MARION ZIMMER BRADLEY I FALCONI DI NARABEDLA (Falcons Of Narabedla, 1964) PREMESSA Quando avevo circa otto anni, nel so...
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MARION ZIMMER BRADLEY I FALCONI DI NARABEDLA (Falcons Of Narabedla, 1964) PREMESSA Quando avevo circa otto anni, nel solaio della vecchia fattoria di sapore lovecraftiano in cui vivevo, trovai uno scatolone traboccante di vecchi romanzi pulp come Argosy, Blue Book, Weird Tales. Passavo ore a leggerli, sdraiata sul pianerottolo polveroso, con l'odore dell'intonaco nelle narici, mentre sopra di me un vecchio grammofono Victrola suonava gracchianti dischi di Caruso. A volte ero talmente assorta in una storia, da non accorgermi che il disco era arrivato in fondo e solo quando cominciava ad emettere sfrigolanti gracidii mi alzavo per ricaricare distrattamente la manovella con una mano sola. Intorno ai vent'anni scoprii i romanzi pulp di fantascienza dove nei grandi nomi di Kuttner, Hamilton e Brackett, le fantasie che tanto amavo si fondevano con la scienza e l'avventura. Ma ben presto, incalzata da un'era di sviluppi scientifici, la fantasy d'avventura scomparve, sostituita da una ventata di grigio realismo: la scuola di «la sabbia nella mia tuta spaziale». Non ho nulla contro la fantascienza realistica e costruita con meticolosità, anzi, a volte mi piace persino scriverne, ma provo una grande nostalgia per i vecchi tempi, per il luccichio di strani soli su mondi che non sono mai esistiti e non esisteranno mai. E a quanto sembra non sono l'unica. La fantasy avventurosa, la spada e magia o comunque vogliate chiamarla, sta riprendendo piede, forse in forma leggermente più sofisticata, ma sempre con lo stesso fascino... il debole lucore di un mondo buio, il lampo dell'ala di un falco... forse simile ai falconi di Narabedla. M.Z.B. CAPITOLO 1 L'AQUILA Dagli alti picchi sopra di noi giunse il grido di un grosso rapace. Mi voltai verso Andy, immerso fino alle ginocchia nell'acqua gelida accanto a me. «Ecco la tua aquila; probabilmente ha sentito l'odore del coguaro che abbiamo ucciso ieri.» Cominciai a riavvolgere la lenza, sapendo
già quale sarebbe stata la prossima mossa di mio fratello. «Prendi la macchina fotografica, cercheremo di scattare una fotografia.» Ci acquattammo nel sottobosco, osservando il grande uccello da preda che planava in lenta spirale verso il coguaro morto. Tremante per l'eccitazione, con la macchina pronta, Andy sussurrò con reverenza: «Buon Dio, almeno due metri di apertura alare, forse di più...» L'uccello lanciò un altro grido diffidente, inclinando la testa. Noi eravamo sottovento e l'odore della bestia morta impediva all'aquila di sentire il nostro. L'aquila infatti non ci sentì né ci vide e continuò a scendere, posandosi sulla testa del coguaro. La macchina fotografica di Andy scattò due volte. L'aquila affondò il becco. Un lampo rosso fuoco mi trapassò il cervello. Il rapace... il rapace... balzai fuori dai cespugli e attraversai di corsa la breve radura che mi separava dall'animale morto e dall'uccello, mentre la mia mano si posava automaticamente sul coltello da caccia nella cintura. Il grido sorpreso e sconvolto di Andy non fu che un rumore lontano nelle mie orecchie; sbattendo furente le ali, l'aquila balzò indietro e poi con rabbia calò su di me. Udii e sentii il becco malvagio che affondava e alzai il coltello alla cieca, colpendo, lacerando, mentre l'uccello gridava di dolore, sbattendo le grandi ali. Una foschia incandescente mi turbinò attorno... Questo era già successo prima, avevo lottato così un'altra volta, per la mia vita, per la mia vita... Poi l'aquila se ne volò via gridando, uno stridio che si allontanava con il vento, un'ombra che svaniva. E la stretta di Andy sulla mia spalla, che mi scuoteva forte, la sua voce, spaventata e furente, a malapena riconoscibile. «Mike! Mike, maledetto idiota, stai bene? Devi essere impazzito!» Sbattei le palpebre, mi passai una mano sugli occhi e quando la ritrassi, vidi che era sporca di sangue. Sangue di uccello. Sentii la mia voce che chiedeva, stordita: «Cosa è successo?» Attraverso la nebbia rossa spiccò nitido il viso di mio fratello, furibondo e accigliato. «Sei tu che devi dirmelo! Mike, ma che diavolo ti è saltato in testa? Tu stesso mi hai detto che un rapace può attaccare un uomo, se viene disturbato. Lo avevo inquadrato perfettamente, quando sei saltato fuori come un pipistrello da una torre, e ti sei lanciato sull'aquila con il coltello. Devi essere impazzito del tutto!» Lasciai cadere a terra il coltello. «Già», risposi affranto, «immagino di aver rovinato la tua foto, Andy. Mi spiace, non...» Mi interruppi, sconsolato, sentendomi un perfetto idiota. Mio fratello mi teneva ancora la mano
sulla spalla; la tolse e si inginocchiò nell'erba, alla ricerca della sua macchina fotografica. «Non fa nulla, Mike», disse con voce spenta. «Mi hai spaventato a morte, nient'altro». Si rialzò in fretta e mi guardò dritto in faccia. «È solo che... maledizione, Mike, è una settimana che ti comporti come un matto. Non me ne importa niente di quella maledetta macchina, ma quando cominci a lanciarli contro le aquile a mani nude...» Con un gesto improvviso scagliò lontano la macchina e si mise a correre giù per il pendio in direzione della capanna. Mossi un passo per seguirlo, poi mi fermai e mi chinai a raccogliere i pezzi della sua adorata macchina fotografica. Doveva averla usata per colpire l'aquila. Un fortuna per me: persino un falco può essere un animale pericoloso, un'aquila poi... perché diavolo avevo fatto una cosa simile, proprio io, che avevo continuato ad ammonire Andy di stare alla larga degli uccelli rapaci? Svanita la frenesia dell'azione, mi sentivo stupido e con la testa leggera. Non mi meravigliava che mio fratello mi credesse pazzo; il più delle volte lo pensavo anch'io. Riposi la macchina fotografica nel cestino da pesca, promettendone mentalmente ad Andy una più bella, raccolsi le canne abbandonate e pulii il pesce pescato quel giorno. Era buio quando mi avviai verso la capanna; sentivo il ronzio del generatore elettrico che avevo installato e vedevo il chiarore della luce trasparire dalla foschia della Sierra. Entrando nel cerchio di luce della lampadina nuda, venni accolto dall'odore della pancetta: Andy non aveva aspettato il pesce. In piedi accanto alla stufa, mi voltava le spalle e quando entrai non si girò. «Andy...» dissi. «Lascia perdere, Mike. Siediti e mangia la cena.» «Andy, ti comprerò un'altra macchina fotografica.» «Ho detto che non ha importanza. Adesso, accidenti, mangia.» Per qualche tempo non parlò più; ma quando tesi il braccio per prendere una seconda tazza di caffè, si alzò e si mise a camminare agitato per la stanza. «Mike, sei venuto qui per riposarti», disse poi. «Perché non ti dimentichi per un po' del tuo interminabile lavoro e ti rilassi?» Gettò un'occhiata disgustata alle sue spalle, al tavolo da lavoro dove la luce illuminava un'intricata giungla di fili, magneti e bobine. «Stai trasformando questo posto in una filiale della General Electric.» «Non posso smettere ora», risposi con veemenza, «sono sulle tracce di qualcosa di qualcosa di grosso, forse, e se mi fermo adesso, non lo troverò
mai!» «Deve essere davvero grosso», ribatté Andy acido, «se ti fa comportare come un pazzo da manicomio.» Era un discorso che avevamo già fatto, quindi mi limitai a scrollare le spalle senza rispondergli. Mi ero reso conto di essermi imbattuto in qualcosa di grosso quando mi avevano buttato fuori dal laboratorio governativo, subito dopo la grande esplosione. Forse sto andandomene a cercare un'altra, di esplosione, pensai furente. Ma non me ne importava. «Siediti, Andy», gli dissi. «Tu non sai cosa è accaduto là. No, non è un segreto militare, né niente di simile. E stato tolto il segreto molto prima che terminassi il mio periodo di ferma.» Mi interruppi e bevvi il caffè, senza far caso al fatto che fosse bollente. «Tranne che per me», terminai con un po' della vecchia amarezza. Lavoravo in un laboratorio governativo ad un progetto per nuove apparecchiature di comunicazione, ma dal momento che non avevo terminato le ricerche, non serve a niente raccontare i particolari. Basti dire che si trattava di qualcosa che avrebbe reso il radar antiquato quanto una diligenza. Avevo costruito uno speciale condensatore supersonico e avevo avuto dei problemi con un gruppo di bobine magnetiche che si rifiutavano di avvolgersi nel modo giusto. Quando l'apparecchio esplose, erano tre notti che non dormivo, ma non è stata questa la ragione: in quel laboratorio era normale non dormire per tre notti di fila. Io ero normale, allora, ero uno dei tanti uomini delle comunicazioni, un po' troppo preso dalle ricerche di cui mi occupavo, ma senza nessuna delle teorie folli e poco realistiche che mi costarono il lavoro in seguito. Dissero che ero esaurito, che era stato il superlavoro, ma in realtà pensavano che l'esplosione mi avesse danneggiato il cervello. Non li biasimo, a volte lo pensavo anch'io. O almeno, mi sarebbe piaciuto poterlo pensare. Tutto cominciò al laboratorio in un giorno di sole velato, a causa di un inspiegabile corto circuito che non faceva che darmi una scossa dopo l'altra, tanto che alla fine mi ritrovai mezzo stordito. Quando finalmente riuscii a ripararlo (senza peraltro aver capito perché quel circuito dovesse andare in corto), l'oscillatore era impazzito, o almeno fu questo che pensai. Continuavo ad ottenere una serie di onde a bassa frequenza che non assomigliavano a niente che avessi mai visto. Poi udii qualcosa che sembrava una voce che uscisse da una vecchissima e improvvisata radio a galena... solo che non c'erano né radio né altoparlanti nel laboratorio e nessun altro
la udì. Neppure io ero molto sicuro di quello che avevo sentito, perché proprio in quel momento, tutti gli strumenti impazzirono, e quaranta secondi più tardi una parte del soffitto colpì il pavimento e il pavimento uscì dal tetto. Mi ritrovarono (così mi dissero) semisepolto sotto una trave. Mi risvegliai in ospedale, con quattro costole rotte e la sensazione di essere stato attraversato da corrente ad alta tensione. Sul rapporto scrissero che ero stato colpito da un fulmine. Qualcosa dovevano pur dirla. Ci misi parecchio a riprendermi. Le costole e il resto guarirono in fretta... più in fretta di quanto piacesse ai medici. Non ho brutti ricordi dell'ospedale, a parte il fatto che per settimane non riuscii a camminare senza traballare né ad accendermi una sigaretta senza bruciarmi la mano. Quello che mi dava fastidio erano i miei ricordi precedenti al risveglio. Delirio, così me lo spiegarono. Ma il genere di segni che avevo sul corpo contraddicevano quell'affermazione. L'elettricità, persino la scossa di un fulmine, non provoca quel tipo di ustioni. E in questa parte del mondo non c'è l'abitudine di marchiare la gente. Ma prima che potessi mostrare quei segni a qualcuno al di fuori dell'ospedale, questi scomparvero. Non erano guariti, erano semplicemente scomparsi. Ricordo l'espressione dell'interno a cui mostrai i punti dove si erano trovate le ustioni: non pensava che fossi pazzo io, pensava di esserlo lui. Venni visitato anche da uno psichiatra, che con voce mielata e suadente mi parlò di effetti psicosomatici e di sintomi isterici, ma anche quella era solo la versione ufficiale. Io sapevo che il laboratorio non era stato colpito da un fulmine e anche il maggiore lo sapeva. Lo scoprii il giorno che ritornai al lavoro. Durante tutto il nostro colloquio, non fece altro che tracciare cerchi con la penna sul suo diario e parlare senza mai alzare la testa per guardarmi. «Lo so perfettamente, Kenscott: niente tempeste elettriche sono state registrate nelle vicinanze, nessun disturbo radio nelraggio di mille chilometri. Ma», proseguì con espressione testarda, «il laboratorio è andato in pezzi e lei è stato ferito. Qualcosa nel rapporto dobbiamo pur scriverla». Lo capivo, certo, ma la cosa che mi dava fastidio era il modo in cui mi trattarono quando tornai al lavoro. Mi trasferirono ad un'altra divisione e ad un altro progetto e respinsero la mia richiesta di proseguire le ricerche su quelle onde a bassa frequenza. Mentre ero a pranzo, dal mio taccuino scomparvero i miei appunti personali, che non rividi mai più. E non appe-
na poterono, mi spedirono a Fairbanks, in Alaska, mettendo fine alla faccenda. Tutto quello che dovevo sapere me lo disse il maggiore il giorno, prima che prendessi l'aereo per l'Alaska; il suo cipiglio era molto più eloquente delle sue parole, che già dicevano tutto. «Al posto suo lascerei perdere; non ha senso sollevare altri guai. E comunque non possiamo perdere tempo con ricerche secondarie. La prossima volta, invece di beccarsi una scarica ad alto voltaggio, potrebbe saltarle in aria la testa. Abbiamo tentato l'impossibile per cercare di scoprire da dove è saltata fuori quell'energia e dove è andata.» «Allora ammettete che qualcosa c'è stato!» Quell'affermazione era molto più di quanto avessi ottenuto da chiunque altro coinvolto nel progetto. «Ufficiosamente sì.» Il maggiore corrugò la fronte, senza incontrare il mio sguardo. Poi proseguì a precipizio, come se non potesse farne a meno: «Il fatto è che salta fuori quando lei è in giro e invece non si manifesta quando lei non c'è e non sappiamo se si tratti di un trucco, di poltergeist o di ESP, ma non ne vogliamo più sapere, qualunque cosa sia. Abbiamo chiuso tutte quelle ricerche, Kenscott. E se fossi in lei mi considererei fortunato e terrei la bocca chiusa su tutta la faccenda.» «Non si è trattato certo di un messaggio da Marte», commentai senza sorridere, e anche il maggiore non lo trovò divertente. Ma vidi il sollievo dipingersi sul suo viso quando uscii dall'ufficio per andare a svuotare i miei cassetti. Per un po' in Alaska tutto filò liscio. Mi assegnarono un lavoro d'ufficio, di supervisione degli incarichi e mi ignorarono quando cercai di tornare alle ricerche pratiche. Poi mi rispedirono negli Stati Uniti, con un congedo e la raccomandazione di un lungo periodo di riposo. Fu questo che cercai di spiegare ad Andy. «Lo hanno definito superlavoro; hanno detto che avevo bisogno di riposo e forse è così. La scossa mi ha fatto qualcosa di strano, mi ha risvegliato, come capita ai pazienti catatonici quando sono sottoposti ai trattamenti di elettroshock. Mi sembra di sapere un mucchio di cose che non ho mai imparato. È come se il normale lavoro con la radio, non mi dicesse più niente. Non ha senso. E di tanto in tanto qualcosa comincia ad avere un senso e poi all'improvviso non ne ha più. Quando nell'ovest si parlò di dischi volanti, qualunque cosa fossero, e poi si cominciò a parlare di fall-out radioattivo che avrebbe cambiato il clima e di quegli esperimenti di inseminazione delle nuvole... per un po' è stato come se tutto questo avesse un
significato, solo che continuavo ad aspettarmi che succedesse senza...» mossi una mano in un gesto incerto, cercando di mettere in parole quella che era solo un'impressione vaga, «senza che ci fosse bisogno di prendere un aereo e alzarsi in volo, senza che fosse necessario fare qualcosa. E quando siamo venuti qui...» mi interruppi, incapace di dare un senso a quelle impressioni confuse. Andy non mi avrebbe creduto comunque, ma io volevo che lo facesse. Un albero sbatté contro la finestra della capanna, facendomi trasalire. «È cominciato il giorno che siamo venuti in montagna. Energia che sbuca dal nulla, mi segue dappertutto, ma non mi mette fuori combattimento. Hai fatto caso che lascio sempre che sia tu ad accendere e spegnere la luce? Il giorno che siamo arrivati ho mandato in corto il mio rasoio elettrico.» Mi passai lina mano sulle guance non rasate. «E ho bruciato cinque fusibili cercando di cambiarne uno. Ricordi?» «Certo che ricordo, siamo dovuti andare in macchina in città per comperarne degli altri.» Lo sguardo inquieto di mio fratello si posò su di me. «Mike, ascolta... stai scherzando, vero?» «Vorrei che fosse così. Quell'energia mi si infila dentro e non succede niente. Sono immune.» Scrollai le spalle, mi alzai e mi avvicinai all'antiquato apparecchio radio, presi la spina e la inserii nella presa. Poi girai la manopola di accensione. «Guarda.» Il pannello lampeggiò e si oscurò, mentre dall'altoparlante uscivano confuse scariche di statica. Allontanai la mano. «Sintonizzala», disse Andy a disagio. «È già sintonizzata.» Girai ancora la manopola. «Cerca un'altra stazione», insistette mio fratello. Schiacciai tutti i pulsanti uno dopo l'altro: le statiche schioccavano e ronzavano e la luce del pannello si accendeva e si spegneva con piccoli lampi incomprensibili. «E a mezzogiorno la sintonia era perfetta; hai ascoltato la conferenza stampa del presidente.» Allontanai di nuovo la mano. «Avanti, adesso prova tu.» Andy si avvicinò con espressione accigliata e riaccese l'apparecchio. La luce del pannello si accese e la voce suadente di Milton Cross riempì la stanza: «... orchestra nella Quinta Sinfonia, o Sinfonia del Destino di Beethoven...» E i maestosi accordi iniziali della sinfonia risuonarono nella capanna. Mio fratello mi fissò mentre il coro di archi si univa ai fiati. Non c'era niente che non andasse nella radio. Rimasi ad ascoltare il suono del desti-
no. «Mike, cosa le hai fatto?» «Vorrei tanto saperlo.» Tesi un braccio e sfiorai leggermente la manopola del volume. Beethoven svanì in una scarica statica di percussioni impazzite. Imprecai ed Andy si scostò, trattenendo il fiato; poi mi guardò, guardò la radio, tese una mano per toccare la manopola e di nuovo la sonora fluidità della sinfonia del destino si riversò nella stanza, avvolgendoci. Rabbrividii. «Forse è meglio che tu lasci stare», disse Andy, con voce scossa. Andy si coricò presto, ma io rimasi nella stanza principale, a fumare inquieto, desiderando di poter bere qualcosa senza essere costretto a farmi cento chilometri di strade di montagna sterrate. Nessuno dei due aveva pensato di spegnere la radio, che continuava a riversare un'interminabile e singhiozzante concerto di jazz. Rigirai distrattamente tra le mani i miei appunti. Un fulmine che non era un fulmine, delle cicatrici sul mio corpo, strani segni ulcerosi che lo psichiatra aveva cercato di farmi credere che fossero psicosomatici. Il grido di un'aquila che volteggiava sopra di me... che cercava selvaggiamente di artigliarmi gli occhi, pronta ad uccidere... e quella morte io me la meritavo. Che cosa mi era tornato in mente nel momento in cui ero balzato fuori correndo verso il rapace con un coltello da caccia? Lasciai cadere la testa tra le mani, chiudendo gli occhi e cercando di sgombrare la mente dai pensieri superficiali, per ricordare... ricordare... Fantasia? Era forse la fantasia che mi faceva vedere una forma strana, incappucciata, e tra me e quella forma incappucciata una donna? Una donna dorata... Capelli color dell'oro, con i riflessi fulvi del manto di una tigre, le ricadevano come seta sulle spalle; anche gli occhi erano d'oro, spalancati e fissi su di me come gli occhi di un felino. Tra le mani teneva qualcosa. Visione, sogno, fantasia... di colpo scomparve, quando la voce di Andy mi chiamò assonnata da dietro la tenda. «Pensi di passare tutta la notte a leggere, Mike?» «Se mi va», risposi secco e ricominciai a camminare avanti e indietro. «Mike! Per amor di Dio, smettila e lasciami dormire», esplose mio fratello, e io ricaddi sulla poltrona. «Scusa, Andy.» Dove era stata quell'intangibile parte di me nelle ore e nei giorni in cui
ero rimasto sotto la trave in laboratorio e poi sotto morfina in ospedale? Da dove erano venute quelle cicatrici... e dove erano finite? E, interrogativo ancor più importante: cosa aveva fatto esplodere il laboratorio radio, proprio quello? L'elettricità può causare incendi, e le onde radio troppo intense possono causare scottature. L'elettricità può paralizzare o addirittura uccidere un uomo, ma non esplode. E che genere di fulmine mi portavo nel corpo, che mi rendeva immune alla normale corrente elettrica? Non avevo raccontato ad Andy di quella volta in cui avevo deliberatamente mandato in corto il generatore in cantina e avevo assorbito tutta la corrente attraverso il mio corpo senza riportare il minimo danno. Sarebbe stato un modo orribile di commettere suicidio, ma io non mi ero suicidato ed ero ancora vivo. Richiusi la finestra imprecando. Era meglio che me ne andassi a letto. Aveva ragione Andy: o ero pazzo, oppure c'era qualcosa di strano che i normali dottori non erano in grado di scoprire, e rimanermene lì seduto a rimuginare non sarebbe servito a nulla. Se la cosa non fosse passata, avrei preso il primo treno per casa e sarei andato a consultare un altro psichiatra... e se anche quello non fosse servito, allora magari mi sarei rivolto ad un buon elettricista. Per intanto, mi sarei infilato sotto le coperte. Sollevai la mano e senza pensare spensi la luce. Maledizione! Avevo di nuovo mandato in corto il generatore. La radio tacque come se tutta l'orchestra fosse morta sul colpo. Le luci della capanna si spensero con un lampo, ma la mano che tenevo sull'interruttore crepitava, soffusa da un alone fosforescente, mentre tutta la corrente elettrica della casa si riversava nel mio corpo, con una scossa che mi procurava un formicolio strano e mi faceva battere i denti. E poi qualcosa si spalancò nel mio cervello. Di colpo udii una voce eccitata che gridava: «Rhys! Rhys! È quello l'uomo!» CAPITOLO 2 LA CITTÀ ARCOBALENO «Tu sei pazzo», disse l'uomo con la voce stanca. Galleggiavo alla deriva, senza corpo, su un enorme abisso cavernoso, uno spazio senza fondo, immenso, senza confini. E vagamente, attraverso quella incommensurabile distanza udivo due voci. Questa era vecchia e.molto stanca. «Sei pazzo. Lo sapranno. Narayan lo verrà a sapere.» «Narayan è uno sciocco», disse la
seconda voce. C'era qualcosa di vagamente familiare in quella voce, l'avevo già udita prima. Ma dove? «Narayan è il Sognatore», ribatté la voce stanca. «Lui è il Sognatore e dove cammina il Sognatore essi lo sapranno. Ma facciamo pure quello che vuoi. Io sono vecchio e non ha importanza. Te lo do di mia spontanea volontà per risparmiare a te e a Gamine quello che dovrà accadere.» «Gamine...» la seconda voce si interruppe e dopo un lungo silenzio riprese: «Sei vecchio e sei anche sciocco, Rhys. Che cos'è Gamine per me?» Cieco e senza corpo, andavo alla deriva, dondolavo e galleggiavo nel suono di quelle voci. Il ronzio, come un milione di fili elettrici ad alta tensione, cantava intorno a me e io mi sentivo cullato da qualcosa che assomigliava alla spinta di una gigantesca calamita, che mi ancorava, mi teneva sospeso al sicuro nel nulla e mi attirava in basso nel campo di qualche forza sconosciuta sotto di me... sotto di me... da un'altra parte. Molto lontano, in basso, le voci erano svanite, e come se il loro suono avesse rimosso qualche invisibile e intangibile sostegno, dondolai libero... caddi... mi tuffai verso il basso, a testa in giù, nell'abisso. Eppure, nonostante tutto, ero sempre conscio di trovarmi in piedi, nella capanna, con la mano sull'interruttore... ma continuavo a cadere attraverso quello spazio inesistente... Toccai un pavimento duro con uno schiocco secco e sussultando ritornai nel mio corpo. Il vento freddo mi congelava il viso: le pareti della capanna erano state sbalzate verso le stelle. Mi trovavo davanti ad una finestra con le sbarre, in cima al pinnacolo di un'alta torre sospesa in mezzo ad una luminescenza azzurrina che si incurvava tremolando nella notte. Ebbi la fuggevole visione di un volto esterrefatto, un viso magro, vecchio e stanco sotto un cappuccio alto e appuntito, prima che mi cedessero le gambe e cadessi, battendo la testa contro le sbarre della finestra. Giacevo da qualche parte nell'oscurità e non avevo coscienza di me stesso come Mike Kenscott; al contrario, la mia mente era pervasa dalla paura e da un senso di urgenza. C'era qualcosa che dovevo fare, un avvertimento che dovevo dare... ed ero terribilmente spaventato. Mi mossi e l'oscurità che mi avvolgeva si diradò schiarendosi un poco, permettendomi di distinguere forme e contorni vaghi. Mi alzai, con i movimenti fluidi e senza sforzo dei sogni, attraversai una porta stranamente arcuata ed entrai in un corridoio poco illuminato, pervaso da una fosforescenza azzurra. Nel silenzio udii il suono del mio respiro, ma nessun rumo-
re di passi. Sapevo di non dover fare alcun rumore e di dovermi tenere rasente alle pareti, ma al tempo stesso qualcosa di orgoglioso e rabbioso mi diceva di camminare senza cautela e senza timore. Il corridoio era lungo, ma non avvertii fatica. Per due volte passai accanto a figure strane, senza provare alcuna curiosità per le loro forme incappucciate ed evanescenti; chissà come, sapevo che non erano in grado di vedermi. Mi fermai davanti ad una porta chiusa con un catenaccio e la parte di me in preda alla paura esitò, colta da un panico indescrivibile. Poi sentii che alzavo una mano e facevo un gesto strano. La porta scivolò di lato senza rumore ed io entrai. La stanza era buia e vuota, con una grande finestra che si apriva sulla notte stellata. Dalle pareti pendevano qua e là strane forme alate ed immobili. Senza esitare, mi avvicinai ad una parete e sollevai una di quelle cose. Un mantello? Un uccello morto? Toccai delle piume, delle penne, inerti e senza vita: una strana paura mi attanagliò lo stomaco. Una piccola e ignota parte di me gridò Cosa sto facendo?, ma senza esitare mi posai quella cosa scura e piumosa sulla testa. Vi fu un momento sospeso, senza tempo, durante il quale fluttuai privo di corpo, un semplice grumo di coscienza nello spazio. Poi, goffamente, ritrovai il mio corpo e mossi i piedi con cautela, avvicinandomi a un basso divanetto, dove, sostenendomi con le mani, mi sdraiai. Avvertii una specie di spinta, come se venissi tirato, come se la parte essenziale del mio essere stesse lottando per liberarsi da un intrico di abiti pesanti. Ma quella stessa parte di me che mi aveva guidato fino lì, sapeva che non potevo ancora cedere, che non potevo ancora liberarmi. Lentamente, cautamente, mi misi perfettamente supino e trassi un profondo respiro. E di colpo mi ritrovai fuori, lontano... mi innalzavo con un gran batter d'ali, veleggiavo al ritmo cadenzato del battito di quelle ali. Le braccia, le mie braccia erano grandi ali e tutt'attorno a me c'erano il cielo vuoto e le correnti fredde. Volare! Il sogno più antico dell'uomo... ma questo non era un sogno! Sentivo il morso gelido del vento a cui si mischiavano gocce di umidità. Nonostante fosse buio, frugai con lo sguardo da quell'altezza vertiginosa e vidi sotto di me un vasto tratto di foresta. I colori erano sbiaditi alla luce della luna, ma in basso, molto in basso, spiccava una torre svettante e la grande finestra spalancata da cui ero partito. Ero assillato da una fretta indicibile; sentii il mio corpo di uccello tendersi, assottigliarsi, divenire simile ad una freccia, le ali allargarsi in un
battito cadenzato. Stavo volando verso ponente, sopra i boschi, e sotto di me vedevo piccole strade e sentieri, abitazioni isolate e campi coltivati, e sentivo il vento sul mio viso. Avevo la sensazione di volare da sempre, ma non avvertivo alcuna stanchezza e il tempo mi sembrava stranamente dilatato, quindi potevano essere passati minuti o ore. La brezza si fece più fresca, la luce si schiarì e capii che l'alba era vicina; quel corpo di uccello sembrava instancabile, il cuore batteva forte e senza incertezze, come una macchina senz'anima, ma io (quel me intangibile) mi sentivo spaventato ed esausto. Sapevo che l'arrivo dell'alba avrebbe significato pericolo per me, ma non ne conoscevo la ragione. Giù, e ancora giù. Una linea di luce rossa comparve sopra l'orizzonte, riportando i colori nei campi sotto di me. Allora vidi con chiarezza le tende e gli uomini che ne uscivano, muovendosi tra di esse. Troppo tardi! Gridai e udii la mia voce come l'urlo acuto e forte di un falco; ero stato visto. Sotto di me le sagome degli uomini si raggrupparono, si divisero in capannelli, gridando e indicando verso l'alto. «Una delle loro maledette spie!» Vidi un uomo grande, una forma confusa e senza volto nella luce dell'alba, inginocchiarsi con qualcosa che pareva una balestra appoggiata contro il petto. Allora la paura cedette il posto alla rabbia. Come osava! Roteando con una velocità che mi stordì e che sfocò il terreno sotto di me, mi tuffai verso il basso. Gli uomini fuggirono gridando ed io udii la mia risata silenziosa trasformarsi ancora una volta nel grido spettrale di un uccello rapace... Una freccia mi passò accanto sibilando; e un'altra ancora. Rapidamente e automaticamente, le evitai, mentre paura e stupore si facevano strada dentro di me. Che cosa ci facevo lì? Perché ero venuto? Perché cercavano di colpirmi quando ero venuto ad avvertire... ad avvertire... Ad avvertire chi? Vidi la balestra tendersi e poi il dardo sfrecciare verso di me; battei le ali disperatamente, planando di lato... troppo tardi! Mi preparai al colpo. La freccia mi trapassò il petto, ma stranamente, non avvertii dolore, solo un curioso senso di pressione, uno schiocco tintinnante e una scossa. Sentii le ali farsi inerti, immobili e dal basso udii salire un grido di esultanza, gioia e trionfo. Stavo cadendo... Senza avere coscienza del trascorrere del tempo, mi ritrovai sdraiato su un alto letto, in una stanza piena di porte. e di sbarre. Vidi l'angolo di uno
specchio in una cornice e la parte alta di una specie di baule. Non era la stanza in cui avevo trovato (o sognato?) le forme piumate e immobili. Quella stanza era illuminata dalla luce del sole e su di una panca accanto al letto erano sedute due figure. Uno era un uomo vecchio, vecchissimo e grigio, con un grande cappuccio a punta e le spalle curve e stanche ricoperte da un saio alla foggia dei lama tibetani. Avevo scorto quel viso sotto il cappuccio e udito quella voce vecchia e stanca, per un istante, nell'attimo prima di precipitare in queEo strano... — sogno? — in cui volavo. L'altra figura era più snella, più giovane, avvolta in veli di seta blu argento, con una strana opacità nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi la faccia e un pallido bagliore di carni che traspariva da sotto quei veli color zaffiro. La figura era quella di un ragazzo snello o di una ragazzina non ancora donna; sedeva eretto, immobile, e io lo guardai a lungo, con curiosità, da sotto le ciglia. Ma quando alla fine sbattei le palpebre, la figura si alzò e attraversò una delle tantissime porte; quasi immediatamente, un sommesso fruscio di tende annunciò il suo ritorno. Mi misi a sedere, appoggiando i piedi sul pavimento... o quasi, perché il letto su cui ero stato disteso era più alto anche di un letto d'ospedale. La creatura vestita d'azzurro mi porse una tazza con il manico, simile a quelle che usano i bambini piccoli, che io presi con una certa esitazione. «Né droga né veleno», disse ironico il fantasma azzurro e anche la voce era vaga come il corpo velato; una voce asessuata, un dolce contralto, di una donna o di un ragazzo. «Bevi e sii felice che non si tratti di una delle pozioni di Karamy.» Assaggiai la bevanda, che aveva un colore vagamente verdastro e un sapore pungente che non fui in grado di riconoscere, anche se mi rammentava un misto di anice e aglio. Restituii la tazza vuota e fissai con un'occhiata penetrante il vecchio con il saio da lama, che non si era mai mosso e non aveva neppure alzato gli occhi per guardarmi. «Tu sei... Rhys?» chiesi. «E dove diavolo sono finito ora?» Era quello che avrei voluto dire, ma immaginate la mia sorpresa quando udii la mia voce proseguire in una lingua che non avevo mai udito prima ma che capivo perfettamente: «In quale dei nove inferni di Zandru sono stato sbattuto ora?» Nello stesso momento mi accorsi degli abiti che indossavo. Non mi avrebbe sorpreso ritrovarmi ricoperto di piume (se stavo ancora sognando), ma non ce n'erano. Invece indossavo quella che sembrava una vecchia ca-
micia da notte, che mi arrivava poco sotto i fianchi, di un vivo color cremisi. «Biancheria rossa!» pensai sgomento e trattenni l'impulso di scendere dal letto. Non sapevo come ero arrivato lì, né chi mi avesse infilato in quell'abito, ma non avevo nessuna intenzione di andarmene in giro con una camicia da notte rossa! «Potreste avere la decenza di spiegarmi dove mi trovo e come ci sono arrivato!» «Adric», rispose Rhys con quel tono stanco che sembrava essere parte integrante della sua voce, «cerca di ricordare. Sei nella tua Torre e sei di nuovo stato tenuto sotto sorveglianza. Mi spiace.» Il tono della sua voce era frivolo; un brivido freddo mi percorse la spina dorsale. A dispetto dello strano e folle ambiente in cui mi trovavo, la frase «sotto sorveglianza» mi aveva colpito: ero un pazzo e mi avevano rinchiuso da qualche parte! Quello vestito d'azzurro si intromise con la sua voce sarcastica, dolce e asessuata: «Finché Karamy ha le chiavi della sua memoria, potrai spiegarglielo anche venti volte. Lui non ci sarà più di nessuna utilità. Ha vinto Karamy, questa volta. Adric, cerca di ricordare: sei a casa, a Narabedla.» Mi sembrava di essere finito in un manicomio e forse c'ero proprio. Scossi la testa, camicia da notte o no, questa era una cosa che dovevo affrontare in piedi. Alzarmi mi fece sentire meglio. Mi avvicinai a Rhys e gli posai sulle spalle le mani strette a pugno. «Spiegami questo: chi dovrei essere? Dove mi trovo? Mi avete chiamato Adric, ma io non sono Adric più di quanto lo sia tu!» «Adric, non sei affatto divertente!» La voce di quello vestito d'azzurro era venata di rabbia. «Usa quel po' di intelligenza che Karamy ti ha lasciato! Hai bevuto abbastanza antidoto di sharig da curare un tharl. Allora, chi sei?» Quelle parole erano completamente prive di significato. Li fissai confuso e lasciai ricadere le mani dalle spalle del vecchio. «Adric», risposi frastornato. No: io ero Michael Kenscott. Aggrappati a questo: Michael Warren Kenscott; una capanna sulle Sierras, in vacanza, a pescare con mio fratello Andy. Andy! Due più due fa quattro, circonferenza uguale diametro per tre e quattordici... Smettila! Mike Kenscott, numero di matricola 13-48746. Mi presi la testa dolorante tra le mani. «Sono pazzo. O lo siete voi. O siamo tutti sani di mente e questa buffonata è reale.» «È reale», disse Rhys, con una punta di compassione nella voce stanca.
