sarebbe abituato. Direttamente sotto di lui, il terreno era ingombro del cibo che il branco aveva rifiutato. Fin dove riusciva a vedere, i pezzi di cibo butteravano la neve. Dall'alto le macchie multicolori facevano assomigliare il giardino a una tavolozza. Vicino alla porta di cucina, un mucchio di neve turbinante copriva i resti dell'airedale. Dall'altra parte della gola, un secondo mucchio di neve nascondeva il corpo dilaniato del pastore più piccolo. Nessuno dei due corpi era stato toccato dagli animali affamati. Larry aveva deciso di cercare di distrarre i cani con il corpo del terzo che aveva ucciso, il cane da presa, e poi di controllare l'attacco del cavo telefonico mentre loro erano occupati con quello. Rientrando in soffitta, prese il corpo del cane per le zampe anteriori, stando attento a non toccare il collo reciso, e lo poggiò sul davanzale. Il corpo emanava uno strano odore, una combinazione di sangue secco e di pelo sporco. Alzandolo più in alto che poteva, lo gettò dalla finestra. Non ce la fece a superare il bordo del tetto e una delle zampe prese la grondaia ed emise un brusco rumore, facendo anche rovesciare il cane mentre cadeva con un pesante tonfo. Larry sorrise. Per la prima volta da quando avevano assediato la casa, i cani ruppero la loro formazione, ammucchiandosi intorno al corpo decapitato, girandogli intorno, annusandolo, alcuni addirittura toccandolo con il muso. Dai confusi uggiolii e dagli occasionali latrati, Larry capì di averli toccati. Aveva ripagato una piccola parte del suo debito. Ma era solo l'inizio. Avrebbe fatto vedere loro. Questa battaglia non era fra uomo e cane, si disse, ma fra intelligenza umana e intelligenza animale. Così non avevano nessuna possibilità contro la sua mente istruita e, adesso, del tutto sveglia. Lasciando il branco intorno al corpo del cane da presa, Larry risalì sul davanzale e si preparò ad arrampicarsi sul tetto. Rivolto verso la soffitta, si chinò, poi, con cautela, appoggiò le ginocchia sul davanzale. Muovendosi piano, conficcando le unghie nel legno del telaio della finestra, poggiò il
piede destro sulla neve. Scivolò. Lo tirò su e provò di nuovo, questa volta poggiando con forza la punta del piede sul tetto. Scivolò un'altra volta. Spostandosi molto lentamente, rientrò nella soffitta, si tolse le scarpe e i calzini e si arrotolò il fondo dei pantaloni. Poi uscì di nuovo sul tetto. Sentiva le dita dei piedi far presa sulle ruvide tegole sotto la neve. I piedi nudi davano un attrito molto migliore delle suole di cuoio, e vide che riusciva a controllare gli slittamenti. I piedi gli facevano male. Era una sensazione bellissima. Si allontanò a poco a poco dalla finestra, finché non fu con lo stomaco contro il tetto, con le mani sempre aggrappate al davanzale. L'inclinazione non era marcata come aveva pensato, non più di trenta gradi, certamente meno di quella dei tetti a punta delle scatole dei sobborghi che aveva progettato lui. Quando fu sicuro che non c'era molto pericolo di scivolare, cominciò a girare intorno al tetto, centimetro a centimetro, per abituarsi alla presa. A ogni movimento, dal tetto cascava una piccola palla di neve, ma quello non lo preoccupava. Anzi, i punti scoperti gli avrebbero facilitato il ritorno. Facendo molta attenzione, si spostò di lato, verso la parte destra dell'abbaino, quella più vicina al giardino, tenendosi bene al davanzale. Tolse con cautela una mano dalla finestra e la infilò nella neve, sulle tegole, cercando di trovare un modo per avere una presa salda. Alla meglio, la parte sovrapposta delle tegole forniva un debole appiglio. Prendendo il martello dalla cintura, ne infilò la parte con la quale si tolgono i chiodi sotto una tegola e tirò. La tegola emise un gemito e si staccò leggermente, permettendogli di passarci sotto le dita e di tenerla, dandogli una presa molto più salda. Ora sapeva come avrebbe fatto ad arrivare al terminale. Allungandosi più che poteva, sempre senza togliere la mano sinistra dal davanzale, Larry allentò una seconda tegola. Poi, appoggiato il martello fra sé e il tetto, l'afferrò con la mano destra. Tirò meglio che poteva, controllando che lo reggesse, e quando pensò che l'avrebbe fatto allentò la mano sinistra, tenendola pochi centimetri sopra il davanzale, pronta ad afferrarlo istantaneamente. Adesso era sul tetto. E aveva paura. Per un momento trattenne il fiato. Poi respirò lentamente ma non scivolò. Con molta attenzione, infilò allora le dita della mano sinistra sotto la prima tegola, graffiandosi il dorso della mano sopra il tetto, e la strinse forte. Sicuro che le tegole avrebbero tenuto il suo peso, cominciò ad avanzare.
Ogni movimento era faticoso e doloroso. Il freddo cominciava a tormentarlo. La leggera brezza gli soffiava neve fresca sulla faccia, irritandogli l'occhio graffiato, e i bordi ruvidi delle tegole gli scorticavano la pelle. Ma continuò ad avanzare piano, allentando una tegola con il martello, afferrandola con la destra, e spostandovi la mano sinistra, dopo essersi assicurato che reggesse. La distanza da coprire era di circa quattro metri e mezzo, e quando fu a metà strada, si fermò un momento a riposare. Per un attimo si domandò se Diane si sarebbe accorta che era sul tetto. Non era sicuro se lo volesse o no. Sotto di lui vide che i cani avevano perso interesse al corpo del compagno, anche se qualcuno di loro spostava la neve con le zampe, come se stessero cercando di coprirlo. Poi Larry ricominciò a muoversi nello stesso modo lento ed esasperante. Allentare, allungarsi, afferrare, cambiare mano. Così superò il tratto di tetto che lo separava dal terminale del telefono. Quando raggiunse il bordo che dava sul giardino lasciò scivolare lentamente i piedi sulla grondaia di stagno. Prima di appoggiarvisi, la provò con molta cura, e scoprì che, se non avesse spinto, l'avrebbe retto. Poi, con metodo, si girò e cominciò a esaminare il raccordo. Frieda Hardman andò in cucina, interrompendo le solitarie considerazioni di Diane sulla sicurezza dell'appartamento di New York. «Mi dispiace, Diane,» cominciò, leggermente imbarazzata, sentendosi un'intrusa nella propria cucina, «ma non riuscivo più a stare in quella stanza.» «No, no, no!» disse Diane, «si sieda, per favore si sieda.» Notò che la suocera si era finalmente tolta l'orribile vestito a fiori che aveva indossato a pranzo e l'aveva sostituito con una veste da casa ugualmente brutta. E, pensò, com'era strano che la sua mente notasse delle cose così futili. «C'è del caffè sul fuoco. L'ha fatto Larry.» Frieda rifiutò l'offerta con un cenno di mano. «No, grazie. Sto bene.» Aveva delle pesanti borse sotto gli occhi, valigie le avrebbe chiamate Larry. Aveva pianto. Bisognava dire qualcosa, pensò Diane. «Signora Hardman,» cominciò. Come suonava strano, orribilmente formale. «Mi dispiace tanto. Sono...» Mosse una mano, non sapendo come continuare. «Lo so,» le disse Frieda, cercando di sorridere. «So quanto sia terribile per...» Soffocò un singhiozzo, tirò un lungo respiro, poi continuò, «so che è una cosa terribile. E...» «Per tutti noi.» Tutto sarebbe stato più facile se fosse riuscita ad andare
dall'altra parte del tavolo e ad abbracciare l'anziana donna. Ma Diane non ne era capace. Cercando di continuare a parlare di qualcosa, di qualsiasi cosa, si lanciò. «È come un romanzo gotico. Persone intrappolate in una casa. Qualcosa di spaventoso... di terrificante all'esterno. Solo che non si tratta di un libro. Sta succedendo a noi.» In quel momento una sigaretta avrebbe avuto un sapore meraviglioso. Una sigaretta? Un po' di buona marijuana! Non aveva né l'una né l'altra. Le sigarette facevano male e macchiavano le dita di giallo e la marijuana la fumava solo con gli amici, non nel loro appartamento. Larry non voleva. «Che succederà?» «Dovrebbe arrivare Kenny.» «Kenny,» disse dolcemente l'anziana donna, come se stesse parlando di un bambino. «Kenny.» «Perché non vanno d'accordo?» Frieda sapeva che la domanda era stata rivolta a lei. «Scusa?» «Larry e Kenny, perché non vanno d'accordo?» Ci pensò. Perché i suoi due figli non andavano d'accordo? Perché non erano amici? Per tanti motivi, si disse. Erano così diversi. Kenny era sempre stato un bambino indipendente, mentre Larry no. Kenny era così esuberante, un avventuriero coraggioso. Larry aveva cominciato a leggere presto, era attratto dai libri. Larry odiava chiedere aiuto al fratello minore, Kenny si risentiva quando veniva confrontato con il fratello maggiore nella scuola. Larry era fidato, Kenny meno, concluse. Erano sempre stati diversi, e da quelle differenze era nato del risentimento, forse addirittura dell'odio. Ma a lei non era mai riuscito di cambiarli. «Sono sempre stati diversi,» fu tutto quello che disse, chiarendo che non voleva parlarne. Diane si fissò le bianche dita sottili. Da qualche parte, a un certo punto, una delle lunghe unghie si era incrinata e una si era addirittura rotta. Quella spezzata aveva il bordo frastagliato, come uno di quegli ingrandimenti microscopici di lamette nella pubblicità televisiva, pensò assurdamente, e sorrise. Andava limata, lucidata, ricostruita. Quando fossero tornati. Quando avesse avuto tempo. Forse. «Siamo davvero bloccati in casa?» domandò Frieda. «In questo momento sì. I cani non...» Diane si interruppe, rendendosi conto che la suocera non l'ascoltava. Frieda Hardman era alla finestra della cucina, perduta nei suoi pensieri. Scrutava fuori i cani che oziavano in un campo di neve. A Thomas i cani erano piaciuti molto. Capiscono i pensieri, diceva, sono intelligenti.
Andatevene, pensò, andatevene e lasciateci in pace. Ma lei non si spostò dalla finestra e il branco non si mosse. Il filo del telefono era fatto di un cavo sorprendentemente pesante, rivestito di gomma e ben fissato a una serie di agganci metallici. Sebbene non ci fosse modo di determinare esattamente quanto peso avrebbe tollerato prima di sganciarsi o di spezzarsi, Larry pensava che l'avrebbe sorretto. Era un semplice problema di fisica: gli attacchi e il cavo dovevano essere in grado di sorreggere il peso del cavo stesso. Nella maggior parte dei complessi americani quel peso era trascurabile, perché le case erano raggruppate e i pali del telefono gli uni vicini agli altri. Ma in campagna era diverso. Lì, per collegare le case, che normalmente erano lontane dalla strada e dai pali del telefono, ci volevano cavi molto lunghi. Un solo pezzo di cavo poteva essere lungo più di cento metri. Fino alla Chevrolet, la sua destinazione, c'era metà di quella distanza. I due momenti più difficili sarebbero stati quando avrebbe lasciato il tetto e il cavo avrebbe sorretto il suo peso per la prima volta, e i due o tre metri sopra la gola, quando scivolare avrebbe potuto essere fatale. A parte quello, se stava attento, il viaggio sarebbe stato facile. Il cavo lo avrebbe retto. L'attacco alla casa sembrava abbastanza resistente. Avrebbe tenuto, se necessario. Ma naturalmente, si rendeva conto, era tutto ipotetico. Era nel caso che dovesse compiere quel tragitto. Ma non avrebbe dovuto farlo perché Kenny sarebbe arrivato da un momento all'altro. Kenny sarebbe arrivato con foga dal bosco, urlando oscenità, sparando in aria, godendosi ogni attimo di quella situazione. Ma avrebbe sempre saputo che anche lui avrebbe potuto salvarli, pensò Larry, se ci fosse stato costretto. Quello era importante. Il viaggio di ritorno era più facile di quanto si fosse aspettato. Le tegole erano allentate, la neve non c'era più, così aveva una presa solida sia con i piedi che con le mani. Era tutto così facile che divenne troppo fiducioso, muovendosi più rapido nell'avvicinarsi alla finestra. Successe all'improvviso, e non fu tutta colpa sua. A meno di due metri dalla finestra aveva afferrato il bordo di una tegola con la mano sinistra, ne aveva provato la resistenza, e solo allora aveva lasciato la presa con la destra e aveva cominciato a muoversi. La tegola si era staccata. All'improvviso si trovò a scivolare sul tetto su una pista di neve fresca, stringendo sempre con la sinistra i resti della tegola rotta. Puntò disperatamente i piedi nudi nella neve, cercando qualcosa di
solido con la destra. In qualche modo trovò un'altra tegola allentata e l'afferrò disperato, arrestando per un attimo la caduta, ma la sua presa non era abbastanza salda. Continuò a scivolare, incapace di fermarsi. Alla fine i suoi piedi superarono il bordo del tetto, e per un attimo penzolarono nel vuoto. Poi le dita si infilarono nella grondaia che girava intorno alla casa. Il suo peso la staccò dal tetto con uno stridore raccapricciante, però tenne. All'inizio non osò respirare. Rimase assolutamente immobile attaccato al tetto. Nonostante il freddo, gocce di sudore gli spuntarono sulla pelle. Il suo ardente desiderio era di restare per sempre in quella sicurezza precaria. Cercò di sollevare la testa; la grondaia cigolò e si allontanò ancora un po' dalla casa. Se la grondaia avesse ceduto, sarebbe caduto in giardino. Alzò di nuovo la testa, questa volta sollevando il piede sinistro e premendolo più forte che poteva contro il tetto. Non successe nulla. Lentamente, con attenzione, guardò in su. La finestra aperta era a pochi centimetri dalla sua mano tesa. Con una grande spinta verso l'alto l'avrebbe probabilmente afferrata. Scricchiolando la grondaia si allontanò ancora di qualche centimetro. Con la punta delle dita, Larry cercò, senza successo, di allentare un'altra tegola, e all'improvviso si rese conto di non avere più scelta. Avrebbe dovuto rischiare e darsi una spinta forte abbastanza da fargli superare quei pochi centimetri. Sapeva che ci sarebbe riuscito. Sapeva che non ci sarebbe mai riuscito. Qual era l'alternativa? Chiamare Diane? Chiedere a lei di tirarlo su? Anche quello poteva non funzionare. E il pensiero di farle sapere che aveva fallito di nuovo era intollerabile. Dove diavolo era Kenny? Maledizione a lui. Perché non era lì ad aiutare? Cosa diavolo lo tratteneva? Respirò profondamente. Dieci. Nove. Cominciò il conto alla rovescia, raccogliendo le energie che gli restavano. Sei. Cinque. Avrebbe piegato le gambe, spinto forte, afferrato il davanzale con le unghie. Due. Uno. Spingendo con tutta la sua potenza, si piegò a palla, poi esplose verso l'alto. La grondaia fu strappata dalla casa con un ultimo stridore, ma tenne abbastanza a lungo da dargli sostegno. Afferrò il telaio della finestra, arrivandoci appena, poi sollevò la gamba sinistra. E cadde pesantemente in soffitta. Diane si arrampicò freneticamente sulla scala a pioli, ma lui era già al sicuro quando lei lo raggiunse. Al sicuro. Non l'avrebbero preso. Perlomeno questa volta.
