"Iuda parlò. Non capii le parole, ma compresi che si rivolgeva a Foma, e dal tono di voce sembrava più un suggerimento ...
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"Iuda parlò. Non capii le parole, ma compresi che si rivolgeva a Foma, e dal tono di voce sembrava più un suggerimento che un ordine. Foma voltò la testa verso Iuda e fece un largo sorriso compiaciuto. Gli altri due restarono a guardare mentre Foma si portava alla bocca la mano dell'uomo e affondava i denti con forza nella carne del palmo alla radice del dito medio. L'uomo strillò, non con il grido acuto e incredulo che mi sarei atteso, ma con l'ululato cupo e stanco di un uomo per il quale il dolore è diventato d'un tratto l'unica sensazione rimasta. Le altre ferite che vedevo sul suo corpo mi dicevano che gli Opričniki quella notte avevano già dato sfogo ai loro appetiti."
VURDALAK: IL VAMPIRO. UN ABOMINIO AL COSPETTO DI DIO, QUALCOSA CHE SI DEVE UCCIDERE A TUTTI I COSTI.
Sono dodici. Hanno gli stessi nomi degli apostoli. Vengono da una terra selvaggia, la Valacchia, ai confini dell'Europa cristiana. Sono mercenari, si fanno chiamare Opričniki, come la guardia personale di Ivan il Terribile, combattono solo di notte, e la loro ferocia senza limiti gela il sangue ai nemici e agli alleati. Ma il capitano Aleksej Ivanovič Danilov e i suoi commilitoni non hanno alternative: è l'autunno del 1812, la Grande Armée ha invaso la Russia, e ogni mezzo è lecito pur di rallentare l'avanzata di Napoleone verso Mosca. Quando osserva gli Opričniki all'opera contro i francesi, Aleksej ripensa alle creature leggendarie che hanno terrorizzato generazioni di bambini russi: i vurdalak che torturano le loro vittime prima di dissanguarle. Forse non si trattava di leggende. E forse i nemici più pericolosi da affrontare non sono di questo mondo.
JASPER KENT, inglese, nato nel 1968, si è laureato in fisica a Cambridge. Questo è il suo primo romanzo.
In copertina: Fotografia: elaborazione da una foto di © Norman Reid, © Dan Wilton. © Henk Badenhorst, © Mateusz Drachal, © Ivan Bliznetsov / iStockphoto Art Director: Francesca Leoneschi Graphic Designer: Andrea Cavallini / TheWorlde/DOT
www.rizzolihd.it
Jasper Kent I dodici Traduzione di Ilaria Katerinov
Proprietà letteraria riservata Copyright © Jasper Kent 2009 This edition is published by arrangement with Transworld Publishers, a division of The Random House Group Ltd All rights reserved First published in Great Britain in 2008 by Bantam Press an imprint of Transworld Publishers Bantam edition published 2010 cartina © Encompass © 2010 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-04228-4
Titolo originale dell'opera: Twelve Prima edizione: settembre 2010
Questo libro è il prodotto dell'immaginazione dell'Autore. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi. Ogni riferimento a fatti o a persone reali è puramente casuale.
VOLUME 052
A S.L.P.
Nota dell'autore
Distanze La versta è un'unità di misura russa corrispondente a poco più di
un chilometro.
Date Nell'Ottocento i russi basavano il computo delle date sull'antico calendario giuliano, che nel 1812 era in ritardo di dodici giorni rispetto al calendario gregoriano usato nell'Europa occidentale. Tutte le date nel testo sono indicate nella forma russa: così, per esempio, la battaglia di Borodino è datata 26 agosto, mentre i libri di storia occidentali riportano il 7 settembre.
Prologo Un racconto popolare russo Secondo alcuni, questi eventi si svolsero nella città di Atkarsk, secondo altri a Volgsk; ma la maggior parte delle versioni li ambienta a Urjupin, ed è qui che noi li lasceremo. Tutte le versioni concordano sull'epoca, i primi anni del regno del grande zar Pétr, e sul fatto che la città in questione fosse infestata dai ratti. I ratti arrivavano a Urjupin sempre d'estate, a razziare le scorte di cereali e a diffondere malattie; ma gli abitanti, come quelli di qualsiasi città, avevano imparato a sopportare i mesi estivi, nella certezza che il freddo invernale avrebbe sterminato le creature disgustose: forse non le avrebbe uccise tutte, ma certamente ridotte di numero, assicurando che l'estate successiva non fosse peggiore della precedente. Tuttavia gli ultimi inverni, che pure erano stati freddi non meno del solito, non avevano influito sul numero dei ratti. In primavera parevano essercene quasi quanto in autunno, e ogni autunno ce n'erano il triplo della primavera precedente. Alla terza estate, le bestiacce erano ovunque; e i cittadini escogitarono una soluzione disperata. Decisero di abbandonare Urjupin: di lasciarla alla mercé dei topi finché non fosse rimasto più niente da mangiare. Così le orribili creature sarebbero morte di fame e, dopo un anno o due, gli abitanti avrebbero ripreso possesso della città. Prima che si potesse mettere in pratica questo piano, alla fine di luglio di quell'anno in città arrivò un mercante. Non era russo, ma europeo; o almeno cosi parve alla gente di Urjupin. Il mercante riferì di aver sentito parlare del problema, e si disse convinto di poterli aiutare. Era arrivato con un semplice carro trainato da un mulo esausto e coperto da un grande telo. L'uomo annunciò che con ciò che aveva sul carro avrebbe ucciso tutti i ratti della città; in caso contrario, non avrebbe accettato una sola copeca in pagamento. I notabili gli chiesero cosa nascondesse il telone, ma lui rifiutò di rivelarlo finché non si fosse raggiunto un
accordo sul prezzo. Pochi, a Urjupin, trovavano attraente l'idea di abbandonare le loro case, e anzi in molti l'avevano apertamente definita una pazzia; quindi il mercante impiegò poco per persuaderli ad accettare la sua alternativa. Con un gesto teatrale (ostentato, lo definiscono alcune versioni della storia), il mercante strappò via il telo dal carro. Nascondeva una gabbia, e dentro la gabbia c'erano una dozzina di scimmie. Al buio le bestie erano rimaste tranquille; non appena videro la luce iniziarono a gridare e si avventarono contro le sbarre, come per aggredire i curiosi tutt'intorno. Non erano grosse: arrivavano forse al ginocchio di un uomo. A parte i palmi delle mani e le piante dei piedi, erano ricoperte di pelliccia nera, con una gorgiera bianca intorno al collo. La testa pareva quella di un vecchio, la pelle era glabra e rugosa. Sembravano più avvoltoi che scimmie, commentò qualcuno. Il mercante aprì la gabbia e quelle si dispersero nelle strade. A terra si muovevano carponi, scaricando la maggior parte del peso sul posteriore, le zampe anteriori sfioravano appena il terreno; quasi subito iniziarono ad arrampicarsi sulle pareti dei fienili, a scendere nelle cantine. Nel giro di pochi minuti scomparvero alla vista. Gli abitanti restarono in attesa. Il mercante aveva raccomandato di tenere al sicuro cani e gatti, perché le scimmie non erano schizzinose nella scelta delle prede. Molti chiusero in casa anche i bambini. Se potevano uccidere un cane, perché non un neonato? Senza bambini in giro, e con gli adulti intenti a pregare affinché l'impresa avesse successo, la città avrebbe dovuto essere immersa nel silenzio. E invece no. Risuonavano dappertutto gli strilli delle scimmie ogni volta che trovavano un topo. Il grido di gioia del predatore che si avventa sulla vittima riecheggiava in ogni dove a qualsiasi ora del giorno e della notte, proveniente da una cantina, da una soffitta o da dietro un muro. Nessuno vide all'opera gli animali del mercante, tutti però li sentirono. E dopo una settimana iniziarono a notare che c'erano meno bestiacce. Il decimo giorno fu avvistato l'ultimo topo. Si aggirava tra i truogoli del mangime per i maiali, ignaro del fato dei fratelli e delle sorelle; il fato che presto sarebbe toccato anche a lui.
I notabili della città, in segno di gratitudine, offrirono al mercante una volta e mezzo il prezzo richiesto. Ma lui rifiutò ogni ricompensa. «Il lavoro non è ancora terminato» spiegò. «Le mie amiche non sono tornate, e non torneranno finché non avranno più nulla da mangiare.» E infatti, benché gli abitanti di Urjupin non vedessero più ratti, sentivano ancora le urla delle scimmie; ora non provenivano più dalle cantine, dalle soffitte e dai granai, ma - si sarebbe detto - dagli alberi e dalle siepi. I ratti sono creature infide, ragionò la gente; quindi nessuno si stupì che gli ultimi sopravvissuti avessero trovato rifugi così insoliti. A metà mattina del quattordicesimo giorno, la prima scimmia tornò a dormire nella gabbia del mercante. Entro sera erano rientrate tutte. Il mercante chiuse la gabbia, la ricoprì con il telo, intascò i soldi e se ne andò. E i cittadini si godettero il silenzio. Per due settimane, le urla terrificanti che accompagnavano il banchetto delle scimmie erano penetrate in ogni angolo di Urjupin; ora tutti condividevano un sollievo inespresso. Le loro menti erano felici di essersi sbarazzate dei roditori; i loro cuori gioivano per la liberazione dalle scimmie urlatrici. Ma con il passare dei giorni il silenzio iniziò a pesare come una cappa. Dapprima gli abitanti avevano pensato che la quiete fosse così evidente per via del contrasto con il rumore delle ultime due settimane, presto però si resero conto che quello era un silenzio nuovo. Potevano coprirlo con le parole e i suoni della vita quotidiana, ma oltre a questi non c'era nulla. Era un silenzio assoluto, totale. Come spesso accade nelle favole, fu un bambino, sui dieci anni, a notarlo per primo. C'era silenzio perché gli uccelli non cantavano. Da quando le creature del mercante avevano terminato il loro lavoro, non un uccello era rimasto vivo nella città di Urjupin. E nessun uccello tornò, mai più.
PARTE PRIMA
Capitolo 1 Dmitrij Fetjukovič disse che conosceva alcune persone. «In che senso, persone?» chiesi io, con voce stanca. Guardandomi intorno nella penombra della stanza, vidi che eravamo tutti esausti. «Persone in grado di aiutarci. Persone consapevoli che c'è sempre più di un modo per uscire da un'impasse. O per uccidere un francese.» «Stai dicendo che non possiamo riuscirci da soli?» La mia domanda nasceva da un istinto patriottico, ma prima ancora di sentire la replica di Dmitrij mi era già venuto in mente un centinaio di risposte. «Be', finora non ce la siamo cavata tanto bene, non ti pare? Bonaparte è già a Smolensk, anzi ormai sarà avanzato ancora. Qui non si tratta più di salvare la faccia, ma la Russia.» Dalla voce di Dmitrij traspariva l'esasperazione. Bonaparte si era fatto strada come se l'esercito russo non ci fosse nemmeno. Era questa la strategia, naturalmente, almeno così ci avevano detto; ma se anche fosse stato vero, era una strategia demoralizzante. Dmitrij si accarezzò la barba in silenzio; la cicatrice sulla guancia gli ricordava con quanto impegno tutti noi avessimo combattuto per il nostro Paese. «E poi» riprese «siamo solo in quattro. L'idea del generale Barclay non era sconfiggere i francesi a mani nude. Dobbiamo inventare un modo per batterli.» Sbottò in una breve risata quando si rese conto di avere esagerato. «Per aiutare il resto dell' esercito a batterli.» La tipica arroganza di Dmitrij, e il fatto che ne fosse consapevole, suscitarono una risata silenziosa che fece il giro del tavolo come un'onda, ma evaporò in fretta. «Davvero la situazione è così grave?» chiese Vadim Fëdorovič, il nostro capo, o perlomeno l'ufficiale di grado più elevato tra noi. «Tu non lo pensi?» ribatté Dmitrij. Vadim tacque per un momento. «Sì, sì, lo penso anch'io. Volevo solo sentirlo dire a voce alta.» «Prima di Smolensk, non ci avrei creduto» intervenni io.
«Forse era quello il problema» considerò Vadim. «Forse nessuno di noi credeva realmente che Bonaparte fosse capace di tanto. Ora il fatto di crederci ci dà qualche... speranza.» Si massaggiò il viso. «Comunque» riprese in tono più energico, «Dmitrij, parlaci di queste persone.» «È un piccolo gruppo» spiegò lui «specializzato nel lavoro dietro le linee nemiche. Riescono sempre a cogliere di sorpresa l'avversario, e a infliggere la massima devastazione con il minimo rischio.» «Sembrano i Kazaki» osservai. Dmitrij si succhiò il labbro inferiore, scegliendo con cura le parole. «Paiono cosacchi, sì, in molti sensi è vero.» Rifletté attentamente prima di aggiungere: «Però non sono russi». «E come mai li conosci?» Dal tono di Vadim pareva chiaro che sapesse già la risposta. Lui e Dmitrij avevano avuto molto tempo per parlare, nella triste cavalcata di ritorno da Smolensk a Mosca. Era naturale - certo lo era per Dmitrij - accertarsi di dare vita a un dibattito avendo già dalla sua parte metà del gruppo. «Ci hanno aiutati contro i turchi.» Gli occhi di Dmitrij si posarono sulla mia mano sinistra mutilata. Le due dita perdute erano marcite da tempo nell'angolo di una cella a Silistra, mozzate da una spada turca. La mia menomazione sembrava turbare molto gli altri, ma io ci avevo fatto l'abitudine. Le cicatrici fisiche erano il minore degli orrori che i turchi mi avevano inflitto. «Allora anche tu conosci queste persone, Aleksej?» chiese Maksim Sergeevič, rivolgendosi a me. Maks era il più giovane di noi quattro. Come me, aveva notato che Vadim propendeva per il piano di Dmitrij, e temeva che una maggioranza di tre contro uno fosse inevitabile. E questo sarebbe stato un grosso problema, per lui. Era fissato con la democrazia. «No, no. Anche per me è una novità, Maks» risposi con circospezione. Guardai Dmitrij: era davvero una notizia inedita per me, ed era strano - a dir poco - che non me ne avesse parlato. «Io e Dmitrij non ci siamo mai incontrati in Valacchia. Pare se la cavino bene, queste... persone.» Mi attenni alla parola usata da Dmitrij. «Hanno combattuto sul Danubio, poi sono venuti fino a Mosca per
aiutarci. Di dove sono?» «Della zona del Danubio, Valacchia, Moldavia... Laggiù è tradizione combattere i turchi per patriottismo, per difendere la terra dei padri.» «Be', allora non possiamo farcene niente, no?» disse Maks, e gli brillarono gli occhi quando intravide la possibilità di evidenziare una fallacia logica. Si spinse gli occhiali sul naso mentre continuava. «Il Danubio è lontano da qui tanto quanto... Varsavia. Se anche tu li mandassi a chiamare oggi stesso, Napoleone avrebbe conquistato Mosca e si starebbe scaldando le mani davanti all'incendio di Pietroburgo prima che loro...» Non terminò la frase. Più di ogni altro uomo che conoscessi, era capace di isolarsi dal mondo intorno a sé. La maggior parte di noi avrebbe faticato a descrivere con tanta scioltezza l'orrore che avevamo di fronte, ma Maks sapeva pensare l'impensabile. Era una dote utile, a volte inquietante. Eppure quel giorno persino lui comprese la potenziale realtà dipinta dalle sue parole. Vadim replicò stizzito: «Se Bonaparte dovesse arrivare fino a Mosca o Pietroburgo, gli unici fuochi che troverebbe sarebbero le rovine fumanti di una città distrutta dai suoi stessi abitanti, pur di non farla cadere nelle mani dell'invasore». Sul momento ci parve una smargiassata da comizio. Non sapevamo quanto si sarebbe rivelata vera quella supposizione. «Maks non ha torto, però» obiettai. «La questione è accademica, ormai. Se avessimo voluto usarli, avremmo dovuto avvertirli tempo fa.» «Proprio ciò che ho fatto» disse Dmitrij. Si guardò intorno, fissandoci negli occhi uno per uno, sfidandoci a controbattere. Vadim lo sapeva già. Maks non vedeva argomentazioni sensate da poter opporre a un fait accompli. Io ero stanco. «Oggi, quando siamo tornati, ho trovato ad attendermi una loro lettera» continuò Dmitrij. «Sono già partiti, e contano di essere qui per metà mese.»
«Speriamo non restino impantanati nelle linee francesi.» Il mio commento suonava cinico, ma era un problema concreto. Metà dell'esercito russo era di ritorno da un frettoloso accordo di pace con i turchi, ed erano riusciti a evitare Bonaparte per un soffio. Gli amici di Dmitrij avrebbero corso lo stesso rischio. Ma nessuno degli altri sembrava interessato, quindi lasciai cadere la questione. «Quanti sono?» si informò Maks. «Dipende» rispose Dmitrij. probabilmente di meno.»
«Venti,
se
siamo
fortunati;
«Be', e che ce ne facciamo?» chiesi io, in tono più sprezzante di quanto intendessi. «Davidov fa miracoli con una manciata di cosacchi» osservò Vadim. Era un colpo basso; Denis Vasil'evič Davidov era quasi un eroe, per me. Ma il confronto era ingiusto. «Lo squadrone di un voisko cosacco è composto da ottanta uomini o più; non da venti. I tuoi amici valgono quattro cosacchi a testa?» Dmitrij mi guardò dritto negli occhi. «No. Ne valgono dieci.» Mi venne una gran voglia di mollargli un pugno, ma sapevo che non era lui l'oggetto della mia rabbia. «Sarebbe bene sapere cosa li rende così formidabili» disse Vadim. «È difficile spiegarlo» replicò Dmitrij, pensieroso. «Avete mai sentito parlare degli Opričniki?» Io e Vadim annuimmo, Maks mi stupì ammettendo di non conoscere quella parola. «Ivan IV - il Terribile, come gli piaceva farsi chiamare - in una delle fasi meno clementi del suo regno creò una specie di truppa personale di guardie del corpo, gli Opričniki» spiegò Dmitrij. «Il loro compito era la soppressione del dissenso interno, ma ovviamente non è questo che ci interessa ora; il metodo consisteva nell'impiego della violenza assoluta, sfrenata. Ufficialmente erano monaci. Giravano a cavallo per le campagne, incappucciati di nero, e uccidevano tutti quelli che Ivan condannava a morte. Per essere dei
monaci non erano molto istruiti, ma la fede donava loro il fanatismo di cui Ivan aveva bisogno.» «E questi sono i tizi che stanno venendo ad aiutarci?» domandò Maks perplesso. Dmitrij annuì lentamente. «Ci sono dei punti in comune. I miei amici sanno che la violenza è un'arma di per sé. Non sono frenati da scrupoli o dalla paura.» «E sono religiosi?» mi stupii io. «Monaci, come gli Opričniki?» «Non sono monaci.» Dmitrij fece una pausa, forse per decidere fin dove svelarci la verità. Poi continuò: «Però hanno un fanatismo tutto particolare. Dalle loro parti, al confine con le terre degli ottomani, il cristianesimo è da sempre un concetto malleabile». «Sono controllabili? Ci si può fidare?» indagò Vadim. «Tanto quanto di un moschetto o di un cannone, nelle mani giuste. Hanno solo bisogno che gli si indichi la direzione, e si mettono al lavoro.» «E sei sicuro che non vogliano un compenso?» La domanda di Vadim doveva riferirsi a una conversazione precedente tra lui e Dmitrij. «Amano il loro lavoro. Come qualsiasi esercito, si nutrono dei nemici sconfitti.» Nessuno di noi capi cosa intendesse dire Dmitrij. «Il bottino di guerra. Gli eserciti depredano i nemici uccisi, l'oro e il cibo e tutto quello che riescono a prendere.» «Troveranno abbastanza oro nell'esercito francese, per ripagarli di una trasferta così lunga?» osservai io. «Ci sono altre ricompense, oltre l'oro» specificò Dmitrij con un insolito disprezzo per i beni materiali. «Sono esperti nell'arraffare ciò che altri tralascerebbero.» Credo che a nessuno di noi piacesse davvero l'idea di riportare in vita gli Opričniki, ma iniziammo a chiamarli così, anche se mai in loro presenza. Quando li conoscemmo, capimmo perché Dmitrij aveva pensato a quell'analogia. Era tardi, e Vadim Fëdorovič pose fine alla riunione. «Bene, signori, abbiamo circa una settimana per prepararci all'arrivo degli
"Opričniki". È un tempo sufficiente per capire il modo di impiegarli al meglio.» Tirò un gran respiro. Sembrava esausto, ma fece del proprio meglio per infonderci entusiasmo. «È stata una campagna difficile finora, lo so, però stavolta me lo sento nel sangue: Bonaparte ha fatto il passo più lungo della gamba, e le sorti della guerra sono a un punto di svolta. Non vi pare? Eh?» Forse si aspettava un improbabile coro di assenso; invece non ottenne più di un cenno del capo oppure un sopracciglio alzato. Ce ne andammo a letto. Non era il tipo d'uomo a cui venissero spontanei i comizi propagandistici, e noi non eravamo tipi da lasciarcene sedurre. Era anche questo a renderci una squadra così affiatata. Avevamo coperto la distanza tra Smolensk e Mosca quasi sempre al galoppo, dormendo all'aperto quando non trovavamo alloggio. Alcuni non sopportavano il clima dei primi giorni di agosto. A me piaceva; ho sempre amato l'estate e odiato l'inverno. Comunque fu gradevole tornare a dormire in un vero letto. Lo stesso in cui avevo sempre dormito - per lo meno in cui dormivo di solito - quando ero a Mosca, in una locanda poco a nord del Cremlino, sulla via Tverskaja; la stessa locanda dove si era tenuta la nostra riunione. Era molto tardi quando ci separammo, ma non mi addormentai subito: riandai con il pensiero a un'altra riunione, la prima volta che avevo visto Vadim, quando si formò il nostro strambo gruppetto. «Dmitrij Fetjukovič ti ha detto di cosa si tratta?» aveva chiesto lui. Dmitrij Fetjukovič, come sempre, non mi aveva detto granché. Erano ormai trascorsi sette anni, era il novembre del 1805; meno di un mese prima della battaglia di Austerlitz. Dmitrij aveva detto di conoscere un maggiore che stava cercando di mettere insieme una piccola banda per svolgere «operazioni irregolari». Mi ero detto interessato, quindi era stato organizzato l'incontro. Non avevo mai parlato con Vadim, ma l'avevo visto in giro per l'accampamento, di solito un po' trasandato e con un aspetto ben poco militare, tuttavia sempre rispettato da chi lo conosceva. «Non nel dettaglio, signore» avevo risposto. «Dmitrij mi ha detto solo che si tratta di qualcosa di un po' fuori dall'ordinario. Pareva
interessante.» «Non chiamarmi signore» aveva ribattuto Vadim, in tono fermo. A quel tempo era un po' più austero di quanto si sarebbe rivelato conoscendolo meglio, e anche rispetto a quando avrebbe imparato a ottenere ciò che voleva senza usare la forza. «Il rispetto per i superiori sarà forse la risorsa migliore dell'esercito russo, ma non sempre incoraggia...» Non trovava la parola giusta. «La riflessione autonoma?» aveva suggerito Dmitrij. «Esatto» aveva continuato Vadim. «Pensare, nell'esercito, può cacciarti in guai seri.» Lui e Dmitrij si erano scambiati un sorrisetto. In seguito Dmitrij mi aveva detto che una volta Vadim era quasi finito davanti alla corte marziale per aver disobbedito a un ordine. Disobbedendo, aveva conquistato una piazzola dell'artiglieria nemica e ribaltato le sorti di una battaglia, però l'ordine proveniva da un ufficiale di grado superiore - molto ricco, molto nobile e molto stupido - e in tanti ritenevano che i desideri di quell'ufficiale fossero assai più importanti di una semplice battaglia. Per fortuna non tutti la pensavano così. Inoltre, e benché non lo si indovinasse dai suoi modi, anche Vadim era molto ricco e molto nobile, con l'ulteriore vantaggio di non essere stupido. Era stato promosso maggiore e gli avevano dato carta bianca per logorare il nemico tramite attacchi ripetuti. «E si direbbe» proseguì «che pensare sia per te un'abitudine.» Sorrisi. «In realtà è più un passatempo. Come dite voi, in battaglia non serve a molto.» «No, in battaglia no. In battaglia si obbedisce agli ordini... di solito. Quando impartisco un ordine tu lo devi eseguire, purtroppo non accadrà spesso. E non pensare di poter evitare le battaglie. Dovrai comunque combattere da soldato. La differenza sta in quel che faremo tra una battaglia e l'altra.» «E cosa faremo?» chiesi io. «Spionaggio. Sabotaggio. Scovare informazioni, propagare il caos. A volte in gruppo, a volte ciascuno per sé. Io dico cosa fare, poi insieme capiamo come farlo. Parli bene il francese?»
Stranamente, fino a quel momento avevamo parlato russo, una moda che si stava diffondendo tra coloro che volevano dar mostra di vero patriottismo. «Abbastanza bene» risposi. «Dmitrij mi ha detto che potresti spacciarti per francese a Parigi.» «Credo di sì» azzardai. «Be', se è vero, dillo! La modestia è solo una forma di menzogna... utile con le signore, ma pericolosa tra compagni d'armi. Se dici a qualcuno che sai sparare "abbastanza bene", quello correrà rischi per coprirti. Poi lui finisce ammazzato e si scopre che tu sai sparare benissimo, e la sua morte è colpa tua. A proposito, te la cavi a sparare?» «Abbastanza bene» dissi. Vadim aggrottò la fronte. «Ma benissimo con la spada.» Sorrise. «Ottimo. Si spera che non passerai molto tempo né con il fucile né con la spada. Un'ultima cosa... hai altri nomi da suggerire per il nostro gruppo? Possiamo lavorare in tre, ma quattro o cinque sarebbe meglio.» «Un altro pensatore?» chiesi. Vadim annuì. Riflettei un momento, poi mi rivolsi a Dmitrij. «Gli hai parlato di Maksim Sergeevič?» «Mi era venuto in mente» ammise Dmitrij. «È molto giovane, ed è un po'... strambo.» «Di sicuro sa pensare» ribattei. «È proprio questo il punto» disse Dmitrij. «Pensa cose strane.» «Sembra perfetto» annunciò Vadim. E così, il giorno dopo, gli avevamo presentato Maks. Che aveva richiesto ancor meno persuasione di me. D'altronde sarebbe stato difficile trovare un ruolo più adatto a lui. Ci conoscevamo tutti da pochi mesi, ma la nostra banda era già al completo. Ora, sette anni dopo, Dmitrij aveva invitato nuovi membri: uomini che solo lui conosceva, e per i quali solo lui poteva garantire. Situazioni disperate richiedono rimedi disperati, tuttavia prima di
addormentarmi non potei non sentirmi a disagio pensando agli Opričniki. La mattina dopo mi svegliai presto. Mancava una settimana all'arrivo delle «persone» di Dmitrij, e poiché c'era ben poco da preparare, ci aspettavano quasi sette giorni di vacanza. Per la prima volta dopo quasi sei mesi mi aggirai per le strade di Mosca, e notai che poco era cambiato, a parte il clima; e in quella splendida giornata estiva il cambiamento era positivo. La gente era quella di sempre: di sicuro sapevano che Bonaparte si stava avvicinando, ma sapevano anche che a un certo punto avrebbe dovuto fermarsi. Nessun imperatore con un trono laggiù, a Parigi, sarebbe mai riuscito a marciare fino a Mosca. Che costui fosse già arrivato a Vilna, a Vitebsk, a Smolensk, che quelle città fossero troppo lontane da Parigi per essere conquistate, questo lo capivano bene. Ma non bastava a farli dubitare del fatto che Mosca fosse irraggiungibile. E io ero d'accordo. Fra tutte le cose che avrei visto in seguito, in quel lungo autunno del 1812, nonostante gli orrori quasi inimmaginabili, la più irreale doveva essere proprio lo spettacolo delle truppe francesi nelle strade di Mosca. Amavo Mosca solo perché non era la mia città? Avevo sempre vissuto a Pietroburgo e nei dintorni: era bella, confortevole e familiare. La familiarità non generava disprezzo, solo prevedibilità. Conoscevo ogni angolo, mi sorprendeva ben poco. Mi sembrava strano, quindi, che Pietroburgo fosse di gran lunga la città più giovane fra le due. Solo un secolo prima - un secolo esatto, nel 1712 - era diventata capitale al posto di Mosca, a meno di un decennio dalla fondazione. Una città costruita tanto in fretta, e secondo i progetti di un personaggio energico come lo zar Pétr, mi pareva ciò che era: sintetica. Mosca era sorta nel corso dei secoli, gli abitanti avevano costruito quanto serviva per vivere; Pietroburgo invece era nata per emulare le grandi città europee, quindi avrebbe sempre avuto quell'aria contraffatta, appena più realistica dei fondali di cartone con villaggi dipinti che Potémkin aveva fatto erigere per offrire alla zarina Ekaterina un panorama più pittoresco nella periferia
dell'impero. Ma Pietroburgo era la capitale, e tutto il mondo la adorava. La buona società si era spostata lì, eppure la vita restava a Mosca. Mia moglie, Marfa Michajlovna, amava visceralmente Pietroburgo. Aveva con essa una familiarità, un'intimità profonda, al contrario di me. Anche al nostro bambino sembrava piacere, ma a cinque anni nulla gli era ancora familiare; ogni cosa era una nuova avventura. Così Marfa era restata a Pietroburgo. Da quel momento, per quanto lontano mi spingessi, tornare all'una significava tornare all'altra. Tornare alla città oppure a lei, o a entrambe, mi dava la stessa sensazione: era confortevole. Mi aggiravo per le strade di Mosca, ammirando i grandiosi monumenti. Percorsi il lungofiume della Moscova guardando le alte torri che punteggiavano le mura del Cremlino. Svoltai verso nord, passando sotto le maestose cupole a cipolla di San Basilio e poi attraversando la Piazza Rossa, gremita di gente. Mi immersi nel labirinto di viuzze intorno alla Tverskaja. Ma forse mi illudevo. Forse stavo vagando per le strade di Mosca, meravigliandomi dei suoi abitanti e dei suoi palazzi, al solo scopo di temporeggiare per poi dirigermi alla vera destinazione. Avrei potuto essere come un ubriaco che si sveglia all'alba e si rende conto che è troppo presto anche per lui, e ammazza il tempo cercando di non pensare al primo, delizioso bicchiere che lo aspetta. Era quasi mezzogiorno quando arrivai all'angolo della via Degtjarnij e ritrovai la panchina dove mi ero seduto a dicembre dell'anno precedente. Nell'inverno del 1811 ero stato lì con Dmitrij e Maks. Vadim era andato a Pietroburgo per il matrimonio della figlia. Anch'io vi avevo partecipato, poi però ero subito tornato a Mosca, alleviando il senso di colpa per lo sguardo di Marfa con la strana premonizione che qualcosa sarebbe successo, doveva succedere, non appena avessi messo piede in una città piena di vita. Invece sembrava accadere ben poco, e così eccoci su quella panchina nella quiete della piazza coperta di neve, a scambiarci battute di spirito mentre guardavamo gli uomini (e le poche donne) entrare e uscire dall'edificio di fronte a noi.
C'era stato un momento di silenzio, quando tutti e tre avevamo puntato gli occhi su una signorina di particolare avvenenza che stava uscendo dal palazzo; silenzio che Maks aveva riempito con un annuncio, nel tono con cui di solito discuteva di politica estera. «È un bordello!» «Certo che è un bordello» aveva riso Dmitrij. A essere onesto io non me ne ero accorto, ma a pensarci bene era evidente. Forse anche Dmitrij fingeva, tuttavia davanti a un giovane soldato come Maksim ci parve opportuno mostrarci esperti delle cose del mondo, quindi risi insieme a Dmitrij. «Vuoi entrare?» aveva chiesto a Maks. «Sembra una specie di caserma.» E in effetti molti clienti erano ufficiali di cavalleria, proprio come noi. «No, grazie» aveva risposto Maks. Mi domandai se nutrisse mai desideri umani. Dmitrij si rivolse a me. «Aleksej? Ah, no. Tu hai la cara moglie e la famigliola.» «E tu?» gli chiesi io. «Io? No. Nemmeno a me piace correre la cavallina.» Strizzò l'occhio senza rivolgersi a nessuno in particolare. «C'è un posticino dove vado di solito, dall'altra parte della via Nikitskij. Economico e pulito. Gli resto fedele.» La ragazza che aveva attratto la nostra attenzione ritornò poco dopo, stringendo al petto il cestino di frutta e vivande che era uscita a comprare. Era una meraviglia: occhi grandi, leggermente a mandorla, labbra carnose, corrucciate contro la neve alzata dal vento. Avevo l'impressione di averla già vista. All'improvviso capii. «Somiglia a Marie-Louise.» «Chi?» sbuffò Dmitrij. «La nuova imperatrice dei francesi» spiegò Maks. «La nuova Madame Bonaparte» la definii io. «Ah, la vecchia puttana austriaca» intervenne Dmitrij.
Le tre definizioni erano sostanzialmente corrette. Nel 1810 Bonaparte aveva divorziato dalla prima moglie, Joséphine, e aveva sposato Marie-Louise, figlia dell'imperatore austriaco Francesco II. Joséphine non era riuscita a dargli figli, e Bonaparte aveva bisogno di un erede. I francesi avevano dimenticato in fretta il trattamento riservato alla loro ultima regina austriaca. «Le assomiglia un po', non molto» disse Maks. «Mah!» sbuffai. «Ho visto un solo ritratto... la somiglianza c'è.» Il ritratto che avevo visto mi aveva incantato. Era una stampa tratta da un dipinto, ma Marie-Louise mi era sembrata davvero bella, molto più di Joséphine. Eppure, si diceva che Bonaparte avesse amato molto Joséphine, e per questo fossero rimasti insieme così a lungo, anche senza figli. «Meglio che si porti a letto una prostituta austriaca, almeno non ha toccato la sorella dello zar» brontolò Dmitrij. «Era troppo giovane. È stato saggio, da parte dello zar Aleksandr, imporre a Napoleone di aspettare i diciott'anni della ragazza.» Alzò un braccio. Mi accorsi che si preparava a lanciare una palla di neve alla fanciulla che arrancava verso la porta del bordello. Era un gesto inoffensivo, eppure mi parve gratuito, crudele, così mi sporsi per intercettare il colpo. Malgrado tentassi di intralciarlo, la palla di neve colpì il muro a pochi centimetri dal suo viso. Lei si voltò, e vedendomi con il braccio alzato mi ritenne colpevole. Mi rivolse uno sguardo carico di orgoglio e di rabbia in cui si leggeva una domanda. Come mi permettevo di trattarla in quel modo? Mi sentii obbligato a chiederle scusa: non solo perché non ero stato io, ma anche per il fatto di conoscere l'uomo responsabile di quel gesto. Dmitrij ridacchiò sottovoce. «Hai saputo cosa gli ha detto, la prima notte di nozze?» «Chi?» «Marie-Louise a Bonaparte» rispose lui, rivelando una cultura più vasta di quanto immaginassi sulle nozze reali francesi. «Dopo che se l'era fottuta la prima volta, lei gli ha detto "Fallo ancora", da quanto le era piaciuto.»
Mi unii alla risata roca di Dmitrij, sebbene conoscessi già l'aneddoto. Maksim rimase indifferente. Sul momento pensai che non avesse capito la battuta. «E sai cosa direbbe lei,?» continuò Dmitrij, senza smettere di ridere, e indicò la giovane «signora» la cui somiglianza con MarieLouise aveva dato avvio alla conversazione. «Lei direbbe: "Fallo ancora: la seconda volta è a metà prezzo".» Stavolta risero Dmitrij e Maks, non io. Una cosa è insultare un'imperatrice francese, ben diverso è insultare una puttana russa. Come poi avremmo scoperto, lei si faceva pagare a ore.
Capitolo 2 Due ore dopo ero sdraiato nel suo letto e la guardavo di spalle, seduta alla toletta a spazzolarsi i lunghi capelli castano scuro. Si chiamava Dominique. «Allora, perché mi hai tirato una palla di neve?» «Non l'ho tirata io» risposi, con una sicurezza che prima non le avevo mostrato. «È stato il mio amico. Io cercavo di fermarlo, volevo chiederti scusa.» «Bel modo di chiedere scusa, mi è sembrato ti piacesse. Devi divertirti molto quando vai a confessarti.» Mi alzai e andai a baciarle una spalla. «Fa bene all'anima.» Lei mi respinse con una freddezza cortese, professionale. «E cosa ti importava se mi pigliavo una palla di neve?» «Non mi piace l'inverno.» Era una risposta semplice; la verità era assai più complessa, e aveva a che fare con lastre di ghiaccio spezzate sul lago Satschan nell'inverno del 1805. «Allora non dev'essere bello vivere a Mosca.» «Non vivo qui, sono di Pietroburgo. Sono di stanza qui.» «Soldato, eh? Dov'è l'uniforme?» chiese, senza curarsi di osservare che Pietroburgo è ancora più fredda di Mosca. Contrattaccai con un'altra domanda. «Sei francese?» Lei rise. «Lo sembro, da come parlo?» «Dominique è un nome decisamente francese.» «In realtà è Domnikiia. Quando ho iniziato, il francese andava di moda.» Non dovevano essere passati molti anni, da quando aveva «iniziato». Sorrise pensierosa. «Oggi molto di meno. E tu come ti chiami?» Vide la mia sorpresa. «Non sei tenuto a dirmelo.» Ma la delusione infantile nel suo sguardo suggeriva che invece ero tenuto, eccome. «Aleksej Ivanovič.» «Ljosa.»
«Alcuni mi chiamano così.» Nessuno mi chiamava più così. Era un diminutivo piuttosto diffuso per gli uomini di nome Aleksej, ma non mi era mai sembrato adatto a me, da quando ero nell'esercito. Pagai e uscii. All'inizio mi illusi di esserci andato solo perché avevo sentito l'esigenza di chiederle scusa. Di certo mi ero sentito in colpa, dopo, eppure non abbastanza da non tornare a trovarla forse tre o quattro volte prima che ci mandassero di nuovo a ovest, a marzo. Molte altre volte avevo desiderato andare da lei; me l'ero proibito, e mi ero aggirato nelle strade circostanti per scoprire quanto riuscivo ad avvicinarmi senza entrare. Ora, nell'agosto del 1812, stavo facendo la stessa cosa. Durante la ritirata, dalla Polonia fino in Lituania e per tutta la Russia, avevo saputo che tornare a Mosca significava tornare da Domnikiia. Ed eccomi qui. Avevo passeggiato, mi ero seduto sulla panchina, e questa era la mia occasione di andarmene. Entrai. L'atrio era proprio come lo ricordavo. Avevano appena tolto il catenaccio al portone d'ingresso, ero il primo cliente della giornata. Mezza dozzina di ragazze si aggirava nel salone cercando di assumere un'aria provocante. Domnikiia mi voltava le spalle, parlava con una collega e si spazzolava i lunghi capelli castano scuro. Le cinsi la vita e le sussurrai all'orecchio: «Ti ricordi di me?». Si voltò. Non era Domnikiia. Chiunque fosse, cercò di riconoscermi tra le dozzine di volti nella sua memoria. Dalla mia espressione indovinò che mi ero sbagliato, e rimase indecisa tra l'istinto femminile di prendermi a schiaffi e quello professionale di adescarmi. «No, ma sono sicura che me ne ricorderò» rispose, quando la parte professionale ebbe la meglio, e mi gettò le braccia al collo. Mi tirai indietro. Cercai di scusarmi, ma in quelle circostanze mi parve del tutto fuori luogo. Alzai lo sguardo e vidi la vera Domnikiia; stava scendendo le scale. «Aleksej Ivanovič!» mi salutò, con un entusiasmo più convincente di quanto abbia mai sentito uscire dalle labbra di tante padrone di casa a Pietroburgo. Immaginai fosse un'abilità acquisita, come quella
di ricordare il mio nome dopo tanti mesi. Mi si accostò e mi sussurrò all'orecchio: «Ljosa, dall'ultima volta sono invecchiata così tanto che ora preferisci Margarita Kirillovna a me? Io scelgo i soldati esperti rispetto a quelli giovani, ma la maggior parte dei soldati la pensa al contrario». «Scusatemi, Margarita Kirillovna» dissi alla ragazza che di spalle somigliava tanto a Domnikiia. «Vi ho confusa con un'altra.» Domnikiia mi prese per mano e mi condusse verso le scale; la seguii con gioia. La sua stanza non era cambiata - lo stesso letto, la stessa toletta ma l'estate faceva la differenza. Le finestre erano aperte per far entrare l'aria e le persiane erano chiuse per tener fuori il sole. «Puoi avere Margarita, se vuoi» disse Domnikiia. «È nuova, ma molto popolare.» «Se ha clienti, è solo perché la scambiano per te.» «Non sei tenuto a farmi complimenti, sul serio.» Dopo mi sembrò meno impaziente del solito. Sbirciò fuori dalla porta mentre io mi vestivo. «Non c'è fretta» disse. «Il salone è vuoto. L'esercito non è in città, e i civili hanno troppa paura per fare... granché. E cosa ci fai tu in città, mio ufficiale senza divisa?» Evitai di rispondere. «Hai un'ottima memoria.» «Cosa? Solo perché ricordo il tuo nome e il tuo diminutivo, perché so che sei un soldato ma non porti l'uniforme e perché credi di sapere che io sono Domnikiia e non Dominique? Ti do semplicemente ciò che vuoi.» Fece una smorfia. «Voi uomini non volete fottere, volete solo essere notati.»
«Credo di sapere? Quindi non sei Domnikiia?» «Potrei non esserlo» ribatté lei con la stessa sicurezza. Poi addolcì il tono e mi gettò le braccia al collo. «Ma lo sono. Comunque» aggiunse dopo un attimo, «a Dominique gli affari vanno benone.» «In che senso?»
«Quando ho iniziato, tutti volevano un tocco di Francia, quindi tutti volevano Dominique. Nell'ultimo anno i francesi non piacciono più a nessuno, e allora nessuno vuole Dominique.» Fui costretto a sorridere. «Questi politici non pensano alle ricadute sul commercio, eh?» «Esatto. La prossima volta che vedi lo zar, faglielo presente. Ma oggi vogliono tutti fottere i francesi, quindi tutti vogliono fottere Dominique.» Risi. «E io chi ho fottuto? Dominique o Domnikiia?» Lei ridacchiò. «Sono ancora convinta che tu volessi Margarita. Non lo so. E tu? Eri Aleksej o Ljosa?» Non risposi, e lei cambiò argomento. «Allora, quali notizie dal fronte?» Tanta impudenza mi sbalordì. «Non posso dirtelo.» «Oh, suvvia! Nessuno saprebbe mai niente, se non fosse per i soldati con la lingua lunga nei bordelli. E un do ut des: tu dici qualcosa a me, io dico qualcosa a te.» «E cosar? L'hai detto tu che non ci sono soldati in città.» «C'è altra gente con una storia da raccontare.» Bluffava, lo sapevo, ma non c'era niente di male a rivelare cose che avrebbe potuto scoprire altrove. Le raccontai delle sconfitte a Vilna, Vitebsk e Smolensk, le riferii la versione ufficiale secondo cui i francesi sarebbero stati fermati prima di Mosca, e non molto altro. «Allora, tu cos'hai da dirmi?» le chiesi poi. «Oh, niente.» «Forza!» La feci rotolare sulla schiena. «Hai intenzione di interrogarmi?» Sarei anche stato tentato, ammirando quel suo sorriso allettante, ma l'idea stessa di un interrogatorio mi riportava alla mente brutti ricordi. Le feci il solletico, lei scoppiò a ridere. Soffriva molto il solletico, e a me piaceva così. A modo suo, era come un villaggio di Potémkin: una facciata dietro la quale potevo trovare solo delusioni. «Va bene! Va bene, Ljosa!» esclamò. «Te lo dico.» Le ci volle un momento per riprendere fiato. «Le uniche notizie interessanti che ho
saputo provengono da Tuia.» «Cosa succede a Tuia? Problemi con gli approvvigionamenti?» Tuia era un centro nevralgico per la guerra. Senza quella città, le nostre forniture di artiglieria e munizioni si sarebbero ridotte all'osso. «Non a Tuia» precisò lei. «Da Tuia. Sono giunte voci di una specie di epidemia... Trenta morti a Rostov, quindici a Pavlovsk.» Le voci di epidemie erano sempre esagerate. Quando ero piccolo, mia nonna mi raccontava fiabe popolari che parlavano di pestilenze, e ben presto avevo deciso di considerarle con lo stesso scetticismo riservato alle storie di mostri e stregoni. Ma crescendo avevo imparato a riporre più fiducia nelle parole della nonna, almeno su questo argomento. L'ultima grande pestilenza ad aver colpito Mosca era scoppiata nel 1771, poco prima della mia nascita, ed era un ricordo vivido per i miei nonni e i miei genitori, che pure all'epoca si trovavano al sicuro a Pietroburgo. Erano morti un terzo degli abitanti dell'oblast' di Mosca. A quanto ne sapevo la cifra non era poi cosi esagerata. Quando fui testimone di un'epidemia, mentre combattevo a sud del Danubio, riscontrai la stessa mescolanza di fatti e pettegolezzi. Questa nuova diceria aveva probabilmente più di un fondo di verità. Entrambe le città menzionate da Domnikiia sorgevano lungo il Don, una delle grandi arterie che scorrono tra la Russia centrale e il Mar Nero, ed era frequente che le malattie si spostassero in barca lungo il fiume. I numeri sembravano insolitamente elevati, ma forse era parte del processo di trasformazione delle notizie in dicerie. «Spero non arrivi a Mosca. La pestilenza, cioè» osservò Domnikiia. «Forse ci raggiungerà insieme ai francesi. Così ci risparmierà la fatica di ucciderli.» «Andrà così?» Mi si strinse contro, in cerca di una risposta rassicurante. «No, Domnikiia» mentii. «Né Bonaparte né la pestilenza arriveranno mai a Mosca.» Ma avevo visto con i miei occhi quanto fossero veloci entrambi. E ciò che infine doveva arrivare si sarebbe dimostrato ancora più terribile.
Quando tornai nella mia stanza trovai un pacchetto per me da parte di mia moglie. La maggior parte delle notizie nella lettera allegata erano già vecchie, ma nel pacco c'era una piccola icona ovale del Cristo, con una catenella d'argento. Nella lettera, Marfa spiegava di aver sentito dire che Bonaparte fosse l'Anticristo, e mi pregava di portare al collo l'icona per proteggermi. Avvertii un brivido. Finora non avevo avuto bisogno di protezione dalle pallottole francesi, ma non ero stato al riparo dalle tentazioni. Baciai l'immaginetta per abitudine e me la misi al collo, forse con la speranza che mi scoraggiasse da ulteriori incontri con Domnikiia, o forse con l'intento di alleviare il senso di colpa che sarebbe seguito a quegli incontri. Nella lettera c'erano perlopiù notizie generiche da Pietroburgo. La figlia di Vadim, Elena, era di nuovo incinta e stava bene. Tutti i nostri conoscenti erano in buona salute, ma erano preoccupati per la guerra e volevano la mia opinione su cosa sarebbe accaduto. La parte della lettera che rilessi più volte parlava di nostro figlio Dmitrij. Niente di speciale, solo una madre che raccontava nei dettagli il comportamento del suo bambino. Entro pochi mesi avrebbe compiuto sei anni, e probabilmente avevo passato con lui meno di un terzo della sua vita. Era lo stesso per tanti figli di soldati. Mi fece piacere leggere che chiedeva sempre quando sarei tornato; si ricordava di me, dunque. L'avevamo chiamato Dmitrij in onore di Dmitrij Fetjukovič, che sette anni addietro non era ancora l'uomo freddo e cinico di adesso. La guerra contro i turchi l'aveva cambiato, ma non avevo mai capito bene come. Né lui sapeva cosa fosse successo a me: non lo sapeva nessuno, nemmeno Marfa. L'avevo conosciuto nel giugno del 1805. Era passionale, radicale e ottimista, al pari di tanti giovani russi istruiti dell'epoca, che avevano sentito parlare delle libertà godute dagli occidentali. Benché lo zar sostenesse a parole la nuova coalizione contro Bonaparte, le nostre truppe esitavano a passare all'azione. Io e Dmitrij ci eravamo offerti volontari per le missioni di ricognizione, e passammo molte ore insieme a osservare e valutare i movimenti nemici; però il nostro esercito non attaccava mai frontalmente i francesi. L'Inghilterra,
grazie a Nelson, combatteva meglio per mare, quindi per tutto quell'autunno l'Austria rimase sola davanti all'avanzata napoleonica, con scarso successo. La farsesca cattura di decine di migliaia di soldati austriaci a Ulm segnò l'apice della loro inettitudine. Noi russi avremmo visto la prima battaglia quell'inverno, ad Austerlitz, con oltre centocinquantamila uomini. Ma Austerlitz non sarebbe stata la nostra prima battaglia. La sera prima, Vadim ci convocò tutti. Era la missione più pericolosa che avessimo mai affrontato. Vadim ci condusse dietro le linee francesi per un'ultima ricognizione delle loro posizioni. Fummo scoperti e aggrediti: una quindicina di loro contro noi quattro. Poteva essere una strage, ma eravamo tutti ottimi spadaccini. Eravamo rimasti fianco a fianco, e i nostri aggressori erano così viziati dalla superiorità dei loro fucili da dimenticare come si usava la sciabola. Ne avevo già uccisi due quando un colpo assestato con l'elsa di una terza spada mi gettò a terra. Vidi una lama francese sopra di me, pronta al colpo fatale, poi Dmitrij si gettò fra noi: l'arma rimbalzò sul suo braccio sollevato e gli ferì la guancia destra. Sentii il suo sangue piovermi in faccia, ma quel taglio non lo ostacolò: ferì allo stomaco il francese, quindi gli assestò un fendente mortale al collo. A quel punto io mi ero già rialzato. Altre volte, in altre battaglie, un commilitone mi ha salvato la vita, e sono certo di averne salvata qualcuna io stesso; nella foga della battaglia non c'è tempo di notare queste cose. Tuttavia quella volta lo notai, e il coraggio di Dmitrij avrebbe sempre avuto un'importanza speciale per me. Quando si trovò di fronte me, Vadim e Dmitrij - ancora feroce nonostante le ferite -, il francese sopravvissuto batté in ritirata. Solo allora ci accorgemmo che avevano preso prigioniero Maksim. O almeno, così speravamo; comunque non vedevamo cadaveri. La cattura di Maksim opprimeva in particolare la coscienza di Vadim, che si sentiva responsabile per aver coinvolto un diciottenne senza esperienza in una missione del genere; ma non avevamo tempo per concederci il lusso di provare rimorsi. Il giorno dopo ebbe luogo la battaglia di Austerlitz: un'umiliazione per l'Austria e la Russia, e forse il più grande trionfo
di Bonaparte. Noi tre eravamo sotto il comando del generale Buxhoeveden; facevamo parte dell'armata che doveva occupare il villaggio di Telnitz e da lì muoverci verso destra per aggirare il fianco di Napoleone. Conquistare il villaggio fu semplice, ma presto divenne chiaro che rischiavamo di essere accerchiati, anziché accerchiare. Restammo in attesa di ordini. Altrove, la battaglia procedeva altrettanto male. Il poco gelo e la neve che a noi russi, se non agli alleati austriaci, dovevano essere familiari, fornivano invece un vantaggio ulteriore a Bonaparte. Forse i russi non sono abituati alla poca neve. Solo a pomeriggio inoltrato era giunto l'ordine di ritirata. Il terreno dietro di noi era un unico, enorme acquitrino, che per fortuna il freddo aveva ricoperto di ghiaccio. Da tempo avevo perso di vista Vadim e Dmitrij e avevo abbandonato il mio cavallo; con centinaia di altri stavo attraversando il lago ghiacciato di Satschan quando i francesi diedero fuoco all'artiglieria pesante: palle di cannone riscaldate prima di lanciarle, per sciogliere il ghiaccio su cui atterravano. Intorno a me i soldati si inabissavano nell'acqua gelida. Sotto i piedi vidi passare cadaveri. Qualcuno ancora vivo, che con le mani intorpidite cercava un varco. Tentai di tirarne su alcuni, ma non era facile. Alla fine caddi anch'io, e mi salvai per un pelo issandomi su un lastrone. A quel tempo avevo ancora tutte le dita; oggi forse non ne sarei capace. Ero terrorizzato. Rinunciai ad aiutare i compagni e feci di tutto per raggiungere l'altra sponda del lago. Saltavo da un blocco all'altro, avendo scoperto che un movimento costante era più sicuro dei passi cauti. Se c'erano altri soldati in equilibrio precario su quei blocchi di ghiaccio, non li notai: pensavo solo a tornare sulla terraferma. Ci riuscii, ma girandomi vidi una scena orribile: uomini che barcollavano e cadevano in acqua, poi tentavano di raggiungere la riva a nuoto, aggirando i corpi degli annegati. Un paesaggio di ghiaccio che mi avrebbe fatto odiare l'inverno per sempre. Solo due giorni dopo appresi che anche Vadim e Dmitrij erano usciti vivi da Telnitz. Lo stesso giorno, gli austriaci chiesero a Bonaparte di deporre le armi. Un anno e mezzo più tardi, la Russia siglò la pace con la Francia. Una pace temporanea e strategica. I due imperatori si incontrarono su una zattera sul fiume Niemen, a Tilsit,
vicino al confine russo, e lo zar Aleksandr riuscì a far credere a Bonaparte che la Russia avrebbe deposto le armi per sempre, lasciando alla Francia il predominio sul continente. Si svolsero gli ultimi scambi formali di prigionieri, e Maks tornò a casa con il sorriso sulle labbra. Era stato sfortunato a non essere rilasciato mesi prima, ma era costume trattenere alcuni prigionieri fino alla pace definitiva. Maks non pareva serbare rancore ai francesi per questo. La ferita sulla guancia di Dmitrij lasciò una cicatrice profonda, che lui nascose facendosi crescere la barba. Poco dopo Austerlitz, ero tornato a Pietroburgo e avevo sposato la mia fidanzata, Marfa. La conoscevo da sempre. Suo padre e il mio erano chinovnik, funzionari governativi, al Collegio delle Manifatture. Suo padre aveva ottenuto il rango di consigliere titolare, il mio era segretario collegiale, un gradino più in basso nella gerarchia. Entrambi erano oltre il livello che assegnava un titolo nobiliare personale, e si apostrofavano l'un l'altro «vostra nobiltà», come faceva chiunque li incontrasse. Ma nessuno dei due aveva conseguito il rango più elevato, la nobiltà ereditaria, quindi i rispettivi figli avrebbero dovuto guadagnarsi l'aristocrazia da soli; io con i miei sforzi, Marfa attraverso il matrimonio. Eppure l'idea che lei potesse sposare Aleksej Ivanovič Danilov non sembrava sfiorare nessuno, tantomeno me. Poi, d'un tratto, pochi giorni prima della mia mobilitazione in Austria, mi ero accorto di quanto fosse bella. Non era un'opinione diffusa, ma mentre parlavamo a una festa in casa dei suoi genitori, all'improvviso la vidi sotto una luce diversa. Non saprei spiegarne la causa, comunque le chiesi di sposarmi quella sera stessa. In seguito mi confidò che mi amava da anni, e che quel giorno sua madre l'aveva aiutata per ore a pettinarsi e truccarsi, nella speranza di far colpo su di me. Non me la presi, anzi ne fui onorato, e non me ne pentii. Quando nacque il nostro unico figlio, meno di dieci mesi dopo il matrimonio, fu Marfa a propormi di chiamarlo Dmitrij, in onore dell'uomo che mi aveva salvato la vita. Negli anni successivi, noi quattro ci eravamo incontrati spesso, però da tempo non combattevamo insieme. Io e Dmitrij eravamo
schierati contro i turchi sul Danubio (dove faceva caldo), ma non fianco a fianco. Vadim era in Finlandia (e lì era freddo). Non avevo mai saputo cosa avesse fatto Maks nel frattempo. Nel 1812 ci preparavamo di nuovo ad affrontare Bonaparte. Mi ero guadagnato il diritto ereditario al titolo di «vostra alta nobiltà», anche se preferivo di gran lunga quello militare di «capitano». Ero di stanza nella Russia occidentale all'interno della Prima Armata, sotto il generale Barclay de Tolly, al confine con il Gran Ducato di Varsavia. Con mia grande gioia, anche Dmitrij e Maks furono inviati lì. Bonaparte scelse di interpretare la nostra presenza come una minaccia di attacco, e riempì il ducato di truppe. Aleksandr aveva fatto richiesta che le truppe arretrassero fin dietro il Reno, senza aspettarsi l'obbedienza dell'imperatore, e infatti quello non obbedì. Il 12 giugno Bonaparte attraversò il fiume Niemen. Varcò per così dire il Rubicone: le truppe francesi erano ora sul suolo russo e lo zar giurò che non avrebbe mai più parlato con l'imperatore finché non se ne fossero andate. Ma andarsene non era un'opzione contemplata nella strategia di Napoleone; non allora, perlomeno. Quattro giorni dopo era a Vilna; e nelle settimane seguenti nelle sue mani caddero una città dopo l'altra sulla lunga strada verso Mosca. Dopo aver espugnato Vilna, si diffuse la paura che Bonaparte potesse rivelarsi inarrestabile, quindi si ideò ogni sorta di missione irregolare per fermarlo. Vadim si offrì volontario insieme a noi, ragion per cui si riformò la vecchia squadra, anche se non facemmo molto fin dopo la sconfitta di Smolensk, quando Barclay de Tolly ci richiamò con altri piccoli gruppi simili al nostro. Presto sarebbe stato rimpiazzato come comandante supremo dal generale Kutuzov, e questi avrebbe organizzato la resistenza da qualche parte, prima che i francesi giungessero a Mosca. Barclay ci spiegò il suo piano: era molto diverso da quello di Kutuzov, ma il tempo avrebbe dato ragione a lui. L'aspetto fisico dei due uomini era diverso quanto le loro tattiche: Barclay aveva sedici anni di meno, muscoli guizzanti, gli occhi e il sorriso rivelavano la saggezza celando al contempo la furbizia. La testa calva dava un'impressione di maturità. Di solito parlava in modo chiaro e diretto; quel giorno però ci illustrò il piano prendendosi gioco dello stile affettato di Kutuzov.
«Avete mai visto bambini giocare sulla spiaggia?» ci aveva chiesto. Il suo accento non tradiva le origini scozzesi, ma lasciava trapelare gli studi compiuti in lingua tedesca. «Affrontano senza paura le onde più alte, anche dieci volte più alte di loro. Come? Risalgono la spiaggia. Si ritirano alla stessa velocità con cui avanza l'onda. A ogni passo, l'onda li segue e si indebolisce. Se restassero dove sono, scoprirebbero che l'onda è molto più potente di loro, e li travolgerebbe. Ma se indietreggiano con regolarità, l'onda si attenua e si abbassa fino a diventare un solletico ai piedi. La Francia è una grande onda, signori, ma la Russia è una spiaggia molto vasta. «Il piano, dunque, prevede di non fare nulla. I francesi avranno già abbastanza problemi a sfamarsi, senza che noi sacrifichiamo vite russe nel tentativo di scacciarli. Tuttavia il generale Kutuzov sostiene che se non far niente è un buon piano, allora fare qualcosa è di sicuro un piano migliore. Intende affrontare direttamente Bonaparte prima che arrivi a Mosca; non sappiamo ancora dove. Il vostro compito è accertarvi che quando questo scontro avverrà, i francesi siano già indeboliti. Infiltratevi dietro le loro linee. Tagliate loro i rifornimenti. Costringeteli a guardarsi alle spalle. Fate sembrare ancor più vasta quella spiaggia.» Le sue parole erano sensate, e si adattavano perfettamente alla nostra specialità. Tutti e quattro eravamo tornati subito a Mosca. Mi venne in mente che Dmitrij doveva aver convocato quei suoi amici ancor prima della riunione con il generale Barclay. Sembrava convinto che sarebbero arrivati. Ripiegai la lettera di Marfa e la misi in un cassetto. Presi in mano l'icona che mi aveva mandato. Gli occhi del Salvatore, ricolmi di carità, non sembravano biasimarmi per i miei incontri con Domnikiia. Prima di partire mi guardai allo specchio. I miei occhi erano meno compassionevoli. Quella settimana passai quasi tutto il tempo a chiacchierare con Maks e gli altri. Ultimamente Maks mi ricordava Dmitrij all'epoca del nostro primo incontro: pieno di idee, pieno di umorismo. Umorismo Dmitrij ne aveva ancora, però lo indirizzava soprattutto alle idee altrui. Era poco più anziano di me, ma sembrava avesse esaminato
ogni idea mai concepita, concludendo che fossero tutte spazzatura. Chissà come, eravamo finiti a parlare del figlio neonato di Napoleone, il cosiddetto «Re di Roma». «Non vedo a cosa gli serva un figlio. Politicamente, intendo» stava dicendo Vadim. «Aveva una moglie che amava, ma l'ha messa da parte per questa Marie-Louise, che pare non ami affatto, solo per avere un erede.» Nelle parole di Vadim percepii un'analogia con la mia vita. Avevo un bambino che amavo e una moglie che avrei dovuto amare, invece mi intrallazzavo con una sgualdrina che, guarda caso, somigliava a Marie-Louise. Di sicuro Vadim non stava pensando alla mia vita, ma, come accade in situazioni del genere, mi inserii nella conversazione in modo deciso prima che qualcuno potesse leggermi in volto il senso di colpa. «È una medaglia a due facce» obiettai. «Forse avrà dato avvio a una dinastia, però ciò che è bene per una dinastia non è necessariamente bene per il capostipite. Anche se Bonaparte dovesse morire, con un figlio il futuro della Francia è assicurato; quindi la Francia ha meno bisogno di proteggere Bonaparte. Guardate cos'è successo al padre del nostro zar.» «Ma lui era pazzo» osservò Vadim. «Quando gli inglesi hanno un re pazzo» intervenne Maks, «nominano un reggente. Quando noi abbiamo un re pazzo, lo strangoliamo nel suo letto.» «Maks!» lo ammonì Vadim con un ruggito. Nessuno sapeva cosa fosse accaduto esattamente allo zar Pavel, in ogni caso era meglio non dar retta alle dicerie, neppure alle più diffuse. «Questo dimostra solo l'inutilità del re inglese» disse Dmitrij. «Ma è questa la loro forza» proseguì Maks. «Chi sono gli inglesi più grandi che si sono opposti a Napoleone? Pitt? Nelson? Entrambi morti. Eppure l'Inghilterra continua a marciare. Se morisse Napoleone, la Francia continuerebbe a marciare? È per questo che Napoleone deve fondare una dinastia. Finché la Francia non sarà abbastanza forte da rendere il suo imperatore superfluo quanto un re inglese.»
«O quanto uno zar russo?» chiesi io, anticipando gli altri. In bocca a Vadim, quella domanda sarebbe sembrata un'accusa di tradimento; in bocca a Dmitrij un'incitazione al tradimento. «A proposito, avete sentito di quelle morti nel sud?» domandò Maks, cambiando argomento. «Tutte lungo il Don, verso nord fino a Voronez. Si parlava di pestilenza, però adesso le voci sono altre.» Maks raccontò una storia che conoscevo già. Mi domandai dove l'avesse sentita. Non impiegai molto a scoprirlo. Quella sera andai a trovare Domnikiia. Entrando, mi scontrai con Maks che usciva. Mi parve imbarazzato. «Maksim Sergeevič! Sono stupito, credevo non ti interessasse questo tipo di cose.» «Infatti no» ribatté lui discreto, «non più che mangiare o respirare. Ma queste cose vanno fatte lo stesso.» Sorrise quando entrambi pensammo che il più imbarazzato avrei dovuto essere io, un uomo sposato. Non c'era scherno sul suo viso, solo la consapevolezza del paradosso. «Ora capisco perché Dominique ti piace così tanto. Per favore, non parlarne con Vadim e Dmitrij.» Se ne andò. Se quelle parole fossero uscite da chiunque altro avrei inteso ogni genere di doppio senso, di sfida e rivalità; venendo da Maks, le presi alla lettera. Era come se avesse detto: «Ora so perché la vodka ti piace così tanto». Di vodka ce n'è molta, quindi chi potrebbe essere geloso al pensiero di doverla condividere? Ma per me furono devastanti. La mia unica, disperata consolazione era che l'aveva chiamata Dominique, non Domnikiia. Fui costretto ad aspettare perché ero arrivato poco dopo un altro cliente. Avrei potuto scegliere un'altra ragazza, per dimostrare che non m'importava; purtroppo era vero il contrario. Dovevo esserle sembrato molto freddo. Ci sdraiammo vicini, non nel solito abbraccio silenzioso che seguiva gli amplessi. «Qualche problema, Ljosa?» «Ti sarei grato se non andassi più a letto con Maks.» Era una richiesta semplice, ma lei si infuriò. Saltò giù dal letto e
attraversò la stanza di corsa. Tanta rabbia mi era incomprensibile. «Chi diavolo sei per chiedermi questo, Aleksej? Non sono una schiava. Non mi possiedi, mi prendi in affitto. Mi paghi per un'ora, mi avrai per un'ora. Sono tua, farò tutto quel che vuoi. Se mi paghi per ventitré ore, lo farò per ventitré ore; ma quell'unica ora al giorno è ancora mia, e andrei a letto con Bonaparte in persona, purché mi pagasse.» Fece una pausa, stordita dalla propria collera. «Io non ti vengo a dire: uccidere ifrancesi va bene, però ti prego, Aleksej, non uccidere quel francese lì\ oppure: uccidi i francesi ma lascia stare i turchi. È un lavoro. Se scegli di fare quel mestiere, non puoi scegliere le parti che preferisci.» Si sedette e si calmò un po'. «Meglio se te ne vai, ho altri clienti.» «Possiamo vederci domani?» «È il mio lavoro, non posso impedirtelo» ribatté bruscamente. Poi sorrise, riflettendo sul paradosso. «Non hai capito cosa ti ho detto un minuto fa?» Me ne andai di ottimo umore. L'avevo fatta arrabbiare. In tutte le nostre conversazioni fino a quel giorno lei aveva mantenuto la compostezza: forse mi aveva detto la verità, o forse ciò che volevo sentirmi dire. Ma ora, in qualche modo, l'avevo punta sul vivo. Mi aveva rivelato un pezzetto di verità su se stessa, e con quanta forza, con quanta eloquenza! Adesso c'era ancora una piccola questione di cui dovevo assolutamente occuparmi. «Per favore, non andare a letto con Dominique» chiesi a Maks quella sera, mentre passeggiavamo da soli. «Ci sono tante altre ragazze tra cui scegliere.» Lui parve sorpreso, comunque non discusse. «Va bene.» Esitò un momento, credendo di dover aggiungere qualcosa. «È molto bella, credo lo siano tutte.» Proseguimmo la nostra passeggiata. Maks ruppe il silenzio: «Parliamo di te, sai».
«Parlate?» «Io e Dominique.» Forse l'aveva fatto per gentilezza, per blandirmi, eppure suscitò in me le immagini mentali più bizzarre e spiacevoli, e chissà per quale strana associazione mi tornò in mente la storia di Edipo. «Gesù, Maks, no! Lascia perdere. Hai detto che non la vedrai più, va bene così. Di certe cose è meglio tacere.» Lo salutai e tornai nella mia stanza; mi sedetti per scrivere una lettera a Marfa. Poi mi resi conto di averle riportato quasi solo menzogne. Strappai il foglio. Il giorno dopo, tra me e Domnikiia le cose sembravano tornate alla normalità, anzi meglio. Immaginai che la faccenda fosse dimenticata. «Oggi è venuto Maks, ma è andato con Margarita.» «Va bene» risposi con circospezione, chiedendomi dove volesse andare a parare. «È un buon amico, ti rispetta.» «Per te va bene?» «Che il tuo amico ti faccia un favore se glielo chiedi? E perché non dovrebbe andarmi bene?» «Allora tu non sei mia amica?» «Vuoi che lo sia?» chiese, fissandomi negli occhi. Riflettei un momento, ma prima che potessi rispondere, lei soggiunse: «È un aut aut». Aggrottai la fronte e sorrisi. «E sia.» Poi cambiai argomento. «Maks mi ha detto che si raccontano altre storie sulla pestilenza lungo il Don.» «È vero. Però non è una pestilenza, e non è solo lungo il Don.» «Come fai a saperlo?» mi incuriosii. «Il modo in cui muoiono. Girano voci... Alcuni parlano di gole tagliate, altri di strangolamento, altri ancora di bestie feroci. C'è
anche chi sostiene che i francesi abbiano inviato dei sabotatori per attaccarci da sud.» Sembrava improbabile, d'altronde era molto simile a ciò che io, Vadim, Dmitrij e Maks dovevamo fare contro i francesi. «Come mai sei così informata?» «Molti mercanti arrivano a Mosca da Tuia, lasciando le mogli al sicuro, a casa. O non tanto al sicuro, adesso che inizia a morire gente anche lì.» «A Tuia?» «Sì. Ho cercato le città sulla mappa: sono tutte sul Don. Rostov, Pavlovsk, Voronez.» Mi sorrise. «Ho cercato anche Pietroburgo. È bella?» «Non come qui» risposi in tono asciutto. Ero concentrato su ciò che mi stava dicendo. «E ha raggiunto Tuia?» «Oggi qualcuno ha menzionato Serpukhov... non ho ancora guardato dov'è.» «Serpukhov?» Ero scioccato. «Sono solo ottanta verste da qui.» «Davvero? Sei preoccupato?» Cercai di rassicurarla. «No, no. Sono solo dicerie. Sai come sono i contadini... Qualcuno si busca un raffreddore ed ecco scoppiata la peste.» Ma quando me ne andai sentivo ancora il bisogno di convincere me stesso. Ben presto, tuttavia, le mie preoccupazioni furono scalzate da una novità. Quella sera arrivarono gli Opričniki.
Capitolo 3 Erano tredici in tutto. Stavo scrivendo a Marfa, quando sentii bussare alla porta della mia stanza. Era Maks. «Sono arrivati.» Nella luce fioca della lampada a olio di Maks, vidi una figura alta - immaginai fosse il loro capo - salutare Dmitrij con l'abbraccio caloroso di un vecchio amico: un abbraccio che Dmitrij non ricambiò appieno. Era un uomo maestoso, tra i cinquanta e i settantanni: la fronte ampia e ricurva era sottolineata da sopracciglia folte sopra un naso sottile, aristocratico. Le narici arcuate erano quasi nascoste da lunghi baffi di un grigio scuro, che contribuivano a dargli un'aria trasandata. I baffi, come i capelli, erano tagliati storti, forse perché era rimasto senza specchio nel lungo viaggio. Aveva l'aspetto di un nobile decaduto, e mi ricordò gli aristocratici francesi in fuga che negli anni della mia giovinezza arrivavano a Pietroburgo. Dmitrij ce lo presentò. L'uomo sembrò mimare e al contempo esasperare l'atteggiamento del mio compagno nei nostri confronti. A Vadim mostrò rispetto, lo salutò come un veterano ne saluta un altro. Di Maks quasi non si curò. Quando arrivò a me, mi strinse la mano con forza e mi diede una pacca sulla schiena. Notai le dita larghe e tozze, le unghie sporche, in contrasto con i suoi modi raffinati. «Aleksej Ivanovič, sono molto lieto di conoscervi, finalmente» disse con un largo sorriso. Naturalmente parlammo tutti in francese. Nessuno di noi conosceva la loro lingua, e non c'era motivo di ritenere che lui o gli altri sapessero il russo; inquesto avevano qualcosa in comune con gran parte dell'aristocrazia russa. «Dmitrij Fetjukovič mi parlava spesso di voi, quando combattevamo fianco a fianco contro i turchi» proseguì. «I suoi amici sono miei amici.» Terminate le presentazioni, lo straniero tacque. Fu Vadim a riprendere il discorso. «Perdonatemi, ma non ci avete detto il vostro nome.» «Il mio nome?» fece lui, come sorpreso all'idea di poterne avere uno. Guardai Dmitrij, lui certamente doveva conoscerlo; ma il mio
compagno teneva gli occhi bassi, imbarazzato. «Mi chiamo Zmeevio» annunciò lo straniero con improvvisa risolutezza. Non era un nome di origine russa, anche se in quell'istante mi sovvennero lontani ricordi d'infanzia. Il significato letterale era semplice, «figlio del serpente». Immaginai fosse una traduzione del nome nella sua lingua. Ci seguì nella stanza privata della locanda che usavamo sempre per le riunioni. Dopo di lui entrarono anche i suoi dodici compagni. Se Zmeevič aveva i modi di un ufficiale che aveva visto giorni migliori, gli altri mi parvero uomini che non si erano mai emancipati dai bassifondi. Erano tutti trasandati e vestiti senza alcuno stile, o al massimo in quello dei contadini. Entrarono nella stanza a passi lesti, le spalle ricurve, senza guardare in faccia nessuno. Si sarebbe potuto scambiarli per una banda di carcerati, se non fosse che il rifiuto di guardarci non era dovuto al rispetto e neppure alla paura, semplicemente al disinteresse assoluto. Non erano alti di statura, ma robusti e massicci: mi avrebbero intimorito in uno scontro puramente fisico, non in uno d'astuzia. Certo non mi sarei imbattuto in tipi del genere al circolo ufficiali. Solo l'ultimo dei dodici si mostrò interessato a ciò che lo circondava. Era piuttosto alto, quasi quanto Zmeevič, e spiccava per i lunghi capelli biondi; gli altri li avevano corti, di sicuro per scongiurare i pidocchi. Entrando si guardò intorno e scrutò i volti di noi quattro ufficiali russi. Poi abbassò gli occhi e si sedette nella stessa postura ingobbita che i suoi compagni non avevano mai abbandonato. Maks mi sussurrò all'orecchio una sola parola: «Opričniki». Non davano mostra di una forte personalità, tuttavia l'aspetto minaccioso - Maks l'aveva notato quanto me - giustificava il nome proposto da Dmitrij. Zmeevič, in piedi, iniziò a parlare in un francese corretto, ma formale e con uno strano accento. Aveva una voce cupa, che sembrava uscirgli non dalla gola bensì dalla profondità del petto. Era come se, da qualche parte dentro di lui, enormi macine da mulino sfregassero l'una contro l'altra, o la lastra di pietra di un sarcofago venisse lentamente spostata.
«Di nuovo bentrovati, amici vecchi e nuovi. Salve a voi, Vadim Fëdorovič» - mentre parlava si voltò e si inchinò brevemente a ciascuno di noi - «a voi, Maksim Sergeevič... a voi, Aleksej Ivanovič, e naturalmente a voi, il nostro amico più caro, Dmitrij Fetjukovič. «Io e Dmitrij Fetjukovič, e alcuni dei nostri amici qui presenti» disse, indicando i dodici con un gesto sgraziato della mano «abbiamo combattuto insieme alcuni anni fa contro l'antico avversario d'Oriente. I turchi sono nemici della vostra amata Russia da più tempo di quanto possiate ricordare, e le prime, famose battaglie della mia giovinezza ormai lontana servirono a difendere la mia terra da quegli stessi invasori pagani. Oggi però la minaccia che incombe su tutti noi proviene da dove meno ce la saremmo aspettata: da ovest. «Il turco miscredente» continuò, e parve non notare il turbamento in cui la parola miscredente aveva gettato i dodici, evidentemente molto pii «non può essere incolpato della sua eresia, perché l'ha appresa dagli avi; Bonaparte invece ha condotto il proprio Paese ad abbandonare il Cristo, che da secoli conosceva e amava». Mi accorsi che Maks stava per puntualizzare l'errore insito in quell'affermazione e gli posai una mano sul braccio per farlo tacere. Non eravamo alla riunione di un circolo politico, e la sua precisazione non sarebbe parsa appropriata. Tuttavia sorprese anche me che Zmeevič volesse spostare il conflitto sul piano religioso. Mi sembrava quasi un
excusatio non petita.
«Ora quindi dobbiamo affrontare il nemico comune» proseguì Zmeevič. «Voi russi avete osteggiato Bonaparte con più coraggio di ogni altro europeo e credetemi, non ho alcun dubbio, alcun dubbio» - chiuse gli occhi e scosse la testa; iniziava a trovarsi a suo agio nel ruolo del comiziante - «che continuerete così. Vi porto soltanto dodici uomini. Valorosi, forti. Ma pochi e me ne vergogno.» La retorica era quasi intollerabile. Osservai i miei amici. Dmitrij era sprofondato nella sedia e si sforzava di mostrare l'indifferenza di chi aveva già sentito quelle parole. Maks era chino in avanti e ascoltava attentamente. Se non l'avessi conosciuto così bene, avrei potuto crederlo interessato; in realtà sapevo che incamerava ogni parola solo per analizzarla, dissezionarla e demolirla. Vadim si stava
mordendo un dito per non ridere. Proprio lui, che ai suoi tempi aveva pronunciato banalità analoghe, che aveva assistito con aria rapita ai discorsi di tanti generali russi, era riuscito in fretta a scorgere la vera natura superficiale e vanesia di quel valacchiano. «Sono uomini diffidenti» proseguì Zmeevič, con un accenno di emozione. «Uomini di valore, di virtù, di forza, sì, e anche uomini d'onore. Sono capaci di grandi atti di... di (posso dirlo?) eroismo. Ma, per motivi che non mi è concesso rivelare, preferirebbero che le loro vere identità restassero ignote. Questi sono i nomi con cui li conoscerete: Pètr. Andrej. Ioann.» Man mano che venivano chiamati con i rispettivi pseudonimi, gli uomini fecero un rapido cenno del capo, senza mai mostrare il minimo interesse, sempre con l'aria di credere che quel nostro incontro fosse solo un noioso preambolo rispetto a una qualche grande causa per la quale avrebbero combattuto. «Filipp. Varfolomej. Matfej.» I nomi scelti erano russi, e l'accento con cui parlava la nostra lingua era ancor meno convincente di quello con cui si esprimeva in francese. Ciò nonostante, capii subito l'origine degli pseudonimi: erano i nomi dei dodici apostoli. Anche stavolta l'enfasi sul cristianesimo sembrava intesa più a schernire che a glorificare. «Simon. Iakov Zevedajnic. Iakov Alfejnic.» Vadim cominciò a tossire, presumo per non ridere. «Foma. Faddej. Iuda.» Quando fu pronunciato «Foma» notai uno scambio di sguardi tra l'uomo così chiamato e alcuni suoi compagni. Riuscivo a immaginare il momento in cui erano stati assegnati i nomi: Pétr, Simon, Matfej e quasi tutti gli altri erano stati felici della scelta, Foma invece non voleva essere il Foma - il «Tommaso» che dubita - del gruppo. Immaginavo ci fossero state controversie anche per «Iuda», ma capivo che per quegli uomini era un onore, non una disgrazia, ricevere il nome del traditore. Iuda era l'uomo alto e biondo. «Mi dispiace solo» continuò il capo «di essere troppo vecchio e
stanco per combattere al fianco di questi dodici valorosi. Potreste dubitare» e i suoi occhi si posarono su Maks, che - ne sono certo - ne dubitava a priori, «che così pochi possano ottenere così tanto. Eppure credetemi... hanno tutto ciò che serve. Bramano il successo, hanno smania di successo.» Uno degli Opričniki, forse Matfej - non li distinguevo ancora l'uno dall'altro - fece un'osservazione nella loro lingua indecifrabile. Credo riguardasse la parola smania. Undici su dodici risero di cuore, com'è solito dei soldati che ascoltano una barzelletta sporca; alcuni non la capivano, altri non la trovavano divertente, tutti ridevano perché così bisognava fare. Iuda no. Non rideva, anche se il suo volto tradiva un sorriso saccente, come quello di un adulto senza figli che sorride alla battuta di un bambino, divertito dall'ingenuità ma non commosso dall'innocenza. Quando colsi il breve sguardo d'intesa tra lui e Zmeevič, mi sentii a disagio. Qualsiasi motivo avessero gli altri undici valacchiani per trovarsi in Russia, quei due puntavano a un obiettivo più grande, ne ero certo. Il buonumore che avevo condiviso con Vadim evaporò. Zmeevič riprese quasi subito a parlare. «Ora devo lasciarvi.» Fece una pausa, credo si aspettasse le nostre proteste all'idea della sua partenza. Non ve ne furono. «Mi attende un lungo viaggio di ritorno in patria e voi, amici miei, avete molto lavoro da fare.» Vadim si alzò in piedi, rammentando i doveri di ospite. «Non vi fermate almeno per stanotte? Potete partire domattina.» L'uomo scoppiò in una risata falsa. «Amico mio, mi prendete troppo alla lettera. Sicuramente non ho intenzione di viaggiare di notte in questi tempi pericolosi, ma ho già un alloggio in un'altra parte della città. Me ne andrò all'alba, ma per noi questo è un addio.» Noi quattro uscimmo in corridoio per accomiatarci da lui. Fui felice di lasciare quella stanza, di allontanarmi dalla presenza strana, oppressiva, dei dodici Opričniki. Quando chiusi la porta, cominciarono subito a parlare a voce bassa nella loro lingua, in tono cospiratorio. Anche la presenza di Zmeevič in quel corridoio buio era un'esperienza che non volevo protrarre troppo.
Ci strinse la mano e ci baciò su entrambe le guance. Non appena il suo viso si accostò al mio, fiutai un miasma fetido. Il puzzo del suo alito. Rammentai quando, anni prima, mi ero trovato sull'orlo di una fossa comune dove i corpi di soldati valorosi giacevano da molti giorni. Lo stesso odore di decomposizione saliva dalle profondità del suo stomaco. Come quel giorno, avvertii l'urgenza di fuggire, accompagnata da un terrore ancor più intenso, che non sapevo descrivere. Ma riuscii a non ritrarmi. Zmeevič strinse la mano a Dmitrij, e io notai per la prima volta il vistoso anello al suo dito medio. Raffigurava un drago con il corpo d'oro, gli occhi di smeraldo e la lingua rossa e biforcuta; la coda si avvolgeva intorno al dito. D'un tratto dubitai di avere inteso bene il suo nome. Anziché «figlio del serpente» poteva chiamarsi «figlio del drago», forse addirittura «figlio della vipera». Si fermò sull'uscio a scambiare le ultime parole con Vadim. «Ora che me ne vado, lascio il comando a Pètr» disse a voce bassa ma chiara. Maks mi sussurrò sprezzante all'orecchio: «Pietro come suo successore? Crede di essere Gesù Cristo». Non ero dell'umore giusto per condividere l'ironia. L'uomo non avrebbe capito la frase espressa in russo neppure se l'avesse udita distintamente, eppure rivolse a Maks lo sguardo deluso di un ospite anziano ingiustamente insultato, facendolo raggelare. «E non badate troppo ai nomi» continuò Zmeevič, squadrandoci l'uno dopo l'altro con un leggero sorriso, forse per accogliere un elogio inespresso per l'umorismo dimostrato nella scelta dei nomignoli. «Non pensate esista un significato recondito nel nome Iuda. Non è lui il traditore.» Pronunciò quest'ultima parola guardando Maks. Ciò detto se ne andò, e il gelo parve avvolgere in una morsa tutto l'edificio. Percepii in Maks la stessa paura fredda, viscerale, che anch'io provavo. Vadim indugiò un istante, poi lasciò sfogare l'ilarità repressa. Fu un sollievo ridere con lui, per quanto poco ne avessi voglia. Dmitrij si limitò a sorridere della nostra immaturità, forse perché era abituato alle stravaganze del suo amico. Solo Maks restò serio. Era spaventato, pensieroso.
«Mi dispiace, Dmitrij» disse Vadim. «È tuo amico, e sono certo che è un grand'uomo, ma ha un'aria...» Cercò una parola educata. «Ampollosa?» suggerì Dmitrij in tono neutro. Vadim annuì. «E quei bizzarri patronimici? Zevedajnic? Alfejnic?» «Credo che come ospite si senta in dovere di parlare la nostra lingua» spiegò Dmitrij. «Dovreste congratularvi per il suo impegno, anche se ogni tanto commette qualche errore.» Non potevamo fargliene una colpa se non conosceva i nomi esatti degli apostoli in russo. In vita mia non avevo mai visto una traduzione completa della Bibbia in russo, e dubitavo ne esistesse una. «E il suo, di nome?» aggiunsi io ridendo. «No, quello è giusto» mi corresse Vadim. «Zmeevič è un personaggio delle vecchie ballate... Tugarin Zmeevič.» Ecco perché mi era suonato familiare! «Ed era l'eroe o il cattivo?» chiesi. Vadim si strinse nelle spalle. «Non penso che il nome derivi da lì, comunque» spiegò Dmitrij in tono calmo e condiscendente. «Sono gli stessi uomini con cui hai combattuto?» domandò Maks, che aveva recuperato la parola, ma ancora non riusciva a condividere il nostro buonumore. «Quattro di loro, mi pare» rispose Dmitrij. «Pétr, Ioann, Varfolomej e Andrej, ma all'epoca non si facevano chiamare così. E Foma mi pare di averlo già visto...» Dmitrij sbiancò all'improvviso. Si riprese in un attimo. «No, non era con loro. A essere onesto, è difficile ricordare. Nessuno mi aveva fatto una grande impressione. Non sono persone molto loquaci.» «Sarebbe il caso di rientrare» ci fece presente Vadim. Nella stanza, l'atmosfera si era un po' alleggerita. I dodici Opričniki avevano ricominciato a ridere, alla maniera delle comitive maschili: per farsi vedere ridere dagli altri. Il nostro ingresso, se fu notato, non li interruppe subito. Tornammo a sederci, e Vadim si rivolse a Pétr in un francese lento e scandito.
«Pensiamo di dirigerci a ovest. Accerchieremo i francesi e taglieremo loro i rifornimenti.» «Noi preferiamo lavorare da soli.» La risposta di Pétr fu brusca; il suo francese ottimo e con un buon accento. «Nessun problema» disse Vadim, parlando con più scioltezza, «ma non conoscete bene la zona. Vi servirà il nostro aiuto almeno in questo.» «D'accordo» annuì Pétr. «Agiremo di notte. Così il nemico dorme e lo cogliamo alla sprovvista.» «Ragionevole. Viaggeremo di giorno e attaccheremo di notte.» «No.» Pétr spiegò la tattica facendola sembrare una lista di pretese. «Il corpo deve adeguarsi alle esigenze del lavoro. Noi dormiamo di giorno e uccidiamo di notte. Se per voi non è comodo, ce la caveremo da soli.» Vadim rivolse uno sguardo a noi tre: non incontrò obiezioni. «Molto bene» disse, ed estrasse alcune carte. «Queste sono mappe della zona a ovest di Mosca. Bonaparte attualmente si trova vicino alla città di Viasma.» Ne srotolò una e indicò la località. «Inoltre ho segnato una serie di luoghi in cui possiamo incontrarci se veniamo separati. Partiremo domani sera.» Pétr e i compagni si mostrarono poco interessati alle carte. «Quanti uomini ha Bonaparte?» Vadim si girò verso di me in cerca di una risposta. Consultai i miei appunti. «Circa centotrentamila, almeno così stimiamo.» La cifra suscitò negli Opričniki un'ondata di entusiasmo, chissà per quale motivo. I numeri contano poco quando si agisce nell'ombra. Che fossero dodici contro mille oppure centomila, erano sempre e comunque in una minoranza disperata. Si scambiarono qualche commento e alcuni sghignazzarono in modo quasi lascivo. «E quanti sono i russi?» chiese uno degli altri - Foma, mi parve - in tono di scherno. Vadim alzò una mano per impedirmi di rivelare l'informazione, ma non avevo intenzione di farlo. Pétr sbottò in una singola parola carica di rabbia, rivolto al compagno, quindi si voltò verso di noi.
«Ovviamente non abbiamo bisogno di saperlo, era solo curiosità.» «Bene» disse Vadim. La discussione si protrasse fino a tarda notte: cercammo di descrivere nei dettagli i piani e la dislocazione dei francesi. Nessuno di loro ci fece domande sulle nostre forze in campo. Restammo d'accordo che si sarebbero divisi in quattro gruppi. Vadim avrebbe accompagnato Faddej, Filipp e Iakov Zevedajnic. Dmitrij avrebbe preso Pétr, Varfolomej e Ioann. Maks aveva Andrej, Simon e Iakov Alfejnic e a me rimasero Foma, Iuda e Matfej. Se ne andarono che era quasi l'alba. Come il loro capo, anch'essi ci comunicarono di aver già trovato alloggio, ma non spiegarono dove. Ci accordammo per rivederci quella sera, il 16 agosto, alle nove, per avviarci verso ovest. Non avevo intenzione di seguire il consiglio di Pétr e abituarmi a dormire di giorno, ma la nostra riunione notturna mi obbligò a farlo. Mi svegliai appena dopo le dieci. Terminai la lettera a Marfa. Potevo rivelare ben poco sui dettagli del mio lavoro, o anche del mio tempo libero, quindi ne risultò un testo alquanto noioso. Menzionai che stavo per partire da Mosca e non sapevo quando sarei tornato, ma non parlai dei nuovi commilitoni. Tornai a trovare Domnikiia. I miei pensieri erano rivolti al viaggio imminente, e alla pochezza della mia lettera a Marfa, quindi non parlai molto. Anche con Domnikiia, come con Marfa, era più saggio non discutere i dettagli del mio lavoro. «Parto questa sera» le annunciai. «Perché?» chiese lei, lasciando intendere che se l'aspettava. «C'è una guerra, ricordi?» Un sarcasmo gratuito, da parte mia. Lei venne a sdraiarsi al mio fianco, mi accarezzò i capelli e mi fissò negli occhi. «Tornerai?» «Certo» risposi, sapendo perfettamente che a quella domanda nessun soldato poteva rispondere con sicurezza. «Quando?» «Prima che Bonaparte arrivi qui.» Voleva essere una battuta, ma non mi riuscì molto bene, perché Bonaparte a Mosca non era una
cosa tanto assurda. Quel pomeriggio Domnikiia era distratta, poco partecipe: sembrava avesse dimenticato tutti i trucchi e le affettazioni che la rendevano così brava a illudere i clienti che per lei quello non fosse un lavoro. Quel giorno era uguale in tutto e per tutto alle altre prostitute con cui ero stato: un pezzo di carne, femminile e docile. Non sapevo spiegare se la prospettiva della mia morte l'avesse turbata davvero, o se avesse deciso di non recitare il suo ruolo perché non c'era speranza di fare ancora affari con un uomo così vicino alla morte. Mentre mi rivestivo lei prese in mano l'icona che mi aveva mandato Marfa, e fissò gli occhi del Salvatore. «La porti soltanto da due giorni... Chi te l'ha data?» Non era il caso di rispondere; non perché temessi di offendere Domnikiia, in fondo doveva essere abituata a certe cose, ma perché menzionare mia moglie in quella stanza mi pareva offensivo nei riguardi di Marfa. «Ce l'ho da molto, ma visto che ora il pericolo è più vicino...» «Oh» mormorò lei, pensierosa, e poi, forse volendo cambiare argomento: «Maks ha detto...». Mi fissò. Maks le aveva rivelato che era stata Marfa a spedirmi l'icona? Non saprò mai cosa avrebbe detto perché proseguì: «Maks mi ha detto che non sei superstizioso». «Maks parlava per sé.» Mi fece passare la catenella sopra la testa e mi sistemò al collo l'icona. «Non la toglierai mai, vero? Promettimelo.» «Perché?» «Ti proteggerà. Promettimelo!» «Lo prometto.» Facile da dire! Portare l'icona, non mi avrebbe fatto del male, benché dubitassi che una qualsiasi divinità potesse cambiare atteggiamento nei miei confronti grazie a un pezzetto di metallo appeso al collo. Ma era un conforto sentire l'icona sul petto, per tutt'altro motivo. Era un monito: mi ricordava la mia superstiziosa moglie che me l'aveva spedita, e la mia superstiziosa amante che insisteva perché la portassi.
