KARIN FOSSUM IL BAMBINO NEL BOSCO (Den Som Elsker Noe Annet, 2007) I am going to cry for you. Be strong above. My yearni...
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KARIN FOSSUM IL BAMBINO NEL BOSCO (Den Som Elsker Noe Annet, 2007) I am going to cry for you. Be strong above. My yearnings are like doors that are opened in the night. Piangerò per te. Sii forte lassù. I miei lamenti sono come porte aperte nella notte. A. GEFEN Dalla statale un leggero pendio portava al laghetto chiamato Bonnafjorden. In prossimità dello specchio d'acqua la spiaggia di sassi aguzzi conduceva a una discesa ripidissima. Una stradina asfaltata si snodava simile a un nastro azzurro tra i campi, le case erano schierate in file colorate, le verande e i balconi erano rivolti a nord, verso il lago. Al limitare si vedevano fattorie ben tenute con le loro case padronali bianche e grigie e i fienili rossi. Qui si trovava Bell'Occidente, di proprietà di Waldemar Skagen. In un recinto pascolava il cavallo Evidence. A est del lago si trovava Bell'Oriente, gestita dal cognato di Skagen. Simile a un portale multicolore, un arcobaleno si stagliò tra le due fattorie nel momento in cui un rovescio di pioggia stava percorrendo il cielo e il sole squarciava le nubi. In cima alla strada, con vista su Bonnafjorden, c'era un negozio di alimentari che ora era diventato parte della catena di supermercati Kiwi, dove una mente geniale aveva imposto al personale di indossare delle uniformi verde mela. All'ingresso del negozio era appeso un cartello che esortava gli studenti a lasciare gli zaini all'esterno, visto che rubavano a più non posso sigarette e cioccolato. Signe Lund era seduta alla cassa, i prodotti scivolavano sul nastro, e lei sognava di trovarsi da tutt'altra parte, come è tipico delle ragazze giovani. Dalla finestra vedeva Bonnafjorden e
Bell'Occidente con i campi rosa e gialli i cui raccolti si agitavano al vento. Al centro, proprio sotto la collina di Svartåsen, c'era una piccola altura contornata da incantevoli cespugli di sorbo selvatico che si ergeva come un'isola in quell'oceano di grano. L'altura protetta da rovi e arbusti nascondeva un segreto: una piccola cantina sotterranea di cui pochi erano a conoscenza. Era a quella che stava pensando in quel momento. Un ricordo agrodolce la punse sotto l'uniforme verde. 1 Nessuno lo vide attraversare il bosco, nessuno vide cosa stava trasportando. Un peso modesto per un uomo adulto, ma che gli causava una certa fatica, il passo era instabile e barcollante. Di tanto in tanto si fermava a respirare, emettendo suoni che sembravano lamenti. Poi si rimetteva in cammino di buona lena. Simile a un vecchio, passava sotto gli alberi, oppresso dal peso di ogni cosa, oppresso dall'orrore e dal pianto. Tutto era così doloroso che le ginocchia stavano per cedergli, continuava a guardare indietro, la testa che si girava con scatti nervosi. Aumentò l'andatura e si trovò davanti a un gruppo di alberi. Non intendeva lasciare il fardello in un punto qualsiasi, ma proprio lì, vicino a quel grappolo di alberi che avevano quasi la funzione di un monumento. Quest'ultimo barlume di dignità suonava come una consolazione: in fondo lui era un essere umano, aveva sentimenti, molti dei quali buoni. Si guardò nuovamente sopra la spalla, non si vedeva anima viva, rimase in piedi pronto a cogliere ogni suono mentre il cuore gli martellava in petto. Il bosco era come un enorme organismo, respirava, lo osservava, lo condannava con un ronzio profondo, minaccioso. Come hai potuto cadere così in basso? diceva il bosco, nessun essere umano ti sorriderà mai più di cuore, non dopo questo. Aveva raggiunto il gruppo di alberi. Si accoccolò. Posò il fardello su un letto di muschio morbido. Dopo essersi alzato, si asciugò il sudore dalla fronte, faceva caldo. Così non va, pensò. Fu travolto da una tempesta di sentimenti, un miscuglio di paura e di rabbia. Niente andava per il verso giusto, era tutto sbagliato, tutto quello che era successo. Come era potuto accadere? Inorridito si coprì il volto con le mani, avevano l'odore di ferro caldo. Sentiva la paura riempirgli la bocca e le vene, avvertiva il terrore stringergli i polmoni. Il destino gli aveva giocato un tiro mancino e crudele spingendolo nel baratro in cui stava adesso precipi-
tando, gettandolo nel rifiuto e nella condanna. Decapitatelo, avrebbe detto la gente, buttatelo in galera e gettate via la chiave, non vogliamo uno così per le strade. Sbandò leggermente, le ginocchia gli cedevano. Devo andare, fu il pensiero che lo folgorò, andarmene via da qui, ritornare alla macchina, devo tornare a casa e sprangare la porta, tirare le tende. Starmene in un angolo ad ascoltare i rumori, se dovessero arrivare. Ma non rispondo, pensò poi, mi chiudo dentro, perché non ce la faccio! Alzò un pugno verso il cielo, verso Dio che gli aveva dato voglie e desideri così forti, ma che non gli permetteva di soddisfarle come voleva. L'auto era parcheggiata abbastanza lontano, vicino a una sbarra che impediva il passaggio ai veicoli. Si allontanò a passi veloci senza voltarsi, percorrendo il bosco a rotta di collo. Vide finalmente la macchina e la sbarra. E qualcos'altro, qualcosa che si muoveva, qualcosa di rosso e bianco tra il verde. Si fermò di colpo. Stavano sopraggiungendo a piedi un uomo e una donna. Si precipitò a nascondersi tra i rami, ma si riprese subito e proseguì con lo sguardo abbassato, percorrendo l'ultimo tratto il più velocemente possibile. Adesso la tempesta imperversava di nuovo dentro di lui. Questo momento è fatale, pensò, è la mia fine, questi due si ricorderanno di me e andranno a raccontarlo a tutto il mondo. Lo abbiamo visto e ce lo ricordiamo bene, avrebbero detto, un uomo con un eskimo blu con il cappuccio. E sarebbe iniziata la caccia. Soltanto alla macchina alzò rapidamente gli occhi incontrando per un attimo lo sguardo della donna. Lo meravigliò il fatto che lei gli sorridesse, un sorriso aperto e amichevole. Quando lui, incapace di restituirle il sorriso, si limitò a osservarla atterrito, lei si fece seria. La coppia superò la sbarra per scomparire nel bosco, ma la donna si girò un'ultima volta per guardarlo. 2 Erano una coppia, ma il loro matrimonio durava ormai da tanti anni, non si tenevano per mano. La donna indossava un giaccone rosso lampone, l'uomo aveva una giacca a vento leggera, bianca, era sempre un passo davanti a lei, alto, sicuro e ben allenato. La donna lo osservava di sottecchi mentre pensava che il marito aveva l'atteggiamento di chi si impossessa di tutto, come se il bosco fosse suo e dovesse approfittare di questo diritto. Sotto i suoi piedi, i rametti secchi schioccavano, la vegetazione cedeva, la donna arrancava per tenere il passo. Erano disarmonici. Pensavano a cose che non volevano condividere né riconoscere. Ma facevano passeggiate in-
sieme, era un'abitudine, e avevano bisogno di consuetudini: erano quelle a tenerli insieme e a rendere prevedibile il mondo. Era una giornata di settembre incredibilmente calda, l'uomo aprì la giacca; il vento fece agitare i baveri come fossero piccole vele. Infilò una mano in tasca per prendere le sigarette. «Reinhardt», disse la donna, «è tutto secco.» La voce era priva di autorità, si trattava di una cauta preghiera. Lui contrasse la bocca irritato, non era il tipo da farsi riprendere. Strinse le labbra su una sigaretta con il filtro e l'accese con uno Zippo. Aveva iridi azzurro acqua con striature dorate, e il dorso del naso affilato gli donava un bel profilo. La donna scelse di tacere, lui sapeva il fatto suo. Si concentrò sul terreno costellato di sporgenze e buchi, a volte qualche radice sul sentiero. Lanciò un'occhiata veloce in direzione del marito, era molto più alto di lei, più grande e più forte, era sempre lui a condurre il gioco. Per anni lei aveva represso la propria intelligenza perché lui era così brusco. Adesso era preoccupata per via della vegetazione secca e della sigaretta accesa. La luce che esisteva un tempo tra di noi si è spenta, pensò tristemente, non c'è più niente che brilla, avremmo dovuto fare un bambino. Un figlio avrebbe dato nutrimento al nostro rapporto, ci avrebbe riuniti e trasformati in persone buone. La pensava così. Invece erano passati gli anni e niente figli, il marito era restio e lei non osava sfidarlo. Se la donna intavolava il discorso, diventava scontroso e acido e alzava il mento, mentre lei abbassava lo sguardo in silenzio. Non ne abbiamo già abbastanza? diceva lui, due lavori a tempo pieno, casa e giardino, debiti fin sopra i capelli. Come fa la gente a trovare il tempo, insisteva, ad avere abbastanza soldi? Lei non gli rispondeva, ma vedeva che gli altri il tempo ce l'avevano. Vero, erano stanchi, si dividevano tra i figli, la carriera e i propri bisogni. Ma non appena il bimbo gli si accoccolava in grembo, si illuminavano, e lei sentiva la mancanza di questa luce con tutto il suo cuore. Un bagliore particolare che coglieva negli occhi delle amiche e degli amici. Il marito fumò la sigaretta fino in fondo, il tabacco ardeva rosso. Con uno schiocco delle dita buttò il filtro, che si librò in aria formando un arco scintillante. La donna lo seguì con gli occhi, era per terra tra l'erica, fumante. «Reinhardt», implorò, «spegnilo con il piede!» Reinhardt eseguì qualche passo di lato prima di polverizzare con forza esagerata il filtro sotto la suola della scarpa.
«Sei stressata, Kristine.» Lei fece spallucce a mo' di difesa, non osava fare altro. Il sole, che stava per tramontare, inondò gli alberi con i suoi raggi. Anche Kristine aprì il giaccone mentre si toglieva i lunghi capelli dalle guance e dalla fronte, la chioma era folta e castana con qualche striatura rossa. Era piccola di statura ed esile, il volto minuto, la fronte alta e bombata, le guance tonde. Aveva mani e piedi minuscoli, il marito, nei rari momenti affettuosi, la chiamava semplicemente Bambolina. Anche Reinhardt si passò una mano tra i capelli. La frangia corta, color sabbia si alzava sulla fronte e ricordava la pinna di un pescecane. Si stavano recando al laghetto di Lindetjern, dove erano soliti andare tutte le domeniche dopo mangiato. Kristine era spossata dalla routine, dalle abitudini in cui erano intrappolati, quel solco profondo in cui si trascinavano. Non c'era mai niente che spezzasse il ritmo, la mattina uscivano insieme in macchina per salutarsi davanti all'Ospedale Centrale, dove lei lavorava all'accettazione. Reinhardt proseguiva fino agli uffici della Hafslund, dove si occupava dei sistemi di sicurezza. Cenavano insieme e guardavano la televisione seduti fianco a fianco nel baluginare azzurrognolo. Dopo, Reinhardt giocava al computer, mentre Kristine sbrigava i lavori di casa. Il fatto che lui giocasse con i videogiochi la infastidiva molto, non le sembrava giusto che un uomo di trentasei anni s'affannasse tanto intorno a stregoni e draghi. Non solo se ne stava seduto con espressione bestiale ed esaltata, ma spesso se ne usciva con esclamazioni puerili che la mettevano in imbarazzo. Imprecava e se la prendeva all'inverosimile oppure strepitava trionfante quando abbatteva un nemico. Aveva poi l'abitudine di parlare senza sosta: dichiarava la propria opinione su qualsiasi questione e snocciolava anche le soluzioni. Non discutevano mai di se stessi, né di quello che provavano. Era già stato detto quasi tutto, e nei momenti più cupi Kristine sentiva che si comportavano come due estranei. La notte rimaneva sveglia a lungo respirando contro la parete mentre Reinhardt russava sonoramente. A volte faceva i propri comodi con lei con un'intensità tale da spaventarla. Questa è la mia vita, pensava, non posso aspettarmi altro. Potrei lasciarlo, ma dove andrei, cosa direi? In fondo ha la testa sulle spalle ed è fedele, non mi picchia mai, e ogni mese porta a casa lo stipendio, decisamente più consistente del mio. Si sentiva oppressa da questi pensieri mentre camminavano nel bosco. Gli altri sono felici? si domandava. C'è qualcosa che non va in noi due? Qualcosa che non abbiamo capito? Reinhardt allungò il passo. Con la coda dell'occhio lei osservò quell'om-
bra che ondeggiava, tormentata come sempre da un senso di colpa. Anche se scavava in profondità, non provava niente di buono per lui, si sentiva una traditrice. E questo tradimento la prostrava. Non osava ridurlo con le spalle al muro, contestarlo o avanzare delle pretese, perché forse lui l'avrebbe smascherata: tu non mi ami, credi che non me ne sia accorto? Credi che non sappia che mi stai ingannando? Lo seguiva lungo il sentiero, i pensieri le infuocavano le guance. Sarebbero andati fino al laghetto per fermarsi qualche minuto sulla sponda. Quella distesa d'acqua faceva sempre bene. Le avrebbe spento il fuoco che le infiammava il viso, l'avrebbe rinfrescata. I resti di vecchie case lungo la sponda le provocavano sempre un certo stupore, piccoli cerchi di pietre, modesti. Avevano ospitato famiglie con bambini, vite fatte di lavoro, malattia e morte, brevi momenti di felicità e di dolore. E pensare che la gente se la cavava con così poco! Loro invece avevano duecentocinquanta metri quadrati di vuoto, si raccoglievano in un angolo davanti al televisore, e le camere erano pronte ad accogliere figli che non sarebbero mai venuti, amici che non si sarebbero mai fermati a dormire. Adesso il sole veniva trafitto dagli alberi più alti. Questo, pensò Kristine, è il periodo più bello. Finita l'isteria dell'estate ma ancora niente tempeste, niente gelo, nessun inganno tipico dell'inverno inoltrato e della primavera, con i loro improvvisi scrosci di neve bagnata mista a pioggia e i venti impetuosi, ma settembre con la sua calma particolare. Notti buie, tiepide, mattine fresche. Di colpo si sentì così stanca, così oppressa da tanti pensieri che, nonostante il caldo, si strinse il giaccone intorno al corpo. «Domenica», disse Reinhardt. «Domenica e bel tempo. E qui non c'è anima viva. Ma ti sembra?» Sollevò verso di lui due occhi verdi, spalancati. «Ci siamo noi», rispose piano. Lui alzò di nuovo il mento, come era solito fare quando veniva ripreso: lei odiava quel gesto, quella piccola dimostrazione che ostentava sempre il suo rifiuto a chinare la testa e ad acconsentire. E lei si odiava perché aveva paura di lui, perché la teneva in quella morsa, sempre sulla difensiva, e in tutte le situazioni doveva muoversi in punta di piedi. Come se albergasse in lui qualcosa che non aveva il coraggio di affrontare. L'immagine di una fiaba della sua infanzia le si affacciò alla mente, un mostro che giaceva sonnolento sul fondo di una stagno fangoso. «Sì, ma accidenti», ribatté lui, «guarda com'è deserto. Non c'è una tenda, una barca. Questo laghetto è una perla, ma la gente non ha voglia di venir-
ci perché non può arrivare fin qui con la macchina.» «Ed è per questo che a noi piace passeggiare qui», gli disse. «Ci veniamo perché è tranquillo.» Reinhardt trafficò nella tasca alla ricerca di un'altra sigaretta, il sole basso gli illuminava gli zigomi e il mento pronunciato. Le venne in mente la prima volta che lo aveva visto, quando aveva pensato che sembrava quasi scolpito in un grande blocco di granito. C'erano molti angoli e sporgenze in quel viso largo, invece gli occhi erano infossati. La domenica non si faceva la barba e un'ombra gli copriva la parte inferiore del volto. «Gli allievi della scuola vengono qui con la tenda», osservò Kristine. «Quelli che scelgono Educazione ambientale come materia complementare. Vanno in canoa e pescano, e si alzano alle tre per sentire il gallo cedrone.» Reinhardt fece spallucce. «Non ho mai capito cosa ci sia di affascinante nel dormire in una tenda», commentò, «quando si può affittare il rifugio a Linde. Con letti come si deve e il gabinetto. Da ragazzo», continuò, «mio padre mi ha portato a fare un giro in tenda. Era una quattro posti, vecchia, non sopportavo l'odore che c'era dentro, e il sacco a pelo era usato e sporco. C'era una puzza di fumo, sporcizia e paraffina, si sentiva l'odore delle sostanze usate per impermeabilizzarla. E col cavolo che sono riuscito a dormire», disse. «Manco riuscivo a respirare.» Kristine si diresse verso uno dei resti delle case e si fermò dentro il cerchio di pietre. «Qui doveva esserci la cucina», esclamò. Reinhardt la raggiunse trotterellando. «Cucina... insomma», sorrise, «intendi dire il focolare?» Lei annuì. «Pensa, mangiavano il pesce del lago e catturavano uccelli e lepri con delle trappole. Che vita tranquilla deve essere stata, qui, vicino all'acqua.» Anche Reinhardt entrò nel cerchio, poi si fermò accanto a lei, simile a un gigante, era alto un metro e novanta e aveva le spalle molto larghe. «La sera si sedevano intorno al fuoco parlando piano e, quando i tizzoni si spegnevano, si rannicchiavano insieme per terra avvolti ciascuno in una pelle d'animale.» Reinhardt sfoderò un gran sorriso. «Mentre io accendo il mio impianto Bang & Olufsen e mi accoccolo sulla poltrona antistress», commentò. «Cavolo, come sono contento di vivere adesso.»
Kristine tacque nuovamente. Non riusciva a coinvolgerlo, lui non aveva intenzione di meditare sulla vita e sugli esseri umani. Era un uomo energico e pratico, razionale e sicuro di sé, lei invece si emozionava quando immaginava di vivere in un altro tempo, quando la gente aveva valori diversi, quando la paura era rappresentata da un lupo che vagava nei paraggi a caccia di bambini seminudi che giocavano sulla sponda del laghetto di Lindetjern. 3 «Al ritorno facciamo un'altra strada», esclamò lui. Infilatosi nel bosco, trattenne alcuni rami di lato in modo che non le colpissero il viso. Camminarono avvolti dal calore del sole basso e si fermarono dopo mezz'ora per riprendere fiato. Davanti a loro si apriva una radura circondata da abeti, uno spazio aperto, costellato di zolle erbose ed erica. In quel momento qualcosa si abbatté su di loro con incredibile violenza. «No!» gridò Reinhardt. E poi ancora, dopo qualche secondo. «No!» Kristine lo guardò confusa. Lui le strinse il braccio con una forza tale da farla gemere, non aveva mai visto quel volto forte riflettere una paura così grande. Seguendo il suo sguardo, si accorse di un gruppetto di alberi. Qualcosa giaceva ai piedi dei tronchi scuri. Reinhardt era stato costretto al silenzio. Lei non ci era abituata: lui era un tipo che agiva, che si esprimeva in tutte le situazioni. Kristine fissò ciò che giaceva ai piedi degli alberi, qualcosa di leggero e bianco. Fu folgorata dal pensiero terribile che si trattasse di una persona. «È un essere umano», sussurrò Reinhardt continuando a rimanere immobile e a serrarle il braccio in una morsa come fosse una tagliola. «Cazzo, è un essere umano», ripeté. «No», disse lei. Perché non poteva essere vero, non qui, non nel bosco di Linde. Reinhardt fece un passo in avanti. Non aveva più dubbi, vide le braccia e le gambe. Una maglietta con una scritta. Kristine si portò una mano alla bocca. Rimasero così per un'eternità. Il fagotto giaceva immobile nel muschio verde. Kristine alzò lo sguardo verso Reinhardt, gli occhi verdi lo supplicavano insistentemente di agire. «Dobbiamo telefonare!» gli sussurrò.
Reinhardt cominciò a dirigersi verso gli alberi, il corpo si muoveva controvoglia. Dieci passi, quindici, e videro un piede e una nuca esile. Era un bambino. Giaceva disteso sulla pancia, era nudo dalla vita in giù, e all'interno delle cosce videro il sangue che si era raggrumato in una pozza di colore rosso scuro. Kristine si voltò presa dalla disperazione e dal panico. Ma non ce la fece a resistere con la schiena voltata per più di un paio di secondi. Dovette guardare ancora, gli occhi verdi colsero ogni dettaglio. La nuca con i capelli tagliati corti, la maglietta con la scritta KISS. La pianta dei piedi, di colore rosa pallido sul muschio scuro. «Dobbiamo telefonare», sussurrò, «dobbiamo telefonare immediatamente!» Poi perse il controllo, e cominciò a tremare. Prima le mani, poi le spalle. Non c'era niente a cui potesse appoggiarsi, vacillò. Reinhardt la prese sotto le braccia e la sollevò. «Calma, adesso calma!» Ma lei non ne era capace. Mentalmente si stava dando una serie di comandi che non raggiungevano le braccia e le gambe. «112», sussurrò, «devi chiamare il 112.» Lui cercò velocemente il cellulare nella tasca. «Non è il 113?» Lei protestò debolmente, tutta in subbuglio. «112», ripeté, «la polizia!» Lui compose il numero a gran velocità mentre camminava avanti e indietro, lanciando continuamente occhiate furtive in direzione del corpo privo di vita. «Siamo a Linde Skog», lo sentì dire, «a trenta minuti dal laghetto. Abbiamo trovato un bambino.» Poi rimase in silenzio per qualche secondo, il cellulare premuto sull'orecchio. «Sì, mi chiamo Ris. Reinhardt Ris, stavamo facendo una passeggiata. Abbiamo trovato il corpo di un bambino morto. Dovete mandare qualcuno.» Di nuovo silenzio. Kristine cedette e, continuando a tremare, cadde in ginocchio e appoggiò le mani per terra. «No, non ha polso», gridò Reinhardt. «Non chiedetemi queste cose, si vede che è morto, è completamente bianco!» Andò nuovamente verso di lei, si fermò, la frangia color sabbia in aria. «Sì, possiamo andare alla sbarra del parcheggio, la nostra macchina è là,
vi aspettiamo.» Lentamente Kristine si rialzò, poi si diresse verso un punto all'estremità della radura. Qualcuno aveva accatastato una grande pila di tronchi, si accasciò su un ceppo. Rimase lì seduta mentre osservava il marito che conosceva tanto bene. Perché era così? Non era giusto dire che conosceva quell'omone come le sue tasche? Che ne conosceva gli sbalzi d'umore e il carattere forte e risoluto? Lui rimase a lungo perplesso a fissare in tutte le direzioni, un uomo possente tra gli alberi. Tutto ciò che lei ricollegava al marito ora mancava completamente: autorità, sicurezza e calma. Volontà e decisione. Era come se vacillasse. Lo vide avvicinarsi nuovamente al bambino, cadere in ginocchio, chinare la testa e congiungere le mani sul volto. Cosa sta facendo? pensò confusa. Piange, è possibile? Se ne sta lì seduto singhiozzando come un ragazzino? Mi sono sbagliata su di lui in tutti questi anni, è davvero sensibile e facile a commuoversi? Di colpo capì la verità. Seduto con il cellulare in mano, stava scattando delle foto. 4 «Come hai potuto!» esclamò disperata. Era scomparsa la sua solita sottomissione, svanito il terrore di irritarlo, quella era la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Mentre piangendo si asciugava le lacrime, corse fino alla sbarra, ma, dal momento che aveva le gambe corte, ci mise del tempo. «Tu non sei normale!» gli gridò. Reinhardt le arrancava dietro lungo il sentiero, venne raggiunta da alcune imprecazioni pronunciate a bassa voce. Raggiunsero l'auto in contemporanea. Dopo essersi appoggiata al cofano, Kristine si mise a singhiozzare. Quello che avevano trovato, quello che lui aveva fatto, era troppo per lei. Reinhardt si infilò in macchina e tirò fuori una sigaretta che accese, la bocca era contratta. A Kristine sembrò comunque di cogliere una parvenza di imbarazzo: aveva messo a nudo il morboso desiderio di sensazionalismo che lui si rifiutava di ammettere. L'uomo inalò tre volte, il fumo usciva sotto forma di nuvole bianche. «Mi sono comportato in modo del tutto automatico», le disse, «oppure, non so. È successo e basta.» «E cosa hai intenzione di fartene?» Dopo essersi rialzata, prese a fissarlo, gli occhi verdi erano lucidi. «Cosa
hai intenzione di fare con quelle foto?» «Niente», rispose immusonito lui prima di riprendere a fumare con ostinazione. «Pensa ai genitori», si lamentò Kristin. «Ti immagini se venissero a sapere che hai quelle immagini? Devi cancellarle, non è giusto!» «Tanto non lo sanno», replicò mentre cominciava lentamente a infuriarsi. «Ovvio che le cancellerò, non sono stupido, Kristine. Non prendere quel tono con me, decido io della mia vita, non provare a comandarmi!» Dopo lo scoppio d'ira inalò nuovamente. Kristine provò a calmarsi, le faceva paura quando alzava la voce. Se ne stava ancora appoggiata al cofano della macchina, agitata e a disagio. Scrutarono la strada da cui sarebbero giunte le auto. Di colpo a Kristine venne in mente qualcosa, guardò Reinhardt. «Quell'uomo che abbiamo incontrato... quello che abbiamo incontrato alla sbarra. Con quell'eskimo blu. Secondo te cosa stava facendo quassù?» Abbandonata la macchina, Reinhardt si piantò a gambe larghe. «Poteva essere lui», continuò lei, «non aveva quasi il coraggio di guardarmi negli occhi. Dobbiamo dirlo, vero? Ci sottoporranno a un interrogatorio. Chiederanno se abbiamo visto qualcosa. Persone o auto.» Reinhardt si raschiò la gola per schiarirsi la voce. Come una furia sbatté la portiera prima di mettersi a camminare avanti e indietro come faceva sempre quando era su di giri. «La macchina?» chiese. «L'hai vista?» «Sì», gli rispose. «Bene.» «Era bianca», affermò il marito. «Un modello piuttosto vecchio», aggiunse lei. «Ma dalla carrozzeria lucida e ben tenuta.» «Adesso dobbiamo aguzzare l'ingegno», commentò Reinhardt. «Ci chiederanno dei dettagli.» Kristine ripensò alla scena. Aveva visto l'uomo nitidamente, lo aveva fissato negli occhi e un abbozzo di quel volto le si era impresso sulla retina. Gli aveva sorriso velocemente, come si fa per pura, automatica cortesia, un sorriso che non era stato contraccambiato. L'uomo l'aveva guardata con spavento, comportandosi in modo assolutamente sospetto, come se lo avessero colto in flagrante a combinare qualcosa di illegale. Quel tipo non mi è piaciuto per niente, pensò, quell'unico secondo in cui l'ho guardato negli occhi è stato sufficiente per avvertire una sensazione poco piacevole. «Età?» domandò Reinhardt. «Secondo te, Kristine? Forza, dobbiamo
prepararci.» Ci rifletté con cura: «Tra i quaranta e i cinquant'anni». Il marito arricciò il naso insoddisfatto. «Dobbiamo essere più precisi, comunque, no, non sui cinquant'anni, più giovane.» Senza rispondergli, la donna prese prima a camminare avanti e indietro, poi a girare in cerchio intorno alla macchina parcheggiata. Il sole splendeva attraverso la Rover color argento, Reinhardt era scrupoloso nel tenerla sempre lucida e pulita. «Spero che facciano presto», disse. «Arriverà uno squadrone, Kristine, credimi.» Gli voltò le spalle rimanendo in silenzio. Dopo essersi infilata il pollice in bocca, cominciò a mordicchiare l'unghia, una brutta abitudine di cui non era mai riuscita a liberarsi. Il tempo non era mai trascorso così lentamente, non era mai stata in attesa a quel modo. Non era più in grado di godere della quiete del bosco, del sussurrare del vento tra le chiome degli alberi, del fruscio del fogliame. Rimase a lungo a osservare Reinhardt che se ne stava appoggiato di schiena contro la macchina a braccia incrociate. «Che cazzo di fine hanno fatto», esclamò lui. «È possibile?» «La strada è accidentata. Non possono andare troppo veloci.» Poi non dissero più nulla. Con il pensiero erano al boschetto, dal bambino, e di colpo Kristine provò una strana felicità per il modo in cui giaceva: con il volto nascosto nel muschio. Non gli aveva visto gli occhi. Fissò nuovamente la strada, finalmente sentì il rumore di una macchina. Spenta la sigaretta, Reinhardt raddrizzò la schiena. Era come se si stesse preparando all'esibizione della sua vita. 5 In testa a quel corteo serio camminava un uomo alto con i capelli grigi. Procedeva con passo elastico, energico, mentre si guardava attorno: osservò Reinhardt e Kristine, studiò l'ambiente. Dietro di lui veniva un uomo più giovane con un'imponente massa di ricci biondi. «Ce n'è voluto di tempo», esordì Reinhardt. «Sono stato io a chiamare, mi chiamo Ris, Reinhardt Ris. È nel boschetto qui in fondo, vicino ad alcuni alberi. Un paio di minuti a piedi.» Si girò indicando tra le piante. «Come avevo detto, si tratta di un bambino. È sdraiato sulla pancia, non ha indosso quasi niente. Per noi è stato uno choc terribile. Passeggiamo qui tutte le domeniche, lo facciamo da molti
anni, ma non avremmo mai creduto di doverci imbattere in una cosa simile, e non sappiamo neanche cosa sia successo, ma devo ammettere che sono preparato al peggio, come voi del resto. Non può avere molti anni, forse sei o sette. Tu cosa ne dici, Kristine, potrebbe avere sette anni?» Il diluvio di parole di Reinhardt si interruppe. L'uomo con i capelli grigi lo fissava con gli occhi ridotti a due fessure, la sua stretta di mano stritolava. Si presentò come Konrad Sejer. Mentre salutava Reinhardt, lanciò un'occhiata veloce verso Kristine e il viso gli si addolcì. Lei era felice che qualcuno prendesse il comando della situazione. Una sensazione di imbarazzo le imporporò le guance, non capiva perché, forse si trattava degli occhi di quell'uomo, della sua presenza. «L'avete trovato insieme?» chiese. «Reinhardt l'ha visto per primo», rispose Kristine. «Le sembra un caso difficile?» «Sì», gli disse onestamente. «È difficile.» Sejer annuì. «È un bene che siate in due», proseguì. «È più facile quando si ha qualcuno con cui condividere certi momenti.» Non condividiamo niente da un pezzo, pensò la donna scoraggiata. «Abbiamo visto un uomo», proclamò Reinhardt. «Un uomo che si stava allontanando, aveva fretta. Lo abbiamo incontrato qui alla sbarra, è andato via con un'auto bianca. È successo tutto velocemente.» Sejer corrugò appena la fronte, era molto raro che si scomponesse di più. Sul volto del poliziotto più giovane era possibile intuire l'ombra di un lieve sorriso a mano a mano che si rendeva conto del bisogno di farsi notare di Reinhardt. «Abbiamo registrato alcuni dettagli», proseguì Reinhardt. «Avevamo appena parcheggiato, l'abbiamo incrociato da molto vicino.» Sejer annuì pacatamente. Kristine cominciò a camminare. Avvertiva dentro di sé una forma di resistenza, il pensiero di quello che l'aspettava la terrorizzava. Il poliziotto riccioluto apparve al suo fianco con la mano tesa, si chiamava Jacob Skarre. Ricordava un adolescente allampanato dagli occhi grandi e azzurri, e i suoi ricci avrebbero fatto invidia a qualsiasi ragazza. Dietro di lui venivano un gruppo di tecnici, armati di attrezzature che avrebbero usato sul luogo del crimine. O del ritrovamento, pensò Kristine. Chissà perché era assolutamente certa che il bambino fosse stato ucciso da qualche altra parte e poi portato lì dall'omicida. Rivide l'uomo incontrato alla sbarra: fu per-
corsa da un brivido al pensiero di quello sguardo disturbato. Si mise a sedere sul legname accatastato mentre il gruppo di tecnici iniziava il proprio lavoro certosino. Li osservò mentre lentamente trovavano il proprio posto. Si sentì pervasa da una specie di calma: ognuno dei presenti aveva un compito, nessuno mostrava segni di disgusto, solo di serietà. Ma non appena cominciò a pensare fu aggredita dalla disperazione perché il bambino aveva dei genitori ignari dell'accaduto. Forse in quel momento stavano ridendo per qualcosa di divertente. Se li immaginava in un soggiorno, con il sole che penetrava dalla finestra. Il pensiero le mozzò il fiato. Fu interrotta perché sentì la voce di Reinhardt rompere il silenzio, era alta e sicura di sé. Era così stanca di quella voce, così imbarazzata dal fatto che lui non sapesse tenere la bocca chiusa. L'ispettore e il suo collega si erano inginocchiati, spalla a spalla nell'erica. Stavano guardando ciò che lei aveva visto, i dettagli che rivelavano cosa era successo al piccolo. Reinhardt arrivò di colpo, forse l'avevano cacciato via, pensò lei alzando lo sguardo. «Non hai notato nulla?» le domandò lasciandosi cadere pesantemente accanto a lei. «No», rispose stanca. «Manca qualcosa.» Lo guardò confusa. «Cosa?» «La stampa», disse freddo. Kristine sbarrò gli occhi. «Meno male», commentò. «Il quotidiano VG paga migliaia di corone per una cosa così.» Abbassò lo sguardo su di lei. «Non puoi chiamarli, non puoi!» «Santo cielo, analizza la situazione! Tanto lo fiuteranno comunque.» «No, se tieni la bocca chiusa.» «Salterà fuori prima di stasera», le disse, «e secondo me è giusto così. La gente ha il dovere di prendersi cura dei propri figli, quel bambino laggiù avrà al massimo sei, sette anni.» Lei non rispose. La bocca, piccola e contratta, aveva un'espressione tormentata. «Dobbiamo andare alla Questura», gli mormorò. «Rilasciare una deposizione.»
«Lo so.» «E se ricordiamo male? Non dobbiamo dire niente se non siamo sicuri.» «Tu ricordi qualcosa e io anche. Non la farà franca.» Kristine scosse la testa. «Forse stava soltanto passeggiando come noi.» Il medico legale Snorrason girò il bambino di schiena. Adesso gli videro il viso, gli occhi semiaperti. «Dovremo fare gli straordinari, Skarre», commentò Sejer. Skarre annuì serio. «Lavorerò giorno e notte», disse, «fino a quando mi bruceranno gli occhi.» Snorrason lavorava con mani leggere, caute, guantate. «Un bambino così piccolo», mormorò scuotendo la testa rossiccia. «Forse la madre ha chiamato preoccupata per la scomparsa del figlio», esordì Sejer. «Controlla con la Questura, Jacob.» Dopo essersi rialzato, Skarre rimase in piedi voltando loro le spalle. «Nessuna lesione visibile», affermò Snorrason. «Nessun graffio né ferite con oggetti appuntiti o aghi. Nessun segno di lotta, né di resistenza.» Sejer osservò il viso cadaverico del bimbo. «Può avere usato un cuscino», continuò Snorrason, «o qualcosa che aveva a disposizione. Una giacca, o una coperta.» «Lo noteresti se fosse ricorso a un guanciale?» gli domandò Sejer. «Non necessariamente. Niente fa pensare a una pressione sul volto. Spesso è possibile individuare un'impronta laterale dei denti all'interno delle labbra, ma qui non la trovo.» «Cosa sei in grado di aggiungere?» Snorrason aprì la bocca del bambino per osservarla. «Maschio, europeo, età otto, nove anni. Brevilineo e gracile. Peso, sui venticinque, trenta chili. Gli manca un dente nella parte alta della bocca. E», guardò Sejer, «si è morso con violenza la lingua.» Sejer ascoltava senza battere ciglio. «Da quanto posso giudicare, il bambino ha subito degli abusi sessuali», riprese Snorrason, «ma non presenta segni di altri tipi di maltrattamento fisico. In altre parole, non so perché sia morto.» Sejer fu costretto ad alzarsi, le ginocchia gli stavano cedendo, rimase in piedi ad osservare Skarre che parlava al cellulare. Poi guardò la coppia che lo aspettava seduta sulla catasta di legna. L'uomo fissava tutto senza ritegno, la donna giocherellava nell'erica con un rametto.
Skarre si infilò il telefonino in tasca. «Scoperto qualcosa?» gli domandò Sejer. «Hanno ricevuto una telefonata alle due. Una madre che cercava il figlio, il bambino si trovava a Huseby e doveva percorrere a piedi poche centinaia di metri, da Solberglia a Granatveien, aveva dormito da un amico. Ha chiamato in tutti i posti immaginabili e ha descritto gli abiti.» «E?» Sejer era in attesa. «Non c'è quasi nessun dubbio», disse Skarre. «Jonas August Løwe. Otto anni a ottobre. Piccolo e magro, capelli corti, biondi. Indossava una maglietta nera con la scritta KISS. Pantaloncini rossi al ginocchio. Scarpe da ginnastica nuove, bianche. Abbiamo trovato i pantaloni e le scarpe?» «No.» Sejer fece qualche passo lungo l'erica mentre ripeteva il nome tra sé e sé. Il sole ormai basso gli faceva luccicare i capelli grigi. Il viso era sempre immobile, ma chi lo conosceva bene, avrebbe notato la leggera contrazione della mascella. Si diresse verso la coppia in attesa, Reinhardt Ris lo guardò con una certa disinvoltura. «Vorremmo che ci seguiste in Questura», esordì Sejer. Dopo essere balzato giù dal tronco, Reinhardt scattò sull'attenti davanti all'ispettore. «Potete andare alla macchina», aggiunse Sejer. «Io e Skarre vi seguiamo. Recatevi alla Questura, alla reception, e aspettateci lì.» Ritornarono rapidamente alla sbarra. La loro vita non sarà mai più la stessa, pensò Sejer, perché questa è un'esperienza destabilizzante che ha lasciato il segno su entrambi, il marito ostenta la sua virilità, lei procede inerme a tentoni. Rimase per un po' a osservarli assorto nei propri pensieri. Poi tornò velocemente da Jonas August Løwe. 6 Il palazzo della Questura, un maestoso colosso in vetro e pietra, dominava la via trafficata. In alto sulla parete spiccava l'emblema della polizia, il metallo brillava al sole. L'architettura trasmetteva un messaggio di potere e autorità. Reinhardt aprì la porta a vetri per entrare con Kristine subito dietro. La reception si trovava in una stanza spaziosa, aperta, con uno sportello rotondo verniciato di marrone. Una donna li guardò con espressione
interrogativa, il chiarore azzurrognolo che si diffondeva dallo schermo del computer la rendeva livida. «In cosa posso esservi utile?» domandò loro. «Stiamo aspettando Konrad Sejer», disse Reinhardt. Dopo essersi accomodati su un divanetto, Reinhardt prese a tamburellare con le dita sul bracciolo. La donna si concentrò nuovamente sullo schermo, Kristine si sfilò il giaccone rosso. «Ci toccherà aspettare un'eternità», si lamentò Reinhardt. «Posso starmene qui seduta fino a stasera», commentò Kristine. «Tanto non riesco a fare nient'altro. Pensare al bucato e a preparare da mangiare è impossibile.» Reinhardt si alzò e prese a camminare avanti e indietro guardando con impazienza fuori dalle finestre. Estrasse il cellulare dalla tasca nello stesso istante in cui le girò le spalle. «Cosa stai combinando?» gli chiese preoccupata. «Mando un SMS.» Lo seguì nervosamente con lo sguardo, c'era in lui una sorta di pulsione, qualcosa che Kristine conosceva da altre situazioni. Quella volta che gli avevano restituito quarantamila corone di tasse, quando si erano comprati una macchina, la Rover color argento. Il modo in cui aveva fatto il suo ingresso nella concessionaria, da spaccone. Non le piaceva questo lato di lui, questo suo bisogno di mettersi in mostra, e l'avversione che provava nei confronti del marito diventava sempre più grande. Allora si sforzava di vederlo sotto un altro aspetto, quello buono, perché era suo marito e voleva essere generosa. Era un uomo fedele e un gran lavoratore, aveva spalle larghe e atletiche, la frangia ribelle, color sabbia. Il volto era grande e forte, le cosce muscolose e dure come roccia. Quando camminava con lui per la strada, capitava che le altre donne si girassero a guardarlo. Lei invece era così minuta, e il fatto che il marito fosse tanto più grande di lei un tempo l'aveva affascinata, si sentiva al sicuro, portata in braccio come una bambina. Era lui il protettore, quello che sbrigava ogni cosa. Di colpo sapeva trasformarsi in un ragazzino giocoso che la sollevava in aria ed era così affettuoso. In quei momenti riprendeva a volergli bene, si sentiva quasi felice, in grado di sopportare tutto il resto. Questi mutamenti di stato d'animo avvenivano in continuazione, questa doppiezza la rendeva estremamente confusa. Si era rimesso finalmente il cellulare in tasca prima di sedersi sospirando profondamente. «Sì, sì», fu il suo commento. «Almeno adesso avremo qualcosa di cui
parlare.» «Abbiamo trovato un bambino», replicò lei piano. Non lo guardava negli occhi, parlava con lo sguardo rivolto al proprio grembo. «Non solo», ribatté Reinhardt. «Qualcuno lo ha ucciso. Voglio dire, prima ha fatto qualcos'altro, sì, non voglio neanche nominarlo ad alta voce, e poi lo ha ammazzato.» «Non sappiamo come è morto», protestò lei. «Kristine», disse lui rassegnato. «Non venirmi a dire che non sai di cosa si tratta. Insomma, per chi mi prendi?» Reinhardt si trovava in una situazione insolita, essendo stato il primo a raggiungere il luogo del crimine. Inoltre aveva notato un uomo a pochi metri di distanza, un uomo che si stava allontanando. Dal suo personale punto di vista si sentiva importante e significativo. Kristine poteva fare quello che voleva, ma non le era permesso di decidere il modo in cui lui avrebbe gestito la situazione. Si rialzò dal divano per camminare inquieto avanti e indietro, la donna allo sportello lo seguiva con gli occhi. Finalmente Sejer e Skarre fecero la loro comparsa, la porta si richiuse con un lamento alle loro spalle. Li seguirono lungo i corridoi, senza far rumore sulla moquette verde; Kristine riavvolse il nastro del tempo, le immagini le si presentavano alla mente a pezzi. Vide l'uomo dall'eskimo blu, ricordò la portiera che si richiudeva, il rombo del motore, la sabbia e la ghiaia proiettate attorno dalle gomme. Cosa aveva pensato, cosa aveva provato quell'uomo? Che lo avevano disturbato. Ma non posso dire queste cose, pensò. Non sono obiettive. Loro desiderano osservazioni precise, non devo inventare. Sejer e Skarre erano silenziosi, camminavano come se si appartenessero, come se fossero una coppia, pensò lei, in sintonia. In confidenza. Raggiunsero l'ufficio di Sejer. Kristine ci entrò stringendo tra le braccia il giaccone rosso. Nel cuore di quell'edificio anonimo di vetro, pietra e cemento armato c'era un ufficio grande e luminoso dalle tendine colorate. Registrò alcuni semplici dettagli: una sedia signorile dallo schienale alto, una lampada dal paralume giallo e, sotto, una goffa figura modellata maldestramente con la pasta di sale. L'incalzare del tempo aveva fatto ammuffire il materiale, ma non c'era dubbio che la figura rappresentava un poliziotto in uniforme blu. Sulla scrivania un sottomano rappresentava una mappa del mondo, una penna copriva l'Italia e la costa della Tunisia. Alla parete erano appese delle foto. Un uomo, che assomigliava allo stesso Se-
jer, con un cane. Un adolescente dalla pelle scura. Su un tavolo alcune piante verdi, un armadio, numerosi raccoglitori rossi su uno scaffale. Processi penali, pensò Kristine, destini di esseri umani. Morte e brutture. Anche il bambino che avevano rinvenuto avrebbe trovato posto su quella mensola, sarebbe diventato un raccoglitore rosso. «Sapete chi è?» sussurrò. «Intendo dire, il bambino?» «Pensiamo di sì», le rispose Sejer. Congiunse le mani in grembo: sembrava una timida scolaretta in attesa del permesso di parlare. «Voi avete notato un uomo vicino alla sbarra del parcheggio», esordì Sejer. «Ci serve una descrizione, perché vogliamo trovarlo e interrogarlo. Cosa sapete dirci riguardo all'abbigliamento, all'aspetto e all'età?» «Era alto», disse Reinhardt. «Forse uno e ottantacinque.» Kristine scosse la testa. «No», precisò. «Non era molto alto. Era più piccolo di te, Reinhardt.» Sejer li guardò con calma. «Non blocchiamoci sui centimetri», commentò. «Cosa indossava?» «Una giacca a vento», rispose Reinhardt. «Blu scuro.» «Un eskimo», lo corresse Kristine. «Uno di quelli vecchi, con la fettuccia in vita. Aveva una bandiera norvegese sulla spalla. Quella sinistra», aggiunse battendo la mano sulla propria. «I pantaloni erano bianchi», intervenne Reinhardt. «No», ribatté Kristine. «Erano beige. Con molte tasche sulle gambe. Portava scarpe da ginnastica, marroni. Piuttosto vecchie e malconce.» Jacob Skarre prendeva appunti. «Età?» domandò Sejer. «Secondo noi sulla quarantina», rispose Reinhardt. «E com'era di costituzione?» «Be', come ho detto», ribadì Reinhardt, «era alto e snello.» Kristine incrociò lo sguardo di Sejer. «È vero, era snello», intervenne. «Cioè, non era né grasso né robusto, ma era largo, come dire, sui fianchi.» Reinhardt contrasse le labbra. «Che impressione vi ha fatto il volto di quell'uomo?» «Sembrava stressato», disse Reinhardt. «Su questo siamo d'accordo, Kristine?» La domanda suonava come un ordine. Sejer guardò Kristine. «Secondo lei? Le pareva stressato?»