«È andato molto indietro sull'Ellisse Temporale, Gamine; non ho mai dovuto spingermi così lontano. Adric, devi cercare di capire: questa è opera di Karamy, ti ha spedito su una linea temporale molto, molto lontana nel passato, in un tempo in cui il mondo era diverso. Sperava che tornassi cambiato. O pazzo. O forse semplicemente voleva punirti.» «Punirmi per cosa? Chi è...» Le spalle stanche e curve si alzarono e poi si abbassarono. «Come faccio a dire quello che c'è tra te e Karamy?, Devo preoccuparmi anche di questo?» Gli occhi erano spenti, cupi. «Ho fatto quello che ho potuto. Adesso devo tornare alla mia Torre... o morire. Sono rimasto molto più. di quanto avrei dovuto. Gamine, vuoi spiegarglielo tu?» «Lo farò.» Un guizzo di emozione trasparì dalla voce neutra di quello vestito di azzurro... Gamine? «Vai, o Venerabile.» Rhys uscì dalla stanza senza far rumore, senza voltarsi indietro e senza neppure una parola di addio. Gamine si volse impaziente verso di me. «In questo modo perdiamo solo del tempo. Guardati, sciocco.» Mi avvicinai allo specchio che si trovava accanto ad una delle porte e al di sopra di quella camicia da notte cremisi cercai il volto che mi era famigliare. Quello che vidi mi fece pensare di essere impazzito. Da quello specchio mi guardava ansioso il viso di un uomo, ma era il viso di uno sconosciuto. Afferrai la cornice dello specchio con una mano e il riflesso fece altrettanto, come se in preda al panico stesse cercando di uscire di lì. Quel volto che non era mio: era sottile e allungato, con un paio di baffi neri e penetranti occhi verdi, e il corpo che apparteneva a quel volto era magro, alto, muscoloso e non del tutto umano. Chiusi gli occhi con forza. Non poteva essere vero! Riaprii gli occhi; l'uomo con la camicia da notte rossa che avevo indosso era ancora riflesso nello specchio e sembrava spaventato a morte. E lo era. Voltai la schiena allo specchio e mi avvicinai ad una di quelle finestre sbarrate per guardare i contorni familiari della Sierra Madre, lontani centocinquanta chilometri. Non potevo sbagliarmi: conoscevo quelle montagne. Ma tra me e le montagne si stendeva una fitta foresta, uno scenario che non avevo mai visto in vita mia. O non lo avevo invece visto in quel sogno in cui credevo ài volare? Sogno? Le sbarre, notai allora, non erano sbarre, ma inferiate ornamentali, che ad un mio tocco si aprirono su di un alto balcone con il pavimento di lastre
azzurre. Ero in piedi accanto al pinnacolo di una torre e in lontananza si scorgeva la sagoma di un'altra, poco più di un'ombra. Tutto il paesaggio sotto di me era immerso in una strana luce rosata e attraverso il cielo coperto di nuvole riuscii a malapena a distinguere il disco di un sole rosso. E poi... no, non stavo sognando, lo vedevo davvero... dietro il sole rosso, più alto nel cielo e sfocato attraverso le nuvole, un secondo sole, di una luminosità azzurra così accecante che anche attraverso la spessa coltre di nuvole dovetti chiudere gli occhi e distogliere lo sguardo. Quella prova mi bastò. Disperato, mi voltai verso Gamine. «Dove sono finito? Dove., in che tempo mi trovo? Due soli... ma quelle montagne io le conosco.» Il viso velato si volse verso di me, con una muta domanda nel capo leggermente piegato. Quello che avevo creduto un velo era piuttosto uno schermo scintillante avvolto attorno ai suoi lineamenti, così che Gamine sembrava privo di volto; una persona invisibile, dotata di sostanza, ma senza caratteristiche riconoscibili. Sì, era così, come se un uomo invisibile avesse indossato quello strano drappeggio di seta. Ma quella carne invisibile era fin troppo solida: dita simili ad acciaio caldo mi strinsero una spalla. «Sei tornato indietro... indietro ai giorni precedenti il secondo sole? Adric, dimmi, c'era davvero un unico sole prima del cataclisma?» «Aspetta», lo implorai. «Vuoi dire che ho viaggiato nel tempo?» L'eccitazione svanì dalla voce di Gamine. «Non importa. In ogni caso è improbabile che potresti ricordare abbastanza... no, Adric, non viaggiato nel vero senso della parola; sei stato mandato sull'Ellisse Temporale e devi essere entrato in contatto con qualcuno in quell'Altro Tempo. Forse il contatto è durato tanto a lungo che ti sei sentito qualcun altro.» «Ma io non sono Adric!» gridai. E di colpo ricordai le parole che avevo udito quando la mia mente si era aperta all'improvviso: Quello è l'uomo. La voce che adesso sapevo appartenere a Rhys lo aveva chiamato Adric. «È Adric che mi ha mandato qui, chissà come! Forse questo è il suo corpo, ma...» Lo schermo sfocato che nascondeva i lineamenti di Gamine fece una smorfia. «Non è mai stato provato che due menti possano scambiarsi in quel modo. Il corpo di Adric... il cervello di Adric, le circonvoluzioni cerebrali, i centri della memoria, gli schemi delle abitudini... tutto questo fa parte del cervello fisico. Saresti sempre Adric. L'idea di essere qualcun al-
tro è solo un'illusione della mente conscia. Sei rimasto troppo a lungo, Adric.» Scossi la testa, frastornato e perplesso. Io ero Mike Kenscott e a quello mi aggrappai disperatamente. «Continuo a non crederci. Dove mi trovo?» Gamine si scostò, impaziente. «Oh, va bene. Tu sei Adric di Narabedla e, se sei tornato di nuovo te stesso, sei Signore della Torre Cremisi.» «E tu chi sei?» «Non ti ricordi di me?» «No.» «Io sono Gamine. Sono un Cantaincantesimi... e altre cose.» Indicai la finestra con il gomito. «Quelle là fuori sono le mie montagne», dissi brusco, «ma io non sono Adric, chiunque lui sia. Io mi chiamo Mike Kenscott e tutta questa vostra messinscena non mi fa nessuna impressione. Togliti quel velo e lasciami vedere la tua faccia.» «Vorrei che lo avessi detto sul serio», fu il sussurro dolente. «Se osassi credere...» Un furia improvvisa e irragionevole mi pervase: senza rendermene conto, feci un passo avanti e udii la mia voce gridare: «Cosa importa a te quello che dico sul serio? Che diritto hai di fare il ficcanaso per quel vecchio sciocco di Rhys? Tornatene a casa tua, Cantaincantesimi, prima di scoprire che Karamy non possiede tutta la magia di Narabedla!» Mi interruppi, sconvolto: cosa stavo dicendo? Peggio, cosa avevo voluto dire con quelle parole? Gamine si voltò: la sua voce asessuata era solo leggermente divertita. «Così parla Adric. Chiunque risieda nella tua anima, Adric, sei sempre lo stesso e non cambierai mai!» La stoffa iridescente sfiorò il pavimento con un soffio mentre Gamine si dirigeva verso la porta. «Karamy può tenersi il suo schiavo!» La porta sbatté con violenza. Rimasto solo, mi lasciai cadere sull'alto letto, concentrandomi caparbiamente su Mike Kenscott, cercando di escludere dalla mia consapevolezza il mistero vago e indefinito che era Adric. Avevo pronunciato parole di Adric. Almeno non erano parole mie. Ma io non ero Adric! Non lo sarei stato! Non osavo avvicinarmi alla finestra per guardare quei due soli spaventosi, neppure per rivedere i contorni familiari e rassicuranti delle montagne, per evitare che, vedendoli, dovessi cominciare a credere... Ma i ricordi di Adric continuavano a tornare, il sentimento colpevole di un dovere non compiuto, un viso spaventato... un viso vero, non un nulla confuso... sotto il velo azzurro di Gamine. Ricordi di strane cacce e di un grande uccello appollaiato sul pomo di un'alta sella. Un uccello in-
cappucciato come un falcone, con un cappuccio cremisi... Il pensiero del colore mi fece tornare in mente la... - camicia da notte? che ancora indossavo. Senza pensarci consciamente, mi ritrovai, ad avvicinarmi ad una porta e ad aprirla facendola scivolare di lato. Tirai fuori degli abiti e li infilai in fretta, senza difficoltà, per quanto strani fossero (pantaloni aderenti, una tunica chiusa da lacci e un corsetto)... senza soffermarmi a riflettere su quello che stavo facendo. Tutti gli abiti in quell'armadio erano dello stesso color cremisi scuro, alcuni bordati di pelliccia, altri ricamati con fili d'oro o d'argento. Un'espressione usata da Gamine mi tornò in mente, di colpo, come un pesce che balzasse fuori dall'acqua: il Signore della Torre Cremisi. Be', di certo ne avevo l'aspetto. Nell'armadio c'erano anche dei pugnali e delle spade; ne presi una per osservarla e prima ancora di rendermi conto di quello che stavo facendo, me l'ero allacciata alla vita. La fissai costernato e poi decisi di lasciarla dov'era, perché si intonava perfettamente con il costume che indossavo. E sentivo che quello era il suo posto. Stavo facendo un passo indietro per guardarmi nello specchio, quando un'altra porta si aprì silenziosa è vidi un uomo in piedi che mi fissava. Era giovane e sarebbe stato bello, anche se un po' effeminato, se non avesse avuto quell'espressione arrogante sul viso. Snello, dal portamento un po' felino, non mi fu difficile capire che doveva in qualche modo essere parente di Adric, e quindi mio, ancor prima che la memoria e la consuetudine mi indicassero il suo nome... e la sua identità. «Evarin», dissi. Lui venne avanti, muovendosi tanto silenzioso ed aggraziato che per un attimo mi domandai se non avesse dei cuscinetti sotto le scarpe, come i gatti. Era vestito di verde da capo a piedi, con abiti dal taglio e dalla foggia in tutto e per tutto simili ai miei. C'era qualcosa di cangiante sul suo volto, come se fosse in grado, senza preavviso, di circondarsi di una barriera di invisibilità come quella che avvolgeva Gamine. Non sembrava umano come me... come Adric. «Ho visto Gamine», mi disse. «Ho saputo che ti sei svegliato, sano di mente quanto lo sei sempre stato. E noi di Narabedla non siamo così forti da poterci permettere di sprecare uno strumento anche malandato quanto lo sei tu. Quindi, bentornato a casa, fratello!» Un'impeto d'ira (l'ira di Adric) mi ribollì dentro; era un'esperienza snervante provare rabbia nei confronti di un uomo che, a livello conscio, non avevo mai conosciuto prima. Sentii che facevo un passo avanti, portando
automaticamente la mano sull'elsa della spada. Evarin indietreggiò agilmente. «Io non sono Gamine», mi ammonì. «Né puoi farmi quello che hai fatto a Gamine. Stai attento!» Non fece neppure il gesto di toccare il coltello che portava alla cintura. «Stai attento tu», borbottai, non sapendo che altro avrei potuto dire. Evarin distese le labbra in un sorriso tirato. «Perché? Ti hanno mandato sull'Ellisse Temporale per tanto tempo, che ora non sei che l'ombra di te stesso. Ma non sono venuto per litigare e tutto questo non c'entra. Karamy dice che devi essere liberato, quindi sono stati tolti i sigilli a tutte le porte e la Torre Cremisi per te non è più una prigione. Vai e vieni come ti pare... per ordine di Karamy.» Fece una smorfia derisoria. «Se la chiami libertà.» «Tu non credi che io sia pazzo?» chiesi piano. «A parte per quello che riguarda Karamy, non lo sei mai stato», replicò. «Ma a me cosa importa? Ho tutto quello che desidero. Il Sognatore mi assicura buona caccia, ho tutti gli schiavi che voglio per eseguire i miei ordini, e in quanto al resto... io sono il Giocattolaio. Non ho bisogno d'altro. Ma tu...» qui la sua voce assunse un tono sprezzante, «tu che eri così potente... ora fai scorribande nel Tempo agli ordini di Karamy e il tuo Sognatore avanza, in attesa di acquisire in pieno il suo potere con il quale un giorno ci distruggerà tutti!» Lo guardai serio; quello che diceva non significava nulla per me, gli accenni a Karamy e ai Sognatori... eppure le sue parole sembravano risvegliare in me una sorta di vergogna del tutto personale. Dunque le emozioni erano solo un'abitudine meccanica delle sinapsi del cervello? Non avevano nessuna relazione con la persona che io ero in realtà, Mike Kenscott? O invece ero pazzo... provavo le emozioni di una persona chiamata Adric; vergogna, rimpianto e paura per cose che non avevo mai fatto e neppure avevo sognato di fare? Evarin mi fissò attento, e sul suo volto l'amarezza si addolcì. Sembrava poco più di un ragazzo. «Il falcone che è stato lanciato non può più essere richiamato», disse piano. «Sono solo venuto a dirti che sei libero.» Si voltò, scuotendo le spalle magre che sembravano in qualche modo storte e si avvicinò all'alta finestra con le grate. «Se, come ho detto, la chiami libertà.» Lo seguii alla finestra. La foschia si stava diradando e i due soli brillavano accecanti, tanto che dovetti distogliere lo sguardo dal cielo. Guardan-
do a sinistra vidi una fila di torri multicolori, alte e delicate, eppure massicce, sormontate da aggraziate spirali. La più vicina era fatta di un materiale azzurro, una qualche pietra che brillava alla luce con lo stesso fulgore dei lapislazzuli; un'altra era verde smeraldo, altre ancora erano dorate, color fiamma, viola. Formavano un semicerchio attorno ad un parco alberato e dietro di esse, i familiari contorni delle montagne, che risvegliavano altri ricordi. Quel cielo accecante non era più azzurro, ma incolore, come la luce del sole sul ghiaccio. Di colpo, girai la schiena a quel panorama. «Narabedla», mormorò Evarin, «l'ultima delle Città Arcobaleno. Adric, quanto ancora?» Io stavo cercando di dare un senso ai nomi che aveva pronunciato. «Karamy...» cominciai esitando, ma Evarin la interpretò come una domanda. «Karamy può aspettare. E per te sarebbe meglio se aspettasse per sempre», rispose con una risata inespressa. «Vieni con me, o tornerà Gamine e tu non vuoi rivedere Gamine, vero?» Sembrava ansioso e così scossi la testa in un gesto esagerato. No, non volevo rivedere quel subdolo presuntuoso. Evarin parve sollevato. «Allora seguimi. Se conosco Gamine, devi essere parecchio annebbiato... frastornato. Ti spiegherò. Dopo tutto», e qui la sua voce assunse un tono ironico, «come potrei fare di meno per il mio unico fratello?» Aprì una porta, facendomi segno di precederlo. Istintivamente mi ritrassi, dicendomi che era solo perché non sapevo da che parte andare. Lui rise sottovoce e mi precedette. Lo seguii, lasciando che la porta scivolasse al suo posto. Scendemmo una rampa di scale e poi un'altra ancora, camminando fianco a fianco, mentre una parte della mia mente si chiedeva perché non provassi più paura; ero uno straniero in un mondo incredibile, indossavo gli abiti di un altro uomo, mi chiamavano con il suo nome e andavo in giro con i suoi amici, o i suoi nemici... come potevo distinguerli? E invece ero pervaso da quella calma incredibile con la quale gli uomini compiono nei sogni imprese fantastiche. Mi limitavo semplicemente a fare un passo dopo l'altro, arrendendomi a... Gamine le aveva chiamate abitudini, schemi di memoria incisi nelle mie circonvoluzioni cerebrali. Schemi: avevo il corpo di Adric e con ogni probabilità anche il suo cervello, che sembrava sapesse quello che stava facendo. Solo una parte superficiale di me, un ego esterno, era lo strano e confuso Mike Kenscott. Era l'Adric del mio subconscio a guidarmi ed io mi lasciai portare, per-
ché sentivo che sarebbe stato molto più saggio cercare di essere Adric quando ero con Evarin, anche se il suo atteggiamento mi sembrava amichevole. Entrammo in un pozzo elevatore che scese e girò intorno agli angoli con una velocità tale da appiattirmi contro le pareti e poi, lentamente, prese a salire. Persi quasi subito il senso dell'orientamento. Di colpo, la porta dell'elevatore si aprì e ci incamminammo lungo un corridoio debolmente illuminato. Era il corridoio del mio sogno? Da un punto imprecisato sentimmo una voce cantare, un timbro che poteva essere quello di un ragazzo o di un contralto femminile: era la voce di Gamine. Non riuscii a distinguere le parole, ma Evarin si fermò, imprecando. Mi sembrava di aver udito il mio nome in quella voce lontana, ma non ne ero sicuro. «Che cosa c'è, Evarin?» Lui uscì con un'esclamazione, che però non compresi. «Vieni, è solo il Cantaincantesimi che sta facendo riaddormentare il vecchio Rhys. Questa volta lo hai svegliato, vero? Mi stupisce che Gamine lo abbia permesso. Il vecchio Rhys è molto vicino al suo ultimo sonno. Immagino che ce lo manderai tra non molto.» Senza darmi il, tempo di rispondere (e comunque non avrei saputo cosa rispondergli) Evarin mi trascinò in un altro elevatore che cominciò immediatamente a salire insieme a noi. Quando si fermò entrammo in una stanza in cima ad un'altra torre, una stanza lussuosa, riccamente arredata. Evarin si lasciò cadere su di un basso divano, facendomi segno di seguire il suo esempio. «Adesso dimmi: in che punto del Tempo ti ha mandato Karamy?» «Karamy?» chiesi incerto. Di nuovo Evarin sbottò in quella sua risata rauca. «Sei davvero tanto confuso come sembri? Ah, che scherzo sarebbe per Karamy, se fosse vero! La Strega della Torre Dorata distrugge i tuoi ricordi... persino i tuoi ricordi di lei!» Gettò indietro la testa, scosso da una risata irrefrenabile. Poi, calmandosi di colpo, con l'aria di chi sta facendo una confidenza proseguì: «L'unica cosa che chiedo al Sognatore è di essere libero dagli incantesimi di quella strega. Noi della Città Arcobaleno dovremmo almeno lasciarci liberi l'un l'altro. Un giorno... un giorno le costruirò un Giocattolo e allora scoprirà che bisogna fare i conti con il Giocattolaio di Narabedla. Zandru sa se è poco quello che chiedo ai Sognatori; non voglio pagare il
loro prezzo. Ma a Karamy non importa che prezzo paga, quindi...» allargò le braccia, «ha potere su tutti, tranne me. Ha avuto il potere di mandarti sull'Ellisse Temporale. Mi chiedo chi ti abbia riportato indietro.» Le cose stavano cominciando ad assumere un vago significato. Chissà come, Adric era incorso nell'ira di Karamy, che era una Strega della Torre Dorata (qualunque cosa fosse) e lei lo aveva mandato fuori dal suo corpo. Qualcuno, cercando di riportarlo indietro, aveva catturato... me. Ma non lo avrei rivelato ad Evarin, perché qualcosa nel mio intimo sapeva che confessare a lui debolezza o paura sarebbe stata una catastrofe. Mi limitai quindi a scuotere la testa. «Comunque sia, sono tornato», dissi. «Anche se non ricordo molto.» «Ricordi me», disse Evarin. «Mi chiedo perché questo ricordo te lo abbia lasciato; Karamy non si è mai fidata di me. E aveva ragione a non fidarsi di te. Quel pensiero mi giunse da una riserva di conoscenza alla quale non potevo però attingere a mio piacimento, ma che comunque andava crescendo. «Mi ha lasciato solo il tuo nome, nient'altro.» Perché Evarin, lo sapevo, era incostante: adesso ti giurava amicizia eterna e un minuto dopo poteva, sempre per amicizia e senza nessuna cattiveria, scuoiarti vivo e considerarlo solo uno scherzo divertente. Sembrò che seguisse i miei pensieri, perché rise. «Comunque il mio nome lo conosci, ed è già qualcosa... indifesa è la schiena di chi non ha fratelli e questo vale tanto per me quanto per te, Adric! Dimmi cosa hai dimenticato.» Potevo confidargli la mia terribile perplessità? Per quanto tempo potevo, come Adric (e per lui dovevo essere Adric, perché la mia unica salvezza era il suo rispetto per Adric e per quello che era in grado di fare), per quanto tempo potevo andare avanti senza sapere? E quante domande potevo fare senza tradire la mia impotenza? «Sono rimasto fuori dal mio corpo troppo a lungo», dissi alla fine, «non riesco a ricordare.» Ma una cosa almeno dovevo saperla. «Che cosa sono i Sognatori?» Avevo fatto la domanda sbagliata, me ne resi conto appena pronunciata la frase. L'espressione dei suoi occhi cambiò: adesso si sentiva più al sicuro con me. «Per Zandru, Adric, sei andato lontano davvero», esclamò. «Devi essere tornato al tempo precedente al cataclisma.» Era vero, qualunque cosa fosse il cataclisma. Ma risposi con un cenno
del capo. «Bene: i nostri progenitori, dopo il cataclisma, costruirono le Città Arcobaleno e istituirono il Patto che uccideva le macchine. Nelle Città Arcobaleno vivevano e governavano quelli come noi a cui era stato concesso il potere, come avevamo sempre vissuto e governato; il Patto però fece in modo che esseri inferiori a noi non fossero mai più in grado di sfidarci. Oh, ci fu qualche idealista che insorse dicendo che li stavamo trasformando in barbari, ma non capivano!» Evarin si era eccitato e parlava con passione. «Quello che facevamo, invece, era proteggerli, proteggerli da poteri dei quali essi avrebbero solo abusato! Loro vivono in modo semplice, come devono vivere gli uomini comuni e non possono invischiarsi di arti e poteri che sono al di là della loro comprensione.» Mi guardò come se volesse sfidarmi a contraddirlo, ma io non dissi nulla; Evarin allora si alzò e si mise a camminare avanti e indietro. «Cosa sono i Sognatori? Non lo sa nessuno; non lo sanno neppure loro stessi. Erano uomini, un tempo. O quanto meno, nascono dalle donne e dagli uomini. Sa Mendel cosa li ha creati. Ma un uomo su diecimila nasce così - un Sognatore.» «Mutazioni?» pronunciai quella parola tra me e me ed Evarin non mi sentì, perché proseguì: «Alcuni dicono che ebbero origine dallo stesso Cataclisma, altri invece che sono le anime delle macchine morte. Sono umani e non sono umani. Sono telepati, hanno poteri, sono in grado di controllare ogni cosa: le menti, gli oggetti, le persone. Possono creare illusioni attorno agli uomini e alle cose... si sono opposti al nostro diritto di governare.» Si risedette e riprese, come parlando tra sé: «Una dozzina di generazioni fa qui nella Città Arcobaleno, uno dei nostri scoprì il modo di incatenare i Sognatori. Non potevamo ucciderli... loro hanno dei mezzi per proteggersi. Non so come, ma il colpo scagliato contro di loro non li raggiunge e ricade su chi lo ha scagliato. Ma quella persona imparò ad incatenarli, nel sonno, rendendoli innocui per noi. Forse non sarebbe stato necessario altro. Ma poi scoprimmo che mentre dormivano, e sognavano, potevano essere costretti a cedere i loro poteri. A noi. Così potemmo controllare i loro poteri, e usare la loro magia.» Lessi un lampo di orrore nei suoi occhi, quando disse: «Ad un prezzo. Il prezzo che tu conosci». Rimasi in silenzio perché io non conoscevo il prezzo. Volevo solo che Evarin proseguisse. Lui rabbrividì, scosse la testa e lo sguardo inorridito scomparve.
«Così ognuno di noi qui nella Città Arcobaleno ha un Sognatore che gli cede i suoi poteri, per il prezzo concordato, affinché il suo padrone possa fare ciò che vuole. E dopo anni e anni, mentre il Sognatore invecchia e si indebolisce, i suoi poteri svaniscono, e allora può essere ucciso. E quando i Sognatori sono ormai vecchi e deboli, si può persino permettere loro di svegliarsi, ma mai troppo o troppo a lungo.» Scoppiò in una risata amara mentre la furia compariva all'improvviso sul suo volto. «E tu hai liberato un Sognatore!» esclamò. «Un Sognatore con tutti i suoi poteri! Per il momento è innocuo, ma si è svegliato e cammina! E un giorno avrà il potere e ci distruggerà tutti!» Vi era un'espressione disperata sui lineamenti magri di Evarin, non era più arrogante, ma spaventato e dolente. «Un Sognatore», sospirò, «e tu sei già diventato una cosa sua! Adesso capisci perché non ci fidiamo di te, fratello?» Senza rispondere mi alzai e andai alla finestra. La stanza di questa torre non dava sul piccolo parco, ma sulla campagna aperta. In lontananza, strane spirali di fumo si innalzavano nella luce di quei soli troppo luminosi, mentre la terra era ricoperta da una nebbia spessa e densa. Si intravvedeva il brillio dei laghi, macchie di foresta, colline e sullo sfondo del cielo vidi un uccello che roteava silenzioso, volando contro vento. «Laggiù», disse Evarin avvicinandosi alla finestra, «laggiù il Sognatore cammina e attende di distruggerci tutti. Laggiù...» Ma non udii il resto della frase, perché la mia mente la terminò per me. Laggiù ci sono i miei ricordi perduti. Laggiù c'è la mia vita. Laggiù, da qualche parte, ho lasciato la mia vita. CAPITOLO 3 LA STREGA DORATA Voltai le spalle alla finestra. «Rhys è un sognatore», dissi cominciando a capire, «ma che cos'è Gamine?» Evarin annuì ma ignorò la domanda. «Sì, Rhys è un sognatore. Ora è vecchio, tanto vecchio che la sua fine si avvicina. Così si sveglia e cammina. Ma un tempo era uno di noi, l'unico Sognatore mai nato nella Città Arcobaleno. Non farà del male ai suoi consanguinei, perché in lui scorre il nostro sangue.» Si schiarì la gola. «Quindi Gamine strappa tutta la conoscenza che può dalla sua vecchissima mente. E non paga.»