Uscii dal bordello e mi imbattei in un gruppo di sottufficiali, forse otto e nessuno sopra i vent'anni, incerti nei pressi dell'ingresso. Cercavano il coraggio di entrare. Come molti ragazzi, e forse soprattutto i giovani soldati, sembravano considerare la questione nei termini della relazione fra loro stessi, piuttosto che di quelle ben più stimolanti che avrebbero potuto intrattenere con le signorine della casa. Avevo più o meno la stessa età quando avevo messo piede la prima volta in un bordello, ma c'ero andato da solo. Avevo trovato la cosa molto piacevole, e anche allora non l'avevo reputata un'esperienza da condividere con gli amici. Ma per quei ragazzi il problema era la reputazione all'interno del gruppo; un rito di passaggio verso l'età adulta in cui era importante farsi vedere compiere certi atti più che gli atti stessi o il piacere che ne seguiva. Anche i più decisi fra loro restavano ad aspettare gli altri. I più riluttanti cedevano pur di non essere lasciati indietro. Parlavano di cosa avrebbero fatto lì dentro e ne ridevano; ne ricavai la netta impressione che parlarne, sia prima sia dopo, fosse il vero divertimento. Mi rammentò qualcosa in cui mi ero imbattuto di recente. Lo stesso senso di famelica attesa che avevo notato la sera prima negli Opričniki; anche loro erano impazienti di andare in guerra, ma pure di apparire impazienti agli occhi dei compagni. Ogni soldato combatte, in ultima analisi, per i suoi commilitoni, per i suoi amici; tuttavia alcuni lo fanno per essere accettati, per dimostrarsi uomini agli occhi di altri uomini. Quei ragazzi si sarebbero emancipati da un simile atteggiamento, ne ero sicuro. Per gli Opričniki, invece, era troppo tardi. Io, Vadim, Dmitrij e Maks ci incontrammo poco prima del nostro appuntamento con gli Opričniki. Non avevamo segreti da discutere, ma credo che tutti presagissimo sventure, e inoltre volessimo accomiatarci perché non ci saremmo più rivisti per molti giorni. Per me e Vadim rituali simili erano frequenti. Dmitrij, sotto la maschera di noncuranza disincantata, e Maksim, con il suo ostentato distacco da intellettuale, non si trattennero dall'abbracciarci. Mentre cavalcavamo fianco a fianco mi tornarono in mente altri
quattro cavalieri. Era ridicolo cercare di stabilire chi tra noi fosse Guerra, Carestia o Pestilenza, però rabbrividii quando notai il pallore verdastro del cavallo di Maks. Stavamo avanzando nel buio verso il confine occidentale della città per il nostro incontro al Cancello di Dorogomilovskij, e le case di legno lungo la strada mi parvero incombere su di noi. I dodici uomini che ci aspettavano non erano tanto misteriosi da incutermi timore, eppure ebbi l'impressione che la città tentasse di mettermi in guardia. Ormai prossimi alla meta, cercai di scorgere nell'ombra le figure degli Opričniki, e mi convinsi di vedere dodici sagome nere a cavallo disposte a semicerchio; mi sforzai di riconoscere i singoli individui. All'improvviso - eravamo quasi arrivati - mi accorsi che era solo un gioco d'ombre. Non c'era nessuno. «Eccellente!» borbottò sarcastico Vadim, e si girò verso Dmitrij, per chiedergli ragione. Dmitrij non era in grado di giustificarsi, ma quando tirò il fiato per offrire una qualche spiegazione, tutti voltammo la testa di scatto nella direzione da cui eravamo venuti, e da cui ora si udiva un trapestio di zoccoli. Dall'oscurità emerse un cavaliere solitario. Era Iuda. «C'è stato un cambiamento di programma» annunciò. «Noi viaggiamo più veloci da soli, quindi andremo al fronte per conto nostro. C'è una locanda appena fuori Gzatsk che avete segnato sulla mappa come luogo d'incontro. Ci vediamo lì fra tre giorni.» Detto ciò, e senza lasciarci il tempo di ribattere, se ne andò. Vadim ribolliva di una rabbia silenziosa, ma non poteva fare nulla per intervenire sulla nuova situazione. «A loro piacerà viaggiare di notte» brontolò, «certo non vuol dire che dobbiamo farlo anche noi. Stanotte restiamo a Mosca, e partiamo all'alba. Due giorni e mezzo bastano e avanzano per arrivare a Gzatsk.» «A proposito, ho indagato un po' su quel Tugarin Zmeevič» annunciò Maks mentre trottavamo sulla strada per Gzatsk. «E cos'hai scoperto?» chiesi io. «Che era il cattivo.»
«Presumo, quindi, che sia stato punito come meritava» intervenne Vadim. «Oh, sì» disse Maks. Si rivolse a me. «Grazie a un Aljosa, Aljosa Popovič. L'ha ucciso con una freccia.» Se Ljosa era un diminutivo poco usato, era ancora più raro che mi chiamassero Aljosa, comunque non mi andava di spaccare il capello in quattro. «Allora immagino che il nostro Zmeevič sia un lontano discendente di quel Tugarin» commentò Vadim, sforzandosi di rimanere serio. «Non penso» ribatté Dmitrij con una nota di scherno nella voce. «È una semplice coincidenza.» «Già il suo nome russo è una bella coincidenza» osservò Maks, «dal momento che russo non è.» Dmitrij non raccolse la provocazione, anche se chiaramente Zmeevič era uno pseudonimo tanto quanto i nomi dei dodici apostoli. «Spero solo che il nostro Ljosa non lo uccida! Non è questo il modo di trattare un alleato» disse Vadim. «Stando alla fiaba, Tugarin Zmeevič sedeva su una panca d'oro trasportata da dodici cavalieri. Dodici, Dmitrij» continuò Maks. Avrei preferito che fosse Vadim l'amico di Zmeevič: canzonare Dmitrij non era divertente. Se ne stava in sella al suo cavallo e non apriva bocca. «Immagino che gli Opričniki abbiano lasciato fuori la panca, l'altra sera» dissi io. «Non sarebbe stato facile portarla su per le scale.» Maks fece un largo sorriso e Vadim sbottò in una risata. «È solo una coincidenza!» ripetè Dmitrij, spronando rabbiosamente il cavallo per allontanarsi da noi. Gli altri forse non se ne erano accorti, ma io ero assai preoccupato per Dmitrij e i suoi legami con gli Opričniki. Due giorni e mezzo ci bastarono per arrivare a Gzatsk, ma furono quasi sufficienti anche per Bonaparte. Prima di giungere alla locanda, poco dopo le nove di sera del 19, avevamo già incontrato una fiumana di gente in fuga dalla città: correva voce che i francesi
sarebbero arrivati già il giorno dopo. Stavolta gli Opričniki si presentarono all'appuntamento. Non erano certo dell'umore giusto per i convenevoli, ma decisi a iniziare subito il lavoro. Ci dividemmo nei gruppi stabiliti a Mosca. Mi accomiatai da Vadim, Dmitrij e Maks in modo sbrigativo. Condussi Iuda, Foma e Matfej fuori città verso sud, prima di svoltare a ovest verso il fianco destro dell'avanzata francese. Il viaggio si svolse perlopiù in silenzio. I miei tentativi di conversare con Foma e Matfej non furono neppure respinti, semplicemente ignorati. Iuda era un po' più loquace, ma solo su questioni legate alla nostra missione. Suppongo fosse saggio da parte loro: viaggiavamo al buio in una direzione che ci avrebbe condotti alle linee nemiche, senza sapere esattamente dove fossero quelle linee. Era meglio tacere e non rivelare la nostra posizione con chiacchiere inutili. Cavalcammo per diverse ore, occhi e orecchie sempre all'erta. Poco dopo la mezzanotte, sorse nel cielo la luna crescente. La luce ci avrebbe aiutati ben poco, e poteva svelare la nostra presenza al nemico. Giungemmo in vista degli accampamenti francesi molto prima di quanto avessi previsto: era vero quel che si raccontava sulla velocità della loro avanzata. Smontammo da cavallo e io puntai il cannocchiale sulle tende a circa mezza versta. «Quanti ne vedi?» chiese Iuda. «Solo una dozzina ancora svegli, però ci sono molte tende» risposi. «In totale potrebbero essere più di cento uomini.» «Troppi, direi» ribatté lui pensieroso. «O almeno, troppi per il primo attacco. Forse è meglio iniziare da qualche soldato solitario». Mi parve inutile. Da un lato, attaccare un accampamento di cento soldati era impossibile; d'altronde, attaccare singoli soldati non avrebbe avuto alcun impatto. E poi si presentavano problemi di natura tattica. «Trovare uomini isolati potrebbe non essere semplice» gli feci presente. «Resteranno vicini al...» Fui interrotto da un grido in lingua francese: «In piedi!». Guardandomi alle spalle vidi dapprima una baionetta, poi il
moschetto a cui era attaccata e, infine, il soldato di fanteria che lo imbracciava. In tutto ce n'erano sei, a circondare noi quattro. «Posate le spade e i fucili!» continuò l'ufficiale in comando. Lo svantaggio non era incolmabile, ma se avessimo opposto resistenza difficilmente saremmo sopravvissuti (in particolare mi premeva la mia sopravvivenza). «Fate come dice» ordinai in tono calmo ai tre Opričniki. Era la prima volta che tentavo di impartire loro un ordine diretto. Non ebbi molto successo: mentre iniziavo a slegare il fodero della spada, Matfej si avventò sul francese più vicino. Due fucili gli spararono addosso. Non riuscii a capire se l'avessero mancato entrambi o se l'avessero solo graffiato, fatto sta che Matfej scaraventò a terra il soldato. Seguendo il suo esempio, anch'io, Iuda e Foma passammo all'attacco. Il fante che mi aveva puntato l'arma addosso era distratto, e non ebbi difficoltà a respingere la sua baionetta e ad avvicinarmi abbastanza da usare la spada. Poi mi voltai verso l'altro uomo, che aveva già fatto fuoco con il moschetto e non aveva la baionetta montata, quindi sarebbe stato una preda facile. Mentre mi giravo, il calcio del suo fucile si abbatté con forza sulla mia tempia. Mi accasciai a terra. L'ultima cosa che vidi fu il fante francese che alzava ancora il fucile per darmi il colpo di grazia, e dietro di lui Iuda, il braccio sollevato e pronto all'attacco e la bocca spalancata in un grido silenzioso.
Capitolo 4 Quando rinvenni era giorno. Ero solo. Cercai di ricordare cosa fosse successo. Rividi solo immagini di inaudita ferocia. Avevo assistito a pochi secondi di combattimento prima di perdere i sensi, ma forse ero ancora semicosciente mentre rimanevo sdraiato a terra. I ricordi che mi invasero la mente non erano normali scene di battaglia, bensì qualcosa che mi era sembrato (e sembrato è la parola giusta, perché non rammentavo di aver visto nulla) un branco di lupi che sbranava la preda, anziché uno scontro fra soldati. E poi il sangue. Tanto sangue. Mi alzai a sedere e avvertii un forte dolore alla testa: mi stesi di nuovo. Portai una mano alla tempia dov'ero stato colpito. C'era un livido, non perdevo sangue. Il vero problema era il dolore dentro il cranio. Mi tirai su di nuovo, stavolta più lentamente, e mi guardai intorno. Avevo ragione a proposito del sangue: l'erba era tinta di rosso. Dmitrij aveva detto che gli Opričniki erano guerrieri spietati. Vidi macchie di sangue sulla manica del mio cappotto. Mi controllai il corpo ma non trovai ferite, quindi quel sangue non era mio. Non c'erano cadaveri nei paraggi, né francesi né Opričniki. La prima domanda era: chi aveva vinto la battaglia? Se avessero vinto i francesi, di certo sarei stato ucciso o fatto prigioniero. Ma se avevano vinto i nostri alleati, perché mi avevano lasciato lì? D'altro canto, era palese che a loro non andava di averci appresso, quindi forse avevano approfittato dell'occasione. Ero solo, e loro dovevano essere lontani molte verste. Mi alzai, cercando di ignorare il mal di testa. Le macchie di sangue e le tracce sull'erba indicavano che i cadaveri erano stati trascinati via. Seguii le orme fino a un boschetto lì vicino, ma le macchie finirono presto e i segni di trascinamento diventarono indistinguibili sul terreno accidentato. Tornai al punto in cui si era svolto il combattimento. La mia spada e il mio cannocchiale erano a terra, accanto al tronco di un albero. Non potevo averli lasciati cadere lì, quindi ce li aveva piazzati qualcuno. Anche questo modo di fare era più facile
da attribuire a un Opričnik che a un francese. Mi voltai verso l'accampamento: i tizzoni ardevano ancora, ma non restavano altri segni dei francesi. Probabilmente erano già a Gzatsk. A quel punto l'unica opzione praticabile era radunarci. Purtroppo mi accorsi di un ulteriore problema: il mio cavallo era sparito. Ormai ero giunto alla conclusione che gli Opričniki fossero usciti vincitori dallo scontro di quella notte; dovevano aver preso il mio cavallo, pur lasciandomi la spada. I conti sembravano tornare... con una spada ero in grado di difendermi, però senza un cavallo era impossibile raggiungerli e interferire con i loro piani. E perché mai volevano liberarsi di me? Sì, ero stato testimone della loro estrema abilità nel combattimento corpo a corpo. Comunque non mi ritenevo tanto inutile da essere d'intralcio. C'era qualcosa che volevano tenerci nascosto: una tecnica di combattimento segreta, forse. E immaginavo che Dmitrij sapesse di cosa si trattava. Non c'era tempo per indugiare oltre. Mi aspettava un lungo viaggio di ritorno verso est, da solo e a piedi. Il nostro appuntamento successivo (fissato in base all'ipotesi che i francesi continuassero ad avanzare, come in effetti stavano facendo) era a Gorjackino, a nord della strada che da Smolensk portava a Mosca: la stessa lungo la quale stavano avanzando Bonaparte e il suo esercito. Io mi trovavo a sud di tale strada. Avevo due possibilità: dirigermi a est più in fretta possibile e poi tagliare la strada ai francesi, oppure passare a ovest di Gzatsk, dietro i francesi, sperando di evitare la loro retroguardia, e da lì spostarmi a est. Andare a finire dietro le linee francesi non pareva l'opzione migliore per ritrovare i miei compatrioti, quindi optai per la via più diretta e mi diressi verso est, a sud della strada per Mosca. Si dimostrò la scelta più saggia. Bonaparte fece riposare l'esercito a Gzatsk per tre giorni, e io scoprii di essere stato fin troppo cauto: mi ero tenuto ben lontano da una zona che non era ancora in mano al nemico, rallentando la mia avanzata. Durante il primo giorno di viaggio non accadde nulla. Dormire
all'aperto non era troppo scomodo, nel clima ancora tiepido della fine di agosto. Mi svegliai presto e procedetti verso est, a una buona velocità considerando il terreno accidentato e boscoso, coprendo circa venticinque verste al giorno. Appena dopo il tramonto del secondo giorno, udii uno scricchiolio alla mia destra. Ero forse inseguito? Un singolo rumore insolito nella foresta non basta ad annunciare la presenza di qualcuno - la natura è piena di rumori -, comunque ne avevo già sentiti altri. Non ricordavo quanto tempo fosse passato dal primo, ma il fatto che provenissero sempre dalla stessa direzione rispetto a me, benché io mi muovessi, mi suggeriva che chiunque fosse stava deliberatamente tenendo il mio passo. Il sole era già tramontato, anche se c'era ancora luce. La luna non era ancora sorta, ma sarebbe stata una luna nuova; per tutta la notte il buio sarebbe stato totale. Mi accampai e sfruttai l'ultima luce per raccogliere legna e accendere un fuoco, non per scaldarmi ma per illuminare - e darmi qualche speranza - nel caso il mio inseguitore decidesse di attaccarmi. Sedetti accanto al fuoco, fissando le fiamme e aprendo bene le orecchie. In Russia i boschi sono rumorosi; però i suoni notturni sono molto diversi da quelli diurni. Il continuo sottofondo di uccelli, che di giorno passa inosservato, aveva iniziato a placarsi. Solo i gufi restavano svegli. Gli animali della notte cominciarono a muoversi, perlopiù creature piccole. I passi di un essere umano che si aggirava nei pressi del mio accampamento, appena oltre la luce del fuoco, e che mi guardava, aspettava, tramava, erano inconfondibili. L'uomo (presumevo fosse un uomo e non una donna, anche se il mio udito non è così fine da poter fare una simile distinzione) si fermò oltre il punto in cui mi trovavo, sul sentiero che avrei imboccato la mattina dopo, e per circa mezz'ora non si mosse. Tatticamente era quello il momento di agire, comunque non mi serviva la tattica per saperlo. L'istinto umano - la paura - mi diceva che non volevo farmi trovare raggomitolato a terra, addormentato e alla mercé di chicchessia. Se dovevo morire, volevo farlo da sveglio. Mi diressi verso il punto in cui credevo si trovasse l'uomo, e urinai contro un albero lì vicino. Restai lì più a lungo del necessario, per dar modo agli occhi di abituarsi al buio e lasciare che l'aria fresca
preparasse il mio corpo all'azione. Mentre tornavo indietro lo intravidi proprio davanti a me, nascosto in una cavità del terreno. Gli passai sopra come se non lo avessi scorto, ma subito dopo mi voltai e gli sferrai un calcio su un fianco. Emise un lamento e rotolò via, ebbi comunque tempo di piazzargli un altro calcio tra le costole. Quando si fu alzato in piedi, io avevo già sguainato la spada. Nella luce fioca del fuoco lontano non ero in grado di vederlo in faccia, tuttavia notai il baluginare della lama di un coltello. La mia spada non parve intimidirlo: mi gettò a terra immobilizzandomi il braccio con la mano sinistra mentre alzava il coltello per colpire. Scoprii la sua identità quando mi fu vicino. Era uno degli Opričniki, Iuda. Lui non mi aveva riconosciuto e nei suoi occhi brillava una furia omicida. Gli tirai una ginocchiata all'inguine e me lo scrollai di dosso. «Iuda!» gli gridai, ma neppure adesso mi riconobbe, e di nuovo mi si avventò contro. La mia spada gli si abbatté di piatto sul polso, e il suo coltello schizzò via perdendosi nel buio. Lo scaraventai a terra con un calcio al petto e gli puntai la sciabola alla gola. «Iuda! Sono io, Aleksej Ivanovič!» Dai suoi occhi la collera svanì lentamente, ma nello stesso istante avvertii un brivido di paura. L'ultima volta che avevo visto Iuda, non era solo. Potevo battere un uomo, ma dov'erano Matfej e Foma? Nel buio della foresta, se fossero stati a pochi passi, non avrei saputo prevedere l'attacco. «Avvicinati al fuoco!» Gli mostrai la strada con la punta della spada. Lui si sedette accanto al fuoco massaggiandosi il polso. «Mi dispiace, Aleksej. Quando mi hai attaccato, l'istinto ha avuto la meglio.» Quella pulsione omicida mi parve disumana, comunque lasciai correre. «Perché mi seguivi?» «Ti ho visto appena prima che ti accampassi. Ci sono soldati francesi qui in giro, il tuo fuoco poteva attirare la loro attenzione. Ho ritenuto opportuno tenerti d'occhio.» «Tenermi d'occhio?» Risi. «E poi tentare di uccidermi?» «Sei stato tu ad attaccarmi.» Sembrava offeso. «Se avessimo voluto
ucciderti, non pensi che l'avremmo fatto mentre eri svenuto a Gzatsk?» Aveva ragione, però quel «noi» mi aveva ricordato un'altra faccenda. Scrutai il buio senza vedere nulla. «Dove sono Matfej e Foma?» «Ci siamo separati stamattina» rispose lui, guardandosi intorno quasi sperasse di vedere i suoi amici. «Stanno sferrando alcuni attacchi ai francesi.» Si voltò di nuovo verso di me; gli lessi in volto la provocazione. «Abbiamo appuntamento stanotte.» «Dove?» «Più avanti.» Indicò a est con un cenno del capo. Non avrei scoperto niente altro ponendo domande dirette. «Qui la campagna dev'essere molto diversa da quella a cui siete abituati» osservai. Lui rifletté un momento, come se non si fosse mai posto il problema. «In un certo senso. Noi veniamo dalle montagne, ma giù in pianura le cose non sono così diverse.» «Dovete aver visto molta campagna nel viaggio che vi ha portati fin qui.» Sembrava loquace, almeno rispetto agli altri Opričniki, quindi speravo di apprendere qualcosa sul loro passato mantenendomi sul vago. «Siamo venuti in barca, non c'era molto da vedere» rispose lui. Mi parve di percepire un moto d'affetto per la sua patria, ma un istante dopo la sua voce tornò limpida e annoiata. «Sono di Pietroburgo, conosco bene il mare.» Era un'esagerazione da parte mia: ci avevo nuotato, però non ero mai stato a bordo di una nave. «Hai parenti lassù?» «Sì.» Sorrisi, pensando al piccolo Dmitrij e forse un po' anche a Marfa. Mi venne in mente il suo nasino alla francese e lo sguardo intenso nei suoi occhi scuri. Mi venne voglia di parlare di lei, ma come non avevo voluto farlo con Domnikiia, non lo avrei fatto neppure con Iuda. Proseguii nell'interrogatorio. «Naturalmente sarete venuti da sud. Da dove siete salpati? Da Costanza?»
«Da Varna. Abbiamo attraversato il Mar Nero fino a Rostov.» Fui colto da un brivido. Rostov era vicina alla foce del Don. Le dicerie riferite da Domnikiia sulla morte che risaliva il fiume verso Mosca corrispondevano perfettamente al viaggio degli Opričniki. «E poi avete risalito il Don?» chiesi, sperando di avere conferma del loro tragitto. «Meglio che me ne vada.» Iuda aveva capito che stavo cercando di raccogliere informazioni. «Devo vedere i miei compagni.» «Lavorate sempre di notte?» Lo dissi con una nota di sarcasmo che nasceva dal rimpianto: nel tentativo di interrogarlo avevo perso un compagno. Nella buia notte russa, nei boschi pieni di lupi e di francesi, l'amicizia può valere più dell'intelligenza. «È una tecnica efficace» rispose. Non potevo fare nulla per trattenerlo. Era troppo tardi, almeno in quell'occasione, per porgere un ramoscello d'ulivo. «Sono diretto a Gorjackino» gli dissi. «Dovrei arrivare entro dopodomani. Gli altri saranno già lì.» «Cercheremo di esserci anche noi» replicò lui, alzandosi. Poi si portò la mano alla cintura. «Il mio coltello!» Ricordai di aver intravisto il suo strano coltello mentre lottavamo. Il bordo superiore della lama era seghettato, con i denti all'indietro, come un coltello da cacciatore, ma c'era qualcos'altro, qualcosa di strano in quell'aggeggio, che non riuscivo a ricordare. «Non sarà difficile trovarlo» dissi, prendendo dal fuoco un ramo di pino da usare come torcia. «No, vado io» insistette lui, avviandosi nell'oscurità senza di me. Tanta reticenza ovviamente mi rese ancor più desideroso di vedere quell'arma. Gli corsi dietro con il ramo infuocato in mano. Ben presto raggiunsi il punto in cui avevamo lottato. Avevo il vantaggio di aver visto cadere il coltello quando l'avevo disarmato, ma lo notai solo un istante prima che lui lo raccogliesse. Ebbi giusto il tempo di capire cosa lo rendeva tanto strano. Aveva due lame; non una da ogni lato del manico, come in alcune armi orientali, bensì due lame parallele, quasi che due coltelli
identici fossero stati legati per l'impugnatura. Iuda se lo infilò alla cintura prima che potessi osservarlo meglio. Poi si alzò e mi porse la mano. «Be', arrivederci, Aleksej Ivanovič. Ci rivedremo tra due giorni, spero. E quando ci incontreremo, non aggredirmi... potresti non essere altrettanto fortunato.» L'ultima frase, iniziata come una battuta, terminò come una minaccia. Mi stesi vicino al fuoco, anche se non avevo sonno. Alla fine mi appisolai con la spada in mano. Tuttavia, pensai, era ingiusto temere che Iuda tornasse ad attaccarmi mentre dormivo. Come mi aveva detto, c'erano state molte opportunità per uccidermi, se l'avesse voluto. Ma perché volerlo? Gli Opričniki erano dalla nostra parte, in questa guerra. Sembrava illogico viaggiare tanto solo per rivoltarti contro i tuoi alleati. Questo pensiero mi fece tornare in mente la strada lungo cui erano venuti, risalendo il Don: la stessa lungo la quale, secondo il racconto di Domnikiia, dapprima era passata una pestilenza e poi c'era stata una serie di attacchi di bestie feroci. Gli Opričniki non avevano portato con sé cani o lupi; ora che conoscevo il modo in cui Iuda e gli altri combattevano, ce ne sarebbe stato bisogno? mi chiesi. Dopo altri due giorni di cammino, e un'altra notte di sonno inquieto, giunsi a Gorjackino. Ci eravamo dati appuntamento presso una fattoria accanto alla strada principale. Quando arrivai, nel tardo pomeriggio, i francesi distavano ormai poche verste, quindi gli abitanti della zona avevano già abbandonato le loro case, dileguandosi nell'entroterra. Esplorai l'edificio, e ben presto trovai un messaggio inciso su una parete: 8 - 24 -18 - M Maks era stato lì, nell'ottavo mese, il ventiquattresimo giorno, la diciottesima ora: meno di un giorno prima. Era un sistema che avevamo ideato a Mosca, prima di incontrare gli Opričniki, per
comunicare tra noi durante l'inseguimento del bersaglio mobile, la Grande Armée. L'idea era stata di Vadim. Si era ispirato ai «piccoli guerrieri» della penisola iberica, che da anni tormentavano le truppe di Bonaparte senza mai costituirsi in un esercito organizzato. (La lieta novella non ci aveva ancora raggiunti, nel frattempo le cose si erano finalmente messe male per Bonaparte in Spagna: pochi giorni prima, Wellington aveva occupato Madrid.) Avevamo studiato le mappe della zona in cui credevamo di dover operare, e che d'altronde ci era già molto familiare. Scegliemmo piccoli villaggi, particolari formazioni geografiche ed edifici isolati e ne stilammo una lunga lista, assegnando a ciascuno una combinazione unica di lettera e numero. Da quel momento, ogni nostro appuntamento poteva essere descritto con una data, un'ora e il codice della località. Bastavano quattro informazioni: mese, giorno, ora, località. Se uno di noi arrivava, poteva lasciare un messaggio inciso su un tronco d'albero o scritto con il gesso su un muro, spiegando quando era stato lì, e un altro per indicare luogo e data dell'incontro successivo. Il messaggio andava firmato con l'iniziale dell'autore. Se c'era bisogno di trasmettere ulteriori informazioni si poteva lasciare una lettera, nascosta da qualche parte, indicandone la presenza con il carattere «П», l'iniziale di peesmo. Avevamo scelto luoghi distanti fra loro, tipo Orsa, Tuia e Vladimir; ma anche nella città di Mosca, pur sperando che i francesi non ci arrivassero mai, avevamo selezionato dozzine di località, e quindi dato una copia della lista anche agli Opričniki. E così il messaggio di Maks mi diceva che era stato lì, ma non dove fosse andato. Non c'era più traccia di lui. Forse si era rimesso in cammino, forse sarebbe tornato, e potevano ancora arrivare Dmitrij e Vadim. Aspettai. Vadim giunse per primo, seguito poco dopo da Dmitrij. Avevano ancora i loro cavalli, quindi erano meno stanchi di me. Mostrai loro il messaggio di Maks e riassunsi brevemente le mie avventure dall'ultima volta che ci eravamo visti. Vadim vi ritrovò molti elementi familiari. «Be', almeno hai visto i tuoi Opričniki molto più di quanto io
abbia visto i miei» brontolò. «Mi sono svegliato dopo la prima notte e se n'erano già andati.» «E quella storia del "dormiamo di giorno e uccidiamo di notte"?» chiesi io, in una maldestra imitazione dell'accento di Pétr. «Pensavo di essere riuscito a dissuaderli, almeno finché non ci fossimo avvicinati al nemico» rispose Vadim, «ma penso che mi stessero ingannando. Probabilmente se ne sono andati appena mi sono addormentato.» «E cos'hai fatto da allora?» «Niente. Ho tenuto d'occhio i francesi. Tanto valeva tornarmene a Mosca.» «E cosa combinano i francesi?» indagò Dmitrij. «Si preparano a una grande battaglia, domani, fuori da Borodino, un villaggio poco a sudest di qui.» Srotolò una mappa e ci mostrò il punto esatto. «E noi li affronteremo?» domandai io. «Pare di sì. È tutta un'idea di Kutuzov.» «Vinceremo?» Vadim si strinse nelle spalle. «Se vinciamo, li fermeremo. Altrimenti, be', dovremo organizzare qualche forma di resistenza prima che arrivino a Mosca.» «E tu, Dmitrij?» feci io. «Quanto ci hanno messo i tuoi Opričniki a seminarti?» «Non mi hanno seminato» rispose lui. «Voglio dire, se ne vanno in giro a fare il loro lavoro, ma si tengono in contatto. Per esempio, so dove sono ora: stanno tendendo un'imboscata su una delle strade da cui i francesi fanno arrivare i rinforzi. Non è lontano da qui.» Doveva aver letto lo scetticismo sui nostri volti, perché aggiunse: «Venite, vi faccio vedere». Dmitrij ci condusse a piedi verso sud, in direzione delle linee francesi, finché arrivammo sulla cima di un piccolo crinale. Era buio pesto ormai, e non c'era la luna a mostrarci ciò che il nostro
compagno voleva farci capire; ma accanto alla strada sotto di noi c'era una fattoria con una finestra illuminata. Dalla strada non proveniva alcun rumore. «Allora, dove sono?» chiese Vadim. «Aspetta» rispose Dmitrij. «Da qui passano le truppe francesi. Sta' a vedere cosa succede quando arrivano.» Dopo la mia prima, breve battaglia al fianco degli Opričniki, mi ero ripromesso di domandare a Dmitrij cosa sapesse sul loro conto, cosa ci avesse tenuto nascosto. Ora sembrava che non ci fosse più bisogno di chiedere, perché stavo per scoprirlo con i miei occhi. Dopo circa mezz'ora udimmo i tonfi cadenzati di piedi in marcia. Un piccolo plotone di fanteria francese, una trentina di soldati, stava avanzando. Il primo e l'ultimo della fila avevano una lanterna. I soldati ci avevano quasi superati quando, nel silenzio totale, si aprì una porta della fattoria e ne uscirono due sagome scure. I due agguantarono l'ultimo uomo della fila e lo trascinarono all'interno della casa. Il tutto si svolse in pochi secondi, senza il minimo rumore, come la lingua di un rospo che cattura una mosca ignara. Qualcuno, verso il fondo del plotone, notò dapprima che era sparita la luce, non il compagno. Si voltò e gridò al tenente di fermarsi. «Erano Varfolomej e Ioann, credo» commentò Dmitrij. «Non mi pare una perdita significativa per l'esercito francese» obiettò Vadim, sardonico. «Non è ancora finita» lo ammonì Dmitrij. Il plotone aveva rotto i ranghi per scoprire cosa fosse successo all'uomo scomparso. Vedemmo le stesse due figure scure uscire di nuovo dalla casa, e stavolta portarono via il primo della fila, e con lui l'unica lanterna rimasta. Quasi nello stesso istante si spense la luce nella fattoria. Noi e il plotone francese restammo al buio, riuscendo comunque a sentire i rumori. I francesi iniziarono a chiamarsi l'un l'altro. Dapprima semplici domande tipo «Cos'è successo?» e «Siete lì?». Poi si udirono le grida: i brevi strilli soffocati di uomini colti di sorpresa e uccisi rapidamente. Poiché ogni urlo indicava la morte di un uomo, le voci calarono di
numero, diventando più stridule e disperate. Verso la fine, rimase solo una giovane voce francese. «Siete lì? Tenente? Signore? Chi c'è? Jacques? Chi c'è? Sono...» Un breve strillo pose fine anche a questa conversazione unilaterale. Ho visto e sentito morire centinaia di uomini, e ne ho uccisi molti, ma quei trenta e quella voce solitaria mi turbarono più di ogni altra scena simile a cui avessi assistito. Dmitrij, invece, espresse la sua ammirazione. «Impressionante, eh? Trenta uomini annientati da tre. E in, quanto, due minuti? Non basterà a vincere la guerra, d'accordo, ma male non farà di certo.» Avevamo notato solo due figure, quindi evidentemente Dmitrij ne sapeva più di noi. Una volta spente le luci, avrebbero potuto esserci molti Opričniki là fuori, e io e Vadim non ce ne saremmo accorti. «Francesi» riuscì a borbottare cupo Vadim. Loro erano gli invasori, noi avevamo diritto di difenderci con ogni mezzo a nostra disposizione. «Andiamo laggiù» propose Dmitrij, entusiasta. Lo seguimmo giù per il crinale fino alla strada. Ero sempre più convinto che la scena fosse stata architettata a beneficio mio e di Vadim. Con tutta probabilità gli Opričniki impiegavano abitualmente quelle tecniche, ma in quell'occasione sapevano di avere un pubblico, sapevano che Dmitrij ci avrebbe condotti sulla scena per vederli al lavoro. L'intento era di nascondere tanto quanto di rivelare. Capii che non avrei saputo altro da Dmitrij. Quando arrivammo alla strada, i miei occhi si stavano abituando al buio. Una luce fioca filtrava dalla porta aperta. Intorno a noi restava solo una mezza dozzina di corpi. Una sagoma - forse Ioann uscì di corsa dalla casa e iniziò a trascinare dentro un moribondo. La gamba del soldato fremeva negli ultimi spasmi di vita. Ioann gridò qualcosa, e da dentro provennero le risate degli altri due. Di nuovo mi tornarono in mente le giovani reclute fuori dal bordello a Mosca. Dmitrij si avvicinò alla casa a passo lesto, e lo vidi confabulare fitto con Pétr - il terzo uomo - sull'uscio. Questi gli rispose qualcosa, tanto che il nostro compagno si irrigidì e si voltò a guardarci. Tornò
a rivolgersi a Pétr, che annuì ed entrò, uscendone poco dopo con un fagotto. Dmitrij ci raggiunse. «Li stanno togliendo dalla strada perché non li vedano le altre pattuglie» spiegò, anche se il ragionamento era ovvio per chiunque avesse un minimo di esperienza militare. Mi domandai se ce lo stesse dicendo per nascondere qualche motivazione più oscura e vergognosa; non me ne venne in mente alcuna. O forse non era nulla di turpe: semplicemente un segreto, come avevo sospettato. Capivo il loro desiderio di riservatezza - la mia stessa vita era dipesa spesso da un segreto - ma non bastava a sopprimere la mia curiosità. «Pétr mi ha dato queste» aggiunse Dmitrij, sollevando il fagotto. Poi, prima che potessimo aprire bocca, si arrampicò su per il crinale. Non ci scambiammo più di qualche parola finché non fummo lontani. Ben presto tornammo a Gorjackino e potemmo riposare. L'umore di Vadim era migliorato. Sembrava che in lui avesse prevalso l'approccio razionale, frutto di anni di pratica e di tante campagne militari, per cui i nemici sono i nemici, e le loro morti erano una loro responsabilità, non nostra. Capivo le argomentazioni, mi ero ripetuto la stessa litania dopo ogni battaglia, eppure qualcosa in ciò che avevamo appena visto le rendeva poco convincenti. Entusiasta, Dmitrij accese una lampada e ci mostrò il contenuto del fagotto: due uniformi francesi della fanteria leggera. «Sapete cosa potete farci con queste?» Quella sera Dmitrij sembrava galvanizzato come non lo vedevo da anni. «Potete infiltrarvi nell'accampamento francese, scoprire i loro piani.» «Tu non vieni con noi?» chiesi. «Oh, sapete come parlo male il francese. Mi scoprirebbero a un miglio di distanza, ma voi due non destereste sospetti neppure alle Tuileries.» Parlava in fretta, come se fosse l'unico modo per scacciare pensieri indesiderati. «O questo, oppure tornare subito a Mosca» intervenne Vadim, serio. «Preferisco fare qualcosa di utile, visto che ormai siamo qui.» Riflettei un momento prima di annuire. «Dove ci incontriamo la
prossima volta?» domandai a Dmitrij. «Vi aspetto a Shalikovo.» Era più calmo, forse perché stavamo per lasciarlo. «Se fermiamo l'avanzata francese, dovrebbe essere un posto sicuro. Altrimenti, be', suppongo che saremo costretti a vederci a Mosca.» «Arrivederci, Dmitrij.» Ci abbracciammo. Mi parve molto inquieto e impaziente di andarsene. Il suo commiato con Vadim fu poco più di una pacca sulla schiena. Mentre si allontanava nel buio ero quasi tentato di spiare lui anziché i francesi, ma sapevo qual era il mio dovere. Io e Vadim indossammo le uniformi e ci preparammo a penetrare in territorio nemico.
Capitolo 5 «Allora, come ti sembro?» chiesi a Vadim mentre allacciavo i bottoni della mia nuova divisa. «Pensi che passerò l'ispezione?» «Parliamo francese d'ora in poi, per favore» ribatté lui, ipocritamente, in russo. Ripetei la domanda, stavolta in francese. «Credo che te la caverai» rispose in quella lingua, «anche se hai la giacca imbrattata di sangue.» «Anche tu.» Intorno al collo le macchie erano quasi invisibili sulla stoffa rossa, ma contro l'azzurro della giacca risaltavano di più. Le uniformi erano integre, senza tagli o buchi. «Ci inventeremo qualcosa, per esempio che abbiamo portato in braccio un commilitone morente» suggerì Vadim. Cercai di ridere, ma ricordavo ancora troppo bene da dove arrivassero quelle uniformi. Ci avviammo verso l'accampamento francese, senza preoccuparci eccessivamente di dove andassimo o di quali informazioni cercassimo. Almeno per me, credo che l'obiettivo della missione fosse dimostrare a me stesso che ero ancora un soldato e un uomo. «È un miracolo che Pétr sia riuscito a trovare due uniformi intatte» osservò Vadim. Tremai nell'abbraccio della divisa fredda, che poco prima era stata il sudario di un cadavere. «Lo sconosciuto Miracolo delle Uniformi Francesi?» scherzai. «Dopotutto, porta il nome di un santo.» Ci tornò un po' di buonumore e affrettammo il passo. «Pensi che saprebbe camminare sulle acque?» «Mi piacerebbe vederlo» borbottò Vadim. «Ovviamente, qui la Bibbia sbaglia.» Era la voce di Maks, richiamata alla mia mente da una conversazione di molti anni prima sullo stesso argomento, san Pietro che cammina sul lago di Tiberiade. «Credevo che, secondo te, la Bibbia sbagliasse sempre» gli avevo
detto. «Non sempre. Ci sono scritte molte buone cose, ma è soltanto per convincere la gente che siano buone tutte quante. È un vecchio trucco. Il posto migliore dove nascondere un albero è in una foresta; il posto migliore dove nascondere una bugia è nella foresta della verità.» «E come si fa a distinguerle?» «Si chiede a un prete.» L'avevo guardato, stupito. Lui era scoppiato a ridere. «Oppure a me» aveva continuato. «O puoi provare ad arrivarci da solo.» «Sembra molto faticoso. E dal momento che tu sembri conoscere già la risposta, lo chiedo a te.» «Di san Pietro? Be', il messaggio che cercavano di far passare riguardava la fede. Pietro mette i piedi sull'acqua, cammina per un po', poi perde la fede e casca dentro. Ma l'idea di fondo è che la fede gli abbia donato la fiducia per fare il primo passo sull'acqua, non che sia stata la fede a sostenerlo in seguito. Era Dio a reggerlo dopo il primo passo, ma era stata la fede a spingerlo a fidarsi di Dio. Perciò, quando lui perde la fede, Dio dovrebbe continuare a sostenerlo. Il messaggio sarebbe che dobbiamo riporre la nostra fede nel Dio invisibile; invece, siccome Pietro inizia ad affondare, la fede ci viene presentata come una sorta di feticcio magico.» «Quindi pensi che Dio abbia sostenuto Pietro sull'acqua?» avevo chiesto, affettando incredulità. «No! Dico solo che questo racconto ci parla della fede, non di Dio. La parte sulla fede è il nucleo di verità della storia, e per suo tramite la gente viene spinta a credere anche alla parte su Dio.» Grazie al cielo eravamo soli. Maks l'avrebbe passata liscia a sostenere quelle opinioni in Inghilterra o in Francia, non in Russia. «La fede però è la parte davvero interessante» aveva continuato. «La fede consente alle persone di sentirsi sicure su ciò che non possono sapere con certezza. Ed è un'idea importante da far passare, per quanto la Bibbia cerchi di confondere le acque.» «Un'idea importante?»
«Per le masse, per i politici. Per chiunque abbia paura della conoscenza, in sé o negli altri. Per chiunque veda la felicità come scopo ultimo della vita.» Per Maks la fede era il paradiso dei matti: vivere nella beata ignoranza per paura di scoprire la verità. Può funzionare per qualcuno, ma anch'io disprezzavo l'idea quanto lui. «Ma la storia non è un semplice resoconto degli eventi?» lo avevo pungolato. «Come mai la gente è convinta che la Bibbia sia l'unico libro nella storia dell'umanità che non usi l'allegoria?» era stata la sua risposta. «Gulliver è andato davvero a Brobdingnag? Candido ha davvero visitato El Dorado? È come le fiabe che ci raccontano le nonne. Niente di tutto ciò è mai accaduto. Prima decidi il messaggio che vuoi veicolare, poi ti inventi una storia appropriata. Devi guardare oltre i fantasmi e i vampiri e i miracoli per trovare il messaggio morale.» Si era interrotto, ricordandosi di dover anche respirare. Il suo entusiasmo era quasi rabbioso, ma per me ascoltarlo era un piacere superato solo da quello che provava lui nel parlare. Mi aveva rivolto un sorriso triste, accorgendosi delle sue stesse contraddizioni. «Be', solo perché alcune favole popolari sono inventate, non vuol dire che lo siano tutte. Gli alberi nella foresta, sai?» Ora, camminando con Vadim verso le linee francesi e rammentando quella conversazione, mi chiesi se, da qualche parte là fuori nell'oscurità della campagna russa, Maks stesse intrattenendo con polemiche simili i tre Opričniki al suo comando. Quelli non sembravano tipi da lasciarsi coinvolgere in dibattiti teologici. Tanto meglio per Maks: l'avrebbero lasciato parlare senza interromperlo. «Mi è venuta in mente una cosa» sussurrò Vadim, intromettendosi nei miei pensieri. Eravamo tornati sulla strada da cui avevamo assistito al massacro perpetrato dagli Opričniki. Distavamo a non più di una versta dalla fattoria. «Cosa?» «Che i nostri compatrioti potrebbero scambiarci per il nemico.»
«O gli Opričniki, almeno» aggiunsi. Si fermò e si voltò verso di me. «Loro sono davvero dalla nostra parte, Aleksej. Non importa cosa fanno, lo fanno per la ragione migliore, per il bene della Russia.» Di nuovo, quell'argomentazione trita mi rassicurò, ma continuando a camminare pensai che, se pure i loro interessi coincidevano con quelli russi, non significava che combattessero perla Russia come noi. Al momento eravamo dalla stessa parte, tuttavia una semplice firma su un trattato poteva cambiare ogni cosa in un istante. E dubitavo servisse un trattato scritto per far mutare casacca agli Opričniki. Il nemico sembrava badare poco alla sicurezza, e fu questione di un momento, per due ufficiali russi in uniforme francese e con un accento passabile, entrare in un accampamento di duecento uomini alla vigilia di una battaglia che poteva rivelarsi decisiva. Per esperienza sapevamo di doverci tenere lontani dalle tende degli ufficiali superiori, che avrebbero avuto la bocca più cucita e le orecchie più acute. Ci ritrovammo seduti intorno a un fuoco con quattro giovani ufficiali dell'artiglieria che si presentarono come Stephan, Guillaume, Pierre e Louis. Per quella sera io ero André e Vadim era Claude. Come la maggior parte dei soldati in battaglia, i quattro conoscevano ben poco delle strategie dei superiori. Le comprendevano al livello più alto - il piano era di conquistare Mosca - e, ancor più in alto, che ciò accadeva perché i perfidi russi stavano trattando con gli inglesi. Le capivano al livello più basilare: la mattina dopo avrebbero dovuto attaccare le postazioni russe davanti a loro. Tra questi due livelli si evidenziavano le lacune: come condurre la battaglia e in che modo sarebbero arrivati da Borodino a Mosca. Tali lacune erano agevolmente colmate dai pettegolezzi. Alcune di queste chiacchiere erano tipicamente francesi. L'argomento del giorno era il fatto che l'imperatore aveva ricevuto un ritratto del suo figlioletto, il cosiddetto «Re di Roma». Era una conversazione piacevole in cui inserirmi, perché mi ricordava mio figlio a Pietroburgo e la mia «Marie-Louise» a Mosca. Pierre nutriva lo stesso semplice idealismo che amavo in Maks, e
che però la sua giovane età non aveva ancora temperato con il realismo politico. «Napoleone vuol bene a suo figlio, d'accordo, ma dubito lo consideri davvero un erede.» Si guardò intorno cercando approvazione. «Si è incoronato imperatore solo come misura temporanea, per tenere sulla retta via la Repubblica in questi tempi difficili, ma sa che il prossimo imperatore, o comunque scelga di chiamarsi, dovrà guadagnarsi il titolo come ha fatto lui, anziché riceverlo in eredità.» Inaspettatamente, Vadim raccolse il suggerimento politico, pur orientandolo in senso patriottico. «Se credi questo, allora Napoleone ha sposato Marie-Louise per amore. Invece sento dire da più parti che è ancora innamorato di Joséphine.» «Sono d'accordo con Claude» disse Guillaume, intervenendo per la prima volta. «Napoleone ha compiuto un grande sacrificio lasciando la donna amata per dare un erede alla nazione.» «Lasciando la donna amata per una ragazza con la metà dei suoi anni» aggiunse Louis in tono cinico. Rischiai. «Lo stesso sacrificio di ogni patriota francese quando lascia la moglie per andare dall'amante.» Andò bene: tutti e quattro risero. Vadim, che di sicuro nutriva sentimenti patriottici per la Russia ma non era bravo a esprimerli, d'un tratto trovò le parole giuste per fingersi il più sincero dei patrioti francesi: «Eppure Napoleone è felice di lasciarle entrambe per condurci fin qui per il bene della Francia». Aveva azzeccato il tono, e tutti intorno al fuoco annuirono. «Pensate sapesse cosa aveva in serbo per noi il nemico?» chiese Louis, dopo un silenzio carico di pensieri. «Non sembra che finora abbiano reagito con molta forza» dissi io. «Non le battaglie» spiegò Stephan. «Quella nuova arma.» «Non hai sentito?» aggiunse Guillaume. «È una specie di malattia. Cercano di diffonderla tra di noi.» «No, non è una malattia» ribatté Stephan. «Sono animali: branchi di lupi addestrati che i russi ci scagliano contro.»
«Se fossero lupi li avremmo visti» osservò Pierre. «Forse si, forse no» disse Guillaume. «I lupi cacciano di notte, e c'è poco da vedere, qui in giro, quando fa buio.» «E come farebbero a diffondere la malattia?» si incuriosì Stephan. «Bastano un paio di cadaveri infetti» spiegò Louis. «Non c'è bisogno di catapultarli oltre le mura di un castello assediato: basta lasciarli in mezzo ai nostri morti e feriti.» «Stamattina ho sentito che tre di loro - sabotatori russi - sono entrati in un accampamento con le tasche e gli zaini pieni di polvere da sparo. Quando li hanno catturati, si sono fatti esplodere in mezzo alla calca» mormorò Pierre. «Nessuno si è fatto troppo male, nessuno dei nostri, intendo. I russi sono morti. Ma se non gli importa neppure di sopravvivere, come riusciremo a sconfiggerli?» «A me sembrano le solite dicerie di guerra» brontolò Vadim, cercando sia di mostrarsi razionale, sia di difendere il suo Paese da quell'accusa infamante. «Ho sentito raccontare cose del genere in ogni campagna a cui ho partecipato. Il nemico deve diventare più di un nemico: non basta che ti spari addosso, deve avere anche torto. E se la sua causa è sbagliata, allora devono essere sbagliati anche i metodi. E a nessuno piace dare l'impressione di giustificare il nemico, quindi la diceria si diffonde.» I quattro soldati francesi fissarono Vadim. «Quindi, Claude, smentire la diceria significa giustificare il nemico?» chiese Pierre, in tono freddo. «Come hai appena fatto tu?» Resistetti alla tentazione di sguainare la spada, ma mi preparai all'azione. La tensione fu spezzata quando Pierre scoppiò a ridere, seguito dai tre commilitoni e poi da Vadim e me. «Forse hai ragione, amico» continuò Pierre. «Sono chiacchiere, e quindi per definizione esagerate. Probabilmente sono solo cosacchi che vanno in giro a fare razzie e ammazzano i nostri uomini.» «In ogni caso» continuò Louis, «chi potrebbe biasimare i russi per aver usato una nuova arma, se ce l'hanno a disposizione? Le campagne si vincono piegando un po' le regole della guerra. Qualcuno si sarà lamentato, come noi adesso, quando furono introdotti il moschetto e l'arco, ma oggi non sapremmo più farne a
meno.» «Mi tengo il mio moschetto, Louis» borbottò Stephan, ridendo, «e tu puoi tenerti il tuo arco.» Ascoltai in silenzio la conversazione, sapendo che c'era un fondo di verità, e notando una spaventosa somiglianza con le storie che avevo sentito a proposito di Tuia. Gli Opričniki erano sul Don e dal Don provenivano chiacchiere; e ora che erano qui, le stesse chiacchiere li seguivano. Comunque mi sentii rassicurato. Sapevo che non avevamo a che fare con una pestilenza o con i lupi, ma con uomini assai abili, determinati e violenti; uomini i cui attacchi erano tanto più pericolosi perché diffondevano la paura, oltre alla morte. Non ero certo di come avessero ispirato dicerie così esagerate, ma sentire ripetere le storie dalle bocche di quei francesi superstiziosi mi convinse che erano, per l'appunto, solo storie. Gli Opričniki erano ottimi soldati, ed erano nostri alleati. Questo, come aveva appena detto lo stesso Louis, era un motivo sufficiente per usarli. Vadim fece per andarsene. «Be', buona serata, signori. Dobbiamo andare a prepararci per la battaglia di domani.» Ci alzammo entrambi, e ci fu uno scambio di strette di mano e di arrivederci tra noi due e loro quattro. Ci stavamo incamminando, quando la voce di Pierre ci raggiunse un'ultima volta.
«Zhelayu uspekhal» Io e Vadim ci fermammo di scatto. Il significato era chiaro e semplice, «buona fortuna!», ma non era quello a sorprenderci, quanto la lingua. Pierre aveva parlato in russo.
Capitolo 6 Ho sempre trovato interessante il modo in cui il significato trascende il linguaggio. Per esempio, se ripenso alla conversazione di quella sera con i soldati francesi, so che si svolse nella loro lingua; ma se dovessi riferirne il contenuto potrei farlo in francese come in russo o anche in italiano. Ricordavo il senso delle frasi, più che le singole parole. Una volta, a Pietroburgo, avevo parlato a lungo con un vecchio soldato che era stato ferito alla testa dai turchi durante il regno della zarina Ekaterina, sotto il generale Suvarov. Gli mancava un pezzo di cervello, e questo gli limitava i movimenti e la facoltà di parola, ma entro quei vincoli la sua mente era lucida come sempre. La comunicazione tra noi era stata difficile all'inizio, però era migliorata con la pratica. Quando parlava dovevo prestare molta attenzione ai suoi suoni distorti: dovevo intuire ciò che intendeva e fornirgli suggerimenti finché non indovinavo. Eppure, quando in seguito raccontai di lui a Marfa, ricordavo ogni dettaglio della sua vita affascinante come se si fosse espresso in perfetto russo. Rammentavo bene le difficoltà di comunicazione, ma quel ricordo era immagazzinato nella mia mente in modo separato dal contenuto della comunicazione. Dunque, quando Pierre si accomiatò da noi augurandoci «buona fortuna», una parte della mia mente reagì al senso beneaugurante di quelle parole. Un'altra parte mi avvertì che la frase era stata pronunciata in russo, una lingua che dovevo fingere di non conoscere. I due pensieri si rincorsero nel cervello, e alla fine non importò chi fosse il vincitore: fu Vadim a parlare prima che io potessi reagire.
«Pardon?» chiese a Pierre. Pierre ripeté l'augurio, poi spiegò in francese: «Significa "buona fortuna" in russo». «Ah!» sorrise Vadim. «Mi pareva che suonasse russo.» «Voi non lo parlate?» domandò Pierre.
«Nemmeno una parola» rispose Vadim, e io scossi la testa. «Pierre lo parla come un madrelingua» intervenne Stephan. «Dovrebbe fare la spia.» Si fermò a riflettere un istante. «A meno che non lo faccia già. Forse è una spia di quelli là.» Louis e Guillaume risero. «Forza, Pierre» lo spronò Louis. «Dicci qualcos'altro.» Il giovane soldato pronunciò qualche frase in un accento passabile. Le frasi erano chiaramente intese a smascherare i veri russi che le avessero sentite. «Tua moglie è una puttana, e ieri notte ha fottuto il mio cane» era la prima, seguita da: «Allo zar Aleksandr piace succhiare il cazzo del generale Kutuzov». Infine Pierre riferì un aneddoto diffuso ma apocrifo sulla morte della zarina Ekaterina. Avrei potuto lasciarmi ingannare da quel «buona fortuna» che mi aveva colto alla sprovvista, ora però io e Vadim avemmo buon gioco a fingere di non capire una parola. Per ingannare molti ufficiali anziani della generazione precedente alla nostra, invece, non sarebbero servite grandi doti recitative: da un secolo il francese era la lingua dei russi istruiti, e il russo quella dei servi della gleba. In quasi tutti i Paesi, le spie sono scelte tra chi parla bene una lingua straniera. Tra uomini come Pierre. In Russia, le spie erano come me, Vadim, Dmitrij e Maks: uomini che, diversamente dalla maggioranza, erano in grado di comunicare con la popolazione. Solo negli ultimi tempi le cose stavano cambiando, soprattutto per merito del nemico comune a tutti i russi. Bonaparte. «Cos'hai detto, Pierre?» chiese Louis. Pierre tradusse e tutti scoppiammo a ridere, soprattutto all'aneddoto sulla zarina e il cavallo. Ci accomiatammo di nuovo e uscimmo dall'accampamento, non proprio persuasi che i francesi ci credessero, resistendo comunque alla tentazione di metterci a correre. Eravamo quasi spariti alla loro vista quando ci si pararono di fronte tre ufficiali che entravano nell'accampamento. Mi preparai a un saluto militare, ma quando i tre si avvicinarono, li riconobbi. Erano Iuda, Foma e Matfej.
«Aleksej Ivanovič! Vadim Fëdorovič! Che diamine ci fate qui?» domandò Iuda. «Non avrete cambiato casacca? !» Mi stupì udire un simile sarcasmo uscire dalla bocca di un Opričnik. «Solo un po' di spionaggio» spiegò Vadim. «E voi?» Iuda sorrise. «Non siamo qui per spiare, ma per uccidere.» Matfej e Foma trascinavano i piedi, nervosi perché le nostre chiacchiere li stavano tenendo lontani dall'azione. «È un bene che non siamo arrivati prima» continuò Iuda. «Siete molto convincenti, come francesi.» Non vedevo l'ora di andarmene, ma mi sembrò giusto riferire a Iuda le informazioni raccolte. «Ci sono più di cento uomini laggiù, non avete speranze» gli comunicai. Ma già mentre lo dicevo ricordai l'impresa compiuta poche ore prima da Pétr, Ioann e Varfolomej, e dubitai delle mie parole. Iuda mi batté una mano sulla spalla con condiscendenza. «Grazie per l'interesse, Aleksej. Ci vediamo.» E se ne andarono, svanendo nel buio della notte e trasformandosi in ombre, illuminate solo dai fuochi dell'accampamento. Si mescolarono allegri agli uomini che poco dopo avrebbero aggredito. Io e Vadim ci allontanammo a passo lesto, sperando di non udire gli Opričniki al lavoro. Tornati a Gorjackino, ci rimettemmo i nostri abiti. Vadim ritrovò il suo cavallo dove l'aveva lasciato. Montò in sella e si avviò davanti a me verso i nostri accampamenti, a est di Borodino. Io proseguii a piedi, sferzato dalla pioggia e dal vento, in mezzo al fango, facendomi forza. Venne l'alba, ma senza il canto degli uccelli. I pochi cinguettii erano coperti dal rumore di milleduecento cannoni: a sud stava iniziando la battaglia. Era un suono piacevole, almeno per un soldato, e io volevo pensarmi ancora come tale. La guerra ha un elemento di semplicità che affascina ogni soldato, dall'ufficiale più metodico al rjadovoj più incolto. È una sospensione del senso morale che ti consente di agire senza coscienza, sapendo che il tuo dovere è distruggere il nemico. Per quei brevi istanti, la politica è
affare altrui. Tra una battaglia e l'altra alcuni soffocano i dubbi con l'amore incondizionato per lo zar, altri con complessi ragionamenti politici, altri ancora con la nuda e bruta stupidità. Io appartenevo al secondo gruppo, e non combattevo da molto tempo. Ma sapevo di non potermi rendere utile da solo, quindi decisi di aggirare il campo di battaglia e di trovare Vadim, per poi raggiungere gli Opričniki e spronarli a infliggere qualche danno concreto. A nord di Borodino, la Moscova scorreva a oriente verso Mosca, ma in quel punto piegava leggermente verso sud, spingendomi più vicino alla battaglia di quanto la mia testa (non il mio cuore) volesse. Passai nei pressi del villaggio di Loginovo e udii le voci della cavalleria bavarese. Nessuno si accorse di me. Il problema successivo fu attraversare il Koloca. Non era un corso molto largo, bensì un piccolo affluente della Moscova, ma sapevo di dovermi dirigere a sud, verso la battaglia, per trovare un guado. Alla fine mi imbattei in una secca. Mi tornò in mente Maks, e mi chiesi se sarei stato in grado di camminare sulle acque. Appena l'ebbi toccata, l'acqua prese a tremare, increspata dalla pioggia; però quella vibrazione aveva un ritmo diverso. L'aria risuonava ancora dei colpi di cannone, ma ascoltando più attentamente individuai qualcos'altro: un trapestio di zoccoli. Prima che potessi voltarmi mi trovai circondato da cavalieri cosacchi, probabilmente del voisko di Astrakan, nel bel mezzo di una ritirata che sembrava più una fuga precipitosa. Attraversavano il fiume senza fermarsi, ignorandomi e sfiorandomi da ogni parte. Tra di loro c'erano vari cavalli che avevano disarcionato il cavaliere: ne afferrai uno per le redini e mi issai in sella, spronandolo a raggiungere il resto del gruppo. Guardandomi alle spalle vidi da cosa fuggivano: uno squadrone della cavalleria bavarese al galoppo. Non li aspettai. Una volta guadato il fiume, riuscii a portarmi alla testa dei cosacchi allo sbaraglio e feci voltare il cavallo. «Radunatevi» gridai, ma sospetto che a farli fermare fu più il bisogno di evitare una collisione con me, che non il mio comando. Quando una dozzina di loro mi ebbe raggiunto, si ripristinò una parvenza d'ordine; quasi tutti gli altri si riunirono intorno a noi, alcuni si allontanarono spronando gli animali. Sguainai la sciabola, e
con un ruggito partii all'attacco dei bavaresi. Per un istante non capii se i cosacchi intendessero seguirmi, ben presto però mi trovai circondato da cavalieri. Nel giro di pochi secondi fummo addosso ai bavaresi. I due squadroni si scontrarono e si mescolarono senza resistenza: due gocce d'acqua che si fondono in una. Ma dentro quell'unica goccia infuriava la battaglia. Io usavo la sciabola, al pari di tanti cosacchi, altri avevano pistole. I nemici portavano le stesse armi, e sparavano altrettanto bene; ma una pistola può esplodere un solo colpo. Da lì in poi i cosacchi si dimostrarono molto più abili - e spietati - con le spade. Anche durante la battaglia trovai il tempo di pensare agli Opričniki. Prima di conoscerli ero convinto che, controllati con polso fermo dalla nostra autorità, avrebbero combattuto da eroi. Non era andata così. Gli Opričniki avevano fatto di tutto per seminarci, e ora si battevano da codardi, tendendo imboscate e infiltrandosi negli accampamenti francesi. Invece per me era un onore attaccare al fianco di quei cosacchi, benché i loro modi mi fossero estranei quanto quelli dei valacchiani. Non udii l'ordine di ritirata dei bavaresi, comunque in un istante le due gocce si erano separate e il nemico si era dato alla fuga. Li inseguii, esaltato dalla battaglia. «Tornate qui e battetevi, che Dio vi maledica!» sentii gridare, e capii che era la mia voce. Allo stesso tempo ero consapevole che inseguirli era una pazzia. Stavamo andando verso Loginovo, dove ne avevo visti molti altri; più di quanti avremmo potuto affrontarne. Voltai il cavallo e i cosacchi mi seguirono. Dopo aver guadato il Koloca per la terza volta in pochi minuti, rallentammo al trotto, e io chiesi al sergente di condurci all'accampamento. Lui indicò un punto a sudest. «È stato un ottimo attacco, signore. Dopo aver perso il nostro tenente, pensavo fossimo spacciati.» «Grazie.» Non avevo fiato a sufficienza per aggiungere altro. Qualche istante di silenzio, poi l'uomo parlò ancora. «Una cosa soltanto, signore.» «Sì?» «Perché tante imprecazioni, signore? La guerra è una faccenda
sacra. Imprecare in battaglia è... be', è come imprecare in chiesa.» Lo fissai sconcertato, del resto sapevo bene che i cosacchi prendevano la guerra molto sul serio. «Cercherò di tenerlo a mente» promisi. «Dio vi punirà, signore» riprese lui, non nel tono di riprovazione di un pope, ma nel tono in cui mi avrebbe rammentato di tener pulito l'otturatore del moschetto. Le sue motivazioni erano altrettanto limpide: «Vi farete ammazzare, e noi con voi». Risi e gettai la testa all'indietro, più per l'euforia della battaglia che per qualsiasi altro motivo, comunque ammirai il senso pratico della sua devozione. Una volta tornati dietro le nostre linee, fummo sballottati da un ufficiale all'altro finché mi ritrovai davanti al comandante dei cosacchi, il generale Platov. Il sergente riferì l'accaduto, e Platov mi squadrò da capo a piedi accarezzandosi i baffetti. «E tu chi diavolo sei?» chiese. «Capitano Danilov, signore, Reggimento Ussari della Guardia Imperiale.» «E dov'è la tua uniforme?» «Sono di ritorno da una missione speciale, signore.» Platov sapeva che se dicevo la verità non avrei risposto ad altre domande. D'altro canto, chiunque al posto mio avrebbe potuto spacciarsi per capitano. Stavo per mostrargli i miei documenti, ma lui scambiò qualche parola con un aiutante di campo, che poi si allontanò a cavallo. «Lo scopriremo presto» disse. Non aggiunse altro, e si allontanò per scrutare i dintorni con il cannocchiale. Qualche minuto dopo, l'aiutante ricomparve in compagnia di un uomo che riconobbi da lontano per via della chioma scura e riccia. Era il tenente generale Fèdor Petrovič Uvarov, il mio ufficiale superiore. Vedendolo arrivare, Platov si ripiazzò al mio fianco. «Siete tornato da noi, Aleksej Ivanovič?» chiese Uvarov con un
mezzo sorriso. Non si era risentito quando Vadim gli aveva chiesto se poteva prendermi in prestito dal suo reggimento, ma gli era dispiaciuto lasciarmi andare. «Sono solo di passaggio, signore» risposi. «Potete testimoniare per quest'uomo, dunque?» chiese Platov. «Meglio di chiunque altro» ribatté Uvarov. «Lo rivolete indietro?» fece Platov, con lo stesso tono in cui avrebbe parlato di un cane smarrito. Uvarov inarcò un sopracciglio e mi guardò. «Credo di stare bene dove sto, signore.» «Molto bene» disse Platov, senza neppure guardarmi. Estrasse di tasca l'orologio. «Preparatevi, avanziamo tra dieci minuti.» E così, un quarto d'ora dopo, attraversai di nuovo il Koloca alla testa dei miei uomini, in folta compagnia. Tutti i cosacchi di Platov, i baschiri e i tartari presero parte all'attacco insieme alla cavalleria più regolare di Uvarov, nelle cui fila in un'altra vita mi sarei potuto ritrovare. Stavolta accerchiammo il fianco dei bavaresi, ma poco dopo aver guadato il fiume incontrammo la cavalleria e la fanteria leggera; le forze di Uvarov vi si scagliarono contro, permettendo al resto del nostro gruppo di infiltrarsi dietro le linee nemiche. Andai alla carica, immaginandomi nei panni del mio eroe, Davidov. L'avevo incontrato una volta sola, nella battaglia di Eylau. Vadim invece l'aveva conosciuto in Finlandia. Era famoso già allora, e presto lo sarebbe diventato ancor di più, per le sue audaci razzie alla testa delle truppe cosacche. Spargemmo il caos e il terrore, come fanno sempre i cosacchi, tra i nemici - italiani e bavaresi, per la maggior parte - che non riuscivano a impostare una difesa. Non so se avemmo un impatto sulle sorti della battaglia, ma dopo di allora non ho più provato un entusiasmo simile. Anche stavolta la mia sciabola si dimostrò di gran lunga l'arma più efficace, affiancata dalle pistole che sparavano una gragnola di colpi prima di ogni attacco. Alla fine i francesi si resero conto del pericolo. Il Terzo Cavalleria si spostò dal centro e contrattaccò. Una volta svanito l'elemento sorpresa, eravamo molto meno efficienti. La cavalleria ci costrinse a
una battaglia più convenzionale, e questo alleviò la pressione sugli italiani e i bavaresi, che nel frattempo erano riusciti a organizzarsi. Le raffiche dei moschetti iniziarono a decimare i nostri ranghi. I cosacchi continuavano a gettarsi addosso al nemico, ma ora ogni attacco ci colpiva più duramente. Tutt'intorno a me gli uomini morivano ben prima di avvicinarci tanto da poter usare le sciabole. Desiderai tornare con i miei commilitoni, tra gli ussari, dove con poche parole avrei saputo pianificare un'offensiva assai più efficace. I cosacchi non si intendevano di queste cose, e ne pagavano il prezzo. Il sergente, sempre al mio fianco, fu colpito al collo. Il sangue gli uscì dalla bocca mentre cercava di parlare, poi cadde a terra, e gli zoccoli dei cavalli portarono a compimento ciò che la pallottola aveva iniziato. Ordinai la ritirata. Nessuno mi obbedì. Cavalcai avanti e indietro, sferzando uomini e bestie con il piatto della spada finché i superstiti - una trentina su cinquanta - mi diedero retta. Poco dopo fu ordinato un ripiegamento generale per le truppe di Platov e quelle di Uvarov. Tornammo sui nostri passi, attraversando il fiume un'ultima volta, e lì mi imbattei in una figura conosciuta, pacatamente assisa in sella: Vadim Fëdorovič. Non aprì bocca, ma il suo atteggiamento mi ricordò mio padre, quando veniva a chiamarmi mentre giocavo con gli amici, per dirmi che il precettore mi aspettava. Nel gruppo dei cavalieri notai anche il generale Uvarov, che mi si avvicinò. «Ci è stato ordinato di raggiungere Kutuzov a Gorki.» Gorki era un villaggio a circa due verste a est di Borodino, dove si era acquartierato il generale Kutuzov. «Sembra ci sia bisogno di rafforzare il centro.» Annuii verso Vadim. Uvarov si girò un momento a guardarlo e gli rivolse un secco cenno del capo. «Capisco» dissi. Uvarov passò in rassegna le truppe. I soldati si erano ridotti di numero rispetto alla mattina, e molti non erano in condizioni di combattere. «Dio del cielo!» borbottò. «Non riusciremo mai a tenerli fuori da Mosca.» Pensai di far mia l'opinione del sergente cosacco sul nominare Dio invano, ma decisi che i miei rapporti con il generale erano già abbastanza tesi. E poi al sergente la devozione non era servita granché. Vadim aveva già girato il cavallo e se ne stava andando. Lo
seguii. Ci scambiammo notizie su ciò che era accaduto dal nostro ultimo incontro. La sua giornata era stata più tranquilla della mia: aveva fatto rapporto su quanto avevamo scoperto nell'accampamento francese, poi era andato a osservare la battaglia. Vari soldati della Guardia Imperiale avevano parlato delle mie attività, quindi Vadim non aveva faticato a localizzarmi. «Maks?» gli chiesi. «Nessuno ha sue notizie, almeno così pare, ma del resto c'era da aspettarselo. Se si è attenuto al piano (diversamente da noi), sarà a est. Il luogo più probabile sulla nostra lista sarebbe Shalikovo. Dovremmo andare lì anche noi.» Cavalcammo fino a Shalikovo, mentre i rumori della battaglia si affievolivano alle nostre spalle senza svanire mai del tutto. Era tarda sera quando arrivammo al luogo d'incontro, una piccola stalla annessa a una locanda. Come molti edifici lungo la strada per Mosca, anche la locanda era stata abbandonata in previsione dell'avanzata di Bonaparte; decidemmo di rinunciare alla comodità della paglia e di dormire nelle stanze. Né io né Vadim avevamo chiuso occhio, io da più di ventiquattr'ore, quindi approfittammo dell'occasione. La mattina dopo non sentimmo i cannoni. La grande battaglia era terminata, ma non avevamo idea dell'esito. Andammo nella stalla per vedere se c'era traccia di Maks o di Dmitrij. Non ci mettemmo molto a scoprire un messaggio breve ma preciso, tracciato da Maks sulla parete con il gesso: 8 - 26 - 9 - M L'avevamo mancato per sole dodici ore. Notai anche la grafia tremolante con cui aveva scritto: era stanco o impaurito, o entrambe le cose. Di Dmitrij invece nessuna traccia. Decidemmo di attendere, sia nel caso arrivasse Dmitrij sia per
avere notizie da Borodino. Trovammo avanzi di cibo e ci preparammo la colazione. A metà mattina giunsero al villaggio i primi dei nostri compatrioti in ritirata. Le notizie erano contraddittorie. Entrambe le fazioni avevano subito gravi perdite, ma nessuno sapeva azzardare una cifra pur vaga; solo molto tempo dopo avrei appreso la reale entità del massacro. Un po' prima dell'alba, dopo una battaglia durata quasi un giorno intero, Kutuzov aveva dato l'ordine di battere in ritirata. Ma alcuni affermavano che la Russia aveva vinto: che eravamo stati costretti a ripiegare, infliggendo comunque abbastanza danni per frenare l'avanzata di Bonaparte, che ora non sarebbe mai riuscito a prendere Mosca. Altri soldati erano meno ottimisti, tuttavia covavano qualche speranza; Bonaparte avrebbe conquistato Mosca, però non sarebbe riuscito a tenersela. Altri ancora erano convinti che nulla avrebbe impedito ai francesi di assediare anche le mura di Pietroburgo. Qualunque fossero le previsioni, era chiaro che non avevamo più niente da fare a Shalikovo. Sellammo i cavalli e ci dirigemmo a est lungo la strada per Mosca, superando rapidamente i sopravvissuti del nostro glorioso esercito, scarmigliati, stanchi ma non del tutto demoralizzati. Per noi, come per loro, Mosca era la destinazione naturale. Ma qualunque fosse l'esercito che poteva cantare vittoria a Borodino, Bonaparte era ancora al comando di centomila uomini nel pieno delle forze, che ben presto sarebbero piombati sulla nostra amata città. Quella notte dormimmo all'addiaccio. Arrivammo a Mosca verso mezzogiorno, e andammo a raccogliere informazioni nella locanda sulla Tverskaja. Dmitrij era passato di lì quella mattina, ed era già ripartito. Maks non era più stato visto dopo la nostra partenza, dieci giorni prima. Vadim andò a perlustrare alcuni luoghi che Dmitrij frequentava assiduamente, e io dissi che avrei fatto lo stesso per Maks. E tanto mi bastò. Sapevo bene che frequentava Margarita al bordello, anche se non ne avevo parlato con Vadim e Dmitrij. Quindi il bordello era la meta più ragionevole, visto che cercavo
Maks. Meno ragionevole fu la durata della mia visita. Rimasi molto colpito dalla calorosa accoglienza che mi riservò Domnikiia. Di solito era piuttosto fredda nel salone, davanti alle altre ragazze e ai clienti, invece quel giorno mi abbracciò e mi baciò come una moglie che rivede il marito perduto da tempo, o forse più come una madre che riabbraccia il figlio disperso. Mi prese per mano e mi portò nella sua stanza. «Oh, Ljosa, grazie a Dio sei qui. Quando Maks è comparso da solo, non capivo più cosa fosse successo. Ho chiesto di essere avvertita appena tu fossi tornato.» Mi baciò ancora sulla bocca, tenendomi la testa fra le mani. Mi ritrassi. «Hai visto Maks? Quando?» Mi fraintese. «L'ho solo visto, letteralmente... be', gli ho anche parlato, niente di più. Non è stato neppure con Margarita.» Scossi la testa. «Non intendevo quello.» Le baciai il palmo della mano. «Quando è stato qui?» «Due giorni fa. Sembrava esausto, cavalcava senza sosta da giorni, ma se n'è andato quasi subito.» «Cos'ha detto?» «Non ricordo esattamente, ma il messaggio importante per te era di vedervi a Desna.» Desna era uno dei nostri luoghi d'incontro prefissati. «Quando?» «Ha detto che ti avrebbe aspettato, però tu dovevi andarci da solo. Margarita ricorda di sicuro meglio di me.» Andò a bussare alla porta che collegava la sua stanza a quella di Margarita. Dopo un istante di attesa, infilò dentro la testa. Da quel che potei sentire, Margarita era impegnata con un cliente. Vidi Domnikiia farle un cenno e richiudere la porta. «Arriva tra un secondo» disse, e infatti pochi istanti dopo comparve, con un lenzuolo avvolto intorno al corpo come una toga della misura sbagliata. «Ricordi Aleksej?» le chiese Domnikiia. Margarita mi rivolse il
sorriso educato di qualcuno che è stato interrotto mentre si guadagna il pane. «Cos'ha detto Maksim quando l'abbiamo visto l'altro giorno?» La ragazza espose ciò che sapeva con una precisione estrema, che rifletteva sia un'ottima memoria sia il desiderio di non doversi ripetere. «Ha detto di riferire ad Aleksej di raggiungerlo a Desna, lui aspetterà lì finché può... Aleksej deve andare da solo, per questo motivo l'ha detto a noi - perché lo sapesse solo Aleksej - e ha detto che non dobbiamo fidarci degli amici di Dmitrij. Oh, e neppure di Dmitrij. Chi è Dmitrij? Anzi, non dirmelo, lo scoprirò da me.» Fece per uscire dalla stanza, inciampando ripetutamente nell'orlo del lenzuolo. Sull'uscio lo lasciò cadere, e le intravidi la schiena nuda. «Be', ben ritrovato, colonnello...» la sentii dire in tono lascivo prima di chiudersi la porta alle spalle. «Chi è Dmitrij?» domandò Domnikiia. Non risposi. Invece la baciai spingendola verso il letto. Un uomo più cameratesco di me sarebbe corso a Desna all'istante, ma non vedevo Domnikiia da dodici giorni. Non era tanto il fatto che volessi disperatamente fare l'amore con lei: volevo stare con lei, e fare l'amore era la nostra principale occupazione quando stavamo insieme, anzi l'unica. E in tutta sincerità, credo che la vista della schiena nuda di Margarita avesse infiammato ulteriormente la mia passione. «Chi è Dmitrij?» chiese di nuovo Domnikia, quando finimmo. «Te lo sei chiesta per tutto questo tempo?» «No» ridacchiò lei, «ma quando faccio una domanda mi aspetto una risposta, anche se in ritardo.» «Dmitrij Fetjukovič, un ufficiale mio commilitone. Io e Maksim lavoriamo con lui. Non sono amici stretti, ma lavorano bene insieme. Mi fido di lui.» «Di chi? Di Dmitrij?» «Sì.» «E anche di Maks?» «Mi fido anche di lui.»
«E di chi ti fidi di più, mio caro, fiducioso Ljosa?» chiese, posandomi una gamba addosso. Era una domanda trabocchetto, quindi non replicai. «Cosa intendeva Maks con "gli amici di Dmitrij"?» indagò ancora. Gli amici di Dmitrij, gli Opričniki: erano loro a piazzare il trabocchetto in quella domanda. Fino a poco tempo prima, messo di fronte alla scelta, mi sarei fidato più di Dmitrij che di Maks; ma ora Dmitrij sembrava troppo legato a quegli uomini misteriosi e inquietanti, dunque non ne ero più tanto certo. «Un gruppo di soldati con i quali ha combattuto i turchi. Sono venuti qui per aiutarci. Non sono dell'esercito regolare, cavalleria o fanteria; sono più simili ai cosacchi, ma ancor più incontrollabili. Li chiamiamo Opričniki.» Ignoravo se conoscesse il significato originario del termine. Lei non fece domande. «Sono bravi?» Ricordai la voce di quel fante francese solitario, che nel buio desolato della notte cercava il suo comandante e i suoi amici. Ricordai Iuda, Matfej e Foma che si introducevano in un accampamento con cento soldati, certi della vittoria. Non li avevo più rivisti, ma non avevo dubbi su chi avesse vinto. Risparmiai a Domnikiia i dettagli. «Molto bravi» risposi. Le accarezzai la coscia e lei mi sorrise, ma subito dopo s'incupì e mi prese la mano per guardarla. «Quando ti è successo?» chiese, allarmata. «Cosa?» Scoppiai quasi a ridere, non vedendo motivo per quell'ansia improvvisa. Impiegò un momento a trovare le parole. «Le tue dita! Quand'è successo?» Da tempo mi ero abituato all'assenza delle ultime due dita della mano sinistra, mozzate durante le torture inflittemi dai turchi. Mi ero quasi sorpreso di quanto poco ne sentissi la mancanza. Scrivevo con la destra, e con la destra brandivo la spada. La mira con il moschetto
era meno precisa perché dovevo reggere il calcio con due sole dita, ma non era mai stata la mia arma migliore. «Tre anni fa» risposi. «Mi sorprende che tu non l'abbia notato prima» aggiunsi, fingendomi offeso, ma ero sinceramente stupito. «Non penso di averti notato davvero finché non sei partito.» Mi accarezzò le tre dita e i due moncherini. «Fa male?» «Non più.» La lasciai fare. Molte persone erano ipersensibili riguardo alla mia mano: o se ne preoccupavano di continuo, oppure non ne facevano parola per non offendermi. In ogni caso, preferivo che la gente si concentrasse sul lato fisico. Solo un'altra persona di mia conoscenza avvertiva quanto Domnikiia il fascino innocente della mia ferita: mio figlio Dmitrij. Gli piaceva toccarmi la mano come stava facendo Domnikiia, e chiudendo gli occhi mi parve di essere di nuovo con lui. Marfa all'inizio lo ammoniva a non farlo, però a me non dava fastidio, quindi gli era stato permesso. «Non ho mai visto un ritratto dell'imperatrice Marie-Louise» disse Domnikiia, cambiando repentinamente argomento e intrecciando le sue dita alle mie. «Perché dici così?» le chiesi. «Ho sentito che secondo te le somiglio.» «Hai sentito?» «Me l'ha detto Maksim.» Sembrava stesse confessando un peccato, eppure ormai non mi turbava più che lei e Maks parlassero di me. «Be', è vero, le somigli.» «Quindi io sarei solo un'alternativa a buon mercato, dato che non puoi permetterti un'imperatrice francese?» sussurrò in tono leggero. Scoppiai a ridere. «Non è francese, è austriaca.» «Questa non è una risposta.» «E tu non sei a buon mercato.» «Neppure questa lo è, ma immagino sia un'impresa, per le tue tasche, pagare una cortigiana.» Fece una pausa, poi aggiunse: «E una moglie». Pronunciò queste parole con lo sguardo carico di un'invidia petulante che mi parve subito falsa. L'idea che Domnikiia fosse gelosa
del mio matrimonio, benché solo per affettazione, mi inorgogliva, tuttavia mi irritava che lasciasse entrare la realtà esterna nel nostro confortevole mondo di illusioni. «Maks, di nuovo, suppongo» ipotizzai. Annuì, e aggiunse: «Non porti la fede nuziale». «Per una spia è meglio non averla» risposi. Mi grattai sovrappensiero l'anulare della mano destra, dove avrei dovuto portare l'anello. La mia fede era, come sempre, in un cofanetto di madreperla sulla toletta di Marfa. La portavo solo quando ero a Pietroburgo. Marfa diceva di comprendere le mie ragioni. «Oh, capisco» disse Domnikiia. «Come si chiama?» «Chi?» «Tua moglie.» «Non te l'ha detto Maks?» «Fosse per lui, non mi avrebbe detto proprio niente.» «Si chiama Marfa Michajlovna. E abbiamo un bambino, Dmitrij Alekseevič.» Le parole mi uscirono in un tono più seccato di quanto volessi. Cercavo di soddisfare in fretta la sua curiosità, per poi dimenticarmi di avere una moglie e un figlio. «Un altro Dmitrij» osservò. «L'abbiamo chiamato così in onore di Dmitrij Fetjukovič.» «Perché?» «Perché mi ha salvato la vita.» «Ho capito» fece lei accoccolandosi più vicina a me. «Sai, mi piacerebbe conoscere Dmitrij.» «Quale dei due?» Non rispose, si limitò a sorridermi. Il ricordo indesiderato di Maks interruppe i miei pensieri. Lo immaginai ad aspettarmi da solo in una scomoda capanna da boscaiolo a Desna, da due giorni. Mi disprezzai per tanta esitazione. «Devo andare» dissi, iniziando a vestirmi. «Devo vedere Maks.» «Capisco» fece lei.
Per la prima volta non mi passò per la testa di pagarla, e lei non pensò di chiedermelo. Uscendo sulla piazza, vidi Vadim che marciava a passo lesto verso Hi me. «Cosa diavolo ci facevi lì dentro?» ringhiò, furibondo. «Devi cercare Maksim Sergeevič.» «Lo stavo cercando, infatti.» «Là dentro? Forse tu vai lì per divertirti, Aleksej, ma di sicuro non mi aspetterei di trovarci Maks. D'altronde, oggi sto imparando cose sul suo conto che non mi sarei mai immaginato. Allora, era lì?» «No, ma ho scoperto dov'è» risposi, perplesso dai modi insolitamente bellicosi di Vadim. «Bene, allora andiamoci.» «Perché tanta fretta?» Vadim mi guardò come se pensasse che stava per spezzarmi il cuore. Il suo tono di voce si addolcì, di poco. «Perché Maksim Sergeevič è - ed è sempre stato, a quanto ne so una spia dei francesi.»
Capitolo 7 Ricordo il mio primo incontro con Maksim Sergeevič Lukin. Era il 1805, un paio di mesi prima di Austerlitz. Eravamo a pranzo al circolo ufficiali, e sentii una voce giovane e spavalda all'altro capo del tavolo. Alzai gli occhi e lo vidi, appena diciottenne, impegnato in una fitta conversazione con Dmitrij, che conoscevo già bene. «In America non c'è un re, ma ci sono schiavi» stava dicendo Maks. «In Inghilterra hanno un re ma non gli schiavi. In Francia hanno ucciso il re e hanno creato un imperatore, per non essere schiavi. In Russia abbiamo un imperatore e degli schiavi.» Fece una breve pausa. «Naturalmente, la maggior parte dei russi direbbe che abbiamo un imperatore e siamo schiavi.» «I servi della gleba direbbero così, intendi?» gli aveva chiesto Dmitrij. «Esatto.» Maks mi piacque subito. Non sapevo dove volesse andare a parare, ma mi colpirono la passione e la freschezza con cui esprimeva le sue idee. «Non mi sembra il caso di paragonare i servi della gleba agli schiavi africani» dissi, inserendomi nella conversazione. Lui non esitò. «Be', no, noi non siamo dovuti arrivare tanto lontano per trovare i servi.» Era un'affermazione tipica di Maks, come avrei imparato in seguito: ambigua, distaccata e pronunciata con una scintilla severa negli occhi. Ce l'aveva con gli americani o con i russi? Ricordo che anni dopo gli feci una domanda simile, e lui mi rispose che non gli interessavano le nazioni, soltanto le idee. «Le nazioni non si fondano su idee?» avevo ribattuto. «Alcune sì» aveva concordato lui, «ma non molte». All'epoca me ne vennero in mente solo due: la Francia e l'America; e noi non eravamo in guerra con l'America.
Fuori dal bordello sulla Tverskaja, con Bonaparte alle porte della città, ricordai tutto ciò e fissai i miei occhi inespressivi in quelli di Vadim. «Come può essere una spia dei francesi? Ha combattuto i francesi con noi ad Austerlitz. E li ha combattuti qui.» «Davvero?» ribatté lui. «Non è quel che ho sentito. Secondo Dmitrij, appena siamo arrivati a Gzatsk, Maks ne ha consegnati tre nelle loro mani, e li hanno giustiziati poche ore dopo.» «Tre di chi?» «Tre Opričniki: Simon, Faddej e uno degli Iakov, non ricordo quale.» «E come fa Dmitrij a sapere tutto questo?» «Perché gliel'ha detto Andrej... lui era con gli altri tre quando Maksim li ha traditi, ma è riuscito a fuggire.» Dalla mia fronte aggrottata Vadim si accorse che non avevo intenzione di condannare un vecchio amico sulla sola base delle parole di Andrej, un uomo che conoscevamo da pochi giorni. «E Dmitrij ha parlato di persona con Maks» aggiunse. «E Maks lo ha ammesso.» L'ultimo messaggio del mio amico diceva che non dovevo fidarmi di Dmitrij. Ora Dmitrij mi diceva di non fidarmi di Maks. Questi si era nascosto - e gli innocenti non si nascondono - e aveva chiesto di vedere solo me. Lo faceva per proteggersi, o mi stava tendendo una trappola? «E Dmitrij quando ha saputo tutto ciò?» chiesi. Non ci fu bisogno di risposta perché in quel momento lo stesso Dmitrij apparve all'altro capo della piazza e venne verso di noi. «Gliel'hai detto?» mormorò a Vadim. «A grandi linee, ma è meglio se ce lo ripeti.» «Da quanto lo sai?» gli domandai. Chissà cos'altro ci aveva tenuto nascosto. «Subito dopo averti lasciato a Gorjackino, Andrej mi ha trovato e me l'ha detto.» «Ti ha detto cosa, esattamente?» Ero ancora molto perplesso.
«Poco prima di Gzatsk, Maks e i suoi Opričniki si sono separati: vale a dire, come poi si è saputo, che lui ha tagliato la corda. I tre hanno fatto qualche ricerca e hanno scoperto che era stato catturato dai francesi. Naturalmente non era vero: era entrato di sua volontà nell'accampamento francese.» Stavo per chiedere come l'avessero scoperto, ma Vadim alzò una mano per lasciar proseguire Dmitrij. «L'hanno salvato, senza capire che era un traditore, e ben presto lui è scappato di nuovo. Lungo la strada hanno incontrato Faddej e tutti insieme sono venuti a Gorjackino. Sono arrivati il giorno prima di noi, e lì hanno trovato Maks. Lui ha spiegato di essersi imbattuto in un grosso accampamento francese non difeso, a poche verste dalle formazioni principali a Borodino. Era un bersaglio facile, ha detto, e loro gli hanno creduto. «Quindi tutti e quattro - Andrej, Simon, Iakov Alfejnic e Faddej sono entrati nell'accampamento senza sospettare niente e sono stati subito uccisi. Tranne Andrej... lui per fortuna è riuscito a scappare, altrimenti non lo avremmo mai saputo.» «E Andrej ti ha raccontato tutto questo?» chiesi. «Sì. Dopo che ti ho lasciato, mi ha raggiunto e mi ha riferito cos'era successo. Mi ha detto di aver seguito Maks dove si era accampato. Quando gli ho parlato, lui ha confessato tutto, proprio come me l'aveva detto Andrej. Sappiamo bene quanto gli piaccia parlare della Francia e della rivoluzione, però non ho mai pensato che facesse sul serio.» «Da quanto va avanti la faccenda?» domandò Vadim. «Non lo so» ammise Dmitrij. «Cosa importa? Il punto è che dobbiamo affrontarlo. Avete scoperto dov'è?» «Aleksej lo sa» disse Vadim; entrambi mi guardarono. Riflettei un momento. Se Dmitrij da solo avesse denunciato Maks, avrei potuto credergli; ma il fatto che c'entrasse Andrej - uno degli Opričniki - mi insospettiva. Dopo il loro arrivo, Dmitrij mi era sembrato molto più leale nei loro confronti che nei nostri. Certo, loro erano con noi, in teoria. Era giunto il momento di accertarlo.