Frieda ascoltò con attenzione i suoni di sopra, e si rilassò solo quando udì il borbottio delle voci. La cucina le sembrava più grande di quanto non fosse mai stata, tutta la casa le sembrava più grande, e più fredda. Era l'assenza di Thomas, naturalmente, lo sapeva. Prese una saliera e la guardò, notando che la ragazza olandese sembrava avere gli occhi chiusi. O forse si erano solo consumati. Era difficile capirlo, all'improvviso era tutto così diverso. Il suo sguardo fu attratto dal collare consumato del cane da presa dorato. Era in un angolo, dove l'aveva gettato Larry. Frieda lo prese, toccandolo quasi con tenerezza. La placca metallica sul collare era coperta di ruggine, ma, grattando con l'unghia, riuscì a toglierne un po'. «Mi chiamo DOLLY,» lesse, «e appartengo alla famiglia LANGSAM. Se mi trovate, per favore telefonate al 555-3909.» Se mi trovate, lesse di nuovo, con gli occhi pieni di lacrime. 11 «Ho chiamato un'altra volta la polizia,» spiegò Diane. «Hanno detto domani.» Larry si tolse la camicia bagnata e la lasciò cadere sul pavimento. «Quando pensi che arriverà Kenny?» Si tolse i pantaloni e le mutande bagnati, facendoli cadere accanto alla camicia. «Non sono affatto sicuro che arrivi, Diane,» disse alla fine, senza guardarla. «Penso che Kenny sia un irresponsabile e che non possiamo dipendere da lui, ecco cosa penso.» «E allora cosa...» «Quello che dobbiamo fare,» la interruppe bruscamente, «è aspettare. Aspettare la polizia, la guardia costiera, o Nembo Kid o chi diavolo arriverà qui per primo!» Sebbene fosse asciutto e al caldo nei vestiti che si era messo, non riusciva a smettere di tremare. Diane non sembrò accorgersene. «Larry,» cominciò con il suo miglior tono da adesso-ti-díco-io-una-cosa, «quel cane ha morso tuo figlio. E io non... non...» Perse completamente il controllo della propria voce. «Larry, fa' qualcosa!» implorò con voce stridula. «Non so cosa fare. Non capisci? Non so cosa fare. Il polso gli sta diventando di tutti i colori e, Larry, ho tanta paura.» Lui andò da lei e la prese fra le braccia. Aveva bisogno di lui. Finalmen-
te. Lei aveva bisogno di lui. Le sue parole erano quasi incoerenti mentre cercava di esprimere la moltitudine dei suoi pensieri. La possibilità della rabbia la terrorizzava. Lunghi aghi che penetravano dentro Josh. Settimane di dolori. E solo se lo avessero portato all'ospedale in tempo. Quanto tempo era «in tempo»? Un giorno? Una settimana? Poteva darsi che fosse già troppo tardi? «Non verranno mai,» borbottava lei. «Non ce ne andremo mai di qui. Mai. Fai qualcosa, Larry, fai qualcosa, per favore, per favore per favore!» I cani avevano vinto. Non si vergognava più a ammetterlo. Quel branco di cani era troppo forte per lui solo. Però i cani avevano avuto molta fortuna. La tempesta che non aveva colpito l'isola, i vicini che se n'erano andati. Anche quella maledetta petroliera greca che si era incagliata al momento sbagliato. Fortuna e destino. Per il momento avevano vinto, ma non era ancora disposto ad arrendersi. Quella calma non era una resa. Stava solo adottando un'estrema prudenza. Era l'unico modo di vivere; la cautela assicurava la vita. Avrebbe vissuto per combatterli di nuovo, e in fondo la vita non era che quello: sopravvivenza! Anche i suoi edifici, alti e forti; le sue case, semplici ma resistenti, riflettevano quel concetto. Alla radice del suo successo c'era quello. La durata. Diane respirava a fatica. «... paura, tanta paura, aiuto...» Aveva rischiato molto sul tetto, e aveva avuto fortuna che la grondaia avesse retto così a lungo. Fortuna, di nuovo fortuna! Era il solo fattore di cui ci si potesse fidare. Era necessario elaborare un piano, completo fino all'ultimo movimento. E alla fine i cani avrebbero dovuto soccombere perché il loro successo dipendeva dalla fortuna prolungata. Era solo una questione di tempo. Dovevano solo aspettare. Solo aspettare. Dio, come poteva uscire di nuovo? Era chiedergli troppo. Era impossibile. Diane gli si accovacciò accanto, stringendolo forte. Non poteva uscire un'altra volta. Ma mentre la teneva e respirava il profumo dei suoi capelli, sapeva che non c'era altro da fare. Il branco l'aveva alla fine attratto fuori della casa. Prendendola per le braccia e staccandosela di dosso, la baciò forte sulla bocca. «Va bene,» le sussurrò, «ora vado a prendere la macchina. Capisci?» Per un attimo Diane lo guardò perplessa, poi annuì con la testa. «Fai mettere a tutti dei vestiti pesanti e portali giù. Tieni chiusa la porta della cucina finché non fermo la macchina proprio vicino alla casa. Mi
senti?» Lei annuì di nuovo passivamente. «Bene. Ricordati di prendere la busta che è in frigorifero. Dobbiamo far vedere la testa ai dottori. Capisci?» «Sì,» rispose debolmente. Si vestì il più caldo possibile, infilandosi un grosso maglione sul golf di cachemire che Diane gli aveva regalato il Natale precedente. Prese un'altra cintura nella valigia e se la mise lenta intorno alla vita. Ce l'avrebbe fatta, non c'erano dubbi, ma sarebbe stato pericoloso e in realtà non c'era motivo che andasse. Sarebbero venuti ad aiutarli, domani, il giorno dopo, più tardi. Ma alla fine sarebbero arrivati. Quindi, perché? Per Diane, si disse. E, dopo una pausa, ammise silenziosamente, per me. Diane lo seguì al pianterreno. In lei restava poco dell'elegante modella di New York. Aveva gli occhi arrossati e gonfi, mezzo chiusi da grossi cerchi marrone. I capelli erano arruffati, i vestiti tutti spiegazzati. E Larry l'amava più in quel momento di quanto l'avesse amata da anni. Nell'armadio dell'ingresso trovò il cappotto rosso di sua madre e, nella tasca destra, le chiavi della Chevrolet. In salotto prese l'attizzatoio e in cucina, dopo aver dato una carezza di conforto alla madre, prese un affilato coltello da arrosto e due lunghi pezzi di corda e mise tutto insieme al martello. Con tutto quell'armamentario appeso al corpo, andò in cima alle scale e annunciò: «Sono pronto.» Diane lo esaminò mentre era a piedi nudi davanti a lei. Infilato nella cintura, a destra, c'era il coltello, a sinistra il martello. La seconda cintura era lenta sulla vita. I due pezzi di corda erano sulla spalla sinistra, e con la mano destra teneva l'attizzatoio. «Non è proprio l'equipaggiamento di un alpinista,» commentò lui. Diane sorrise per la prima volta dopo diversi giorni. «Larry,» cominciò, ma lui non la lasciò finire. «Andrà tutto bene,» disse con fare rassicurante. «Voi preparatevi in cucina, e non dimenticare la busta.» Lei lo abbracciò. «No, non la dimenticherò.» Con il manico del coltello che gli premeva su un fianco, salì per l'ultima volta la scala che portava alla soffitta. Stava uscendo da quella casa. Portava via la sua famiglia. Da solo! Si arrampicò sul davanzale e guardò il branco che oziava in giardino. Il cielo era sempre coperto e minaccioso, però non era nevicato e la temperatura era un po' salita. Per un attimo, prima di poggiare il piede sulla neve,
chiuse gli occhi e li vide di nuovo, correre attraverso il campo, attaccare, abbattere il vecchio padre. Ancora una volta, sentì l'orribile suono della carne umana che veniva strappata dalle ossa. Fu assalito dall'odio. Era pronto. Questa volta il cammino era più facile perché, la volta prima, era stata tolta la neve ed erano state allentate le tegole, anche se, con tutta l'attrezzatura, era più doloroso stare attaccato al tetto. Si avvicinò con attenzione al cavo. C'era quasi arrivato. L'acqua della neve sciolta dal calore del corpo gli inzuppò i vestiti, ma non se ne accorse. Aveva la mente concentrata sul cavo e sui cani, e basta. Arrivò all'attacco e rimase sull'orlo del tetto. Non c'era tempo per apprezzare la sua impresa. C'era solo un duro lavoro da svolgere e lui ci si mise, velocemente, compiendo ogni movimento con grande attenzione. Allungò la gamba destra per bilanciarsi, conficcò il coltello nel tetto per sorreggersi, e si avvicinò il cavo. Togliendosi la seconda cintura dalla vita, la fece passare intorno al cavo. Poi attaccò la fibbia di quella cintura, un regalo di Diane per il suo ultimo compleanno, all'estremità della cintura nera che aveva ai pantaloni e le fissò insieme passando il ferretto metallico della fibbia nel primo foro della cintura nera. Poi ripeté il procedimento, passando l'estremità in cuoio della prima cintura nella fibbia di quella nera. Quando ebbe terminato aveva una rudimentale cintura di salvataggio, con il cavo che vi passava all'interno. Prese un pezzo di corda e se lo legò alle caviglie, lasciando circa trentacinque centimetri fra l'una e l'altra. Poi allargò le gambe finché il pezzo di corda non fu teso e lo appoggiò sopra il cavo del telefono. Con cautela, abbassò le gambe fino a quando non ebbe più corda. Rimasero sospese in aria, una da una parte una dall'altra, diciassette, diciotto centimetri sotto il cavo del telefono. Ora era la corda che sosteneva il suo peso. Continuando a lavorare dall'angolo del tetto, si passò il secondo pezzo di corda intorno alla parte superiore del tronco, subito sotto le ascelle, e poi lo legò al disopra del cavo, creando una terza rudimentale cinghia di sostegno. Con quella corda intorno al petto, le due cinture che lo tenevano per la vita e il secondo pezzo di corda che lo teneva per i piedi, si era costruito un'intelaiatura che gli avrebbe permesso di scivolare lungo il cavo con le mani libere e il peso distribuito uniformemente. Guardò un'altra volta la sua meta, la macchina. Il branco si stava muovendo nel giardino, ma non sembrava molto interessato all'azione che si svolgeva sul tetto. Prendendo l'attizzatoio con la destra e tenendosi stretto al coltello conficcato nel tetto con la sinistra, allungò per la prima volta le
gambe sul cavo del telefono. Come aveva immaginato, la corda scivolò con facilità. Sembrava che non ci fosse quasi nessun attrito. Il cavo oscillò e alcuni pezzettini di ghiaccio si staccarono e caddero sulla neve. Quando il cavo si fu fermato, Larry mollò il coltello e avanzò piano piano finché le gambe non furono sospese liberamente e lui poté sedersi sul bordo del tetto. Sporgendosi in avanti e afferrando forte il cavo con tutte e due le mani, si staccò dal tetto. Per un attimo il suo corpo cadde libero, finché le corde e le cinture si tesero fermandolo di colpo. Il cavo cedette sotto il suo peso e oscillò disordinatamente, mentre lo stringeva fra le mani. Però lo resse. Per un attimo non osò muoversi, aspettando che tutto si fermasse e restando sospeso nel vuoto in modo precario, ben al disopra del branco. Bob Pledge, masticando diligentemente uno stecchino da denti, dette uno sguardo alla barca e annunciò che lui non avrebbe fatto il viaggio. «Non con quella, Ken,» disse, gesticolando con fare disgustato. «Nelle acque agitate non ce la farà.» Il ventunenne Rick Berkow, proprietario, comandante e ciurma della vecchia barca, parlò in sua difesa. «Vi dico che ce la farà.» Nessun codardo di campagna gli avrebbe fatto perdere i duecentocinquanta dollari che aveva chiesto per un giorno di nolo. Era impossibile. Togliendosi lo stuzzicandenti di bocca ed esaminandolo con attenzione, Pledge domandò: «E quanti anni avresti, ragazzo?» «Ventuno,» rispose Berkow sulla difensiva. «Quasi ventidue.» Pledge guardò Kenny. «E ha navigato su queste acque per tutta la vita.» Pledge gettò lo stuzzicadenti per terra e disse con decisione: «Merda!» La Rita Baby era un piccolo motoscafo di legno spinto da due entrobordo Evinrude. Anche se i suoi soli difetti evidenti sembravano un taglio sul parabrezza di plastica e la vernice azzurra malamente scrostata, la Rita Baby odorava di anni di abuso e di incuria. «Andiamo, Bob,» insisté Kenny, «non pensi che voglia rischiare la pelle, no? Me ne intendo di barche, ho avuto a che fare con barche per tutta la vita, e questa è in gran forma. Pensi che pagherei duecento dollari per una barca che non fosse sicura?» «Duecentocinquanta.» Dopo tutto era solo denarose Larry glielo avrebbe restituito. Era giusto, si diceva, perché, a suo modo, con quel viaggio stava saldando i suoi debiti con lui. Tutti quanti. Berkow lavorava al banco del bar, e dopo che i pescatori se ne furono