«Ma Gamine?» Evarin esitò. «Karamy odia Gamine», disse poi, «e nessuno vede il volto di Gamine. Io non faccio domande e ti consiglierei di non farne neanche tu, a meno di non chiedere a Karamy.» Un sorriso fuggevole si disegnò su quella bocca espressiva. «Chiedilo a Karamy», disse allegro, «lei te lo dirà!» Karamy: quante volte era stata nominata quella Strega della Torre Dorata! Forse il ricordo di lei si era perso nello stesso pozzo profondo che mi aveva fornito il nome e l'identità di Evarin quando me l'ero visto comparire davanti. Pensai comunque che non ci fosse nulla di male a chiedere. «Perché Karamy odia Gamine?» «Fratello mio, se non sai rispondere tu a questa domanda, chi altri può farlo? Gamine ed io non ci amiamo molto, ma su una cosa siamo d'accordo: l'orda di schiavi creata da Karamy è una cosa mostruosa. E tu sei uno sciocco, o peggio, a pagare i suoi desideri. Karamy ama troppo avere il potere nelle proprie mani per essere disposta a pagare il prezzo necessario a metterlo nelle tue. Fino ad ora è stata lei a vincere ogni scontro tra di voi... altrimenti perché saresti stato rinchiuso nella tua stessa Torre?» «Ma ora sono libero», replicai. Evarin mi studiò con attenzione. «Sì. È possibile che tu sia più forte di quanto pensassi. Se è così, tu ed io potremmo unire le nostre forze, se pensi che Karamy sia troppo forte per il nostro bene. Posso aiutarti a recuperare la memoria.» Evarin mi si avvicinò e i suoi passi leggeri non produssero alcun rumore. «Guarda, ti ho costruito un Giocattolo.» Mi porse qualcosa di duro e piccolo, un oggetto avvolto in seta argentata. Curioso, sollevai la mano e scartai la stoffa: era un tessuto liscio e incolore, con la stessa sfumatura azzurra del velo di Gamine, diverso da qualunque tessuto avessi mai visto. Evarin si allontanò lentamente. Per un attimo, non riuscii a vedere altro che una sorta di invisibilità sfocata, come il volto di Gamine attraverso il velo; poi scorsi una superficie che assomigliava ad uno specchio. Ma non rifletteva nulla, anzi era una superficie fredda e scintillante, offuscata, che brillava dall'interno. Chinai la testa per vedere le forme delle ombre che si vedevano sulla superficie e avvertii una strana attrazione provenire dallo specchio, un freddo che si insinuava lentamente attraverso la mano, un freddo familiare, calmante. Avvicinai lo sguardo... Un debole movimento mi distrasse: Evarin mi stava osservando con espressione attenta, avida, ansiosa... e di colpo nella mia mente affiorò la
comprensione. I Giocattoli mortali di Evarin! Scagliai l'oggetto sul pavimento e gli sferrai un calcio rabbioso. La sfocata invisibilità vacillò e prima che il Giocattolo ritornasse al suo grigiore di ghiaccio, scorsi all'interno un minuscolo meccanismo. Evarin era indietreggiato dall'altra parte della stanza; gli balzai addosso e gli strinsi le mani attorno al collo. «La mia memoria non è poi così cattiva», sibilai. «Maledetto te, ti legherò quella cosa al collo!» Evarin fece una smorfia e di colpo tutto il suo viso si sfocò e il suo corpo evaporò sotto le mie mani; indietreggiai appena in tempo, mentre lui si rimaterializzava, pericoloso e mortale, troppo vicino a me. «Io prendo le mie precauzioni», esclamò. «Il mio Sognatore non si sveglia!» Si chinò per raccogliere il giocattolo caduto, ma io lo scostai con un calcio e lo presi prima che potesse farlo lui. «Questo lo tengo io», dissi, riavvolgendolo nella seta isolante e mettendomelo in tasca. Evarin mi gettò un'occhiata assassina. Ma subito, la furia sul suo viso si trasformò in un sorriso maligno e sfregandosi il collo dolorante, scoppiò in una risata irrefrenabile. «Be', io ci ho provato!» «Sì», risposi senza sorridere. «Ma questo resta nella mia tasca e tu resterai solido per un po', comunque! Giocattolaio! Maledetto scherzo di natura!» Uscii dalla stanza, sbattendo la porta alle mie spalle. Adesso che Adric aveva ripreso il controllo, non ebbi difficoltà a scoprire dove volevo andare. Un istinto cieco mi guidò attraverso il labirinto di elevatori, corridoi e scale. Attraversai gli alloggi della servitù, le cucine, stanze piene di cose alle quali rivolsi appena un'occhiata disinteressata, tanto mi erano familiari. Se mi fossi fermato a pensare dove stavo andando, mi sarei perso di sicuro, invece lasciandomi portare da Adric, alla fine mi ritrovai all'aperto, con il semicerchio di torri arcobaleno che si innalzava attorno a me. In alto i due soli, quello rosso e quello bianco, gettavano una strana luce dalla doppia ombra attraverso gli alberi ben curati. Una piccola luna diurna, più piccola di qualunque luna avessi mai visto, spuntava dietro la torre viola. L'erba sotto i miei piedi era normalissima erba, ma i fiori dai colori brillanti nelle aiuole perfette mi erano sconosciuti; enormi, carnosi, troppo vividi. Piccoli sentieri, fiancheggiati da stretti fossati che impedivano ai passanti di calpestare le aiuole e i fiori, si dipanavano in quello strano prato. Accettai quella vista senza pensarci, ma qualche scampolo di ricordo mi spinse ad evitare con attenzione i fossatelli. A quanto ricordavo, c'era una
ragione eminentemente pratica, per farlo. Una musica lontana, suadente, molto simile alla sommessa cantilena di Gamine, mi attirava come il canto delle sirene. Mi resi conto che erano i fiori a cantare. I fiori cantanti del giardino di Karamy... Adric ricordava la loro canzone del loto. Una canzone di benvenuto? O di pericolo? Non ero, solo nel giardino: degli uomini vestiti e inghirlandati d'oro e rosso come i fiori camminavano su e giù, irrequieti come fiamme incatenate. Per un attimo l'antica vanità riaffiorò nella mia mente. A dispetto di tutti i suoi schiavi, Karamy continuava a rendere omaggio al Signore della Torre Cremisi! Pagava - e avrebbe continuato a pagare! Gli uomini mi superavano in silenzio. Portavano spade, ma con la punta, smussata, come giocattoli per bambini. Erano un reggimento di zombie, di cadaveri. Il loro saluto quando mi avvicinavo, era meccanico, a scatti. All'improvviso, dai fiori giunse una nota acuta. Avvertii, non udii, che quella vuota parata si stava fermando, e poi, come in un balletto fantasma, gli automi si disposero in due file senza inizio e senza fine. Erano come tanti soldatini, tutti identici. E tra le schiene dei soldatini e i fiori, vidi correre un uomo. Un altro me stesso, da un altro mondo, ebbe il ricordo fugace dei soldati sulle carte da gioco nel giardino della Regina di Alice nel Paese delle Meraviglie, con le facce a terra. Udii la mia voce dire, in tono divertito: «Sembrano tutti uguali, fino a quando non li volti.» L'uomo che correva al limitare dei fossati delle aiuole non era una figura delle carte da gioco. Portava brache scure e una camicia scura e si muoveva in fretta e con leggerezza. Di nuovo dai fiori si levò quella nota acuta... dai fiori? Guardando attentamente, mi accorsi che l'uomo aveva tra le labbra un fischietto ed era quello che, mischiandosi alla canzone dei fiori provocava la nota acuta. Sempre correndo, mi fece un cenno, balzò oltre il fossato e mi si avvicinò. «Adric!» esclamò senza alzare la voce. «Karamy cammina qui. Ascolta i fiori! Temevo di dovermi avventurare nella torre per venirti a cercare e Narayan non può proteggermi tanto lontano!» Alzò la mano in cui teneva il fischietto e vi soffiò dentro, una nota dolce, liquida che si confuse con la sommessa canzone dei fiori. Poi, tratto un profondo respiro, proseguì in tono pratico: «Per Aldones! Come sono contento di vederti! Narayan ha detto che sapeva che eri libero, ma nessuno di noi gli credeva davvero. È fuori dai cancelli. Mi ha mandato ad aiutarti. Vieni».
La vista di quell'uomo toccò un altro nervo scoperto nel mio cervello. Narayan. Quel nome ne generò un altro, con un cupo sottofondo di paura, terrore e pericolo. Ma ero appena stato con Evarin. Conoscevo quell'uomo, sapevo che risposta si aspettava, ma quella breve occhiata nello... specchio? del Giocattolaio aveva inescato una catena di azioni che non ero in grado di controllare. Cercai di stendere la mano in un saluto di benvenuto e invece, con orrore, la sentii posarsi sull'elsa della spada. Tentai invano di bloccare la spada, che contro la mia volontà uscì sibilando dal fodero. L'uomo indietreggiò, con gli occhi pieni di terrore. «Adric... no... il Segno...» Alzò una mano, in un gesto di disapprovazione, poi urlò d'agonia e si piegò in due, stringendosi le dita mozzate. Udii la mia voce, selvaggia, disumana da cui traspariva la risata sottile di Evarin: «Segno? Eccoti un segno!» L'uomo si portò fuori tiro, ma sul suo viso, contorto dal dolore, si leggeva solo uno sconvolto stupore. «Adric... Narayan ci aveva giurato che eri... eri tornato te stesso.» Con uno sforzo, riportai la spada nel fodero, ma questa sembrava non volervi entrare e fui costretto a lottare come se si trattasse di una cosa viva, che si torceva come un serpente. Fissai attonito quella ferita che non avevo voluto infliggere, e le corolle ondeggianti dei fiori dietro l'uomo. Non potevo uccidere quell'uomo che aveva sulle labbra il nome di Narayan. I fiori tremolarono, si torsero, e tesero lunghi tentacoli famelici verso la mano sanguinante dell'uomo. Una nausea improvvisa mi serrò la gola. «Corri!» lo incitai. «Corri, o non potrò...» I fiori trillarono. L'uomo gettò indietro al testa, con gli occhi colmi di panico e urlò. «Karamy! Aieee!» Barcollò all'indietro, rimanendo in bilico sull'orlo del fossato; gridai un altro avvertimento, un suono senza significato, ma troppo tardi. Lui calpestò i fiori, attraversando il fossato e i fiori tremolanti di colpo gli arrivarono alle spalle, esultando in un selvaggio peana di musica floreale. Cercando invano di mantenere l'equilibrio, l'uomo cadde in mezzo ad essi. Lo udii gridare una volta, un urlo rauco, impotente. Distolsi lo sguardo, sentii un fruscio maligno, uno stormire e poi un orribile urlo che svanì subito, ma la cui eco si ripercosse sulle mura delle torri che ci circondavano. Un mormorio, che sembravano le fusa di un gatto. Poi i fiori si calmarono, tacquero e ripresero a dondolare innocenti dietro i loro fossati. Karamy, tutta fuoco e oro, avanzò lungo il sentiero tortuoso tra gli alberi. E nello spazio di un secondo mi scordai dell'uomo che giaceva in quel-
l'aiuola di fiori mortali. Era tutta d'oro: dalla cima dei capelli color del grano rosso fino alla punta dei piedi calzati di sandali, era un luccichio brunito; c'era ambra sulla sua fronte e una bacchetta d'ambra tra le sue mani e il suo sorriso era un sogno... Una visione, una fantasia che avevo visto in quell'altro mondo... Una bellezza ammaliatrice ha un effetto paralizzante, cancella ogni altra emozione. Rimasi a fissare la Strega Dorata, e la scintillante bacchetta d'ambra che sembrava seguire i contorni del mio viso. Ma una vecchia abitudine mi fece distogliere lo sguardo. Karamy sorrise, posando gli occhi dorati da gatto sulla figura riversa tra i fiori. «Dunque, mi era sembrato di sentire qualcosa. Come avrà fatto ad avvicinarsi tanto?» Sempre fissando me, fece ruotare la bacchetta luccicante: la canzone dei fiori, quel lamento dolce e sommesso, riprese e due degli zombie si mossero senza far rumore. Al movimento silenzioso della bacchetta d'ambra, sollevarono il corpo e lo portarono via. La musica tacque. Karamy abbassò gli occhi a terra e seguendo la direzione del suo sguardo, vidi qualcosa sul terreno: era un fischietto. Karamy lo toccò con la punta di un sandalo. «Un'idea intelligente», disse con scherno, «ma non abbastanza.» Poi, con impeto, sollevò il viso verso di me e tese le mani sottili. «Adric! Adric! Non appena sei libero, ti danno di nuovo la caccia! Non è questo che vuoi, vero?» Non risposi. Uno dei ricordi di Adric sfrecciò come un coniglio spaventato nella mia mente, dando un nome all'uomo che avevo appena tradito consegnandolo ai fiori. Karamy si avvicinò, così fui costretto a guardarla e la sua voce pigra e adorabile mormorò il nome che stavo cominciando ad accettare. «Adric, tu sei arrabbiato», sussurrò quella voce carezzevole. «Sapevo che era una cosa crudele lasciare che Evarin ti avvicinasse, ma cos'altro avrebbe risvegliato la tua rabbia quanto bastava per farti tornare te stesso? Adric, abbiamo bisogno di te, Narabedla ha bisogno di te. Ci siamo sentiti traditi quando ci hai lasciato, per rinchiuderti da solo con il vecchio Rhys e le stelle! Ma ora sei tornato.» Mi gettò le braccia al collo e mi abbracciò. «Ti sei scordato anche di me o sei ancora il mio innamorato?» Come suonavano false quelle parole! Non c'era nulla di vero in esse! Una parte di me provava l'impulso di dilaniare quella donna, di chiamarla demonio bugiardo e assassino. Ma stavo acquisendo una doppia forma di
scaltrezza. La scaltrezza feroce delle vecchie abitudini di Adric... e una mia personale scaltrezza, disperata, da animale in trappola, che nasceva dalla paura....paura di quel mondo estraneo pieno di terribili pericoli ad ogni angolo, con la magia che spuntava dagli specchi e dai fiori. E come potevo sapere cosa avrei fatto io, il vero me stesso? Le mie mani erano già lorde di sangue. E se Adric era una pedina tra le forze che si fronteggiavano su quel mondo, come potevo sapere io come comportarmi? Non mi restava altro che andare avanti, basandomi sull'intuito e vedere dove mi portava. «Chi potrebbe dimenticarti, Karamy?» dissi. Lei era dolce, morbida e più che arrendevole tra le mie braccia; la tenni stretta, mentre lottavo con un ricordo che non voleva affacciarsi. Karamy lasciò ricadere le braccia e con esse anche quel manto di pigra seduzione. «Sei ancora arrabbiato perché ti ho mandato sull'Ellisse Temporale! Non hai capito che è stato per il tuo bene! Non hai ancora imparato la lezione!» «Se fossi un felino addomesticato, ti servirei a qualcosa?» ribattei stringendola di nuovo. Quel genere di discorsi erano un pericolo per me e mi venne in mente un solo modo per farla tacere. Lei sembrò apprezzarlo, ma anche con le sue labbra acquiescenti sotto le mie, non dimenticai la cautela. Stavo davvero ingannandola, o era lei che accettava di giocare al mio gioco, solo molto meglio? E la mia mente non era del tutto concentrata su quello che stavo facendo, una parte era sempre consapevole di quei fiori carnosi, mortali... «Ora possiamo fare dei piani», disse qualche minuto dopo. «Per prima cosa, Gamine.» Mi gettò un'occhiata penetrante, ma io mantenni un'espressione imperscrutabile e lei proseguì: «Gamine è sempre con il vecchio Sognatore; gli permette di restare sveglio troppo a lungo. Lui è vecchio, è un nostro parente, certo, ma anche così diventerà troppo forte. Dobbiamo allontanare Rhys da Narabedla. Gamine può restare o seguirlo nell'esilio, ma Rhys deve andarsene.» «Rhys deve andarsene», convenni. «Dovrebbe essere ucciso, ma Gamine non lo farà mai», riprese Karamy con un'alzata di spalle, «e almeno, mentre è legata a Rhys, non cercherà di legarsi ad un Sognatore più forte. Evarin...» fece schioccare le dita ingioiellate, «il suo Sognatore dorme profondamente! Evarin teme i suoi poteri! In quanto ai suoi Giocattoli, be', possono essere utili anche a noi. Il mio Sognatore si rafforza, ma serve me!» Quel viso bellissimo aveva un'e-
spressione selvaggia e perfida. «Il tuo Sognatore cammina libero nella foresta! Tu solo puoi legarlo di nuovo! Tu, con il mio aiuto, Adric della Torre Cremisi!» I suoi occhi brillavano come carboni ardenti. «Sì, e il mio Sognatore servirà anche te, fino ad allora! Pagherò per mettere il potere nelle tue mani!» La stessa frase che aveva usato Evarin! Un brivido di paura mi percorse la schiena, ma il viso ardente di Karamy scacciò la paura. «Sei tornato da noi, Adric e noi abbiamo bisogno di te! Questa notte andrò alla Fortezza dei Sognatori e tu verrai con me. E dopo tu andrai nella foresta dove cammina il tuo Sognatore e porrai fine per sempre a questo pericolo per la Città Arcobaleno. E allora», quegli occhi luminosi risplendevano come fiamma, «e allora nessuno potrà più sfidare il nostro potere a Narabedla, in tutto il mondo!» Contro la mia volontà, sentii il calore di quella fiamma che lei stava attizzando. Potere, potere senza limiti e una donna stupenda con la magia al suq comando. L'ambizione di Adric bruciava come fuoco in me, travolgendomi. Strega... strega dorata! Ora sapevo come dovevano essere pagati i Sognatori... il prezzo per il quale avrebbero consegnato i loro poteri nelle mani dei Signori dell'Arcobaleno. Quella piccola parte del mio essere che ancora era Mike Kenscott rabbrividì di paura e di disgusto; il resto di me accettò il ricordo con una scrollata di spalle e fu l'Adric in me che parlò. «Verrò, ho tanto bisogno di potere da prenderlo persino dalle tue mani, Karamy. E dopo andrò nella foresta dove cammina il Sognatore e lo porterò da te.» Ma anche mentre prendevo Karamy tra le braccia, piegandole con forza il capo all'indietro e posando la mia bocca sulla sua, un brivido ammonitore mi gelò la schiena e sollevai lo sguardo al di sopra della sua chioma dorata. «E allora, Karamy...» dissi in tono insinuante, ma completai la frase solo nella mia mente: E allora, Strega Dorata... troverò il modo di occuparmi anche di te! CAPITOLO 4 IN TRAPPOLA! Ritornato alla Torre Cremisi, spesi ore a cercare indizi che mi aiutassero a capire qualcosa del misterioso passato di Adric. Questo personaggio mi
sconcertava, mi incuriosiva questo strano coinquilino della mia mente, che andava e veniva a suo piacimento nelle stanze della mia memoria. Ma cos'era l'identità? Semplicemente la consapevolezza di se stessi? Io mi sentivo me stesso... Mike Kenscott. Ricordavo di aver vissuto un'intera vita come Mike Kenscott: infanzia, scuola, servizio militare, lavoro, ragazze. Eppure, con Evarin, con Karamy, con quello strano uomo che avevo tradito e che era morto tra i fiori, mi ero ritrovato a parlare, ad agire e a pensare in modi che Mike Kenscott non avrebbe mai potuto accettare. Non volevo pensarci. Se mi fossi soffermato a pensarci, avrei ricominciato a farmi prendere dal panico. Cupamente, con determinazione, rovistai in tutte le stanze alla ricerca di indizi. Chiunque avesse preso la memoria di Adric (Karamy? Perché?) si era assicurato che non restasse nulla intorno a lui che potesse chiarire il rompicapo. Ero certo di una cosa sola: Adric era temuto e disprezzato da tutti i narabedlani, e nessuno si fidava di lui, tranne forse Evarin, a seconda dell'umore. E tutti i narabedlani, tranne forse Gamine, avevano qualcosa da guadagnare fingendosi suoi amici. Non riuscivo assolutamente a capire se l'atteggiamento di Karamy era amore che fingeva scherno per plasmare Adric ai suoi voleri, o scherno che fingeva amore allo stesso scopo. Non mi fidavo di lei ed ero contento che neppure Adric si fidasse. Il nome Narayan mi si era stampato nella mente. Era un amico o un nemico? Il sole bianco era tramontato e quello rosso stava cominciando a calare all'orizzonte, quando un servo bussò piano alla porta, con la mia cena. Non era uno degli zombie del giardino di Karamy, ma mi rivolse la parola con un tono tanto rispettoso da sconfinare nel terrore. Per un attimo considerai l'idea di fargli delle domande, poi decisi che non era il caso di rischiare. Sarebbe stata una cosa sciocca permettere che qualcuno in quel covo di nemici scoprisse quanto ero debole, confuso e insicuro: Tutti pensavano che Lord Adric fosse ritornato se stesso e se avessero continuato a temerlo, se ne sarebbero rimasti alla larga da me per un po'. L'uomo si fermò incerto sulla porta, prima di andarsene. «Lady Cynara desidera venire da te, Lord Adric», mormorò alla fine. «Posso portarla qui?» E chi diavolo era questa Lady Cynara? La moglie di Adric? La sua concubina? Un altro narabedlano, amico o nemico, che abitava in quella Torre? Chiunque fosse, per quel giorno avevo già avuto abbastanza guai, per cui risposi con un semplice: «No». E il servo se ne andò mormorando
qualcosa. Mi sedetti davanti alla finestra con le sbarre nella stanza di Adric e cercai di ricatturare i ricordi di quella mente aliena di cui ero prigioniero. E sia che fosse la pura forza di volontà, o il risultato della fuggevole visione nello specchio di Evarin, o, come insisteva Gamine, il fatto che fossi davvero Adric e Mike Kenscott solo un'illusione della magia di Karamy, comunque stessero le cose, la memoria cominciò a ritornare. All'inizio... All'inizio, prima che l'amnesia calasse sulla mia mente, Adric della Torre Cremisi era stato un potente signore della Città Arcobaleno. I ricordi di quei tempi non erano certo ricordi che io, come Mike Kenscott sarei stato orgoglioso di avere, ma come Adric li trovai estremamente piacevoli. Noi Signori della Città Arcobaleno eravamo una razza antica. La nostra gente aveva regnato su tutta questa terra, ma eravamo anche una razza in declino, che diminuiva di numero. Erano sempre meno i Figli dell'Arcobaleno che nascevano con i poteri di Narabedla. E fra quelli che li avevano, alcuni erano troppo deboli per condividere il tremendo potere dei Sognatori prigionieri, e così Adric, nella sua infinita ambizione, li aveva sottomessi, prendendo tutto il potere nelle sue mani. Come hanno sempre fatto da tempo immemorabile i re di ogni parte del mondo, lentamente e metodicamente aveva eliminato tutti quelli che potevano sfidare il suo regno ed ora tutta Narabedla guardava al Signore della Torre Cremisi come al suo sovrano; e nella Città Arcobaleno vivevano solo Evarin, che si baloccava con il piacere e le cattiverie e Gamine (Adric aveva mai saputo la verità su Gamine?) che amava solo la saggezza e un pugno d'altri che riconoscevano Adric come signore indiscusso. E Karamy! Karamy, che era venuta a sfidare il suo potere ed era rimasta a dividerlo con lui! Avevo voluto il potere e lo avevo avuto, senza limiti, da un Sognatore da poco incatenato che si agitava, ma solo un poco, nel suo sonno. E oltre Narabedla, più della metà della parte conosciuta di questo mondo inviava tributi ed era sottomessa al Signore della Torre Cremisi. Alcuni ricordi erano di trionfo, altri parevano buffi alla mente cinica di Adric; altri ancora erano terribili oltre ogni immaginazione, perché Adric non aveva valutato quanto sarebbero costati i suoi trionfi e persino lui rabbrividiva al pensiero del prezzo che i Sognatori avevano preteso. Poi qualcosa era successo a quell'uomo selvaggio e volitivo. Non sapevo cosa. Immagini fuggevoli trasparivano dal grigiore... un ragazzo biondo,
dal viso infantile levato in un'espressione di incredulo terrore, o di gioia; una forma velata, che si ritraeva nei corridoi della mia memoria, distogliendo il viso quando la seguivo. Qualunque cosa fosse successa, era accaduta quando Adric si sentiva, almeno momentaneamente, sazio di conquiste; quando era stanco ed inorridito per il sangue che era il prezzo del suo potere. Perché il potere magico, incanalato attraverso la mente dei Sognatori, i mutanti, tenuti in quel sonno forzato o in animazione sospesa, richiedeva energia, energia cinetica, disponibile da un'unica fonte, una sola. Adric aveva fornito quella fonte al Sognatore senza risparmio. Per un certo tempo. Un giorno, d'impulso, avevo salvato una giovane donna destinata a quel fato. E qui ritornava l'amnesia a oscurare i ricordi; per quanto facessi, per quanto mi sforzassi fino a farmi dolere il cervello, non riuscivo a ricordare altro. Non riuscivo a ricostruire quella catena di avvenimenti. Ma dopo di allora il regno di Adric era crollato come un arco a cui fosse stata tolta la pietra di volta. I suoi eserciti si erano dispersi; lui si era rinchiuso, o era stato rinchiuso, nella Torre Cremisi, i suoi ricordi erano stati rubati e lui era andato, o era stato mandato, lungo una linea temporale, in avanti o forse indietro, se nel Tempo o nello Spazio non lo sapevo, finché da qualche parte, nell'abisso degli altri mondi, aveva toccato l'uomo che sapeva di essere Mike Kenscott. E allora, probabilmente, Adric era fuggito. Attirato Mike Kenscott nella sua rete, ne aveva preso il posto. Era la fuga perfetta, forse, da una vita che era arrivato ad odiare, una vita troppo piena di conflitti che lui non era più in grado di sopportare. Ma Adric ero io... Anche per quello c'era una spiegazione. Il corpo fisico non poteva effettuare la transizione. Io avevo il corpo di Adric, le circonvoluzioni del suo cervello, i contatti sinaptici delle sue abitudini... i suoi banchi di memoria. Solo l'ego, lo schema sovrimposto di identità conscia, l'anima, se preferite, era quella di Mike Kenscott. Nel corpo e nel cervello di Adric governavano i suoi schemi e le sue abitudini e a tutti gli effetti, io ero Adric. E là nel mio tempo, Adric stava vivendo nel mio corpo, viveva la vita di Mike Kenscott, eseguiva i suoi gesti, con gli stessi scivoloni e gli stessi errori che io commettevo qui. E dopo un po', anche questi sarebbero scomparsi. Ero in trappola, completamente. Vivendo la vita di Adric, egli sarebbe divenuto sempre più forte dentro di me, finché... lui?... avrebbe completamente soppiantato l'altra identità? E lui, nel mio corpo, da qual-
che parte nell'altro mondo, lui sarebbe diventato me? Andy, pensai con un brivido di paura selvaggia, cosa farà ad Andy? Nulla, non poteva fare del male ad Andy, non con la mia personalità, non più di quanto io potessi odiare Evarin. O invece poteva? Io avevo estratto la spada, oggi, contro un uomo che mi aveva chiamato amico, lo avevo consegnato ai mortali fiori di Karamy. Dovevo tornare indietro! Dio, dovevo tornare indietro! Ma come? Come ero arrivato qui? Già una volta, in precedenza, per un attimo, io ed Adric ci eravamo incontrati su... come l'aveva chiamata Gamine? L'Ellisse Temporale. Quel giorno avevano pensato che il laboratorio fosse stato colpito da un fulmine. Per diciotto ore, mentre giacevo sotto la trave del laboratorio e più tardi sotto sedativi in ospedale, lui ed io chissà come, avevamo condiviso un frammento di vita. Ma la fuga non era stata completa. Qualcosa lo aveva risospinto, o attirato di nuovo nel suo mondo. E aveva riprovato, o era stato di nuovo mandato indietro. E questa volta sembrava che ci fosse riuscito. Adesso era là, nella mia capanna in montagna, che puliva il pesce per la cena, e rovistava curioso tra le mie apparecchiature elettriche? Con molta cattiveria, sperai che ci si prendesse un bella scossa. Qualcosa di Adric era rimasto in me dopo il nostro primo contatto. Quegli strani momenti di confusione, quella volta in cui mi ero lanciato sull'aquila con il coltello. Quando il sole rosso brillò come una brace morente sulla Sierra, una della guardie giocattolo di Karamy venne a chiamarmi. Piatte, meccaniche, le sue parole portavano solo la richiesta della mia presenza, ma mi fecero ugualmente rabbrividire. Chissà perché avevo pensato che questi zombie non sapessero parlare. Guardai attentamente l'uomo: era un tipo alto, dall'aspetto robusto, con un viso rotondo cosparso di lentiggini, dal colorito sano e muscoli sporgenti nelle braccia e sul torace. Ma gli occhi erano vacui, senza espressione, la bocca pendeva inerte e quando gli domandai dove dovevo andare, lui fisso il vuoto muovendo gli occhi e ripeté con lo stesso tono piatto: «È richiesta la presenza di Lord Adric.» Poi rimase in piedi immobile, con il petto che si alzava e si abbassava ad ogni respiro e a quel punto mi venne in mente che se quella creatura non era dotata di volontà propria, allora stava aspettando un mio ordine. Volevo dirgli di andarsene, ma non ero sicuro di riuscire a ritrovare la strada da
solo. Senza pensarci, mi diressi all'armadio e tirai fuori un mantello color cremisi bordato da una folta pelliccia che mi drappeggiai sulle spalle con un gesto noncurante; poi feci un cenno alla silenziosa sentinella che si voltò e cominciò a scendere le scale con passo cadenzato. Lo seguii giù per un labirinto di scale e di pozzi elevatori, e alla fine uscimmo in un lungo corridoio. Lo percorsi, sentendo l'eco dei miei passi; poi un'altra eco quasi impercettibile si unì alla mia e Gamine scivolò fuori dall'ombra, sempre coperto da quel velo luminoso, come un fantasma silenzioso alle mie spalle. Poco dopo mi accorsi del passo felino di Evarin dietro di noi. E altri sbucarono da bui recessi e si unirono alla silenziosa parata: una ragazza che indossava un lungo mantello alato color della fiamma, un uomo molto piccolo che indossava una mantello color porpora e un pelliccia scura. Il corridoio si inclinò, salendo verso una lama di luce. Senza rendermene conto, avevo assunto un portamento arrogante e un passo regale; passai davanti al soldato schiavo che guidava la colonna e mi misi alla sua testa. Dietro di me gli altri si misero in fila indiana, come se eseguissero un mio ordine: la ragazza con il mantello alato coloro fiamma, Evarin vestito di verde, il nano con la sua cappa da giullare, il velato Gamine. Di colpo ci ritrovammo in un vasto cortile, una piazza chiusa grandiosa e imponente. Sopra di noi il sole rosso splendeva come la fiamma di un gas. Ai tre lati del cortile si innalzavano alte colonne, mentre l'estremità più lontana era chiusa da un arco che conduceva in un viale alberato che si perdeva nella foresta. Tra due colonne attendeva Karamy, snella, dorata, rilucente, con un lampo di famelica impazienza negli occhi da gatto. «Siete in ritardo!» «Ora sono pronto», risposi. Per cosa, non lo sapevo. Karamy mosse la mano impaziente in direzione dei narabedlani che si avvicinavano. «Adric è di nuovo con noi! La vostra fedeltà ad Adric, Figli dell'Arcobaleno!» Rimasi in piedi al suo fianco, muto, in attesa, con le guardie silenziose alle spalle. «Lord Idris!» chiamò Karamy. Il nano avanzò e si inchinò con un gesto scattante davanti a me. «Bentornato a casa, Signore!» Evarin aveva un'espressione maligna e beffarda sul viso, ma la sua voce era morbida come seta. «È un piacere seguirti di nuovo, fratello mio.» La ragazza con il mantello color fiamma non disse nulla, ma il suo breve
inchino fu come l'agitar d'ali di una falena davanti ad una fiamma. Era una cosina timida e minuta e le ali del suo mantello si muovevano come se stessero per spiccare il volo da sole e la chioma nera ondeggiava come se fosse anch'essa alata. Le sfiorai le dita, ma sotto lo sguardo rovente di Karamy gliele lasciai subito. «Cavalchi con noi, Cynara?» Karamy sembrava scontenta. La ragazza con il mantello alato sollevò il volto ma non disse nulla. La voce di Gamine, una sommessa cantilena, vibrò per un attimo, senza parole, nel crepuscolo. Poi facendosi avanti, mormorò: «È la mia volontà, Karamy. Disputi il mio diritto?» Per un attimo la tensione divenne quasi visibile, come un tremolio nell'aria, poi Karamy fece un gesto noncurante. «Che mi importa di te o dei tuoi incantesimi, Gamine? Puoi andare e venire come ti pare e portare chi vuoi. Non è questo il momento di parlare di diritti.» Vedendo i narabedlani riuniti, mi ero chiesto se anche il vecchio Rhys si sarebbe unito a noi, ma a quanto sembrava non era atteso. Dal nulla, i soldati silenziosi portarono dei cavalli. Dei cavalli in quel mondo da incubo? Sembravano dei normalissimi cavalli. Non avevo mai cavalcato in tutta la mia vita ma mi ritrovai a balzare con un aggraziato volteggio sull'alta sella dal pomo ricurvo. Nonostante lo scalpitio degli animali e il trambusto della partenza, in quel cortile aleggiava un silenzio di tomba. Karamy mi tenne accanto a sé e quando tutti furono in sella, sollevò in alto la bacchetta d'ambra. Gli ultimi raggi del sole si rifletterono sul prisma, e gettarono un raggio di luce pura lungo lo scuro viale fiancheggiato da alberi. Alla vista di quella lama di luce, sorse in me una strana emozione, al tempo stesso familiare e strana. Sollevai un braccio sopra la testa. «Cavalcate!» gridai. «Cavalcate verso la Fortezza dei Sognatori!» Il viale sotto la galleria di alberi si inoltrava per chilometri tra i fitti arbusti. Dietro di noi lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli della guardia di Karamy e in mezzo a quel frastuono udivo galleggiare il suono dolce del canto di Gamine, che si alzava e si abbassava seguendo il contorno della strada. Il vento sollevava i capelli dorati di Karamy, trasformandoli in un'aureola che le circondava la testa. Gettai un'occhiata alle mie spalle, e vidi le torri multicolori, ormai solo sagome scure contro il nero delle montagne dietro di esse. In alto, nel cielo rosato, una mezza luna crescente, e più basso, sull'orizzonte, un disco più
grande ormai quasi pieno che cominciava a spuntare dagli alberi. L'aria fredda mi pungeva le guance e mi gelava le ossa. Sentivo le scintille sollevate dagli zoccoli che calpestavano il terreno gelato. Brina! Eppure, nel giardino di Karamy, i fiori sbocciavano rigogliosi in una gloria tropicale! E per un istante fu Mike Kenscott, Mike Kenscott nella sua interezza, nauseato, esterrefatto e terrorizzato, a guardarsi intorno con orrore, a sentire il freddo turbinante e un gelo ancor più gelido che proveniva dalla strega dorata al mio fianco. E fu Mike Kenscott a tirare le redini del grande baio per porre fine a quella farsa subito, in quel momento. «Cosa succede?» esclamò Karamy, al di sopra del rumore degli zoccoli? Ed io udii la mia voce, che sovrastando il ritmico galoppo, gridava di rimando: «Niente!» e poi dava un ordine al cavallo. Buon Dio! Io ero Mike Kenscott, ma prigioniero in un corpo, che non mi obbediva, una mente che persisteva in pensieri ed abitudini che non potevo condividere, un'anima che mi avrebbe portato alla distruzione! Io ero Mike Kenscott ed ero intrappolato in una galoppata da incubo attraverso l'inferno! CAPITOLO 5 L'IMBOSCATA Avevo già avuto paura in passato, ma ora ero in preda al panico, a una paura incontrollabile, che mi paralizzava i nervi. Non sono un codardo: l'ho dimostrato, a me prima che agli altri, in molte occasioni. So quello che dico. Quelle però erano cose reali, ero in grado di fronteggiarle. Ma sotto due soli e due strane lune, circondato da gente misteriosa che sapevo non essere umani nel modo in cui lo intendevo io... allora sì, ero un codardo. Mi drizzai sulla sella, cercando con ogni briciola di volontà di calmarmi; se quello era un incubo, be', qualcosa di bello lo aveva. Ma non era un incubo e lo sapevo. Il gelo che mi pungeva il viso, il rumore degli zoccoli ferrati sulla pietra, i vividi colori tutt'attorno... i sogni non sono a colori. Tutte queste cose mi dicevano che ero sveglio, perfettamente sveglio e cavalcavo a rotta di collo, con le ginocchia strette alla sella, guidando il cavallo con la morsa delle gambe, senza essere mai salito su di una cavalcatura in vita mia. Cavalcavo, cavalcavo... Avevamo ormai percorso parecchi chilometri e ci eravamo fermati due volte per far respirare i cavalli, ma non eravamo ancora usciti dalla galleria
di alberi. Il tramonto rosa era svanito, il panorama era inondato da un chiarore lunare azzurrò e fluorescente. Guardai attraverso il fogliame scuro, con la confusa convinzione che se avessi visto le stelle avrei capito qualcosa. Ma la vista verso nord era nascosta dalle montagne e a parte l'Orsa Maggiore, non distinguevo una costellazione dall'altra. Mi ero allontanato dal fianco di Karamy e mi ritrovai a cavalcare tra Gamine e la ragazza vestita di rosso fiamma. Il Cantaincantesimi mi salutò con un cenno distratto, ma la ragazza con il mantello alato gettò indietro il cappuccio ed io vidi un paio di occhi scuri che mi fissavano in un volto dolce, puro e giovane. Di fronte alla luminosa innocenza di quegli occhi ebbi l'impulso di gridare che non ero Adric, Signore di Narabedla, ma solo un poveraccio di nome Mike, che ero solo... me stesso! Ma fu Gamine a parlare; la sua voce musicale non si alzò di tono, ma arrivò ugualmente alle mie orecchie. «Sembra che tu sia ritornato completamente in te.» Non sapevo cosa dire e mi limitai a scuotere il capo. Una nota si comprensione sembrò insinuarsi in quella voce neutra. «Anche se la memoria viene meno, ricorderai, e forse troppo, al Castello dei Sognatori.» «Gamine», chiesi, «chi è Narayan?» Vidi il mantello azzurro tremare e una strana espressione lampeggiare per un istante sul volto della ragazza col mantello alato; ma la voce di Gamine non cambiò. «Non ho mai visto nessuno con quel nome. Forse Cynara potrebbe rispondere se glielo chiedessi.» Gettai un'occhiata alla ragazza... Cynara? ma non feci la domanda, perché il nome Cynara aveva improvvisamente toccato un'altro di quei fili scoperti nel mio cervello... o nel cervello di Adric. Narayan. Narayan e Cynara. Se solo avessi potuto ricordare! Cosa avrebbe potuto dirmi Cynara se avessi permesso al servo di condurla nelle mie stanze, alla Torre Cremisi? Era troppo tardi adesso per scoprirlo? Guardai di nuovo la ragazza e qualcosa in me disse: «No! Maledizione, non volevo altri ricordi di Adric!» Cynara aveva affiancato il suo cavallo scuro al mio. Cavalcava all'amazzone, con scioltezza, dritta e sicura, come se fosse nata in sella; sotto il cappuccio color fiamma era snella e minuta e tremendamente umana, l'unica cosa normale, umana che avessi visto su quel mondo! Provai l'impul-
so di confidarmi, di dirle... «Non aver paura», disse Cynara e la sua voce era bassa e dolce, un po' soffocata, tanto che udii a malapena le sue parole, perché le sue labbra quasi non si mossero. «Non sarai costretto ad andarci. È stato tutto concordato.» «Che cosa...» scattai, ma lei scosse il capo in fretta, con un'occhiata ammonitrice ad Evarin, che stava accostandosi a noi. Karamy si voltò sulla sella e mi fece cenno di avvicinarmi, con un gesto imperioso. Per un istante mi ribellai; poi sfiorai con i tacchi i fianchi dell'animale e mi riportai accanto a lei. Da parecchi minuti la strada aveva preso a salire; arrivammo in cima ad una collinetta e gli alberi finirono di colpo. Portammo i cavalli al passo. Ci trovavamo sulla sommità di un'altura che dominava una larga vallata lunga almeno cinquanta chilometri, ricoperta da un'impenetrabile foresta. Lontano, verso il fondo di questavalle, c'era una radura e in quella radura si ergeva una torre, ma non una delle torri leggiadre, a spire, come le torri della Città Arcobaleno: questa era un mastio massiccio, le cui mura si slanciavano, antiche e terribili, nel cielo pervaso dal chiarore lunare. La Fortezza dei Sognatori. Qualcosa dentro di me mormorò: «Quella è la foresta in cui cammina il Sognatore». Forse quel mormorio era venuto da Karamy che stava al mio fianco? La strega spronò il cavallo, il viso intento e deciso, le mani magre strette sulle redini. Una parte di me conosceva la ragione di quella risolutezza, mentre l'altra parte si meravigliava. Perché in tutto quel tempo ero stato Mike Kenscott, ma un Mike Kenscott inerme, che osservava se stesso senza sapere cosa avrebbe fatto o detto subito dopo! Come in uno di quegli incubi assurdi, in cui si è al tempo stesso attori e spettatori di stravaganti pantomime, osservavo me stesso dire e fare cose come se fossi stato il mio gemello. In effetti, forse lo ero... Karamy si voltò a guardarmi. «Tu non ti fidi di me!» scattò con veemenza. «Lo sento! Cosa c'è?» «Ho ragione di fidarmi di te?» Non sapevo con certezza se quelle parole guardinghe fossero mie o di Adric. Mi ero aspettato che si adirasse di nuovo e invece un sorriso misterioso e ammaliatore si disegnò sulle sue labbra è gli occhi dorati parvero risplendere. «Forse no», mormorò ridendo e quella risata parve un campanellino d'oro. Poi il suo viso si fece di nuovo intento e ansioso.