«Vado a cercarlo» dissi. «Lo porto qui.» «Assolutamente no» ribatté Dmitrij. assicureremo che torni indietro con noi.»
«Andremo
tutti
e
ci
«Andrò da solo» ripetei in tono fermo. «Lui aspetta me. Se andiamo tutti, potrebbe fuggire. Se vede solo me mi seguirà; altrimenti, sapremo per certo che è un traditore.» Dmitrij sghignazzò. «Credimi, Dmitrij Fetjukovič» gli dissi, serissimo, «se Maksim è un traditore allora ha tradito me quanto voi. Non ho intenzione di fargliela passare liscia.» «Potrei ordinarti di dirci dov'è» s'intromise Vadim, ma dalla sua voce capii che non avrebbe rischiato di vedere il suo squadrone ulteriormente smembrato dalla disobbedienza. Mi guardò, guardò Dmitrij, tornò a guardare me. «Molto bene, Aleksej. Vai tu. Portalo qui e insieme decideremo cosa farne di lui... se è colpevole.» Ma le ultime parole furono un ripensamento: aveva già emesso la sentenza. Sellai il cavallo e mi avviai verso sud. Desna non era lontana; però non avevo fretta di arrivarci, quindi andai al piccolo galoppo. Potevo credere oppure no alle parole di Dmitrij sulla colpevolezza di Maks, ma di sicuro avrebbe seguito gli ordini di Vadim e mi avrebbe consentito di andare da solo. Lungo la strada mi guardai sempre le spalle e feci un paio di deviazioni: non mi parve di essere seguito. Era buio da un po' quando arrivai alla capanna del boscaiolo, appena a nord del villaggio. Non c'ero mai stato prima - mi pare fosse stato Maks a suggerire di aggiungerla alla lista - e mi sorpresero le dimensioni. Era grande abbastanza per poterci dormire in due, in relativa comodità. Bussai alla porta e chiamai a bassa voce. «Maks! Maks, sono Aleksej.» La porta si aprì di uno spiraglio e vidi il suo volto, pallido, sporco e impaurito. «Sei solo?» mormorò. Annuii. Si guardò intorno con aria paranoica prima di aprire e lasciarmi entrare.
«Da quanto sei qui?» gli chiesi. «Due giorni» rispose. L'interno della capanna era vuoto, tranne una sedia e una semplice stufa di argilla addossata a una parete. «Siediti» mi invitò. Presi la sedia e la spostai al centro della stanza. «No, siediti tu» dissi. Cercai di sembrare generoso, in realtà mi stavo preparando a un interrogatorio, e mi sarei trovato in posizione migliore se fossi rimasto in piedi e lui no. Mi obbedì. «Ho parlato con Dmitrij» attaccai. Maks fissò il pavimento. «Bene» mormorò. «È vero?» chiesi. «È vero cosa?» Persi la compostezza e gli parlai in tono più personale di quanto avessi previsto, uscendo dallo schema dell'interrogatorio. «Questo non è un dibattito, Maks. Non è neppure un processo. C'è in gioco la nostra amicizia. Dammi una risposta chiara.» «Non posso» replicò, in tono sincero. «Mi conosci, Aleksej, non ragiono in quel modo, non parlo in quel modo.» Sapevo cosa intendeva. Alcuni uomini si fingono intellettuali per celare gli istinti dietro una maschera di ragionevolezza. Maks non era guidato dagli istinti. Ne aveva, e - come avevo scoperto in occasione della sua visita al bordello - li comprendeva, però non gli dava troppo peso e non vi faceva affidamento. Le sue espressioni più sincere erano sempre costruite con un processo razionale. «Ma se parli di amicizia, nello specifico, quella non l'ho tradita. Non tradirei niente di importante.» «Hai tradito il tuo Paese.» Non era una domanda, ma lui rispose lo stesso. «Sì.» «E hai mandato Simon, Faddej e Iakov Alfejnic a farsi massacrare dai francesi.» «Oh, sì. E ci avrei mandato anche Andrej se avessi potuto. Però ci sarebbe da discutere sul termine "massacrare".» «Stai dicendo che non sono morti?»
«No, no, sono morti eccome. Discutevo della parola, piuttosto evocativa.» Chi non conoscesse Maks avrebbe potuto pensare che il suo fosse un atteggiamento di sfida, o che stesse cercando di mostrarsi affabile, di rendersi amico chi lo stava interrogando. Io invece riconobbi il suo solito modo di fare onesto, preciso. La sua mente considerava l'imminente prospettiva della morte da traditore con l'identico distacco con cui affrontava una discussione sulla letteratura o su una nuova teoria politica. «Quindi non tenti di negare che sei stato una spia di Bonaparte?» gli chiesi direttamente. «No, perché dovrei?» Mi risentii di questa improvvisa ostentazione di sincerità. «L'avresti negato un mese fa?» «Certo.» «Cosa ti rende così sincero oggi?» «Sai già tutto, non mi sforzerò di mentire a chi conosce la verità» ribatté, con semplicità assoluta. Se solo uno di noi avesse capito che io ignoravo tutta la verità, che dovevo scoprire ancora qualcosa di essenziale, allora le cose sarebbero potute andare molto diversamente. Ma Maks, per quanto eloquente, non era mai stato bravo a capire quando i pensieri, così chiari nella sua mente, non erano ancora entrati nelle menti altrui. Il fatto che il mio orrore per il suo tradimento fosse così intenso, benché il crimine significasse decisamente poco per lui, lo spinse forse a ritenere che fossi al corrente dell'orrore ancor più grande da lui scoperto. «Da quanto lavori per Bonaparte?» domandai. «Ho sempre nutrito simpatie per la rivoluzione.» Annuii. Tutti ne nutrivamo, finché la rivoluzione non si era trasformata in un impero, e l'impero aveva invaso il nostro Paese. «Accadde quando fui catturato ad Austerlitz» continuò. «Tra di loro ci sono uomini esperti nell'individuare le potenziali reclute: i più giovani, l'avanguardia politica. Si sono limitati a farmi osservare che Napoleone sarebbe diventato padrone d'Europa oppure sarebbe stato sconfitto. Non può esserci un compromesso che lasci libera la
Russia: i britannici non lo consentirebbero, tanto per cominciare, e chi può biasimarli? Hanno i loro interessi da considerare. Ma dovevo scegliere. Preferivo un mondo in cui le idee della rivoluzione potessero prosperare, oppure un mondo in cui sarebbero perite? Sai bene cosa avrei scelto, Aleksej, senza bisogno di chiedermelo.» Aveva ragione. Non potevo accusarlo di incoerenza. Ogni cosa che faceva era una prevedibile conseguenza delle sue opinioni e delle circostanze in cui si trovava. «E così, dopo qualche anno di indottrinamento, ti hanno rilasciato come un qualsiasi prigioniero?»
«indottrinamento è un'altra parola evocativa, tipo massacrare»
osservò lui, «comunque il senso generale è quello.»
«E che genere di "servizi" hai prestato a Bonaparte, da allora?» «Ben poco, in tutta onestà.» Fece un sorriso ironico. «Vadim aveva visto in me esattamente lo stesso potenziale per le operazioni "irregolari" che hanno visto i francesi, quindi quasi tutte le operazioni militari che ho condotto sono state con te, lui e Dmitrij, e anche quelle non sono state frequenti. Ho fatto rapporto ai francesi sui movimenti generali delle truppe e così via, ma non ho mai parlato di noi, perché mi sembravano questioni troppo personali. Ho scoperto che è molto più facile tradire un Paese che una persona.» «Fino alla settimana scorsa, quando hai consapevolmente mandato a morire tre uomini valorosi.» «Anche qui ci sarebbe da riflettere sulla scelta delle parole, comunque in questo caso è stato diverso. L'ho fatto per il bene dell'umanità.» «Umanità?» lo schernii. «È sempre per l'umanità, non è vero? Dimmi, Maksim, cosa rende l'umanità francese più importante di quella russa? O l'umanità britannica più importante di quella austriaca? Non possiamo combattere per tutta l'umanità, perché gli unici nemici dell'umanità sono altri umani.» Lui stava per obiettare, ma non ero dell'umore giusto per cedere. Quando ero arrivato a Desna, speravo con tutto il cuore che Dmitrij si fosse sbagliato, che Andrej avesse mentito; e quando Maksim aveva confermato ogni cosa, avevo cercato di capirlo, di comprendere perché l'avesse fatto.
Ma sentendolo giustificare la morte di tre compagni in nome del bene dell'umanità lo vidi per il traditore che era, come doveva averlo visto Dmitrij quando lo aveva smascherato. «Sostieni di proteggere i tuoi amici mentre abbandoni il tuo Paese, però il tuo Paese non è solo un pezzo di terra ritagliato arbitrariamente da generali dimenticati un secolo fa. Sono gli amici dei tuoi amici, le loro famiglie. Suppongo tu abbia un intelletto più acuto del mio, Maksim Sergeevič. Io non riesco ad amare l'intera umanità, amo solo ciò che conosco.» Feci una pausa, sperando che le mie parole avessero colpito nel segno, benché non ne vedessi l'utilità. Maks sedeva in silenzio, non mi guardava neppure. All'improvviso, nella penombra gettata dalla candela, li notai anch'io. Non so come fossero entrati né da quanto tempo fossero lì, ma ora intorno a noi, disposti in circolo, c'erano Pétr, Iuda, Filipp, Andrej, Iakov Zevedajnic e Varfolomej. Gli Opričniki progettavano di farsi giustizia da soli.
Capitolo 8 «Ora potete lasciarci, Aleksej Ivanovič» disse Pètr, che mi stava di fronte. Maks era seduto tra di noi. «Cosa vuol dire?» «Tre nostri compagni sono morti a causa di Maksim Sergeevič. Spetta a noi punirlo.» «Maksim Sergeevič ha tradito il suo giuramento come ufficiale dell'esercito russo. Lo riporterò a Mosca perché sia giudicato dalla corte marziale» annunciai con fermezza, benché non fossi nella posizione di imporre la mia volontà contro la loro. Pètr parlò in un sussurro risoluto: «Lui è nostro». Mi sovvenne un pensiero. «Come facevate a sapere che eravamo qui?» Pètr non ebbe la presenza di spirito di ignorare la domanda; rispose invece con una palese bugia: «Vi abbiamo seguito». «No» lo contraddissi. «Se così fosse, non sareste arrivati così tanto tempo dopo di me.» «Ce l'ha detto Dmitrij Fetjukovič» intervenne Iuda. «E lui come lo sapeva?» «Non ne ho idea. Perché non tornate a Mosca per chiederglielo?» rispose lui. «Perché non tornate a chiederlo alla vostra puttana?» disse Filipp, e alcuni degli altri sbottarono nelle loro solite risa sguaiate. Iuda mi si avvicinò e mi prese per un braccio, tirandomi da parte. Guardai Maks e lo vidi seduto in un silenzio pietrificato, furbo abbastanza da capire che non era il caso di fuggire né di lottare, e quindi intento a cercare una via d'uscita alternativa. «È davvero la soluzione migliore, Aleksej» mi disse Iuda in tono pacato. «Sai che è un traditore, e che merita la morte. Vuoi avere sulla coscienza l'assassinio del tuo amico, o anche solo il fatto di averlo riportato a Mosca per farlo giustiziare?»
Rimasi zitto. «Dubiti che sia un traditore?» continuò Iuda. «No.» «Quindi merita di morire.» «Sì.» «Se lo lasci qui» - la voce di Iuda era diventata un sussurro «potrai sempre dire di esserti trovato da solo contro tutti noi; che la tua opinione non valeva nulla, perché se avessi opposto resistenza vi avremmo uccisi entrambi.» Era insieme una lusinga e una minaccia, e funzionò. Non mi presi la briga di capire quale delle due fosse più persuasiva. Mi avvicinai a della condanna a piazzai davanti a sopra la testa. Lui degli occhiali.
Maks e gli sfilai la sciabola dal fodero. Il rituale morte sembrava rendere il tutto meno reale. Mi lui e con le braccia divaricate gli tenni la spada mi guardò, le lacrime gli brillavano dietro le lenti
«Per favore, non farmi questo, Aleksej.» «Questo è ciò che accade ai traditori, Maks. Lo sai anche tu» risposi sottovoce, cercando di riempirmi la testa con un tale odio per il suo tradimento da scacciare ogni compassione. «Non la spada. Voglio dire, non lasciarmi con loro.» «Una morte vale l'altra, Maks.» Sapevo bene che era una bugia. «Preferiresti fossero i tuoi amici a farlo?» Sorrise rassegnato e distolse lo sguardo. Non avevo mai spezzato una spada intenzionalmente prima di quel giorno, e nell'esercito non si veniva addestrati a farlo. La lama si piegò, si piegò, si piegò fin quasi a ricurvarsi su se stessa, ma non voleva spezzarsi. Con le braccia divaricate sopra la testa di Maks, ero allo stremo delle forze; mi venne un crampo. Poi all'improvviso, con un tintinnio stonato che mi ricordò il sibilo di un serpente, l'acciaio si spezzò. Le braccia mi sussultarono con una vibrazione dolorosa e la mano sinistra iniziò a sanguinare da un taglio sul palmo. Due degli Opričniki, credo fossero Filipp e Varfolomej, fecero un
passo avanti per aiutarmi, ma Iuda alzò una mano per trattenerli, consapevole che dovevo agire da solo. Ricordai cos'ero stato sul punto di dire, pochi minuti prima, quando erano arrivati gli Opričniki. «Come hai potuto proprio tu, Maks, giustificare l'uccisione di un altro essere umano in nome dell'umanità?» Presi le due metà della spada spezzata, le affiancai e gliele gettai bruscamente in grembo. Mi voltai e uscii nella notte. «È proprio questo il punto, Aleksej» mi gridò dietro Maks, disperato. «Credevo avessi capito. Loro non sono...» Qualunque cosa loro non fossero (e chiunque indicasse la parola loro), non lo sentii. La sua voce fu interrotta da un breve grido strozzato quando uno degli Opričniki gli tirò un pugno oppure... Non volli pensarci. Solo ore dopo mi resi conto che quell'ultimo suono emesso da Maks era esattamente lo stesso grido che avevo udito lanciare dal soldato francese, vittima dello stesso terribile gruppo di uomini, meno di una settimana prima, a Gorjackino. Metà della mia mente non aveva rimorsi, e mi consolai al pensiero che Maksim sarebbe stato d'accordo. Con il senno di poi, non potevo biasimare Maks o il soldato francese per il modo in cui erano morti, né potevo dolermi per la morte di un traditore russo più che per quella di un patriota francese, per quella di un mercenario straniero più che di un uomo che mi era stato amico per sette anni. Non esiste un buon modo, né un motivo valido, per morire. La morte è momentaneamente spiacevole per chi la sperimenta e spesso vantaggiosa per chi la provoca, ma non vale la pena di preoccuparsi per i dettagli. L'altra metà di me sapeva fin troppo bene che avevo appena lasciato lì Maks con gli Opričniki per pura codardia. Una codardia pratica e razionale, certo (ne esiste di altro tipo?), comunque io avevo deciso di riportarlo a Mosca, e se avevo agito altrimenti era stato solo per salvarmi la pelle. Non sarebbe valsa la pena di rischiare per offrire a Maks un'altra ora, un altro giorno di vita? Non avrei potuto donargli un'ultima possibilità di giustificarsi, di dirmi cose che sinora non avevo capito? Mentre il mio cavallo tornava a Mosca, guidato più dal proprio istinto che da me, pensavo solo ai ricordi felici del bel ragazzo che
avevo lasciato lì a morire. Il tradimento - mi aveva ossessionato per quanto? sei ore al massimo - che ne aveva causato la morte non trovò posto tra i ricordi della sua intelligenza, della sua esuberanza, del suo brillante cinismo. In piena notte, quando finalmente raggiunsi la periferia della città, mi accorsi di non sapere l'ora esatta della dipartita di Maksim: l'avevo lasciato vivo, e adesso non era sicuramente più di questo mondo, ma non ero rimasto lì a vederlo morire. Ricordai la morte di mio padre: anche di quella ignoravo il momento esatto. Ero poco più di un bambino, e mia madre, per proteggermi, mi aveva lasciato fuori dalla sua stanza nelle ultime ore della malattia. Rammento che, seduto lì ad aspettare, mi ero chiesto più volte come mi sarei dovuto sentire: dovevo pregare per la sua sopravvivenza o piangere la sua dipartita? Non temevo che un atteggiamento sbagliato da parte mia sortisse effetti pratici sul destino di mio padre, di certo però avrebbe influenzato molto il mio stato d'animo. Quel giorno avevo giurato di non ripetere più lo stesso errore: di non andarmene mai al momento del trapasso di un amico. Eppure oggi avevo infranto quel giuramento, e mi sarebbe successo altre volte in futuro. Potevo giustificare la mia codardia pratica, per averlo lasciato agli Opričniki, ma non c'erano scuse per la mia codardia morale, per il fatto di non essere rimasto con lui fino all'ultimo. L'avevo lasciato morire da solo. E quel che è peggio, lui lo sapeva. Era mattino quando arrivai. Durante la mia assenza l'atmosfera era cambiata oltre ogni immaginazione. I resti del nostro esercito, che io e Vadim avevamo superato così facilmente sulla strada del ritorno da Borodino, stavano entrando a Mosca proprio in quelle ore. Non venivano a radunarsi, né a organizzare una resistenza: erano lì perché non avevano altro posto dove andare. E di sicuro quelle decine di migliaia di soldati non affollavano oltremodo la città: mentre i militari entravano, i civili partivano, persa ogni speranza che Mosca restasse irraggiungibile. Le strade erano piene di gente, e tutti andavano da ovest verso est. Carretti stracolmi di mobili e stoffe, di oro e argento, uscivano dalla città con i
proprietari che tenevano d'occhio le loro cose. Alcuni di loro, o i loro servi, se ne stavano appollaiati in cima al carro come ragni dalle tante zampe, cercando di tenere una mano su ogni oggetto per non lasciarne cadere nessuno, per non abbandonarli ai francesi. Dietro i carretti dei moscoviti venivano i carri che trasportavano i soldati feriti. Le vittime di Borodino riempivano ogni strada. Per ogni carrettata di beni di lusso che usciva da est, ne entrava un'altra da ovest, rigurgitante di morti e moribondi. Quando i due gruppi si incontravano, c'era a volte un rimescolarsi, a volte una separazione. Alcuni cittadini reagivano con disgusto alla vista di chi aveva combattuto con tanto valore per difenderli; altri erano lieti di liberarsi delle loro cose più preziose per fare spazio a un soldato e portarlo in salvo. Ma se un tale sacrificio poteva salvare la vita a un uomo, avrebbe rimosso solo una goccia dall'oceano di umanità che si stava riversando a Mosca. Io, quel giorno, la goccia non l'avevo salvata. Non avevo alcuna voglia di rivedere subito Vadim e Dmitrij. Non sarebbe stato un problema spiegare loro perché fossi tornato senza Maks, contravvenendo alle istruzioni di Vadim; ma non mi piaceva l'idea dei dubbi che sicuramente mi si sarebbero affollati in testa al momento di annunciarlo. Ma poi, perché ascoltare quei dubbi proprio ora? Era stato così bello quel silenzio codardo, a Desna. La coscienza di un uomo grida molto più forte al tempo passato che non al presente. Se non dovevo vedere subito Vadim e Dmitrij, allora avevo un solo altro posto dove andare. I moscoviti in fuga avevano preso una decisione saggia, e io volevo assicurarmi che Domnikiia fosse tra loro; accertarmi che avesse un luogo sicuro dove rifugiarsi e denaro a sufficienza per mangiare e viaggiare. In un angolo riposto della mia mente, temevo che abbandonare Mosca fosse l'ultimo dei suoi desideri. Facendomi largo nelle strade affollate, sgomitando tra quelli così sfortunati da dover procedere a piedi e scansando le mani cieche dei soldati morenti sui carri scoperti, mi resi conto che ben presto la città si sarebbe riempita di uomini in divisa francese; ricchi, vittoriosi e soprattutto vogliosi. Domnikiia avrebbe potuto guadagnare più con loro in un giorno che in un'intera settimana con
i soliti clienti. Mi domandai se sarebbe stata più popolare nei panni della francese Dominique, che ai soldati avrebbe ricordato le loro innamorate a Parigi, o in quelli di Domnikiia, la moscovita esotica, erotica e soprattutto sconfitta. Ma ormai sapevo bene di non essere bravo a giudicare il patriottismo russo. Quando arrivai, lei si stava preparando a partire. Era passata l'una, il bordello doveva essere aperto da ore, eppure trovai la porta sbarrata. Tornai sulla piazza e lanciai un sasso alla sua finestra. La finestra si aprì e ne spuntò la testa di Margarita Kirillovna. «Siamo chiuse!» sbottò. «Margarita!» gridai. Lei strizzò gli occhi nel tentativo di riconoscermi. «Domnikiia è in casa?» La testa scomparve e la finestra si richiuse. Attesi. Vari minuti dopo sentii il chiavistello della porta che si apriva. Stavolta intravidi il viso di Domnikiia. Mi feci avanti e cercai di baciarla; lei mi evitò e mi fece cenno di entrare, poi richiuse la porta dietro di me. All'interno mi aspettava una favolosa visione di caos: il salone era pieno di magnifiche ragazze, occupate a infilare i loro bei vestiti nei bauli. Otto lavoravano lì, e anche se il mio cuore era di una soltanto, avevo occhi per tutte. Nel loro fascino pacato, controllato, professionale, erano una tentazione per il più puritano degli uomini. E adesso che erano nel panico, come ragazzine, apparivano ancora più belle. Seguii Domnikiia su per le scale fino alla sua stanza, ora dominata da un grosso baule mezzo pieno di vestiti. Margarita andava e veniva da camera sua, aggiungendo nuovi strati al bagaglio, e appena entrammo Domnikiia andò al suo armadio e iniziò a fare lo stesso. Non mi aveva ancora rivolto la parola. Quando mi passò davanti la presi per un polso e la attirai a me, però stavolta fui io a rifiutarmi di baciarla. Non me n'ero accorto prima perché il suo volto era nascosto dalla porta, e perché non mi aveva guardato in faccia; ma ora vidi dei lividi sull'occhio destro e sulla guancia. Il labbro superiore era spaccato poco sotto la narice destra. Non era una ferita recente, ma si era riaperta quando lei aveva tentato di sorridere. Avvicinandomi notai sul mento un livido
sbiadito, lasciato da una mano grande, brutale. Per un istante disprezzai me stesso più ancora del suo assalitore, perché nel guardarla avvertii un brivido di attrazione più forte che mai. La sua bellezza era accentuata, non deturpata, da quelle ferite e dalla sua nuova aria vulnerabile. La baciai sulle labbra con delicatezza; non volevo farle male, ma neppure che pensasse di piacermi meno a causa dei lividi. «Chi è stato?» «Ti avevo chiesto chi fosse Dmitrij» rispose lei in tono acido. «L'ho scoperto da sola.» «È stato lui?» Cercai di suonare incredulo, ma nel profondo del cuore non ne ero tanto sorpreso. Non ero a conoscenza di comportamenti simili in passato da parte di Dmitrij, ma quel che ora vedevo non era in contraddizione con ciò che sapevo del suo carattere. «Suppongo volesse sapere dove si trovava Maks.» Lei non aprì bocca; invece mi affondò la testa nel petto e scoppiò a piangere. Il silenzio che si era imposta fino a quel momento era dovuto alla paura di non riuscire a controllarsi. Adesso che mi aveva rivelato l'unico fatto importante, si abbandonò al piacere della rinuncia all'autocontrollo, e offrì a me quello di consolarla. Però aveva ancora un annuncio da fare. «Ma io non gliel'ho detto, Ljosa!» esclamò tra i singhiozzi. «Non gliel'ho detto, non gliel'ho detto.» Non riuscivo a biasimarla per aver tradito Maks, quindi fui felice di concederle quell'inganno. Era un sollievo sapere che fosse stata costretta a confessarlo a Dmitrij. Le parole pronunciate da Filipp a Desna, il fatto che Domnikiia li avesse aiutati, mi avevano preoccupato, benché poi le avessi scacciate dalla mente. Anche così, tuttavia, l'avevo sottovalutata. «Gliel'ho detto io» intervenne Margarita, che continuava a fare la spola tra la sua stanza e il baule. «Perché?» le domandai. Lei alzò lo sguardo dal baule, sorpresa. Poi indicò Domnikiia con gli occhi, e tornò a fissare me. «Tu non l'avresti fatto?»
Pochi istanti dopo Domnikiia si staccò da me e ricominciò a fare i bagagli. «Dove andrai?» chiesi. Domnikiia non se la sentiva ancora di parlare, quindi rispose Margarita al posto suo. «A Jurev-Polskij.» Era una scelta saggia: centocinquanta verste a nordest e ben lontano dalla strada che avrebbero preso i francesi, se mai avessero proseguito la marcia oltre Mosca. Era opinione comune che se si fossero spinti più in là sarebbero andati a nordovest, in direzione di Pietroburgo. Se la caduta di Mosca non bastava a far crollare tutta la Russia, allora ci avrebbe pensato la conquista della mia città: così ragionavano i francesi. «Avete bisogno di denaro?» domandai, estraendo di tasca un fascio di banconote, che già avevo pensato di dare, loro... be', di sicuro a Domnikiia. «No» rispose Margarita, poi, accorgendosi di sembrare ingrata, aggiunse: «Comunque grazie. Pétr Petrovič si prende cura di tutte noi». Cercai di non reagire a quel nome. Pétr Petrovič era il proprietario del bordello, e - di fatto, se non legalmente - il proprietario di Domnikiia, di Margarita e delle altre ragazze. Nelle poche occasioni in cui l'avevo incontrato mi era sembrato assai cortese e comprensivo. Ma, come le ragazze sapevano mutare la loro personalità per adeguarsi ai gusti di ogni cliente, anche lui - ne ero certo - sapeva adattarsi all'interlocutore, per farselo amico. «Protegge i suoi affari?» «Immagino di sì» ribatté Margarita. Domnikiia mi si avvicinò e, mormorando un grazie, prese due banconote dalla mia mano. Non era una grossa cifra, ma era strano come il significato del denaro nella nostra relazione fosse così mutato negli ultimi giorni. Quando la pagavo per il sesso, era un simbolo della distanza tra noi, della nostra indipendenza. Ora lei prendeva soldi da me in cambio di nulla, mostrando che preferiva dipendere da me che non da Pétr Petrovič. Almeno, questa fu la mia interpretazione.
«Quando partite?» «Domani» mormorò Margarita. «Domattina presto.» «Tornerò a trovarvi stasera» promisi, e accennai a uscire. «Dovrò accompagnarti giù alla porta» disse Margarita. «No, vado io» intervenne Domnikiia. Le era tornata un po' della consueta allegria nella voce. Giunti alla porta, le chiesi: «Andrà tutto bene?». «Ce la caveremo» sussurrò distrattamente. «Jurev-Polskij è molto lontana da qui.» «No, parlavo di te.» Alzai una mano per accarezzarle la guancia ferita, ma mi trattenni per paura di farle male. Lei mi prese la mano tra le sue e se la premette sul volto, la accarezzò e tornò a passare le dita su ciò che restava delle mie. «Queste ferite guariranno» disse. «È solo che... è passato molto tempo.» Sorrise, con un'aria quasi nostalgica. «Mi ero abituata a non essere presa a pugni. Per questo mi piace lavorare per Pétr Petrovič.» Sentii le sue dita sulle mie e capii cosa intendeva. Anche ferite inguaribili come le mie si possono dimenticare, ma non si riesce a scordare il terrore di quando sono state inflitte. Montò dentro di me un odio profondo per Dmitrij. Nella mia preoccupazione per Domnikiia, mi ero quasi dimenticato chi ne era stato l'artefice. Il mio amico, quindi era colpa mia. E non potendo punire fisicamente me stesso, tutta la mia rabbia si focalizzò su di lui. Era stato lui a provocarle quel dolore, lui a mandare gli Opričniki a inseguire me e Maks, lui a fare a pezzi il mio mondo rivelando che Maks era una spia. «Troverò Dmitrij» sibilai, con un tono che diceva chiaramente cosa intendessi fare una volta che l'avessi trovato. Poi la baciai. «Ci vediamo stasera.» Mi ero aspettato che mi chiedesse di non essere troppo severo con Dmitrij, ma così non fu. La ammirai ancor di più per quel desiderio di vendetta. Allontanandomi, sentii chiudere dietro di me i pesanti chiavistelli.
Tornai alla locanda e non trovai traccia di Dmitrij né di Vadim, ma qualcuno mi aveva lasciato un biglietto sotto la porta. Diceva soltanto: 8-30-11-Ч7-ВД Ci saremmo incontrati il giorno dopo, il trenta agosto, alle undici del mattino nella località Ч7. Cioè sulla riva meridionale della Moscova, di fronte al Cremlino. Le iniziali «В» e «Д» indicavano che il messaggio proveniva da Vadim e da Dmitrij. Con il nemico alle costole, era una precauzione saggia non alloggiare tutti nello stesso posto. Era una fortuna che avessero già deciso loro, e quindi io non dovevo spostarmi, almeno per il momento. Quel pomeriggio scrissi due lettere. La prima era per Marfa. Non c'era granché di importante da dirle; menzionai la battaglia di Borodino - sorvolando sul mio ruolo marginale - e il dibattito in corso sul fatto che fosse stata una vittoria o una sconfitta; e poi minimizzai l'evacuazione da Mosca. Era un riempitivo prima di arrivare a Maks. L'avevamo ospitato a Pietroburgo per molti mesi dopo il suo rimpatrio nel 1807, e in seguito Marfa l'aveva rivisto varie volte, e gli era affezionata. Le scrissi quanto di più vicino alla verità osassi: Maks si era rivelato una spia dei francesi, aveva mandato a morire alcuni commilitoni, aveva confessato ed era stato giustiziato. Rileggendo quel resoconto emendato, mi accorsi che nessuno poteva avere motivo di provare compassione per lui. Nessuno avrebbe messo in dubbio che meritasse la morte per il tradimento, nessuno mi avrebbe incolpato per aver permesso agli Opričniki di eseguire la sentenza. Quindi aggiunsi qualche parola in difesa di Maks, la stessa difesa che ancora mi spronava a mettere in dubbio le mie azioni. Scrissi del suo idealismo, della sua ammirazione per i rivoluzionari e per Bonaparte e del suo rifiuto, nonostante tutto, di tradire i suoi veri amici. La seconda lettera era indirizzata alla madre di Maksim, Elizaveta Malinovna. Non l'avevo mai vista - abitava nel profondo Sud, a Saratov - ma Maks mi aveva parlato spesso di lei, non con affetto
(non era nel suo stile) ma con quella che mi era parsa lealtà. Sorrisi del fatto che mi fosse venuta in mente quella parola, d'altronde dovevo ammettere che Maks non era meno leale di tanti altri: la sua lealtà era semplicemente rivolta altrove. Suo padre era morto di dissenteria quando lui era molto piccolo. Gli unici altri parenti stretti erano due sorelle, ma non sapevo dove vivessero; ci avrebbe pensato Elizaveta Malinovna a trasmettere loro la tragica notizia. Nella mia lettera non parlai di tradimento: dissi che Maksim era morto combattendo i francesi. Spiegai di non poter fornire ulteriori dettagli per motivi di sicurezza nazionale, ma le diedi abbastanza informazioni per dedurre che fosse morto da eroe a Borodino. Quando posai la penna, mi resi conto che mi ero dimenticato di dirlo a Domnikiia. Con il senno di poi, forse era stata una decisione saggia. Avrei dovuto comunicarglielo, ma al momento giusto e con i giusti toni. Però non era stato questo il motivo della mia reticenza: me ne ero semplicemente dimenticato. La morte di uno dei miei più cari amici, di cui ero in parte responsabile e per la quale avevo pianto per tutto il viaggio di ritorno da Desna, mi era passata di mente alla vista di qualche livido sul viso della mia amante. Ero un uomo molto volubile. Mantenni la promessa, e quella sera tornai a trovare Domnikiia. Le strade della città erano ancora piene di moscoviti, della loro roba e di soldati in ritirata. La percentuale di militari cresceva rapidamente perché arrivavano sempre più feriti. Alcuni erano in grado di camminare, altri venivano trasportati in barella dai commilitoni, altri ancora giacevano, coscienti o meno, sui carri, i vivi gettati accanto ai moribondi. Forse non tutte le trentamila vittime russe passarono in città in quei pochi giorni, ma a me parvero quasi altrettante. Quando arrivai, il bordello era ancora chiuso e la porta sprangata. Stavolta, un sasso lanciato contro la finestra attirò l'attenzione di Domnikiia: scese e la invitai a passeggiare. Eravamo lontani dalle strade principali, lì le vie e le piazze erano più tranquille. Non eravamo l'unica coppia a vagare per Mosca quella sera, mano nella mano, consapevole di doversi separare presto. Dopo qualche parola e qualche silenzio, giunsi al punto.
«Maks è morto» annunciai a bassa voce. «Non volevo chiedertelo.» Proseguimmo in silenzio per un po'. «Non vuoi sapere com'è successo?» «Sì» rispose, «ma non sei tenuto a dirmelo.» «Era un traditore.» Non aggiunsi altro, ed ero certo che lei non avrebbe chiesto altro. «Mi piaceva» mormorò, dopo una pausa. Per lei come per me, apprezzarlo era indipendente dal suo essere una spia. Ci sono traditori simpatici e patrioti odiosi. «Anche a me.» «Lui lo sapeva?» «Sì» risposi, ridendo. Avevo frainteso. «Ci conoscevamo da sette anni.» Però non lo conoscevo poi così bene. «Intendo alla fine. Sapeva di piacerti ancora?» Importano davvero le sensazioni di un uomo nei suoi ultimi istanti di vita, in confronto a tutte quelle che ha provato negli anni precedenti? Forse in quel momento, a meno di ventiquattr'ore dalla morte di Maks, quegli ultimi minuti sembravano più importanti di quanto lo sarebbero stati dieci anni dopo, quando avrei potuto guardare con distacco alla sua vita. Lo sarebbero stati per me, intendo, non per lui. Dubitavo che sarei riuscito a lasciarlo nelle mani degli Opričniki, se i miei ultimi pensieri o parole per lui fossero stati quelli di un amico. Avevo scacciato tutte queste idee dalla mente e le avevo rimpiazzate con immagini di Maks il traditore. Il fatto che lui ci piacesse poteva essere del tutto indipendente dal suo tradimento, ma nella valutazione complessiva uno dei due fattori doveva schiacciare l'altro. A Desna il tradimento di Maks era stato la questione più pressante; ma la bilancia continuava a oscillare, da un'ora all'altra, restia a rivelare il lato verso cui avrebbe scelto di pendere. Non risposi alla domanda di Domnikiia. «E tu, cosa pensi di fare?» mi chiese dopo un po'.
«A che proposito?» «Rimarrai in città?» «Non lo so. Ne discuterò con Vadim e Dmitrij, domani.» Lei si fermò e si voltò verso di me, parlando con rinnovata intensità. «Perché non parti con me domattina?» Ero tentato, ma sapevo che la mia codardia e il mio egocentrismo potevano rivelarsi solo in situazioni più sfumate, dove potevano nascondersi in un labirinto di crisi di coscienza. Abbandonare i miei compagni d'arme e il mio Paese nelle mani di un invasore per scappare con una donna sarebbe stato un tradimento troppo sfacciato. «La Russia ha bisogno di me.» Suonava pretenzioso, tuttavia lo pensavo davvero. «C'è molto che possiamo fare per sabotare l'esercito di Bonaparte quando arriverà.» «Quindi resti?» «Penso di sì.» «E se devi andartene?» «Saprò dove trovarti.» «E se ti ammazzano?» Anche stavolta Domnikiia mi aveva posto una domanda a cui non avevo risposta. Eravamo tornati al portone del bordello. Ci guardammo l'uno di fronte all'altra, le sue mani nelle mie, senza nient'altro da dire; ma volevamo rimandare ancora quell'addio che avrebbe potuto essere definitivo. Sentimmo i chiavistelli aprirsi dall'interno. La porta si schiuse rivelando Margarita, che doveva averci visti arrivare. Quando la porta si spalancò sui cardini emerse un'altra figura, alta, bionda e pallida. «Buonasera, Aleksej Ivanovič» disse l'uomo. Era Iuda.
Capitolo 9 Nel mio sconcerto, strinsi le mani di Domnikiia così forte da farla sobbalzare. La sorpresa nel vedere Iuda fu presto seguita da una serie di interrogativi. Cosa ci faceva lì? Come aveva fatto a trovarmi? La risposta alla seconda domanda mi venne in mente subito: Dmitrij. Ebbi una sensazione sgradevole: Dmitrij era troppo solidale con gli Opričniki. «Non vuoi presentarmi questa splendida signorina?» riprese Iuda con un sorriso. Ci avevo messo un momento ad accorgermi che parlava in russo, e anche molto bene. Fino ad allora con gli Opričniki avevamo comunicato solo in francese. Cercai di ricordare conversazioni che noi - io, Vadim, Dmitrij e Maks - potessimo aver avuto in loro presenza pensando di non essere capiti. «Mi chiamo Dominique» rispose Domnikiia, porgendogli la mano. Mentre lui la baciava, guardandola negli occhi, tornai a sentire un certo orgoglio segreto al pensiero che per gli altri lei fosse ancora Dominique. Ero uno dei pochi a conoscerla con il nome russo. «La gente mi chiama Iuda» replicò lui. «Stavo appunto dicendo alla mia vecchia amica Margarita Kirillovna» - Margarita ridacchiò «quanto ammiro Aleksej, da quando lavoriamo insieme.» «Vecchia amica?» mi stupii io, alzando un sopracciglio. «Da ben cinque minuti» intervenne la ragazza. «Ha detto di essere venuto a cercare te. Non mi pareva il caso di farlo aspettare fuori. Dice che ci salverà dai francesi.» «Non da solo» protestò Iuda, in tono che mi parve falso, ma che ad altri sarebbe sembrato persuasivo. «Sono solo uno strumento nelle mani di Aleksej Ivanovič.» «Conoscevate anche Maksim?» chiese Domnikiia. Voleva parlare di lui, e sapeva che per me era difficile. «Non bene» ammise Iuda, «ma quel che sapevo di lui mi piaceva. Non condivido le sue ragioni per allearsi con i francesi, tuttavia sono certo che abbia agito con cuore onesto e in vista di quello che riteneva il bene dell'umanità.»
Ero sbalordito da tanta doppiezza. Era stato lui a costringermi a consegnare Maks, e ora ripeteva le sue parole. Per giunta, mi aveva incastrato: se l'avessi contraddetto adesso, di fatto avrei attaccato il mio amico. Mi pentii di non aver raccontato tutti i dettagli a Domnikiia fin dall'inizio. «So che hai dovuto prendere una decisione terribile, Aleksej» continuò Iuda, posandomi una mano sul braccio e rivolgendomi uno sguardo intenso e sincero, «però so anche che, nel profondo, sei convinto di aver fatto bene. Non è mai facile anteporre il bene della patria all'affetto che si nutre per gli amici. Anch'io ho perso amici cari in questa guerra, Aleksej. Ti sono vicino. Il tuo amico Maks» - ora si rivolse direttamente a Domnikiia - «è stato coraggioso fino alla fine.» La pausa tra «coraggioso» e «fino» giunse solo alle mie orecchie. Lei gli prese la mano. «Grazie, Iuda» mormorò. «Grazie per aver detto questo di Maks.» Lui le baciò di nuovo la mano destra. Poi sollevò il cappello per salutare le ragazze. «Addio, care amiche. Spero vi troverete bene a Jurev-Polskij. Se Aleksej è valoroso anche solo la metà di quanto so, presto la città sarà di nuovo sicura per voi.» Quindi si rivolse a me: «Immagino tu debba accomiatarti, Aleksej. Ti aspetto laggiù». Si allontanò verso la panchina da cui avevo visto Domnikiia per la prima volta, quasi un anno prima. Entrambe le donne lo seguirono con lo sguardo, sorridendo. Sollevai il cappello rivolto a Margarita, consapevole che il mio gesto sarebbe sembrato una pallida imitazione di quello di Iuda. «Addio, dunque, Margarita Kirillovna. Spero ci rivedremo presto.» Lei sorrise e poi, dopo un momento, capì di doversene andare. «Oh , si» disse. «Non lasciate la porta aperta troppo a lungo.» Entrò in casa. «Avrei dovuto intuirlo... che volevi parlare di Maksim» mormorai a Domnikiia. «Oh, non fa niente» disse lei, preoccupata di avermi turbato. «Tu non vuoi parlarne, lo so. Ma mi ha fatto piacere che Iuda abbia detto cose tanto belle sul suo conto. Pare un brav'uomo, da avere come alleato. Non si chiama così, giusto?» Ci misi un attimo a capire
che la domanda era ironica. «No» risi, «non è il suo vero nome, ma non ho idea di come si chiami in realtà.» «È meglio se vai. Ti sta aspettando.» Ci baciammo per quello che mi parve un istante, ma nessun bacio sarebbe stato abbastanza lungo per me. Poi lei rientrò, e il rumore dei chiavistelli mi annunciò una separazione che, per quanto ne sapevo, poteva essere definitiva. Raggiunsi Iuda. Seduto accanto a lui sulla panchina c'era Matfej, comparso come dal nulla. «Cosa volete?» chiesi, senza riuscire a mascherare l'ostilità. «In primo luogo» disse Iuda, «volevo confermarti che Maksim Sergeevič è morto. So che in queste situazioni anche il minimo dubbio può essere una tortura.» «L'avete portato indietro per farlo seppellire?» «Sarebbe stato difficile, temo, di questi tempi pericolosi. Ma credimi, abbiamo fatto ciò che era necessario con il suo corpo.» Vide l'espressione sul mio volto. «Ricorda, Aleksej Ivanovič, che anche noi veniamo da un Paese cristiano» soggiunse, con un sincero desiderio di convincermi. Mi resi conto di essere stato scortese. Eravamo ancora alleati. «Grazie» dissi. «C'è altro?» «Dobbiamo decidere cosa fare adesso... dal punto di vista militare.» «Non lo so. Devo parlarne con Vadim, Dmitrij e...» Era un riflesso condizionato. «... con Vadim e Dmitrij.» «Con Vadim abbiamo già parlato noi. Ci è sembrato meglio nasconderci a Mosca ad aspettare l'arrivo dei francesi. Così potremo causare più danni. Possiamo indebolirli, in modo che non osino proseguire verso Pietroburgo, o addirittura costringerli a lasciare la città.» «Solo voi dodici, liberare Mosca? Anzi, ormai siete rimasti in nove.» Mi accorsi all'improvviso che avevano perso la nostra stessa
percentuale di uomini, e ricordai che erano uomini pure loro, e avrebbero pianto la scomparsa dei propri amici. Iuda si fece più freddo e parlò come un artigiano a cui non venga riconosciuta la propria maestria. «Hai già notato di cosa siamo capaci, anche in piccoli gruppi.» «Questo è vero.» In tutta onestà, il loro piano mi pareva sensato. Le tattiche che avevo visto usare agli Opričniki non erano le più adatte per attaccare un esercito in marcia. Ma un esercito a riposo, lontano da casa, in una città straniera... era un'altra storia. «Quale sarà il nostro ruolo?» chiesi. «Conosciamo poco Mosca, così come la conoscono poco i francesi. Voi ci consiglierete dei nascondigli, ci direte dove trovare i nemici. Potete spacciarvi per russi o per ufficiali francesi; la maggior parte di noi verrebbe smascherata all'istante.» Mentre parlava guardò Matfej. Iuda sapeva bene quanto me che il suo accento russo avrebbe ingannato qualunque madrelingua, e tanto più gli invasori. Era preoccupato piuttosto per i suoi compagni meno abili. Come Matfej, appunto. Riflettei un momento. «Domani ne parlerò con Vadim e Dmitrij. Dove ci incontriamo?» «Abbiamo già preso accordi con Vadim, te lo dirà lui.» Si alzarono entrambi e si allontanarono nella notte. Poco dopo li vidi separarsi, e Matfej svoltò in una strada laterale. Mi resi conto che non aveva aperto bocca per tutta la conversazione e doveva essere lì solo per proteggere Iuda. Non riuscivo a immaginare che se lo fosse portato dietro per il mero piacere della sua compagnia. E chiaramente l'unica persona da cui Iuda doveva proteggersi ero io. Così avevo scoperto due cose. Primo, Iuda non poteva più fidarsi completamente di me come alleato, dopo quanto era accaduto a Maks. Secondo, se io e lui fossimo giunti a uno scontro, non era sicuro di vincere. Mi ero accomiatato da Domnikiia, ma la rividi un'altra volta prima che partisse da Mosca. La comparsa di Iuda e Matfej al bordello mi aveva preoccupato molto. Era fin troppo chiaro che
fosse stato Dmitrij a dir loro dove potevano trovarmi; e una volta lì Iuda aveva visto con i suoi occhi quale fosse la mia relazione con Domnikiia. Era evidente, inoltre, che Margarita gli aveva rivelato che lei e le altre erano dirette a Jurev-Polskij. Ma naturalmente poteva essere tutto frutto della mia paranoia. Iuda non aveva motivo di serbarmi rancore, e se invece così fosse stato, non significava che avrebbe cercato di colpire me attraverso Domnikiia. Comunque, dovevo accertarmi che fosse partita sana e salva. Le strade erano più silenziose. I pochi carri e carrozze ancora in giro erano perlopiù parcheggiati per la notte, con dentro i proprietari addormentati, pronti a riprendere il viaggio il giorno dopo. Mi trovai un nascondiglio, non lontano dal suo portone, e attesi un segno, degli Opričniki oltre che di Domnikiia. Appena dopo le sei, i primi raggi del sole illuminarono tre carri coperti: si fermarono davanti al bordello, il portone si aprì e i tre carrettieri entrarono; ne uscirono poco dopo carichi di bauli e valigie e li sistemarono nel cassone. Fecero diversi viaggi, finché il carro fu quasi pieno. Poi, come in processione, uscirono otto ragazze e un uomo. L'uomo era Pétr Petrovič, un personaggio dalla ricchezza ostentata ma innegabile. Poteva infatti permettersi tre carri, quando le famiglie più ricche di Mosca scambiavano i loro oggetti di valore con un posto a sedere su un carretto pieno di paglia. Avvertii un brivido di soddisfazione quando vidi Domnikiia tra le altre ragazze. Era un entusiasmo inspiegabile. Se avessi voluto, sarei potuto uscire dal mio nascondiglio e andare a salutarla. Se lei avesse saputo che ero lì a guardarla, non le sarebbe dispiaciuto affatto. Eppure, per motivi a me oscuri, mi divertivo molto di più a spiarla in segreto. Pétr Petrovič chiuse il portone con una grossa chiave. Quattro ragazze montarono sul primo carro e quattro su quello intermedio, tra cui Domnikiia. Mi resi conto che tutti i miei timori a proposito di Iuda e degli Opričniki erano serviti solo a ingannare me stesso: in realtà ero andato fin lì perché volevo vederla ancora. Pétr Petrovič salì sul primo carro, accanto al cocchiere, e il convoglio partì. Quando svoltarono l'angolo la guardai per l'ultima volta: Domnikiia era seduta con aria tranquilla e, per quanto poco le
si addicesse questa parola, pudica. Era al sicuro e stava fuggendo da Mosca. Degli Opričniki non c'era traccia. Tornai a letto e riuscii a dormire alcune ore prima di recarmi all'appuntamento con Vadim e Dmitrij. Ci misi parecchio ad arrivare, perché con la luce del giorno le strade erano tornate a riempirsi di persone, cavalli, carri e carretti. A un angolo si era raccolto un capannello di persone: un uomo era legato a un albero e lo stavano frustando. Ogni volto nella folla era impaurito: paura per l'invasore che cercavano invano di dimenticare godendosi quello spettacolo. Tra di loro c'era un sottotenente dell'artiglieria; sorrideva e fumava da una pipa d'argilla. «Cos'ha fatto?» gli chiesi. «Era un lacchè» fu l'illogica risposta dell'ufficiale. «Intendo dire, perché lo frustano?» «Ah!» Cercò di darmi una spiegazione più chiara. «È francese.» «E com'è arrivato a Mosca?» «Ci vive da anni. L'hanno trascinato fuori da lì.» Indicò una casa grande e lussuosa, del tipo in cui ci si aspetterebbe di trovare servitù francese. «Dicono che sia una spia.» «È stato processato?» «No.» Tirò una lunga boccata dalla pipa. «Per questo si limitano a frustarlo.» Mi augurai che gli altri francesi accusati di spionaggio fossero stati trattati con altrettanta clemenza. «Non dovreste fermarli?» domandai. L'uomo si voltò verso di me, e solo allora mi accorsi che gli mancava l'occhio destro: la ferita era fresca, e iniziava appena a rimarginarsi. Parlò con impeto. «Fermarli? Ho visto metà del mio plotone fatto a pezzi da una sola granata francese. Pensate che questo me lo sia procurato da solo» - indicò l'occhio mancante - «per somigliare al generale Kutuzov? Per una volta che i civili decidono di vendicarsi anche per conto mio, pensate che darò retta a un civile che mi chiede di farli
smettere? Andate a combattere, prima di dire a un soldato cosa fare.» Come al solito non portavo l'uniforme; avrei potuto mostrargli i documenti, ma erano forse affari miei? A giudicare da altre storie che sentii raccontare in seguito, quell'uomo aveva avuto fortuna a essere soltanto frustato. Proseguii verso la Moscova, e le strade si fecero sempre più trafficate. La disperazione che aveva spinto i moscoviti a lasciare la città non era bastata ad accelerare la fuga. I capannelli, come quello che si era riunito intorno all'albero con il francese, erano un ostacolo ulteriore perché tutti i passanti rallentavano per osservare la scena. Lungo la via Nikitskij trovai un altro rallentamento nel flusso del traffico. Un carretto tirato da due granatieri della fanteria di linea si era fermato in mezzo alla strada. Nel cassone, sdraiati di traverso fianco a fianco, c'erano tre loro commilitoni, le uniformi strappate e insanguinate. I due uomini - ragazzi, in verità - stavano discutendo con altri due soldati, entrambi dragoni della cavalleria, costretti a procedere a piedi. Uno - quello che parlava più animatamente - era in condizioni abbastanza buone; il suo amico invece era messo molto peggio. La testa gli ciondolava, come se non avesse alcun desiderio di guardare più in su dei suoi piedi. Si reggeva a una stampella di fortuna: un ramo della giusta misura con una biforcazione in cima, tenuto sotto l'ascella. La necessità di una stampella mi fu evidente quando abbassai gli occhi: il piede e il polpaccio sinistro penzolavano inerti dal resto della gamba. Della tibia non restava più nulla, e solo la carne e la pelle tenevano attaccato l'arto. Quando fece qualche passo per raggiungere il carro che si era mosso, la gamba si trascinò inutile a terra, come le code di un cappotto da uomo indossato da un bambino. Con tutta probabilità la ferita era stata inferta da una palla di cannone, a Borodino. In ogni caso, la gamba avrebbe dovuto essere amputata in un'infermeria da campo, ma in quella grande battaglia la domanda di interventi chirurgici era stata molto superiore all'offerta; pensai dunque che il commilitone del soldato l'avesse aiutato a raggiungere Mosca nella speranza di farlo ricoverare in un ospedale. Ora i quattro si litigavano un posto a sedere sul carro.
«Ma quello è morto!» disse l'amico del dragone zoppicante, indicando uno dei tre uomini sdraiati. «Buttatelo giù e date il suo posto a qualcuno con qualche possibilità di farcela.» «Non è morto» insistette uno dei carrettieri. «Sta così da giorni, da quando l'abbiamo raccolto. Se fosse morto, ormai avrebbe iniziato a marcire. E invece puzza meno del tuo amico.» Purtroppo era vero. La cancrena al polpaccio del soldato si era quasi sicuramente già diffusa all'intera gamba, se non a tutto il corpo. Mi feci largo verso il carro per esaminare l'altro ferito. Era palesemente morto. Il viso, le braccia e il collo erano percorsi da tagli e graffi, nessuno dei quali però sembrava sufficiente a uccidere. L'uniforme verde scuro era macchiata con una quantità indescrivibile di sangue, che poteva essere appartenuto ad altri; se invece era suo, spiegava non solo la morte ma anche il terribile pallore del viso. Non c'era segno di respirazione, né di battito cardiaco, e il corpo era freddo come l'acqua. Gli alzai le palpebre e fissai gli occhi, minacciosi. Le enormi pupille nere - così dilatate da nascondere le iridi - non risposero alla luce del sole. «È morto» annunciai, sperando che il mio tono autoritario bastasse a garantire un posto sul carro al povero soldato zoppicante. «Allora perché non si decompone?» chiese uno degli uomini che l'aveva trascinato da un capo all'altro della città. Effettivamente era un fenomeno insolito. Certo, forse l'uomo era ancora vivo quando l'avevano raccolto, ed era morto nel frattempo; ma a giudicare dalla temperatura, non doveva essersene andato troppo di recente; almeno un giorno. D'altronde, non c'era dubbio che ora fosse passato al mondo dei più. «Non lo so» risposi, attento a dare l'impressione che la cosa non mi interessasse granché. Iniziai a trascinare il corpo giù dal carro. «Aspettate!» La voce era quella di un sacerdote che si era fatto avanti dal capannello di spettatori. Parlava a voce bassa, ma squillante. La tonaca gli valse subito il rispetto della folla. «Potrebbe esserci una ragione» disse, accostandosi al corpo. Lo esaminò come avevo fatto io, ma con un po' di quella spettacolarità
che, mi spiace doverlo dire, ci si attende da un sacerdote. «È morto, sì. Questo signore ha ragione.» La gente mi guardò e annuì, felice che la mia conclusione fosse stata confermata da una persona di fiducia. «Ed è morto da parecchio.» Era più di quanto mi sarei azzardato a ipotizzare. «Eppure il corpo non si decompone.» Il pope sollevò la mano del cadavere e la baciò. Fece un passo indietro e chiuse gli occhi in una preghiera silenziosa; poi li riaprì e si pronunciò. «Quando muore un sant'uomo - un uomo senza peccato o le cui colpe siano state rimesse, i peccati non devono lasciare i suoi resti mortali. La putrefazione di un corpo umano è provocata dall'allontanamento dei suoi peccati. Se non ce ne sono, non c'è putrefazione. Ho assistito a questo fenomeno nei corpi di molti sacerdoti e monaci defunti, ma vederlo in un soldato è raro. Eppure non c'è ragione perché un soldato non possa essere senza peccato. Quest'uomo deve aver condotto la più santa delle vite.» Fraintesi completamente la conclusione a cui il pope voleva arrivare. «Però adesso è morto» dissi, «possiamo toglierlo da qui e lasciar spazio ai vivi.» «No, no, figliolo» spiegò il sacerdote, scuotendo la testa con un sorriso paterno. «Il corpo di un uomo così merita più rispetto di qualsiasi peccatore vivente. Lasciatelo qui. Le sue benedizioni toccheranno gli uomini sdraiati vicino a lui. E anche voi» aggiunse, rivolto ai due carrettieri. Il pope aveva parlato, e non c'era più da discutere. Il carro riprese a muoversi lungo la strada, accompagnato da una folla di credenti ansiosi di analizzare il miracolo appena descritto dal sacerdote. La scena mi parve più adatta alle strade di Nazaret che non a quelle di Mosca. Il ferito e il suo compagno proseguirono a piedi, il tonfo dello stivale destro accompagnato in contrappunto dal ticchettio della stampella e dal lungo, inutile strascichio della gamba sinistra. Camminai con loro per un po', in direzione diversa da quella che avrei dovuto seguire, fermando ogni carro o carretto che passava per chiedere se ci fosse spazio per un altro ferito. Dopo una decina
di tentativi trovai un posto libero, e così caricammo a bordo il soldato. Il suo amico mi ringraziò di cuore e prese a camminare a fianco del carro con rinnovato vigore nelle gambe. L'altro non si rese conto di nulla, e non alzò neppure la testa per guardarmi. Quel poco di vita che gli restava dentro gli era servita tutta per continuare a trascinarsi, come aveva fatto da Borodino a Mosca. Forse, adesso che non doveva più farlo, gli era stata sottratta l'ultima ragione di vita. Dubitai ci fosse molta differenza tra il destino di un uomo morto che non si decomponeva e quello di un uomo vivo la cui gamba gli marciva sotto gli occhi. Svoltai e tornai indietro. Erano già passate le undici, quindi accelerai il passo per non tardare all'appuntamento con Vadim e Dmitrij. Attraversai la Piazza Rossa, ancora più bella ora, deserta com'era. Non c'era nessuno a godersi il suo splendore, e nemmeno a ignorarlo. La Piazza Rossa era nel pieno centro di una città da cui tutti stavano fuggendo. E dunque, al pari dell'occhio della tempesta più furiosa, era il luogo più tranquillo della terra. Quando passai davanti a San Basilio e imboccai il ponte sulla Moscova, vicino al Cremlino, le strade tornarono a riempirsi. Andavano tutti nella direzione opposta alla mia, rallentandomi. Lì in mezzo c'erano cento soldati con altrettante storie, strazianti quanto quelle degli uomini che avevo appena incontrato; ma non potevo aiutare nessuno di loro. D'un tratto capii quanto fosse inutile soffermarmi sui miei problemi, quando la vita dei miei compatrioti era stravolta. La preoccupazione per Maks, e per me stesso, sembrava perdersi in quel mare di volti. Quale osservatore, vedendo il ponte da una certa distanza, avrebbe potuto distinguermi dalla folla contro cui sgomitavo? Per un estraneo, l'impatto globale di quella migrazione collettiva sarebbe stato molto più significativo della mia storia, e della storia di ciascuno. Mosca stava morendo, e di fronte a questo cos'era mai il fato di un moscovita? Tanto valeva, allora, considerare il destino di ogni cellula nella gamba incancrenita di quel povero soldato, e dimenticare la morte imminente di ogni singolo uomo. Anche il Signore Iddio, che poteva scrutare nell'anima di chiunque transitasse su quel ponte, non avrebbe considerato la mia più interessante delle altre. Fui tentato di lasciarmi trascinare dalla folla. Perché ovunque mi
dirigessi, nessuno si sarebbe accorto di me. Ma no! Sapevo che qualcuno mi avrebbe notato. Forse Dio non può controllare ogni istante della vita di ciascuno, tuttavia ci nomina Suoi luogotenenti. Nel momento stesso in cui mi chiedevo a chi importasse di me o di Vadim o di Domnikiia o della memoria di Maks, davo almeno una risposta: importava a me. E già solo menzionando quei nomi, mi rammentai di altre persone che, se avessero potuto vedere il ponte sulla Moscova dalla superficie della luna, mi avrebbero riconosciuto in quella moltitudine. Proseguii. Sull'altra sponda del fiume vidi Vadim e Dmitrij. Alzai un braccio per salutarli. In quell'istante, una mano mi agguantò per il cappotto. Mi voltai: era un soldato ferito, sdraiato su uno dei carri aperti che mi superavano a brevi intervalli. Ora il traffico si era fermato di nuovo, e l'uomo mi tirò a sé. «Tu!» sibilò con odio indicibile. «Tu, diavolo! Mostro! Demonio!» Tornò a sdraiarsi, esausto per lo sforzo, ma il fatto che avesse parlato in francese mi ricordò chi fosse. L'ultima volta che ci eravamo visti aveva dimostrato di parlare bene non solo il francese, ma anche il russo. Era Pierre, il giovane ufficiale nel cui accampamento ci eravamo infiltrati, e che avevamo lasciato alla mercé degli Opričniki.
Capitolo 10 «Per l'amor di Dio, parla in russo se vuoi vivere altri cinque minuti» gli sussurrai con rabbia. «Che vuoi dire?» fece lui, sempre in francese. Si era procurato una divisa da corazziere russo, quindi doveva aver cercato di spacciarsi per un altro, ma ora non sembrava ricordarsene. «Ti trovi nel centro di Mosca, Pierre. Parla in russo» insistetti sottovoce, sperando che, anche se non capiva dove fosse, istintivamente mi rispondesse nella lingua in cui gli parlavo. «Che ci faccio a Mosca?» mi chiese, finalmente nell'idioma locale. «Forse ti hanno scambiato per uno dei nostri feriti.» Tenni la voce bassa: non parlava più in francese, ma chiunque l'avesse sentito non ci avrebbe messo molto a intuire la sua vera nazionalità. Comunque nessuno badava a noi: quasi tutti scrutavano in avanti, per capire il motivo dell'ennesimo rallentamento. «Dove hai preso l'uniforme?» «Uniforme?» Abbassò gli occhi e vide cosa indossava; ma anche così mi parve trovasse sciocca la mia domanda. «L'ho presa a un cadavere dopo essere fuggito da voi.» Tornò a guardarmi e si infuriò di nuovo. «Tu! Perché l'hai fatto? Saremo anche il vostro nemico, ma non siamo animali.» Una ferita alla guancia destra gli rendeva dolorosa ogni parola. Perlomeno così non poteva strillare, pensai. La guancia era quasi totalmente scorticata e solcata da due sfregi paralleli e irregolari. Con un solo colpo, il suo aggressore aveva tagliato la pelle e iniziato a scuoiarlo. Notai una ferita simile sul lato del collo: pochi centimetri più avanti, e sarebbe stata mortale. «Non sono stato io» gli dissi. «Quando me ne sono andato stavi bene, avevi appena insultato lo zar» continuai, spronandolo a ricordare. Ero ansioso di scoprire come lavorassero gli Opričniki. Pierre si toccò le ferite, come per aiutarsi a ricordare. Sull'avambraccio aveva un taglio simile agli altri; evidentemente aveva cercato di difendersi. Anche li era stata strappata via una striscia di pelle e carne, larga più o meno due dita. Poteva essere
opera di artigli o denti, ma sapendo chi era stato ad aggredirlo, ricordai subito lo strano coltello a due lame di Iuda. Pierre mi scrutò. «Hai ragione» disse. «Tu e il tuo amico siete andati via, e poi sono arrivati altri dei vostri. Ma dovevate esserci anche voi!» Cercò di alzare la voce; io scossi la testa e gli posai una mano sulla spalla per calmarlo. «O almeno avete spianato loro la strada.» Questo non potevo negarlo. «Cos'è successo quando sono arrivati?» lo incalzai. Lui mi fissò negli occhi, ma con la mente vedeva l'accampamento nei pressi di Borodino, cinque giorni prima. Il suo racconto alternava lucidità e incoerenza. «Non li abbiamo visti. I nostri uomini hanno iniziato a sparire... nel giro di pochi minuti, non ore. Stavamo mangiando, e intanto mangiavano anche loro. Ti voltavi per prendere il sale, ti giravi di nuovo e il tuo vicino era sparito. Non tutti hanno mangiato. Poi Louis li ha trovati. E i cadaveri... tra i cadaveri. Eravamo rimasti in pochissimi. Ci hanno circondati. Inseguiti. Non erano soddisfatti? Erano così veloci. E uccidevano tanto in fretta. Ci vedevano al buio. Ne ho schivato uno. Louis ha combattuto. Quello ne ha presi due. Sono scappato. Mi hanno inseguito. In formazione, come un branco di lupi. Si chiamavano l'un l'altro, come cacciatori. Ma io ero veloce, molto veloce, molta paura. Hanno rinunciato. Louis gridava, ma io ero veloce.» Sembrava orgoglioso della sua velocità. Aveva un fisico da corridore, e gli Opričniki non mi sembravano in grado di reggere inseguimenti prolungati. Pierre tornò a guardarmi: scosse la testa, in modo quasi impercettibile. «Tu non eri lì. Tu non avresti potuto. Però sapevi. Per forza, lo sapevi.» Intuì qualcosa, e sgranò gli occhi. «Li hai mandati tu! Non erano russi. Non eravamo noi il loro nemico. Non avevano motivo di farlo, non dopo che erano già soddisfatti.» Era la seconda volta che usava quella parola. «In che senso, soddisfatti?» gli chiesi, ma era già crollato nel carro. Teneva ancora gli occhi aperti, ma aveva il fiato corto e non pareva riconoscere il mondo intorno a lui. «Pierre» insistetti, «cosa vuoi dire?» Non ci fu risposta. Come potevano gli Opričniki essere soddisfatti'? In che senso? Un soldato non è soddisfatto finché il nemico non è sconfitto,
o finché non si arrende. Intendeva che non avevano accettato la resa quando gli era stata offerta? O che avevano cercato informazioni, e una volta ottenute quelle erano soddisfatti? Cercai di immaginare cosa mai potessero voler scoprire dagli occupanti di un accampamento francese, e cosa se ne sarebbero fatti ora di quelle informazioni. Si alzò un brusio tra la folla, e vidi che i carri riprendevano a muoversi. Era chiaro che da Pierre non avrei saputo altro. Mi chinai a sussurrargli all'orecchio, senza sapere se riuscisse a sentirmi: «Quando ti svegli, ricorda di parlare in russo». Il carro ripartì. Non mi era neppure passato per la testa che quel soldato francese travestito da russo era un infiltrato, una spia, quindi andava arrestato e giustiziato. Non l'avevo vissuto come un tradimento personale, come era successo con Maks. Di nuovo mi fu chiaro che ero incapace di seguire una linea di pensiero che non conducesse, inesorabilmente, a Maks. «Aleksej !» Con voce piena di entusiasmo, Vadim mi strinse forte in un abbraccio che ricambiai con gratitudine. Erano passati due lunghi giorni dall'ultima volta che l'avevo visto. Accanto a noi c'era Dmitrij. Già di solito non era avvezzo a simili dimostrazioni d'affetto, ma quel giorno era ancor più diffidente. Ci squadrammo l'un l'altro; lui cercava di giudicare quanto sapessi io; io cercavo di decidere cosa pensavo esattamente di lui. All'inizio era solo Dmitrij, lo stesso Dmitrij che conoscevo da anni; un po' scostante, a volte egoista, a volte con una mentalità ristretta, ma fondamentalmente affidabile. Dovetti rammentare a me stesso che era stato lui a mandare gli Opričniki a Desna, e che per questo motivo Maks era morto, o almeno morto prima del tempo e con meno crismi del dovuto. Ormai conoscevo bene il loro metodo di lavoro: non potevo sperare che gli avessero riservato un trattamento diverso. E poi era stato lui a picchiare Domnikiia per strapparle le informazioni che non era riuscito ad avere da me. Mentre parlavamo, lasciai che i ricordi e le immagini di Maks e Domnikiia si riversassero in me, in un'onda montante di veleno di cui avrei avuto bisogno per affrontarlo. «Allora, dov'è Maks?» domandò Vadim.
«Perché non lo chiedi a lui?» risposi. «No, Aleksej» disse Vadim in tono severo, intuendo la necessità di ripristinare l'ordine gerarchico, «lo sto chiedendo a te.» «Sono andato a Desna - Maks era andato lì - e l'ho trovato.» Per tutto il tempo fissai Dmitrij, tentando di sondare la sua reazione, in cerca di motivi per odiarlo. «Abbiamo parlato un po'.» «Ha confessato?» chiese Vadim. Quella, naturalmente, era la realtà dei fatti. Per quanto io potessi lamentare l'ingiustizia di ciò che era accaduto, non c'era dubbio sulla sua colpevolezza. «Sì, ha confessato. Conosci Maksim: non avrebbe perso tempo a mentire su ciò che già sapevamo.» «Si vergognava? Era pentito?» Vadim capiva che il mio resoconto non sarebbe stato completamente sincero. «No.» Volevo sorridere al ricordo della coerenza di Maks, ma sapevo di non potermi permettere una simile indulgenza, perché mi avrebbe indebolito nella risolutezza contro Dmitrij. «Per lui era solo la conclusione logica di una lunga catena di ragionamento. Per dissuaderlo da quella conclusione, avremmo dovuto dimostrare che due più due non fa quattro.» «E ora dov'è, Aleksej?» Vadim era ormai apertamente sospettoso. «Capisco che non sarebbe stato saggio portarlo qui a Mosca. Sei riuscito a trovare una prigione che se lo prendesse?» «No, è ancora a Desna. Ci resterà per sempre.» «Ancora a Desna?» Poi capì. «Aleksej, non hai...» «No, Vadim, io no.» La voce mi si arrochì e avanzai di qualche passo, portandomi alle spalle di Dmitrij. «Ma io e Maks non siamo rimasti soli a lungo, vero, Dmitrij Fetjukovič? Ben presto i tuoi amici Opričniki si sono fatti vivi, giusto? E volevano vendicarsi da soli. E come facevano a sapere dove trovarci?» Gli stavo gridando direttamente nell'orecchio. «Perché gliel'aveva detto Dmitrij Fetjukovič. E lui come faceva a saperlo? Perché ha preso a botte una ragazza per farselo dire. E così gli Opričniki hanno detto chiaramente che se non avessi lasciato Maks lì con loro non ne sarei uscito vivo. Allora sono ripartito, non per salvarmi la pelle ma per avere
un'occasione di rivedere Dmitrij Fetjukovič e fargli questo!» Gli sferrai un pugno all'altezza dei reni. Lui si piegò in avanti, portandosi le mani al fianco. Lo presi per le spalle e gli assestai una ginocchiata al petto. Lui gemette ma non accennò a difendersi. Era più robusto di me, e a quanto ne sapevo era anche un lottatore più esperto. Immaginai che avesse deciso di sopportare stoicamente. Se si aspettava compassione da me per questa reazione, sarebbe rimasto sorpreso: come lo fui io. Avevo lasciato accumulare in me la rabbia per ciò che aveva fatto a Domnikiia e Maks, e ora, come poche volte in vita mia, avevo perso ogni controllo. Gli tirai un calcio alle gambe, lui crollò a terra, io lo colpii ancora al petto e allo stomaco. A ogni colpo che sferravo mi ripetevo mentalmente «Maks!» e «Domnikiia!» e ogni volta provavo la stessa gioia, come se mi trovassi con loro in quel momento. Un'energia mi pulsava nella gamba a ogni calcio. Mente e corpo si abbandonarono interamente a quella sensazione. Non vedevo più nessuno, non sentivo più niente se non la pura gioia di affondare il piede nel suo torace. Quella gioia mi riempiva, non di piacere ma di una sorta di oppressione. Era come lo spasmo che scuote il corpo quando si vomita: stavo rigurgitando addosso a Dmitrij l'odio che avevo covato nel ventre. «Aleksej! Aleksej! Capitano Danilov!» Dovevo aver sentito gridare il mio nome mezza dozzina di volte prima che mi si insinuasse nella coscienza. Vadim mi aveva trascinato via da Dmitrij, ma io cercavo ancora di dargli calci. Intorno a noi si era radunato un capannello di passanti. Alcuni si erano chinati su Dmitrij per accertarsi che stesse bene. Tirai un gran respiro. Mi sentivo soddisfatto, fisicamente appagato. Ogni parte del mio corpo sentiva di aver fatto il suo dovere, e ora io - ma sembrava quasi un «noi» - iniziai a calmarmi. Guardai il corpo dolorante di Dmitrij e sentii un fremito di colpa. Non colpa, pietà. Compativo il dolore di Dmitrij, senza però sentirmene responsabile. Il suo sguardo angosciato e la mia mente razionale mi dissero che le mie azioni erano state giustificate. Lo stesso Vadim me lo confermò. «Basta così, Aleksej Ivanovič. Ti spettava di diritto - e Dmitrij lo sa
- ma abbiamo ancora una guerra da combattere. La prossima volta che vuoi prendere a calci qualcuno, fallo con un francese.» Dmitrij si stava rialzando. Mi porse la mano perché lo aiutassi, ma non ci riuscii. Negli anni trascorsi nell'esercito avevo assistito a molte risse potenzialmente mortali, poi avevo visto gli stessi uomini ridere e bere insieme poche ore dopo. In questa, come in molte altre cose, non avrei potuto dimostrarmi così ignobile. Non potevo svilire il senso del mio accesso di collera con una semplice stretta di mano. Quella collera aveva spaventato me, e doveva spaventare Dmitrij e chiunque altro: dissuaderli dal suscitare ancora in me un'ira simile. Allo stesso tempo, capivo che la possibilità di non perdere il controllo mi spaventava ancor di più. Se quella violenza irrefrenabile era stata sotto le mie redini, guidata dall'intelligenza ma non intralciata dalla coscienza, allora ero davvero una creatura pericolosa. Se invece si era trattato di una frenesia incontrollabile, allora perché l'avevo colpito solo al torace, per fargli male, e non alla testa, per ucciderlo? Forse c'è un istinto viscerale, primordiale, che dice a un uomo come far male a un altro uomo senza provocarne la morte. Forse l'avevo imparato in quella prigione turca a Silistra. Dmitrij si era rialzato senza il mio aiuto. «È tutto a posto tra noi, Ljosa?» Era quasi una supplica. Non mi aveva più chiamato Ljosa dopo il nostro primo incontro, quando gli avevo detto che quel diminutivo mi faceva sentire un bambino. Guardai la cicatrice che gli si intravedeva sotto la barba - il ricordo di quando mi aveva salvato la vita - e mi tornarono in mente ricordi felici, che sciacquarono via il sapore rancido dei pensieri di Maks e Domnikiia. «No» risposi, «lo sarà, Mitka. Lo sarà.» Non riuscivo a immaginare quanto tempo ci sarebbe voluto. Tutti e tre scendemmo dal ponte e ci incamminammo lungo la sponda meridionale del fiume, dove potevamo parlare liberamente, lontani dal tumulto dei soldati e dei moscoviti in fuga. «Qual è il piano, adesso?» chiesi. «Non hai parlato con Iuda?» ribatté Vadim. «Aveva detto di
volerti incontrare.» Dmitrij non sembrava intenzionato a inserirsi nella conversazione. Si massaggiava le costole e si sforzava di respirare in modo regolare. In me cresceva ora la compassione, a compensare la spietatezza di poco prima. La vera fonte della mia rabbia verso Dmitrij era che lui mi aveva costretto a non concedermi neppure l'ombra del perdono quando avevo affrontato Maks. Chi sarebbe stato il prossimo a soffrire per mano mia, per ciò che avevo fatto a Maks? Vadim, forse? Colsi lo sguardo di Dmitrij e gli restituii il sorriso. Erano passati pochi minuti, eppure mio malgrado iniziai a capire come facessero quei giovani soldati a bere insieme dopo essersi presi a botte. «Sì, l'ho visto ieri sera» risposi a Vadim. «A te sta bene il suo piano?» «Il suo piano?» «Che gli Opričniki si nascondano in città. Che aspettino l'arrivo dei francesi e poi mostrino loro che Mosca sa essere... inospitale, per un intruso. Non è questo il piano che ti ha illustrato?» «No» ridacchiò Vadim, «questo è il piano che ho illustrato io a lui. Iuda voleva continuare ad attaccare le loro linee di approvvigionamento. Non è una strategia irragionevole, ma non capisce cosa significherà averli qui a Mosca.» «È strano che ci tengano a prendersi il merito per l'ideazione del piano. Non sembrano il tipo di persona che si preoccupa molto della reputazione.» «Quello lì, Iuda, è diverso dagli altri» sibilò affannato Dmitrij, «molto diverso. Quando ero con lui in Valacchia erano solo in dieci, come vi ho accennato, e soltanto quattro di loro fanno parte del gruppo attuale. Avevano tutti la stessa tendenza alla sottomissione; tutti tranne Iuda. È questo che li rende così bravi a uccidere, come palle di cannone: prendi la mira e spari, e qualunque cosa si trovi sulla traiettoria viene fatta a pezzi. Iuda è diverso: lui ha desideri propri, persino vanità. Prende la mira in autonomia. Avrei pensato che questo riducesse la sua capacità di uccidere, invece lo rende più bravo. Sa scegliere quando interessarsi e quando no. È la combinazione più letale di tutte.»
Restammo seduti in silenzio a riflettere sulle parole di Dmitrij. C'era poco da commentare. «Quindi siamo soddisfatti del piano?» insistette Vadim. «Sì, certo» dissi io. Dmitrij annuì. Tornò il silenzio. «C'è un'altra cosa strana a proposito di Iuda» dissi. «Cioè?» chiese Vadim. «Be', sembra sia lui a prendere le decisioni, ma pensavo fosse Pétr il loro comandante.» «Buffo» ribatté Vadim, «credevo di essere io.» All'occasione, Vadim sapeva esercitare perfettamente la sua autorità. Quando Bonaparte aveva conquistato Vilna, noi - gli Ussari della Guardia Imperiale sotto il generale Uvarov, insieme a tutta la Prima Armata dell'Ovest - ci eravamo ritirati a Drissa. Quando i francesi avevano preso Drissa, ci eravamo rifugiati a Polotsk. Due mesi prima, in un'afosa giornata di luglio, ero sdraiato sul letto in una locanda di Polotsk - in una stanza che dividevo con altri quattro -, e all'improvviso avevo udito una voce familiare. «In piedi, capitano Danilov!» Stava appoggiato allo stipite della porta, né sorridente né severo, ma i suoi occhi esprimevano fino in fondo l'affetto che sapevamo esistere tra noi. Corsi a salutarlo. «Vadim! Come stai? È bello vederti. Dove sei stato?» Lui sorrise. «Sono stato un po' più a sud di qui, con Bagration.» Pronunciò il nome del grande generale come se lo conoscesse di persona, il che d'altronde era assolutamente possibile. Vadim era il genere di ufficiale che sembrava conoscere tutti. Aveva certi contatti, nella buona società di Pietroburgo, che molti di noi potevano solo sognare. Ma a differenza di altri ufficiali ben inseriti, lui sceglieva di usare quelle amicizie per perseguire obiettivi militari, non semplicemente per fare carriera. I favori che con discrezione chiedeva a Bagration erano razioni più abbondanti per i soldati, o altre paia di braccia: non la promozione o un incarico meno pericoloso, ben lontano dal fronte.
«E come ha fatto a liberarsi di te?» gli chiesi. «Gli ho detto che avevo del lavoro da sbrigare. A proposito, sei impegnato?» «Impegnato nella ritirata» risposi amaramente. «Cos'avevi in mente?» «Salvare la Russia.» «Tutto qui?» Si strinse nelle spalle, dando per scontato che avrei accettato. «Ci vediamo qui stasera alle otto. Oh, e vedi se riesci a portare anche Maksim Sergeevič.» Sapevo dove alloggiava Maks. Fu facile trovarlo, ma faticai molto a persuaderlo. «Non lavoriamo più insieme da tanto tempo, Aleksej; da prima di Austerlitz, e in quell'occasione non me la sono cavata troppo bene, vero? Penso che farei meglio a limitarmi alle mansioni di soldato, altrimenti metterei a rischio anche voi.» Adesso capivo esattamente perché si considerasse un rischio - in quanto traditore infiltrato tra noi -, ma all'epoca mi era parso un atteggiamento insolito per lui. «Tu, Maks? Un soldato qualunque?» Risi. Quando l'avevo conosciuto mi era sembrato il più improbabile dei guerrieri. Aveva iniziato ad ambientarsi solo dopo la formazione del nostro gruppo, con Dmitrij e Vadim. «Ti annoieresti a morte.» «Vero, ma non significa che sia la scelta sbagliata.» Questo era già più tipico di Maks. «Abbiamo bisogno di te.» Non rispose. Sembrava combattuto. Sapevo che nel suo cuore niente gli sarebbe piaciuto di più che rientrare nella vecchia squadra, tuttavia qualcosa nella sua testa lo dissuadeva dal farlo. «Vadim mi ha detto di portare anche te» insistetti. «Te l'ha ordinato?» Una scintilla di orgoglio gli passò sul volto alla menzione del nome di Vadim. Feci una smorfia. «Lo conosci.»
«Ci vediamo alle otto, allora» rispose Maks. Fu il primo ad arrivare, quella sera, subito seguito da Vadim, che aveva portato Dmitrij. Anche lui era a Polotsk con la Prima Armata, quindi io e Maks l'avevamo visto spesso. L'unico ricongiungimento fu tra Maks e Vadim. «Tornato all'ovile, eh, Maksim?» disse quest'ultimo stringendogli la mano. «E tu saresti il buon pastore?» feci io, guardando Vadim. «Più lupo che pastore» mormorò Dmitrij. «Saremo tutti lupi, e Dio aiuti quei poveri agnellini francesi» disse Vadim. «Quindi possiamo dire che sono tornato nella tana del lupo?» chiese Maks. E così, sette anni dopo il nostro primo incontro, il branco dei lupi si era ricreato. Ben presto Polotsk era caduta, e noi avevamo dovuto battere ancora in ritirata. Solo dopo la presa di Smolensk, Barclay de Tolly aveva parlato con Vadim (o forse era accaduto il contrario) e ci era stata assegnata la nuova destinazione. E ora a Mosca, a settembre, i quattro del branco erano diventati tre. Maks non rischiava più di annoiarsi. Sulle sponde della Moscova, nel cuore di Mosca, io, Dmitrij e Vadim ci accordammo sui dettagli. Nelle sue precedenti conversazioni con Iuda, Vadim aveva selezionato sette luoghi d'incontro dalla nostra lista, tutti entro le mura della città. L'opzione più semplice era abbinare un luogo diverso a ogni giorno della settimana, sempre alla stessa ora: le nove di sera. «E ci vedremo tutte le sere?» chiesi io. «Iuda ha detto che almeno uno di loro cercherà di esserci ogni sera» rispose Vadim. «Quanto a noi, credo dovremmo esserci tutti, ogni volta che possiamo. Per il resto del tempo non ci vedremo.» «Perché no?» «Dobbiamo stare nascosti, e separati. Sta a voi decidere cosa fare.
Potete travestirvi da ufficiali francesi o da evasi russi, non serve che io lo sappia. Dobbiamo essere gli occhi e le orecchie degli Opričniki. Dobbiamo vedere dove vanno i francesi e cosa fanno. Poi dire ai nostri alleati dove colpire.» «Oppure colpiamo direttamente noi» soggiunsi. «No!» esclamò Dmitrij con improvvisa foga. Io e Vadim lo guardammo. «Non è il loro stile» proseguì lui. «Preferiscono che lasciamo fare loro.» Volevo insistere, ma Vadim era d'accordo con la sua conclusione, anche se non con il ragionamento. «Dmitrij ha ragione» disse. «Qualunque sia il loro "stile", il nostro è di non farci ammazzare. Per dirvela bruscamente, gli Opričniki sono più sacrificabili di noi. Mi dispiace, Dmitrij, so che sono tuoi amici, ma così stanno le cose.» Dmitrij cercò di sorridere nonostante i muscoli doloranti. «Oh, tu mi conosci, Vadim. Chiunque è più sacrificabile di me.» «Allora, iniziamo gli incontri già da questa sera?» domandai io. «No» rispose Vadim. «Be', non necessariamente. Possiamo aspettare l'arrivo dei francesi. Non credo arriveranno stasera. Prendete questi.» Ci porse due borsellini: dentro c'era una piccola fortuna in monete d'oro. «Questi soldi non sono vostri, e nemmeno miei: sono dello zar. Nelle prossime settimane potremmo dover affrontare spese impreviste. Se non avete bisogno di spenderli, non fatelo. Una volta cacciato Bonaparte, mi aspetto di riaverli quasi tutti.» Restammo in silenzio, consapevoli che non ci saremmo rivisti forse per vari giorni, e che infine ci saremmo incontrati in una città occupata dai francesi. «Ho scritto alla madre di Maks» annunciai. «Grazie» disse Vadim. «Suppongo sia morto da eroe.» Annuii. «Notizie da Elena Vadimovna?» «Ho saputo che stava bene, ma questo era quasi un mese fa. Dovrebbe partorire tra poche settimane.» «Allora non possiamo ancora chiamarti nonno?»
«Non ancora» rispose Vadim in tono pacato, «né mai.» Cademmo di nuovo in una silenziosa meditazione, seduti sul muretto a guardare il fiume, cercando di rimandare il momento dei saluti. Sembravamo tre vecchi che, negli anni, si erano detti tutto quel che c'era da dire, e ora restavano seduti fuori tutto il giorno, a guardar passare il mondo, temendo di andarsene perché uno di loro poteva non tornare mai più; tre uomini che ricordano di essere stati in quattro, in una lontana giovinezza, e di aver pensato che lo sarebbero rimasti per sempre. In tempi come quelli, non c'era neppure il lusso della certezza di invecchiare. «Con chi parlavi, lì sul ponte?» mi chiese Vadim. «Quando?» «Quando ti abbiamo trovato. Il soldato ferito.» «Non l'hai riconosciuto?» Vadim scosse la testa. «L'ho solo intravisto.» «Era Pierre.» Il nome non gli disse nulla. «Il francese. Ricordi? Quello che ci ha raccontato la storia della zarina Ekaterina e del cavallo.» «Si spacciava per russo?» disse Vadim con un'ombra di collera nella voce. «Perché non l'hai...?» Ma poi capì, credo, che non ero dell'umore giusto per smascherare altre spie francesi. Lasciò la domanda a metà. «Vadim ti ha detto dell'accampamento?» chiesi a Dmitrij. «E che sono arrivati Iuda, Matfej e Foma?» Dmitrij annuì. «La cosa interessante, certo» continuai lentamente, cercando di sondare la sua reazione, di vedere se intendeva rivelare qualcosa, «è che è scappato. Pierre, voglio dire.» «Quindi gli Opričniki non sono infallibili come pensavamo» disse Vadim. «Eh, no» proseguii. «Non è da loro lasciare in vita un testimone che può raccontare tutto.» Dmitrij mi rivolse uno sguardo terrorizzato e indagatore. C'era qualcosa che Pierre poteva avermi detto - qualcosa di terribile -, e
adesso lui mi stava scrutando fin nell'anima per capire se me l'avesse detto davvero; per capire cosa sapevo. Naturalmente da Pierre avevo sentito solo farneticazioni sconnesse e deliranti, ora però apprendevo da Dmitrij che qualcosa da scoprire c'era. E decisi di scoprirlo. Poco dopo ci accomiatammo, stavolta senza troppi sentimentalismi: eravamo tutti indaffarati a pianificare i giorni successivi. Vadim aveva un'ultima cosa da dirci. «Forse non ci riusciremo, sapete. Preferirei che non fosse così, ma là fuori c'è un esercito enorme. Vorrei solo dirvi che se uno di noi resta ferito, o se la situazione si fa troppo rischiosa qui in città, non dovremmo farci scrupolo di andarcene. Se riusciamo ad avvertirci a vicenda tanto meglio, ma la sopravvivenza è importante tanto quanto l'eroismo. Chiaro?» Dmitrij e io annuimmo seri, poi ognuno se ne andò per la sua strada. Vadim ci aveva detto che era affar nostro dove e come ci saremmo nascosti, ma un istinto nato da anni di collaborazione ci spinse immediatamente in direzioni diverse. Vadim costeggiò il fiume verso ovest; Dmitrij e io andammo dalla parte opposta in silenzio, ma dopo meno di un minuto lui svoltò a nord, sul ponte. Io proseguii verso est. Il mio piano d'azione era stato indirettamente ispirato da quel servitore francese frustato in piazza. Quasi subito svoltai a sud e attraversai il canale inoltrandomi nel quartiere Zamoskvorecje. Fu semplice trovare una casa abbandonata, porte e finestre sbarrate in tutta fretta con assi di legno, facili da scardinare. Chi l'aveva abbandonata era stato così generoso da portarsi dietro i servi, ma, per mia fortuna, non abbastanza da prendere anche tutti i loro effetti personali. Non faticai a scovare una divisa da maggiordomo della mia taglia. Pensai che, una volta arrivati i francesi, un servo russo si sarebbe potuto aggirare per le strade in relativa libertà. In caso contrario, sarebbe bastato un istante a trasformarmi in un servo francese, per accogliere a braccia aperte l'esercito di liberazione giunto ad affrancarmi dai padroni crudeli. La casa vuota era anche un buon posto dove alloggiare, almeno per il momento; ma avrei dovuto fare attenzione, perché anche gli
invasori avrebbero cercato edifici abbandonati dove acquartierarsi. C'erano molte uscite di emergenza: una situazione perfetta, se fossi stato costretto a fuggire. E così attesi. Mosca si fece più silenziosa e vuota, con la partenza degli ultimi ritardatari; ma i francesi non arrivavano. Nei giorni successivi vagai per le vie della mia amata città, sconvolto dall'orrore del suo silenzio. Qualcuno era rimasto, forse un cinquantesimo della popolazione, ciascuno snervato dalla distanza che lo separava dal prossimo. Una settimana prima i moscoviti dovevano farsi strada sgomitando tra la folla, e se ne lamentavano pure; ora invece sembrava di vivere in campagna, senza però conoscere le regole di quel tipo di vita. In campagna si può camminare per ore senza incontrare anima viva, ma chiunque si vede è sempre un amico, qualcuno con cui conversare. In quella Mosca deserta, le persone erano altrettanto rare; però quelle rimaste erano abituate a ignorare le migliaia di individui che potevano incontrare nello spazio di un'ora, quindi lo facevano anche con i pochi che vedevano adesso. Perciò quel cinquantesimo dei moscoviti, fiaccato dall'isolamento, mostrava un cinquantesimo della consueta vitalità. Era come se l'intera città avesse smesso di respirare. L'entità fisica che costituiva Mosca esisteva ancora, lo spirito che l'aveva vivificata non c'era più. Per il momento, il corpo rimasto non mostrava segni di putrefazione, ma ben presto anche il più distratto degli osservatori avrebbe notato che Mosca era morta. E i vermi dell'esercito francese stavano arrivando a mangiarsela. Stranamente, però, ci misero tre giorni interi a raggiungerla. Da quel che riuscii a ricostruire in seguito, pare che Bonaparte si fosse aspettato un'ultima resistenza di Kutuzov alle porte della città, e che quindi avesse esitato. Ma il russo non aveva organizzato alcuna difesa - sarebbe stato inutile - e la sera del primo settembre era ormai chiaro che le truppe francesi sarebbero entrate in città l'indomani. Quella notte feci un sogno.