«Forse era soltanto un po' misantropo, ma è sobbalzato quando si è accorto di noi. Reazione non del tutto innaturale visto che gli siamo capitati davanti all'improvviso», spiegò lei. «Altri particolari?» «I capelli erano biondo chiaro», affermò Reinhardt. «No», lo contraddisse Kristine, «erano grigi, pettinati all'indietro, coprivano la nuca. Leggermente mossi», aggiunse. «E la macchina?» chiese Sejer. «Bianca», rispose Kristine. «E piuttosto vecchia.» «L'auto», intervenne Reinhardt, «...ci ho pensato sopra. Poteva trattarsi di una Granada.» Scoccò un'occhiata trionfante verso la moglie, non se ne intendeva di queste cose. «Granada? Non ce ne sono molte ancora in circolazione, dobbiamo controllare. Secondo lei, Kristine?» domandò Sejer. «Non me ne intendo di macchine», borbottò. «Comunque una grande utilitaria bianca. Quattro porte?» «Sì», confermò Reinhardt. «Si è accorto di voi e se ne è andato?» «A gran velocità», rincarò Reinhardt. «Non così rapidamente», protestò Kristine. Fu la volta di Skarre a sorridere. «Avete visto la targa?» domandò speranzoso. Entrambi i coniugi rimasero in silenzio. «Va be', comunque non era un uomo che avete riconosciuto. L'avevate mai visto prima?» «No.» Sejer rimase seduto a riflettere. Spostò la penna dalla Tunisia in un punto più a sud dell'Africa. «Avete notato qualcosa di insolito mentre passeggiavate dalla sbarra verso il bosco? Gente? Suoni? Voci?» «Niente», rispose Reinhardt. «Non c'erano né persone né rumori. Nei boschi di Linde c'è sempre un grande silenzio.» «È per questo che andiamo lì», spiegò Kristine. «E mentre vi avvicinavate con la macchina per parcheggiare, avete incontrato qualcuno? Auto o pedoni?» Reinhardt dovette pensare. Guardò Kristine. «No», disse lei. «La strada è stretta. Se ci fossimo imbattuti in un'altra
auto, avremmo dovuto fermarci.» «Andate spesso lassù a passeggiare? È un'abitudine?» «Tutte le domeniche dopo mangiato», precisò Kristine, «più o meno alla stessa ora. Con ogni tipo di tempo. Tutto l'anno.» «Prima d'ora avete osservato qualcosa che vi è rimasta impressa?» «No, come dicevo, lì è sempre molto tranquillo, magari ci è successo di vedere qualcuno che raccoglieva frutti di bosco. E sciatori di fondo. In inverno. Sa, bisogna lasciare l'auto alla sbarra e procedere a piedi e molti non ne hanno voglia.» «Quest'uomo», disse Sejer, «sareste in grado di riconoscerlo per strada?» «Sì», affermò subito Kristine. «Perché ne è così sicura?» Esitò. «Era così speciale.» Sejer aguzzò le orecchie. «In che senso?» La donna pensò al volto che aveva visto per pochi secondi. «Non voglio stare qui a fantasticare, ma assomigliava a qualcuno.» Si passò nervosamente una mano sulla bocca. «A chi?» La risposta era appena percepibile. «Hans Christian Andersen», mormorò. Nell'ufficio si fece silenzio. «Intende dire lo scrittore? E cosa aveva in comune con Andersen?» le domandò Sejer. «La fronte bassa, sfuggente. Un naso molto pronunciato e le orecchie grandi. Stempiato e capelli ricci sulla nuca.» Reinhardt la guardò con espressione dubbiosa, Skarre prendeva appunti con grande zelo. «Non date troppo peso a quello che dico», aggiunse Kristine, «sono soltanto impressioni.» Sejer si alzò dalla sedia. «Anche quelle sono importanti. Per ora non abbiamo più bisogno di voi. Tornate a casa e riposatevi.» «Abbiamo finito?» commentò Reinhardt sorpreso. Sejer lo guardò paziente. «A meno che non vi venga in mente qualcosa che secondo voi è importante», disse. «In questo caso vi prego di chiamarmi.» Skarre li accompagnò lungo il corridoio. Fu come se Kristine fosse col-
pita da un fulmine. Portandosi le mani alla bocca, li guardò agitata. «Oddio», esclamò. «Cosa?» chiese Skarre. «Scusi, ma non sono in me. E neanche Reinhardt. Abbiamo dimenticato la cosa più importante, come abbiamo potuto farlo! Zoppicava», disse eccitata. «Ma certo», esclamò Reinhardt. «Oppure, no», continuò Kristine, «forse non proprio, ma camminava in modo molto particolare, come se avesse qualche lesione.» Skarre annuì. «Una specie di menomazione?» «Oppure», concluse Reinhardt, «poteva trattarsi di una protesi.» 7 «Se fosse dipeso da me», disse Sejer, «avrei interrogato tutti i pedofili del distretto che hanno scontato una condanna. Perfino quelli che sono stati assolti per mancanza di prove.» «I nostri legali non ci permetterebbero mai di fare una cosa del genere», commentò Skarre. «E noi facciamolo lo stesso. Passiamo con il rosso e poi pagheremo la multa», replicò Sejer. «Cosa ne passi dei Ris?» «Kristine Ris è acuta e le donne sono testimoni migliori degli uomini. Notano altre cose, piccoli dettagli. Come uno sguardo o un'atmosfera. Interessante quel paragone con Andersen, interessante che l'abbia notato. Andersen aveva un aspetto particolare. Hai presente?» «No.» «Non era bello», continuò Sejer, «se non sbaglio, c'era in lui qualcosa che ricordava una volpe.» «Una volpe?» «Era solo un'impressione, ma non credo che il suo aspetto fosse in sintonia con la sua natura poetica.» «Il brutto anatroccolo», disse Skarre. «Esatto.» Sejer andò alla finestra dove rimase a fissare la via intasata di traffico. «Come si chiama la madre di Jonas August? Hai preso nota?» «Elfrid, Elfrid Løwe», rispose Skarre. «Abita a Huseby, in Granatveien. Vuoi che chiamiamo prima? Per dire che arriviamo?»
«È a casa, sta aspettando, andiamo e basta.» «Non vuoi far venire il prete?» «No.» «Perché no?» domandò Skarre. «Perché io sono meglio.» Nel momento in cui pronunciava quelle parole, fu preso dal dubbio: come si sarebbe espresso? Abbiamo trovato un bambino a Linde. Corrisponde alla sua descrizione di Jonas August e abbiamo bisogno che domani mattina lei venga con noi all'Istituto di medicina legale in modo da poter dichiarare se il cadavere è quello di suo figlio. Quelle erano le parole. E la vita di quella donna sarebbe passata dall'ordine al caos in un secondo. «Scendi ad avviare la macchina», disse. Afferrata la giacca, Skarre scomparve. Sejer attraversò la stanza osservando le foto appese alla parete di sua figlia Ingrid e del figlio di lei, Matteus, un adolescente alto e atletico. Rimase a guardarli, come se fossero un monito sulla gravità di perdere le persone più care. Non aveva parole per comunicare una notizia tanto dolorosa, ma per ovvi motivi doveva trovarle. Elfrid Løwe l'avrebbe guardato negli occhi esigendo una spiegazione. Li vide dalla finestra. Si precipitò subito fuori. Sejer camminava sulla ghiaietta, passi pesanti, misurati. Fu quella lentezza a confermare le sue supposizioni. «Elfrid Løwe?» Fece finta di non vedere la mano tesa verso di lei, invece si aggrappò alla ringhiera. «Possiamo entrare?» chiese Sejer. La donna scosse decisa il capo. Era gracile e magra come il figlio, indossava un vestito corto, a fiori, rosa e turchese. Si mise a giocherellare nervosamente con un fiocco all'altezza del collo, le mani erano scheletriche, con le vene in rilievo. «Ditemelo qui sulla scala», li incalzò. «Subito.» «Preferirei che entrassimo», la pregò Sejer. «Che ci sedessimo.» Lei scosse nuovamente la testa. «Ditelo», esplose. «Ditemi di che si tratta!» Sejer le pose una mano sulla spalla. «Voglio che prima si accomodi.» Alla fine la donna entrò in casa e, dopo essersi piazzata in soggiorno,
cominciò a spostare il peso del corpo da un piede all'altro seguendo un movimento ritmico, nervoso. «Si sieda», le chiese Sejer. La voce autorevole servì a farla crollare sul divano. «Abbiamo trovato un bambino», esordì, «nel bosco di Linde. Non lontano dal laghetto. Era morto da qualche ora. E anche se mi è difficile dirlo, assomiglia alla sua descrizione di Jonas August.» «No», rispose lei, scuotendo la testa. «No.» «Crediamo che sia così», continuò Sejer. La donna continuava a muovere il capo in segno di diniego, sembrava una bambina cocciuta che voleva averla vinta. «Domani lo porteranno all'Istituto di medicina legale di Oslo», riprese Sejer, «deve esserci anche lei.» «Domani?» chiese senza capire. Le mani si agitavano sopra il tavolino. «Ma adesso dov'è? Dove sarà stanotte?» Sollevò una mano per mordersi le nocche mentre aspettava una risposta. Ora fissava Skarre, lo sguardo esigeva una spiegazione. «Non abbiamo potuto spostarlo», disse Skarre. «Non avete potuto spostarlo? Non capisco cosa sta dicendo.» «C'è una lunga serie di indagini che deve essere compiuta sul luogo del ritrovamento e sul terreno circostante», spiegò Skarre. «Ci vuole tempo, non siamo in grado di finire per stasera. Per questo proseguiremo anche questa notte.» La donna li minacciò agitando con violenza i pugni. «Come fate a starvene lì seduti mentre rimane tutta la notte nel bosco?» gridò. «Ha soltanto otto anni!» «Mi spiace», disse Skarre, «i tecnici non hanno finito.» «No», protestò la madre. «Va portato in ospedale, in un letto! Là ci sono gli animali e la notte fa freddo. Mi rifiuto di accettare questa cosa.» Balzò in piedi urlando: «Mi rifiuto!» Sejer si alzò per calmarla, ma invano. «Ci attende molto lavoro, Elfrid, vogliamo trovare il colpevole al più presto. Le do la mia parola che non rimarrà solo. I nostri uomini faranno costantemente la guardia su di lui.» «Abbiamo montato una tenda», spiegò Skarre, «abbiamo luce e calore.» Lei si nascose la bocca con una mano. «Non gli sono andata incontro...» sussurrò. «È un pensiero insopportabile, avrei dovuto andargli incontro e tutto sarebbe stato come prima. Ha so-
lo otto anni, avrei dovuto pensare che poteva capitargli qualcosa, avrei dovuto pensarci!» Le parole si trasformarono in un pianto terrorizzato. «Il padre?» domandò Sejer. «Il papà di Jonas August. Abita con voi?» Lei scosse la testa. «Non ci parliamo.» «È meglio che lo chiami», disse Sejer, «così verrà anche lui domani all'Istituto di medicina legale. Almeno sarete in due.» «Non lo siamo mai stati, in due», replicò. Armeggiò nuovamente con il fiocco del vestito a fiori. I capelli biondi erano tagliati corti, ricordava un ragazzino in abiti femminili. «Non so dove sia, non conosce Jonas. Mi ha abbandonata prima che riuscissi a dirglielo. Jonas è un segreto.» «Non c'è nessuno che vuole contattare?» le domandò Sejer. «Perché pensate che sia Jonas?» chiese. «I vestiti», spiegò Skarre. «Ma i bambini vanno sempre in giro in maglietta e pantaloncini, lo fanno tutti quanti, e oggi c'era caldo. State dicendo che quel ragazzino che si trova nel bosco di Linde ha una maglietta così e i pantaloncini rossi?» Skarre pensò agli short che non avevano trovato. Combatté una silenziosa lotta interiore su quanto raccontare o tacere. «Crediamo che sia Jonas», disse. Le guance della donna si infiammarono per la stizza. «Aveva i pantaloncini rossi?» Skarre la guardò dritta negli occhi. A fatica. «Non abbiamo trovato nessun pantaloncino», ammise. «Non li avete trovati? Ma li ha, no?» Un sospetto le affiorò sul volto. Skarre si sforzava di trovare le parole giuste, quelle inevitabili. «Il bambino che abbiamo trovato non li aveva.» Elfrid Løwe impallidì. Gli uomini erano in grado di vedere come la sua fantasia stesse galoppando. «Non vogliamo speculare su quanto è successo», intervenne Sejer pacatamente. «Si vedrà. Ma siamo obbligati a essere onesti con lei. Abbiamo dei buoni motivi per temere che il bambino morto sia Jonas. Vorrei che lei si preparasse a questa eventualità. Cosa gli sia successo, non siamo ancora in grado di stabilirlo.» «Forse vi sbagliate», disse Elfrid Løwe mordendosi nuovamente le noc-
che. «E si tratta di semplice routine. Non è vero che è routine?» supplicò con gli occhi azzurro scuro come quelli di Jonas August. «Sì», ammise Sejer con riluttanza. «Ma questo bambino», riprese a domandare loro, «quello che avete trovato... Come è morto?» «Non lo sappiamo ancora.» «E quando lo saprete? Quanto devo aspettare?» «Fino a quando sarà pronto il referto dell'autopsia.» «Gli devono fare l'autopsia?» «Siamo costretti, in casi come questo.» «Allora verrà tagliato e aperto», singhiozzò. Skarre prese la parola. «Il patologo svolge un lavoro importante, necessario per le nostre indagini», spiegò mentre avvertiva quante fossero vuote quelle frasi nel momento stesso in cui le pronunciava. «So quello che fa», urlò. «Apre Jonas con un bisturi per prelevargli tutti gli organi e sostituirli con della carta di giornale e così lui giacerà nella bara pieno di spazzatura e sarò costretta a convivere con questo per tutta la vita. Un bimbo piccolo colmo di rifiuti!» Si nascose il volto tra le mani. Skarre temeva che fosse sul punto di uscire di senno. «La cosa più importante che adesso possiamo fare per lui è scoprire cosa è successo», disse. «Posso rifiutarmi?» mormorò la madre. «Posso impedire l'autopsia?» «Non in un caso di questo tipo», intervenne Sejer. «L'autopsia ci fornisce informazioni di assoluta importanza. Inoltre», aggiunse anche se odiava dirlo, «ci sono altre considerazioni di cui tenere conto. Altri bambini potrebbero essere in pericolo. Capisce?» Lei annuì. «Vuole che telefoniamo a qualcuno?» le domandò. «Non prima di essere sicuri», sussurrò. «Forse si tratta di uno sbaglio, e io non intendo esporre gli amici a una prova di questo genere. Neanche i miei genitori, non lo sopporterebbero. Non stanno bene, papà soffre di cuore e la mamma ha il morbo di Parkinson. Non ce la farebbero. Lei può dire ciò che vuole, ma io scelgo di credere che vi sbagliate. Magliette di quel tipo si trovano ovunque, le vendono dappertutto. Andiamo a Linde, subito, devo vederlo, non me lo potete negare, è il mio Jonas, sono io che decido!» Dopo essersi alzata dal divano, si diresse verso l'ingresso. La disperazio-
ne le aveva invaso il cervello. «Mi spiace», disse Sejer deciso, seguendola. «Non lo posso permettere.» La donna si mise a urlare. Ritornò nuovamente nel soggiorno e si lasciò cadere sullo schienale di una poltrona. «Dovrei andare a dormire stanotte sapendo che lui giace nel bosco senza pantaloni?» singhiozzava. «Non posso credere che abbiate il diritto di fare questo, voglio parlare con qualcun altro!» «Elfrid», intervenne Skarre, «noi siamo dalla sua parte!» La donna emise qualche flebile singulto. «Abbiamo del personale di pronto intervento a disposizione, se lo desidera», disse Sejer. «No», sussurrò lei. «No, preferisco coricarmi.» «Se ha bisogno di tranquillanti, glieli procuriamo.» «Non voglio.» La donna alzò gli occhi squadrandoli con uno sguardo risoluto. «Probabilmente vi sbagliate», ribadì. «Esiste una piccola probabilità.» Sorrise loro a testa alta. «Esiste la possibilità.» 8 Ovunque si parlava di Jonas August Løwe. Nei corridoi dell'Ospedale Centrale, dal parrucchiere, nei taxi, sull'autobus, nei caffè e nei negozi. Nelle anticamere e nei retrobottega, negli uffici. Si parlava di Jonas sui pianerottoli e nei vani dei portoni. Nel cortile adibito alla ricreazione delle Carceri Distrettuali due detenuti sedevano su una panchina. «Lo prenderanno», diceva uno di loro, «lo prenderanno e lo manderanno qui. Lo metteranno sotto torchio.» «Ben gli sta», commentò l'altro. Alla Questura indissero una conferenza stampa. Sejer non aveva molta simpatia per questo obbligo di riferire al pubblico, pensava ai giornalisti come a degli squali, bastava una goccia di sangue ed eccoli arrivare a banchi. Ma come sempre si comportava correttamente quando informava i media. Jonas August frequentava la scuola Solberg, era in terza. Viveva con la madre ed era figlio unico. Una coppia aveva notato un uomo non lontano dal luogo del ritrovamento, un uomo al di sotto dei cinquant'anni con un eskimo blu. Jonas era parzialmente svestito e avevano palesemente abusato di lui. Non era chiaro dove e in che modo fosse stato ucciso, se era
accaduto sul luogo del ritrovamento, o se ce l'avevano trasportato in seguito. Sarebbe stato impiegato immediatamente tutto il personale disponibile per la soluzione del caso, la polizia si sarebbe servita anche di esperti. Alla domanda se l'uomo poteva colpire ancora, guardando con espressione seria i giornalisti Sejer aveva risposto che non avevano motivo per ritenerlo. «Dovremmo stare attenti ai nostri bambini?» «Come sempre.» «Come agirete?» «Abbiamo delle procedure fisse e le seguiremo.» Volevano sapere qual era la sua opinione sul luogo del ritrovamento. Se non era strano che il bambino non fosse stato sepolto, o coperto con della vegetazione. «Forse il responsabile voleva che lo trovassimo velocemente», rispose Sejer. «Ma avrebbe potuto scavare una fossa. Avreste perso del tempo prezioso mentre lui sarebbe stato in vantaggio su di voi. Tra un paio di mesi nevicherà e ghiaccerà tutto.» «Non sarebbe stato un vantaggio, soltanto un rinvio», replicò Sejer. Mentre continuava a parlare, avvertì dentro di sé una strana scissione: una parte di lui era professionale, un'altra osservava. I volti dei presenti, l'atmosfera seria, pesante, una mosca che salendo sul tavolo si era piazzata sul sostegno del microfono. «Controllate le persone già condannate per pedofilia?» «Per legge possiamo interrogare la gente soltanto se esiste un sospetto.» «Avete ottenuto degli indizi utili sul luogo del delitto?» «No comment.» «L'uomo che è stato visto in prossimità della sbarra. Si comportava in modo sospetto?» «No comment.» «Avete mai indagato su un caso simile in questa Questura?» «No.» «Ciò significa che vi muovete alla cieca?» «No.» «Da quanto tempo era morto il bambino quando è stato ritrovato?» «Secondo il medico legale, da poche ore.» «In cosa si differenzia questo caso da altri?» In quel momento Sejer si alzò per segnalare che la conferenza era finita. «Ogni caso è unico», concluse. «Come esisteva un solo e unico Jonas
August.» 9 La sedia di Sejer era di ottima marca, se l'era comprata con i propri soldi. La base era d'acciaio, il sedile si poteva alzare e abbassare, lo schienale si piegava all'indietro e bastava girare una manopola per farla oscillare. Ma a lui non piaceva dondolare, per questo non la toccava mai. Sotto la scrivania era sdraiato il cane Frank Robert, uno sharpei, la testa rugosa poggiata pesantemente sulle zampe. Aveva lo stesso temperamento dei suoi connazionali, era inaccessibile e dignitoso, non abbaiava mai, ma a volte sbottava in uno sbuffo di insoddisfazione. Sejer compose il numero del medico legale e chiese di Snorrason. Quando sentì la voce del patologo, gli venne in mente l'odore caramellato del tabacco da pipa che gli aleggiava sempre intorno. «A che punto sei?» gli chiese. «Abbastanza avanti», rispose Snorrason, «anche se rimangono molti punti oscuri. Posso solo constatare che il bambino è morto per mancanza di ossigeno.» «Strangolamento?» «Il fatto alquanto strano è proprio questo, infatti non sono sicuro di cosa sia successo. Gli indizi non sono univoci, ho bisogno di più tempo.» «Non ti seguo», disse Sejer. «Se gli è mancato l'ossigeno, significa che qualcuno ne ha impedito l'accesso. Con una mano o un cuscino. O secondo te gli è rimasto qualcosa incastrato in gola?» «Questo decisamente no. Non capisco neanch'io», proseguì Snorrason, «ma credo che si tratti di qualcosa di diverso da quanto sembra. Devo fare alcune telefonate.» «Chi intendi chiamare?» «Tra gli altri, Elfrid Løwe. Ho un sospetto», disse. «Ti metterò al corrente quando ne sono certo.» «Hai trovato quello che desideriamo più di tutto?» «Ti riferisci al materiale genetico?» «Sì?» «L'ho trovato», rispose Snorrason. «Se catturi il colpevole, abbiamo delle prove inconfutabili.» «Bene», commentò Sejer. «Altro?» «Al momento no. Il bambino non ha neanche un livido, cosa un po' inso-
lita per un ragazzino della sua età.» «Finisci il rapporto per stasera?» «Te lo mando più tardi via fax. Rimani in attesa.» Dopo averlo ringraziato, Sejer riagganciò. Aperto il polsino sinistro della camicia, prese a grattarsi all'altezza del gomito. Soffriva di psoriasi e, su una porzione di epidermide grande come una moneta, la pelle era rossa e irritata. Si mise a leggere i rapporti che gli erano pervenuti fino a quel momento. A intervalli regolari lanciava un'occhiata verso il fax. Alla fine squillò il telefono, era Snorrason. «Ho parlato con Elfrid Løwe», disse. «Jonas August soffriva d'asma.» «Sì? È importante?» «Quando è stato assalito si è scatenato un forte attacco e, da quanto posso constatare, è stato questo a causarne la morte.» 10 La casa di Reinhardt e Kristine Ris era imponente e curata, dipinta di bianco e con gli infissi verdi, il tetto ricoperto di tegole olandesi. Era stata costruita nel 1920 e a Reinhardt piaceva definirla una perla architettonica. Si trovava su un'altura della cittadina, e dalla veranda del primo piano vedevano il fiume e tutti i ponti, che ricordavano delle graffette su una ferita. Dietro la villa c'era il giardino circondato da una siepe accuratamente potata; davanti si trovava un garage doppio e un'altalena lasciata dai precedenti proprietari. Kristine guardava fuori dalla finestra mentre si trastullava con il pensiero che sopra ci fosse seduta una bambina sua. Ma questa figlioletta non esisteva. L'enorme desiderio di maternità la trascinava sul fondo come una zavorra. Diede uno sguardo nel soggiorno. Seduto davanti al computer, Reinhardt stava giocando a EverQuest. Era totalmente immerso nel gioco. Kristine ne vedeva soltanto la schiena larga, inavvicinabile. Lei si sforzava di aprirsi, di essere ricettiva nei confronti di quello che c'era di buono in lui, delle qualità che apprezzava tanto. Ma Reinhardt era pesante. Sempre più spesso si insinuava dentro di lei una resistenza, un'opposizione che la faceva vergognare di se stessa perché aveva promesso di seguirlo fino a che la morte non li avrebbe separati. Notò che nel marito c'era una specie di furia, un'irrequietezza percepibile; guardava spesso l'orologio da polso, e ogni tanto lanciava un'occhiata in strada, come se aspettasse qualcosa. Kristine trovò un giornale vecchio, lo appoggiò sul tavolo da pranzo e cominciò a lucida-
re un candelabro d'argento, muovendo lo straccio con gesti decisi, abili. Quando avrebbe finito, voleva accendere una candela in memoria di Jonas August. Non lo aveva detto a Reinhardt, tanto non avrebbe capito; non gli importava un granché dei pensieri più intimi della moglie. Basta quello che si può vedere, le diceva, se no si finisce per ridursi a indovinare dei segreti. «Vengono Irmelin e Kjell», le disse all'improvviso. Si girò sulla sedia verso di lei, pronto alle sue proteste. «Saranno qui tra mezz'ora», aggiunse. Kristine lo guardò terrorizzata. «Tra mezz'ora? E lo dici adesso?» Automaticamente il suo sguardo passò in rassegna il soggiorno, valutando se c'era qualcosa da mettere a posto. Reinhardt spense il computer. «Li ho invitati a bere qualcosa», precisò lui. «E perché non me lo hai detto?» L'uomo si diresse verso il divano dove si mise a sedere, aprendo ostentatamente il giornale sul tavolino. «Che problema c'è a bere un bicchiere di vino con dei buoni amici?» chiese asciutto. «Nessuno, ma avresti potuto avvisarmi. Non ho niente da servire, Reinhardt, assolutamente niente.» Lui scosse rassegnato il capo. «Non dobbiamo mangiare, beviamo qualcosa e basta. Si chiama stare in compagnia.» Kristine non voleva sembrare avara; le volte in cui invitava Kjell e Irmelin offriva sempre qualcosa da mangiare. Per questo si rendeva perfettamente conto di cosa si trattava: Reinhardt non stava più nella pelle e questa volta avrebbe servito lui il piatto forte. Probabilmente avrebbe strombazzato fino a notte fonda di Jonas August, voleva farsi bello attirando su di sé tutta l'attenzione, mentre lei se ne sarebbe vergognata. Si sforzò di capire questo sentimento. A non piacerle affatto era il modo in cui Reinhardt gestiva l'accaduto, anche se non sapeva dire se il proprio atteggiamento fosse migliore o più nobile. «Avresti potuto chiedermelo», ribatté piccata. Riprese a lucidare il candelabro anche se ci si poteva già specchiare. Lui sfogliò con enfasi il giornale. «Non ho bisogno di chiederti il permesso di invitare un amico, anch'io abito qui, è casa mia.» «È casa mia», come se lei ci vivesse per carità. Non rispose, sentì il magone crescerle in gola. Finito di lucidare il candelabro, trovò una candela
in un cassetto della cucina e l'accese con un fiammifero, inalando il buon odore dello zolfo bruciato. Rimase per un po' a fissare la fiammella che si muoveva. «Ondeggia», commentò. «Guarda.» Reinhardt alzò lo sguardo. «Corrente», rispose. «Ma non è possibile, non c'è niente di aperto.» «Accendi la radio», le chiese il marito. «C'è il notiziario. Dobbiamo sentire se c'è qualcosa di nuovo.» Lei obbedì. Una donna parlava del ritrovamento nel bosco di Linde. «Era figlio unico», mormorò Kristine. Il pensiero la turbava. Significava che qualcuno era stato derubato di tutto. «Un uomo con un eskimo blu», disse Reinhardt, «che è scomparso in una macchina chiara. Ma noi gli abbiamo fornito molti più dettagli. Voglio dire, su come era vestito. E poi zoppicava, perché non lo dicono alla radio?» Kristine si strinse nelle spalle. «A dire il vero non zoppicava, piuttosto camminava in modo strano. Forse ricordiamo male, non possiamo fidarci completamente della nostra memoria. E poi non eravamo d'accordo su molte cose.» «No», replicò lui deciso. «Non è vero che non eravamo d'accordo, e non ci sbagliamo. Questa funziona», aggiunse picchiettando un dito sulla tempia prima di chinarsi nuovamente sul giornale, che conteneva molti articoli su Jonas August. Kristine appoggiò la testa sullo schienale della sedia per riposare, le mani intrecciate in grembo. Ci fu silenzio fino a quando non si sentì il campanello dell'ingresso. Reinhardt balzò in piedi, Kristine rimase seduta a guardare la fiammella della candela che ondeggiava. Entrarono in soggiorno, sorridenti. Irmelin teneva in mano dei fiori, una piccola begonia. Reinhardt scomparve in cantina per andare a prendere il vino e risalì con tre litri di chablis in cartone. «Prendi i bicchieri, Kristine?» la invitò. Gli ospiti si accomodarono intorno al tavolo; Irmelin, scura e minuta, e Kjell, corpulento e con i capelli radi. Si mise a parlare del proprio lavoro - era chiropratico - mentre gli altri lo stavano ad ascoltare. Un'adolescente gli aveva vomitato sul camice perché non sopportava il rumore delle vertebre che venivano manipolate. Un collega era coinvolto in una storia terribile: una donna rimasta paralizzata dalla vita in giù dopo il trattamento.
«E voi?» chiese alla fine. «Novità?» Fu come abbagliare Reinhardt con un riflettore. «Sì», esordì. «Dall'ultima volta sono successi degli eventi drammatici. Avete sentito sicuramente il notiziario.» «Eventi drammatici?» domandò Kjell. «Jonas August Løwe», proseguì Reinhardt, «il bambino che hanno trovato a Linde.» Tutti e quattro assunsero un'espressione seria e per un po' nessuno disse niente. «È stato trovato da una coppia che stava facendo una passeggiata», spiegò Reinhardt. «Una coppia che va fino al laghetto di Linde tutte le domeniche.» Kjell scosse la testa incredulo. «Non mi dire che siete stati voi a trovarlo.» Reinhardt piantò i gomiti sul tavolo. «Sì, siamo stati noi, ci hanno interrogato.» «Perché?» chiese Kjell. «Perché abbiamo incontrato un uomo», disse Reinhardt, «e non c'è dubbio che fosse sospetto. L'abbiamo visto proprio vicino alla sbarra del parcheggio e adesso la polizia lo cerca. Soltanto in qualità di testimone, ovviamente, ma è quello che dicono sempre. Personalmente credo che avesse l'aspetto del colpevole.» «Magari stava facendo una passeggiata proprio come voi», intervenne Kjell. «Lassù non c'è quasi mai nessuno», precisò Reinhardt, «e poi sembrava turbato.» «E dai, racconta», lo pregò Irmelin. «Be', eravamo vicino al laghetto e poi ci siamo incamminati per ritornare alla macchina. Stavamo passeggiando lungo il bosco e il bambino giaceva là, per terra, a pancia in giù, con il volto nascosto. Non è stato difficile intuire quanto era accaduto. Se capite cosa intendo dire.» Fece una pausa affinché le parole pronunciate facessero presa. «Non potevamo crederci. Ho telefonato al 112 e ci hanno messo venti minuti ad arrivare. Kristine tremava come una foglia.» «Ma quell'uomo», domandò Irmelin, «l'avevate mai visto?» «Mai», rispose Reinhardt. «Camminava in modo strano», intervenne Kristine. «Voglio dire, non zoppicava, ma faceva fatica. Come dire, buttava la gamba in avanti.»
«Secondo me si tratta di una protesi», affermò Reinhardt, «e se è lui il colpevole, probabilmente dovremo testimoniare in tribunale.» Kjell scosse la testa rassegnato. «Sì, sarebbe il tuo sogno, ti conosco. Santo cielo, Reinhardt, hai visto soltanto un tipo camminare nel bosco. Ritorna con i piedi per terra, ragazzo.» «Forse si è limitato a sussultare», disse Kristine, «ci ha trovati lì di colpo.» Reinhardt grugnì insoddisfatto. «Sì, sì, tu devi sempre andare con i piedi di piombo, tesoro, ma un giorno la verità salterà fuori.» «È stato strangolato o cosa?» chiese Irmelin. «Non lo so», sussurrò Kristine. «Avete sentito il polso?» «No, non era necessario. Era bianco come il marmo. Si vedeva che era morto.» «Possiamo parlare di qualcos'altro?» pregò Kristine. Reinhardt la guardò da sopra il tavolo. «Sono queste invece le cose di cui bisogna parlare, per denunciarle.» «Ma tu non vuoi denunciarle.» Reinhardt scosse la testa. «Stammi bene a sentire», disse con voce dura, «io parlo di quello che mi pare e piace. Almeno questo me lo posso permettere?» Irmelin e Kjell si scambiarono un'occhiata, Kristine rimase in silenzio. Poi si alzò per andare in cucina a preparare il caffè. Irmelin la seguì. «Non ce la faccio più a starlo a sentire. Io cerco di dimenticare quello che è successo.» Aveva messo il caffè nel filtro, ma si era dimenticata di contare i misurini. Irmelin le lanciò uno sguardo di compassione, anche lei era paralizzata dall'accaduto. Non si trattava soltanto di una notizia di giornale, questo era reale. «Sai cosa ha fatto?» sussurrò Kristine. «Ha scattato delle foto con il cellulare.» «Cosa?» Irmelin rimase a bocca aperta. «Si è accovacciato e ha fatto un mucchio di foto.» «Non del bambino, vero?» «Sì. Scommetto che le mostrerà a Kjell.» Si misero ad ascoltare i rumori provenienti dal soggiorno. Gli uomini parlavano piano, il basso profondo di Kjell e la voce da tenore di Reinhardt. «Ho paura che le mostri anche al lavoro, che le faccia vedere a tutti men-
tre è in mensa. Lo sai com'è.» Irmelin la fissò. «Tu non dici mai niente. Devi opporti, mettere dei limiti, Kristine, lui ha troppo potere su di te.» «Lo so.» Il caffè stava filtrando nell'apposita brocca. Fuori si stava rannuvolando e la cucina fu immersa nel buio. «È tutto così inutile», disse Kristine. Si strinse inerme nelle spalle. «A volte mi viene voglia di fare le valigie e andarmene. Ma non so dove.» «Da quanto tempo dura?» mormorò Irmelin. «È da tanto che non ti vedo più veramente felice.» Kristine ci rifletté sopra. «A essere sincera, da anni. Non ce la faccio ad affrontare il giorno, o la notte. Quando lo sento respirare accanto a me.» Guardò di traverso l'amica, incerta su quanto potesse essere sincera con lei. «Non sopporto neanche il suo odore, la sua voce. Occupa così tanto spazio. Vorrei che dormisse da un'altra parte, desidero starmene sola.» «Non hai paura di lui, vero?» disse Irmelin. «Dimmi che non è così.» «No, non provo paura. Ma quando si mette in testa di fare qualcosa, rimango del tutto inerte.» «Non ti fai valere.» «Non ne ho il coraggio», ammise Kristine vergognosa. «Perché non so cosa succederebbe se lo contraddicessi.» Irmelin le strinse la mano. «Fai un tentativo, una volta, e vedi cosa succede. Non ti picchierà mica...» «No, questo no. Mi piegherebbe in un altro modo. Sono una vigliacca.» «Devi alzare la testa e chiarire una volta per tutte cosa hai dentro», la esortò Irmelin. «Lo sopporterà, dici che è forte.» «Ho paura che qualcosa vada in pezzi se gli dico come stanno le cose. Se diventassi del tutto sincera all'improvviso niente sarebbe più come prima.» «Ma tu questo non lo vuoi. Però cerca di ottenere qualcosa di diverso, alzati e di' quello che pensi. Magari il risultato sarà migliore del previsto.» Kristine prese le tazze dall'armadietto e versò il caffè. «A essere sincera, ho voglia di andarmene», confessò, «ma non voglio farlo senza avere qualcosa da portare via con me. Altrimenti, tutti questi anni sarebbero stati sprecati.» «Portare via qualcosa con te? Cosa intendi dire?»
«Un bambino», disse. «Vuoi fare un figlio con lui? Ma se non ti piace per niente!» «È l'unico a disposizione.» Kristine fece spallucce. «E ho trentasette anni.» Poi, dopo essersi ripresa, provò a difenderlo. «Magari è soltanto maldestro nel gestire le emozioni e dentro di sé è scosso proprio come me, ma non trova altro modo per mostrarlo. Voglio dire, è un maschio. Gli uomini sono senza speranza quando si tratta di sentimenti.» Irmelin scosse la testa. «Devi sempre essere così comprensiva...» Si alzò dirigendosi verso la porta, e rimanendo in parte nascosta dallo stipite sbirciò nel soggiorno. «Sì», sussurrò, «avevi ragione, stanno guardando le foto.» 11 «Perché siamo attratti dalla morte altrui?» domandò Skarre. Sejer scosse la testa, non aveva mai avuto di quei pensieri, non si era mai sentito attratto dalla morte, né sedotto dalla sua sensazione. Neanche quando era un giovane poliziotto. «La morte non mi attira. A te invece fa questo effetto?» «Ci lasciamo trasportare di nostra volontà», commentò Skarre. «Quello che è successo a Jonas è terribile. Avrebbero potuto occuparsene altri mentre noi svolgevamo incarichi più piacevoli.» Sejer stava per arrotolarsi una sigaretta, l'unica che si concedeva la sera, come si addice a un uomo estremamente moderato come lui. «Incarichi più piacevoli?» commentò sospettoso. «Per esempio?» «Fare il pasticciere», suggerì Skarre. «Avresti trascorso la giornata a decorare torte alla panna. A preparare roselline di marzapane.» «Non avrei mai potuto fare il pasticciere», affermò Sejer. «Le torte alla panna sono belle da vedere, ma non hanno niente da raccontare. E tu cosa avresti fatto?» «Il tassodermista.» «Vuoi dire l'imbalsamatore di animali?» «Sì. Scoiattoli, visoni e volpi.» Sejer sollevò il cane per appoggiarselo in grembo. «Allora rispondi a questa domanda: cosa ti attira dei criminali?» «Probabilmente dentro di me li invidio un pochino», rispose Skarre.
«Invidia? Dei delinquenti?» «Si fanno giustizia da sé. Non hanno rispetto per le autorità, se desiderano qualcosa se la prendono e non mostrano altro che disprezzo nei nostri confronti. Questo è sinonimo di una specie di senso di rivolta, un'insolenza profonda e viva. Personalmente io ho un enorme rispetto per la legge, al limite della pedanteria. Se capisci cosa intendo dire. Perché pensi che la gente sia così interessata al crimine? Niente vende meglio di un omicidio, e quanto più è atroce tanto più riscuote interesse. Cosa ci dice di noi stessi?» «Ci sono sicuramente molte risposte», disse Sejer, «e tu sei competente quanto me nel rispondere.» «Ma ti sei fatto certamente qualche idea.» «Forse ha a che fare con la nostra immagine del nemico. Tutti i popoli ne hanno una, qualcosa che unisce la gente. Durante la guerra erano i tedeschi e ciò produsse un senso di identità e di cameratismo, la volontà di agire, il coraggio eroico. Le persone sono state costrette a prendere partito, così siamo stati in grado di distinguere i buoni dai cattivi. Ma nel ricco Occidente attuale, dove dominano la pace e la democrazia, questo ruolo è stato assunto dai criminali. Sono i loro misfatti a unirci, ne abbiamo abbastanza della pace e della tolleranza, abbiamo bisogno di emozioni forti e pressione perché così ci sentiamo vivi. Ma c'è dell'altro. Una specie di felice conferma ogni volta che viene commesso un delitto.» «Che cosa intendi?» domandò Skarre. «Il fatto di potersi dire: non sono io ad avere compiuto questa azione orribile, perché io sono buono. E poi: non è toccato a me subire questo terribile misfatto, perché io sono buono. E poi ancora, dettaglio più sgradevole: alcuni criminali vengono considerati degli eroi. Forse ha a che fare con quello a cui accennavi prima, la loro mancanza di rispetto nei confronti della legge e delle autorità. Noi siamo tutti così obbedienti, e questa obbedienza può portare al disprezzo di sé.» Diede un'occhiata a Skarre. «Faresti una cosa per me?» «Certo.» «Vai a prendere nella libreria il primo volume dell'enciclopedia?» Skarre eseguì e, dopo aver estratto il pesante tomo, glielo pose in grembo. Sejer spostò delicatamente il cane sul pavimento, e, aperto il libro, cercò sotto la lettera A. Skarre era in piedi dietro di lui mentre sfogliava le pagine.
«Cosa stai cercando?» Sejer alzò la testa. «Stiamo cercando un uomo.» «Esatto.» «Un assassino», aggiunse. Skarre seguiva i suoi movimenti. «E lo troveremo nell'enciclopedia? Sarebbe una novità!» Sejer continuò a sfogliare. Alla fine si fermò su un ritratto in bianco e nero grande come un francobollo. «H.C. Andersen», commentò Skarre. Studiarono l'immagine in silenzio. Sejer soppesò la fronte bassa e sfuggente, il naso grosso, la stempiatura pronunciata e la chierica di capelli ricci sulla nuca. Proprio come Kristine Ris aveva descritto l'uomo che aveva visto alla sbarra del parcheggio. «Quante cose siamo in grado di osservare in un secondo?» chiese Sejer e puntualizzò, «quando ci imbattiamo in qualcuno per strada?» Skarre ci pensò sopra. «Non molti dettagli, vediamo un insieme. E il cervello si mette a cercare automaticamente il modello di riconoscimento.» «Come lo scrittore danese», aggiunse Sejer. «Un volto particolare, vero? Allo stesso tempo sensibile e forte.» «Di sicuro non è bello», constatò Skarre. «No», confermò Sejer. «C'è in lui qualcosa di molle, di debole. Magari domani quell'uomo ci sfugge, oppure si costituisce proclamando la sua innocenza e noi rimaniamo senza nessuna traccia. Magari stava facendo una passeggiata come chiunque altro in una domenica di settembre.» «Sì, può essere», annuì Skarre. «Eppure», proseguì Sejer, «Reinhardt e Kristine Ris affermano che procedeva a fatica. E se per lui muoversi è un problema, probabilmente non gli viene in mente di passeggiare nel bosco. A meno che non vi fosse costretto perché doveva liberarsi di qualcosa.» Skarre fece un cenno d'assenso. «Allo stesso tempo», continuò Sejer, «è rischioso fare quello che sto facendo io adesso.» «Cioè?» «Mi sono fissato su di lui, ho davanti a me soltanto l'autore danese. Ciò mi impedisce di vedere altro.» «Abbiamo trovato un piccolo tassello», commentò Skarre, «che forse non appartiene neanche al mosaico. È quello che succede quando ci si tro-
va all'inizio di un'indagine.» «Ma questa volta non ci è permesso di sciupare tempo prezioso», affermò Sejer, «perché quest'uomo può colpire ancora.» 12 Era seduto sul divano, schiacciato in un angolo. Aveva spento quasi tutte le luci e accostato le tendine, gli piaceva stare nella semioscurità, gli dava un senso di sicurezza. Sedeva con le ginocchia piegate sotto di sé, tra le mani teneva un paio di pantaloncini rossi che arrivavano fino al ginocchio, erano di stoffa leggera, di buona qualità, con gli slip bianchi cuciti dentro e una taschina. Nella tasca c'era la carta di una gomma da masticare che emanava un odore dolce. Il suo primo impulso, dopo quello che gli piaceva definire «l'incidente», era stato di bruciare i pantaloncini nella stufa. Ma non ne era stato capace. Adesso quell'indumento era suo, l'avrebbe posseduto per sempre. Quando sollevava i calzoncini all'altezza del viso, avvertiva un vago profumo di urina, che inspirava profondamente. Sedeva così da un'eternità mentre trascorrevano le ore a passo di lumaca, mentre la luce scompariva per poi ritornare annunciando l'inizio di un nuovo giorno. Da quel momento in poi non c'era più niente di certo, non sapeva più nulla del futuro, se ne aveva ancora uno, o se era finito come tutto il resto. Non era riuscito a mangiare, aveva un forte mal di testa che, simile a ferri da calza, gli perforava le tempie. Era suonato il telefono, si trattava sicuramente del padre, non aveva risposto. Sapeva che avrebbe dovuto mettersi a letto, ma non aveva la forza di alzarsi. Alzarsi poi per che cosa? Per dormire la notte? Per un lavoro che non aveva? Per le persone che non conosceva? A mezzanotte ci rinunciò, si girò di lato sul divano, sempre con i pantaloncini rossi premuti sul viso. In fondo al sofà c'era una vecchia coperta di lana, l'afferrò per coprirsi le gambe. Sentì il ticchettio dell'orologio a muro, più pesante del solito, come se ogni secondo annunciasse la grande catastrofe, l'essere smascherato, la maledizione, il verdetto e il disprezzo. C'erano così tante cose ad attenderlo là fuori. Provò un senso di vertigine. Si immaginava in un'aula di tribunale davanti a un mare di volti pieni di odio, urlavano contro di lui, sbavavano e infierivano, lo accusavano di tutto, della vita che aveva vissuto, per quello che era e per quello che aveva fatto. Lui se ne stava là tremante mentre preparava una difesa, perché ce l'aveva, ma dalla sua bocca non usciva nessun suono, era diventato muto. Le fantasie lo resero inquieto, il polso aveva
accelerato, come se avesse corso, in realtà non si muoveva da molte ore. Quando finalmente scivolò in un sopore irrequieto, gli apparvero nella mente i ricordi, che resero tutto così nitido. La mancanza e l'anelito con cui aveva vissuto per una vita intera. Fino a quel momento aveva usato la testa, aveva girato le spalle a tutte le tentazioni. Era stato forte e irreprensibile. Invece adesso il destino lo aveva spinto oltre l'orlo dell'abisso. Chiuse gli occhi. Emise qualche singhiozzo asciutto, ma senza provare nessun conforto. 13 L'ispettore capo Konrad Sejer era corretto, riservato e gentile, e il suo contegno compassato poteva essere scambiato per arroganza. Se non lo si conosceva bene. Cosa che non faceva quasi nessuno. Era estremamente zelante in servizio, ambizioso, ma non era un arrivista; era paziente, stava ad ascoltare ed emanava autorevolezza. Rideva assai raramente. Aveva un atteggiamento molto serio, sia nei confronti della vita sia della sua professione, ma qualche rara volta si sentiva la sua risata profonda. Era sobrio, forte e deciso, sempre vestito con cura, le scarpe lucidate a puntino e le camicie pulite, stirate di fresco. Nessuno gli aveva mai insegnato l'arte di flirtare, sedurre o manipolare gli altri, a meno che non si trovasse seduto davanti a un assassino che negava ogni colpa. In quel caso era l'uomo in grado di far uscire acqua da un sasso. «Ti ricordi di Jørgen Pihl?» domandò Skarre. «Il caso aveva fatto scalpore. Era pediatra all'ospedale Ullevål, aveva bambini piccoli tra le mani tutto il giorno, che poteva stringere e toccare quanto voleva. Alla fine ha superato il limite e i bimbi hanno cominciato a fare la spia. Ovviamente non ha più potuto esercitare come medico. Da quel momento in poi gli è andata molto male, si è messo a bere come una spugna, abbandonando casa e famiglia.» «Sì, me lo ricordo, e ricordo anche Kristian Kruse. Preparava i ragazzi ad affrontare il rito laico sostitutivo della cresima per l'Associazione Umanoetica. E poi mi viene in mente Philip Åkeson.» «Impossibile dimenticarsi di Philip Åkeson», commentò Skarre. «L'uomo del bosco di Linde non si è costituito: quando cominciamo a indagare?» «Io lo sto già facendo», ammise Sejer, «ma dobbiamo dargli del tempo. Ci sono persone che non seguono le notizie di attualità.»