andati, si era avvicinato al tavolo e si era presentato, spiegando che sapeva di una barca che avrebbe potuto fare al caso loro. «Il solo motivo per cui è ancora in acqua in questa stagione,» gli aveva detto, «è che c'è uno che sta costruendo una casa sull'isola di Shelter e l'abbiamo usata per portargli i rifornimenti. Ci starete tutti, nessun problema.» «La guidi tu?» aveva domandato Kenny. Indicando con una scrollata di spalle il cuoco pelato dietro il banco, Berkow aveva detto: «Non posso. Devo restare con lui. Ma posso affittarvela per un paio di giorni.» Si erano messi subito d'accordo, e Pledge non aveva fatto obiezioni finché non aveva visto la Rita Baby sballottata sulle onde. «Io non vengo,» ripeté. «Mi dispiace, ma non credo che quest'affare regga.» «Per amor del cielo, Bobby, non fare il bambino,» disse Hirschfeld con disgusto. «Ha solo bisogno di essere ridipinta. Allora avrebbe avuto un bell'aspetto e non avresti aperto bocca.» «Non mi parlare in quel modo, Len,» disse Pledge con tono misurato. «E non mi dire quello che vedo con i miei maledetti occhi. Questa barca non è sicura e che sia dannato se ho intenzione di rischiarci sopra la vita.» Len fece un passo verso di lui, prendendo coraggio dalla birra che gli si agitava nello stomaco. Kenny si mise in mezzo. «Va bene, Bob, tu resta qui. Ci metteremo solo poche ore. Torneremo questo pomeriggio. Len e io ce la possiamo fare senza problemi, dobbiamo solo sparare a qualche cane. Giusto, Len?» Len concordò che «aveva assolutamente ragione. Non abbiamo affatto bisogno di lui!». Presi i fucili, le pistole e le munizioni dal retro della Land Rover, li imbarcarono sulla Rita Baby, immagazzinandoli sotto un cuscino galleggiante dove speravano sarebbero rimasti asciutti, si misero le cerate che puzzavano di olio fornite da Berkow e presero lentamente il largo. La prima onda di un metro e mezzo li colpì a meno di venti metri dal molo e alzò in aria la prua della Rita Baby. La barca ricadde pesantemente sull'acqua, inzuppandoli di spruzzi. «Ci bagneremo,» urlò allegramente Kenny sopra il rombo del motore. «L'ho notato,» gli rispose gridando Hirschfeld, con la birra che gli ballava nello stomaco come il carico di una nave che avesse spezzato le funi. Diane cercò di fare esattamente quello che le aveva detto il marito. Vestì i bambini con abiti pesanti e li portò giù a aspettare in salotto. Marcy era
capricciosa e affamata, vicino alle lacrime. Josh peggiorò le cose dandole una botta perché faceva la piagnona. Frieda si mise il cappotto rosso e aspettò in silenzio nel salotto. Corny non ebbe difficoltà a scendere dopo che Diane le ebbe portato giù tutte le riviste da ritagliare. Diane cominciava a sentirsi meglio dopo lo scatto di prima. Si era liberata di gran parte della tensione che aveva accumulato, ma mentre, insieme alla suocera, fissava fuori della finestra, guardando il cavo del telefono che oscillava, si domandò se ne fosse valsa la pena. «L'ho costretto ad andare fuori,» constatò. «No, sono sicura che non è vero,» disse benevolmente Frieda. «Sì, l'ho costretto, l'ho fatto vergognare. Non gli ho lasciato alcuna scelta.» L'essersi resa conto di quella verità era doloroso. Apparvero i piedi di Larry, appesi al cavo come in uno strano circo. Diane fu sorpresa nel vedere con quanta chiarezza i piedi nudi e i pantaloni scuri si stagliassero contro il cielo minaccioso. Una visione comparve per un attimo nella mente di Frieda. Larry, alla base di un grosso albero, che urlava pesanti insulti a Kenny, precariamente appollaiato su un ramo. Larry non era mai riuscito a salire su quell'albero e Kenny non ne era mai sceso. Due fratelli, così diversi. Larry appariva strano e fuori posto appeso a quel cavo del telefono, e Frieda si rese improvvisamente conto che non ce l'avrebbe fatta. Convinta di ciò, non riuscì più a guardare e tornò in cucina. Diane poteva vedere solo il tetto della macchina oltre le assi della staccionata che proteggevano dalla gola. Come le aveva spiegato Larry, il cavo del telefono ci passava proprio sopra. A poco a poco, tirando, spingendo, Larry continuava ad avvicinarsi all'automobile. Aveva un aspetto incredibilmente ridicolo, sospeso a mezz'aria, con il cavo piegato sotto il suo peso. Piccoli sbuffi di vapore bianco gli uscivano dalla bocca a intervalli regolari. L'attenzione di Diane era così concentrata su di lui che non si accorse neppure che i cani cominciavano a muoversi verso il cavo. Il freddo aveva raggiunto il pastore. Le ore di attesa sulla neve, il dover conservare il controllo del branco e la solitudine l'avevano fatto intorpidire. Ma ora, nel rivedere movimento sul tetto, capì che l'attesa era terminata. Il labrador si alzò a sedere quando i primi fiocchi di neve caddero dal tetto, poi fece tre passi esitanti verso la casa. Il pastore notò il suo movi-
mento e ringhiò minacciosamente. Poi agì. Trotterellò verso il cane nero, scoprendo i denti, lasciando capire che l'avrebbe attaccato se avesse continuato a sfidare la sua posizione di capo. Il labrador fece un passo di prova verso il pastore, poi si voltò e tornò al proprio posto. Il pastore si concentrò nuovamente sul tetto. Avrebbe risposto da solo a quella sfida. Si portò in un punto vicino al cavo. Non sapeva cosa avesse intenzione di fare il nemico, ma sapeva istintivamente che l'ultimo confronto era vicino. Mi aspetta, pensò Larry, mentre si spostava lungo il cavo. La consapevolezza dell'avvicinarsi della lotta in realtà lo faceva sentire bene. Gli altri cani si agitarono e cominciarono a guaire, apparentemente senza nessuno scopo se non quello di fare rumore. Le ore trascorse nel giardino erano state lunghe, fredde e noiose. Ma il pastore si era preso la responsabilità di occuparsi di loro e loro si fidavano di lui. Adesso Larry era sopra il giardino. Si rese conto che se fosse scivolato, sotto di lui, non c'era niente che potesse arrestarne la caduta e che la sola via per tornare alla sicurezza della casa, sul terreno, passava attraverso i cani. Quella prospettiva non lo spaventava più di quanto l'avesse spaventato prima. Percorse un altro tratto, avanzando di pochi centimetri alla volta, allungando il più possibile le gambe, portando le mani in avanti, spostando il proprio corpo verso le gambe, poi allungando di nuovo le gambe. Le corde e le due cinture tenevano, scivolando sul cavo con facilità. Alla finestra Diane intrecciò le mani finché le nocche non divennero bianche. Si rese all'improvviso conto di respirare all'unisono con i piccoli sbuffi bianchi che uscivano dalla bocca del marito. Il cavo oscillava molto, ricordandole stranamente una corda di chitarra allentata. E poi vide il pastore grigio. Il cane era proprio sotto Larry e agitava nervosamente la coda, fissando il cavo. Aveva la bocca aperta e la lingua penzoloni, con la saliva che gocciolava sulla neve sporca. Diane non riusciva a distinguere la sua voce da quella del resto del branco abbaiante, ma se lo avesse fatto avrebbe notato che il suo latrato era diventato un uggiolio di richiesta. Il nemico si avvicinava al terreno a ogni movimento lungo il cavo. L'odore dell'uomo era dominante e il pastore poteva sentire il suono del suo respiro rapido e affannato. Ma il nemico era troppo lontano per essere raggiunto. Il cane non poteva saltare a quell'altezza. E quindi avrebbe dovuto
aspettare un altro po'. Larry avanzava con continuità e il suo metodo originale funzionava molto bene. Lentamente, con molta attenzione, con dolore. Il collo pulsava da quanto gli faceva male e ogni tanto abbandonava la testa. Ma andava troppo sangue al cervello, dandogli temporaneamente le vertigini, così si rilassava solo per brevi periodi. Una volta Kenny l'aveva chiamato «Larry che pensa troppo prima di saltare». Non più. Non dopo questo. Ora era Kenny a dimostrarsi un buono a nulla. A poco a poco, arrivò a metà giardino; il branco si era zittito e il solo suono era il profondo e lamentoso mugolio del pastore grigio. Larry passò l'attizzatoio dalla mano destra alla sinistra, concedendosi il tempo di girare la testa e guardare in basso. Per la prima volta vide il pastore che aspettava impaziente proprio sotto di lui. I loro sguardi si incrociarono. Larry fissò gli svegli occhi neri del pastore e si sentì stringere i muscoli dello stomaco. Il pastore aprì la bocca e mugulò. Scendi, lo sentiva dire Larry, scendi. Larry rise fra sé, sapendo che quello era un gioco mortale. Il cane non poteva convincerlo a scendere dal cavo. Presto lui sarebbe arrivato alla macchina. E allora l'avrebbe ucciso. Odiava quel cane, e ucciderlo era una questione di sopravvivenza. Larry rimase sospeso nella sua intelaiatura a osservare il pastore. Era difficile credere che un animale così bello potesse essere così micidiale. Quel primo e miglior amico dell'uomo poteva essere anche il suo assassino. Quando il cavo smise di oscillare, Larry lo afferrò e si avvicinò di qualche centimetro alla sicurezza. A terra, direttamente sotto di lui, il cane seguiva i suoi movimenti. Larry si strofinò la testa sulla spalla, asciugando parte del sudore che gli si era formato sulla fronte. Le mani erano indolenzite dalla stretta. Il collo gli faceva male. La coscia bendata gli pulsava. L'occhio graffiato gli prudeva. Ed era esausto. Il pastore abbaiò, facendolo rabbrividire. Non ancora, bastardo, pensò, non sono ancora finito. Si avvicinò di altri quindici centimetri alla macchina. Guardando in giù, urlò: «Non cantar vittoria, bastardo, non ti azzardare!» La fatica lo stava sopraffacendo, e cominciò a barare, non arrivando in fondo alle tirate. Gli costava qualche centimetro ogni volta, ma continuava ad avanzare. Larry era a poco più di due metri e mezzo dalla staccionata quando il
cane saltò per la prima volta. Non era che il cane si aspettasse di arrivare al nemico, ma piuttosto come se liberasse l'energia che aveva immagazzinato. Il cane saltò una seconda volta, spingendosi appena con le zampe posteriori e sollevandosi solo di pochi centimetri sul terreno coperto di neve. Dietro di lui, il branco cominciò a reagire alle azioni del capo. Il labrador si avvicinò all'alsaziano. Il boxer si spinse accanto al tremante dalmata e all'annoiato setter. Ma solo il vivace dachshund osò accostarsi al pastore, per essere completamente ignorato e infine costretto ad allontanarsi. I cani percepivano la fine della loro attesa. Il respiro di Diane appannava la finestra e lei doveva pulire l'umidità per vedere fuori. Larry continuava, lentamente, ad avanzare, ma adesso il pastore sembrava molto agitato. I suoi balzi, in un certo senso di prova, erano forti, ma restavano lontani dal cavo. Frieda chiuse gli occhi e ascoltò. L'ululare degli animali le avrebbe detto se fosse successo qualcosa, non doveva guardare. Cercò disperatamente di concentrarsi su ricordi felici, ma senza successo. Il pensiero di Larry che stava rischiando la vita sul cavo era impossibile da eliminare. La vita valeva quella sofferenza? Si domandò. Non cercò di rispondere alla propria domanda. Larry si rifiutò di guardare nuovamente in basso, ma il farlo non era in realtà necessario. Il cane era lì. Non c'erano dubbi. Per il resto della sua vita il cane ci sarebbe sempre stato. Il pastore si rese conto che il nemico aveva rallentato perché il suo avanzare verso la staccionata era rallentato. Era spesso costretto a sedersi e aspettare mentre il nemico restava immobile sopra di lui. Così vicino. Così irraggiungibile. L'uggiolio del pastore divenne più pressante, sentendo che il confronto era prossimo. La saliva gli gocciolava dalla lingua, imbiancandogli il pelo come una schiuma. Sentiva il sapore del nemico. Adesso la macchina era vicina. Larry vedeva pezzi di vernice nera sui lati, dove la neve si era sciolta. Quando fosse arrivato alla Chevrolet, avrebbe dovuto muoversi alla svelta per sciogliere le due corde e la cintura ed entrare dentro prima che i cani si rendessero conto che potevano raggiungerlo passando sopra il ponte. Non appena fosse arrivato al tetto della macchina, o forse sarebbe stato meglio il cofano, avrebbe dovuto saltare nella neve. Sul terreno con loro. Non c'erano alternative. Una volta in macchina avrebbe avuto un'arma. Un'arma? Letteralmente
un carro armato. Che provassero a fermarlo. Sarebbe andata bene. Si sarebbe servito della sua arma per abbatterli. Specialmente il pastore. Quel mostro grigio doveva morire. Non poteva avere il permesso di vivere dopo i crimini commessi. Se non fosse morto oggi, Larry capiva che sarebbe dovuto tornare all'isola a dargli la caccia. Non avrebbe mai, mai potuto vivere in pace sapendo che il pastore era vivo. Spingendo di nuovo in avanti le gambe, guadagnò qualche altro centimetro prezioso. Il cane osservava il nemico avvicinarsi alla protezione della staccionata e capì che presto avrebbe dovuto attaccare. Però, tanto più avesse aspettato, tanto più basso sarebbe stato il nemico. Così guardò Larry avanzare di centimetro in centimetro e intanto si mise in posizione per spiccare il salto. Ma il cane non poteva farci niente, Larry sarebbe arrivato alla macchina. E una volta alla macchina, avrebbe potuto portare la famiglia alla sicurezza degli edifici in mattone della cittadina. Alla prima schiarita sarebbe partito con il motoscafo che gli isolani tenevano in un bacino per situazioni di emergenza e sarebbe balzato alla sicurezza. Da Burrows a Gardiner o a Orient Point. Sarebbe riuscito a manovrare da solo la barca, quella parte della sua infanzia e adolescenza sull'isola non poteva averla dimenticata. A due metri dalla staccionata Larry si rese conto che ce l'avrebbe fatta. Il cane spiccò il suo primo vero balzo quando Larry era a un metro e mezzo dalla staccionata. Spingendosi all'improvviso con tutta la forza delle zampe posteriori, saltò a un metro, un metro e mezzo, con le zampe anteriori dirette verso la schiena di Larry. Larry non si accorse neppure che il cane fosse saltato finché non ricadde nella neve. Non appena le zampe del pastore toccarono la neve, il cane si affannò a riacquistare l'equilibrio e si slanciò di nuovo in aria. Questa volta arrivò più vicino, ma mancavano sempre una trentina di centimetri. Il pastore ricadde, solo per rialzarsi e saltare di nuovo. E di nuovo. Larry girò la testa e lo guardò. Il cane balzò più vicino, facendo scattare le mandibole. Larry si prese un momento di riposo per calmare i battiti del cuore, poi tornò al suo lavoro. Il pastore saltò di nuovo, latrando selvaggiamente. Sembrava che sapesse che non sarebbe riuscito a raggiungerlo, e allora balzò di nuovo, disperato; ma stava rapidamente perdendo forza nelle zampe, e arrivava sempre più lontano dal nemico, anche se quello si avvicinava al terreno. Il setter e il boxer attraversarono correndo il giardino per andare ad aiu-