Capitolo 11 Ero in camera mia, la stanza in cui dormivo da bambino. Sapevo bene che quella in cui mi trovavo non somigliava affatto alla mia cameretta d'infanzia, ma, come spesso accade nei sogni, ero certo, come se fosse un fatto incontrovertibile, che quella era la mia stanza di bambino. Due letti erano addossati, in modo piuttosto illogico, a due pareti opposte, lasciando un corridoio percorribile in mezzo. Sulla parete di fondo, in corrispondenza delle testate dei letti, si apriva una finestra. Le tende erano tirate, ma si capiva che fuori brillava il sole invernale. Sul letto di sinistra giaceva un bambino, addormentato su un fianco e con il viso rivolto verso la parete: gli vedevo solo la schiena. Anche in questo caso sapevo con certezza, senza bisogno di vederlo, che quel bambino ero io, a cinque o sei anni. Mia moglie Marfa era seduta sullo stesso letto, mi dava le spalle e osservava con un'aria di cortese interesse quanto accadeva dall'altra parte della stanza. Ai piedi dell'altro giaciglio c'era l'imperatore Napoleone: guardava la donna seduta sul letto, sua moglie, l'imperatrice MarieLouise. L'imperatrice aveva in grembo una grossa ciotola che conteneva dei fichi. Porse un frutto all'imperatore, lui lo prese in mano, se lo portò alla bocca e lo addentò; quando la buccia verdastra si spaccò, la polpa rossa e i semi gli colarono sul mento. L'imperatore si leccò le labbra e diede altri quattro morsi, finché del fico rimase solo il picciolo. Mangiò anche quello, come fosse la parte più succosa, e si leccò le dita. Porse la mano - la sinistra stavolta - alla sua imperatrice, per prendere un altro fico: in quel momento notai che gli mancavano le ultime due dita, come a me. Mi guardai la mano, cullandola nella destra e riflettendo sulla mia menomazione, e mi domandai perché non mi fossi mai accorto della coincidenza: Bonaparte aveva la mia stessa ferita. Alzai gli occhi e vidi che l'imperatore se n'era andato, o almeno era scomparso alla mia vista, perché ora osservavo attraverso i suoi occhi; ma non sapevo se le altre persone nella stanza vedessero Bonaparte oppure Aleksej Ivanovič.
Mi accorsi che anche l'imperatrice Marie-Louise si era trasformata nella mia Domnikiia - un mutamento assai leggero. Mi sedetti sul letto accanto a lei e guardai Marfa, che ci fissava ancora con la stessa serenità incuriosita. Domnikia aveva sempre in grembo la ciotola, ora però invece dei fichi c'erano grappoli d'uva. D'un tratto seppi che l'uva era avvelenata, e mi accorsi anche di averlo sempre saputo. Domnikiia porse la ciotola a Marfa, la invitò in silenzio a prendere uno di quegli acini deliziosi, ma la giovane donna le mostrò il palmo della mano in un rifiuto educato. Quando tornai a posare lo sguardo sul bambino sdraiato dietro di lei, mi resi conto che, dopotutto, quel bambino non ero io. Come ogni padre saprebbe riconoscere suo figlio da un solo capello, cosi io mi accorsi che quel bambino era il mio piccolo, Dmitrij Alekseevič. Nello stesso istante compresi che era morto: avvelenato dall'uva di Domnikiia. Quella scoperta mi rattristò, ma non provai emozioni più intense. Il bambino portava alla cintura la piccola spada di legno che avevo intagliato per lui l'ultima volta che ci eravamo visti. Si aprì la porta accanto al letto su cui giaceva il cadavere del bambino, e mia madre entrò nella stanza. Era morta quando io avevo ventidue anni, e anche nel sogno ne ero consapevole; eppure, mi parve assolutamente ragionevole vederla ora nella mia stanza di bambino. Appena entrata, andò da Domnikiia, che offrì l'uva anche a lei. Mia madre declinò l'offerta con una gentilezza e un calore che mi parvero lontanamente familiari. «No, ti ringrazio, mia cara» disse a Domnikiia, sorridendo, «sono già morta.» Queste furono le uniche parole che sentii pronunciare in tutto il sogno. Poi lei andò a sedersi sull'altro letto, accanto a mia moglie. Si salutarono con cortesia, ma senza mostrare curiosità. Domnikiia porse di nuovo la ciotola a mia madre. Vidi che portava un anello a forma di drago, con il corpo d'oro, gli occhi di smeraldo e la lingua rossa e biforcuta. Era lo stesso che avevo visto alla mano di Zmeevič la notte in cui ci eravamo conosciuti. Intorno all'anello, la mano di Domnikiia sembrava vecchia e pallida: dalle dita avvizzite si staccavano brandelli di pelle marcia. La guardai in volto e vidi che quella non era la sua mano, ma la mano di Zmeevič
in persona. Era chino su di lei da dietro, copriva la mano di lei con la propria, e la guidava nell'offerta dell'uva. Sembrava più anziano di come l'avevo conosciuto. I capelli grigi erano incanutiti e la pelle era orribilmente rugosa. Gli occhi erano quelli di un vecchio, che supplicava di essere ricordato com'era stato da giovane. Mia madre e Marfa ribadirono il loro cortese rifiuto. Zmeevič lasciò Domnikiia e si spostò verso la porta da cui era entrata mia madre. La aprì e con un cenno chiamò l'Opričnik Pétr. Pétr attraversò la stanza e si piazzò dietro Domnikiia. Al suo ingresso, Domnikiia aveva lanciato uno sguardo alla porta per vedere chi fosse il nuovo arrivato, ma una volta stabilito di chi si trattasse non lo degnò più di uno sguardo e tornò a fissare me. Pétr si chinò in avanti, passò una mano sotto il braccio di Domnikiia e gliela posò sul seno. Indugiò un attimo con la testa sopra la spalla di lei, e intanto si leccò le labbra; poi si chinò ancora, a baciarle dolcemente il collo, e allo stesso tempo, senza che nessuno lo notasse tranne me, le strizzò un seno con la mano. Domnikiia mantenne lo sguardo fisso su di me. Quando Pétr la baciò e la accarezzò, lei dilatò gli occhi di pochissimo, come una donna che abbia appena notato il suo amante in una stanza piena di amici e cerchi di nascondere la reazione. Pétr si rialzò togliendo la mano, e Domnikiia prese un grappolo dalla ciotola e me lo offrì. Io aprii la bocca, pienamente consapevole del fatto che l'uva era avvelenata, e richiusi le labbra di scatto per lasciarmi toccare dalle sue dita prima che riuscisse a ritrarle. Pétr se ne andò - non so come - e Zmeevič fece entrare dalla porta il successivo Opričnik, Andrej. Questi si comportò esattamente come Pétr: il bacio sul collo di Domnikiia, la mano sul seno. Lei reagì allo stesso modo, e di nuovo io mangiai avidamente l'uva che mi offriva, sapendo che sarei stato avvelenato così come era accaduto a mio figlio, esanime sul letto all'altro capo della stanza. Ma desideravo mangiare quell'uva, per poter sentire di nuovo le dita di Domnikiia che mi sfioravano. La storia si ripeté uguale, ancora e ancora, con ciascuno degli Opričniki. Zmeevič fece entrare nella stanza Iakov Zevedajnic, poi Ioann, poi Filipp, Varfolomej, Foma, Matfej, Iakov Alfejnic, Faddej e
Simon. Ciascuno di loro baciò e palpeggiò Domnikiia, e ogni volta lei rispose imboccandomi con un altro acino avvelenato. Li inghiottii tutti volentieri, con un crescente senso di angoscia al pensiero che mi avrebbero ucciso, ma senza il desiderio di evitare quella morte. Quando anche Simon se ne fu andato, seppi che mancava un solo Opričnik. Guardai l'altro letto, dove mia madre e mia moglie sedevano ancora con quell'espressione di docile curiosità, intimamente consapevoli dei pericoli che stavano osservando, ma troppo indulgenti verso le mie eccentricità per criticare quelli che credevano i miei amici. Dietro di loro notai che la spada di legno posata sul fianco di mio figlio era spezzata in due. E mio figlio era più grande, molto più grande; ma ancora morto. Adesso era Maks, e compresi che era sempre stato lui, benché non potessi vederlo in volto. Zmeevič aveva un ultimo ospite da invitare nella stanza. Iuda si avvicinò a Domnikiia, ma le rivolse soltanto un lieve inchino, toccandosi il cappello. Poi andò alla finestra e spalancò le tende: la stanza si riempì di luce. Dalla finestra vidi il panorama invernale: un piccolo stagno in un giardino coperto di neve. Una larga crepa dai bordi frastagliati spezzava lo strato di ghiaccio che ricopriva l'acqua. Iuda si voltò verso di me con un sorriso di trionfo in volto, le braccia ancora sollevate nel gesto di scostare le tende, come per accogliere gli applausi di una folla che non vedevo né sentivo, ma sapevo che c'era. Si portò alle spalle di Domnikiia e si chinò su di lei, non per baciarla o accarezzarla come gli altri, ma semplicemente per prendere un grappolo d'uva dalla ciotola. Poi venne da me e mi porse il grappolo con un gesto distratto; io lo presi ma non mangiai. Lo tenni tra pollice e indice e lo restituii a Domnikiia, lei però non lo volle: scosse la testa e si tirò indietro dalla morte che io avevo accettato con tanta serenità. Iuda tornò dietro di lei e le tenne la testa ferma, per consentirmi di posarle l'uva sulle labbra; ma le labbra restarono chiuse. Al contempo lei chiuse anche gli occhi, come per aumentare la propria impenetrabilità. Le schiacciai gli acini sulle labbra; lei cercò di voltare la testa ma non ci riuscì, Iuda la teneva stretta. Le tre dita che mi restavano
strofinarono la buccia e la polpa schiacciata dell'uva contro le labbra della donna, cercando di costringerla ad accettare anche il più piccolo morso di quel veleno. Guardai i moncherini delle due dita mancanti e pensai quanto più facile sarebbe stato, con la mano integra, costringerla ad aprire la bocca e assaggiare il frutto. E poi notai, avvolto intorno al mio dito medio, l'anello a forma di drago, con il corpo dorato, gli occhi di smeraldo e la lingua rossa e biforcuta. Mi svegliai. Che un sogno sia un incubo non dipende dal contenuto, ma dall'atmosfera. Nel mio sogno non c'era niente di palesemente orribile, ma mi svegliai con la sensazione - la certezza più assoluta che avessi mai avuto - che fosse accaduta una disgrazia irrecuperabile, che qualcosa avesse distrutto il mio mondo. Se mi avessero chiesto di cosa si trattava, non avrei saputo dirlo; e nel tempo che ci avrei messo a ricordare cosa fosse, mi sarei svegliato abbastanza per capire che non era nulla. Ma per qualche secondo, al risveglio, non ebbi alcun dubbio né sulla sua esistenza né sulla sua assoluta gravità. Balzai dal letto con l'istintiva sensazione che alla mia paura avrebbe posto rimedio l'azione fisica. Mi trovavo in un luogo sconosciuto. Dovevo fare qualcosa per combattere il terrore che mi attanagliava, ma non ricordavo cosa, né quale fosse la causa di quell'ansia. Nel giro di pochi secondi fui completamente lucido. Mi trovavo in una camera da letto nella casa abbandonata a Zamoskvorecje. Era la quarta notte che dormivo lì. Ricordavo perfettamente il sogno. La razionalità tornò ad assistermi, e capii che le paure erano solo nella mia mente, non avevano alcun'altra realtà. Il sollievo mi invase con il calore di un sorso di vodka. Ma era stato un incubo, in ogni caso. Ero ancora ossessionato dalla paura infantile di riaddormentarmi e tornare in quel luogo orrendo da cui ero appena sfuggito. Mi sdraiai di nuovo sul letto. Non sapevo che ora fosse, fuori era buio pesto e non sentii l'esigenza di accendere una candela. Mi chiesi
se sarei riuscito a riaddormentarmi. Da bambino, quando avevo un incubo, mia madre a volte mi lasciava dormire nel suo letto fino al mattino. Mio padre non voleva saperne di simili smancerie, quindi il privilegio mi era concesso solo in sua assenza. Dopo la sua morte crebbi molto in fretta e non ce ne fu più bisogno. Anche allora stentavo a riaddormentarmi, ma restavo sveglio e terrorizzato nel mio letto, come un vero uomo. Adesso ero davvero un uomo, eppure restavo sveglio. Ripercorsi mentalmente il sogno, più volte, cercando di capire quale elemento l'avesse trasformato in un incubo, o di riaddormentarmi mentre ci provavo. La paura che ancora aleggiava in me sembrava stimolata in particolare da qualcosa a proposito dell'uva; qualcosa nell'offerta di Domnikiia, o nel mio assenso, benché l'idea di morire avvelenato non mi avesse mai spaventato molto. Forse mi appisolai; ma potrei giurare di essere rimasto sveglio per tutto il tempo. Anche quand'ero accoccolato nel letto di mia madre non mi ero mai sentito tanto al sicuro da consentirmi di tornare nel regno dell'inconscio. All'orrore poneva sempre fine il canto degli uccelli. All'alba, il cinguettio annunciava la resurrezione del sole e l'inizio di un nuovo giorno. Il tempo - che si fermava nella continua, immutabile oscurità delle ore piccole, quando non c'era modo di sapere se il tuo ultimo pensiero era stato un secondo fa o un'ora fa avrebbe ripreso a scorrere. E così quel giorno, a Mosca, il coro dell'alba, che fin dall'infanzia associavo sia al terrore sia alla fine del terrore, annunciò il nuovo giorno. Il tempo ricominciò: la notte, e l'incubo, potevano essere dimenticati. Una volta ripreso il pieno controllo della razionalità, mi sovvenne che un uomo di buon senso doveva temere molto più quella giornata che non la notte precedente. Quello era il giorno in cui i francesi sarebbero entrati a Mosca. Era pomeriggio inoltrato quando le truppe giunsero infine da ovest, mentre le retrovie dell'esercito russo fuggivano in direzione opposta. Tra gli ultimi a partire, asserivano le dicerie, c'era stato il conte Rostopcin, governatore della città. Temendo che la plebe russa
non lo lasciasse andare, aveva consegnato loro un locandiere di nome Verescagin, accusato di essere una spia dei francesi. Mentre la folla faceva a pezzi Verescagin, Rostopcin si era messo al sicuro fuori città. Non fu questa l'unica occasione in cui trovai analogie tra me stesso e il governatore di Mosca. Quando arrivarono, gli invasori erano condotti non da Bonaparte ma da suo cognato, il maresciallo Murat, che Bonaparte (vergognandosi, come ogni buon repubblicano, che un soldato semplice sposasse sua sorella) aveva elevato al rango di re di Napoli. L'imperatore sarebbe giunto in città il giorno dopo. Mi intrufolai in un capannello di moscoviti che assistevano all'arrivo del francese più con curiosità che con paura o rispetto. Molti pensavano di aver davanti Napoleone in persona, però io avevo visto abbastanza ritratti del Piccolo Caporale per sapere che non era lui. E poi Bonaparte avrebbe disprezzato quell'uniforme sgargiante e la pettinatura a boccoli sciolti, quasi femminile. Le truppe si riversarono a ondate nella città deserta, senza curarsi dei pochi russi rimasti. Ogni tanto mi fermavano, ma nella maggior parte dei plotoni non c'era nessuno che parlasse il russo. Io e gli altri moscoviti non dovevamo far altro che rispondere a chi ci interpellava con un profluvio di parole, pronunciate in tono riverente, e loro ci lasciavano andare. Quel giorno era un lunedì, e il nostro luogo d'incontro del lunedì era la Piazza Rossa. In tempi normali sarebbe stata lo sfondo ideale per una riunione segreta, perché sempre affollata: due o tre persone che parlavano sarebbero passate inosservate. Adesso però la piazza pullulava di soldati francesi. Incontrarci lì sarebbe stato coraggioso, e quando si compiono atti di sabotaggio in una città occupata, il coraggio non è una dote che va a braccetto con il successo. Per tre volte quella sera girai intorno alla piazza senza entrarvi, ma non vidi segno di Vadim o di Dmitrij, e nemmeno degli Opričniki. Tornai alla casa in cui alloggiavo, ma scoprii che si era trasformata in una caserma provvisoria per una dozzina di ufficiali francesi. Saggiamente non avevo lasciato lì i miei pochi effetti personali. Mi arrampicai sul tetto e recuperai il piccolo involto che avevo
nascosto, insieme alla mia spada, integra e salva. Nessuno mi sentì da dentro la casa. Mi diressi a sud e trovai un alloggio meno lussuoso, ma più sicuro, che i francesi avevano considerato indegno di loro. Non ero il primo uomo nella storia costretto a dormire in una stalla, né sarei stato l'ultimo. Il giorno dopo non trovai di meglio da fare che vagare senza meta per la città. Il cibo era ancora ragionevolmente abbondante, ma costava caro. I pochi moscoviti rimasti avranno avuto ciascuno le proprie ragioni per non andarsene, e di sicuro per alcuni era un'occasione di profitto. Un'armata di invasori, naturalmente, poteva requisire ogni pezzo di pane e ogni bottiglia di vodka, e li avrebbe ottenuti gratis; ma sarebbe stato anche l'ultimo pasto della loro vita. Un esercito in movimento può depredare, un esercito fermo deve commerciare. Deve incaricare altri di andare fuori città a fare rifornimento. O almeno, questa era l'opinione prevalente. Ci credevo anch'io, e a quanto ne sapevo ci credeva Bonaparte. Come sempre, avevamo entrambi sottovalutato la risolutezza del contadino russo. Un po' di vettovaglie fresche entrarono a Mosca, ma troppo poche. I francesi - e i loro cavalli - alla fine dovettero sopravvivere con le scorte già stoccate nei magazzini e nelle cantine. Non sarebbero bastate. Se i nostri nemici se ne fossero resi conto, il loro soggiorno a Mosca sarebbe stato forse ancor più breve; se fossero ripartiti in tempo per uscire dalla Russia prima dell'inverno, forse si sarebbero salvati. Non tutto l'esercito francese capiva la necessità del commercio, ma i pochi mercanti rimasti rifornivano chi invece la capiva, e per mia fortuna rifornivano anche me. Sospetto che, se avessi scelto di travestirmi da ufficiale francese, avrei potuto sfamarmi a metà prezzo. A un maggiordomo russo abbandonato si offrivano pochi sconti. In confronto a due giorni prima, Mosca era tornata ad animarsi. In questa fase della campagna l'esercito di Bonaparte contava forse centomila unità: una cifra orribilmente inferiore a quella iniziale, tuttavia sufficienti a far aleggiare sulla città l'ombra pallida di un ritorno in vita. I francesi erano comunque meno della metà della reale popolazione di Mosca, ma poiché passavano più tempo in strada rispetto ai moscoviti (che avevano case in cui tornare), la città
sembrava affollata. Ricordo che una volta, mentre ero in guerra a sud del Danubio, scrutando con il cannocchiale un campo di battaglia abbandonato, pieno dei cadaveri di commilitoni e nemici, all'improvviso avevo colto un movimento. Un soldato, sdraiato sulla schiena, il volto coperto di sangue, stava muovendo una mano. Era stata l'ombra di un movimento, compiuto nel dolore lancinante delle ferite, ma il fatto che quel soldato fosse riuscito a opporsi allo strazio quanto bastava per lanciare un segnale pur così flebile mi dimostrò quanto volesse vivere, e far sapere di essere vivo. Il campo era ancora sotto il fuoco dell'artiglieria turca, ma io ero scattato fuori, incurante delle grida del mio ufficiale in comando, e mi ero messo a correre chinando il busto, come se bastasse a schivare le pallottole nemiche. Dovevo salvare quel poveraccio. Lo raggiunsi e mi gettai a terra, mentre tutt'intorno sentivo fischiare i proiettili. La mia prima intenzione era stata di mormorare parole di incoraggiamento all'orecchio del soldato, di dirgli che, se voleva sopravvivere, io l'avrei aiutato. Poi avrei dovuto trovare un modo per trascinarlo nel lungo tragitto che ci separava dalle nostre linee. Improvvisamente gli vidi la mano. Si muoveva ancora, ma il movimento non era una richiesta disperata di aiuto, l'ultima preghiera di un moribondo aggrappato alla vita; era semplicemente il contorcersi di cento vermi. Gliel'avevano divorata quasi tutta. Agli occhi di un uomo che voleva vedere la vita dove non c'era più, la loro ingordigia era sembrata un movimento coerente; invece era solo un fremito delle dita che le larve avevano digerito da tempo. Proprio così l'osservatore distratto avrebbe potuto immaginare che la vita fosse tornata a Mosca. Le strade si erano riempite di traffico, di voci, di trambusto. Ma guardando attentamente, l'osservatore avrebbe notato che quelle figure, che pure in superficie somigliavano ai vecchi abitanti, vivevano sulla città, non nella città. Il loro obiettivo era consumare ciò che trovavano (incuranti del fatto che il commercio fosse un approccio più efficiente alla nutrizione, rispetto al saccheggio), senza preservare quel luogo a beneficio dei discendenti o della citta stessa.
Mosca era piena di vita quanto un cadavere sul tavolo dell'imbalsamatore. I fluidi e le sostanze chimiche iniettati nelle vene possono gonfiarlo abbastanza da donargli una vaga parvenza della creatura che era stata un tempo, ma non saprebbero mai restituirgli l'afflato di vita che in passato faceva di quel corpo un uomo. Questa metafora mi riportò alla mente gli Opričniki. Si dichiaravano esseri umani, però in nessuno di loro avevo mai individuato la minima traccia dei desideri, delle passioni e delle angosce degli uomini. Gli occupanti francesi, mi domandai, si consideravano parassiti intenti a banchettare sul cadavere di una città un tempo superba? O credevano piuttosto di essere l'avanguardia di una nuova ondata di vitalità, che aveva rinvigorito il resto d'Europa e ora mostrava alla Russia l'esempio concreto dell'Illuminismo? Penso che lo stesso Bonaparte ci credesse, ma penso anche che si illudesse. Maks era stato vittima della stessa illusione. Per quasi quattro ore non avevo più pensato a Maks. A metà di quel pomeriggio, il tre settembre, sentii parlare per la prima volta di incendi. Avevo investito i miei soldi in una quantità non indifferente di tabacco, e lo stavo offrendo furtivamente a ogni soldato o ufficiale francese che incontravo, a un prezzo del tutto irragionevole. La scoperta più inattesa che ne trassi fu che avevo sbagliato mestiere. Dopo averne venduto meno di un terzo, avevo già iniziato a guadagnarci. Capii che quelle poche migliaia di persone rimaste a Mosca, per quanto temessero per la propria vita, dovevano essere state tentate dalla prospettiva dei guadagni. Il profitto che cercavo io era misurato non in oro, ma in conoscenza. Mantenevo ancora l'identità fittizia di un uomo che non parlava francese. Così, ascoltando le conversazioni dei francesi, riuscii a raccogliere notizie sui piani e gli spiegamenti, oltre a conoscere le varie dicerie che circolavano. In tutta Mosca scoppiavano incendi. I francesi raccontavano che erano stati rilasciati i detenuti delle prigioni, e che il governatore fuggito, Rostopcin, aveva ingiunto loro di bruciare la città, piuttosto che lasciarla occupare al nemico. I moscoviti con cui parlai raccontarono, prevedibilmente, un'altra storia: erano i francesi ad
appiccare gli incendi, perché non volevano solo occupare la città e stuprarla, ma soprattutto distruggerla. Mi pareva insensato: a nessun verme sarebbe piaciuto veder cremato il cadavere di cui si cibava. Altri ancora ritenevano che gli incendi fossero semplici incidenti. Ai francesi importava meno che ai moscoviti di preservare intatta la città, quindi non si preoccupavano per una candela rovesciata o un tizzone che prendeva il volo. Inoltre, senza le autorità civili, non c'era né il modo né la volontà di spegnere le fiamme. In passato Mosca era stata ben dotata di pompe e idranti e di uomini che sapevano usarli, ma con l'evacuazione era scomparso tutto. I russi e i francesi si fissavano negli occhi, nella città divorata dal fuoco, ciascuno dava la colpa all'altro, e nessuno era pronto a distogliere lo sguardo per primo. Sentii raccontare altre storie, oltre a quelle sugli incendi; voci che mi erano orribilmente familiari; voci secondo cui a Mosca era in corso un'epidemia. Man mano, la diceria si trasformava: i francesi iniziavano a parlare di strangolamenti, di sparizioni, di un branco di animali feroci. Gli Opričniki erano al lavoro. Eppure mi domandavo se i due fenomeni non fossero correlati. Gli Opričniki non avevano preconcetti sulla guerra, e forse anche gli incendi facevano parte del loro metodo non convenzionale per scacciare il nemico. Probabilmente io non sarei riuscito a sacrificare la città per perseguire quell'obiettivo; ma loro, essendo stranieri, non avevano di questi scrupoli. E così forse avrei fallito, e loro avrebbero avuto successo. Con gli Opričniki era molto facile (e piacevole) ipotecare i propri scrupoli, sapendo che dopo la battaglia ti sarebbero stati restituiti intatti. Il luogo d'incontro del martedì era la chiesa di San Clemente, nei dintorni di Zamoskvorecje, non lontano dalla mia nuova residenza. Il sacerdote l'aveva abbandonata per fuggire da Mosca, convinto che non sarebbe mai riuscito a convertire gli invasori atei alla fede in Dio e tantomeno al cristianesimo, figurarsi alla religione ortodossa. Fui scosso da un brivido quando alzai lo sguardo sulle mura rosse della chiesa: una sensazione di minaccia che immagino non sia rara anche nel più devoto degli uomini, di fronte alla sconvolgente
imponenza di un simile edificio. Una chiesa, come sappiamo tutti fin da bambini, è la casa del Signore: un luogo d'amore e rifugio. Eppure devo pensare che il presentimento di orrore e pericolo che avvertii davanti a quel portone buio, illuminato solo dalla mezza luna che si stagliava nel cielo al tramonto, fosse comune a chiunque. Credo perché una chiesa, per quanto possiamo associarla all'amore di Cristo, e un luogo che colleghiamo anche ai morti. Tocca il nucleo stesso della nostra fede. La gioia del paradiso è la ricompensa ultima a cui è diretta la vita di ogni cristiano, eppure quanto temiamo la morte? La temiamo talmente tanto, tutti, da lasciarci spaventare perfino dalle creature più impotenti, i morti stessi. Mi guardai intorno, ma non c'era traccia di Vadim, né di Dmitrij, né degli Opričniki. Sembrò che fossero passati pochi istanti quando, voltandomi di nuovo, vidi accanto a me Ioann e Foma.
Capitolo 12 Per un attimo, quando scoprii quant'era piacevole - temo sia questa la parola esatta - rivedere quei volti familiari, odiai me stesso. Senza dubbio avrei preferito incontrare Vadim, o anche Dmitrij; ma fu un sollievo poter parlare liberamente con persone che conoscevo, sebbene da poche settimane. Ero debilitato dallo sforzo costante di resistere, patriota in incognito, in mezzo a una folla di invasori. In fondo avevo sperato che, se proprio dovevo incontrare un Opričnik, si trattasse di Iuda; ma credo che il mio sorriso fosse sincero mentre stringevo la mano a Foma e Ioann. «Mi fa piacere vedervi» dissi loro. Sorrisero e annuirono come se non avessero capito la mia frase in francese ma ne avessero colto il senso. «Dove alloggiate?» chiesi, parlando più lentamente e, temo, con il tono condiscendente che si usa con chi non parla né francese né russo. «Abbiamo trovato una cantina» rispose Foma. «Una tana perfetta.» Gli perdonai l'uso di quella parola insolita. Avevo imparato il francese in tenera età, insieme al russo; per chi lo apprende da adulto, è difficile riconoscere le sfumature di significato più sottili. «Avete visto i vostri compagni?» Ne discussero tra loro, nella loro lingua, poi Foma mi rispose: «Ne abbiamo visti un paio, ma soprattutto abbiamo potuto vedere il loro lavoro». Capii che con lavoro intendeva le morti dei soldati francesi. Quel giorno, più che mai prima e certamente più che in seguito, mi sentivo in perfetto accordo con i risultati conseguiti, e i loro metodi mi erano del tutto indifferenti. «Anch'io ho sentito parlare del vostro lavoro» dissi. «I francesi hanno molta paura di voi.» «A quanto ne so, finora ne abbiamo uccisi solo venti» puntualizzò Foma. Fece subito seguire una giustificazione per l'esiguità del
numero. «È meglio che i numeri restino bassi. Anche con così pochi morti, hai già sentito circolare voci; se ne uccidessimo di più, le folle si riverserebbero in strada per darci la caccia.» «È una lezione che abbiamo imparato a spese dei nostri amici caduti» intervenne Ioann. «Avremo tutto il tempo di lavorare, in questa città. Non siamo come cani che si abbuffano senza pensare al domani.» «Hai qualcosa da dirci?» chiese Foma, interrompendo l'amico. Riassunsi brevemente ciò che avevo visto e sentito sulla dislocazione delle truppe, ma mi parve superfluo, e io stesso mi sentii inutile. Mosca era piena fino a scoppiare, di francesi e dei loro alleati. Gli Opričniki non avevano bisogno delle mie informazioni, come un falciatore non ha bisogno che gli si indichi un campo di grano, o una volpe che abbia trovato il pollaio non ha bisogno che qualcuno scelga per lei una gallina. D'altro canto, nonostante lo slogan rivoluzionario, non tutti i francesi erano uguali; certo non tutti costituivano per noi una pari minaccia. Ovviamente gli ufficiali erano bersagli più utili dei soldati semplici, e quelli specializzati - di artiglieria o dello stato maggiore generale - sarebbero stati una perdita più grave per l'apparato militare francese. Dunque diressi Foma e Ioann verso quegli obiettivi. «Dove sono gli incendi, al momento?» volle sapere Foma quando ebbi finito. «Guardate voi stessi» risposi, indicando con il dito. «Lungo tutta la via Pokrovka, e anche in altre strade.» Verso nord, il cielo notturno era arrossato dal baluginio dei fuochi. Gli incendi si stagliavano come archi luminosi dietro gruppi di edifici. «Sospettavo che li aveste appiccati voi» aggiunsi. «Noi?» Foma restò di stucco, quasi insultato all'idea, e anche stranamente impaurito. «Non sappiamo che farcene del fuoco.» Non sembrava intenzionato a spiegarsi meglio. «Ora ce ne andiamo» proseguì. «Noi o qualcuno degli altri farà del suo meglio per incontrarvi anche domani.» Mi rivolsero entrambi un cenno del capo e si incamminarono. Dopo aver scambiato qualche parola si separarono: Ioann si diresse a sud e Foma a nord.
Sapevo di dover cogliere quell'occasione. Avevo sentito parlare del lavoro degli Opričniki, e ne avevo visto un'esibizione coreografata sulla strada nei pressi di Borodino, ma stavolta avrei potuto vederli davvero all'opera, ed era una tentazione irresistibile. Foma era solo, e io ne approfittai. In vita mia avevo pedinato uomini su lunghe distanze, nei boschi e tra le montagne, e raramente ero stato scoperto. Un inseguimento in città era diverso, ma i principi erano più o meno gli stessi. In campagna ci si può mantenere a una distanza di una versta e più, sapendo che le tracce della preda resteranno visibili per qualche ora, e che la preda è probabilmente l'unico altro essere umano in tutta la zona. In città, invece, bisogna stargli alle calcagna. Se Foma si fosse allontanato abbastanza da svoltare due angoli di strada, avrei potuto perderlo. Ma se mi fossi avvicinato troppo mi sarei ritrovato dietro di lui su un rettifilo, e gli sarebbe bastato voltarsi per vedermi. Tuttavia avevo il vantaggio di conoscere bene Mosca. Se lui svoltava in una via, io potevo imboccare la parallela, costeggiare tre lati di una piazza nel tempo che lui impiegava a percorrerne uno, e precederlo all'incrocio successivo. Si diresse a nord, a passo spedito. Probabilmente non conosceva bene la città, ma sapeva dove stava andando. Poco prima avevo spiegato ai due Opričniki che molti francesi avevano preso alloggio nella zona nord, quindi era lì che si stava dirigendo. L'inseguimento fu reso più difficile dalle ronde regolari dei soldati francesi, che però rallentavano anche Foma. Dato che pochi francesi parlavano russo, se l'avessero fermato la sua ignoranza non l'avrebbe necessariamente condannato. Bastava che borbottasse qualcosa nella sua lingua, che immaginai fosse un dialetto del rumeno, e alle orecchie dei soldati non ci sarebbe stata differenza con gli incomprensibili farfugliamenti dei moscoviti. A me la lingua degli Opričniki sembrava più simile all'italiano e al francese che non al russo, ma questo era un errore analogo. Chiunque - francese, russo o giapponese che sia - tende istintivamente a non voler perdere tempo con ulteriori sottoclassificazioni di cose già bollate come straniere. Foma, tuttavia, correva il rischio di imbattersi in una pattuglia in cui qualcuno parlava russo; in quel caso l'avrebbero smascherato. Per scelta meditata o per istinto, il suo approccio al problema consisteva
nel mantenersi invisibile. Quando gli si avvicinava una ronda (o, in realtà, chiunque), lui si infilava in un androne buio o in un vicolo e aspettava che fossero passati. Era molto bravo a nascondersi nell'oscurità. A un certo punto, mentre lo guardavo dall'altro capo della strada, sentì il rumore di passi in avvicinamento e si gettò nell'ombra del muro al termine di una fila di case. Fu come se mi scomparisse davanti agli occhi. Restai a guardare per diversi minuti, e passò prima una ronda francese organizzata, poi un rumoroso gruppo di soldati in licenza: Foma restò invisibile. Tirai fuori il cannocchiale e tornai a guardare il punto in cui l'avevo visto l'ultima volta, ma c'erano solo ombre scure e indistinte proiettate sul muro. Poi, d'un tratto, ciò che guardavo si trasformò: non perché fosse cambiato, ma perché io rivalutai coscientemente quel che vedevo. Non stavo guardando un'ombra, bensì il lato del volto di Foma, schiacciato contro la parete nell'immobilità più assoluta. Era quella capacità di restare fermo a donargli l'invisibilità. Il cappotto scuro gli copriva quasi tutto il corpo. Spostando leggermente lo sguardo intravidi una mano, premuta sul muro come per spingersi verso i passanti, ma anch'essa incredibilmente immobile. Tornai a fissare il volto e notai un movimento quasi impercettibile: stava spostando gli occhi. Si dice che durante un sogno il nostro corpo resti immobile mentre gli occhi si muovono, indicando fisicamente al mondo reale in quale direzione il sognatore sta guardando con la mente. La sola differenza era che Foma aveva gli occhi aperti, puntati sui soldati del gruppo che si stava allontanando. Quando l'ultimo soldato fu sparito, e i suoi passi si furono persi nella notte, tornò improvvisamente visibile. Ma non proseguì per la sua strada. Quel che aveva visto gli era piaciuto, quindi si mise sulla scia dei militari. Stavolta fu il mio turno di nascondermi nell'ombra al suo passaggio. Foma seguiva i soldati, io seguivo Foma; e gradualmente ci dirigemmo a est, verso il quartiere Kitaj-gorod. Nuovi incendi rilucevano a sudest, ma la zona in cui ci trovavamo restava intatta, risparmiata non solo dal fuoco ma anche dai francesi. Oltre al
piccolo gruppo di soldati che seguivamo non c'era nessun altro in giro. Ben presto la truppa arrivò a destinazione: una scuola abbandonata che usavano come caserma. Tra le risate e gli scherzi che avevano accompagnato tutto il tragitto, entrarono nell'edificio e si chiusero il portone alle spalle. Foma li seguiva da vicino, ma anche stavolta si era immobilizzato, la schiena contro il muro, e nessuno oltre me l'aveva notato. Mi nascosi in fondo alla strada e restai a osservarlo per vedere quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Ora che il chiasso dei francesi era cessato, il mio respiro mi pareva assordante. Foma camminò avanti e indietro fuori dalla scuola, guardando le alte finestre; mi ricordava un gatto che si aggira sotto un uccello in gabbia, sicuro di poterlo acchiappare con un balzo, ma semplicemente in cerca del punto migliore da cui attaccare: quello da cui è meno probabile essere visto. Si fermò sotto una delle finestre, forse la più facile da raggiungere. Senza esitazioni iniziò ad arrampicarsi sul muro. Un'impresa straordinaria, di cui io non sarei mai stato capace, degna del più abile acrobata. Individuò ogni crepa e fenditura lungo la parete, e vi si aggrappò con mani e piedi. Come quando si nascondeva, il suo corpo aderiva perfettamente alla superficie; muoveva un arto per volta, facendolo scorrere fino all'appiglio successivo: scivolava come l'acqua su una roccia, senza mai scostarsi dalla parete verticale per non perdere l'equilibrio. Sembrava una lucertola... no, non proprio: sembrava un ragno; ma mi resi conto che l'impresa non era disumana, bensì piuttosto superumana. Ci sarebbe riuscito qualsiasi uomo con la sua forza, abilità ed esperienza; e coraggio, dovrei aggiungere. Io non ero quel tipo d'uomo, ed era difficile immaginare che uno come Foma nascondesse un simile talento dietro quell'aria ordinaria. Raggiunse la finestra, la aprì senza sforzo e si infilò nell'edificio con una rapidità tale da far pensare che fosse stato tirato dentro dall'interno. Non avevo modo di seguirlo, né desideravo trovarmi intrappolato in una stanza con lui se mi avesse scoperto. Mi avvicinai e rimasi in ascolto. Da dentro non proveniva alcun rumore; non avevo idea di cosa stesse facendo, né udii le reazioni
dei soldati che dormivano lì. C'era poco che potessi fare, se non attendere, e sperare che uscisse dalla stessa finestra da cui era entrato, o almeno dallo stesso lato dell'edificio. La casa di fronte aveva un porticato molto ampio, quindi mi sedetti lì, nascosto da un pilastro, e poggiai la schiena contro il muro. Mi appisolai, ma mi sembrò fossero passati solo pochi secondi quando l'ufficiale in comando di un piccolo drappello francese mi rivolse la parola in un russo dall'accento marcato. «Che ci fai qui?» abbaiò. «Dormo, signore!» Balzai in piedi nel tentativo di mostrarmi rispettoso, ma compresi che se non fossi stato attento si sarebbero accorti che ero un militare. «Non ce l'hai una casa?» chiese il tenente. Dietro di lui vidi riaprirsi la finestra della scuola. «È stata occupata, signore» risposi, cercando di non guardare la finestra per non tradire Foma, «dai vostri compatrioti.» «E dov'era?» Domanda rischiosa. Cercai di ricordare un posto lì vicino dove avessi visto soldati francesi. «Nella via Kolpacnij, signore.» Dietro di lui la sagoma di Foma scese a terra, non con un salto, né calandosi, bensì defluendo - più lento dell'acqua ma più veloce del miele - come il sangue. Passò lungo il muro come l'ombra di un oggetto fermo gettata da una luce in movimento. «Capisco» proseguì l'ufficiale. Sembrava che mi credesse, e gli dispiacesse per me. «Non posso farci niente. I soldati devono pur dormire da qualche parte.» Annuii. Foma si allontanò silenzioso per la strada, con passi quasi spavaldi in confronto ai movimenti furtivi di prima; immaginai fosse orgoglioso del risultato ottenuto nella caserma improvvisata. Non so se vide me e il soldato francese. Se anche ci avesse visti, forse non mi avrebbe riconosciuto. Sicuramente non accennò a venirmi in aiuto. «Anch'io devo dormire da qualche parte» dissi al tenente, cercando di non apparire così sottomesso da destare sospetti.
«Sarà pure, ma qui non puoi stare. C'è una caserma laggiù.» Si guardò alle spalle; Foma era già svanito nella notte. «Non possiamo permettere che i nativi si aggirino qui intorno.» «Mi dispiace, signore» dissi. La rabbia iniziò a montarmi dentro, soprattutto nel sentirmi ingiuriare con parole come nativo, ma non era la rabbia del capitano Aleksej Ivanovič Danilov: lui capiva bene che quella era solo la spacconata di un ufficiale di basso rango, spaventato, in un Paese straniero. No, la mia era la rabbia del maggiordomo russo senza più casa che ero diventato: mi tramutavo sempre in chi fingevo di essere. Non avrei convinto quel tenente, se il moscovita davanti a lui fosse rimasto imperturbato. Dovevo star calmo, ma con uno sforzo palese, che lasciasse trasparire una furia trattenuta a stento. Così tanti strati di inganno sono difficili da gestire. Molto meglio crederci davvero, perché in questo modo nessun altro ne dubiterà. Il tenente non si degnò di congedarmi, però non disse altro, quindi schizzai via nella direzione in cui era sparito Foma. Ma la pista era già fredda. Mi precedeva di neanche mezzo minuto, tuttavia poteva aver svoltato in una decina di strade diverse. Non mi arresi - non mi arrendevo nemmeno con una possibilità su dieci -, ma scoprii che quella era una delle altre nove. Ripiegai sulla mia stalla a Zamoskvorecje e andai a dormire. Il giorno dopo tornai alla scuola. Ormai avevo un aspetto piuttosto trasandato: non avevo dormito all'aperto come tanti altri moscoviti, però ero sporco e sciatto; puzzavo di strada. Mi sembrò un pretesto valido per avviare una conversazione con le due guardie che ora piantonavano l'ingresso. «Scusate, signori» dissi loro in russo, «non avete qualcosa da mangiare?» Mi guardarono con aria inespressiva. «Del pane, magari?» Non capivano. Passai al francese. «Du paini Du paini» li pregai, come se fosse l'unica frase che conoscessi, e cercando di parlare con accento russo. C'erano lacrime nei miei occhi, e una delle guardie entrò nell'edificio e tornò poco dopo con una crosta sporca. «Grazie, signore» gli dissi in francese, presumendo che la maggior parte dei moscoviti conoscesse anche quelle parole.
Mi accucciai sul marciapiede con la schiena contro il muro e divorai il pane raffermo. Le due guardie non sembravano propense a cacciarmi; ne arrivò una terza. «Notizie di Albert?» chiese la prima guardia al nuovo arrivato. «Ancora niente» rispose quello. «Sono sicuro che ieri sera è tornato con noi» disse il secondo soldato. «Oh, sì. Il suo letto è sfatto, e macchiato di sangue; ma di lui non c'è traccia. Se anche l'avessero assassinato, avremmo trovato il corpo.» Immediatamente ripensai alla scena di pochi giorni prima vicino a Gorjackino, quando gli Opričniki erano stati molto attenti a rimuovere i cadaveri dei soldati massacrati fuori dalla fattoria. «Una delle ronde ieri sera ha trovato un russo che dormiva - o fingeva di dormire - qui fuori, laggiù.» La prima guardia indicò l'androne dove mi avevano visto la sera prima. «Forse faceva il palo.» «Forse» mormorò l'ultimo arrivato, poi, per sfogare la frustrazione, mi tirò un calcio ben assestato e ringhiò: «Bistrot Bistro!». L'accento era quasi impenetrabile, ma era l'unica parola russa che gli invasori si fossero premuniti di imparare: «Svelto! Svelto!». La usavano in ogni occasione: per cacciare qualcuno, come cacciavano me adesso, per sgombrare la strada o - con sempre maggior urgenza, con il passare del tempo - per procacciarsi da mangiare. In questo caso mi offrivano una possibilità di fuga, e io la colsi volentieri. Trascorsi quella giornata come avevo trascorso la precedente: vagai per le strade raccogliendo informazioni dagli occupanti francesi e dai pochi russi rimasti a farsi maltrattare. Mi tenni alla larga dal quartiere di Kitaj-gorod, che ormai era quasi tutto bruciato, ma c'erano poche zone della città in cui potessi avventurarmi senza vedere incendi o assistere alla devastazione provocata dalle fiamme spente. Prima dell'occupazione, l'enclave più importante degli emigrati francesi era stata l'area intorno al Ponte Kutznetskij, sul
fiume Neglinnaja, che ora, deviato dal suo corso naturale in un canale parzialmente coperto, si trasformava in un fossato lungo il muro occidentale del Cremlino e poi si riversava nella Moscova. Il fuoco lambiva i bordi di quell'area, ma non si spingeva oltre. Alcuni francesi con cui parlai erano convinti che la volontà di Dio avesse risparmiato la «loro» parte di città. Di sicuro anche quella di Bonaparte aveva contribuito: l'imperatore aveva ordinato che un picchetto di uomini restasse sempre intorno al ponte Kutznetskij, per ricacciarlo indietro nel caso si fosse spinto sin lì. Gli incendi, le dicerie sulla loro origine e le ipotesi su quando sarebbero finiti erano gli argomenti principali sulla bocca di tutti. Ma si parlava anche di altre misteriose morti e scomparse che non potevano essere attribuite al fuoco. Non dubitavo, e mi faceva piacere saperlo, che fossero opera dei miei amici Opričniki. Circolavano poi altre notizie, di natura più politica: Bonaparte aveva abbandonato il Cremlino, per paura che andasse a fuoco, e si era spostato nel palazzo Petrovskij all'altro capo della città. Inoltre i francesi cominciavano a chiedersi quale sarebbe stato il passo successivo di Napoleone. Il giorno prima c'era un'atmosfera, se non di euforia, almeno di orgoglio per la conquista di una città straniera; ora si domandavano cosa farsene. A pochi piaceva l'idea di marciare su Pietroburgo, ma svernare a Mosca non era una prospettiva allettante, né sicura. Tutti si aspettavano ancora che lo zar Aleksandr rinunciasse presto all'orgoglio e iniziasse a negoziare una qualche forma di pace, ma la Grande Armée sarebbe comunque rimasta isolata e lontana da casa. Quella sera, essendo un mercoledì, ci saremmo dovuti incontrare al Ponte di Pietra, a ovest del Cremlino. Io non ci andai. Mi fermai invece a osservare da lontano, sulla riva meridionale del fiume: il mio piano, anche quella sera, era di seguire uno degli Opričniki. Parlare con Vadim e Dmitrij mi avrebbe rallentato. Non potevo nemmeno essere certo che Dmitrij non avrebbe tentato di fermarmi. La luna era alta e piena per tre quarti quando arrivai, un po' prima dell'ora stabilita. Ben presto vidi una figura raggiungere il centro del ponte e sporgersi a guardare il fiume. Era Dmitrij. Poco dopo arrivò Vadim. Parlarono brevemente, poi si avviarono insieme verso la sponda meridionale. Cinque minuti dopo tornarono indietro:
chiaramente non volevano farsi vedere fermi nello stesso posto troppo a lungo, e pattugliavano il ponte in attesa degli Opričniki. Sentii una gran voglia di raggiungerli. Erano cinque giorni che non scambiavo una parola con loro, e in quel tempo non avevo avuto una sola conversazione sincera e diretta con nessuno. Il mio breve scambio con Foma e Ioann la sera prima non contava. Mi resi conto di provare nostalgia, non per un luogo - ormai Mosca era casa mia, molto più di Pietroburgo - ma per delle persone. Cinque minuti di conversazione con uno di loro due mi avrebbero dato lo stesso sollievo di un bagno nel fiume in una giornata afosa. Come in passato, in un giorno caldo d'estate, ero stato colto dall'eccentrico desiderio di strapparmi i vestiti e tuffarmi nell'acqua fredda in un luogo pubblico, così ora avrei tanto voluto il conforto di una chiacchierata con i miei amici. Avevo resistito alla tentazione allora, resistetti adesso. Avevo ben altro da fare che alleviare il mio disagio. Restai a guardare Dmitrij e Vadim con un certo piacere malsano, come il padre vero ma segreto di un bambino che lo guarda giocare con il marito della madre, o un innamorato respinto che scorge la sua amata dalla finestra aperta: fingevo di essere lì con loro, immaginavo il mio contributo alla conversazione, ma non potevo raggiungerli. Solo in quel momento, quando quel sollievo fu così vicino da tentarmi, compresi la profondità della mia solitudine. Mi aveva fatto piacere vedere Foma e Ioann, ma ben presto mi avevano dimostrato la loro assoluta mancanza di personalità. Non era soltanto il fatto che sembrassero sempre di malumore; erano semplicemente vuoti, ritratti senz'anima di uomini venuti da un Paese lontano. Assoluti estranei. Vadim e Dmitrij stavano passando sul ponte per la quarta volta quando incontrarono altre due figure provenienti dalla direzione opposta. Uno era Varfolomej, l'altro non lo riconobbi. Non era Iuda, facile da distinguere anche solo per l'altezza, se non per i capelli e la postura. I due Opričniki parlarono un po' con loro, non più di cinque minuti, poi i miei amici ripartirono, diretti a nord. Gli Opričniki attesero qualche minuto e se ne andarono. Varfolomej si diresse a nord mentre l'altro, una volta sceso dal lato sud del ponte, svoltò a destra e proseguì lungo l'alzaia dov'ero nascosto.
Quando mi passò davanti vidi che era Matfej. Mi tirai indietro tra i cespugli e lui mi superò, senza dar mostra di essersi accorto della mia presenza. Lo seguii come avevo seguito Foma la sera precedente. Ebbi l'impressione che volesse tornare sul lato settentrionale del fiume, ma che non avesse ancora memorizzato la mappa della città. Il fiume curvava a sud, e dovemmo percorrere quasi due verste prima di arrivare al Ponte Krimskij e tornare sull'altra sponda. Subito Matfej individuò una pattuglia francese e, come aveva fatto Foma, iniziò a seguirla a distanza di sicurezza. Proseguimmo per mezz'ora, ma lui non tentò di attaccare i soldati. Per quanto potevo vedere, era ancora l'inizio del turno di guardia, e i soldati non sarebbero tornati in caserma prima di qualche ora. Alla fine anche Matfej doveva essere giunto alla mia stessa conclusione, perché fu distratto dal suono di una piacevole voce baritonale che cantava in francese proveniente da una delle case più lussuose della via. Una finestra era illuminata. Matfej si avvicinò e guardò dal vetro. All'improvviso ebbe un sussulto. Ancora una volta, come con Foma, mi venne in mente un gatto, con i muscoli tesi alla vista della preda. Forse la porta era aperta, oppure lui trovò il modo di aprirla: so che ben presto fu dentro la casa, lasciandomi in attesa tra le ombre. Ascoltai. La bella voce del francese continuava a cantare la serenata alla notte. Al nostro arrivo si stava dilettando con un'aria dal Fidelio di Beethoven. Ad Austerlitz, i brani di quest'opera appena composta erano stati sulle labbra dei soldati francesi e austriaci, e su quelle dei russi più cosmopoliti. Ora il cantante invisibile era passato a quel brano amatissimo (da alcuni), La Marseillaise. Sorrisi tra me e me: immaginavo Vadim infuriato all'idea che in una casa di Mosca si cantasse quell'inno; ma penso sarebbe stata una smargiassata. Nel profondo del suo cuore, non credo che amasse la sua patria più di me, o di Dmitrij, o di... Be', non più di Dmitrij e me, in ogni caso; ma a Vadim piaceva esibire il suo patriottismo. Amava i simboli della Russia e odiava quelli dell'invasore. Quanto mi sarebbe piaciuto averlo accanto a me in quel momento, sentirlo sbuffare scandalizzato nell'udire l'aria di Mosca inquinata da quella musica! In realtà, lo stesso Bonaparte non sarebbe stato molto felice. Trovava che La Marseillaise puzzasse un po' troppo di rivoluzione per la sua
nuova dinastia imperiale, tuttavia il brano restava popolare tra i soldati. A me piaceva la melodia. Appoggiai la testa contro il muro e restai a godermi l'interpretazione. Il francese cantava in tono pastoso, ed era giunto alla parte sui soldati urlanti che arrivano a tagliare la gola ai figli e alle compagne, quando anche lui fu interrotto. La canzone si perse nel grido strozzato che mi stava diventando fin troppo familiare. Continuai a canticchiare sottovoce, ricacciando indietro una lacrima la cui causa non riuscivo bene a determinare:
Aux armes citoyens! Formez vos bataillons, Marchons, marchons! Qu'un sang impur Abreuve nos sillons. Non sapevo spiegarmi un simile fiotto di commozione per un inno straniero, che certo non rappresentava la più bella melodia né i versi più ispirati mai scritti; forse mi prese perché per l'uomo in quella casa, che avevo appena udito morire per mano di Matfej, aveva significato tutto. Negli ultimi dieci anni avevo assistito a molte uccisioni, e se quell'uomo si fosse trovato su un campo di battaglia, reggendo un tricolore fino all'ultimo istante, allora la sua morte sarebbe stata... rispettabile, sia per me sia, credo, per lui. Ma da quando avevamo iniziato a lavorare con gli Opričniki, non c'era stata una sola morte onorevole. Maks, gli innumerevoli soldati, persino la fine degli Opričniki - Simon, Iakov Alfejnic e Faddej -, traditi da Maks: nessuna rientrava nello schema delle normali morti in guerra. Forse in futuro quel genere di trapasso sarebbe diventato comune e accettabile, come aveva detto il francese - Louis, mi pare si chiamasse - giù all'accampamento; però in quell'istante desideravo assistere a una morte semplice, causata da un cannone o una spada.
Quando avevo scelto il mio mestiere, fuori dall'esercito regolare, avevo pensato che lo spionaggio fosse una questione di informazioni: scoprire cosa pensava il nemico. Avevo imparato presto che si trattava solo di porre fine a quei pensieri: tutto stava nel trovare modi nuovi e insoliti per portare la morte ai nostri avversari. Il portone della casa si aprì e ne riemerse Matfej. Si guardò intorno e si incamminò dalla parte da cui eravamo arrivati. Mi colse un brivido quando notai per la prima volta qualcosa di tangibilmente disgustoso in uno degli Opričniki. Fino a quel momento, i loro metodi e le loro maniere mi erano sembrati di cattivo gusto, quindi mi era parso che il problema fosse mio quanto loro; nient'altro che uno scontro tra culture diverse. Ma quel che vedevo ora andava un gradino oltre il cattivo gusto, era raccapricciante. Notai - e da quella distanza potevo solo intravedere, tuttavia ne ero certo - che Matfej aveva le labbra macchiate di sangue. Eppure poteva esserci una spiegazione logica. Magari il francese aveva lottato prima di morire, sferrandogli un pugno in volto, dunque il sangue poteva essere dello stesso Matfej. Dopo qualche passo, l'Opričnik si fermò e si portò una mano alla bocca, per ripulirla. Si guardò le dita, osservò il sangue. A me tornò alla mente il sangue che avevo visto sulle mie mentre me le tagliavano. Poi però Matfej fece un'altra cosa. Riportò le dita alla bocca e le leccò con voluttà, quindi si rimise in marcia. Ricordi di storie da tempo dimenticate si insinuarono di nuovo nella mia mente, ma li repressi. Continuai l'inseguimento. Stavamo tornando indietro, a nordest, e ora il passo di Matfej era meno guardingo, più simile a quello di un gentiluomo che torna a casa, appagato da una serata di bagordi. Anzi, dai suoi movimenti sembrava che non stesse più vagando per la città in cerca di vittime ma avesse una destinazione ben chiara, il suo alloggio. Il fatto che per quella notte avesse terminato il lavoro e fosse diretto a casa non gli impediva però di tenere gli occhi aperti, nel caso si presentassero altre opportunità di uccidere. Camminavamo da circa mezz'ora, sempre in direzione nordest, quando d'un tratto si addossò a un muro e svanì, esattamente come avevo visto fare a Foma. Il suo udito doveva essere più acuto del mio, perché solo
dopo alcuni secondi sentii i passi cadenzati di una ronda francese. Mi infilai in un vicolo, fissando il punto dove Matfej era scomparso: anche se non potevo vederlo mentre era nascosto, speravo almeno di riuscire a individuarlo appena avesse ricominciato a muoversi. La ronda lo superò a passo di marcia, avvicinandosi abbastanza da sentire il suo respiro sulle guance; sempre che stesse respirando davvero, tanto era immobile. E già quella sera, dopo appena due giorni di occupazione, la parola marcia era forse un complimento, per le truppe francesi. Nelle settimane in cui rimasero a Mosca, il comportamento del soldato medio si sarebbe deteriorato oltre ogni decoro militaresco, ma già allora marciavano in modo pigro e disordinato. Ridevano e scherzavano tra loro, e l'ultimo della fila si fermò ad accendersi un sigaro, senza dubbio rubato da qualche casa vuota, parte del bottino di guerra che chiamavano la «Foire de Moscou», la Fiera di Mosca. Trattenni il fiato, ma non sapevo per cosa. Temevo che i francesi vedessero Matfej, che mi scoprissero, o che lui si accorgesse della mia presenza? Infine si avverò quello che credo fosse il mio peggior timore: il soldato con il sigaro si era fermato esattamente all'altezza di Matfej, invisibile contro il muro. Era rimasto indietro di dieci o quindici passi rispetto ai commilitoni. L'Opričnik gli saltò addosso. Con un solo movimento gli si piantò accanto e gli sferrò un pugno alla laringe. Il colpo sarebbe bastato da solo a infliggere una ferita mortale, anche se non una morte immediata, ma il soldato andò a sbattere la testa contro il muro e si udì uno scricchiolio. Matfej aveva dato prova di una forza straordinaria, e insieme di una disinvoltura indolente, come un bambino che getta via la palla quando rientra in casa per la cena. Il soldato cadde in ginocchio privo di sensi, traendo respiri affaticati dalla trachea sfondata. Prima che i commilitoni sospettassero della sua scomparsa, Matfej aveva già trovato l'ingresso che dalla strada portava nel sotterraneo di una vicina taverna, e aveva trascinato giù il moribondo. Mi avvicinai alla botola che aveva lasciato aperta, ma non osai accostarmi troppo, come fosse l'ingresso della tana di un orso. Per quanto ne sapevo, poteva essere appostato lì nell'ombra ad
aspettarmi, per trascinare dentro anche me. Udii solo un vago accenno di movimento, seguito da un rumore di vetri rotti e da quella che immaginai fosse un'imprecazione. All'improvviso apparve una luce fioca sull'uscio della cantina. Evidentemente al buio Matfej era cieco quanto me. Mi avvicinai all'entrata, restando in piedi per poter fuggire più in fretta e per non trovarmi faccia a faccia con lui. In questo modo potevo guardare dentro da una certa distanza, e rimanere comunque fuori dalla sua portata. La prima cosa che vidi furono i cocci lucenti di varie bottiglie di vodka, probabilmente quelle che Matfej aveva rotto brancolando nel buio. Più indietro c'era una piccola lanterna che illuminava la stanza: forse Matfej era stato fortunato a trovarla lì, o forse era stato previdente e se l'era portata dietro. Una pozza di vodka si allargava tra le bottiglie e impregnava lentamente la terra battuta del pavimento, ma non riuscivo ancora a vedere né l'Opričnik né la sua vittima. Feci un altro passo avanti e scorsi un piede, che sembrava appartenere a Matfej. Era in ginocchio o carponi, quindi vedevo la suola dello stivale. Lì accanto, la pozza limpida di vodka si mescolava con un'altra sostanza più scura, di cui non riuscivo a indovinare l'origine. Con un altro passo verso la botola mi si rivelò l'immagine completa. Matfej era inginocchiato sopra il corpo del soldato francese, gli posava una mano sul petto per tenerlo fermo, benché quello non sembrasse in grado di opporre resistenza. L'altra mano era posizionata sotto il mento del soldato, e gli spingeva indietro la testa in un'angolazione macabra, esponendo la gola. A un primo sguardo si poteva pensare che Matfej lo stesse baciando, o gli stesse praticando la respirazione bocca a bocca; ma le sue labbra non erano su quelle del soldato, bensì sul collo. La pozzanghera scura che avevo visto era una pozza di sangue, che dalla gola del soldato gocciolava sotto le labbra di Matfej. Era impensabile, ma non poteva essere altrimenti: Matfej stava bevendo il sangue di quell'uomo. Però ne stava sprecando la maggior parte; con un brivido ricordai che quello non era il primo pasto della serata.
Si spostò leggermente, e le gambe del soldato iniziarono a scuotersi in un ultimo, flebile, patetico tentativo di resistere all'assalto contro il suo corpo. Matfej spinse più forte sul petto dell'uomo e rialzò la testa, soddisfatto - mi parve - di quanto aveva bevuto. Ma mentre lui sollevava la testa, anche il collo e il capo del soldato presero a muoversi. Matfej si spinse contro il corpo dell'uomo e vidi che i suoi denti erano ancora affondati nella gola. All'improvviso la pelle si squarciò, e la testa dell'Opričnik si sollevò di scatto, con un brandello di carne tra le labbra insanguinate.
Capitolo 13 «Vurdalak!» La parola si era già fatta strada dai miei più remoti ricordi d'infanzia fino alle corde vocali, prima che la mia mente di adulto avesse il tempo di scoprirne il significato. La sentii sussurrata, e solo dopo mi resi conto che ero stato io a pronunciarla.
Vurdalak: il vampiro. Ora rammentavo la voce che per prima me
ne aveva parlato. Il ricordo tornò vivido in un istante: la vecchia casa a Pietroburgo appartenuta a mia nonna e in cui, anziana e in difficoltà economiche, si era ritirata a vivere in poche stanze; il sapore e la consistenza dei dolci pirozhki di cui conservava una scorta apparentemente infinita; i bambini raccolti intorno a lei - io e i miei due fratelli, e vari cugini di cui non riuscivo mai a tenere il conto - ad ascoltare le sue storie. Mia nonna incarnava alla perfezione la dicotomia che è il cuore dello spirito russo. O almeno questo è ciò che mio padre - suo figlio - mi aveva insegnato, e ciò in cui io credevo. Benché il capitale della famiglia si fosse assottigliato negli anni, la nonna manteneva una fiducia incrollabile nell'etichetta, nell'importanza di un atteggiamento consono alla propria posizione nell'ordine istituito da Dio nella società e nel mondo. Eppure, sotto quella patina di fierezza, si celava l'intelletto di una contadina. Non era stupida, soltanto priva di ogni istruzione utile, e peggio ancora - molto peggio - senza alcun desiderio di istruirsi. Aveva ereditato le sue ricchezze dai genitori, e quelli le avevano avute a loro volta dai propri genitori; e la sua conoscenza del mondo le era giunta, intatta, per la stessa via. E come lei, seduta nelle poche stanze abitabili della casa un tempo sontuosa, con una sola vecchia cameriera a servirla, non capiva che la ricchezza non è eterna ma va continuamente rinnovata, così non riusciva a comprendere che la conoscenza deve essere aggiornata e non semplicemente conservata. I due concetti - sia nel successo, sia nel fallimento - erano inseparabili. Non era un caso se Cristo aveva scelto la parola talento nella Sua parabola. E così fu in totale sintonia con l'educazione ricevuta che mia nonna trasmise le sue conoscenze ai figli e poi ai nipoti. Da lei
appresi gran parte della storia dell'impero, di cui non ho mai dubitato, e ancor più sulla religione, di cui ho dubitato costantemente e infruttuosamente. Ma la sua gioia più grande, la più grande espressione d'amore per noi, risiedeva nei suoi tentativi di terrorizzarci. Con la medesima confidenza personale con cui descriveva lo zar Pétr o Gesù, ci raccontava di tutti gli orrori naturali e soprannaturali - che potevano tener sveglio un bambino di notte. Parlava di streghe, di lupi, di invasioni di ratti e, la cosa che più mi spaventava, del vurdalak: il vampiro non-morto. Mio padre mi chiarì ben presto le idee su questo punto. Già molto prima che io nascessi - avendo visto il lusso in cui vivevano alcuni lontani cugini, mentre lui doveva lavorare per mantenere la più modesta delle case -, aveva scorto i difetti insiti nella visione del mondo di sua madre. Sapeva che la famiglia avrebbe dovuto arricchirsi da sola, e che a questo scopo serviva un'istruzione. Si era sforzato di dimenticare le storie di vampiri, e quando scoprì che anch'io le avevo ascoltate, cercò di farle scordare anche a me. Trovò il denaro per far studiare me e i miei fratelli; e per mia fortuna, o sfortuna, a me toccò un'istruzione militare. Vampiri e streghe, lupi e ratti sparirono dai miei pensieri, e divenni un uomo. Mia nonna era morta quando avevo sette anni, ma ora scoprivo che era stata più sapiente di quanto avessi creduto. «Datemi un bambino prima dei sette anni e vi darò l'uomo» aveva detto sant'Ignazio, e sembrava che mia nonna l'avesse saputo. Perché nell'istante in cui avevo visto Matfej nella cantina, chino sul corpo del soldato, ogni parola della nonna mi era tornata alla mente come un esercito invasore. Ora che l'avevo visto con i miei occhi, la convinzione che avevo avuto da bambino, la convinzione che lei sapeva di avermi instillato, tornò da me con rinnovato vigore. Quelle creature esistevano davvero. Ne avevo vista una. E insieme a quella giunse un'altra certezza, anch'essa infusa in me da mia nonna come verità incontrovertibile: quelle creature erano malvage e andavano distrutte. Tutti questi ricordi e questa conoscenza tornarono da me nello spazio di un istante, il tempo che ci misi ad ascoltare la parola sussurrata dalle mie stesse labbra.
«Vurdalakl» La udì anche Matfej. Si alzò dal suo macabro pasto e si voltò a guardare la botola aperta. Feci un passo indietro e mi rifugiai nell'ombra. Vedevo ancora la metà inferiore del suo corpo ma non lo scorgevo più in viso. Lui esitò, chiedendosi se davvero aveva sentito un rumore, e se poteva costituire un pericolo. Scelse la via della discrezione, e restai a fissare i suoi piedi dirigersi su per le scale verso la taverna al piano di sopra. Sbatté la porta alle sue spalle. Scesi in cantina ed esaminai il corpo martoriato del soldato. Era sicuramente morto. Gli occhi sgranati guardavano immobili il soffitto, senza vederlo, e nella penombra gettata dalla lanterna la sua pelle era pallida, ogni colore aveva abbandonato il suo corpo: per riversarsi nella pozza che macchiava il pavimento, e in Matfej. Le ferite alla gola erano orribili: solo caverne rosse rimanevano dove una volta c'era stata la carne. La laringe schiacciata era rimasta in situ, ma ai due lati i muscoli del collo erano stati strappati via con tale violenza che le due cavità erano collegate; se avessi voluto, avrei potuto infilare due dita in una delle ferite e vederle emergere dall'altra. Sentii un rumore di passi nella stanza al piano di sopra e ricordai che la creatura artefice di tutto ciò era ancora nell'edificio. Non potevo far nulla per aiutare il morto con cui dividevo la cantina, però potevo fare molto per vendicarlo, e la vendetta fu il mio primo pensiero, indotto in me dal ricordo della nonna defunta, e incurante del fatto che si trattasse di un francese, un nemico. Uscii e attraversai la strada per nascondermi. Non dovetti attendere molto prima che Matfej emergesse con fare circospetto dalla porta principale della taverna. Si guardò intorno, poi mosse qualche passo verso la cantina e gettò uno sguardo all'interno. Forse avrei dovuto aggredirlo in quel momento, ma non credevo di poter uscire vittorioso da una simile battaglia. Non avevo con me la spada - impossibile portarla quando ero travestito da maggiordomo - solo un coltello che avevo nascosto nel cappotto. E poi, in tutte le storie che raccontava mia nonna, i vurdalaki non si potevano uccidere come si uccidono gli esseri umani. Si avviò per la strada, dirigendosi di nuovo a nordest. Sembrava
più cauto di prima. Probabilmente non mi vide e non mi sentì, tuttavia sapeva che qualcuno l'aveva spiato nella cantina. Inoltre ora sembrava avere più fretta: camminava a passo spedito, e ogni tanto si metteva a correre in modo sgraziato. All'inizio pensai fosse una tattica per distanziare l'inseguitore, poi capii che era in sintonia con un altro elemento del folclore che la mia superstiziosa nonna - e adesso sapevo quanto mi fossi sbagliato a considerarla tale - mi aveva trasmesso da bambino. Era quasi l'alba. La luce rossastra della città in fiamme, che aveva riempito il cielo per tutta la notte, era ora rimpiazzata dalla mezza luce del sole non ancora sorto. Poteva darsi che, come nella leggenda, Matfej dovesse trovare un rifugio buio, perché sarebbe morto se il più piccolo raggio di sole l'avesse colpito? «Dormiamo di giorno e uccidiamo di notte» aveva detto Pétr al nostro primo incontro, tre settimane prima; parole che sarebbero potute provenire dalle labbra di mia nonna, o di qualsiasi nonna che raccontasse ai cari nipoti i suoi antichi incontri con le terribili creature della notte. Come tattica militare era sensata, perché imitava i ritmi di molti predatori selvatici. Ma a quanto pareva Matfej e i suoi amici l'avevano scelta non per imitare i lupi e i pipistrelli. Gli Opričniki erano creature selvatiche, costrette a quei ritmi dalla natura stessa. Eravamo giunti in una zona che conoscevo, a soli due isolati dalla casa sulla via Degtjarnij in cui avevo trascorso tante ore felici con Domnikiia. Ringraziai il Signore che lei non fosse più in città. Ma Matfej proseguì, per strade già consumate dai grandi fuochi, e altre ancora in fiamme. Solo nella Gruzinskaja, ben oltre il centro città, diede segni di essere arrivato a casa. Era un edificio piccolo, molto più umile di quelli solitamente occupati dai francesi. Da fuori vedevo le finestre basse e strette che lasciavano filtrare una luce fioca in una cantina non accessibile dalla strada. Matfej scavalcò la palizzata ed entrò nel giardino sul retro; ascoltando i suoi passi capii che si dirigeva in basso, verso la cantina, e non in alto verso la casa. Cercai di guardare dentro dalle piccole finestre sulla facciata, ma non riuscii a vedere nulla: erano
dipinte dall'interno o coperte da tende. Mi fermai un attimo a radunare i pensieri. Ciò che avevo visto fare al francese - e già nel ricordarlo cercai di scacciarlo dalla mente era certamente abominevole, disumano perfino; ma conoscevo abbastanza il mondo per sapere che gli esseri umani erano più che capaci di commettere atti disumani. L'avevo appreso in quelle poche ore trascorse come prigioniero dei turchi. Però quello a cui io o loro potevamo essere condotti in circostanze estreme non era equivalente a quello di cui ero appena stato testimone. Eppure, con le prime luci dell'alba, il ricordo delle storie di mia nonna iniziò a sbiadire, e la razionalità di mio padre riprese il comando. Forse la nonna aveva ragione; c'erano creature che bevevano il sangue degli uomini. Forse? Ormai non potevo più dubitarne, l'avevo visto con i miei occhi. Tuttavia non significava ci fosse bisogno di inventare una parola speciale come vurdalak per descrivere quelle creature. Matfej non era che un uomo, per quanto perverso e disgustoso. Un cannibale non è meno abominevole di un vampiro; forse questa era un'idea molto più semplice da gestire. Qualunque fosse la sua natura, non avrebbe cambiato il suo destino. Doveva morire, e l'avrei ucciso io. Non importava se era mio alleato: la questione ormai andava oltre la semplice guerra. Almeno questo mi restava, degli insegnamenti di mia nonna: la certezza di cosa era giusto e cosa sbagliato, l'idea condivisa con tutta l'umanità che, qualsiasi controversia possa sorgere tra gli uomini, ci sono confini che non vanno oltrepassati. Ma la natura di Matfej sollevava il problema di come ucciderlo. Se era solo un essere umano degenerato, non mi avrebbe creato problemi. Se era un vampiro, allora dovevo essere più cauto. Cercai di ricordare altri dettagli del folclore, ma sapevo che se anche fossi riuscito a rammentare le parole esatte di mia nonna, non c'era modo di separare il nucleo originario dei fatti dagli abbellimenti ricamati dalle generazioni successive. Non volevo trasformarmi nella preda di Matfej soltanto per aver creduto in qualche metodo fiabesco per uccidere un vampiro. E non volevo tirarmi indietro da un attacco convenzionale che in realtà poteva dimostrarsi perfettamente efficace.
Come spesso mi accadeva, mi domandai cosa avrebbe fatto Maks al posto mio. Maks! Nemmeno a lui importava della natura di quelle creature. Lo avevo lasciato con loro, e avendo visto il lavoro di Matfej in quella cantina, non avevo ragione di credere che l'avessero trattato diversamente. Che fossero vampiri oppure uomini, dovevano avergli strappato la carne dal corpo per poi divorarlo ancora vivo. Poi però mi tornò alla mente un altro racconto del folclore, e pregai Dio che mia nonna si sbagliasse o che gli Opričniki fossero uomini normali. Scavalcai la palizzata. Il cielo si andava schiarendo e gli uccelli salutavano il nuovo giorno, ma mancava ancora qualche minuto al sorgere del sole. Eppure, mi chiesi, quanto potevo fidarmi delle antiche leggende? Davvero quelle creature dovevano tenersi al riparo dal sole? Alla fine, neppure questo importava. Matfej doveva morire. Dovevano morire tutti e nove gli Opričniki rimasti. E per ucciderne nove dovevo prima ucciderne uno, e Matfej mi aspettava in fondo alle scale di quella cantina. O almeno, speravo ci fosse solo lui. Quelle creature dormivano da sole? E se fossi sceso e li avessi trovati tutti ad attendermi, perché dopo i miei maldestri tentativi di pedinare Foma la sera prima avevano capito che li inseguivo? Matfej aveva attraversato la città solo per attirarmi in quel luogo, in modo da rimuovere una volta per tutte l'ostacolo che rappresentavo per le loro attività? Oltre la palizzata, in un piccolo cortile, una rampa di scale in pietra portava alla cantina. In fondo, una porta chiusa mi impediva di vedere cosa ci fosse dentro. Matfej, di sicuro, ma non sapevo chi altri. Scesi in punta di piedi e restai in ascolto. Tutto taceva. Ruotai la maniglia ed entrai. Era buio, ma non buio pesto. Un po' di luce filtrava dalla porta aperta e fra gli stracci appesi alle finestre strette, poste in alto. L'aria era stantia e umida, e faceva più freddo che fuori in strada. Dopo qualche istante i miei occhi si abituarono alla penombra e misi a fuoco l'interno della cantina. Vidi due bare. Le chiamo bare per via del loro utilizzo, ma non erano state costruite come tali: erano semplicemente due lunghe casse del tipo usato per trasportare moschetti e altre armi al fronte.
In virtù delle loro dimensioni e della loro forma, tuttavia, erano adatte come giacigli per quelle creature morte. La bara più lontana dalla porta era vuota, il coperchio appoggiato di sbieco al di sopra; mi fece pensare a un letto sfatto. L'altra invece era chiusa, e in assenza di altri nascondigli conclusi che doveva contenere Matfej. Afferrai il coperchio. Non era sigillato e si sollevò facilmente, rivelando il corpo disteso dell'Opričnik. Chiunque non conoscesse la natura di quell'essere l'avrebbe ritenuto un cadavere. Anche un medico, cercando il battito del cuore o il respiro, non avrebbe trovato nessuno dei convenzionali segni di vita. Ormai non avevo più dubbi: quello non era un uomo depravato, ma il vurdalak. Il terrore della mia infanzia si era fatto reale. Giaceva immobile con gli occhi chiusi e le braccia lungo i fianchi. In un certo senso somigliava molto al soldato che avevo visto morto in un'altra cantina meno di un'ora prima, l'unica differenza era nella carnagione. Mentre il soldato era pallido - di un pallore mortale, com'era logico che fosse , Matfej aveva un'aria rubiconda. Tutto il colorito sottratto al francese ora defunto era rifluito, attraverso il sangue, nella creatura che giaceva addormentata davanti a me. E con il colore era stata trasferita anche la vita. In natura, un animale può cibarsi della carne di un altro; strappargli la vita ne è la conseguenza inevitabile. Matfej invece era una creatura che si cibava direttamente della vita degli altri. Mangiare la carne e bere il sangue era forse un meccanismo necessario - una ripugnante e blasfema parodia eucaristica -, ma il nutrimento richiesto era la vita stessa. Non avrei saputo restituire quella vita, o le tante altre che Matfej aveva rubato; ma ponendo fine alla sua, potevo almeno assicurarmi che non uccidesse più. Avevo ancora in tasca un grosso coltello pieghevole. Lo estrassi e lo aprii. La lama era lunga e robusta abbastanza per perforargli il cuore, e lui era sdraiato lì, inconsapevole della mia presenza; eppure esitai. Non avevo scrupoli all'idea di togliergli la vita - se di vita si poteva parlare -, ma ricordai di nuovo le leggende sulla difficoltà di uccidere quei mostri. Una lama di metallo era inutile: su questo concordavano tutte le storie che avevo sentito raccontare. Forse l'argento poteva funzionare? Non importava: la mia lama era d'acciaio. Doveva essere una lama di legno: un paletto di legno.
Mi guardai intorno e mi cadde lo sguardo sul coperchio che avevo appena rimosso dalla bara di Matfej e appoggiato al muro. Poteva funzionare? Ricordavo male, o il legno doveva essere per forza frassino? Il coperchio della cassa non era certamente di frassino. E come potevo ricavare un paletto da quel coperchio piatto? E dove avrei dovuto pugnalare Matfej? Mi tornarono in mente con chiarezza le parole di mia nonna; con fin troppa chiarezza. Rammentai che secondo alcune storie il vurdalak doveva essere impalato nel cuore, secondo altre nella bocca. Che avessero ragione entrambe? O nessuna? Guardai il coltello che avevo in mano. Era solido, con un'impugnatura comoda. L'avevo usato per uccidere, in passato. Di certo, qualsiasi tipo di creatura fosse Matfej, era soggetto alle leggi della natura. Una ferita nel cuore, con qualunque materiale fosse inflitta, non poteva che distruggerlo. Sollevai la lama e mi voltai verso la mia preda. Il pugno di Matfej mi piombò secco sulla mano, scagliando a terra il pugnale. Era in piedi accanto alla sua bara, e vicinissimo a me, evidentemente risvegliato dalla mia presenza. Mi spinse entrambe le mani sul petto, con una forza erculea che mi scaraventò dall'altra parte della stanza, sul coperchio di legno che andò in pezzi. Mi rialzai barcollando e restai contro la parete, ansimando per riprendere fiato. «Allora» disse lui nel suo francese dall'accento marcato, «il comandante russo ha deciso che ne ha abbastanza del suo sottoposto, non è così?» Mentre parlava mi si avvicinava minaccioso, imbevuto di una nuova fiducia in se stesso che non avevo mai visto in nessuno di loro. Negli occhi gli brillava un fuoco d'odio sprezzante, diretto soltanto a me. «Mi sorprende che tu voglia abbassarti a sporcarti le mani.» Mi si piazzò di fronte, mi afferrò per il bavero e mi scaraventò contro un'altra parete. «Perché non assoldate qualcun altro per ucciderci, una volta che avremo ammazzato i francesi per voi? Ho visto come tu e i tuoi amici ridevate del nostro padrone, come lo consideravate un vecchio pazzo, uno straniero che non meritava di soggiornare nella vostra bella città.»
Mi aveva raggiunto all'altro capo della stanza, e stavolta mi colpì alla mascella con il dorso della mano, con la stessa forza distratta che gli avevo visto usare prima. Mi ritrovai impotente nell'angolo, tra le schegge del coperchio della bara. Alla fattoria presso Borodino avevo visto gli Opričniki sfruttare la velocità per catturare la loro preda. Nelle strade e nelle case di Mosca avevano agito furtivamente. Qui scoprii che Matfej non aveva bisogno né dell'una né dell'altra cosa: la sua forza fisica era più che sufficiente a sopraffarmi. Ma come per dimostrare che anche quello non sarebbe stato lo strumento ultimo della mia morte, digrignò i denti, ancora macchiati dal sangue delle sue ultime vittime. I canini - il folclore lo insegna - erano più grandi di quelli umani, ma non erano gli strumenti affilati e precisi, da chirurgo, che mi ero immaginato da bambino. Erano le zanne di un cane, progettate più per lacerare che per incidere. «Vi credete così raffinati, con la vostra bellezza e il vostro amore» proseguì, avvicinandosi di nuovo. Fui sorpreso da questo odio represso. «Ma Dmitrij Fetjukovič aveva ragione: non avete lo stomaco per fare quello che facciamo noi, e non avete il fegato per fermarci.» Una piccola parte di me voleva starlo ad ascoltare. Non per buona educazione, più per un bisogno disperato di scoprire cosa passasse per la mente di una creatura del genere. Però la lotta per la mia sopravvivenza era più importante, e quel momento sembrò una buona opportunità. Non puntavo più a uccidere, solo a restare vivo; per restare vivo dovevo fuggire, e per fuggire dovevo farlo allontanare il più possibile dalla porta. Raccolsi una metà del coperchio spezzato e lo tenni di fronte a me con entrambe le mani, a mo' di scudo. Poi lo inclinai verso il basso, così che il bordo irregolare e affilato puntasse verso Matfej come una fila di denti aguzzi. Nello stesso istante spiccai un balzo verso di lui. L'impatto della pesante tavola di legno contro il suo petto gli fece perdere l'equilibrio e per un attimo lo sollevò da terra. Continuai a correre, prendendo velocità, e spingendolo verso la parete opposta. Se fosse riuscito a trovare un appoggio per il piede, forse avrebbe potuto oppormi la sua forza brutale; ma con i piedi che gli scivolavano sul pavimento, incapaci di trovare appiglio, non
c'era nulla che potesse fare. Andò a sbattere di schiena contro il muro. Il coperchio, e io con esso, si fermò un istante più tardi, ma in quella frazione di secondo si era spinto abbastanza in avanti da schiacciargli il torace. Schegge di legno erano penetrate tra le costole rotte e negli organi al di sotto. Tutti i miei sensi mi gridavano di scappare, e invece restai lì ansimante, poggiato con tutto il peso sul coperchio per immobilizzare Matfej alla parete. La testa gli ciondolava sul petto, e per un momento lo credetti morto. Poi, con uno scatto, la testa si rialzò, e di nuovo vidi i suoi occhi ricolmi d'odio. Piantò le mani sul muro e, nonostante le mie resistenze, si spinse in avanti. Ma subito dopo mi rivolse uno sguardo sorpreso, si accasciò e ricadde all'indietro. Le schegge di legno gli erano penetrate più in profondità nel petto. Non ero certo se quell'ultimo spasmo fosse stato la convulsione di un animale morente, o se muovendosi avesse fatto giungere un frammento di legno fino al cuore; sta di fatto che rimase immobile e i muscoli smisero di sostenerlo. Trattenni il respiro, temendo che riprendesse vita per vendicarsi, e incerto su come stabilire se fosse morto davvero. La mia incertezza si rivelò superflua, perché ebbi ben presto una prova inattesa, e inconfutabile, del decesso: il suo corpo subì una trasformazione graduale, quasi impercettibile. Sarebbe stato più facile catturare il movimento delle lancette di un orologio, che notare le singole fasi del cambiamento in lui. Eppure, nel giro di due minuti il cadavere si era disidratato davanti ai miei occhi. La consistenza della pelle passò dal marmo al gesso; i capelli dalla seta al cotone; gli occhi dal vetro al ghiaccio. Ogni qualità fisica divenne una pallida imitazione di ciò che era stato, proprio come la sua esistenza di non-morto era stata un'imitazione dell'uomo che l'aveva preceduta. Al momento della morte la creatura di fronte a me, per quanto orribile e disgustosa, aveva mostrato la ricchezza variopinta di un dipinto a olio. Ora sembrava che la stessa scena fosse stata dipinta all'acquerello. Il soggetto del quadro era identico, era cambiata la tecnica. Allentai la pressione sul coperchio di legno tra di noi e mi divenne chiara l'entità di quell'essiccazione. Non c'era più alcuna integrità in quel corpo. Ogni osso, ogni capello, ogni tendine era diventato
polvere. La polvere era rimasta nello stesso punto dello spazio occupato in precedenza dalla rispettiva parte del corpo, perché nessuno l'aveva mossa; ma al lieve scarto della ghigliottina lignea che reggevo in mano, la polvere iniziò a disfarsi. Le braccia, le gambe e la metà inferiore del torace caddero a terra in una pila di cenere, uscendo dai vestiti come farina da un sacco bucato. Rimasi faccia a faccia con il busto disseccato di Matfej. Una testa e due spalle posate sopra lo strumento della sua morte, realistiche come ogni imperatore di marmo mai dissotterrato, ma niente affatto permanenti. Mi ci volle qualche istante per rilassarmi, per capire che era morto al di là di ogni resurrezione possibile, ma infine feci un passo indietro e lasciai cadere il coperchio di legno. Con esso caddero gli ultimi resti di Matfej, disperdendosi nell'aria prima ancora di toccare terra. I vestiti si posarono sul pavimento, e dal camino formato dal bavero del cappotto usci un ultimo sbuffo di polvere. Oltre ogni dubbio, Matfej non era più. Mi lasciai cadere a terra e gettai indietro la testa con l'impellente esigenza di respirare a fondo. La tensione nei muscoli si allentò gradualmente: il mio corpo si rendeva conto che la lotta era finita. Guardai il punto in cui si era «dissolto» Matfej, e dove avrebbe dovuto trovarsi il suo corpo se fosse stata una morte normale; mi sentivo a disagio. Mancava qualcosa. Qualcosa avrebbe dovuto essere lì e invece non c'era; non nella stanza, ma in me. Non provavo alcun rimorso. Ci si potrebbe aspettare che un soldato con oltre dieci anni di esperienza, abituato a uccidere, abbia superato da tempo quella fase della vita in cui gli spiace veder morire il nemico, e in un certo senso era così. In battaglia, quando il nemico è lontano, quanto la gittata di un cannone o di un moschetto, uccidere è un atto meccanico, coincide con la pressione di un grilletto o l'accensione di una miccia. A volte quelle azioni provocano la morte, a volte il colpo manca il bersaglio. Anche quando si dà battaglia con la spada, il nemico è senza volto, e alla fine dello scontro è difficile dire esattamente chi hai ucciso. Ma non era questo il genere di combattimento in cui ero stato coinvolto. Molte delle morti che avevo provocato erano state personali, come questa. Alcuni erano uomini che avevo spiato, che si erano voltati scoprendo di essere seguiti, e contro i quali avevo
dovuto difendermi. Altri li avevo selezionati, studiando nei dettagli la loro vita e le loro abitudini prima di colpirli. In ciascun caso sapevo di fare la cosa giusta - le loro morti erano necessarie per la mia sopravvivenza o per il bene della Russia -, e tuttavia ogni volta mi rammaricavo che non ci fossero altre soluzioni, che il destino avesse condotto quell'uomo a farsi uccidere da me. Con Matfej, invece, dare la morte era stato un piacere. Non mi rammaricai che il fato ci avesse fatti incontrare, anzi l'opposto. Ero felice di essere lì, felice di essere stato lo strumento della sua fine. La disumanità che avevo percepito negli Opričniki ora mi appariva perfettamente sensata. Era la loro qualità precipua, ed era un'arma a doppio taglio. Era stata la disumanità a consentire loro di uccidere con tanta facilità, con determinazione e senza scrupoli. A un certo punto della vita avevano trovato un modo per amputarsi l'umanità, considerata un ostacolo sulla loro strada. Ma avendo perso il vincolo dell'umanità, ne avevano perduta anche la protezione. Avevano perso quel segno massonico di riconoscimento che ogni essere umano vede nel suo prossimo, e che gli ispira pietà, gli impedisce di uccidere se c'è un'altra via d'uscita. Matfej era forse libero da ogni scrupolo nell'ammazzare un uomo, ma pagava un prezzo: ogni uomo che conoscesse la sua natura non avrebbe avuto titubanze nel distruggere lui. Forse era meno complicato di così. Forse non mi rammaricavo della fine di Matfej semplicemente perché non vi avevo assistito. Era morto molti anni prima, in un luogo lontano, quando era stato trasformato. Il rapido decadimento fisico dei suoi resti era soltanto il rilascio istantaneo degli anni di decomposizione accumulata dopo la sua prima morte. Se avesse scelto volontariamente il cammino di non-morte che il suo corpo aveva intrapreso, o se gli fosse stato imposto, non lo sapevo; da questo dipendeva il fatto che meritasse compassione oppure no. Un rumore proveniente dall'alto interruppe la mia riflessione. Uno stivale infranse una delle finestre alte e strette che davano sulla strada. Una voce gridò. Era uno degli Opričniki. Non sapevo chi faticavo a distinguerne alcuni dall'aspetto, figurarsi dalla voce - ma stava chiamando Matfej. L'Opričnik - il vurdalak - strisciò nella finestra rotta, con i piedi in avanti, ma anziché saltar giù sul
pavimento (che distava dalla finestra più dell'altezza di un uomo) restò sospeso lì, reggendo tutto il peso del corpo con un braccio e usando l'altro per aggrapparsi a qualcosa che aveva lasciato fuori. Ora lo riconobbi: era Varfolomej. Trovato un appiglio, si lasciò cadere a terra, trascinando giù dalla finestra il corpo inerte di un soldato. L'uniforme verde scuro rivelava che era un italiano, uno dei tanti non francesi che componevano quasi metà della Grande Armée. Varfolomej lo teneva stretto per il bavero del cappotto, ma gli sfuggì di mano, e il soldato (mi parve un carabiniere, e non poteva avere più di diciassette anni) si schiantò a terra. Emise un gemito e cercò di girarsi su un fianco. Come avevo visto in altre occasioni, agli Opričniki piacevano i pasti ancora vivi. Varfolomej si accovacciò accanto alla preda, perlustrando con lo sguardo il corpo del ragazzo e massaggiandosi il viso e il collo con smania ingorda. Di nuovo chiamò Matfej, per condividere generosamente il trofeo con l'amico. «Matfej non può sentirti, temo» dissi, in tono imbaldanzito dalla recente vittoria, ma ingiustificato alla luce della fortuna che mi aveva assistito. Varfolomej si voltò e si tirò su in ginocchio, pronto per sferrare un attacco. Credo fosse il più giovane degli Opričniki; o perlomeno, il più giovane nell'aspetto e quindi il più giovane al momento della morte. Una volta preservato in quella condizione, poteva aver calcato la terra per secoli - magari più a lungo di tutti gli altri - o solo per pochi mesi. Era impossibile stabilirlo, e non potevo che tirare a indovinare. «Dov'è Matfej?» chiese. Con un cenno del capo indicai il mucchietto di abiti che giaceva a terra accanto alla parete, coperto dal residuo di polvere. «Non lo riconosci?» Lui si avvicinò per esaminare i resti del compagno. Arricciò il labbro in un'espressione di ribrezzo, come un uomo che si imbatte nella carcassa putrefatta di un animale. Era un disgusto viscerale, ma non implicava la minima vicinanza spirituale all'essere vivente che quei resti avevano composto. Per me Matfej non era che polvere, un
pulviscolo secco che presto si sarebbe disperso nel vento. Per Varfolomej era un memento mori, e d'un tratto lo vidi colto dallo sconcerto. Crollò in ginocchio, raccolse una manciata di polvere e la lasciò scorrere tra le dita alla disperata ricerca di una traccia di vita. «Mi avevano detto che sarei vissuto per sempre» esclamò. «Per questo hai accettato?» gli chiesi. «No. Mi dissero che non avrei più conosciuto la paura, e la paura era il mio peggior nemico.» Si voltò a guardarmi. Di certo non ero in condizioni da fargli paura: ero disarmato ed esausto, con il corpo chino in avanti e le braccia posate sulle ginocchia. Riuscivo a malapena a sollevare la testa per parlargli. «Paura di cosa?» domandai. Dietro di lui vidi che l'italiano si rotolava a pancia in sotto e si metteva in ginocchio. «Delle conseguenze» rispose Varfolomej, con un'ambiguità che lasciava intendere lunghe riflessioni, e una scelta attenta delle parole. Intanto, l'italiano era in piedi e si stava avvicinando a lui con la spada sguainata. «Hai paura delle conseguenze?» «Un tempo temevo le opinioni dei miei compagni.» Alzò gli occhi dalla polvere che aveva in mano e mi guardò. «Ora ho nuovi compagni.» Scagliò in fuori un braccio, colpendo il carabiniere al petto e scaraventandolo a terra. Per Varfolomej fu la distrazione di un istante; a me tanto bastò per allungare una mano e prendere ciò che mi serviva. «Le persone come te mi disprezzavano» ricominciò Varfolomej, alzandosi in piedi, «e mi disprezzano ancora. Ma sai cos'è cambiato? Non me ne importa più.» Dietro di lui il soldato si era rimesso in piedi. Non badò a recuperare la spada, invece iniziò a seguire Varfolomej che veniva verso di me, tenendosi a distanza di sicurezza. «Da come parli, si direbbe che te ne importi ancora» dissi, alzandomi a mia volta. Capii perché il carabiniere non aveva raccolto la spada. Non stava seguendo Varfolomej: cercava di raggiungere la porta. Quando c'era quasi, si mise a correre per l'ultimo tratto. Guadagnò l'uscita e lo sentimmo correre su per le scale verso la libertà.