«Questa non me la bevo. Questo caso sta facendo parlare milioni di persone, anche oltre i confini della Norvegia, e lo stesso vale per l'esortazione di presentarsi alla polizia. Gli concedo ancora oggi e poi comincerò a farci su un pensierino. Ci viene in mente qualcuno che camminava in modo particolare?» Sejer rifletté. «No, ma potrebbe trattarsi di una lesione postuma.» Andò alla finestra e fissò il panorama. «Indipendentemente da chi sia e dal fatto che compaia o meno nei nostri elenchi, si è nascosto. Non osa prendere il telefono. Forse si veste in modo diverso dal solito e fa la spesa in un negozio differente da quello che usa sempre. Si serve delle forze rimaste per costruirsi una difesa, sente che il mondo gli è contro ed è probabilmente incattivito.» Guardò Jacob Skarre. «I criminali hanno una concezione tutta loro, si considerano qualcosa di speciale, di unico. Si ritengono più intelligenti della maggior parte della gente. Credono di potersene infischiare delle file e delle code, e sono convinti di potersi fare giustizia da sé, le regole comuni non li riguardano. Se pestano i calli a qualcuno, è colpa di quest'ultimo. Per recuperare un delinquente, bisogna in altre parole modificare il suo modo di pensare, cosa non facile. Per quanto riguarda il nostro uomo, è probabile che abbia già subito una condanna e in quel caso è già un reietto. Ora che ha superato il limite, diventa davvero pericoloso, dal momento che non ha più niente da perdere. Se invece fosse riuscito a reprimere la sua natura pedofila per molto tempo, per lui adesso si fa più difficile.» «Come si diventa così?» si chiese Skarre. «Non capisco, è contro natura. I bambini non lanciano segnali di quel tipo.» «Lo scopriremo», disse Sejer, «ma dobbiamo accantonare una serie di pregiudizi.» «Non è facile, io ne ho tanti», commentò Skarre. Si piazzò accanto alla parete. «Il pedofilo 'tipo' gira in pantaloncini corti e camicia vistosa su una spiaggia della Thailandia osservando i bambini che giocano. Ha i capelli arruffati, un aspetto non molto curato. Ha le tasche piene di banconote e alloggia in una camera sudicia di un albergo trasandato, la sera va al bar. Vede la gente passare mentre tracanna gin tonic fino a ubriacarsi. Guida una macchina abbastanza vecchia, piena di giornali e lattine di birra. Adesso tocca a te.» «È insicuro, non ispira simpatia e pensa solo a sé, non ha amici ed è chiuso, ha tratti effemminati. Si esprime in modo impacciato, fa fatica a
trovare le parole. Sua madre era, o è, una donna molto forte a cui non ha mai osato opporsi. Il padre era una figura indistinta. È figlio unico, asociale e poco attraente, livello di istruzione basso, guadagna poco, o riceve un sussidio dall'assistenza sociale. Ma in compagnia di un bambino si trasforma: diventa caldo, affettuoso, vivo. È in grado di padroneggiare tutto, ispira fiducia. Cosa faresti se avessi otto anni e stessi camminando da solo per strada? Una macchina si ferma al tuo fianco...» «Mi impaurirei», rispose Skarre, «perché magari ho combinato qualche marachella di cui devo render conto.» «Render conto? Perché penseresti così?» «Mio padre era un prete.» L'idea era andare in auto fino a Huseby per ripercorrere la stessa strada fatta da Jonas August il 4 settembre. Secondo Elfrid Løwe era un tratto lungo ottocento metri, con case sparse, qualche fattoria e poco traffico. Trovarono la casa dove aveva pernottato Jonas. L'amico, Anders Wessel, era in piedi sulla porta accanto alla madre, avevano entrambi un aspetto colpevole. Scambiarono qualche parola e proseguirono. Dopo aver scoperto la macchina di pattuglia, un nugolo di bambini di età diversa era accorso. Sejer pensò alla propria infanzia, quando un'auto della polizia era sufficiente per salvare una giornata dalla noia. Fu colpito da quanto fossero vulnerabili quei piccoli: si poteva afferrarli per un braccio e scappare via, davanti a un adulto non avevano nessuna chance. Un ragazzino ebbe il coraggio di farsi avanti. «Venite a prendere qualcuno?» «No», rispose Sejer, «stiamo cercando qualcosa.» «Per esempio?» «Non lo sappiamo, ma abbiamo pensato che, se cerchiamo, magari la troviamo.» Il bambino accettò la risposta. «Conoscevate Jonas August? Laggiù ha un amico che andava spesso a trovare», disse Sejer. «Anders Wessel. Abita al numero 8. Suo padre è danese.» Si girò per indicare la casa rossa che i due poliziotti avevano appena lasciato. «Jonas August è morto.» Sejer annuì con espressione seria. «L'abbiamo visto al telegiornale», borbottò il ragazzino. «C'era la foto e tutto. Era in terza. Alla Solberg.»
Il gruppo era irrequieto. «Pensiamo che sia salito su una macchina», proseguì Sejer. «Quando camminate per strada, dovete ricordarvi sempre questo: non salite mai su un'auto se non conoscete chi la guida. È successo qualche volta? Qualcuno si è fermato?» I bambini si scambiarono velocemente delle occhiate, come se stessero conferendo tra di loro in silenzio. Uno di loro si infilò le mani in tasca con fare da uomo. «C'è un tipo che gira in macchina e a volte ci parla dal finestrino.» L'informazione costrinse Sejer e Skarre a guardarsi. «Cosa dice?» chiese Skarre. «Niente di speciale. Che il mio zainetto è bello. O che le scarpe da ginnastica sono proprio uno schianto, ma non può essere, le ho ereditate. Guardate, mi si sta staccando la suola.» Tenne un piede in avanti in modo da mostrare loro le scarpe logore. «Tu rispondi?» domandò Skarre. Con la punta della scarpa il ragazzino si mise a scavare nella sabbia. «Non devi rispondergli», continuò Skarre. «L'hai detto ai tuoi genitori?» Il tono serio della voce rese insicuro il bambino. «No.» «Perché no?» domandò severo Skarre. «Non fa niente, guida qui in giro e basta.» Skarre estrasse rapidamente un taccuino dalla tasca interna. «La macchina, sei in grado di descrivercela? Da bravo, è importante.» «Sì. È bianca.» «Grande? Piccola?» «Non molto piccola.» «Due o quattro porte?» Il bambino rispose preciso: «Quattro». Skarre alzò lo sguardo. Proprio come quella vista dai Ris a Linde. «Ci sono altri che l'hanno vista?» chiese. I bambini annuirono seri. «A volte aspetta vicino alla scuola. E, quando suona la campanella alla fine delle lezioni, si mette a guidare.» «Andate tutti alla scuola Solberg?» «Sì», rispose una bambina. «Ma la mia amica va alla Midtbygda, e anche lei l'ha visto... è dappertutto.» Sejer si piazzò in mezzo al gruppo. «Adesso statemi a sentire. Dovete stare attenti a quell'uomo e non salite
per nessuna ragione sulla sua macchina. Neanche se vi tenta con le cose più strane. Non tutti gli adulti sono buoni. Chiaro?» Le testoline annuirono. «Chiamate subito un adulto, se si fa vedere.» I bambini annuirono nuovamente. Poi scoppiarono a ridere. C'erano state così tante ammonizioni severe che avevano bisogno di allentare la tensione. Una bambina agitò la mano. «Ha i denti storti», disse. «Crescono l'uno sull'altro.» Indicò la propria bocca con un dito sporco. «I capelli», domandò Sejer. «Ricordate i capelli?» «Sono grigi. Un po' lunghi.» Sejer impartì a Skarre un breve comando. «Chiama la scuola Solberg. Vedi se riesci a parlare con il preside. Chiedigli di mettere qualcuno a guardia fuori dall'edificio alla fine delle lezioni e di prendere il numero di targa della macchina qualora dovesse comparire. Pregalo anche di mandare una lettera ai genitori per esortarli a venire a prendere i figli dopo la scuola, se possono.» Skarre compose il numero del Servizio Informazioni. Sejer guardò nuovamente i bambini. «Adesso avete paura?» «Sì», mormorarono. «Bene, era proprio quello che volevo», affermò Sejer. 14 Ai piedi della collina di Solberg c'era una bella fattoria. La casa padronale era grigia con due ali più piccole che circondavano l'aia a ferro di cavallo. Un'insegna di legno finemente lavorata pendeva sopra la strada d'accesso informando che la fattoria si chiamava Eikerhall. Attraversarono l'aia. «I contadini hanno così tante cose», commentò Skarre. «Case grandi con molte stanze. Dispense e fienili, cavalli e mucche, trebbiatrici e trattori, campi e terreni non coltivati. Mentre gli altri si devono accontentare di sessanta metri quadrati in un condominio. Se sono fortunati, hanno un fiore sul balcone e un gatto che fa la pipì nella cassettina in cucina.» Sejer osservò la fattoria, era bella e molto ben tenuta, i prati erano fitti e verdi. «Io però non invidio i contadini», continuò Skarre, «perlomeno quelli
che hanno animali. Devono alzarsi sempre presto e non sono mai liberi. E poi la mucca deve partorire e magari il vitellino è in posizione sbagliata, e poi si ammalano di afta epizootica o di brucellosi, oppure trovano un'apertura nel recinto e si mettono a trotterellare in mezzo alla strada costringendo i conducenti a finire in un fossato, e ci sono un sacco di preoccupazioni.» «Accidenti, come sei informato sui contadini», commentò Sejer. Si diresse verso la porta d'ingresso. Non c'era nessun campanello, ma un battente grosso e antiquato, un leone con un anello che gli attraversava le fauci. Apparve una donna. «Buongiorno, stiamo facendo il giro della zona», spiegò Sejer. «Possiamo farvi qualche domanda?» La donna annuì mentre lo guardava. «Jonas è passato davanti alla sua fattoria», disse Sejer, «per poi proseguire verso Granatveien. L'ha visto?» «No», rispose lei. «Né lui né nessun altro. Non so neanche chi fosse, ma i miei figli frequentano la scuola Solberg e quindi lo conoscevano. Quello che è successo è così terribile, roba da non credere: sapere che un uomo così gira qui per Huseby. Spero che non sia di queste parti.» «Abbiamo chiacchierato con un gruppetto di bambini», riprese Sejer. «Parlavano di un uomo a bordo di una macchina bianca che a volte aspetta davanti alla scuola. Chiacchiera con loro dal finestrino. Ne ha mai sentito parlare?» «No», disse la donna sgomenta, «no, non lo sapevo.» «Abbiamo contattato la scuola, che prenderà delle precauzioni. Ma se i suoi figli hanno qualcosa da dire, le chiedo di chiamarci.» «Abbiamo motivo di avere paura?» «State in guardia», fu la risposta di Sejer. Gli uomini proseguirono in silenzio, solo raramente venivano superati da un'auto o da un trattore. Dopo qualche minuto raggiunsero una casa che si ergeva sulla destra. Ne uscì un uomo anziano, alto, slanciato e grigio di capelli, come lo stesso ispettore capo. «Si tratta di quel bambino?» Annuirono. Dopo averli fatti accomodare nell'ingresso, andò ai piedi di una scala per chiamare la moglie Gudrun, che comparve in cima agli scalini. «Ho telefonato», fu la prima cosa che disse. Scese le scale.
«Perché l'ho visto arrivare. Ha superato la nostra casa, l'ho visto tante volte.» «Com'era vestito?» «Come c'era scritto sul giornale. Pantaloncini rossi e una maglietta.» «Era fuori in cortile o l'ha visto dalla finestra?» le chiese Skarre. «Ero sulla veranda al primo piano a sbattere i tappeti. Stava arrivando con un bastone in mano, o forse era un ramo piuttosto lungo che agitava in aria.» «Lui l'ha vista?» domandò Skarre. «Ha sentito il rumore dei tappeti e ha alzato gli occhi.» «Quanto tempo è rimasta sulla veranda?» «Un paio di minuti soltanto.» «E il traffico?» domandò Sejer. «Ha visto qualche macchina mentre passava Jonas?» «Non me ne intendo di auto», disse inerme. «Una macchina per me è soltanto una macchina, e qui a Huseby non ce ne sono tante. Ho provato a pensarci, ma non ho altro da aggiungere.» «A che ora è passato il bambino?» chiese Sejer. «Non saprei dirlo, vede, non uso l'orologio.» Dopo averla ringraziata, proseguirono. A un certo punto il bosco li circondò e non videro più case, solo rami fitti e neri. Dopo quindici minuti scorsero una bella fattoria sulla sinistra e in alto a destra una piccola casa rossa. «Tu occupati della fattoria», disse Sejer. «Io penso alla casa.» Skarre scese verso l'aia, mentre Sejer salì a destra diretto all'abitazione. Si trovava a una certa distanza dalla strada e dubitava che chi ci viveva avesse visto Jonas August, sempre che fosse arrivato fino a quel punto nel suo cammino verso casa. In cortile c'era un vecchio carretto pieno di fiori appassiti. Trovò il campanello e una bambina lo squadrò da una fessura. «Polizia», si presentò con un inchino. «C'è in casa qualche adulto?» La ragazzina poteva avere dodici anni; portava degli occhiali con una montatura in acciaio, il sole scintillava sulle lenti. «No», disse appoggiata allo stipite, «sono al lavoro.» Sejer fece un cenno con il capo in direzione della strada. «Si tratta di Jonas August, il bambino ucciso», spiegò. «Ha percorso questa via domenica 4 settembre. Sai se qualcuno di voi l'ha visto? Hai sicuramente sentito cosa è successo.» «Non eravamo a casa, a quell'ora», disse la bambina.
«Lo conoscevi?» «No, non lo conoscevo, ma sapevo chi era.» «Frequenti la scuola Solberg?» «Sì, sono in sesta.» «Permettimi di farti un'altra domanda. I bambini di qui mi hanno raccontato di un uomo che a volte aspetta davanti alla scuola quando sono finite le lezioni. Guida una macchina bianca. L'hai mai visto?» Lei scosse il capo. «No, ma ne ho sentito parlare. Guida piano avanti e indietro.» Sejer la scrutò con espressione indagatrice. «Perché non avete detto niente a un adulto?» La bambina si strinse nelle spalle gracili. «Non c'è niente da dire», rispose. «Lui non fa niente, guida e basta.» «Stagli alla larga», la ammonì Sejer. Lei annuì. «Scusa se ti ho disturbata, magari stavi facendo i compiti?» «Devo fare una ricerca su Beethoven.» «Ha perso l'udito», commentò Sejer, «ma scommetto che lo sapevi già.» «Sì.» «Ho letto che aveva un carattere impossibile: era un vecchio acido e sordo.» La bambina era sul punto di sciogliersi, sul viso le apparve un sorriso. «Comunque, sordo o non sordo», continuò Sejer, «la sua testa era piena di musica. Esiste qualcosa che si chiama orecchio interiore. Per questo era capace di scrivere sonate anche se non era fisicamente in grado di sentirle. Stupendo, vero?» Lei annuì. Sejer ritornò sulla strada principale mentre Skarre stava arrivando dalla fattoria, scuotendo la testa. «Niente.» Erano in cima a un ripido pendio che bruscamente spariva dietro una curva, il bosco si infittiva ergendosi come un muro su ambo i lati. Dal basso giungeva il rumore dell'acqua che scorreva, era più buio. La strada era piuttosto stretta, sembrava sparire in un burrone e di colpo svoltava prima di risalire nuovamente lungo un'altura. Si fermarono in fondo e si guardarono mentre ascoltavano il fluire dell'acqua sulle pietre. Sejer fece qualche passo, poi rimase fermo a guardarsi intorno. «Qui», disse. «È successo proprio qui. In fondo a questo burrone. Qui si è fermata l'auto per farlo salire.»
Si chinò per prendere qualcosa da terra. «Ecco il bastone, uno di quelli che si usano per delimitare il ciglio della strada quando nevica.» 15 Setacciarono la strada e i fossati, ma senza trovare altre tracce. Le raccomandazioni della madre avevano sfiorato appena Jonas, come una piuma sulla guancia, e dopo aver gettato via il bastone era salito sull'auto dello sconosciuto. Gli esseri umani sono creature volubili, si creano dei principi che poi infrangono di continuo seguendo impulsi che non sono in grado di spiegare. Sejer e Skarre ritornarono alla macchina. Spinti da pura curiosità, si diressero verso la città e le vecchie abitazioni lungo la sponda del fiume. Una delle case, che in tempi passati ospitava la farmacia, era abitata adesso da un uomo condannato precedentemente per pedofilia. Si chiamava Philip Åkeson. Se lo ricordavano come una persona mite e socievole, aperto e generoso di natura, e decisero di parlare con lui. Non sarebbe stato difficile. Durante il processo, avvenuto otto anni prima, dove era accusato di aver molestato numerosi bambini e ragazzi, aveva affascinato tutta l'aula riconoscendo con grande calore e senza giustificazioni la propria passione per i piccoli. Aveva permesso inoltre alla giuria di indagare a fondo il suo problema. Senza mai cercare di sminuire quello che aveva fatto, si muoveva in sintonia con l'apparato giudiziario esponendosi completamente. Desiderava essere aiutato ed era preoccupato per i bambini di cui aveva abusato. Il suo discorso era stato lungo e sincero, il tono esprimeva un vero pentimento e in alcune occasioni aveva anche messo in mostra il suo contagioso senso dell'umorismo. Le parole erano scorse in un flusso regolare, melodico. I due uomini attraversarono la città, il fiume scorreva alla loro sinistra, largo e impetuoso. «Sì, sì», esordì Skarre indulgente. «Anche i pedofili sono persone, nonostante preferiscano i bambini. Però suscitano in noi immagini sgradevoli. È difficile conservare la lucidità.» «È difficile», ammise Sejer, «ma dobbiamo farlo. La pulsione che uno prova dentro di sé è una cosa, è il metterla in pratica a essere spregevole. Scommetto che la situazione reale è molto più drammatica: molti devono nascondersi tutto il tempo, non essere mai se stessi.»
«Perché la maggior parte sono uomini?» si chiese Skarre. «Non sono molto ferrato in materia, ma l'intimità e i sentimenti sono qualcosa che le donne padroneggiamo molto meglio. Qui stiamo parlando di maschi adulti che, da soli, non trovano un contatto con la propria sfera emotiva e affettiva. Hanno bisogno di un oggetto per riuscirci. Così cercano di risolvere il problema sviluppando una parafilia, che significa 'amare qualcos'altro'.» Si fermò al semaforo rosso. «Intendo dire qualcosa di diverso da ciò che è ritenuto normale. Alcuni desiderano bambini piccoli, altri ragazzini nel periodo prepuberale. Alcuni si innamorano di un bambino preciso, altri si eccitano alla vista di tutti perché sono fragili e minuti e perché è possibile averne il controllo.» Scattò il verde e Sejer superò l'incrocio. «In realtà si tratta di un problema molto drammatico. Mentre gli omosessuali stanno trovando finalmente il proprio posto nella società e l'accettazione di sé è forse per loro più facile da raggiungere, i pedofili saranno sempre dei reietti e l'oggetto del disprezzo più totale, non riceveranno mai comprensione.» Dopo aver girato, parcheggiò vicino all'edificio verde che prima fungeva da farmacia. Subito videro muoversi appena una tendina bianca. Åkeson aprì la porta prima ancora che avessero avuto il tempo di suonare. Non era cambiato, il viso era incredibilmente tondo e liscio, gli occhi castani e svegli luccicarono alla vista dei due uomini. Aveva pochi capelli, soltanto qualche ciocca sparuta molto fine, che gli cadeva in continuazione sulla fronte. Aveva un corpo tozzo, dalle membra corte. Tese loro una mano salutandoli con calore. «Ma guarda», disse, «chi si vede, questi due signori! Vi ho adocchiato molte volte sul giornale, ultimamente, è una faccenda seria, questo l'ho capito. La riconosco, Sejer, lei spicca nel panorama, sì, come un vero faro. Scusi, voleva essere un complimento. Invece lei», lanciò un'occhiata a Skarre, «di lei mi sono evidentemente dimenticato. O meglio, ricordo i ricci. Le permettono davvero di tenere i capelli così lunghi? Credevo che il regolamento al riguardo fosse più severo. Ma prego, accomodatevi, entrate, entrate... sono sicuramente sulla vostra lista, inevitabile, anche se persino voi sapete che io non c'entro niente in questo caso. Ecco, vi apro la mia dimora con grande gioia. Sì, con gioia», cinguettò, «perché non ricevo spesso visite. Spero che abbiate un po' di tempo, così possiamo farci una bella chiacchierata. Lo apprezzerei molto, davvero.» Entrò in casa a passettini facendo strada. Aveva un soggiorno accogliente e femminile, con la
moquette e i mobili di vimini. Dalle finestre si vedeva il fiume, una scala conduceva a un piccolo giardino e al corso d'acqua. Un gatto grasso e screziato si stava stiracchiando su una poltrona, il cui sedile era coperto da qualcosa che ricordava una pelle di capra. Sul davanzale erano in piena fioritura delle begonie. Åkeson indicò le poltroncine. «Butti pure giù il gatto», disse rivolgendosi a Skarre. «È così pigro che non so più che fare. Pensate che gli piaccia andare a caccia? No, figuriamoci, se ne sta lì come un pascià tutto il santo giorno. Posso offrirvi una tazza di tè?» Girava per la stanza come una donnina indaffarata. «No, grazie, Åkeson», rispose Sejer, «si sieda pure. Abbiamo parecchie cose da fare, come ben saprà. E intuirà anche perché siamo qui. Capirà che non le stiamo facendo una visita di cortesia.» Åkeson si lasciò cadere sul divano. Dopo aver incrociato le gambe, congiunse le mani sul ginocchio. «Sì, certo. Dovete prenderlo. Non vogliamo che una cosa del genere si ripeta, immagino che capiate.» «Ovviamente», confermò Sejer comprensivo. Il suo sguardo si posò sul viso di Åkeson e la vista di quell'uomo lo fece sorridere. Skarre si mise a sedere sulla pelle di capra dopo aver appoggiato il gatto per terra. «Può colpire ancora», esordì Åkeson. «Che Dio lo impedisca, ma quando è così, quando si è oltrepassato il limite, è facile precipitare sul serio.» «Quindi lei ne sa qualcosa?» domandò Skarre con cautela. «Si vedono cose alla TV», disse Åkeson, «e ho pensato che si tratti di uno alla prima esperienza.» Sejer aguzzò le orecchie. «Perché lo crede?» «Mah, sono solo congetture. Sto pensando a qualcuno che si è tenuto sulla retta via, magari per tutta una vita, magari sposandosi. Poi il matrimonio va a rotoli e lui rimane completamente solo al mondo. La pressione diventa sempre più forte e alla fine tutto esplode dentro di lui e, quando rientra in sé, viene preso dal panico.» Åkeson li guardò con i suoi occhi castani. «Voglio dire», continuò in modo drammatico, «che dobbiamo porci una domanda logica: si tratta di un pedofilo esperto, attivo da tempo? Quest'uomo attira da anni nella sua casa i bambini, è affettuoso e amabile, e poi li manda via con in mano una banconota? E allora perché di colpo
dovrebbe essere andato tutto così male?» Sejer e Skarre si guardarono a vicenda. «Non volete davvero una tazza di tè?» chiese Åkeson. «Ho anche dei biscotti ripieni. Non vi stuzzicano?» «Lei è molto gentile», disse Sejer, «ma siamo in servizio e dobbiamo andare.» «Allora non insisto; anche se l'etichetta dice che bisogna reiterare l'invito tre volte. Comunque vi consiglio di capire che natura ha quest'uomo. Se è a caccia di bambini in generale, o soltanto di maschi, e in questo caso di che tipo. Anche noi abbiamo gusti diversi, come ogni altra persona, non è che ci buttiamo sopra tutto quello che ci passa davanti...» «Lei partecipa a degli incontri di pedofili, Åkeson?» domandò Skarre. «Sì, a volte.» «C'è qualcuno che si è messo particolarmente in evidenza? Che spicca?» «A dire il vero, no. Dipende dal momento e dall'umore. Mi conoscete, sapete che io sono un'anima semplice che se ne sta sulle sue. Bene, nonostante le tristi circostanze, devo dire che è stato davvero un piacere ricevere visite.» Skarre si sforzava di nascondere un sorriso, era impossibile non rimanere affascinati da quell'ometto mite. «Jonas August era di Huseby», disse Sejer. «Viveva in Granatveien. E frequentava la scuola Solberg, la terza. Sa di qualcuno che si muove in auto osservando i bambini mentre tornano a casa da scuola? Ha una macchina bianca.» Åkeson ci pensò su un attimo. «No, non mi viene in mente nessuno. Devo dire che mi parrebbe piuttosto azzardato. Personalmente vado spesso in centro, mi siedo su una panchina della piazza a guardare i giovani, ma non alzo neanche un dito. È permesso sognare. Il mio pensiero è libero!» esclamò con un grande sorriso. Sejer e Skarre repressero una risata. «Insomma, lei si tiene lontano dalle scuole?» chiese Sejer. «Non mi metto in mostra, per dirla così.» Sejer si era alzato per osservare una foto sulla parete: un ragazzo di colore dagli occhi neri e i denti bianchissimi. «Non è bello?» disse Åkeson. «L'ho trovato in un calendario della Croce Rossa. Dovevo appenderlo, anche questa cosa mi è permessa. Diciamo che se fossi stato in Nigeria e mi fossi imbattuto in quel poverino, gli avrei dato prima da mangiare. Intendo dire, prima di qualcos'altro.»
«Lei è stato in terapia, Åkeson?» domandò Skarre. «Ma certo. Sono andato da un sessuologo, per parecchio tempo.» «Le è servito?» «Sicuramente. Finalmente ho potuto parlare di tutto quello che mi sta a cuore, ho avuto la possibilità di spiegarmi. Non sono molte le persone che ci stanno ad ascoltare, che ci accolgono con rispetto. Voi due siete una felice eccezione, bisogna ammetterlo.» «Posso chiederle qualcosa di molto personale?» domandò Skarre. Åkeson si chinò in avanti. «Certamente, giovanotto, spari pure. Non sono un tipo nervoso, sembra...» «Ha mai avuto una relazione con una donna adulta?» Åkeson sorrise civettuolo. «Be'», cominciò, tirandola in lungo con il suo modo di fare teatrale, «adulta... Sì, certo. Ma devo anche aggiungere che era molto minuta e gracile. Non è durato a lungo, si è trattato perlopiù di una specie di tentativo disperato di essere normale. Non lo vogliamo neanche noi, preferiremmo essere come voi. Ma santo cielo, sono un uomo adulto, ho compiuto cinquant'anni e conosco la mia natura. Non è possibile negarla e non voglio neanche farlo. E questa povera creatura nel bosco di Linde... non ho parole. Sono rimasto sveglio quasi tutta la notte perché non riuscivo ad accettarlo. È stato strangolato, no? Penso alla madre e a tutto quello che sta subendo. Giusto perché lo sappiate, nessuno di noi è molto felice per quello che è accaduto.» «Le crediamo», affermò Sejer. «Non la tratteniamo oltre.» «Ma non volete sapere dov'ero il 4 settembre?» domandò Åkeson con candore. Desiderava che i due rimanessero il più a lungo possibile. «Volentieri», commentò Sejer bendisposto. «Ero a una fiera dell'usato e di antiquariato nel padiglione cittadino», disse zelante. «Lo organizzano tutti gli anni il primo fine settimana di settembre. Ci vado sempre, si trovano oggetti interessanti e di solito sono fortunato.» «Sì?» chiese Sejer paziente. «Ho comprato delle tazze da tè», spiegò soddisfatto. «Quattro pezzi, provengono da un'eredità. Sono davvero deliziose, 'French Garden' Villeroy & Boch. Mi sono costate ottocento corone. Devo aggiungere che ai grandi magazzini le avrei pagate millequattrocento. Non le ho ancora fatte vedere a nessuno, ecco perché volevo offrirvi un tè. Da qualche parte ho la ricevuta e chi mi ha servito si ricorderà sicuramente di me, lo so. Non sono
capace di stare zitto, mi rendo conto di non passare inosservato, ma non intendo vergognarmene.» Scostò qualche capello dalla fronte. Per tutto il tempo aveva mantenuto il suo splendido sorriso e i modi brillanti. Li seguì fin sulla porta. Diede un colpetto sulla spalla di Skarre mentre parlava per trattenerli il più possibile. «Quanta energia si riceve quando si sta in compagnia di altra gente!» disse. «Se gira qualche voce, ci telefona, vero?» disse Sejer. «Certamente, vi chiamo subito, ma non credo che succederà. Quell'uomo non metterà fuori la testa per molto, molto tempo.» 16 Aveva dormito con i pantaloncini rossi appoggiati sulla guancia. In quel momento si accorse che il profumo, quel profumo seducente, acidulo, come un insieme di acqua salata e mele dolci, stava lentamente svanendo. Se li premette con forza sul naso, gli occhi si richiusero. Rimase sdraiato a lungo avvolto da una sensazione di dolore e di perdita, un peso che lo risucchiava, lo schiacciava dentro il materasso. Il sole penetrava da un vetro della finestra scaldandogli la guancia. Gli occhi cominciarono a bruciargli. Pensò al bambino che aveva trasportato attraverso il bosco: non c'era un filo di grasso su quel corpicino gracile, solo pelle e ossa, soltanto le vene azzurrognole e le unghie minute del colore del marmo, e pensò, con la fantasia, che c'erano molte parti commestibili in un ragazzino così piccolo, le dita delle mani, quelle dei piedi, i lobi delle orecchie. Soppresse questi pensieri perché gli facevano paura, erano sinceri ma vietati e segreti. Si alzò per andare in cucina, non c'era quasi niente da mangiare, non era uscito. Trovò soltanto qualche resto di salumi, formaggi rinsecchiti e del burro rancido. Il pane era duro e coperto di muffa verdastra. Ma aveva un litro di latte e un vasetto di marmellata di mirtilli. Mescolò il tutto in un recipiente di vetro, ci mise il coperchio e agitò fino a quando il contenuto fu ben miscelato e il latte diventò rosa: si portò il contenitore alla bocca, aveva un buon sapore. Rimase per un po' in piedi accanto alla panca mentre sentiva come quella bevanda dolce lo riempiva di forze. Di colpo si rese conto che i pantaloncini dovevano sparire. Aveva buttato via le scarpe da ginnastica, le aveva gettate in un cassonetto per la raccolta differenziata giù in centro. Se fosse piombata lì la polizia, avrebbero messo sottosopra
la casa, era un dato di fatto di cui bisognava tenere conto, ma non voleva liberarsi dei pantaloncini. Risoluto, andò in camera da letto per prenderli, li arrotolò e li infilò in una scatola di cornflakes, che ripose in fondo a un armadietto della cucina. Si sentiva particolarmente astuto. Non andranno mai a cercare lì dentro, pensò. La notte, prima di andare a dormire, li avrebbe ripresi per portarseli a letto. Tanto non sarebbero mai giunti di notte, ne era certo, le notti erano sue, quelle poche che gli restavano in libertà. Andò alla finestra. Aprì una piccola fessura tra le tendine per guardare la fattoria, il fienile rosso. Sull'aia era parcheggiato un trattore blu e un acero ondeggiava leggermente con la sua chioma ricca e lussureggiante. Prendeva in affitto da anni la casetta che un tempo veniva usata dai braccianti, aveva più di cent'anni ed era in pessimo stato. Le pareti della camera da letto erano piene di una muffa viscida, aveva sentito dire che la muffa emetteva un gas che poteva risultare velenoso. Non che gliene importasse più di tanto, la sua esistenza non valeva poi molto, non si poteva certo dire che lui fosse attaccato alla vita. Non c'era neanche il bagno, ma un vecchio box doccia in un angolo della cucina, con una tenda marcia in plastica gialla, chiazzata dall'umidità. Eppure la casa aveva un qualcosa, aveva storia e fascino. Finestre ampie a quadrotti in vetro e sul soffitto grosse travi a vista. Davanti all'ingresso cresceva il luppolo. L'edificio si trovava in un avvallamento del terreno, mentre sulla cresta di una collina si ergeva una grande villa dipinta di bianco, dove abitavano il fattore con la moglie e quattro figlie. D'estate le figlie si sdraiavano sul prato con indosso dei bikini microscopici, una di fianco all'altra come filetti di manzo al sole, ma lui non le degnava di uno sguardo. Di fronte alla casa del fattore c'era quella della madre, che aveva ottantasei anni. Ogni anno a maggio arrivavano quattro polacchi per lavorare nei campi e rimanevano fino a novembre. Li salutava con un cenno del capo, ma non si fermava mai a parlare. Abitavano nella costruzione adibita a dispensa. A volte, la sera, sentiva le loro voci e le loro risa provenire da là, in una lingua che non capiva ma che trovava esotica. Uno di loro era bravo a suonare l'armonica, invece un altro aveva una risata tutta speciale che rimbombava per l'aia. Erano persone gentili e amichevoli e lavoravano sodo. Di colpo gli venne in mente, mentre se ne stava lì a fissare l'aia e l'acero, che era stupido da parte sua tenere le tendine chiuse. Non lo faceva mai, poteva sollevare qualche sospetto. Le scostò del tutto e la luce fece prepotentemente ingresso nella stanza. Volente o nolente era costretto a prendere la
macchina per andare al negozio a fare la spesa. L'auto bianca. Quella che stavano cercando. Avrebbe comprato i giornali, ovviamente, se trovava il coraggio. Chissà quanto sapevano, che cosa avevano scoperto, se gli erano alle calcagna... chissà se era questione di giorni prima che venissero a bussare alla sua porta. L'eskimo, pensò, non lo poteva più usare, doveva buttarlo via. Corse in corridoio per vedere che cosa c'era appeso all'attaccapanni. Un cappotto con le tasche grandi e un vecchio giubbotto di pelle. La fodera si era quasi sbriciolata e la pelle era rovinata suoi gomiti. In tasca c'era un vecchio biglietto del cinema e il bastoncino di un gelato. Andò in cucina per farsi una doccia, tirò la tenda di lato e si infilò dentro, aprì i rubinetti. Mentre si lavava, elaborò un piano. Non doveva modificare le sue abitudini, pensò, ma vivere come prima, salutare ed essere gentile o, ancora meglio, allargare le braccia e ridere di cuore. Uscire a lavare la macchina, magari, fare un cenno di saluto con il capo ai polacchi, commentare il tempo. Se qualcuno avesse cominciato a diffondere qualche voce sulla sua persona, avrebbe eliminato rapidamente ogni sospetto. Non lui, avrebbero detto, perché lui è come sempre. 17 Non è strano, pensò Kristine, che io sia in grado di dire con certezza che è Reinhardt che sta tornando a casa? Non l'ho ancora visto, ma tutti gli esseri umani hanno i propri suoni, il proprio modo di attraversare le stanze. Reinhardt era un omone, non gli si addiceva il muoversi alla chetichella; si sentì il tintinnare di un appendiabiti, il tonfo cupo di quando si toglieva le scarpe, prima una e poi l'altra. «Buongiorno, dolcezza!» Teneva sotto il braccio una pigna di giornali. Kristine uscì dalla cucina. «Per quanto tempo ti trascinerai tutta questa carta a casa?» gli domandò. «Fino a quando parleranno del caso Løwe», rispose. «Ci sono un mucchio di articoli.» Alzò il quotidiano Dagbladet per mostrarglielo. «Anche oggi in prima pagina c'è la foto di Jonas, si tratta di un caso unico nella storia norvegese del crimine, ci hai pensato? Non voglio perdermi niente, nessun dettaglio.» Diede dei colpetti con le dita sulla pila di giornali. «Mi hai sempre detto che dovevo trovarmi un passatempo, qualcosa in più dei videogiochi. A-
desso mi sono deciso. Seguirò tutti i giorni questo caso fino a quando non sarà risolto, e, quando lo prenderanno, seguirò il processo.» Kristine gli strappò via il giornale di mano. Lo sfogliò e si mise a leggere. «Ma non c'è niente di nuovo», commentò. «Sempre le stesse cose.» «Non buttarli», le disse. «Voglio ritagliare tutto.» «Cosa? Ritagliare?» Lo guardò dubbiosa. «In effetti», proclamò serio, «per una volta è molto interessante seguire un caso fin dall'inizio, e poi settimana dopo settimana, e vederne l'evoluzione. È quasi una disciplina in sé.» Spavaldo, si passò le dita tra la frangia. «Forse dovrei licenziarmi dalla Hafslund e diventare reporter di cronaca nera. Mi è venuta voglia.» Kristine scosse la testa costernata. «Quando mi guardo dentro», continuò lui ragionando a voce alta, «arrivo alla conclusione che non ho mai letto le notizie in questo modo. Sono stato superficiale, le miserie del mondo non mi riguardano, ma questa sì, si tratta di una sensazione completamente nuova.» Sprofondò in una poltrona e prese il quotidiano VG. «E perché ti riguarda?» gli chiese lei. «Perché l'abbiamo trovato noi, Kristine. È così semplice.» «Ma non lo conoscevamo neanche.» «A me sembra di sì, invece. Leggo di Jonas da molti giorni. Tutto quello che è successo mi scorre davanti agli occhi come un film.» «Ma noi non sappiamo cosa è successo», gli ricordò. «Guarda qui.» Indicando, lesse ad alta voce. «La polizia non lascia trapelare molte informazioni per quanto riguarda Jonas August e il suo tragico destino.» «Mah», commentò Reinhardt, «secondo me significa che non hanno idea di come sono andate le cose, ma non hanno il coraggio di ammetterlo, non devono perdere la faccia.» Kristine continuò a guardarlo dubbiosa. «Lo abbiamo visto, Kristine», continuò Reinhardt, «lo abbiamo visto bene. Gli unici al mondo ad avere impressa sulla retina l'immagine di quell'uomo siamo io e te. Anzi, ti dirò che è ancora più nitida di prima, riconoscerei quello zingaro a cento metri di distanza.» «Zingaro? Ma se non sappiamo neanche se è stato lui! Non puoi andare in giro a dire delle sciocchezze così, ci ha soltanto superato ed è sussultato, è normale.»
Reinhardt sfogliò il giornale. «E allora guarda qui. Leggi. 'Dopo cinque giorni l'uomo misterioso del bosco di Linde non si è ancora costituito.' Allora? Finalmente è diventato 'misterioso'. Io e te l'avevamo detto subito.» «Magari è solo schivo e timido», ribatté lei. «Magari è all'estero.» «Posso essere d'accordo con te sulla seconda possibilità», ammise Reinhardt. «In questo caso è lui il colpevole. La mia teoria è che la soluzione è semplice, l'uomo che abbiamo incontrato ha ucciso Jonas August. Ci siamo incrociati ed è stato preso dal panico. Avrà sicuramente comprato i giornali di oggi, li starà sfogliando, con il cuore in gola.» Kristine tornò in cucina. Che lui fosse così assorbito dall'omicidio la infastidiva. Poi si rese conto che nel momento in cui avessero risolto il caso il marito avrebbe dovuto pensare ad altro e sarebbe ritornato in sé. Ma a lei non piaceva né la versione vecchia né quella nuova di Reinhardt. Provò come sempre un senso di vergogna. Le pareva che i giorni fossero diventati irreali, che il sole autunnale fosse troppo forte, l'aria notturna troppo fredda, il vento troppo tagliente. Le sembrava che Reinhardt si comportasse in modo strano. Estrasse dal frigorifero del fegato di manzo, poi con il coltello si mise a tagliare via la pellicola che avvolgeva i pezzi scuri. Dopo essersi messo accanto a lei, Reinhardt la pizzicò affettuosamente sulla guancia. «Stai cominciando a diventare una musona», le disse scherzoso. Lei continuò a lavorare senza rispondere. Il fegato colava sangue e il tagliere era viscido e bagnato. «Anche a te interessa questa storia», affermò lui, «ma per qualche ragione ti ritieni troppo superiore per ammetterlo. Immagino che tu abbia i tuoi buoni motivi.» Lei rimase ancora in silenzio. «Si parla ovunque di questa storia», insistette lui. «È chiaro che alla gente interessano questi casi.» «Ma tu non ti limiti a parlarne», replicò lei. «Tu ti ingozzi.» «Ritaglio degli articoli interessanti dal giornale, adesso non drammatizzare.» Di nuovo lei non rispose. Lui cambiò di colpo. «Vuoi che ti confessi una cosa?» le disse. «Non mi è mai piaciuto il fegato.» Kristine alzò rapidamente gli occhi.
«Ma lo mangi, no? Sempre.» «Sì», ripose appoggiandole le mani sulle spalle. «Perché tu me lo prepari. Con la cipolla, i funghi e la pancetta affumicata. In quel caso anche il fegato diventa buono.» Lei continuò a lavorare, le dita erano veloci. Non le piaceva averlo così vicino e quei suoi repentini cambiamenti d'umore la confondevano. «Secondo te dove abita, Kristine?» le chiese Reinhardt chino sulla sua nuca. «Secondo me vive un po' appartato. Non me lo vedo in una grande zona residenziale, forse possiede una vecchia casa fatiscente ereditata dalla madre, al limitare del bosco. O una baita che va in pezzi.» «Non sappiamo niente di dove abita», disse lei rassegnata. «No, sto semplicemente ragionando. Lo fa anche la polizia quando non ha altro su cui basarsi. Ne sanno di cose su questi tipi che si nutrono di bambini.» «Si nutrono?» ripeté terrorizzata. «Era solo una metafora», spiegò lui sorridendo. «Non prenderla così sul serio. Comunque un fatto è certo, Jonas August diventerà famoso. Ne parla la stampa straniera e nella storia norvegese del crimine è un caso unico. Sai, di solito vengono ammazzate sempre le femmine. Mogli e fidanzate. O ex. Questa è tutta un'altra faccenda. Ma tu non lo capisci», aggiunse di colpo, «non comprendi quanto sia speciale.» Kristine stava tagliando il fegato a strisce sottili. «Sì», rispose stancamente. «È speciale. Mi sento completamente frastornata», ammise. «E noi ne siamo una parte», aggiunse lui. «Non lo siamo.» «Tu non vuoi», la corresse, «ma questa è un'altra cosa. Tu vuoi soltanto dimenticare, andare avanti. Sei una buona rappresentante dell'universo femminile, voi vi tirate indietro di fronte ai conflitti.» «Sì», ribatté, «io voglio andare avanti, dimenticare. Sei fuori di te. Non possiamo fare niente, Reinhardt, è compito della polizia!» «Era come pensavo. Non capisci la gravità della situazione. Io e te siamo in grado di identificarlo, possiamo confermare che lui si trovava sul luogo del crimine, o perlomeno a pochi metri di distanza. Non ti rendi conto di quanto siamo decisivi? La polizia ha bisogno di noi, pensaci, possiamo farlo sbattere dentro per almeno vent'anni!» Adesso il drammatico era lui, la sua voce si era alzata di tono. Kristine accese il fornello, mise del burro nella padella.
«Non mi ricordo quasi più che faccia avesse», disse. Reinhardt la guardò scettico. «E lo dici proprio tu? Che eri così sicura? Vestiti, aspetto e tutto? H.C. Andersen, addirittura.» «Va bene», rispose lei riluttante, «ma adesso non sono più sicura di niente.» Reinhardt incrociò le braccia. «Ma io sì, ne sono certo. E ho un buon occhio.» Il burro si era scurito, Kristine versò il fegato, il cui profumo si diffuse per la cucina. «Probabilmente ha vissuto qualcosa di strano con i suoi genitori», esordì Reinhardt con voce lontana. Gli diede una rapida occhiata da sopra la spalla. «Perché?» «Dal momento che è diventato un pervertito.» «Come fai a dirlo? Cosa ti fa pensare che si trattasse dei genitori?» «Le persone non diventano così senza motivo.» Lei salò e pepò la carne inspirandone il profumo. «Essere al posto sbagliato nel momento sbagliato...» continuò Reinhardt. Si era messo di schiena rispetto al ripiano della cucina. Ora scuoteva tristemente la testa. «Voglio dire, il piccolo Jonas August. Che camminava lungo la strada proprio quel giorno, a quell'ora, mentre lui arrivava in macchina. Che razza di destino.» Kristine girò il fegato, in superficie si era formata una bella crosticina. «Non credo proprio che quel bambino fosse predestinato», commentò lei. «Forse l'omicida non lo aveva neanche progettato, forse arrivava semplicemente in macchina e ha agito d'impulso.» «È proprio questo il punto», precisò Reinhardt. «Incapacità di controllare gli impulsi.» «Hai cancellato le foto?» gli domandò. Reinhardt fece un gesto con la testa. «Perché continui a scocciarmi su questa cosa?» «Le hai mostrate al lavoro?» Agitava la paletta. «E se lo avessi fatto? Non capisco perché ti arrabbi tanto, la gente è curiosa.» Kristine si rigirò prima di parlargli voltandogli le spalle esili. «Non è il caso che le vedano cani e porci», disse. «E chi l'ha stabilito?» Di colpo si sentì stanca. Si appoggiò alla cucina elettrica mentre avverti-
va sul viso il calore che si sprigionava dalla padella. «Bon ton», sussurrò. «Ne hai mai sentito parlare?» 18 Si infilò il vecchio giubbotto di pelle, era così liso che si sentiva un pezzente, ma non poteva pensare a questi dettagli. Anche i capelli erano in disordine, non andava da un parrucchiere da molto tempo, i soldi dell'assistenza sociale non erano sufficienti, era sempre costretto a risparmiare su tutto. Adesso doveva uscire, doveva guidare la macchina bianca per le strade perché il frigorifero era vuoto. Negli ultimi giorni aveva quasi fatto la fame, si era quasi consumato. La luce del giorno lo terrorizzava, ma si costrinse a uscire di casa: vivo non sono, pensava, ma libero sì, anche se ancora non per molto. All'ultimo secondo si calcò un vecchio berretto sul capo abbassando per bene la visiera sulla fronte. Andò allo specchio. Gli sembrava un buon travestimento. Lo dividevano solo pochi passi dalla macchina. In quel momento l'anziana madre del fattore attraversò l'aia, il mento in fuori, la schiena curva. Un tempo aveva mandato avanti lei la fattoria, quando c'erano ancora le mucche; adesso avevano soltanto delle galline e dei conigli bianchi in un recinto dietro il fienile. Lo vide e gli fece un cenno con la mano, ma lui fu veloce ad aprire la portiera e a infilarsi nell'auto. Non voleva parlare con nessuno. Quando la donna lo raggiunse all'improvviso a gran velocità - evidentemente doveva dirgli qualcosa - la sua paura di apparire disperato lo costrinse ad aspettare. La vecchia si chinò verso la macchina per sbirciare con occhi lucidi, lui abbassò controvoglia il finestrino. «Ma guarda, eccoti qua. In partenza?» Lui annuì. Quando le donne diventano vecchie, sviluppano una specie di sesto senso, pensò. «Devo fare un po' di spesa», disse mostrando un debole sorriso. Non aveva niente contro di lei, al contrario, gli piaceva quello spaventapasseri vecchio e grigio. Non riusciva a immaginarsi la fattoria senza di lei, e gli piaceva quando la donna ciondolava in giro con le mani intrecciate dietro la schiena. «Sì, sì, il cibo ci serve», commentò. Il grembiule era scolorito e logoro, mancavano dei bottoni, osservò lui; sotto intravide un'antiquata sottoveste rosa con un pizzo basso. I capelli secchi e bianchi spuntavano da sotto un foulard blu.
«Hai visto quante macchine?» gli domandò. «Con i fotografi e i giornalisti. Vengono per parlare del bambino. Quello che hanno trovato nel bosco di Linde.» «Sì», si raschiò la gola. «Li ho visti.» «Povero piccino.» «Sì, una cosa terribile.» «Ci sono anche auto della polizia», aggiunse la vecchia. «Pullula di poliziotti. E sono passati cinquant'anni dall'ultima volta.» «Dall'ultima volta?» le chiese. «Che qualcuno ha ucciso a Huseby.» La guardò con espressione confusa. «Non lo sapevi, vero?» «No», disse lui. Si ringalluzzì tutta perché aveva qualcosa da raccontare. «Il figlio maggiore a Bell'Oriente uccise la sua fidanzata, che aveva soltanto quindici anni. Era pure incinta. Ecco come sono i giovani, finiscono a letto insieme e poi succede quello che deve succedere. Lo rinchiusero in un riformatorio, dove è rimasto per tutti gli anni del Signore. Ora tira avanti grazie all'assistenza sociale. Ovviamente è andato a vivere dall'altra parte della Norvegia. Se ne starà lì seduto a languire pensando a tutto quello che è avvenuto.» Lui rimase ad ascoltare quel fiume di parole, chiedendosi se la vecchia volesse qualcosa da lui o fosse soltanto a caccia di un ascoltatore. «Prendersela con un bambino è qualcosa di assolutamente imperdonabile, davvero.» Si toccò il foulard con una mano rugosa, le unghie erano lunghe e ricurve. «Che gli adulti si picchino, vengano alle mani, è una cosa. Ma un bambino è solo un bambino.» Lui annuì. La donna non lo stava guardando, parlava senza rivolgersi a nessuno mentre si aggrappava con la mano alla portiera quasi come per trattenerlo. «C'è solo una cosa che volevo chiederti. Una sciocchezza. Se non è di troppo disturbo. Non è mia intenzione essere inopportuna.» Lo squadrò con gli occhi azzurro pallido. «Ma chi non chiede, non ottiene mai niente, è una regola d'oro.» Lui aspettò paziente. Bastava darle tempo. Le vecchie, pensò, ci bloccano nella loro lentezza, è come rimanere impigliati in un mucchio di alghe.