«Adric, se ti soffermassi a pensare, ti renderesti conto che ho bisogno di te, che Narabedla ha bisogno della tua forza. Ascolta, Adric, tutto è cambiato. Il popolo mormora, si ribella persino. Io non posso condurre un esercito contro di loro! E ti chiedo: sei mai stato costretto prima d'ora a cavalcare con una scorta nella tua foresta?» Dietro di me udii la risata cattiva di Evarin. «Dunque tu spoglieresti Adric di tutto il suo potere e poi ti lamenteresti perché non hai la forza?» «E nessuna punizione», disse la voce secca del nano Idris, che portò il suo cavallo a fianco dei nostri, rivolgendomi un'occhiata di fuoco. «Ti odio perché ci hai traditi, Adric, perché tu hai liberato un Sognatore scatenando tutto questo su di noi! Io ho detto che dovevi morire!» «Ma come hai visto, non è stato necessario che morisse», ribatté Karamy, guardandomi come se cercasse il mio sostegno. «Certo ora capisci, Adric, che ciò che ho fatto è stato solo riportarti in te... salvare quello che potevo.» «Karamy ha ragione», intervenne Evarin. «Possiamo risolvere le nostre dispute private più tardi, Adric. In questo momento abbiamo per le mani una ribellione e un Sognatore in libertà. Se vogliamo che la Città Arcobaleno sopravviva, dobbiamo dimenticare il passato. Quello che Adric può aver fatto in un momento di follia, può disfarlo ora. Se non riusciamo a fare la pace, firmiamo almeno una tregua!» «Adric», mormorò Karamy, «portami dove cammina il Sognatore.» Di colpo, ebbi la certezza che, grazie ad uno strano legame tra me e il Sognatore liberato, ero in grado di farlo, ma qualcosa mi costrinse a dire semplicemente: «Quel legame è rotto, Karamy. Non sei stata tu stessa a spezzarlo? Questo non l'ho dimenticato». E fui ricompensato vedendo un lampo di insicurezza balenare in quello sguardo felino. Quindi quel colpo era andato a segno: Karamy aveva cercato di spezzare il legame e ci era riuscita, o così pensava. E ora, credendo che Adric fosse il suo burattino, quel tanto che bastava per usare quel legame per i suoi scopi personali e non contro di lei, tirava ad indovinare. Ma quella donna era una maestra consumata in sottigliezze. «Il legame può essere forgiato di nuovo, questo lo giuro», mormorò. Ah, ma io sapevo fino a che punto potevo fidarmi dei giuramenti di Karamy. «Forgialo, dunque», ribattei, «ma non contare su di me per disfare ciò che tu hai fatto!» Ci stavamo inoltrando nella foresta e cavalcavamo in mezzo al fitto bosco, su di una strada tortuosa, con tante curve ed angoli improvvisi. Adric
conosceva quel terreno e quella conoscenza fece rabbrividire Mike Kenscott. Qui aveva cacciato, e non selvaggina a quattro zampe. Come se stesse leggendo i miei pensieri, Karamy rise. «Già: il mio polso anela il peso di un falcone! Torneremo a cacciare qui, tu ed io!» Quelle parole mi diedero un brivido di eccitazione, una sorta di tremito insidioso. Dietro di me, il canto di Gamine assunse un tono diverso. Le parole erano sempre incomprensibili, ma c'era una nota di avvertimento nel tono. Una vena prese a pulsarmi a scatti nel collo. Senza preavviso, la strada fece una doppia curva ad esse. Karamy ed io spronammo i cavalli e svoltammo la prima curva a spron battuto e poi anche la seconda e prima di accorgercene, ci trovammo in trappola. Fu il nitrito agonizzante del mio cavallo e lo scatto automatico del mio corpo che si raddrizzava sulla schiena dell'animale chinato in avanti, che mi disse che ci eravamo imbattuti in un reticolo di cavalli di frisia. Con un grido e un'imprecazione urlai a Karamy di tornare indietro, ma l'abbrivio della corsa la trascinò avanti e vidi il suo corpo leggero volare dalla sella e scomparire. Sbucando dalla curva, gli altri si trovarono di fronte quell'ostacolo improvviso e per un attimo sul posto regnò il caos, con cavalli senza cavaliere che giravano impazziti, uomini che imprecavano, donne che gridavano. In un attimo balzai di sella, allontanando la cavalcatura di Gamine dalle punte mortali conficcate nell'invisibile barriera che attraversava la strada e chiamando Evarin e Idris. Evarin balzò al mio fianco e io cominciai come una furia a sradicare la barricata. Idris arrivò al galoppo e mi gridò: «Giraci intorno!» Mi tuffai tra i cespugli a lato della strada, inciampando per due volte nei rovi e nei rami. Al di là della barriera, la strada era libera e deserta e Karamy giaceva a terra immobile, in uno scintillio di seta stropicciata. «Gamine! Evarin!» gridai. «Qui non c'è nessuno. Karamy è ferita!» La testa e le spalle del grande stallone di Idris comparvero tra i cespugli al lato della barriera. «È morta?» Mi chinai e le posai una mano sul seno. «Solo svenuta, il cuore batte. Scendi da cavallo», gli ordinai e Idris si calò dalla sella con movimenti da scimmia. Presi la donna tra le braccia, ma lei non si mosse né aprì gli occhi. Idris mi toccò un braccio. «Mettila di traverso sulla mia sella.» Karamy era un peso morto e abbandonato tra le mie braccia, ma quando la misi sulla sella, gemette e si mosse. All'improvviso, alle mie spalle, Idris
gridò. «Cosa c'è?» chiesi brusco. «Ho sentito...» Non seppi mai cosa Idris avesse sentito. La sua testa scomparve come se fosse stata afferrata dalla mano di un gigante e qualcuno mi prese alla gola, in una morsa che mi soffocava, mille razzi esplosero nel mio cervello e mi ritrovai sdraiato a terra tra i cespugli, a mangiare polvere, con un elefante seduto sul petto e dita d'acciaio che mi stringevano la gola. Il mio ultimo pensiero coerente, prima che il respiro mi si mozzasse in gola fu... «Mi sto svegliando!» CAPITOLO 6 IL SOGNATORE Ma non era così. Quando ripresi i sensi (ero rimasto svenuto solo per pochi secondi), udii le imprecazioni rabbiose di Evarin e le urla incoerenti del furibondo Idris. Sentii Karamy gridare il mio nome, e cercai di risponderle, ma quelle dita implacabili erano strette attorno alla mia gola e quel peso tremendo sul petto mi impediva di respirare. La caduta o qualcosa d'altro, aveva scacciato Adric dal mio cervello: ero stordito, ma ero io, ero di nuovo uno spettatore innocente. Riuscivo a scorgere sulla strada Evarin e Idris che gettavano occhiate guardinghe al folto sottobosco. Sopra di me potevo a malapena distinguere i lineamenti dell'uomo che mi teneva immobilizzato a terra con il suo corpo. Aveva la struttura fisica di un ippopotamo ed un viso che si adattava a quel corpo. Mi agitai, ma il viso da ippopotamo si avvicinò al mio e allora smisi. Quel tipo avrebbe potuto spezzarmi in due come un fiammifero. Nei cespugli attorno a me c'erano decine di figure accucciate, bizzarri cecchini con armi a tracolla, armi che avrebbero potuto essere balestre o disintegratori.. o entrambe le cose. «Arriva Buck Rogers», pensai. Mi sentivo di nuovo svenire e l'amico peso massimo sullo stomaco non mi aiutava affatto. Proprio quando cominciavo a pensare che sarei scoppiato, l'ippopotamo si mosse e le sue dita tozze mi infilarono un bavaglio nella bocca aperta; poi quel peso intollerabile sul petto scomparve e respirai sollevato a pieni polmoni. L'uomo grasso si spostò senza far rumore, ma sentii una punta d'acciaio accarezzarmi le costole, una minaccia che non aveva bisogno di parole.
Vidi i narabedlani raggruppati insieme sulla strada. I cecchini attorno a me avevano ancora le armi spianate, ma l'uomo grasso ordinò in un sussurro: «Fermi: di certo avranno delle guardie alle spalle». Le voci si smorzarono in un roco sussurro e io rimasi sdraiato immobile, cercando di riportare alla luce qualche ricordo di Adric che potesse aiutarmi. Ma l'unica cosa che mi venne in mente fu un ricordo dei giorni in cui giocavo a football: il placcaggio al volo di un trequarti della Penn State che mi aveva fatto fare un volo di tre metri. Adric se n'era andato, sul serio. I narabedlani parlavano a bassa voce e Gamine era il centro attorno a cui si affollavano. Mi chiesi perché la cosa mi sorprendesse e in quell'istante anche la sorpresa scomparve. Evarin aveva la spada sguainata, ma neppure lui faceva un passo verso i cespugli. Cynara teneva Idris per un braccio e la udii esclamare impaurita: «No, no! Se fate anche solo una mossa lo uccideranno!» E nell'arco di due respiri, la strada fu piena di uomini. Non seppi mai chi fossero, perché venni tirato in piedi in fretta, senza cerimonie e trascinato via. Udii delle urla alle mie spalle e il rumore delle spade e vidi un lampo di luce colorata. Sentii che mi sfilavano la spada dal fodero. Tanto non saprei neppure come usarla, adesso che Adric ha abbandonato la festa. Sotto la spinta della lama puntata alle costole mi ritrovai a salire goffamente in sella, con le mani legate e sentii il cavallo che partiva al galoppo. Non avevo molte possibilità di fuggire e comunque, la brace non poteva essere peggiore della padella! Dietro di noi i rumori e le grida svanirono. Il cavallo che montavo galoppava sicuro nell'oscurità. Ero costretto a tenermi saldo con entrambe le mani e solo il riflesso abituale dei muscoli di Adric mi impediva di cadere ignominiosamente a terra. Credo che quello sia stato il mio unico pensiero coerente fino a quando la folle cavalcata non rallentò ed uscimmo dalla foresta, alla luce della luna e allo scintillio dei fuochi da campo. Sollevai la testa, sempre tenendomi aggrappato al pomo ricurvo della sella e mi guardai attorno. Ci trovavamo in un boschetto, circondato da alberi come un tempio dei druidi, illuminato da fuochi di guardia e torce infilate su lunghi pali. Nella radura c'erano delle tende, che conferivano a. quel luogo un aspetto disordinato, da accampamento di zingari. Dietro c'era una casa bianca, senza finestre, con il tetto piatto e una grande porta. Ondeggiando incerto sulla sella, trassi un profondo respiro. Era il luogo
del sogno, quello in cui avevo volato come un uccello, dove ero stato colpito da una freccia. Avvertii una fitta nel petto e strinsi con forza il pomo della sella. Uomini e donne uscivano dalle tende, in un bailamme di voci, dove riconobbi solo il grido: «Adric!» e poi, ripetuto all'infinito, un altro nome: «Narayan! Narayan!» Un giovane snello, biondo, vestito di marrone, uscì da una delle tende più grandi e mi si avvicinò. La folla si fece indietro, allargandosi per lasciarlo passare; quando arrivò a dieci metri da me, fece un segno ad uno degli uomini, il quale subito mi slegò le mani e mi tolse il bavaglio dalla bocca, aiutandomi poi a scendere di sella. Esausto, rimasi in piedi aggrappato ad una staffa. «Qualche problema, Raif?» chiese il giovane. Il gigante che mi aveva catturato scosse il capo. «A quanto pare li abbiamo sorpresi senza la magia! Erano diretti alla Fortezza, ma li abbiamo ritardati di un bel po', adesso. Però la Strega aveva qualche decina delle sue guardie.» Il giovane biondo scosse la testa con aria assorta. «Però siete tornati sani e salvi, non siete stati costretti a combattere.» «Gli ordini sono ordini», ribatté cupo il gigante. «Tu ci avevi detto: prendete Adric e venite via. E dunque eccolo qui e quei...» se ne uscì con un'imprecazione mostruosa e il giovane biondo scoppiò a ridere. «Avrete modo di combattere fin troppo presto!» Poi si avvicinò fin quasi a toccarmi e mi osservò attentamente. Alla fine si girò verso l'uomo grasso, Raif. «Questo non è Adric», disse. «Quest'uomo non lo conosco affatto.» Avrei dovuto sentirmi sollevato, ma chissà perché non fu così. Finalmente avevo trovato qualcuno in grado di riconoscere la differenza e invece la mia prima reazione fu uno grande stupore e un'ira incontenibile. Come poteva fare un'affermazione simile? Mi sentivo furioso e imbarazzato come se fossi stato scoperto ad indossare degli abiti rubati e l'ippopotamo era furioso quanto me. «Cosa vuol dire che questo non è Adric?» esclamò. «Ti sei per caso messo gli occhi in tasca? Lo abbiamo preso proprio nel bel mezzo della loro maledetta cavalcata. Se non è Adric, chi è?» «Vorrei saperlo», rispose Narayan sottovoce, mentre continuava a fissarmi dritto negli occhi con un'immobilità sconcertante. Era alto e ben costruito, con capelli biondo chiaro, tagliati dritti sulle spalle come un trova-
tore in una ballata provenzale, e occhi grigi seri ma amichevoli. Mi piaceva il suo aspetto, anche se in lui c'era una parvenza della stessa strana immobilità che avevo notato nel vecchio Rhys. Per un momento, fui sul punto di raccontare la mia storia a quell'uomo dagli occhi grigi e seri; lui di certo mi avrebbe creduto. Ma mentre mi fissava, il dubbio si insinuò sul suo viso; sospirò e si voltò a guardare gli uomini radunati lì intorno prima di riportare lo sguardo su di me. «Adric, ti ricordi ancora di me? O Karamy ti ha tolto anche questo?» Sospirai: non osavo dire la verità e mi sentivo troppo infreddolito, esausto e disorientato per mentire in modo convincente. Eppure dovevo mentire e anche bene, senza neppure sapere per quale ragione quest'uomo... Narayan?... aveva rischiato ben due attacchi ai poteri della Città Arcobaleno per rapire Adric. Be', avevo la scusa della presunta perdita di memoria di Adric, qualunque cosa non ricordassi, qualunque errore... «Tu sei Narayan?» chiesi. L'uomo grasso, che continuava a tenermi per un gomito, si rivolse infuriato a Narayan: «Non lasciare che se la cavi così», ruggì. «Brennan è forse tornato oggi pomeriggio? Conosce benissimo la Città Arcobaleno ed era andato protetto! Chiedi ad Adric cosa ne è stato di Brennan e fai in modo che te lo dica!» Una babele di voci si levò, intorno a noi, ma Narayan non distolse gli occhi dal mio viso e rispose in tono gentile: «Il pericolo esiste sempre, Raif, non accusare mai un uomo ingiustamente. E neppure Adric è da biasimare, se Karamy lo tiene sotto uno dei suoi incantesimi». «Traditore!» ringhiò Raif rivolto a me, e sputò a terra. Le stesse parole di Idris, gli stessi gesti, fu il fuggevole ricordo che si presentò alla mia mente. Intorno a noi gli uomini parlavano a bassa voce tra loro, gettandomi occhiate indecise e io sentii il mio corpo tendersi, le mani stringersi a pugno... le prime avvisaglie degli ormai familiari scoppi d'ira omicida di Adric. Oh, Dio, no! Non di nuovo! Pensai a Brennan, il suo viso levato fiducioso verso di me, in un gesto di amicizia, risentii il fendente improvviso della spada, udii il suo grido morente... Tremando, mi aggrappai al pomo della sella, cercando disperatamente di non perdere il controllo del mio corpo. Di tutti quelli in cui avrei potuto incarnarmi in questo mondo di folli, proprio Adric dovevo andare a pescare, mi ritrovai a pensare con uno strano senso di distacco. Adric, di cui nessuna delle due parti si fida se
non per i propri scopi, e non posso certo biasimarli. Lasciai andare il pomo della sella e feci un passo avanti, frastornato. «Potresti provare a farmi delle domande», dissi, furioso e stanco. «Allora, se non sei Adric, chi diavolo sei?» sbottò il grasso Raif, «e cosa ne hai fatto di Brennan?» Scossi il capo, completamente esausto. Non sapevo cosa rispondere, ma Narayan fece un passo verso di me, dicendo in fretta: «Non qui Raif». Mi prese per un braccio, con mano ferma e proseguì: «Fatevi indietro, voi. Vieni con me». Un mormorio sconcertato si levò tra gli uomini, ma si fecero da parte, guardinghi, mentre Narayan mi conduceva verso la casa bianca al limitare del boschetto. Raif e un altro uomo ci seguirono, e gli altri si dispersero, tornando alle tende o ai fuochi da campo. Un piccolo gruppo, che continuava a mormorare con disapprovazione, si radunò attorno alla porta mentre salivamo le scale. All'interno, in una grande sala rivestita di legno, era acceso un gran fuoco e le fiamme balzavano alte da un grande letto di ciocchi ardenti, creando luce e calore tra le ombre. Mi avvicinai grato a quel fuoco; era indolenzito dalla cavalcata, infreddolito, vuoto e instupidito dal freddo. Da uno saranno di legno accanto al camino si alzò una figura snella, la figura di una ragazza dai capelli scuri, avvolta in un mantello che catturava la luce del fuoco come fiamme in fuga. «Cynara!» «Adric», esclamò lei, tendendomi entrambe le mani. Io le presi, in parte perché mi sembrava che se lo aspettasse e in parte perché la ragazza mi pareva l'unica cosa reale in tutto quell'incredibile incubo. Qualcosa di reale, qualcosa a cui aggrapparsi... Poi lei mi gettò le braccia al collo e mi strinse a sé, non con passione, non con sensualità, ma piuttosto, stranamente, come se stesse proteggendomi. Quindi lei era stata al corrente dell'imboscata. Ma cosa ci faceva qui? Narayan la prese per le spalle e dolcemente la allontanò da me. La ragazza si ritrasse un poco vedendo la disapprovazione nel suo sguardo. «Cynara, cosa stai facendo qui?» «Mi sono allontanata col favore del buio. Immagino che Gamine lo sappia, ma qui non mi troveranno mai.» Narayan la guardò, scuotendo la testa e alla fine disse: «Devi tornare a Narabedla, sorellina. Non ti costringerei a tornare, se ci fosse un altro mo-
do, ma non c'è. Abbiamo rischiato tutti troppo, per tenerti qui ora». E fece cenno all'altro uomo che era entrato insieme a noi. «Kerrel, riporta Cynara sulla strada, ma non farti prendere. Cynara, potrai raccontargli che ti sei persa nei boschi, o che sei stata catturata e sei fuggita.» «Non tornerò indietro», rispose lei con un tremito delle labbra. «Ora che Adric è di nuovo qui, a che scopo tornare? Di certo adesso non serve più.» Si aggrappò alla mia mano, mai io scossi la testa, impotente. Non capivo, ma la sua paura mi contagiava. Le misi un braccio attorno alle spalle e la sentii tremare. Narayan spostò lo sguardo dal mio volto a quello di Cynara e alla fine sospirò. «Forse hai ragione. È arrivato il momento in cui dobbiamo rischiare il tutto per tutto; o si vince o si perde. Voglio parlare con Adric da solo», terminò voltandosi verso i due uomini. Raif strinse le labbra in una piega testarda. Aveva tutto l'aspetto di un cattivo cliente, in un duello. «Se è Adric, e se si trova sotto uno degli incantesimi di Karamy, allora...» «Ho già affrontato Adric, e anche Karamy», rispose Narayan con un sorriso amichevole. «Esci, Raif, non sei la mia guardia del corpo e neppure la mia balia.» Con riluttanza, l'omone accettò quel congedo e Narayan mi si avvicinò. Cynara mi lasciò andare la mano e ritornò allo scranno accanto al fuoco. Mi dispiacque perdere il suo sostegno. Almeno lei si fidava di Adric... C'era una genuina amicizia nel sorriso di Narayan. «Bene», disse, «adesso tu ed io parleremo. Non puoi uccidermi, non più di quanto io possa uccidere te, quindi possiamo essere sinceri l'uno con l'altro. Perché ci hai lasciati di nuovo, Adric? E cosa ti ha fatto Karamy questa volta?» Vidi la stanza vorticarmi intorno e tesi una mano per sostenermi. Quando lo stordimento passò, mi accorsi che Narayan mi aveva messo un braccio attorno alle spalle e mi stava sostenendo con una forza sorprendente per la sua corporatura snella. Mi aiutò a sedermi. «Ti hanno trattato un po' rudemente», disse. «I miei uomini... be', loro avevano degli ordini, ma forse li hanno eseguiti con un po' troppo zelo. E se conosco i metodi di Karamy, sei rimasto drogato per molto, molto tempo.» I suoi occhi mi studiarono con attenzione. «Non sembri molto felice di essere qui, ma almeno non ci sei arrivato combattendo. Forse potremo parlare. Forse è il caso che beviamo qualcosa. E quando hai mangiato l'ultima volta?»
«Non ricordo», risposi in tutta sincerità passandomi una mano sulla fronte. I servi di Adric mi avevano portato del cibo, ma io non l'avevo toccato. «Lo pensavo, sembri mezzo morto di fame», disse Narayan. «È l'effetto che ti fa lo sharig, come so molto bene.» Andò nella stanza accanto, pensando che lo avrei seguito e che sapessi come girare per quella casa. Dopo il bizzarro arredamento delle stanze della Città Arcobaleno, fai un po' sorpreso quando il locale accanto si rivelò una normalissima cucina, ordinata e funzionale, dotata di mobili molto simili a quelli del mio mondo. Be', dopo tutto, quanti modi ci sono per costruire un tavolo? O un forno? Da una poco sorprendente ghiacciaia (anche se aveva uno sportello ovale), Narayan prese diversi cibi e versò del liquido in una tazza dalla forma strana, poi mi fece segno di sedermi su di una sedia e mise tutto sul tavolo. «Ecco, mangia. Conosco quelle loro maledette droghe; dopo aver mangiato ti sentirai di nuovo te stesso e abbiamo tutto il tempo che vogliamo, per parlare. Anche tutta la notte.» Vide come guardavo la tazza, rise brevemente e si versò un po' di quella bevanda dalla stessa bottiglia, poi si sedette di fronte a me, sorseggiandola lentamente. «Avanti, bevi. Anche se avessi intenzione di avvelenarti, non lo farei certo prima di sapere cosa sta macchinando Karamy», ridacchiò. Risi anch'io. Veleno? Quando uno qualunque di loro avrebbe potuto affondarmi un coltello nel petto in qualunque momento in quelle ultime tre ore? Mi misi a mangiare. Non mi sembrava di avere fame, ma dopo il primo boccone, mi resi conto invece che ero affamato; avevo mangiato per l'ultima volta quarantott'ore prima (e in un altro mondo); Adric, a giudicare dalla fame che avevo, doveva aver digiunato anche più a lungo. Spazzai via tutto quello che c'era nel piatto, mentre Narayan mi guardava sorseggiando la sua bevanda; quando finalmente spinsi da parte il piatto vuoto, posò la tazza e mi disse: «Dunque, cosa è successo? Tu sei Adric... e non lo sei». Mi sentivo molto meglio e più forte di quanto non mi fossi sentito da quando Adric, con l'aiuto di Rhys (ma perché? Perché?) mi aveva catapultato in questo mondo. Narayan sembrava amichevole, ma anche Evarin lo ero sembrato. Dovevo rispondere in fretta e in modo convincente, sotto lo sguardo di quegli occhi grigi inquisitori. «Non ne sono sicuro», dissi alla fine, «non ricordo molto, solo di essere tornato in me questa mattina, nella Torre Cremisi. Credo che fosse questa
mattina. Ero stato liberato; Karamy voleva portarmi alla Fortezza dei Sognatori e poi sono arrivati i tuoi uomini. Non sapevo se mi stavano liberando o catturando. E continuo a non saperlo.» Fissai Narayan di proposito senza alcuna espressione e lui ricambiò lo sguardo. Mi pareva di poterlo sentire arrovellarsi, su cosa fare o cosa dire. Era ovvio che un Adric sano di mente e disposto a parlare e magari a mentire era una cosa diversa da un uomo troppo stravolto e drogato e scosso che poteva solo dire la verità. «Non so cosa dovrei dire o fare, Adric», disse alla fine. «C'è stato un tempo in cui ero in grado di leggere i tuoi pensieri. Ma non ora: il legame tra di noi non è forte come in passato. Questo tu lo sai.» Annuii. Mi sembrava che i pensieri di Adric cercassero di risorgere, insidiosi, come se Narayan possedesse la chiave per aprirli. Sciocco, non mi interroga quando mi ha in suo potere! Sciocco e debole! Mi aggrappai disperatamente alla consapevolezza di essere Mike Kenscott. Che folle dramma stava per dipanarsi nel campo di battaglia della mia mente, ora? «Che cosa ha fatto Karamy?» mi chiese Narayan. Risposi a voce bassa come lui: «Mi ha mandato nell'Ellisse Temporale». Questo l'avevo saputo da Gamine e da Rhys. «Sperava che tornassi cambiato, o pazzo, o forse nessuna delle due cose. Credo... credo che volesse che ti tradissi ancora.» «Adric!» esclamò Narayan tendendo un braccio ed afferrandomi sopra il gomito con tanta forza che gridai di dolore per quella stretta d'acciaio; mi strappai a quella morsa e mi sfregai il braccio dolorante. «Scusa», mormorò Narayan guardandosi le mani, «ho dimenticato che sono...» si interruppe, deglutì e mi fissò. «Ma perché dici... tradirmi di nuovo? Che tradimento? Adric, è stata la tua mano a liberarmi! Per gli inferni di Zandru, Adric», mi implorò, «Adric, quanto hai dimenticato? Chi e cosa credi che io sia?» CAPITOLO 7 ADRIC Nell'altra stanza il fuoco si era ridotto a braci. Senza neppure un'occhiata verso di me, Narayan si diresse al camino, riattizzò il fuoco e si sedette stendendo le gambe verso la fiamma, con il volto tra le mani, in attesa. Io non riuscivo a stare fermo e mi misi a camminare irrequieto per la stanza,
parlando a scatti, con frasi spezzate, senza sapere quanto di quello che dicevo erano ricordi e quanto era invece quello che riuscivo a mettere insieme dai frammenti di quello strano mondo da incubo. «Tu... tu sei il Sognatore», dissi. «Ricordo... di essere stato legato a te, e più tardi... ricordo, ricordo... di averti liberato. Senza sapere cosa potesse significare, senza sapere se avresti potuto uccidermi con il pretesto del sacrificio.» «No.» Narayan era immobile come i veli che ricoprivano il volto di Gamine. «No, Adric, questo mai. Tu ed io non possiamo ucciderci. Potrei ordinare di ucciderti, immagino, ma io... io non lo farei mai, a meno che non avessi altra soluzione. E ho sempre sperato che ci fosse un'altra soluzione, per me, per te.» Cercai di scegliere con cura le parole destreggiandomi tra le due personalità che si scontravano nel mio cervello. Almeno stavo cominciando a ricostruire la storia di Adric con un minimo di logica e di coerenza, non solo quegli accenni isolati che aveva dedotto in precedenza. «Adric ti ha liberato», dissi. «Non sono sicuro che fosse per il tuo bene, o perché desiderava farlo per se stesso, per sfruttare il suo potere contro gli altri della Città Arcobaleno.» Era questa la contraddizione più sconvolgente: che Adric, quell'uomo duro e crudele, avesse liberato un Sognatore, e avesse tramato contro la sua stessa gente e il suo stesso potere. Perché? Perché? Se avessi avuto una risposta a quella domanda, avrei avuto la chiave a tutto il resto. Ma non lo sapevo. Sospirai e proseguii. «Karamy ti ha sottratto Adric con l'inganno. E lo ha rispedito, mezzo pazzo, nella Torre Cremisi. La magia di Karamy lo ha privato della memoria, e ha spezzato il legame tra te e lui.» «Non del tutto», ribatté Narayan fissando il fuoco. «Io ho saputo quando ti sei svegliato, ma non ho potuto venire di persona alla Città Arcobaleno per liberarti. Tu sai cosa c'è là.» Non lo sapevo, ma in quel momento non mi sembrava importante. «Karamy spogliò Adric del potere e della memoria, e lo rimandò a sognare ad occhi aperti a Narabedla, sperando che, quando gli avesse permesso di ritornare, sarebbe ritornato il vecchio Adric. Karamy aveva bisogno del suo potere, più di quanto non lo temesse. Ma non è stata Karamy...» quella voce che non era del tutto mia tremò all'improvviso per il terrore che era invece mio e che fino a quel momento ero riuscito a tenere a bada, «non è stata Karamy a mandare me qui! Io non sono Adric, avevi
perfettamente ragione, non più di quanto lo sia tu! Certo, mi trovo nel corpo di Adric, ho... ho alcuni dei suoi ricordi, dei suoi pensieri, a volte lui riesce a muovermi come un burattino, ma lei...» la voce mi si spezzò di colpo. Mi rendevo conto di fare la figura del bambino isterico, ma ora che avevo cominciato a dare sfogo al mio terrore non potevo più fermarmi. «Io non sono Adric! Non lo sono, non appartengo a questo posto!» Narayan balzò in piedi e udii i suoi passi affrettati dietro di me, poi quelle mani d'acciaio si posarono sulle mie spalle e lui mi fece voltare, per guardarmi in viso. «Va bene», disse, «stai calmo. È tutto a posto adesso.» Trassi un lungo respiro e lo esalai, pieno di vergogna. Narayan mi guardò, e nei suoi occhi lessi ancora lo scetticismo, ma sospirò. Non facevo fatica ad indovinare i suoi pensieri: era davvero riuscito a farmi dire la verità, o anche questo era uno degli inganni di Adric? Avvertii un tocco lieve come una piuma sul braccio e Cynara mi prese la mano, guardandomi intensamente negli occhi. «Lo sapevo», sussurrò. «Non ne ero certa, ma una volta ho visto i tuoi occhi che mi guardavano dal volto di Adric.» Vidi il dubbio svanire dal viso di Narayan, che lentamente annuì. «Ho percepito che non eri l'Adric che conoscevo», disse. «Ma non riuscivo a credere che, arrivati al dunque, Adric mi avrebbe fatto una cosa simile. Immagino che per lui sia stata la soluzione più facile: la fuga perfetta.» Si lasciò cadere di nuovo sulla panca, prendendosi la testa tra le mani. «Una fuga perfetta», ripeté con voce che suonò improvvisamente vecchia e stanca. «Lasciare che i suoi ricordi si disintegrassero, o entrare in un altro mondo, lasciando un altro uomo al suo posto. Un'altra personalità, senza curarsi di quello che sarebbe successo.» Scossi il capo, sempre pervaso da quel tremito interiore. «Ma cosa può farsene Adric della mia vita?» Lui era uno stregone, un mago potente, poteva adattarsi al mondo di Mike Kenscott, tecnico radio, normale cittadino di un mondo normale? «È stato un modo per sfuggire ai guai che aveva causato», commentò amara Cynara. «Così è stato tutto per niente! Non abbiamo Adric e abbiamo coinvolto un estraneo innocente!» Dopo parecchi minuti, Narayan sollevò la testa. «È vero: tu sei un estraneo», disse lentamente. «Non ci devi nulla. Ma i miei uomini pensano che tu sia Adric e credono di averti liberato da Karamy per riportarti da noi. Non riuscirei mai a convincerli che non è così. Pensi che potresti riuscirci tu, nel corpo di Adric?