tare il capo. Ma a metà strada il labrador andò davanti agli altri cani e li fermò, comprendendo che il pastore doveva aver ragione di questo nemico da solo, o perdere il branco. L'immagine di Thomas Hardman sepolto sotto il branco guizzò nella mente di Larry. Il cane girò il grande corpo nel proiettarsi in aria. Adesso era il pastore che aveva perso il controllo di sé, facendo un salto alla cieca dietro l'altro, cercando disperatamente di agguantare il vuoto. Le gambe di Larry erano appena al di là della staccionata. Con un paio di altri movimenti sarebbe stato oltre la gola, al sicuro. Libero. Non poteva più ignorare il pastore. Sorridendo, prese l'attizzatoio con la destra e strinse più forte. Quando il pastore fece un altro salto, Larry si voltò e tirò un colpo mirando alla testa del cane. L'attizzatoio sibilò accanto al cranio dell'animale mancandolo di pochi centimetri. Il cane giacque a terra, con la coda fra le zampe e le orecchie abbassate. Sconfitto. Larry si tirò in avanti di qualche altro centimetro, mentre il pastore si preparava a un ultimo salto. Larry strinse forte l'attizzatoio, cercando di calcolare l'attimo in cui sarebbe saltato. Il cane si diede una spinta e si catapultò verso di lui. Larry vibrò il colpo nel momento in cui il cane si staccò da terra, e l'attizzatoio fendette il vuoto. Al culmine del salto, il pastore diede un morso, e questa volta le sue mascelle trovarono il polso destro di Larry. L'attizzatoio cadde innocuo a terra mentre il pastore affondava i denti nel polso. Senza mollare. 12 Kenny osservava nervosamente le onde sempre più alte venirgli addosso dal largo, ma era del tutto impreparato quando la Rita Baby si rovesciò. La barca colpì un oggetto sommerso, balzò in aria e affondò di prua nel cavo di un'onda. Successe tutto all'improvviso. Un attimo prima Kenny era al timone, con le gambe allargate per stare in equilibrio sul ponte scivoloso. L'attimo dopo volava in aria, sopra il bordo sinistro, precipitando di testa nelle acque gelide dello stretto di Long Island. Andò sotto, bevendo una boccata di acqua salata, e si agitò disperatamente per tornare alla superficie. Cominciò a cercare freneticamente la
barca. Ma un'onda più grossa gli sbatté in faccia, soffocandolo e tirandolo giù. Gli stivali da caccia gli si riempirono d'acqua appesantendolo. Senza lasciarsi prendere dal panico, se li strappò dai piedi e tornò su, trattenendo il fiato finché non forò la superficie, per sentire l'aria gelata lavargli la faccia. La barca! Stai calmo e trova la barca. Sulle prime non riuscì a vederla, e fu terrorizzato al pensiero che fosse affondata. Senza la barca, senza qualcosa cui aggrapparsi, era morto. Ma allorché un'onda lo sollevò, la vide a una trentina di metri, lo scafo capovolto che si spostava lentamente fra le onde allontanandosi da lui. Da poppa uscì un getto di vapore, l'ultimo rantolo dei motori che morivano. Kenny cominciò a nuotare per salvarsi la vita. La barca si allontanava pigramente da lui, i trenta metri erano diventati quaranta. Spingeva il corpo nell'acqua, fendendo con le mani la superficie, muovendo furiosamente le gambe. Le onde lo trattenevano e poi lo spingevano avanti, e a poco a poco la distanza fra lui e la barca si riduceva. Non pensava, nuotava. Bracciata dopo bracciata nelle acque infuriate. Finalmente riuscì ad afferrare una delle sottili assicelle ricurve che formano lo scafo. Le assicelle sovrapposte costituivano una specie di piccoli gradini e Kenny vi si arrampicò affannosamente. Aveva inghiottito una gran quantità di acqua scura, ma era vivo. Il suo peso faceva abbassare la barca e spesso questa affondava nel cavo di un'onda e l'acqua salata lo investiva. Ma aveva una solida presa con i piedi, e piegandosi in avanti riusciva a tenere basso il centro di gravità. Non aveva idea di quanto la barca avrebbe galleggiato. Al meglio qualche ora, calcolò. A meno che il tempo non fosse peggiorato. Allora non avrebbe galleggiato che qualche minuto. Qualcosa toccò la poppa con un colpo leggero. Si voltò ma non c'era niente. La barca si alzò su un'altra onda, poi scivolò giù senza sbalzi. Kenny vide allora una giacca giallo acceso che galleggiava aperta sull'acqua, simile a una foglia, nascondendo un peso consistente sotto di lei. Cominciò a spostarsi verso il retro dello scafo, ma quando fu vicino alla poppa, la barca si inclinò pericolosamente e lui decise di non avanzare oltre. Non poteva far niente se non guardare affascinato la giacca e il suo peso nascosto galleggiare insieme alla barca. Poi, all'improvviso, essa scomparve. Len? Quel pancione di Len? Quel ridanciano di Len? Che galleggiava come un maledetto sughero? Morto? Impossibile. Da quanto tempo si era rove-
sciata la barca? Cinque minuti? Al massimo dieci. Non poteva esserne sicuro. Esplorò disperatamente l'orizzonte, girandosi, cercando di vedere da tutte le parti mentre la barca si sollevava e poi ricadeva. Si era dimenticato di Len. Si era salvato e si era dimenticato di Len. Forse Len avrebbe potuto essere salvato. Forse non era neppure Len. «Len!» Era stupido gridare, l'acqua sovrastava i suoi urli più forti. «Lenny!» Che diavolo poteva fare? La barca superò la cresta di un'onda e mentre ricadeva, per un attimo a Kenny sembrò di vedere una seconda macchia gialla sepolta sotto un'altra onda. Quando lo scafo si rialzò, esaminò quella zona. Niente. Poi riapparve di nuovo. Il secondo impermeabile giallo che galleggiava. Questa volta riuscì a vedere due mani che uscivano dalle maniche gialle e una testa scura stesa sull'acqua. Lenny! Ma la barca si muoveva nella direzione sbagliata, allontanandosi dal corpo. Gli sembrò di veder una mano uscire dall'acqua. Ma era così lontano. Stando a cavalcioni sullo scafo, Kenny si alzò a sedere. Ora vedeva un po' meglio. Il corpo era voltato all'insù. La mano si mosse di nuovo. Non potevano esserci dubbi. Quel maledetto Lenny era sempre vivo. Kenny si guardò intorno, cercando qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse spingere lo scafo verso il corpo che galleggiava. Ma non c'era niente. Len continuava ad allontanarsi. Non poteva lasciarlo andare, non in quel modo, pensa al tuo compagno, è quello che gli avevano insegnato nel Vietnam, pensa al tuo compagno. Toltisi i pantaloni e la camicia, Kenny tirò una boccata d'aria e si tuffò nelle acque turbinanti. Diane osservava con silenzioso orrore quella scena grottesca. Il cane stringeva fra i denti il polso destro di Larry, senza mollare, oscillando lentamente in aria. Il cavo si abbassava, cedendo lentamente, e le zampe posteriori del cane si avvicinavano al terreno. Con la mano sinistra, Larry si teneva al cavo meglio che poteva e cercava freneticamente di liberare la mano destra. Ma il cane gli stringeva il polso come una morsa. Le corde e le cinture non cedevano. Trattenevano Larry saldamente al cavo mentre il peso del cane lo tirava in basso. Con un piccolo schiocco, nella spalla destra gli esplose un dolore acuto: i muscoli si erano strappati. Larry urlò. Diane chiuse gli occhi, mentre l'urlo del marito lacerava l'aria. Lasciò andare il cavo con la sinistra e cercò di colpire il cane. Il suo pu-
gno sfiorò appena il muso dell'animale. Gli occhi del pastore si dilatarono e il cane emise uno strano verso. A poco a poco, con continuità, il cavo rivestito di gomma si allungava sotto il peso aumentato, e il cane e l'uomo si avvicinavano sempre più al terreno. Le zampe del pastore erano solo a una ventina di centimetri dal suolo quando il cavo si spezzò. Diane si tappò la bocca per trattenere un urlo mentre il cavo schioccava come una frusta. Il pastore toccò terra per primo e cercò di rialzarsi in piedi mentre le gambe di Larry sbattevano sull'asse superiore della staccionata gettandolo indietro sulla neve. Nella caduta l'uomo diede un calcio al cane e lo stordì momentaneamente. Il pastore si riprese quasi subito e attaccò. Larry si mise il braccio destro davanti al corpo, tirando pugni con la mano libera, ma i muscoli lacerati gli rendevano il braccio inservibile. Il pastore grigio lo addentò selvaggiamente, afferrandogli il bicipite destro e strappando un pezzo di carne dall'osso. Il sangue spruzzò dalla ferita, investendo il cane, che però continuò ad attaccare. Larry riuscì a alzarsi in piedi, ma la corda legata alle caviglie lo fece cadere di nuovo. Il cane non gli dava tregua, continuando il suo folle assalto, latrando, saltando, mordendo, strappando. Diane afferrò il primo coltello che trovò e spalancò la porta di cucina. Ma riuscì a fare solo due passi nel giardino. Il labrador e il setter irlandese erano a tre metri da lei e, anche se non accennavano a muoversi, la loro presenza la costrinse a ritirarsi. Il loro messaggio era chiaro; non avrebbero interferito nella battaglia e non avrebbero permesso a nessuno di farlo. Il rumore della lotta riempiva l'aria, mentre Diane rientrava lentamente in cucina. Sentendo vicino il colpo di grazia, il pastore si scagliò contro Larry nel tentativo di mordergli crudelmente la faccia. Nella sua furia puntò la zampa anteriore nella trachea del giovane infilandogli le unghie nel collo e impedendogli di respirare. Disperatamente, Larry afferrò la zampa con la mano buona. Ne prese la punta e strinse più forte che poté. Il cane cominciò a uggiolare. Con i denti stretti, spinse il muso contro la mano di Larry, cercando di liberarsi. Quanto più forte Larry stringeva, schiacciando le tenere ossa della zampa, tanto più il cane soffriva. Larry aveva accidentalmente scoperto un punto molto vulnerabile. Per il grande dolore, il cane non poteva più mordere.
Cautamente, senza allentare la pressione, Larry si tolse la zampa dalla gola e si alzò prima in ginocchio, poi, tirando il cane su con sé, in piedi. La strana coppia cominciò, lentamente, a muoversi verso la casa. Diane era sulla porta della cucina e la teneva aperta. Gli altri cani rimanevano immobili. Solo il dachshund corse da Larry, a mordergli le caviglie. Erano a quindici metri dalla porta quando il pastore finalmente si liberò dalla stretta di Larry e lanciò un ultimo attacco, proiettandosi inesorabilmente contro il corpo coperto di sangue. Larry era quasi alla porta quando il cane trovò una presa. Il pastore gli afferrò l'avambraccio e lo schiocco dell'osso riecheggiò nel giardino. Larry tirò istintivamente un calcio e prese il cane all'inguine. Il pastore crollò sulla neve, contorcendosi dal dolore. Diane un po' trascinandolo, un po' spingendolo, portò il marito in cucina. «Bene,» riuscì a dire lui, poi perse conoscenza. Lei sbatté la porta e la chiuse con il chiavistello prima di voltarsi verso il marito. Dai brandelli del maglione gocciolava il sangue. Il braccio destro era squarciato e si vedeva il bianco dell'osso esposto. Un brivido involontario le percorse il corpo nel rendersi conto che lui era sotto shock. Frieda osservava impotente il figlio, mentre Diane agiva rapidamente per salvargli la vita. Tirò via la tovaglia a scacchi bianchi e rossi dal tavolo di cucina, mandando un vaso di zucchero a infrangersi per terra, e gliel'avvolse stretta intorno al braccio per arrestare il flusso di sangue. «Mi prenda una camicia!» gridò a Frieda. «Subito!» I piccoli quadretti bianchi della tovaglia diventarono rosa, poi rossi, e i quadretti rossi diventavano più scuri. Diane strinse ancora la tovaglia, ma era troppo grossa per essere davvero utile. «Andrà tutto bene,» sussurrò, «Larry, andrà tutto bene.» Lui aprì gli occhi e lei poté leggervi il dolore. «Fa male,» disse debolmente. «Fa male.» Frieda tornò con due vivaci camicie sportive. Diane strappò la manica di una. Sollevando con delicatezza il braccio destro di Larry, gli passò la manica sotto il bicipite, gliela girò intorno, e strinse più forte che poteva. Poi tagliò l'altra manica e la legò subito sopra il gomito. Agendo rapida, tagliò la camicia in due pezzi. Il primo glielo avvolse subito sotto il gomito e con l'altro fasciò la ferita aperta al polso. «Guarirà papà?» domandò Josh. Si era dimenticata dei bambini e non si era resa conto che erano entrati in cucina. «Sì,» disse, «ma andate di sopra.»