Guardò in quel volto asciutto, la pelle cadeva molle sul collo e qualche pelo le spuntava sul mento. Non è più femminile, pensò, non ha più un bell'aspetto. È sola ai margini della vita, in attesa. Si chiese cosa volesse dire coricarsi la sera quando si hanno ottantasei anni. Cosa si provasse quando le tenebre strisciano fuori dagli angoli e forse si tratta dell'ultimo buio. «Sai, i ragazzi», esordì indicando con un cenno del capo l'edificio adibito prima a dispensa. «I ragazzi», ripeté, «si annoiano la sera, sentono la mancanza di moglie e figli. Non so proprio cosa fare per loro.» Si riferiva ai polacchi. Fece una pausa. Si abbassò per scrutarlo mentre lui sedeva in attesa, impaziente, le mani sul volante. Le costò parecchio guardarla negli occhi, era così solida e forte e dignitosa da trasmettere con la sua persona tutte queste qualità. «Non vogliono neanche spendere soldi, non escono mai, se ne stanno là seduti e basta. Giocano a carte, a poker, credo. Ma non a soldi, sono così parsimoniosi. In questo abbiamo qualcosa da imparare, noi che viviamo nell'abbondanza. Sì, forse tu sei un'eccezione, non volevo dire questo... però, noi siamo abituati bene, impossibile negarlo.» Aspettò che lei arrivasse al punto. Aveva le formiche in tutto il corpo, voleva andarsene. «Era solo una domanda», continuò lei. «Magari hai una vecchia radiolina da viaggio. Di quelle con le batterie e l'antenna. Nella dispensa non c'è la corrente, anche se in effetti avrebbe avuto la sua funzione. Ma abbiamo già abbastanza spese con questa fattoria.» Scoppiò in una risata gracchiante. Lui non capiva cosa ci fosse di tanto divertente. «Non possiedo più un aggeggio così da molti anni», le spiegò accendendo la macchina. «Avevo una vecchia Kurér, ma l'ho buttata. O forse l'ho data via a un mercato delle pulci in beneficenza», aggiunse. Diede gas. Lei arretrò, la testa ritta sul corpo storto. Il nodo del foulard sulla nuca ricordava un uccello dalle ali blu, le cui estremità si alzavano e abbassavano quando la vecchia si muoveva. «Gli avrebbe fatto bene un po' di musica», disse. «Le sere sono così lunghe. Sono qui da maggio a novembre, sei mesi, lontano dalla famiglia. Lontano dai figli.» Rimase nuovamente in silenzio mentre si appoggiava all'auto con una mano pallida. L'intera nazione mi sta cercando, pensò, e lei mi chiede una vecchia radio. Strinse il volante, fu assalito da un terrore crescente, una pressione
violenta, interiore, perché si trovava tra la gente e ciò lo impauriva a morte. «Sì, sì, non voglio trattenerti», concluse la vecchia. «Ce la faranno anche senza. Sono solo una donna anziana che si preoccupa. Non ho molto altro di cui occuparmi. Quello che so è che bisogna sapersi arrangiare da soli. Così è la vita, bisogna chiudere il becco, invece sono ancora qui a far andare la lingua.» Sorrise con i denti consumati e gialli prima di allontanarsi. Lui vide quel corpo storto scomparire verso la serra. Non era in uso da molti anni, gran parte dei vetri erano rotti e piante ed erbacce piene di forza vitale si erano avvinghiate alle pareri come liane. Pensò che lui stesso assomigliava a quella vecchia serra. La facciata era fatiscente e rovinata e dentro crescevano senza freni i desideri proibiti. Finalmente poté guidare. Si fermò davanti alla cassetta della posta per prendere una pigna di materiale pubblicitario che buttò sul pavimento della macchina, poi imboccò la statale. Si mise a cercare le auto di colore bianco. Con sua grande gioia ne incontrava a intervalli regolari, una Subaru, una Hiace, una Opel. Mentre guidava ripensava al passato, alla madre e alle sue lune. Ero un bambino timoroso, ed ero solo, si disse. Ci ha pensato mia madre. Mamma aveva sempre pronta una minaccia, una raccomandazione, una battuta tagliente. Sono cresciuto sotto una pioggia di rimproveri. I pensieri lo depressero oscurandogli la mente. 19 «Questo mi ricorda qualcosa», disse Sejer. «Qualcosa legato all'infanzia.» «Cosa?» domandò Skarre. Seduto con il cane di Sejer in grembo, giocherellava con le sue orecchie, che sembravano quelle di un peluche. «Avevo una bicicletta con la dinamo», spiegò Sejer. «Se pedalavo abbastanza rapidamente, si accendeva la luce. Adesso che sono partito si tratta di mantenere alta la velocità perché così sarò in grado di capire come è potuto succedere quello che è avvenuto a Jonas August.» «Devi assolutamente capire?» chiese Skarre. «Non basta scoprire la verità?» «No, non è sufficiente. Chi ha rubato la vita a Jonas deve mettermi al
corrente di ogni minimo dettaglio sulla dinamica dell'accaduto. Deve spiegare attimo per attimo perché era necessario che terminasse con questa catastrofe.» «È questo a cui stiamo lavorando? Una catastrofe?» domandò Skarre. «Può essere così.» «E hai intenzione di concedere al criminale la tua compassione? Ti sentiresti meglio?» Sejer ci rifletté sopra. «Non si tratta di compassione. Questo diritto appartiene soltanto a Elfrid.» «Allora perché parli così?» disse Skarre. «Perché ho bisogno di una conferma: che la malvagità pura è rara.» «Lo è?» «Voglio che sia così.» Guardò Skarre annuendo con la testa. «Sì, è rara.» «Tornando alle indagini... Non si tratta proprio di una passeggiata, e non puoi lamentarti che qualcuno stia perdendo tempo. Stanno facendo tutti gli straordinari, giorno dopo giorno! Insomma, stiamo lavorando come dei dannati.» Sejer spense la lampada sulla scrivania. Erano in azione da quattordici ore. Adesso sarebbero tornati a casa, ma entrambi esitavano. Staccare sembrava quasi un tradimento nei confronti di Jonas August. «Perché non ci prendiamo una birra?» suggerì Skarre. Sejer soppesò la proposta. Di solito non beveva alcolici, e non agiva d'impulso, ma accettò. Uscirono sulla strada affollata, il cane correva al loro fianco per tenere il passo. Camminarono per un po' in silenzio, il più anziano e il giovane, e mentre si avvicinavano a un passaggio a livello videro due ragazze davanti a loro. Procedevano sul marciapiede tenendosi a braccetto come fanno le amiche, i tacchi che battevano sull'asfalto come nacchere. «Guardale», esordì Skarre. Sejer le osservò. Erano lisce e sode, come due tulipani un attimo prima di sbocciare. Un mormorio discreto, intimo si levava nell'aria settembrina. «Secondo te quanti anni hanno?» domandò Skarre. Sejer studiò le due ragazze. «Forse sedici?» Skarre alzò gli occhi al cielo. «Oddio, sei proprio fuori strada, ne avranno tredici o quattordici. Sai, c'è così tanta glassa su quei dolcetti.» «Glassa?»
«Trucco.» Superarono le ragazze. Skarre lanciò loro uno dei suoi splendidi sorrisi. «Quattordici anni, non un giorno di più», sussurrò Skarre. «Cosa intendi dire?» «Sto solo giocando con il pensiero. I casi a cui lavoriamo mi suggeriscono una serie di riflessioni. Pensa ai maschi che vogliono trovarsi una ragazza. Insomma, guarda come vanno in giro, pur essendo ancora un frutto proibito. Qui in Norvegia l'età minima del consenso sessuale è sedici anni.» «Sì», confermò Sejer. «Hai qualche obiezione?» «Dovrebbe essere più bassa», rispose Skarre. «Che tipo di segnali trasmettono le ragazzine? Eccole a braccetto, belle e pronte a tutto.» Sejer si girò a guardarle. «Se una di loro incontra un ragazzo», proseguì Skarre, «e si divertono a letto e poi a lei viene in mente di pentirsi, lui rischia dai due ai tre anni. Per crimini di natura sessuale.» «Ma dobbiamo avere delle regole», ribadì Sejer. «I giovani vanno protetti e questo lo si ottiene ponendo dei limiti.» «Le ragazze di oggi sono così adulte», replicò Skarre. «E, che ci piaccia o no, anche i giovani sono creature sessuali.» «Tu non hai figli», disse Sejer, «non capisci gli istinti che ti si agitano dentro nel momento in cui diventi responsabile di un altro essere umano. Giovane, magari una ragazzina bellissima che deve fare il suo ingresso nel mondo. E non ti è più permesso essere lì a proteggerla, te ne resti a casa ad aspettare. Mentre la fantasia corre.» Si sedettero ognuno con la propria birra. «Be'», cominciò Skarre, «pensavo che avremmo potuto parlare un po' di sesso.» Sejer si chinò per accarezzare il cane. «Parla», disse laconico. «In Svezia l'età minima per avere rapporti sessuali è quindici anni.» «Allora?» Sejer stava bevendo una Pilsner Urquell. Il volto aveva assunto un'espressione seria e attenta. «In altre parole», riprese Skarre, «mentre un uomo verrebbe considerato un criminale e condannato duramente in Norvegia, lo stesso fatto in Svezia sarebbe accettato.»
«È un problema?» «Ma certo, è un controsenso. Il problema del sesso è che è troppo legato alla morale. Prendi per esempio il sesso orale.» Sejer abbassò nuovamente lo sguardo sul cane. «In alcuni Stati americani viene considerato una perversione e quindi è punibile per legge. Voglio dire, cosa c'è di anormale, che cosa si intende per perversione? E che significa abusare di qualcuno?» «Noi lavoriamo qui, in Norvegia», precisò Sejer, «e qui abbiamo delle leggi molto chiare al riguardo. Dobbiamo esserne contenti.» «Sarà», disse Skarre. «Ma c'è un'altra cosa a cui ho pensato, qualcosa di cui siamo costretti a renderci conto. Quando si tratta di pedofilia, è chiaro che la persona coinvolta forse non ha avuto la possibilità di sviluppare una natura normale. A sua volta è vittima di un conflitto, e, quando ricorre ai bambini, lo fa per risolvere un problema. Voglio soltanto ricordarti questo aspetto.» «Molti hanno dei problemi», ribadì Sejer. «Esistono modi accettabili di risolverli e modi inaccettabili. Esistono molti pedofili che non danno sfogo alla loro natura, si mantengono entro un certo limite. Il nostro uomo non lo ha fatto.» «Eppure», insistette Skarre, «la possibilità che lui stesso sia stato vittima di abusi è grande. Le statistiche dicono che può arrivare fino al settanta per cento. Forse avrebbe dovuto ricevere una cura, invece di essere condannato. Un buon avvocato sfrutterebbe al massimo questi argomenti.» «Ma la persona in questione non ha chiesto di essere curata», disse Sejer. «Anche questa può essere una responsabilità che ricade su di lui. Sono molti quelli che hanno avuto un'infanzia terribile, ma questo non giustifica i loro soprusi sugli altri. Anzi, probabilmente ne sanno molto di più in materia. Non trovi?» «Sì, ma quanto è facile andare da un terapeuta e dire: 'Aiuto, mi eccito davanti ai bambini piccoli'?» «No, non è facile, ma la vita non è semplice per nessuno.» «Non riesco proprio a suscitarti un po' di comprensione, vero?» «No.» «Voglio solo dire che è un problema maledettamente complesso», proseguì Skarre. «Cosa significa in realtà coercizione? Ricorrere all'astuzia è in sé un abuso? Portarsi qualcuno a letto con l'inganno è repellente? Possiamo sedurci a vicenda o no? Non è facile essere maschi e capire tutte queste regole.»
Sejer guardò Skarre al di là del tavolo. «Non ho nessuna voglia di parlare delle mie storie, ma non ho mai avuto problemi a seguire le regole.» «Ci credo, ti conosco. Ma immagina di essere un giovane in un locale in penombra, caldissimo, circondato da belle ragazze che si offrono a te da tutte le parti. Sei pieno di birra e di ormoni, il polso martella a ritmo del basso dell'impianto stereo. Nella peggiore delle ipotesi ti sei preso una pastiglia di ecstasy.» «Non mi passerebbe mai e poi mai per la testa.» «Probabilmente no, ma questa è la realtà in cui viviamo oggi, e per questo sostengo che siamo indietro per quanto riguarda la sessualità. Sembriamo aperti ed emancipati, ma è solo apparenza, perché dal punto di vista della ricerca è successo molto poco. Stanotte mi sono messo a leggere, volevo sapere perché si diventa pedofili. Non ho trovato nessuna risposta soddisfacente perché i ricercatori non ne sanno quasi niente. Dicono che si tratta di cause individuali. Però forse le cose stanno in un altro modo, ma nessuno lo vuole sapere. Nessuno intende occuparsi di questi uomini, tanto meno parlarne ad alta voce. Tutto si riduce a un disprezzo collettivo.» «Be', qualche informazione sei evidentemente riuscito a scoprirla, non stai più nella pelle.» «Sì», confermò Skarre. «Sono rimasto colpito da tutto quello che viene incluso all'interno della definizione 'normale'. Cioè, finché i due partner sono adulti e consenzienti. Allo stesso tempo molte persone hanno fantasie sessuali molto particolari che non mettono mai in pratica. Probabilmente è una fortuna. Ho anche riflettuto molto su quello che ha detto Åkeson. Che forse abbiamo a che fare con un uomo che ha colpito per la prima volta.» «Può essere», concordò Sejer. «La questione è dunque in questi termini: se si ritrae dalla paura o se si è eccitato sul serio.» Dopo una breve pausa a Skarre venne in mente un'altra cosa. «Tuo nipote Matteus. Ha sedici anni?» «Diciassette. Perché?» «Balla?» «Esatto. Danza classica e qualcuno lo trova promettente.» «Ha la ragazza?» Sejer lo guardò. «C'è qualcosa che bolle in pentola con una certa Lea. Non ne so molto e non chiedo.» «Lea ha compiuto i sedici anni?» «Non lo so. Non procurarmi altre preoccupazioni oltre a quelle che ho
già. Matteus è un ragazzo molto responsabile ed estremamente preciso in tutto quello che fa. Lui deve essere onesto, il migliore. Si allena duramente, nessuno lo deve cogliere in fallo.» «Ambizioso?» Sejer annuì. «È costretto. Viene dalla Somalia. È obbligato a impegnarsi il doppio degli altri, deve difendere il proprio posto tutti i giorni.» «Capisco cosa intendi dire», commentò Skarre, «ma la maggior parte delle persone si porta un fardello addosso. Mio padre era prete. Aveva pretese esagerate, e non gli è mai andata giù che io non abbia studiato teologia. Per questo motivo mi sono sentito spesso un traditore, mi è rimasta incollata addosso la sensazione di averlo deluso profondamente, che lui sia andato nella tomba con quel dolore. Se Matteus non fosse nero, ci sarebbe qualcos'altro contro cui dovrebbe combattere nella vita.» «Probabilmente hai ragione», disse Sejer. «E l'uomo che stiamo cercando ha sicuramente una spiegazione anche lui sul perché è successo quello che è successo con Jonas. Comunque, se ci rifletti sopra, è tutto molto semplice: se sei in Norvegia devi seguire la legge norvegese.» 20 8 settembre Edwin Åsalid stava sbirciando fuori dalla finestra. Notò come gli alberi avessero cambiato colore, le foglie erano passate dal verde al rosso e giallo. Alcuni banchi di nebbia aleggiavano sopra le case simili a veli spettrali. Forse capiterà qualcosa di pauroso, pensò. Indaffarata in cucina, sua madre sentì un urlo felice e il rumore di passi pesanti sul pavimento. Lui entrò dondolando nella stanza, il corpo obeso sprizzava eccitazione. Un suono penetrò il silenzio della casa, il suono familiare di una campanella stridula, tagliente. «Il furgoncino dei gelati», ansimò Edwin. «Arriva il furgoncino dei gelati! Posso comprare una scatola di cremini alla panna, mamma? Per piacere, per piacere!» Afferratole un polso, si mise a tirare il braccio come un cucciolo che stringe tra i denti un giocattolo. Tulla Åsalid si liberò dalla presa e incrociò le braccia. Il volto della donna fu attraversato da un'espressione preoccupata perché il sovrappeso del figlio era allarmante e aumentava a velocità impressionante. Adesso voleva il gelato, la pregava in ginocchio, oscillava da un piede all'altro, le mani si aprivano e si chiudevano.
«Edwin», rispose lei debolmente, «ne abbiamo già parlato.» «Ma mamma», implorò Edwin, «soltanto una confezione!» Gli occhi erano fissi su quelli della madre. Tulla Åsalid si mise a riflettere pensando a quello che le avevano detto i medici, che dovevano cambiare le abitudini alimentari se ci tenevano alla salute e adesso il peso aveva raggiunto quasi i novanta chili. Ma ora lo stava pregando e lei lottò per essere forte. Lui le afferrò nuovamente il polso, gli occhi castani scintillavano. «In una confezione ce ne sono venti», insisteva. «Non ci sono molti grassi, mamma, perché usano il latte in polvere.» Tulla Åsalid dovette girarsi: quegli occhi castani avevano una forza speciale su di lei, voleva ritrarsi. Avrebbe desiderato essere decisa, saggia, ferma, ma era suo figlio e il legame che li univa era solido quanto la gomena di una nave. Era debole e priva di forza di volontà, veniva inebriata dalla vicinanza, sedotta dal fatto che il figlio avesse bisogno di lei, e poi le piaceva sentirsi pregare in ginocchio. «Quanto costano?» chiese spossata. «Centoventi corone», rispose Edwin, «un affarone.» Quell'espressione la fece sorridere. Non fu tuttavia a cuor leggero che si diresse verso il cassetto della cucina dove teneva il borsellino, ne estrasse una banconota e trovò delle monete in un bicchiere. Dopo averle ghermito i soldi di mano, Edwin si dileguò immediatamente verso la porta con l'andatura che gli permetteva quel corpo grasso. Lei andò alla finestra, aveva perso un'altra volta, ma ci era abituata. Si accorse del furgoncino azzurro, si era fermato a una certa distanza dal cancello ed ecco giungere in fretta e furia Edwin che barcollava lungo la strada come una nave in sovraccarico. Quando correva, arrivava per prima la cassa toracica, poi le spalle e la testa, infine veniva raggiunto dall'adipe; si muoveva dondolando come un'onda. Il conducente scese dal furgoncino, la vista di quel ragazzo grande e grasso lo fece sorridere. Tulla si allontanò dalla finestra per fermarsi davanti allo specchio dell'ingresso. Anche lei era leggermente in sovrappeso, ma la sorte era stata clemente: era ben ripartito. Aveva delle curve marcate, piacevoli, il seno alto e i fianchi larghi, ma la vita abbastanza sottile. Si considerava simile a un bello strumento, un violoncello. I capelli erano folti, biondi e lucenti, e all'età di quarant'anni li portava sempre sciolti. Indossava un vestito rosso la cui stoffa leggera faceva risaltare le forme. Buttate le spalle all'indietro, spinse in avanti il busto, poi girò la testa per controllare il profilo. Il naso pronunciato le dava carattere, non avrebbe mai voluto cambiare niente, le
sopracciglia avevano un loro splendore particolare perché le spazzolava con l'olio. Edwin stava parlando con l'autista. L'uomo era un immigrato, indiano o pakistano, vide i suoi denti bianchi splendere. Il portellone era aperto e il motore acceso. Devo stare attenta, pensò, perché Jonas August Løwe è morto e un uomo gira a caccia di bambini. Ma questo era il furgoncino dei gelati, che passava ogni due giovedì. Ritornò in cucina. Sul ripiano c'era mezzo chilo di carne macinata, avrebbero mangiato i tacos e l'uomo della sua vita sarebbe venuto a trovarla. Cercò di calmarsi, di studiare una strategia perché non intendeva farsi scappare quest'uomo, per questo cucinava bene e curava il proprio aspetto. Anche se non avevano mai parlato di matrimonio, lui veniva regolarmente perché non era in grado di resisterle, e lei faceva il possibile per tenerlo in caldo. Sentiva il calore sprigionarsi in tutto il corpo quando pensava a lui, eppure aveva paura perché notava che se ne stava sulle sue. Anche se lei era piacente e a letto ci sapeva fare, c'era in lui qualcosa di riservato che non capiva. Ci vuole tempo, pensava guardando la carne macinata. Se sono paziente, cederà. Non riusciva a immaginarsi una vita senza di lui, le bastava visualizzare il suo viso per cominciare a tremare. Era alto, slanciato e biondo, il corpo agile e allenato, i modi risoluti ma seducenti. Se la voleva, non chiedeva il permesso, la prendeva nel momento in cui gli andava. Le piaceva essere posseduta, le piaceva il modo in cui le spingeva le braccia all'indietro per poi fare i suoi comodi. Si staccò da quei pensieri per tornare alla finestra. Non vedeva più Edwin, probabilmente si trovava dietro il furgoncino mentre l'autista cercava la confezione di cremini. Rimase per un po' a pensare al futuro di suo figlio. Sarebbe ingrassato ancora mettendo seriamente in pericolo la propria salute. Con gli altri bambini era molto schivo, ma aveva qualche buon amico, Sverre, Isak e Sindre. Pensò a Sindre: un ragazzo silenzioso con una mente estremamente acuta. Anche lui si sentiva tagliato fuori, era troppo intelligente. Ringraziò il destino che aveva concesso degli amici a Edwin. Si mise a posto l'abito rosso mentre fissava la strada, il figlio era ancora nascosto dietro il veicolo, non capiva perché ci impiegasse tanto. Si costrinse a tornare in cucina, dove prese da una credenza delle cipolle e dei peperoncini piccanti, la salsa, le spezie e piccole conchiglie gialle di farina di mais. Tra poco avrebbe sentito il rumore della Volvo sulla ghiaia e Ingemar Brenner sarebbe apparso sulla scala con quel suo sorriso speciale. Di nuovo sentì delle ondate di calore diffondersi nel corpo, dappertutto, aveva il suo odore nel naso, e quando non veniva o quando se ne andava la mancanza era insopportabile.
Ma adesso sarebbe arrivato, tra qualche minuto. Girava per la casa come una ragazzina in attesa, ogni volta che passava davanti allo specchio sorrideva a se stessa, e ogni volta si sentiva tranquillizzata. Va bene, pensava di continuo, sono formosa, sono piacente e sono circondata da un meraviglioso profumo. Dal momento che Edwin non era ancora rientrato, tornò alla finestra per la terza volta: il furgoncino era ancora accanto al cancello, la freccia destra in funzione, i portelloni posteriori aperti. Fu allora che vide arrivare la Volvo di Ingemar che, rallentando, girava nel passo carraio. Si scostò velocemente dalla finestra, aveva il fiato mozzo, doveva mantenere la calma. Non riusciva a fare troppo la preziosa, ma respirò profondamente alcune volte per prepararsi. Poi sentì il campanello. Lentamente andò in corridoio per aprire. Lui era in cima alla scala con le sue forti braccia incrociate. Gli sorrise a sua volta, vezzosa. Era come se stessero giocando, e amavano quel gioco: mangiarsi con gli occhi attimo dopo attimo. Lui superò la soglia ed entrò in corridoio, e dopo averla spinta contro la parete le pose le mani ai lati della testa. Adesso era intrappolata, e le piaceva. Gli occhi le si chiusero. Lui profumava di dopobarba e sapone e di qualcos'altro, qualcosa di maschio. La baciò sulla bocca. Lei aprì gli occhi per guardarlo. «Hai visto Edwin?» gli chiese all'improvviso. «Edwin?» disse lui esageratamente disinteressato. Lei voleva liberarsi, lui la trattenne. «Non ho visto nessun Edwin», la prese in giro. «Andiamo a preparare da mangiare, Tulla.» «Tacos», lo stuzzicò. Lui protese le labbra. «Il dessert lo voglio a letto», miagolò strofinando il naso sul collo di lei. Voleva liberarsi, avere più controllo, ma si sentiva fiacca in tutto il corpo. Era così che la voleva, era soddisfatto. Alla fine la lasciò passare. Lei si precipitò fuori per guardare in strada, finalmente vide il figlio che stava rientrando. Ritornò in cucina, Ingemar avvicinò il pacchetto di carne macinata al naso. «Possiamo mangiarla cruda», le suggerì. Le sue parole la fecero ridere. La risata le salì dal profondo per rotolare sonora e felice nella cucina. Edwin si fermò nel corridoio, era disorientato. Chinò il corpo pesante contro la parete mentre teneva la confezione gela-
ta all'altezza della pancia. Sentì la madre ridere ad alta voce in cucina, come se si trovasse in un altro posto e avesse reciso il forte legame che li univa. Solo Ingemar Brenner riusciva a farla ridere in quel modo. Voleva aspettare che scendesse di nuovo il silenzio, ma anche in quello c'era qualcosa che non gli piaceva perché non sapeva cosa stessero facendo; era una situazione altrettanto difficile. Edwin aveva comprato una confezione di gelato al ribes nero, perché non avevano i cremini. Sentì il furgoncino ripartire, il suono della campanella si fece sempre più flebile. Di nuovo la risata della madre. Edwin se ne stava con la mano sulla maniglia, alla fine aprì la porta ed entrò. «Edwin», la madre venne verso di lui. «Perché ci hai messo così tanto?» «Non c'era quello che volevo», rispose Edwin. Guardò timidamente Ingemar. Si sentiva a disagio per tutto: perché stava tra i piedi, perché era grasso. «Posso mangiare un gelato?» «Non puoi aspettare dopo cena?» disse Tulla scoraggiata. Gli occhi gli diventarono lucidi: aveva così tanto bisogno di un gelato. «Lascia che se ne mangi uno», intervenne Ingemar pratico. Tulla cedette ai due uomini della sua vita. Edwin prese un gelato, gli tolse la carta e lo addentò. La sera erano seduti davanti al televisore. Ingemar era in un angolo del divano con i piedi sul sofà mentre Tulla era bloccata tra le sue ginocchia. Edwin occupava una poltrona, sul tavolino c'erano ovunque carte e bastoncini, aveva già fatto fuori quattro gelati. Tra le mani teneva un peluche, un dinosauro fatto di stoffa e riempito di sabbia fine. Con la punta della coda continuava a strofinarsi le labbra. Quel contatto continuo lo fece cadere in una specie di trance. Era sazio e provava una certa calma, che purtroppo non durava mai a lungo perché la fame tornava a ossessionarlo. La televisione era un semplice sfavillio privo di contenuto, a volte sentiva la risata della madre quando succedeva qualcosa di divertente sullo schermo. Ingemar giocava con i suoi capelli. Quando quell'uomo era in casa, sua madre era irraggiungibile. Tutto andava meglio prima del suo arrivo, pensò Edwin, e per fortuna era spesso via. Teneva conferenze in giro, gli aveva spiegato la madre. Telefonava spesso la sera e la mamma si risvegliava di colpo, come se qualcuno stesse tirando il filo di un giocattolo. «I compiti, Edwin», gli disse lei d'un tratto. «Hai i compiti da fare?»
Si era accorta come all'improvviso che il figlio era lì seduto. Stringendo il dinosauro nella mano, scosse la testa. «Quando andavo a scuola, avevamo sempre i compiti», commentò Tulla, «non capisco cosa combiniate voi.» «Li facciamo in classe», spiegò Edwin. «Durante l'ultima ora, si chiama progetto.» «Ma allora non sono compiti», protestò Tulla. Edwin fece spallucce prima di portarsi nuovamente il dinosauro alla bocca. Tra non molto l'avrebbero mandato a letto. La madre avrebbe guardato continuamente l'orologio per poi dirgli che era ora di andare a dormire, e l'avrebbe spedito al primo piano, dove sarebbe rimasto ad ascoltare le voci che provenivano da sotto, quella cupa, pacata di Ingemar e la risata vivace della madre. A volte Ingemar rimaneva a dormire, li sentiva scorrazzare per il corridoio come due bambini piccoli. Altre volte tornava a casa sua e allora sentiva il loro mormorio sulla scala, ci mettevano sempre un mucchio di tempo per salutarsi. A lui piaceva tanto starsene alla baita, completamente solo con la madre. La casetta che chiamavano Premio e si trovava sul laghetto di Sander. Ingemar non ci veniva mai, e lassù Edwin si sentiva al sicuro. E quando non c'erano spettatori, la madre non si curava più tanto di quanto mangiava. «Possiamo andare alla baita Premio?» chiese. «Questo fine settimana no», disse la madre. «Devi caricare la batteria del cellulare. Fallo subito. Sei un pasticcione.» Dopo aver piantato le mani sui braccioli della poltrona, Edwin si spinse in posizione eretta. Faceva fatica. Avvertì lo sguardo di Ingemar sulla nuca mentre andava in cucina. Voleva ripescare il cellulare dallo zaino, invece cedette alla tentazione di andare a prendere un altro gelato dal freezer. I due di là si erano già dimenticati di lui. Con un misto di dolore e ribellione, ingurgitò il gelato in un baleno mentre se ne stava in piedi davanti alla finestra della cucina. Il suo corpo enorme si rifletteva nel vetro. 21 10 settembre Il messaggio che denunciava la scomparsa di Edwin Åsalid venne registrato dal centralino d'emergenza della Questura precisamente alle dician-
nove. Tulla Åsalid aveva aspettato ventiquattr'ore, lo aveva cercato dappertutto piangendo. Le era venuto in mente Jonas August, e a quel pensiero stava per perdere il senno. «I pedofili seguono spesso un modello», spiegò Sejer, «vagano, attaccano e scappano. Si può trattare di una situazione diversa da quella che lei teme. Le possibilità sono numerose.» In piedi accanto alla finestra, Tulla Åsalid si girò per guardarlo. «Non è in grado di muoversi velocemente», disse nervosa, «voglio dire, se qualcuno lo ha preso di mira.» Skarre e Sejer cercarono di capire il significato di quelle parole. Tulla Åsalid andò a prendere una foto che si trovava su un comò accanto alla parete, Seker notò che le tremava la mano. «Guardate quest'immagine e capirete cosa voglio dire.» Si chinarono in avanti per vedere. Edwin era in posa davanti a una piccola baita sullo sfondo. Dal suo sguardo sfuggente si capiva che non voleva essere fotografato. Senza dubbio era il bambino di dieci anni più grande che avessero mai visto. Eppure c'era qualcosa di definito: aveva ereditato la bellezza della madre, la sua pelle era pallida e simile al marzapane, gli occhi erano grandi e scuri. Nonostante il peso, era un bel bambino dai ricci morbidi e castani. «Dove passa di solito il tempo?» domandò Sejer. «Quando è libero?» «Vanno spesso al laghetto di Bonnafjorden», rispose la madre, «alla spiaggia chiamata Guttestranda. È il primo posto dove sono andata a cercarli, lì e al molo.» «Sa nuotare?» «No.» «È già successo che facesse tardi?» «Mai.» Lei rimase in silenzio. La sentirono deglutire. «Si stanca facilmente», riprese. «Se qualcuno gli ha offerto un passaggio, ha accettato sicuramente perché è in pessime condizioni fisiche, si muove soltanto se deve. Sta molto in casa. Davanti al computer a sgranocchiare qualcosa. Quando finalmente decide di uscire, ne sono contenta, nonostante quello che è successo a Jonas, ma doveva incontrare degli amici, ecco perché mi sentivo sicura... non posso neanche chiuderlo in casa. A volte è insieme a Sindre, o Sverre o Isak; ho provato a chiamarli, ma non risponde nessuno dai Nohr, e a Marigård hanno il numero segreto. Forse hanno un cellulare, ma non so come si chiama di nome il papà di Isak. Ov-
viamente ho chiamato mio figlio sul suo telefonino, ma era in fondo allo zaino... gliel'ho ripetuto tante volte: è così sbadato!» Si fermò per riprendere fiato. Sejer si mantenne calmo. Avevano pensato che sarebbe potuto succedere, che sarebbe scomparso un altro bambino, ma si trattava di un'ipotesi che non avevano preso in seria considerazione alla Questura, un'eventualità a cui non credevano perché rappresentava un tipo di criminalità tipico di altre parti, altri continenti. Regimi corrotti, poveri e disgraziati, dove il rapimento di bambini era molto diffuso. «Affrontiamo la situazione un passo alla volta», commentò Sejer. «Magari Edwin fa la sua comparsa mentre stiamo qui seduti a parlare. È già successo tante volte, e sicuramente avrà una buona spiegazione da fornire.» Si rese conto che la donna si sforzava di credergli, che aveva bisogno di una voce forte, di una capacità di convincimento in grado di lenire quell'angoscia immensa. «Non mangia da ore!» esclamò di colpo. «Non è capace di stare così tanto tempo senza cibo!» Sejer si mise a vagare per il soggiorno. Alle pareti erano appese numerose foto di Edwin, ma non erano molto recenti, poteva vedere come il bambino fosse vistosamente aumentato di peso di anno in anno. Su una di queste Edwin era ancora piccino e sedeva in braccio a un uomo. Chiese a Tulla Åsalid se era il padre. «Abita in Germania», rispose, «a Monaco, si è creato una nuova famiglia.» Doveva essere stata Tulla Åsalid a tirarsi indietro dal loro rapporto, pensò Sejer. La donna risvegliava tutto il suo apparato sensoriale e, nonostante la situazione, sprigionava una sensualità impossibile da ignorare. Sejer continuò a girare per la stanza. Il soggiorno era arredato con eleganza, alla pareti erano appesi numerosi quadri, pregevoli. Sul pavimento c'erano tappeti orientali, le tende erano color crema e una coperta rosso sangue era abbandonata sul divano. Dietro tutto questo c'era un effetto voluto, pensò, che ora non significava nulla. Gli oggetti inanimati rimangono oggetti inanimati. Con la coda dell'occhio Sejer vide Skarre prendere appunti. Tulla snocciolava elenchi di nomi e di indirizzi, correva a cercare numeri di telefono, raccontava del suo fidanzato Ingemar. Cercò ripetutamente di telefonargli, e finalmente l'uomo rispose. Al suono della sua voce la donna crollò del tutto.
Sejer si sorprese a sbirciare la strada, qualora Edwin apparisse di colpo, grande e scuro e riccioluto. L'aveva già vissuto prima, il momento potentissimo in cui madre e figlio si rivedono, quando tutte le fantasie più lugubri si dissolvono. Era questo che desiderava mentre implorava che il destino concedesse loro un esito positivo. In un momento spaventoso si immaginò che scomparisse il bambino numero tre, che la pressione da parte dei media e del pubblico avrebbe distrutto la sua esistenza, vide davanti a sé critiche e incapacità di agire, conferenze stampa infinite con raffiche di domande e accuse, e notti insonni. Proseguì osservando una mensola con dei libri, lo sguardo spaziò sui titoli. Figli e amanti, qualcosa di Roy Jacobsen, il Corano. C'era anche una scarpina da bebè argentata e un salvadanaio. Il cellulare gli vibrò nella tasca, rispose in piedi davanti alla finestra. «Sì, esatto. No, non è ancora ricomparso, rimaniamo fino a quando arriva il fidanzato, è per strada e passerà qui la notte. Telefoniamo agli amici a intervalli regolari, abbiamo qualche problema a raggiungerli; due macchine sono fuori, ma non abbiamo ricevuto nessuna notizia da loro. Sì, ci passiamo. Bene.» Rimise il cellulare in tasca. Trenta minuti dopo salutò Ingemar Brenner. Tulla singhiozzava mentre si attaccava alle sue braccia. Skarre e Sejer si congedarono per ritornare alla Questura. Dopo cinque chilometri superarono il centro di Huseby. Skarre seguiva con una cartina in grembo per studiare il territorio. «Sul lato sinistro del lago sorge un complesso residenziale», spiegò, «le cui vie hanno dei nomi molti particolari. In Comune deve esserci qualcuno dotato di una fervida fantasia. Senti un po': Curva interna, Scorciatoia, Prima via d'uscita, Ultima via d'uscita. E questa è ancora meglio, c'è un piccolo tratto di strada senza uscita che si chiama Angolo della vergogna.» «Ne ho sentito parlare», disse Sejer. «Dove abiti?» gli domandò Skarre scherzosamente. «Io abito nell'Angolo della Vergogna, ci ho passato tutta la vita.» Ripiegò la cartina. «Non devo avere tutte le rotelle a posto», esclamò imbarazzato. «Ma davvero?» «Probabilmente abbiamo a che fare con un uomo molto pericoloso e io mi metto a sparare battutacce.» «Sul lavoro è giusto allentare la tensione», rispose Sejer. «Non dobbiamo farci dei sensi di colpa per questo.»
«Grazie.» «E di che? Dimmi se ti serve altro.» Mezz'ora dopo erano di ritorno alla Questura. Skarre si piantò davanti al computer come al solito, Sejer cominciò a leggere gli appunti. Poco dopo si mise ad annotare delle osservazioni, a scrivere qualche frase partendo dal presupposto di avere a che fare con un pedofilo. Sei fragile, solo e intelligente, buttò giù, sai essere brillante e acuto, ma non possiedi empatia. Seduci dei bambini piccoli mentre racconti loro che voi avete in comune qualcosa di unico. Non dirlo a nessuno. Mi prenderò io cura di te. Avrai tutto ciò di cui hai bisogno. Mordicchiò la penna prima di riprendere. Se non vieni preso, riesci, secondo le statistiche, ad arrivare ad abusare di centocinquanta bambini. Se vieni catturato, e tutto è reso pubblico, ognuna delle tue vittime si sentirà tradita a morte perché credeva di essere la sola che significava per te qualcosa di unico. In quel momento si rendono conto della catastrofe, in quel momento crollano. E tu non ti sei limitato soltanto a rubare la loro sessualità, ma l'intero loro futuro e tutto quello che è successo li seguirà nella tomba. Sussultò perché Skarre aveva lanciato un'esclamazione. «Cosa c'è?» «Ingemar Brenner», spiegò Skarre, «il fidanzato di Tulla Åsalid. Ho controllato per sfizio quel nome e ho scoperto che esiste soltanto una persona nel nostro distretto. Abita a Moløkka ed è nato nel 1964. Può essere, vero? Che sia sulla quarantina?» «Sì, probabile», confermò Sejer. «Perché?» «È stato condannato due volte. Per truffa.» «Cosa?» Sejer lo raggiunse in un lampo. «In entrambi i casi è stato denunciato dalle ex fidanzate», continuò Skarre. «È riuscito a sottrarre loro tutti i risparmi.» «Somme ingenti?» Skarre lesse sullo schermo. «Centoventimila corone nel '96 e duecentodiecimila nel '99. Ha scontato entrambe le condanne.» «Dove?» «Nella casa circondariale di Sem.» Skarre scosse la testa. «Adesso è a Huseby a consolarla. Mentre in realtà mira soltanto ai suoi
soldi. Ammesso che lei ne abbia. Dovremmo fare qualcosa?» «Sì», disse Sejer, «ma non stasera. Per quanto ne sappiamo, lui potrebbe averglielo detto e adesso riga diritto.» «Figurati», commentò Skarre. «Proviamo a ritelefonare», disse Sejer. «Mathilde Nohr, sul cellulare.» Skarre compose il numero. Dopo quattro squilli la donna rispose. «La polizia?» esclamò sorpresa. «Sì? È successo qualcosa?» «Ha un figlio di nome Sverre?» «Sì, esatto.» La sentì respirare. «In questo momento Sverre è lì con lei?» «Sì. Siamo da mia madre, è seduto davanti al televisore. Di che si tratta?» «Gli può chiedere se oggi era insieme a Edwin Åsalid?» «Edwin? Sì, certo. Rimanga un attimo in linea, è nella stanza accanto.» Skarre sentì la voce della donna, ora un po' più in lontananza. Alcune domande e alcune risposte. Poi ritornò. «Era insieme a Isak ed Edwin, giù al laghetto. A Guttestranda.» «Sono andati a casa insieme?» Di colpo lei capì il collegamento. Chiamavano dalla polizia, chiedevano di Edwin. Il ricordo di quanto era successo al bosco di Linde la colpì con violenza. «Oddio», singhiozzò, «non è scomparso, vero?» Mormorò ancora qualcosa con il figlio, Skarre colse alcuni segmenti del discorso, la polizia, lui, Edwin. «A quanto pare è venuto a prenderlo qualcuno», disse la donna. «Con una macchina bianca.» 22 11 settembre «Avete ricevuto la circolare dalla scuola?» chiese Sejer. Circolare? Sverre e Isak si guardarono, stavano spalla a spalla sulla porta. Sì, gliel'avevano data. L'avevano letta insieme agli adulti e avevano parlato seriamente di quanto era successo. Ma la circolare parlava di un'auto che aspettava davanti alla scuola, non di quella che era arrivata al laghetto di Bonnafjorden.
«Chi pensavate che fosse?» domandò Sejer. «Chi era venuto a prendere Edwin?» «Uno zio, forse?» disse Sverre. «Edwin ha uno zio?» Di colpo insicuro, il bambino fece spallucce. «Sembrava che si conoscessero?» «Parlavano attraverso il finestrino», rispose Sverre. La madre, Mathilde Nohr, tirò leggermente i capelli sulla nuca del figlio. «Adesso devi concentrarti», lo esortò la donna. «È molto importante.» Lui annuì per poi liberarsi rabbiosamente dalla madre. Sejer e Skarre portarono i bambini al laghetto. «Perché si chiama Guttestranda, la spiaggia dei maschi?» chiese Sejer. Sverre lo guardò con aria da adulto in miniatura. «Perché non potevano fare il bagno con le femmine, voglio dire... ai vecchi tempi.» «C'è una spiaggia per le ragazze?» «Sì. Sull'altro lato della collina di Svartåsen, è più piccola, ma il fondo è più bello e da lì è possibile sguazzare fino a Majaholmen.» «Cosa stavate facendo?» domandò Sejer.» «Eravamo seduti sul molo.» «Avete visto qualcuno?» «Un uomo che portava a passeggio quattro cani», disse Sverre. «Uno che conoscete?» «No», intervenne Isak, «ma tutti sanno chi è, perché gira sempre con tutti quei cani. Si chiama Naper.» «Parlatemi un po' di Edwin», li pregò Sejer. «Non parla molto», rispose Isak. «È troppo impegnato a muoversi e ha il fiatone soprattutto quando camminiamo in salita.» «Ce l'ha anche in pianura», osservò Sverre, «gli basta vedere una scala per iniziare ad ansimare.» «Cosa stavate facendo sul molo?» insisté Sejer. «Stavamo mangiando delle tartarughe di gelatina.» «Tartarughe di gelatina? Ah sì? Sono buone?» «Sono aspre», spiegò Isak. «A Edwin piacciono un sacco.» Sejer osservò il paesaggio. C'era una bella spiaggia con dei prati verdi, un molo e qualche cabina. Il fondo era sassoso e, a detta dei bambini, più in là era profondissimo. Il pendio si chiama Møllabakke, spiegarono, era molto ripido e l'acqua raggiungeva i trecento metri di profondità.
Andarono a sedersi sul molo, dove iniziarono a dondolare le gambe. L'acqua rifletteva le loro figure ondeggianti. «Di cosa avete parlato?» chiese Skarre. «Di Alex», rispose Sverre. «Lo facciamo spesso.» «Chi è Alex?» «Il nostro insegnante, alla Solberg. Facciamo la quinta e abbiamo Alex in quasi tutte le materie.» Con la mano Sverre scostò dal viso la frangia ribelle colore del rame. «Vi piace?» Si guardarono. «Sì, ci piace», disse Isak, «ma è strano.» Sejer meditò su quella risposta. «Come, strano?» «Abita insieme a un uomo», continuò Isak, «perché è gay. Lo sono tutti e due. Alex e Johannes nella stessa casa. E nello stesso letto.» Presero a fissare l'acqua torbida. L'argomento della conversazione li imbarazzava. «Com'era Edwin ieri?» domandò Skarre. «Era come al solito?» «Sì», disse Isak. «Per quanto tempo siete rimasti seduti qui?» «Non lo so», rispose Sverre. «Non abbiamo guardato l'orologio.» «C'è un punto molto importante da chiarire», disse Sejer. «La macchina. La conoscevate?» Entrambi scossero la testa. «Si è fermata qui giù alla spiaggia?» «No», rispose Sverre. «Edwin aveva cominciato a incamminarsi. Si sono incontrati più o meno all'altezza di quella centralina lassù.» Indicò con il dito. «Potrebbe trattarsi della stessa macchina che aspettava a scuola? Pensateci bene.» «Forse.» «Siete in grado di dire qualcosa sulla marca?» continuò Sejer. «No, era un'auto normale.» «C'era più di un uomo a bordo?» «No.» Sejer spostò nuovamente lo sguardo sul laghetto. A sinistra vide un piccolo promontorio, una lingua sottile che affiorava dall'acqua. «Dicono che Edwin non sa nuotare», disse.