Nella fretta non aveva chiuso la porta. Un barlume della luce dell'alba penetrò nella cantina, poco dietro Varfolomej. Lui si guardò alle spalle e la mandibola gli si contrasse leggermente, in modo quasi impercettibile. «E si direbbe che tu abbia paura di qualcos'altro» dissi, muovendo un passo verso di lui. Non poteva indietreggiare, perché si sarebbe esposto alla luce del sole. Ovviamente non aveva motivo di spostarsi: non potevo costituire una minaccia per lui, ma l'esercito a cui viene impedita la ritirata teme sempre di più il nemico. «Non è niente in confronto a ciò che hai da temere tu.» Nella sua voce non c'era falsa spavalderia: ci credeva davvero, e aveva ragione. Sentivo il sangue pulsarmi nel collo: il mio cuore cercava di prepararmi a quel che stava per accadere. Feci un altro passo avanti. Varfolomej poteva indietreggiare o attaccare; anzi no, indietreggiare non poteva. Gli avevo tolto ogni possibilità di scelta, e in una guerra la scelta è un'arma potente. Sentendosi in trappola, sferrò l'attacco, gettandosi su di me con tutta la forza che aveva. Ricaddi all'indietro, ma intanto alzai la mano, puntandogli al petto la scheggia di legno appuntita che avevo raccolto da terra. Battei la nuca sul pavimento con tanta forza che temetti di svenire, ma per tutto il tempo tenni il paletto di legno puntato contro di lui. Mi si tuffò addosso come un cane selvatico, gli occhi pieni di odio e ingordigia. Vidi la sua bocca spalancata, i canini scendere verso il mio collo come zanne, pronti a lacerare la pelle. Poi sentii un colpo doloroso sul lato destro del petto, quasi una pugnalata, quando la forza del suo movimento si trasmise al paletto e da quello a me. Ma verso il mio petto era rivolto il lato smussato del pezzo di legno, che poteva graffiare, non ferire. Poiché il mio corpo non voleva piegarsi, e il legno non poteva, c'era una sola alternativa. Mi sentii mozzare il fiato quando Varfolomej mi piombò addosso con tutto il suo peso; ma non tentò di mordermi alla gola: i suoi occhi non mi guardavano più con ira né con fame. Era morto. Avevo già imparato, con la morte di Matfej, che il paletto non doveva essere di frassino; doveva solo attraversare il cuore. La morte di Varfolomej fu solo una conferma.
Sentii il peso del suo cadavere appoggiato su di me come un'amante appagata. Quasi subito iniziò ad alleggerirsi. Udii un fischio, una specie di scroscio d'acqua: il corpo di Varfolomej si riduceva in polvere e cadeva sul pavimento. Com'era accaduto a Matfej, gli anni di decomposizione trascorsi dalla sua prima, vera morte si erano rovesciati sul suo corpo in pochi secondi. La testa restò intatta ancora per qualche istante, gli occhi fissi nei miei senza neppure quelle emozioni più semplici che gli Opričniki sapevano dimostrare in vita. Poi collassò su se stessa, lasciandomi addosso solo gli abiti vuoti e riempendomi la bocca con una polvere che subito mi alzai in piedi per sputare. Mi rammaricai di non avere con me una borraccia per togliermi il sapore dalla bocca. Non che sapesse di molto; era l'idea stessa che dovevo sciacquare via. Uscii immediatamente dalla cantina, salii le scale, scavalcai la palizzata e tornai in strada. Ripresi a camminare e poco dopo incontrai una pattuglia di mezza dozzina di francesi; venivano verso di me. Davanti a loro c'era un ragazzo scarmigliato che gridava qualcosa in italiano. «Da questa parte. Erano in due. Litigavano su chi dovesse uccidermi.» Era il giovane carabiniere appena fuggito dalla cantina. Mi infilai in un vicolo. Dei due tra cui il ragazzo credeva di essere conteso, io ero fuggito. Dell'altro avrebbero trovato soltanto polvere.
Capitolo 14 Tra me e il mio letto c'era la massima distanza che poteva esserci fra due cose a Mosca. Mentre attraversavo la città, la puzza di fumo riempiva l'aria. Da ogni parte guardassi c'erano edifici in fiamme: quasi metà della città era bruciata o stava bruciando. Anche a sud del fiume c'erano incendi, a Zamoskvorecje. Il fuoco non aveva lambito la stalla in cui alloggiavo, ma non mi andava di farmi sorprendere addormentato in un edificio di legno nel caso l'avesse raggiunto. Ero stremato, ero rimasto sveglio tutta la notte e sospettavo che la notte successiva mi avrebbe richiesto altri sforzi. Dall'altra parte della strada c'era una piccola chiesa, abbandonata dal sacerdote prima che arrivassero i francesi e, soprattutto, fatta di pietra. Raccolsi le poche cose che avevo lasciato nella stalla e mi trasferii. Non ci volle molto a scassinare la cripta e infilarmici dentro. Era freddo e buio. Fuori, benché fosse ormai metà mattina, la città era immersa in un crepuscolo surreale provocato dal fumo denso. Riuscivo appena a intravedere il disco del sole, che splendeva, ma smorzato dalla cappa di fumo e foschia alimentata continuamente dai fuochi ardenti tutt'intorno. Dentro la cripta era ancora più buio. Era un luogo ideale per chi volesse dormire indisturbato durante il giorno. Trasalii quando mi resi conto che c'erano ancora sette creature in città che avevano bisogno di un luogo buio e riparato per dormire fino al tramonto. E se, per colmo di sfortuna, uno o più degli Opričniki avesse scelto proprio quel posto per nascondere la sua bara? Al risveglio avrei scoperto di aver dormito a fianco delle creature che speravo di distruggere? D'altro canto, a Mosca c'erano moltissime chiese con cripte, e molti luoghi altrettanto sicuri. Mi sarei sorpreso che gli Opričniki potessero entrare in un luogo sacro, ma subito dopo ricordai di aver incontrato Foma e Ioann fuori da una chiesa meno di due giorni prima. Comunque ero molto, molto stanco. Per quanto ne sapevo, il fumo nelle strade era così denso che forse gli Opričniki potevano camminare liberamente senza dover temere il sole. Mi sdraiai,
usando un gradino di pietra come cuscino, ma pur essendo esausto non riuscii a dormire. Dall'ultima volta che avevo chiuso occhio, tutte le mie idee sul mondo intorno a me erano state stravolte. Ora riuscivo a spiegarmi tante cose che mi erano apparse misteriose sul conto degli Opričniki: la loro forza sovrumana, il fatto che evitassero la luce del giorno, i racconti di morte che li avevano seguiti nel loro viaggio sul Don. Ma, soprattutto, ora comprendevo le loro motivazioni. Non combattevano per il loro Paese né per il mio, bensì per l'istinto più primitivo: la ricerca di cibo. Anche così, tuttavia, i conti non tornavano. Gli Opričniki uccidevano più del necessario: alla fattoria di Gorjackino, tre di loro avevano ucciso trenta uomini. Ne servivano davvero così tanti per soddisfare le loro esigenze?
Soddisfare: era la parola usata da Pierre nel descrivere il loro
attacco al suo accampamento. Avevano continuato a uccidere anche quando erano soddisfatti, anche dopo aver placato la fame. Quindi forse ammazzavano per più di una ragione: per divertimento, come quando gli uomini ricchi e oziosi (tra cui a volte devo annoverare me stesso) danno la caccia ad animali che non potrebbero mai mangiare. O forse ne eliminavano così tanti per lo stesso motivo dell'esercito russo: perché erano nemici e avevano invaso le nostre terre. Forse stavano facendo semplicemente ciò che gli avevamo chiesto di fare: aiutarci a uccidere i nemici. Potevo davvero biasimarli per aver accolto la mia richiesta, e per averla trovata un'attività piacevole? Tanti anni prima, mi ero arruolato nell'esercito perché volevo viaggiare. Avevo ucciso, penso, un uomo per ogni venti verste di territorio europeo che avevo attraversato. La loro giustificazione - il bisogno di cibarsi - non era forse migliore della mia, che in fin dei conti si riduceva alla curiosità? Mi estirpai dalla mente questi pensieri. Sapevo istintivamente che quelle creature erano malvage. Un uomo illuminato del diciannovesimo secolo poteva considerare primitive molte idee delle generazioni precedenti - sulla scienza, la guerra, la letteratura e la musica -, ma non significava che andasse screditato tutto quanto. Ero stato così arrogante da ridere delle storie di mia nonna - ridevo per nascondere la paura -, ora c'era una prova inconfutabile che lei era nel giusto. Dovevo ancora scoprire alcuni dettagli, ma la nonna
aveva ragione sull'esistenza dei vampiri, e non avevo più dubbi sulla loro natura abietta. Non avevo intenzione di contestare secoli di sapienza accumulata sul bene e sul male, su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; ogni atomo della mia esperienza e della saggezza trasmessa dagli antenati mi diceva come dovevo considerare quelle creature, e nessuna riflessione logica e razionale sul loro comportamento poteva farmi cambiare opinione. Erano un abominio al cospetto di Dio, e dovevano morire. Avevo iniziato la mia missione quella notte, e avrei continuato la notte dopo, e quella dopo ancora, fino a terminare il lavoro. Riprovai a dormire. Pensai alle altre sette figure che giacevano in varie parti della città, in luoghi bui come il mio, anche loro alla ricerca del ristoro del sonno. Mentre mi appisolavo, mi domandai come fossero riusciti a dormire all'addiaccio quando ci eravamo diretti a ovest per intercettare l'avanzata russa. La questione non mi assillò abbastanza da tenermi sveglio. E neppure le implicazioni del comportamento di Maks, né di quanto gli era accaduto. Subito dopo aver scoperto che gli Opričniki erano vampiri, mi ero reso conto che Maks poteva aver fatto uccidere Simon, Iakov Alfejnic e Faddej non a causa della sua lealtà verso la Francia, ma verso l'umanità. Umanità. Era proprio questa la parola usata da Maks nella nostra ultima conversazione, poco prima che lo abbandonassi nelle grinfie di quelle creature. Ormai ero quasi certo che lui sapesse cos'erano. E senza dubbio era morto nel modo più terribile che potessi immaginare. Eppure riuscii a dormire. Mi svegliai immerso nel buio. Balzai in piedi, temendo di aver dormito tutto il giorno, poi capii che era buio solo perché mi trovavo ancora nella cripta. Avvertivo pulsazioni dolorose al lato destro del petto. D'un tratto ricordai gli eventi della notte: in quel punto mi aveva graffiato il paletto che poi si era infisso nel corpo di Varfolomej. Andai alla porta e guardai fuori: era ancora giorno, metà pomeriggio. Nell'aria aleggiava l'odore di una città in fiamme. C'era poco che potessi fare fino all'appuntamento di quella sera. Sarei arrivato in anticipo, sperando che Vadim e Dmitrij facessero lo stesso, prima dell'arrivo degli Opričniki. In tre contro sette avremmo
avuto più speranze. Era una benedizione che la mia mente fosse occupata dagli eventi della notte appena trascorsa, altrimenti sarei potuto scoppiare a piangere vedendo com'era ridotta la città. Interi isolati di edifici un tempo maestosi giacevano ora in mucchi roventi di macerie carbonizzate. Le foglie degli alberi, in parte già imbrunite per l'autunno, erano coperte da uno strato di polvere grigia. Tra tutta quella cenere, mi chiesi, c'erano forse i resti di Matfej e Varfolomej, trascinati dal vento e mescolati al fumo degli incendi? Quanto ci avrebbero messo a spargersi sopra la città, il Paese, il pianeta? Quanta della polvere che si deposita nelle nostre case, che sbattiamo via dai tappeti, che ogni giorno inaliamo senza accorgercene, proviene da creature come loro, uccise in un lontano passato da uomini retti, e che si sono sparse ai quattro angoli della Terra? Qua e là tra gli edifici distrutti dalle fiamme erano sopravvissuti oggetti appartenuti agli abitanti. Zuppiere e piatti di ceramica affollavano il pavimento dove un tempo c'erano state le credenze di legno. In una casa, un pesante tavolo di quercia era rimasto intatto, mentre tutto il resto era bruciato. In un'altra restava un mucchio di rilegature vuote, sopravvissute al fuoco che aveva divorato le pagine dei libri. Negli incendi erano morte poche persone. Se anche Mosca non fosse già stata abbandonata dai suoi abitanti, un incendio in una città affollata è sempre più pericoloso per le cose che non per le persone. In fondo alla via si vedono le fiamme, i vicini gridano, la gente si precipita fuori e resta ferma a guardare. E intanto il fuoco ha risalito la strada per meno della larghezza di una casa. L'inferno si sposta con la lentezza della marea, ma con la stessa determinazione. Il rischio maggiore per gli spettatori non sono le fiamme e nemmeno il fumo, bensì la possibilità che un edificio crolli rovesciandosi sulla via e schiacciando qualcuno. Nel punto in cui mi trovavo in quel momento, in mezzo alle rovine, quella scena si era svolta ore prima, forse giorni; in altre parti della città si stava ancora dipanando. Negli scheletri di alcune delle case più lussuose - prima che il fuoco rendesse uguali le case dei ricchi e quelle dei poveri -, sagome accovacciate scavavano tra le macerie, in cerca di oggetti di valore. Alcune famiglie ricche si erano lasciate alle spalle i gioielli più preziosi, nascosti sotto le assi del pavimento o
dietro pannelli nel muro. Ma non avevano potuto nasconderli al fuoco: sparite le assi e le pareti, i gioielli erano caduti a terra. Le pietre preziose uscivano illese dalle fiamme; i metalli preziosi si scioglievano e si raffreddavano in altra forma, ma non per questo valevano di meno. Gli sciacalli rischiavano di bruciarsi le dita sui tizzoni ancora ardenti, eppure a loro sembrava un buon prezzo da pagare. Altri erano più accorti e mandavano i bambini a rovistare tra le macerie. Ancor più saggi erano quelli che cercavano non gioielli, bensì cibo. Nei giardini dietro le cucine - ora accessibili dalla strada, perché le case erano state rase al suolo - uomini, donne e bambini raccoglievano i pochi cavoli e patate quasi marci, e li mangiavano crudi o li infilavano nel cappotto. E mentre i russi razziavano sia dentro sia fuori, sia gioielli sia cibo, le truppe francesi non immaginavano neppure la possibilità di una carestia, e si concentravano solo sugli oggetti tradizionalmente di valore. Nelle settimane successive, molti sarebbero stati felici di scambiare un rubino con una barbabietola, un diamante con una patata. Qualcuno sarebbe rimasto aggrappato al suo bottino, illudendosi fino all'ultimo che un uomo ricco non potesse morire di fame. Era giovedì, quindi l'incontro era fissato alla Porta della Resurrezione, l'ingresso settentrionale alla Piazza Rossa. Arrivai poco dopo le otto, con quasi un'ora di anticipo. Il sole era già calato, e mentre aspettavo ammirando le icone a mosaico smangiate dagli elementi sopra ogni arco della Porta, ero grato che il fuoco l'avesse risparmiata, almeno per il momento. Una delle icone raffigurava san Giorgio, il patrono della città, che puntava la lancia verso le fauci del suo mostruoso nemico; il drago spiegava le ali, quasi in una supplica, sotto gli zoccoli del cavallo del santo. Il messaggio pareva chiaro: il bene, come è giusto che sia, sconfigge il male. Ma c'era dell'altro? Il drago avvolgeva la lunga coda serpentina intorno alla zampa posteriore del cavallo. Era solo un'ultima convulsione del corpo morente della bestia, oppure il drago aveva ideato un piano per disarcionare il nemico e, contro ogni probabilità e contro la leggenda, stava per divorare il santo?
L'icona illustrava un singolo istante della lotta. Non si vedeva né come il drago e il santo fossero arrivati a quello scontro, né come si sarebbe risolto. Per scoprirlo non abbiamo che i racconti mitici, e quelli li scrivono gli uomini, non i draghi. Con un sorriso mi concessi il lusso di immaginare me stesso Aleksej Ivanovič Danilov - come un moderno san Giorgio, intento a salvare Mosca da una nuova razza di mostri. Non erano draghi ma, pensai, erano stati portati lì da Zmeevič, il figlio del drago. Giorgio gli aveva forse ucciso il padre, e Zmeevič aveva condotto gli Opričniki a Mosca per consumare la sua vendetta? Scoppiai a ridere quando mi accorsi del sentiero imboccato dalla mia immaginazione; poi mi guardai intorno: non c'era nessuno a sentirmi. Mi chiesi che aspetto avrebbe avuto un'icona del mio volto, che mi raffigurasse nella battaglia contro Matfej e Varfolomej in quella cantina. Anche in quel caso il pittore sarebbe riuscito a ritrarre solo un istante, e non avrebbe potuto mostrare che ero stato io, tra gli altri, a convocare quei mostri in città; né poteva illustrare la scena finale della storia, almeno non ancora. Quando e come avrei sentito la coda del drago avvolgere le sue spire intorno alla mia caviglia per trascinarmi alla rovina? «Sembra sia passato molto tempo, Aleksej Ivanovič.» Mi voltai: era Dmitrij. Non lo vedevo da sei giorni, e quell'ultima volta avevo provato nei suoi confronti un odio che non pensavo di poter mai superare. L'odio aveva iniziato a svanire quasi subito, ma erano stati sei giorni molto lunghi, e ora la mia opinione di lui dipendeva dalla risposta a una semplice domanda: lo sapeva? Lavoravo con gli Opričniki da diverse settimane, e vari particolari mi avevano messo a disagio; ma solo quando avevo visto Matfej in quella cantina - anzi, dopo, quando avevo visto il suo corpo ridursi in polvere - avevo saputo con certezza cosa fossero. Dmitrij li conosceva da molto più tempo. Poteva non saperlo? Avevo sospettato fin dall'inizio che ci tenesse nascosto qualcosa che li riguardava, tuttavia di certo non immaginavo una cosa del genere. Forse anche lui aveva avuto dei sospetti, ma li aveva scacciati perché ridicoli. Se invece sapeva, allora non avevo idea di cosa dirgli. E se non lo sapeva, andava avvisato.
Però, quando lo guardai, ebbi subito un'altra certezza. Era semplicemente il buon vecchio Dmitrij: un uomo dalla limpidezza quasi disarmante. Non era il tipo d'uomo che abitasse un mondo di vampiri. Saperlo l'avrebbe cambiato, e io me ne sarei accorto. Gli andai incontro e lo abbracciai con affetto. «Oh, Dmitrij!» gli mormorai su una spalla. Lui fece un gemito di dolore. Sembrava che in quei sei giorni il mio atteggiamento nei suoi confronti fosse migliorato più delle ferite che gli avevo inferto. Feci un passo indietro. «Stai bene?» chiesi. «Fa ancora un po' male» rispose, senza amarezza. «Sapevi quel che stavi facendo.» Credo fosse inteso come un complimento. Mi fissò con aria preoccupata. «Penso che la domanda vada rivolta a te. Stai bene?» «Ho... avuto da fare.» «Hai un aspetto orribile, Aleksej. Hai dormito? Hai mangiato qualcosa?» Negli ultimi giorni non mi ero soffermato a pensare a quel tipo di cose. Avevo comprato del cibo, a prezzi astronomici, nei mercati di strada quando ne avevo avuta l'opportunità. Avevo dormito, ma avevo dovuto sincronizzare i miei ritmi con quelli del nemico; non i francesi, ma il mio nuovo nemico, gli Opričniki. Il corpo mi doleva ancora per i postumi dei miei incontri con Varfolomej e Matfej. Non mi ero lavato, non mi ero cambiato d'abito. Avevo dormito in una stalla e in una cripta. Da giorni non trovavo uno specchio in cui guardarmi, ma l'espressione di Dmitrij era uno specchio sufficiente. Si frugò in tasca e ne trasse un oggetto avvolto nella carta. Me lo offrì: era formaggio. Mi sedetti con la schiena poggiata contro la Porta della Resurrezione, e lo divorai con una fame che non sapevo di avere. «Non per vantarmi» disse lui, sedendosi accanto a me, «ma questa è una delle missioni più semplici che mi siano capitate. Incontra gli Opričniki una sera, fa' due chiacchiere, e lasciali lavorare. Stanno infliggendo più danni al nemico di quanti saremmo mai riusciti a farne noi.» «Sì» convenni, in tono forzato e con la bocca piena, «e ho
scoperto perché.» «In che senso, perché?» Mi incupii, chiedendomi con quali parole avrei potuto spiegare ciò che fino a poco tempo prima era parso incredibile anche a me. Le parole che abbiamo per parlare di queste cose sono quelle con cui si raccontano le favole, non la verità. Ricordai in che modo Vadim mi aveva annunciato la notizia che Maks era una spia. Dovevo usare la medesima schiettezza. «Non sono umani, Dmitrij. Sono mostri. Uccidono per cibarsi della carne delle loro vittime.» Era bellissimo parlarne con qualcuno. Finché erano rimasti solo pensieri nella mia testa, la mia sanità mentale era dipesa solo dal filo sottile della loro verità. Ma raccontandolo a voce alta, tornai sicuro che quel fatto era reale; un passeggero nella mia mente, non una sua creazione. Dmitrij restò impassibile: né scioccato né incredulo, eppure sembrava aver compreso. Per fugare ogni dubbio residuo, decisi di spiegare la situazione con la massima chiarezza, e usai la parola che mia nonna aveva pronunciato con terrore, e mio padre con aria di scherno. «Dmitrij, sono vurdalaki.» Lui scosse la testa come in uno spasmo momentaneo. «E allora?» disse. «Combattiamo al fianco dei prussiani, degli austriaci, degli inglesi. Non ci importa chi sono, purché stiano dalla nostra parte.» Non si era neppure scomodato a chiedermi come facessi a saperlo. Gli avevo riferito una ridicola superstizione, e la sua reazione non era stata di negarne la verità, ma di minimizzarne la portata. Non mi stava dicendo «non dire sciocchezze», bensì «non fare il sentimentale.» D'un tratto mi fu evidente che mi ero sbagliato sul suo conto. «Quindi lo sapevi?» domandai. «Sì, lo sapevo.» Parlava in tono noncurante, ma si sentì in dovere di aggiungere altro, dimostrando di stare sulla difensiva. «Sapevo che sono i sicari più abili che abbia mai conosciuto. Sapevo che il mio Paese era minacciato da un'invasione, che loro erano in grado di uccidere una dozzina di turchi dove tutti i nostri moschetti e mortai
ne avrebbero ucciso uno. Sapevo che avevamo bisogno di loro e, soprattutto, Aleksej, sapevo che potevamo fidarci. Stiamo combattendo per il nostro Paese; non è il momento di essere schizzinosi sulle armi impiegate. I francesi farebbero lo stesso al posto nostro, ma siamo noi quelli fortunati: loro lavorano per noi e fanno quello che gli diciamo. Se chiediamo di uccidere solo i francesi, loro uccidono solo i francesi; e ne uccidono a centinaia.» Fummo interrotti da una terza voce: «Hanno ucciso Maksim». Era Vadim, e ora emerse dall'ombra. Non so da quanto ci ascoltasse. «Lui era russo.» Mi rammaricai che l'obiezione fosse così facile da controbattere. «Hanno ucciso Maksim con il nostro consenso» risposi. «Era praticamente un francese.» Vadim annuì, scuro in volto. «Forse dovresti raccontarmi tutto ciò che hai scoperto» disse. «Dmitrij Fetjukovič avrà le sue ragioni per credere nei...» esitò prima di usare una parola così carica di superstizione «... nei vurdalaki, io però ho bisogno di argomenti più persuasivi.» L'arrivo di Vadim si era trasformato così rapidamente in una discussione che non ebbi modo di salutarlo, come avevo salutato Dmitrij, con l'affetto che negli ultimi giorni era cresciuto in me. Ma se il momento giusto c'era stato, ormai era passato. «Ti dirò ogni cosa» replicai, «ma è meglio se camminiamo. Gli Opričniki potrebbero arrivare qui da un momento all'altro.» Passeggiammo nella Piazza Rossa. Quando è quasi vuota, com'era quel giorno, è il luogo perfetto per una conversazione privata, se si resta verso il centro. Nessuno può avvicinarsi senza essere visto; nessuno può mettersi a portata d'orecchio. I nascondigli più vicini erano tra i banchi del mercato e le baracche adibite a negozio che seguivano il perimetro della piazza, e che secondo me ne sminuivano la maestosità. Nessuno faceva mercato a quell'ora, e i banchi che non erano già andati a fuoco erano stati abbandonati. Eravamo liberi di parlare. Una voce squillante riecheggia da un capo all'altro della piazza, un sussurro passa inosservato a tutti tranne che al suo destinatario. Mi resi conto che avrei dovuto fare attenzione a cosa dicevo loro,
e in particolare a Dmitrij. Se non era stata una grande sorpresa per lui scoprire la vera natura degli Opričniki, allora sarebbe stato ancor più infastidito nell'apprendere che ne avevo uccisi due. Non ero così sensibile da temere di dispiacergli, però ero quasi certo che prima o poi sarebbe andato a riferire le mie gesta agli altri. Di questo avrei volentieri fatto a meno. Dissi loro che avevo pedinato Foma. Non c'erano molti orrori da raccontare, ma era un modo per illustrare lo schema di comportamento che avrei poi visto ripetere a Matfej. Poi dissi di aver seguito Matfej, e quanto avevo visto nel seminterrato della taverna: di come avesse strappato a morsi la gola di quel francese, delle ferite sul corpo. Da quel punto in poi dovetti tenermi vicino alla verità, ma senza rivelarla tutta. «L'ho pedinato ancora» continuai, «fino a un'altra cantina, a nord della Tverskaja. Ho aspettato fuori, e poco dopo è arrivato Varfolomej. Ero già quasi sicuro di che tipo di creature avessi di fronte, quindi ho atteso che fosse sorto il sole prima di scendere le scale. Dentro, li ho visti. Dormono nelle bare. Avvicinandomi ho visto anche i denti. Le storie che si raccontano sono vere: hanno zanne da lupo.» La prova più schiacciante sulla natura degli Opričniki era ovviamente il modo in cui erano morti, ma quella parte della storia non potevo rivelarla. Quindi improvvisai. Matfej e Varfolomej non avrebbero potuto contraddirmi. «Si sono svegliati e mi sono venuti incontro. Non so se volessero attaccarmi, ma sono indietreggiato e sono tornato fuori dalla porta, alla luce. Loro si sono fermati, come se la soglia fosse una barriera. Non osavano mettere piede nella luce.» Avevo un problema da risolvere: la paura della luce non era sufficiente a convincere Vadim. Io li avevo visti faccia a faccia, e mi era bastato, ma senza descrivere com'erano morti, che prove avevo? Capii che il modo migliore per condannare uomini morti era il più tradizionale: dire che mi avevano confessato tutto. «Quindi mi sono sentito un po' più sicuro e abbiamo iniziato a parlare» ripresi. «Non si vergognano di ciò che sono; l'hanno ammesso liberamente. Non capivano perché io fossi turbato.» La
reazione che stavo descrivendo era più vicina a quella mostrata da Dmitrij pochi minuti prima, ma mi sembrava l'atteggiamento più probabile che gli Opričniki avrebbero assunto se ne avessi dato loro la possibilità. «E tu gli hai creduto?» chiese Vadim, come se io fossi un pazzo. Gli rivolsi uno sguardo che esprimeva una parte della mia rabbia. «Non mi sarei aspettato una credulità simile da te, Aleksej.» «Non sono un ingenuo.» «Oh, suvvia!» esclamò lui a voce più alta, poi si chetò, guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno avesse sentito. «Potrei dar retta a tutte le sciocchezze raccontate dai contadini sui morti che escono dalle tombe e bevono il sangue dei vivi - cose a cui nessun uomo intelligente crede più da secoli - oppure posso credere che uno dei miei ufficiali si sia lasciato abbindolare da un paio di mercenari stranieri con uno strano senso dell'umorismo. Difficile da digerire, ma è l'opzione più logica.» «Ma ho visto Matfej che strappava a morsi la carne dalla gola di un uomo!» Adesso ero io ad alzare la voce. «Avrai visto male, poteva essere qualsiasi cosa.» Feci un respiro. Sembrava proprio che, nonostante i rischi, avrei dovuto raccontare loro la mia testimonianza oculare. Prima che potessi parlare, Dmitrij giunse in mio aiuto. «È vero, Vadim. Ho visto molto più di quel che ha visto Aleksej. Non qui, in Valacchia. Sapevo cos'erano, quando li ho convocati.» «E hai deciso di non dircelo» ribatté Vadim. «Avevo promesso di mantenere il segreto.» «Non spettava a te la decisione.» «Era parte del patto. Altrimenti non sarebbero venuti.» Vedeva che Vadim non era convinto. «Abbiamo bisogno di loro. Alla fine dei conti, sono soldati molto abili. Hanno ucciso chi volevamo uccidessero. Ci aiuteranno a cacciare i francesi. Non vuoi buttare via tutto quanto, vero?» Parlava solo a Vadim, sapeva che era inutile tentare di persuadere me.
«Lasciali perdere» disse Vadim. «Non ho un problema con loro, capitano Petrenko.» Riservava quel tono più formale ai momenti di massima collera. «Ho un problema con il fatto che tu abbia scelto di non dirci ciò che affermi di sapere.» «Del problema ci occuperemo più tardi. Ora siamo nel bel mezzo di una guerra.» Non avevo mai sentito Dmitrij - o nessun altro di noi - parlare a Vadim in tono così ribelle. Vadim non era autoritario con i subordinati, ma Dmitrij stava varcando un confine, sondava i limiti della sua pazienza. Vadim si portò le mani al volto e tirò lunghi respiri. «È una pazzia» disse «voler stabilire se fosse tuo dovere riferirmi che sono vampiri. Dovrei rimproverarvi entrambi per essere stati così ingenui.» «Forse faremmo meglio a rimandare la discussione» lo interruppi io, indicando con un cenno del capo la parte opposta della piazza, dove avevo visto due figure in avvicinamento. A quella distanza non riconobbi il più basso, ma erano sicuramente gli Opričniki, e il più alto doveva essere Iuda. Vadim e Dmitrij si separarono, cercando di assumere un'aria tranquilla. «Ne parleremo dopo, Dmitrij Fetjukovič» mormorò Vadim sotto un falso sorriso. «Se quel che dici è vero, allora Maksim non sarebbe dovuto morire così.» «E qual è un buon modo di morire, per un traditore?» ribatté Dmitrij. Prima che qualcuno potesse dire altro, gli Opričniki ci raggiunsero. C'era Ioann con lui, ma come al solito Iuda fu il solo a parlare. «Buonasera, Ivanovič.»
Vadim
Fëdorovič,
Dmitrij
Fetjukovič,
Aleksej
Ciascuno di noi ricambiò il saluto. «Come procede il vostro lavoro?» chiese Vadim. «Secondo i piani» rispose Iuda. «Ci stiamo trattenendo per non dare troppo nell'occhio. Al momento gli incendi causano già parecchi problemi ai francesi.» «Credo che ormai abbiano fatto il loro corso, o quasi» osservò
Vadim. «I francesi si sono organizzati per reagire. E poi, non c'è più molto da bruciare.» Lo disse in un tono leggero che non lasciava trasparire il dolore di tutti noi per la devastazione della città. «Bene. Per me e i miei amici gli incendi sono stati fonte di grande preoccupazione. In verità, non vediamo alcuni dei nostri da vari giorni» ci informò Iuda. «Qualcuno di loro si è presentato agli appuntamenti?» «Ieri sera abbiamo visto Matfej e Varfolomej» disse Dmitrij. «Avete?» «Io e Vadim Fëdorovič.» «Quindi voi non siete andato all'appuntamento, Aleksej Ivanovič» mi disse Iuda. Mi domandai se fosse già al corrente di quanto era accaduto ai due, e se stesse cercando di leggermi nel pensiero. «No, non ho fatto in tempo. Ma la sera prima ho visto Foma e Ioann» risposi, accennando con il capo all'altro Opričnik, rimasto in silenzio accanto al compagno più alto. «Non è sempre facile attraversare la città, anche di notte. Sono certo che gli altri stanno bene.» «Non dubito che abbiate ragione, Aleksej Ivanovič: quelli che non avete incontrato sono al sicuro. Ho visto personalmente Pètr e Andrej giusto ieri sera.» Ioann trascinava i piedi con impazienza e si guardava intorno. «Sarà meglio rimetterci al lavoro» disse Iuda, notando il nervosismo di Ioann. «Ci incontreremo presto.» Ci guardò uno per uno, nel caso avessimo altro da dire. Nessuno di noi aprì bocca, i due si voltarono e si incamminarono. Quando non poterono più sentirci, udii nell'orecchio la voce di Vadim. «Allora, quale vuoi?» L'idea di seguirli non era venuta solo a me. «Scegli tu» risposi. «Volete seguirli?» chiese Dmitrij, come scandalizzato all'idea che meditassimo un'azione tanto losca. «Vorrei vedere con i miei occhi ciò che ha descritto Aleksej»
ribatté Vadim, «così forse me ne convincerò. Scelgo Iuda.» «Per me va bene.» Il mio piano non era semplicemente di seguire, ma di seguire e uccidere. A questo scopo, preferivo di sicuro Ioann. Per quanto fosse strano ammetterlo, Iuda sembrava conservare qualche traccia di personalità - almeno rispetto agli altri Opričniki che avrebbe reso la sua morte meno piacevole per me. «Non sei tenuto a partecipare, Dmitrij, se la tua coscienza si ribella» disse Vadim con un sorriso malizioso. Era impensabile che Dmitrij accettasse di essere tagliato fuori. «No, vengo anch'io. Vado con Aleksej.» «Non ce n'è bisogno» replicai. Non volevo che interferisse con il mio vero obiettivo. «Me la caverò, tu vai con Vadim.» «No, Aleksej. Siamo la vecchia squadra. Lavoriamo meglio insieme.» Non potevo protestare ancora senza smascherarmi, e Dmitrij lo sapeva. I due Opričniki erano ancora visibili, stavano uscendo dalla piazza sulla destra di San Basilio. Tutti e tre ci incamminammo a passo rapido tra le rovine bruciate dei negozi e poi costeggiammo il lato sinistro della cattedrale. Iuda e Ioann si erano separati, e Iuda veniva verso di noi. Ci nascondemmo in uno dei tanti porticati sotto i gradini della chiesa. Iuda ci passò davanti senza vederci. Con un breve sorriso e un cenno della mano, Vadim iniziò a seguirlo. Io e Dmitrij ci avviammo nella direzione opposta e presto ritrovammo Ioann, che aveva svoltato a ovest lungo l'alzaia tra il Cremlino e la Moscova. I suoi spostamenti, quella notte, non furono molto diversi da quelli di Matfej o di Foma. La sua preda designata, come quella di Foma, proveniva da un piccolo gruppo di soldati. Durante la notte Ioann visitò tre diverse caserme. Si infilò di soppiatto in ciascuna, senza fare rumore né per entrare né per uccidere. Non andammo a controllare cosa avesse fatto o chi avesse ucciso: sapevamo benissimo cos'era successo, e a differenza di Vadim non avevamo bisogno di altre prove concrete.
Restar lì a guardare, in attesa che Ioann terminasse il suo lavoro, riassumeva l'ambivalenza del mio atteggiamento nei confronti degli Opričniki. Il mio intento era di ucciderlo non appena ne avessi avuta l'occasione, e ogni omicidio che non avessi potuto evitare nel frattempo mi avrebbe riempito di sensi di colpa. In realtà, non potevo che essere contento: a morire erano gli invasori francesi, e la loro morte era proprio il motivo per cui avevamo convocato gli Opričniki a Mosca. Il mio desiderio di uccidere Ioann era basato solo sulla sua natura, non sulle sue azioni. In quelle lo sostenevo; lo condannavo per quel che era. Era l'esatto opposto del motivo per cui avevo permesso che Maks morisse. Dopo i tre pasti, i movimenti di Ioann si erano fatti meno guardinghi. Come avevo osservato in Matfej la notte precedente, una volta saziata la fame gli Opričniki diventavano un po' meno ferini nei movimenti. Camminava più dritto, più fiero, e se non fosse stato per la situazione in cui versava la città, l'avrebbero potuto scambiare per un damerino moscovita di ritorno da una serata di gioco o di ballo. Con l'aiuto di Dmitrij, pedinare era molto più semplice. In una città esiste un metodo ben preciso con cui due uomini possono inseguirne un terzo. Non devono mai avvicinarsi alla preda, e non c'è neppure bisogno che facciano un solo passo nella sua direzione. Mentre uno dei due resta fermo e osserva da che parte si dirige l'obiettivo, l'altro corre lungo una strada parallela per anticiparlo. Una volta giunti nel nuovo punto d'osservazione, ci si scambia i ruoli. L'uomo inseguito non vede mai nessun movimento e non si accorge mai di essere pedinato. Questo approccio era complicato dal fatto che io stavo cercando in ogni modo di sfuggire a Dmitrij, senza però perdere le tracce di Ioann; perché sapevo che Dmitrij avrebbe cercato di impedirmi di distruggere almeno un'altra di quelle ripugnanti creature. Lui sembrava aver indovinato i miei progetti, quindi passava altrettanto tempo a seguire me e Ioann. Nonostante queste complicazioni, e la pioggia battente che iniziò durante la notte, non lo perdemmo di vista. Il suo luogo di riposo si
rivelò non lontano da dove avevamo incontrato lui e Iuda poche ore prima; vicino al Ponte Kutznetskij, nel quartiere francese sinora scampato agli incendi. Era una zona molto densa di edifici, in cui i confini tra le proprietà entro un isolato erano così indistinti che lo stesso portone avrebbe potuto condurre a una, o due, o addirittura più case. La cosa interessante era che nemmeno quegli edifici erano stati toccati dalle fiamme, che pure avevano consumato molti palazzi lì vicino. Ioann salì di soppiatto gli scalini di una casa ed entrò. «C'è altro che vuoi vedere?» chiese Dmitrij, con poco entusiasmo. «Sì» risposi. «Voglio vedere dove va.» «È entrato in quella casa. Per stanotte non andrà da nessun'altra parte. Tra un'ora farà giorno.» Ma io mi ero già incamminato per scoprire in quale punto dell'edificio si trovasse Ioann. Il fatto che non fossi riuscito a scrollarmi di dosso Dmitrij non avrebbe costituito un ostacolo permanente al mio obiettivo. Se riuscivo a vedere dove dormiva, avrei avuto una giornata intera per tornare a ucciderlo nel modo che preferivo. Raggiunsi la porta, socchiusa come l'aveva lasciata Ioann, e guardai dentro. Vidi solo un corridoio vuoto. Sentii dei passi dietro di me. Era Dmitrij, chiaramente (e saggiamente) restio a lasciarmi solo con Ioann anche per pochi minuti. «Vedi qualcosa?» domandò. Scossi la testa e aprii la porta con una spinta. Sul corridoio si affacciavano tre porte e una rampa di scale. Sotto le scale c'era una quarta porta, aperta, sicuramente conduceva in cantina. Era molto probabile che Ioann fosse sceso da lì. Più preparato della notte prima, avevo portato con me una candela, e ora la accesi. La tenni davanti a me mentre scendevamo le scale. Dmitrij era appena dietro, e mi teneva una mano sulla schiena. Mi prese una paura improvvisa. Se avessimo incontrato Ioann - e magari altri Opričniki -, da che parte si sarebbe schierato Dmitrij? Quella mano sulla mia schiena era lì per rassicurarmi, oppure se mi fossi voltato per fuggire dai vurdalaki quella mano mi avrebbe gettato impietosamente nelle loro grinfie? Sette anni prima mi aveva
salvato la vita. Prima e dopo di allora eravamo stati amici carissimi. Avevo dato il suo nome a mio figlio. Il fatto che in quel momento potessi dubitare di lui diceva molto sul conto di uno di noi, o di entrambi. In fondo alle scale la candela illuminò su un lato un arco che conduceva in una piccola cantina, e sull'altro lato una porta doppia, chiusa. Gettai uno sguardo oltre l'arco e vidi che non c'era nulla. Il soffitto era parzialmente crollato e nessuno si era preso la briga di ripararlo. Era un miracolo che non fosse precipitata fin lì dal piano di sopra un'intera sala da pranzo, con tavoli, sedie, zuppiere, piatti, servi, commensali e tutto il resto. Non c'era nessuno, e neppure il giaciglio di Ioann. Dmitrij restò sulle scale, e anche stavolta sembrava si fosse piazzato in modo da impedirmi la fuga. Aprii la porta di sinistra e scrutai nel buio. Quella cantina era più vasta dell'altra; meno pericolante ma inutilizzata. Non c'erano finestre, e non c'erano altre uscite oltre la porta dov'ero io. Come avevo visto ventiquattr'ore prima, al centro del pavimento c'erano due bare. Stavolta non erano casse di legno riadattate: chiunque dormisse lì dormiva nel lusso. Le bare erano di quercia massiccia, con maniglie d'ottone. Dove i vampiri le avessero trovate non riuscivo a immaginarlo. Mi avvicinai. A metà della stanza sentii un rumore alle mie spalle. Ero appena entrato in una cantina con una sola via d'uscita. Chiunque mi stesse aspettando avrebbe potuto nascondersi accanto alla porta e venir fuori solo ora per far scattare la trappola. Mi voltai. Era Dmitrij che guardava dentro, ritto sulla soglia. Per essere un conoscitore esperto degli Opričniki, era piuttosto restio a incontrarli di persona nel loro ambiente. Gli feci cenno di seguirmi, ma lui restò dov'era. Feci un passo verso la prima bara. Era vuota. Guardai nella seconda. Lì giaceva Ioann, con lo stesso volto rubizzo che aveva avuto Matfej. Non si era neppure premurato di rimettere a posto il coperchio della bara. In quella cantina senza finestre era difficile che la luce del sole disturbasse il suo sonno. «Cosa c'è dentro?» chiese in un sibilo Dmitrij, dalla porta. Temevo di fare il più piccolo rumore. Mossi le labbra e sussurrai:
«Qui dentro c'è Ioann, l'altra è vuota». «Allora leviamoci dai piedi prima che torni l'altro.» Stavolta Dmitrij parlò a voce più alta, e subito dopo se ne andò. Non potevo che fidarmi della sua esperienza e concludere che a quelle creature non piaceva essere disturbate nel sonno. Tornai su per le scale fino al corridoio e uscii dal portone, guardandomi intorno per cercare Dmitrij. Sentii un fischio e ne cercai la provenienza. Lo vidi seduto sul basso tetto di una casa all'altro lato della strada, da dove poteva osservare senza essere visto la tana degli Opričniki. Attraversai la strada di corsa, mi arrampicai sul tetto e mi sdraiai accanto a lui. «Appena in tempo» disse, indicando il fondo della strada, dove era apparsa la sagoma inconfondibile di Iuda. Diversamente da Ioann aveva mantenuto la postura china e guardinga. Forse non aveva mangiato; forse era abbastanza saggio da comprendere che era necessario fare attenzione anche dopo aver mangiato. Qualunque fosse il motivo, si teneva addossato ai muri, nell'ombra. «Però non vedo Vadim» sussurrò Dmitrij con aria soddisfatta. «Evidentemente ha perso le sue tracce.» «Oppure è così bravo a pedinare che non lo vediamo neppure noi» risposi. Da parte mia, non ero certo di quale fosse l'opzione più probabile. Vadim era un po' più anziano di noi, e in questo tipo di lavoro non era mai stato bravo quanto me, Dmitrij o Maks. Maks eccelleva sia nel dare la caccia sia nell'evitare di farsi dare la caccia. Nessuno poteva avvicinarlo se lui non voleva, se non si fidava. Mi tirai su. Era un'altra linea di pensiero che preferivo non seguire. Iuda aveva raggiunto i gradini d'ingresso della casa. Dopo aver gettato una rapida occhiata intorno, entrò. «Spero tu non voglia seguire anche lui, Aleksej» disse Dmitrij. Sorrisi. «No, penso che possiamo tirare a indovinare.» Scendemmo dal tetto e tornammo in strada. «Be'» disse Dmitrij, «se Vadim è là fuori, ormai dovrebbe averci visti.» Ma di Vadim non c'era traccia. «Iuda deve averlo seminato»
ipotizzai. Il sole stava spuntando all'orizzonte quando svoltammo l'angolo per infilarci in una traversa. Iuda era tornato a casa all'ultimo istante possibile. «Allora, andiamo a rubare la colazione?» propose Dmitrij, in tono così disinvolto da far pensare che gli eventi misteriosi degli ultimi giorni non fossero mai accaduti. «No» risposi, «sono stanco. Ci vediamo stasera.» Me ne andai, in qualunque direzione tranne la sua. Vagai per la città per circa un'ora. Avevo tutto il giorno per tornare a distruggere le creature che dormivano in quella cantina, ma mi sarei sentito meglio se l'avessi fatto subito. Svoltando di nuovo verso gli isolati a est della Piazza Rossa, vidi l'ormai familiare bagliore delle fiamme. Grazie alla pioggia della notte precedente, gli incendi si stavano spegnendo. Ma adesso non pioveva più, e c'erano zone di Mosca ancora illese e quindi ancora combustibili. Iniziai a correre, diretto al nascondiglio di Ioann e Iuda. Il pensiero di uccidere Iuda mi turbava un po' di più, ma sapevo che andava fatto. Gli incendi di quel quartiere mi avrebbero semplificato il lavoro; tuttavia, anche così dovevo prestare attenzione a non lasciare ai vampiri una via di fuga. Quando arrivai, metà dell'isolato dove dormivano i due Opričniki era a fuoco. Nel giro di cinque minuti anche la loro cantina sarebbe diventata una fornace. Non ricordavo i dettagli delle leggende, ma rammentavo che Foma si era mostrato intimorito quando gli avevo parlato degli incendi. Mi ero convinto che il fuoco fosse uno dei modi in cui si può distruggere un vampiro. Se avessero cercato di sfuggirgli, avrebbero dovuto per forza di cose lasciare la sicurezza della cantina. E se le fiamme non li avessero distrutti, ci avrebbe pensato la luce del sole. Ma non ero ancora abbastanza sicuro. La cantina era sovrastata da molti edifici; era pensabile che, con una certa dose di fortuna, trovassero una via d'uscita senza mai esporsi alla luce del giorno. Era un rischio che non volevo correre.
Entrai di corsa nella casa e scesi le scale senza più traccia della trepidazione che avevo mostrato durante la notte. Le porte dietro a cui si trovavano le due bare restavano chiuse. Già sentivo l'odore del fumo che si infiltrava dalle case vicine. Mi guardai intorno. Nella cantina crollata sul lato opposto vidi un travetto di legno, corto. Era perfetto. Le porte della cantina avevano due grandi maniglie in cui avrei potuto incastrare il travetto, sprangandole. Mi voltai e lo raccolsi. Quando tornai a girarmi, vidi che le porte si erano mosse. Qualcuno aveva iniziato a spingerle dall'interno. I vampiri si erano svegliati e stavano per fuggire. Mi gettai contro la porta, brandendo il travetto e caricandolo con tutto il mio peso. Chiunque fosse a spingere fu colto completamente alla sprovvista, e richiuse di scatto. Avevo pochi istanti prima della sua reazione. Non potevo restare appoggiato alla porta e intanto mettere in posizione il travetto. Quindi mi tirai indietro e infilai il pezzo di legno sotto le due maniglie di ferro, temendo in ogni istante che le porte si spalancassero prima che riuscissi a bloccarle. Non lo fecero, e ora che il travetto era in posizione non si sarebbero più aperte. Ricominciai a respirare. Sapevo di dovermene andare, che dovevo temere il fuoco tanto quanto lo temevano i vampiri; eppure sentii l'esigenza di aspettare, di assicurarmi che fossero morti. Mi sedetti sui gradini. Un istante dopo udii bussare forte contro le porte. All'inizio era il battito rapido di qualcuno che richiede attenzione, poi i tonfi più lenti e pesanti di una spalla che cerca di abbattere una barriera. La porta resistette. Presto iniziai a sentire colpi di tosse. Vedevo il fumo insinuarsi sotto la porta. Ricordai una delle storie di mia nonna, in cui un vurdalak poteva trasformarsi in foschia o fumo. Poteva essere vero? Se lo era, forse avrei già dovuto vederne le prove. E invece udivo ancora tossire e sbattere, quindi mi sentii al sicuro. Con il fuoco così vicino, decisi che era tempo di andarmene. Mentre mi avviavo su per le scale, i tonfi sulla porta si fecero di nuovo concitati. Ora, tra un colpo di tosse e l'altro, sentivo un grido disperato. «Aiuto! Aiuto!» Non potei non sorridere al pensiero di Iuda o Ioann, chiunque
fosse tra loro due, che moriva tra dolori atroci dopo ciò che avevano inflitto ad altri. A livello cosciente, non mi passò mai per la testa che quel grido fosse in lingua russa. Ben presto la voce perse la forza di gridare. Sentii il rumore di un corpo che cadeva a terra. La voce si attenuò da uno strillo a una preghiera. «Mio Dio, abbi pietà di me.» Solo allora capii che era la voce di Dmitrij.
Capitolo 15 Scesi le scale di corsa e tirai via il travetto: subito le porte si aprirono, lasciando cadere a terra il corpo di Dmitrij, quasi privo di sensi. Il muro di fumo e calore mi mozzò il fiato. La cantina era in fiamme. Il fuoco lambiva il soffitto di legno, le travi erano quasi carbonizzate. Ancora pochi istanti e il soffitto sarebbe crollato. Una delle bare ardeva completamente, e l'altra, in cui intravedevo il corpo di Ioann ancora addormentato, iniziava già ad annerire tra le fiamme. Era stata trascinata verso la porta, e i piedi di Dmitrij la toccavano quasi. Mi chinai su di lui. Respirava a fatica. Il dorso delle mani e gli avambracci erano ustionati. Sul lato destro del volto la barba si era consumata rivelando la cicatrice, rimasta intatta mentre il resto della guancia si era riempito di vesciche per il calore intenso. Avrei voluto schiaffeggiarlo per farlo rinvenire, ma viste le ferite preferii scrollarlo per le spalle. Ben presto cominciò a tossire e aprì gli occhi. «Riesci a camminare?» gli chiesi. «Sì, sì!» Si tirò su a sedere. «Dobbiamo uscire di qui, e alla svelta.» Tornai sull'uscio: la scala da cui ero sceso iniziava a fumare. In alcuni tratti il soffitto era già in fiamme. Ma i gradini erano ancora praticabili, e in ogni caso era l'unica via di fuga. «Forza, vieni» dissi a Dmitrij, voltandomi verso di lui. «Dammi una mano!» Era rientrato nella cantina, aveva afferrato una maniglia della bara di Ioann e stava tendendo ogni muscolo per tirarla verso la porta. Ma era troppo debole per spostarla. «Dobbiamo tirarli fuori di qui.» Se anche avessi voluto salvare gli Opričniki - anziché lasciarli lì a farsi ridurre in cenere -, sarebbe stato impossibile. Ioann non dava segni di riprendere conoscenza, e anche in due non saremmo riusciti a trasportarlo su per le scale in fiamme. «Lascialo, Dmitrij! Devi venire con me!» Mi ignorò e continuò a
strattonare la bara con sforzi patetici per la loro inutilità. Lo raggiunsi e lo afferrai per un braccio. Non riuscì a opporre molta resistenza. Lo spinsi verso la porta, e lui sembrò piegarsi alla mia volontà, oppure comprese che il suo tentativo di salvataggio era senza speranza. Lo guidai su per le scale tenendolo davanti a me. Quando fu quasi in cima, e io circa a metà, il gradino sotto i miei piedi cedette. Il fuoco sotto le scale di legno era già intenso, abbastanza da consumarle senza però avvolgerle nelle fiamme. Quando la gamba mi affondò fino alla coscia sentii immediatamente il calore della cavità sottostante. La carne iniziò ad arrostire, provocandomi un dolore lancinante, mai provato prima. Il mio corpo si contorse e mi ritrovai a guardare in basso, verso la cantina. Tra il fumo e le fiamme vidi Ioann; si era svegliato e arrancava verso di noi. Mi vide e mi venne contro, in un balzo del tutto simile al movimento con cui Varfolomej mi si era gettato addosso la sera prima. Non sembrava preoccupato di salvarsi la vita, quanto piuttosto di vendicare la sua morte e quella di Iuda, o almeno di godersi un ultimo pasto. Mentre spiccava il balzo, il soffitto sopra di lui cedette. Travi infuocate si abbatterono a terra e lo travolsero. Sarebbero cadute anche su di me, intrappolandomi in quell'inferno, se in quel momento non avessi sentito le braccia di Dmitrij che, con gli ultimi residui di forza, mi sollevava da dove ero sdraiato e mi trascinava su fino al corridoio. Neppure lì eravamo al sicuro. Tutta la casa era in fiamme e stava per crollare. Corremmo verso la porta, reggendoci l'uno all'altro, e finalmente emergemmo nell'aria fresca e vivificante di Mosca. Il fuoco aveva ormai attirato l'attenzione. Un capitano francese stava cercando di organizzare una catena umana composta da soldati francesi e civili russi per trasportare l'acqua. Era un'impresa disperata, ma loro ne erano così coinvolti che prestarono poca attenzione alle due sagome appena emerse dalla casa e rannicchiate, ansimanti, sulla strada. Un attimo dopo sentii una voce chiedere, in un perfetto accento moscovita: «Cosa ci facevate lì dentro?». Alzai la testa. Era una ragazza sui quindici anni, scarmigliata, con
la faccia sporca e folti riccioli neri. Si era chinata su Dmitrij per vedere se era morto o solo svenuto, ma aveva parlato a me. «Dormivamo lì. La nostra casa è già bruciata. Stavolta l'abbiamo scampata per un pelo.» Mi rotolai su un fianco verso Dmitrij. «Lui sta bene?» domandai. «Brutte ustioni, ma dovrebbe cavarsela» rispose lei, poi andò dal capitano che, immaginai, l'aveva mandata a informarsi sul nostro conto. Scambiò qualche parola con lui e tornò da noi. «Venite con me» disse, cercando di sollevare Dmitrij. Io gli afferrai un braccio e me lo posai sulla spalla, poi insieme lo tirammo in piedi. Con la poca coscienza che gli restava, riuscì a sorreggersi sulle gambe e lentamente ci allontanammo dagli edifici in fiamme. Sentivo ancora la gamba bruciare nei pantaloni, ma il dolore restava lo stesso che ci appoggiassi il peso oppure no, quindi non ci rallentò molto. «Come ti chiami?» chiesi alla ragazza mentre camminavamo. «Natalia.» «Io sono Aleksej, e questo è Dmitrij.» «Perché siete rimasti a Mosca?» domandò lei. «I nostri padroni se ne sono andati e ci hanno lasciati qui. Lui è un cuoco, io un maggiordomo.» «No che non lo sei.» Rise. Non so cosa mi avesse tradito, ma evidentemente era più facile ingannare dozzine di francesi che una ragazzina russa. «Secondo me siete soldati.» Non risposi. «Ucciderete tutti i francesi e ci restituirete la città?» Sorrisi tra me. «Il progetto è questo.» «Avete appiccato voi gli incendi?» «No. Gli incendi non fanno alcun bene a Mosca.» «Neppure ai francesi, ed è questo l'importante.» «Eri ben contenta di parlare con quel capitano.» «L'avrei buttato nelle fiamme, se avessi potuto. Non proprio in mezzo, però, perché preferirei vederlo morire lentamente. Se fosse necessario, lo terrei fermo io, anche a costo di bruciarmi la mano.»
«Quindi per te nessun prezzo è troppo alto pur di sconfiggere Bonaparte?» «Hanno ucciso mio fratello. Era un soldato, come te. Be', non come te. Era solo un rjadovoj, non un ufficiale.» Non avevo idea di come facesse a sapere che eravamo ufficiali. «Dov'è morto?» chiesi. «A Smolensk.» «Come si chiamava?» «Fedja. Diceva che lo zar non avrebbe permesso ai francesi di prendersi Mosca.» Fece una pausa, poi soggiunse: «Si sbagliava». «No, secondo me hai sentito male. Lo zar non permetterà che si tengano Mosca. Per questo ha mandato qui me e Dmitrij.» «Solo voi due?» disse lei, sprezzante. «E altri.» «Ho sentito che hanno diffuso un'epidemia che colpisce solo i francesi. È vero?» «Saresti contenta se fosse vero?» «Sarei felice di pagare qualsiasi prezzo pur di liberarmi di loro. Anche di avere perso Fedja.» Tacque. Capii che si era accorta di cosa aveva appena detto, e ora le veniva da piangere. «Non contenta» riuscì ad aggiungere con voce strozzata, cercando disperatamente di farmi capire ciò che avevo capito benissimo. «So cosa volevi dire» le spiegai. «Allora ricordati di me quando li ammazzi. E anche di Fedja. Pensa a noi, e non avere pietà.» Non ebbi il tempo di rispondere. Eravamo arrivati a «casa» sua: un gruppo di tende tirate su nel cimitero di una chiesa, qualche isolato a nord di dove Natalia ci aveva trovati. Sotto le tende trovavano posto cinquanta o sessanta persone. Tutt'intorno si era formato una specie di mercato, con generi alimentari e vestiti oltre a oggetti più prestigiosi, senza dubbio sottratti alle case vicine. Non potevo biasimarli per la decisione di rivendere oggetti di valore lasciati indietro da chi era fuggito e non ne aveva più bisogno, ma
Natalia e gli altri erano così smagriti che mi parve subito una pessima idea accumulare oro in cambio di cibo, anziché l'esatto opposto. Anche dei vestiti, che ora sembravano una fonte di guadagno, avrebbero sentito la mancanza nei mesi invernali, in una città consumata per due terzi dal fuoco. Natalia ci condusse attraverso il mercato fino a uno spiazzo centrale, diviso in piccole celle da tende di lino sottile. Ci portò in uno di quegli spazi, dove un uomo sui cinquant'anni sedeva a gambe incrociate sul terreno fangoso, intento a battere chiodi in un paio di stivali. Intorno a lui erano sparsi alcuni miseri effetti personali; su un lato del cubicolo una pelle di pecora fungeva da giaciglio e un fagotto di stoffa serviva da cuscino. Lì facemmo sdraiare Dmitrij. «Questo è mio padre» disse Natalia. «È un calzolaio» aggiunse, ma non ce n'era bisogno. Porsi la mano. «Aleksej Ivanovič.» Lui ricambiò la stretta. «Boris» disse. «Boris Michajlovič.» «Aleksej è un ufficiale» proseguì Natalia, orgogliosa. «In tal caso sono convinto che preferirebbe tu non annunciassi la cosa a voce troppo alta, mia cara» replicò Boris Michajlovič. Le porse gli stivali. «Ora riporta questi al tenente... comunque si chiami, e assicurati che ti dia in cambio ciò che ha promesso.» Lei prese gli stivali e corse via. In tutta la mia vita avevo servito fedelmente il mio Paese e i miei ufficiali superiori, o almeno lo speravo; ma non avevo mai dovuto lavorare nel modo in cui un valletto serve il suo padrone o un calzolaio il cliente. Il contrasto tra il desiderio di Natalia, la morte di ogni francese a Mosca, e la sua disponibilità a prendere soldi da loro era un'esperienza a me ignota. Domnikiia, mi chiesi, covava gli stessi sentimenti ambigui per i suoi clienti? Sperai che, con una sola eccezione, fosse così; e credevo fermamente di essere io quell'unica eccezione, ma avrei dato tutto in quel momento per abbracciarla ed essere rassicurato in proposito. Avrei tanto voluto stringerla a me, qualunque risposta mi avesse dato. «Come sta il vostro amico?» mi chiese Boris, accennando con il
capo verso Dmitrij. Aveva dipinta in volto una curiosità cordiale; la sclera degli occhi era giallastra e lui doveva strizzarli per guardarmi bene, ma raramente un volto mi aveva ispirato tanta fiducia immediata. La domanda era sincera, denotava genuina preoccupazione per un perfetto estraneo. Boris aveva raccolto da terra un altro paio di stivali su cui lavorare e sedeva ingobbito tenendoli vicini al viso; in un vero artigiano la miopia è il marchio dell'esperienza. Quando mi parlò alzò lo sguardo, e le rughe gli si incresparono sulla fronte come le onde del mare, interrompendosi d'un tratto per lasciare la cupola calva del cranio liscia e imperturbata. «Ha brutte ustioni, ma credo se la caverà.» Mi chinai su di lui. Ora respirava in modo più regolare. Le ustioni sul volto, le mani e gli avambracci erano dolorose, ma non letali. «Vi lasceremo prima del tramonto.» «No, no, no. Lasciateci quando volete, non c'è fretta. Amo la mia Natalia come amavo sua madre, ma una figlia non può mai essere come un figlio. Mio figlio, Fédor Borisovič, anche lui era un soldato. È morto a Smolensk. Aveva diciotto anni.» Tacque, perso nei ricordi, poi infilò una mano sotto una pila di stracci. «Ecco» disse, estraendo una bottiglia di vodka mezza piena. «Non posso bere con Natalia come bevevo con Fedja.» La aprì e la portò alle labbra, ma non mandò giù più di un sorso. Ripulì l'imboccatura. «Mi dispiace, non ho bicchieri» si scusò porgendomi la bottiglia. Mi sedetti a terra, distendendo la gamba ustionata nella speranza di alleviare il dolore costante e sordo. Bevvi esattamente la quantità che aveva bevuto lui. Gli restituii la bottiglia con un sorriso e un ringraziamento che veniva dal cuore. «No, bevete quanto vi pare» mi disse. «Sono sicuro che mia figlia è troppo beneducata per avervelo detto, ma avete un aspetto orribile, peggio del vostro amico laggiù.» Ricordai che anche Dmitrij era rimasto scioccato dalle mie condizioni la sera prima. Le attività di quella notte potevano solo aver peggiorato le cose. Quando Boris menzionò Dmitrij, ricordai che anche lui doveva aver bisogno di un sorso di vodka, forse più di me e del calzolaio. Gli portai la bottiglia alle labbra, e Dmitrij deglutì le poche gocce che gli caddero in bocca.
Tossì e mormorò qualcosa sottovoce. Cercai di farlo bere ancora, ma lui tenne chiuse le labbra e voltò la testa. Restituii la bottiglia a Boris Michajlovič, che prese un altro piccolo sorso e me la ripassò. «Bevi tu, Aleksej. Fedja non può più bere, quindi tocca a te.» Buttai giù un lungo sorso, che mi diede più piacere del primo; e sentii il fuoco scendermi in gola e nel petto per poi spandersi come una fontana contro le pareti dello stomaco. Un secondo sorso mi donò lo stesso sollievo. Sapevo che quell'uomo mi stava cedendo le sue ultime scorte; avrei dovuto mostrare gratitudine e moderarmi, ma non ce la facevo. Bevvi una sorsata dopo l'altra fino a svuotare la bottiglia. Se all'uomo dispiacque veder finire la sua vodka, non lo diede a vedere. Sorrise come sorride un vecchio a cui piace vedere negli altri il divertimento che gli è ormai precluso. «C'eri anche tu a Smolensk?» mi chiese. Annuii. «Raccontami.» E così iniziò una lunga giornata, in cui raccontai ogni episodio di guerra che mi tornò alla mente. Gli parlai di campagne ormai lontane, come Austerlitz, e delle più recenti battaglie a Smolensk e Borodino. Parlavo sempre come se fossi stato un soldato normale. A lui non interessavano le storie di spionaggio e di Opričniki, solo le buone e oneste avventure dei soldati come suo figlio. Mentre parlavo, continuò a riparare stivali; riusciva ad ascoltare e lavorare senza che un'attività interferisse con l'altra. Purtroppo ne aveva solo tre paia, e una volta riparate quelle non c'era altro lavoro. Durante la nostra conversazione tornò Natalia, con i soldi incassati, e altre due paia di stivali da riparare. Boris si mise subito all'opera, ascoltando intanto le mie storie, e anche Natalia sedeva a terra vicino a noi, rapita dalle mie parole, immersa nell'illusione che suo fratello fosse tornato. Verso metà pomeriggio Boris mandò la figlia a cercare del cibo. La ragazza tornò con un filone di pane e, miracolosamente, del burro. Dmitrij non era in condizioni di mangiare, così loro divisero il cibo con me come se fossi parte della famiglia. Di nuovo il mio cuore mi diceva di contenermi, ma la fame ebbe la meglio.
Come scoprii quando arrotolai il pantalone per ispezionare le ustioni, la mia gamba non stava troppo male. Dmitrij mi aveva tirato fuori dalla scala in fiamme dopo pochi secondi, quindi il calore non era penetrato troppo in profondità. Tutti i peli sullo stinco e sul polpaccio erano bruciati. La pelle era arrossata ma intatta: sarebbe guarita presto. Sicuramente stavo molto meglio di Dmitrij. Prima di sera avevo già mostrato loro le mie dita amputate e raccontato una versione molto emendata di come le avevo perse. Avevo girato la testa di Dmitrij per mostrare loro la cicatrice sulla guancia, e raccontato anche quella storia. Mi sarebbe piaciuto narrare le gesta eroiche di un giovane rjadovoj conosciuto a Smolensk, di nome Fédor Borisovič, ma non potevo. Se anche l'avessi incontrato, dubito che me ne sarei ricordato, e non potevo mentire a quelle persone - neppure per farle stare meglio - su una questione tanto vicina ai loro cuori. Quando calò la notte mi ricordai di avere del lavoro da sbrigare. Mi accomiatai, ma dissi loro che sarei tornato. C'era una freschezza nell'aria di Mosca, quella sera, che mi sembrava di avere dimenticato. Gli ultimi incendi si stavano spegnendo e non c'era più niente da bruciare, quindi l'aria era tornata al suo odore normale. Anzi, meglio del normale. I fuochi si erano lasciati dietro una città più pulita: con meno edifici, e di conseguenza meno rifiuti e meno fogne. Forse la mancanza di ogni elemento che potesse sostenere la vita significava già di per sé meno rifiuti. Nessuno avrebbe gettato via l'osso più secco o l'ortaggio più marcio, non sapendo da dove sarebbe arrivato il prossimo pasto. I ratti dovevano passarsela male. Personalmente preferivo le tradizionali puzze della città, gli odori della vita. Così pulita sembrava un deserto. L'incontro di quella sera era sulla Tverskaja, in una taverna non lontana dalla locanda dove avevamo alloggiato in tempi più felici. Non avevo ben capito se l'appuntamento fosse fuori o dentro la taverna. Il rischio era che dentro fosse pieno di soldati francesi in cerca di un posto dove rilassarsi. Arrivando, vidi che la questione non si poneva: non c'era più né dentro né fuori, perché non c'era più
una taverna. Era bruciata come tutto il resto dell'isolato. Rimasi ad aspettare dall'altra parte della strada, dove gli edifici erano meno danneggiati. D'improvviso mi accorsi di quanto fossi stanco. Non dormivo da prima del tramonto del giorno precedente, nella cripta di quella chiesa a Zamoskvorecje. Le palpebre minacciavano di chiudersi da sole. Cercai di tenerle mezze aperte, poi di chiuderne solo una, poi l'altra, poi decisi di consentirmi qualche secondo di riposo chiudendole entrambe. Mi svegliai di scatto. Non sapevo quanto avessi dormito, ma ero ancora in piedi, quindi dubitavo fosse passato più di qualche secondo. Qualcosa si muoveva tra le ombre carbonizzate di fronte a me. Quando cercai di guardare meglio, il movimento cessò. «Vadim» sibilai, più speranzoso che convinto. Non ci fu risposta. Speravo di vedere solo Vadim, ma ero consapevole di avere appuntamento anche con gli Opričniki. Era un rischio che dovevo correre. D'un tratto compresi che ero stato un pazzo. Ne avevo già uccisi quattro. Come potevo escludere che qualcuno degli altri non mi avesse spiato mentre lo facevo? Anche senza l'evidenza dei loro occhi, era comunque probabile si fossero insospettiti. E sapevo fin troppo bene come si erano vendicati delle offese di Maks. Qualcosa si mosse di nuovo tra le macerie, stavolta verso destra; lo intravidi con la coda dell'occhio. Mi addossai al muro, per quanto consapevole di poter essere visto facilmente. Ero stato un pazzo a venire. C'erano ancora cinque vampiri a piede libero in città, e avevano buone ragioni per scegliermi come preda. Se anche mi fossi nascosto nella cripta più profonda, alla fine mi avrebbero trovato; io avevo reso loro le cose più facili presentandomi all'appuntamento. Forse avevo sperato che mi credessero così astuto da non farmi vedere. Ma nei loro panni, sarei venuto a controllare lo stesso. Vidi un bagliore, il riflesso dell'occhio di un Opričnik, poi udii muoversi qualcosa dal fondo della strada. Mi portai una mano al petto e sentii la confortante durezza dell'icona del Salvatore. Gli offrii una preghiera silenziosa. L'avrei sorpreso: erano anni che non aveva più notizie di me, ma ero stato educato a credere che Egli non serbasse rancore. Scivolai lungo il muro verso l'altro capo della strada, sperando che non avessero piazzato lì una sentinella,
sapendo che se anche mi fossi messo a correre mi avrebbero raggiunto subito. Forse avrebbero giocato con me, mi avrebbero lasciato fuggire quella notte per colpire un'altra sera. Non avevo più nascondigli, in una città che era alla loro mercé, una città in cui li avevo portati io. All'improvviso udii uno strillo e il rumore di macerie che cadevano. Vidi un gatto che saltava fuori dalle rovine della taverna. Si voltò e restò immobile, mentre un altro gatto saltava a inseguirlo. Erano entrambi ossuti, ma il primo aveva un morso di cibo in bocca, e il secondo lo voleva per sé. Scappai. Dopo cinquanta passi mi divenne chiaro che tra i carboni non c'era nessun altro a parte quei gatti, tuttavia non smisi di correre. Solo perché gli Opričniki non erano lì in quel momento, non voleva dire che non sarebbero arrivati. Se fosse venuto Vadim, sarebbe stato un suo problema. In ogni caso era abbastanza furbo da tenersi alla larga; più furbo di me. Tornai di corsa alla tenda dove avevo lasciato Dmitrij con Natalia e suo padre. Ero più calmo, ma il terrore mi attanagliava ancora; un terrore che avrebbe dovuto abbattersi su di me la prima volta che avevo visto le zanne di Matfej sulla gola di quel soldato, e che invece mi si riversò addosso tutto in quel momento. Dmitrij era ancora sdraiato sull'unico giaciglio. Natalia e Boris dormivano sul terreno fangoso, abbracciati per tenersi caldi. C'era una striscia di terra libera tra loro e Dmitrij. Mi sdraiai lì, ma non mi addormentai subito. Quando ci riuscii, fu un oblio gradito. Mi svegliai tardi la mattina dopo, e per allora avevo già deciso cosa avremmo dovuto fare io e Dmitrij. Sentii il profumo del tè. Mi alzai a sedere e vidi subito la mano di Natalia che mi porgeva una tazza. La presi e bevvi con gratitudine. Suo padre era seduto al solito posto e sorseggiava in silenzio. «Buongiorno, Aleksej Ivanovič.» Era Dmitrij. Seduto sul suo giaciglio di fortuna, anche lui beveva il tè e aveva in mano una mela smangiucchiata. «Come ti senti?» gli chiesi. Gli guardai le braccia e le mani piene di
vesciche. Notai che mentre il palmo della sinistra, con cui reggeva la tazza, era integro, la destra era molto rossa, ustionata quanto il resto del braccio. Teneva la mela solo con i polpastrelli, e sarebbero passate molte settimane prima che riuscisse di nuovo a impugnare una spada. Posò la tazza e si passò la mano sinistra sul lato destro del volto. Senza neppure toccare la pelle, sentiva dal calore che c'erano ustioni anche lì. Si guardò di nuovo la mano ferita. «La faccia è messa male come la mano?» mi chiese. «Non altrettanto» gli dissi. «Una volta ricresciuta la barba, non si vedrà neppure.» Sempre, naturalmente, che la barba potesse ricrescere. «Cos'è successo?» «Eravamo nella cantina. Siamo rimasti intrappolati nell'incendio.» «La cantina in cui...» «La cantina in cui dormivamo» lo interruppi bruscamente, non volendo che Natalia o suo padre scoprissero più cose del dovuto. Dmitrij annuì, aveva capito. Anche Boris sembrò capire. «Abbiamo del lavoro da sbrigare» disse a sua figlia. Lei lo guardò sorpresa, poi capì cosa intendeva. Entrambi si alzarono e uscirono dal cubicolo. «Ricordo di essere rimasto intrappolato nella cantina» disse Dmitrij. «Tu mi hai trascinato fuori. C'erano Iuda e Ioann. Loro...» Scossi la testa. «Non si sono svegliati» mentii. «Le bare erano troppo pesanti per muoverle. Siamo usciti per un pelo.» Dmitrij annuì con aria contemplativa. Se aveva indovinato che ero stato io a chiuderlo nella cantina, non ne fece cenno, ma d'altronde anche lui mi aveva tenuto segrete molte cose ultimamente. «Quanto tempo è passato?» chiese. «Solo un giorno.» «Hai cercato di incontrarli ieri sera?» Annuii, ricordando il mio terrore. «Nessuno di loro si è fatto vivo, e neppure Vadim.» «Non sono sicuro che li avresti trovati di buonumore, se fossero
venuti.» Mi venne da ridere, ma mi trattenni. Non volevo dovergli spiegare le mie paure. «Credo che dovremmo andarcene da Mosca» annunciai. Era pura codardia, ma sapevo che ormai Mosca era troppo pericolosa. E naturalmente Dmitrij aveva bisogno di tempo per la convalescenza. Non rispose. «Non sei nelle condizioni di fare nulla» spiegai, a lui e alla mia coscienza. «Gli Opričniki se la cavano benissimo da soli. E se non sono contenti che li pediniamo, allora non è sicuro per noi restare in questa città.» «Non ci farebbero del male, Aleksej. Forse sono arrabbiati, ma... be', anche tu eri arrabbiato con me, e me la sono cavata con qualche livido.» Non ribattei. Probabilmente aveva ragione, dando per scontato che gli Opričniki non ne sapessero più di lui sulle mie azioni, e pensando che potevamo ancora tornare loro utili. «Cosa facciamo con Vadim?» domandò. «Stasera proverò a cercarlo. Se non lo trovo gli lascio un messaggio.» Dmitrij parve dubbioso. «Sa come cavarsela» lo rassicurai. «Come facciamo a uscire?» Ci avevo riflettuto. «Ti è rimasto un po' dell'oro che ci ha dato Vadim?» chiesi. Dmitrij si infilò una mano nel cappotto e subito la ritrasse: le ustioni gli impedivano di usare le mani. «Mi aiuti?» disse. «È in una cintura portasoldi.» Gli tirai su la camicia e slacciai la cintura. Era pesante. «Non ho avuto occasione di spendere molto» spiegò, poi gli sovvenne la domanda più ovvia. «E comunque, dov'è il tuo?» «L'ho messo al sicuro» risposi. «Ora lo vado a prendere.» Mi feci strada fra le dozzine di cubicoli che componevano l'insediamento. Lungo il perimetro trovai Boris e Natalia che aspettavano in silenzio. Sarebbe stato facile per loro restare nei paraggi e origliare la nostra conversazione. Non l'avevano fatto, e io mi ero fidato di loro.
«Sarò di ritorno questa sera» dissi. «Prendetevi cura di lui per conto mio.» La mia prima destinazione fu la cripta dove avevo dormito qualche notte prima. Lì avevo lasciato i miei pochi effetti personali e il mio oro. Nessuno li aveva toccati. Era rischioso portarmi appresso la spada nella città occupata, ma ancor più rischioso uscirne disarmato. Strappai una striscia di stoffa dalla camicia e ne feci un cappio con cui appenderla alla spalla, sotto il cappotto. Non avrei ingannato le guardie francesi se mi avessero perquisito, ma almeno avrei passato indenne un'ispezione visiva. Il mio compito successivo, che pensavo sarebbe stato il più difficile, era trovare un mezzo di trasporto per uscire da Mosca. La vista di pochi pezzi d'oro sembrava portare alla luce risorse che non pensavo esistessero in quella città. Raccolsi cibo, tè e vodka, e alla fine, dopo essere stato rimbalzato da un mercante all'altro, trovai un uomo che disse di potermi fornire un carro e un cavallo. Il prezzo era alto, l'anticipo da versare relativamente piccolo, quindi ero fiducioso che l'uomo avrebbe rispettato la sua parte del patto. Ci accordammo per incontrarci appena a est della città, lungo la via Vladimir, all'alba del giorno dopo. A questo punto passai in tutti e sette i nostri luoghi d'incontro giornalieri. In ciascuno lasciai lo stesso messaggio: 9-10-12-И9-A Д И9 era Jurev-Polskij. Era un messaggio fin troppo dettagliato, l'annuncio che io e Dmitrij ci saremmo trovati lì a mezzogiorno di tre giorni dopo, ma era tutto ciò che potessi esprimere entro i confini del nostro codice. Speravo, quantomeno, di comunicare a Vadim che avevamo lasciato Mosca. Sicuramente Jurev-Polskij era abbastanza lontana da non lasciar pensare che volessimo arrivare fin lì solo per un appuntamento di mezzogiorno. Nella maggior parte dei luoghi fu facile scrivere con il gesso o incidere il messaggio in una posizione dove fosse individuabile, ma
non così evidente da poter essere distrutto per errore. In questo modo ebbi l'opportunità di cercare messaggi lasciati da Vadim; non ne trovai. Alla taverna rasa al suolo dalle fiamme sulla Tverskaja non c'era posto dove scrivere. Se era passato di lì e mi aveva lasciato un messaggio, il fuoco l'aveva distrutto. L'ultimo luogo d'incontro che visitai fu quello di quella sera stessa. Lì era sorto il Teatro Petrovka, uno dei pochi edifici di Mosca che le fiamme avrebbero sicuramente evitato, essendo stato già distrutto da un incendio sette anni prima. Dovevamo incontrarci all'angolo nordoccidentale delle rovine. Scrissi il mio messaggio con il gesso su un muretto e poi aspettai, da una certa distanza, sperando che arrivasse Vadim, pregando che non giungessero gli Opričniki. Dopo due ore di attesa sapevo che Vadim non sarebbe arrivato. Per quasi tutto il tempo ebbi la sensazione di essere osservato. Mi guardai intorno ripetutamente e non vidi nessuno di rilevante, certamente nessun vampiro. Non avevo ancora motivo di credere che sospettassero di me, ma era rischioso presentarmi in un luogo d'incontro che loro conoscevano e da cui potevano seguirmi, per poi scoprire dove dormivamo io e Dmitrij, insieme a quel povero calzolaio innocente e sua figlia. Era però un rischio che dovevo correre. Era già un tradimento abbandonare Vadim in città, benché fosse precisamente l'eventualità che lui ci aveva paventato. Dovevo almeno provare a contattarlo. Comunque il mio tentativo fallì. Mi avviai per il breve tragitto di ritorno alle tende nel cimitero, prendendo una strada tortuosa. Non mi sembrava di essere seguito. Avvicinandomi al cubicolo sentii Dmitrij parlare con Natalia. Era sdraiato sul giaciglio, illuminato dalla fiammella incerta di una candela; la ragazza era seduta accanto a lui. Boris dormiva in un angolo. «Eccoti qui, finalmente» disse Dmitrij vedendomi entrare. «Dove sei stato?» «Aspettavo Vadim» spiegai, «ma non è venuto.» «Vuoi aspettare un altro giorno?» Non mi andava di aspettare un altro minuto. «No, è troppo tardi. Ho trovato un mezzo di trasporto per domani. Dobbiamo partire
prima dell'alba.» «Dove andrete?» chiese Natalia. «A Jurev-Polskij» risposi. «Perché proprio lì?» volle sapere Dmitrij, ma sospettavo conoscesse già la risposta. «E perché no?» Restammo in silenzio per un po', accompagnati solo dal respiro debole di Boris. «Volete venire con noi, Natasa? Tu e tuo padre?» Era una richiesta insolita dalla bocca di Dmitrij, sorprendente quanto l'uso del diminutivo per rivolgersi alla ragazza. Lei si era presa cura di lui per due giorni - in uno solo dei quali lui era stato cosciente -, ma a quanto pareva aveva fatto colpo. Non ricordavo che Dmitrij fosse mai dipeso da qualcuno, e ora che aveva assaggiato quel sapore, sembrava piacergli. Natalia scoppiò a ridere. «Partire?» «Possiamo portarvi in salvo» proseguì Dmitrij. «Siamo al sicuro qui. Potevamo partire una settimana fa, quando sono arrivati i francesi, se l'avessimo voluto.» Poi si rivolse a me. «Pensavo che avreste ucciso tutti i francesi» disse, in tono di rimprovero. «Dmitrij deve essere portato in un luogo sicuro. Io tornerò.» Ma sapevo di mentire. Mi svegliai presto e scossi delicatamente il mio amico. Natalia e suo padre dormivano vicini. Lasciai loro del tè, due bottiglie di vodka e due di vino, del pane e del miele. Il carro che speravo ci attendesse distava da lì circa due verste. Dmitrij era debole, ma riusciva a camminare con il mio sostegno, e benché procedessimo lentamente confidavo che saremmo arrivati in tempo. La mia unica preoccupazione era raggiungere il luogo dell'appuntamento ben dopo l'alba; se avessimo tardato troppo, il nostro contatto poteva non aspettarci.
Non avevamo percorso molta strada quando sentii un rumore di passi rapidi dietro di noi. Per un terribile istante fui sicuro che un Opričnik stesse per saltarci addosso proprio nel momento della nostra fuga. Non ci misi molto a capire che i passi erano troppo felpati e troppo poco guardinghi. Era Natalia. Si piazzò sotto l'altro braccio di Dmitrij e in tre procedemmo più spediti nelle strade silenziose, proprio come quando ci eravamo appena conosciuti, due giorni prima. «Ho detto che non sarei venuta con voi» spiegò, «ma vi accompagno fino al confine della città.» Camminammo in silenzio. Vidi la fronte di Dmitrij imperlarsi di sudore. Anche con il nostro sostegno, lo sforzo era troppo per il suo corpo indebolito. Il sudore doveva bruciargli moltissimo sulla guancia ustionata, ma lui non si lamentava. «Hai una moglie, capitano Danilov?» chiese Natalia, spezzando il silenzio. «Come sei formale. Ieri mi chiamavi Aleksej.» «Cosa preferisci? A me piace "capitano".» «È un peccato che tu non abbia conosciuto Vadim. Lui è un maggiore.» «È meglio, no?» «Ha più anzianità» le confermai, sapendo che lo stesso Vadim era ben consapevole della differenza. «Allora, sei sposato?» «Sì. E abbiamo un figlio, di nome Dmitrij.» «Proprio come il capitano Petrenko.» «Si chiama così in suo onore.» «Come mai? Ah sì, ora ricordo. Ti ha salvato la vita ad Austerlitz.» «Esatto.» «E ora tu hai salvato la vita a lui, quindi siete pari.» «Non credo funzioni proprio così.» Non dicemmo altro, e continuammo a camminare. Fu di nuovo
Natalia a rompere il silenzio. «Allora è per questo che state andando a Jurev-Polskij, perché c'è tua moglie lì?» Nonostante le sue sofferenze, Dmitrij riuscì a emettere una risatina cinica. «No» risposi io, «abbiamo solo degli amici laggiù.» «Il capitano Petrenko è sposato?» «Il capitano Petrenko preferisce essere chiamato Mitka» dissi, per vendicarmi di Dmitrij. «Sul serio?» Annuii. «Allora, Mitka è sposato?» «No.» «E perché no?» «Meglio se lo chiedi a lui.» Sono certo che in quel momento Dmitrij fu contento di non riuscire a parlare. Arrivammo ai margini della città una decina di minuti dopo l'alba. L'uomo con cui avevo parlato il giorno prima era lì, con un carro aperto a cui era legato un mulo, anziché un cavallo; ma sarebbe bastato. Non c'erano segni che avesse portato altri con sé o che meditasse di tenderci un'imboscata e tenersi i soldi. Non contrattammo sul prezzo. Tutto fu condotto con la semplice fiducia tra compatrioti che può emergere solo in tempo di guerra. L'uomo tornò in città a piedi, e io e Natalia caricammo Dmitrij sul carro, insieme alle nostre poche cose. «Addio, capitano Danilov» disse lei, stringendomi la mano. Poi si avvicinò a Dmitrij e si sporse in avanti per baciarlo sulla guancia sana. «Addio, cap... Mitka» disse con un risolino. Fece per andarsene, poi si voltò. «E grazie del cibo, anche da parte di mio padre.» La raggiunsi e le misi in mano alcune delle monete d'oro che mi erano rimaste. «E queste perché?» chiese. «Per ricompensare la tua gentilezza.»
«La gentilezza non chiede ricompense.» Non era offesa, soltanto non capiva. «Non funziona così.» Cercò di restituirmi le monete. «È un regalo» disse Dmitrij con tutta la voce che gli riuscì di tirar fuori. «Perché dovrei meritare un regalo?» domandò lei in un tono che si aspettava chiaramente una risposta, come se la risposta giusta fosse più importante del regalo. «Quanti ne abbiamo oggi, Aleksej?» mi chiese Dmitrij. «Otto... è l'otto settembre.» «E perché è una data importante?» continuò lui. Natalia fece un sorrisetto infantile: sapeva molto bene dove voleva andare a parare Dmitrij, ma glielo lasciò dire lo stesso. Quanto a me, non capivo proprio niente. «Dimmelo tu» rispose lei in tono giocoso. «È la festa di santa Natalia, il tuo onomastico. Ecco perché meriti un regalo» disse Dmitrij. «Grazie» rispose lei, con un largo sorriso, e si strinse le monete al petto come fossero la cosa più preziosa che avesse mai posseduto (e probabilmente lo erano). Si voltò e si mise a correre allegra verso il centro di Mosca. Montai sul carro e partimmo nella direzione del sole nascente. «Dmitrij, sai a memoria tutti gli onomastici?» «Sì.» Non avevo motivo di dubitarne, ma sembrava una cosa stranissima per lui. «Perché?» gli domandai. La risposta fu semplice. «Hai visto come sorrideva.»
Capitolo 16 Impiegammo tre giorni ad arrivare a Jurev-Polskij. Fui sorpreso di constatare che appena fuori Mosca la campagna iniziava a tornare alla normalità. Vedemmo servi della gleba al lavoro nei campi, e carri che portavano le merci ai mercati locali. Alcuni viaggiavano persino in direzione opposta alla nostra, verso la città, dove sapevano di poter vendere al prezzo più alto. Non c'era una sola uniforme francese in vista. Dormii come non avevo dormito da giorni, e non solo perché avevo meno paura. Nelle locande lungo la strada gli affari proseguivano normalmente, quindi ci rifocillarono e si presero cura di noi. I prezzi erano tornati al livello normale - un sollievo, dopo i ladrocini nella Mosca occupata - e poiché tutti vedevano in Dmitrij un eroico soldato ferito, ci venivano servite sempre porzioni più abbondanti. Io e Dmitrij parlammo molto durante il viaggio, e la nostra amicizia tornò a cementarsi. Non discutemmo di questioni importanti, come la guerra, e certamente non menzionammo mai gli Opričniki; ma nella normale conversazione ricordammo chi eravamo e riuscimmo a dimenticare - o almeno a sopprimere - gli eventi che ci avevano separati nelle ultime settimane. Jurev-Polskij era piena di rifugiati e soldati feriti. Trovare cure mediche per Dmitrij non fu un problema: gli diedero un letto in un ospedale di fortuna - un ex convento - e i dottori dissero che sarebbe guarito. Gli sarebbero rimaste le cicatrici, ma avrebbe recuperato l'uso della mano destra. Lo lasciai e andai a cercare Domnikiia. Scoprii che era più facile trovare Pétr Petrovič, che tutti in città sembravano conoscere. Se ti serviva qualcosa, in qualsiasi momento, Pétr Petrovič poteva fornirtelo, dietro adeguato compenso. Cibo, alcol, munizioni: era in grado di scovare qualsiasi cosa. Lo trovai in una taverna. Era inconfondibile, perché era uno dei pochi coraggiosi che optava ancora per le mode eleganti dei francesi, che però non parevano ostacolare le sue discussioni d'affari con un colonnello dell'artiglieria. Al termine della conversazione, andai da lui.