Fu Cynara a rispondere stringendomi forte le mani con quel gesto intimo, protettivo. «Penserebbero che si tratta di un'altra delle magie di Karamy, come... come i suoi zombie. Lo farebbero a pezzi, Narayan!» «Non ci devi nulla», disse Narayan angosciato, «ma... ma pensi che riusciresti a fingere ancora per un po' di essere Adric? Altrimenti...» si interruppe ed io mi resi conto che quello non era un uomo che amasse ricorrere alle minacce, ma in quella situazione lo capii. Io ero solo un estraneo che essendo al tempo stesso Adric, non faceva che complicare le cose. Sembrava che non avessi alternative. Non avevo nessun dovere di lealtà nei confronti dei Narabedlani della Città Arcobaleno, né me ne importava un accidente di quello che poteva capitargli. Per contro, Narayan mi sembrava un tipo a posto e non potevo biasimarlo se tentava disperatamente di rovesciare il governo anche con la forza e la violènza. In realtà non mi sarebbe dispiaciuto dargli una mano. Avevo anch'io qualche conticino da regolare con la Città Arcobaleno... «Va bene, ci proverò», dissi. «Ma cos'è tutta questa faccenda?» «È vero, tu non puoi saperlo; hai qualcuno dei ricordi di Adric, ma non tutti. Ti ricordi chi sono io?» «Non del tutto», risposi. Ricordavo qualcosa... quando ero Adric. Narayan era nato, circa trent'anni prima, da una rispettabile famiglia di campagna, che rimase esterrefatta quando si accorse di aver dato alla luce uno dei Sognatori mutanti e che fu fin troppo contenta di affidarlo a coloro che detenevano il potere nella Città Arcobaleno. Ancora bambino, era stato imprigionato nella stasi forzata nella Fortezza dei Sognatori e là aveva dormito... «Ricordi il vecchio Sognatore che serviva nella Torre Cremisi?» chiese Cynara. Ricordavo anche quello... o meglio, lo ricordava Adric. Era diventato vecchio e debole... mortale, e non era più in grado di dare alla smisurata ambizione di Adric tutto il potere che Adric era arrivato a desiderare disperatamente. E alla fine era stato eliminato. Chinai la testa, sconsolato. «Dormii nella Fortezza dei Sognatori», disse Narayan a bassa voce. «Venni svegliato e legato a te e mi venne offerto il sacrificio. Imparai ad usare il mio potere e a cederlo ad Adric.» Un orrore indicibile traspariva da quegli occhi grigi e io capii che anche Narayan viveva in un suo inferno privato, angosciato dal ricordo di quello che aveva fatto sotto l'incantesimo di Narabedla. «Adric era forte.» Sì, Adric attingeva ai poteri nascenti del giovane Sognatore senza preoc-
cuparsi del costo. Che importanza aveva se quei ricordi facevano impazzire Narayan? Il giovane Sognatore riuscì finalmente a riprendere il controllo di se stesso e proseguì: «Bene, un giorno tu... o meglio, Adric... mi liberò. Non seppi mai con certezza la ragione; immagino che lo abbia fatto in un momento di rimorso». Cynara fu sul punto di parlare, ma Narayan proseguì senza aver dato segno di notarla. «Ritrovai mia sorella, Cynara.» A quel punto sollevò lo sguardo, posando la mano sulla spalla della ragazza; lei sorrise e di nuovo vidi nel suo sorriso quello strano atteggiamento protettivo. «Ero come un bambino: dovetti imparare a vivere di nuovo, dovetti imparare di nuovo tutte le cose più semplici. Anche il solo essere vivo richiese per mesi tutta la mia forza. Ero totalmente impotente, perché ero stato addestrato ad usare i miei poteri solo attraverso il Sacrificio. E fui costretto ad imparare a ... a vivere senza. Non fu facile.» «Perché?» chiesi senza riflettere. Lo sguardo di Narayan mi gelò, ma la sua risposta fu come l'anello mancante della catena della memoria. «Per usare quel potere», rispose. Udivo i rumori del campo all'esterno della casa e vedevo la luce dei fuochi che si insinuava nelle fessure. Il fuoco nel camino si era di nuovo abbassato e il viso di Narayan era in ombra; in quel chiarore lui si muoveva inquieto. «Sono riuscito ad imbrigliare il potere, in un certo senso», disse. «In piccola misura posso usarlo io stesso; per cose semplici e per proteggere me stesso.» Stavo cominciando a capire, molto vagamente. Nel mio mondo avevo sentito parlare di poteri psi, di percezione extra-sensoriale, di medium che durante le sedute potevano fare cose che venivano ritenute magia da chi non le capiva. E avevo anche sentito dire che questi talenti richiedevano un enorme dispendio fisico, prosciugavano ogni energia; i collassi del medium dopo le sedute spiritiche... avevo pensato che fossero tutte fandonie. Evidentemente i Narabedlani avevano trovato il modo di imbrigliare quei poteri psi, di controllarli, di fornire energia per aumentarli a dismisura, nutrendo i Sognatori con l'energia vitale di esseri viventi... Rabbrividii, un brivido tanto profondo che mi lasciò pallido e debole e mi costrinse a risedermi. Cynara mi strinse a sé. «No», commentò cupo Narayan, guardandomi, «non è bello. Ma se avessi avuto dei dubbi sul fatto che tu non fossi Adric, la tua reazione li a-
vrebbe dissipati. Tu non lo sapevi in realtà, vero?» Scossi la testa, ancora sconvolto dall'orrore. «Bene, io ho imparato a vivere facendone a meno», disse Narayan di nuovo calmo e controllato. «Poi Cynara venne presa per il Sacrificio», proseguì rivolgendo alla ragazza uno sguardo dolce. «Adric la liberò, la riscattò e le diede la libertà di vivere nella Città Arcobaleno. Poté farlo perché Evarin era debole e Gamine non se ne curava. Anche i Signori della Città Arcobaleno hanno molti uomini comuni nei loro seguiti. Non fu mai una spia, questo no, ma qualcuno doveva fungere da collegamento tra me e Adric. E poi c'era Rhys, il vecchio Sognatore.» Rhys, l'unico Sognatore mutante nato entro i confini della Città Arcobaleno. «Sì, Gamine è legato a Rhys, ma non se ne cura e lo lascia sveglio per lunghi periodi e Rhys ed io siamo stati in contatto. Non so come spiegartelo, le nostre menti si parlano.» «Anche la telepatia?» mormorai. «Solo con un altro Sognatore. Lui mi ha aiutato a imparare ad usare i miei poteri. Ma non alzerà mai la mano contro Narabedla. Tra loro ci sono legami di sangue.» Udivo frammenti di conversazione provenienti da un abisso di spazio e tempo, dal quale, nel coma causato dalla scossa, ero stato trascinato attraverso l'ellisse Temporale. Lo sapranno. Narayan lo saprà. E Adric: Che cosa ho a che fare io con Narayan? Adric stava facendo un pericoloso doppio gioco con Narayan e fui sul punto di dirlo, ma il giovane Sognatore stava ancora parlando, e pensando a Rhys non avevo seguito le sue parole. Forse era per questo che Rhys aveva aiutato Adric a trovare il modo di andarsene da questo mondo, perché la sua scomparsa aiutava anche Rhys a trovare una via di fuga da un conflitto insopportabile. Senza più Adric, Rhys non sarebbe stato costretto a trovarsi di fronte alla scelta tra i suoi consanguinei di Narabedla e il suo desiderio di vedere liberati i Sognatori. Senza Adric, forse quell'uomo vecchissimo avrebbe potuto trascorrere i pochi anni che gli restavano in un mondo precariamente pacificato. «Avevo dimenticato, tutti avevamo dimenticato, che anche Adric era un narabedlano. Finché non è scomparso, finché Karamy non ha teso la mano e l'ha riportato indietro.» C'era un grande dolore nella voce di Narayan; quei due uomini erano stati amici. «Adric se n'era andato, e il giogo di Narabedla gravava pesante su di noi. Sentimmo che senza Adric a guidarli, forse avremmo avuto una possibilità
di ribellarci. Ho lavorato, fatto dei piani... hai visto.» Si morse le labbra. «Poi ho saputo che Adric era stato liberato e ho mandato Brennan a vedere perché non tornava da noi. Brennan non è tornato.» Abbassai il capo, e con riluttanza e dolore gli raccontai ciò che era accaduto a Brennan. Il volto di Narayan era livido nella penombra. «Era un uomo coraggioso», disse poi. «Sapeva a cosa andava incontro e ha osato ugualmente. Non ti biasimo. Dopo lo scambio, c'è stato un periodo in cui hai continuato a vivere la vita di Adric, quasi per riflesso condizionato, hai avuto i suoi pensieri, hai conservato le sue abitudini. Ma ora sta indebolendosi, credo... spero. Chi sei tu nel tuo mondo?» Lui pensava che Adric si sarebbe indebolito; io invece avevo temuto che si sarebbe fatto sempre più forte, fino a soverchiarmi completamente. Aveva ragione Narayan? Adric se n'era davvero andato per sempre? «Mi chiamo Michael Kenscott», dissi. «Michael.» «Michael.» Cynara assaporò il suono di quello strano nome. La sua mano era sempre nella mia. «E che cosa sei? Un grande signore della magia?» Risi, sfinito; poi troncai la risata vedendo l'espressione su quel viso dolce. «No, ragazza», dissi sottovoce, «non c'è magia nel mio mondo.» Magia? Avrei dovuto rifletterci. «Deve essere molto strano», mormorò? «Strano e in parte anche spaventoso, cambiare mondo. Bicordo quando Narayan arrivò dalla Fortezza dei Sognatori, con tutta una vita da imparare.» Era solo compassione quella che vedevo nei suoi occhi scuri, compassione per un uomo che soffriva per lo stesso disorientamento patito da quel fratello che amava e proteggeva? O c'era qualcosa di più? «Michael», ripeté piano. Narayan si intromise dolcemente tra di noi. «Gli uomini ti chiameranno Adric, crederanno che tu sia Adric tornato tra noi. In seguito, forse...» terminò con una scrollata di spalle. Io non dissi nulla, continuavo a temere che la presenza di Adric non fosse scomparsa; ma quell'uomo mi piaceva. E Cynara, che mi teneva la mano, l'unica persona in quel mondo che mi aveva riconosciuto e accettato per me stesso e non per l'ombra di Adric. Narayan si mosse per accendere le luci. «È molto tardi e devi essere sfinito», disse. «Negli ultimi tempi siamo riusciti ad insegnare persino ai Narabedlani a stare alla larga dalla foresta di notte, quindi qui siamo al sicuro anche se hanno qualche intenzione di riprendersi Adric. E in ogni caso non possono fare molto finché non sono stati alla Fortezza dei Sognatori. Se
riusciamo a tagliarli fuori dalla fonte della loro magia...» sorrise e con un gesto improvviso e infantile di amicizia mi tese le mani. «Bene, vedremo cosa ci porterà il domani! Michael...» esitò e poi quasi riluttante a pronunciare quelle parole, proseguì: «Sono contento che tu non sia Adric. Adesso potrebbe essere difficile da manovrare». Come se le luci fossero state un segnale (e per quello che ne sapevo lo erano state) Raif rientrò nella stanza senza bussare e mi lanciò un'occhiata ostile che non sfuggì a Narayan. «Va tutto bene, Raif, Adric è tornato tra noi.» Il viso elefantino si increspò in un subitaneo sorriso. «Mi spiace di averti trattato rudemente, Lord Adric, ma avevo degli ordini e poi non ero sicuro.» «Avrei fatto anch'io come te», dissi e strinsi la mano che mi offriva. «Trovagli un posto per dormire», lo pregò Narayan. Con un ultimo sguardo a Cynara, seguii Raif su per una breve rampa di scale dentro una stanza vuota, in cui c'era un letto, sfatto ma pulito. «Kerrel è andato di guardia alla strada», disse Raif, «e non tornerà prima di mezzogiorno. Puoi dormire qui.» Mi tolsi gli stivali con un calcio e mi infilai sotto le lenzuola, di colpo troppo sfinito per parlare. Erano due giorni che non dormivo e durante la maggior parte di quel tempo mi ero trovato in uno stato di grande stress mentale e fisico, nei due mondi. Vidi Raif che con cautela appoggiava la mano sulla sua arma e mi resi conto che, nonostante quello che gli aveva detto Narayan, non intendeva correre rischi con Adric. Non me la sentivo di biasimarlo. Aveva cervello, quel bisonte troppo cresciuto. Assonnato, dissi: «Puoi metterla via, amico elefante. Non ho nessuna intenzione di muovermi, fino a quando non mi sarò fatto un lungo, lungo...» Non terminai la frase. Mi ero addormentato. Dormii per ore e mi destai da un sogno confuso (un grande uccello volteggiante, un coltello, il viso di Andy, la foschia azzurra dei veli di Gamine, il lamento angosciato di una donna che soffriva) sentendo una voce dolce e piccole mani che mi scuotevano per farmi mettere a sedere. Aprii gli occhi e vidi il dolce viso di Cynara chino su di me. «Michael, svegliati! Karamy ed Evarin oggi cavalcano, vanno a caccia di Adric! A caccia di te!» Mi sedetti, ancora assonnato, confuso e frastornato; non riuscivo a capire la sua agitazione, o il modo in cui mi aveva parlato. Ma le passai ugual-
mente un braccio attorno alle spalle, per rassicurarla. Poi, udendo il rumore di passi frettolosi sulla scala, la lasciai andare, mi chinai e cominciai ad infilarmi gli stivali. Narayan spalancò la porta ed entrò infilandosi una tunica marrone. «Vedo che Cynara ti ha raccontato le notizie», disse. «Avevo ragione. Adesso dobbiamo fare in fretta. Se hanno una caccia troppo buona...» Cincischiò con i lacci della tunica, mentre una stanchezza mortale gli offuscava lo sguardo, che pareva vitreo, quasi privo di vita. Vide la mia espressione interrogativa e sorrise. «Il Sognatore si agita», mi disse. «Non sono del tutto libero da quel bisogno, non ancora, quindi devo stare attento.» Cynara rabbrividì e gettò le braccia al collo del fratello, stringendolo forte a sé, come per proteggerlo. Ma Narayan era di nuovo sprofondato nei suoi pensieri e si divincolò da quelle braccia senza impazienza. «Ce ne preoccuperemo quando verrà il momento, sorellina. Così Karamy e Evarin vanno a caccia oggi, e con ogni probabilità anche Idris.» Inarcò le sopracciglia. «Tutti tranne Gamine», commentò. «Se solo riuscissi a raggiungere Rhys.» Poi con un gesto impaziente, accantonò quel pensiero. «Ma non oso. Non con questo bisogno che si agita.» Capii cosa intendeva: Narayan era ancora sotto l'influenza della tremenda fame dei Sognatori addormentati nella fortezza. Be', c'era da aspettarselo. In quanto a me, mi sentivo forte e riposato e la mia mente aveva ripreso a funzionare, anche se con qualche strano punto oscuro. Come ero arrivato nella casa del Sognatore liberato? E che diamine era successo la notte precedente? Avevo pensato che Narayan non si sarebbe mai più fidato di me, e invece ecco che, quando ne avevo più bisogno, aveva riacquistato in pieno la sua fiducia. Debole sciocco! Sì, questo era meglio di qualunque piano di Karamy! E comunque maledetta Karamy, che mi aveva offuscato la memoria, anche se la sera prima mi aveva fatto comodo intrufolarmi nella personalità, di un altro e riguadagnare la fiducia di Narayan! E Karamy aveva l'audacia di far volare gli uccelli demoni di Evarin contro di me? Contro di me, Adric della Torre Cremisi! Be', avrebbe avuto una lezione che non avrebbe mai scordato... e lo stesso valeva per quel maledetto Giocattolaio, e anche questo zombie, che mi guardava con uno stolto sorriso di amicizia sulle labbra. Dei dell'Arcobaleno, quali cose assurde
avevo detto e fatto la notte prima? «Lasciateli venire, con gli uccelli e tutto», dissi. «È da un po' che non ci sono Sacrifici. Non hanno altre risorse.» E risi tra me al pensiero: Sei un po' a corto di magia, oggi, Karamy? Costretta ad usare i ninnoli di quello sciocco Giocattolaio? «Li prenderemo questa notte alla Fortezza dei Sognatori.» Ma quello che tu non sai, Narayan, aggiunsi tra me con segreta soddisfazione, è che tu ti unirai a loro! Quando avrò usato i tuoi poteri nella mia vendetta contro coloro che hanno fatto lega contro di me, allora tu tornerai al tuo posto, Sognatore! Fino ad allora, progetta pure di battere me e i miei! Continua a sognare... sogna i tuoi sogni ad occhi aperti, finché io non li infrangerò. A quello stupido sciocco non era venuto in mente di chiedere se l'Adric di quella mattina era lo stesso della notte precedente. Scendemmo al piano inferiore e sbocconcellammo una veloce colazione. Su di uno sgabello Cynara vide il mantello alato color fiamma che aveva indossato nella Città Arcobaleno e con un gesto irato lo afferrò e lo gettò nel camino. Rivestita del semplice abito grigio, la sua timida bellezza era ancor più seducente. Cynara non era Karamy, ma era molto carina e quando si sedette sul bracciolo della mia poltrona, passandomi le dita sul viso escoriato, il suo gesto servì a rafforzare la fiducia che Narayan aveva in me. «La rudezza dei tuoi uomini ha rischiato di ucciderlo, Narayan!» «Oh, non sono ferito», dissi con voce bassa e gentile, che solo lei poté udire. Ma fissai imbronciato il piatto, poi lo spinsi via e mi avviai verso l'accampamento. Narayan lanciò un grido, si alzò facendo cadere la sedia, mi raggiunse e scendemmo le scale assieme. «Aspetta, aspetta! Non dimenticare che per loro sei ancora un traditore», mi ammonì. «Me l'ero dimenticato», risposi dando un tono umile e contrito alla mia voce. «Io conosco la verità ed essi si fideranno della mia parola», disse Narayan con il suo sorriso amichevole. Mi prese per il braccio e insieme camminammo in mezzo alle tende, Narayan con un'espressione di sfida sul viso. Vidi i volti degli uomini che uscivano dai loro rozzi ripari, lessi il sospetto e la sfiducia nei loro occhi, che a poco a poco, vedendoci camminare a braccetto, si trasformarono in accettazione. Alla fine Narayan chiamò Raif. «Sorveglialo, vuoi? Qualcuno degli uomini potrebbe essere ancora sospettoso.» «Non abbiamo molto tempo per queste sciocchezze», dissi io. «Se si so-
no davvero messi in caccia. Raif, trovami dieci uomini che non abbiano paura di avvicinarsi alla Città Arcobaleno.» Raif guardò Narayan, che parve sorpreso, ma poi disse: «Darò io gli ordini che tu vuoi, Adric». Trattenni un sorriso. Avrei ripreso molto presto il posto che la mia follia mi aveva fatto perdere! L'idiota il cui corpo avevo condiviso per un poco, aveva rischiato di mandare tutto all'aria, ma in un certo senso anche questo era servito: quell'altro era riuscito a conquistare la fiducia di Narayan come io non avrei mai saputo fare. Be', quello sciocco smidollato non avrebbe condiviso il mio prossimo trionfo! E neppure Narayan. Frugandomi in tasca, toccai qualcosa di duro e liscio. Lo specchio magico di Evarin... non vera magia, ma il prodotto delle sue infantili manipolazioni. Però poteva servire. Narayan guardò curioso da sopra la spalla quando lo tirai fuori. «Che cos'è?» «Uno dei giocattoli di Evarin; forse posso trovargli un uso», dissi e con un gesto noncurante glielo lanciai. «Dagli un'occhiata, se vuoi.» E trattenni il fiato; Narayan lo prese in mano, rigirandolo curiosamente, ma non tolse la seta. «Avanti», lo incitai. «Aprilo.» Forse ero apparso troppo impaziente, perché Narayan me lo restituì con un gesto brusco. «Prendi, è meglio che lo tenga tu. Io non so nulla di Evarin.» Avrei dovuto saperlo che non poteva essere così facile. Fingendo indifferenza, lo rimisi in tasca. Non aveva importanza, tanto in un modo o nell'altro Narayan avrebbe perso. Perché Evarin e Karamy oggi andavano a caccia e io sapevo quale sarebbe stata la loro selvaggina. CAPITOLO 8 LA CACCIA Fremente di eccitazione, mi inginocchiai accanto a Kerrel e Raif sulla piattaforma tra i rami, stringendomi addosso il mantello. Narayan era aggrappato ad un ramo più basso, sotto di noi. Mi giunse alle orecchie il suono lontano degli zoccoli che calpestavano il suolo gelato e sorrisi. Conoscevo ogni sfumatura di quella caccia, ma oggi Evarin avrebbe anche potuto scoprire che gli uccelli non erano così obbedienti ai suoi comandi! Un frammento di me ricordò un altro mondo, dove un altro me stesso, frastornato e stupefatto, si era lanciato contro un uccello rapace armato solo da un coltello da caccia e risi al ricordo.