Isak annuì deciso. «È dispensato perché non vuole mettersi il costume. Edwin non fa neanche ginnastica, non riesce a saltare la corda e neanche il cavallo. Quando cade, quasi non è in grado di rialzarsi.» «Lo prendono tanto in giro?» Entrambi scossero la testa. «No, perché Alex diventa una furia. Non ci è permesso.» Ispezionarono intorno al molo e al promontorio, ma nel laghetto di Bonnafjorden non trovarono niente. Cercarono anche nella discarica, ma la squadra di ricerca fu avvolta soltanto da grossi gabbiani che emettevano versi sinistri. Scrutarono quei rifiuti puzzolenti con occhi da falco, passarono al setaccio fossi, baite e ripostigli. «Cosa facciamo?» chiese Skarre. «Contattiamo l'Anagrafe per avere un tabulato di tutti gli abitanti di Huseby», disse Sejer. «Dobbiamo sapere chi possiede una macchina bianca, poi li andiamo a trovare per interrogarli.» «Qui abitano tremila persone», fu il commento di Skarre. «Lo so.» «Tremila», ripeté Skarre, poi, ripescato il cellulare dalla tasca, iniziò a comporre un numero. «Se partiamo dal presupposto che in una casa ci abitano in media tre persone e che ogni nucleo ha una macchina, stiamo parlando di circa mille auto, forse milleduecento, milletrecento, tenendo conto che molti ne posseggono due.» Continuò a comporre il numero. «E se partiamo dal presupposto che una macchina su dieci è bianca, adesso sto soltanto tirando a indovinare, ma non credo di sbagliarmi di molto... si parla di centoventi persone che a Huseby possiedono un'auto di quel colore.» «Allora abbiamo un bel daffare», commentò Sejer. «Vanno tutti registrati, li voglio nel sistema. Chiedi che lavoro fanno e il loro stato civile, da quanto abitano a Huseby e confronta i dati con i nostri registri. E se possibile, gli agenti devono controllare se qualcuno zoppica.» Quella notte Sejer rimase sveglio a letto a fissare il soffitto. Aveva paura di commettere errori, di tralasciare o dimenticare qualcosa. Non voleva acquietarsi e magari addormentarsi, perché così non avrebbe potuto combinare niente e ciò gli risultava insopportabile. Rimase sdraiato a fantasticare sull'uomo a cui stavano dando la caccia. Ti sto alle calcagna, pensò, e non
mollo. Anche se dovessi metterci una vita, ti troverò e ti inchioderò per questo, perché non hai abusato soltanto di Edwin e di Jonas August, ma della società intera. Devi tener presente questo: nessuno ti perdonerà. 23 Kristine Ris si infilò la vestaglia, la stoffa leggera sulla schiena era come una carezza. Era quello il modo con cui voleva essere toccata da Reinhardt, ma lui non ne aveva mai il tempo, si trattava di un sogno impossibile. Un dito che seguisse la spina dorsale dal collo ai reni facendola rabbrividire. Rimase per un po' nuda sul pavimento del bagno. Erano le sette di mattina e Reinhardt era già vestito. Miscelò la giusta temperatura dell'acqua ed entrò nella doccia. Alzò la testa verso quella corrente calda mentre faceva un gioco: era ricoperta da uno strato di preoccupazioni che ora scivolavano via insieme all'acqua sudicia scomparendo nello scarico. Sentì Reinhardt girare per la casa, la radio in soggiorno. Sicurezza, pensò, ecco perché rimango. Oddio, sono come una bambina. Quello che ho non è quello che sognavo, ma so cos'è giorno dopo giorno, sono in grado di vedere il resto della mia vita. Di colpo la porta del bagno si spalancò, facendola trasalire. Reinhardt tirò la tenda della doccia di lato. «Cosa c'è?» gli chiese sorpresa. Impacciata si coprì con la parte inferiore della tenda. Reinhardt la fissò giulivo. «Ha preso un altro bambino.» «Cosa? Chi ha preso un bambino?» «Be', non si sa, ma scommetto che si tratta dell'uomo di Linde», disse lui. «Un maschio di Huseby. È piena crisi.» «No», disse Kristine impotente. Scosse confusa la testa, i capelli erano bagnati, alcune gocce d'acqua le si infilarono negli occhi. «L'hanno detto alla radio?» «Sì, l'ho appena sentito. Ma non hanno dato molti dettagli, sai, stanno sempre sul vago, all'inizio. Il bambino ha dieci anni e frequenta la stessa scuola di Jonas August.» Uscita dalla doccia, Kristine prese un asciugamano mentre lo guardava con gli occhi spalancati. «Ma dove l'hanno trovato? Aveva i vestiti?» «No», rispose Reinhardt, «non l'hanno ancora trovato, stanno cercando.» Prese un asciugamano più piccolo per avvolgerlo attorno ai capelli a mo'
di turbante. «Ma allora non sappiamo cosa è successo», obiettò. «Lo troveranno», replicò Reinhardt, «ma sarà troppo tardi. Kristine! Siamo gli unici testimoni, gli unici che l'hanno visto da vicino.» Kristine si vestì. Quello che le aveva detto suo marito la sconvolgeva. Erano fantasie che non voleva, pensieri che non desiderava. Andarono in cucina per fare colazione, Reinhardt preparò il caffè. «Quando cammino per strada», disse lui, «tengo occhi e orecchie aperti. Casomai dovesse apparire di colpo.» Kristine si sedette al suo posto. «Pensa se riconosci qualcuno, lo denunci e ti sei sbagliato, sarebbe terribile.» «Non intendo farmi di questi scrupoli. Se ci pensi, non ci sono molte persone al mondo in grado di impedirgli di rapire un terzo bambino. Invece io e te possiamo, ci troviamo in una situazione privilegiata.» Gli brillano gli occhi, pensò lei, ma come è possibile? Si imburrò una fetta di pane. «Forse hai ragione», ammise Kristine, «comunque non sono tante le cose che possiamo fare. Fino a quando non compare.» «Lo farà, prima o poi. La questione è quanti bambini riesce a rapire.» «Come si chiama?» gli chiese. «Quello che è scomparso.» «Qualcosa di insolito, Edwin. Che nome infelice per un bambino.» Lei si strinse nelle spalle. «Avrà ereditato magari quello del nonno.» «Suona così male», sentenziò Reinhardt. «Edwin è un uomo adulto. Sui cinquanta, sessant'anni.» «Ma crescerà», replicò Kristine. «È piccolo soltanto i primi dieci anni.» Poi rimase in silenzio. Probabilmente non avrebbe vissuto oltre quell'età. Osservò Reinhardt, sembrava impassibile. Non sapeva cosa significasse. «C'è un qualcosa in voi maschi», disse. «Ah sì?» Le lanciò uno sguardo. «Dimmi pure.» «Siete così semplici.» «Davvero?» «Se qualcuno vi lancia una palla, vi mettete a correrle dietro per ore.» Reinhardt rise, si stava divertendo. «Non la smettete mai di giocare. Mentre noi femmine siamo mature a dodici anni, perché sappiamo che diventeremo madri. Un bambino non può prendersi cura di un bambino, siamo costrette a diventare responsabili.»
Il sorriso di Reinhardt si fece acido. «Inoltre i nostri cervelli sono molto diversi», continuò Kristine. «L'ho visto una volta alla televisione. Avevano disegnato un grafico dove mostravano le differenze. Le aree cerebrali in uso erano colorate di rosso.» «Accidenti», commentò Reinhardt ilare. «E quelle che non venivano usate, in giallo.» Kristine bevve un sorso di caffè. «E sai cosa?» Incrociò lo sguardo del marito. «In voi risultava soltanto una macchia rossa, limitata; l'attività era circoscritta a una piccola parte. Il nostro cervello invece era quasi completamente rosso. Siamo in grado di pensare a più cose contemporaneamente», concluse trionfante. «Mentre noi manteniamo la concentrazione su una cosa», ribatté Reinhardt. «Ecco perché ci facciamo notare molto più di voi. Mentre voi vi disperdete in sciocchezze. Questo è il motivo per cui tutto ciò che compite è mediocre o lasciato a metà.» Quegli argomenti la stordirono. «Siete sempre voi a fermarvi quando c'è un incidente stradale», gli disse, «o un incendio. O una catastrofe qualsiasi.» «E allora? Noi siamo a caccia di adrenalina, Kristine, ma questo non ci rende individui di serie B.» «Non ho detto questo», si difese lei. «Ti conosco abbastanza», parlò lui. «So cosa pensi, ma io non ho paura di ammetterlo. Questo caso mi interessa.» Lei trovò il coraggio di uscirsene con un'affermazione brutale. «Parla così un uomo che non ha figli», disse. Lui annuì. «Un buon motivo per non averli, non trovi? Si mette al mondo un figlio per poi perderlo e il resto della vita è distrutto.» «Non possiamo pensare in questo modo», protestò la moglie. Reinhardt mandò giù una cucchiaiata di pane e latte. «Invece è proprio così che bisogna pensare», le disse. «Vanno prese in considerazione tutte le eventualità. Possiamo avere un bimbo che poi si ammala e muore. Oppure uno che viene investito da una macchina. O uno nato con delle malformazioni, magari senza le braccia o le gambe. O uno che non si sa comportare bene mentre noi dobbiamo vivere nella colpa e nella vergogna. O che viene ucciso», concluse. «Perché dovrebbe succedere?» chiese lei arrabbiata. «Ma cara, avviene in continuazione, ci siamo dentro proprio adesso. Sei
così maledettamente ingenua, pensi che tragedie simili non ci riguardino. Credi che siamo così speciali?» Kristine spazzò via le briciole dal tavolo. «Ma dobbiamo vivere la vita», si lamentò. «Se dovessimo pensare sempre così, non andremmo da nessuna parte, non otterremmo niente.» «Io la penso così», concluse Reinhardt, «eppure io vivo la vita.» Scese il silenzio. Kristine zuccherò il caffè mentre Reinhardt si imburrava un'altra fetta di pane; aveva le mani molto forti, irsute sul dorso. Lei guardò fuori dalla finestra, verso il pezzetto di giardino, un corvo stava saltellando intorno, rimase seduta a osservarlo. Mentre se ne stava così, le venne in mente che non aveva mai guardato davvero un corvo. È bello, pensò, ma forse preannunciava anche una disgrazia, aveva in sé qualcosa di misterioso, di segreto. L'uccello alzò di colpo la testa e la guardò attraverso il vetro. Reinhardt interruppe il filo dei suoi pensieri. «Adesso non ha niente da perdere perché ha superato la soglia. Forse ha perso davvero il controllo», commentò lui. «Sono solo speculazioni», controbatté lei. «Magari hanno trovato il bambino sano e salvo.» Lui masticò un'altra boccata di pane. «Sei sempre la solita ingenua.» «Non sopporto il pensiero che un uomo adulto sia capace di fare quelle cose a un bambino.» «Sei così sensibile, ma è questo che ti rende dolce.» Reinhardt si alzò dal tavolo mentre la lanciava uno sguardo che lei non aveva mai visto prima. «Se mi lasci, ti ammazzo di botte.» Lei voleva ridere, ma non ci riuscì. Perché le aveva detto una frase simile? Sul prato si erano aggiunti altri due corvi, si erano raggruppati vicino alla siepe. Mentre li guardava, ne arrivarono ancora due, e nel giro di poco tempo se ne era formato uno stormo. «Guarda», gli disse indicando con il dito. Reinhardt si accorse degli uccelli. «Stanno mangiando qualcosa, vado a vedere.» Scomparve nel corridoio. Kristine sentì la porta che si richiudeva. Continuavano ad arrivare corvi, tutti atterravano in prossimità della siepe, era una ressa di grigio e di nero, li vedeva mentre beccavano. Pensò al film di Hitchcock che aveva visto in passato, quello sugli uccelli. Notò che
Reinhardt stava attraversando il prato. I corvi volarono via da tutti le parti sciamando verso il cielo. Il marito si chinò a guardare mentre appoggiava le mani sulle ginocchia: c'era qualcosa tra l'erba che stava studiando intensamente. Quando rientrò, era tutto un sorriso. «Sei pronta?» le chiese. «Dobbiamo andare.» Lei si alzò. «Cos'era?» gli domandò. «Un tasso completamente marcio, grosso e grasso, lungo più di un metro.» 24 In piedi davanti alla finestra sbirciava fuori, le mani appoggiate sull'ampio davanzale. La madre del fattore stava attraversando l'aia. Andrà a prendere le uova, pensò. La vecchia portava sul braccio un'antiquata cesta di filo di ferro, che le rovinava il ritmo rendendola ancora più instabile sulle gambe di quanto già non fosse. Si accorse che la donna le aveva molto arcuate, lo scheletro aveva ceduto per colpa degli anni e della forza di gravità. Pensò che se fosse caduta le si sarebbero rotte tutte le ossa del corpo. Si ritrasse appena in modo da non farsi vedere mentre se ne stava lì alla finestra. Sono un tipo quieto e taciturno, pensò, non mi metto in mostra, ma se incontro qualcuno devo essere gentile ed esemplare. La vecchia scomparve in direzione del pollaio e lui spostò lo sguardo verso la cresta della collina. Stava sopraggiungendo una macchina; si fermò davanti alle cassette della posta. Forse erano arrivati i soldi dell'assistenza sociale che stava aspettando. Si sedette sul divano incrociando le dita. Non me la sono passata bene, meditò, per niente. Sarebbe bello andare a fare un giro in città, ma adesso mostrarsi era diventato un rischio molto serio. La gente stava in guardia, usava gli occhi. Si rilassava un po' solo di sera, quando il buio si abbassava sulla sua casa ed era trascorso un altro giorno senza che la polizia lo avesse rintracciato. Temeva quella che chiamavano la «percentuale di soluzione dei casi», sapeva che stavano usando tutte le risorse disponibili per prenderlo, che altri criminali la scampavano perché era stata data a lui la priorità assoluta. Avevano preannunciato un'azione porta a porta, e il suo cervello lavorava intensamente per elaborare un piano. Ma dal momento che non risultava in nessun registro, era al sicuro, no? Per poterlo interrogare, dovevano nutrire dei sospetti fondati, oltre al fatto che si trovasse nella stessa zona. Si alzò e prese a camminare avan-
ti e indietro, senza pace e al contempo carico di energia. Al diavolo la gente, pensò, mentre l'amarezza gli faceva bruciare le guance. Al diavolo tutti quelli che non capiscono. Al pensiero di quello che era successo, avvertiva un pulsare e un martellare tra le gambe, a volte sentiva quelle scosse salire fino alla lingua. In preda alla disperazione preparava la propria difesa: il bambino gli aveva sorriso in modo civettuolo e tentatore. E poi lui era una brava persona, perlomeno era quello che desiderava, e non c'era qualcosa di estremamente confuso in questo desiderio? Gli venne in mente quella volta in cui la madre era entrata nella sua stanza, lui se ne stava seduto sul letto, senza pantaloni, a toccarsi, quasi con distrazione. Ma era successo qualcosa di inspiegabile sulla porta aperta. La madre era in preda a una rabbia isterica, la sua voce era completamente distorta. Cosa stai combinando, cosa diavolo stai facendo? Non hai mai sentito parlare di buona educazione? Ma sei normale? Si sforzò di trovare una connessione tra le proprie azioni e la reazione della madre, ma non ci riuscì. Invece girava per la stanza in preda al desiderio, e se le mani volevano infilarsi nei pantaloni, le guance cominciavano a bruciargli. Ogni giorno trascorso con la madre era come passare in un tritacarne, ne usciva a brandelli sottili. Quando finalmente diventò vecchia, prima di morire rimase per molti mesi a letto in preda a forti dolori. Lui le sedeva paziente accanto in attesa perché non voleva perdersi il momento in cui sarebbe morta. Lei urlava e si lamentava, rantolava e gorgogliava, passarono le settimane e i mesi e ogni ora era carica di tormento. Stare a vedere non gli faceva nessun effetto, non provava né gioia né sollievo, si sentiva affascinato. Alla fine la vecchia svuotò i polmoni in un ultimo grido. Adesso basta! Poi non parlò più. Il mento le ricadde mentre gli occhi fissavano qualcosa oltre la vita. Secondo lui il suo stesso destino era molto pesante da portare: gli altri potevano amare e seguire le proprie voglie, mentre lui era costretto al celibato, alle fantasie, quelle che lo stremavano e lo torturavano. Probabilmente sarebbe bruciato all'inferno per quello che era avvenuto, sarebbe bruciato anche dentro le mura del carcere o di casa, nessuno avrebbe più voluto toccarlo o parlargli. Pensò al suicidio, ci rifletté, avvertendo un bruciore dietro le palpebre, forse era meglio farla finita. Poteva recarsi di notte al laghetto e buttarsi dal promontorio. Che razza di vita aveva davanti a sé, se non di disprezzo e condanna? Povertà e mancanza di rispetto da parte del mondo circostante? Non era neanche un granché, non aveva nes-
suna chance con le donne di oggi che esigevano spudoratamente la perfezione. In fondo lui cos'era? Un uomo avanti con gli anni, zoppicante, dai denti brutti, un uomo che viveva del sussidio sociale. Non era neanche particolarmente bravo a stare in mezzo alla gente, quel gioco di società era troppo difficile, si bloccava. Sprofondò nuovamente sul divano dove rimase seduto a fissare la vecchia sedia a rotelle parcheggiata in un angolo. Era servita alla madre. Avrebbe dovuto restituirla ai Servizi Sociali, ma non l'aveva mai fatto. Era rimasta lì nel soggiorno, entrando a far parte dello scarso mobilio. Andò a sedervisi sopra con cautela. Afferrò le ruote, sentì tra le mani la gomma morbida. C'era un qualcosa nello starsene seduto sulla sedia a rotelle che lo faceva sentire al suo posto. Ma certo che aveva un handicap, non era capace di fare quello che era possibile agli altri. Spinse la carrozzina in silenzio e con facilità sul pavimento. Gli mancava soltanto una coperta sulle ginocchia e l'illusione era completa. Con la coda dell'occhio guardò i giornali sul tavolo, le foto, le scritte in grassetto. Adesso, dopo la scomparsa di Edwin, lo consideravano estremamente pericoloso. 25 «Ho letto delle diverse parafilie», esordì Skarre. «Gli esperti hanno descritto più di cento tipi di preferenze. Non posso negare di esserne affascinato. E poi», aggiunse, «paidos significa ragazzo e philia amore.» «Capisco», disse Sejer. «Esiste un'altra variante», proseguì. «La gerontofilia.» «Che cos'è?» «Eccitarsi alla vista degli anziani.» Sejer aggrottò la fronte. «E l'acrotomofilia. Il desiderio di persone senza braccia o senza gambe.» «È possibile?» «È possibile. Poi abbiamo ovviamente la necrofilia...» «Lo so, lo so. Raccontami piuttosto qualcos'altro. Si può curare la pedofilia?» «Fino a un certo punto», rispose Skarre, «ma i risultati sono spesso deludenti. Idealmente dovrebbero entrare in terapia prima di aver compiuto quattordici anni. Cosa non facile nella pratica. È difficile che abbiano già avuto il tempo di abusare di qualcuno.» «Ma quando scoprono di essere attratti dai bambini?»
«Presto. Si crea un conflitto nei confronti dei genitori, di natura affettiva ed emotiva, per cui il bambino cerca una soluzione. La soluzione, quindi la parafilia, la scopre di norma all'età di otto o nove anni, a volte già a sei. Con il passare del tempo diventa sempre più forte. Sono state effettuate poche ricerche al riguardo, ecco il problema.» «Ah sì?» «In alcuni Stati americani è vietato per legge parlare di sesso ai giovani al di sotto dei sedici anni d'età.» «Perché?» si meravigliò Sejer. «Viene considerato una forma di abuso. Per questo i soggetti a rischio non vengono individuati, e così l'eventuale parafilia si sviluppa in santa pace. E anche se lo disprezziamo e lo rifiutiamo, l'abuso è di fatto un tentativo di risolvere un problema.» «Capisco il punto», disse Sejer, «ma in questo caso non farò nessuna concessione.» «E c'è un'altra cosa», aggiunse Skarre, «su cui vale la pena di riflettere: se ci pensi, l'intera questione è condizionata socialmente. Chi definisce cosa è un abuso? La religione? La morale? Gli esperti, le autorità, oppure ognuno di noi? Nelle altre culture avvengono atti che in Norvegia condurrebbero al disprezzo collettivo e a condanne severe.» «Per esempio?» «Le madri polinesiane soddisfano i bambini piccoli per calmarli prima di farli dormire la sera.» «Oddio.» «I ragazzi della Nuova Guinea devono servire i maschi adulti per essere considerati a loro volta dei veri uomini. Non entro nei dettagli su cosa devono subire, non vorrei urtare la tua sensibilità...» «Grazie.» «Poi abbiamo le nonne portoghesi.» «Hai in mente di dire qualcosa di negativo sulle nonne portoghesi?» chiese Sejer arrabbiato. «Sono stato in vacanza in Portogallo, le ho viste da vicino, sono il pudore in persona.» «Pizzicano i bambini in chiesa», disse Skarre, «per farli stare tranquilli durante la messa serale.» «Non ci posso credere.» «Mentre qui nel freddo Nord non sono tante le cose permesse per legge.» «Meno male», commentò Sejer. «E noi faremo rispettare le regole, nes-
sun tentennamento.» Guardò severamente Skarre. «Se si prende un bambino in grembo, si deve farlo senza secondi fini.» 26 La scuola Solberg di Huseby era un vecchio edificio giallo in pietra circondato da betulle. Si trovava su un'altura che sovrastava il lago Bonnafjorden e gli allievi che avevano le aule rivolte a nord spesso si perdevano con il pensiero in quella superficie azzurra. Alex Meyer accompagnò Sejer e Skarre nella classe. La stanza evocò in loro sentimenti contrastanti, quell'odore, un misto indefinito di cibo, sapone verde e corpi infantili. Sulla lavagna c'era scritto in bella calligrafia il nome di Edwin, e intorno gli scolari avevano disegnato dei fiori e dei cuori rossi. Ma fu un altro dettaglio ad attirare la loro attenzione, qualcosa che risultava estraneo a quell'aula ordinata: una sedia, più grande e più larga delle altre. Era evidente che Edwin non avesse abbastanza spazio per sedersi a un banco normale. Alex Meyer era un uomo alto e dinoccolato sulla quarantina con una criniera ribelle di capelli castani. Intorno al polso aveva dei braccialetti di cuoio e indossava scarpe da ginnastica azzurre con le strisce gialle. «Come sta andando?» chiese. «Lo prenderete? Cosa dobbiamo dire ai bambini? Avete qualche teoria su quello che è avvenuto?» Poi si trattenne guardandoli con espressione infelice mentre apriva impotente le mani. Era snello e aveva un qualcosa di felino, quando parlava muoveva tutto il corpo. «Per quanto riguarda i bambini», rispose Sejer, «dica loro che la risposta arriverà con il tempo.» Meyer andò alla finestra e diede uno sguardo al lago. «Due maschi della scuola Solberg», disse. «È incredibile. Sapete cosa dicono i bambini? Che il suo corpo giace sul fondo del laghetto di Linde. Che un uomo pericoloso spadroneggia in quel bosco. E io non so cosa dire, perché forse è vero.» Sejer ebbe nuovamente la sensazione di trovarsi a mani vuote davanti a un mendicante. «Come se la cava a scuola Edwin?» domandò Skarre. Meyer fece un sorriso. «In un certo senso sono positivamente impressionato dal fatto che Edwin ci venga, perché la sua situazione non è brillante. Non è particolarmente
intelligente e fa fatica in tutto. Quando si parla di bullismo, di quanto i giovani sappiano essere brutali tra di loro, è vero. Però tutto comincia da qualche altra parte. Se sono abituati a essere calpestati a casa, fanno il loro ingresso nel mondo con la stessa mancanza di rispetto per i sentimenti altrui.» «Ha allievi che subiscono soprusi a casa? È questo che sta dicendo?» chiese Sejer. «Ho i miei sospetti. Diciamo che li seguo con attenzione.» «Si riferisce a umiliazioni verbali o implica altro, più grave?» «Forse.» «Ed Edwin? Sta bene a casa?» «Non ho nessun motivo per pensare altrimenti», rispose Meyer, «se non si considera un sopruso quello di permettere a un bambino di mangiare fino a raggiungere un tale sovrappeso.» «Un'affermazione brutale», commentò Sejer. «È ciò che penso.» «Fino a che punto le difficoltà di apprendimento sono responsabili del suo peso eccessivo?» «Molto, credo. Una buona parte della sua attività mentale è fissata sul cibo, ha problemi di concentrazione. Il mangiare arriva prima di tutto. Prima del gioco, della scuola, degli amici... il cibo è il primo pensiero del mattino e l'ultimo della sera. Lui ama il cibo più di ogni altra cosa. Lo aiuto fin che posso, è un bravo bambino, quieto. È strano, ma da un lato sono terrorizzato dalla velocità con cui ingrassa, dall'altro ne rimango affascinato. Quando mangia, perdo quasi il contatto con lui; è lontano e irraggiungibile, come se fosse in balia di una droga.» Andò alla lavagna e, dopo aver preso un gessetto, disegnò una stellina sopra il nome di Edwin. «Quindi il sovrappeso», disse Sejer, «rappresenta un grosso handicap?» «Peggio», rispose Meyer. «È mortale. O meglio, lo diventerebbe nel giro di poco tempo. A volte ho pensato che gli sia collassato il cuore, che sia precipitato e lo troverete in un fosso.» «Ma avrà un medico», ribatté Skarre. «Gli ha parlato?» «Certo, avevo bisogno di sapere come comportarmi. A Edwin è sempre stato permesso di seguire i propri ritmi, non l'ho mai messo sotto pressione. Ovviamente non ha mai preso parte all'ora di ginnastica, si siede per terra a guardare mentre mangia uno dei suoi innumerevoli panini.» Sejer studiò le pareti decorate dai disegni fatti dai bambini.
«Ha disegnato sua madre con un vestito rosso», spiegò Meyer indicando. «Se non torna, ci sarà un vuoto incolmabile. Gli allievi sono profondamente scioccati perché hanno perso tutto ciò che si chiama sicurezza. Jonas August è morto e il banco di Edwin è vuoto. I bambini escono a malapena di casa perché la situazione è davvero grave. Ci hanno chiesto di tenere sotto controllo la presenza di una macchina bianca, ma quando finisce la scuola il traffico è intenso perché tutti vengono a prendere i propri figli. La mattina, prima di iniziare la lezione, parliamo di tutto quello che è successo, ma dobbiamo anche lavorare. La vita continua, no? È difficile perché non riescono a stare concentrati. Alcuni genitori mi hanno detto che i loro figli fanno fatica a prendere sonno. È così strano che avvenga qui, a Huseby.» «Anche voi siete parte del mondo», disse Skarre. «Come risolve Edwin il suo problema, dal punto di vista comportamentale?» domandò Sejer. «Non capisco esattamente cosa intende dire», rispose Meyer. «Sono tante le cose che non ha. Non la possibilità di muoversi o esercitare un'attività fisica, non ha dei bei voti, è in grado di partecipare solo in parte. Ha trovato un modo per farsi valere?» «Be', durante l'intervallo viene da noi adulti. Dice qualcosa di carino, si sforza di apparire dolce in modo da piacere, e ci riesce. Nessuno è capace di respingere Edwin Åsalid dai ricci castani. In quest'ottica capisco bene che un uomo dalle idee sbagliate si sia lasciato tentare.» 27 Il funerale di Jonas August Løwe si tenne nella chiesa di Huseby, stracolma di gente. Cosa dirà il prete? si chiedevano i presenti a mano a mano che prendevano posto sui banchi duri. Sarà in grado di trovare le parole giuste in un momento come questo? Erano dubbiosi sia nei confronti della professione del pastore sia circa la sua capacità di consolarli, anche se era per questo che erano venuti. Sejer e Skarre osservavano le persone mentre facevano il loro ingresso. Elfrid Løwe sedeva in prima fila, indossava un completo blu scuro e la giacca la faceva assomigliare a un ragazzino minuto. Il sacerdote si era diretto verso l'altare, le spalle rivolte ai presenti. Adesso sta conferendo con Dio, pensò Skarre, cercando una spiegazione. Sejer notò una coppia sulla sessantina seduta vicino a Elfrid, probabilmente i genitori. Il Parkinson
della madre era evidente, la donna tremava in modo incontrollato. La classe di Jonas August occupava le ultime file, tutti erano vestiti in modo adatto all'occasione. Al contrario degli adulti, che fissavano un punto del pavimento, gli sguardi dei bambini vagavano per la navata con manifesta curiosità, soffermandosi in particolare sulla bara. Era stranamente piccola, appena visibile sotto tutti i fiori. Nella chiesa aleggiava un velo di tristezza, ma anche di qualcos'altro, una specie di paura collettiva. Si levarono le spumeggianti note dell'organo. Non sono credente, rifletté Sejer, allora perché mi sento felice in quest'atmosfera? Perché mi piacciono l'organo e il soffitto a volta con gli angeli? Le vetrate che lasciano filtrare la luce in modo così suggestivo sulle file di banchi? Qui trovo pace e calma, trovo conforto. Come se l'assenza di un Dio fosse comunque una mancanza che avverto soltanto quando viene colmata. Di sottecchi lanciò un'occhiata verso Skarre seduto accanto a lui: sembrava anche lui assorto in molti pensieri. Cos'è la cosa più difficile, pensò Sejer, basare tutta l'esistenza sul divino, per poi dubitare in qualche momento cupo, o acquietarsi con la bellezza del caduco, del terreno? Per ritornare a essere terra fertile e grassa. Non era ateo, ma non aveva mai percepito la presenza di Dio, né all'esterno né dentro di sé, non avvertiva nessuna forza spirituale. Secondo lui la natura e l'essere umano erano fisici e comprensibili, con tutte le loro leggi, e dunque effimeri. Non era proprio nella caducità che si nascondeva la bellezza? Ovviamente aveva vissuto qualche raro momento, attimi che lo avevano sollevato, facendolo sentire in grado di spezzare ogni confine, di sentire qualcosa di più grande, come quando un telo si squarcia lasciando filtrare la luce. Come quando era nata sua figlia Ingrid. Guardò il libretto che gli aveva consegnato il sacrestano: in prima pagina c'era una foto di Jonas August che sorrideva spensierato con gli incisivi in bella vista. Alzò gli occhi per osservare Elfrid Løwe, i capelli corti, la nuca minuta. Da quando era stato trovato il cadavere del figlio, aveva dovuto occuparsi di così tante cose. Aveva subito uno choc paralizzante; ma, nonostante il dolore e l'angoscia, aveva dovuto identificare la salma. Sì, è Jonas. È il mio Jonas. La scelta dell'agenzia di pompe funebri, la scelta dei fiori e della musica, la scelta dei vestiti che avrebbe indossato suo figlio nella bara, forse un pigiama o magari una camicia bianca. Aveva parlato con il prete cercando di esprimere a parole quello che provava. Aveva messo un annuncio funebre sul giornale e scelto il proprio abbigliamento, il completo blu scuro. Adesso toccava al sacerdote, e nel giro di un paio
d'ore sarebbe stata abbandonata a se stessa, senza più faccende pratiche su cui concentrare l'attenzione. Davanti a lei si apriva una vita fatta solo di giorni lunghi e neri. Il prete lasciò spaziare lo sguardo sui presenti. «Oggi sono arrabbiato con Dio.» Quell'ammissione li risvegliò. Sì, era appropriata, non era quello che provavano tutti quanti, la rabbia e l'impotenza? E chi era quel Dio capace di affermare che dietro quel grottesco disegno esisteva un piano più grande? «Oggi sono arrabbiato con Dio», ripeté, «ma sono anche felice.» Be', pensò Sejer, parlare già di gioia mi sembra un po' prematuro. Lanciò nuovamente un'occhiata di sfuggita a Skarre, che sedeva compunto come si addiceva al figlio di un pastore protestante di Søgne, con la schiena diritta e le mani unite in grembo. «Per otto anni Jonas August è stato per noi fonte di felicità», riprese il prete. «Si è trattata di una gioia breve, ma dobbiamo forse contare le ore e i giorni? Alcuni vivono una vita molto corta. Adesso siamo qui riuniti per rendergli onore, e l'evento ci fa soffrire. Oggi vediamo soltanto la crudeltà e l'orrore, l'inspiegabile, l'imperdonabile, ma con l'aiuto di Dio un giorno vedremo tutto sotto una luce diversa. Dio ci aiuterà a perdonare, poiché colui che ci ha strappato Jonas è a sua volta un'anima perduta che ha smarrito la strada.» Ah sì? È così? pensò Sejer. Sto dando la caccia a un'anima perduta che ha smarrito la strada? No, non è giusto. Sto dando la caccia a un uomo che antepone a tutto la propria lussuria, un uomo incapace di controllarsi, un uomo che passa sui cadaveri per soddisfare le proprie voglie. Quando mi troverò seduto davanti a lui nella stanza degli interrogatori, non ci sarà posto per il perdono. Sarò gentile e corretto, ma non gli concederò niente, né pietà, né simpatia. «La morte non è definitiva», proseguì il pastore, «perché tutti siamo sempre in viaggio; entreremo in questa corrente eterna, quella che rappresenta il sangue di tutti coloro che ci conoscevano e ci volevano bene, e in loro continueremo a scorrere. Noi ora portiamo la bara di Jonas August: è un fardello pesante, ma diventerà più leggero. Le lacrime che sgorgheranno dai nostri occhi nei mesi a venire si trasformeranno in un sorriso. Ricordi Jonas August, diremo, che era in classe con noi alla scuola Solberg? Quello che sorrideva sempre e aveva una parola gentile per tutti?» Fece una pausa, e dopo aver abbassato la testa la risollevò con autorità e
serietà. «Sorella Morte ha proseguito con il suo carro portando via con sé Jonas August.» S'interruppe ancora. I paramenti non nascondevano una certa rotondità il prete doveva apprezzare la buona tavola e le comodità -, ma il volto dai tratti femminei testimoniava umiltà. Poi l'insegnante di Jonas si fece avanti per leggere una poesia. Il foglio non voleva rimanerle fermo tra le mani, tremava a tal punto che ne sentivano tutti il fruscio. La voce minacciava di cederle, ma le parole raggiunsero tutti penetrando nelle ossa. Verso la fine della cerimonia il sacerdote chiese ai compagni di scuola di venire avanti, ognuno di loro aveva una rosa rossa dal gambo lungo. Dopo essersi disposti in fila al centro della navata, andarono a deporre i fiori sulla bara, in tutto ventitré rose. Non si poteva rimanere impassibili di fronte a quella scena: i bambini, le rose e la bara. Ritornati ai loro posti, si accomodarono felici perché avevano compiuto ciò di cui avevano parlato così tanto in classe, e secondo loro con stile e dignità. Di colpo avvenne qualcosa. I presenti erano impreparati. Tutti videro che il sacerdote venne percorso da brividi, alcuni si portarono una mano alla bocca dallo spavento e Sejer avvertì uno sensazione spiacevole allo stomaco: Elfrid Løwe cominciò a urlare. La cerimonia l'aveva aiutata a mantenere il contegno, si era aggrappata alla voce del prete, ma adesso gridava in modo straziante e selvaggio, facendo sussultare i presenti. Le urla le uscivano dal profondo, e avevano una potenza terribile per una donna minuta come lei. Per un'ora il sacerdote aveva costruito con la sua omelia un fragile edificio di conforto e rassegnazione, che adesso la donna aveva distrutto. Urlava e distruggeva e nessuno era più in grado di mostrare il proprio dolore con una certa dignità. «Vieni», sussurrò Sejer a Skarre. «Andiamo.» I due uomini uscirono con discrezione dalla chiesa. All'esterno furono accolti dalla fresca aria settembrina. Sentirono nuovamente l'organo, attutito, dietro la porta chiusa. Skarre estrasse dall'abito scuro un pacchetto di sigarette. «Mi tremano le dita», ammise. Accesa la sigaretta, inalò a lungo. «Se adesso dici qualcosa su Dio, me ne vado.» Sejer scosse la testa. «Si tratta di altro.» «Cioè?»
«Hai visto l'uomo seduto nell'ultima fila? Da solo, con il vestito grigio, vicino alla parete?» «No, perché?» «Quell'uomo», disse Konrad Sejer, «era Reinhardt Ris.» 28 La vista di Reinhardt in abito grigio aveva sorpreso enormemente Kristine. Erano le 16.05 e il turno all'Ospedale Centrale era finito. La Rover scivolò davanti all'ingresso e lei guardò il marito che sedeva in macchina vestito in modo impeccabile, osservò il colletto immacolato e la cravatta color vinaccia. «Dove sei stato?» gli chiese. Salita in macchina, richiuse la portiera, teneva la giacca rosso lampone in grembo. Reinhardt fece manovra superando un'ambulanza parcheggiata, intorno alla bocca aveva un sorriso di superiorità, un segnale che indicava chiaramente che lei era costretta a tenere a freno la propria curiosità. «Non sei andato al lavoro?» gli domandò. Lui frenò per far passare un'auto che giungeva da destra. Sta proprio bene, pensò Kristine, perché ha le spalle larghe e le gambe lunghe, il vestito gli sta a pennello. «Ma certo che sono andato a lavorare, mi sono solo preso due ore di permesso. Sono stato al funerale di Jonas August.» Diede gas e si immise sulla strada. Kristine rimase seduta a bocca aperta, pensava di aver capito male. Fu percorsa da pensieri contrastanti: lui era un insolente, un pazzo addirittura. Un guardone, o ancora peggio, un ladro. Uno che ruba le esperienze di vita altrui. «Ero curioso», disse tranquillo. «Pensavo che un funerale così non sarebbe stato simile agli altri, e avevo ragione.» «Ma se non lo conoscevi neanche», obiettò lei. Provò nuovamente vergogna, come se il marito fosse uno scavezzacollo di cui lei era responsabile. «Siamo stati noi a trovarlo», fu la risposta. «Sì, e questo ci impegna in qualche modo?» «Forse no», replicò lui trascinando le parole. «Ma mi sembra che questo mi dia qualche diritto. Rifletti, ragazza, l'abbiamo trovato noi, abbiamo telefonato, abbiamo aspettato, abbiamo risposto alle domande. Siamo rimasti svegli quasi tutta la notte.»
Kristine ripensò agli ultimi giorni e a tutto quello che era accaduto. Accanto a lei sedeva un uomo che si era trovato un progetto di vita, un uomo che si trastullava con le tragedie altrui, secondo il quale l'assassinio di un bambino gli aveva dato dei diritti particolari; l'uomo con cui era sposata, che le negava ciò che lei desiderava sopra ogni altra cosa. Si era legata a lui fino alla morte. Aveva ancora intenzione di mantenere la promessa, ma ora avvertiva il bisogno di avanzare delle richieste. «Hai parlato con loro?» gli chiese. «No, avevano i fatti loro a cui pensare, per dirla così.» «Sai cosa?» riprese lei senza essere più in grado di trattenersi, «ti avrei capito di più se tu fossi andato dalla mamma di Jonas, dopo la cerimonia funebre, per presentarti. Se le avessi detto che sei stato tu a trovarlo ed eri lì per quello. Si sarebbe trattato di un gesto maturo, comprensibile, a cui lei aveva diritto. Invece ti sei insinuato di nascosto per carpirle in segreto il suo dolore e la sua pena.» «Non sono potuto andare da lei», ribatté Reinhardt. «Ci avevo pensato, ma è stato impossibile.» «Perché?» Lui strinse con forza il volante. «Perché si è messa a urlare. Non ho mai sentito nessuno gridare a quel modo. Credevo che le vetrate andassero in frantumi.» Kristine lo guardò spaventata. Era serissimo, come se quella donna che urlava lo avesse sconvolto per davvero. Lui aumentò la velocità. Kristine lo osservò con la coda dell'occhio, colpita dal pensiero che probabilmente non sarebbe mai stato un buon padre, che gli bastavano se stesso e le sue cose. Quella conclusione era sgradevole e si sentì impotente. Invece io sarei una buona madre, pensò; molte donne sono sole con i propri figli, e se la cavano bene lo stesso. Posso farcela, sono abbastanza forte, all'occorrenza; voglio quell'amore che altri hanno, il più grande, che dura fino alla morte. Lo voglio adesso. Guardò nuovamente Reinhardt di nascosto: era così appagato di essere quello che era, soddisfatto di ciò che aveva, il lavoro, la casa e la macchina. Sto invecchiando, pensò lei, non ho molto tempo. Rifletteva con preoccupazione crescente. Lentamente si sviluppò in lei un'idea: quella di commettere qualcosa di irresponsabile; molto semplicemente, di ingannarlo. Di prendersi il diritto di procurarsi ciò che desiderava. Gli uomini parlano della furbizia delle donne, pensò, adesso me ne servirò. Al solo pensiero il cuore prese a batterle più velocemente, e temeva che lo sguardo rivelasse quello su cui stava meditando, perciò appoggiò la
testa all'indietro sul sedile e chiuse gli occhi. 29 Aveva fame, ma non riusciva a mangiare. Inoltre non c'era un granché, il frigorifero era vuoto. Lo aprì alcune volte per sbirciare dentro sperando di trovare la forza di agire. Inutilmente. Con il passare dei giorni, aveva scoperto che proprio la fame aveva un effetto protettivo, era come incapsularsi e diventare invisibile al resto del mondo. Quella sensazione attutiva in parte la paura, perché era paura, quella che provava. Aveva piazzato una sedia davanti alla finestra, con i gomiti appoggiati sul davanzale rimaneva seduto a spiare fuori, oppure guardava la televisione, dove seguiva tutti i telegiornali: le immagini dei due bambini splendevano davanti ai suoi occhi. Esperti di diverso genere avevano espresso il proprio parere sui fatti, ma tutte le teorie erano sbagliate. Si sedeva sempre più spesso sulla sedia a rotelle, provava una gioia particolare a girare per la casa. La spingeva fino in cucina per prendere un po' d'acqua, poi ritornava in soggiorno per fermarsi davanti al televisore. Su quella sedia diventava un altro, su quella sedia era un vecchio dagli arti rinsecchiti, un poveraccio che non si poteva incolpare di nulla. Era un sollievo astrarsi da se stesso. Cominciò ad andare a dormire presto, serviva ad accorciare le giornate. A volte faceva lunghi discorsi immaginari con la polizia. Ascoltami, posso spiegare! La sera tardi, sprofondato nella propria autocommiserazione, versava qualche lacrima amara. Se il pianto prendeva il sopravvento, e succedeva spesso, si lasciava andare sul divano coprendosi con una coperta mentre tirava su con il naso, il viso rivolto verso lo schienale del sofà. Che vitaccia, la mia, pensava, prigioniero nella mia stessa casa. Tanto varrebbe finire in prigione, almeno mangerei pasti caldi e scambierei qualche parola con le guardie carcerarie. Si leccava le lacrime e il sapore saltato risvegliava in lui ricordi dolorosi. Giaceva così al buio, solo, anche se era costantemente in tensione, come una molla sul punto di rompersi. Sapeva che sarebbero arrivati e che, se non avesse aperto loro la porta, l'avrebbero sfondata. 30 Continuavano a porsi incessantemente la stessa domanda: perché non troviamo Edwin? È un buon segno, può significare che è ancora in vita? E
se si tratta dello stesso colpevole, perché ha usato tutta la sua intelligenza per nascondere Edwin Åsalid mentre Jonas August è stato abbandonato sotto degli alberi? Era possibile che due pedofili colpissero nello stesso posto nell'arco di una settimana? Poi indagavano in altre direzioni: andavano assolutamente vagliate tutte le possibilità. Si trovavano di fronte a un suicidio infantile? Edwin stava molto peggio di quanto credessero gli adulti? E se non si trattava di pedofilia, qual era il motivo di un misfatto di cui intuivano soltanto i contorni? Un uomo telefonò alla Questura dicendo che circolavano delle voci a Huseby e che forse era il caso di fare qualcosa. «Joakim Naper», disse Sejer. «Andiamo a parlargli.» «Naper?» chiese Skarre. «Quello con i cani? L'abbiamo già interrogato.» «Lo so», replicò Sejer, «ma ha sentito qualcosa. Dobbiamo attaccarci a tutto.» Il campanello scatenò un violento uggiolio, si sentì il rumore delle unghie che graffiavano il legno. «Dovete trovare quel pazzo», sbottò Naper. «E alla svelta.» Ci fu un agitarsi frenetico sulla porta, Naper spostò i cani con uno strattone mentre indicava ai due uomini di accomodarsi in soggiorno, da dove si vedeva il lago. I cani avevano influenzato l'arredamento della casa, che non presentava nessun addobbo; non era rimasto molto neanche del parquet. I mobili erano vecchi e logori, davanti alle finestre pendevano delle strisce di stoffa marrone a brandelli a mo' di tende. Alle pareti erano appese numerose fotografie, tutte dei cani: nella neve, davanti a una slitta, su una spiaggia. «Sì», disse allargando le braccia. «Qui ci siamo soltanto io e i cani.» Comandò agli animali di accucciarsi. Sejer e Skarre si sedettero sul divano ricoperto da lunghi peli bianchi. Naper era un uomo sulla cinquantina, basso e molto robusto, con un'imponente barba grigia che si tirava in continuazione. A tratti osservava i poliziotti con sguardi brevi, taglienti, ma teneva gli occhi quasi sempre puntati sui cani. «Come dicevo, il mio non è un grande contributo; il giorno in cui è scomparso Edwin Åsalid non ho visto né persone né macchine, ma ho notato i bambini seduti sul molo. Adesso girano delle voci. Forse non le avete sentite, la gente esita a fare delle accuse, ha paura di sbagliarsi, ma io non ho bambini che vanno alla Solberg, quindi me ne frego.» Grattò uno dei cani con forza: il grosso animale si sfregava sul pavimen-
to. «Le voci sono nate molto prima della scomparsa dei bambini, e adesso hanno naturalmente ripreso vigore.» Naper prese tempo, le sue mani erano forti e pelose, affondavano nel collo del cane con grande intensità. «Si tratta di un tipo che preferisce gli uomini», disse guardandoli. «Non do grande importanza ai gay, non mi interessano, la gente è libera di vivere come vuole. Fino a quando non danno disturbo a nessuno. Comunque, ha un convivente, vivono insieme da anni. Abitano a Nordby, si sono comprati una vecchia casa che hanno ristrutturato. E, per dirla in parole povere, ha facile accesso ai bambini.» «Perché?» gli domandò Sejer. Dopo aver preso un posacenere, Naper estrasse il pacchetto appiattito di tabacco dalla tasca della camicia. «È insegnante», rispose. «Alla Solberg.» «Alex Meyer», commentò Sejer. «Allora l'ha già sentito nominare, come pensavo», disse Naper. Sejer protestò. «Qualcuno mi ha detto che è gay, nient'altro. Mi dica come sono nate queste voci.» Naper si arrotolò una sigaretta storta, e dopo essersela infilata all'angolo della bocca l'accese. «Si porta i bambini a casa.» «A casa sua?» Skarre ascoltava con gli occhi azzurri incollati sul viso di Naper. «Nessuno sa con certezza cosa succede», continuò Naper, «o che ruolo svolga il suo convivente. Personalmente mi sembra molto particolare che un insegnante apra la propria casa in quel modo; a volte i bambini rimangono fino a sera. Non mi chieda cosa fanno, comunque mi pare strano. Si direbbe che non abbia il tempo di 'rifocillarsi' a sufficienza durante l'orario di scuola.» «Qualcuno glielo ha chiesto?» domandò Sejer. «Non ne ho idea.» «Come si chiama il suo convivente, lo sa?» «Sì... Johannes Kjær, mi pare...» Skarre prese nota del nome. Naper fece cadere la cenere dalla sigaretta. Uno degli animali emise un profondo sbadiglio mettendo in evidenza dei canini notevoli. «Rikard Holmen, che gestisce il supermercato Kiwi, ha due nipoti che
vanno in quinta, e loro sono stati molte volte a casa di Meyer. Forse è tutto a posto e quello che vi ho riferito sono soltanto pettegolezzi.» Si chinò in avanti per grattare un altro cane. Sejer andò alla finestra e guardò giù verso il lago. «Può vedere il molo», commentò. «Sì», disse Naper. «Non per vantarmi ma questa casa, che ho comprato nel '94, gode della vista più bella di Huseby.» «Conosce Edwin Åsalid?» «No, non lo conosco, ma so chi è. Tutti sappiamo chi è, non passa inosservato. Non che ne sappia molto al riguardo, ma non capisco cos'abbia in testa sua madre. Gli farebbe bene un po' di dieta a base di verdure crude.» Skarre appoggiò il taccuino sul tavolo. «Sì, se fosse così semplice», replicò con uno dei suoi sorrisi più affascinanti, cosa che impedì a Naper di cogliere l'ironia. «Ho cercato di capire questa cosa dei bambini», riprese Naper, «mi riferisco agli uomini che li desiderano, che, ecco... preferiscono i piccoli. E la pulsione sessuale è così forte, per qualcuno forse è impossibile da controllare. Come per i miei cani», sorrise. «Eppure queste persone hanno un cervello come gli altri, sanno di compiere un atto ripugnante. Sanno che è punibile per legge e che i bambini di cui abusano vengono rovinati per sempre. Come fanno ad anteporre se stessi in questo modo?» Sejer ritornò al suo posto, i cani lo seguivano attenti con gli occhi. «Capita a questo mondo che qualcuno si prenda diritti che non ha», disse Sejer. «Cosa farete se rapisce un altro bambino?» Tirandosi la barba, li guardò con espressione di sfida. «Continuiamo a svolgere il nostro lavoro», rispose Sejer. «Pensare di dover vivere questo dramma», affermò Naper, «non era affatto nei miei pensieri mentre ero fuori con i cani. Mi sono accorto dei ragazzini mentre mi stavo incamminando su per la collina di Svartåsen perché uno di loro mi ha salutato con un cenno della mano. E dal momento che sono un vecchio fotografo, sono rimasto a guardarli per un attimo. Quel giorno la luce sul Bonnafjorden era fantastica, e ho pensato a loro come a un soggetto eccellente. Tre bambini, seduti insieme su un molo.» 31 Le foglie cadevano dagli alberi, turbinando in modo lento e malinconi-
co; giunse ottobre con le sue notti nere, fredde. Sejer stava analizzando i rapporti e le dichiarazioni dei testimoni, scandagliò i risultati ottenuti con l'azione compiuta a Huseby, dove tutti coloro che possedevano un'auto bianca dovettero rispondere ad alcune semplici domande. Non avevano scoperto niente. Avevano passato al setaccio i registri delle Granada e delle Galant, per poi allargare l'indagine a tutto il distretto; avevano ampliato il campo di ricerca prendendo in considerazione tutte le auto bianche indipendentemente dalla marca. Ripresero le ricerche sul territorio e nel Bonnafjorden, questa volta spingendosi fino al promontorio davanti a Svartåsen, senza risultato. Aprirono i tombini, perlustrarono i boschi, entrarono nelle cantine e nelle baracche. Alla Solberg gli insegnanti si sforzavano di mantenere la calma. I giorni di scuola scorrevano come al solito, ma regnava un senso di emergenza e tutti coglievano la possibilità di parlare apertamente e di dire la propria. Alcuni esperti avevano consigliato agli insegnanti di lasciare che gli allievi esprimessero liberamente le proprie fantasie, con il risultato che uno dei bambini lanciò l'idea che forse Edwin era stato tagliato a pezzi, dal momento che non riuscivano a trovarlo. Ce n'è un pezzo lì e un pezzo là, disse in tono serio. Quell'affermazione fece sì che gli altri alunni lo fissassero strabuzzando gli occhi. Secondo alcuni giaceva sul fondo del Bonnafjorden, secondo altri ancora era stato rapito, qualcuno lo aveva portato all'estero dove forse viveva da schiavo e senza ricevere cibo, tanto che era diventato magrissimo e irriconoscibile. Il carattere mite di Edwin, la lentezza di Edwin, la voce morbida, timida di Edwin avevano lasciato un vuoto enorme, e gli allievi facevano quasi a gara nel descriverlo in modo positivo quando si parlava di lui. Anche se avevano sparlato di lui, anche se avevano imitato la sua andatura dondolante e l'avevano chiamato Montagna di Lardo, adesso erano diventati buoni e sentivano terribilmente la sua mancanza. Questo passaggio dalle risate all'indulgenza pareva scontato. Durante le ore di lezione fissavano la sedia vuota. Nella classe di Jonas August regnava una calma maggiore, perché lo avevano accompagnato fino alla tomba. Era sepolto dietro la chiesa, nell'ultima fila, tra gli epitaffi delle famiglie Haraldson e Ruste. Si recarono laggiù molte volte insieme e formavano un semicerchio intorno alla tomba, esprimendo ad alta voce qualche pensiero triste. Alcuni saltellavano sulla terra davanti alla pietra come per prova. Che Jonas August giacesse tutto solo in quella terra nera, proprio sotto i loro piedi, li colpiva con violenza terribile.