«Pétr Petrovič?» dissi, porgendogli la mano. «Sì» rispose, ricambiando la stretta e cercando di ricordare dove mi avesse già visto. «Sono il capitano Danilov» continuai. «Speravo poteste aiutarmi, sto cercando Domnikiia Semènovna.» Lui mi fissò impassibile. «Dominique.» «Ah!» esclamò, e mi riconobbe. «Dominique.» Abbassò la voce. «Temo, capitano, che per il momento quel settore dei miei affari sia chiuso. Non che abbia avuto problemi, ve l'assicuro. È solo che al momento ci sono modi assai migliori per guadagnarsi da vivere. Ma quando voi ragazzi riuscirete a cacciare Bonaparte da Mosca, allora gli affari riprenderanno, non preoccupatevi.» Mi strizzò l'occhio. «Vorrei soltanto vederla» gli spiegai, con qualche reticenza. «È un'amica.» «Davvero? Un'amica?» L'idea gli parve inedita. «Be', allora la trovate all'ospedale accanto alla chiesa di San Nikita. Fa l'infermiera lì.» «Infermiera?» «Lo fanno tutte. Ci sono molti soldati malati in città.» Mi diressi all'ospedale. Non era grande, solo due lunghe corsie disposte ad angolo retto, con una ventina di letti in ciascuna. Guardai nella prima e la riconobbi subito, mentre si chinava sul letto all'altro capo della stanza. Aspettai, poggiando la mano sullo stipite della porta e cercando di sembrare rilassato. In realtà mi sostenevo allo stipite per non cadere. Lei si rialzò e si avviò verso il letto successivo. Si girò nella mia direzione. Era troppo lontana per guardarmi negli occhi, ma quando mi notò sembrò inciampare, come se si fosse storta una caviglia. Si riprese all'istante e andò all'altro letto. Si chinò sul paziente, gli rivolse qualche parola e gli sprimacciò il cuscino. Poi passò al paziente successivo, a quello dopo, a quello dopo ancora. Era sempre più vicina a me, ma non mi guardava. Pur nella lentezza snervante dei suoi movimenti, il suo progressivo avvicinamento mi fece sentire come se stessi per essere travolto da uno stallone al galoppo. Più lei si avvicinava, più montava in me un presagio
orribile. Non potevo andarmene, eppure l'idea che lei mi avrebbe raggiunto mi colmava di aspettativa per l'imminente, violento impatto. Alla fine, dopo aver compiuto il suo dovere con ciascuno dei venti pazienti del reparto, raggiunse la porta. Mi guardò con i suoi bellissimi occhi a mandorla e mi rivolse il suo sorriso professionale, che nel nuovo mestiere le tornava utile quanto nel vecchio. «Buon pomeriggio, Aleksej Ivanovič» mi disse, senza traccia di emozioni. Mi limitai a sorriderle. «Vieni fuori con me un momento» proseguì. Mi condusse in un cortile deserto. Il cuore mi sobbalzava in petto, supplicandomi di liberarlo. Lei si voltò, mi cinse la testa con le mani e mi tirò a sé. Ci baciammo con ardore, ma troppo brevemente, poi lei si ritrasse e mi posò le labbra prima sulla fronte poi sulle sopracciglia, sugli occhi, le guance, le orecchie, il mento, il collo, le mani, i palmi e le dita. Io rimasi inerte, completamente passivo, mentre la sua bocca marcava ogni pezzo di me come suo territorio. Infine si portò alle labbra la mia mano sinistra e baciò la sottile membrana di pelle che collegava il dito medio a ciò che restava dell'anulare. Poi si poggiò al mio petto, senza abbracciarmi, tenendo le braccia contro il torace, schiacciate tra di noi. Adesso era lei a offrirsi passiva, e io la strinsi con tutta la forza che avevo. «Temevo fossi morto, Ljosa.» «Perché lo pensavi?» «Non lo pensavo, lo temevo e basta.» «Ti ho vista partire da Mosca» le dissi. «Quella mattina presto.» «Bene.» Alzò gli occhi su di me e sorrise. «Non ti ho visto.» «Sono un professionista» risposi. Iniziammo a camminare mano nella mano, le dita si intrecciavano alle dita. «Perché hai lasciato Mosca così presto?» mi chiese. «Dmitrij si è procurato delle brutte ustioni negli incendi. L'ho portato qui.»
«Avresti dovuto lasciarlo bruciare.» Cambiò idea, quasi subito. «Scusami, lui è tuo amico... E tieni a lui abbastanza da averlo accompagnato fin qui.» «Per un po' non lo è stato, ma credo che ora ci sia passata.» «Perché no? Per via di Maks?» «E di te.» «Allora perché sei venuto a Jurev-Polskij?» «L'ha proposto lui. Io non ero convinto» dissi con una smorfia sarcastica. Lei strinse una mano a pugno e me l'affondò tra le costole. «E l'altro vostro amico, Vadim, anche lui è qui?» «No. Per quanto ne sappiamo è ancora a Mosca. Spero ci raggiungerà.» Sembrò una bugia anche alle mie orecchie. Per le successive due settimane la nostra relazione fu del tutto platonica. Avevo trovato riparo in una caserma vicino a dove Dmitrij si stava riprendendo, e Domnikiia viveva negli alloggi delle infermiere. Quando eravamo insieme dovevo comportarmi come ogni altro soldato che corteggia un'infermiera conosciuta per caso in guerra. Passavamo il tempo a parlare e a tenerci per mano e a passeggiare in città; sarebbe bello poter dire che attraverso quelle conversazioni imparammo a conoscerci meglio, ma non sarebbe vero. Le nostre conversazioni non erano né più né meno intime o stimolanti di quelle che avevamo avuto nudi e abbracciati nel suo letto a Mosca. Per me, almeno, avevano il vantaggio di essere meno dispendiose. Le riferii gran parte di quanto era accaduto da quando ci eravamo separati; le descrissi le condizioni della città durante l'occupazione francese, e la distruzione provocata dagli incendi. Le parlai di Boris e Natalia, e di come si erano generosamente presi cura di noi; ma non le dissi nulla degli Opričniki e di quanto avevo scoperto sul loro conto. Sapevo che avrei dovuto dirglielo, ma ogni volta che si presentava un'occasione mi tiravo indietro. Il mio silenzio perpetuava la confortevole illusione di sicurezza che mi ero deliberatamente costruito, ma al di sotto il terrore non si
allontanava mai dalla mia mente. «Non mi chiedi mai di me» disse lei improvvisamente, mentre passeggiavamo in una serata di tarda estate. «Ogni giorno ti chiedo cos'hai fatto» risposi, leggermente piccato. «Intendo dire chi sono io, della mia vita prima che mi conoscessi.» «Ah, quello» dissi, e dopo una breve pausa: «Allora raccontami». «Cosa vorresti sapere?» «Tutto» sarebbe stata la risposta giusta, ma era più semplice porre domande specifiche. Iniziai con: «Dove sei nata?». «A Mosca. Sono sempre vissuta a Mosca.» «Mai stata fuori?» «Non credo di essermi mai allontanata più di tre verste da dove sono nata, prima di venire qui.» «Jurev-Polskij deve sembrarti molto esotica» commentai. «È piccola e noiosa» rispose. Era un riassunto veritiero. «Dov'è la tua famiglia?» «Non lo so. Mio padre aveva un negozio, una merceria. Vivevamo al piano di sopra, lui, mia madre, io e mio fratello. Non eravamo ricchi, ma mio padre era ambizioso. Era convinto che la strada migliore per il successo fosse diventare amico dei clienti, se erano ricchi o importanti abbastanza. Ma i ricchi diventano ricchi non pagando i conti finché non ci sono costretti, e a lui non piaceva chiedere una cosa volgare come il pagamento di un debito a persone più nobili di lui.» «Quindi tu hai imparato dai suoi errori?» chiesi in tono leggero. «Eccome. Anche se i miei clienti tendono a pagare in fretta comunque. Nessuno vuole che sua moglie si imbatta in un conto non saldato a me alla fine del mese.» «Allora, cos'è andato storto?» «E chi ha detto che qualcosa è andato storto?» fece lei, sorpresa. «Sono qui con te adesso, no?» «Saresti potuta arrivare qui per una strada più facile.»
«Davvero? L'unica altra strada per infilarmi nei tuoi pantaloni era diventare una di quelle ragazzine spocchiose dell'alta società di Pietroburgo, e a quello non ho mai neppure pensato.» Mi rabbuiai. Non era una descrizione che si addicesse a Marfa; ma da quel poco che le avevo detto di lei, c'era da aspettarselo. «Scusami» continuò Domnikiia, «sono ingiusta.» «Non fa nulla. Allora, cos'è successo?» «Mi sono innamorata di un cliente. Un cliente di mio padre, voglio dire, almeno all'inizio. Veniva sempre a comprare bei cappellini a sua moglie. Poi ne comprò uno anche a me. E ottenne in cambio quel che si aspettava. Dopo un po' iniziò a pagarmi in denaro. Ma poi sua moglie lo scoprì e lo disse alle sue amiche. Da un giorno all'altro i mariti non ebbero più il permesso di venire da noi a comprare i cappelli per le mogli. «Mio padre sapeva perché. Litigammo, lui mi picchiò, io fuggii. Presi una stanza in affitto e tirai avanti nell'unico modo che conoscevo. Solo che ora gli uomini che incontravo non erano di quelli che comprano cappellini alle mogli, quand'anche se li fossero potuti permettere. Ben presto uno di loro si mise a picchiarmi, e io tornai a casa.» «Capisco» dissi. «Ma la casa non c'era più. Il negozio aveva chiuso e la mia famiglia se n'era andata. Gli avevo rovinato la reputazione. Così ricominciai a lavorare, e altri uomini mi picchiarono, ma la maggior parte pagava, quindi sopravvissi. Poi incontrai Pétr Petrovič. Lui sapeva come convincere gli uomini a pagarmi di più, anche se io venivo pagata di meno. Però almeno avevo un tetto sulla testa, un letto e... una casa.» «Non hai più cercato la tua famiglia?» le chiesi. «Lo farò, ma non ancora. Non è passato abbastanza tempo.» Da come aveva raccontato la storia sembrava che di tempo ne fosse passato molto; però in effetti era troppo giovane perché potesse essere trascorso più di qualche anno. «Quanto tempo fa è successo?»
«Tre anni, da quando me ne sono andata di casa.» «Hai avuto fortuna, direi.» «Più di tante altre» rispose. «Sono carina, agli uomini piaccio.» «E sei intelligente. Agli uomini piace anche questo.» «No, Ljosa» ribatté lei, in tono condiscendente, «questo piace solo a te.» Camminammo in silenzio per un po'. «Allora, vuoi raccontarmi tutti i segreti del tuo passato?» disse lei alla fine. «Meglio di no. E poi non dovrebbe fare la minima differenza.» «In che senso?» «Per lo stesso motivo per cui non ti ho mai chiesto del tuo passato. Ti conosco, non ho bisogno di spiegazioni.» Forse un giorno avevo detto la stessa cosa di Maks. «La vita dev'essere molto noiosa per te, Aleksej Ivanovič» ribatté lei, altezzosa, «visto che sai tante cose. Forse un giorno ti sorprenderò.» Non smise mai. Verso la fine di settembre, Dmitrij si sentiva abbastanza bene da poter essere trasferito dall'ospedale a una normale caserma. Il rischio che le ustioni si infettassero era scongiurato, dissero i medici, e ormai bisognava solo attendere che ricrescesse la pelle. «Significa che tornerai a Mosca?» chiese Domnikiia quando glielo riferii. Solo su quel carro, con Dmitrij sdraiato dietro, mentre fuggivamo dalla città, mi ero reso conto di quanta paura avessi avuto mentre ero a Mosca. Alla scoperta che gli Opričniki erano vampiri avevo reagito dapprima passando all'azione. Ma una volta eliminata la necessità di agire, le mie paure avevano trovato spazio per affiorare in superficie. Avevo visto in che modo uccidevano, avevo visto la loro forza selvaggia, sapevo che non volevo morire così, e da ciò dedussi che non volevo morire affatto. Ambivo a vivere e godermi la vita. Volevo mia moglie, mio figlio e la mia amante, desideravo avere altri figli e, maledizione, altre amanti. Leggere libri e bere vino e giocare a carte e morire quando fossi stato molto, molto vecchio.
«Non ancora» risposi. «Si mormora che Bonaparte dovrà ripartire presto, comunque vadano le cose. Ha sprecato troppo tempo. Avrebbe potuto conquistare la vittoria definitiva a Pietroburgo, ma ha continuato a pensare che Mosca fosse la chiave di tutto, che vederla prigioniera avrebbe spezzato il cuore alla Russia. La maggior parte di noi credeva lo stesso, e ora si è scoperto che ci sbagliavamo tutti. Lo zar non ha chiesto la pace, e i francesi dovranno svernare in una città più sicura di Mosca. Più tempo lasciano passare, più rischiano di restare isolati all'arrivo dell'inverno.» «Quindi non avevamo bisogno di te per salvare Mosca, dopotutto...» Non seppi cosa dire. «Oh, Ljosa, sono sicura che avrai dato una mano.» Il suo tono era orribilmente paternalistico. «Il tuo amico Iuda è ancora a Mosca, a occuparsi dei francesi?» «No, è morto.» «Non sembri molto dispiaciuto. Cosa gli è successo?» Di nuovo, avrei dovuto parlare; di nuovo, non parlai. «Lo stesso incendio che ha ferito Dmitrij: Iuda non è stato altrettanto fortunato.» Ora che Dmitrij era uscito dall'ospedale, anch'io potevo cercarmi un alloggio più comodo. Fui così fortunato da trovare una camera spaziosa a un prezzo ragionevole, e tornai ad avere la riservatezza che desideravo. Domnikiia l'amante era molto diversa da Domnikiia la prostituta. Quale preferissi è difficile dirlo, perché la differenza tra le due era nell'assenza di ogni inganno. Sentirti dire da un'attrice convincente che sei l'amante migliore del mondo è un'esperienza molto piacevole; ma una volta che l'attrice si è tolta la maschera non può più rimettersela e risultare credibile. Sapere la verità, che le proprie abilità amatorie sono migliorabili, non è piacevole quanto l'illusione della perfezione, ma è più piacevole dell'illusione infranta. E c'è sempre il gusto di scoprire che la pratica regolare permette di migliorarsi. Quando capii che ben presto sarei dovuto tornare a Mosca, mi dissi che un giorno avrei probabilmente dovuto affrontare i cinque
Opričniki rimasti: Pétr, Andrej, Iakov Zevedajnic, Filipp e Foma. Immaginavo che potessero venire uccisi con il fuoco. Perlomeno, lo credevo; non avevo prove concrete che Iuda e Ioann fossero morti. Ma sapevo per certo che potevano essere uccisi con un paletto di legno nel cuore, così iniziai a intagliare un grosso pugnale - quasi una spada corta - che potessi brandire con la stessa scioltezza di una sciabola, e che quindi mi consentisse, in un sol colpo, di liberarmi di un vampiro come se fosse un uomo. Un pomeriggio, mentre stavo seduto sul letto a lavorare alla mia nuova arma, Domnikiia entrò nella stanza. Dopo avermi salutato, mi chiese della spada. «È per tuo figlio?» Era molto simile a una spada di legno che avevo intagliato per Dmitrij Alekseevič un paio d'anni prima, quella che gli avevo visto al fianco nel mio sogno, ma questa aveva un obiettivo assai più letale. Seppi in quell'istante, come avevo sempre saputo, che era mio dovere raccontarle ciò che avevo scoperto. Il suo legame con me poteva metterla in pericolo, e meritava di conoscere la natura di quel pericolo. «No, non è per lui» risposi. Posai la spada e mi sdraiai sul letto. Lei si distese accanto a me e mi appoggiò la testa sul petto. Guardai la piccola finestra sopra di noi e le dissi tutto, cercando di nascondere il terrore nel mio cuore. «Ti ricordi gli Opričniki?» «Certo» rispose lei. «Ho conosciuto Iuda, se rammenti.» Annuii, e feci una pausa per riflettere sul modo migliore di dirglielo. La franchezza mi sembrò l'unica strada percorribile. «Sai cos'è un vurdalak?» le chiesi. Mi guardò. Sembrava leggermente sorpresa dalla piega presa dalla conversazione. Poi guardò la spada di legno, e tornò a guardare me. Il suo volto si trasformò. Capiva, ma non ci credeva. «Non dovresti scherzare su queste cose» disse. «Non credi ai vampiri?» Si alzò. «Oh, io ci credo ai vampiri, Ljosa» disse in tono irritato, «ma tu no, ne sono certa. Non è divertente essere presa in giro
perché non sono intelligente come...» La interruppi. «Prima no.» «Cosa?» «Prima non ci credevo, ora invece sì.» Abbozzò un sorriso. «Be', è una piccola vittoria per la mente contadina.» Poi scosse la mano. «Ma non possono esserlo. Perché credi che lo siano?» «Vedi» le dissi, «hai dei dubbi.» «Penso di sì, non so. Solo perché credi in qualcosa, non per questo pensi che un giorno lo vedrai. Come fai a saperlo?» «Li ho visti uccidere. Li ho visti morire.» «Mio Dio» mormorò Domnikiia. Improvvisamente si inginocchiò e iniziò a sbottonarmi la camicia con gesti frenetici. Altrettanto di colpo si fermò. «Grazie a Dio!» esclamò. «Cosa?» «La porti ancora.» Stava fissando l'icona sul mio petto, quella che mi aveva mandato Marfa, e solo ora ricordai che Domnikiia aveva insistito perché la tenessi al collo. «Mi aiuterà?» chiesi. «Così dicono. Finora è servita, no?» Si tirò fuori dal colletto un piccolo crocifisso d'argento con una catenella. L'avevo notato spesso. «Lo porto sempre.» Lo baciò e lo infilò nel vestito. «Allora non è vero che sono immortali?» «No» risposi. «Sette di loro sono già morti.» «Li hai uccisi tu?» «Alcuni. Sono più difficili da uccidere, ma sono mortali come tutti noi.» «Ho sempre saputo che non possono invecchiare» disse lei, gli occhi persi nel vuoto, pensando ai ricordi d'infanzia. «Non possono morire da soli, possono solo essere uccisi. La luce del sole, o un paletto di legno, che trapassi quel cuore un tempo umano.» Era
straordinario con quanta rapidità potessimo entrambi lasciarci trasportare in un mondo in cui cose del genere erano normali. «E il fuoco?» domandai. Lei rifletté un momento, poi annuì. «Sì, credo di aver sentito dire che anche quello funziona.» Poi sembrò rendersi conto della realtà di ciò che stavamo discutendo. «È così che l'hai fatto?» «Due di loro» risposi. «Maks ne ha uccisi tre.» Tornò a posare la testa sul mio petto. «Il buon vecchio Maks» mormorò. Speravo sollevasse la questione di com'era morto, sapendo che io non ci sarei mai riuscito, invece restò in silenzio. Vidi una lacrima scorrerle sulla guancia. Quando parlò, non accennò più a Maks. «Sarebbe bello non invecchiare mai» disse. «Restare sempre giovane e sana.» «E guardare tutti i tuoi amici invecchiare e morire intorno a te» aggiunsi. «Non dovrebbe per forza andare così. Se fossimo entrambi vampiri?» La sua mi parve un'allegria forzata. «Potremmo vivere insieme per sempre. Se non facessimo del male a nessuno, ci lascerebbero in pace. Non pensi che potresti amarmi per sempre?» «Loro non hanno vita e non hanno amore» dissi con tutta la serietà di cui ero capace. «Hanno fame. Devono mangiare e si divertono a infliggere dolore.» «Ma probabilmente erano così anche da vivi. Noi resteremmo come siamo. Pensi che un uomo potrebbe mai rifiutare di farsi bere il sangue da una vampira carina come me, e per giunta guadagnarsi l'immortalità?» Era troppo. Balzai in piedi, facendola cadere sul pavimento di legno. Afferrai il pugnale che avevo intagliato e glielo porsi; solo per mostrarglielo, non in modo minaccioso. «Sai a cosa serve questo?» gridai. «Serve a ucciderli, a pugnalarli al cuore, perché è così che si distruggono. Non li si può uccidere come uomini, perché come uomini sono già morti molto tempo fa.» Senza rialzarsi dal pavimento, lei si trasse indietro verso la parete con la
paura negli occhi, e mi dispiace dover dire che fui lieto di scorgere quella paura. «Se tu fossi un vampiro, la gente ti darebbe la caccia e ti ucciderebbe allo stesso modo. E avrebbe ragione, perché quelle cose sono mostri... animali... peggio che animali, perché un tempo sapevano distinguere il bene dal male.» Gettai a terra il pugnale e mi buttai sul letto. Lei restò accovacciata contro il muro, accanto al letto, pensierosa, ma senza dar cenno di volersi muovere da quella posizione scomoda. Passò un'ora prima che uno di noi aprisse bocca. «Non dicevo sul serio» disse lei, imbronciata. «Sarebbe un sogno averti tutto per me per un anno, figurarsi per sempre.» Avrei dovuto rispondere, invece non lo feci. Cinque minuti dopo lei si alzò e uscì dalla stanza. Domnikiia non tornò più a visitarmi a Jurev-Polskij. Aveva preso l'abitudine di andare a trovare Dmitrij, dentro e poi fuori dall'ospedale. Credo lo facesse soprattutto per il mio bene, perché non aveva motivo di trovarlo simpatico, ma anche per un certo senso del dovere come infermiera. Dopo il nostro litigio continuò ad andare da lui, quindi le nostre strade si incrociavano ogni tanto; lei era sempre cortese, ma sempre orribilmente formale. Dalla sua bocca non uscivano più quei «Ljosa». Ogni tanto mi imbattevo in Margarita. Faceva l'infermiera pure lei, ma alcuni soldati suoi pazienti riferivano che si teneva in allenamento anche nel vecchio mestiere. La scongiurai di parlare a Domnikiia per me, o di consigliarmi cosa dirle. «Non ci arrivi da solo?» ribatté, con un'ostilità che mi parve provenire da Domnikiia. «Se sapessi cosa dirle gliel'avrei detto.» «Ma non gliel'hai detto.» «Allora, cosa dovrei dirle?» «Cosa diresti a tua moglie?» replicò lei in tono acido. «Non posso farci niente se sono sposato» spiegai, ma non era la risposta giusta. Margarita schioccò le labbra e se ne andò.
Il giorno dopo il mio litigio con neve. Era presto - ottobre appena leggera, non minacciava neppure di Mosca, la stessa neve doveva aver Bonaparte. L'imperatore non aveva Russia.
Domnikiia era caduta la prima iniziato - e la neve era molto posarsi. A molte verste da lì, a infuso un brivido nel cuore di previsto di passare l'inverno in
Poco più di una settimana dopo giunse la notizia che la Grande Armée aveva finalmente lasciato la città ed era diretta a sudovest. Napoleone era rimasto per cinque settimane - come l'onda si sofferma per pochi istanti sulla spiaggia - prima di capire che la sua era stata una vittoria di Pirro. Ora il suo esercito affamato doveva mettersi al sicuro, inseguito da un'armata russa che si era rimessa in forze. Andai da Dmitrij. Nonostante le cicatrici, aveva riacquistato quasi completamente l'uso delle mani e delle braccia. La barba non era ricresciuta. Adesso tutti potevano vedere la chiazza liscia e arrossata provocata da una sciabola francese, che neppure le fiamme erano riuscite a cancellare. Commentammo le notizie da Mosca. «Allora, cosa intendi fare?» mi chiese. «Tornare prima possibile. Mezza città partirà per Mosca nei prossimi giorni.» «Non sarebbe meglio unirsi all'esercito regolare? Mosca non è più il campo di battaglia. Dovremmo inseguire i francesi.» «Dobbiamo cercare di contattare Vadim. E far sapere agli Opričniki cosa succede.» La prima metà della mia risposta era stata sincera. Dmitrij rifletté un momento. «Non possiamo essere sicuri che lui o loro siano ancora a Mosca. Intendo andare a sud e unirmi al grosso dell'esercito. Se Vadim è lì, te lo farò sapere. Tu va' a Mosca.» Decisi di saggiare le acque. C'erano state mille opportunità nelle settimane seguite alla nostra partenza, ma, come con Domnikiia, avevo sempre rimandato. Quella era la mia ultima possibilità,
almeno per un certo lasso di tempo, e sapevo che se Dmitrij covava in sé un millesimo del mio odio per gli Opričniki, allora c'era speranza di trasformarlo ancora una volta in un alleato formidabile. «Ti fidi di loro?» domandai. «Fidarmi?» Finse di non capire, ma ci conoscevamo troppo bene per simili giochetti. «È diverso per te, Aleksej.» «Diverso?» «Ti hanno ingannato... ti abbiamo ingannato. Non ti abbiamo illustrato subito la loro vera natura. È stato ingiusto da parte nostra.»
Saggio però, pensai. «Non è questo il modo di cementare la fiducia» proseguì lui, «soprattutto alla luce della tua naturale paura nei loro confronti, paura che avrebbe chiunque. Ma io l'ho sempre saputo, fin dal primo giorno.» «Cos'è successo il primo giorno?» «È una lunga storia, Aleksej, una storia molto vecchia.» «Cos'è successo?» La prima volta era stata una domanda oziosa, ma stavolta insistetti. Qualunque cosa avesse da dirmi, mi sarebbe stata preziosissima per combattere gli Opričniki, e forse mi avrebbe aiutato a capire perché Dmitrij era così disposto ad accettare la loro natura. Lui mi guardò e capì che non me lo sarei lasciato sfuggire. Tirò un gran respiro.
Capitolo 17 «Era il 1809» disse, «quando sembrava che i turchi fossero il nostro unico problema, e che problema! Credo che a quel tempo tu fossi giù nel sudest, oltre il Danubio, ma a ovest eravamo nei guai. I turchi erano più a nord e io stavo cercando di mobilitare i contadini della Valacchia perché ci aiutassero a salvare il loro Paese.» Dmitrij andò alla finestra e guardò fuori; la pelle ustionata sulla sua guancia brillava nella fredda luce del sole. «Ma fu inutile» riprese. «Non avevano più sale in zucca dei servi della gleba, ed erano molto meno obbedienti. Comunque immagino avessero imparato, negli anni, che mandar via i turchi non faceva che semplificare le cose per noi, o per chiunque li stesse combattendo in quel periodo. In ogni caso la situazione si era messa male, e noi eravamo stati costretti a ripiegare verso i Carpazi. C'eravamo io e una quindicina di abitanti della zona - solo uno di loro parlava un po' di francese -, gli unici sopravvissuti su oltre un centinaio. «Era fine inverno - non si poteva ancora chiamare primavera - e benché gli inverni laggiù non siano certo freddi come da noi, eravamo in cima alle montagne, quindi il gelo lo sentivamo. Scese la notte, e vedemmo le torce dei turchi sulle prime pendici delle colline sotto di noi: ci stavano seguendo. Erano dieci volte più numerosi e ci avrebbero raggiunti, anche se dopo due ore abbondanti. E tu lo sai come sono i turchi con i prigionieri.» Voltò leggermente la testa e accennò alla mia mano mutilata. Non dissi nulla. «Io proposi di continuare a salire sulla montagna. Perlomeno lì c'era qualche speranza che i nemici desistessero dall'inseguimento, soprattutto per via del freddo; ma gli altri erano come impazziti. Stavano seduti intorno al fuoco a bisbigliare tra loro, e rifiutavano di muoversi. L'unico con cui riuscissi a parlare disse che aspettavano il loro "salvatore". Risposi che l'avremmo incontrato tutti molto presto, il Salvatore; ma poi scoprii che parlavano di una specie di eroe mitologico di quelle parti. Certo, in realtà poteva benissimo trattarsi
di Cristo, a giudicare dal segno della croce che si facevano ogni volta che lo menzionavano. «Era una sorta di condottiero medievale; un tipo spietato, ma che aveva dimostrato di poter avere la meglio sui turchi invasori. Un grand'uomo, a sentir loro, e a me stava anche bene, ma non sapevo cosa farmene dopo quattrocento anni. L'idea, naturalmente, era che costui sarebbe "risorto", proprio come Cristo, nel frangente più disperato della vita della nazione. Niente di originale; si trovano figure simili nelle tradizioni contadine di tutta Europa.» Fece una breve pausa, e lo vidi drizzare le spalle. «Ma c'era una lieve differenza. Questo redentore era vissuto e morto a meno di cinque verste da lì, dov'eravamo accampati. Il suo castello era ancora lì, in rovine naturalmente. Due dei valacchiani volevano andare fin lassù - a chiedergli aiuto - ma gli altri avevano paura, compreso quello che mi faceva da interprete. Andai insieme a quei due, non certo perché pensassi di poter essere salvato da un fantasma di quattro secoli fa, ma perché speravo che quelle rovine fossero una fortezza difendibile. «Tutti e tre ci arrampicammo per un'erta sconnessa, per dieci minuti, finché giungemmo a una strada, evento inatteso per me ma non per loro. C'era la luna piena a guidarci, così sulla strada procedemmo molto più rapidi. Iniziai a pensare che se il castello si rivelava utile, avremmo avuto comunque qualche speranza di resistere finché i turchi si fossero stancati. Ma proprio mentre io mi rallegravo, i due valacchiani si rabbuiarono. Mormorarono qualcosa tra loro e rallentarono il passo, e infine si fermarono, e sembrò che valutassero se proseguire o no. «Che vadano al diavolo, pensai, e continuai a camminare. Funzionò: poco dopo mi raggiunsero. Era strano, però: restavano qualche passo dietro di me, ma sempre vicini. Non capivo se volessero farsi proteggere, o solo assicurarsi che venissi consegnato a chiunque avessimo trovato una volta giunti a destinazione.» Fece un'altra pausa, immerso nei suoi pensieri, lo sguardo perso in lontananza. «Fu la loro reazione a dirmi che eravamo arrivati. Io non l'avevo
neppure visto, ma a un tratto uno di loro indicò con il dito, e tutti e due si fermarono e rimasero a guardare. Era costruito sul fianco della montagna - sembrava addirittura partorito dalla montagna - e all'improvviso mi fu chiaro che non erano una fila di pietre a picco sulla strada, ma le mura di un grande castello in rovina. Aveva finestre alte, nere e buie, e i camminamenti distrutti si stagliavano in un profilo irregolare contro il cielo rischiarato dalla luna. «Raggiungemmo un cancello che immetteva in un cortile. Era un cumulo di macerie, ma all'epoca doveva essere stato inespugnabile. Non avevo dubbi che risalisse al Medioevo. Non era andato tutto distrutto: dall'altra parte del cortile, inserito tra due stipiti aggettanti di pietra massiccia, vidi un enorme portone di legno, antico e rinforzato con grandi chiodi di ferro. «I miei compagni di viaggio confabularono tra loro; poi uno dei due si sforzò visibilmente di ricomporsi e si avviò esitante nel cortile. L'altro alzò una mano per intimarmi di restare dov'ero, ma non dovette ripetermelo. Dentro il cortile, il primo uomo stava guardando una finestra al piano superiore, gli occhi fissi su una persona che non riuscivo a vedere, e che probabilmente non vedeva neppure lui. «Si buttò in ginocchio davanti al portone e alzò le braccia, e urlò quella che mi parve la loro disperata richiesta di aiuto, senza mai staccare gli occhi da quella finestra. Continuò a gridare, ora battendosi il petto, ora strappandosi i capelli; poi si gettò in avanti e sentii le sue mani nude battere contro la pesante porta di legno. Infine il rumore cessò, e restammo in attesa. Il valacchiano nel cortile era immobile, gettato contro il portone. L'altro si guardava intorno nervoso e posava lo sguardo su ciascuna finestra, in cerca di qualcuno che rispondesse alla supplica del suo compatriota. Ma non ci fu risposta. «Dopo una decina di minuti, quello nel cortile si tirò in piedi e tornò verso di noi, scuotendo la testa con amarezza rivolto al suo amico. Non si dissero nulla; si voltarono e si incamminarono per la strada da cui eravamo venuti. Avevo progettato di sfruttare il castello, e mi sembrava rispondesse alle nostre esigenze difensive, ma non mi andava di restare lì da solo, quindi li raggiunsi.
«Il viaggio di ritorno fu molto più rapido dell'andata. Da solo avrei potuto smarrirmi, gli altri invece non faticarono a ritrovare l'accampamento. I valacchiani rimasti lì erano piombati in un silenzio rassegnato, e non avemmo bisogno di parlare per comunicare il fallimento della nostra missione. Per quanto mi fosse sembrato ridicolo, sia prima di partire sia dopo il ritorno c'era stato un momento in cui mi ero quasi aspettato di vedere il loro salvatore emergere e venire in nostro aiuto. «I turchi erano ormai molto vicini, e presto, oltre a vedere le torce, avremmo sentito le loro grida mentre si dividevano per accerchiarci. Sapevamo che mancava poco. Mi alzai in piedi, e gli altri fecero lo stesso. Ero armato con un moschetto, una pistola e una spada. Alcuni degli altri avevano spade, alcuni solo coltelli. Tra gli alberi iniziai a scorgere sagome umane, ciascuna nella pozza di luce gettata dalla sua torcia. Poi udimmo il rumore. «Non era un rumore sconosciuto - era il trapestio degli zoccoli di cavalli al galoppo -, ma su quella montagna fredda e nuda ci parve incongruente. I valacchiani erano stupiti quanto me, ma presto capimmo che il rumore proveniva da dietro di noi. Da un punto più alto della montagna, e si stava avvicinando. «I turchi non lo avevano sentito, o avevano deciso di ignorarlo, e continuavano ad avanzare. Ormai erano a portata di tiro. Si udirono spari, e due uomini accanto a me caddero morti. Risposi al fuoco con il mio moschetto e abbattei uno dei loro. Per tutto il tempo il rumore di zoccoli cresceva d'intensità. Mi voltai a guardare, ma non c'era nulla da vedere. I turchi erano ben armati e non avevano bisogno di affrontarci faccia a faccia. Si erano fermati, e iniziarono ad abbatterci a uno a uno con i moschetti. Un valacchiano davanti a me fu colpito e mi piombò addosso, buttandomi a terra. Mi voltai e tornai a guardare la cima della collina, e in quel momento li vidi spuntare. «Zmeevič fu il primo a scollinare il poggio che l'aveva nascosto, in sella a uno stallone bianco. Era terrificante: gli occhi pieni di odio voluttuoso e le zanne digrignate. Alle sue spalle ce n'erano altri dieci: Opričniki, come li abbiamo chiamati, ovvero vampiri di casta più bassa rispetto a Zmeevič. Superarono al galoppo i valacchiani -
travolgendone alcuni - e si gettarono sui turchi, e ricordo di aver notato che, per quanto terrificanti, i cavalieri non portavano né spade né lance, nulla con cui attaccare il nemico. Solo in seguito riflettei sulle zanne lupesche nella bocca di Zmeevič. I turchi saranno forse scoppiati a ridere: i nuovi arrivati erano a cavallo, ma in assoluta inferiorità numerica e disarmati. Non ci saremmo aspettati che più di un paio di loro riuscissero a raggiungere le linee nemiche. Io non lo pensavo di sicuro, ma d'altronde non li conoscevo ancora. «La prima raffica li prese in pieno, ma non li rallentò. I turchi spararono ancora, senza rendersi conto della situazione. Poi alcuni iniziarono a credere all'evidenza dei propri occhi, e capirono che le pallottole non potevano fermare quelle creature. Puntarono quindi ai cavalli, cavalli in carne e ossa che caddero presto sotto quella gragnola di colpi. Ma era troppo tardi. I cavalli avevano svolto il loro compito e avevano portato i vampiri tra le file nemiche. Ogni volta che uno di loro stramazzava al suolo, il cavaliere atterrava in piedi e continuava a correre verso i turchi. «Non riuscivo a vedere cosa stessero facendo. Sentivamo delle grida, ma ogni volta che un turco veniva aggredito la sua torcia cadeva o si spegneva, quindi non potevamo assistere alla sua fine. Gli uomini intorno a me indietreggiavano spaventati, e io decisi che c'era poco da guadagnare con gli atti di eroismo. Come quando abbiamo visto gli Opričniki al lavoro sulla strada per Borodino, settimane fa. Noi udivamo soltanto le grida dei turchi farsi più rade e più disperate. Immagino tu ti sia sentito come me quel giorno, Aleksej: un misto di orrore e di meraviglia, per la brutalità e l'efficienza di quegli assassini.» Non risposi. Forse aveva ragione lui. Forse avevo avvertito entrambe quelle cose, ma emozioni del genere erano state rimpiazzate in me, ormai da tempo, dall'odio nella sua forma più pura. «Con la velocità che nasce dall'esperienza, le poche grida furono messe a tacere. Io e i valacchiani sopravvissuti restammo paralizzati dal terrore: la loro paura superstiziosa mi aveva contagiato, lasciandomi incapace di decidere il da farsi. Ma presto riacquistai il controllo e cercai di scoprire se gli altri avessero compreso meglio di
me quanto era appena accaduto; fu inutile. L'unico che parlava francese era morto, colpito all'occhio da una pallottola turca. Se anche fossi riuscito a comunicare con qualcuno, dubito che sarei stato in grado di penetrare il loro terrore. Comprendevo che quei cavalieri erano legati in qualche modo al salvatore di cui mi avevano parlato, ma i contadini sembrarono accogliere il suo arrivo più con paura che con gioia. «Mi avviai da solo verso il punto da cui i turchi ci avevano attaccati. Tra gli alberi intravidi ombre acquattate che correvano, e sentii rumori a metà tra il linguaggio degli uomini e il grugnito di un animale. Poi udii un forte strillo. Ero certo che fosse in lingua turca, ma fu zittito quasi subito, e rimpiazzato da altri sbuffi e sghignazzi come quelli che avevo sentito prima. Mi aggirai tra gli alberi per diversi minuti, imbattendomi in dozzine di cadaveri turchi, ciascuno con la stessa ferita al collo, e molti con altre ferite oltre quella. Però non incontrai nessuno dei cavalieri. Poi mi fermai e mi misi in ascolto. «I rumori che avevo udito erano cessati, e adesso sentivo soltanto il respiro roco e irregolare di animali che si preparano all'attacco. Era tutto intorno a me. Mi ero inoltrato in mezzo a loro, e ormai ero circondato. Portai la mano all'elsa della spada, sapendo già che mi sarebbe servita a poco. Udii un rumore di passi a poca distanza, alle mie spalle. Mi voltai e mi trovai faccia a faccia con Zmeevič. «Mi parlò, ma non capivo la lingua. Il suo alito emanava il tanfo di una palude. Parlò ancora, in un'altra lingua, ma nemmeno questa la compresi. Poi parlò in inglese: "Buonasera". Risposi in inglese con una frase fatta, dicendo che ero russo. Lui tacque un momento, cercando di formulare una frase, dopodiché sorrise e mi rispose in ottimo francese: "In tal caso, saprai il francese". «Glielo confermai e mi condusse da parte. Solamente allora notai che si trascinava dietro il corpo inerte di un turco, come un mantello che per pigrizia non voleva gettarsi sulla spalla. Mentre camminavamo, a un certo punto si voltò e lasciò cadere il corpo dietro di sé, al centro del circolo di creature che mi avevano accerchiato. Dietro di noi le sentivo avvicinarsi a ciò che il padrone gli aveva lanciato.
«Tornammo dove avevo lasciato i valacchiani. Nel frattempo si erano fatti un po' di coraggio, si erano alzati in piedi e ora stavano dibattendo sul da farsi. Al nostro arrivo - all'arrivo di Zmeevič - si gettarono di nuovo a terra, terrorizzati. Zmeevič non li degnò di uno sguardo. Ci sedemmo a una certa distanza da loro e riprendemmo a parlare. «Ero affascinato, e dimenticai la paura e le buone maniere. Gli posi una domanda diretta, la più ovvia: "Cosa siete?". «"Tu sei russo" rispose lui, "quindi puoi comprendere certe cose. Siamo vampiri, vurdalaki, nella tua lingua." Non avevo bisogno di mostrarmi sorpreso. "E siamo patrioti" proseguì. «"Siete tutti valacchiani?" chiesi. «"Quasi tutti, al momento; alcuni vengono dalla Moldavia. Siamo un gruppo in continua evoluzione, a parte il capo" aggiunse, con un lieve inchino. "Ma al momento proveniamo tutti da... queste parti." «Ormai i suoi compagni iniziavano a riemergere dalla foresta. Erano dieci, e si erano riuniti formando un capannello, non dissimile dalla disposizione assunta dai miei compagni, ma qualcosa in loro attirava l'attenzione. Immaginavo fin troppo bene di cosa si trattasse. «"Non sembrano tutti come voi" dissi. «"E loro non sembrano come te" rispose lui, indicando i valacchiani con un ampio gesto della mano. "In ogni società ci sono diverse classi di uomini." Si voltò a guardarmi. "Per questo è un grande privilegio sedere qui e parlare con te." «"Presumo dunque che ci abbiate visto al castello" gli dissi. «"Vi ho visti, ma sapevo già della vostra presenza, e sapevo già cosa avremmo fatto." «"E vivete qui da quattrocento anni?" «"No, non da così tanto" rispose, con un sorriso malinconico che gli si addiceva ben poco, "ma quasi." «"E gli altri. Sono tutti così vecchi?" «"Oh, no" fece lui in tono sdegnato. "Vivere fino alla mia età richiede abilità, intelletto, lungimiranza. Non sono qualità che si
trovino - o si ricerchino - nei soldati di fanteria. Sono più vecchi di te, questo è certo, ma non di molto." «"E li avete creati voi?" domandai. "Li avete resi vampiri, intendo..." «"Neppure. Chi potrebbe inorgoglirsi di chiamare figli creature simili? Essi tendono a perpetuarsi. Ogni tanto uno straniero si unisce a noi, un vampiro alle cui orecchie è giunta la nostra fama. Di solito li accogliamo volentieri." «Uno dei valacchiani - quello che era arrivato davanti al portone del castello - si era avvicinato, curioso, al gruppo di vampiri. Subito uno si voltò di scatto e gli fu addosso: nel giro di pochi secondi il valacchiano si ritrovò a terra, con il primo vampiro sopra, che lo immobilizzava, e altri due che si chinavano su di lui. Zmeevič gridò loro qualcosa e quelli si voltarono a guardarlo. Gridò ancora, e i vampiri tornarono a malincuore dai loro simili. Riuscivo quasi a vedere la loro coda tra le gambe. «Io e Zmeevič parlammo ancora, ma notai che lui si distraeva, saettava lo sguardo verso i suoi sottoposti, intenti a ripulire i resti dei cadaveri che avevano trascinato fuori dal bosco. Su suo suggerimento decidemmo di collaborare, se non altro per liberare dai turchi quella zona dei Carpazi. Avremmo lavorato più o meno come pensavamo di fare a Mosca: noi avremmo fatto ricognizione durante il giorno per individuare i nemici, e loro sarebbero andati a distruggerli dopo il tramonto. Zmeevič disse che non avrebbe avuto problemi a rintracciarci sulle montagne. Andò persino a illustrare il nostro piano ai sei valacchiani sopravvissuti. «"Ormai l'alba è vicina e devi scusarci" disse quando tornò da me. "Ma prima, posso prendere in prestito la tua sciabola?" «Gliela porsi, senza sapere cosa potesse farsene. Lui la prese e si avvicinò agli altri vampiri, ancora stretti intorno al corpo di uno dei turchi. Non riuscivo a vedere cosa stesse facendo, ma ben presto condusse via la sua banda, su per il pendio in direzione del castello. Quando mi passarono accanto vidi che si era portato alla bocca la punta della mia spada, su cui era infilzato un brandello di carne. Lo divorò, un morso dopo l'altro. Poi, con un sorriso, mi gettò la spada. Mentre la afferravo, lui mi rivolse un saluto distratto e si
incamminò su per la montagna. Nel giro di pochi minuti sparirono tutti. «Mi sedetti a guardare quel che restava della battaglia di quella notte, e riflettei sulla nostra bizzarra conversazione. Nella luce fredda del giorno, tutto ciò che avevo visto e sentito mi sarebbe parso strano e incredibile, eppure non mi sognavo di dubitarne, e non ero neppure turbato dalla scoperta. Suppongo non provassi orrore perché non avevo motivo di temere per la mia personale incolumità. Ma poi guardai i cadaveri martoriati dei turchi, poi i miei compagni terrorizzati e infine la lama della mia sciabola, sporca di sangue. Mi voltai e vomitai.» Dmitrij tacque e per diversi secondi restammo entrambi in silenzio. «L'hai più rivisto?» gli chiesi infine. «Andò come aveva detto lui. Di giorno noi perlustravamo le montagne e individuavamo i turchi, ma non li attaccavamo. Di notte, Zmeevič e gli altri riapparivano, e il gruppetto di invasori veniva annientato. Devono averne uccisi a centinaia. Zmeevič teneva buona compagnia; sì, ridi pure, ma era meglio di chiunque altro avessi incontrato in quel maledetto Paese. E parlai un po' anche con gli altri vampiri. Non erano poi così subumani come li dipingeva Zmeevič. Be', sai come sono fatti, hai parlato con gli Opričniki. E ricorda, erano i miei compagni d'arme, almeno per il momento. Non usavano gli stessi nomi, però Pétr, Varfolomej, Andrej e Ioann erano gli unici in comune con il gruppo attuale.» Si voltò a guardarmi negli occhi, riflettendo su ciò che stava per dire. Poi scosse la testa, come risvegliandosi da un sogno. «Almeno a quanto ricordo» disse. «È passato molto tempo.» «Per quanto sei rimasto con loro?». «Non molto. Alla fine, dopo un paio di settimane, ci imbattemmo in un battaglione russo e io decisi di tornare tra i miei simili. Attesi che Zmeevič ci raggiungesse quella notte per accomiatarmi da lui. Comprese la mia decisione, e mi disse in tutta sincerità che se mai avessi avuto bisogno di aiuto non avrei dovuto esitare a chiedere.» «E ha tenuto fede alla sua parola» ribattei. Dmitrij non colse
l'amarezza nella mia voce. «Esatto, Aleksej. Esatto. Magari non ti piace quel che loro sono - e Dio lo sa, non piace neppure a me -, ma di loro c'è da fidarsi. L'hanno dimostrato.» Nella mia mente, non riuscivo a dargli torto. Gli Opričniki avevano accolto la nostra richiesta di aiuto, avevano fatto ciò che avevamo chiesto loro di fare. Io e Dmitrij lo sapevamo, eppure eravamo giunti a conclusioni molto diverse. Ben presto mi accorsi di quale fosse la differenza. Dio sapeva che a Dmitrij non piaceva la natura di quelle creature, ma io dovevo ancora convincermene. Il mio odio viscerale e istintivo nei loro confronti, semplicemente per ciò che erano, sembrava assente - o almeno ben nascosto - in Dmitrij. Lui li vedeva come cannoni che andavano semplicemente puntati contro il nemico; ed era un'idea perfettamente logica. Avrebbe sorpreso Maks, così come sorprese me, scoprire che Dmitrij era tanto razionale. Eppure, se quella era la razionalità, che andasse all'inferno. L'amore era irrazionale, ma era giusto e bello. L'odio non poteva essere lo stesso? La mia esperienza con gli Opričniki mi aveva persuaso di sì. Avevo altre domande da porgli, ma non ne avevo il coraggio. Cambiai argomento. «Quando parti?» gli chiesi. «Sono già pronto» rispose, con un sorriso timido. «Ho già fatto i preparativi, parto oggi.» Poi aggiunse: «Tieni d'occhio Natalia e Boris da parte mia». Ci abbracciammo. Non avevamo parole con cui salutarci, eppure mentre mi allontanavo sentivo nel mio cuore che avremmo dovuto parlare ancora, e con più sincerità. Ero certo che Dmitrij mentisse, o almeno che non mi avesse raccontato tutta la verità. Il suo resoconto del primo incontro con Zmeevič era troppo tirato a lucido; sembrava studiato apposta per rasserenarmi. C'era altro che avrebbe voluto dirmi, e non mi aveva detto. E perché no? Perché ero un bugiardo anch'io. Forse Dmitrij non riusciva a intuire esattamente cosa gli nascondessi, però mi conosceva da troppo tempo per non intuire che c'era sotto qualcosa.
Quel qualcosa era la missione che mi ero dato - e avrei proseguito, ora che non avevo più scuse per non tornare a Mosca: distruggere ciascuna di quelle abominevoli creature. E perché a mia volta non gli avevo svelato il mio segreto? Perché non mi fidavo di lui. L'avevo ingannato perché sapevo che lui ingannava me. Il suo comportamento era stato il medesimo. Nessuno dei due aveva potuto aggirare questo stallo con un balzo di fede, per quanto piccolo. Le cose erano state molto più semplici, finché Maks era rimasto l'unico bugiardo del gruppo. La sua presenza non aveva seminato il dubbio tra noi. Forse era più bravo a mentire di Dmitrij e me, così tanto che anche ora, dopo essere stato smascherato, anche ora che era morto, mi fidavo più di lui che non del compagno vivo che avevo appena lasciato. Due giorni dopo un lungo convoglio di carri, carrozze e calessi lasciò Jurev-Polskij. Era il quattordici ottobre: era passato oltre un mese da quando avevamo salutato Natalia ed eravamo partiti. Scoprimmo che era anche l'ultimo giorno prima che l'inverno ci piombasse addosso. Il secondo giorno di viaggio la temperatura calò bruscamente. Nel tragitto verso Mosca avremmo sentito più freddo del previsto, ma ci sarebbero voluti solo tre o quattro giorni. La ritirata di Bonaparte nell'inverno russo sarebbe durata molto di più. Guardando indietro verso la lunga carovana di veicoli, notai i tre carri coperti che Pétr Petrovič aveva usato per evacuare le sue «risorse» da Mosca. L'uomo sedeva accanto al cocchiere del primo mezzo. Dietro di lui, all'ombra del telone, riuscivo appena a intravedere un volto che sapevo essere quello di Domnikiia. Per gran parte di quel lungo viaggio continuai semplicemente a fissarla. Il carro su cui mi trovavo conteneva un buon assortimento di persone - giovani e vecchi, e alcune famiglie -, con nessuna delle quali avevo voglia di conversare. Ricordo che nel pomeriggio del nostro quarto giorno di viaggio, quando vidi per la prima volta le torri e le cupole della mia amata città, una madre seduta accanto a me stava finendo di raccontare una fiaba ai suoi due bambini; mi tornarono alla mente i ricordi della mia infanzia. Restai per qualche
minuto a osservare Mosca che si avvicinava, poi tornai a fissare Domnikiia. La storia che quella madre stava raccontando in toni vividi ai suoi figli era stata una delle preferite di mia nonna, una delle più strane e, malgrado la sua semplicità, delle più spaventose. Parlava di una città del sud, Urjupin, e io rimasi ad ascoltare distrattamente, confortato nel ricordo delle mie paure di bambino, che ora sembravano così insignificanti. «Quando il viaggiatore e le sue creature furono ripartiti, tutti si rallegrarono» raccontava la donna, alzando la voce per sottolineare quell'allegria, «ma ben presto la gente iniziò a notare che c'era qualcosa di strano.» Si chinò sui piccoli con aria di cospirazione, e proseguì in un sussurro. «La città era silenziosa: così silenziosa che si riusciva a udire un contadino che gettava nei solchi i semi di papavero.» I bambini sorrisero, in attesa del finale di una storia che avevano sentito raccontare molte volte. «Alla fine fu un bambino, più o meno della tua età, Grisa» disse la donna a suo figlio, «a capire cosa non andava. La città era così silenziosa perché gli uccelli avevano smesso di cantare. Gli animali del viaggiatore non avevano divorato solo i ratti, ma anche tutti gli uccelli del villaggio. «E fino a oggi, sapete, nessun uccello è mai tornato a Urjupin.»
PARTE SECONDA
Capitolo 18 Era domenica quando rientrai a Mosca. Ero contento di aver visto la città nel suo momento peggiore, perché ora, malgrado versasse ancora in cattive condizioni, potei notare un miglioramento. Per chi, come Domnikiia e la maggior parte della popolazione, era partito prima dell'arrivo dei francesi, il contrasto con la situazione attuale doveva spezzare il cuore. Quelle persone avevano visto per l'ultima volta la città all'apice del suo splendore, ancora percorsa dal flusso vitale dei suoi abitanti, sebbene in quel momento il flusso fosse diretto fuori città. L'ultima volta che l'avevo vista io, invece, era già stata bruciata per due terzi, era quasi disabitata e per le strade c'erano solo i soldati francesi. Oggi due terzi di Mosca restavano distrutti dal fuoco. Per me non fu una sorpresa, ma suscitò orrore in molti altri, specialmente in chi scopriva che la sua casa era stata rasa al suolo. Non c'erano più francesi in città: niente di nuovo per chi non li aveva mai visti, ma un miglioramento per me, che li avevo visti eccome. Notai che la popolazione era ancora sparuta, tuttavia più numerosa di prima e in continuo aumento. Per chi l'aveva lasciata piena, la città appariva ancora vuota. Per me non era ancora piena, ma perlomeno si stava riempiendo. Dunque quel giorno dovevo sicuramente sembrare eccentrico agli altri. Se quasi tutti i moscoviti di ritorno portavano l'angoscia dipinta in volto e si aggiravano contemplando l'enormità della ricostruzione che li attendeva - sia singolarmente sia per l'intera città -, io giravo per le strade con l'evidente piacere di un viaggiatore che torna a visitare un bel luogo dopo molti anni. Anche così, il mio volto doveva essere diventato indistinguibile dagli altri quando avevo posato lo sguardo sull'orrore che era occorso alla Piazza Rossa. Gli edifici erano stati risparmiati dagli incendi dei primi giorni di occupazione bonapartiana, grazie soprattutto all'impegno dei francesi stessi per proteggerli, in quanto fiore all'occhiello della città. Ma alla ripartenza, Bonaparte aveva ordinato di far saltare in aria il Cremlino, per evitare che noi ci riappropriassimo di ciò che lui non era riuscito a tenersi. Non poteva
esserci una giustificazione militare per questo gesto, come forse c'era stata per gli incendi che avevano perseguito i francesi nei primi giorni; era pura e semplice vigliaccheria. La buona sorte però, avendo scelto quell'autunno del 1812 per abbandonare Bonaparte, l'aveva ripudiato completamente. Il Cremlino non era stato distrutto. Forse i suoi sottoposti non si erano impegnati troppo nell'eseguire un ordine così ignobile. Forse la pioggia aveva inumidito le cariche esplosive; fatto sta che molte micce non avevano preso fuoco. Ma il sollievo dei moscoviti nel vedere che la fortezza Cremlino si era salvata non bastava a stemperare l'angoscia per i danni inflitti. Di fronte alla Piazza Rossa, tutta la zona tra l'Arsenale e la Torre Nikolskaja era distrutta, insieme a varie altre torri lungo la strada che portava al fiume. Avventurandomi all'interno, vidi che il Palazzo delle Faccette era crollato. Peggio ancora, era sparita la gigantesca croce d'oro che un tempo si ergeva sul campanile di Ivan il Grande. Non era stata distrutta da un'esplosione, bensì trascinata a terra e portata via su un carro insieme al resto del bottino di guerra di Napoleone. Per quanto fosse triste constatare la mutilazione inflitta dalla partenza dei francesi, mi consideravo fortunato per non aver assistito alla breve fase di anarchia a cui i pochi moscoviti rimasti si erano abbandonati nelle ventiquattr'ore successive all'allontanamento dell'invasore. Quel poco che ne sentii raccontare era già sconfortante di per sé. Una folla aveva marciato sull'Orfanotrofio, dove agli orfani si erano sostituiti centinaia di feriti francesi, troppo deboli per essere trasferiti. In pochi erano sopravvissuti all'ira dei moscoviti, ma la loro morte fu più rapida di quella di tanti commilitoni che erano riusciti ad avventurarsi nel letale inverno russo. Sebbene la folla avesse soltanto cercato vendetta, le sue azioni si sarebbero potute attribuire a un qualche patriottismo distorto, invece - così mi dissero - lo sciacallaggio si era diffuso ovunque. Le scorte che avrebbero dovuto essere divise tra tutti i moscoviti erano state arraffate dai più forti e dai più egoisti. Fortunatamente, vicino alla città c'erano truppe russe al comando del principe Chovanskij, in attesa che partissero i francesi, quindi fu pietosamente breve il periodo in cui nessuna legge - né francese né russa - regnò sulla città. Al mio ritorno aveva già ripreso piede da tempo la civiltà, se non le buone maniere.
La locanda sulla Tverskaja dove scendevo di solito (quando non alloggiavo in stalle o cripte) era sopravvissuta almeno in parte agli incendi. Le fiamme avevano consumato gran parte dell'isolato, e una metà delle stanze era andata distrutta, ma i proprietari erano già tornati e stavano cercando di resuscitare gli affari con le poche camere ancora abitabili. Parlai con il locandiere mentre mi accompagnava al piano superiore, in una stanza di malinconica semplicità. (Le camere che occupavo di solito non esistevano più: le scale ora conducevano solo a un precipizio affacciato su un deserto di detriti e macerie.) Mi chiese di Vadim, Dmitrij e Maks. Gli dissi che stavano tutti bene, perché mi parve più semplice mentire a proposito di Maks; e appresi che anche lui non aveva visto Vadim di recente. C'era poco che potessi fare per rintracciare Vadim. All'arrivo dei francesi anche lui si era nascosto, come me. Forse non era il più bravo del mondo a nascondersi, ma in una città vasta come Mosca non sapevo proprio da dove cominciare a cercarlo. Potevo solo presentarmi ai luoghi d'incontro stabiliti settimane prima. Era una possibilità remota, però l'unico piano d'azione che avessimo. Era la mia migliore speranza di trovarlo, per quanto improbabile. Inoltre, era possibile che uno o più degli Opričniki venissero all'appuntamento: una prospettiva verso cui nutrivo sentimenti ambivalenti. L'appuntamento della domenica era alla chiesa di San Teodoro Stratilate, accanto alla Torre Mensikov, a est del Cremlino. Feci una piccola deviazione per tornare nel luogo in cui avevo trascorso la mia ultima notte in città, nel piccolo alloggio di Boris e Natalia. Arrivato lì, vidi che dell'accampamento non restava nulla: pochi oggetti di scarso valore gettati a terra, e i resti delle tende di fortuna. Riuscii persino a trovare il punto esatto in cui mi sembrava ci fosse il cubicolo di Boris e Natalia. Non avevano lasciato nulla di valore. Una bottiglia rotta emergeva per metà dal fango. Forse era la bottiglia da cui avevo bevuto. Chiedendo in giro, appurai che l'accampamento era stato sgomberato dai francesi pochi giorni dopo la nostra partenza. Non c'era stato spargimento di sangue, le persone si erano semplicemente disperse in altri posti della città. C'erano poche speranze che qualcuno conoscesse la sorte di un ciabattino e di sua figlia. Mi avviai
verso il luogo d'incontro dove speravo di trovare Vadim. Non era lì quando arrivai, poco prima delle nove. Ci misi un istante a ritrovare il messaggio che gli avevo lasciato, inciso nella pietra nella parte bassa del muro. Mi venne il batticuore al pensiero che Vadim potesse aver tracciato lì sotto un messaggio di risposta. Non ce n'era. Tornai al mio letto. La mattina dopo feci il giro degli altri sei luoghi d'incontro, come avevo fatto l'ultimo giorno prima di partire da Mosca. Il mio obiettivo, come era stato in parte la sera precedente, alla chiesa, era di controllare se Vadim avesse lasciato una risposta. La maggior parte dei miei messaggi era rimasta intatta. Uno di quelli scritti tracciati con il gesso era svanito completamente, forse lavato via dalla pioggia, e un altro era stato mezzo cancellato, ma era ancora leggibile. In nessuno dei sei luoghi trovai però una risposta di Vadim. Andai a controllare persino alla taverna distrutta dal fuoco, dove non avevo lasciato nessun messaggio, non c'era niente nemmeno lì. Se ne avesse letto uno qualsiasi, Vadim avrebbe sicuramente risposto. Naturalmente era possibile che non li avesse visti, ma d'altro canto avevo lasciato i messaggi in posizioni convenzionali, e con i suoi anni di esperienza non se li sarebbe lasciati sfuggire. Dovevo quindi concludere che non si fosse presentato a nessun appuntamento dopo l'ultima volta che ci eravamo visti, sotto i portici di San Basilio. Come noi, anche lui doveva aver abbandonato la città poco tempo dopo. Ma anche in quel caso, perché non provare a comunicarcelo? L'altra possibilità era che non fosse mai partito da Mosca, e che mai più sarebbe potuto partire. Appariva sempre più probabile. Se Iuda si era reso conto che Vadim lo seguiva, non avrebbe esitato a sbarazzarsi di lui, procurandosi nel contempo un pasto nutriente. Il mio amico avrebbe opposto resistenza, ma il suo scetticismo era evidente alla sola menzione della parola vurdalak, quindi forse non si era mosso con la giusta cautela. Era un paradosso ben poco confortante che, in quel caso, lo stesso Iuda fosse morto poche ore dopo nell'incendio della cantina. Benché lo temessi, non lo sapevo per certo. Era altrettanto
probabile che Vadim fosse fuggito da Mosca. In tal caso sarebbe probabilmente tornato, ora che la città riprendeva a vivere. Potevo solo presentarmi al posto giusto ogni sera alle nove, e sperare. Quel pomeriggio andai in visita nella via Degtjarnij. Non avevo perso tutte le speranze con Domniikia, ma se ormai l'avevo perduta, volevo almeno chiudere i rapporti in maniera amichevole. Volevo gettarmi ai suoi piedi e dirle che l'amavo, anche se lei già lo sapeva: dirlo non avrebbe cambiato nulla. Non fui del tutto sorpreso nello scoprire che il bordello non solo era sopravvissuto agli incendi, ma aveva già riaperto, sebbene gli affari non sembrassero andare a gonfie vele. Che l'edificio fosse ancora in piedi era da attribuire soltanto alla buona sorte, ma Pétr Petrovič era un uomo che sapeva come attirarsi la buona sorte. Domnikiia non era nel salone. Le altre ragazze erano sedute con aria languida, già stanche di attendere clienti che non arrivavano. Nessuna di loro mi si fece incontro; mi conoscevano di vista e sapevano chi ero venuto a cercare. Sulle scale incontrai Margarita. «Oh, sei tu» disse, in tono inospitale. «Sono qui per vedere Domnikiia.» «Non posso impedirtelo» fece lei, e continuò a scendere le scale. «Mi dispiace che l'impiego da infermiera non sia durato» mormorai a volume appena sufficiente perché mi sentisse. Bussai alla porta di Domnikiia ed entrai quando mi rispose. «Ah, sei tu» disse, in tono molto meno appassionato - in tutti i sensi - di quello con cui Margarita aveva appena pronunciato le stesse parole. «Sì, volevo vederti.» «Be', mi conosci, Aleksej. Un lavoro è un lavoro, e io non dico mai di no a un uomo che paga.» «Non è questo che sono venuto a fare.» «Cosa sei venuto a fare?» Ci pensai su un momento, e scoprii di non saperlo. Sapevo bene cosa volevo ottenere, ma non avevo un piano per arrivarci. Capii
che c'era una sola cosa che andava detta, in qualsiasi modo io volessi lasciarla, come amante o come ex. «Sono venuto a chiederti scusa.» «Perché? Per avermi strillato contro quando ho detto che volevo diventare un vampiro?» disse lei, in tono noncurante, come se scuse del genere non avessero importanza. «No» risposi, sapendo che solo una sincerità completa poteva bastare. «In quello ho avuto ragione io. Ti chiedo scusa per non aver accettato le tue scuse, dopo.» «E perché non le hai accettate?» domandò lei, in tono improvvisamente umile. Mi ero sempre vantato della mia sensibilità nel leggere il cuore femminile, in realtà era stato solo un colpo di fortuna a farmi dire esattamente quel che lei sperava di sentire. «Non pensavo ci fosse bisogno di dirlo, era ovvio.» «Davvero?» Ormai parlava in un sussurro. «Perché?» «Perché...» Ma non avevo una risposta. Sebbene fosse ovvio: io sapevo esattamente come funzionava la mia mente e cosa provavo per Domnikiia. Lei no. Fece un passo verso di me. «C'è qualcos'altro di ovvio che non mi hai ancora detto?» chiese per stuzzicarmi, e mi si fece così vicina da essere costretta a tirare indietro la testa per guardarmi. Mi chinai a baciarla. Lei mi posò le dita sulle labbra per fermarmi. «Uh-uh» mormorò, scuotendo la testa. «Devi dirlo.» «Non è già evidente?» «Dillo, Ljosa!» ordinò con un filo di voce. Mi chinai e glielo sussurrai all'orecchio. Rialzandomi le vidi dipinto in volto un sorriso ancor più radioso di quello che avevo visto sulle labbra di Natalia quando Dmitrij si era ricordato del suo onomastico. Mi chinai di nuovo e stavolta lei non si oppose. La spinsi verso il letto, ma a quel punto mi fermò. «Non qui» disse, «se non è necessario. Dove alloggi?» «Alla locanda, la solita.» «Dovrà essere tardi, forse dopo mezzanotte.»
«Va bene.» «Sempre che io riesca a venire.» «Sarebbe più facile per me vederti qui» le dissi. «No, non voglio. Preferisco com'era a Jurev-Polskij, quando ero un'infermiera.» «D'accordo.» E la baciai di nuovo. Poi me ne andai. Quella sera tornai ad aspettare Vadim. Era lunedì, quindi l'appuntamento era sulla Piazza Rossa. Camminai avanti e indietro per circa un'ora. L'autunno aveva lasciato spazio all'inverno, e io dovevo continuare a muovermi per non congelarmi, affondando le mani in tasca. La piazza era quasi deserta, e i pochi passanti marciavano a ritmo sostenuto, per non passare più tempo del necessario nel gelo della sera. Vadim non era tra loro. Feci ritorno alla locanda. Avevo detto al locandiere che aspettavo la visita di una donna, quindi al rientro mi bastò guardarlo e inarcare un sopracciglio. Mi rispose con un rapido cenno di diniego. Ma era ancora presto. Dormivo già quando lei entrò nella mia stanza. Solo quando sentii il suo corpo nudo e fresco premere sulla mia schiena e avvolgersi intorno a me seppi che era lì. Mi voltai a guardarla. «Adesso c'è qualcosa che devo dire, Domnikiia?» le chiesi sottovoce. «No» mormorò lei, con un sorriso che non potevo vedere. «È ovvio.» La mattina dopo la riaccompagnai nella via Degtjarnij. Era quasi mezzogiorno. Eravamo rimasti a letto per molto tempo - nessuno dei due aveva un mestiere che richiedesse di alzarsi di buon'ora - a parlare di molto poco. Ero libero fino all'appuntamento successivo con Vadim. Come avrei voluto poter usare davvero una parola che indicasse tale certezza. Mi procacciai il pranzo e poi vagai per le strade, valutando
la rapidità con cui la città si stava riprendendo dopo l'occupazione. Ero convinto che Mosca si sarebbe ripresa. Pietroburgo era la capitale da un solo secolo. Nove anni prima di diventarlo, era stata una palude. Ci era voluta la determinazione di un grand'uomo, il più grande di tutti, lo zar Pétr, per erigere le prime strutture su quella palude e per trasformarla poi in capitale in così poco tempo. Nella mia generazione non c'era uomo in vita che gli fosse pari, non soltanto in Russia ma nel mondo intero. Bonaparte aveva sperato di ereditare quegli allori, e si era dimostrato indegno di ottenerli. La ritirata da Mosca era solo l'ultima riprova del suo fallimento. Dunque, non c'era più un Pétr che potesse ricostruire la città per noi, eppure avevamo migliaia - centinaia di migliaia - di Petruska: piccoli Pétr, che da soli non sarebbero mai riusciti a far risorgere Mosca dalle proprie ceneri (come io non potevo resuscitare i morti dalle loro tombe), ma che insieme avrebbero saputo restituirla alla grandezza di un tempo, così recentemente perduta. E non avrebbero neppure dovuto edificarla da zero: avevano ancora i loro ricordi, e nonostante la distruzione arrecata dal fuoco, restava in piedi la forma essenziale della città. Gli edifici si possono bruciare, ben più difficile è bruciare le strade: la planimetria quindi riesce a sopravvivere. Un terzo della città era rimasto intatto. Stavo percorrendo una di queste strade incolumi quando notai tre botteghe di calzolai, strette l'una all'altra come spesso accade ai rivali nello stesso commercio, che si scaldano a vicenda ma si invidiano i clienti. Guardai dalla vetrina di ciascuno. Non vedendo ciò che cercavo, entrai nella terza bottega e parlai al ciabattino. «Avete mai conosciuto un calzolaio di nome Boris Michajlovič?» «Boris?» fece l'uomo. «Sì, lo conosco.» «Il suo negozio è da queste parti?» «No, non è qui.» «Sapete dov'è?» «Da nessuna parte. È bruciato la prima notte degli incendi.»
«Lui però è sopravvissuto, questo lo so. L'avete visto di recente, o sua figlia?» «Ah, quindi è a Natalia che siete interessato, giusto? Be', li ho visti entrambi una settimana fa, dopo la partenza dei francesi, ma da allora non li ho più incrociati.» «Forse sono scomparsi» interloquì il suo assistente, che stava ramazzando il pavimento, «come tutti gli altri.» Calcò la voce sulla parola scomparsi, come se gli suonasse nuova, o avesse assunto un significato nuovo, più specifico. «Scomparsi?» chiesi. «C'è gente che è venuta in città ma non c'è rimasta» spiegò il calzolaio con aria distratta. «Credo abbiano semplicemente deciso che qui non c'è da fare affari, e perciò se ne sono andati da un'altra parte. Oleg Stepanovič, il fornaio qui all'inizio della strada, è l'unico che conosco di persona. È tornato a Mosca, ha riaperto bottega, l'ha chiusa la sera stessa e non l'ha riaperta il giorno dopo. Secondo me si è messo a inseguire l'esercito perché lo pagano meglio per il pane, solo che non ha detto niente a sua moglie, per cui forse insegue qualcun altro oltre l'esercito.» «Secondo me, invece, Bonaparte ha lasciato alcuni dei suoi nascosti qui, per ammazzarci a uno a uno man mano che torniamo in città» osservò l'assistente, appoggiandosi alla scopa. «Be', se sparano a te, Vitja» disse il ciabattino, «passerà un bel po' di tempo prima che qualcuno qui dentro si accorga della differenza.» La scopa riprese subito a spazzare il pavimento. Ringraziai i due uomini e ripartii; dalle loro parole avevo dedotto che gli Opričniki erano ancora in città. Il loro racconto era stato vago, ma anche orribilmente simile alle storie che nascevano ovunque andassero gli Opričniki. Naturalmente era solo una mia ipotesi che fosse accaduto qualcosa a Boris e sua figlia, tuttavia in quel momento seppi che, per loro come per chiunque altro, la città non era sicura. L'incontro di quella sera doveva tenersi alla chiesa di San Clemente. Mentre aspettavo fuori, ricordai l'ultima volta che ero stato lì, esattamente sei settimane prima, quando avevo visto Ioann
e Foma. Ioann era ormai morto, lo sapevo - ancor più morto di quando ci eravamo parlati -, ma covavo il terrore che Foma potesse tornare per vendicarsi. Ormai dovevano sapere che quattro loro compagni erano morti nello spazio di poche notti. Non ci voleva un genio - e loro non erano certo dei geni, tantomeno ora che non c'era più Iuda a pensare per tutti - per dedurre che io potessi esserne in qualche modo responsabile. Comunque, a qualsiasi deduzione fossero arrivati, nessuno di loro si presentò; e neppure Vadim. Quel che è peggio, quella sera Domnikiia non mi fece visita. È sorprendente con quanta rapidità ci si possa abituare a non dormire da soli. In un certo senso, la pausa con Domnikiia era stata un bene. La mattina dopo ricevetti una lettera di Marfa. Portava la data di oltre tre settimane prima; ma nel trambusto dell'occupazione e della ritirata francese era già un miracolo che mi fosse arrivata. Da Jurev-Polskij le avevo spedito diverse lettere, che però dovevano essersi incrociate con questa. Da ogni riga traspariva la preoccupazione per la mia sicurezza. Mi riferiva le notizie arrivate a Pietroburgo, e la paura che Bonaparte potesse avanzare verso di loro. Marfa si sentiva rassicurata dalla presenza dello zar. In apparenza intendeva dire che Aleksandr li avrebbe protetti; in realtà stava dicendo che non appena avesse tagliato la corda, gli abitanti di Pietroburgo avrebbero saputo di essere nei guai. Come sempre, la sua lettura della situazione politica era acuta, tanto più per una donna. Dmitrij Alekseevič era stato poco bene, ma adesso era guarito. Chiedeva sempre quando sarei tornato a casa. Mi turbava sentirmelo dire; sembrava che Marfa usasse nostro figlio per esprimere i propri desideri. Sicuramente che Dmitrij mi volesse rivedere corrispondeva al vero, e non era irragionevole che lo volesse anche lei. Mi dispiaceva però il modo in cui ciò si scontrava con il mio desiderio di avere tutto. Strano che provassi risentimento solo per Marfa, e non per Dmitrij; ma d'altronde non avevo un figlio rivale a Mosca. Mia moglie non si dilungava sulla questione della morte di Maksim, ma con poche frasi era riuscita a modo suo a esprimere i
miei stessi sentimenti. L'approccio seguito consisteva semplicemente nell'ignorare le ragioni che avevano condotto all'esecuzione di Maks. Era in grado di descrivere il suo dolore senza mai affrontare il fatto spiacevole che Maks fosse stato un traditore. Avrebbe scritto le stesse cose se fosse stato ucciso da una spada francese a Borodino. Mi fu di grandissimo conforto leggere le sue parole su Maks, come se fosse morto da soldato valoroso. Marfa aveva risparmiato a se stessa l'imbarazzante sottotesto del tradimento, e a me aveva momentaneamente risparmiato il senso di colpa per averlo abbandonato. L'ultima notizia era che la figlia di Vadim, Elena, aveva partorito un maschietto il 6 settembre. Il bambino era nato un po' prematuro, ma era sanissimo, e l'avevano chiamato Rodion Valentinovič. Marfa si diceva convinta che io lo sapessi già, ma intuivo che sperava non fosse così: che potesse avere lei il piacere di essere la prima a dirmelo, e io potessi avere il piacere di annunciarlo a Vadim. Sarebbe stato bellissimo per me anche essere il duecentesimo a dare la notizia a Vadim, pur di riuscire a rivederlo. Le scrissi una breve lettera di risposta, dicendole molto poco se non che ero tornato sano e salvo a Mosca. Non feci parola di Dmitrij e Vadim, perché dire che Dmitrij era sano e salvo avrebbe implicato che Vadim non lo era, e non mi sembrava il caso di dare l'allarme. Per quanto ne sapevo, Vadim poteva essere tornato dritto a Pietroburgo, e magari in quel momento stava cullando il nipotino tra le braccia. Andai da Domnikiia per scoprire cosa le fosse successo la sera prima. Quando arrivai mi fu detto che era occupata. Sapevo che lavorava ancora, ma era spiacevole sentirselo ricordare. Suppongo fosse per questo motivo che non voleva incontrarmi lì. Uscii e iniziai a lanciare ciottoli contro la sua finestra con una certa foga. Ben presto lei si affacciò. Temetti subito di aver invaso il suo territorio, che mi avrebbe cacciato bruscamente, come avrei fatto io se lei mi avesse interrotto mentre menavo fendenti sul campo di battaglia: un'immagine bizzarra. Ma sul suo viso si dipinse subito la gioia di vedermi. «Stai bene?» le chiesi.
«Sto benissimo, Ljosa. Tu come stai?» «Cosa ti è successo ieri sera?» «Ho avuto da fare, mi dispiace.» Lo disse con un'aria rammaricata. «Non mi stavo lamentando, ero solo preoccupato.» Lei fece una smorfia. «Hai paura per me, vero?» «Paura di perderti. Mi piacerebbe che tu non sembrassi così contenta.» «Splendido! Non dovrei essere felice di vederti?» «Quindi eri avvilita finché non ti sei affacciata alla finestra?» «Disperata» rispose lei con un sorriso. «Bene. Ora sono felice anch'io.» Sentii una voce maschile chiamarla da dentro la stanza. «Devo andare» disse Domnikiia. «Ci vediamo stasera?» «Ci proverò.» E sparì. Quella sera andai al Ponte di Pietra, ancora aggrappato alla speranza sempre più flebile di vedere Vadim. Ero a Mosca da tre giorni, e si iniziava a notare che sempre più persone rientravano in città. Come sulla carnagione di un uomo quasi dissanguato, ma non al punto di morirne, il colorito iniziava a tornare sulle guance di Mosca. L'ora era tarda, ma il ponte era ancora affollato, ancor più che ai bei vecchi tempi, perché la quantità di lavoro da sbrigare faceva aumentare le ore necessarie per svolgerlo. Mentre attraversavo il ponte iniziò a nevicare. Era la prima vera nevicata dell'inverno; più forte di quanto avessimo visto a JurevPolskij, però non attaccava ancora: era solo un'anticipazione di ciò che sarebbe venuto. Un altro segno che l'inverno quell'anno sarebbe arrivato presto, ma i moscoviti - e tutti i russi - erano ben preparati e l'avrebbero affrontato a testa alta. In ritirata, verso ovest, lo stesso non si poteva dire dei francesi. Attesi per oltre un'ora, scrutando ogni volto che mi passava
davanti, ma non vidi Vadim. Mi diressi a nord, per tornare al mio letto e - speravo - a Domnikiia. Stavo guardando le torri del Cremlino quando sentii qualcuno mormorarmi una parola all'orecchio. «Assassino!» Mi voltai, ma non vidi nessuno. Qualche passo più in là un uomo alto e sgraziato mi dava le spalle e si stava allontanando. Poteva essere stato solo lui a parlare. Lo seguii. Non si mise mai a correre, ma le gambe lunghe lo portavano a ritmo spedito, costringendomi a trottare. Quando imboccammo il Ponte di Pietra, il mio inseguimento fu rallentato dalla folla, e mi sforzai di tenere il passo. Per l'uomo la folla non era un ostacolo: sembrava aprirsi davanti a lui e lasciarlo passare, come il mare davanti alla prua di una nave. Eravamo ormai sull'altra sponda del fiume, sul Canale Vodootvodnij, quando lo raggiunsi. Gli posai una mano sulla spalla e lui non oppose resistenza. Si girò a guardarmi. Era alto e pallido, il viso solcato da molte piccole cicatrici. I capelli gli arrivavano alle spalle, sciolti e scarmigliati. Gli occhi neri fissavano me, ma sembravano non vedere nulla. Non c'era una ragione precisa, eppure nel mio cuore sapevo di trovarmi davanti a un vampiro; e per di più, a un vampiro che non era un Opričnik. Avevo pensato di dover uccidere soltanto altre cinque di quelle creature, ma ora si erano riprodotte: mia nonna diceva che era possibile, io avevo sperato che non fosse vero. E se avevano partorito quel figlio, quanti altri potevano essercene? Sarebbero diventati inarrestabili. La creatura mi guardò fisso negli occhi per qualche secondo, poi si voltò e riprese il cammino. Io restai come paralizzato per un istante, meditando sul numero di vampiri che mi sarebbe toccato affrontare; considerando che li avevo aiutati ad ambientarsi in una città dove ora potevano stabilirsi per sempre, incuranti del fatto che il loro pranzo parlasse russo anziché francese. Il mostro che avevo inseguito poteva essere solo uno di dozzine di moscoviti innocenti, scelti a caso, che non solo erano stati privati della vita, ma anche di una vera morte, nel contagio di quell'orribile epidemia. Eppure, da qualche parte nel profondo dei ricordi riconoscevo il viso che avevo appena visto. Sicuramente non era uno degli
Opričniki, e nessun altro che conoscessi bene. Era un uomo che avevo già visto a Mosca. Poi mi venne in mente: il cadavere che non si putrefaceva. Settimane prima, quando i morti e i feriti di Borodino erano arrivati in città, avevo guardato brevemente in quegli stessi occhi per assicurarmi che il granatiere fosse morto. Secondo il pope era stato un miracolo che il corpo fosse ancora intatto, ma ora sapevo che non era così. Il cadavere non si corrompeva perché il corpo era sopravvissuto alla morte dell'anima. Presumibilmente uno degli Opričniki, durante la nostra prima escursione a ovest, l'aveva trasformato in uno dei loro. Il processo doveva richiedere un certo lasso di tempo. Quando l'avevo visto, si trovava fra i due stati di esistenza: era morto come essere umano, e non ancora rinato come vampiro. Adesso era in tutto e per tutto un vurdalak. Continuai a seguirlo, ora con più circospezione, allo stesso modo in cui avevo pedinato Foma, Matfej e poi Ioann. Lui non era altrettanto cauto: camminava apertamente per la strada senza mostrare paura. E in effetti, cosa aveva da temere? La città era di nuovo libera, e non doveva preoccuparsi di essere fermato da una pattuglia francese: poteva camminare a testa alta, come qualsiasi altro russo. Anch'io ero avvantaggiato dall'assenza dei francesi: potevo di nuovo girare con la spada, per quanto non fosse l'arma migliore a mia disposizione. Nascosto nel cappotto portavo il pugnale di legno che ritenevo mi sarebbe stato molto più utile. Infilai una mano e lo afferrai stretto, sentendomi rassicurato dal contatto. Il vampiro sembrava vagare senza meta: forse perché non conosceva bene la città, ma a me pareva piuttosto che stesse ingannando il tempo. Solo nelle prime ore del mattino raggiunse finalmente la sua destinazione, fermandosi davanti al portone di una casa molto lussuosa, sicuramente proprietà di una delle famiglie più ricche di Mosca. Non era distante dalla cantina in cui avevo lasciato Iuda e Ioann a bruciare, settimane prima. La residenza appariva stranamente intatta, in confronto a quelle che la circondavano. La zona non era stata toccata dagli incendi, ma nessuna via di Mosca era stata risparmiata dallo sciacallaggio, da parte dei russi oppure degli invasori. Lungo tutta la strada le finestre erano rotte e le porte scardinate; gli oggetti scartati - e i tempi erano così duri che venivano gettati quelli di minore utilità pratica (libri, quadri e cose
del genere) - erano disseminati a terra. Ma quella casa aveva le finestre intatte, la porta ancora chiusa. E anche la via al di fuori, benché non pulita, era perlomeno sgombra dalle macerie che circondavano le altre abitazioni. Sembrava quasi che un servitore fedele fosse rimasto a presidiarla e - per abitudine, e incurante del tumulto intorno a sé - l'avesse mantenuta nell'ordine che gli era proprio. Eppure, nel caos che aveva travolto Mosca, la sola diligenza non sarebbe bastata a conservare un tale ordine. Sarebbe servita una forza terrificante. L'assenza di rifiuti intorno all'edificio mi ricordava la mancanza di insetti nell'angolo buio di una casa in cui sta appostato un ragno. Il soldato aprì la porta ed entrò senza timore di incontrare il vero proprietario. I ricchi e i potenti non erano ancora tornati in città, ma molti di loro avevano mandato avanti la servitù per riprendere possesso delle case. Forse avevano fatto così anche i padroni di quel posto. Un servo che fosse arrivato a riaprire la casa non si sarebbe certo aspettato di trovarla infestata di vampiri, e i vampiri si sarebbero presto sbarazzati di lui. Non potevo avere la certezza che la creatura avesse in programma di fermarsi a dormire lì. Mancava ancora un po' all'alba, quindi restai ad aspettare. Dopo un'ora circa, nessuno era uscito e nemmeno vi era entrato. Sapevo in cosa mi sarei potuto imbattere, ma ero anche consapevole di non poterlo evitare. Andai al portone e provai a ruotare la maniglia. Il vampiro non si era chiuso dentro. L'atrio era buio, ma su un tavolo trovai una lampada a olio; la accesi e la portai con me. La casa era grande, con molte stanze; il vampiro poteva essersi nascosto ovunque. Estrassi il mio pugnale di legno e lo tenni stretto, pronto ad affrontarlo. Andai dapprima in cantina, perché ormai sapevo per esperienza che i vurdalaki tendevano a rintanarsi lì; non vi trovai nulla di insolito. Qualcuno aveva abbattuto in parte il muro, che ora si apriva sulla cantina dell'edificio confinante. Diedi una rapida occhiata ma non vidi nulla. Sentii un lieve odore di fogne. Intuii che la strada lì fuori dovesse trovarsi vicino alla Neglinnaja, l'affluente della Moscova in cui si riversava gran parte delle fogne cittadine. Ai vecchi tempi - quando i moscoviti erano numerosi e ben nutriti, e
riempivano per bene le fogne - la puzza sarebbe stata intollerabile; comunque ero certo che da qualche parte oltre la parete abbattuta dovesse trovarsi un cunicolo sotterraneo che portava al canale di scolo. Le stanze al piano terra erano deserte, ma sorprendentemente ben arredate: una novità, rispetto alle altre case che avevo visto. Quelle non svuotate dai proprietari al momento della partenza erano state depredate dagli invasori francesi; invece questa casa era rimasta stranamente abitabile, quasi accogliente. Tutto coincideva con l'idea che fosse un luogo in qualche modo «benedetto», protetto contro chiunque avesse osato saccheggiarlo. Anzi, alcune stanze sembravano avere persino troppi mobili, come se qualcuno li avesse spostati lì per fare spazio da un'altra parte. L'unico segno di scompiglio - ed era incongruente con il resto - erano le assi di legno rimosse dal pavimento in qualche locale. Faticai a camminare fra i travetti del soffitto sottostante rimasto esposto. D'un tratto mi tornò in mente la casa di mia nonna. Quelle stanze, come molte delle sue, erano disabitate, ma nessuno aveva tentato di chiuderle, o di proteggere o rimuovere il contenuto. Per lei sarebbe stata un'ammissione del suo declino abbandonare formalmente le stanze disabitate della casa. Per gli abitanti di questa, era probabilmente più una questione di pigrizia che di orgoglio. Immaginai che anche qui, come da mia nonna, restassero abitati solo un paio di locali nel cuore dell'edificio. Ma a differenza di un altro visitatore nella casa di un'altra nonna - come in una fiaba che lei mi raccontava - lì dentro non avrei trovato un lupo ad attendermi, ma qualcosa di molto peggio. Iniziai a salire le scale. Le ombre gettate dalla mia lampada sulla balaustrata disegnavano forme strane sulle pareti del corridoio al primo piano. A un tratto sentii un fruscio, e qualcosa fuggì precipitosamente lungo il corridoio, rifugiandosi in un angolo. Sollevai la lampada e scrutai in quella direzione. Era un ratto, terrorizzato quasi da far pena, gli occhi lucidi che riflettevano la fiammella del lume. Guardandomi intorno, mi accorsi che ce n'erano dozzine, ciascuno rivelato dagli stessi due puntini di luce. Mi parve strano. Non ne avevo visto neppure uno al piano terra, e nemmeno in cantina. Perché avevano scelto di riunirsi tutti al primo piano? Su
cosa si erano posati quegli occhi brillanti e intenti, lassù, che non potevano trovare di sotto? Fu in quel momento, mentre continuavo a salire le scale e mi portavo sopra il livello del pavimento del primo piano, che iniziai a sentire l'odore. Era il sentore di un ossario. Pensai immediatamente alla puzza del fiato di Zmeevič, che ora sapevo essere quello della carne e del sangue umano, crudi e in putrefazione, che gli risaliva dallo stomaco. Trattenendo i conati di vomito, seguii la scia fino a una stanza sulla sinistra del pianerottolo. Udii i ratti fuggire da me. Entrando nella stanza, l'odore si intensificò, e ne scoprii la causa. A terra giacevano dieci cadaveri, tutti in uniformi francesi o dei loro alleati. Erano in vari stadi di putrefazione. Di alcuni non rimanevano tratti umani riconoscibili; su altri erano ancora distinguibili le tipiche ferite al collo che tradivano il modo e la motivazione della morte. In altri ancora le ferite avevano già iniziato a svanire in una massa spugnosa di carne in decomposizione. Non ispezionai i corpi da vicino. La lampada emanava una luce fioca, e chinarmi non era un'esperienza piacevole. Mi guardai intorno. Oltre alla porta da cui ero entrato ce n'era un'altra, che conduceva a una stanza adiacente. Prima di entrare mi guardai indietro e notai come, in contrasto con la ferocia della profanazione inflitta dalle zanne del vampiro, la posizione dei corpi fosse ordinata. I dieci cadaveri erano disposti in due file lungo le pareti, come i letti in una corsia d'ospedale. Non era molto diverso dalla tavola apparecchiata per il pranzo di una casa lussuosa come quella in cui mi trovavo. I piatti e i bicchieri e le posate sono disposti con puntigliosa attenzione, ma il commensale si cura poco della disordinata carcassa del pollo che lascia sul piatto al termine del pasto. Ora capivo perché alcune stanze del piano di sotto contenessero troppi mobili. Lassù al primo piano si era dovuto fare spazio per conservare quei ricordi, come un uomo che riempia un locale di quadri per poter accogliere in un altro le teste impagliate di lupi e orsi ammazzati, incurante delle proteste della moglie sulla bruttezza di simili trofei. Quelle bestie venivano sempre imbalsamate in pose assai più terrificanti e aggressive rispetto al vero stato in cui la creatura era stata uccisa. Lo stesso non si poteva dire dei cadaveri lì
allineati con tanta precisione. Semmai era il loro aspetto indifeso, e non la loro maestà, a essere sottolineato nell'esposizione. Gli Opričniki non scorgevano nobiltà nella loro preda, né avevano mogli che moderassero il loro gusto in fatto di arredamento. L'ordine seguito nella disposizione dei cadaveri mi rivelò qualcos'altro. La stanza conteneva solo dieci corpi perché tale era la sua capienza. La porta che conduceva nell'altra sembrava chiamarmi a sé. Quando vi entrai udii alle mie spalle un fruscio: i ratti stavano tornando all'attività da cui li avevo distolti. Questo locale era più ampio e conteneva ancora alcuni mobili. In un angolo c'era una poltrona dallo schienale alto, e accanto un paravento in stile orientale. Un tavolo, delle sedie e uno sgabello contribuivano a far sembrare l'ambiente un po' più "vissuto" del precedente, anche se quella parola mi portò una smorfia alle labbra. Una seconda porta conduceva di nuovo in corridoio. Le finestre, come in tutte le stanze che avevo visto, erano nascoste da tende spesse e pesanti. Anche lì c'erano cadaveri, ma il locale non era ancora pieno. Solo due di loro portavano uniformi francesi, ed entrambi erano meno decomposti dei precedenti. Gli altri erano molto diversi: portavano abiti civili e molto trasandati. Da questo dettaglio, o semplicemente dai loro volti, capii che erano russi. Come un archeologo, avevo trovato due strati utili per tracciare una demarcazione temporale: la data in cui i francesi erano partiti e gli Opričniki avevano scelto di non seguirli, ma di fermarsi e approfittare di una fonte di nutrimento alternativa e abbondante. C'erano sette cadaveri di russi in quella stanza. I soldati ovviamente erano tutti uomini, ma quando gli Opričniki erano passati ai civili non avevano discriminato in base al sesso. Uno dei corpi era piccolo, poco più di un bambino. La testa, coperta da folti riccioli neri, giaceva inclinata nella direzione opposta alla mia, e le orribili ferite alla gola risaltavano ancor di più. Per un terribile istante temetti fosse Natalia. Balzai lì dal capo opposto della stanza e le voltai la testa per guardarla in volto; quando lo feci, le ferite sul lato del collo si richiusero. Non era lei. Non era neppure una ragazza, bensì un maschio più o meno della stessa età. Mi alzai, sollevato all'idea che il dolore del lutto non spettasse a me, stavolta, ma potesse essere trasferito ad altri, in un'altra parte della città, che
avevano conosciuto e amato quel ragazzino. Mi avvicinai al paravento e lo scostai. Dietro c'era una figura umana in piedi, e mi fissava dritto negli occhi con un volto dai lineamenti spaventosamente distorti. Sentii più forte che mai la puzza disgustosa della putrefazione e indietreggiai di scatto, gettando a terra il paravento. Mi ero sbagliato. La figura umana non era in piedi: penzolava, come un cappotto gettato distrattamente su un attaccapanni. Un lungo chiodo era stato conficcato nella parete e il cadavere vi era stato appeso sopra, tanto che la testa del chiodo si vedeva spuntare appena dal collo, sotto il mento. Era in una posizione tale da non intralciare troppo gli Opričniki durante il pasto. Il corpo era lì da parecchio, ed era putrefatto quasi quanto quelli nell'altra stanza; non portava un'uniforme francese, ma abiti civili. Le ferite sul collo avevano iniziato a decomporsi da tempo, tanto che mi stupii che il corpo fosse ancora così intatto da reggersi su quell'unico chiodo. Gran parte della carne sul volto era marcita, ma la folta barba c'era ancora, e anche gli occhi. Nonostante il buio e l'orrenda putrefazione del viso, il corpo non era irriconoscibile: i capelli e la barba e gli occhi - soprattutto i suoi occhi - lo rivelavano senza ambiguità. Era Vadim. E in quel momento mi divenne chiaro che Rodion Valentinovič non sarebbe mai stato cullato nelle braccia di suo nonno; che le loro vite si erano sovrapposte per poche ore o pochi giorni, e forse neppure quelli. Vadim non poteva aver saputo della nascita di suo nipote, e né io né nessun altro avremmo avuto il piacere di annunciargliela. Non riuscii a piangere. Sapevo da molto tempo che Vadim era morto; lo sapevo da quando avevo visto arrivare Iuda in quella casa di Kitaj-gorod senza il mio amico alle calcagna. Ogni volta che avevo tentato inutilmente di incontrarlo, dopo quel giorno, avevo provato un fremito di paura e una lieve tristezza, e avevo sospettato che la sua mancata comparsa tradisse la sua assoluta incapacità di comparire. E così, vedere il suo cadavere era più una conferma che una rivelazione. Eppure desiderai, come avevo desiderato e ancora desideravo per Maks, di aver avuto la possibilità
di dirgli addio, e avere ora l'opportunità di piangerlo. Mi voltai, e il mio piede colpì un oggetto di legno cavo. Il cadavere di Vadim non era l'unica cosa nascosta dal paravento. Avevo trovato anche ciò che ero venuto a cercare. Era una bara, ma di nuovo, come quelle di Matfej e Varfolomej, non costruita come tale: semplicemente una cassa con dimensione e forma esatte. La tirai via dalla parete, la trascinai verso il centro della stanza e aprii il coperchio. Dentro trovai il soldato che tanto tempo prima avevo visto morto ma non in putrefazione, e che quella notte avevo seguito fino alla casa in cui ora dormiva. Aveva gli occhi chiusi e le mani sullo stomaco. Levai il braccio sopra la testa, stringendo forte il pugnale di legno, pronto ad affondarlo con tutta la mia forza nel cuore del mostro addormentato. Lui aprì gli occhi. Mi fissò con lo stesso sguardo morto che gli avevo visto prima, e di nuovo sibilò l'unica parola che gli avessi mai sentito pronunciare. «Assassino!»