«Ma mamma,» Josh cominciò a protestare. «Andate!» Era un ordine e i bambini uscirono dalla cucina. Sembrò che i quattro lacci avessero arrestato la perdita di sangue, ma il braccio era così insanguinato che era praticamente impossibile capire in che condizioni fossero le ferite. Bagnando un panno pulito, tolse quanto più sangue poté e esaminò con attenzione il braccio. Piccoli fori rotondi di denti lo coprivano quasi interamente. In due punti si vedeva l'osso. Era stata strappata una lunga striscia di pelle che adesso poggiava libera sulla carne, coprendo appena le due parti dell'ulna spezzata. Il braccio, si rese conto, stava molto male, ma l'emorragia era stata quasi completamente arrestata. Quando ebbe pulito e fasciato il braccio destro, Diane esaminò metodicamente il resto del corpo di Larry per vedere se c'erano altre ferite. Ce n'erano molte. Strappò la seconda camicia e cominciò a bendare quelle che sanguinavano ancora. Da un brutto taglio sul polso sinistro usciva molto sangue. La fascia che gli copriva la coscia destra non c'era più e un'altro pezzo di carne era stato strappato dalla prima ferita. Un taglio poco profondo su un lato di un gluteo sanguinava copiosamente. Tracce di denti gli segnavano tutte e due le gambe. Tagliò le corde che aveva alle caviglie e al petto, pulì le ferite e le fasciò. Mentre Diane curava il resto del corpo, il braccio destro di Larry era diventato bianco roseo. I tessuti che non avevano subito danni, si rese conto, non ricevevano abbastanza sangue. Con molta cura, allentò i lacci, uno dopo l'altro, guardando attentamente se perdeva sangue dalle ferite. In qualche punto l'emorragia si era arrestata completamente, mentre da altri usciva ancora un po' di sangue. Ma con i lacci allentati, il braccio cominciò a riacquistare in parte il suo colore naturale. Larry sembrava privo di conoscenza. Gli occhi erano chiusi ma il respiro restava regolare. Diane sapeva che doveva continuare a lavorare. Se si fosse fermata anche un momento, se si fosse concessa il tempo di preoccuparsi, avrebbe potuto perdere il controllo di sé. Il lavoro le teneva la mente sgombra dalle peggiori paure, così, finché lui avesse continuato a respirare, lei avrebbe continuato a lavorare. C'erano molte cose da fare. Era vitale che Larry non fosse sotto shock e credeva di conoscere le semplici regole per impedirlo. Alzare la testa e abbassare le gambe. O era alzare le gambe e abbassare la testa? Non più sicura, stabilì da sé le regole. Gli mise sotto il braccio destro due grossi cuscini presi dal divano del salotto, pensando che più in alto era e meno sangue
avrebbe perduto. Poi gli mise altri due cuscini sotto le gambe e ne infilò un ultimo sotto la testa, sperando di avere reso il più facile possibile l'afflusso di sangue al cuore. Poi lo coprì con due coperte. Era importante tenerlo caldo, di quello almeno era sicura. Ma quanto più Diane lavorava, tanto più ovvia diveniva la verità: se Larry non avesse ricevuto un'assistenza medica alla svelta, sarebbe morto. Aveva perso molto sangue e lei aveva paura che se anche fosse stato curato rapidamente, avrebbe perso il braccio destro. Appariva così lacerato che non sembrava possibile che un qualsiasi intervento potesse farlo funzionare di nuovo. Però il rendersene conto non la scioccò, né le fece venire un attacco isterico. Ormai aveva superato quella fase, non c'era tempo. Larry sarebbe stato assistito o sarebbe morto. E finché una delle due cose non fosse successa, gli sarebbe rimasta accanto, seduta sul duro pavimento di cucina, e l'avrebbe tenuto il più caldo e il più comodo possibile. Frieda si era occupata di trovare il necessario. Aveva preso le coperte. Portato i cuscini. Trovato le fasce. Cercato gli antisettici. Ogni tanto guardava fuori per controllare il branco. I cani sembravano agitati, ma, apparentemente, i loro movimenti non avevano uno scopo preciso, e non si avvicinavano alla casa. Suo figlio e sua nuora erano venuti sull'isola per una vacanza. Le avevano portato i nipoti. Avrebbe dovuto essere un periodo felice, un periodo di amore. Tom aveva atteso con tanta ansia il loro arrivo, pur sapendo che avrebbe discusso con il figlio sulla... Le si fece il vuoto nella mente. Tom? Là fuori? E a Larry avevano fatto questo. La sua rabbia era alimentata dal senso di impotenza che provava. Non ne avevano il diritto! Il pastore grigio era più stanco che ferito. Il calcio del nemico l'aveva stordito e l'aveva lasciato con un dolore lancinante all'inguine, ma per il resto non aveva subito danni. Si sedette accanto alla casa, lontano dal branco, aspettando per vedere se il nemico fosse tornato. Aveva fame. Mentre faceva la guardia non gli era venuto in mente di mangiare, ma l'azione degli ultimi minuti l'aveva reso vorace. Infilò il muso nella neve tutta pesticciata e ricuperò un pezzo della carne fino ad allora proibita e adesso congelata. Tenendola fra le zampe anteriori, l'addentò, inghiottendo i pezzi che riusciva a strappare. Il setter irlandese lo raggiunse e cominciò ad annusare. Se il capo era ferito, se non era più in grado di comandare, bisognava saperlo alla svelta. Il branco non poteva sopravvivere senza un capo forte e capace. Il pastore permise al setter di avvicinarglisi, di leccare il sangue che gli
si era appiccicato sulla schiena e di esaminare il cibo che stava mangiando. Solo quando ebbe finito il pezzo di carne, emise un cupo latrato minaccioso. Il setter non reagì. Quel suono, di per sé, non aveva alcun significato. Il pastore doveva dimostrare al branco di essere ancora in grado di combattere. Il pastore era pronto. Balzò in avanti, allargò le zampe anteriori sulla neve, e scoprì i denti in un ringhio selvaggio. Prima che il setter potesse ritirarsi, fece scattare le mascelle, mancando appena la sua zampa anteriore. Avrebbe lottato per il diritto di comandare al branco. Il setter tornò al suo posto e cominciò a scavare alla ricerca di cibo. Gli altri cani lo imitarono. Il branco avrebbe aspettato, ma, inevitabilmente, il ruolo del pastore sarebbe ancora stato messo alla prova. Kenny nuotava coraggiosamente nelle acque increspate di bianco, dirigendosi verso il punto dove aveva visto galleggiare il corpo per l'ultima volta, cambiando direzione quando riusciva a dare una rapida occhiata all'impermeabile giallo. La corrente aveva trasportato Len alla destra di Kenny, e ci vollero altri minuti di duro nuoto per raggiungerlo. Kenny faceva qualche bracciata, si fermava, si voltava e controllava la distanza che lo separava dallo scafo, poi ricominciava. Len Hirschfeld era ancora vivo quando Kenny lo raggiunse. Nell'impermeabile si era formata una tasca d'aria ed era quella che lo faceva galleggiare. Ma aveva gli occhi chiusi e si lasciava trasportare dalle acque agitate, apparentemente rassegnato ai voleri dello stretto. Kenny lo afferrò per il collo, sperando di impedirgli di lottare per il panico. Len accennò debolmente a resistere, poi si arrese, probabilmente ancor prima di capire cosa fosse quella presa sull'impermeabile. «Puoi nuotare?» urlò Kenny. «La gamba,» gridò Hirschfeld. «La gamba.» Non avrebbe nuotato, ma Kenny non era in grado di dire se avesse potuto farlo o no. Afferrato l'impermeabile, Kenny cominciò a ridirigersi verso lo scafo rovesciato. Len era già stato troppo nell'acqua fredda. Ce la fecero appena e, quando arrivarono, Kenny non aveva più forza per sollevare il pesante Hirschfeld sullo scafo. «Sali!» urlò. «Aiutami!» farfugliò Hirschfeld. «Aiutami, Kenny.» Faticosamente, Kenny lo girò e lo spinse con la faccia contro lo scafo, in modo che il corpo e le braccia allungate fossero appoggiate contro il fianco della barca. Poi lo lasciò andare per un attimo e cercò di arrampicarsi sulla
barca che si voltava e sballottolava. Era riuscito a trovare un appiglio per il piede sulle assicelle quando Hirschfeld scivolò all'indietro, ricadendo in mare. Senza esitare, Kenny mollò la sua precaria presa e si tuffò per ripescarlo. La torbida acqua verde gli impediva ogni visibilità mentre si spostava sotto la superficie cercando di afferrare Hirschfeld. Gli sembrava che i polmoni stessero per scoppiare, però rimase sotto, agitando i piedi, muovendo le braccia, nello sforzo di trovare l'amico. Proprio quando stava per riemergere urtò contro qualcosa di solido con la gamba destra. Allungando la mano, sentì la superficie scivolosa dell'impermeabile. Stringendo, portò Hirschfeld a galla. A Len usciva acqua dalla bocca e dal naso. Kenny sapeva che da solo non sarebbe riuscito a salvarlo. Gli dette uno schiaffo in faccia a palmo aperto. Hirschfeld aprì gli occhi spenti. «Maledizione! Lotta per la tua maledetta vita!» gli gridò Kenny. Hirschfeld chiuse gli occhi. «Non posso,» si lamentò. Kenny lo colpì di nuovo, proprio mentre un'onda li mandava a sbattere contro la barca. Hirschfeld ansimò per l'aria che gli usciva a forza dai polmoni, e un vomito verdastro gli sgorgò dalla bocca liberandolo dai resti della bevuta notturna. Kenny gli affondò la testa nell'acqua, poi lo tirò su per i capelli. Lo appoggiò di nuovo al fianco della barca, poi gli dette uno schiaffo forte. «Non mi picchiare più, Kenny. Basta!» lo pregò Len Hirschfeld. «Sali lassù, carogna. Sali su quel maledetto affare.» «Lasciami andare, lasciami andare.» Kenny lo colpì di nuovo sulla bocca, odiandolo. «Maledetto vigliacco,» gli urlò, «ora non te ne vai. Ora non te ne vai!» «Lasciami stare.» Kenny lo colpì di nuovo. Rassegnato, a occhi chiusi, Hirschfeld si girò e a tastoni sentì le assicelle della barca. Un'altra onda li mandò a sbattere contro lo scafo. «Prova,» strillò Kenny. «Prova!» Hirschfeld iniziò un altro incerto tentativo, mentre Kenny lo spingeva da dietro. In un ultimo impeto di energia. Kenny riuscì a far salire l'amico sulla barca. Poi piantò le dita nei fianchi di legno e si tirò su, finalmente fuori dall'acqua gelata dello stretto. E di nuovo, come nel Vietnam, era un vero eroe. Quel pensiero riusciva a sconfiggere il freddo pungente.
Ombre folli vagavano nella mente di Larry, scomparendo prima che riuscisse a determinare cosa fossero. Rabbrividì. Però dentro di sé si sentiva caldo e comodo. Poi un unico pensiero gli riempì il cervello: il pastore grigio. Aprì gli occhi e vide un cane. Un cane che saltava per ucciderlo. No, no, no. Però un cane c'era. «Dopey! Vattene!» Chiuse gli occhi e pianse. Non c'era nessun segnale. Diane premette di nuovo, cercando di far rivivere il telefono. Era morto. Per la frustrazione, sbatté la cornetta sul muro. Sulle prime non riusciva a capire, aveva funzionato bene, ma mentre teneva la cornetta silenziosa all'orecchio, guardò fuori dalla finestra del salotto e vide il cavo spezzato che giaceva contorto sulla neve. «Come sta?» La voce di Frieda la fece sobbalzare. Si era dimenticata che nella casa ci fossero altre persone. «Ha bisogno di essere curato alla svelta,» rispose. A Frieda montò la rabbia. Il branco l'aveva intrappolata dentro casa sua. La sua casa! Le aveva ucciso il marito. E ora avevano fatto quello a suo figlio. Non lo avrebbero avuto! Ci avrebbe pensato lei. I cani non sarebbero riusciti a imprigionarla e a costringerla a guardare suo figlio morire. Indossando sempre il cappotto rosso, Frieda Hardman passò accanto alla nuora, aprì la porta e uscì in giardino. 13 Frieda aveva già fatto quattro passi in giardino prima che Diane si rendesse conto di cosa era successo. Quando arrivò alla porta non poté far altro che stare a guardare in muto orrore. I cani videro Frieda immediatamente. Il dachshund le ringhiò una minaccia metallica. Il dalmata abbaiò. Ma nessuno si mosse verso di lei. Dovevano prima capire quali fossero le sue intenzioni, annusare la sua paura. Non c'era paura, lei non li temeva più. Non potevano fare più nulla per spaventarla. Mossa solo dalla rabbia, camminava lentamente, quasi con noncuranza. Il pastore esaminò rapidamente il suo odore. Non era il nemico, era diverso, l'odore era diverso. E quindi non si mosse, trattenendo in tal modo il branco.