Intanto vagliavo piani audaci: mi serviva un'esca, ma chi? Lo stesso Narayan? No, lui era la mia sola protezione finché non fossi riuscito a liberarmi di questa marmaglia. E inoltre, aveva detto di aver imparato ad usare i suoi poteri senza aiuto e se lo avesse fatto ad una distanza tanto ravvicinata, avrebbe potuto svuotarmi e ridurmi privo di vita, come un ragno con una mosca caduta nella sua tela. Allora Kerrel, o Raif. E qualche risentimento contro il grassone lo covavo. Tirai Raif per la manica. «Aspettami qui», gli dissi, e feci il gesto di scendere dalla piattaforma. Raif abboccò all'amo tutto sorridente. «Fermati, Adric! Narayan mi ha ordinato di non farti mai correre pericoli! In fondo è te che vogliono!» Splendido, splendido! Non avevo neppure bisogno di ordinargli di andare a morire, si offriva volontario lui. «Be', ma abbiamo bisogno di un esploratore», tergiversai, «che ci avverta del loro arrivo.» Figurarsi se non lo avremmo saputo! «Andrò io.» Raif si sporse verso il basso, toccò la spalla di Narayan e gli parlò in un sussurro (sussurravamo tutti, anche se non ce n'era alcun bisogno). Narayan annuì. «Ma non farti vedere.» Trattenni una risata. Come se questo avesse potuto avere importanza! L'uomo saltò sulla strada; lo udii inciampare in un sasso e poi i suoi passi si allontanarono, svanendo. E come un brivido che mi percorresse la pelle, avvertii il momento in cui Raif superò il limite di percezione di Narayan. Sì, eravamo ancora legati, come in una rete invisibile! Se solo avessi potuto leggere i suoi pensieri... ma no: in quel caso lui sarebbe stato in grado di leggere i miei! Un urlo bestiale, assordante, trapassò l'aria, un grido che pareva emergere riecheggiando dal profondo dell'inferno, un grido che nessuna gola umana sarebbe stata in grado di emettere. Ma io sapevo cosa aveva urlato. E così l'uomo grasso era sistemato! Narayan fu percorso da un tremito e il suo viso divenne bianco come la morte. «Raif!» E quella parola fu come una preghiera. Aggrappandoci ai rami, scendemmo dall'albero e fianco a fianco ci mettemmo a correre lungo la strada. Fu il grido di un uccello ad avvertirmi. Sollevai la testa e scartai di lato rapidamente. Sopra di me, un grande falcone scarlatto, ad ali spiegate, roteò e si abbassò veloce. Il grido di Narayan lacerò l'aria; mi abbassai e mi coprii la testa con un lembo del mantello. Estrassi il coltello dal fodero e
sferrai un colpo verso l'alto, tenendo un braccio sopra la testa per proteggermi. L'uccello rimase sospeso in aria, osservandomi con i vividi occhi verdi, seguendo ogni mio movimento. Aveva una bardatura verde, che spiccava contro le piume scarlatte. Sapevo chi aveva lanciato quel falco! Il rapace roteò e virò come un aereo, tuffandosi verso il basso. Un falcone? No, quell'animale non era nato dal dischiudersi di un uovo e io sapevo chi aveva forgiato quelle ali scarlatte! Da dietro il braccio avvolto nel mantello vidi Narayan estrarre quella bacchetta simile ad una pistola e gridai immediatamente: «Mettila via! Subito!» In quel momento l'uccello possedeva i poteri di Evarin e avrebbe potuto sfruttare il fuoco come avrebbe fatto lo stesso Evarin, assorbendo l'energia e usandola per ricaricarsi. E se il falco avesse versato una goccia del mio sangue, allora sarei diventato lo schiavo di chi l'aveva lanciato. Scansando le ali dell'uccello, affondai un altro colpo con il pugnale. Vari uomini balzarono attorno a noi, con le armi in pugno. L'uccello lanciò un grido selvaggio e si alzò di qualche metro, restando sospeso in aria, osservandoci con quegli occhi verdi in cui brillava un vivida intelligenza. Poi un altro falco e un altro ancora comparvero sulla strada e un grido irreale e misterioso riecheggiò sulla città. Udii il leggero tintinnare di campanellini. I tre uccelli con le bardature dorate e verdi rotearono su di noi e tre paia di occhi fissi, simili a gioielli, ci fissarono immobili. E lontano, all'orizzonte, contro il sole rosso al tramonto si stagliavano tre figure a cavallo: Evarin, Karamy e Idris, intenti alla caccia col falco, tre traditori che cercavano di attirare in trappola colui che era sfuggito alle loro mani. Per un breve istante provai il desiderio di essere dall'altra parte. Di schiavi ne avevamo in abbondanza e catturare vittime passive era mortalmente noioso, mentre, ah! la caccia col falco era uno sport divertente! Abbandonare il proprio corpo, tutti i sensi profusi nelle sembianze dell'uccello, volteggiare e planare sulle vittime terrorizzate, giocando con loro come un'aquila gioca con la preda inerme! Colpire agli occhi, affondare il becco nelle parti tenere, versando il sangue che avrebbe dato il potere sulle vittime, guardare il loro terrore impotente. O, a volte, ma molto raramente, una lotta eccitante con qualche vittima resa audace dalla disperazione. Era un gioco pericoloso, perché se la vittima uccideva il rapace, lo shock era grande e doloroso. Ma cos'è un gioco senza un po' di pericolo? C'erano sempre altri uccelli. E la vittima che ti sfuggiva tra le mani una volta, po-
teva essere ripresa e tormentata a tuo piacimento. E io avevo affrontato i falconi già prima di allora; io stesso avevo volato per scommessa, con una posta in palio, contro un altro falcone; e mi ero misurato, armato solo di coltello, contro il falco di un altro. Questo però non era uno dei giochi rudi con i miei consanguinei per una posta divertente o per puro sport; questo era un gioco mortale: erano tutti uniti contro di me e io avevo bisogno di tutte le mie facoltà. I falconi si disposero per l'attacco e si mossero, tutti insieme, volteggiando tra il mio coltello e quello di Narayan; dietro di me udii un grido atterrito e capii che almeno uno dei falchi aveva versato sangue, che uno degli uomini alle nostre spalle non ci apparteneva più! L'uomo colpito girò su se stesso, incespicò e si mise a correre lungo la strada, inciampando e calpestando il corpo di un altro uomo che giaceva riverso a terra. Narayan emise uno gorgoglio strozzato e io girai su me stesso in tempo per vederlo estrarre la bacchetta e sparare un colpo dopo l'altro, all'impazzata, contro l'uomo che una volta era stato dei nostri. «Devo colpirlo», ansimò. «Larno non avrebbe mai voluto appartenere a loro. Preferirebbe essere morto.» Con un gesto selvaggio lo costrinsi ad abbassare l'arma. «Sciocco! Una preda devono pur prenderla!» Narayan fece per protestare e allora gli strappai la bacchetta di mano. L'uomo era ormai fuori tiro. Vedendo il viso sconvolto di Narayan, imprecai: questo debole sciocco avrebbe rovinato tutto. Che importava un uomo in più o in meno? Mi guardai intorno, orientandomi rapidamente. Gli uccelli si erano di nuovo allontanati! Feci cenno agli uomini di Narayan di avvicinarsi. «Non sparate agli uccelli», li avvertii. «Serve solo a renderli più forti, perché assorbono l'energia delle vostre armi. Usate i coltelli, tagliate loro le ali e cercate di immobilizzarli. Attenti!» I falchi, simili a lampi colorati, volteggiarono in un'esplosione di colori, poi si tuffarono, con un gran batter d'ali e di colpi di becco. Indietreggiai, sollevando il mantello e colpendo gli uccelli con l'orlo appesantito dell'indumento. I nostri uomini, raggruppati in cerchio schiena contro schiena, li tenevano a bada con i coltelli e le falde dei pesanti mantelli. Per tre volte udii quel grido inumano e per tre volte sentii i passi traballanti di un uomo (ormai non più umano) che si staccava da noi e correva alla cieca verso il lontano crinale. Udii Narayan gridare, girai su me stesso e lo vidi correre verso di me, mentre al tempo stesso si difendeva dall'uccello che saettava avanti e indietro sulle grandi ali purpuree. Lo stridio dei falchi, lo sventolio dei man-
telli, il respiro ansante degli uomini pressati da vicino conferiva a quella scena un'irrealtà da incubo, dove l'unica cosa reale era Narayan che combatteva al mio fianco. Una sua esclamazione repressa mi fece girare d'istinto, sollevando il mantello per ripararmi la schiena, mentre alzavo il coltello per proteggere la gola del Sognatore. Narayan colpì l'uccello sopra il becco, un taglio lungo e profondo e il falco emise un urlo d'agonia, che nulla aveva di animale, aprendo e chiudendo convulsamente gli artigli che riuscirono a conficcarsi nel suo braccio. Il becco mortale si sporse per colpire, ma io mi lanciai avanti, privo di protezione. All'ultimo istante, artigli e becco si ritrassero da Narayan e si rivolsero verso di me, con un'intelligenza e una cattiveria che era più che umana! E il mio coltello era sempre sollevato a protezione della gola del Sognatore! Ma Narayan si spostò di lato con un guizzo, il suo coltello cadde per terra, mentre lui tendeva le braccia in un movimento fulmineo e afferrava il falco dietro la testa, inarcando il corpo all'indietro per tenersi fuori della portata di quel becco mortale. L'uccello tese il collo, cercando di afferrare il mantello avvolto attorno al braccio di Narayan. Sbilanciato, andai a urtare contro il Sognatore e ci ritrovammo tutti e due a terra, in un caos di mantelli, coltelli e ali che sbattevano all'impazzata. Gli artigli crudeli, robusti come l'acciaio, lacerarono il mio viso e quello di Narayan, il quale non cedette e continuò a restare fuori portata del becco mortale. Accecato dalle ali che mi flagellavano il viso, cercai a tentoni il coltello e colpii alla cieca. Un sangue fluido e giallo sgorgò a fiotti, spruzzando entrambi di un veleno bruciante. Afferrai il falco, strappandolo alla stretta ormai debole del Sognatore, e torsi fino a quando non sentii il collo spezzarmisi tra le dita. Di colpo, i movimenti convulsi dell'animale cessarono e il corpo si accasciò inerte tra le mie mani. Qualunque cosa gli avesse infuso la vita, si era ritirata. E là, sul costone, la minuscola figura di Idris sollevò le braccia al cielo e crollò come un sacco vuoto sul pomo della sella. Narayan emise un lungo sospiro di sfinimento mentre districavamo in nostri corpi da quello del falcone morto. Ripulendoci dal sangue, ci scambiammo uno sguardo e Narayan mi rivolse un sorriso spontaneo e un po' tremulo. Maledizione, che spreco! Mi piaceva quell'uomo e per un attimo desiderai non essere costretto a rimandarlo alla trance e a quegli orribili sogni. «Tra noi ora c'è una vita», disse piano. Torsi la bocca e ricambiai il suo sorriso. «E uno di loro è andato», dissi
con impeto selvaggio, voltandomi a guardare gli altri due falchi che continuavano a combattere contro gli uomini radunati in cerchio. «Andiamo», gridò Narayan. Lasciai cadere a terra il coltello, afferrai una spada caduta e mi tuffai nel cerchio, roteando la lama sopra la testa, con gesti che chissà come mi parvero giusti e naturali. Gli uomini si dispersero, come gallinelle spaventate. I falchi attaccarono; sopraffatto da una furia omicida, caricai e caricai, menando grandi fendenti contro quelle bestie malvagie. Poi la spada non incontrò più ostacoli e mi resi conto con stupore che entrambi i falconi giacevano massacrati ai miei piedi e il loro sangue giallo inzuppava le foglie morte. Attraverso la nebbia rossastra che mi offuscava lo sguardo vidi i profondi occhi grigi di Narayan, che mi fissavano, con un'espressione preoccupata e spaventata. Mi costrinsi a calmarmi e lasciai cadere la spada sugli uccelli morti. «È tutto finito», dissi. Contammo le nostre perdite: tre, anzi quattro uomini perduti, schiavi degli uccelli; tutti gli altri avevano riportato graffi e ferite dagli artigli. Con un ansito di dolore, Narayan si sfregò una macchia di sangue giallo dal viso. «Questa roba brucia!» esclamò con una smorfia e io risi. Non avevo bisogno che me lo dicesse lui. All'indomani avremmo entrambi avuto delle ferite infette, che avrebbero bruciato come ferro rovente; il liquido che Evarin usava come «sangue» per i suoi uccelli era mortale. «Mi hai salvato la vita», ripeté Narayan a bassa voce e io fui costretto a mordermi un labbro per trattenere la rabbia omicida. Che sciocco ero stato: perché lo avevo protetto? I Sognatori sono invulnerabili ai normali attacchi umani, ma possono essere messi fuori combattimento... E invece avevo agito senza pensare e avevo salvato Narayan. Il legame che ci univa era così forte? Il dubbio mi attanagliò, facendomi tremare. «Sei ferito?» mi chiese Narayan. «Fammi vedere.il braccio.» Ma io lo scostai, e selvaggiamente, mi ingiunsi di non essere sciocco: certo che dovevo proteggere Narayan, avevo ancora bisogno di lui e mi serviva forte e integro, una morte rapida era qualcosa di troppo facile e semplice, per lui. Avrebbe preferito morire piuttosto che tornare alla Fortezza dei Sognatori, di questo ero sicuro. Be', una scelta non l'avrebbe certo avuta. «Guardate!» esclamò qualcuno indicando verso l'alto con il viso stravolto dalla paura. Un altro grande uccello da preda era sospeso sopra di noi, ma mentre lo guardavamo, ruotò su se stesso e si diresse di nuovo verso la Città Arcobaleno. Uno degli uomini stava rapidamente incoccando una freccia, ma l'uccello era già troppo alto e lontano, tanto che distinguevo a
malapena lo scintillio azzurro della sua bardatura e dei campanelli. Un tintinnio sottile giungeva da quei campanellini, quasi un'eco irridente della voce del Cantaincantesimi. Gamine! CAPITOLO 9 LA TORRE CREMISI Tornati nella casa senza finestre, ci concedemmo un pasto affrettato, curammo tagli e bruciature e cercammo di perfezionare i nostri piani. Gli altri non erano rimasti con le mani in mano mentre io portavo il mio gruppo di uomini scelti contro i falconi. Per tutto il giorno, il tanto decantato esercito di Narayan era confluito (non potevo certo dire radunarsi) nella grande conca tra la Città Arcobaleno e la Fortezza dei Sognatori. C'erano circa quattromila uomini, armati di goffi fucili a polvere, poco più di una cinquantina di bacchette elettriche come quelle di Narayan, e poi spade consunte che parevano essere rimaste sepolte per secoli, forconi, vanghe e persino nodosi bastoni di legno. Ebbi il mio da fare a nascondere il disprezzo per quell'esercito malconcio e raffazzonato. E Narayan intendeva assaltare la potenza di Narabedla, il potere magico della Città Arcobaleno con quello? Ma gli sguardi che vidi negli occhi di quegli uomini, le conversazioni che udii, le grida, i saluti, mostravano quanta fiducia quegli uomini disperati riponessero nel loro capo. Erano tutti pazzi o illusi? Tanto meglio pensai cupo. Privati di Narayan, ritorneranno correndo ai buchi da cui sono usciti. Torsi le labbra in un sorriso amaro. Si fidavano anche di Adric... Adric che aveva liberato il Sognatore. Quando ero comparso davanti a loro, le grida di esultanza avevano persino fatto tremare gli alberi. Be' (e ancora una volta non potei trattenere un sorriso ironico), tanto meglio così, anche in questo caso. Quando Narayan fosse stato di nuovo imprigionato come era giusto, avrei potuto usare il potere del loro capo perduto per abbattere tutto quello che aveva costruito. Quel pensiero era deliziosamente divertente. «Perché stai ridendo?» mi chiese Narayan. Ci eravamo soffermati sulla scalinata della casa ad osservare gli uomini che si ammassavano nel campo. Nei suoi cupi occhi grigi brillavano scintille di fuoco. Senza aspettare la mia risposta, proseguì: «Pensa! Questa terra finalmente libera dalla ma-
ledizione della magia dei Sognatori. La tirannia della Città Arcobaleno scomparsa per sempre. Pensa a cosa significa! Significa vita e speranza per tanta gente, senza più paura, schiavitù, sacrifici, cacce, senza più malvagi uccelli da preda...» si interruppe e allargò le braccia in un gesto impotente. «Ma tu non puoi saperlo; nemmeno con tutti i ricordi di Adric potresti saperlo!» Mi ricordai che per lui io ero ancora Mike Kenscott e vagamente, come in sogno, ricordarla lealtà di Michael per Narayan... facevano proprio una bella coppia, tutti e due deboli e sciocchi... E ancora più vagamente ricordavo il tempo in cui avevo condiviso quel sogno, quando quella meta mi era sembrata più onorevole della brama di potere. Cynara scese i gradini e si chinò su di me, passandomi un braccio attorno alle spalle e io la trassi vicina... ma in me ardeva un vulcano d'odio tanto grande, che dovetti nascondere il viso. Quest'uomo, Narayan, era un mio pari... no, ammisi a malincuore, mi era superiore... e io lo odiavo per questo. Lo odiavo perché non poteva essere ucciso se non per un caso e perché rischiava questa sua invulnerabilità come io mai avrei osato fare, neppure nei giorni in cui ero protetto da tutta la sua magia. Lo odiavo perché sapevo che nei suoi sogni di potere nessuno avrebbe sofferto, e lo odiavo perché sapevo cosa avrei fatto io con i suoi poteri, quando fossi di nuovo riuscito a rinchiuderlo nella Fortezza dei Sognatori, rifornendolo di quell'energia che lo avrebbe costretto a cedermeli a poco a poco. E soprattutto lo odiavo perché un tempo ero stato tanto debole da condividere il suo sogno! «Una volta hai detto che non c'è magia nel tuo mondo, Michael», disse Narayan interrompendo i miei pensieri. Che continuasse pure ad illudersi, pensai scrollando le spalle. «Be', immagino che le forze del mio mondo possano essere chiamate magiche, se non le si capisce», temporeggiai. «La caccia coi falconi... una volta Adric mi disse che se veniva distrutto il falco, questo avrebbe causato un grave shock alla personalità che l'aveva guidato», rifletté Narayan. «Questo significa che Idris, Evarin e Karamy, tutti e tre sono fuori gioco per un po'. Se potessimo attaccare subito...» «I tuoi piani sono buoni, Narayan», lo interruppi, «c'è solo un piccolo particolare che non va: non funzioneranno. Attaccare la Città Arcobaleno non ti porterà da nessuna parte, non serve neppure per cominciare. Puoi ammazzare gli schiavi di Karamy a centinaia, a migliaia o anche a milioni, ma non potresti uccidere Karamy. E più schiavi uccidi, più lei cercherà altri uomini per ridurli in schiavitù e rimpiazzare quelli morti. Devi colpirli
alla Fortezza dei Sognatori; è l'unico posto in cui sono vulnerabili.» Narayan non discusse questa mia affermazione e neppure i ricordi di Adric. Fu Cynara a ricordarmi una cosa: «La libertà di Narayan è limitata, ricordalo. Non può entrare nella Città Arcobaleno e neppure nella Fortezza dei Sognatori, perché quando Adric lo ha liberato, non è riuscito a trovare il suo Talismano». Narayan annuì. «Quindi non ho scelta, devo attaccarli lungo la strada che porta alla Fortezza e correre il rischio.» «A cosa serve il tuo esercito?» chiesi brusco. «Ad abbattere i covoni di fieno? L'esercito può occuparsi delle guardie e degli schiavi, ma i Narabedlani devono entrare nella Fortezza dei Sognatori: è l'unico modo. Andrò io nella Città Arcobaleno a prendere quel coso per te!» «Tu?» Narayan e Cynara mi guardarono esterrefatti e io dovetti ricordarmi di non sembrare troppo sicuro, perché era stata la debolezza mostrata da Michael che aveva conquistato la fiducia di Narayan. Ma gli occhi di Cynara brillavano. «Sì, e io verrò con te, nel caso i tuoi ricordi venissero meno.» Bene, di bene in meglio, era perfetto! Nella Città Arcobaleno non c'era nessuno, tranne il vecchio Rhys e forse Gamine, che non aveva partecipato alla caccia al falco con gli altri e a cui presumibilmente non importava nulla delle lotte intestine degli altri narabedlani. Ma Narayan non pareva convinto. «Adric ha provato, una volta», disse serio, «ed è stato allora che Karamy lo ha catturato e lo ha mandato nell'Ellisse Temporale.» «Ma questa volta Karamy non ci sarà, lei e gli altri saranno occupati con il tuo esercito», gli rammentai. Questo sistemò le cose e la mia proposta venne accettata. Con un misto di disprezzo e ammirazione li ascoltai fare piani e dare suggerimenti. Sì, i Narabedlani erano vulnerabili nella Fortezza dei Sognatori, ma se io fossi stato là, con Narayan e il talismano di Narayan nelle mie mani, avrei potuto smettere di preoccuparmi di Evarin, di Idris e di tutto il resto. Cynara si chinò e mi sfiorò la ferita che gli artigli del falcone mi avevano scavato sul viso. «Sei di nuovo ferito e non me lo hai detto», mi rimproverò. «Vieni subito con me e lascia che ti medichi!» Per poco non scoppiai a ridere: io, Adric della Torre Cremisi, sgridato da una ragazzina di campagna! Sbuffai, ma risposi gentilmente. «Sopravviverò, immagino. Vieni a sederti con noi.» La feci sedere accanto a me, ma lei appoggiò la testa alle ginocchia del fratello, con un'espressione preoccupata in viso.
Era carina e guardandola pensai che quasi potevo perdonarle di essere la causa di tutti i miei guai. Quando, per un capriccio, l'avevo scelta tra tutte le schiave di Karamy, non sapevo che fosse la sorella di Narayan. E poi... e poi, come se una scossa mi avesse trapassato il cervello, il lampo del ricordo e il nulla. Che cosa nascondevo? Cosa avevo dimenticato? Mi misi i pugni sulle tempie, come se con la forza bruta potessi tirar fuori quei ricordi, ma non accadde nulla, rividi solo un viso sfocato, dalla carnagione chiara, come Narayan, sconvolto dal terrore... ed una voce che pronunciava parole che non riuscivo a capire, con la voce dolce e argentina di Gamine. Chi, cosa era Gamine? «Michael...» esclamò Cynara in tono spaventato. Ritornai al presente con fatica, e mi costrinsi a sorridere. «Avevi un'espressione così... decisa, così lontana», disse incerta. «Sembravi... Adric, non tu!» Tesi un braccio per attirarla a me, ma lei si scostò, e si alzò in piedi, come una colomba pronta a fuggire. Allora mi portai la sua mano alle labbra e la baciai, prima di lasciarla andare. Quel gesto la commosse tanto che si allontanò inciampando e io la osservai con disprezzo. Sciocca, sempliciotta ragazza! Si meritava quello che stava per accaderle! Quando ci mettemmo in viaggio per la Città Arcobaleno, il sole bianco, incandescente sull'orizzonte era ancora tanto luminoso da trasformare quello rosso in un puntolino. Cynara cavalcava al mio fianco e anche Narayan, che sarebbe venuto con noi fin dove poteva. Kerrel aveva assunto il comando dell'esercito e doveva portarlo, in gruppi divisi, sulla strada per la Fortezza dei Sognatori, per tendere un'imboscata alla guardia di Karamy. Ascoltai Narayan dargli le istruzioni e colsi la nota di profondo dolore nella sua voce quando pronunciò il nome di Raif. Poi ci separammo e noi prendemmo la strada tortuosa che attraversava la foresta in direzione della Città dell'Arcobaleno. Accanto a me Cynara cavalcava con le guance accese e gli occhi brillanti, molto carina nel suo abito grigio, che però non le donava come il mantello alato color fiamma di Narabedla. C'era un che di stregato e allettante in Cynara e una dolce fiducia che mi fece sorride e prometterle con deliberata imprudenza: «Vinceremo!» Mi gratificava sapere che avrei potuto confortare Cynara per la sconfitta di suo fratello. Quando fosse di nuovo stata condizionata alla vita della Città Arcobaleno, avrebbe dimenticato tutto questo e sarebbe ritornata una bella e gradevole compagna. Se avesse continuato a compiacermi. Be', poteva anche essere divertente vedere questa rozza ragazza di campa-
gna detenere il potere di Karamy la Dorata! Ma mi avrebbe mai più guardato con quell'espressione così fiduciosa? Maledissi con forza le mie fantasticherie e affondai i tacchi nei fianchi del cavallo. Che importanza aveva? Ero di nuovo pazzo, o morboso, per curarmene? Ci volle un'ora ad andatura sostenuta per raggiungere il crinale della grande conca, dove ci fermammo a guardare sotto di noi quel viale alberato scuro e dritto che conduceva alla Città Arcobaleno. Fischiai stonato tra i denti. «Qualunque cosa facciamo, è destinata ad andare male», dissi. «Corriamo un bel rischio a presentarci così davanti ai cancelli principali. Ma al tempo stesso, se si aspettano il nostro arrivo, si aspettano di sicuro che ci avviciniamo furtivamente, e non immaginano di certo di vederci percorrere a cavallo la strada principale.» «Il cervo è più al sicuro sulla soglia di casa del cacciatore», citò Narayan ridendo, «ma non si aspettano appunto che usiamo questo tipo di logica?» Cynara ridacchiò, ma si interruppe vedendomi aggrottare la fronte. «Di questo passo possiamo andare avanti tutta la notte», dissi. Narayan sollevò un braccio e afferrò un ramo gelato carico di bacche, da cui staccò un baccello, che tenne tra il pollice é l'indice. «Affidiamoci alla sorte. Due semi, facciamo il giro; tre, andiamo dritti al cancello principale. D'accordo?» Annuii e lui schiacciò il baccello secco. Uno, due, tre semi rotolarono sul mio palmo aperto. «La sorte», disse Narayan. «Siete pronti?» Feci rimbalzare i semi nel palmo della mano. «Uno per Evarin, uno per Idris e uno per Karamy», dissi in tono sprezzante e poi gettai via le tre piccole palline nere. «Li disperderemo, così.» Fummo fortunati, il viale era deserto. Se c'erano guardie in girò, erano state appostate sulla strada segreta che Adric conosceva. Cavalcammo dritti verso le torri e poco prima del tramonto fermammo i cavalli e li impastoiammo a circa un chilometro dalla Città Arcobaleno, con l'intenzione di procedere a piedi con molta cautela. Quell'idea non mi andava. «Entrerò da solo», dissi. «Se mi succede qualcosa, non debbono perdere anche voi.» «Io non posso entrare», disse Narayan, «ma mi avvicinerò quanto più posso. E se qualcosa va storto, Be', sarò qui per aiutarti.» . Maledissi in silenzio la lealtà di quell'uomo, ma non potevo obiettare nulla senza rovinare l'illusione che mi era costato tanta fatica creare. «Grazie», dissi, stringendogli la mano.
«Buona fortuna», rispose lui in tono brusco. Cynara si mosse assieme a me; io mi fermai e la guardai corrugando la fronte. «Io vengo con te», mi disse in tono che non ammetteva repliche, aggrappandosi alla mia mano. «Vengo, e non puoi fermarmi in nessun modo!» Tanta lealtà? E per me? Però poteva essermi utile, anche solo come ostaggio in seguito. «Vieni, allora», dissi, «ma non aprire mai bocca. Probabilmente tutti i rifugi saranno sorvegliati e non sono neppure sicuro di come faremo a entrare.» «Narayan», domandò Cynara, «tu puoi aiutarci?» Il viso del giovane Sognatore era avvolto dall'ombra delle grandi mura esterne accanto a cui ci trovavamo, ma io sapevo che era molto pallido. «Forse», mormorò a fatica, come se fosse immerso in una profonda apatia. «Ci proverò. Brennan è entrato da questa parte», concluse scuotendo il capo, come se si sentisse la testa confusa. «Forse è meglio che tu ci provi», dissi prudente, «io non posseggo la magia, ricordi?» Avanzammo piano, tenendoci al riparo del bastione; Narayan avanzava insicuro, esitante, poi inciampò. Subito, lo sostenni per un braccio. «È meglio che tu torni indietro», dissi allora. «Riusciremo a trovare la strada in qualche modo.» Narayan mi serve intero e in forze, più tardi! Poi, quando lo avrò usato... Cynara lo guardava con occhi angosciati. Lui cercò di sorridere per rassicurarla, ma riuscì solo a increspare i muscoli del viso. «Non so... esattamente cosa...» disse con voce impastata, «non so cosa sia stato fatto, ma più mi avvicino alle mura e più sento che... le forze... mi... abbandonano.» Lo sostenni e lo aiutai ad allontanarsi dalle mura. Apparentemente ero tutto sollecitudine, ma dentro di me esultavo. Ora sapevo quello che volevo sapere. Mai, in tutta la mia vita, un Sognatore liberato aveva camminato per la Città Arcobaleno (tranne il vecchio Rhys che era uno di noi), e quindi non ne avevo la certezza, non sapevo quanto Narayan potesse avvicinarsi alle aree proibite. Molti, molti anni fa, generazioni addietro, quando i Sognatori minacciarono per la prima volta la potenza della Città Arcobaleno, a Narabedla c'era un altro Giocattolaio, che aveva scoperto il modo di legare i Sognatori. Non li si poteva uccidere, ma lui aveva costruito e montato nella Città Ar-
cobaleno un congegno (ricordi vaghi e confusi del mondo di Mike Kenscott mi attraversarono la mente, con parole come vibrazioni e frequenze subsoniche) che era innocuo per tutti e agiva solo sui Sognatori che erano stati legati a Narabedla. Un congegno simile, nella Fortezza dei Sognatori, li teneva avvinti nella loro trance. Ancora bambini, tutti i Sognatori mutanti venivano messi vicino a questo congegno e incatenati nel rapporto telepatico con uno dei narabedlani, come era avvenuto nel caso mio e di Narayan. Gli effetti di quel congegno potevano venir neutralizzati, per brevi periodi, dai Talismani. Erano i narabedlani a tenere quei Talismani (Magia? Vibrazioni?) che potevano risvegliare i Sognatori. Al momento del Sacrificio il Sognatore veniva risvegliato e nutrito con l'energia vitale che aumentava a dismisura i suoi poteri, che a loro volta venivano trasferiti a colui che gli aveva portato il Sacrificio. Magia? Narayan si passò una mano sulla fronte. «Qui va bene», mi disse. «Ma fino a quando non avrai preso il mio Talismano, non posso avvicinarmi di più.» Credeva davvero che lo avrei dato a lui? Sì, immagino che fosse sciocco al punto tale da pensare che poiché Adric gli aveva restituito la sua libertà, gli avrebbe anche concesso la libertà di girare liberamente per la Città Arcobaleno e per la fortezza dei Sognatori... per distruggerci tutti! Mentre ritornavamo verso le mura esterne, Cynara si voltò a guardare Narayan, preoccupata. Ma la mia attenzione era tutta rivolta al problema di come entrare. Sollevai lo sguardo verso i bastioni delle mura, che circondavano il vasto semicerchio di torri che costituiva la Città Arcobaleno, il cui scintillante splendore era ridotto ora ad un vago chiarore dal sole al tramonto. La Città Arcobaleno, che non era più una città. Ricordi antichi, quasi dimenticati, mi tormentavano; c'era stato un tempo in cui quel grande castello brulicava di uomini e di donne, risuonava di risa gioiose, di felicità, di giochi... non era la dimora semideserta, spettrale, della mezza dozzina di stregoni sopravvissuti della mia casta, con il loro seguito di zombie e morti viventi! Cynara mi strinse la mano e per un istante ebbi la sensazione che avesse condiviso i miei pensieri. «Potrebbe essere così meravigliosa.» «Lo sarà di nuovo», le promisi. «Ma ora dobbiamo trovare il modo di entrare.» Dietro un angolo del bastione c'era un cancello poco conosciuto e forse
non sorvegliato. Ci avvicinammo timorosi, aspettandoci ad ogni istante di udire il grido di una sentinella o di sentire una freccia sbucata dal nulla; ci avvicinammo piano, tenendoci nell'ombra. Il cancello era aperto. Spalancato, dondolava piano sui cardini che scricchiolavano leggermente. Dietro c'era l'oscurità. Trattenni Cynara per un braccio e fissai a lungo il buio. «Fai attenzione», mormorai. «Potrebbe essere una trappola.» E io non possedevo la magia! In punta di piedi, con circospezione, mi avvicinai al cancello. Non udii nulla, solo quel leggero cigolio. Entrai e con un braccio feci cenno a Cynara di avanzare. Lei mi seguì, con passi lievi che pure risuonarono nella silenziosa immobilità. Eravamo entrati nella Città Arcobaleno. Ci trovavamo in un cortile lungo e stretto, fiancheggiato da pilastri, lastricato d'alabastro, e davanti a noi si apriva un passaggio lungo e buio mentre sopra le nostre teste splendeva un piccolo lembo di cielo al tramonto. Ad un'estremità del cortile c'era un'alto muro ricurvo, che risplendeva di luce color verde: era la Torre di Smeraldo. E all'altra estremità la pallida forma traslucida della Torre Azzurra. I colori erano offuscati dal tramonto e persino il nostro respiro sembrava risvegliare un'eco. Rimasi fermo, guardandomi intorno e cercando di orientarmi. Le pareti del cortile impedivano la vista delle altre torri e come sempre, quando cercai di concentrarmi su un dettaglio, questo si sfocò nella mia mente. Cynara trasalì ed emise un'esclamazione quando un'ombra calò su di noi. Io girai su me stesso, respirando forte, mentre la mia mano aveva già estratto la spada dal fodero. In alto sopra di noi roteava un falcone, che scendeva in lente spirali. Udii il dolce tintinnare di campanellini. Gamine! Nascosi Cynara dietro di me, ma il falco non diede segno di volerci attaccare; rimase sospeso, con un luccichio meccanico negli occhi e le ali che si muovevano piano per mantenerlo in aria. Serrai nervosamente le dita attorno all'elsa della spada, pronto a colpire, ma il rapace restava fuori portata, limitandosi ad osservarci e chissà perché il modo in cui si muovevano le sue ali mi fece pensare al calmo e malizioso distacco di Gamine. Ma continuai a tenere la mano sulla spada mentre con l'altra guidavo Cynara nel passaggio. Pur essendo alto e largo, dopo il cortile aperto mi parve soffocante. Avanzai cauto, guardandomi alle spalle per vedere se il falco ci seguiva, ma non lo fece: lo vidi sfrecciare verso il basso e poi virare di nuovo verso
l'alto e udii il grido e il tintinnare di campanellini mentre si allontanava scomparendo alla vista. Allora avanzai più in fretta, cercando di orientarmi in quel labirinto per trovare la strada che portava alla Torre Cremisi, con Cynara al fianco. Attraversammo cortili all'aperto, con giardini e fontane, sempre tenendoci all'ombra degli edifici, timorosi di essere visti. Ora sapevo dove mi trovavo: ancora un cortile e ancora un passaggio... Poi finalmente, vedemmo innalzarsi davanti a noi le mura della Torre Cremisi, che risplendevano come carbone ardente. Una luce bassa e fosca illuminava il cortile che dovevamo attraversare. Respirai più liberamente, perché ora, almeno, mi trovavo su di un terreno familiare. Cynara gridò e io mi girai, con la spada in mano. Dietro di me, disposti in una fila che andava da una parte all'altra del cortile, avanzavano lente una dozzina delle guardie di Karamy con le uniformi oro e cremisi, armati di lunghe picche con la punta d'acciaio, che formavano una barriera puntata contro il mio petto e sulle quali si rifletteva maligna la luce del sole morente. I loro visi apparivano stolidi e vuoti in quella luce infernale; non ci gridarono di fermarci, non sembravano né eccitati né pronti alla battaglia. Avanzavano semplicemente, meccanicamente, un passo dopo l'altro, con le picche tese in avanti. Cynara si ritrasse; io indietreggiai di un passo facendo scorrere lo sguardo su quella linea compatta. Niente da fare, non c'erano aperture in quella falange che avanzava implacabile, senza cedimenti. «Svelta, Cynara!» gridai. «Entra nella Torre!» e rafforzai la presa sulla spada, anche se sapevo di non avere alcuna speranza contro quelle lunghe picche. Continuavo a guardarmi intorno, cercando una via d'uscita. Le punte d'acciaio si facevano più vicine, più vicine... Poi uno degli zombie venne scaraventato in aria, sempre orrendamente muto, si portò le mani al petto, crollò a terra e rimase immobile, mentre la picca ricadeva accanto a lui, con fragore. Gettai via la spada inutile e afferrai la picca della guardia morta. Dietro di me Cynara teneva tra le piccole mani tremanti la lunga bacchetta di Narayan e la girava frenetica, pronta a sparare un altro colpo. Gli zombie non si erano fermati né avevano esitato, continuavano ad avanzare meccanicamente un passo dopo l'altro, serrando i ranghi per coprire il vuoto lasciato dal compagno caduto. Afferrando strettamente la mia lancia, la feci roteare e colpii due delle picche; le due guardie vacillarono e caddero all'indietro. Ne trapassai una al petto: lo zombie si contorse, riuscendo quasi a strapparmi l'arma dalle mani, sempre in quel tremendo si-
lenzio; poi morì, senza un gemito. Estrassi la picca dal suo corpo e balzai sui gradini della Torre Cremisi. Dietro di me, udii lo scoppio di un altro fulmine bianco e un'altra delle guardie balzò in aria in silenzio, afferrandosi il petto e ricadendo senza vita. Sempre in quel silenzio spettrale, le guardie sopravvissute si agitarono indecise. Strappai la bacchetta dalle mani di Cynara e con precisione e senza incertezze manipolai i controlli e la diressi contro la fila di guardie. Quegli uomini senza menti, ormai dimezzati di numero, si misero a correre avanti e indietro senza scopo, agitando in aria le picche, e poi, come se avessero ricevuto un silenzioso segnale, si voltarono e fuggirono senza una parola, l'unico rumore quello dei loro stivali che ticchettavano sul selciato, svanendo a poco a poco. Mi asciugai la fronte e mi voltai a guardare Cynara, pallida e tremante dietro di me. Non sapevo che avesse la bacchetta, né che sapesse come usarla! «Se ne sono andati», disse, e io percepii lo sforzo che le costò mantenere salda la voce, «ma possono tornare. Io starò di guardia qui mentre tu sali nella Torre.» Annuii, con il respiro affannoso ed entrai nella Torre. Forse non avevo molto tempo: se era stata Karamy a tendermi quella trappola, potevano essercene altre. Salii le scale lentamente, procedendo con cautela oltre ogni angolo ma la Torre era deserta e silenziosa. In fretta, frugai ogni stanza, ma senza successo. Quando mi aveva privato dei ricordi, Karamy aveva anche fatto in modo di togliermi qualunque cosa avrebbe potuto darmi potere sui Sognatori, persino sul vecchio Rhys. In quanto all'oggetto che avrebbe potuto ricondurre Narayan ai miei comandi, non ce n'era traccia. Salii altre scale, finché non giunsi sul pinnacolo della Torre, alla stanza delle stelle di Adric, nella quale ero stato catapultato... erano davvero passati poco più di due giorni? Mi fermai davanti all'alta finestra, rammentando vagamente un me stesso più giovane, un Adric che aveva guardato le stelle da lì, ma non da solo. Andai indietro negli anni, tuffandomi in quel mare di memorie comparse all'improvviso e vidi affiorare un ricordo... «Kenscott!» esclamò una voce alle mie spalle. Girai su me stesso e mi ritrovai a fissare il volto di un uomo che non avevo mai visto prima. Aveva l'aspetto primitivo di un uomo emerso da un lontano passato. Avevo visto creature simili mentre vagavo nel nulla dell'Ellisse Temporale. Era alto, senza barba, dal portamento atletico, con occhi e capelli di un ri-
dicolo color castano chiaro. Sembrava arrabbiato, ammesso che si potesse dire che sul suo viso ci fosse qualche espressione. Ma parlò chiaramente e con calma voluta. «Bene, Michael Kenscott, hai preso il mio posto con molta bravura. Immagino che dovrei ringraziarti. Sei riuscito ad ingannare Karamy, costringendola a ridarmi la libertà, e Narayan, guadagnandoti la sua fiducia; per il resto, credo di potermela cavare da solo!» Rise. «In effetti, sei diventato me a tal punto, che sembra che tu non sappia chi sei! Che creature deboli, siete! Ma io posso costringerti a ritornare nel tuo corpo, per quello che vale.» Quell'uomo era pazzo! E comunque aveva insultato Lord Adric nella sua stessa Torre e per le sopracciglia di Zandru, doveva pagare! Mi gettai su di lui in un impeto di rabbia e gli afferrai il collo tra le mani. E poi gridai, quando quelle dita lunghe e forti mi afferrarono, stringendomi le spalle, affondando nel mio collo... Tutto il mio corpo venne percorso da una scarica d'agonia, una scossa insopportabile e in qualche modo familiare. Mi trovai di fronte... Adric! CAPITOLO 10 GAMINE IL CANTAINCANTESIMI Anche mentre lottavo, frastornato e confuso, per allentare quella stretta mortale che io stesso tenevo attorno alla mia gola, avevo capito. Ero di nuovo io, ero tornato nel mio corpo, ero Mike Kenscott. Adric staccò le mani di sua volontà e fece un passo indietro, ansando forte. «Grazie», disse con quella voce aspra che era stata mia per tanto tempo. «Io stesso non avrei saputo fare meglio. No, non ho intenzione di strangolarti.» Con un movimento rapido, afferrò qualcosa da una nicchia nella parete, prese la mira, e mi sparò a bruciapelo. Un lampo bianco mi colpì. Con mia grande sorpresa, avvertii solo un piacevole e caldo formicolio; ma mi era rimasta abbastanza presenza di spirito per portarmi le mani al petto e lasciarmi cadere a terra come se avessi perso i sensi. Adric estrasse la spada a metà come per rassicurarsi che c'era, poi frugò nelle tasche e prese il piccolo specchio che avevo sottratto ad Evarin, ancora avvolto nella seta protettiva. Senza fiato, lo guardai al di sotto delle palpebre socchiuse. Se solo avesse fissato lo specchio!