La stampa, quasi controvoglia, si era buttata su altri casi che, a dire il vero, non erano così spettacolari, ma erano freschi di giornata. A due mesi esatti di distanza dal ritrovamento di Jonas August, il quotidiano Dagbladet aveva pubblicato un articolo piuttosto lungo sui due bambini. Caso unico nella storia norvegese del crimine, un enigma insolito per la polizia. Tutti temevano un terzo episodio. «I mesi passano», disse Skarre, «e non sappiamo neanche con certezza che tipo di reato è stato commesso.» «Ricordi Helén Nilsson?» chiese Sejer. «Anche lei aveva dieci anni. Helén Nilsson di Hörby in Svezia. Era stata trovata su un sentiero in mezzo ai boschi, dentro un sacco della spazzatura. La polizia impiegò quindici anni prima di arrestare qualcuno. Quindici anni e duemila interrogatori. Dobbiamo tenere duro.» 32 Reinhardt se l'era immaginato tante volte il momento in cui si sarebbe trovato di colpo faccia a faccia con l'uomo del bosco di Linde. E quell'attimo sarebbe stato colmo di sorpresa e trionfo. Ma non aveva previsto che il cuore gli avrebbe martellato a tal punto e che gli sarebbero arse le guance a quel modo. Era la metà di dicembre, si trovavano al supermercato ICA per fare la spesa, Reinhardt spingeva il carrello mentre Kristine prendeva la merce. Sussultò, quando il marito l'afferrò per un braccio. «Kristine», sussurrò lui. «Guarda!» Lei cercò di divincolarsi. Non capiva cosa intendesse dire, ma guardò nella direzione da lui indicata notando un uomo di mezz'età con indosso un vecchio giubbotto di pelle. Era al banco della frutta e stava prendendo delle mele. «H.C. Andersen», mormorò Reinhardt. Kristine sbarrò gli occhi. «L'uomo del bosco di Linde», aggiunse lui. «Quello là?» domandò Kristine. «Quello con le mele? No.» «Sì, invece», ribatté Reinhardt. «Non vedi che è lui? Non dirmi che mi sbaglio; ricordati che l'abbiamo visto bene, a pochi metri di distanza e in pieno giorno.» Scosse la testa incredulo. «Maledizione! E se ne sta lì a servirsi come se niente fosse.» L'uomo volgeva loro in parte le spalle, ma in quel momento si girò così
poterono vederlo di lato. Kristine non riusciva a immaginare che fosse lui perché quel tipo aveva l'aspetto di un poveraccio, e il solo fatto di comprare delle mele gli sembrava impossibile. Ne prendeva una, la girava, la riponeva, ne sceglieva un'altra, tutta la sua persona pareva logora e misera. Kristine non era in grado di collegarlo all'omicidio di due bambini. Si era aspettata qualcosa di malvagio dal momento che la fantasia aveva superato la realtà plasmando il colpevole alla luce del crimine compiuto. Gli occhi erano più neri e le guance più incavate, era così che se lo ricordava. «Guarda il profilo», insistette Reinhardt. «Gli assomiglia e basta», disse lei, che desiderava soltanto finire la spesa. Confusa, si aggrappò al carrello. L'uomo si era girato nuovamente e lo vedevano solo da dietro. «È lui», continuò Reinhardt, «dobbiamo chiamare.» Kristine andò al banco della frutta, dove prese delle clementine mentre lanciava un'occhiata veloce in direzione dell'uomo dal giubbotto in pelle. Le immagini e i ricordi le attraversarono la mente. Anche secondo lei gli assomigliava, ma tentennava. «Come fai a esserne così sicuro? L'abbiamo visto per pochi secondi, più di tre mesi fa.» «Ne sono certo», rispose. «Non dimenticherò mai quel volto, adesso non fare la stupida. La polizia aspetta questo momento da mesi.» L'uomo si diresse verso le casse. «Ha problemi a camminare», constatò Kristine. «Appunto», commentò Reinhardt, «trascina una gamba. Adesso mi credi?» All'improvviso Kristine provò una paura inspiegabile. Non gli piaceva averlo così vicino, non le piaceva che se ne andasse in giro con un aspetto così comune, che comprasse delle mele come le altre persone. «Dobbiamo controllare se ha una Granada», disse Reinhardt. «Scommetto che ce l'ha. Vieni, non perdiamolo di vista!» «Non ho finito di fare la spesa», protestò Kristine. «Non importa.» Lo seguirono mantenendo una certa distanza. L'uomo si diresse verso la cassa dove appoggiò la merce sul nastro. «Andiamo alla cassa accanto», decise Reinhardt, «se no finisce prima di noi. Tu paghi, io metto la spesa nel sacchetto!» Le passò davanti e si mise ad aspettare l'arrivo degli acquisti. Kristine pagò e uscirono, salirono velocemente in macchina mentre cercavano con
lo sguardo l'uomo, che apparve poco dopo con un sacchetto per mano. «Vedi la Granada?» domandò Kristine. No, pensò Reinhardt, nessuna Granada, ma aveva potuto sbagliarsi sul modello di macchina. Non lo disse perché non gli piaceva ammettere di aver preso un granchio. L'uomo andò verso un'auto bianca. «Una Carina», esclamò eccitato. «Una vecchia Toyota Carina. È possibile confonderla con una Granada quando la si vede da dietro, avrei dovuto riconoscerla! Dobbiamo prendere il numero di targa. Hai qualcosa per scrivere, Kristine? Prendiamo la targa e lo denunciamo. Sbrigati. Oddio, ma ti sei paralizzata?» La moglie trafficò nella borsa in cerca di carta e penna mentre l'uomo infilava i sacchetti nel bagagliaio. C'era in lui qualcosa di lento ed esitante, come se tutto gli procurasse fatica e dolore. Kristine scarabocchiò il numero di targa su un foglietto. «Lo pediniamo», disse Reinhardt. Kristine lo guardò dubbiosa. «Non abbiamo mica bisogno di seguirlo, abbiamo la targa. Basta telefonare.» Ma Reinhardt fu irremovibile. «Voglio vedere dove abita, non posso farne a meno. Guarda, svolta a destra, è di sicuro di Huseby. Guida veloce. Non mette neanche le frecce. Pirata della strada!» Kristine emise un gemito disperato. «Se gira dobbiamo lasciarlo andare. Non è compito nostro seguire dei perfetti sconosciuti per vedere dove abitano!» «Non mi costa niente farlo», ribatté Reinhardt. «Poi telefoniamo alla polizia con tanto di numero e indirizzo. Cavolo!» esclamò battendo un pugno sul volante. Era così eccitato da avere le guance imporporate. «Puoi sbagliarti», disse Kristine. «Non questa volta. Ammetti che gli assomiglia, accidenti se gli assomiglia.» «Gli assomiglia», ammise lei. «La gente si assomiglia.» «Zoppica», continuò Reinhardt. «Lo fa anche mio zio», replicò Kristine, «perché ha una ciste al ginocchio.» «Piantala di dire cretinate», esclamò arrabbiato. «Eri d'accordo con me. Non tirarti indietro adesso!» Lo seguirono per undici chilometri. Proprio come aveva immaginato Reinhardt, l'uomo svoltò verso Huseby, la macchina attraversò il centro per poi girare a sinistra in cima a un pendio scosceso.
«La via si chiama Granåsveien», constatò Reinhardt. «Sta' a vedere che abita alla fattoria di Granås. Magari è lì in affitto.» «Non possiamo seguirlo fino a casa», protestò Kristine. «Ci vedrà nello specchietto e rischiamo di rovinare tutto. Non credo che alla polizia piacerà sapere che stiamo giocando a fare i detective in questo modo.» «Non ci penso neanche a girare», sbottò Reinhardt. «Voglio vedere dove abita.» La macchina scivolò lentamente davanti a una serie di cassette della posta, l'uomo scese. «Apre quella al centro», osservò Reinhardt. L'uomo risalì e l'auto scomparve giù a destra dove si fermò davanti a una vecchia casa che si trovava in un avvallamento. Reinhardt tamburellava con le dita sul volante. «Ci sta cercando, vede che lo seguiamo», disse Kristine. «Adesso è dentro, sbrigati e guarda la sua cassetta della posta.» Lei si precipitò fuori, rimase qualche secondo, poi tornò velocemente in macchina. «Si chiama Brein. Wilfred A. Brein. Adesso possiamo andare?» 33 Il mattino dopo Reinhardt balzò giù dal letto per sentire il notiziario radio. Non nominarono affatto il caso. Corse fuori a prendere il giornale nella cassetta delle lettere. Si mise a sfogliarlo con eccitazione, ma non trovò nulla sull'uomo del bosco di Linde, nessuna informazione sul fatto che la polizia aveva finalmente ricevuto una soffiata determinante e aveva proceduto a un arresto. Significava due cose. L'uomo era stato interrogato ed eliminato dai sospetti o stavano pasticciando all'inverosimile. Non prendevano seriamente le soffiate? Il pensiero lo fece inalberare e, dopo aver camminato su e giù per la stanza, telefonò alla Questura. Rispose una poliziotta. «Registriamo tutte le informazioni», gli spiegò, «ma ci vuole tempo. Sono ancora tanti quelli che chiamano.» «Ma non si trattava di una segnalazione qualunque», obiettò Reinhardt, che dalla frustrazione aveva alzato il tono della voce. «Si tratta dell'uomo del bosco di Linde che state cercando dal 4 settembre. Siamo stati mia moglie e io a trovare Jonas August, e siamo stati noi a imbatterci in quel tipo con l'eskimo blu. Wilfred Brein di Huseby. Gli avete parlato? Ha un ali-
bi?» «Non posso fornirle informazioni del genere», rispose laconica l'agente, «ma ho preso nota e controlleremo.» «Senta», sbottò Reinhardt. «Non può controllare se qualcuno è andato da lui? Capita che la polizia commetta degli errori. Se questa informazione è andata persa nel sistema, un assassino è forse a piede libero. Non fate quello sbaglio, sarebbe molto imbarazzante per voi.» Sentì un sospiro all'altra estremità. «Va bene. Controllo. Attenda in linea.» Aspettò. Anche Kristine, che era in piedi accanto a lui, rimase in attesa. «Ma come è possibile», sibilò lui, «perdere tempo così.» «Hanno delle regole da seguire», intervenne Kristine. «Non possono mica prelevare le persone a loro piacimento.» «Sto cercando di fare il mio dovere», rispose Reinhardt, «ma se non prendono la gente sul serio la pagheranno, perché allora mi rivolgerò alla stampa.» «Hanno telefonato centinaia di persone», commentò Kristine, «tu sei soltanto uno dei tanti.» A Reinhardt non piaceva essere uno dei tanti. Scarabocchiò qualcosa su un bloc notes: «bastardo di un assassino», lesse Kristine. «Pronto? È in linea?» «Sì. Cosa ha scoperto?» Lasciata cadere la penna, raddrizzò la schiena. «Deve trattarsi di un enorme equivoco», spiegò l'agente. «In che senso, un equivoco?» «Ho trovato il rapporto. Già ieri abbiamo mandato una volante da Wilfred Arent Brein. In Granåsveien 3, a Huseby.» «Sì?» «È su una sedia a rotelle.» Reinhardt guardò Kristine a bocca aperta. «Cosa? Una sedia a rotelle?» «Sì, è un disabile costretto su una carrozzina», ripeté. «No, per piacere, deve esserci un errore, lo abbiamo visto al supermercato ICA, stava facendo la spesa e guidava una Toyota bianca. No, avete capito male, sia io sia mia moglie lo abbiamo visto camminare. Trascinava solo un po' la gamba. Maledizione!» Grugnì irritato. «Mi faccia parlare con Sejer», ordinò.
«È fuori, ma prendo nota di quello che mi sta dicendo. Abbiamo tantissimo da fare e non possiamo sprecare tempo con informazioni sbagliate.» Reinhardt riattaccò violentemente. «Una sedia a rotelle?» disse Kristine senza capire. Posso andarmene, pensò Kristine, mettere da parte dei soldi e trasferirmi in un monolocale, sono in grado di farcela. È costretto a lasciarmi andare; non ne posso più, sono stufa che non mi stia mai ad ascoltare. Insoddisfatta, si lasciò cadere su una sedia. Reinhardt era corso alla porta, lei non aveva idea di cosa avesse in mente. Dio solo sa dov'è, pensò, e cosa sta combinando. Le sembrava che dopo il 4 settembre la vita fosse diventata impossibile; qualcosa aveva invaso Reinhardt, qualcosa di cui lei non era a conoscenza. Adesso non c'era e la casa era avvolta nel silenzio come dopo una tempesta. Si sforzò di immaginarsi una vita da sola, fantasticò su quanto sarebbe stato bello. Decidere tutto da sé, riprendersi il proprio corpo, riempire l'esistenza di cose belle, magari con un bambino. Non subire più la sua voce potente, la sua presenza sempre così dominante. Poi allontanò quei pensieri cercando di immaginarsi la reazione di Reinhardt. Se mi lasci, ti ammazzo di botte, le aveva detto. Quelle parole l'avevano terrorizzata, ma le aveva cancellate come uno scherzo, lui non era così. Di colpo si irritò del fatto che la polizia non fosse in grado di risolvere il caso dei due bambini. Cominciò a camminare su e giù, un peregrinare continuo, senza pace; di tanto in tanto sbirciava fuori, ma senza vedere traccia della Rover. Diede un'occhiata alla scrivania del marito, dove era solito sedere voltandole le spalle. Cosa mi devo portare dietro se me ne vado? pensò. Alcuni vestiti, qualche libro, dei documenti importanti. Il mio passaporto, le venne in mente, dov'è il mio passaporto? Forse nella scrivania di Reinhardt. Non si ricordava dove era stato messo e cominciò a cercare in tutti i cassetti, pieni di cianfrusaglie. Bisogna mettere in ordine qui dentro, pensò mentre sfogliava lettere e vecchi auguri di Natale. Non riusciva a trovare il passaporto. Forse Reinhardt l'aveva messo nel suo raccoglitore, ne aveva uno per le carte importanti, a fisarmonica, con diversi scomparti. Lo trovò e lo aprì, controllò ogni spazio alla ricerca del passaporto. Trovò il certificato di matrimonio, rimase a lungo a guardarlo. Riprese a cercare tra manuali di istruzioni e certificati fiscali, vide la garanzia del tagliaerba e il contratto d'acquisto della Rover. Finalmente trovò il passaporto, infilato in una copertina rossa in plastica per non sciuparlo. Lo strinse tra le mani.
Una grossa busta gialla attirò la sua attenzione. L'aprì per guardarci dentro. Conteneva una foto. Kristine si sedette pesantemente per terra, l'immagine in grembo: rappresentava una bambina di cinque, sei anni, dai capelli lisci, scuri, e con la frangia. Aveva una bella fessura tra gli incisivi. Non l'aveva mai vista prima e il suo cervello si sforzò di riconoscerla, ma invano. Una bambina. Che strano. C'era anche qualcos'altro che la disturbava. La piccola era stata fotografata dal petto in su, le spalle erano nude. Fu presa da un pensiero folle: ha una figlia. Con un'altra. Ecco perché non vuole avere bambini: perché ne ha già. Per cui forse paga un assegno di mantenimento. Le mancò il fiato. Piantò le mani per terra per non perdere l'equilibrio. Rimise la foto nella busta così come l'aveva trovata; i pensieri l'assalivano senza controllo. Pensa se è uno di quelli. Non aveva neanche il coraggio di formulare la parola. Uno a cui piacevano i bambini. No, non Reinhardt, era un'idea ridicola, quasi isterica. Ma quella bimba con le spalle nude cosa significava? Ripescò la foto dalla busta e prese a studiarla nuovamente. Non assomigliava a Reinhardt; in effetti non sembrava neanche norvegese, aveva i capelli e gli occhi così scuri. La ripose nel raccoglitore, poi infilò il passaporto nella borsetta. Si sedette sul divano in attesa mentre fissava fuori dalla finestra la luce che spariva. Andò in bagno a guardarsi allo specchio. Aggrappata al lavandino, contò lentamente fino a dieci. Non poteva essere vero. Era stanca e aveva voglia di dormire, ma le era impossibile coricarsi a letto, ritrovare la calma. Immaginava davanti a sé la bambina dalle spalle nude e lo sguardo strano, quasi implorante. Cominciò a dissezionare mentalmente il proprio matrimonio: ovunque trovava qualcosa che aveva tralasciato, piccoli segnali odiosi, e a letto spesso un misto di distanza e brutalità. Pensare che lui vive insieme a me in questa casa è insopportabile. Non può essere giusto. Sto andando alla deriva. Si stese sul divano, avrebbe desiderato sprofondare nell'imbottitura. Rimase sdraiata a seguire con gli occhi le lancette dell'orologio appeso al muro. 34 «Perché stai dormendo sul divano?» Era la voce di Reinhardt che riempiva la stanza. «Dove sei stato?» sbadigliò lei mentre si tirava su a sedere a fatica, tenendo una coperta sul petto come per proteggersi: adesso era un altro Reinhardt, uno che forse non conosceva. «Ho girato in macchina», rispose indifferente. «Avevo bisogno di una
boccata d'aria.» «Sono quasi le due», esclamò lei. «Sei stato via per parecchie ore.» «Mi serviva del tempo per me stesso», disse. «Calmati, signora.» «Avresti potuto dirmelo, l'avrei capito.» Il marito andò in cucina e, dopo aver aperto il frigorifero, ritornò con in mano una lattina di birra. «Non ho voglia di fare rapporto su ogni mio minimo passo», replicò prima di bere. Kristine ripiegò con cura la coperta e si alzò dal divano. «Vado a letto», disse. La voce stava per venirle meno. «Non mi guardi», commentò lui di colpo. «Sei arrabbiata per qualcosa?» Kristine non trovò la forza di rispondergli. Pensava in continuazione alla foto nella scrivania. Cosa avrebbe detto se lo avesse messo di fronte all'immagine? No, non ne aveva il coraggio, era così grande e grosso lì in piedi davanti a lei. «Non c'è bisogno di farne una tragedia», esclamò Reinhardt. «Adesso sono qui, e hai dormito qualche ora sul divano. È tutto.» «Buonanotte», gli disse avviandosi verso la porta. Lui sbatté violentemente la lattina sul tavolo. «Sei dolce», disse piano, «ma anche terribilmente pallosa.» Kristine si girò a guardarlo. «Scusa», ribatté acida. «Non sapevo dove fossi né cosa stessi facendo. Vado a dormire. Quel divano è scomodo, ma non ero abbastanza calma da sdraiarmi in camera da letto. Lo faccio adesso. 'Notte.» Uscì in corridoio sbattendo la porta, poi fece di corsa i quindici gradini che la portavano in stanza. Non avveniva spesso che gli facesse osservazioni e adesso aveva paura. Strisciò sotto il piumone, rimase ad ascoltare i rumori che provenivano dal pianterreno. L'unica cosa che desiderava era dormire, ma si sentiva perfettamente sveglia. Gli occhi scandagliavano il buio, la camera che conosceva così bene, che condividevano da tanti anni. Era soltanto una questione di tempo, poi Reinhardt avrebbe salito le scale per distendersi accanto a lei. Non era certa di farcela ad averlo così vicino, ora che sapeva. Se poi avesse tentato qualche approccio, aveva paura di mettersi a gridare, anche se al contempo pensava al bambino che desiderava così intensamente. Non mollo, pensò, fino a quando non otterrò ciò che voglio. E c'è soltanto un modo. Rimase sdraiata ad occhi aperti ad aspettare.
35 Un giorno Sejer e Skarre andarono in macchina al bosco di Linde. La strada era stretta e ripida con delle curve a gomito. Il ciglio sbrecciato offriva una pessima protezione dal rischio di precipitare in un burrone sul cui fondo scorreva un ruscello. A metà percorso l'Ente per la Tutela delle Strade aveva creato uno spiazzo di sosta, ma per tutti e cinque i chilometri non incontrarono anima viva. In cima c'era un piccolo parcheggio che accoglieva tre, quattro macchine. Sejer si fermò davanti alla sbarra dipinta di rosso. «Qui Reinhardt e Kristine Ris si sono imbattuti nell'uomo con l'eskimo blu», disse. «Proprio qui davanti alla sbarra. Non c'è dubbio che lo abbiano visto bene, inoltre il 4 settembre c'era il sole e il cielo era terso.» «La cosa non ci aiuta», constatò Skarre, «visto che l'uomo ha segnalato ai nostri agenti un uomo in carrozzina.» «Non capisco», obiettò Sejer, «deve essere successo qualcosa. Un fraintendimento. Dobbiamo controllare.» I due si misero a camminare. Abbandonato il sentiero, si diressero tra i pini verso il luogo dove avevano trovato Jonas August. L'immagine del bambino seminudo era ancora impressa nella loro memoria. «Si rifiuterà di farsi interrogare», disse Skarre, «su consiglio del suo avvocato.» Sejer sorrise. «Si sente una vittima. 'Povero me, io che sono così sensibile! Non posso sopportarlo!'» La voce di Skarre era carica di ironia. «Cerca di risolvere un problema», commentò Sejer. «Non eravamo d'accordo su questo punto?» «Ha rapito un bambino, è disgustoso», replicò Skarre. Si guardarono a lungo intorno, il frusciare delle chiome degli alberi li immalinconì. Skarre andò verso la catasta di legna dove si era seduta Kristine Ris il 4 settembre, prese posto su un tronco prima di accendersi una Prince. «Comunque», affermò con convinzione, «non sta bene. Probabilmente non ha un attimo di pace. Il pensiero della condanna da parte della gente lo terrorizza. La vergogna e i titoli dei giornali... Forse ne morirà.» Inalò profondamente. «Capita che la gente muoia per queste cose.» Sejer si sedette vicino a lui.
«Ci si aspetta di amare ed essere amati, invece i pedofili devono mantenersi calmi. L'amore non è facile per nessuno. Tutti si separano.» Si trattenne, si sentiva leggermente a disagio. «A proposito, e tu? Sei sempre single?» Skarre fece un enorme sorriso. «A che mi serve una moglie? Io ho te.» Guidarono fino alla spiaggia di Guttestranda e andarono a sedersi sul molo. Per un po' rimasero a godersi quella sensazione unica che gli esseri umani provano davanti all'acqua. Sejer cercò di intravedere il fondo: impossibile. In quel momento videro un uomo che giungeva lungo la spiaggia. «Abbiamo visite», disse Skarre. L'uomo aveva un passo veloce, energico, era piccolo e calvo, indossava un piumino blu scuro e un paio di jeans scoloriti. Alzò una mano a mo' di saluto solenne, sembrava un messaggero in possesso di notizie meravigliose. «Mi chiamo Andor», disse piantando bene le gambe. Sejer e Skarre lo osservarono curiosi. «Voi siete investigatori», constatò. Annuirono. Si avvicinò di qualche passo mentre sorrideva sicuro di sé. La sua pelle era incredibilmente chiara e pulita, come se la vita non avesse lasciato nessuna traccia su di lui. «Abito in quella casa gialla lassù.» Si girò per indicare. «Quella là grande, a tre piani. Dove c'è il balcone più grosso, ho la camera da letto. La finestra è aperta, me la sono dimenticata. Basta che non si metta a piovere, se no mi si bagna il letto.» Sejer e Skarre guardarono la costruzione gialla. «È una vecchia stazione», spiegò. «Prima qui passava la ferrovia, giù fino al lago.» «Ah sì?» disse Sejer. Osservò l'uomo. Era sulla quarantina, aveva mani piccole e tozze, le dita corte, un accenno di pancetta. Ritardato? pensò Sejer. No, non ritardato, semplicemente diverso. Uno che si trovava al sicuro nel suo regno, di cui era il re. «Abito insieme a mia madre», continuò Andor. Skarre sorrise. Probabilmente Andor viveva dell'assistenza sociale. «La mamma fa da mangiare e io procuro i soldi. Ricevo la gente, tra le
dieci e le due.» «Riceve la gente?» Skarre lo guardò con espressione interrogativa. «Vengono da tutta la Norvegia orientale. Con ogni genere di malattia. Io emano calore dalle mani.» «Lei è un pranoterapeuta, un guaritore», constatò Skarre. «Esatto», confermò Andor annuendo. L'orgoglio di possedere queste doti lo spinse a portarsi le mani sui fianchi per darsi un atteggiamento di importanza. «Splendido», disse Skarre generosamente. Andor scrutò Sejer con sguardo acuto. «Lei soffre di eczema», affermò. Sejer lo guardò con tanto d'occhi. «Sì», rispose sorpreso, «è vero. Come fa a saperlo?» «Sono in grado di vederlo», rispose semplicemente Andor. «E adesso è peggiorato. Perché non trovate Edwin.» «Sono impressionato», disse Sejer. «Sì, è fastidioso. Ha qualche consiglio da darmi?» Andor annuì calmo. «Deve spostare la poltrona, quella in cui si siede la sera.» «Spostare la poltrona?» ripeté Sejer sorpreso. «Ma è perfetta davanti alla finestra, così ho la vista sulla città.» «Sì, sì. Non ho detto che la deve spostare all'altra estremità del soggiorno. Semplicemente girarla un po'. Il punto è che lei deve uscire dal campo in cui siede ora per passare a un altro.» Sejer annuì obbediente. Andor andò verso il bordo del molo, dove si fermò a lungo a guardare nell'acqua. Non fece alcun gesto. Rimase immobile come un palo, come se stesse offrendo loro qualcosa. Dopo un po' Sejer cominciò a intuire che cosa voleva fare. «Conosceva Jonas ed Edwin?» gli domandò. Andor si girò lentamente. «Conosco tutti a Huseby.» Sejer si tirò su in piedi e lo raggiunse sul bordo del molo. «Dove dobbiamo cercare?» Andor alzò lo sguardo verso l'ispettore, che era notevolmente più alto di lui. «Mi sembra abbastanza strano», esordì, «ma vi dico quello che vedo. Sta a voi scoprire cosa significa.» «Cosa vede?»
«Hasselbäck», rispose. «Niente altro. Sto pensando a Edwin e mi giunge la parola Hasselbäck. L'ho trovato sulla carta, è in Svezia. Nel Vestmanlän.» Sejer lo incalzò. «Vuole dire che qualcuno lo ha portato in Svezia?» Andor si irritò. «No, è lei che lo dice. Io vedo quello che vedo, non sono in grado di rispondere a tutto.» Dopo essersi girato bruscamente, salì a passi decisi verso la casa gialla, lasciando i due uomini piuttosto confusi. «Hasselbäck», disse Skarre pensieroso, prima di lanciare un'occhiata al suo superiore. «Ci credi a questa gente?» Sejer si strinse nelle spalle. «Sì», rispose alla fine. «Credo che vedano cose. Del resto lo facciamo tutti quanti, semplicemente non gli diamo peso. Sapeva dell'eczema. Come è possibile?» «Quindi, se Andor ha ragione», riprese Skarre, «forse Edwin si trova in Svezia. O l'assassino è di Hasselbäck, oppure Edwin è stato portato a Hasselbäck, vivo o morto.» Sejer fissava un isolotto al largo. «A cosa stai pensando?» domandò Skarre. «A Tulla Åsalid», disse. «Ho parlato con i suoi genitori e sono preoccupati. Secondo loro Tulla non è più in sé da quando ha incontrato Brenner. Edwin è passato in secondo piano. Dicono che non l'hanno mai vista così tocca.» «Tocca?» «Si sono espressi così. È bello quando due persone si innamorano, ma il grande amore, quello per cui si morirebbe, appartiene ai giovani. Giusto?» «È capitato che delle madri uccidessero i propri figli per conquistare un uomo», commentò Skarre. «Ricordi quella storia in America? Una madre di tre figli si era innamorata follemente di un uomo, ma a lui non interessava accollarsi la responsabilità di tre bambini. Così lei li ha fatti salire in macchina, e poi l'ha spinta giù dal molo.» «La scomparsa di Edwin ha altri motivi», sottolineò Sejer. «Forse Brenner è un tipo del genere», disse Skarre. «Che tipo di uomo?» «Un uomo che ha puntato Tulla, ma che forse non è molto entusiasta di Edwin.» Mosse qualche passo, si fermò e alzò una mano per proteggersi gli occhi dalla luce.
«A proposito d'amore», esordì Sejer, «guarda quell'isolotto, lo chiamano Majaholmen, isola di Maja. Mi ricorda un'altra isola dedicata a una donna: si chiama Gunillaholmen ed è formata da un paio di ettari di pietra e qualche abete spazzato dal vento. Quell'isolotto ha alle spalle una storia vecchia e crudele.» «Spiegati.» «Davanti all'isolotto, il fiordo è pieno di avallamenti. L'isolotto è aspro e il suo nome non lo si trova sulla carta, ma gli è stato dato in memoria di una certa Gunnhild Taraldsdotter. All'inizio del Settecento partorì in segreto un figlio tra i campi. Lo uccise in preda alla disperazione, al pensiero della vergogna e temendo la punizione per chi metteva al mondo bambini illegittimi. Sai come stavano le cose a quei tempi.» Skarre annuì. «Ma il bambino fu trovato poco dopo, divorato per metà dai maiali. La povera ragazza, figlia di braccianti in miseria, confessò immediatamente e fu arrestata. I giudici la condannarono all'unanimità alla decapitazione. La testa sarebbe stata infilzata su un palo come monito e per l'orrore della comunità. Fu piantato sull'isolotto, dove rimase per cinquant'anni, anche se ci vollero poco meno di due settimane prima che i gabbiani avessero beccato la testa riducendola a brandelli.» «E il padre del bambino?» voleva sapere Skarre. «Si chiamava Jon Michelsen e se la cavò con una multa.» Rimasero entrambi seduti a pensare. «Ho sempre creduto che la criminalità fosse qualcosa che scaturisce dal bisogno», disse Sejer. «Le circostanze storiche e sociali nel Seicento e nel Settecento portavano a molti infanticidi. Ora i tempi sono nettamente migliorati per le madri sole. Non siamo mai stati così bene come adesso, eppure la criminalità è esplosa.» «Esistono molte forme di bisogno», intervenne Skarre. «Sì, hai ragione. A volte mi chiedo se il nostro uomo è un tipo di quelli che se ne stanno in disparte a osservare la vita a distanza. Come a una festa a cui non sei invitato.» Ripensò a Edwin. «Ti ricordi il tuo decimo compleanno?» domandò. «Molto bene», rispose Skarre. «Ero in quarta. Cantavo nel coro ed ero innamorato di una bambina di nome Else. Avevo un insegnante terribile e arrogante che si chiamava Lundegård. Non tollero la stupidità, diceva, se non facevamo bene un compito in classe. Parlava molto della terza guerra
mondiale, diceva che ci dovevamo preparare. 'Per carità non siate ingenui', ripeteva, 'perché sta per arrivare.' Ogni volta che sentivo un aereo, mi si fermava il cuore.» Skarre batté la mano sul bordo del molo. «E tu? Cosa ricordi?» «Abitavamo in via Gamle Møllevej alla periferia di Roskilde», raccontò Sejer. «La casa era bianca con le imposte blu e d'estate era un tripudio di rose rampicanti. Avevamo delle galline nane e io avevo il permesso di raccogliere le loro minuscole uova tutte le mattine. E poi avevamo un cane dal pelo ispido che si chiamava Ruth. Mia madre aveva un piccolo laboratorio di ceramica, dove faceva vasi e piccole sculture. La nostra casa ne era piena e lei li regalava volentieri alla gente che veniva a trovarci. A scuola ero bravo, ma anche timido. Avevo una maestra molto in gamba, la signorina Monrad. Era un tesoro. Che dici, ne esistono ancora al mondo d'oggi di insegnanti così?» «Molto pochi», affermò Skarre. «Magari Alex Meyer è un insegnante di quel genere. Ecco perché circolavano quelle voci su di lui. Troppa grazia, e la gente dubita dei suoi veri motivi.» «Meyer ha la fedina penale pulita», precisò Sejer. «Ho controllato.» «Immaginavo, ma c'è sempre una prima volta. Sono le persone più vicine a noi che di solito ci fanno del male, non gli sconosciuti. Può aver provato qualcosa di particolare per Edwin. L'aveva messo nel primo banco in una sedia tutta per lui.» «L'avrà fatto per proteggerlo», commentò Sejer. «Può essere. Espongo semplicemente le mie osservazioni», obiettò Skarre. «Dici sempre che bisogna andare alla ricerca delle piccole cose.» In silenzio, guardarono nuovamente l'isolotto di Majaholmen. «Senti anche tu quest'aria gelida?» domandò Skarre. «Non troveremo Edwin prima del gelo! Per quanto quella Maja abbia commesso un'azione terribile, almeno ha ricevuto in cambio un isolotto...» «Vedi la guglia di quella chiesa sull'altro lato del lago?» gli chiese Sejer. Skarre annuì. «Maja era stata a un battesimo e stava attraversando il lago con una barca a remi, che si è rovesciata proprio davanti all'isolotto. Indossava per l'occasione il costume folcloristico locale, che l'ha trascinata sotto.» Si alzò per andarsene. «Pensaci, uno di quei costumi bagnati pesa quanto un uomo. Edwin in Svezia? Assolutamente no. Comunque non c'è niente di male a seguire
qualche buon consiglio. Adesso vado a casa a spostare la poltrona in un altro campo.» 36 Due ragazzini erano chini su un puzzle composto da millecinquecento pezzi; il soggetto era la scena di una battaglia, Stamford Bridge, avvenuta nel 1076, dove Harald Hardråde combatteva contro Harald Godwinsson. La battaglia stava lentamente prendendo forma davanti ai loro occhi ed erano tanti i tasselli sanguinosi che dovevano trovare il loro posto. Uno aveva trovato un braccio mozzato, l'altro una testa. Lavoravano da settimane a quel puzzle; avevano completato i cavalli e i soldati, mentre qualche nuvola scura e carica di pathos stava apparendo in cielo. In silenzio, appoggiato alla parete e con le braccia incrociate, c'era Alex Meyer. Osservava i due bambini con occhio attento mentre ogni tanto guardava fuori dalla finestra. Una Mazda bianca fece la sua apparizione. Alcuni secondi dopo comparve il suo convivente, che non salutò i ragazzi ma si diresse in cucina con due borse della spesa. «Che piacere vederti!» esclamò Alex. Johannes stava togliendo il cibo dalle buste, sempre girato di schiena. «Com'è andata la giornata?» Alex continuava a sorridere. «Come tutte le altre», rispose Johannes. «L'ho passata a chiedermi se al rientro avrei trovato la casa piena di questi tuoi bambini.» Questi bambini. Alex lanciò un'occhiata nel soggiorno. «Sono Oscar e Markus, mi fa piacere averli qui.» «Grazie, l'avevo capito, è da mesi che vengono. Se tu fossi una persona responsabile, la smetteresti. La gente parla.» «Non sei responsabile di me e delle mie cose», replicò Alex. «Ovvio che la gente ci tiene d'occhio, non siamo come loro.» Jonas lo guardò con espressione di rimprovero. Si era tagliato i capelli scuri, e Alex vedeva la nuca arrotondarsi sul collo sottile. «Non dire scemate. Riguarda anche me. Va bene che sei un insegnante eccellente, ma non hai niente a che vedere con il loro tempo libero.» Alex si accomodò al tavolo della cucina. «Dimmi, Johannes, ti senti minacciato?» gli domandò per prenderlo in giro. Johannes rimase in silenzio. Ripiegò con cura i sacchetti prima di riporli
in un cassetto, ma si rifiutò di sedersi. Il gesto di rimanere in piedi sottolineava la serietà della situazione. «Sono spariti due bambini», disse. «La gente ha bisogno di un capro espiatorio. Sui giornali di oggi c'era scritto che può trattarsi di qualcuno che li conosceva. Dovresti prendere la faccenda sul serio. Tutti sanno che i bimbi vanno e vengono da questa casa, e si fanno le loro idee.» «Gli allievi hanno bisogno di qualcuno che li segua e stia loro vicino; sono successe tante cose, e io devo agire. Stanno seduti per ore a comporre quel puzzle, Johannes: è un passatempo sano perché apprendono la pazienza e la disciplina. I giovani di oggi non ne possiedo molta. Senti che silenzio.» Fece un cenno del capo in direzione del soggiorno. «Nel frattempo ci infilo un po' di storia. Se i loro genitori sono ansiosi, che mi contattino, così possiamo parlarne. Finché non sento niente, do per scontato che tutto sia a posto.» Johannes scosse la testa. «Non capisci la gravità, girano delle brutte voci.» «Magari tutto questo avviene soltanto nella tua fantasia», osservò Alex. «Credi che la gente ti stia addosso, che ti accusi di qualcosa, ma non è così, rilassati.» Appoggiò i gomiti sul tavolo, si stava intestardendo. «La vita è bella, Johannes.» Johannes si mise a preparare la cena, ma i movimenti nervosi lo tradivano. Alex ritornò in soggiorno, dai bambini. «Come va? Chi vince?» «Godwinsson», rispose Markus. «Godwinnson le sta suonando a Hardråde.» «Adesso cosa state facendo, avete un piano?» «Raccogliamo tutti i pezzi con del sangue», spiegò Oscar. «Poi tutti quelli con il ferro», intervenne Alex, «tutti quelli con l'acqua, tutti quelli con il cielo. Siate intelligenti, siate sistematici.» I bambini dividevano i tasselli in piccoli gruppi. Alex sollevò un braccio mozzato descrivendo con dettagli spaventosi come dovevano cauterizzare la ferita con un ferro incandescente per fermare il sangue. «Pensate allo sfrigolio del ferro che entrava a contatto con la carne. Sembrava la pancetta nella padella.» «Johannes è arrabbiato?» domandò Markus guardando verso la cucina.
«Non arrabbiato», sorrise Alex, «ma ha paura. Per tutto quello che forse potrebbe accadere, ma che non succederà mai.» I bambini annuirono. «Volete un po' di vellutata? Johannes la sta preparando.» I due non erano certi di sapere cosa fosse una vellutata, ma dissero di sì. «Chi ripuliva e metteva in ordine dopo la battaglia?» chiese Oscar. «Chi raccoglieva le braccia e le gambe? Chi seppelliva i cadaveri e i cavalli morti?» Alex si strinse nelle spalle. «Non lo so, ma immagino che allora avessero una specie di sistema, le battaglie erano tante. Erano tempi duri, quelli, siete fortunati a vivere adesso.» Andò in cucina per aiutare Johannes, prese un porro, trovò un coltello e lo tagliò ad anelli sottili. «Sono tranquilli e concentrati, sono amici per la pelle. Hanno fame e tra poco mangeranno una zuppa calda. La vita è bella, più di quanto si dica in giro, Johannes, e questo vale anche per gli esseri umani.» Johannes si girò per guardarlo. I capelli corti terminavano in una lunga frangia di lato. «Non ti mancano le parole, bisogna riconoscerlo», commentò rassegnato. «Ma la vita non è un gioco, e della gente non bisogna fidarsi. Temo che un giorno ti toccherà sperimentarlo.» Riempì una pentola d'acqua e poi ci mise le verdure, il coperchio si richiuse con un tintinnio. «Ma è per questo che mi ami», sorrise Alex. «Stai con me da dieci anni e non te ne sei mai pentito.» «Invece sì. Gli dei lo sanno che mi sono pentito. Non raggiungerò mai il tuo livello per quanto riguarda la gioia di vivere.» «Non l'ho neanche mai preteso», obiettò Alex. «Rimani pure della tua idea, ma non fasciarti la testa prima del tempo, se no ti ammali e diventi ansioso, vecchio e grigio prima del tempo. Passami il macinapepe. Preoccupiamoci di offrire qualcosa di caldo ai bambini.» «Secondo me dovresti pensare a un paio di particolari», proseguì Johannes. «Porti gli allievi qui. Giochi con loro, dai loro da mangiare, li riporti a casa in macchina la sera. Ma sono sempre maschi, Alex.» Lo penetrò con lo sguardo. «In questa casa non ha mai messo piede una bambina. Spiegamelo, non ci sono femmine in classe?» Alex si strinse nelle spalle. Rimase per un po' seduto a grattare la superficie del tavolo con un dito.
«Certamente, ma io vado più d'accordo con i maschi. O, non lo so, non ci ho mai pensato. Adesso stai creando nuovamente problemi. Hai mai sentito parlare di casualità?» «Sì, e non ci credo. Non mi va che arrivi la polizia.» «La polizia? Adesso smettila. Ti vergogni di me?» Johannes abbassò lo sguardo. «Ecco la verità», constatò Alex. «Ti vergogni di me. Ti vergogni della tua natura, te ne vergogni profondamente. Mentre gli attimi belli della vita passano e scompaiono.» «Non è così, ma un assassino pedofilo è a piede libero e la gente parla di te.» Alex si alzò. Andò verso Johannes e si chinò sul ripiano con un sospiro. «Non avremo mai bambini», disse. «E cosa ce ne facciamo?» ribatté Johannes. «La casa ne è piena.» «Ho sempre desiderato un maschio, ecco.» Johannes stava tagliando le verdure a dadini. Si fermò cedendo leggermente sul ripiano. «Hai preso la posta?» gli domandò Alex. Johannes abbassò il coltello. «Sì», disse piano. «Ho preso la posta, lo faccio sempre.» Sollevò il coltello per riprendere. «Dove l'hai appoggiata?» Nessuna risposta. «Johannes, l'hai messa sul frigorifero?» Si sforzava di capire la reticenza dell'altro. In cima al frigo c'era del materiale pubblicitario, un paio di lettere e una cartolina. Il soggetto erano un bambino e una bambina che raccoglievano i fiori sull'orlo di un precipizio e dietro di loro c'era un angelo dalle ali bianche. C'era qualcosa di molto commovente in quell'immagine e per un attimo Alex sentì di essere quell'angelo custode. Magari qualcuno lo aveva pensato e adesso volevano rendergliene merito. Girò la cartolina e lesse il testo scritto sul retro. Nome, indirizzo e alcune brevi righe. «Allora?» domandò Johannes. Alex gli voltò le spalle e Johannes lo vide portarsi una mano alla bocca. «È dal consiglio dei genitori», mormorò. «Desiderano incontrarmi.» 37
La fattoria di Granås consisteva di due case padronali, la dispensa, l'abitazione usata a suo tempo dai braccianti, il fienile e trecentocinquanta ettari di terreni coltivati. Vi si arrivava percorrendo un viale di alte betulle dalle chiome strapazzate dal vento proveniente dal lago. Quando Sejer e Skarre scesero dall'auto sentirono quell'aria gelida. In un avallamento videro una vecchia casa fatiscente che però, in fondo in fondo, conservava un certo fascino. Alcuni cespugli incolti e lussureggianti crescevano lungo le pareti, mentre un prato coperto da un leggero strato di neve circondava la casa. «Cosa ne pensi?» disse Sejer. «Non lo so», rispose Skarre. I due uomini girarono intorno all'edificio per trovarne l'ingresso: due colonne di legno coperte da luppolo rinsecchito. Sejer si guardò intorno, notando la serra dai vetri rotti, un trattore parcheggiato e un gatto nero che si aggirava furtivamente sulla neve. Sotto un tetto di lamiera ondulata accanto al fienile c'era una Toyota Carina. Era ben tenuta, per essere vecchia, ed era bianca. «Sedia a rotelle o no», commentò Sejer, «guida la macchina. Perché non ha fatto costruire una rampa fino alla porta? Come riesce a salire e scendere le scale?» Si voltò verso Skarre. «Chi dei nostri è stato qui prima di noi?» «Non lo so.» Sejer guardò verso la finestra della cucina. Avrebbe giurato di aver colto un movimento dietro la tenda, un volto che si era ritratto velocemente. Andò a bussare, ma non accadde nulla. Di proposito fece rumore con il saliscendi, rimase in attesa, picchiò nuovamente, più volte. Finalmente si sentì un suono provenire dall'interno, la porta si aprì di poco e un uomo sbirciò fuori. Il suo viso fu colpito dalla luce tagliente costringendolo a socchiudere gli occhi. Aveva i capelli grigi, secchi come paglia, la pelle era pallida e, per via della mancanza di sole, tendeva al bluastro. Sedeva su una sedia a rotelle di modello antiquato, le mani appoggiate sulle ruote. «Wilfred Brein?» esordì Skarre. L'uomo li penetrò con gli occhi. La camicia gli pendeva sopra i jeans logori e scoloriti. Ai piedi calzava delle ciabatte di pelle dalle cuciture rotte. C'era anche qualcos'altro che risvegliò l'attenzione di Sejer: la somiglianza con lo scrittore danese era molto evidente. «Polizia», disse Sejer. «Vorremmo entrare per qualche minuto.»