Frieda superò il tumulo dell'airedale, puntando verso il cane grigio. Voleva colpirlo, fargli del male, però si rendeva conto che non era quello il suo scopo. Andava a prendere la macchina. La macchina avrebbe salvato la vita a suo figlio. L'avrebbe guidata davanti alla casa e poi li avrebbe portati lontano dai cani, al sicuro. Più tardi si sarebbero occupati del branco. Passò a meno di un metro e mezzo dal pastore e lo guardò con attenzione. Gli altri cani aspettavano. Una leggera brezza le sollevò il colletto del cappotto rosso mentre traversava fieramente il giardino. Il cane grigio era più grande di quanto avesse pensato, con il manto ancora macchiato del sangue di Larry, i peli grigi arruffati e sporchi. La bocca del cane rimase aperta, mentre lei osservava quanto fossero regolari i suoi denti, leggermente angolati e aguzzi. Era un animale spaventoso, ma lei non era spaventata. Ammirata, Diane osservava la suocera che superava il branco. Per un attimo non ci fu più Larry, non ci fu più il branco, ma solo quella magnifica vecchia signora. «Mamma, mamma, sai cosa Corny...» Josh entrò correndo in cucina. Diane si girò di scatto allarmata. «Stai zitto!» gli sussurrò. Il bambino scoppiò a piangere, e Diane gli si avvicinò, lo strinse, poi lo portò di sopra, impaurita che il suo pianto disturbasse il delicato equilibrio nel giardino. Lasciò il bambino in lacrime di sopra e tornò alla finestra. Adesso il pastore si muoveva, e per un attimo Diane pensò che stesse per attaccare. Soffocò un urlo di avvertimento. Ma il cane si fermò e rimase immobile, con la coda bassa e rigida, le labbra tirate indietro, tremando leggermente, osservando la strana figura che andava verso il ponticello. Mio figlio sarà salvato, pensò Frieda. Solo quello e niente altro era importante. Gli altri cani guardavano nervosamente il pastore, aspettando istruzioni, ma il cane grigio rimaneva immobile, a guardare. La Chevrolet era due o tre metri davanti a Frieda, una massa nera sepolta in quasi un metro di neve. Trionfante, le si avvicinò, concentrandosi sempre sul figlio. Un metro e mezzo. Un metro. Il pastore si alzò lentamente in piedi mentre Frieda raggiungeva la macchina. Diane liberò un respiro a lungo trattenuto. Frieda ce l'aveva fatta. Avrebbero potuto fuggire in città. Lontano dai cani. Ai telefoni. Ai soccorsi. Larry sarebbe vissuto. Avrebbe fatto venire immediatamente qualcuno sull'isola. Se Kenny non c'era, avrebbe provato di nuovo con la polizia. Se loro non fossero venuti nemmeno al racconto delle ferite di Larry, avrebbe
trovato qualcun altro. Se avesse offerto abbastanza denaro, lo sapeva, avrebbe ricevuto aiuto. Voleva piangere, ma le lacrime non le venivano. Frieda mise la mano nella tasca del cappotto rosso, cercando le chiavi della macchina. Sulle prime non le trovò. Ma dovevano esserci. Erano sempre lì, confuse fra le cianfrusaglie che le si accumulavano in tasca. Tastò i vari oggetti. Uno spillo da balia. Alcune monete. Provò la prima punta di apprensione e affondò di più la mano nella tasca, cercando ansiosamente. Non c'erano. Il pastore cominciò a avviarsi verso il ponticello, le orecchie ritte per la curiosità. L'odore nell'aria stava cambiando. Salga in macchina, urlò silenziosamente Diane, salga in macchina! Le chiavi non c'erano. Dovevano esserci. Adesso la ricerca era disperata. Camminando con passo costante, quasi passeggiando, il pastore arrivò al ponticello. Frieda rivoltò la fodera della tasca, spargendone il contenuto sulla neve. Dei pezzetti di carta volarono via ancor prima di toccare terra, ma una quantità di oggetti più pesanti caddero al suolo. Frieda si inginocchiò e annaspò nella neve con le mani nude, in una frenetica ricerca. Le chiavi non c'erano. Lo seppe con certezza il momento stesso in cui Diane se ne rese conto. Le aveva prese Larry. Probabilmente erano nella sua tasca macchiata di sangue. Alzatasi, Frieda cercò di aprire la portiera. Non si aprì. Ripulì il finestrino dalla neve e dal ghiaccio e guardò dentro. Non sembrava che ci fosse la sicura, però la portiera non si apriva. Frieda la tirò disperatamente con tutta la sua forza. Non si mosse. Gocce di sudore le spuntarono sulla fronte. Si trascinò in fretta dall'altra parte della macchina e provò ad aprire. Era chiusa a chiave. Il pastore attraversò il ponticello, alzando il muso e annusando. Frieda si guardò intorno, cercando qualcosa da gettare addosso al cane, ma non trovò niente. Tirò un'altra volta la portiera, tentando di forzarla. «No!» gridò al cane. «No!» Il branco aveva raccolto l'odore della sua paura. Si mosse lentamente verso il ponticello, una massa informe, che si alzava e si abbassava, si spingeva, mentre traversava la gola. Diane cercò di pensare a qualcosa per distrarli, ma in cucina riuscì a trovare solo due tegami di alluminio. Spalancò la porta e corse in giardino, sbattendo i due tegami più forte che poteva. «Qui! Qui!» urlò. Il rumore bloccò il branco per un attimo. Il pastore si voltò a guardare la casa, aspettando di vedere se quel suono preannunciasse un pericolo.
Frieda colpì i finestrini della macchina con i pugni. Ma il vetro infrangibile era troppo resistente per lei. Stava sempre battendo sul finestrino, quando il pastore decise che quel clamore non rappresentava un pericolo e ricominciò ad andare verso di lei. A venti metri dalla macchina il cane iniziò a correre, alzandosi e abbassandosi armoniosamente sopra le tracce della donna. Frieda cominciò ad allontanarsi dalla protezione che la Chevrolet le offriva, cercando un aiuto che non arrivava. Il pastore aumentò la velocità, più fiducioso adesso. Dietro di lui, il branco stava per raggiungerlo. Frieda si voltò e cominciò a correre; la sua paura ormai permeava l'aria e i cani le erano alle spalle. Il pastore si avvicinava rapidamente, sollevando le zampe nei balzi. Si rannicchiò per spiccare il salto, ma prima di potersi catapultare, si arrestò all'improvviso. Il nemico era scomparso. Con un grido lacerante, Frieda Hardman si era gettata in avanti nella gola, morendo sul colpo quando aveva sbattuto la testa sulle rocce. Diane chiuse la porta e la sprangò, poi scoppiò in lacrime. Per Frieda, Tom e Larry, ma soprattutto per se stessa. Era sola, assolutamente impotente. Frieda era morta, Tom era morto e Larry stava morendo, e non c'era niente che lei potesse fare. Niente. Aveva bisogno di qualcuno che le dicesse come salvare la propria vita e quella dei bambini. Dov'era la polizia? Dov'era Kenny? Chiunque. «Diane,» sussurrò dolorosamente Larry. Si asciugò velocemente le lacrime. «Sì? Dimmi, caro, dimmi!» La sua voce era debole. «Ho bisogno di aiuto.» «Lo so.» Gli alzò la testa e gliela tenne in grembo, carezzandogli delicatamente la fronte calda. «Troverò aiuto.» Lui deglutì dolorosamente, chiudendo gli occhi. «Fa male.» «Cerca di dormire adesso. Troverò aiuto. Te lo prometto, Larry, troverò aiuto.» Diane era sicura che non sarebbe riuscito a dormire. Ma se lei non avesse trovato un'arma, se non avesse trovato un modo per arrivare alla macchina, lui sarebbe morto. Calmati, si disse, cerca bene nella casa. E pensa! Usa il cervello. Ci deve essere qualcosa con cui combatterli. La sua ricerca cominciò dalla cucina. Diane esaminò metodicamente ogni cassetto e ogni sportello, guardò sulle mensole, sotto l'acquaio. Non sapeva con esattezza cosa stesse cercando, ma, se ci fosse stata, l'avrebbe
trovata. In cucina non c'era niente che potesse servire da arma. Né in salotto. Né nella camera sul davanti. Per favore, fai che ci sia un altro fucile nascosto da qualche parte, pregò, sapendo, anche mentre pregava, che un'arma del genere non esisteva. La camera sul retro non rivelò niente e fu costretta a passarvi minuti preziosi, calmando Josh e Marcy. Quando Diane entrò nella terza camera, Corny alzò gli occhi. «Dov'è Frieda, che ne hai fatto di lei?» domandò. Mordendosi le labbra per trattenere le lacrime, Diane mentì: «È andata via.» Quello di cui aveva veramente bisogno, pensò drasticamente, era una bomba. Oh Dio, dov'è Kenny? «Ma non ha salutato,» protestò tristemente Corny. «Tornerà presto.» Non c'era niente neppure in quella stanza. La veranda era stata chiusa per l'inverno, così ci volle del tempo per aprire la porta. Non trovò nulla di utile fra i mobili di vimini per l'estate, un'amaca e un piccolo tavolo di ferro battuto. I bagni erano la sua ultima speranza. Diane rovistò nel mobiletto delle medicine, facendo cadere per terra tutto quello che non le serviva. Ben presto i ripiani furono vuoti. Sparso ai suoi piedi, c'era un mucchio di medicinali, pillole, aspirine e bottigliette assortite. In casa non c'era niente con cui mandar via i cani. Larry sarebbe morto. Improvvisamente posò gli occhi sull'unica bomboletta che era sul lavandino. La schiuma da barba di Larry, rimasta dove lui l'aveva lasciata. La prese e se la strinse al seno, immaginando di poter ancora sentire il calore delle sue mani. Quello sciocco barattolo era una cosa che lui aveva usato. Sembrava che la curvatura della bomboletta le si adattasse alla mano. Userò questa, si disse, perlomeno li combatterò con qualcosa. Nel tenerla all'altezza degli occhi, la fissò. Una parola, a lettere maiuscole, risaltava fra le istruzioni chiaramente scritte sul contenitore. ATTENZIONE. Lesse l'avvertimento con cura, rendendosi conto che la sua arma sarebbe stata quella. Il pastore grigio era sull'orlo della gola e guardava il corpo sfracellato sulle rocce coperte di neve. Non si muoveva, quindi non rappresentava più una minaccia per il branco. L'odore della paura si era dissolto nell'aria. Una raffica di vento spazzò la gola, sollevando il colletto del cappotto rosso, ma quando fu passata, il colletto si afflosciò, e i cani persero ogni
interesse al corpo. Uno dietro l'altro, riattraversarono il ponticello, seguendo il pastore. Il dachshund fu l'ultimo a andarsene, abbaiando, prima di voltarsi, un ultimo insulto al corpo privo di vita. All'estremità del ponticello il pastore si fermò. Era sempre vivo il nemico nella casa? Era più importante andare a cercare cibo nel bosco? Oppure la casa? Il branco si raggruppò obbediente dietro al capo. C'era tempo per andare a cercare il cibo, dovevano prima assicurarsi che il nemico, l'uomo che uccideva, non ci fosse più. Il pastore si diresse verso il giardino. Kenny guardò le minacciose nubi grigio pietra che gli turbinavano sopra la testa. Hirschfeld era steso accanto a lui sullo scafo e respirava in modo irregolare, battendo rumorosamente i denti per il freddo. Kenny si rendeva conto che il suo amico era in brutte condizioni. Ogni tanto agitava il braccio di Hirschfeld finché lui non apriva gli occhi. Non doveva addormentarsi. Se fosse nuovamente scivolato in acqua, Kenny dubitava che avrebbe avuto la forza di ritirarlo sullo scafo. In realtà, ammise, non gli importava molto di Leonard Hirschfeld. Era troppo grasso, troppo sciatto, si sarebbe lasciato morire. Se a Hirschfeld la propria sorte non interessava, perché avrebbe dovuto interessare a Kenny? Pledge, quello era il suo tipo di uomo, forte, calmo, ma davvero intelligente. Quando Pledge diceva qualcosa, quella aveva un senso. La sua mente, come il suo corpo, non tollerava sprechi. E allora perché diavolo si era tuffato in quella maledetta acqua gelida e aveva rischiato la vita per salvare quel grassone di Hirschfeld? Ci pensò su. Be', decise, era quello che doveva fare. Era quello che gli avevano insegnato sotto le armi: salva il tuo compagno. Negri o bianchi, grassi o magri, dovevano lavorare tutti insieme. Non gli dispiaceva l'idea di essere nuovamente un eroe. Non era una brutta cosa. Nel mondo non ce ne sono abbastanza di eroi veri, quello era un grosso problema. Troppi vigliacchi. Troppi finocchi. Troppi uomini d'affari. Troppi Larry. Larry era un maledetto fifone! Sempre prudente. Per niente simile al vecchio. Il vecchio era un duro. Schiena forte, muscoli robusti, vicino alla terra. Sono contento di essere come lui, decise Kenny, ricordando solo allora che il vecchio era morto. Per la prima volta ne fu veramente colpito. Non era più un pensiero astratto; era un fatto. Dei cani avevano ucciso il vecchio. Cani! Sembrava impossibile, il vecchio sapeva trattare i cani come un prestigiatore sapeva
trattare un mazzo di carte. Il vecchio, morto! Ucciso da cani? Non sembrava verosimile. Nel Vietnam aveva visto un sacco di gente venire ammazzata, in tutti i modi più crudeli, ma si trattava di esseri anonimi, in sporche uniformi kaki. Ed era sempre l'altro. Questa volta era diverso. Era la sua famiglia. La sua carne. Il pensiero della sua natura mortale lo colpì e lo spaventò. A qualche metro dalla barca il primo impermeabile giallo sembrò riapparire magicamente. Kenny lo guardò mentre una piccola onda lo sollevava, scoprendo una parte della tanica di benzina che vi galleggiava sotto. Quindi era quello che prima aveva sbattuto contro la barca, pensò. Agitò il braccio di Len. Quella tanica di benzina ti ha salvato la vita, Hirschfeld, disse tra sé e sé, quello stupido bidone metallico non ti ha fatto morire. Kenny non riusciva a distogliere la mente dal pensiero della propria morte. Adesso che aveva un piano, un piano per distruggere il branco, Diane setacciò la casa raccogliendo ciò che le serviva per la sua arma. Nel secondo bagno trovò una bottiglia di alcool per frizioni, una bomboletta di deodorante spray e una di liquido per i piedi, e mise tutto insieme a quella verde di crema da barba. In una delle camere scoprì una confezione aerosol rosa di lacca per capelli. In cucina c'erano due tubetti di benzina per accendini e tre smacchiatori, due liquidi e uno spray. E nella veranda trovò un tesoro: due chili di vernice blu, un barattolo di diluente e uno di acqua ragia. Il pensiero dell'arma si impossessò di lei; se la raffigurava mentre lavorava veloce. Era sorprendente, pensava, quello che si poteva fare con normali oggetti di casa. Prese diversi vasetti della marmellata fatta da Frieda, lì aprì e ne versò il contenuto nell'acquaio. I vasi erano componenti vitali della sua attrezzatura. Quando ebbe terminato di radunare tutto, prese una delle migliori camicie di Larry, non aveva idea sul perché avesse portato quella camicia così costosa per quel viaggio sull'isola, e la tagliò a strisce. Poi mise tutto il materiale sul tavolo di cucina e cominciò a costruire l'arma. Una vera rivoluzionaria, pensò, e il pensiero la fece sorridere nervosamente. Ma se le avvertenze erano esatte, quelle bombe di fortuna avrebbero salvato le loro vite. Mise una bomboletta spray e un miscuglio dei vari combustibili in ogni vasetto, poi, come miccia, attaccò a tutti una striscia di camicia. Vi aveva