Invece, con un brivido di disgusto, me lo scagliò addosso. Con uno sforzo immane, mi imposi di restare immobile, senza cercare di evitare di essere colpito. L'oggetto mi colpì alla fronte, tagliandomi, e il sangue prese a scorrermi lungo il viso. Poi udii il passo veloce di Adric che si allontanava e il soffio della porta che si richiudeva. Se n'era andato. Allora mi alzai. A tutt'oggi non so con certezza per quale ragione l'arma di Adric non mi abbia ucciso, ma credo che sia stato perché mi trovavo nel mio corpo... e nel suo mondo. Dopo aver toccato Adric per la prima volta, la mia reazione all'elettricità della terra era cambiata. In questo mondo non ero immune alle loro forze, ma ero in grado di assorbirle senza danno. Mi detersi il sangue dal viso e dalla fronte e per la prima volta fissai le mie mani, riconoscendole. Cynara! Cynara che mi aspettava ai piedi della Torre Cremisi, aspettava me, nel corpo di Adric! Mi ero scordato che nei panni di Adric, sopraffatto dalla sua mente, avevo complottato contro Narayan e Cynara e mi tornò in mente, con angoscia, la fiducia negli occhi della ragazza. Cosa avrebbe fatto Adric a lei e a Narayan? Presi da terra lo specchio e lo infilai in una tasca; poi, lottando contro la fretta pressante che mi divorava, mi diressi ad un armadio che ricordavo di aver visto la prima volta che ero stato lì e dalla vasta scelta di armi presi un corto pugnale. Per usare quello non avrei avuto bisogno dell'addestramento da spadaccino! Grazie a Dio sapevo orientarmi nella torre, perché ricordavo tutto quello che avevo fatto quando ero Adric! Ma ora ero anche in grado di ricordare cosa aveva fatto lui quando era me! (L'immagine vaga e sfocata di una lite con Andy mi mozzò il fiato in gola, ma non avevo tempo di pensarci). Questo però significava che anche Adric era in grado di ricordare non solo quello che avevo fatto, ma anche i piani progettati con Narayan! Accidenti a tutto quel folle pasticcio di identità mischiate! Sarei mai stato di nuovo sicuro di chi di noi era chi? Mi precipitai fuori dalla stanza e scesi a tre a tre i grandini di quell'interminabile scala con il cuore che mi martellava in petto. In cortile, le guardie morte erano ancora a terra, ma non c'era segno di Adric e neppure di Cynara. «Cynara!» urlai. Mi rispose un grido soprannaturale e di colpo sopra di me, udii un frenetico batter d'ali. Barcollai e quasi caddi a terra quando uno di quei falconi assassini, quello con la bardatura azzurra, sfrecciò verso di me. Mi appiat-
tii contro il muro e l'uccello tornò alla carica. Snudai il coltello, ma il falco rimase sospeso in aria. Poi fece un tuffo improvviso, e fui costretto ad addossarmi al muro, con il coltello sollevato. Ancora una volta l'uccello roteò in alto e rimase sospeso per aria, scrutandomi con i suoi occhi vivi. Quel maledetto falco stava spingendomi verso la Torre Azzurra! E Gamine non aveva fatto volare i falconi insieme agli altri! Con prudenza, mi mossi verso le mura della Torre Azzurra; il falco mi seguì a distanza di sicurezza, fuori della portata del coltello. Per avere una conferma dei miei sospetti, mi girai come per tornare alla Torre Cremisi e di nuovo l'uccello sfrecciò verso il basso, sbattendo le ali e cercando di colpirmi con il piccolo becco maligno. Cynara! Cosa le sarebbe successo? Cercai di scansare l'uccello e di oltrepassarlo e subito mi ritrovai avvolto da quelle ali che accecandomi, mi sbattevano contro il viso. Ormai esausto e senza fiato, mi lasciai condurre verso le mura azzurre della torre di Gamine e presi a salire ad uno ad uno i gradini della scala. L'uccello mi sfrecciò accanto e rimase sospeso nella tromba delle scale. Tentai un colpo alla cieca con il coltello e venni ricompensato da uno schizzo di sangue giallastro; ma il falcone non era ferito gravemente, e riprese a punzecchiarmi con il becco, spingendomi in su, in su. «Va bene, va bene! Maledizione!» borbottai e, abbassandomi per scansare le ali, mi misi a correre su per la scala, verso il pinnacolo della torre azzurra. All'improvviso, il falco dietro di me sbatté frenetico le ali, si immobilizzò e cadde rotolando sulle scale, in un groviglio di ali, andando a fermarsi molto più in basso, con un tonfo sordo, ormai privo di vita. Mi fermai, respirando con affanno. E adesso? Gamine non era certo amico di Adric, questo lo sapevo. I ricordi di Adric qui non mi aiutavano: per quello che riguardava Gamine la sua memoria aveva un punto cieco, un vuoto sfocato e tremolante, che impediva la vista e il ricordo. Adric aveva mai visto Gamine? Gamine poteva aiutarmi contro Adric? Cosa stava facendo Adric in quel momento? Gli avevo reso un gran servizio; avevo riconquistato la fiducia di Narayan e poi gli avevo restituito il suo corpo, perché potesse tradire e distruggere Narayan un'altra volta... l'unica speranza di sconfiggere la Città Arcobaleno consegnata nelle mani dell'uomo che prima lo aveva liberato e poi si era messo contro di lui! Eppure non potevo odiare Adric fino in fondo; avevo vissuto per tre giorni e tre notti nel suo corpo e nel suo cervello, conoscevo le sue debo-
lezze e i suoi punti di forza, i suoi sogni e i suoi tormenti, i suoi desideri e le sue paure. Non potevo condannarlo del tutto. Un tempo aveva fatto del bene: aveva liberato il Sognatore, aveva condiviso il sogno di Narayan di liberare Narabedla dalla schiavitù della Città Arcobaleno... ma poi perché era cambiato? Gli incantesimi e le lusinghe di Karamy? Non erano molti gli uomini che avrebbero saputo resistere senza cedere agli incantesimi di Karamy, la Strega Dorata di Narabedla. Un'ombra comparve davanti ai miei occhi; sopra di me, in cima alla scala era in piedi Gamine, il Cantaincantesimi, con i suoi veli e una sfumatura di gelido divertimento nella voce ironica. «Che ne dici di questo corpo, Adric? Adesso sei davvero sconfitto! Lo straniero lavora con Narayan nel tuo corpo, Adric!» La sua risata fredda e impersonale mi gelò il sangue. «Guarda e osserva quello che tu farai!» «Io non sono Adric», urlai. «Adric è di nuovo nel suo corpo, è tornato, sta per tradire Narayan e Cynara.» «Immagino che ti piacerebbe che ci credessi», mormorò Gamine con quella sua voce chiara e asessuata, senza nascondere il disprezzo. Serrai i pugni, tremante di rabbia per quell'indugio; Cynara era alla mercé di Adric e anche Narayan. All'improvviso mi venne in mente la persona che avrebbe potuto credermi: Rhys! «Portami da Rhys!» lo pregai. «Lui saprà che sto dicendo la verità!» E io come facevo a saperlo? Gamine rise e quella risata di scherno mi fece salire il sangue al cervello. «Maledizione a te, lasciami passare!» urlai e allungai il braccio per scansarlo. Qualunque cosa fosse Gamine, uomo, donna, strega, robot o demonio, non era umano. Era come se fili di acciaio si torcessero sotto le mie mani. Lottai impotente in quella stretta che mi spezzava le ossa; e poi spinto da un impulso improvviso, affondai le mani nella sfocata invisibilità in cui avrebbe dovuto trovarsi il suo volto. Gamine urlò, un grido acuto di orrore e disperazione. E io capii d'un tratto dove ero stato in quelle due settimane, mentre Adric giaceva senza vita nel mio corpo, in ospedale, al mio posto, sconvolto e malridotto oltre ogni dire. Uno strano istinto di cui avevo imparato a fidarmi, mi avvertì che era meglio che mi scostassi, approfittando di quell'attimo di distrazione di Gamine. Gli diedi una spallata e corsi come il vento. A metà strada sull'ultima rampa di scale, udii il rumore dei passi del Cantaincantesimi che mi seguiva correndo; allora accelerai la corsa e scattai verso la massiccia porta in cima alle scale, dietro la quale avvertivo la
presenza di Rhys! Mi ci gettai contro con tutto il mio peso, girando freneticamente la maniglia. La porta era chiusa a chiave. Dietro di me udii i passi felini e silenziosi di Gamine; ormai disperato, misi la schiena contro l'uscio e la mano sul coltello di Adric. Se non c'era un altro modo... La porta si aprì all'improvviso e io persi l'equilibrio e caddi all'indietro, nella stanza. «Bene, Michael Kenscott», disse la voce vecchia e stanca di Rhys, «sei uno sciocco, ma Gamine non è certo meglio. Sapevo che non eri abbastanza forte da tenere fuori Adric, ma dovevo tentare. Sì, sapevo che stavi arrivando e so dove è andato Adric. So dov'è Narayan e quali sono i loro piani.» Furente, mi rimisi in piedi: la voce calma del vecchio Sognatore, il suo volto rugoso e sereno sotto il cappuccio a punta mi risvegliarono una furia improvvisa. «Sai tutto questo? C'è forse qualcosa che non sai?» Gamine era entrato nella stanza alle mie spalle; il vecchio Sognatore lo fissò e poi proseguì con aria sfinita: «Non so se sei in grado di fermarli ora. Ho lasciato che le cose si spingessero troppo avanti perché volevo pace, perché speravo ancora...» allargò le braccia in un gesto impotente, mentre sul suo viso si disegnava quell'espressione sognante che è propria delle persone molto giovani o molto vecchie. «Speravo... ma non ha importanza. È giunto il tempo, Gamine. Devi andare con Narayan alla Fortezza dei Sognatori.» «No», fu il sussurro di protesta di Gamine. «Narayan non può andare là! Il suo Talismano è stato distrutto! Quando Adric lo ha liberato, avendo ancora paura di lui, si è tenuto il Talismano e Karamy glielo ha rubato e lo ha distrutto!» Dunque era questo che Adric stava cercando, senza che io lo sapessi. Se avessi trovato il Talismano e lo avessi messo nelle mani di Narayan, allora il Sognatore sarebbe stato davvero libero; libero dal congegno (la mia formazione professionale lo interpretava come onde elettroniche, sintonizzate sul cervello dei Sognatori) che lo avrebbe fatto cadere nel sonno da trance se fosse entrato nel raggio del campo magnetico. Invece, con il Talismano che smorzava le speciali vibrazioni elettroniche, Narayan avrebbe potuto andare dove voleva, persino nella Città Arcobaleno o nella Fortezza dei Sognatori. Ma il Talismano era stato distrutto e Adric, con la memoria offuscata dalla magia di Karamy, non lo sapeva. Una parte del suo potere su Nara-
yan se n'era andata e almeno non poteva prendere il Talismano e tenerselo come era nei suoi piani, ma a Narayan era preclusa per sempre la libertà e il pieno uso dei suoi poteri. Il Talismano... era magia? Un congegno con vibrazioni speciali che racchiudeva e concentrava i poteri della mente? Non ero in grado di dirlo e forse magia era solo la forza di un mondo diverso che io non riuscivo a comprendere. Ma il Talismano era il vincolo tra il Sognatore addormentato e il narabedlano legato a lui, attraverso il quale la mente del Sognatore attingeva all'energia del sacrificio e trasferiva quel potere al suo padrone. Il vecchio Rhys aveva chinato il capo tra le mani ed ora alzò lentamente lo sguardo. «C'è sempre il mio. Dallo a lui, Gamine.» Al grido di sgomento di Gamine, la voce del vecchio Sognatore si trasformò in una sferzata. «Daglielo! Io ho ancora il potere di... di costringerti a farlo! Cosa importa quello che ne sarà di me? Io sono vecchio, Gamine... vecchio e ora è venuto il turno di Narayan... e tuo!» Gamine il Cantaincantesimi singhiozzò e dai veli di seta trasse un piccolo oggetto ingioiellato. Come lo specchio di Evarin era avvolto in seta isolante. Gamine tolse la seta. Aveva la forma di una minuscola spada, non un pugnale, ma una spada perfettamente proporzionata, un Giocattolo. Era lunga circa venticinque centimetri e un'intricata decorazione a cristalli azzurri ornava l'elsa. Per un attimo, fui sommerso da un'altro ricordo non mio. Avevano sempre la forma di armi, quei Talismani, simbolo dell'arma più potente conosciuta nella Città dell'Arcobaleno, il potere sui Sognatori. Quel Giocattolo era opera di Evarin; Adric l'aveva visto costruire quando Gamine era stato legato al vecchio Sognatore... ormai tanto vecchio da poter essere liberato senza timori dalla Fortezza, perché era unito da vincoli di sangue a Narabedla. A Gamine non era mai importato del potere ed aveva avuto un solo desiderio: sedere ai piedi del vecchio Rhys per imparare dalla sua saggezza. E questo aveva permesso a Rhys di girare liberamente per la Città Arcobaleno. «Michael deve prenderlo dalle tue mani», spiegò Rhys con voce gentile. «Mentre tu lo tieni, sono ancora legato a te, Gamine. Il trasferimento del potere deve avvenire per un atto voluto. E allora, una volta entrato in possesso di questo, Narayan sarà libero di andare dove vuole, persino alla Fortezza dei Sognatori. Dallo a Michael, Gamine.» Rhys si sedette, come se lo sforzo di parlare lo avesse sfinito oltre ogni dire. Ero rimasto in piedi ad
ascoltare, paziente, ma ansioso, senza mai staccare gli occhi dal giocattolo che Gamine teneva in mano. Era azzurro, lampeggiava, tremolava, pulsava come un cuore e quel pulsare aveva un che di ipnotico. Anche Rhys guardava e il suo viso vecchio e stanco era attento, quasi ansioso. «Gamine, se Adric ti ha visto, ha ricordato...» «Io voglio che ricordi!» esclamò Gamine con un tono lamentoso che in quella stanza silenziosa si trasformò in un gemito sinistro. Rhys sospirò. «Non so dire dove ci porterà tutto questo», disse infine. «Io sono narabedlano, non potrei mai distruggere la mia stessa gente. Gamine non ha legami e neppure tu, Michael Kenscott. Suppongo di essere un traditore, ma quando sono nato, la Città Arcobaleno era una città onesta e giusta, senza crimini a sua colpa. Ho vissuto tanto da vedere il potere trasformarsi in un male immenso e l'ho lasciato crescere. Ora tutto questo deve finire. Andate ad avvertire Narayan.» Gamine mi si avvicinò, intento, geloso, con lo sguardo velato fisso su Rhys e il vecchio disse con voce smorzata: «Dallo a lui, Gamine e lascia che io riposi. Allontanati da me, Michael. Io sono giunto alla fine, non voglio essere di nuovo legato a te». Non capii e me ne rimasi lì in piedi come uno stupido, fino a quando Gamine non mi spostò con uno spintone rabbioso. «Mettiti là, sciocco!» Barcollai all'indietro, poi recuperai l'equilibrio e rimasi in piedi nel punto indicato da Gamine, a circa tre metri dal divano su cui il vecchio Rhys si era sdraiato appoggiato ai cuscini. Il vecchio appoggiò le dita sull'elsa della spada giocattolo tra le mani di Gamine. «Mia povera città», sussurrò. «Ohimè per i Figli della Città Arcobaleno! Eppure un tempo le loro torri erano rette e giuste sotto i due soli!» Allontanò le dita, si riappoggiò ai cuscini e con un gesto brusco Gamine mi mise la spada giocattolo tra le mani. Avvertii una scossa improvvisa, una specie di corrente elettrica che mi attraversò il corpo, come uno spasmo; vidi la figura velata di Gamine tremare per lo stesso spasmo e il Giocattolo che avevo in mano si fece improvvisamente pesante, pesante come se fosse fatto di piombo e lo scintillio dell'elsa divenne opaco, fioco, morto. Il cappuccio appuntito di Rhys si abbassò sul suo volto e rimase lì, senza un fremito. Gamine mi afferrò rudemente per un braccio e quelle dita d'acciaio mi segnarono la pelle fino all'osso mentre mi trascinavano quasi di peso fuori dalla stanza. Nella cantilena sommessa del Cantaincantesimi udii l'eco di un singhiozzo represso.
Era l'addio a Rhys. E poi ci ritrovammo a correre fianco a fianco giù per le interminabili rampe di scale e a volare attraverso i passaggi coperti della Città Arcobaleno, per uscire nel cortile circondato da colonne, dove, due notti prima i Figli dell'Arcobaleno si erano raccolti per iniziare la cavalcata verso la Fortezza dei Sognatori. E dall'altra parte del cortile vidi la forma di un uomo, con la tunica marrone strappata e lacera, il volto pallido sporco di fango o di sangue che avanzava lentamente, a fatica, impacciato come se si trovasse immerso nelle sabbie mobili, incespicando, cadendo sulle ginocchia e rimettendosi penosamente carponi per continuare ad avanzare quasi strisciando. Si fermò, puntellandosi con entrambe le mani e mi fissò, come se non capisse. Poi le sue mani si mossero... per cercare un'arma, per gettare un incantesimo? Non c'era tempo per le spiegazioni; mi lanciai contro di lui con un placcaggio che non avrebbe certo fatto la gioia di un allenatore di football, ma riuscii nel mio intento. Narayan andò lungo e disteso per terra e cercò di lottare con quel poco di forze che ancora gli restavano. Buon Dio! Quale mostruosa forza di volontà, quale ferrea determinazione era riuscita a farlo arrivare fino a quel punto nella Città Arcobaleno, dritto nella rete di quelle tremende vibrazioni che erano quasi fatali per un Sognatore? I suoi occhi grigi, lucidi e velati dal dolore, mi fissarono con sospetto ed odio impotente; poi, con movimenti lenti e dolorosi, si rizzò a carponi. «Narayan, ascoltami», dissi in tono pressante, afferrandolo per le spalle e sentendolo tendere i muscoli, «io non sono uno degli uomini di Karamy!» «Cynara, lui ha Cynara», mormorò il Sognatore con voce stordita. «Cynara... per gli inferni di Zandru, e tu chi sei?» Era quasi svenuto e solo la sua volontà di ferro gli impediva di perdere conoscenza. «Michael Kenscott.» E di colpo, rendendomi conto che quello poteva essere il modo migliore per dar prova della mia buona fede, tirai fuori il Giocattolo che Gamine mi aveva messo in mano. «Ho visto Rhys; ti ha mandato questo.» Ormai quasi privo di conoscenza, con gli occhi velati e fissi, Narayan prese l'oggetto che gli tendevo. E in mano sua il Giocattolo divenne vivo. L'elsa ingioiellata riprese a splendere, in una danza scintillante di mille colori: azzurro, dorato, cremisi, arancio, opale. Il viso pallido di Narayan si distese, gli occhi velati si
schiarirono e lui si rimise in piedi, dritto, senza sforzo, traendo un profondo respiro di sollievo e soddisfazione. «Nelle mie mani!» mormorò quasi incredulo. «Libero! Sono libero!» Poi, scuotendo il capo e strappandosi a quella estatica contemplazione, posò lo sguardo su di me e nascose il Talismano sotto la camicia. «Michael Kenscott», disse guardandomi attentamente. «Sì, lo sento. Quando è arrivato Adric, mi sono accorto che era... cambiato.» «Ha preso Cynara?» chiesi ansioso. Narayan annuì cupo e proseguì incapace di contenersi: «Sì. Mi ha colto di sorpresa, mi ha colpito; io ho lottato, ma lui è riuscito a trascinarmi dentro il cortile, dove ero impotente. Ho sentito le forze abbandonarmi. Cynara mi ha udito gridare, è corsa qui, ma lui l'ha trascinata via». Poi spostò lo sguardo dietro di me; la figura velata e misteriosa di Gamine si fece avanti silenziosa e si fermò ad un passo o due da Narayan. Tesi i muscoli, ma negli occhi grigi di Narayan vidi solo stupore. «Gamine», disse piano. «Finalmente uno di fronte all'altro. Gamine.» «Rhys non c'è più. Ma io sono qui, Narayan, ed è giunto il momento.» La voce dolce e sommessa di Gamine si udiva a stento. «È giunto il momento.» CAPITOLO 11 I FALCONI DI NARABEDLA Con un gesto rude, mi frapposi tra il Sognatore e la figura velata, interrompendoli. «Voi potete anche restarvene lì», li accusai, «ma Adric ha preso Cynara! Cosa le farà?» Cynara, l'unico vero essere umano di quel mondo, colei che si era fidata di me, che aveva persino avuto compassione di Adric, si era fidata di lui e su quella fiducia Adric aveva giocato, portandola via, Dio solo sapeva dove! «La porterà alla Fortezza dei Sognatori», disse Narayan in tono pressante. «È proprio il genere di vendetta che penserebbe...» e la voce gli si spezzò. «Quanto vantaggio ha, Narayan?» «Non so. Non so con certezza per quanto sono rimasto svenuto. Anche se cavalcheremo come pazzi, non arriveremo mai in tempo.» Strinse i pugni in un gèsto di rabbia e di dolore impotente. «Dovremmo avere le ali per fermarlo!» Gamine esclamò a bassa voce: «Ali! Ma abbiamo le ali! I Falconi, Nara-
yan! Evarin ha lasciato qui gli uccelli!» Una smorfia di dolore contorse il viso di Narayan, che scosse il capo, risoluto. «No, Gamine, non posso. Se salvo Cynara, perderò l'unica possibilità di... di distruggere il potere di Narabedla. E non posso correre questo rischio. Lei...» si interruppe, «lei non vorrebbe che lo facessi; abbiamo tutti rischiato troppo per permettere che una vita ci ostacoli.» Si voltò, cupo in volto. «Venite. Andiamo alla Fortezza dei Sognatori.» Ma Gamine mi afferrò per un braccio con quella sua forza sovrumana. «Tu, Michael», disse, «tu puoi fermare Adric, trattenerlo! Tu puoi andare sulle ali di un falcone!» «Che cosa?» E di colpo il ricordo riaffiorò, sommergendomi, quello strano ricordo confuso, che io avevo creduto un sogno. Adric, in preda allo stordimento e senza sapere se era se stesso o qualcun altro, era tornato dall'Ellisse Temporale e Michael Kenscott non era che un atomo inebetito nella sua mente; Adric, privato della memoria, aveva però saputo per istinto che doveva avvertite Narayan e l'aveva fatto nell'unico modo che conosceva. Si era introdotto furtivamente nella stanza dei falconi, aveva preso uno degli uccelli, aveva volato... Narayan mi stava fissando ad occhi spalancati. «Abbiamo visto un falcone», disse a bassa voce. «Abbiamo pensato che si trattasse di una delle spie di Evarin e Raif lo ha abbattuto. Quindi Adric ha davvero cercato di avvertirmi, una volta, prima che Karamy lo riducesse di nuovo in suo potere.» Sul suo volto c'era un'espressione triste, addolorata, ma proseguì concitato: «Michael, Gamine ha ragione. C'è bisogno di noi, di me e di Gamine, alla Fortezza dei Sognatori, ma tu... tu puoi raggiungere Adric, e trattenerlo, almeno per un po'. Vai sotto le spoglie di un falcone!» Fu come se una cascata di acqua gelida mi si fosse rovesciata addosso: era una cosa pazzesca, impossibile, un sogno senza senso! Ero appena rientrato in possesso del mio corpo, dopo tutto quel tempo e, maledizione, non avevo nessuna intenzione di uscirne di nuovo! Cercai di spiegare le mie ragioni a Narayan, ma lui si limitò a ripetere con espressione angosciata e ansiosa: «È l'unica possibilità per Cynara. Michael, so di non avere alcun diritto di chiedertelo, tu non ci devi nulla... ma per Cynara...» Per Cynara. Cynara, che aveva avuto fiducia in me, che aveva saputo che non ero Adric, e che forse, nel campo di Narayan, mi aveva salvato la vita. Quel pensiero mi faceva gelare il sangue, ma mi armai di tutto il mio coraggio e dissi in tono incerto: «Va bene, ci proverò. Cosa... cosa devo fa-
re?» Narayan mi afferrò il braccio in un stretta dolorosa. «Splendido!» mormorò. «Faglielo vedere, Gamine!» «Da questa parte, presto!» Seguii la figura ammantata dai veli lungo un passaggio che aveva qualcosa di vagamente familiare e al tempo stesso mi sembrava uscito da un sogno, mentre una paura strana, quasi esilarante, si impadroniva di ogni muscolo del mio corpo con una forza stimolante. Poi una porta scura si aprì e vidi le forme inerti che mi erano apparse in sogno. Muovendomi lentamente, con esitazione, cercando ad ogni mossa la sensazione giusta (che si adattasse a quel ricordo vago e sfuggente di un sogno?) tesi un braccio e staccai una di quelle forme piumate e immobili. Era una massa cremisi, morbida e soffice, stranamente calda al tatto, che non aveva nulla della impersonale freddezza della stoffa o delle piume. In piedi accanto a me, Gamine non si intromise. Ma d'un tratto, con il falcone tra le mani, non fui più sicuro e mi rivolsi incerto a quella figura enigmatica e velata. 150 «Cosa faccio adesso? Adric aveva un modo per trasferire la sua mente, la sua coscienza.» Rimasi a fissare quella cosa inerte, che sembrava un cuscino di piume. «Io no.» «Infilalo sopra la testa», disse Gamine a voce molto bassa. «Come se fosse un mantello.» Presi a dispiegare quelle piume e mi fermai di colpo, tremando, quando qualcosa mi tagliò lasciando una scia di sangue rosso sulla mano. Gli artigli! Fissai le zampe di acciaio finissimo, perfette in ogni particolare, ma Gamine emise un suono impaziente e allora me lo infilai addosso con un gesto deciso. Quasi immediatamente avvertii quella strana e non sgradevole sensazione che ricordavo, quasi che la testa si espàndesse come un grande pallone pieno di gas, come se stessi alzandomi verso il soffitto. Sentii le ali del falco distendersi, muoversi... Da lontano, udii l'esclamazione di avvertimento di Gamine, ma l'euforia del volo si era già impadronita di me; distesi al massimo le ali, le sbattei... volai. La vista era molto più acuta, con una prospettiva diversa, che trasformava la stanza in una prigione dai contorni nuovi e strani. Senza curarmene, guardai un corpo goffo, con due zampe, crollare inerte a terra, vidi una forma indistinta che spalancava la finestra e poi mi ritrovai fuori,
sospinto e portato dalle correnti, più in alto, sempre più in alto, nell'estasi di un volo sfrenato e senza confini... Il cielo era pallido, incolore, ma non era uno spazio vuoto. Con le mie nuove e strane percezioni, le correnti d'aria e i venti mi apparivano come strati di nastri sovrapposti. Le cavalcai verso l'alto, poi abbassai un'ala e mi tuffai in un'altra corrente scintillante che scendeva dall'alto e giocai, salendo e scendendo, intossicato da quella sensazione di spazio e libertà. Per tutta la vita ero stato incatenato a terra! Ed ora, per la prima volta, provavo la stessa sensazione di libertà dei sogni, potevo salire e tuffarmi, veleggiare immobile su un alito di vento e poi, con una spinta quasi impercettibile, spostarmi e farmi trasportare come una nuvola... In basso, molto in basso dietro di me, le torri arcobaleno brillavano nitide e lucenti, simili a giocattoli. Una foresta fitta e scura anneriva il terreno sotto di me e lontano, molto lontano, bassa sull'orizzonte, una forma massiccia e minacciosa.. La Fortezza dei Sognatori! Quella vista mi fece tornare in me, mi strappò a quell'oblio; Adric stava portando là Cynara a morire, mentre io me ne stavo a giocare sulle ali del vento, libero e spensierato come un uccello. In fretta, mi guardai intorno e mi orientai. Ero sospeso ad una grande altezza sopra la Città Arcobaleno e sotto di me vedevo il cancello e il cortile e tre minuscole figure che potevano essere uomini a cavallo che correvano ventre a terra sulla strada. Non era questo che mi interessava. Allargai le ali, mi lasciai prendere da una rapida corrente d'aria, che percepii come un pallido scintillio, e mi diressi ad est. Quella sera la foresta era deserta, anche se la mia vista acutissima di rapace mi permise di scorgere la piccola forma in movimento di un cervo e di altre strane creature. Ma nulla di umano si muoveva quella notte nella forèsta; tutti gli uomini di Narayan erano impegnati in una difficile partita. Mi innalzai ancora di più. Sotto di me, il terreno era sempre ben visibile, delineato, ogni contorno distinto, lo stesso genere di visione che si ottiene grazie ai migliori cannocchiali notturni. Lontano, sull'orizzonte, vidi una gran massa di uomini in movimento; era forse l'esercito di Narayan in marcia? E ancora più avanti, file di ranghi serrati che si muovevano all'unisono, tra le quali colsi un bagliore di rosso e dorato e seppi così che l'esercito di morti viventi di Karamy era pronto a sostenere l'attacco. Ma dov'erano Karamy, Evarin e Idris? La loro cavalcata mortale era già giunta alla Fortezza dei Sognatori? Quell'orrendo sacrificio si stava preparando ineluttabile? Non sapevo che genere di poteri possedesse Narayan, ora che
era stato liberato completamente, ma era in grado, lui da solo, quali che fossero i suoi poteri psi, di opporsi ai tre narabedlani, nel pieno delle loro forze grazie all'energia di quel nuovo sacrificio? Karamy, Evarin e Idris sarebbero stati carichi del potere dei loro Sognatori... che sprofondati in quel sonno da trance, rigurgitanti di energia, l'avrebbero trasferita ai narabedlani. E Adric, Adric stava correndo a rotta di collo per unirsi a loro... e aveva Cynara con sé! Ma dov'era? Dov'era? Grato della vista telescopica del falco, scandagliai il terreno palmo a palmo, scrutando le strade che si dipanavano come nastri nella foresta. Adric avrebbe preso la più breve e la più spedita. Là, eccolo! Molto sotto di me correva un cavaliere solitario chino sul collo della sua cavalcatura, con un fardello gettato di traverso sul davanti della sella. Adric! La mia imprecazione di rabbia si trasformò nel grido squillante e sinistro del falco e mi costrinsi a tacere. Quel grido poteva averlo messo sull'avviso! Girando su me stesso, aumentai la velocità e mi tuffai a spirale in una corrente in discesa, puntando su quel cavaliere solitario. E mentre sfrecciavo silenzioso, correggendo il volo con impercettibili tocchi delle ali, strani calcoli non umani mi lampeggiavano nella mente; avvertivo il suo corpo come un calore umido, sentivo il movimento del cavallo sotto di lui come un gioco tattile di muscoli che fendevano l'aria e la pelle bianca del suo collo esposto era come una calamita lampeggiante. Colpisci lì, colpisci lì! Mi fermai e rimasi immobile nel vento sopra di lui, sbattendo le ali quel tanto che bastava per adeguarmi alla velocità del suo cavallo e mirando a quel pezzetto di pelle esposta dove avrei potuto colpire, artigliandogli le spalle e affondando il becco proprio al centro del cervello. Ma avevo atteso troppo a lungo. Forse il fruscio delle ali, o forse l'ombra del mio corpo che attraversava la sua visuale lo misero sull'avviso e Adric si raddrizzò sulla sella, inarcando la schiena e imprecando a gran voce. Ora era all'erta! Rimasi sospeso in aria, osservandolo in attesa e poi mi tuffai, cercando di colpirlo agli occhi. Ma i suoi riflessi avevano la velocità del lampo e in questo gioco lui era un esperto. Il lembo dell'orlo appesantito del suo mantello mi colpì ad un ala, facendomi perdere l'equilibrio e per evitare di cadere come un sasso, fui costretto a sbattere entrambe le ali. Quando riuscii a riprendere il controllo e a librarmi di nuovo nell'aria, Adric era riuscito a sguainare la spada e la stava roteando con decisione sopra la testa.