Brein li squadrò. «Perché?» domandò sgarbato. Rimase seduto con le mani sulle ruote come se in qualsiasi momento avesse intenzione di spingere la carrozzina all'indietro e chiudere la porta. «Si tratta di un controllo di routine», gli assicurò Sejer, «in relazione a un crimine. Abbiamo qualche domanda, ci vuole solo un attimo.» Brein sollevò il mento. Evidentemente intendeva ostentare sicurezza, anche se i due poliziotti non capivano come, dal momento che l'uomo aveva un aspetto pietoso. Inoltre, un altro dettaglio fece insospettire Sejer. Le cosce erano muscolose, non davano segno di atrofia. «Si tratta della dichiarazione di un testimone», continuò Sejer. «Un'affermazione che siamo costretti a verificare.» «Un testimone?» disse Brein laconico, «che intende dire?» «Dei testimoni affermano di averla vista nel bosco di Linde. Domenica 4 settembre, il pomeriggio. L'hanno vista mentre superava la sbarra diretto alla macchina. È passato molto tempo, ma la prego di ripensare a quel giorno.» Il volto di Brein si fece cupo, le guance bluastre si incavarono ancora di più. «Lo so che è difficile ricordarsi quando è passato così tanto tempo, ma faccia uno sforzo», insistette Sejer. In modo teatrale Brein alzò gli occhi al cielo. «Secondo me siete proprio fuori strada», borbottò. «Non avete gli occhi?» Picchiò con le mani le ruote della carrozzina. «Mi deve scusare», continuò Sejer, «ma immagino che la carrozzina sia necessaria soltanto in certi momenti, mentre in altri è in grado di muoversi da solo, visto che l'hanno notata al supermercato ICA. Del resto lei guida una vecchia Toyota, che non è particolarmente attrezzata per gli handicappati. O sì? Ha niente in contrario se le do un'occhiata?» Con il capo accennò all'auto. Brein fece una smorfia. «Le mie gambe non mi sorreggono», affermò. Sejer annuì comprensivo. «Certo, ma evidentemente con qualche eccezione. Forse il 4 settembre, magari si sentiva meglio e si è recato a Linde...» «Mi è impossibile camminare con quest'anca», replicò Brein mentre si portava una mano sul fianco destro con un'espressione di dolore.
«È stata distrutta da una Volvo mentre attraversavo sulle strisce pedonali. L'arto è di acciaio inossidabile e fa male.» «Ah sì», disse Sejer con estrema gentilezza. «Forse aveva qualcosa da sbrigare lassù?» «Di cosa sta parlando?» domandò Brein. Adesso gli occhi erano sfuggenti, guardavano l'aia, il fienile e il trattore parcheggiato. «Jonas August Løwe ed Edwin Åsalid», precisò Sejer. «Abbiamo chiesto al responsabile della loro scomparsa di presentarsi alla polizia, la nostra richiesta è apparsa più volte su tutti i giornali e i canali televisivi. Lo stiamo cercando da quattro mesi.» Brein appoggiò le mani sulle ginocchia: erano grandi e con le unghie gialle. «L'ho letto sul giornale», disse. «I due bambini.» Cercò di raddrizzarsi sulla carrozzina con fatica esagerata. «Se ne è parlato ovunque. Huseby è stata assediata dai giornalisti per parecchie settimane. Non riesco a capire come tutto questo abbia a che fare con me, perché mi importuniate. È la seconda volta che venite a bussare alla mia porta. Adesso credo di avervi detto tutto quello che dovevo.» «Il 4 settembre si trovava a Linde?» insistette Sejer. «A volte giro in macchina e conosco quella zona perché abitavo alla fattoria di Linde, da bambino. Affittavamo l'edificio dove si faceva la birra.» «Ha incontrato una coppia?» domandò Sejer. «Sulla trentina, proprio vicino alla sbarra del parcheggio?» «A quanto pare, lei ci sente male», ribatté Brein. «Io non ero là il 4 settembre, mi faceva male l'anca.» Skarre fece un passo in avanti. «L'hanno vista», disse con autorità. Brein strinse le ruote. «In questo caso si sono sbagliati», concluse. «Ci faccia entrare», pregò Sejer, «per parlare un po'. Lei è molto importante per noi perché, se era lassù, può aver visto qualcosa di decisivo.» «Non ho visto niente.» «I testimoni hanno notato che lei camminava a fatica», riprese Skarre. «Perché è così, vero?» Brein si strinse nelle spalle. «Ci sono anche tante altre persone che trascinano la gamba», commentò. «Naturalmente», osservò Skarre, «ma abbiamo buoni motivi per credere che fosse lei. Si tratta del suo aspetto. Cosa doveva sbrigare lassù, ci può
dire qualcosa al riguardo?» Brein pescò un pacchetto di sigarette dalla tasca della camicia. I due poliziotti seguirono i suoi movimenti mentre si infilava la sigaretta in bocca, trovava un accendino di quelli usa e getta e accendeva per poi inspirare avidamente. «Mah, che faccende ha da sbrigare un uomo nel bosco?» disse Brein. «Lamponi e roba simile, magari?» Sejer non rispose. Il fatto che Brein si fosse acceso una sigaretta stava forse a indicare che intendeva continuare a parlare, per questo rimasero fermi. «Siamo seri, io non giro più di tanto per il bosco», affermò Brein indifferente. La brace della sigaretta sfavillava sul suo viso pallido. È perfetto, pensò Sejer, conferma tutti i nostri pregiudizi, eppure potrebbe essere innocente. Dobbiamo stare all'erta. «Se le venisse in mente altro», disse Sejer, «di cui sente il bisogno di raccontarci, l'accoglieremo a braccia aperte.» «Belle parole, sarà fatto», commentò Brein. Sejer meditò sull'inquietante dato di fatto che non avevano nessun motivo per portarlo in Questura e interrogarlo. Era stato visto nella zona interessata, ma non era mai stato condannato prima e niente lo legava al crimine commesso. Mi rimane soltanto una carta da giocare, pensò, e la uso adesso. «Esiste un modo molto semplice per concludere questa faccenda», cominciò. «Ma implica una certa cooperazione da parte sua.» «Concludere sarebbe perfetto», rispose Brein. Adesso si sentiva maltrattato, come se lo stessero tormentando ingiustamente mentre lui soffriva già abbastanza nella vita. «La situazione è questa», riprese Sejer. «Abbiamo degli indizi. Con un piccolo contributo da parte sua, potremmo escluderla.» «E che cosa vuole che faccia?» «Che di sua volontà si sottoponga a un test della saliva.» Ci fu silenzio. Gli occhi di Brein si assottigliarono. «Non accetto di essere trattato come un criminale», esclamò rabbioso. «Anche un test del DNA servirebbe a provare la sua innocenza», aggiunse Skarre. «Non ho ucciso nessun bambino», disse Brein irato. «Questa è la pura e semplice verità. Non ho altro da dire!» Buttò via la sigaretta e si ritrasse nel corridoio. Faticò a lungo prima di
riuscire a chiudere la porta, che dopo una serie di goffi tentativi si serrò con fragore. Sejer e Skarre si guardarono con un ampio sorriso. «Cosa pensi che dirà la corte?» chiese Sejer. «Possono respingere l'accusa.» «Sì, ma non stiamo facendo niente di offensivo.» «No.» «E in questo Paese esiste la libera presentazione delle prove, no?» «Sì.» «E nessuno può dire che abbiamo ingannato Brein. O che gli abbiamo teso una trappola.» «No, non possono.» «Siamo stati semplicemente fortunati. E se troviamo una corrispondenza?» «Saranno problemi della difesa», concluse Skarre. «Rischiamo.» «Rischiamo», ripeté Sejer. Si accovacciò per studiare la sigaretta con il filtro scagliata per terra da Brein. «Hai un sacchetto?» 38 Sejer osservò le foto di Edwin e Jonas August. «Ci hai pensato che ci vogliono tre Jonas per fare un Edwin? Jonas pesava ventotto chili, Edwin quasi novanta», disse. Skarre li guardò: il piccolo e minuto, e il grande e grasso. «Se la gente sapesse che ce ne stiamo qui a giocare... Dove vuoi arrivare?» commentò. «Non sto giocando. Si tratta di un dato di fatto.» «Significa qualcosa? Che sono due estremi?» «Non credo che abbia un significato particolare. Stavano camminando lungo la strada quando il pedofilo è arrivato in macchina. Sono saliti entrambi sull'auto, forse lo conoscevano. Dubito che sapessero chi fosse Brein, ecco perché non sono sicuro. Però la storia della sedia a rotelle non me la bevo.» «Ma la gente non si tiene in casa una carrozzina se non ne ha bisogno», argomentò Skarre. Era irrequieto e si mise a camminare su e giù per la stanza.
«Pensa se Brein scappa mentre noi stiamo qui a perdere tempo.» «Non stiamo perdendo tempo», ribadì Sejer, «e non penso proprio che andrà da nessuna parte. Con quell'anca malmessa. Devi riflettere: adesso stai scommettendo tutto su di lui. Non farlo, potresti rimanere deluso.» Skarre andò alla porta. «Vieni, usciamo. Parliamo mentre camminiamo. Ho bisogno di un po' d'aria. Deve esserci pur qualcosa con questo Brein. Ora non sopporterei un altro vicolo cieco, dopo tutto questo tempo.» Si diressero verso il centro. Aveva nevicato ancora, uno strato sottile simile a cipria. La vista della neve li depresse, pensarono a Edwin Åsalid e sulla loro retina apparve l'immagine di un corpo congelato abbandonato in un fossato. «Secondo te Brein è il nostro uomo?» chiese Sejer. «Conferma tutti i nostri sospetti e pregiudizi?» «Vive dell'assistenza sociale. Solo. Ha problemi economici, è vestito male, è quasi incapace di sostenere una conversazione con delle persone adulte. Sciatto, ha l'aspetto del perdente. Certo che è adatto, anche se dietro questa facciata potrebbe nascondersi qualcos'altro che per ora non abbiamo rilevato. Qualcosa di nobile, per esempio.» «Di nobile? Perché nobile?» «Non lo so. Non volevo essere prevenuto, ma probabilmente è troppo tardi. Anche tu l'hai visto, ti sarai fatto un'opinione.» «Tutti gli esseri umani sono prevenuti», constatò Sejer, «è una parte importante del nostro meccanismo di difesa. Cosa hai pensato quando eravamo sulla scala di Brein? La prima cosa. Sii onesto.» «Forse è lui. Forse ha ucciso Edwin e Jonas August. E tu?» «Magari è innocente. Dobbiamo stare attenti.» «Lo sapevo», disse Skarre. «Sei un uomo migliore di me.» Alcuni fiocchi di neve caddero sui capelli grigi di Sejer. Il suo profilo affilato si stagliava nitido contro tutto quel bianco. «Non abbiamo nulla da temere, viviamo in uno stato civile. Se il DNA combacia, Brein riceverà tutta la difesa a cui ha diritto. Sarà trattato in modo umano e avrà un mucchio di tempo per esporre la sua versione. Jonas August invece no, tanto meno Edwin. Hanno perso la vita, loro, e hanno subito una morte crudele. Erano soli e avevano paura. Ci penso molto.» «Io no», ammise Skarre, «raggelo al solo pensiero.» «A volte serve», disse Sejer, «bisogna ricordarsi del crimine e di quanto è stato doloroso. Oltre al nostro dovere di poliziotti.»
«Che tipo di dovere implica il nostro lavoro?» «Be', quello di intervenire per ripristinare l'onore e la dignità.» «Ma senti! Non ne siamo capaci. Noi mettiamo soltanto a posto, Konrad.» «Non sottovalutare né te stesso né la tua missione.» «Cosa credi che dirà il procuratore?» «Che Jonas August è morto in circostanze particolarmente aggravanti, da cui ne consegue la pena richiesta. Ma chi siederà al banco degli imputati, se riusciremo a prenderlo, sarà occupato a salvarsi la pelle. Per carità, è un suo diritto, ma io spero che si penta. Ce n'è molto poco, di pentimento, nelle prigioni norvegesi. Il rimorso aiuterebbe chi è rimasto. Se ne abbiamo la possibilità, noi esseri umani siamo delle creature dotate di grandezza d'animo.» «La pensi davvero così?» «È un'idea che mi conforta.» Skarre si chinò per prendere della neve e fare una palla durissima. «Intanto ce ne stiamo qui ad aspettare l'analisi del DNA mentre Brein gira in carrozzella nella sua felice ignoranza. Da diventare pazzi.» 39 Elfrid Løwe era passata alla Questura e rimase a lungo a parlare con Jacob Skarre, che la stava ad ascoltare attento e gentile con una mano sotto il mento. «Jonas era così sveglio e dolce, veloce come uno scoiattolino, su e giù dalle scale rapido come il vento. Curioso, entusiasta e positivo. A volte mi guardava con quei suoi occhioni azzurri, affamati d'amore. Aveva bisogno di molte attenzioni, e io gliele davo, eravamo soltanto noi due. A scuola era silenzioso e timido; l'insegnante me lo ripeteva sempre quando andavo al colloquio dei genitori. Jonas è un po' passivo, mi diceva, sarebbe bello se si facesse valere di più durante le lezioni. Soffriva di numerose allergie, ma era bravo a prendere le medicine da solo, io avevo sempre paura di un attacco d'asma. E poi era minuto di costituzione, forse era questo a trattenerlo. Diventerai sicuramente grande e forte tra qualche anno, gli ripetevo, come farebbero tutte le mamme per non deludere i propri figli. Quando hanno problemi con qualcosa, è come se anche il nostro corpo ne sopportasse il peso. Ma era buono come un pezzo di pane, educato e gentile... Se un adulto gli ha chiesto qualcosa, per esempio di salire in macchina, per-
ché è quello che è successo, no? avrebbe obbedito fiducioso, perché io gli ho insegnato a comportarsi amichevolmente con tutti. Adesso penso che sia tutta colpa mia. Che sarebbe ancora in vita se fosse stato un bambino scettico e riservato. Invece lui pensava bene di tutti e questo lo ha condotto alla morte, non riesco a vederla in altro modo. Mi sento colpevole ogni ora del giorno, e porterò questa colpa dentro di me nella tomba. È venuto il prete. Io apro, non voglio ferirlo, è lì davanti a me desideroso di aiutare. Mi dice che soltanto una persona ha colpa, l'assassino. Dice che mi devo ricordare di Jonas con felicità e provare gioia nei ricordi, e lo faccio, perché sono ricordi belli, ma è dura. Quando vedo altre madri con i loro figli mi viene voglia di urlare. Se avessi avuto un altro bambino, avrei avuto qualcosa per cui lottare, invece adesso rimango seduta a guardare fuori dalla finestra. Le mani inoperose in grembo, nessuno ha bisogno di me, nessuno mi chiama. Non ho bisogno di andare a dormire la sera, né di alzarmi al mattino, niente mi spinge a vivere. «Tutte le sere mi siedo su un angolo del suo letto. Si rannicchiava sempre sotto il piumone mentre i suoi occhi imploravano conforto e incoraggiamento, ne aveva tanto bisogno. Poi parlavamo della giornata trascorsa e di quella futura. Trovavo sempre qualcosa di bello, qualcosa che gli permettesse di addormentarsi con il sorriso sulle labbra. Preparare una buona cenetta, vedere insieme un film, noi due, seduti stretti stretti sul divano. Tutti i bambini si meritano un momento di felicità ogni giorno, tutti i bambini meritano di essere portati in palmo di mano. Il momento peggiore è quando vengo sopraffatta dai pensieri e comincio a fantasticare sull'ultima ora della sua vita. Cosa ha dovuto subire. Le immagini che appaiono sono così orribili da togliermi il fiato. Non so se spingermi fino in fondo in modo da provare la stessa sofferenza di Jonas, o se trattenermi. Il prete dice che tutto è finito, che Jonas non soffre più, che soffro solo io, ed è vero. Per me il funerale è stato molto bello: l'organo e i fiori, e la poesia di Gefen letta ad alta voce dall'insegnante. Ho dovuto tradurla a mamma e papà perché non capiscono l'inglese. «Mi reco ogni giorno alla sua tomba. Ci ho messo un'eternità a scegliere la pietra, nessuna era bella abbastanza. Quella che ho trovato era troppo cara, sono stata costretta a sottoscrivere un mutuo, ma in banca sono stati gentili e mi hanno concesso delle buone condizioni di pagamento. Tutti hanno sentito parlare di Jonas. È una pietra a forma di cuore e nel cuore c'è un buco dove la sera si accende una luce. «Sotto il suo nome c'è scritto:
ERI IL MIO ANGIOLETTO. ADESSO È TUTTO COSÌ SILENZIOSO. «A volte, quando arrivo dalla chiesa, vedo qualcuno fermarsi davanti alla tomba di Jonas con un atteggiamento che esprime timidezza e curiosità. La cosa non mi disturba, mi piace che la gente pensi mentre se ne sta lì, e aspetto fino a quando se ne sono andati per non metterli in imbarazzo. Ho dato disposizione di essere un giorno sepolta accanto a lui. Giacere stretti l'uno all'altra, non vedo l'ora. Non ho paura di morire. Se Jonas c'è riuscito, ci riuscirò anch'io. Non so molto dell'eternità, ma forse è bella. E io parlo e parlo mentre lei mi ascolta con espressione rispettosa. Forse sta pensando che ce la farò perché trovo le parole. In realtà provo un grande terrore del silenzio.» 40 «Ci hai fatto caso?» disse Skarre. «Arriviamo sempre troppo tardi.» «Cosa intendi dire? Troppo tardi?» chiese Sejer. «Quando arriviamo, la tragedia si è già consumata. Qualcuno ha perso il controllo, ed è accaduto il peggio. Non siamo neanche in grado di alleviare la disperazione. Non è deprimente?» Sejer sorrise con simpatia. «Forse avresti dovuto fare il pompiere, se quello che vuoi è salvare vite umane.» Skarre prese a camminare in cerchio con impazienza. Stavano aspettando un fax su cui sarebbe apparsa la risposta relativa al test della saliva di Brein. Avevano pagato un supplemento al laboratorio per ottenere subito i risultati. «Cosa facciamo con Edwin?» domandò Skarre. «Anche se contro tutte le aspettative troviamo un riscontro positivo, non possiamo collegare Brein a Edwin.» «Lo so. Sarà un lungo inverno.» «A proposito, mi ero dimenticato», esclamò Skarre. «Ero seduto in una caffetteria con degli amici e in un angolo c'era qualcuno che ho riconosciuto.» «Sì?» «Ingemar Brenner.»
«Il fidanzato di Tulla Åsalid?» «Il fidanzato di Tulla Åsalid, insieme a una ragazza giovane. Avrà avuto vent'anni meno di lui. Bionda, avvenente ed esuberante.» «Allora è finita con Tulla», commentò Sejer. «Se ne sarà trovata una nuova.» «O la tradisce, come succede spesso. Non ci voglio pensare, vista la situazione.» «Calma, magari era una parente. Sono tante le cose che non sappiamo.» «I parenti non pomiciano come facevano loro», ribadì Skarre. «Secondo me dovremmo avvisare Tulla, glielo dobbiamo. Non ha bisogno di altre disgrazie oltre a quelle che ha già.» «Siamo poliziotti», disse Sejer, «non possiamo impicciarci della vita amorosa della gente.» «Ma non si tratta d'amore», insistette Skarre, «lui è a caccia di soldi.» «Ricordati che Brenner ha scontato la sua pena, gli va data una possibilità.» Skarre scosse la testa. «È Tulla a meritare una chance.» «Va bene, mi arrendo. Vedremo se ci sarà un'occasione adatta per informarla.» Skarre tornò al fax, si chinò a guardare. «Cosa stai combinando?» «Evoco una risposta», spiegò Skarre. «Noi esseri umani possediamo tante energie psichiche che non usiamo mai. Lo faccio adesso.» Sejer lo osservò dubbioso. «Sentì un po'. A te non piace Wilfred Brein. Per te è un individuo falso e odioso, ti andrebbe bene se fosse il colpevole. Elfrid Løwe otterrebbe un po' di pace e la comunità si sentirebbe felice e sollevata. Ma il fatto che un uomo si comporti astiosamente verso la polizia non lo rende colpevole. Molti non si sentono a loro agio con quelli come noi.» «Perché mi fai la ramanzina?» «Perché rimarrai deluso. Se anche Brein si trovava nel bosco, ciò non lo collega al delitto. Inoltre ha un'anca dolorante.» «Va bene, il che significa che ha rapito Jonas August in un giorno di grazia.» Andò alla porta aperta sul corridoio. «Vieni», disse, «andiamo giù in mensa.» Si sedettero vicino a una finestra a bere acqua minerale, ostentando una
calma che non possedevano. Aspettarono. Osservarono le persone che andavano e venivano o studiavano i fiocchi di neve che cadevano all'esterno ascoltando i rumori attutiti del locale, il tintinnio dei bicchieri e delle posate, conversazioni a bassa voce. Si sentiva l'odore del caffè. Skarre si mise a piegare un tovagliolo, Sejer giocherellava con il cellulare, nessuna chiamata, nessun messaggio. Aspettarono. A volte i loro sguardi si incrociavano per poi ritornare alla finestra, alla neve che cadeva. Alla fine non ce la fecero più a reprimere la curiosità e ritornarono in ufficio, dove si accomodarono ognuno nella propria sedia girevole immersi nei propri pensieri. Rimasero zitti a lungo e in quel silenzio carico di tensione il fax prese a funzionare. I due balzarono in piedi. Sejer strappò il foglio e si appoggiò alla parete, scorse rapidamente le poche righe. Poi abbassò la mano. «Allora?» domandò Skarre. «Ci siamo, trovato il riscontro. Una prova sicura, inconfutabile.» 41 Brein aprì la porta, in piedi sulle proprie gambe, ma quando gli esposero il motivo della visita, si accasciò sullo stipite. «No», urlò, «dovete smetterla!» Gli concessero qualche minuto per sbrigare le faccende pratiche, come trovare le medicine anticoagulanti che a suo dire erano importantissime. Chiese di telefonare a suo padre, ma la richiesta gli fu negata. Dopo essersi infilato un pacchetto di sigarette in tasca, li seguì e nell'arco dei trenta minuti che trascorsero in auto non disse una parola. Sejer lo osservò dallo specchietto. Sembra un bambino che viene rapito, pensò. Alla Questura lo misero in una cella, dove rimase quatto ore seduto a un'estremità della panca con gli occhi puntati sul grembo dove teneva le mani venate di blu. Più volte andò alla finestra per guardare fuori. La cella dava su un cortile interno, con una baracca ricoperta di mordente marrone e alcune volanti parcheggiate. Lungo la parete della baracca c'era una fila di cassonetti verdi. Camminò avanti e indietro, non doveva fare tanti passi prima di dover girare. Pensò a quelli che erano stati rinchiusi lì dentro prima di lui, ladri e rapinatori, assassini, non aveva nulla a che spartire con loro. Si risedette e congiunse le mani. Nessuno veniva a controllare se stava bene, non era loro dovere? Gli avevano promesso qualcosa da mangiare, ma non gli avevano portato niente. Avvertì un bisogno repentino di sdraiarsi e chiudere gli occhi, ma poi pensò che sarebbe stato come arrendersi e lui non voleva
arrendersi, voleva lottare. Rimase seduto sul bordo a disperarsi, ascoltando i rumori esterni, il traffico, le voci e le grida. Di tanto in tanto sobbalzava violentemente mentre il cuore si impennava, si era assopito per poi risvegliarsi con una scossa. Una tazza di caffè sarebbe stata perfetta, pensò; voleva un essere umano, una voce. Le quattro ore divennero un peregrinare continuo tra la finestra e la panca mentre si sforzava incessantemente di prepararsi a quello che sarebbe successo. Ascoltatemi, avrebbe detto, posso spiegare, non è come credete! Sembravano abbastanza amichevoli e corretti, e poi avevano delle regole a cui attenersi, ma lui non si sarebbe comportato da ingenuo, né da debole; non lo avrebbero incastrato, inchiodato a qualcosa che non era vero. Per un attimo fu preso dallo sdegno per quando era avvenuto. Era stato trascinato dalla vita stessa, la tentazione gli era capitata tra le mani e lui si era comportato come gli ordinavano i sensi e le voglie, era come lasciarsi cadere in una piena e farsi trascinare dalla corrente. Lui non era forse umano? Sentì il calore crescergli nel corpo, poi si afflosciò ritornando nel suo stato pietoso perché conosceva dentro di sé la risposta. Non gli avrebbero mostrato nessuna pietà, lo avrebbero martellato con le loro accuse, lo avrebbero trascinato nel fango come qualcosa di inferiore. Disperato, cercò di trattenere la propria rabbia, ma l'ira si dissolse e lui chinò la testa per la vergogna. 42 Wilfred Arent Brein non era un bell'uomo, la natura non era stata generosa con lui. Aveva un volto magro con le guance incavate e labbra sottili e incolori. Si vedeva che era consapevole dei suoi difetti, lo sguardo era sfuggente e spesso lasciava spazio a un'espressione imbronciata. «Mi è stato promesso da mangiare», esordì. Sejer non poté fare a meno di pensare a un cane abbandonato che mendicava. «Ah sì? Le hanno promesso del cibo? Ci pensiamo noi. Tra un po'.» Osservò Brein. «Ha mangiato poco negli ultimi tempi?» Brein lo guardò corrucciato. «Lei mi deve una spiegazione.» Cercava di apparire deciso, ma in quella voce esile non c'era molta forza. Sejer mise in ordine una pigna di carte sul tavolo, guardò l'ora, lesse alcune frasi su un foglio. «Perché ha mangiato poco?»
«Sono affari miei quanto mangio», rispose Brein. Fece un movimento con la testa, nervoso, ripetitivo. «Certo, volevo soltanto essere cortese. Probabilmente ha dovuto penare molto...» «Convivo con alcuni dolori», disse. «Da molti anni. Ci sono giorni in cui rimango sdraiato sul divano a lamentarmi. Ma lei mi deve spiegare perché mi trovo qui, me lo deve.» «Io non le devo niente», replicò Sejer, «per il momento. Ma se ho commesso un errore riceverà le mie scuse. Per ora non ne ho fatti.» Poi aggiunse con voce gentile: «Conosceva Jonas August?» Brein cedette subito. Non era sua intenzione, sapeva di dover essere forte per salvarsi, ma quel nome gli risuonò all'orecchio come il tocco di un orologio e crollò. La stanza in cui sedevano era bianca e spoglia, priva di finestre. Li divideva un vecchio tavolo giallo con la vernice scrostata. C'era un che di misero, in quei mobili, come se li avessero raccattati in un magazzino dell'usato. Sul soffitto c'era una lampada al neon che diffondeva una luce cruda sul pavimento di pietra, una telecamera era posizionata in un angolo. La lente lo seguiva come un occhio malvagio, di malaugurio. Sejer ripeté la domanda. «Conosceva Jonas August?» «Mi deve spiegare perché sono qui», obiettò Brein. «Non capisce perché l'abbiamo arrestata?» «Sì. Cioè, voglio dire, non potete semplicemente prelevare la gente senza preavviso e sbatterla in cella», si lamentò. «Sì», rispose Sejer, «possiamo, e adesso vengo al punto. Non perdiamo tempo, e poi lei ha fame. Si tratta di Jonas August Løwe. È stato trovato il 4 settembre nel bosco di Linde. Il medico legale ha confermato che ha subito violenza che ne ha causato la morte. Noi siamo in grado di collegarla a quel crimine grazie a delle prove certe. Lo conosceva?» Brein scosse incredulo il capo. Non riusciva ancora a comprendere la situazione. La sicurezza di Sejer lo spaventava, la calma e la superiorità del poliziotto erano minacciose. «Prove certe?» balbettò. «No, non ci casco.» «DNA», spiegò Sejer. Brein frugò febbrilmente nella memoria, ma non era in grado di cogliere il nesso. «Io non sono stato sottoposto a nessun test, lei vuole farmi cadere in trappola.»
«Lo è già. E se le interessa raccontarmi la sua versione dei fatti, sfrutti questa occasione e ne approfitti. A Jonas August questa chance è preclusa.» Brein mosse nuovamente il capo. «C'è qualche diavoleria.» «No, è semplice.» Sejer fece un nuovo tentativo: «Lo conosceva?» «Non ho ucciso i bambini», disse Brein. «Non ho detto che l'ha fatto.» «Ma è quello che credete. Voi siete convinti che io abbia ucciso Jonas ed Edwin, ma non sono stato io!» «Faremo in modo che la verità salti fuori, ma lei deve collaborare.» «Va bene. Però deve credere a quello che le dico perché è la verità. Non conoscevo Jonas, anche se l'avevo visto qualche volta per strada, un piccoletto dalle gambe esili e i pantaloni troppo grandi.» Si mise a grattare con l'unghia una screpolatura del tavolo e, mentre parlava, evitò lo sguardo indagatore di Sejer. «Non si può nascondere che ho guidato in giro per le strade per guardare i bambini. Ma noti quello che le sto dicendo: per guardarli, e basta. So cosa crede, ma si sbaglia di grosso.» «Lei non sa niente di ciò che credo, continui.» «Non posso farci niente se mi piacciono i bambini. È sempre stato così. Non ho mai avuto il coraggio di confessarlo a nessuno, immagino che capisca, ho tenuto tutto dentro, è stato pesante. Troppo da sopportare per un ragazzino, perché avevo soltanto dieci anni quando ho capito. C'era un bambino nella fattoria vicina di cui mi ero innamorato, aveva sei anni e, quando era nelle vicinanze, impazzivo. Non riuscivo a stare né in piedi né seduto.» «Allora cosa faceva?» domandò Sejer. «Lo guardavo di nascosto, sognavo, fantasticavo. Quando siamo nel bisogno, troviamo le soluzioni.» «Così preferisce i maschi?» «Sì, mi piacciono i loro corpi minuti, i loro scheletri esili. Mi piace che siano paurosi e timidi; mi piace tutto di loro, mi piace il loro odore, il suono e il sapore.» Era infervorato, le guance avevano preso colore. «Che sapore hanno?» voleva sapere Sejer. Il suo viso era serissimo. «Mah, che dire?» Chinò la testa di lato: «Di mela acerba».
Dopo quella confessione cadde il silenzio. Si sentiva soltanto il debole ronzio del neon. «Posso fumare qui dentro?» domandò speranzoso. «No.» Seguì una nuova pausa di silenzio. Sejer aspettava. Ci sarebbe voluto tempo per scoprire la verità, ma non importava. Voleva arrivare fino in fondo, ricostruire il crimine in ogni minimo dettaglio; intendeva soppesarlo e misurarlo, girarlo e rigirarlo alla luce. Il cuore gli batteva piano e si sentiva bene perché lì dentro era unico. Come diceva Skarre, in quella stanza sapeva estrarre acqua da un sasso. «Durante la sua giovinezza ha vissuto episodi difficili?» chiese Sejer. «Fa bene parlarne.» Brein lo guardò disilluso. «Tutto era difficile. Quando sono diventato adolescente, è cominciato il tormento. Non hai la ragazza? Non sei innamorato di nessuna? Sarebbe ora... Zie e zii.» «Conosco.» «Ovviamente divenni sempre più solo», continuò Brein. «Non ce la facevo a tenere il ritmo. Passavo molto tempo in solitudine, e poi mi vergognavo profondamente di tutto quanto. Non si possono raccontare certe cose, come dite voi. Non potete capirne la gravità.» «Sì invece. Mi riferisco alla gravità.» «Quello che gli altri danno per scontato, io lo posso sognare e basta», commentò Brein. «L'amore non è un fatto scontato», lo corresse Sejer. «No?» «Il mondo è pieno di persone che osservano la gioia altrui.» Brein sbarrò gli occhi: «Si guardi intorno. Ci sono coppie dappertutto, camminano appiccicati per strada, non riesci quasi a sostenere quella vista». «Tanti cammino soli. Lei non è l'unico in questa situazione. Forse lei vive nella convinzione che tutti gli altri realizzino i propri desideri. Non è così. Com'è stata la sua vita da bambino?» «Brutta», sbottò Brein amaramente. «Non voglio giustificarmi, ma è giusto che qualcuno sappia com'era. Magari penserà che mi picchiassero, ma non mi hanno mai sfiorato con un dito: era molto peggio. C'erano solo gelo e ostilità. Mia madre passava il tempo a sgridarci di continuo. Era una corrente continua di rimproveri, di critiche. E faceva un baccano terribile,
sbatteva le porte, si muoveva pesantemente per la casa con i suoi fianchi larghi e ingombranti. E poi aveva questa idea fissa che bisognasse sempre dire la verità, non voleva essere falsa. Per questo diceva sempre quello che pensava. La verità a tutti i costi e in qualunque situazione. La verità nel negozio, la verità oltre la siepe del vicino, ai venditori porta a porta e a me. Che io non ero bello, che non ero abbastanza intelligente. Criticava in continuazione me e mio padre. Papà spariva di casa a ogni minima occasione, trovava delle faccende da sbrigare qua e là, non sopportava queste eterne lavate di capo. Quei due erano anche strani perché mia madre era corpulenta e mascolina e parlava ad alta voce, mentre mio padre era delicato e più simile a una donnetta. Insomma, in quella casa era tutto sbagliato, come avrà capito. A volte mi chiudeva fuori. Se ritardavo, se mi aveva imposto un orario e io non ero preciso, ero costretto a starmene seduto sulla scala fino a quando si degnava di aprirmi. Poi mi guardava con aria innocente dicendomi: 'Ma come mai sei qui seduto?' Una volta, era inverno, per il gelo rimasi attaccato al gradino più alto. Un'altra volta rinunciai a entrare e andai nella cantina, dove trascorsi tutta la notte sdraiato su alcuni vecchi sacchi di iuta.» Brein batté le mani impotente. «Tempi tristi per un bambino.» «Sua madre è ancora viva?» domandò Sejer. «Si era ammalata di cancro. Il suo corpo era pieno di metastasi. Una ce l'aveva dentro la cavità oculare, le premeva l'occhio all'infuori in modo orribile, sembrava che dovesse saltare fuori da un momento all'altro. Non sapevo dove guardare. Qualcuno potrebbe dire che ha subito la giusta punizione per il suo comportamento perché è stata costretta a letto per più di un anno in preda a dolori indicibili. Non so quante ore sono rimasto seduto accanto a lei, in attesa, mentre ascoltavo il suo respiro, sperando con tutto il cuore che morisse. Invece superava sempre le crisi e ricominciava a lamentarsi e tormentarmi. Ricordo bene l'ultimo attimo di vita. Mi ero assopito su una sedia, di colpo lei aprì gli occhi urlando: 'Adesso basta!' Fu il suo ultimo anatema, poi spirò.» «Come ha trovato sfogo al suo desiderio?» chiese Sejer. «Immagino che abbia elaborato un modo.» Brein intrecciò le mani sul tavolo, le dita erano lunghe e sottili con le nocche aguzze. «Usavo le foto che trovavo sui giornali e sulle riviste, immagini di bambini piccoli. In pigiama o in costume da bagno. Poi tiravo avanti. Ma, quando sono diventato adulto, ho deciso di crearmi una vita normale, come
quella che avevano gli altri. Ho dei parenti a nord e durante un viaggio a Kirkenes ho incontrato una russa. Ne arrivano molte dal confine per motivi e scopi diversi, comunque Irina vendeva i pizzi al mercato. E se c'è qualcosa che le donne russe sanno fare è ricamare.» Lanciò un'occhiata veloce a Sejer come per cercare qualche segno di disprezzo, invece vide soltanto serietà e pazienza. «Siamo entrati in qualche modo in contatto e le ho offerto una tazza di tè. Abbiamo parlato per ore. Ci siamo sposati tre mesi dopo e sono nate due figlie.» «È in contatto con loro?» «No.» «Avrebbe voluto mantenerlo?» «Non ho nessun altro, ma Irina mi ha messo in cattiva luce, non sono interessate a me. Mi domando cosa abbia detto loro. Non ho avuto il coraggio di chiedere.» «Come si chiamano? Quanti anni hanno?» «Rita e Nadia, diciannove e ventidue anni.» «Sente la loro mancanza?» Brein sospirò. «Sa com'è. Non ne vogliono sapere di uno come me. Sono brave ragazze, meglio che me ne stia alla larga.» «È quello che pensa? Nascondersi?» «Sì, esatto. E lo pensa anche lei. Se si potesse, ci butterebbero in mare.» Sejer lo guardò calmo. «Esistono delle ragioni evidenti per cui lei ha sviluppato la natura che ha. Forse non è detto che debba vergognarsene. Alcuni eventi sono stati al di fuori del suo controllo, capita a tutti. Però nei confronti della legge, ha il dovere di pagarne le conseguenze. Cosa che non ha fatto, vero?» Sejer lo penetrò con gli occhi. «Jonas August è morto», disse. Brein annuì. «Non riesco a sopportarlo», sussurrò. «Cosa è successo con il suo matrimonio?» chiese Sejer. «È fallito, ovviamente. Come sa, avevo altri desideri. Mi sembrava di recitare una parte, ero falso e spregevole. Irina si sentiva trascurata, così si è creata tra di noi una distanza che è cresciuta di anno in anno. Ho messo un freno ai miei istinti e alla fine ero completamente sfinito. Lei non sa cosa significa, è sfibrante.» Sejer annuì. «Un bel giorno ha preparato le valigie e se ne è andata, mentre io sono
rimasto completamente solo. È stato come se tutte le reti e i lacci si fossero spezzati e niente poteva più fermarmi; ero furibondo e arrabbiato e impaurito, non ero in grado di vedere chiaramente. Gli altri giravano felici, orgogliosi dei propri sentimenti, che consideravano buoni. Pensavo lo stesso dei miei. Sedevo in macchina a guardare i bambini da lontano mentre sognavo e fantasticavo.» «Spesso si fermava davanti alla scuola Solberg, vero?» «Sì, mi piaceva il momento in cui suonava la campanella e tutti si riversavano nel cortile, come tante caramelle che uscivano da un sacchetto.» «Ma non li ha mai toccati, ho soltanto parlato loro dal finestrino?» «Mi sono sempre trattenuto. Ho quarantasette anni e mi sono sempre trattenuto. Lo ammetto.» «Li ha mai invitati a salire in auto?» «Non osavo. Non mi fidavo completamente di me stesso. Poi andavo a casa e sedevo da solo in soggiorno, solo con il desiderio e la mancanza. È dura. È come se qualcosa ti divorasse dentro.» «Che lavoro faceva prima di diventare invalido?» «Ero infermiere generico, sono abituato a prendermi cura delle persone. Il lavoro mi piaceva molto, mi sentivo importante. Poi ho avuto la sfortuna di essere investito mentre attraversavo sulle strisce pedonali e sono rimasto menomato. Otto anni fa. Da quel momento sono rimasto quasi sempre chiuso in casa. L'unica vita sociale che ho è quando vado di tanto in tanto a fare la spesa. Guardo la televisione a ogni ora del giorno e della notte.» «Cosa c'era di diverso con Jonas August?» domandò Sejer. «Alla fine lei ha fatto una scelta permettendogli di salire in macchina. Me ne parli.» Brein si aggrappò alla superficie del tavolo. «Sì, le dirò come sono andate le cose. Sono stanco di tutte queste voci, che sono un serial killer o peggio... Non ci sono limiti a quello che hanno pubblicato i giornali. Stavo girando in macchina senza meta e senza scopo. Non ho pianificato nulla, ma ho avuto un momento di debolezza. Avevo superato la collina di Solberglia e sono entrato nel bosco, c'era un grande silenzio. Né persone, né automobili, soltanto i campi verdi di cavoli. Su quella strada c'è poco traffico, ho superato un paio di fattorie e qualche casa e avevo la sensazione di essere solo, intendo dire solo al mondo. Sa, chi è diverso soffre di solitudine. Sempre. Guidavo piano ammirando il paesaggio. Magari lei non crede che persone come noi possano apprezzare queste cose, pensa che abbiamo un unico pensiero in testa, ma non è così.» «Non mi sottovaluti», replicò Sejer.
Brein alzò gli occhi sorridendo all'improvviso. Il sorriso gli faceva splendere gli occhi e addolciva i tratti del volto, e in un attimo Sejer vide che Brein aveva un altro lato: qualcosa che poteva apparire attraente a un bambino. «Ho notato un ragazzino in pantaloncini rossi. Camminava sul ciglio destro della strada con in mano un bastone. Sono rimasto fulminato da un pensiero folle: che quel bambino era per me, che me lo aveva mandato la provvidenza, che finalmente avrei avuto ciò che desideravo da una vita. All'inizio mi ha colpito il fatto che fosse così magro, fragile come zucchero filato. Eravamo in fondo a un burrone. Quando ha sentito il rumore della macchina, si è fermato e si è accostato ancora di più al fossato mentre mi fissava con quei suoi occhioni azzurri. Sa, quando i bambini ti guardano decisi, penetrando tutte le barriere... Conosce questa sensazione?» «Sì.» «Ti manca ancora tanto? gli ho chiesto. Ha scosso la testa. Abito lassù, in cima alla collina, in quella casa bianca con la veranda, ha risposto. Mi fai un favore? gli ho detto. Sì, certo. Gli ho raccontato che il motore non andava bene e che dovevo controllare sotto il cofano. Voleva sedersi a dare gas? Lui ha annuito con forza. Ha buttato via il bastone e si è messo al volante, faceva fatica a raggiungere il pedale dell'acceleratore, ma era così orgoglioso dell'incarico che gli avevo dato. È rimasto a lungo a far salire di giri il motore e, dopo aver constatato che tutto era in ordine, mi sono offerto di accompagnarlo fino a casa. Ci ha pensato un po', come se stesse soppesando l'offerta. Così ti risparmi quella brutta salita, l'ho tentato. Vedevo come le raccomandazioni di sua madre gli entravano e uscivano dalla testa, ma io ho sfoggiato uno dei miei sorrisi più belli e si è rilassato. Si è spostato sul sedile accanto. In quel momento ero dove avevo sempre sognato di essere, solo con un bambino. Era irresistibile.» Brein fece una pausa. Il suo sguardo si era spostato sulla telecamera del soffitto e gli occhi gli si riempirono di reticenza. «Gli ho chiesto come si chiamava. Jonas August Løwe. Un bellissimo nome per un tipo bellissimo, ho detto. Si è messo a ridere, era orgoglioso del suo nome, era evidente. Ho fatto in modo che si sentisse a suo agio, forse lei non ci crederà, ma è quello che voglio.» «Le credo», disse Sejer. «Andiamo a fare un giro? gli ho domandato. Vediamo di cosa è capace questa carretta? Facevo l'allegro. Ha accettato. Non aveva altro da fare e ho notato che gli piacevo. È così, con i bambini, sono bravo a parlare con
loro, li faccio sentire importanti. Io non avevo mai provato quella sensazione da piccolo. Abbiamo superato la sua casa e lui ha indicato con il dito dal finestrino. È la nostra casa, ha detto, ci abitiamo io e la mamma. Ho lodato senza ritegno la sua abitazione. Abbiamo proseguito, eravamo io e lui, e adesso era impossibile fermarmi. Doveva vedere quando siamo arrivati a Granås, mi seguiva come un cucciolo.» Brein alzò la testa. I movimenti nervosi di prima erano diminuiti, era preso dal racconto. «Non appena siamo entrati nel soggiorno, ha notato la sedia a rotelle. Sì, la usava mia madre, forse l'aveva capito da solo, è rimasta lì dopo la sua morte. Mi ha chiesto il permesso di provarla, gliel'ho concesso. Si è messo a girare per la stanza mentre io lo guardavo seduto sul divano. Si stava divertendo davvero, come può immaginarsi, ai bambini piacciono quelle cose. Gli ho detto che ero capace di insegnargli a stare in equilibrio su due ruote, se voleva. Ero su di giri, devo ammetterlo, non avevo mai avuto prima un bambino così vicino a me, ma ero anche disperato. Intuivo come sarebbe andata a finire e avevo paura che qualcuno ci avesse visto dalla casa padronale, sa, il fattore, che è il mio padrone di casa, o sua moglie. O le figlie, ne ha quattro, oppure i polacchi che abitano nel locale dispensa. Non osavo quasi respirare.» Brein si scostò i capelli dalla fronte. C'era un che di teatrale in quel gesto, evidentemente voleva apparire come un uomo tormentato. E lo è, pensò Sejer, quelli che finiscono in questa stanza lo sono, finiscono qui perché qualcuno ha commesso un'ingiustizia nei loro confronti. «Avevo della Coca-Cola nel frigorifero e lui ne voleva. Ci siamo seduti l'uno accanto all'altro sul divano a parlare. Rispondeva a tutte le domande con voce squillante; era così timido, così obbediente. Le sue cosce erano così sottili, si vedevano le rotule tonde; ricordo che ho pensato che mi avrebbero riempito il palmo. Ho alzato la mano e delicatamente l'ho appoggiata sul ginocchio. Forse lei non è in grado di capirlo, ma per me si trattava di un momento solenne.» «Come ha reagito?» domandò Sejer. «Mi ha sbirciato la mano e non ho visto né paura né timore, solo stupore. La pelle era dorata, coperta da una leggera peluria. Sono stato preso dal terrore. Che si divincolasse per correre alla porta. In quel momento non c'era niente al mondo che temessi di più, perdere quello che finalmente avevo trovato. E, anche se non volevo fargli male, ho perso il controllo. La voce della mia coscienza mi metteva in guardia, ma io l'ho zittita perché
pensavo che tutto sarebbe finito nel giro di un minuto e poi mi sarei preso cura di lui e l'avrei riportato a casa in macchina... sa, avrei avuto per lui tutte le premure possibili. «L'ho fatto stendere sul divano e gli ho sfilato i pantaloncini. In quel momento ho sentito qualcosa tintinnare sul pavimento, ma non ho capito cosa fosse. E poi ho preso quello che volevo. L'ho preso e basta. Quando sono tornato in me ed era tutto finito, è successo qualcos'altro.» «Cosa è successo, Brein?» L'uomo si strofinò gli occhi con le nocche e quando alzò lo sguardo aveva gli occhi rossi. «Gli è mancato il respiro», sussurrò. «Mentre ero lì seduto a guardarlo, gli è mancato il respiro.» «E lei cosa ha fatto?» «Niente. Mi è venuto il panico.» «Continui, Brein.» «Si è messo a tastare il divano, come se stesse cercando qualcosa.» «Jonas August non riusciva a respirare e lei è rimasto immobile a guardare? Quanto tempo è passato prima che il bambino perdesse conoscenza?» «Non molto. Sentivo che c'era qualcosa che non andava perché il respiro sembrava un sibilo. Poi è riuscito ad alzarsi dal divano e si è messo a quattro zampe a girare sul pavimento. Ero fuori di me, non capivo cosa stava succedendo. Alla fine si è accasciato ed è rimasto sdraiato immobile. Sono corso in un angolo, non sapevo cosa fare.» «Cosa stava cercando, Brein? Qualcosa che gli era caduto dalla tasca dei pantaloncini?» «Un inalatore», sussurrò. «L'ho trovato sotto il divano.» «Jonas August soffriva di asma.» «Lo capisco adesso.» Assunse un'espressione disperata: «Ma è troppo tardi». Sejer si mise a girare per la stanza, con gli occhi sempre puntati su Brein. «Jonas August le è morto tra le mani e quello che poteva salvarlo era finito sotto il divano?» disse. «Sì.» «Mentre lui non riusciva a respirare, lei se ne stava seduto immobile?» «Sì.» «Non ha mai pensato di telefonare o precipitarsi fuori in cerca di aiuto?