messo dentro anche una manciata di chiodi, viti, dadi scoperti dentro un mobiletto. Alla fine cercò di riavvitare i coperchi. Non ci riuscì perché la stoffa lo impediva. Dopo un attimo di riflessione, prese un aprilattine e fece un buco su ogni coperchio. Il foro era abbastanza grande per farci passare la miccia. Poteva darsi che non fosse il modo giusto, però era quello che le sembrava migliore. Inoltre le probabilità che i vasetti esplodessero e, esplodendo, facessero del male ai cani, erano incredibilmente basse. Ma non aveva niente da perdere. Allineò ordinatamente i vasetti sul tavolo di cucina. Sembravano quasi graziosi. Come una fotografia della sezione utensili domestici del catalogo di Bloomingdale. «Bombe per la casa,» disse a alta voce. «Per la famiglia che ha già tutto.» Compreso un branco di cani assassini in giardino. Il miglior modo di usarle sarebbe stato il lanciarle il più lontano possibile, in mezzo al branco. E poi, cosa? Aspettare, naturalmente. Se fossero esplose ci sarebbe stato tutto il tempo per far scendere di nuovo Cornelia e i bambini. E se non fossero esplose... Allontanò quel pensiero. Una a una, portò le bombe sul pavimento accanto alla porta di cucina, poi bagnò con cura le micce con la benzina per accendini. Aprì di poco la porta e guardò fuori. Il boxer era sdraiato su un fianco a meno di dieci metri dalla porta. Il magro setter irlandese era accanto a lui, indaffarato a ripulirsi. Dietro di loro, il dachshund girava nervosamente. Qualche metro più lontano, il labrador e un dalmata scarno da far pena erano seduti uno accanto all'altro sulla neve. L'alsaziano stava apparentemente dormendo a pochi metri dal ponticello e, vicino a lui, il collie si grattava con decisione dietro un orecchio. Gli altri cani erano sparsi nel giardino. Controllandoli tutti, lontano sulla destra, quasi nascosto sotto la staccionata che fiancheggiava la gola, c'era il pastore. Il pastore osservava con crescente interesse la porta della cucina che si apriva, prima di poco, poi a metà. Era di nuovo il nemico? Tendendo le orecchie, si sollevò a sedere, rivolto verso la casa, sforzandosi di sentire suoni di avvertimento. Diane accese un fiammifero e dette fuoco alla prima miccia. Prese immediatamente, bruciando più rapidamente di quanto avesse creduto. Con un agile movimento tirò il vasetto nel giardino. Cadde a terra vicino al setter e rotolò un po' prima di fermarsi. Il boxer si alzò nervosamente in piedi e si allontanò. Il pastore guardò la piccola fiamma illuminare le tendine della cucina. Lo raggiunse un odore di zolfo bruciato. Abbaiò una sola volta per avver-
timento e cominciò a allontanarsi di più dalla casa. Lentamente, quasi con indolenza, mentre i tranquillanti che erano nel cibo cominciavano ad avere effetto su di loro, anche gli altri cani iniziarono a muoversi. Diane accese le altre micce più rapidamente che poté. Non appena prendevano, lanciava i vasetti, mirando punti diversi, cercando di tirarli abbastanza in alto perché andassero lontano dalla casa, ma non troppo per evitare che si rompessero nel toccar terra. Due vasetti caddero a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altro, un terzo finì in un buco nella neve e scomparve, ma gli altri si distribuirono in tutto il giardino. Nel primo vasetto la miccia bruciò bene. Ma poi sfrigolò, fece uno schiocco e si spense. Il vaso si riempì di fumo ma non si incrinò neppure. È solo uno, pensò ottimisticamente Diane, uno soltanto. Poi protesse Larry con il suo corpo, tenendosi con le mani e con le ginocchia, e aspettò un'esplosione. Fuori, il dachshund, ignorando l'avvertimento del pastore, andò a esaminare un vasetto. Annusò quello che conteneva la lacca e un pesante miscuglio di benzina per accendini e di vernice blu. Annusandolo, alzò la testa mentre dall'interno veniva un sibilo. Si voltò come per comunicare al branco che quegli oggetti erano innocui, ma prima di riuscire ad abbaiare, la bomba lo fece a pezzi. Esplosero solo quattro vasetti, ma bastarono. La forza delle esplosioni frantumò il vetro in centinaia di piccoli pezzi e lanciò in aria quei frammenti taglienti come rasoi ottenendo un effetto letale. I pezzi di vetro più grandi, insieme ai chiodi, alle viti e ai dadi, come proiettili informi, discussero tutto quello che trovarono sul loro cammino. Il dachshund morì nella prima esplosione. Il boxer si prese nel corpo quattro o cinque pezzi di vetro e di metallo, ma riuscì affannosamente a raggiungere la protezione del bosco. Un chiodo prese il setter irlandese sulla parte posteriore del cranio e il cane barcollò un po' prima di morire. Un frammento metallico, affilato come un rasoio, della latta della bomboletta di liquido per i piedi colpì l'alsaziano aprendogli un foro sanguinante negli intestini. La vita, la morte o le ferite dipesero unicamente dalla fortuna. Il dalmata ebbe mezza testa tagliata da un pezzo di vetro. Il labrador, accanto a lui, rimase indenne. I cani sopravvissuti si voltarono e fuggirono nel bosco. Mentre le bombe casalinghe detonavano, il rumore delle esplosioni, i pezzi di metallo e i frammenti di vetro che sbattevano contro la casa, dissero a Diane che l'effetto era stato distruttivo. Alzatasi in piedi, corse alla finestra di cucina in tempo per vedere i sopravvissuti terrorizzati scappare al
di là del ponticello. Dall'interno, però, era difficile capire quale fosse il danno. Anche il vetro della finestra era un reticolo di incrinature, pur non essendosi spezzato. Dopo aver controllato che non fossero rimasti cani vivi accanto alla casa, Diane aprì con cautela la porta di cucina per esaminare la carneficina. C'erano chiazze di sangue in più parti. Macchie di vernice blu punteggiavano la neve, la staccionata e la casa. La carcassa del setter irlandese giaceva in mezzo al giardino, non lontano dai resti contorti del dalmata. L'alsaziano morente, abbaiando di dolore, traversava zoppicando il ponticello, lasciandosi dietro una scia di sangue. Ma non riusciva a vedere il pastore. E poi lo notò. Il grosso cane grigio era seduto dall'altra parte del giardino, accanto alla staccionata, e la fissava. Da quella distanza Diane non poteva vedere se fosse ferito, anche se sembrava che avesse il manto macchiato di sangue. Non c'era modo di sapere se il sangue fosse il suo, quello di un altro cane o quello di Larry. Rimase ferma, a guardare il capo del branco, aspettando che si muovesse. Il pastore era quasi arrivato al ponticello quando la prima bomba era esplosa e si era fermato paralizzato, stupito, a guardare impotente il suo branco che veniva fatto a pezzi. Un piccolo frammento di latta l'aveva colpito alla schiena e, sebbene gli bruciasse molto, non era che una ferita superficiale. Il pastore non fece alcun tentativo per arrestare la fuga dei cani sopravvissuti al di là del ponte. Invece rimase ad aspettare, da solo, in giardino. Restava soltanto il nemico. Vedeva la figura in piedi accanto alla porta come un miscuglio di grigi opachi e di neri. Non riusciva a mettere a fuoco bene, la luce del giorno era troppo brillante e i tranquillanti gli avevano menomato la vista già scadente, ma ciò che gli restava degli altri sensi gli diceva che quello era un nuovo nemico. Stancamente, il cane si alzò in piedi e cominciò a camminare piano, esaminando i resti del suo branco. Annusò il setter, poi lo spinse con una zampa. Si chinò sul dalmata, ne toccò il corpo decapitato, poi dette un calcio alla neve insanguinata. Diane chiuse la porta e mise il paletto, poi infilò una sedia di cucina sotto la maniglia. Il pastore non poteva entrare in casa. Poi, dalla finestra incrinata, osservò il cane che si muoveva in giardino, che annusava, che cercava. Non sembrava possibile che rimanesse, però
rimase. E finché restava lì non c'era un sistema sicuro per arrivare alla macchina. In qualche modo, si rese conto, avrebbe dovuto affrontare quel cane da sola e annientarlo. 14 Diane rovistò ancora una volta la cucina, cercando adesso un'arma più piccola da poter usare contro il pastore. Il successo dei vasetti-bomba le aveva dato fiducia nei suoi mezzi. Non aveva più bisogno di nessuno. Doveva solo restare calma, guardare bene, pensare con intelligenza e utilizzare gli oggetti casalinghi di uso comune che le stavano tentatori davanti agli occhi. Cosa c'è di pericoloso in casa? si domandò. Cosa controllava che la cameriera tenesse lontano dai bambini? Veleni. Acidi. Oggetti taglienti. Detersivi. Sapeva di essere sulla strada giusta, così setacciò di nuovo tutte le scatole e tutte le bottigliette negli armadietti e nei cassetti, cercando una possibile arma. Sembrava che niente andasse bene. Poi, sepolta sotto l'acquaio, accanto ai tubi, la trovò. L'arma finale. E oltretutto, nell'usarla, avrebbe potuto servirsi dell'odio del cane a suo vantaggio. Gli avrebbe fatto un'offerta, e con quella l'avrebbe sconfitto. Il polso di Larry pareva buono e il respiro regolare. Sembrava addirittura che fosse diventato un po' più forte. Stando più attenta possibile, gli infilò una mano nella tasca dei pantaloni e prese le chiavi della Chevrolet. Erano coperte di sangue secco e le tenne per la punta mentre le lavava. Poi, chinandosi sul marito, disse: «Sei sveglio?» Lui emise un gemito. «Se ti aiuto, pensi di farcela ad arrivare alla porta?» domandò. La punta della lingua apparve fra le labbra secche per inumidirle. «Sì,» sussurrò rocamente. «Sì.» Diane lo baciò, poi salì di sopra. Le esplosioni avevano spaventato tutti e due i bambini che piangevano ancora. «Sentite,» domandò cercando di consolarli. «Volete tornare a casa?» «Sì,» fece il broncio Josh fra le lacrime. «Voio andare a casa, mamma,» si lamentò forte Marcy. «Presto ci andremo. Ma dovete restare tutti e due qui finché non vengo a prendervi. Non vi azzardate a uscire dalla stanza finché non viene la mamma, bene?» Prima o poi la polizia sarebbe venuta, così anche se lei non ce l'avesse fatta ad arrivare alla macchina, i bambini sarebbero stati al
sicuro. Ma ce l'avrebbe fatta. Non aveva più dubbi. «Viene anche Dopey?» domandò Josh. Il piccolo cane era seduto in un angolo e agitava allegramente la coda. Nel guardare il suo piccolo muso affettuoso, Diane fu presa da un brivido. Si domandò se sarebbe mai riuscita a toccare nuovamente un cane. «Naturalmente,» li rassicurò. «Naturalmente Dopey viene con noi.» Dopo essersi fermata nella camera sul davanti per prendere l'ultima camicia di Larry, andò nella stanza di Cornelia. La vecchia donna era seduta su una sedia a dondolo, cantando piano quello che a Diane sembrò un inno. Diane uscì dalla stanza e tornò in cucina. Prese un grosso vaso sporco da sotto l'acquaio e iniziò a preparare la sua arma per l'ultimo scontro. Len Hirschfeld cominciò a scivolare dallo scafo. Sembrava che il tempo migliorasse, anche se era più freddo che mai. Le sue dita annaspavano sulle assicelle, ma non riusciva a conservare la presa sul legno scivoloso. «Aiutami, Kenny!» gridò. «Tieniti, Len!» rispose urlando Kenny. Le onde confuse che agitavano lo scafo gli rendevano praticamente impossibile aiutarlo. «Scivolo, Kenny, scivolo. Aiutami, per favore, aiutami,» implorò Len. Kenny si allungò più che poté, cercando di afferrare Hirschfeld senza mettere a repentaglio la propria precaria posizione. Ma, completamente allungato, mancava ancora qualche centimetro. Lentamente, quasi con grazia, come una panciuta petroliera che venisse varata, Len Hirschfeld scivolò dallo scafo nelle acque verdi. Il suo unico grido venne soffocato dall'infrangersi di un'onda. Passò galleggiando a poca distanza da Kenny, e per un attimo Kenny ebbe nuovamente l'opportunità di rischiare la propria vita per salvare quella di Hirschfeld. Nella mente gli balenò il ricordo di come nel Vietnam fosse balzato allo scoperto, durante una battaglia, per estrarre dalle fiamme due compagni. Ma era stato tanto tempo prima. Prima che la morte avesse colpito così vicino. Si tenne stretto allo scafo, urlando per la frustrazione: «Non posso, Len, non posso. Non posso.» L'ultima cosa che Kenny vide di Hirschfeld fu una mano grassoccia che cercava disperatamente di afferrarsi all'acqua. Poi scomparve. Lui si tenne, si tenne con tutte e due le mani, conficcando le corte unghie nel legno, spingendo mentre il mare cercava di strapparlo dallo scafo, senza però riuscire a fargli mollare la presa. Gli occhi gli bruciavano e l'acqua