Capitolo 19 Calai subito il braccio sul petto della creatura, ma una mano mi afferrò il polso e mi impedì di raggiungere l'obiettivo. Un altro paio di mani mi strinsero il braccio sinistro e mi trascinarono via dalla bara, verso la parete. Il soldato russo si tirò fuori dalla cassa e mi si fece incontro. I due uomini che mi avevano immobilizzato allentarono la presa, e quello alla mia destra disse al soldato: «Tienilo fermo». Era una voce che conoscevo e non avrei dovuto sentire: la voce di una creatura che pensavo di aver visto distrutta in una cantina in fiamme molte settimane addietro. Era Iuda. Il soldato mi premette una mano sul petto, rivelando una forza erculea, e io non riuscii più a muovermi. Iuda e l'altro - quando entrò nel cono di luce lo riconobbi, era Andrej - si spostarono al centro della stanza. «Immagino sarai sorpreso di vedermi» disse Iuda, quasi con il tono di un bonario padrone di casa. «Un po'» risposi. «Dev'essere proprio irritante» riprese lui «pensare di aver ucciso quattro dei tuoi compagni - uomini che hanno risposto al tuo invito e sono venuti nel tuo Paese per combattere al tuo fianco - e poi scoprire che uno dei quattro è sopravvissuto.» Non ribattei. «È lo stesso errore che ha commesso il tuo amico Maksim» disse Andrej, che a differenza di Iuda non finse neppure di voler nascondere l'odio. «Come avete fatto a liberarvi?» chiesi. «Non ci arrivi da solo?» domandò Iuda. «Il mio buon amico Dmitrij Fetjukovič. Quando sei arrivato tu, lui mi aveva già svegliato e mi aveva aiutato a mettermi in salvo.» «In salvo dove? Non potevi uscire alla luce del giorno.» «No, certo che no, ma in questi isolati in cui gli edifici sono tutti
collegati tra loro, ci si può spostare da una casa all'altra senza mai uscire. Aiuta anche il fatto di essere un po' più muscolosi degli esseri umani. Ci permette di buttare giù una parete, all'occorrenza.» Avevo visto esempi della forza di quelle creature, nelle settimane precedenti, e la sentivo ora nella mano che mi imprigionava contro il muro. Mi domandai quali altri poteri avessero, e quali fossero i loro punti deboli. «Tutto qui?» dissi. «La vostra forza? È l'unico vantaggio che avete su di noi?» Iuda rise; il mio tentativo era stato molto ingenuo. «Vorresti forse una lista per iscritto? Tre dozzine di motivi per cui i vampiri sono meglio degli umani? Be', non ti aiuterà, Ljosa. No, la nostra forza è nulla. Penso sia solo un effetto collaterale della dieta. A renderci superiori non è qualcosa che abbiamo; è qualcosa che non abbiamo. Non abbiamo una coscienza. Le nostre azioni non sono ostacolate da regole su ciò che è giusto o sbagliato. Non temiamo punizioni né su questa terra né all'inferno. Possiamo ottenere cose che voi non sognate neppure, perché i nostri sogni non sono oppressi da dubbi morali o preoccupazioni per gli altri.» «E cos'è che avete ottenuto?» gli chiesi, con voce carica di disprezzo. Lui scelse di ignorare la domanda. «Posso fare cose di cui tu non saresti mai capace. Quando ho scoperto che Vadim Fëdorovič mi seguiva» - rivolse un cenno distratto del capo al cadavere penzolante di Vadim -, «i miei scrupoli avrebbero potuto spingermi a lasciarlo andare, invece non è stato così. Quando mi ha detto che era solo curioso di scoprire come lavoravo, avrei potuto credergli; e invece no. Quando mi ha chiesto pietà, mi ha parlato di sua moglie e della famiglia che amava, avrei potuto impietosirmi, e invece no. Invece l'ho appeso a quel chiodo laggiù, soltanto per farlo star zitto, non per ucciderlo; altrimenti non avremmo potuto assaporare il sangue fresco che tanto ci piace. «Tu avresti potuto farlo, Ljosa?» continuò. «Non credo davvero... non avresti mai voluto. Ora però ti piacerebbe farlo a me, giusto? Eppure non riusciresti nemmeno con me. Mi basterebbe supplicarti, chiedere pietà, raccontarti la mia triste infanzia nei Carpazi, e ti passerebbe la voglia.»
«Allora è per questo che è tanto difficile uccidervi?» domandai, drizzando la schiena. Il soldato, mentre ascoltava Iuda, aveva allentato un po' la stretta su di me. «Non è la vostra forza, ma le nostre debolezze?» «Esattamente. Ucciderci è molto facile, in realtà. La luce del sole, il fuoco.» Accennò al mio pugnale di legno, che era caduto a terra. «Un paletto nel cuore. Decapitazione. Tutti modi in cui l'ho visto succedere. E forse ce ne sono altri, non posso definirmi un esperto.» «Vuoi dire che non lo sai?» Ero sorpreso, ma stavo anche cercando di pungolarlo. «Come faccio a saperlo? Tu non sei un medico, vero? Non conosci ogni dettaglio di come funziona il tuo corpo, né io del mio. Di certo non conduciamo esperimenti scientifici in cerca di nuovi modi per ucciderci.» Fece un sorrisetto, come se gli fosse venuto in mente qualcosa di molto divertente. Se era così, non ne fece parola. «Perché no?» chiesi. «Sei facile da rimpiazzare.» Iuda inarcò un sopracciglio, perplesso. «Facile?» «Come il tuo amico, qui» dissi, indicando il soldato che ormai, rincuorato dalla mia sconfitta, si era dimenticato di tenermi stretto. «Basta un morso, ed ecco che c'è un umano in meno e un vampiro in più.» Iuda sghignazzò. «Ah, se solo fosse davvero così facile. Purtroppo siamo un gruppo molto esclusivo.» «Avete una lunga lista di regole per farne parte, immagino, per tener fuori gli aspiranti immeritevoli.» «Abbiamo un solo criterio. L'individuo in questione deve voler diventare uno di noi. Si potrebbe credere che un circolo con regole di ammissione così poco severe sia inondato di richieste, e invece no. Per noi l'autoselezione è l'approccio ideale. Tu, per esempio, non vorresti unirti a noi, vero?» «No» risposi, e non dovetti sforzarmi perché la mia voce suonasse profondamente convinta. «E noi non vorremmo te. Anzi, in realtà questo gentiluomo è la nostra unica recluta da quando siamo arrivati nel vostro Paese così
devoto. Non che ci capiti sempre l'occasione di chiedere.» «E cosa gli è successo?» «Ha incontrato Varfolomej. Ed è per questo, tra parentesi, che gli stai così antipatico. Dispiace a tutti noi che tu abbia assassinato Matfej e Ioann, ma lui considera Varfolomej una specie di figura paterna. Comunque, lui stava abbandonando - disertando, se preferisci - il campo di Borodino, e chi incontra per strada? Varfolomej. Fanno due chiacchiere, e lui decide che, sì, una vita di immortalità lo attira più di una vita da rjadovoj nell'esercito russo, dove verrebbe mandato a morire dal capriccio di ufficiali codardi come te.» «E quindi, solo perché voleva diventare un vampiro, lo è diventato?» «No, no. C'è un procedimento da seguire. Dapprima Varfolomej ha bevuto un po' del suo sangue, la quantità sufficiente per farlo morire, ma non subito. Poi lui, di sua volontà - e dev'essere un atto volontario - ha bevuto un po' del sangue di Varfolomej. È tradizione bere da una ferita al petto, tuttavia non credo sia un requisito necessario.» «Quindi» commentai, «sai solo questo di come funziona il vostro corpo. Sai come venite creati, ma non come vi si può uccidere.» Iuda sorrise. «Abbiamo un vantaggio su di voi: possiamo ricordare il momento, e quindi il processo, del nostro concepimento. È molto più facile per noi, quando decidiamo di riprodurci a nostra volta, rispetto a voi umani che andate a tentoni.» «Quanti figli hai generato finora, Iuda?» «Nessuno» rispose lui, e soggiunse subito, con un sorriso: «Che io sappia. E lo saprei. È difficile che la situazione che ti ho appena descritto si verifichi per errore. Alcuni di noi sono diversi, io però sono molto simile a voi umani. Mi piace inseguire e mi piace uccidere, ma non voglio preoccuparmi delle conseguenze a lungo termine.» Rifletté un momento. «È più o meno il modo in cui ti senti tu quando sei con quella signorina, Dominique. Ti piace il contatto con il suo corpo, ma non vorresti mai fare un figlio con lei.» Mi scrutò con aria interrogativa e aggrottò la fronte. «O magari sì.»
Mi diede le spalle, e gli altri due vampiri lo seguirono con gli occhi. Colsi l'opportunità e scattai di corsa verso la finestra, scrollandomi di dosso il braccio rilassato del "figlio" di Varfolomej e scavalcando i cadaveri sdraiati a terra. Secondo i miei calcoli, il sole doveva essere sorto. Afferrai una tenda e la strattonai, strappandola dagli anelli sul bastone. Andrej fece un passo verso di me, ma troppo tardi. Il bastone cedette e la tenda mi piovve in testa, bloccandomi la visuale ma rivelando la finestra. Mi scrollai rapidamente di dosso il tessuto e vidi che la stanza era ancora in penombra, illuminata solo dalla lampada. Intorno a me c'erano tre vampiri: due indifferenti alla futilità della mia azione, Iuda con la traccia di un sorriso di scherno sulle labbra. Mi voltai verso la finestra: era stata sprangata con le assi di legno tolte dai pavimenti del piano terra, e dalle fessure tra un'asse e l'altra appurai che l'alba era appena spuntata, ma nella stanza non filtrava abbastanza luce per far del male ai miei carcerieri. In un'epoca più felice, le feste organizzate in una casa come quella sarebbero durate fino al mattino. A volte lo zelante padrone di casa si sarebbe assicurato che le finestre fossero ben chiuse, e avrebbe fatto fermare gli orologi, perché gli ospiti non si avvedessero che l'alba era arrivata e non rovinassero l'atmosfera pensando fosse ora di andarsene. I miei ospiti - i nuovi, non-morti inquilini di quella casa - avevano lo stesso desiderio di oscurare la luce del nuovo giorno, ma per motivi molto diversi. Con un cenno del capo, Iuda ordinò al soldato di trattenermi. Lui mi spinse contro la parete e mi premette una mano sul petto. «Bene» dissi, travolto dalla delusione per il fallimento del mio tentativo, «suppongo che ora mi ucciderete.» Seguì una breve conversazione tra Iuda e Andrej, nella loro lingua. Penso che Iuda volesse uccidermi subito, Andrej non fosse d'accordo. Varie volte menzionò il nome di Pétr. Era strano che anche tra di loro lo chiamassero Pétr. Non conoscevano il suo vero nome, oppure era una precauzione estrema per evitare che qualcuno scoprisse la loro identità e li rintracciasse? Dal loro dialogo dedussi che aspettavano l'arrivo dell'altro vampiro. Ogni ritardo era per me un momento in più in cui godermi la vita, e ogni momento mi era
utile per progettare una fuga. «Starete stretti a dormire in tre in quella bara, no?» osservai. Iuda distolse lo sguardo da Andrej e lo posò su di me. Il mio tentativo di fuga sembrava avergli tolto il buonumore: ora mi trattava in modo più brusco. «Non abbiamo bisogno di bare per dormire, come voi non avete bisogno di un letto. Come pensi che abbiamo dormito per tutti quei giorni sulla strada per Smolensk?» Era una buona domanda. «Come avete fatto?» chiesi. «Scavavamo una buca e ci infilavamo dentro. Ci basta tener fuori il sole, non serve che sia molto profonda.» Prima che potessi rispondere, sentimmo un rumore di passi sulle scale. La porta sul pianerottolo si aprì ed entrò Pètr, subito seguito, con mia enorme sorpresa, da Dmitrij. Pétr e Iuda presero a parlare furtivamente nella loro lingua. Dmitrij si rivolse direttamente a me. «Non avresti dovuto ucciderli, Aleksej. So che non potevamo aiutare Ioann, ma Matfej e Varfolomej... quelli sono stati omicidi.» «Suppongo gliel'abbia riferito tu, di Matfej e Varfolomej» replicai. «Ho detto loro che avevi seguito Matfej. Sapevano già che era morto. Non ci hanno messo molto a fare due più due.» «Come è arrivato qui Pétr?» domandai. «È giorno, vero?» «Siamo passati per le fogne, scorrono sotto questa strada. Con un po' di fatica si riesce a entrare in qualsiasi cantina. Laggiù è come se fosse piena notte.» «Presumo abbiano accettato di risparmiarti la vita» dissi in tono amareggiato. «E anche a te, Aleksej. Non ce l'hanno con noi. Capiscono perché hai ucciso i loro compagni. Se ti avessimo raccontato la verità fin dall'inizio, non avresti reagito in modo così estremo.» Era stato ingannato; tratto in inganno da se stesso quanto dagli Opričniki, spinto a pensare che poiché la loro causa - la nostra causa - era giusta, allora anche loro dovevano essere buoni; e che se loro
erano buoni, allora ogni azione a sostegno della nostra causa era compiuta in vista del bene comune. Eppure, in tutto ciò, mi venne in mente che mi ero ripromesso di dirgli una certa cosa, quando ci fossimo rivisti. Non era niente di importante, a meno che Dmitrij avesse illuso se stesso ancor più di quanto riuscivo a credere; ma c'era poco altro da discutere. «Hai sentito che Elena Vadimovna ha avuto un maschietto?» Mentre lo dicevo pensai a Marfa, e mi venne un'idea. «Ah, bene» fece Dmitrij, «Vadim sarà contento.» Fui turbato nel constatare che non sapeva, ma anche sollevato al pensiero che il suo atteggiamento fosse dovuto all'ignoranza. «Non ne hai proprio idea, vero?» continuai, e intanto mi infilai una mano nella camicia. «Cosa vuoi dire?» «Vadim Fëdorovič è proprio laggiù» indicai la parete da cui pendeva il cadavere putrefatto. «Loro...» Iuda era rimasto ad ascoltare, ma ora mi interruppe. «Noi abbiamo deciso cosa fare» annunciò ad alta voce. Non facemmo in tempo a scoprire i suoi piani. Mentre parlava, trassi di colpo la mano dalla camicia. Sentii la catenella spezzarsi dietro il collo e tirai fuori l'icona che mi aveva donato Marfa. La piazzai davanti al viso del soldato e gli gridai, in tono minaccioso: «Sta' indietro!». Di fronte all'immagine del Salvatore, la forza del vurdalak iniziò a svanire. Mollò la presa su di me e si coprì gli occhi, indietreggiando. La reazione degli altri vampiri fu del tutto diversa. «Pazzo!» gridò Pétr all'indirizzo della creatura terrorizzata. «Non essere così superstizioso, maledizione!» aggiunse Iuda. Pétr fece un cenno della mano ad Andrej, lui attraversò la stanza a grandi passi e, senza alcuna esitazione, mi strappò di mano l'icona e la gettò in un angolo. Evidentemente non avevano nulla di concreto da temere dal simbolo religioso, ma il vampiro giovane e inesperto riteneva di sì, e questo era bastato a spaventarlo. Per fortuna, quel momento di distrazione mi diede il tempo di piazzare la mano su
qualcosa che invece poteva sortire un effetto molto reale su di loro. Quando Andrej si voltò di nuovo verso di me, afferrai la spada e, con un unico movimento di rovescio, la sguainai e lo colpii alla gola. Da quando Iuda l'aveva citata, non vedevo l'ora di provare la decapitazione come metodo per sbarazzarmi di quelle creature. Come sapevo dalle mie esperienze di guerra, non era un'impresa semplice. La lama scivolò sul pomo d'Adamo e dopo aver tagliato la trachea affondò fino a metà del collo. La estrassi con uno strattone. La ferita non era mortale. Andrej si chinò in avanti e si portò le mani sul taglio lungo e profondo mentre un torrente di sangue gli sprizzava tra le dita. Se non altro l'avevo reso inoffensivo, e la sua morte non era la mia preoccupazione più immediata. Corsi di nuovo alla finestra, ma stavolta saltai prima sulla seduta e poi sullo schienale della poltrona lì accanto, spiccando poi un balzo più in alto che potei. Affondai la punta della spada nelle assi di legno per darmi la spinta verso l'alto. Con la mano sinistra sfiorai il bordo superiore di una delle assi che coprivano il vetro, e con le due dita restai appeso lassù, per cinque o forse dieci secondi, a osservare la scena sotto di me. Da un lato della stanza, Dmitrij, Iuda e Pétr erano immobili, non per lo stupore, ma in attesa di capire cosa stesse per succedere. Dall'altro lato, Andrej si era appoggiato con la schiena alla parete, reggendosi con la mano sinistra mentre la destra cercava inutilmente di contenere il flusso di sangue che gli sgorgava dalla gola. Accanto a lui stava accovacciato il soldato, le braccia sollevate a proteggersi la testa, forse spaventato dalla mia icona o forse dalla ferita orribile che avevo inflitto ad Andrej. Reggevo tutto il peso del mio corpo su quelle due dita, e non ce la facevano quasi più. Sotto di me, Iuda e Pétr si stavano quasi leccando le labbra in attesa della mia caduta. Mi sentii scivolare lentamente verso il basso; ma non erano le mie dita a cedere, era l'asse. Con un rumore di chiodi estratti dal legno, la tavola di parquet a cui ero aggrappato iniziò a cedere. Mentre il lato superiore si ripiegava di novanta gradi verso l'interno della stanza, spostandosi prima in senso orizzontale e poi accelerando in una repentina discesa verticale, io caddi con lei.
Atterrai in piedi, ma rotolai subito su un fianco, riuscendo a tenere salda la presa sull'elsa della spada. Dove prima c'era un'asse di legno, ora un raggio di sole fendeva la stanza, tagliandola a metà con una striscia di luce larga quanto un muro di mattoni. Per i vampiri era altrettanto insormontabile. Ero atterrato dal lato sbagliato, ai piedi di Iuda e Pétr, ma per me la barriera non era più impenetrabile dell'aria. Rotolai fino all'altro capo della stanza e mi rimisi in piedi. Iuda era furioso. Aveva dipinta in volto un'espressione di odio indicibile, e ci volle la forza combinata di Pétr e Dmitrij per impedirgli di attraversare il raggio di sole che l'avrebbe ucciso. Colpii Andrej allo stomaco con l'elsa della spada e lo vidi piegarsi in due per il dolore, portandosi le mani dalla gola allo stomaco. Lasciò esposta la nuca, su cui affondai la lama della mia sciabola con la forza di entrambe le mani. Nemmeno così riuscii a staccare la testa dal collo. Sentivo che la spada era intrappolata fra due vertebre, incapace di muoversi avanti o indietro. Con un movimento del polso impressi alla lama una rotazione decisa. Udii lo schiocco dei legamenti rimasti a sostenere la testa, e la lama si liberò. La testa di Andrej si ridusse in polvere prima ancora di toccare terra. Il corpo si raddrizzò e portò le mani dove un tempo c'era il volto. Anche il loro tragitto si interruppe a metà: si disseccarono e si disintegrarono mentre il corpo cadeva in ginocchio, in un movimento fluido. Prima di toccare terra si era già dissolto in una polvere sottile, che si posò, anziché cadere, sul pavimento. Durante la discesa il cappotto, la camicia e i calzoni precipitarono per conto proprio come un mucchio di panni da bucato, come una marionetta a cui fossero stati tagliati i fili. Gli sguardi d'orrore sui volti di Pétr e Iuda non erano nulla in confronto a quello che si disegnò sulla faccia di Dmitrij. Negli altri due c'era rabbia e desiderio di vendetta, in lui c'era genuino sgomento, mentre vedeva l'amico Andrej massacrato davanti ai suoi occhi, e l'amico Aleksej operare il massacro con tanta evidente soddisfazione. «Prendilo, Dmitrij Fetjukovič!» ringhiò Pétr. «Solo tu puoi.» Dmitrij si avvicinò al muro di luce, ma sembrava restio a varcarlo.
Aveva le lacrime agli occhi. «Perché, Aleksej?» chiese. «Proprio tu, che sei un uomo illuminato. Non devi sguazzare nei pregiudizi e nelle superstizioni dei nostri nonni. Loro sono venuti per aiutarci, per combattere con noi, come se fossero i nostri fratelli. Per tutta la vita hanno affrontato l'odio degli ignoranti, e ora tu - anche dopo che ci hanno aiutati a cacciare i francesi -, neppure tu sai offrire loro un ringraziamento migliore che ucciderli.» Sguainò la spada e mosse un passo verso di me, fermandosi in mezzo alla barriera che divideva la stanza: un raggio di sole gli si posò sulle cicatrici e sulle lacrime. «Uccidilo!» ringhiò Iuda da dietro. «Non voglio scontrarmi con te, Dmitrij» dissi io, abbassando la spada, ma non così pazzo da rinfoderarla. «Ma se sarò costretto a farlo lo farò, e vincerò.» «Non credo potresti uccidermi, Aleksej! Ma ora che ho visto cos'hai fatto ad Andrej, posso ancora illudermi di conoscerti?» «Guardati intorno, Dmitrij» insistetti. «Guarda i cadaveri a terra. Non sono francesi, sono russi: russi innocenti. Queste creature non uccidono per aiutarci a liberare la patria, uccidono per mangiare, e divorano qualunque preda gli capiti a tiro.» Lui iniziò a guardarsi intorno, contemplando la verità delle mie parole. Quasi sotto i suoi piedi giaceva il corpo che per un attimo avevo identificato come Natalia. Gli voltò la testa con lo stivale per vederlo in volto. Se sospettava che fosse lei, non mostrò sollievo nel constatare che non lo era. Ma forse comprese che avrebbe potuto benissimo esserlo. Dietro di lui, Iuda giunse alla conclusione che Dmitrij iniziava a tentennare. Fece un passo verso di lui, ma nello stesso istante Dmitrij si mosse in avanti ed entrò nella mia metà della stanza. «Dobbiamo pur mangiare, Dmitrij» si lagnò Pétr alle sue spalle. «Questi pochi contadini ci servivano per sopravvivere finché fossimo rimasti in città.» «E Vadim?» chiesi a Pétr.
«Vadim?» domandò Dmitrij. «Laggiù» ribattei io con un cenno del capo. Pétr e Iuda non trovarono altro da dire, mentre Dmitrij ispezionava i resti del suo ufficiale comandante, commilitone e amico. Alzò una mano sul suo viso e lanciò un grido di dolore assoluto. Gli occhi morti di Vadim risposero al suo sguardo senza offrire perdono. Dmitrij sollevò la spada e iniziò ad avanzare verso i due vampiri; lo trattenni prima che potesse tornare nella loro metà della stanza. «Avevi promesso che stavolta vi sareste controllati» disse, rivolto a Pètr. «L'ho fatto» rispose lui, in modo ambiguo. «È troppo tardi per fingerti sorpreso, Dmitrij» intervenne Iuda in tono più deciso. «Hai scelto di sedere alla tavola del demonio. Sapevi chi siamo, cosa facciamo.» Credo che le sue parole fossero dirette più a me che a Dmitrij, e le trovai giuste. Se la realtà della morte di russi innocenti e di Vadim era stata una sorpresa per Dmitrij, allora era stato ingannato solo da se stesso, non dagli Opričniki. Non si sarebbe potuto dire che lui fosse una di quelle persone che vedono solo il buono negli altri, però in quel caso aveva scorto soltanto i vantaggi per sé, e per il suo Paese, che poteva ottenere collaborando con loro. Tuttavia, se le parole di Iuda erano tese a distruggere la mia fiducia in Dmitrij, era ugualmente chiaro che il mio amico non sarebbe più riuscito a fidarsi degli Opričniki. Forse avevano ragioni migliori per uccidere Vadim, o per uccidere me; se però lui fosse rimasto con loro, prima o poi sarebbe scoccata anche la sua ora. «Mi dispiace, Aleksej» mormorò Dmitrij. Era una disperatamente inadeguata, ma era l'unica che si potesse dire.
frase
«Credo fareste meglio ad andarvene» dissi io, rivolto ai due vampiri. «Andarcene?» domandò Pétr. «Perché dovremmo? Siete voi quelli in trappola.» Apparentemente era vero. Le due porte della stanza erano nella loro metà. Loro potevano uscire, se avessero voluto,
mentre noi potevamo farlo soltanto attraversando il muro di luce, con il rischio che ci attaccassero. «Dobbiamo soltanto aspettare che cali la notte» proseguì Pétr. Iuda, tuttavia, lanciava occhiate nervose alla stretta finestra, al raggio di luce e alle porte. «Non so bene» dissi io, «se le creature come voi credono ancora che il sole giri intorno alla terra o che la terra giri su se stessa. Ma sta di fatto che il sole va da est a ovest una volta al giorno. E ciò significa che quel raggio di luce si sposterà da ovest a est, verso di voi. A mezzogiorno vi resterà una sola porta da cui uscire. A metà pomeriggio non ne avrete nessuna. Verrete lentamente imprigionati nell'angolo, finché la luce del sole non lo colpirà, e allora sarete spacciati.» A meno che, naturalmente, il cielo non si rannuvolasse. Non sapevo se la luce indiretta di una giornata bigia fosse sufficiente a ucciderli. Per questo giocai la mia carta in quel momento, sperando di costringerli a fuggire. «Oppure potremmo semplicemente tirar giù subito le altre assi dalla finestra» suggerì Dmitrij. Era un metodo più efficace, ma in un certo senso meno elegante. A ogni modo, bastò a persuadere gli Opričniki. Pétr era già uscito dalla stanza. Iuda batté i talloni e affettò un inchino formale. «Ci incontreremo ancora, Aleksej Ivanovič.» E se ne andò. Dmitrij fece per inseguirli. «Sarà meglio aspettare un po'» suggerii. Lui annuì. «Lasciamo entrare un po' più di luce» aggiunsi, e mi accostai alla finestra. Prima che potessimo metterci al lavoro sulle assi, udimmo un mugolio proveniente da sotto il paravento orientale che avevo rovesciato. Sguainai la spada e la usai per sollevarne il bordo. Sotto c'era la sagoma rannicchiata del soldato-vampiro, raggomitolato quasi in una palla, le mani alzate a coprirsi la testa. Tremava di paura. Era rimasto lì per tutto il tempo, dimenticato dagli altri umani presenti nella stanza; avrebbe potuto ucciderci, se ne fosse stato capace. Forse Iuda e Pétr ci avevano fatto affidamento, o forse anche loro si erano scordati di lui.
Lo pungolai con la spada e lui alzò la testa: i suoi occhi mostravano che era un vampiro da troppo poco tempo per aver dimenticato la sensazione del terrore. «Come ti chiami?» gli chiesi. «Pavel» balbettò. Negli occhi gli vidi balenare una nuova emozione: la speranza, la remota possibilità che quello non fosse il suo ultimo giorno. Si scoprì che Iuda aveva ragione: gli scrupoli mi impedivano di uccidere. Se Pavel avesse opposto resistenza, o semplicemente si fosse trincerato in un coraggioso silenzio, forse avrei trovato il coraggio. Ma ora, benché sapessi che era un vampiro, scorgevo in lui le tracce dell'umanità perduta di recente, e non mi sentivo in grado di levare la mano contro di lui. Non toccò a me prendere quella decisione. Con un fruscio che fendette l'aria, il mio pugnale di legno discese sulla schiena ricurva di Pavel, brandito da Dmitrij con ambo le mani. Affondò in profondità tra le costole del vampiro. Pavel emise un singulto e si tirò su in ginocchio, portandosi le mani alla schiena per cercare di estrarre l'arma. Dmitrij diede un'altra spinta e poi ruotò: la lama di legno si spezzò in due. Un rivolo di sangue comparve sulle labbra di Pavel e gli si velarono gli occhi mentre cadeva in avanti. Diedi un colpetto al cadavere con il piede. Sembrava ancora fatto di carne e sangue. A differenza degli altri, non si tramutò immediatamente in cenere e polvere. «Non era un vampiro da molto tempo» disse Dmitrij, leggendomi nel pensiero. «Cosa facciamo adesso?» chiesi. «Pétr mi ha detto che volevano lasciare Mosca.» «Per tornare da dove sono venuti?» «No. Come i francesi, neppure loro intendono ritirarsi nella stessa direzione da cui sono avanzati» spiegò Dmitrij.
«Allora da che parte andranno?» «A sudest. In pratica seguiranno Bonaparte, almeno per un po'. Cosi avranno una riserva di cibo, con i soldati francesi.» «O con i russi» aggiunsi io. Lui non commentò. «Credi davvero a Pètr quando dice che vogliono andarsene?» «Penso di sì. È quel che farei io.» «Allora li seguiamo?» «Suppongo di sì» rispose Dmitrij, annuendo pensieroso, «oppure li lasciamo andare.» Raggiunsi l'angolo della stanza e mi chinai. «Che stai facendo?» «La mia icona» dissi. Feci un nodo alla catenella spezzata e me la infilai al collo. L'icona mi si posò sul petto un po' più in alto rispetto al solito, ma ci avrei fatto l'abitudine. Tornai a guardare il corpo di Pavel. La decomposizione procedeva più lentamente che negli altri vampiri, ma era comunque più rapida di quanto avessi mai visto in un essere umano. Mentre io e Dmitrij parlavamo, si era putrefatto tanto da essere indistinguibile dagli altri cadaveri nella stanza accanto, le cui morti dovevano risalire a poco dopo la sua. A differenziarlo restava soltanto la posa disordinata del corpo. Andammo in cantina, portando con noi il cadavere di Vadim Fëdorovič. Capii, e Dmitrij lo confermò, che la parete abbattuta che dava sulla cantina della casa accanto era parte del tragitto percorso da lui e Pétr per entrare nell'edificio senza uscire all'aria aperta. Quindi era da lì che Pétr e Iuda erano usciti. Guardai al di là, e di nuovo sentii la puzza della fogna sottostante, che ora sapevo dovuta non solo a un miasma di rifiuti umani, ma anche alla putrefazione dei corpi. Udivo in lontananza uno scroscio d'acqua, ma il buio era totale. Era l'habitat degli Opričniki, e io scelsi di non seguirli. La paura mi implorava di lasciare lì il corpo di Vadim e di tornare
alla luce del sole prima possibile, ma sarebbe stato indegno da parte mia. Vadim meritava di essere seppellito, e quella cantina era un posto adatto come qualsiasi altro. Ma scavammo la fossa in fretta, gettandoci continuamente un occhio dietro le spalle verso la breccia scura nel muro, temendo che i vampiri rientrassero da dove erano usciti.
Capitolo 20 Tornammo alla locanda. Il proprietario, ospitale com'è tipico della sua professione, fu molto felice di rivedere Dmitrij. Lo riempì di domande su dov'era stato e cosa aveva fatto; domande alle quali anch'io speravo di trovare presto una risposta. Ma Dmitrij diede informazioni vaghe. «Oh, capitano Danilov» mi richiamò il locandiere mentre tornavo alla mia camera. «Sì?» «La vostra signorina è passata ieri sera. Ho dovuto dirle che non c'eravate.» «A che ora?» «Dopo mezzanotte, signore.» «Ha lasciato detto qualcosa?» «Niente, signore, è tornata a casa.» «Grazie.» Ero sfinito, e il mio primo pensiero fu che qualche ora di ritardo nel rivederla non sarebbe stata la fine del mondo. Salii in camera e mi sdraiai sul letto. Avevo appena posato la testa sul cuscino quando mi venne in mente cosa Domnikiia poteva aver pensato. Sapeva con quali creature avevo a che fare, e sapeva che ero uscito per dar loro la caccia: doveva aver concluso che li avessi trovati, o che loro avessero trovato me. (Io stesso non ero sicuro di come fossero andate le cose.) Più tardavo a vederla, più si sarebbe preoccupata. Mi tirai giù dal letto e andai a cercarla. Era presto, e il bordello non era ancora aperto. Bussai al portone e mi aprì Pètr Petrovič. «Siamo chiusi» disse. «Sono venuto a parlare con Dominique» gli dissi io, cercando di entrare. «Ah, siete voi. Questo è un luogo d'affari, sapete. Non potete venire quando vi pare. Non senza pagare.» Lo superai, scostando un lembo del cappotto per assicurarmi che
vedesse bene la spada, e mi avviai su per le scale. «Se Dominique vi piace così tanto, potremmo raggiungere un accordo più duraturo» mi gridò dietro. Domnikiia era ancora a letto, ma sveglia. Si alzò a sedere quando entrai. Mi sedetti sul letto accanto a lei. Mi scrutò in silenzio, cercando sul mio volto indizi di quanto era accaduto. «Abbiamo trovato Vadim» le dissi. «Davvero?» Sembrava contenta. Per un attimo non mi resi conto di quanto fossi stato ambiguo. «No, non intendo quello. È morto.» Le posai la testa sulla spalla e le lacrime mi scesero sulla guancia, ma riuscii a mantenere la voce ferma, «È morto poco dopo l'ultima volta che lo vidi.» Lei mi accarezzò i capelli e mormorò parole di conforto. Non era stata mia intenzione entrando nella stanza, ma la spinsi sul materasso e feci l'amore con lei in modo molto egoista. Ne trassi poco piacere, e lei ancor meno, ma riuscii per un momento a dimenticare i pensieri più elevati e ogni emozione umana, a scendere al livello di un animale, al quale importa solo l'istante presente. Per pochi istanti potevo dimenticarmi del futuro, delle mie responsabilità, delle persone intorno a me. È così che un soldato fotte una donna che non ha mai visto prima, sapendo che mai la rivedrà. Forse la pagherà, forse no. Avevo pagato Domnikiia molte volte prima di quel giorno, ma mai avevo avuto così poco riguardo per la persona sotto di me. Non era per causa sua: era perché volevo dimenticare lei insieme a tutto il resto. Quanto a lei, posso solo immaginare che fosse abituata a queste cose: benché non con me, speravo. Penso fosse felice di rendermi quel servizio, come una donna che prepara la cena al marito o gli lava i vestiti. Per me, la cosa non riguardava lei, e qualsiasi altra donna in quella casa avrebbe potuto prendere il suo posto. Ma lei l'avrebbe considerato un tradimento, come se un marito scegliesse un'altra donna per farsi preparare la cena o lavare i vestiti: un tradimento non del cuore, ma della coppia. «Cosa ne sarà di noi, Ljosa?» mi chiese lei, dopo. Era la domanda che ogni marito infedele doveva temere.
«Non ne ho idea.» «Neppure io» disse lei. «È questo il problema.» «È un problema?» «Per ora no.» «C'è ancora una guerra, potrei morire domani.» Decisi di concedermi un piccolo margine. «O il giorno dopo.» «Lo so. Per questo non è un problema, ma un giorno lo diventerà.» «Solo se sopravviviamo entrambi» dissi con una risata senza allegria. «O se la guerra non finirà mai.» «Quindi vuoi una guerra eterna, e noi due sotto costante minaccia di morte, ma senza mai morire davvero, in modo da poter restare insieme senza farci pungolare dalla coscienza?» chiesi in tono leggero, ma nel pronunciare la parola coscienza mi sentii raggelare al ricordo di un'altra conversazione recente. «Ecco, così farebbe al caso nostro» rispose lei con un largo sorriso. «Farò due chiacchiere con le teste coronate d'Europa, allora. Vediamo se ci danno una mano.» «Sembra che se la cavino molto bene già ora.» Era una conversazione sciocca, banale come tante altre che avevamo avuto in passato, e che ogni volta ci consentivano di dimenticare la realtà; ma quel giorno non riuscimmo a tirarci su di morale. Mi alzai a sedere sul bordo del letto e guardai il tavolo. C'era una lettera. Non riuscivo a scorgerne il contenuto, ma la firma era visibile: Iuda. «Cos'è questa?» chiesi, prendendola in mano. «Ah, sì» disse Domnikiia. «Stavo per dirtelo. Molto misteriosa, soprattutto provenendo da un uomo che, a quanto mi hai detto, è morto.» «Avresti dovuto dirmelo» sbottai.
«L'avrei fatto» insistette lei, turbata dal mio tono, «se me ne avessi lasciata la possibilità. Polja - una delle ragazze - l'ha trovata stamattina quando è scesa ad aprire. L'avevano infilata sotto la porta, con il mio nome sopra. Leggila, tanto è più per te che per me.» Aprii la lettera e la scorsi in silenzio. Mademoiselle Dominique, sono certo che avrete appreso dal nostro comune amico Aleksej Ivanovič che la nostra missione nel vostro Paese non è andata secondo i piani originariamente concepiti. Con mio grande rammarico, questo stato di cose ha condotto a orribili malintesi tra me e Aleksej Ivanovič, per i quali devo fin d'ora confessare la mia parte di colpa. Purtroppo i rapporti fra noi si sono guastati a tal punto che non siamo più neppure in condizioni di comunicarci le richieste più semplici; e sono certo che capirete come su queste basi sia difficile trovare un rimedio alla situazione. Vi supplico dunque, Mademoiselle Dominique, in quanto cara amica di Aleksej Ivanovič (e, oso sperare, anche mia), di agire da intermediaria per contribuire a risanare questa triste rottura fra due compagni un tempo sinceri. Se desiderate aiutarmi, vi chiedo semplicemente di trasmettere ad Aleksej Ivanovič la mia richiesta di un incontro alle sette di sera del ventotto ottobre presso il crocevia a sud del villaggio di Kurilovo. Credo lui conosca questa località come Г4, ma non vi tedierò con i dettagli sul perché sia designata in questo modo. Vi prego di esprimere ad Aleksej Ivanovič l'assoluta sincerità del mio desiderio di incontrarlo, e la mia speranza che pochi minuti di conversazione bastino a sciogliere ogni malinteso che ci ha condotti alla spiacevole rottura dei nostri rapporti. Se Aleksej Ivanovič non vuole o non può venire, vi prego comunque di rassicurarlo circa la mia rinnovata devozione per lui e il suo Paese; e vi prego anche, Mademoiselle Dominique, di apprezzare l'affetto sincero che nutro per la vostra persona. Il vostro devoto amico, Iuda «Se ne intende di smancerie» osservai sdegnato. «Mi sembra
gentile a fare questo sforzo.» «Stai scherzando, vero?» Lei mi posò il mento su una spalla e sentii che mi abbracciava intorno alla vita. «Sì, Aleksej Ivanovič, sto scherzando.» «Voglio dire, l'hai visto solo una volta, e per cinque minuti.» «Verissimo» convenne lei in tono convinto. «Inoltre, come se non bastasse, è un vampiro.» «Mi prendete in giro, Mademoiselle Dominique?» «Be', tu parli come un marito geloso che legge la mia corrispondenza.» «Quando l'hai ricevuta?» le chiesi. «Te l'ho detto: stamattina, quando Polja si è alzata.» «Che ore erano?» «Circa le dieci. Lavoriamo fino a tardi, qui dentro.» «E a che ora avete chiuso ieri sera?» «Verso le due.» «Quindi la lettera potrebbe essere arrivata in qualsiasi momento tra le due e le dieci?» «Sì» rispose lei, con ostentata pazienza. «È importante?» Era importantissimo. Se Iuda aveva consegnato la lettera prima del nostro incontro di quella notte, allora sussisteva un certo numero di possibilità. Il nostro incontro poteva non essere stato premeditato come sembrava, almeno non da parte di Iuda, oppure poteva darsi che lui prevedesse già una mia fuga. Una terza possibilità era che la lettera non fosse destinata a me, ma solo a Domnikiia, a cui dopotutto era indirizzata. E se Iuda voleva persuaderla ad andare all'appuntamento al posto mio? Sembrava improbabile. Oppure voleva crearsi una patina di innocenza agli occhi di Domnikiia quando si fosse scoperta la mia morte? Questo era già più credibile. D'altro canto, se la lettera era stata consegnata quella mattina, dopo che io e Iuda ci eravamo visti, allora avrebbe avuto più senso; ma poiché Iuda non poteva muoversi alla luce del giorno, un essere
umano avrebbe dovuto recapitarla per lui. Aveva reclutato un ragazzino per poche copeche, o aveva servitori umani di natura più devota? Il primo sospettato era Dmitrij, ma Dmitrij era rimasto con me per tutto il tempo. «Hai intenzione di andare all'appuntamento?» mi chiese lei. «Penso di sì.» «Non sarà pericoloso?» «Porterò Dmitrij con me.» «Vuoi dire che Dmitrij è a Mosca? Pensavo si fosse ricongiunto all'esercito.» «No, aveva altro da fare.» «Ti fidi di lui?» «Ora sì.» «Prima no?» «Prima anche, ma mi sbagliavo.» «E ora non ti sbagli?» «Ora lui ha le mani legate.» Domnikiia esitò un istante prima di chiedermi: «Quant'è lontano Kurilovo?». «Non molto» risposi. «Partiremo dopodomani. Adesso è meglio che vada.» Ci salutammo e io uscii, portando con me la lettera di Iuda. Tornai alla locanda e dormii per quasi tutto il pomeriggio. Al calar della sera sentii bussare alla porta. Era Dmitrij. Gli mostrai la lettera. «Be', non ci andrai, vero?» disse, come se fosse una domanda retorica. «Sì, invece, penso che ci andremo.» «Tutti e due?» «Sì, Dmitrij, tutti e due.» «Ma è una trappola così evidente» insistette lui. «Conosci il crocevia di cui parla?»
«No, non credo.» «È un ottimo posto per incontrare qualcuno di cui non ti fidi. È aperto, si vede bene tutt'intorno. Se porta qualcun altro con sé ce ne accorgeremo.» «Pensi che lui lo sappia?» «Può darsi» risposi. «Forse sono passati di lì, nell'ultima parte del viaggio da Tula. Credo abbia scelto quel luogo perché entrambi possiamo sentirci sicuri.» «Pensi abbia paura di te?» domandò Dmitrij, e la sua voce tradì il terrore che provava per gli Opričniki, una sensazione che aveva covato per tutto il tempo, ma era emersa solo quando aveva scoperto che erano suoi nemici. «Lo spero» risposi. «Comunque non mi sembra una buona idea. Sono ripartiti da Mosca, e presto lasceranno il Paese. Ne sono morti abbastanza, così non torneranno. Lascia che qualcun altro si occupi di loro. Lascia che lo facciano i francesi.» «Non credi torneranno?» «Perché dovrebbero?» «Per vendicarsi. Guarda cos'hanno fatto a Maks. Lui ne aveva uccisi tre, io ne ho uccisi quattro, e anche tu ne hai ucciso uno.» «Sono pragmatici, non vendicativi.» «La maggior parte, forse; ma perché Iuda ci avrebbe convocati a questo incontro se progettava di andarsene? Se non ci andiamo, lui dovrà tornare qui. Già il fatto che abbia indirizzato la lettera a Domnikiia lascia pensare che lei possa essere a rischio.» «Suppongo di sì» rispose Dmitrij, pensieroso. «Hai cercato di rintracciare Boris apparentemente per cambiare argomento.
e
Natalia?»
chiesi,
«Sono tornato dove alloggiavano, ma i francesi avevano distrutto tutto.» «Ho scoperto che la loro bottega è andata in fiamme il primo giorno degli incendi.»
«Lo so, me l'ha detto Boris.» «Ma ho incontrato una persona che li ha rivisti dopo la partenza di Bonaparte.» «Davvero? Dove?» «In giro.» «In quella casa, stamattina, pensavo che uno dei cadaveri fosse...» Dmitrij non riuscì a finire la frase. «Lo so, l'ho pensato anch'io per un momento.» «Allora, quando partiamo per Kurilovo?» disse lui dopo una breve pausa. «Partiamo dopodomani, il ventisei. Avremo due giorni per arrivare lì.» Domnikiia riuscì a venire da me quella sera. Come da mie istruzioni, il suo arrivo fu seguito a ruota da quello del locandiere, che ci portò la cena e una bottiglia di vino. Sedemmo al piccolo tavolo nella mia stanza e parlammo di cose poco importanti. Alla fine, non ebbi scelta: dovetti parlare del mio viaggio a Kurilovo. «A che ora partite, tu e Dmitrij?» chiese lei. «All'alba. Dovremmo essere lì domenica, così avremo un giorno intero per sistemare le cose prima dell'incontro di lunedì.» «Ti dispiace se domani sera non vengo, allora?» «Perché? Non ti piace l'idea di essere svegliata così presto?» la canzonai. «Non mi piace l'idea di svegliarmi e vederti partire, o scoprire che sei già partito.» «Va bene» dissi, anche se la prospettiva mi intristiva più di quanto avessi immaginato. «È egoista da parte mia, lo so.» «Non importa. Se tu fossi qui, probabilmente non riuscirei a partire.» «Ma potrai avermi tutta per te domani. Non vado a lavorare.»
«Puoi?» «Posso fare quel che mi pare. Pétr Petrovič è terrorizzato da te.» «Sul serio?» Ero sorpreso. «Gli ho a malapena rivolto la parola.» «Sì, ma io gli ho detto alcune cose, che sei un grande soldato e così via... tutte esagerazioni, naturalmente.» «Ah, grazie.» «Comunque, lui ha bisogno di me. Sono la ragazza più popolare, in quella casa.» Sentii un nodo allo stomaco, nell'essere messo di fronte a una realtà di cui ero già pienamente consapevole. «Lo dici per farmi stare meglio?» le chiesi, cercando di mantenere il tono leggero della conversazione. «Non meriti forse il meglio?» disse lei con un sorriso. Mi alzai e cominciai a sparecchiare il tavolo. Poi vidi Domnikiia impallidire. Seguii il suo sguardo fino alla nuova spada di legno su cui stavo lavorando, e che avevo lasciato incompiuta sulla scrivania all'angolo della stanza. «Cos'è successo all'altra?» domandò. «L'ha rotta Dmitrij.» Lei intuì che non volevo rivelarle altri dettagli, e non me li chiese. «Devono essere molto fragili» disse semplicemente. «Non è mai un problema costruirne un'altra» le dissi io. Trascorremmo la giornata successiva a passeggiare senza meta per la città. Le temperature erano sotto lo zero, e uno strato di neve ricopriva il terreno - nulla, rispetto a ciò che sarebbe venuto dopo. Entrambi indossavamo cappotti pesanti per tenerci caldi. «Odio vedere Mosca cosi» disse Domnikiia. Camminavamo già da un po'. «Così devastata, così vuota.» Non la percepiva come me. Anch'io notavo le case bruciate e le strade deserte, ma al di sopra scorgevo già i segni di una ricrescita. Come i primi germogli della primavera: non erano vistosi, ma erano
dovunque e inarrestabili, per chi avesse occhi per vederli. A ogni angolo di strada qualcuno stava ristrutturando una casa o riaprendo una bottega. Neppure il gelo dell'inverno poteva minare il mio ottimismo. Ci sarebbe voluto del tempo, ma inevitabilmente la ripresa ci sarebbe stata. Eravamo arrivati a un cortile di Kitaj-gorod che conoscevo bene. «È qui che siamo stati dopo l'incendio» spiegai a Domnikiia, «con Boris Michajlovič e sua figlia.» «Ah, ora che ci penso: una delle mie colleghe la conosce.» «Conosce Natalia?» «Sì, stavo per dirtelo.» «Dimmelo adesso. Stanno bene?» «Sì, sì. La mia collega l'ha vista pochi giorni fa.» «Hanno trovato un posto dove vivere?» «Vivono con un altro calzolaio Zamoskvorecje. Andiamo a trovarli?»
sulla
via
Ordjnskij,
a
«No» risposi io. «Non oggi.» «Ma lo dirai a Dmitrij?» «Sì, sì.» Però non avevo intenzione di dirglielo subito. Ci salutammo davanti al suo portone sulla via Degtjarnij. La piazza era coperta di neve, e non potei non ripensare alla prima volta che avevo posato gli occhi su di lei, poco meno di un anno prima. Raccolsi una manciata di neve e ne feci una palla, e la lanciai all'altro capo della piazza senza mirare a niente in particolare. Lei sorrise - ricordava! - e mi prese per mano. «Mio salvatore» disse, ma poi si fece più seria. «Per quanto tempo starai via?» «Due giorni per andare, due per tornare.» «Allora tornerai?» «Certo che sì» dissi con un sorriso. «Subito?» «Non posso promettertelo, dipende da cosa succede. Ma
tornerò.» «E poi resteremo insieme per sempre?» mi chiese con un sorriso malinconico, sapendo che era un sogno irrealizzabile. La mia unica risposta fu baciarla. Mentre me ne andavo, mi voltai e la vidi seguirmi con lo sguardo fino in fondo alla strada. Il giorno dopo, all'alba, io e Dmitrij montammo a cavallo e ci dirigemmo a sud. Mi tornò subito in mente un'altra partenza da Mosca, mesi prima, quando in quattro avevamo lasciato la città, e i nostri cuori erano ricolmi della speranza che gli Opričniki con cui lavoravamo (erano dodici, allora) ci avrebbero aiutati a liberare la Russia dagli invasori francesi. Adesso eravamo solo in due, e loro erano rimasti in cinque: in proporzione le loro perdite erano poco maggiori delle nostre. Se avessimo continuato allo stesso ritmo avremmo vinto noi, ma di poco - e a quale prezzo? Durante il viaggio parlammo. «Dmitrij» gli chiesi io, «cosa hai fatto dopo aver lasciato JurevPolskij?» La domanda era posta in tono innocente, ma lui sapeva quanto me che gli stavo chiedendo di fare rapporto, anzi lo stavo quasi interrogando. «Be', ovviamente non ho raggiunto l'esercito. Ho costeggiato Mosca, da sud, e poi sono andato a cercare Pétr.» «Non è facile trovarli, se non vogliono farsi trovare.» «Io e Pétr ci eravamo accordati separatamente. Gli incontri con voi avevano soprattutto un intento dimostrativo, dal loro punto di vista.» «Capisco.» L'avevo sospettato. «Ma perché a loro dovrebbe importare di noi?» Me lo chiedevo da tempo. Non capivo ancora quale fosse la motivazione che li aveva spinti a venire a Mosca. «Forse tu non te ne capaciti, ma loro credono davvero nella causa. Zmeevič ci crede, in ogni caso, e gli altri hanno paura di lui» spiegò Dmitrij. Cambiava umore quasi a ogni frase, oscillando tra l'autocommiserazione e l'autoassoluzione.
«A me sembra credano più nella necessità di placare l'appetito, che non in una causa qualsiasi» osservai. «Come qualunque soldato. Come te e me. Gli piace combattere, ma amano anche l'idea di avere una buona causa per cui combattere.» Sbuffai per esprimere il mio disaccordo. «Oh, suvvia, Aleksej» proseguì Dmitrij. «Combatteresti questa guerra se non fosse per qualcosa in cui credi? Per loro è la stessa cosa.» «Hanno detto chiaramente di essere diversi da me e te. Per loro, uccidere viene prima di tutto. Non puoi convincermi che siano solo una banda di Don Chisciotte dei giorni nostri, in cerca di una causa nobile per cui impiegare le loro abilità di cavalieri. Hai dimenticato cosa abbiamo visto in quella stanza?» «No, non l'ho dimenticato» replicò lui, scuro in volto. «Ci sono due fazioni: Pétr contro Iuda. Quelli che già conoscevo - Ioann, Andrej e Varfolomej - erano tutti schierati con Pétr. Ora che è rimasto solo lui, mi sembra si sia praticamente allineato a Iuda.» «Con tanta facilità?» «Nessuno di loro ha una personalità molto forte, come sono certo che avrai notato. Penso che il processo naturale di autoselezione dei vampiri tenda a impedirlo. Pétr era succube di Zmeevič, ora lo è di Iuda. Non credo che assistere alla tua abile decapitazione del suo ultimo alleato abbia alimentato molto la sua indipendenza di spirito.» «Quindi è stato solo Iuda ad aizzarli contro i moscoviti innocenti?» «Mi piace pensarlo.» Ma aveva raggiunto i limiti della sua credulità. «Mi piacerebbe pensarlo» soggiunse, «ma non lo penso.» Qui terminava una prolungata evoluzione del suo pensiero sugli Opričniki, iniziata in quella casa di Mosca quando aveva visto per la prima volta i cadaveri mutilati dei suoi compatrioti. Forse - speravo, sebbene non ne avessi visto alcun segno - era iniziata ancor prima. «Allora, cos'è successo quando hai incontrato Pétr?» gli chiesi. «Più o meno erano già arrivati a capire che eri stato tu a uccidere Matfej e Varfolomej. Pétr mi ha spiegato cos'è accaduto durante l'incendio, quando mi hai chiuso dentro.»
«Non sapevo tu fossi lì» dissi io, in tono più rammaricato del necessario. «Questo lo so, benché Iuda l'abbia raccontata diversamente.» «Quindi Iuda ha visto tutto?» «Pare di sì.» «Pare?» «Era già fuggito quando sono arrivato io. La sua bara era vuota. Dev'essere rimasto nei paraggi a guardare.» Non era questa la storia che mi aveva raccontato Iuda, nella casa di Mosca, accanto al cadavere putrefatto di Vadim. Trovavo interessante che avesse scelto di mentirmi su una questione di così poco conto. Forse era per spingermi a dubitare di Dmitrij. D'altro canto, forse era Dmitrij a mentire. Se lo pensavo, allora evidentemente il piano di Iuda stava funzionando. «Perché non vi ha aiutati?» chiesi. «Ioann. Iuda si sarebbe trovato in una posizione migliore senza di lui.» «Cos'altro ha detto Pétr?» «Pensava che avrebbero potuto lasciarti andare, anche se avevi ucciso due dei loro. Non era come con Maks, mi ha detto. Lui li aveva uccisi a tradimento. Nel tuo caso era stato solo istinto.» O forse gli istinti di Maks erano più affinati dei miei. «E tu gli hai creduto?» «Era quello che volevo sentirmi dire» spiegò Dmitrij, dando mostra di conoscersi bene. «Anch'io avrei ucciso Maks, ma non avrei ucciso te.» «Questo mi conforta molto.» «Pétr ha detto di volerti invitare a un incontro, per spiegarci. È venuto e mi ha trovato quella notte, mi ha detto che erano riusciti a persuaderti a parlare con loro. Quindi sono andato con lui.» «Ma allora doveva sapere» dissi io, pensando a voce alta, «o almeno temere, che vedendo quei cadaveri russi - e vedendo Vadim, santo cielo - non saresti rimasto ancora a lungo dalla loro parte.»
«Il luogo d'incontro era stato fissato da Iuda. Evidentemente voleva che vedessi quei corpi.» «Per metterti alla prova?» «Forse. O forse il suo piano era esattamente ciò che poi è accaduto. Dopotutto, si è liberato di Andrej.» Era la stessa idea che mi era venuta in mente leggendo la lettera di Iuda. Oltre a ciò, tuttavia, Dmitrij si stava lasciando ingannare. Forse c'erano stati davvero dissidi interni tra gli Opričniki, ma non potevo credere che esistessero vampiri nobili e vampiri ignobili. Pétr e Andrej erano sopravvissuti per oltre due settimane a Mosca dopo la partenza dei francesi. Cosa avrebbero dovuto mangiare in tutto quel tempo, scodelle di boric? Più ancora dei dettagli dell'accaduto, a preoccuparmi era la nuova luce in cui dovevo vedere il carattere di Dmitrij. Che potesse essere spietato, e si giudicasse così superiore da poter decidere autonomamente sulle questioni morali - per esempio se fosse giusto collaborare con gli Opričniki per liberarsi dai francesi - non l'avevo mai dubitato. Ma che potesse lasciarsi accecare così tanto dalla smania di successo da non riuscire più a vedere la natura intrinsecamente maligna di quei vampiri, e che fosse tanto ingenuo da credere alle loro parole, mi sorprendeva veramente. In apparenza era il cinico più incallito tra noi, ma ogni cinico deve, oltre a dubitare delle motivazioni altrui, dubitare sempre delle proprie. Nel pomeriggio del nostro primo giorno di viaggio arrivammo a un villaggio che sapevo dovevamo attraversare; sospettavo che ci avesse pensato anche Iuda al momento di scegliere il luogo d'incontro. In Dmitrij però non colsi segni di preoccupazione. Smontai e legai il cavallo fuori dalla ben nota capanna da boscaiolo, da cui promanava un cattivo odore: non sapevo se fosse reale o un parto della mia immaginazione attanagliata dai sensi di colpa. «In che città siamo?» domandò Dmitrij, ancora del tutto ignaro di dove ci trovassimo. «Desna» gli dissi, calcando sia la voce sia lo sguardo. Lui fece una smorfia per indicare che il nome non gli diceva nulla,
poi vide la mia espressione. Gli venne in mente. «Oh, capisco» disse, in tono rispettoso. Entrammo nel capanno. Poco era cambiato dall'ultima volta che ero stato lì, due mesi prima. I francesi vi erano passati durante la ritirata, ma non avevano trovato niente di utile. La stufa era ancora addossata alla parete di fondo. La sedia rimaneva al centro della stanza, rovesciata a terra. Il corpo di Maks era riverso in un angolo della stanza, appoggiato al muro come se stesse seduto, stanco, la testa reclinata all'indietro, a fissare me e Dmitrij che ci guardavamo intorno. Non sapevo se fosse stato piazzato lì, o se fosse caduto in quella posa per caso. Le gambe erano ripiegate fin quasi al petto, e un braccio era posato sul ginocchio; l'altro ciondolava lungo il fianco. Per fortuna il corpo era troppo decomposto per lasciare chiare tracce delle ferite inflitte al momento della morte, benché ormai avessi familiarità con i metodi degli Opričniki e fossi in grado di indovinare con una certa precisione. Il tessuto dei calzoni aderiva allo stinco, seguendo i contorni di ciò che rimaneva della carne al di sotto. Solo le mani e la testa sporgevano dai vestiti. Le mani erano rinsecchite come quelle di un vecchio, il volto era ormai irriconoscibile. Erano gli occhiali a confermarmi ciò che sapevo vero: quello era Maksim Sergeevič. Gli penzolavano dal naso e da un orecchio - l'altro aveva perso da tempo la solidità necessaria per sostenerli - e la montatura metallica affondava nella carne cedevole della guancia. Restammo in silenzio per qualche momento. Più di una volta mi sembrò che Dmitrij stesse per parlare, ma sempre ci ripensò. Lo trovai molto saggio da parte sua. «Dovremmo seppellirlo» dissi io alla fine. «Sì» concordò lui, usando un tono di grande convinzione di cui non c'era alcun bisogno. «Vedo se trovo degli attrezzi.» Si allontanò, lasciandomi pochi preziosi secondi da trascorrere con l'amico che avevo abbandonato. Poco dopo udii un grido smorzato. «Aleksej ! Vieni a vedere.» Dmitrij era inginocchiato accanto alla parete, vicino alla porta, in una zona che restava nascosta quando l'uscio era aperto. Mi inginocchiai accanto a lui. Era una posizione da
manuale, per un messaggio. Una mano tremula aveva inciso nel legno: 8 - 27 - 20 - M – П Maks era stato lì e aveva lasciato la sua firma la sera del ventisette agosto. Questo lo sapevo già - era il giorno prima di quando lo avevo incontrato al capanno. Ma la «П» era la parte più interessante del messaggio: «П» significava che, da qualche parte lì intorno, Maksim aveva nascosto una lettera.
Capitolo 21 Non impiegammo molto a trovare la lettera. Non c'erano tanti punti in cui si potesse nascondere, in una struttura così rudimentale. Maks l'aveva infilata fra il tetto di legno e una delle travi che lo sostenevano. Per trovarla bisognava andarla a cercare. Era indirizzata a me, datata il ventisette, come il messaggio intagliato nella parete. C'era una mezza dozzina di fogli, coperti su entrambi i lati con la piccola grafia precisa di Maks. La lessi a voce alta. Caro Aleksej, Se stai leggendo questa lettera, allora devo chiederti scusa per non aver atteso più a lungo il tuo arrivo. Come comprenderai dopo aver letto quanto segue, temo molto per la mia vita e forse anche per altre cose. Nel comunicare la situazione in particolare a te, Aleksej, e nel rimettermi (presto, spero) alla tua custodia, intendo perlomeno accertarmi di morire con un residuo della mia reputazione ancora intatto, e inoltre di morire in modo da salvarmi l'anima. Vedo già la tua espressione stupita nell'apprendere che queste due cose mi preoccupino, ma, te lo assicuro, la prima mi preoccupa da sempre. Solo di recente ho compreso che vale la pena di interrogarmi sul futuro della mia anima. Intendo fermarmi qui per quattro giorni. Ho detto a Dominique dove mi trovo e spero che lei te lo riferirà, e soltanto a te. Se non sarai arrivato entro quel tempo, allora sarò costretto a ripartire. La possibilità che Dmitrij o gli Opričniki rimasti mi trovino qui è troppo orribile per rischiare. Mi dirigerò a sud verso Tuia e poi andrò da mia madre. Tu sai dove vive. Non voglio scriverlo qui, nella speranza che l'omissione mi protegga da eventuali altri lettori di queste pagine. Quando l'avrò vista, e se ho fortuna vedrò anche le mie sorelle, allora tenterò di lasciare il Paese per sempre. Non mi farà piacere stabilirmi in Francia. E sempre meno somigliante al Paese che credevo fosse. Tu, lo so, sei ben consapevole del mio interesse per le repubbliche degli Stati Uniti e della Francia. Ne abbiamo discusso allegramente
tante volte, e so che, almeno in linea generale, le tue e le mie opinioni coincidono spesso. Sono certo invece che non la penserai come me se ti dico che in base a quei principi ho deciso alcuni anni fa di impegnarmi attivamente nel sostegno alla Francia repubblicana. Iniziai a lavorare per la Francia quando fui catturato ad Austerlitz. Vedo la smorfia cinica sulle tue labbra: vorresti dirmi che a quell'epoca la repubblica non era più una repubblica, visto che aveva un imperatore. Napoleone era in effetti diventato imperatore, e Austerlitz fu combattuta nell'anniversario della sua incoronazione; eppure io credevo ancora che lui e i suoi uomini perseguissero gli illuminati ideali repubblicani. Ancor oggi ne sono convinto. Dopo la mia cattura fui persuaso - e non ci volle molto - in particolare da un colonnello francese (di cui è meglio non rivelare il nome), che aiutando loro avrei aiutato la Russia a diventare una repubblica grande e potente come la Francia o l'America. Mi rimandarono in Russia come se fossi un prigioniero di guerra rilasciato. In realtà non era stato un atto di liberazione, ma di infiltrazione. Quindi, Aleksej, per quasi tutto il tempo che ci siamo conosciuti io sono stato una spia dei francesi; ma credimi, è l'unico punto su cui ti ho ingannato. Per te sarà forse una ben misera consolazione, tuttavia in ogni cosa che ti ho detto, in ogni questione di opinione, di strategia e di amicizia, non c'è stato il velo dell'inganno tra di noi, né tra me e Vadim o Dmitrij. Il Maksim che avete conosciuto era il vero Maksim in tutti gli aspetti tranne questa piccola questione della fedeltà alla patria. Uomini di diverso colore politico e anche di nazionalità diversa non devono farsi la guerra; e anche quando succede, diventano nemici non per scelta ma a causa delle circostanze. La loro amicizia può essere rinfocolata dopo che il fumo della battaglia si è disperso. Se fossi nato francese, dunque, forse non saremmo diventati gli amici che un tempo eravamo - e spero lo siamo ancora -, ma almeno avrei conservato il tuo rispetto. Non voglio dire che attribuisco la colpa del mio tradimento a un incidente di nascita. Non avrei scelto di nascere francese anziché russo. La mia affiliazione è sempre stata alle idee, non agli Stati. Speravo di poter prendere un'idea nata in Francia e vederla fiorire in Russia. Dubito di essere stato molto utile alla Francia, all'atto pratico.
L'unico contributo significativo l'ho dato con te, Vadim e Dmitrij. La mia fedeltà a voi tre ha per me più valore di qualsiasi altra, quindi non avrei mai potuto riferire informazioni che vi mettessero a rischio. Quanto alle informazioni più generali sul nostro esercito che ho fornito loro, dubito ne abbiano fatto molto uso. Sto scrivendo questo non per discolparmi o chiedere clemenza, per non essere giustiziato come traditore. Tenterò di evitare la morte con la fuga, ma non negando ciò in cui credo. Lo scrivo soltanto nella speranza che, se giustamente mi condannerai a morte nel tuo cuore, perlomeno ti dispiacerà doverlo fare. Tuttavia, non sentirei questa esigenza di raccontarti la verità su di me, se non fosse per il fatto che sicuramente tu sai già tutta la verità. È sulle circostanze in cui questa verità si è rivelata che devo fornirti tutti i dettagli che ricordo, nella speranza che le mie parole possano aiutarti in qualche modo a sconfiggere queste creature orribili la cui guerra contro l'umanità fa sembrare irrilevanti le scaramucce tra semplici nazioni. «Quindi lui sapeva di loro» dissi, in parte a me stesso e in parte a Dmitrij; ma lo avevo creduto praticamente dall'inizio. Dmitrij non rispose. Sedeva con la schiena contro il muro, quasi nella stessa posizione dei resti di Maks. Entrambi erano ai lati opposti della stessa parete, come scolaretti disobbedienti a cui è stato imposto di separarsi. Nessuno dei due, per motivi molto diversi, poteva alzare gli occhi su di me mentre riprendevo a leggere. Quando tornammo a Mosca da Smolensk, ormai da diversi mesi non avevo avuto occasione di riferire ai miei superiori francesi. (A proposito, quando vedi Vadim digli che nell'esercito francese ho il grado di maggiore, quindi non può più far valere la sua autorità su di me. A essere onesto, credo che i francesi regalino promozioni alle spie solo per blandirle. Spero che, nonostante ciò che gli ho fatto, Vadim riuscirà a sorriderne. Non ho diritto di scherzare, lo so, ma non so dirti quanto rimpianga i tempi in cui ci sedevamo sulla riva della Moscova a bere vodka e a prenderci in giro a vicenda...
soprattutto a prendere in giro Vadim.) Il nostro ritorno a ovest con gli Opričniki mi offrì un'opportunità di tornare dietro le linee francesi e riferire quanto avevo scoperto. Cercai ogni occasione per separarmi da Andrej, Simon e Iakov Alfejnic, ma ben presto seppi che loro erano ancor più impazienti di liberarsi di me. La stessa notte in cui partimmo da Gzatsk - l'ultima volta che ti ho visto - prima uno, poi due, poi tutti e tre avevano avanzato qualche scusa per separarsi dal resto del gruppo e andare in avanscoperta da soli. Approfittai della solitudine e mi diressi subito agli accampamenti francesi a ovest della città. Dissi loro tutto ciò che sapevo - ma torno a giurarti che non ho rivelato nulla sul nostro lavoro personale, e neppure sugli Opričniki, anche se su quest'ultimo punto avrei voluto dir tutto - e dopo aver fatto rapporto per un paio d'ore potei godere del vino, del cibo e della buona compagnia che spetta a chi per tanto tempo è rimasto lontano dai suoi alleati. Per me significava ben poco. Nel cibo non cerco altro che sostentamento, e la compagnia non era piacevole come quella a cui ero abituato. Il giorno dopo, quando il sole era già tramontato e io mi preparavo a ripartire, l'accampamento subì un'aggressione feroce. Nel buio sentimmo gridare da ogni direzione. Guardai fuori dalla tenda in cui stavo parlando con altri tre ufficiali, e vidi due figure, Andrej e Iakov Alfejnic, che strisciavano verso la sentinella di guardia all'esterno. Il soldato vide avvicinarsi i due Opričniki e voltò la testa dall'uno all'altro, incredulo. Alla fine sparò con il moschetto ad Andrej, e senza dubbio la pallottola gli trapassò il torace, ma non lo rallentò più di una folata di vento. Iakov Alfejnic si tuffò sulle gambe del soldato, che reagì affondandogli la baionetta nella schiena. Fu altrettanto inefficace. Iakov Alfejnic atterrò la sentinella, e nello stesso istante Andrej le si avventò alla gola. Ciò che vidi dopo quel momento esorbita dalle risorse mentali di un uomo civilizzato. Sono stato educato a ripudiare i miti e il folclore a cui credono ciecamente tanti miei contemporanei. Dal poco che avevo sentito raccontare nel cortile della scuola, a proposito di vampiri e lupi mannari e altri abominii del genere, ero felice che mi fossero state risparmiate quelle sciocchezze. Anche coloro che avevano sentito quelle storie da bambini, da adulti smettevano di crederci. Ma ogni uomo è costretto
a credere all'evidenza dei propri occhi. Andrej affondò i denti nella gola del soldato e ne strappò un brandello di carne. Il soldato era ancora vivo e tentava di divincolarsi sotto la presa salda di Andrej, intanto Iakov Alfejnic gli piombò addosso e lo morse all'altro lato del collo. I due rimasero sdraiati accanto a lui, le bocche sul collo, a leccare il sangue. Solo quando il soldato smise di respirare i due Opričniki alzarono la testa dalla sua gola e si scambiarono uno sguardo orgoglioso e soddisfatto. Prima che potessero alzarsi, altri tre soldati gli erano già addosso. Anche stavolta le pallottole e le lame non sortirono effetto. I due uccisero con lo stesso metodo - con i denti - ma stavolta non indugiarono a bere il sangue delle vittime. Non ce n'era il tempo. Mi voltai per parlare agli altri ufficiali nella tenda con me, e ciò che vidi mi mozzò il fiato. Due di essi giacevano a terra, morti. Il terzo restava in piedi, con il volto distorto in uno spasmo di dolore pari solo al panico che gli brillava negli occhi sgranati. Sulla sua spalla vidi il volto di Simon, e i suoi denti affondati nel collo dell'uomo. Dietro i denti, la lingua di Simon dardeggiava avanti e indietro, per assaporare ogni goccia di sangue, come la lingua di un cane che si insinua in ogni orifizio dell'osso in cerca dell'ultimo saporito residuo di midollo. Dietro vidi lo strappo sul lato della tenda da cui era entrato Simon. Prima che il vampiro potesse alzare lo sguardo e accorgersi di me, qualcosa di pesante mi si abbatté sulla nuca e crollai a terra svenuto. Quando rinvenni era ancora buio. Vidi il volto di Andrej vicino al mio, e temetti fosse giunto il mio momento di trasformarmi in un pasto per quelle creature. Invece Andrej si mostrò preoccupato. Finsi un'amnesia finché non mi ebbero raccontato abbastanza per farmi capire cosa pensavano fosse successo. Credevano io fossi stato catturato dai francesi. Avevano attaccato quell'accampamento per caso, ma quando mi avevano riconosciuto avevano trasformato l'attacco in una missione di salvataggio. Finsi di dargli retta, e riuscii anche a convincerli che non ricordavo niente della mia liberazione, che il colpo in testa mi aveva fatto dimenticare tutto ciò che avevo visto dei loro metodi di uccisione. Erano così preoccupati di appurare se avevo scoperto la loro vera natura da non chiedermi nulla della mia. La mia cattura da parte dei francesi fu
data per assodata, e la possibilità che fossi entrato volontariamente nell'accampamento non fu neppure sollevata. Mi consigliarono di riposare e riprendermi dalla ferita alla testa era stato Andrej a infliggermela, scoprii -, mentre loro avrebbero continuato ad attaccare i francesi al meglio delle loro possibilità. Il piano era incontrarci a Gorjackino quattro giorni dopo. Mi dissi d'accordo, e ne fui felice perché avrei avuto tutto il tempo di preparare la loro rovina. Quando spuntò il giorno, tornai all'accampamento dove si erano svolti gli eventi di quella notte. Erano tutti morti. Gli Opričniki si erano sforzati di cancellare le proprie tracce. Molti cadaveri presentavano ferite di proiettili o di baionetta che, come mi accorsi subito, erano state inflitte dopo la morte. Erano stati appiccati alcuni incendi, ma neppure quelli riuscivano a nascondere gli orribili squarci alla gola che trovavo su ogni carcassa. Gli Opričniki non avevano ucciso i cavalli, ma li avevano liberati dai recinti per amplificare la generale impressione di caos. Ne catturai uno, e arrivai in fretta a Gorjackino. Per alcuni giorni restai nei paraggi del luogo d'incontro - la fattoria - ma non arrivò nessuno: né tu, né Vadim o Dmitrij, né gli Opričniki. Il ventiquattro agosto - la notte in cui dovevo incontrare i miei tre Opričniki - i francesi erano quasi giunti al villaggio e si preparavano alla grande battaglia di Borodino. Lasciai un breve messaggio per te, dicendo solo che ero passato di lì, e poi tornai alle linee francesi per approntare la trappola che avevo ideato. Raccontai alle guardie dell'accampamento che quella notte avrei inviato loro tre spie nemiche. Descrissi il loro aspetto, la direzione dalla quale sarebbero arrivati, la parola d'ordine falsa che avrebbero usato. Ordinai di catturarli, legarli stretti mani e piedi e tenerli lì fino al mio ritorno. Dissi loro di accertarsi che i prigionieri non fossero tenuti in una tenda, ma all'aperto, vicino al fuoco. Forse ti sorprenderai, Aleksej, di quanto sia stato facile per me impartire ordini; ma una volta dimostrata la mia buona fede, gli uomini dell'accampamento furono ben felici di aiutarmi a prendere gli infiltrati russi. Tornai a Gorjackino e aspettai. Poco dopo il tramonto arrivarono Andrej, Iakov Alfejnic e Simon. Avevano portato anche Faddej,
incontrato lungo la strada. Il mio entusiasmo di fronte alla possibilità di distruggere quattro di quelle creature anziché tre segnò, suppongo, la mia rovina. Dissi loro che avevo trovato un accampamento francese isolato, perfetto per un attacco. Illustrai i punti deboli del perimetro e persino la parola d'ordine di quel giorno (dissi che me l'avevi comunicata tu, Aleksej). Faddej non voleva partecipare: diceva di dover tornare da Vadim e dagli Opričniki sotto il suo comando. Lo persuasi che l'accampamento era un bersaglio facile: sarebbe stato folle da parte sua non andarci. Il modo in cui descrissi quei soldati giovani, innocenti, sani, deve avergli stimolato l'appetito. I quattro se ne andarono e io rimasi ad aspettare l'alba. Poco dopo il sorgere del sole tornai all'accampamento francese. Le mie istruzioni, di legare e lasciare i quattro Opričniki all'aria aperta, erano servite a mettere alla prova sia loro sia la mia credulità, in modo non dissimile dai processi alle streghe nel Medioevo. Nonostante i paraocchi dovuti alla mia educazione, avevo raccolto qualche informazione sulle leggende dei vurdalaki. Mi sembrava assurdo che la luce del sole potesse avere un effetto così devastante sul loro fisico, ma non più assurdo di altre cose di cui mi era stata confermata l'assoluta verità. Se le leggende si fossero dimostrate corrette, entrando nell'accampamento avrei trovato quattro vampiri morti, altrimenti ne avrei scoperti quattro vivi, legati e pronti per il plotone d'esecuzione. In ogni caso, i dodici Opričniki si sarebbero ridotti a otto. Un terzo della battaglia sarebbe stato vinto. Già prima del mio arrivo, nell'accampamento c'era un gran trambusto. Un tenente, che mi riconobbe dalla mia visita della sera prima, corse da me e mi portò a vedere i resti degli Opričniki: tre chiazze d'erba bruciacchiata. Mi raccontò che i tre erano seduti su sgabelli di legno, di cui restavano solo alcuni pezzi carbonizzati, l'unico residuo oltre a pochi frammenti di cuoio di una scarpa e qualche pezzo di stoffa. Chiesi cosa ne fosse stato del quarto prigioniero. Era fuggito, mi dissero. Ne aspettavano solo tre, quindi il quarto era riuscito a scappare senza quasi essere visto. Poiché ho mentito per gran parte della vita adulta, Aleksej, da tempo sono abituato a nascondere la paura; ma c'era poco da fare per il terrore che provai al pensiero che uno degli Opričniki fosse ancora vivo, da
qualche parte, e consapevole della trappola in cui li avevo mandati. Riuscii a mostrarmi calmo, ma dentro di me una voce mi gridava di darmela a gambe. Da quel momento non ho più smesso di fuggire. Il tenente mi disse che avevano seguito i miei ordini. Avevano fatto ancor meglio che legare le tre spie: le avevano immobilizzate nei ceppi. All'avvicinarsi dell'alba, i tre si erano agitati sempre più, avevano supplicato di essere liberati e avevano persino tentato di correre - per quanto possibile - verso la libertà. All'alba c'erano state tre esplosioni terribili, così ravvicinate da sembrare una sola. Due sentinelle poste di guardia ai prigionieri erano rimaste leggermente ustionate, e tutto ciò che restava dei tre era la cenere. I soldati che avevano assistito agli eventi erano curiosi di scoprire cosa avesse provocato le esplosioni. Un russo nelle stesse circostanze, credo, avrebbe potuto istituire un collegamento tra le morti insolite e violente di quegli uomini e il loro primo contatto con i raggi del sole. Ma i francesi non sono superstiziosi come noi. La teoria più diffusa era che nell'accampamento fosse entrato qualcuno con la polvere da sparo nascosta sotto i vestiti, sperando di potersi avvicinare a Napoleone e farsi esplodere, ma la polvere era detonata troppo presto per errore. Alcuni dubitavano che potesse essere andata così, e sostenevano che nessun cristiano, neppure un russo, potrebbe commettere il peccato del suicidio, per quanto creda nella causa per cui combatte. Assicurai loro prontamente che, mentre la Chiesa cattolica insisteva su questo punto, quella ortodossa non si faceva scrupolo di mandare i giovani a morire. E così quella versione degli eventi fu accettata da tutti. Me ne andai più in fretta possibile e mi diressi a est, per tornare a Mosca. Temevo per la mia vita, quindi mi tenni lontano dalle strade principali, e procedetti più lentamente. Quella notte mi accampai in una radura nei boschi. Dormivo da poche ore quando fui svegliato da una voce. Aprii gli occhi e vidi davanti a me un Opričnik e un uomo: Andrej e Dmitrij. Era Andrej, dunque, quello che era riuscito a fuggire. Di sicuro aveva dedotto che li avevo traditi io. Non potevo tentare di negarlo. Raccontai invece a Dmitrij ciò che avevo visto, cosa avevano fatto gli Opričniki, chi erano, ma lui ribatté semplicemente che lo sapeva già. Gli chiesi come potesse vivere sapendolo, e mi rispose che avrebbe sfruttato ogni mezzo disponibile
per sconfiggere i francesi. Andrej voleva il mio sangue, ma Dmitrij devo dargliene atto - lo trattenne. Mi chiese di giurare che non avrei più agito contro gli Opričniki. Sembrava convinto che siccome avevo saputo cos'erano davvero, li avrei lasciati lavorare in pace. Mi rifiutai di dargli retta. Credo che in quella fase Dmitrij pensasse solo che avevo tradito gli Opričniki in quanto vampiri; non aveva capito che lavoravo per i francesi. Forse, se pure Andrej gliel'aveva detto, non ci aveva creduto. Ma durante quella conversazione si rese conto che non avrei potuto tendere la trappola se non avessi avuto libero accesso alle linee francesi. Non potevo più negarlo. Lui ne restò colpito come da una pugnalata, molto più turbato di me quando avevo scoperto la natura degli Opričniki. Borbottò che non gli piaceva l'idea di doverlo riferire a te e a Vadim, e poi mi lasciò solo con Andrej. Cercai di parlare con Andrej, lui però era poco comunicativo, al pari di tutti gli Opričniki. Voleva soltanto la mia morte. Sia lui sia Dmitrij riponevano molta fiducia nelle sue abilità, dato che non avevano neppure provato a disarmarmi della spada. Attaccando di sorpresa, gli Opričniki avevano quasi sempre la meglio, ma Andrej era meno avvantaggiato in quell'occasione, perché la lotta era ad armi pari. Sguainai la spada, e lui non si mostrò intimorito. Non mi sembrava giusto attaccare un uomo disarmato, quindi gli dissi di stare indietro; ma lui continuava ad avanzare. Arrivato quasi alla punta della spada, balzò verso di me. Non avevo scelta se non affondarla, e sentii la pressione sulla mia mano mentre la lama incontrava e superava la resistenza del suo corpo. Il suo viso era vicino al mio e avvertivo il fetore del respiro, ma anche se la ferita non sembrava avergli provocato dolore, l'ostacolo fisico costituito dalla guardia della spada bastò a impedirgli di avvicinarsi ancora. Dopo qualche tentativo si tirò indietro, e io udii e percepii che la spada scorreva liscia fuori dalle sue costole. Una leggera macchia di sangue si era formata sul suo cappotto, ma a parte quella non avevo inflitto altri danni. Sospetto che a quel punto la maggior parte delle vittime di Andrej si arrendano alla sua invincibilità, perché si mise a ridere e mi consigliò di cedere all'inevitabile. Non capiva che un uomo può
usare una sciabola in modi diversi. Quando tornò a gettarmisi addosso, scelsi di sferrare un fendente di taglio anziché un affondo. A ogni suo passo verso di me gli passavo la lama sul torace. In un uomo normale, ciascun colpo avrebbe spezzato varie costole. Cosa i miei colpi facessero a lui, non lo so. Non sembrava indebolito, tuttavia la forza stessa dei miei affondi iniziò a spingerlo all'indietro. L'energia che imprimevo a ogni assalto non mi avrebbe permesso di continuare a lungo; però a un certo punto lui inciampò e si ritrovò a terra, prono e indifeso. Levai la spada per colpirlo alla testa, sperando di renderlo inoffensivo, e lui alzò un braccio per difendersi. La lama lo ferì al braccio. Lo colpii più volte, nello stesso punto. Non tentai neppure di assestare un colpo mortale, perché era inutile. Non so dirti, Aleksej, e se lo sapessi me ne vergognerei, la sensazione di gioia che provavo a ogni fendente, man mano che affondavo nelle sue ossa. Alla fine, anche la materia soprannaturale di cui Andrej era composto non poté resistermi, e il braccio gli si staccò dal corpo, lasciando un moncherino sanguinante appena sotto il gomito. La ferita era chiaramente non mortale, ma perlomeno sembrava averlo debilitato, e gli impediva di costituire una minaccia immediata. Non avevo mai prestato sufficiente attenzione alle poche leggende che avevo sentito per capire i vari modi in cui una creatura di quel tipo può essere distrutta, e non volevo rimanere lì per scoprirlo, per paura che tornasse Dmitrij o qualche altro Opričnik. Spero di averlo ferito abbastanza da impedirgli di trovare riparo, e che quindi sia morto alle prime luci dell'alba. Da parte mia, fuggii di nuovo. Mi fermai brevemente a Shalikovo, sperando di incontrarti lì, ma avevo paura di aspettare a lungo, quindi ti lasciai un messaggio scritto con il gesso e proseguii verso Mosca. Ero certo di essere seguito, da Andrej o dagli altri Opričniki, ma le giornate sono ancora lunghe, più delle notti, quindi ero in vantaggio. Una volta giunto a Mosca, mi è venuto in mente un solo modo per contattarti senza che Dmitrij lo venisse a sapere. Sono andato da Dominique al bordello. Ho detto a lei e a Margarita dove trovarmi, senza scendere nei dettagli, e che solo tu saresti dovuto venire. Se stai leggendo questa lettera, devo presumere che tu abbia parlato con Dominique. Era molto preoccupata per te, Aleksej, e mi ha fatto molte domande - di tutto e di più sul tuo conto -, come
aveva già fatto in passato. Poi sono ripartito subito e sono arrivato qui a Desna oggi. Ho viaggiato di giorno, quindi non penso che gli Opričniki mi abbiano seguito, comunque ho paura che mi trovino. Non voglio morire, ma se proprio devo, preferisco sia con il relativo onore di un plotone d'esecuzione russo, anziché per mano loro. Forse è stato meglio per me non aver prestato attenzione alle storie di vampiri quand'ero bambino, altrimenti oggi avrei ancor più paura. Se stai leggendo queste pagine, Aleksej, allora non sono riuscito ad aspettarti abbastanza a lungo e sono ripartito. Forse ora sono già in Francia. Spero di stabilirmi a Parigi, per quanto abbia imparato che il destino si cura poco delle mie speranze. Se un giorno verrai in quella città, a capo di un esercito di conquistatori oppure come visitatore in tempo di pace, forse ci rivedremo. A chiunque altro trovi questa lettera (o a cui tu, Aleksej, deciderai di mostrarla) devo rivolgere la supplica di non lasciar cadere il sospetto del tradimento su Vadim Fëdorovič, Dmitrij Fetjukovič o Aleksej Ivanovič. Solo perché io sono una spia russa, non ne consegue in alcun modo che lo siano anche loro. Ricordo una discussione che avemmo un giorno, Aleksej, sulla Bibbia. Solo perché alcune cose scritte lì dentro sono vere, non vuol dire che lo siano tutte. E (resto fedele alle mie idee fino alla fine) solo perché esistono i vampiri non significa che esista un dio. Forse presto scoprirò la verità. Ti prego di porgere le mie scuse e i miei saluti a Vadim e Dmitrij, e di manifestare il mio affetto profondo a Marfa Michajlovna e al piccolo Dmitrij Alekseevič. Il tuo amico (o almeno lo spero) Maksim Sergeevič Lukin. La lettera di Maks conteneva molte accuse, benché alcune fossero più esplicite di altre. La più evidente era quella che Maks portava a se stesso, confessando di aver tradito lo zar e il suo Paese. Ciò che raccontava su Dmitrij e sugli Opričniki era stato sconvolgente, un tempo, ma ormai non era niente di nuovo. C'era però la questione del braccio di Andrej. Non fui sorpreso che la carne e il sangue di un vampiro fossero tanto simili a quelli umani da consentire l'amputazione di un arto. Anch'io avevo già appurato di poter
tagliare la testa di Andrej. Ed era proprio questo il punto. Quando l'avevo distrutto, lui aveva entrambe le braccia. In qualche modo, dopo il suo scontro con Maks, Andrej era... guarito. Ma questo era un dettaglio. La cosa peggiore nella lettera di Maksim era la condanna nei miei confronti. Quando avevo parlato con lui proprio in quella casa, tante settimane prima, non gli avevo concesso la possibilità di spiegare ciò che ora mi diceva con tanta chiarezza nella lettera. Ero stato così accecato dalla mia rabbia per il suo tradimento da non soffermarmi nemmeno a riflettere che poteva esserci una questione ancor più importante di cui dovesse parlarmi. Potevo incolpare lo stesso Maks per non avermi costretto ad ascoltarlo, e incolpare gli Opričniki per essere arrivati a interrompere la nostra conversazione, ma il vero colpevole ero io. Con gli Opričniki lì, forse non sarei riuscito a salvarlo. Però almeno sarebbe morto sapendo ciò che più di ogni altra cosa voleva sapere: che io ero ancora suo amico.