Sbattei furiosamente le ali, arretrando nell'aria. Non potevo raggiungerlo senza essere fatto a pezzi! Gli girai intorno, cercando un punto debole. In quel momento, Cynara si mosse sulla sella, con un gemito. Adric imprecò, e spostò rapidamente lo sguardo dalla ragazza al mio becco mortale sospeso sopra di lui. Esultai: ora, se Cynara è di nuovo in grado di pensare, può attirare la sua attenzione quel tanto che basta... Adric non rusciva a maneggiare liberamente la spada, perché i movimenti della ragazza limitavano il raggio d'azione della lama. Mi tuffai e udii Cynara urlare di terrore. Colpii tra lei e Adric, graffiando con gli artigli, affondando il becco e sbattendo le ali. Sbilanciato, il Signore della Torre Cremisi si piegò all'indietro, il cavallo arretrò e Cynara scivolò a terra, battendo la testa e restando immobile. Mi rituffai su Adric, pronto a colpire, ma lui aveva ritrovato l'equilibrio e la spada riprese a disegnare il suo cerchio d'acciaio tra me e lui. Imprecai e ancora una volta udii la mia voce trasformata nel grido sinistro di rabbia e frustrazione del falco. Allora mi portai alle sue spalle, ma lui si girò, pronto, sempre protetto dalla spada. Mi tuffai in un'apertura improvvisa, affondai gli artigli, udii Adric sbottare in un fiotto di imprecazioni ed ebbi la soddisfazione di vedere un taglio lungo e profondo aprirsi lentamente sul suo braccio. Ma si riprese in fretta: roteò la spada, io mi ritrovai sbilanciato, mi piegai di lato e sentii un paio di remiganti staccarsi dall'ala. Per quanto strano possa sembrare, non avvertii dolore, ma solo una scossa di panico. Dovetti lottare per non piombare a terra. Vidi Cynara rialzarsi lentamente e mettersi a sedere, con gli occhi dilatati dal terrore. Di nuovo girai intorno ad Adric, impacciato dall'ala mutilata. Adesso dovevo rischiare il tutto per tutto! Mi tuffai in picchiata come un aereo, puntando dritto sul suo volto. Lo colsi alla sprovvista e lui fu costretto a gettarsi all'indietro; gli graffiai le guance con il becco, facendo sgorgare sangue, affondai gli artigli nelle sue spalle, tenendomi in equilibrio. Poi tirai indietro la testa per finirlo con il becco. Il braccio sinistro di Adric scattò verso l'alto e con un grido furente, mi accorsi (troppo tardi!) del pugnale affilato che teneva in mano. Lo sentii trapassare un'ala e penetrarmi nel cuore. Vidi un fiotto di veleno giallo sgorgare, udii l'urlo di Cynara e mi ritrovai... ... mi ritrovai aggrappato, sudato e tremante, alla sella di un cavallo lanciato al galoppo, con il vento che mi sferzava il viso. Sopra di me le lune galleggiavano in un cielo color indaco e gli zoccoli dei cavalli facevano
sprizzare scintille dai ciotoli gelati. Boccheggiai, disorientato e confuso, senza sapere cosa era accaduto e dondolai pericolosamente sull'arcione. Poi tutto fu chiaro: avevo perso, Adric aveva ucciso il falcone ed io ero ritornato nel mio corpo... Ero a cavallo! La chioma biondo oro di Narayan era come brina pallida al chiaro di luna; cavalcava accanto a me, dritto in sella, in silenzio, col volto teso. Dall'altra parte, il velato Gamine era un fantasma da incubo, una specie di spettro. «Narayan!» ansimai. Lui si voltò sulla sella e per un istante rallentò l'andatura del cavallo. «Sei tornato! Cosa è successo? Adric...» «Ho fallito», riposi in tono amaro e raccontai loro quello che era avvenuto. Narayan assunse un'espressione cupa, ma mi afferrò con forza una spalla. «Stai calmo, hai fatto del tuo meglio. E poi forse l'hai rallentato quanto basta.» «Ma come sono arrivato qui?» «Ti abbiamo portato con noi», rispose Gamine con voce tagliente. «Adesso basta parlare! Muoviamoci!» Dovetti fare ricorso a tutta la mia concentrazione per restare in groppa all'animale, ma stavo acquistando il senso dell'equilibrio e un certo gusto per l'equitazione. Non tutto il male vien per nuocere, pensai con una certa incoerenza. In lontananza udimmo il rumore improvviso di armi da fuoco, le urla degli uomini che morivano e lo stridio delle spade e delle picche, e il grido acuto di un falco. Il volto di Narayan divenne spiritato. «Kerrel e i suoi uomini hanno incontrato le guardie! Stanno attaccando!» All'improvviso, il grido spettrale di un falcone aleggiò sul capo di Gamine e un fin troppo familiare frullar d'ali mi batté sulla schiena; sollevai un braccio per allontanare quel collo serpentino. Il mio cavallo, terrorizzato, scartò, cercando di disarcionarmi e io dondolai sulla sella, e quasi caddi. Un altro uccello calò su Narayan e poi un altro e un altro ancora e di colpo furono uno sciame multicolore, dorati, porpora, verdi, cremisi, azzurri, arancio fiamma e l'aria fu piena di quelle ali che sbattevano. Gamine urlò. Vidi Narayan fendere l'aria con la sua spada; il velato Cantaincantesimi, chino sulla sella, li sferzava con una frusta, che li teneva lontani, ma non abbastanza da evitare che quegli artìgli taglienti come rasoi si impigliassero nel suo sudario azzurro. Narayan, la spada in una mano e una frusta nell'altra, menava grandi
fendenti in cerchio; udii il grido di un uccello morente, che riecheggiò per la foresta. Tirai fuori il mio coltello e alzai il braccio. «Lo specchio!» gridò Gamine. «Lo specchio di Evarin! Presto, sono milioni!» E in effetti stavano arrivando a decine, oscurando il cielo, volteggiando, gridando, come un esercito spettrale di morte. Ma non erano come i falconi semi-senzienti con i quali avevo volato, dotati dell'intelligenza e di tutte le astuzie umane di colui che li lanciava. Erano vivi, sì e anche mortali, ma vivi di una vita che noi non conoscevamo. Solo la mente oscena di una scienza impazzita poteva controllare o produrre quelle cose odiose che riempivano l'aria limpida, avventandosi su di noi con artigli taglienti e becchi implacabili, con le ali che battevano all'impazzata. Solo Evarin... Armeggiai in tasca alla ricerca dello specchio e lo tirai fuori, strappando la seta protettiva. Un artiglio tagliente mi lacerò il polso e solo un'istinto che non sapevo di possedere mi spinse a sollevare il braccio verso l'alto, orientando lo specchio in direzione dell'uccello. Il falco arretrò a mezz'aria, sbatté le ali, si afflosciò e cadde. Sentii una scossa bruciante attraversarmi il braccio. Lo specchio mi sfuggì di mano e mi tuffai per afferrarlo. Quella cosa era un conduttore perfetto, succhiava l'energia! Adesso sapevo perché Evarin era stato tanto ansioso che io... o Adric... guardassimo nelle sue profondità! Gli uccelli erano privi di cervello, erano energia pura, a meno che non fossero controllati dalla personalità del loro possessore e oggi i narabedlani non avevano tempo per donargliela, non avevano tempo di concedersi il piacere della caccia! Ma Evarin li aveva scagliati contro di noi in un ultimo disperato tentativo. Afferrai lo specchio e lo tenni in alto e con la coda dell'occhio ebbi la fugace visione delle magiche spirali lampeggianti che si muovevano all'interno. E anche solo quella fuggevole occhiata mi procurò un'ondata di nausea. Schermandomi il viso, tenni lo specchio sollevato in alto. Gli uccelli si diressero verso l'oggetto come falene attirate dalla luce e una scossa dopo l'altra mi percorse il braccio e altri tre di quegli orribili uccelli caddero privi di vita, inerti e svuotati! Una strana euforia cominciò a impadronirsi di me. La forza degli uccelli non era elettricità, ma un'energia simile che i miei nervi assorbivano famelici. Di nuovo sollevai lo specchio e di nuovo quella scarica di energia mi pervase e gli uccelli, questa volta a decine, sbatterono le ali e caddero. Poi, come se chiunque avesse scagliato quell'esercito di volatili avesse
capito l'inutilità del suo gesto, gli uccelli che restavano fecero dietro-front e volarono via, dirigendosi veloci verso il bastione che svettava all'orizzonte. Erano stati richiamati alla Fortezza dei Sognatori! CAPITOLO 12 LA FORTEZZA DEI SOGNATORI Quel flusso di energia mi aveva rigenerato e mi sentivo in grado di affrontare tutto quello che mi aspettava. Rimisi lo specchio di Evarin in una tasca, lanciai un richiamo a Narayan e riprendemmo la galoppata, seguiti da Gamine. I suoi veli azzurri erano strappati e ridotti in brandelli attraverso i quali scorgevo il biancore della nuda pelle. Il rumore della battaglia si fece più forte; riuscii a distinguere i bagliori color fiamma di diverse esplosioni. Rabbrividii; in quel preciso istante quel terrificante esercito di falconi stava volando per riunirsi ad Evarin: i ribelli potevano anche ucciderne alcuni, ma per ogni falcone morto, ci sarebbero stati altri venti schiavi per Narabedla. Cosa potevano fare gli uomini di Narayan, con i loro forconi e le loro falci, contro l'incredibile scienza del Giocattolaio? Alla luce della luna, il volto pallido di Narayan appariva spettrale. Non mi serviva al telepatia per leggere i suoi pensieri. Il massacro per i suoi uomini... e per sua sorella? Sembrava che i nostri cavalli, esitassero, si muovessero al rallentatore, come se fossero invischiati nelle sabbie mobili, eppure erano lanciati al galoppo sfrenato e ormai al limite della resistenza. I suoni della battaglia si avvicinarono ancora. Tutto il mio essere mi gridava che ero uno sciocco a gettarmi a capofitto in una battaglia in cui non avevo nulla di personale in gioco, in un mondo che non era il mio. Eppure un'altra voce, fredda e ohimè veritiera, mi diceva che non possedevo altro che quello che avrei ottenuto quel giorno, perché quello sarebbe stato l'unico mondo che avrei mai conosciuto, perché nel mio mondo non sarei tornato mai più. Mai più! E per questo, Adric sarebbe arrostito in un inferno che avrei scelto personalmente! Ma stavamo lasciandoci alle spalle i suoni della battaglia! Se prima i nostri cavalli correvano, ora sembrava che volassero. Dietro di noi infuriavano i combattimenti, gli uomini urlavano nell'agonia della morte, i cavalli feriti nitrivano spaventati, e il rombo soffocato della terra che veniva cata-
pultata in alto esplodendo, pervadeva l'aria. Ma poi i rumori si fecero più fiochi, fino a svanire. Avevamo abbandonato la foresta e cavalcavamo attraverso una pianura scura e ondulata, ricoperta di muschio che attutiva il rumore degli zoccoli; di tanto in tanto, piccoli animaletti pelosi attraversavano furtivi e veloci il sentiero e due volte il mio cavallo nitrì in direzione di uccelli notturni, facendomi battere forte il cuore finché non vidi che non si trattava dei falconi di Evarin. Nera e massiccia contro l'orizzonte senza alberi svettava la Fortezza dei Sognatori. Cavalcavo piegato sulla sella, con lo sguardo fisso su quella grande massa di pietra che distava ormai pochi chilometri. All'improvviso, un grande lampo azzurro si innalzò ad arco nel cielo sopra la Fortezza dei Sognatori, e udii Narayan gemere come un uomo in preda all'agonia della morte. Girandomi sulla sella, vidi sul suo volto un orrore indicibile, misto a dolore e a una terrificante soddisfazione. «Il sacrificio... lo percepisco ancora», boccheggiò in tono ansante, «traggo ancora ... forza... da esso... Michael!» Nella sua voce si percepiva una tortura insopportabile e sul volto pallido spiccavano in rilievo le vene, nere e congestionate per lo sforzo. «Se comincio... a lavorare per loro... promettimi... promettimi che mi ucciderai.» «Oh, Dio!» esclamai. «Promettilo, Michael! Gamine!» Gamine spronò il suo cavallo, lo portò al fianco di Narayan e gli parlò con quella sua voce bassa, dolce, quasi cantilenante. Ancora una volta, il grande lampo azzurro attraversò il cielo. Narayan affondò gli speroni nei fianchi della sua cavalcatura e ci sopravanzò. Sulla pianura, stagliato netto contro il cielo, apparve un cavaliere che cavalcava chino sull'arcione di un cavallo che zoppicava, con una forma nera di traverso sulla sella. Imprecai forte: conoscevo quella figura reclinata, la conoscevo bene come me stesso! Ero riuscito a rallentare Adric, ma adesso lui galoppava verso il sacrificio e portava con sé Cynara, fagotto scuro davanti a lui! Il resto di quella cavalcata da incubo è un punto vuoto nella mia memoria. I ricordi ritornano nel momento in cui tirammo le redini davanti a quella muraglia di rocce sovrapposte che era la Fortezza dei Sognatori. Non c'era traccia di Adric o di Cynara, non c'era anima viva, solo quel lampo incandescente che si irraggiava più o meno ogni cinque secondi. Il volto di Narayan era bianco come una maschera funeraria e Gamine respirava in
brevi ansiti affannosi. Solo io ero immune dagli effetti di quel lampo, e anzi il mio corpo pulsava e fremeva pervaso dalla magica energia liberata quella notte. Ci lanciammo giù dai cavalli. Gamine cercò inutilmente di riassestare i veli strappati e per la prima volta quella sfocata invisibilità che gli copriva il volto vacillò ed io ebbi la rapida visione di un occhio azzurro, azzurro come i lampi che scaturivano dalla fortezza, fiammeggiavano e morivano. La mole massiccia della torre si innalzava per decine di metri, sovrastandoci. Gamine mi afferrò per un braccio. «Ascolta!» Io non udivo altro che un basso ronzio, non sgradevole, simile al rumore che proviene da un alveare o dalle linee ad alta tensione, ma quel suono riempiva i miei compagni di terrore. Narayan frugò sotto la camicia ed estrasse il piccolo Talismano che mi aveva dato Rhys e quando lo ebbe tra le mani, il suo volto tirato si distese. Lo strinse forte, emise un lungo sospiro lamentoso e chiuse gli occhi per un istante. Da qualche parte sopra di noi scaturì un grido tremante, che infranse l'immobilità che ci teneva avvinti; Narayan ripose il Giocattolo sotto la camicia e si mise a correre attorno alla Fortezza; Gamine ed io lo seguimmo. Girammo attorno ad un angolo e ci ritrovammo sotto una sporgenza di pietra. Non c'era bisogno che qualcuno desse gli ordini; come un sol uomo ci arrampicammo sulla sporgenza e ci ammassammo sul piccolo ballatoio. Strinsi la mano sul coltello che avevo alla cintura, rinfrancato nel sentirlo solido e reale. Avevo bisogno di quel contatto. Sulla sporgenza, una finestra ad arco si apriva verso l'interno della Fortezza e da quella finestra ci giunse un grido disperato e incredulo: «Adric, Adric! No, oh no!» Era la voce di Cynara. Spalla a spalla, ci buttammo contro il vetro, che si infranse sotto il nostropeso. Ci precipitammo dentro e ci ritrovammo su una grande piattaforma a circa tre metri dal pavimento della Fortezza. Karamy la Dorata, il piccolo Idris ed Evarin erano riuniti attorno ad un cerchio di bare di cristallo chiaro, da cui emanava un bagliore scintillante e ognuno dei tre narabedlani stringeva tra le mani una minuscola spada ingioiellata, un Giocattolo, e nelle bare... «I Sognatori!» gridò Gamine. Fino a quel momento nessuno di noi aveva visto cosa stava facendo Adric. Al centro del cerchio di bare si levava un piccolo palco, orrendamente simile ad un altare e davanti a quel palco sfilavano lentamente gli schiavi,
nudi, con lo sguardo vacuo. Ogni volta che uno di quegli zombie arrivava davanti all'altare, si udiva un gemito tremante, le minuscole spade scintillavano di luce e lo schiavo... scompariva! E Adric stava spingendo Cynara, prigioniera nello spazio tra le bare, verso il centro di quei lampi azzurri, verso la Pietra Sacrificale dei Sognatori! Quella vista mi tolse ogni cautela. Ci lanciammo tutti insieme dalla piattaforma e cademmo nel mezzo di una massa di carne viva. Idris lanciò un comando e gli schiavi si gettarono su di noi, seppellendoci sotto i loro corpi. Scalciando, graffiando, tirando pugni e morsicando, riuscii ad aprirmi un varco e per un istante mi ritrovai libero. Quell'attimo fu sufficiente. Balzai in piedi, con il coltello in mano, mentre un paio di braccia mi si avvinghiavano alle caviglie. Scalciai selvaggiamente, sentii gli stivali colpire la carne nuda e poi udii e percepii il rumore agghiacciante di un cranio che si spaccava sotto i miei colpi. Quel rumore mi rivoltò lo stomaco, ma non era certo il momento di mettersi a fare gli schizzinosi. Sentii il sangue gocciolarmi negli occhi. Gamine riuscì a liberarsi e insieme, a spallate, emergemmo dalla calca. Evarin mi balzò addosso. Alzai il coltello, colpendo alla cieca e lo sentii penetrare nella spalla, mancando di poco la gola. Il Talismano cadde dalle mani di Evarin e io lo afferrai. Per un attimo fummo di nuovo circondati dagli schiavi, ma ci liberammo scalciando e graffiando e ci ritrovammo tutti e tre al centro del cerchio di bare. Evarin emise un lungo ululato di dolore e paura e i quattro narabedlani indietreggiarono terrorizzati. Perché qualcosa si era mosso all'interno delle bare... Ma Adric non era un codardo. Si gettò indietro, afferrò Cynara e con tutta la forza delle braccia snelle scagliò la ragazza dritto verso il punto da cui scaturivano quei lampi azzurri! Narayan e Gamine rimasero immobili, ammutoliti, ma io scattai in avanti, mi lanciai attraverso quel cono di luce, ci passai in mezzo... Illeso! Quell'energia distruttiva non produsse altro che un gradevole formicolio nel mio corpo, mentre afferravo Cynara a mezz'aria e rotolavo lontano da quella forza che per lei avrebbe significato la morte. Narayan afferrò il corpo barcollante di Cynara e la trasse in salvo. Poi vacillai sotto l'impatto del corpo robusto e massiccio di Adric, sentii una scossa percorrermi il braccio quando gli sferrai un pugno alla mascella, e ci ritrovammo avvinghiati nella lotta, in un abbraccio che ci portava sempre più vicini alla fonte dei lampi azzurri. Ondeggiammo per un istante, lottando al limite del
raggio d'azione dei lampi. Poi il corpo felino di Evarin mi colpì alla schiena. E ancora una volta l'energia mi percorse come migliaia di spilli incandescenti. La scossa liberò Adric, che venne scagliato lontano... ma un arco di luce azzurra si levò dall'altare, innalzandosi nella fortezza, un grido selvaggio, come l'urlo di morte di una pantera risuonò sotto la volta... Il Giocattolaio era scomparso! Una luce azzurra, intensissima, splendette nelle bare, come liberata da quell'ultima scossa di energia. Rapidamente Idris e Karamy si fecero avanti, sporgendo i Talismani fino a toccare i coperchi delle bare... ma era troppo tardi! I Giocattoli nelle mani di Narayan e Gamine emisero lampi incandescenti e i Narabedlani indietreggiarono, un passo dopo l'altro, sempre più indietro, indietro... Di colpo le bare furono vuote e come per magia tre uomini e una donna si affollarono attorno a Narayan e Gamine. Sui loro volti, una curiosa somiglianza con Narayan e il vecchio Rhys. Allora Narayan, al centro del cerchio di Sognatori, tese un braccio e strappò i veli dal corpo di Gamine. Un canto trionfante sgorgò dalle labbra del Cantaincantesimi e al centro del cerchio di mutanti comparve Gamine la Sognatrice, che li sovrastò con la sua maestosità; un Sognatore che non aveva mai dormito né mai era stato legato. Era una donna, come ormai sospettavo, snella, bionda e bellissima, che mi fece pensare a Iside e Osiride; gli occhi azzurri splendenti e un corpo perfetto che emergeva finalmente libero dal sudario di veli. I lampi azzurri turbinarono e scomparvero e la Fortezza dei Sognatori risplendette di arcobaleni luminosi. Karamy e Idris indietreggiarono un passo dopo l'altro, ritirandosi tra le ombre. Solo Adric rimase dov'era, con lo sguardo smarrito, sconvolto, fisso su Gamine, ma senza arretrare. Gli arcobaleni si spensero e l'aria fu vuota, priva di energia. I Sognatori in piedi guardavano Karamy accasciata a terra con il viso nascosto tra le mani; e il nano Idris, curvo e ingobbito e Cynara in ginocchio, con il viso raggiante di gioia e Adric, che continuava a fissare Gamine come un uomo finalmente liberato da un incantesimo. Poi Gamine parlò. «Rhys aveva ragione: era venuto il tempo. E il tempo è arrivato. Ed ora?» I Sognatori si guardarono l'un l'altro, ma Gamine scosse il capo, facendo ondeggiare i lunghi capelli biondi attorno al viso. «No, perché dovrebbero morire? Sono solo un vecchio nano e uno sciocco che non ha mai saputo
decidersi», disse posando lo sguardo prima su Idris e poi su Adric. «E Karamy. Non hanno alcun potere, ora che siamo liberi. Non hanno neppure avuto il potere di vedermi per quella che ero, non del tutto. Compatiamoli nella loro debolezza. Ora noi siamo liberi.» Adric raddrizzò la schiena, strinse la bocca con fermezza e fissò Narayan con uno sguardo caparbio e spassionato. Poi si rivolse a Gamine. «Uccidimi, se vuoi.» Ma fu Narayan a rispondergli, portandosi davanti all'uomo vestito di cremisi, teso, eccitanto, con una strana ansia nella voce che minacciava di soffocarlo. «No, Adric. Voglio che tu veda quello che hai visto una volta, che tu veda quello che ti ha spinto ad andartene, che tu veda ciò che ti ha fatto impazzire. Gamine, Gamine, mostragli quello che ha visto allora.» Gamine si avvicinò lentamente al punto in cui era inginocchiata Karamy. «Alzati, strega.» Karamy si alzò lentamente in piedi. Non c'era speranza nei suoi occhi e nessuna misericordia in quelli di Gamine e per un istante quei due sguardi così diversi, uno azzurro e uno dorato, combatterono una battaglia privata. «Avevo forse torto?» escalmò poi Karamy, sollevando il capo, il volto bellissimo atteggiato ad un'espressione di freddo orgoglio. «Sapevo che ci avresti distrutti, Gamine, e che avresti distrutto il nostro mondo. E per impedirlo ero pronta a lottare fino alla morte e ancora sono pronta, anche se questo significherà la mia fine! Quello che ho fatto andava fatto!» Gamine sorrise. «E per questo tu sei pronta a cadere o a morire, Karamy?» Si voltò verso i presenti. «Karamy è molto bella, vero?» Credo che nessuna donna sulla terra sia mai stata o sarà mai bella come Karamy la Dorata. In piedi davanti a noi, orgogliosa e caparbia, tutta ambra, oro e fulva come una tigre, posò lo sguardo su Adric e io lessi l'amore e il desiderio negli occhi dell'uomo. La guardava, ammaliato; Karamy gli tese le braccia e Adric, con un sorriso, fece un passo verso di lei... «Trattenetelo», ordinò Narayan. Uno dei Sognatori compì uno strano gesto con la mano sinistra e Adric si fermò come avvinto da una forza invisibile. «Questo era il potere di Karamy», disse Gamine con la sua voce chiara e sonora, «ma ora guardate Karamy spogliata dell'Illusione creata dal suo Sognatore per proteggerla! Guardatela nell'aspetto che aveva costretto me a portare! Questo!» Tese un braccio e toccò leggermente Karamy con il piccolo Talismano che teneva in mano.
Un ansito inorridito si levò dai presenti. Karamy... Karamy la Dorata, la bellissima... non ci sono parole per descrivere il genere di cambiamento che sopravvenne in lei davanti ai nostri occhi. Ero sconvolto dalla nausea ancor prima che fosse del tutto completo; Cynara singhiozzava, con il volto tra le mani. Ma Adric, immobile, non riusciva a distogliere lo sguardo. La risata di Gamine, bassa e dolce e doppiamente mortale proprio per la sua dolcezza, risuonò nella sala. «Eppure dovrei esserle grata», mormorò in tono irridente, «perché la magia di Karamy ha tenuto nascosta la mia vera forma. Così io sono libera, Karamy, sono libera e sono una Sognatrice e tu... devo prestarti uno dei miei veli, sorella?» Di nuovo quella risata tremenda. «No? Allora vattene!» La sua voce risuonò come una frustata e con un gemito spezzato, quella cosa che era stata Karamy si coprì le orbite vuote con un braccio e fuggì nella notte. E non la rivedemmo più... Questa fu dunque la fine di Karamy la Dorata. Un po' più tardi mi accorsi che io e Adric stavamo fissandoci stupidamente negli occhi, perplessi, ma senza animosità. Cynara si avvicinò e posò un braccio attorno alle sue spalle, con fare protettivo e io mi voltai, imbarazzato, perché Adric stava singhiozzando come un bambino. L'enormità di quello che avevo fatto e visto mi sconvolgeva e tremavo e rabbrividivo percorso da un gelo mortale. Immagino che si trattasse di una specie di reazione. «Calma!» La stretta ferrea della mano di Narayan sulle spalle, mi impedì ancora una volta di fare la figura dello stupido. «Hai fatto molto per noi», disse. «Vorrei che avessimo il modo per esprimerti la nostra gratitudine, non solo per quello che hai fatto per me, ma per milioni di persone. Forse un giorno troveremo il modo di riportarti nel tuo mondo, ma ora che Rhys e Karamy non ci sono più...» Adric, con una strana espressione pacata sul volto, parlò con inaspettata umiltà: «Un giorno troveremo il modo. Ci vorrà del tempo per trovarlo, ma un giorno...» Capii cosa voleva dire. La magia dei Sognatori non poteva più essere usata con i vecchi sistemi e il loro potere era ora un'entità sconosciuta. «Nel frattempo...» riprese Adric. «Nel frattempo, a quanto pare ti devi adattare alla mia presenza», risposi e spontaneamente ci scambiammo un sorriso. Non riuscivo ad odiare quell'uomo, ci conoscevamo troppo bene. Ed ora che era libero dall'incantesimo... «Nella Città Arcobaleno c'è abbastanza spazio per tutti e due», ridac-
chiò. Narayan spostò lo sguardo da me ad Adric, poi il viso attento di Gamine comparve accanto al suo. «Mi occuperò io di questi uomini», disse. «Narayan, loro hanno bisogno di te.» Fece un cenno verso i Sognatori risvegliati, ancora increduli e confusi. «Bisogna dire loro perché sono stati svegliati, e come. Ci sono schiavi da liberare, eserciti...» Narayan gettò un'occhiata colpevole alle proprie spalle. «È vero», riconobbe in tono serio. Poi raddrizzò le spalle e si avviò verso la sua gente. Lo guardai allontanarsi, con la sensazione di essere stato abbandonato da un amico. Ma non poteva che essere così: Narayan non era come noi, era il genere di uomo in grado di riplasmare un mondo. Ma l'occhiata che lanciò a me e ad Adric ci disse che se lo avessimo voluto, avremmo potuto avere una parte in quella ricostruzione. Gamine mi prese per mano e io mi allontani con lei lanciando un'occhiata nostalgica ad Adric e Cynara. Cynara era bella e molto umana e immagino di aver creduto che in un certo senso lei avrebbe saputo compensare il mio soggiorno forzato in quel mondo. Ma ora che Adric era tornato se stesso, come potevo sperarlo? Gamine ed io eravamo fermi sulla scalinata della Fortezza dei Sognatori e la sua voce sommessa e pensosa parlava addolorata nell'oscurità. «Il vecchio Rhys sapeva che ero nata con i poteri di un Sognatore ancor prima che mi legassero a lui. Lo sapeva e mi tenne accanto a sé, mi nascose e mi aiutò. Un giorno Adric lo scoprì e questa scoperta lo cambiò. Liberammo Narayan, insieme. Poi Karamy mi trasformò in quello che tu hai visto. E questo sconvolse Adric, sconvolse qualcosa nel profondo della sua anima. Col tempo io avrei potuto guarirlo, ma Karamy lo aveva stregato. Lo privò della memoria e del potere. Forse un giorno Adric ricorderà ciò che sono stata.» «Gamine! Gamine!» gridò la voce di Adric dall'interno della fortezza e un attimo dopo lui corse fuori, prese la Sognatrice tra le braccia e la baciò. Lei lo ricambiò e rimase tra le sue braccia, ridendo e piangendo insieme a lui. Cynara, che l'aveva seguito, sorrise dolcemente, soddisfatta. Al di sopra della spalla di Adric, gli occhi azzurri di Gamine incontrarono i miei. Adric ricordava. Li lasciammo felici insieme nella gloria del sole rosso che sorgeva. «Povera Gamine», disse Cynara con voce felice e intenerita, «e povero Adric. Io l'ho sempre tenuto d'occhio, per amore di Gamine e di Narayan. Mi dispiaceva per tutti e due. Michael, io sapevo... che tu non eri Adric...»
Era molto bella e molto umana, Cynara, e ricordai come l'avevo fissata negli occhi durante la nostra prima cavalcata insieme, odiando l'Adric che ero allora. «Io, straniero e spaventato, in un mondo che non avevo mai creato...» «Ma lo hai fatto», disse piano Cynara e mi resi conto che avevo pronunciato quelle parole ad alta voce. Guardai Adric, stretto tra le braccia di Gamine, nell'alba di quel nuovo giorno che stava sorgendo per loro. Lui aveva trovato il suo mondo. «Ma è anche il tuo mondo», disse Cynara, e prendendomi la mano mi condusse giù per le scale della Fortezza dei Sognatori, in quella strana alba. Un grido di esultanza si levò dagli uomini radunati attorno alla torre, in attesa. Udendolo, trassi un grande respiro, misi un braccio attorno alle spalle di Cynara e chiamai Adric, perché dividesse quel trionfo con me. FINE