salata gli aveva screpolato le labbra, ma era sempre vivo, e non si sarebbe arreso al mare. Invece si sforzò di concentrarsi sul fratello. Ho provato, Larry, gridò silenziosamente, lo giuro. Ho cercato di aiutarti. Ormai restava solo la sopravvivenza. Poi avrebbe spiegato tutto a Larry, gli avrebbe fatto capire. Un'immagine del padre, seduto sulla vecchia poltrona marrone, che fumava la pipa che gli era stata regalata per Natale, gli balenò nella mente. Non è colpa mia, io non l'ho abbandonato. Non ho abbandonato nessuno. Quell'immagine venne sostituita da una seconda: la grassa mano di Len Hirschfeld protesa verso la barca. Un'altra onda si infranse sullo scafo e aprì una lunga fessura fra la chiglia e i bordi. Kenny guardò l'acqua che dall'apertura entrava all'interno. Il sergente Stewart Stromfeld si stirò, sbadigliò e finalmente si alzò dalla sedia di vinile per salutare il sergente Peter Dichter, suo amico ma, cosa molto più importante, suo sostituto. «Ho fatto tardi?» scherzò Dichter. «Solo due fottuti giorni,» gli rispose Stromfeld. Il capitano era contrario alla volgarità nella centrale, ma quella era un'occasione speciale. Ora avrebbe potuto dormire. Stromfeld mise Dichter al corrente della situazione il più rapidamente possibile, mentre l'immagine della cuccetta nella cella sul retro gli riempiva la mente. «La guardia costiera ha quasi finito di occuparsi della petroliera e ora stanno cercando le piccole imbarcazioni in pericolo. Quando richiamano digli che abbiamo una richiesta di aiuto dall'isola di Burrows...» Spiegò rapidamente al suo sostituto delle telefonate. «Cani, eh?» disse Dichter scrollandosi di dosso la neve dalla giacca dell'uniforme. «È quello che hanno detto. Cani.» «È uno strano mondo.» Stromfeld si disse d'accordo. Sfogliarono le carte che andavano sfogliate, firmando quello che andava firmato, poi Dichter rilassò sulla sedia di vinile la sua grande mole sovrastata da una faccia infantile. «Ehi, Stromfeld!» gridò, fermando il sergente nel corridoio, «ho una domanda da farti.» «Sì? Quale?» «Come fa un guidatore di spazzaneve ad arrivare allo spazzaneve?» Rise. «Va' a farti fottere,» lo insulto Stromfeld allegramente, uscendo dalla
porta. Rimasto solo, Dichter cominciò a riordinare le carte di Stromfeld in pile chiare ed efficienti. Fra qualche ora, quando la tempesta fosse passata, quando la guardia costiera avesse chiamato o quando il dipartimento di polizia avesse fatto uscire la sua lancia, avrebbe mandato qualcuno, innanzitutto, all'isola di Burrows. «Cani,» borbottò a alta voce. «Cani?» Diane inzuppò l'ultima camicia di Larry nella pozza di sangue che si era formata sotto il braccio destro del marito. Poi prese la bottiglia quasi piena di lisciva e la vuotò nel vaso sporco. Un regalo per il pastore. Di nuovo armata, aprì la porta e uscì in giardino. Il cane si mosse nervosamente davanti a lei. Ma si mantenne a una certa distanza, preoccupato per l'intrusione. Rabbrividendo, Diane continuò ad avanzare nella neve. Rimani calma, si incitava, calma. Non c'era da vergognarsi, si rendeva conto, se non aveva il coraggio di Frieda. Il vaso di lisciva le oscillava precariamente nella mano destra, con la sinistra tendeva la camicia insanguinata. «Qui cane,» disse con dolcezza, facendogli vedere la camicia. «Questo è per te.» Il vaso diventava più pesante, e il passo nervoso lo faceva sballottolare ancora di più. Alcune gocce uscirono dal bordo e le bruciarono la mano. Non se ne accorse. «Vieni a vedere cosa ho per te, vieni qui,» lo blandiva piano. Il pastore si tirava prudentemente indietro. Il miscuglio di odori che permeava l'aria lo confondeva. Non uno, due. E il pesante odore del sangue. Il cane cercava di separarli, ma si stava dimostrando difficile. «Non scappare, cane. Vieni da me. Vieni da me,» lo pregava Diane. Il cane si fermò. La dolce voce lo interessava. Non si mosse, aspettando che la figura si avvicinasse. Era a dieci metri, poi a sette. Allora cominciò a muoversi. Un passo, due. Si fermò di nuovo, annusò, fece un altro passo in avanti. Ora l'odore del sangue era chiaro. Emergeva sugli altri e li soffocava. La sua offerta era questa. Si rannicchiò per spiccare il salto e si slanciò in aria, dritto verso Diane. Quando il cane scattò, Diane gli tirò il contenuto del vaso contro la testa. La lisciva lo investì in faccia, bruciandogli gli occhi e la bocca. Il pastore cadde a terra e cominciò a passarsi freneticamente le zampe sugli occhi. Si rotolò sulla neve, cercando di lavarsi dal bruciante liquido. Diane non si fermò a guardare i risultati del suo lancio. Non appena ebbe tirato la lisciva, lasciò cadere il vaso e cominciò a correre verso la macchi-
na, non rallentando neppure per vedere se il cane la stesse seguendo. A ogni passo si aspettava di sentirsi addosso il suo peso. Ma il cane non arrivò, e lei raggiunse la macchina. Calma. Calma. Continuando a ripeterselo, infilò quella che sperava fosse la chiave giusta nella serratura della portiera e girò. Tirò la maniglia, rompendo le incrostazioni di ghiaccio, e la portiera finalmente si aprì. Entrò dentro, sbattendo la portiera e mettendo la sicura, mentre altra neve e altro ghiaccio cadevano dai finestrini. E poi rimase seduta, tremante, sul sedile anteriore della macchina, cercando di calmare il cuore che le batteva freneticamente. Ce l'ho fatta, pensò soddisfatta, ce l'ho fatta! Il pastore non si vedeva, ma le arrivavano i suoi lamenti agonizzanti, che le dicevano che la lisciva aveva servito allo scopo; erano salvi! Fra poche ore sarebbero nuovamente stati nel loro appartamento. Dopo aver dato tempo alle sue mani nervose di smettere di tremare, Diane fece per infilare la chiave di accensione. Il pastore saltò contro il parabrezza. La testa macchiata di sangue del cane era a pochi centimetri dalla sua, separata solo dalla sottile lastra di vetro infrangibile. Lui lanciò ripetutamente il corpo massiccio contro il parabrezza! Le caddero le chiavi dalle dita, sul pavimento, e lei si rannicchiò sul sedile. Le possenti zampe anteriori del cane sbatterono contro il vetro, ma non riusciva a entrare. Diane fissò la bocca gocciolante di saliva; il cane scoprì i denti. E poi, all'improvviso com'era arrivato, il cane se ne andò. L'abbaiare cessò, Diane si mise lentamente a sedere al posto di guida. E poi un altro colpo contro il fianco della macchina la fece istintivamente balzare indietro. Passò qualche minuto senza che dall'esterno giungesse alcun suono. È troppo resistente, la macchina è troppo resistente, pensò Diane, non mi può prendere. Si è arreso. Questa volta rimase al posto di guida, alzandosi in ginocchio per guardare fuori. Il pastore si stava rotolando nella neve vicino all'orlo della gola, toccandosi gli occhi. Adesso Diane poteva sentire i suoi guaiti di dolore. Il cane rotolò più vicino alla gola, senza rendersi apparentemente conto della sua esistenza. Poi a poche decine di centimetri dall'orlo, si fermò e guardò in direzione della casa. Diane seguì il suo sguardo. Corny era in piedi accanto alla porta di cucina, tenendo Josh con la sinistra e Marcy con la destra. Chiaramente infiacchito dal dolore e attratto dai nuovi odori, il pastore si diresse ancora verso il giardino.
Diane raccolse le chiavi sul pavimento e cercò di infilarne una nell'accensione. Non entrava. Cercò di infilarcela a forza, ma non era quella giusta. Calma! Prese la seconda chiave e provò con quella. Entrò e girò. Calma! Diane premette l'acceleratore, spingendo fino in fondo, cercando come una folle di pompare la vita nel motore freddo. Tossì, prese, si spense, riprese, poi morì vibrando. Parti, implorò Diane, parti per favore. Il pastore era riuscito ad attraversare il ponticello e stava dolorosamente avanzando verso Corny e i due bambini. «Parti! Parti!» gridò forte Diane, mentre premeva disperatamente l'acceleratore. Il cane era a metà giardino. Un sordo gorgoglio gli usciva dal profondo della gola. Diane premette di nuovo l'acceleratore fino in fondo e girò la chiave. Il motore ribollì pesantemente, poi si accese. Diane diede disperatamente gas, sperando che la macchina non si spegnesse. Il pastore si fermò per guardare l'automobile nera al di là della staccionata. Lei innestò la marcia e le ruote posteriori girarono, ma la macchina non si mosse. Calma! Mise la marcia indietro e la macchina oscillò indietro, poi mise velocemente la marcia avanti. Poi indietro. La macchina andò avanti e indietro, poi fremette e si liberò. Adesso Diane sudava e aveva i capelli appiccicati sulla fronte. Quando arrivò allo stretto ponticello di legno, se li tolse dagli occhi. Guardando il cane meglio che poteva attraverso il ghiaccio che ancora ricopriva il parabrezza, passò sopra il ponticello scricchiolante ed entrò nel giardino. Quando sentì che le ruote erano nuovamente su terreno solido, Diane pigiò l'acceleratore a tavoletta. Le ruote di dietro scivolarono, slittarono, ma poi presero e la macchina aumentò di velocità nell'attraversare il giardino. Mirò direttamente al pastore. Il cane grigio era confuso dal rombo che sentiva dietro di sé. All'ultimo momento si voltò per vedere il mostro nero che puntava su di lui e fece un salto di lato. E quasi ce la fece. Il paraurti lo prese ai lombi posteriori, facendolo cadere disordinatamente a terra. Il dolore era incredibile. Le zampe posteriori non si muovevano. Ma non si fermò. Con le zampe anteriori, trascinò il corpo martoriato verso la macchina. Dal limitare del bosco il labrador sentì gli strani suoni. Il capo, no, non più il capo, ma un altro cane, il pastore, era stato ferito. Due cani si mosse-
ro come per tornare in giardino, ma il labrador andò loro davanti per fermarli. Quando fu sicuro di avere il controllo, il cane scuro si voltò e trotterellò addentrandosi nel bosco. Dopo un attimo di esitazione, il resto del branco lo seguì. Diane saltò dalla macchina una frazione di secondo dopo che ebbe colpito il pastore. Non si preoccupò di guardare il cane ferito; se non era morto era senza dubbio molto mal ridotto, non più una minaccia. Gridò a Corny: «Li metta in macchina! Josh, sali! Sali!» Quando corse in cucina, Larry aveva gli occhi aperti e stava cercando di sollevarsi sul gomito sinistro. Senza dire una parola, gli andò dietro e lo aiutò ad alzarsi in piedi. Lui le si appoggiò pesantemente addosso mentre lei lo trascinava e lo spingeva alla macchina. In seguito Diane non riuscì a ricordare come avesse fatto a sdraiarlo sul sedile posteriore. Il pastore ululava di dolore trascinando il corpo storpiato verso la macchina. Diane cominciò ad andare indietro, ma vide che il cane continuava ad avanzare. Sorrise sardonicamente, poi innestò la marcia in avanti. Il cane vide la macchina che gli veniva addosso, ma non poteva evitarla. L'automobile lo colpì, passandogli sopra con un rumore sordo. Diane fece un'altra decina di metri prima di frenare di colpo, facendo quasi cadere Larry sul pavimento. Mise la marcia indietro e passò deliberatamente sul cane già morto. Si fermò, cambiò e passò ancora sul corpo privo di vita. Dopo fece un ampio arco e attraversò lentamente il ponticello. In salvo, pensò, in salvo, in salvo, in salvo, in salvo. Lacrime di sollievo le rigavano le guance mentre si allontanava dalla casa. Sentendo la macchina che se ne andava, Dopey scese le scale, attraversò di corsa la cucina e uscì in giardino. Guardò la macchina svanire in lontananza, poi emise un lungo, solitario ululato. Kenny rimase precariamente attaccato alla barca che affondava sempre di più nell'acqua, con il corpo così intirizzito dal freddo che non sentiva più niente. Si domandò quanto sarebbe resistito. «Per sempre!» gridò solo a se stesso. Adesso le nuvole erano più chiare, come se la tempesta si stesse dirigendo verso il mare. Mentre si allontanava, lo stretto era immobile, nella bella calma che spesso segue un temporale. Le onde gli arrivavano appena alle spalle e non si rompevano più sopra la sua testa. Kenny vomitò e guardò il vomito dirigersi verso la terra con la corrente. Con l'ultima forza che gli restava, alzò la gamba destra sopra le assicelle
dello scafo e cercò di salire in alto sopra l'acqua. Ma non aveva più la forza di tirarsi fino in cima. Rimase per un attimo appeso allo scafo, con la parte inferiore del corpo intirizzito in acqua, giurando piano a se stesso che non avrebbe mai, mai, mollato. Poi cadde in mare, affondando rapidamente sotto la superficie. EPILOGO Il Bountiful Islander era zeppo di apparecchi televisivi, valigie, amache, lenzuola, cibo, uomini, donne, gatti, canarini e cani presi per l'estate, quando approdò al molo quel primo sabato assolato di maggio. «Porta il cane!» ordinò il padre. «E stai attento di tenerlo al guinzaglio.» Il carro rosso li aspettava incatenato alla ringhiera vicino al molo dove l'avevano lasciato ad arrugginire il settembre precedente, e lo riempirono dei loro primi oggetti dell'estate. Ogni fine settimana avrebbero portato qualcosa, finché la casa sarebbe stata finalmente piena. Le feste sarebbero cominciate alla fine del mese, e a giugno la madre ci si sarebbe trasferita per l'estate. Il padre vi sarebbe andato a trascorrere i weekend fino alle sue vacanze a fine luglio, quando li avrebbe raggiunti per tre settimane. L'estate sarebbe trascorsa velocemente e ci sarebbero state risa, e abbronzature, e momenti lieti, e alla fine dell'estate si sarebbero vantati dei loro corpi abbronzati e sani. Un giorno o l'altro in agosto una balena sarebbe emersa davanti alla spiaggia, attirando l'attenzione di tutti. Più tardi, nello stesso mese, un matrimonio di villeggianti sarebbe stato celebrato nel municipio parato a festa. Nel bosco, rendendosi appena conto dell'attività sul molo, c'era un piccolo basset hound che un tempo si era chiamato Dopey, ma che adesso viveva fra gli alberi e vagava con il branco. FINE