Questo me lo deve spiegare.» «Non ne ero in grado. Ero paralizzato dal terrore. Quale sarà il capo d'accusa?» domandò. «Mi può dire qualcosa al riguardo? Non è omicidio, vero? Qual è la pena?» «Non le è mai venuto in mente di doverlo salvare?» «Non posso essere criticato per questo, ero nel panico», rispose Brein. Sejer avvertì di colpo la stanchezza. Rimessosi a sedere, chiuse gli occhi. «Il capo d'accusa non è ancora stato definito», disse, «le verrà comunicato.» Brein lo guardò speranzoso. «Mi avevano promesso qualcosa da mangiare.» «L'avrà. Ma non chieda conforto», aggiunse. «Parli con il suo avvocato, sta arrivando.» Fu la volta di Brein ad alzarsi. Si mise accanto alla parete con aria ribelle. «Forse anche lei ha bisogno di conforto», commentò. Sejer lo guardò senza capire. «Perché lei è soltanto a metà strada, e credo che lo sappia. Edwin Åsalid, lui non l'ho toccato.» 43 Come per un tocco di bacchetta magica, Brein mutò completamente. Sparite l'amarezza e le scuse, svanito lo sguardo indagatore. Incrociò le braccia, si raddrizzò e fissò Sejer negli occhi. «Non ho mai toccato Edwin Åsalid neanche con un dito. Certamente so chi era, su questo punto possiamo essere d'accordo nell'affermare che attirava l'attenzione. Lo vedevo spesso lungo la strada, poverino, quando procedeva a fatica con tutti quei chili. Comunque, anche se rimaniamo seduti qui fino a stasera, o a primavera, non cambierò la mia deposizione, deve cercare da qualche altra parte. Sicuramente è salito su qualche macchina, ma non era la mia.» «Brein è del tutto inattaccabile», disse Sejer. «Sono propenso a credergli.» «Allora sono due», intervenne Skarre. «Possibile.» «Oppure Brein è un attore da premio Oscar. Confessa uno dei crimini perché lo considera un incidente, mentre spera che Edwin non venga mai ritrovato. E che dunque non sussista il fatto.»
«Speriamo che il pubblico ministero riesca a procurarsi degli esperti in grado di affermare se l'abuso di Brein è stato la causa diretta dell'attacco d'asma e della morte», disse Skarre. «Ci hai pensato? Nella peggiore delle ipotesi verrà condannato soltanto per lesioni gravi che hanno causato la morte del bambino. Se la cava con sei anni.» «Sì, ma non mi occupo della durata della pena. Non farlo neanche tu.» «Quante volte hai intenzione di torchiarlo?» «Non lo so. È sgradevole essere lì con lui, mi sembra di perdere tempo, cosa che non mi posso permettere.» Andò alla finestra a guardare il traffico. «Nevica», constatò insoddisfatto. «Tanto?» Skarre vide il riflesso del superiore nel vetro della finestra. «Sì. Sono preoccupato.» «Per cosa?» «Per i mesi che passeranno. Prima o poi troveremo certamente Edwin, ma quanto sarà rimasto del suo corpo?» «Hai ragione, e come sai Brein ci è stato servito su un piatto d'argento. Non si può essere così fortunati due volte di fila.» 44 Sejer andò a trovare Tulla Åsalid e i due parlarono per molte ore. Il sovrappeso era un problema grande e pesante, disse la donna, nel senso letterale del termine. «I medici mi terrorizzano, uno di loro mi ha spiegato una volta che le persone obese si muovono così poco che non sviluppano la massa muscolare, e, dal momento che non hanno muscoli, il sangue non ritorna al cervello come dovrebbe. Dopo affermazioni di questo genere, rimango a letto sveglia tutta la notte. Forse è quello che è successo, penso, forse giace in un fossato perché ha avuto un arresto cardiaco. Non avrei mai creduto che Edwin sarebbe diventato così grosso. Alla nascita pesava cinque chili e io sprizzavo orgoglio da tutti i pori perché pensavo che ciò significasse che era forte e che avrebbe avuto senso pratico. Ma poi ha cominciato a ingrassare a una velocità spaventosa. Quando desidera qualcosa, mi guarda con un'intensità a cui una madre non sa resistere. È un circolo vizioso: più cibo, più chili in eccesso e più disperazione che lo spinge ad aver bisogno di altro cibo per consolarsi un po'. Secondo me Edwin si vergogna costantemente della sua obesità e io non riesco a fare
nulla; si serve da solo, è insaziabile. È tutta colpa mia. Se Edwin fosse stato slanciato e forte, questo non sarebbe avvenuto. L'ho tenuto sotto una campana di vetro per dieci anni, sono io la responsabile. Non sono forte. Non sono capace di dire di no. Quando mi guarda con quegli occhi castani, mi sciolgo completamente. «La notte, in sogno, lo sento urlare, ma non riesco a emettere nessun suono perché ho perso la voce. Sta cercando la strada per tornare a casa, cammina nel buio più pesto, ma non riesco a muovermi, a vedere. Quando mi sveglio, sono distrutta dall'impotenza. A volte mi viene voglia di correre nel bosco a urlare, a sradicare alberi e cespugli, a rovesciare le pietre, perché deve pur essere da qualche parte, hanno ben trovato Jonas August. Una volta Ingemar ha detto che Edwin assomigliava a una palla di lardo, grosso e bianco e ciondolante. Non intende essere cattivo, gli piace scherzare, ecco perché lo amo e non posso pretendere da lui che si comporti come un padre: non lo è. Mi sembra che ultimamente andassero abbastanza d'accordo, anche se spesso vorrei che Ingemar prendesse qualche iniziativa. Sono contenta che sia qui a sostenermi, non ce l'avrei fatta da sola. «Qualche volta mi consolo con i ricordi. Tutte le gite alla baita Premio che ho fatto insieme a Edwin, quando eravamo soltanto noi due. Camminavamo insieme nel bosco e intanto con la fantasia preparavamo dei pasti luculliani, con tanto di dessert e torte, per poi ridere come due matti. Non ci voglio più andare, sto valutando l'idea di vendere la baita. Ingemar mi aiuterà, dice che dovrei investire i soldi, che ci penserà lui, e ne sono felice. Non me ne intendo di queste faccende, o di quale investimento sia più redditizio, così è un bene che se ne occupi lui. L'altro giorno è successo qualcosa che mi ha turbato profondamente, ho ricevuto una telefonata. Non ho reagito con gentilezza, ma con orrore. Era Elfrid Løwe, desiderava incontrarmi. Non ho potuto farci niente, ma mi sono infuriata. Lei dà per scontato che Edwin sia morto e che noi due abbiamo qualcosa di cui parlare, qualcosa in comune. Le ho urlato di starmi lontana e poi le ho sbattuto giù la cornetta mentre tremavo come una foglia. Come ho potuto trattarla così? Un bel giorno la contatterò per chiederle scusa. Penso comunque che il suo comportamento sia stato sfacciato, nessuno sa con certezza cosa sia successo a Edwin. Sono scomparsi anche altri bambini che poi sono ritornati, non devo perdere la speranza. «Un giorno hanno suonato alla porta, un po' di tempo fa: erano Sindre, Sverre e Isak e alcune compagne di classe di Edwin di cui non ricordo il nome. Avevano preparato una specie di libro con disegni e saluti, i fogli
erano bucati e tenuti insieme da un nastro rosso. Ci manchi, Edwin, torna, cose così. Disegni di fiori e uccelli e animali, come fanno i bambini. È stato sicuramente Meyer a ordinare loro di mostrare compassione. Non sono stata capace di commuovermi più di tanto perché non so com'erano davvero con lui, nella quotidianità. Lo sto ancora aspettando, aspetto ogni ora del giorno. Aspetto mentre sono a letto, aspetto mentre preparo da mangiare, dentro di me sento la mia voce chiamare con dolore Edwin. Sono sicura che presto arriverà con il suo passo dondolante. «Continuo a guardare fuori dalla finestra, rimango sempre in ascolto del rumore di passi, o di una porta che sbatte. Se sento una macchina nel cortile, trattengo il respiro, potrebbe trattarsi della polizia, o essere il prete. Non lo voglio qui, se viene non so cosa fare. Prima uscivo molto, adesso rimango perlopiù in casa, non ce la faccio a incontrare gente. Mi guardano con compassione, o si scostano perché non sanno cosa dire. Se avessero il coraggio di venirmi incontro! Di abbracciarmi, di consolarmi. Come stai, è dura, cosa posso fare per te? Ma le persone hanno così paura dei sentimenti, forse potrei scoppiare a piangere e allora non saprebbero come reagire. Preferirei una tomba a questa incertezza. Mi sento come quando sono incapace di fare qualcosa per lui; sono schiacciata da un senso di impotenza. Tutto è dolore e disperazione e colpa, tutto è vuoto e sofferenza. Che vita è questa? Ho Ingemar, ma lui non può riportarmi Edwin. Eppure è l'unico capace di farmi dimenticare tutto per qualche attimo, l'unico che riesce a farmi ridere. E dopo rimango atterrita perché è successo. Come se tradissi Edwin nel peggiore dei modi: essere felice. 45 Sejer sedeva a testa china a leggere gli incartamenti del caso. Sulla parete, a destra della scrivania, era appesa la foto di Edwin come eterno promemoria. A volte Sejer alzava gli occhi per domandargli: che fine hai fatto, cosa è successo? Si era recato da Alex Meyer, che aveva ammesso apertamente che Edwin veniva spesso a trovarlo, a volte con Sindre, o Sverre e Isak. Meyer aveva uno sguardo fermo, di quelli che si addicono a un uomo che ha stima di se stesso e la coscienza pulita. Gli raccontò della classe e di tutto ciò che stavano attraversando, degli allievi che dormivano male la notte. I genitori avevano denunciato casi di enuresi notturna. «Non riusciremo mai a capire la portata di tutto ciò», aveva detto l'insegnante, «i bambini faticano a calmarsi.»
Sejer considerò un altro punto di partenza: studiò le truffe di Ingemar Brenner; era l'unico della cerchia di Edwin con la fedina penale sporca. L'uomo aveva un passato sospetto, ma da irregolarità economiche a uccidere un bambino ce ne passava. A meno che Edwin non rappresentasse un ostacolo. Convocò Brenner nel suo ufficio; si presentò all'ora fissata. Sejer intravide un colletto di camicia color crema e il nodo di una cravatta lucida, color vinaccia. Brenner era un tipo che amava mettere in mostra la propria eccellenza; al contrario di Brein, era una gioia per gli occhi, e ne era perfettamente consapevole. Fu molto onesto quando arrivarono a Edwin. «A me i bambini non interessano più di tanto», affermò, «lo dico senza mezzi termini. Sono imprevedibili ed è una cosa che detesto.» «Preferisce avere il controllo?» gli domandò Sejer. «Non mi è mai piaciuto stare in secondo piano.» «E quando Edwin era in una stanza con lei e sua madre, era questa la situazione?» Brenner sorrise con aria di superiorità. «Tengo conferenze, sono abituato ad avere un pubblico. Io parlo e la gente ascolta, pende dalle mie labbra. E poi c'è Tulla, naturalmente; la tengo in pugno, la conosco come le mie tasche.» «Può essere», insinuò Sejer, «che le sue tasche siano abbastanza piene?» Per un attimo Brenner si incupì. «La cosa non vi riguarda.» «Forse, ma noi osserviamo e traiamo delle conclusioni.» «Lei deve distinguere tra ciò che è accaduto a Edwin e i mezzi economici che mi hanno elargito con grande generosità le mie ex fidanzate. Le donne respinte ti mandano al patibolo non appena ne hanno l'occasione.» «La corte non ha accettato questa versione dei fatti», ribatté Sejer, «e non lo faccio neanch'io. Mi dica che pensieri ha su Edwin. Secondo lei cosa è successo?» «Mi sembra piuttosto scontato, e mi scusi se sono così diretto. Ovviamente non l'ho detto a Tulla, ma come lei, Sejer, sono convinto di questo: qualcuno ha trascinato Edwin in una macchina e lo ha portato nel bosco, dove ha abusato di lui prima di strangolarlo, oppure lo ha colpito a morte con una pietra. Poi l'ha scaricato in un lago, o forse l'ha seppellito. È stupido chiedersi se è ancora vivo, non mi vanno questi giochi.» «A lei non interessano i bambini, ma era affezionato a Edwin?» «Diciamo che mi sono abituato alla sua presenza, mi sono abituato al fatto che si mette sempre qualcosa in bocca, che mendica in continuazione.
Mi sono abituato al fatto che non gli piaccio, che crede di detenere il diritto esclusivo su Tulla, cosa ovviamente sbagliata. È il rapporto che esiste tra di loro che lo ha reso com'è.» «E com'è?» «Be'», Brenner strascicò le parole, «una palla di lardo che continua a crescere.» «Ha preso in considerazione l'idea di andare a vivere da Tulla?» «Sì.» «Perché è rimasta soltanto un'idea?» «Non ho voglia di essere coinvolto nelle difficoltà connesse a Edwin.» «Lei lo ritiene dunque un problema?» Brenner controllò con la mano il nodo della cravatta. «Ha dieci anni e pesa quasi novanta chili. Ci sono altri modi per descrivere la situazione?» Un inverno impietoso si abbatté sulla parte sudorientale della Norvegia, la temperatura era relativamente mite e nevicò tanto. La neve era pesante e bagnata e provocava il caos sulle strade. Gli abitanti erano sfiniti a furia di spalare. Nevicava settimana dopo settimana. Quando finalmente smise e il cielo divenne blu, sopraggiunse il gelo, che sarebbe durato un mese. Tutti guardavano insoddisfatti i cumuli di neve pensando che non si sarebbe mai sciolta. Invece arrivò aprile, e di colpo la temperatura aumentò di parecchio. La gente usciva dalle case, affamata di luce e caldo e aria. Nascevano pensieri fragili, forse la vita andava vissuta comunque. In una di queste giornate tiepide Sejer ritornò a fare visita a Tulla Åsalid. Parcheggiò nel cortile e si accorse che la finestra della cucina era aperta. Nel momento in cui stava scendendo dall'auto, sentì una risata squillante. Rimase confuso ad ascoltare, ma adesso percepiva soltanto il rumore del vento che giocava tra le cime delle piante. Come poteva ridere a quel modo, lei che aveva perso ciò che possedeva di più caro? O forse adesso era Ingemar? Era davvero «tocca», come l'avevano definita i genitori? Salì i gradini e suonò il campanello. Ci volle un attimo prima che Tulla aprisse. Si scusò dicendo che era al telefono. Sejer espose quello che aveva da dirle. «Non intendo impicciarmi degli affari suoi», esordì con cautela, «ma, per quanto riguarda Brenner, non gli affidi i suoi soldi.» Lei lo guardò confusa. «Perché?»
«L'ha già fatto?» le chiese. «No, certo che no. Ma perché mi dice queste cose?» «Preferirei non entrare nei dettagli. Non mi piace sparlare delle persone, ma le do un consiglio, e sarebbe bene che lo seguisse.» Adesso la donna sembrava turbata. Lo fece accomodare e rimasero a parlare per una mezz'oretta. In macchina, mentre tornava, Sejer ripensò alla risata squillante che aveva sentito dalla finestra. Oddio, pensò, non posso rinfacciarle il fatto di concedersi un momento felice. Però non se la scordò, era come una puntura che gli faceva prudere la coscienza. Wilfred Arent Brein osservava la vita dalla finestra della cella. Si era ambientato. A dire il vero strisciava come un cane davanti agli altri carcerati, curvava la schiena, parlava a bassa voce e borbottando. Aveva paura della condanna altrui e li serviva in tutto, prestava loro soldi, offriva sigarette. Così veniva lasciato in pace, ed era quello che voleva. I giorni erano organizzati secondo una routine fissa; gli piaceva l'officina, gli piaceva il cibo. Gli piaceva aiutare in cucina, tutti quegli odori e il calore dei fornelli, le pentole enormi che sprigionavano vapore. Dormiva abbastanza bene la notte, si rannicchiava sul letto in posizione fetale. Doveva scontare dieci anni e poi sarebbe tornato alla società, alla sua esistenza solitaria, ai soldi dell'assistenza sociale; sarebbe stato lo stesso uomo, con la stessa passione per i bambini. Non pensava molto al momento in cui sarebbe uscito di prigione, la vita all'esterno non lo tentava. Non l'avrebbe accolto nessuno, sarebbe stato abbandonato a se stesso, al proprio dolore e alla mancanza di qualcuno. In fondo la prigione non era poi così male come aveva creduto. A volte le guardie si sedevano per scambiare due chiacchiere, e allora lui si illuminava tutto e parlava con enfasi di tante cose: del padre, di cui avrebbe dovuto prendersi cura, dell'ultimo libro che aveva letto, dal finale così triste. La società si era già dimenticata di lui; erano stati commessi nuovi omicidi, si erano verificati nuovi episodi criminali pianificati con cura, misfatti volgari dovuti unicamente al profitto: erano molto peggiori dei suoi, lui non aveva mai premeditato nulla. Lui era spinto dalla passione. Su questo punto era molto deciso: era quello a salvarlo, a permettergli di dormire la notte, senza sogni. Ma adesso era arrivata la primavera, verde e rigogliosa. I giovani fiorivano come i crochi nelle aiuole, si diffondevano brulicando, erano agli angoli delle strade, o sdraiati nei parchi. Nella fattoria Bell'Occidente i terreni erano finalmente liberi dalla neve e si vedevano i primi cespugli in fiore
sulla collina di Svartåsen, che sembrava un'isoletta circondata dai campi e sorvegliata da begli arbusti di sorbo selvatico. Una sera d'aprile un gruppo di giovani si incamminarono verso il laghetto di Bonnafjorden, una di loro era Signe Lund, che faceva la cassiera al supermercato Kiwi. Si era cambiata l'uniforme verde con una minigonna rossa, le ginocchia tonde erano bianche come il latte dopo il lungo inverno. Con lei c'era sua cugina, MaiBritt, piccola e cicciotella, con una criniera di capelli tinti d'arancione; camminava mentre fumava una Benson & Hedges. Davanti a loro procedevano Ellemann e Rolf: erano loro a decidere la direzione da prendere. Signe aveva intuito dove stavano andando: sulla collinetta in mezzo al campo dove si trovava una cantina sotterranea che chiamavano il Buco della Pomiciata, dove lei aveva perso la sua virtù l'estate prima. Si era sentita felice e terrorizzata al tempo stesso, voleva e non voleva; ma così era la vita, i maschi dovevano avere ciò che desideravano i maschi, non intendeva fare la bacchettona. Neanche Mai-Britt. Attraversarono i campi in diagonale, sgomitandosi giocosi; erano così pieni di vita da credere a tutto. Era faticoso procedere nella terra umida, e poi avevano paura che il contadino li vedesse e gli sguinzagliasse dietro il pastore tedesco. Erano arrivati. Si sedettero su una lastra di pietra, i ragazzi circondarono le ragazze come fa un cane con le pecore, ma qualcosa si insinuò interrompendo la conversazione. Un odore. Una puzza di marcio riempiva l'aria. Il più vecchio dei ragazzi, Ellemann, si alzò per sondare il terreno. «La cantina sotterranea», disse. Eccitato e nervoso si mise a cercare la botola, metodicamente picchiò per terra con gli stivali pesanti. Poco dopo sentirono il rumore dei tacchi sul legno. Spostarono di lato foglie ed erba senza dire una parola, l'odore era inquietante e toglieva il respiro. Ecco il chiavistello. Il ferro arrugginito cigolò e gemette in modo sinistro. 46 Edwin Åsalid giaceva su un vecchio materasso a molle. Era sdraiato sulla pancia con le braccia larghe, sembrava una balena arenata. Là sotto c'era parecchia spazzatura, vecchi giornali e riviste, cartocci di cioccolata e lattine di birra vuote. Una scala marcia di quattro gradini conduceva sul fondo, il soffitto era basso. Nei tempi passati la cantina veniva usata per conservare le patate, e alcuni ragazzi del villaggio avevano
scoperto quella stanza segreta. Ne avevano preso possesso per scopi diversi. Fino a quel momento il cadavere si era mantenuto bene, grazie al gelo, e nella cantina sotterranea il corpo era protetto sia dall'umidità sia dagli animali selvatici, ma adesso che era arrivato il bel tempo aveva iniziato a decomporsi. Sulla strada che portava al laghetto c'erano alcuni curiosi, oltre all'unità mobile di pronto intervento della polizia e ai tecnici che avevano trasportato le attrezzature necessarie attraverso il campo. Skarre strappò un filo d'erba. «Cosa ne pensi?» chiese. «Non molto. Per ora», rispose Sejer. «Ha indosso i vestiti. Non è senza pantaloni come Jonas. Forse dovremmo esserne felici?» «Forse.» Skarre mordicchiò il filo. «L'omicida è di Huseby», disse, «per forza, per essere a conoscenza di questa cantina.» «Come si chiama il fattore?» domandò Sejer indicando con la testa Bell'Occidente. «Skagen. Waldemar Skagen.» «È stato interrogato quando Edwin è scomparso?» «Sì.» «Va interrogato nuovamente.» «È possibile scoprire se ci sono stati abusi sessuali dopo così tanto tempo?» si chiese Skarre. «Lo spero. Snorrason non trascurerà niente.» «Quanto è grande la cantina?» «Circa sei metri quadri. Evidentemente dei giovani si sono divertiti, su quel vecchio materasso. Là sotto con quel buio non c'è molto altro da fare che pomiciare.» «Finiranno per stasera?» Sejer guardò gli uomini al lavoro. «Lo spero. Voglio che domani sia eseguita l'autopsia su Edwin, spero che Snorrason trovi qualche indizio. Cosa ne pensi del nascondiglio?» «Intelligente», commentò Skarre. «Nessuno viene qui durante l'inverno, e l'assassino si è risparmiato la fatica di scavare. Gli è bastato richiudere la botola e mettere il chiavistello.» «Se ai ragazzi non fossero venuti i bollori proprio stasera, sarebbe rimasto qui fino a estate inoltrata», disse Sejer.
Un tecnico venne verso di loro con un sacchetto di plastica di cui era visibile il contenuto. «Ecco quello che abbiamo trovato. Volete vedere?» Sejer prese il sacchetto. «Passate al setaccio lo strato superiore di terriccio. Prelevate ogni rametto e ogni filo d'erba. Speriamo che l'assassino abbia lasciato qualche traccia. Avete trovato l'arma?» «No.» Sejer si mise a studiare il contenuto del sacchetto. «Una rivista, un giornale. Un pacchetto di tabacco vuoto, mozziconi di sigaretta con e senza filtro. Due lattine di birra, tappi di bibite. Un pettine quasi senza denti, carte di cioccolato. Rimasugli di candele, bucce di arance. Un elastico per capelli. Non è un elastico per capelli?» «Sì», confermò Skarre. Sejer continuò a studiare il contenuto. «Ti ricordi cosa facevano i bambini giù al molo?» domandò a Skarre. «Parlavano di Alex Meyer e mangiavano dei dolciumi.» «Esatto. Tartarughe di gelatina.» Indicò attraverso la plastica con un dito. «Ecco qui il sacchetto.» 47 Snorrason era un uomo lento e metodico dall'indole docile e tenera. La vista del cadavere del bambino non lo lasciava indifferente. Alcune parti del corpo di Edwin erano coperte da adipocera cadaverica di colore grigiastro, masse enormi, turgide, che avevano sostituito il tessuto adiposo; era stata la cera a conservare il corpo per otto mesi. Adesso il corpo era stato aperto e le costole tranciate. Gli organi interni che giacevano in contenitori di acciaio sul ripiano del tavolo erano stati pesati ed esaminati. Il fegato, i reni e il muscolo cardiaco, che aveva battuto per dieci anni. L'odore era crudo e acre, un misto di qualcosa di dolce e stucchevole e di qualcos'altro che ricordava le interiora del pesce. Il patologo dai capelli rossicci sollevò una sega oscillante per aprire la scatola cranica, il suono stridulo si diffuse per la sala dell'autopsia e uno strano odore di bruciato riempì la stanza. «Quando un bambino di dieci anni pesa così tanto, soffre di molti disturbi», spiegò, «le ginocchia fanno male, ha vesciche, dolori alle articolazioni, problemi a respirare. Nel peggiore dei casi il diabete. A livello psi-
chico, il carico da sopportare è enorme. Non era in grado di stare al passo con i compagni, la sua vita deve essere stata caratterizzata da una fatica costante e da molti tormenti. Inoltre, se avesse continuato ad aumentare di peso, non sarebbe mai diventato vecchio. Prima o poi il suo cuore sarebbe collassato.» Rimase per un attimo in silenzio mentre lavorava, poi riprese a parlare dei danni legati al sovrappeso. «Le persone grasse si decompongono più velocemente di quelle magre.» «Perché?» si meravigliò Sejer. «Perché possiedono molto grasso sottocutaneo. L'adipe isola dalla perdita di calore e il calore fa marcire il corpo. Mi seguite?» Sejer annuì. Era alto un metro e novantasei, pesava ottantatré chili, quindi poteva contare su una decomposizione normale, ma non sapeva bene se si trattasse di un vantaggio. Osservò di nascosto il medico chiedendosi come il suo lavoro di patologo lo influenzasse, se pensava molto al proprio cadavere, alla propria putrefazione, o a quella dei figli. «Hai riscontrato segni di violenza o di strangolamento?» domandò Sejer. Snorrason scosse la testa. «Niente di tutto questo, almeno finora. Nessun segno esterno di violenza. La laringe è intatta. Nessuna frattura alla scatola cranica, nessun segno di lesioni o punture. Il sangue e i tessuti vanno dal tossicologo, ci vorrà una settimana o due prima della risposta. Comunque, per ora, nessuna traccia.» Alzò lo sguardo: «Sei sorpreso?» «No.» «È morto in conseguenza della disidratazione.» «Vuoi dire che è morto di sete, vero?» «Chinatevi a guardare.» Snorrason alzò la mano destra di Edwin dal tavolo operatorio. «Osservate le dita, le unghie: sono state quasi strappate via.» «Ha cercato di scappare graffiando la botola», commentò Sejer. «Ho paura che siamo costretti a supporlo.» «Significa che è stato sepolto vivo», disse Skarre. «Una delle morti peggiori», sentenziò Snorrason. «Ci vuole molto tempo prima di morire di sete. In questo caso, con Edwin, suppongo quasi una settimana. Minimo tre, quattro giorni. Completamente solo al buio mentre diventava sempre più debole. Dopo un po' gli è venuta la nausea, le cellule nervose del cervello hanno cominciato a non funzionare più, il cuore non è
più riuscito a battere a pieno ritmo. Il sangue si è ispessito nelle vene e nelle arterie. È caduto in uno stato di profonda disperazione, delirava. Ha chiamato sua madre, forse ha pregato Dio. Alla fine è entrato in coma.» «E tutto questo dobbiamo dirlo a Tulla Åsalid», disse Sejer. 48 Uscirono dall'edificio. Si fermarono per respirare. Attraversato lo spiazzo, salirono in macchina. Frank Robert, che li attendeva sul sedile posteriore, infilò il muso in avanti per mendicare. Sejer gli diede un biscotto per cani, Skarre aprì il finestrino. Dopo la presenza della morte nella sala delle autopsie, la vita era diventata così nitida: le formazioni di nubi nel cielo, le chiome degli alberi che si muovevano al vento, il sole che si rifletteva in una finestra, le auto parcheggiate. Due infermiere attraversarono lo spiazzo davanti all'ospedale, Skarre le seguì con lo sguardo, i camici bianchi scintillanti nel sole primaverile. «Non ha trovato niente», esordì Skarre. «E anche questo significa qualcosa», affermò Sejer. «Mi sono fatto qualche idea, ma mi rifiuto di crederci.» «Lo so, ma è tutto quello che abbiamo. Chi si chiude a vicenda dentro le stanze?» «I bambini», rispose Skarre. «Esatto.» «Sono d'accordo, ma fino a un certo punto. L'avrebbero liberato. Dopo un po'. Dopo qualche ora.» «Siamo sicuri?» «Certamente. Non possiamo chiudere a chiave un amico in una cantina sotterranea e poi andare a dormire.» «Non è detto che siano riusciti a prendere sonno...» concluse Sejer. I due uomini si guardarono mentre scuotevano entrambi la testa. Sejer estrasse il cellulare dalla tasca e compose un numero. «Cosa stai facendo?» «Sto chiamando Alex Meyer.» Dopo una breve conversazione rimise il telefonino al suo posto. «Sverre ha problemi di insonnia e Isak fa la pipì a letto.» 49
Mathilde Nohr si piazzò davanti alla finestra. La sua figura si stagliava decisa contro la luce esterna. Posò le mani sulle spalle di Sverre, come a ribadirne la proprietà. Aveva un sorriso sulle labbra che però non raggiungeva gli occhi. Aveva chiesto a Sejer il motivo di quella riunione e la risposta l'aveva terrorizzata. Isak e il padre si erano seduti. L'uomo era magro come un palo, gli occhi e i capelli scuri, sembrava che tutto fosse troppo pesante per lui: il figlio, quell'incontro, la vita stessa. Isak era taciturno e pallido, le sue vistose lentiggini marroni erano sparse sul viso come minute gocce di una pozzanghera. Sejer guardò i due bambini. Notò che la mano destra di Sverre era ingessata e fasciata. «Cos'è successo?» gli chiese. Sverre girò la testa dall'altra parte. «Mi sono rotto un dito.» «Rotto un dito? Come?» Nessuna risposta. «Abbiamo trovato Edwin», dichiarò Sejer. Guardò Sverre. «Sai dove l'abbiamo trovato, Sverre?» «Nella cantina sotterranea di Skagen.» «Avete sentito il notiziario?» Sverre disegnò dei cerchi per terra con il piede. «L'ha detto la mamma, l'ha sentito nel negozio.» «E tu, Isak? Sapevi dove l'abbiamo trovato?» gli domandò Sejer. Isak si torceva le mani con tanto zelo che anche lui rischiava di rompersi le dita. «Avete giocato qualche volta là sotto?» «Non molto», rispose Sverre riluttante. «Ma è successo? Voi due insieme?» Sverre fece spallucce. I genitori erano all'erta, forse intuivano che tra poco la loro vita avrebbe cambiato direzione, spingendoli alla fuga. «Qualcuno ha chiuso Edwin nella cantina», disse Sejer, «e per qualche motivo non lo ha liberato. Cosa che non capiamo.» «Scusi, ma cosa vuole insinuare?» domandò Mathilde Nohr. Aveva le occhiaie, non aveva dormito per tutta la notte, era rimasta sveglia a fissare nel buio. «Spero di essermi avvicinato alla soluzione», rispose Sejer. «Non c'è nessuna lesione sul corpo di Edwin, nessuno lo ha picchiato o ha abusato di lui, o gli ha fatto del male in altro modo. Qualcuno lo ha chiuso dentro
la cantina e pensiamo che forse sia successo nel corso di un gioco. Sverre e Isak erano insieme a lui il 10 settembre, ecco perché chiedo a loro cosa è successo. Se qualcosa è andato storto.» Sverre lanciò un'occhiata a Isak, mentre il ragazzino era sempre intento a torcersi le mani. «Vi dovete spiegare», proseguì Sejer. «Qualsiasi cosa sia successa, non sarete puniti né con le botte né con il carcere.» In quel momento si risvegliò il padre di Isak. «Edwin è stato raccolto da una macchina. Sta affermando che mio figlio mente?» «Io non affermo niente», replicò Sejer. «Sto cercando di fare in modo che i bambini si spieghino. Tutti e due possedete un cellulare, entrambi registrati a nome dei vostri genitori. Quando li abbiamo fatti controllare, abbiamo scoperto che vi siete telefonati parecchie volte la sera del 10 settembre. Abbiamo rintracciato in tutto cinque conversazioni telefoniche, l'ultima delle quali è avvenuta a mezzanotte circa.» Guardò serio Sverre: «Hai telefonato a Isak e avete parlato per tre minuti. Cosa dovevi dirgli nel cuore della notte?» «Non abbiamo fatto quasi niente», sussurrò Sverre. Emise un piccolo gemito, come quando un cucciolo si schiaccia la zampa in una porta. «Sono sicuro che esiste una spiegazione», riprese Sejer, «e devo averla. Adesso. Questo caso è durato troppo a lungo e siamo tutti esausti.» All'improvviso Sverre cominciò a parlare. «Eravamo là sotto seduti sul materasso. A parlare. La botola era aperta per far entrare la luce. Guardavamo Edwin che mangiava dei dolciumi.» La voce del bambino era esile e ferita, Sverre lanciò nuovamente un'occhiata a Isak, ma senza ricevere aiuto. «Di cosa avete parlato?» «Di calcio. Carew. E Solskjær. Cose così.» «Poi?» «Poi abbiamo cominciato ad annoiarci.» «Quanto tempo siete rimasti là dentro?» «Non lo so. Non ho guardato l'ora, ma sono risalito e poi è arrivato anche Isak. Guardavamo dentro per vedere Edwin, aveva problemi perché era così pesante e la scala era rotta. Saliva i gradini rimasti ma poi scivolava nuovamente di sotto, e ha continuato così. Inginocchiati, ridevamo, la scena sembrava così stupida.»
«Quindi non l'avete aiutato?» «Abbiamo cercato di tirarlo fuori, ma era troppo pesante.» «E allora cosa avete fatto?» «Ci abbiamo rinunciato e abbiamo richiuso la botola.» «Perché? «Non lo so. L'abbiamo fatto e basta. Giocavamo ad avere un prigioniero. Era bello.» «E poi avete chiuso con il chiavistello?» «Sì, e Isak si è messo a saltare sulla botola, ma solo per divertimento.» «Dovevate vendicarvi di qualcosa?» Skarre assunse un'aria colpevole. «Faceva la spia su di noi.» «A chi?» «A tutti. A Meyer e agli altri insegnanti. Riferiva tutto.» «Rubavate i dolci nel negozio, vero?» «Solo a volte.» «Cos'ha fatto Edwin quando avete richiuso la botola?» domandò Sejer. «Si è messo a urlare per chiamarvi?» «No, c'era silenzio. Sedeva là sotto e basta. Abbiamo pensato che avrebbe cominciato a gridare.» «Continuate. Siete andati via. Perché?» «Dovevamo andare a casa a mangiare», rispose Sverre, «così abbiamo immaginato che poteva starsene rinchiuso là dentro fino a quando avevamo finito.» «Solo per divertimento?» «Sì, solo per divertimento. Per un po'. Tanto stava bene lì sul materasso.» «Ah!» commentò Sejer. «Lo scenario è questo: avete abbandonato Edwin nella cantina e siete andati a casa. Avete cenato. Che accordi avevi con Isak?» «Che ci saremmo trovati al supermercato Kiwi. Che saremmo tornati a liberarlo.» «Perché non è mai successo?» «Non avevo il permesso», disse. «Cosa?» «La mamma non mi ha dato il permesso di uscire di nuovo.» Mathild Nohr sospirò. «Perché era il compleanno della nonna», spiegò Sverre.
Sejer alzò la testa. «La nonna festeggiava il compleanno e tu dovevi esserci?» «Le avremmo portato un regalo. Sapevo del compleanno, ma me ne ero dimenticato. Ho detto che dovevo incontrare Isak, che era importante, ma la mamma ha detto di no. Poi è arrivato papà che era fuori di testa, tutto urla e strepiti.» «E dunque non hai avuto il coraggio di dire la verità?» Sverre guardò nuovamente la madre. «Devo fare quello che dice papà», mormorò Sverre. «Capisco, ma cosa succede se contraddici tuo padre?» Sverre fissò il pavimento. «Non vuoi rispondere?» «No.» Sejer rimase seduto a osservarlo. «Si tratta forse di un segreto?» «Sì.» «Hai parlato con Isak?» «Gli ho telefonato. Gli ho detto che doveva andarci da solo, ma lui non voleva. Era notte quando siamo tornati da casa della nonna. Sono dovuto andare a letto.» «Avevate progettato di recarvi da lui il mattino dopo?» «Sì.» «Tu hai affermato che Edwin era salito su una macchina. Perché l'hai detto?» «Lei voleva una spiegazione, così ho pensato che fosse giusto dire che qualcuno era venuto a prenderlo.» «Non hai pensato ai giorni a venire?» «Credevamo che tutto si sarebbe risolto.» «In che modo?» «Non lo so. Ma se dicevamo come stavano le cose, si sarebbe scatenato un macello.» Sejer si alzò e prese a camminare per la stanza. La vista dei due bambini lo rendeva infinitamente triste. «Sì», confermò serio, «adesso scoppierà un macello.» 50 La gente tranciò giudizi su adulti e bambini.
C'era qualcosa di strano in Sverre e Isak, erano stati terribili a rubare nel negozio, e poi i genitori avevano fallito. La gente aveva bisogno di una spiegazione e credeva di averla trovata. Kristine Ris aveva scoperto invece qualcos'altro, era euforica dalla felicità. In piedi davanti allo specchio della camera da letto, spinta da qualcosa di nuovo, di straordinario, osservava il proprio corpo. Un orgoglio e una forza che non sapeva di possedere le riempivano il corpo e la testa, e passò all'azione. Aprì l'anta del guardaroba. In alto c'era una valigia marrone, la prese per appoggiarla sul letto, poi cominciò a riempirla di indumenti. Adesso me ne vado, pensò, mentre sono forte. Ce la farò, me la caverò meglio senza di lui. Per tutti questi anni mi ha repressa, e ora intendo crearmi la mia vita senza che sia lui decidere. In un certo senso l'ho ingannato, ma non sento nessun rimorso. Mi giudicherà in tutti i modi, ma gli dirò come stanno le cose, che io non posso più vivere in questa casa. Pensò vagamente che il marito avrebbe sicuramente tentato di metterle i bastoni tra le ruote, ma, se fosse capitato, avrebbe gestito anche quella situazione, lei aveva dei diritti ed era possibile ricevere aiuto. Piegò insieme la biancheria intima e le calze, qualche maglione, dei pantaloni, alcune camicette, una vestaglia, una camicia da notte, articoli da toeletta. Ciò che le serviva per i primi giorni. Ritornò in soggiorno, alla scrivania, sollevò la cornetta e prenotò un taxi. Si mise alla finestra ad aspettare e a godersi il calore del sole. Sarebbe uscita alla luce. Aveva lasciato un breve messaggio sul tavolo del salone. Me ne vado perché voglio vivere la mia vita. Se lo immaginò mentre leggeva quelle poche parole. Gli si sarebbero contratte le mascelle dalla rabbia e un giuramento sarebbe riecheggiato tra le pareti. Arrivò il taxi, lei vi salì e poco dopo erano per strada. Chiuse gli occhi facendo sì che tutto quanto la penetrasse: la libertà improvvisa e quello che sarebbe avvenuto. Ci misero mezz'ora per giungere al motel, formato da otto minuscoli bungalow gialli. In ognuno c'erano due letti, il lavandino e uno specchio. Accanto alle casette c'era una stazione di benzina e una caffetteria dove poteva mangiare. Alla reception le diedero la chiave; entrata nella stanzetta, mise la valigia sul pavimento e si sdraiò sul letto. Il mio cuore, pensò, come batte! Con delicatezza si mise una mano sulla pancia, qualcosa cresceva in lei, all'arrivo del prossimo inverno avrebbe scalciato. Ogni cosa sarebbe saltata fuori, un giorno, Reinhardt si sarebbe infuriato, la paura di quello che poteva accadere la pervase. Si costrinse a scacciare l'angoscia. Il mio bambino, pensò, il mio piccolo.
Dal bungalow confinante sentì delle risate soffocate. 51 «A cosa stai pensando?» chiese Sejer. «Alla collera di mio padre», spiegò Skarre. «Era spaventosa. La temevo più di ogni altra cosa. Era un uomo autoritario e molto all'antica, e io sono stato educato ad avere paura di lui e ad amarlo. Ogni volta che si infuriava si trasformava, si gonfiava letteralmente di rabbia e diventava più grande e imponente. Poi apriva la bocca e cominciava a tuonare, e quelle parole spazzavano via i ricci dalla mia testa; quando aveva finito si girava e saliva al piano di sopra. Sentivo i suoi passi sul pavimento e poi riscendeva per pronunciare il verdetto: arresti domiciliari per una settimana o due, o sospensione della paga settimanale.» «Sverre viene picchiato da suo padre», commentò Sejer. «Lo so», disse Skarre. «Cosa facciamo?» «Gli ho dato il mio numero di telefono. Magari chiama.» «Qui non c'è molta crudeltà, soltanto paura», ribadì Skarre. Guardò il superiore. «A proposito, una cosa. Ti ricordi Andor? Quello che abbiamo incontrato alla spiaggia di Guttestranda?» «Certo che mi ricordo.» «Hai spostato la poltrona?» «Sì, l'ho spostata.» «E... va meglio con l'eczema?» «Adesso che ci penso, sì, non male. Comunque ha sbagliato alla grande con le sue previsioni.» «Niente affatto. La cosa è così strana che quasi non ho parole. Fai mente locale su come abbiamo trovato Edwin nella cantina. Ho cercato su Internet la parola Hasselbäck e ho scoperto che esiste un posto chiamato così in Svezia, nel Vestmanlän, ma anche che Hasselbäck è il nome di un materasso a molle che vendono all'IKEA.» Sejer guidò fino al bosco di Linde e parcheggiò la macchina in prossimità della sbarra del parcheggio. Elfrid Løwe sedeva accanto a lui con le mani in grembo. «Ha parcheggiato qui l'auto», spiegò Sejer, «poi ha trasportato Jonas in braccio.»
La donna guardò la sbarra bianca e rossa. «In questo punto ha incontrato la coppia, che poi l'ha identificato. Senza di loro non l'avremmo mai catturato. Scendiamo?» Aperta la portiera, lei appoggiò i piedi a terra. Sejer fece il giro della macchina e la prese per un braccio. Elfrid Løwe avvertì il calore del sole che stava tramontando e la forza di quell'uomo alto accanto a lei. «Brein è un poveraccio», disse lei. Sejer annuì. «Probabilmente è vero. Ha trovato una propria dimensione in prigione, dice che i giorni trascorrono bene. Mi chiedo se pensi a Jonas. Se provi davvero rimorso. Dice di sì, ogni ora del giorno.» «Gli crede?» «No.» Proseguirono in silenzio. Sejer si sforzava di adeguare i suoi passi a quelli corti della donna. «Avete scattato delle foto?» gli domandò. «Sì, tante. Dobbiamo, è una parte importante delle indagini.» «Che fine fanno quando il caso è chiuso?» «Vengono archiviate insieme a tutti gli incartamenti relativi. Nessun estraneo può accedervi, se è a questo che si riferisce. Se fossi in lei, non le vedrei.» «Non l'ho neanche chiesto.» Poi, con voce più dolce, disse: «Il tempo era bello, vero? Mi ricordo che faceva caldo, la temperatura era estiva». «Sì.» Sejer si ricordava. «Lavoravamo in maniche di camicia. Dopo quel giorno la temperatura si è abbassata ed è arrivato l'autunno.» Si erano inoltrati nel bosco. Sejer scostò del fogliame ed Elfrid si chinò sotto i rami. «Ha scelto il posto con cura», spiegò Sejer. «Gli esseri umani sono complessi. Nonostante l'orrore, ha cercato di compiere qualcosa di giusto, non voleva che trovassero Jonas in un fosso.» «Lei non si aspetterà certo la mia gratitudine, vero?» «No», rispose con un sorriso, «sto pensando ad alta voce.» Finalmente vide la radura. Riconobbe immediatamente il boschetto e la catasta di legna. «Qui, Elfrid, vicino a quel gruppo di alberi.» Lei si fermò portandosi una mano alla bocca. «Era disteso sulla pancia con il volto girato verso terra e le braccia spa-
lancate.» «Senza pantaloni», disse lei. «Sì.» «Cosa ha pensato?» gli chiese. «Cosa ha pensato quando ha visto Jonas là senza i pantaloni?» «Ho pensato a quello che le avrei detto quando l'avrei incontrata. In un certo senso ero anche sollevato. Jonas era così bello e integro.» Lei sorrise coraggiosamente. «È bello qui», disse la donna. «Molto bello.» Andò a sedersi su un tronco. Sejer rimase in piedi a guardare il paesaggio; gli odori del bosco saturavano l'aria. «Se la cava troppo facilmente», commentò lei. «Si riferisce a Brein?» «Sì.» «Secondo lei quale sarebbe stata la punizione giusta? Quale sarebbe stata una giusta ricompensa per lei e Jonas?» «Non la morte», rispose Elfrid velocemente. «Non pensava a questo, vero?» «Neanche per un attimo.» «Be'», esitò, «non sarei molto felice se ricevesse troppo nutrimento. E non intendo il cibo. Mi riferisco a tutte le altre forme di nutrimento, quelle che vanno all'anima e al cuore. Esperienze, calore, gentilezza.» «Qualcosa riceverà sicuramente. La disturba?» «Sì. Non è giusto che se la passi troppo bene.» Lo guardò in preda alla disperazione. «Pensi se adesso sta ridendo... A volte me lo immagino che ride. Un pensiero insopportabile.» «Ma ha anche i suoi momenti cupi», disse Sejer, «da solo, in una cella. E non ha nessun posto dove andare.» «Sono tanti quelli come Brein», sottolineò Elfrid. «Sì. Finché gli adulti si comporteranno in modo sbagliato e fintanto che i genitori si rendono responsabili di abusi, esisteranno violenti e stupratori.» «Grazie», disse lei piano. «Grazie di cosa?» «Di tutto.» «Le sembrerà un'affermazione strana», confessò Sejer, «ma sia lei sia Jonas August siete stati una bella conoscenza di cui non avrei potuto fare a
meno.» Tornarono alla macchina. Non dissero nulla mentre camminavano. Anche in auto rimasero in silenzio. Quando sbucarono sulla strada principale lei lo guardò con aria interrogativa. «Posso telefonarle?» «Certamente.» «Voglio dire... quando si fa dura.» «Può chiamare quando desidera. Adesso ci conosciamo», ribadì Sejer. «Ora tra di noi c'è una linea diretta che ho bisogno di mantenere aperta per sempre», disse lei. La sera cominciò a piovere. Rimase lo stesso nel parco, tanto, che senso aveva tornarsene a casa? Le stanze erano vuote e fredde. Lei lo aveva lasciato nel più vigliacco dei modi, aveva pianificato tutto con cura. Provò un bisogno enorme di mettersi in mostra, invece strinse i denti, non voleva piagnucolare e lamentarsi, non era fatto di quella pasta. Nel parco si dipanava una rete di stradine asfaltate e sottili, girò qua e là a casaccio, alla cieca. Giunse a un bivio. Al centro, c'era una rotonda con una bella scultura, una bambina piccola, nuda. Si lasciò cadere su una panchina, rimase seduto a osservarla: era immortalata mentre saltava, ridente e felice, le braccia tese in avanti. Si convinse che fosse diretta verso di lui, che gli sarebbe balzata in grembo da un momento all'altro, ma, quando cercava di coglierne lo sguardo, la bimba fissava cieca davanti a sé. La pioggia gli colava lungo il collo, le scarpe erano zuppe d'acqua, ma rimase dov'era. Prima o poi le cose sarebbero andate come voleva lui. Una bambina sarebbe apparsa tra gli alberi, con indosso un impermeabile rosso, e lui si sarebbe alzato dalla panchina con uno splendido sorriso. FINE