Capitolo 22 Guardai Dmitrij. Si era alzato in piedi e mi scrutava con sospetto, cercando di capire se qualcosa che avevo letto nella lettera potesse farmi perdere fiducia in lui. Per istinto di autodifesa portò una mano sulla spada. «Non preoccuparti, Dmitrij. Non c'è molto sul tuo conto che io non sapessi già.» Parlai più con l'intenzione di liquidare la faccenda, non di confortarlo. C'erano alcuni dettagli del coinvolgimento di Dmitrij che in precedenza non mi erano chiari, alcuni da lui alterati per evitare di rivelare la natura degli Opričniki, ma niente che cambiasse in sostanza il suo atteggiamento verso di loro o verso qualunque altra cosa. «Era un nemico della Russia, io lo sapevo. Per questo è morto» si giustificò. «Tu sei un patriota, Dmitrij» ribattei io. Un patriota e nient'altro. Trovammo alcuni vecchi attrezzi dietro la capanna, e insieme scavammo una fossa per il nostro amico caduto. Con due pezzi di legno realizzammo una semplice croce per indicare il luogo del suo ultimo riposo. Per ragioni inspiegabili, certamente non al livello di razionalità che Maks pretenderebbe, prima di deporlo nella fossa gli tolsi gli occhiali e me li infilai in tasca. Una delle lenti era rotta, con ogni probabilità per un pugno alla testa, l'altra era intatta. A parte forse i bottoni di metallo sulla giacca, e le antiche ossa non identificabili, erano tutto ciò che sarebbe rimasto di Maksim, molto dopo che il resto di lui fosse stato consumato dalla terra in cui l'avevamo seppellito. Preferivo che quegli occhiali sopravvivessero nelle mani di qualcuno che ricordava chi li aveva portati. Era buio ormai, quindi decidemmo di passare la notte nella capanna. Faceva freddo. Quando il sole tramontò la temperatura iniziò a calare bruscamente. In quel periodo dell'anno, di notte si scendeva di parecchi gradi sotto lo zero, e al mattino restava spesso sul terreno uno strato di neve, che con l'alzarsi del vento poteva tramutarsi in una bufera. Accendemmo la stufa per garantirci un certo tepore durante quelle ore.
«La differenza è che stavolta è il mio Paese» disse Dmitrij, spezzando un silenzio sceso tra noi dopo aver lasciato la tomba del nostro amico. «Il tuo Paese?» gli chiesi, non capendo cosa volesse dire. «Il nostro Paese, ovviamente, ma intendevo distinguerlo dal loro, il Paese degli Opričniki, dove li ho conosciuti.» «Quindi si comportavano meglio a casa loro, furbi abbastanza da non pisciare sulla porta di casa?» «No, non è questo» replicò Dmitrij, rassegnato. «Intendo solo che la mia percezione era diversa. Loro erano sempre gli stessi.» Tacque, ma evidentemente aveva altro da aggiungere. «Gli stessi?» lo incalzai. «Quando ti ho parlato della Valacchia, dell'incontro con Zmeevič, ho omesso alcune informazioni.» Si interruppe di nuovo. «Allora dimmelo adesso» feci io. «Ricordi che ti ho detto che Pétr, Andrej, Ioann e Varfolomej erano gli unici rimasti del gruppo che avevo incontrato la prima volta?» Annuii. «Be', non era proprio vero. Dopo quella prima notte, quando Zmeevič e i suoi ci avevano salvati dai turchi, iniziammo a lavorare insieme. Di giorno perlustravamo le montagne, cercando gli accampamenti dei turchi, e poi riferivamo a Zmeevič, e lui con gli altri agiva di notte: proprio come abbiamo fatto a Mosca. Poi però, dopo qualche giorno, uno dei valacchiani scomparve; due giorni dopo ne sparì un altro. In meno di due settimane ne erano rimasti solo due, da quasi una dozzina. Non vidi mai i vampiri attaccarli, ma in qualche modo lo sapevo... dalle cose che dicevano, dalle cose che diceva Zmeevič. Non potevo esserne certo, finché quest'anno a Mosca ho conosciuto Foma. Mi ricordava qualcuno, ma sapevo che all'epoca non era uno dei vampiri di Zmeevič. Poi ho capito. Era uno dei valacchiani che viaggiavano con me; quello che era andato al portone del castello a chiamare Zmeevič. Era stato trasformato in uno di loro. Penso che nessuno degli altri sia stato così fortunato da
unirsi ai predatori: sono stati solo prede.» «Non sono certo si possa definire "fortunato" uno dei due esiti» dissi io, amareggiato. «No, no, hai ragione. Ma come ho detto, all'epoca non sembrava tanto male. Chi ero io per obiettare se i vampiri valacchiani sceglievano di uccidere i contadini valacchiani? Bada... quando ho lasciato Zmeevič e sono tornato nell'esercito, l'ultima cosa che ricordo di aver visto andandomene è lo sguardo spaventato e tradito negli occhi di quegli ultimi due valacchiani.» Ne fui orripilato. Fino ad allora avevo pensato che Dmitrij fosse stato ingannato, che nonostante ciò che io sapevo, lui non avesse mai avuto motivo di sospettare cosa facevano dietro le nostre spalle. Invece Dmitrij aveva ingannato se stesso. «Perché non se ne sono andati anche loro?» gli chiesi. Era una domanda banale. «Non lo so. Rispettavano Zmeevič, oltre a temerlo. Chi lo sa, forse sono ancora vivi e vegeti.» Mi lasciai sfuggire una breve risata. «Forse no» mormorò lui. Dmitrij si alzò prima di me e mise i finimenti al cavallo. Fui svegliato dal rumore. «Hai fretta di partire» gli dissi. «Non vengo con te.» «Capisco» brontolai. «Ho paura, Aleksej.» Gli tremava la voce, era terrorizzato. «Non mostreranno nessuna pietà, né a me né a te. Vieni con me, torniamo a Mosca. Non sei tenuto ad affrontarli. Non possiamo riportare indietro Vadim né Maks: possiamo solo morire come sono morti loro. E loro non ce lo chiederebbero.» La sua diffidenza era ragionevole. Maks non avrebbe compreso la logica della vendetta: minacciarla sì, ma non condurla a termine. Vadim avrebbe compreso l'istinto, ma avrebbe suggerito di
tenerlo a freno. Io però non ero motivato dalla ragione, bensì dall'odio. Non potevo razionalizzare la passione che mi spingeva a inseguire e sterminare gli Opričniki sopravvissuti, simile a quella che mi spingeva a fare l'amore con Domnikiia quando avevo una moglie affettuosa a casa. L'odio è un'emozione potentissima. I condottieri la usano per stimolare l'aggressività nei soldati, e gli uomini la usano per costringersi ad azioni che altrimenti non contemplerebbero neppure. L'odio era il compagno inseparabile di quell'altra cosa che secondo Iuda mi rendeva debole. Mentre lo scrupolo poteva impormi di risparmiare un uomo anche quando la ragione gridava di ucciderlo, l'odio poteva farmi ammazzare quando le argomentazioni e i motivi per farlo erano dimenticati da tempo. Separare queste due emozioni era impossibile. Iuda forse mi disprezzava perché ne possedevo una, ma avrebbe imparato a dispiacersi che avessi l'altra. «Fai come credi, Dmitrij» dissi. «Io li affronterò.» «Se fossero francesi, o turchi, sai che verrei con te» cercò di spiegare. «Non dobbiamo nulla l'uno all'altro, Dmitrij. Lo sai, non funziona così.» «Voglio aiutarti, Aleksej, ma li conosco meglio di te. Ho visto cosa fanno.» «L'ho visto anch'io, ricordi?» «Tu non hai visto niente. Quello che hanno fatto a Mosca? È niente rispetto a ciò che gli ho visti fare ai turchi. Anche insieme, noi due non riusciremo mai a batterli.» C'era una nota di panico nella sua voce mentre cercava di persuadere sia me sia se stesso che la sua intenzione - disertare - fosse in qualche modo non totalmente disonorevole. «Se può aiutarti, Dmitrij, non sono convinto di volerti al mio fianco.» Glielo dissi in modo più crudele di quanto volessi. Lui tacque immediatamente. C'erano due nuclei di verità nelle mie parole. In primo luogo, seppure sembrava aver cambiato idea, era ancora troppo vicino agli Opričniki perché potessi fidarmi; in secondo luogo, spaventato com'era non mi sarebbe stato di grande utilità in una situazione difficile. Ma l'avevo detto per aiutarlo: come se fossi
io a cacciarlo, e non lui ad andarsene. «Ti ringrazio, Aleksej» ribatté infine, senza amarezza. «Non sono più un vero soldato, lo so. Meglio sentirmelo dire da te, credo.» Era come un amante respinto, che trattiene le lacrime e si aggrappa pateticamente alle ultime vestigia del suo orgoglio. Feci un passo verso di lui, per abbracciarlo, ma lui alzò le braccia per respingermi. «Ora vado davvero» disse, tentando di mostrare una qualche dignità. «Tu hai da fare.» Montò a cavallo e si avviò al trotto verso Mosca. Nel punto in cui avevo visto Maksim vivo per l'ultima volta, e guardando partire Dmitrij, ebbi la premonizione che non lo avrei più rivisto. Ricordai il malinteso delle mie ultime parole con Maks, e l'addio distratto a Vadim. Sapevo di non poter lasciare andar via così anche Dmitrij. Montai a cavallo e lo raggiunsi. Forse se l'avessi pregato sarei riuscito a persuaderlo a restare. La sua gioia nel sapere che lo volevo avrebbe avuto la meglio sulla paura. Ma io non lo volevo con me. Volevo solo separarmi da lui in modo più cordiale. «Prendi questa» gli dissi, porgendogli l'icona che mi ero sfilato dal collo. «Non basta a proteggersi da loro» mormorò lui. «Lo sai.» «Pensi che me ne priverei, altrimenti?» risi, e fui felice di vedere un accenno di sorriso sul suo volto. «È un simbolo, non un talismano.» «Un simbolo di cosa?» Non sapevo rispondere. Dmitrij si infilò la catenella al collo e ripose il ciondolo sotto la camicia. «Quando arrivi a Mosca, vai nella via Ordjnskij» aggiunsi. Era perplesso. «Perché?» «Lì vivono Boris e Natalia.» Inarcò un sopracciglio e mi sorrise. «Grazie, Aleksej. Spero di rivederti presto.» «Sarà così» risposi. Ci stringemmo la mano, e poi lui partì allo stesso trotto sostenuto di pochi minuti prima, ma con la testa inestimabilmente più alta.
Tornai alla capanna e impacchettai le mie poche cose. Mi avviai a sud, diretto a Kurilovo. Il giorno dopo, il ventotto di ottobre, verso mezzogiorno raggiunsi il villaggio. Le bufere degli ultimi giorni iniziavano a placarsi, lasciando un deserto bianco tutt'intorno. Il crocevia a cui dovevo incontrare Iuda quella sera si trovava poco a sud del villaggio. Il sole era già basso all'orizzonte quando andai a controllare il luogo. Potevo vedere uno spicchio di luna crescente, e molto presto anche quella avrebbe seguito il compagno più luminoso dall'altro lato del pianeta. Come ricordavo, il crocevia si trovava in cima a una bassa collina. A nord le case del villaggio erano piccole e lontane. A est e ovest potevo vedere ancor più in lontananza lungo le strade. I campi fra una via e l'altra erano sgombri e imbiancati. Chiunque cercasse di avvicinarsi all'incrocio da quelle direzioni sarebbe stato ostacolato dalla neve alta, e avrei potuto scorgerlo con largo anticipo. Il nascondiglio più vicino era a sud, un boschetto che attraversava la strada a quasi una versta da lì: una distanza sufficiente per accorgersi dell'arrivo di chiunque. Il crocevia non presentava caratteristiche particolari, tranne una: da una forca improvvisata pendeva, oscillando lentamente, il corpo di un impiccato. Era irrigidito dal freddo e ricoperto di neve, ma mi bastò spazzolarne via un po' per scoprire l'uniforme blu scuro di un capitano della fanteria francese. Tornai al villaggio e sedetti nell'unica locanda, bevendo vodka fino all'ora dell'appuntamento. «Dalla tua spada direi che sei un soldato» mi apostrofò una voce da un tavolo vicino. Mi voltai. Erano solo un paio di contadini, annoiati dalla loro conversazione e in cerca di un diversivo. Quello che aveva parlato era sui quarantani, con lunghi capelli rossi spettinati e occhi verdi iniettati di sangue. L'altro, forse suo padre, era ben oltre la sessantina. Gli erano rimasti pochi capelli in testa e ancor meno denti in bocca. «Esatto» risposi bruscamente. I miei pensieri si erano felicemente
soffermati sull'immagine di Domnikiia, e mi irritava esserne distratto. «Un soldato smemorato, però» disse l'uomo più anziano. «In che senso?» chiesi. «Hai dimenticato l'uniforme e sei arrivato con due settimane di ritardo per la battaglia» rise lui. «Sai, la battaglia. A Malojaroslavetz» spiegò il primo dei due, impaziente di avviare una conversazione. A Malojaroslavetz si era svolta la prima battaglia tra l'armata russa e quella francese, dopo che quest'ultima aveva lasciato Mosca. Come a Borodino, si era trattato di uno scontro in cui la vittoria tattica di Bonaparte doveva fare il paio con la sua sconfitta strategica. Benché vincitori, i francesi avevano dovuto ripiegare a nord, ritirandosi verso ovest lungo la strada da cui erano avanzati: una strada lungo la quale avevano già sfruttato ogni risorsa disponibile. La città di Malojaroslavetz distava quasi quaranta verste da Kurilovo, ma non era strano che per gli abitanti di lì fosse diventata «la battaglia», perché era il punto più vicino a loro in cui fosse giunto il conflitto. «Temo di non aver combattuto lì» risposi. «Non ho più combattuto dopo Borodino.» «Be', Bonaparte ormai sarà tornato più indietro di Borodino.» Il secondo uomo rise di nuovo. «Forse dovresti tornare laggiù e rivivere i tuoi giorni di gloria.» Questi erano gli uomini per cui avevo combattuto in tutta la mia vita di adulto. Probabilmente non si erano mai mossi da quel villaggio, di certo non erano mai usciti dall'oblast', eppure si permettevano di darmi del codardo. Questa è la croce che ogni spia deve portare, mi sentii dire dalla voce silenziosa di Vadim. Alla spia non toccano mai gli allori: deve appuntare le medaglie dentro la giacca. E che scelta hanno, loro? Sono servi della gleba, soggiunse ora la voce di Maks. Se hanno
combattuto, lo hanno fatto perché gliel'ha ordinato il padrone. Se sono rimasti a casa, è perché il padrone preferiva i contadini ai soldati, non perché loro preferissero la vita alla morte.
Non c'era pazzia, ma solo piacere, nell'ascoltare le voci dei miei amici morti. Anche quando erano vivi, in ogni momento potevo evocare le loro voci e le loro opinioni. Avevo avuto pochi problemi
che non potessero essere risolti da una semplice domanda del tipo: «Cosa penserebbe Maks?» o, altrettanto spesso: «Cosa penserebbe Marfa?». Adesso, almeno con Maks e Vadim, era l'unica occasione di ascoltarli. Se anche si trattava di pazzia, era una pazzia che sceglievo volentieri. Sbattei sul loro tavolo la bottiglia di vodka con la mano sinistra, mostrando chiaramente le ferite che mi ero procurato sul Danubio. «Bevete alla mia salute, vi va?» proposi. Non so se per merito della mia generosità o delle evidenti ferite di guerra, ma il loro atteggiamento si addolcì leggermente. «Dove ti è successo?» chiese il più vecchio, una volta che si fu versato una vodka, indicando le dita amputate. «In Bulgaria, a Silistra.» «In battaglia?» «Già» mentii, ma non potei impedire che la vera risposta si facesse strada nella mia mente. Non era accaduto in battaglia, bensì in una prigione. Quando il principe Bagration aveva deciso di abbandonare l'assedio di Silistra, io e alcuni altri fummo mandati in città a spiare. Ci eravamo divisi, e io mi ritrovai in un ostello, con mezza dozzina di uomini per camera, tutti nativi della zona. Ci trovavamo in posizione favorevole, addossati alle mura della città, quindi mi bastava gettare messaggi fuori dalla finestra al momento stabilito, ogni sera a mezzanotte. Uno dei miei commilitoni doveva semplicemente arrivare di soppiatto fin lì, raccogliere il messaggio e portare a Bagration le preziose informazioni. Non so se fossi stato io o il corriere a diventare sciatto, ma la terza sera quel pezzetto di carta, scritto in cirillico e avvolto intorno a una pietra, non cadde nelle sue mani, ma in quelle di una guardia turca. Non c'era scritto niente di molto interessante, se anche fossero riusciti a decrittare il semplice codice e a leggere il russo, però avevano visto da quale finestra era caduto. Pochi minuti dopo, alcuni soldati turchi - giannizzeri piombarono nella stanza. Per me fu facile intuire dalla loro conversazione cos'era successo, ma per loro il problema era che in
quella stanza eravamo in sette. Chiunque di noi poteva aver lasciato cadere il messaggio; e io mi ero assicurato che nessuno degli altri mi vedesse andare alla finestra. Quindi i turchi ci portarono tutti in cella e usarono i loro metodi migliori per persuadere la spia a confessare. Non confessai, nemmeno dopo aver perso due dita. Mi costrinsi a tornare con la mente al momento presente. Quella parte della storia la raccontavo volentieri a quasi tutti. Era ciò che avevo raccontato a Boris e Natalia. I dettagli di quanto accaduto nella prigione, invece, non li avevo mai detti a nessuno; ma a quei due uomini, quel giorno, non sentii neppure l'esigenza di riferire la storia a grandi linee. «Non penso abbiate visto molti francesi da queste parti» dissi invece. «No, non molti» rispose il più giovane. «L'unico francese che puoi trovare qui in giro è il vecchio Napoleone, laggiù al crocevia.» Risero entrambi. «L'ho visto» dissi. «Da quanto è lì?» «Da subito dopo la battaglia» proseguì l'uomo dai capelli rossi. «È arrivato in città e gli abbiamo mostrato la vera ospitalità russa.» «Era un disertore, o forse si era perso?» chiesi. «Come facciamo a saperlo?» ribatté l'uomo più anziano. «Non parliamo la loro lingua. Ma siamo stati contenti di dare il nostro contributo per il bene della Russia.» «Quindi sono passate... quanto, due settimane?». «Quasi» disse il più giovane. «Ora che è arrivato il freddo, resterà lì fino a primavera.» «Nessuno lo tirerà giù?» «Non finché continua a fare il suo lavoro» spiegò il più vecchio. «Il suo lavoro?» «Tiene lontana la pestilenza. È stata terribile, a Tuia.» Mentre parlava, le sue labbra raggrinzite venivano risucchiate nella bocca sdentata.
«È successo quest'estate» intervenne l'altro, evidentemente più riflessivo. «La pestilenza era già finita da tempo, quando abbiamo appeso Napoleone.» «Allora vuoi tirarlo giù tu?» fu la risposta. Il giovane non ribatté. Lasciare appeso il cadavere teneva lontana la pestilenza, e senza dubbio anche le tigri, i turchi, gli elefanti e gli inglesi, nessuno dei quali era stato più visto da quelle parti da quando «Napoleone» aveva iniziato la sua veglia al crocevia. L'unica creatura che non avrebbe tenuto lontana era quella che dovevo incontrare io. Mi avviai di nuovo verso l'incrocio, lasciando il cavallo al villaggio, con l'idea di arrivare lì ben prima dell'ora fissata. Ascoltavo la neve scricchiolare sotto gli stivali e sentivo il vento freddo sul viso. La luna crescente era bassa e gettava una luce appena sufficiente a vedere il panorama intorno a me. Guardandomi alle spalle scorsi il piccolo villaggio illuminato da luci calde e invitanti che spiccavano nel buio. Mi sarebbe piaciuto restare a chiacchierare per tutta la sera bevendo vodka con quei due, al riparo dal freddo, e dimenticare perché ero venuto fin lì; ma non potevo. Un servo della gleba può restare seduto finché il padrone non gli dà un nuovo ordine; un uomo libero dev'essere padrone di se stesso. Ogni tanto il vento alzava una piccola bufera di neve, accecandomi. Ma durava solo un istante. Non stava cadendo altra neve, quindi nel tenue chiaro di luna vedevo quasi altrettanto bene che durante il giorno. Al crocevia, la neve mostrava le tracce di qualche paio di piedi, poco altro. Il corpo di «Napoleone» penzolava ancora dal cappio, e dondolava lentamente nella brezza, a scacciare tutti quei terrori sconosciuti che altrimenti avrebbero potuto osare spingersi fino al piccolo villaggio di Kurilovo. Sul cadavere c'era meno neve. Forse il calore del sole al tramonto si era posato sull'uniforme scura ed era riuscito a scioglierne un po'. Ma il disgelo era superficiale. Dopo due settimane di inverno russo, quel francese sarebbe rimasto congelato per sempre, o almeno fino a primavera. Camminai descrivendo un ampio cerchio, mantenendo una rispettosa distanza dal cadavere al centro. Mi muovevo in parte per tenermi caldo, ma anche per sorvegliare ciascuna delle quattro strade che convergevano verso di me. Tutte e quattro rimasero vuote per
molto tempo. Dovevano essere quasi le sette quando vidi un uomo avvicinarsi da sud. Lo scorsi accanto al boschetto, potevo solo immaginare che si fosse nascosto lì in mezzo. Mentre lui si avvicinava, continuai a osservare le altre tre strade. Quello era il momento più pericoloso, quando avrei potuto essere intrappolato da tutte e quattro le direzioni, lasciandomi come unica via di fuga gli impraticabili campi innevati. Non c'era segno di altre persone. Ogni volta che tornavo a guardare il bosco, la figura si era avvicinata ulteriormente. Ben presto lo riconobbi: era Iuda. Quando arrivò, io mi trovavo a pochi passi dal centro del crocicchio. Lui si fermò guardando direttamente verso di me, proprio accanto all'uomo impiccato i cui piedi penzolavano pigramente nel vento all'altezza dei suoi fianchi. Fissando gli occhi grigi e freddi di Iuda non era difficile credere che fosse altrettanto morto e che a muoverlo non fosse più l'anima di un uomo, ma la volontà del diavolo. «Buonasera, Aleksej Ivanovič» disse.
Capitolo 23 «Buonasera» risposi, incamminandomi verso di lui. «Sei venuto da solo. Dmitrij Fetjukovič non ha voluto unirsi a te?» «Questa faccenda riguarda solo noi due» risposi. «È vero, Aleksej Ivanovič, anche se alcuni degli altri hanno un conto in sospeso con Dmitrij. Ma sono d'accordo: è meglio riservare quelle scaramucce per un'altra occasione. Anch'io sono qui da solo, come vedi. Per parlare dobbiamo fidarci l'uno dell'altro.» «Io non mi fido di te, Iuda» sbottai. «Mi dispiace, amico mio» disse lui con una sincerità fintamente genuina. «Non conosco bene le sfumature della vostra lingua. Certo che non ti fidi di me, perché dovresti? Non ho meritato questo privilegio. Ma ti fidi dei tuoi occhi. Ho scelto bene questo luogo d'incontro, spero. Puoi vedere che non c'è nessun altro in giro.» «Lo vedo.» Il vento prese a soffiare più forte. Era iniziata una lieve nevicata che, insieme al vento, riduceva la visibilità lungo le strade. Mentre parlavamo, non osservavo quasi mai direttamente Iuda, ma saettavo lo sguardo nelle varie direzioni cercando di scorgere un eventuale attacco. «Allora, cosa mi devi dire?». Sul suo volto si dipinse un'espressione lievemente sofferta, come se dovesse comunicarmi qualcosa di spiacevole, un'aria simile a quella di un uomo che stia per confessare un'infedeltà alla moglie. «Hai già ucciso tre dei nostri compagni: anche Maksim Sergeevič era riuscito a distruggere tre di noi.» «Ne ho uccisi più di tre» ribattei io, per rigirare il coltello. Lui strinse le labbra come se avesse assaggiato qualcosa di amaro. «Abbiamo scelto di essere magnanimi sulla morte di Ioann nella cantina. Eri lì e non hai fatto nulla per salvarlo dalle fiamme, ma probabilmente era impossibile salvarlo. Uccidere per omissione non può essere considerato omicidio. Quanto al soldato russo - Pavel, mi pare si chiamasse - non lo conterei tra i nostri. Era un bravo fante, ma non una perdita di cui rammaricarsi. Quindi lasceremo il conteggio a tre.
«Non possiamo non meravigliarci delle abilità che hai dimostrato nell'uccidere» proseguì. «Non so con precisione cosa tu abbia fatto con Matfej e Varfolomej, però erano guerrieri forti, quindi sei stato bravo a sconfiggerli. Ho visto invece nei dettagli ciò che hai fatto ad Andrej. Mi ha lasciato un'ottima impressione: non solo per la bravura mostrata con la spada, ma per il gusto con cui hai finito una vittima inoffensiva. È stato un piacere vederti esprimere l'odio in quel modo: assai più virile del tuo amico Maksim, che ha mandato a morire i suoi amici in un posto lontano, senza partecipare direttamente.» «Sono lieto che tu sia un mio ammiratore» dissi, «ma se volevi farmi i complimenti, ti sarebbe bastato scrivermi.» «In effetti, in effetti. E così la cara Dominique avrebbe potuto leggere le mie lodi, e nella sua mente si sarebbe confermata l'immagine dell'eroe affascinante. Ma forse avrò ancora l'occasione di dirglielo di persona. Quella povera ragazza deve trovarsi in un vero dilemma. Da un lato vede il tuo coraggio e il tuo eroismo nella battaglia contro di noi. Dall'altro vede che combatti coloro che un tempo erano i tuoi amici. Probabilmente si domanda se anche lei un giorno commetterà un piccolo errore, e diventerà tua nemica.» «Hai commesso un unico errore, Iuda, e non da poco» risposi io, con la rabbia che palesemente stava cercando di suscitare in me. «Il tuo errore è stato voltare le spalle all'umanità quando sei diventato un vampiro. È stato folle da parte tua dirmi che per diventare vampiri bisogna volerlo. Così hai cancellato l'ultima traccia di pietà che potessi nutrire per voi.» Dietro di lui, sulla strada da cui era venuto, mi parve di veder muoversi qualcosa nella neve. «Presumo tu voglia stabilire una specie di patto tra noi?» chiesi, cercando di arrivare al dunque. «Un uomo diretto, vedo.» Sorrise. Si incamminò, come se volesse superarmi, e mi resi conto che cercava di distogliere la mia attenzione dalla strada da cui era venuto. Mi spostai al centro dell'incrocio, accertandomi di avere ancora sott'occhio tutte le direzioni. «Ma hai ragione tu» continuò lui. «Dobbiamo raggiungere un compromesso. Quando si affronta un nemico forte e potente ci sono
due modi di comportarsi. Si può cercare di distruggerlo, di spazzarlo via dalla faccia della terra per impedirgli di irritarci con le sue continue aggressioni. Ci abbiamo già provato entrambi, e non ci siamo riusciti.» «Non mi pare di aver fallito. Ne sono già morti sette, dei vostri.» Iuda sorrise di nuovo, come un padre deliziato dalla precoce saggezza del figlio. «Quanto cameratismo, Ljosa. Hai ragione, tu personalmente stai bene: sei vivo. Ma considerando l'intero gruppo, mi pare che voi quattro ve la siate cavata poco meglio di noi dodici.» La raffica di neve si era placata, e non vedevo più muoversi nulla in lontananza dietro Iuda. A perdita d'occhio, nel bagliore argentato del chiaro di luna riflesso sulla neve, tutto era immobile. Tornai a guardare le altre strade: anch'esse erano deserte. Dietro di me, il capitano francese impiccato continuava a ondeggiare dolcemente con l'impeto accumulato nella brezza di prima. «Ma c'è anche un secondo modo» proseguì Iuda. «Un compromesso. Una creatura non deve diventare un nemico solo perché è potente. I lupi non attaccano gli orsi e gli orsi non attaccano i lupi. Non è che il lupo ami l'orso, però sa di avere poche possibilità di vittoria. Quindi quale sarebbe la tua scelta, Ljosa? Continuiamo a combattere e vediamo chi di noi sopravvive, insanguinato e mutilato, oppure ci separiamo in pace e proseguiamo le nostre confortevoli vite?» Restai in silenzio. Quando avevo parlato con Dmitrij, poco prima di separarci, conoscevo la risposta. Un accordo del genere sarebbe fallito perché io non mi fidavo degli Opričniki. E se anche loro si fossero attenuti alla promessa, io non l'avrei fatto. Iuda mi lesse nel pensiero. «Ma sono ingiusto a paragonare me e te agli animali selvaggi. Se il lupo e l'orso sembrano fidarsi l'uno dell'altro, non può essere a causa della loro saggezza, quindi deve essere a causa della loro follia. Non ci si garantisce la sicurezza sperando che i nostri nemici non ci attaccheranno. Sappiamo entrambi, Ljosa, quanto ciascuno di noi desideri uccidere l'altro - quanto sogniamo il piacere di dare quella morte. Nessuno di noi potrebbe sentirsi al sicuro, sapendo questo.
L'unica sicurezza è nella certezza che l'altro non potrà mai tornare a farci del male.» Parlava a voce più alta. La patina di cortesia sparì, lasciando il posto a un'espressione carica di rabbia e odio. «Tanto quanto si può star sicuri che un capitano francese impiccato, il cui cadavere abbiamo ispezionato nel pomeriggio, non potrà tornare in vita ad attaccarci.» Mi fissò negli occhi abbastanza a lungo per vedere che avevo capito di cosa parlava. «A meno che, naturalmente, non ce ne andiamo ad affogare i dispiaceri nella vodka, dando tempo a una carcassa senza vita di essere sostituita da un'altra.» Mentre lui parlava, qualcuno mi afferrò alle spalle. Le braccia del cadavere appeso dietro di me mi si avvolsero intorno al collo, e le gambe intorno alla vita. «Ti ricordi di Filipp, vero, Ljosa?» chiese Iuda, tornando ad affettare le sue buone maniere, ma ora accompagnate da uno sguardo esagitato di trionfo. Udii Filipp sghignazzare, e sentii che mi stringeva più forte mentre continuava a penzolare, incolume, dal cappio stretto intorno al collo. Dietro la spalla di Iuda vidi un movimento. Una carrozza emerse dal boschetto in fondo alla strada. Anche Iuda si voltò. «E ben presto saranno qui anche gli altri, e poi potremo andarcene tutti in un rifugio tranquillo e isolato, e cenare. Oh, so che sei un uomo coraggioso, Ljosa, e che una morte dolorosa significherà poco per te, ma mi darà un'enorme soddisfazione vederti capire esattamente quanto hanno sofferto Vadim e Maks.» La carrozza procedeva al trotto e avrebbe impiegato vari minuti a raggiungerci; se il cocchiere avesse deciso di passare al galoppo, però, ne avrebbe impiegati meno di due. Dovevo agire all'istante. Alzai i piedi in aria, sicché Filipp ora sosteneva tutto il mio peso, e scalciai con forza sul petto di Iuda. Riuscii solo a farlo indietreggiare di un passo, ma io e Filipp ondeggiammo all'indietro sulla fune. Lui non poteva fare altro che aggrapparsi a me. Cercò di stringermi le mani sul collo, ma il suo obiettivo iniziale era stato quello di tenermi fermo e non di strozzarmi, quindi poté fare poco. Liberai la spada dal fodero e ci dondolammo in un'ampia ellissi,
con Iuda al centro. Lui era accovacciato e si teneva pronto; nella mano destra reggeva il coltello a due lame che avevo già avuto occasione di vedere. Tirò qualche affondo cercando di colpirmi, ma sembrava non riuscire a prendere il ritmo irregolare del pendolo umano che aveva di fronte. Io stesso non ero in grado di controllarne il movimento, ma aspettai di essergli abbastanza vicino per colpire. In lontananza, gli altri Opričniki avevano visto cosa stava accadendo, e la carrozza passò al galoppo. Sapevo, dall'esperienza di Maks, che un affondo di spada non sarebbe servito a nulla, quindi vibrai la lama di taglio. Colpii Iuda sulla parte superiore del braccio destro, e lui lanciò un grido e si portò la mano sulla ferita. Nello stesso istante sentii il rumore del legno spezzato, e io e Filipp piombammo a terra: la forca aveva ceduto sotto il nostro peso. Quando toccammo la neve, Filipp perse la presa su di me e io mi sentii cadere addosso i giri di corda che ci avevano sostenuti. Mi rotolai su un fianco appena in tempo per schivare la trave di legno a cui era legato l'altro capo della fune. Filipp non fu altrettanto fortunato: la pesante trave lo centrò in pieno petto, mozzandogli il fiato ma provocandogli ben pochi danni. Reggendo ancora la spada nella mano destra, ora estrassi con la sinistra il pugnale di legno e iniziai a indietreggiare, cercando di capire se uno dei due Opričniki intendesse aggredirmi. Iuda si teneva indietro, e non poteva usare il coltello per via della ferita al braccio. Filipp invece si rialzò in piedi quasi subito e prese ad avanzare verso di me, il cappio ancora al collo. La carrozza sarebbe arrivata entro un minuto. Mi piazzai dietro il palo verticale della forca, mentre Filipp mi si faceva incontro. Iuda gli gridò qualcosa e lui rispose in tono sdegnato: evidentemente non gli servivano consigli. Si tuffò su di me a un lato del palo e io mi ritrassi dall'altro, correndo a perdifiato finché una conca del terreno, nascosta dalla neve, non mi fece inciampare e cadere. Mi rotolai in fretta sulla schiena e vidi la sagoma imponente di Filipp venire verso di me con le fauci spalancate, pronto all'attacco. All'improvviso gettò all'indietro la testa e si fermò, portandosi le mani al collo. La trave spezzata all'altro capo della fune si era incastrata come un'ancora nella neve. Avvolta intorno al legno, la
fune si era tesa, e Filipp non poteva avanzare oltre. Rinfoderai la sciabola, afferrai la fune e iniziai a tirare. Invece di lasciarsi trascinare, Filipp camminò seguendo la fune. Nel frattempo, oltre a tirare la corda, presi a tagliargli la strada. Iuda stava gridando istruzioni al compagno, ma Filipp non era in condizioni di obbedire. Quando andò a sbattere con la schiena sul legno, io strattonai la fune passandogli davanti e gli girai intorno altre due volte, legandolo al palo. Consapevole del pericolo imminente, Iuda mi si fece incontro arrancando sulla neve. La fune non avrebbe bloccato Filipp ancora per molto, ma non era mia intenzione che restasse vivo a lungo. Mi avventai su di lui con il pugnale, tirando forte la corda per stringerlo ancor di più al palo. La lama di legno si fermò per un attimo quando incontrò il suo cappotto, ma la stoffa cedette rapidamente e io la sentii separare le costole e insinuarsi nel cuore. Non persi tempo a indugiare sul suo corpo in disfacimento; estrassi subito il pugnale e mi voltai verso Iuda. Era la mia grande opportunità di distruggerlo, finalmente. Il colpo al braccio lo aveva indebolito, e non sembrava in grado di combattere. Si tirò indietro con aria circospetta. Avevo poco tempo per pensare. La carrozza era a pochi secondi da noi. Potevo ucciderlo, ma ci avrei rimesso la pelle. Mi voltai e fuggii verso il villaggio. La strada innevata era quasi impraticabile. Avevo raggiunto una buona velocità, e riuscivo a mantenerla; ma se mi fossi girato, fermato, o se solo avessi rallentato, avrei rischiato di cadere. Dietro di me sentii che la carrozza si fermava. Gli occupanti e Iuda si gridarono qualcosa, poi udii di nuovo muoversi le ruote. Avevo coperto forse un decimo di versta nel tempo che loro avevano impiegato per iniziare a rincorrermi, ma ora gli sarebbero bastati pochi istanti per raggiungermi. Mi guardai alle spalle: erano ancora lontani, ma stavano colmando la distanza. Il cocchiere frustava furiosamente i cavalli, la sua silhouette nera stagliata contro il cielo. Continuai a correre a perdifiato; la carrozza mi aveva quasi preso. Il rumore delle ruote era parzialmente attutito dalla neve. Era una fortuna che avessero scelto una carrozza, e non una trojka o un altro tipo di slitta, ma anche così erano più veloci di me. La frusta si
abbatteva sulla schiena dei cavalli, una sferzata dopo l'altra. Ormai erano talmente vicini che sentivo il fiato delle bestie sul collo. Di sicuro gli Opričniki volevano farmi cadere e schiacciarmi sotto il peso della carrozza; ma sarebbe stata una morte troppo poco dolorosa da infliggermi. D'un tratto i cavalli deviarono da un lato e il carro mi scorse a fianco. Vidi il cocchiere - Foma - sporgersi dalla panca verso di me, in equilibrio precario e incombendo come un doccione dal tetto di una cattedrale occidentale. Teneva in mano la frusta a formare un lungo cappio di cuoio; me lo gettò addosso e io lo sentii strusciare sulla nuca. Stava cercando di farmelo passare sulla testa a mo' di lazo per trascinarmi dentro la carrozza lanciata in corsa. Foma era quasi arrivato al mio fianco: ormai correvo in parallelo con le zampe posteriori dei cavalli. Sguainai la sciabola, sapendo che non mi sarebbe tornata molto utile contro gli Opričniki, ma avevo una speranza. Sferrai un colpo alle zampe posteriori della creatura che galoppava accanto a me. La lama affondò appena sopra il garretto, e con un nitrito di sorpresa il povero animale azzoppato si fermò all'istante. Mentre il pesante carro si abbatteva sui due sfortunati cavalli, io persi l'equilibrio e caddi a terra, rotolando fuori dalla strada e finendo in un campo. Mi voltai. La carrozza si era rovesciata su un fianco e si stava fermando nel fosso all'altro lato della strada. Uno dei cavalli giaceva immobile sul selciato, l'altro era nel fosso e cercava di rialzarsi sotto il peso del mezzo a cui era ancora legato. Foma era stato sbalzato in aria e giaceva stordito nel campo. Il portello laterale della carrozza era orientato verso l'alto: si aprì come una botola e ne emerse Iuda, che poi si chinò per aiutare gli occupanti rimasti a bordo. Li lasciai fare e presi a correre sulla neve. Poco più in là il campo terminava, delimitato da una siepe. Oltrepassata quella mi sentii al sicuro, quindi mi voltai a guardare gli Opricniki con il cannocchiale. Tentavano di rimettere in piedi la carrozza: Iuda supervisionava il lavoro, dando istruzioni agli altri tre ma senza aiutarli, ben presto però rinunciarono e si misero a scaricare un certo numero di bagagli. Li trascinarono con passo deciso sulla neve, tornando verso il crocevia; Iuda si reggeva ancora il braccio ferito.
Li seguii tenendomi a distanza. La luna era tramontata, e a tratti era quasi impossibile vederli, ma parlavano a voce alta e in tono collerico, e se anche non capivo il senso delle loro parole, riuscivo a localizzarli. Arrivati all'incrocio si fermarono. Per quanto guardassi, non vedevo traccia di Filipp. Non avevo avuto modo di accertarmi che fosse morto, ma non scorgevo un cadavere a terra, quindi mi convinsi di averlo ucciso. Pétr si inginocchiò accanto al palo a cui avevo legato Filipp e prese una manciata di neve per esaminarla. Ne dedussi che teneva in mano la polvere tipica dei resti terreni di un
vurdalak.
Proseguirono oltre il crocicchio, ripercorrendo la strada da cui erano venuti. Continuai a seguirli, affondando nella neve fino al petto, i calzoni gelidi e fradici. Alla fine giungemmo al boschetto da dov'era spuntata la carrozza. Aggirarlo mi avrebbe portato troppo lontano dalla strada, così dovetti addentrarmi tra gli alberi per non farmi distanziare. Mentre nei campi aperti le voci degli Opričniki mi erano giunte chiaramente, una volta nel fitto del bosco si smorzarono e presto sfumarono in un silenzio completo. Sapevo che da quelle parti erano partiti con la carrozza per venire al crocevia, quindi se loro si fermavano e io continuavo a procedere in parallelo alla strada, come stavo facendo, rischiavo di superarli e perdere le loro tracce. Cambiai direzione e mi incamminai verso la strada. Nel bosco le tenebre erano assolute. Guardando in alto intravedevo appena le stelle sopra l'intrico di rami che, benché spogli, erano coperti da tanta di quella neve da lasciare visibili solo pochi frammenti di cielo. Non scorgevo la stella polare, dunque non sapevo bene se stavo andando nella direzione giusta. Avevo svoltato a sinistra per tornare verso la strada, ma già dopo pochi passi avrei potuto allontanarmi molto dalla traiettoria scelta. I vampiri sono creature della notte, e sebbene non ne fossi certo, dovevo presumere che vedessero assai più chiaramente di me in quella poca luce. Avrei potuto sbagliare strada e trovare uno di loro quattro ad aspettarmi, e non me ne sarei accorto finché non avessi visto brillare le sue zanne. In tutto ciò, c'era almeno un brandello di consolazione: erano rimasti solo in quattro, uno in meno rispetto a quando erano calate le tenebre. Una parte di me mi diceva che avevo fatto abbastanza
per quella notte; avrei dovuto mettermi al sicuro e andarmene a dormire, rimandando l'uccisione degli altri. Ma era una questione accademica: il vero problema era uscire vivo da quei boschi. I vampiri non erano il più minaccioso dei miei nemici: i lupi e il gelo della notte costituivano un pericolo più immediato. Mi spinsi nella direzione che speravo fosse quella giusta. Quando ero entrato nel bosco mi trovavo a mezza versta dalla strada, eppure mi aggiravo lì dentro già da più di un quarto d'ora e non ne vedevo la fine. Evidentemente non avevo camminato in linea retta. Poi, poco avanti a me, scorsi una luce tra i tronchi fitti. Avvicinandomi, mi accorsi che stavo arrivando a una radura, che si apriva sulla strada ma restava nascosta dagli alberi, quindi non l'avevo vista dal crocevia. Nella radura sorgeva una piccola fattoria e lì accanto un fienile. La luce proveniva dal fienile; non c'erano luci alle finestre della fattoria. La vista di quegli edifici solitari e coperti di neve, stagliati contro il buio, mi fece sentire come il bambino protagonista di una fiaba cruenta. Mi avvicinai di soppiatto e mi misi in ascolto. Da dentro il fienile provenivano le risa sguaiate e gutturali degli Opričniki. Sembrava fossero tornati di buonumore: qualcosa li aveva rallegrati dopo la sconfitta subita per mia mano. In silenzio girai l'angolo e raggiunsi la porta, in cerca di una fessura nel legno da cui poterli osservare. Posai l'occhio tra i cardini, dove si apriva uno spiraglio, ma prima che riuscissi a guardar dentro, la porta fu spalancata di colpo verso l'esterno. Mi tirai velocemente da parte e mi appoggiai con la schiena al muro, pronto a combattere, senza sapere se la porta fosse stata aperta per sorprendere me o per un altro motivo. Un oggetto grande e pesante fu gettato fuori, atterrando quasi sul fondo della radura e affondando nella neve. Lanciai uno sguardo ai due Opričniki che l'avevano scagliato, ma loro non si avventurarono all'aperto e non mi videro. Svolto il loro compito, rientrarono nel fienile. Udii altre risate e chiacchiere nella loro lingua e poi un grido che mi parve la parola russa Niet! in una voce che sicuramente non apparteneva a nessuno degli Opričniki. Poi la voce di Iuda berciò un ordine, e la porta del fienile fu richiusa. Anziché camminare direttamente verso l'oggetto lanciato fuori, il
che mi avrebbe costretto a passare davanti alla porta e quindi forse nel campo visivo degli Opričniki, tornai nel bosco e seguii il perimetro della radura. Mi avvicinai all'oggetto misterioso avanzando carponi. Me l'aspettavo, ma avevo disperatamente cercato di non crederci: si trattava di un cadavere. Ripulii il volto dalla neve e trasalii per la sorpresa, portandomi una mano alla bocca. Era una donna, di mezz'età e sicuramente morta, ma non era questo a ispirarmi tanto orrore. Togliendo altra neve dal suo corpo nudo, vidi ripetuto quasi ovunque ciò che avevo visto sul suo viso. Oltre alle consuete ferite alla gola, gli Opričniki si erano spinti molto oltre con quella vittima. C'erano morsi ovunque. Non solo il segno dei denti, ma brandelli di carne strappata dai denti famelici dei vampiri. Mancavano entrambe le guance, oltre a parti della gola, i seni, la pancia, i glutei, le cosce e i polpacci. Ma non l'avevano divorata completamente: restava ancora molta carne. Dall'espressione tormentata del volto, potevo immaginare una sola ragione per cui i vampiri avessero deciso di interrompere il pasto. La donna era morta.
Capitolo 24 Gli Opričniki non avevano avuto molto tempo per catturare la loro vittima. Li avevo persi di vista entrando nel bosco, e dovevano essere passati non più di venti minuti. La sola conclusione a cui potevo giungere era che avessero incontrato la donna in precedenza e l'avessero lasciata imprigionata nel fienile mentre venivano da me. Forse l'avevano trovata nella fattoria lì accanto. Se era la moglie del fattore, allora doveva esserci anche lui. Ricordai la voce russa che avevo udito poco prima. Tornai di soppiatto al fienile e ripresi a guardare dalla fessura accanto alla porta. La scena era indicibilmente cruenta. Il fattore si trovava al centro della stanza, con i polsi legati da una lunga fune fatta passare sopra una trave del soffitto. Le braccia erano tese sopra la testa, le dita dei piedi sfioravano appena il pavimento, il corpo penzolava descrivendo un ampio movimento oscillatorio. Fra tutti i supplizi ideati dai torturatori medievali dell'Ovest, quando i cattolici cercavano di riportare a Dio i protestanti e viceversa, la ruota era il più famoso ed efficace; ma le manette infliggevano alla vittima altrettanto dolore, e in modo più semplice. Quello però era solo il primo livello della sofferenza procurata dagli Opričniki. L'uomo era a petto nudo. La testa ciondolava all'indietro, e ogni tanto lui cercava di sollevarla emettendo lamenti alternati a strilli. Quindi era ancora vivo. Lo sapevo io e soprattutto lo sapevano gli Opričniki. Per fare un paragone improprio di natura sessuale, il piacere dei vampiri non nasceva semplicemente dalle sensazioni provate, bensì dalla consapevolezza del dolore che procuravano. Accanto al corpo del fattore stavano tre dei quattro Opričniki. Anche loro erano a torso nudo: evidentemente il loro appetito chiedeva di essere soddisfatto con il tatto oltre che con il gusto. Erano Pétr, Foma e Iakov Zevedajnic; Iuda stava in disparte, lontano dall'azione. Era completamente vestito, e sulle labbra sporche di sangue gli vidi un sorriso sadico che insieme condivideva e disprezzava la gratificazione degli altri tre.
Iuda parlò. Non capii le parole, ma compresi che si rivolgeva a Foma, e dal tono di voce sembrava un suggerimento più che un ordine. Foma voltò la testa verso Iuda e fece un largo sorriso compiaciuto. Gli altri due restarono a guardarlo mentre si portava alla bocca la mano del fattore e affondava i denti con forza nella carne del palmo alla radice del dito medio. Il poveretto strillò, non con un grido acuto e incredulo, ma con l'ululato cupo e stanco di un uomo per il quale il dolore è diventato d'un tratto l'unica sensazione rimasta. Le ferite sul suo corpo mi dicevano che gli Opričniki quella notte avevano già dato sfogo ai loro appetiti. Foma ritrasse la bocca e deglutì ciò che aveva morso, mostrando lo stesso gusto con cui io consumerei un'ostrica seduto davanti a un'affascinante commensale su cui desiderassi fare colpo. Intanto gli altri emettevano suoni che non mi parvero appartenere alla loro lingua, sembravano piuttosto semplici versi di apprezzamento. Foma passò al dito successivo e diede un morso più profondo. Stavolta, oltre al grido del contadino, sentii lo scricchiolio delle ossa spezzate. La punta del dito cadde a terra, ma il vampiro riuscì a riempirsi la bocca. Sputò qualcosa dall'altra parte della stanza; vidi l'oggetto rimbalzare sulla parete e cadere al suolo, non capii cosa fosse ma doveva essere qualcosa di significativo, perché suscitò nei compagni una risata tremenda: tremenda, e tuttavia non autentica. Era la stessa risata che avevo udito quando li avevo conosciuti, la risata sporca di chi vuol essere visto ridere dagli altri. Anche Iuda rise, ma era chiaro che li scherniva. In seguito, quando scoprii cosa Foma aveva sputato, faticai a comprendere perché li divertisse tanto. Non è facile dire adesso, né lo era allora, perché rimasi a osservare la scena che si svolgeva davanti ai miei occhi. Ma era inevitabile che restassi. Le due dita appena perse dal contadino mi avevano riportato indietro a quella prigione di Silistra, tre anni prima; eppure la sintonia più forte non era con il suo dolore: era invece con coloro che stavano a guardare, con il me stesso di oggi, che spiava da una fessura della porta. E, peggio ancora, era con Iuda: lui che guardava, sorrideva e, come me, non faceva niente. I turchi sapevano che almeno uno di noi sette era una spia russa.
Avrebbero potuto ucciderci tutti, ma volevano informazioni, e per ottenerle dovevano identificare un uomo solo su cui concentrare gli sforzi. Ci avevano tenuti svegli fino a tarda notte, interrogandoci, ridendo di noi, canzonandoci. Alla fine ci disposero in fila, rivolti verso il muro. Io ero il quinto. Poi presero il primo uomo. Udii uno strano rumore, uno scricchiolio che non sapevo interpretare, accompagnato da un grido. Era lo stesso rumore che avevo appena sentito mentre i denti di Foma spezzavano le ossa nel dito del contadino. Non ero ancora riuscito a capire cosa stesse accadendo, mentre i nostri aguzzini procedevano lungo la fila; ma ogni volta sentivo quella stessa, misteriosa combinazione di suoni. Poi giunsero da me. Vidi il sangue sul tavolo: non molto, quattro piccole macchie distinte. Quando mi presero il polso e lo immobilizzarono, capii: volevano tagliarmi la mano. Cercai di tirarmi indietro senza riuscirci. La lama era piccola: non uno dei palas con cui combattevano ma una semplice mannaia per la carne, trovata chissà dove. Mi fecero ripiegare le altre dita e la lama calò. Non so se gridai. Non ricordo davvero il dolore, però ricordo di aver sentito sgorgare il sangue dal moncherino del mignolo, di averlo sentito colare sulle altre dita e poi sul pavimento. Quelli tra noi che avevano già visitato il tavolo erano tornati in posizione, ma ora davano le spalle al muro. Una volta perduto l'elemento sorpresa, farci assistere era una tortura molto più efficace. Ci spiegarono che avrebbero smesso se la spia avesse confessato; che confessando, costui avrebbe posto fine non solo alla propria sofferenza ma a quella di tutti. Non mi lasciai convincere. Mi importava poco dei miei compagni di prigionia - bulgari che erano stati felici di allearsi agli ottomani contro gli altri slavi - e non dubitavo che quegli aguzzini progettassero di porre fine alle nostre sofferenze in modo permanente. Poi fecero un altro giro. Stavolta avevamo tutti più paura. Sebbene non ricordi il dolore, rammento perfettamente la paura che ne avevo. Con gli stessi rumori di prima, a turno ciascuno degli uomini perse un secondo dito. Quasi tutti voltarono la testa per non vedere ciò che presto sarebbe toccato anche a loro, io invece continuai a guardare, vidi la mannaia calare ogni volta, vidi il volto
sofferente della vittima e quelli indifferenti dei turchi che buttavano via il dito tagliato. Non so perché guardassi; forse speravo di abituarmi prima che tornassero di nuovo da me. Funzionò, ma funzionò troppo bene. L'intorpidimento rimase, anzi aumentò negli anni. Era stato quello, capivo ora, a permettermi... a costringermi a guardare in quel fienile dalle parti di Kurilovo, ad assistere alle torture che si svolgevano lì dentro. A Silistra, solo una delle altre vittime era rimasta a guardare con me. Era il secondo della fila: un ragazzo, poco più di un bambino. Non aveva gridato quando la lama gli aveva amputato il dito. Quando lo amputarono a me, gridai eccome. Non so perché, ma il secondo dito fece molto più male del primo. Forse perché me l'aspettavo. Non ero arrivato al punto di voler confessare, ma mi chiesi quante altre dita sarei stato disposto a perdere prima di arrendermi. Pensavo di poter rinunciare a tutta la mano sinistra, ma quante dita della destra potevo perdere prima di diventare un uomo inutile? E perché me ne importava, poi? Mi avrebbero ucciso comunque. Di nuovo sentii il sangue scorrere sulle altre dita. Ci sarebbe voluto del tempo, ma alla fine mi avrebbe ucciso l'emorragia stessa. Uno dei soldati ci fece cenno di tenere le mani sopra la testa. Così si rallentava l'emorragia, tuttavia non era un atto di pietà. L'avevano già fatto altre volte, e agivano per esperienza: alzare le braccia per rallentare il deflusso del sangue ci avrebbe allungato la vita, e avrebbe aggiunto nuovo dolore quando le braccia avrebbero iniziato a indolenzirsi. Sentii un rivolo tiepido di sangue colarmi lungo il braccio fino al petto. Quando iniziarono ad amputare il dito medio, giunse infine la confessione: ma non da me. A confessare fu una persona che, a quanto ne sapevo, non aveva alcun legame con i nemici dei turchi: il ragazzo secondo nella fila, quello che era rimasto a guardare il tavolo. Dopo che ebbe parlato ci fu silenzio; sollievo sui volti dei prigionieri - compreso quello del ragazzo -, soddisfazione su quelli dei carcerieri. Ricordo di aver sentito il tenue cinguettio degli uccelli, fuori dalle alte finestre. Eravamo rimasti nella prigione per tutta la notte.
La cosa strana era che il ragazzo aveva confessato subito dopo, non prima, l'amputazione del terzo dito. Il dolore gli aveva forse spezzato la volontà? Non sembrava. Potevo solo immaginare che avesse fatto ciò che io non mi sarei mai sognato di fare: aveva deciso di risparmiare gli altri prigionieri. Se era così, allora quel ragazzo era un pazzo nobile, ma comunque un pazzo. Se mentiva dicendo di essere una spia - e mentiva di sicuro, a meno che non fossimo in due - se ne sarebbero accorti presto. E per tutti noi sarebbe ricominciata la tortura, forse una tortura nuova e peggiore. Soltanto a quel punto fui davvero tentato di confessare, ma anche allora non lo feci. Tutti e sette fummo condotti fuori, nella tenue luce dell'aurora, e fummo ributtati nelle due piccole celle. Fu a quel punto che il ragazzo fuggì. In un istante si arrampicò fino in cima al muro, e stava per saltare giù dall'altra parte quando udimmo uno sparo. Lo vidi cadere, e subito dopo mi avviai di corsa nella direzione opposta. La mano sinistra mi bruciava mentre mi aggrappavo al bordo superiore del muro, e poi scivolò sul sangue viscido che continuava a sgorgare dalle ferite. Ma la mano destra aveva trovato presa, e mi issai fino in cima. I turchi avevano compreso l'errore commesso nel gettarsi tutti insieme all'inseguimento del primo fuggiasco, e sentii delle pallottole volarmi sopra la testa. Però ormai era tardi. Fui così fortunato da riuscire a fuggire dalla città senza morire dissanguato, e sopravvissi. Non so cosa sia accaduto agli altri torturati insieme a me. In quel momento non me ne importava. Ora invece, mentre guardavo svolgersi una scena simile in quel fienile, mi importava molto, ma non c'era nulla che potessi fare. Aggredirli, da solo contro quattro, mi avrebbe portato a una morte così inutile da essere immorale. Sapevo di dover attendere un'occasione migliore - attendere che gli Opričniki si separassero, e attendere l'alba - prima di arrischiarmi ad attaccare. Ma la domanda più difficile era: perché restavo a guardare? Non avevo bisogno di vedere altre dimostrazioni della natura disgustosa degli Opričniki, né di studiarne il comportamento per individuare qualche punto debole. In parte avevo bisogno di carburante per il mio odio. Era un lato di me stesso di cui ero consapevole da tempo. Sono, o almeno credo di essere, un uomo dalle passioni molteplici; ma tutte difficili
da accendere. Ci arrivo per piccoli passi, non a grandi balzi. Non mi prenderei la briga di trovarmi un'amante, a meno che quell'amante fosse così disponibile che conquistarla non costasse più di qualche rublo. Per di più, non mi prenderei il disturbo di innamorarmi, se non di una donna che fosse già mia amante; solo attraverso l'intensità del sesso avevo scoperto la profondità del mio amore per Domnikiia. E allo stesso modo, solo attraverso l'ira nauseabonda del vedere gli Opričniki all'opera potevo alimentare il fuoco dell'odio abbastanza da decidermi a portare a termine la mia decisione di distruggerli. Le parole di Iuda avevano colpito nel segno. Ero un uomo superficiale, volubile, amante delle comodità. Reso insensibile da quanto accaduto a Silistra, e da quanto avevo già visto fare agli Opričniki, dovevo restare lì con gli occhi incollati a quella scena nel fienile per accumulare la forza e la determinazione necessarie per sconfiggere quelle maledette creature. Eppure, guardare non mi avrebbe desensibilizzato ulteriormente? La volta successiva - ma pregavo Dio non ci fosse una volta successiva - che avessi assistito a simili orrori, li avrei forse considerati banali? Avrei avuto bisogno di abissi ancor più profondi di depravazione per stimolare la mia sete di giustizia? Malgrado questo rischio, non staccai gli occhi. Iuda offrì un altro suggerimento, stavolta a Iakov Zevedajnic. Il vampiro si inginocchiò davanti allo stomaco dell'uomo, fissandolo come per prepararsi al morso. L'uomo aveva già varie ferite sul ventre. Una, su un fianco, era lunga e profonda e sanguinava ancora copiosamente. Iakov Zevedajnic ci infilò le dita, e tutto il corpo del contadino si contorse in uno spasmo di dolore. Gli Opričniki scoppiarono di nuovo a ridere. Foma prese l'uomo per i piedi e Pétr lo strinse al torace per tenerlo fermo. Iakov Zevedajnic girò ancora una volta le dita nella ferita, e stavolta i contorcimenti dell'uomo, benché più intensi, furono assorbiti dai due vampiri che lo immobilizzavano. Iakov Zevedajnic continuò a infierire, imparando a ogni colpo come intensificare il dolore della sua vittima. Ogni volta scambiava uno sguardo con gli altri due, cercando la loro approvazione e rispondendo con una risata. Pètr si rivolse a Iuda in un tono che, in una situazione normale, si sarebbe adattato a una frase del tipo:
«Tuffati, l'acqua è tiepida!». Iuda si avvicinò. Aveva in mano un sottile bastone di legno, forse l'aveva raccolto per strada o strappato da un albero; era lungo, con la punta irregolare e affilata. Lo affondò nella ferita sul fianco dell'uomo e lo fece ruotare come un cavaturaccioli. L'uomo lanciò un grido di dolore e Iuda gli parlò in russo. «Credo che tua moglie si sia divertita più di te, quando l'ho fatto a lei.» Lui alzò la testa e cercò di guardare il vampiro negli occhi. Se ne avesse avuto la forza, avrebbe potuto sputargli in faccia, ma era esausto per la sofferenza. Reclinò la testa. Foma fece una domanda che poteva essere interpretata solo come: «Cosa gli hai detto?». La risposta di Iuda fu, presumo, sincera. Gli Opričniki risero di nuovo nel loro modo peculiare. Poi Iuda fece un passo indietro e offrì un altro suggerimento, questa volta a Pètr. Non avevo bisogno di capire i dettagli per comprendere che Pétr stava obbedendo prontamente. Dmitrij mi aveva parlato di dissidi e lotte di potere tra di loro, ma era chiaro che in quel momento Pétr era assolutamente sottomesso a Iuda, così come gli altri due Opričniki sopravvissuti. La nuova idea di Iuda non suscitò risate, ma un sospiro e una leccata di labbra da parte dei due vampiri che non avrebbero potuto realizzarla. Pétr spalancò la bocca e posò le labbra sul petto dell'uomo, coprendogli il capezzolo. Indugiò un istante, mimando un bambino che succhia il latte e lanciando uno sguardo di sottecchi a Iuda. Questi sorrise con un cenno d'assenso e gli altri due si scambiarono un'occhiata, comunicando solo con mugolii di apprezzamento, come un paio di cani il cui padrone stia per offrire loro un boccone prelibato. Sul volto di Iuda si disegnò un nuovo sorriso impertinente. Pronunciò una sola parola di incoraggiamento, e Pétr rispose semplicemente chiudendo le fauci e poi tirando indietro la testa, strappando via la carne che aveva addentato. Lo strillo dell'uomo proruppe acuto per un attimo, e subito si tramutò in una supplica gracidante. Pétr si sdraiò supino sul pavimento del fienile con le mani dietro la testa, a masticare soddisfatto la carne. Per gli altri due
fu come veder sventolare un drappo rosso. Si avventarono sul contadino e iniziarono ad assaporare il sangue delle vecchie ferite e a infliggerne di nuove con i loro denti affilati e indagatori. La voce di Iuda si fece più ferma e le sue frasi divennero ordini, non più consiglio. Avanzò di un passo e strattonò via Foma, e Iakov Zevedajnic si tirò indietro docilmente, era troppo tardi: troppo tardi per loro, certo non troppo presto per la loro vittima, o per me. Il contadino era morto, non so se per accumulazione di dolore o per la fortuna di un'arteria vitale recisa. Non importava. Era stato liberato e poteva riunirsi alla moglie recentemente scomparsa. Tornai nel bosco appena in tempo per vedere il corpo dell'uomo gettato fuori dal fienile accanto a quello della moglie, nella neve. Accovacciato dietro un albero, nel gelo, attesi. Se tutti e quattro decidevano di dormire lì fino alla sera successiva, allora sarebbe stato il loro ultimo giorno. Con la luce del sole non avevo remore ad affrontarli e a distruggerli uno per uno, come avevo fatto con gli altri. Ma non avrei potuto affrontarli di notte. La paura che avevo visto in Dmitrij ora diventava una presenza solida nel mio petto. Mi frenava e mi irrigidiva, impedendomi di avanzare e di fuggire. Era un condotto da cui il freddo intorno a me poteva entrarmi nel cuore e congelare ogni sensazione, ogni idea a parte il più volatile degli istinti, quello di sopravvivenza. Ma perlomeno il freddo e il terrore avevano un effetto collaterale positivo: mi tenevano sveglio. Mi sarebbe piaciuto molto arrendermi all'oblio mentre facevo la guardia fuori da quel fienile, ma non potevo. Aspettai e ripensai a tutto ciò che era successo da quando avevo conosciuto gli Opričniki, passando in rassegna i miei ricordi felici e quelli tristi, e poi Vadim e Maks, Marfa e Dmitrij Alekseevič, e soprattutto Domnikiia. La cosa più ridicola era il modo in cui tentavo di combinare insieme questi ultimi tre: vedevo Dmitrij che giocava felice con Domnikiia, e la giovane Domnikiia che chiacchierava amabilmente con la saggia Marfa. Non volevo si fondessero, non volevo una singola creatura con gli aspetti migliori di entrambe, come non volevo una sola grande città della Russia che unisse tutte le cose belle di Pietroburgo e di Mosca. Il risultato sarebbe stato un nulla, una perfezione sintetica che poteva piacere
solo al più blando dei palati. Sarebbe stato come mescolare mezzo bicchiere di vino rosso e mezzo di bianco per produrre la bevanda ideale. Il mio compito non era soltanto tenerle separate, ma anche lasciare che si bilanciassero l'una con l'altra: assicurarmi che nessuna delle due bottiglie restasse vuota e anche che nessuna acquistasse un sapore tanto buono da farmi dimenticare l'altra. Forse non sarò stato al massimo della lucidità, ma almeno ero sveglio quando, alcune ore dopo il loro orribile banchetto, Iuda e Foma uscirono dal fienile. Sul ciglio della strada si scambiarono poche parole e poi Foma si avviò a sud, mentre Iuda svoltò a nord. Il viaggio di Foma non l'avrebbe portato lontano: ben presto avrebbe incontrato la strada principale e poteva andare a est, a Serpuchov, o a ovest, a Mozajsk. La seconda opzione sembrava più probabile: l'avrebbe riportato sul percorso della ritirata di Bonaparte. Quanto al viaggio di Iuda, a nord c'era una sola grande città. Restai in attesa. Avevo buoni motivi per non correre nel fienile a sorprendere i due vampiri rimasti: Iuda e Foma potevano ancora tornare, e comunque, protetti dalle tenebre, anche due soli Opričniki potevano dimostrarsi avversari forti. Sapevo di dover aspettare mezzogiorno, quando entrambi sarebbero stati al punto più basso della coscienza e incapaci di opporsi ai paletti di legno che gli avrei conficcato in petto. Ma in quella coscienza stava l'unica soddisfazione che potessi trarre dalle loro morti. Avevo visto quanto gli piacesse lasciare in vita le loro vittime e che il loro unico godimento stava nel dolore altrui. Il mio ragionamento si spingeva oltre. Volevo che soffrissero, ma ancor di più desideravo sapessero perché stavano morendo, e per mano di chi. In tutta onestà, percepivo in me lo stesso desiderio. Sentire e riconoscere il momento della propria morte dev'essere l'atto di comprensione ultima, nel bene o nel male. Non ero stato presente al momento della morte di Maks, e prima ancora alla morte di mio padre. Non volevo perdere l'occasione della mia morte, né capivo perché quei due vampiri dovessero perdere la loro. Quindi, anche se non avessi voluto punirli, avrei comunque voluto che fossero senzienti nell'istante del non ritorno. Semplicemente, così sentivo che dovevano andare le cose.
Fu quindi poco prima dell'alba che mi avvicinai di nuovo al fienile e guardai dentro, mentre i primi cinguettii degli uccelli salutavano il nuovo giorno. Era vuoto. Entrai. Due lanterne, appese alle travi del soffitto, illuminavano l'interno. La fune a cui avevo visto appeso il contadino c'era ancora, recisa a entrambi i capi quando il corpo era stato tirato giù. Al di sotto, il pavimento era macchiato di sangue; due chiazze, fianco a fianco, una per l'uomo, una per sua moglie. C'era poco altro. In un angolo erano riposti degli attrezzi agricoli, e lì accanto giaceva una mangiatoia rovesciata, troppo piccola per nascondere qualcuno. Una scala portava al soppalco che fungeva da deposito per la paglia in soffitta. Non c'era traccia degli Opričniki o delle loro bare. Sopra di me sentivo i ratti correre nel sottotetto, i loro minuscoli artigli ticchettare e le code strisciare sulle assi di legno. Forse cercavano cibo, forse venivano a controllare se costituivo una minaccia. Ma erano davvero ratti, o un'altra razza di parassiti? Il soppalco si estendeva con un soffitto basso e piatto per circa un terzo della lunghezza del fienile. Da lì spuntava una grossa trave che correva fino alla parete opposta e reggeva la fune recisa. Travetti più piccoli si dipanavano dalla trave centrale per sostenere le pareti, altri ancora si inclinavano verso l'alto per reggere il tetto. Camminai all'indietro fino alla parete di fondo, tenendo lo sguardo fisso sul soppalco. Muovendomi, sentivo muoversi loro. Quando io mi fermavo, loro si fermavano. Non riuscivo a vederli, ma sapevo che Pètr e Iakov Zevedajnic erano lassù. Poi, tra due balle di fieno, vidi balenare un paio d'occhi scuri. Li fissai e iniziai ad avvicinarmi. Gli occhi non si mossero, né mostrarono di sapere che li stavo guardando. Speravo di riuscire a tornare sotto il soppalco, esattamente sotto il punto in cui si trovava il proprietario di quegli occhi, e di colpirlo dal basso verso l'alto. Sapevo di non poterli uccidere così, ma avevo visto la notte prima quanto Iuda fosse stato indebolito dalla ferita, e speravo di procurarmi un vantaggio sufficiente per colpirli a morte. A tratti guardavo la scala e il bordo del soppalco. Li sopra c'era anche un secondo vampiro, e non volevo attaccarne uno restando vulnerabile all'altro.
Sobbalzai quando qualcosa mi piovve su una guancia. Lo scacciai con una mano: era un ragno, raggomitolato su se stesso in posizione difensiva. Guardai in alto e mi trovai faccia a faccia con Iakov Zevedajnic. Anche lui sembrava un ragno, gli arti divaricati sulle travi di quercia del soffitto, senza alcun appiglio visibile. Era la stessa abilità nell'arrampicata che aveva dimostrato Foma a Mosca. Iakov Zevedajnic si lanciò giù verso di me. Io riuscii a fare un passo indietro ma fui comunque scaraventato a terra. Il vampiro mi si avventò addosso all'istante, pronto a sferrare il suo attacco mortale. Sopra la sua spalla vidi emergere Pètr, procedeva carponi lungo la trave centrale, in uno spazio non più largo della sua mano. Assestai colpi alla cieca con la spada a Iakov Zevedajnic che si tirò indietro, permettendomi di rimettermi in piedi. Sferravo fendenti rapidi, mirando al collo. A un certo punto avvertii una leggera pressione, quando la punta affilata gli toccò la pelle. Lui si portò la mano alla gola. Era una ferita superficiale, ma sufficiente a renderlo circospetto. Si tirò ancor più indietro e vidi che Pétr si era avvicinato ancora, facendosi strada con agilità nella ragnatela di travi. Sferrai alcuni affondi verso l'alto, lui li schivò senza sforzo, ed emise un ringhio ferino. Iakov Zevedajnic mi si avventò contro di nuovo; io non ero così distratto da Pétr da non riuscire a tagliargli il dorso della mano con la lama. Intanto Pétr si lasciava dondolare da sopra, le gambe strette intorno a una trave; mi afferrò la spada stringendo forte la lama con entrambe le mani, incurante del dolore, sempre che ne provasse. Cercai di liberarla dalla sua presa scuotendola, ma lui teneva duro. Iakov Zevedajnic mi si avvicinò di nuovo, più lentamente, non perché avesse paura ma perché voleva assaporare il momento della mia morte. Con Pétr che mi teneva la spada, non avevo modo di oppormi all'attacco. Il mio pugnale di legno, ottimo per uccidere quelle creature, non era un'arma adatta per affrontarle in un corpo a corpo. Mi aggrappai all'elsa e sollevai i piedi, portando le gambe al petto. Pétr riuscì a sostenere il mio peso per una frazione di secondo, prima che la lama affilata della mia sciabola gli sfuggisse di mano precipitandomi a terra. Puntai la spada alla caviglia di Iakov Zevedajnic e sferrai un colpo che lo fece balzare di lato. Pètr era
ancora appeso a testa in giù dalla trave e si esaminava le mani ferite, la testa ciondolante come una prugna matura. Puntai dritto al suo collo, e solo l'urlo di avvertimento di Iakov Zevedajnic lo spinse a sollevarsi verso il tetto con tutto il corpo: la lama fischiò a pochi centimetri dalla sua testa. Pètr batté in ritirata lungo le travi e io lo seguii, menando fendenti come un dannato. Anche Iakov Zevedajnic si era rifugiato sotto il soppalco e scoprii presto perché. Un forcone - preso dal mucchio di attrezzi che avevo notato prima - mi volò addosso all'improvviso, lanciato dall'altra parte del fienile. Scartai da un lato e parai con la spada, ma fui colpito al braccio sinistro, vicino alla spalla: i rebbi del tridente mi penetrarono nel cappotto e mi ferirono prima di abbattersi a terra, dove affondarono. La battaglia non stava piegando a mio favore. Era il momento di fuggire. Corsi verso la porta, ma Iakov Zevedajnic mi precedette. Ora reggeva in mano una falce, e la faceva oscillare davanti a sé, impedendomi di avvicinarmi a lui e all'uscita. Con un sorriso che somigliava tanto a un ghigno fece scorrere il chiavistello. Non era un ostacolo insormontabile, ma mi avrebbe rallentato. «Proprio come tu hai chiuso dentro Ioann» disse, senza smettere di sorridere. Dietro di me sentii un tonfo, e immaginai che Pètr si fosse lasciato cadere sul pavimento del fienile. Con loro due ormai al fianco, e Iakov Zevedajnic armato, la lotta era decisamente impari. Iakov Zevedajnic era il più vicino, e sapevo di dovermene sbarazzare prima che Pétr coprisse la breve distanza che lo separava da me. Conoscevo bene l'inefficacia dell'uso tradizionale della spada contro quelle creature, ma dopo anni di addestramento ed esperienza era diventato per me quasi un istinto. Attaccai Iakov Zevedajnic come se fosse un uomo mortale. Quando lui mi sferrò contro la falce, indietreggiai di un passo. Mi seguì, rischiando di perdere l'equilibrio. Afferrai il manico della falce e lo tirai verso di me e verso la mia spada, avvertendo una fitta al braccio ferito. Spaventato, il vampiro mollò la presa e mosse un passo indietro. La porta era alle sue spalle e non poteva allontanarsi oltre. In quell'istante mi gettai in avanti.
La punta della mia sciabola gli perforò il petto, gli trapassò il cuore, gli uscì dalla schiena e si infilò nella porta di legno dietro di lui. Avevo impresso così tanta forza alla mia stoccata che la lama proseguì, fermandosi solo quando la guardia della spada arrivò al petto del vampiro. Lasciai la spada e arretrai. Qualsiasi umano sarebbe morto in un istante: il cuore perforato dalla lama non avrebbe più potuto pompare il sangue vitale nel resto del corpo. Ma i vampiri avevano altri metodi per rifornirsi di sangue, e non avevano bisogno - in nessun senso - di un cuore. Sentii Pétr che rideva dietro di me, e un largo sorriso si formò sul volto ferino di Iakov Zevedajnic. «Dovresti limitarti a combattere contro gli uomini» disse Pètr, in tono di scherno. «Saresti bravo.» Iakov Zevedajnic si preparò a fare un passo avanti per riprendere l'attacco, ma scoprì di non potersi muovere. La mia spada non gli aveva arrecato danni seri, ma lo aveva inchiodato alla porta come una farfalla nella teca di un collezionista. Portò le mani all'elsa e cercò di estrarla, ma non riusciva a far leva. La risata di Pétr cessò. Mi voltai verso di lui, sguainando l'ultima arma che mi restava: il pugnale di legno. Pétr indietreggiò con quella che mi parve una paura eccessiva, e io la sfruttai a mio vantaggio. Iniziai a corrergli incontro, e lui si tirò indietro più veloce. Dietro, il manico del forcone spuntava dal pavimento puntando verso di lui, come una lancia. Sarebbe stata una bella fortuna se ci fosse caduto sopra con l'angolazione giusta. Temendo lo stesso esito, Iakov Zevedajnic lanciò un grido di avvertimento al compagno. Pètr si scansò appena in tempo, schivando il manico di legno e cadendo invece di schiena sul pavimento. Strappai il forcone dalla terra battuta in cui si era infilzato e lo scagliai giù contro la gola del vampiro. La sua carne offrì solo una resistenza momentanea prima di cedere alla mia pressione: le punte affilate la penetrarono e si infissero nuovamente nel terreno. Non lo uccise: non sembrò neppure avergli inflitto dolore, nonostante il sangue che sgorgava dai buchi nel collo, però gli impedì di muoversi. Inarcò la schiena per tentare di liberarsi e riuscì persino a sollevare un po' la testa, scorrendo con il collo su e
giù per i rebbi, ma restò immobilizzato. Avevo fatto prigionieri due Opričniki, sebbene ne bastasse uno. Mi voltai verso Iakov Zevedajnic, che ancora cercava di staccarsi dalla porta. Con la suola dello stivale sferrai un calcio al chiavistello; cedette solo in parte. Iakov Zevedajnic protese le braccia verso di me. Non mi raggiunse, io diedi un secondo calcio, e questa volta il chiavistello metallico si staccò dal legno e la porta si aprì rivelando la luce dell'alba e trascinando con sé il vampiro come una giacca appesa a un gancio. Come Vadim Fëdorovič appeso alla parete. Soltanto a quel punto Iakov Zevedajnic comprese cosa l'attendeva. Il suo grido non fu di dolore, ma di paura, e presto fu interrotto dal rumore di un'esplosione, quando la luce del sole lo investì. Non fu lo scoppio secco e roboante di un fucile o di un cannone, ma una deflagrazione più lenta, più ampia, come quando la polvere da sparo si infiamma nello scodellino. La porta si spalancò e poi si richiuse di rimbalzo. La mia spada sporgeva ancora conficcata nel legno, all'altezza del petto di un uomo. Di Iakov Zevedajnic non c'era traccia, a parte qualche straccio bruciato che penzolava dalla mia lama e una leggera strinatura sul battente, che disegnava la sagoma di un corpo. Tornai a voltarmi verso Pètr; stava ancora lottando per liberarsi. Tirai via il forcone e glielo puntai al volto. Lui si ritrasse strisciando sul pavimento come un granchio, diretto alla porta come se potesse essere una via di fuga. Lo infilzai di nuovo - stavolta alla spalla, gettandomi su di lui con tutto il mio peso per spezzare le ossa e i tendini - e lui si immobilizzò e restò a fissarmi con un volto che non tradiva paura, solo odio e disprezzo. «È questa l'ospitalità russa?» sbottò. «Invitate le persone nel vostro Paese e poi le ammazzate a una a una.» «Avremo pur invitato delle persone» risposi, «ma non è quello che abbiamo ottenuto.» Le due pozze di sangue erano lì a ricordarmi ciò a cui avevo assistito poche ore prima. Una parte di me voleva dimenticare, un'altra parte doveva saperne di più.
«Vi ho guardati» dissi, quasi in un sussurro, «ho visto cosa avete fatto a quell'uomo. Ho visto il cadavere della donna. Gli animali si cibano, ma questo... Cos'era questo? Perché?» Pètr sorrise. «Vuoi saperlo davvero?» «No» mentii istintivamente. «Ma dimmelo lo stesso.» Malgrado i rebbi di metallo che gli infilzavano la spalla, lui tentò di mettersi comodo, come per raccontare una lunga storia. «Ciascuno di noi all'inizio beve soltanto» cominciò, «e già questo è un piacere, almeno quando si è giovani, inesperti. Ma con il tempo bere diventa noioso, quindi mangiamo. E poi mangiare diventa come bere, quindi giochiamo. E poi giocare diventa altrettanto noioso, quindi torturiamo. E poi torturiamo più crudelmente, per trovare soddisfazione. Più è antico il vampiro, più in là ha bisogno di spingersi.» Mi parve allora che fossero simili a me. Anch'io avevo bisogno di esperienze sempre più intense per far montare la mia rabbia; loro ne avevano bisogno per provare piacere. «Il vostro amato Zmeevič è piuttosto vecchio» dissi. «Immagino che...» Non osavo neppure pensare a cosa potesse fare. «Il maestro è fin troppo vecchio. Una volta mi ha confidato di essere andato oltre il dolore fisico. Si può trarre più piacere dalle menti delle persone. Ma gli umani questo lo imparano prima di noi. Per me è troppo, per ora può bastare il lato fisico.» «Mi stupisce che abbiate l'immaginazione per escogitare nuove... idee.» «Può essere complicato.» Sorrise di nuovo. «Ma Iuda dev'essere un vampiro da molto tempo... non quanto il maestro, perché gli interessi di Iuda sono ancora fisici, però ha una tale quantità di idee.» Annuì in segno di approvazione per la parola. «Per esempio» proseguì, con un sorriso più largo, «se quell'uomo non fosse morto, gli avremmo...» Scossi il manico del forcone. In un essere umano, quel leggero movimento sarebbe bastato a inviare scariche di dolore nella spalla ferita. Per lui significò poco, ma almeno lo fece star zitto. Non
volevo aiutarlo a provare nuovo piacere raccontando la storia, sebbene fossi ansioso di sentirla - e me ne vergognavo. Passai a questioni più pressanti. «Dove sono andati Iuda e Foma?» chiesi. «A fottere tua madre» rispose lui, con buona grazia. Gli tirai un calcio all'ascella, vicino al forcone. «Dimmelo» ringhiai, ma lui sembrava non provare alcun dolore. Non avevo bisogno urgente di quell'informazione. Ero certo che sarei riuscito a rintracciarli, e che, se anche non li avessi trovati, Iuda non avrebbe saputo resistere alla tentazione di inseguirmi di nuovo. Feci un passo indietro e raccolsi il pugnale di legno, preparandomi a uccidere il mostro indifeso. Da fuori, il canto lontano di un gallo annunciò in ritardo l'alba. Mi voltai di nuovo verso Pétr e vidi che la sua espressione era cambiata, da uno sguardo di rassegnata malevolenza a uno di terrore assoluto. Era come se il canto del gallo l'avesse terrorizzato. Forse era proprio così. Era un segnale del pericolo che aveva affrontato ogni mattina fin dal giorno in cui aveva compiuto la scelta disgustosa di diventare un vampiro. Ma non fu quel suono - o almeno, non fu solo quello - a metterlo a disagio. Aveva il fiato corto e saettava nervosamente lo sguardo tra me e la sua mano destra, che aveva sollevato dolorante dal pavimento. A terra, dove l'aveva posata, una piccola chiazza di sole era entrata dalla porta quando avevo scardinato la serratura. Un filo di fumo saliva dal centro della chiazza, dove un frammento di unghia si stava consumando. Guardai la mano di Pétr. Le ferite al palmo infette dalla lama della mia spada erano già sparite. L'unghia del dito medio era polverizzata; ma davanti ai miei occhi, iniziò a ricrescere. Pétr era ormai preda di un terrore che non avevo mai visto in un Opričnik. Spinse con tutto il corpo contro il forcone, cercando di liberarsi, e mi fissò con un'ansia mite, spaventata. Gli piazzai un piede sull'avambraccio e lo spinsi a terra, portandogli la mano di nuovo sotto il sole. Lui lanciò un grido stridulo e prolungato. La tenue luce dell'alba bruciò la carne con una rapidità che sulla pelle umana avrebbe richiesto il calore di un fuoco. La pelle delle dita si annerì all'istante e si spaccò, raggrinzendosi
come la buccia di una mela marcia. I tagli sulla pelle gettavano sangue rosso e pus giallastro, parte del quale colò a terra, mentre il resto ribollì ed evaporò nell'aria. La puzza era nauseabonda: un miscuglio della muffa più pungente e di capelli umani bruciati. Ben presto le quattro dita e la parte superiore della mano non avevano più carne, e restavano solo le ossa, e anch'esse iniziarono a sciogliersi. La punta del dito medio prese fuoco e poi cadde a terra. Il raggio di luce aveva disegnato un segno netto sulla mano. Tutto ciò che restava in ombra rimase intatto. La pelle sopravvissuta terminava in una sottile frangia nera che delimitava il palmo, dove la carne aveva iniziato a bruciare e poi si era ritirata nella sicurezza del buio. Dal dorso della mano, come un guanto strappato, penzolava un ampio lembo di pelle bruciacchiata, staccatasi dall'osso e sfuggita alla luce del sole. Alzai il piede e lui tirò indietro la mano di scatto. Smise di gridare, ma i suoi respiri erano irregolari. Espirava con grandi sospiri rauchi, inspirava a piccoli scatti. Doveva vedersela con il dolore e la paura insieme. «Dove sono andati Iuda e Foma?» chiesi di nuovo, stavolta gridando. Non rispose. Era difficile capire se avesse sentito la mia domanda. Stavo per rimettergli il braccio al sole quando, come già era accaduto all'unghia, vidi l'intera mano iniziare a ricrescere. L'osso caduto dal dito medio era già stato rimpiazzato, e masse di carne nuova e sana si stavano formando intorno a ciascun dito. Un nuovo strato di pelle avanzava a velocità regolare dalla metà incolume dell'arto. Nel giro di cinque minuti la mano sarebbe tornata normale. Questo spiegava perché sui suoi palmi non ci fossero lacerazioni provocate dalla mia spada, e inoltre spiegava perché Maks poteva affermare di aver amputato il braccio di Andrej, quando invece io l'avevo visto in seguito con tutti gli arti al loro posto. Quelle creature erano (in questo e in altri modi) come ragni. La perdita di un braccio o di una gamba poteva essere un disagio temporaneo, ma non c'era dubbio che sarebbero ricresciuti. Fui colto da un brivido al pensiero che mi sovvenne subito dopo: sperai fossero soltanto come ragni. Che un vampiro si facesse ricrescere un braccio era un conto, ma pregai che il braccio, una volta staccato, non potesse farsi ricrescere intorno un corpo intero, come accade a
un lombrico o al manico di scopa di uno stregone. Se le cose stavano così, allora poteva esserci un altro Andrej là fuori. Per i miei scopi più immediati, tuttavia, quella era una svolta interessante. L'obiettivo del torturatore è infliggere il maggior dolore alla sua vittima provocando il minor danno: i turchi avevano preso dita, non braccia e gambe. Non lo si fa per compassione, ma semplicemente perché se si danneggia troppo un corpo, quello non sente più dolore. Non sente più nulla. Il vampiro era il sogno di un torturatore divenuto realtà. Si poteva infliggere un dolore continuo perché il corpo si riformava in continuazione. Avrei potuto portare Pétr sull'orlo della morte e poi lasciare che si riprendesse, solo per ricominciare da capo il giorno dopo, e quello dopo ancora. Ero tentato, ma non ero un seguace di De Sade. E in ogni caso, non ero certo che avrebbe funzionato. Quando ero stato torturato, benché il dolore fisico fosse lancinante, metà del terrore era stato provocato dalla consapevolezza che sarei rimasto menomato, che mi sarebbero mancate per sempre due dita. Se avessi saputo che sarei uscito di lì con la mano intatta, forse il dolore fisico, per quanto tremendo, sarebbe stato tollerabile. Pétr non sembrava vedere le cose in modo tanto filosofico. Il dolore per lui era assolutamente reale. Eppure non aveva ancora risposto alla mia domanda. Gli piantai di nuovo il piede sul braccio. Il sole si era spostato leggermente, quindi stavolta l'intera mano fu esposta alla luce. Il vampiro gridò ancora quando il centro del palmo si spaccò e si aprì rivelando la carne arrostita al di sotto. Lo tenni fermo finché l'intera mano non fu quasi scomparsa, e anche allora mollai la presa solo per alleviare il puzzo nauseabondo. «Allora, vuoi dirmelo?» Lui annuì, cercando di riprendere fiato. «Sì» ansimò. «Sì.» «Ebbene?» «Sono corsi dietro ai francesi. Cercano di tornare a casa, nei Carpazi, ma resteranno con loro il più a lungo possibile, perché lì c'è del cibo.» «Entrambi?»
Pètr annuì. Gli piazzai di nuovo lo stivale sul braccio, ma non spinsi. «Allora perché ho visto Iuda dirigersi verso Mosca?» «Non lo so» rispose lui, cercando di scrollare le spalle. Gli spinsi giù il braccio, in modo che il polso scorticato e sanguinante venisse sfiorato dalla luce, poi lo rilasciai. «D'accordo» gridò. E subito sorrise con la soddisfazione di chi, nel momento della morte, si gode la vendetta sul suo assassino. «È andato a trovare la tua puttana. Dominique, si chiama così. Vuole trasformarla in una di noi. Pensa sia proprio il tipo che si lascerà persuadere. E se no... be', ti basta guardare qui fuori per vedere quanto possiamo ottenere da un singolo corpo umano. In ambo i casi, non avrai occasione di fotterla ancora.» Si sforzò di ridere; non sembrava divertito ma sperava di contribuire al mio dolore. Mi avviai a passo sostenuto verso la porta. Ero quasi arrivato quando vidi brillare qualcosa sul pavimento. Mi avvicinai, mi chiesi come fosse finita lì. Poi compresi. Era esattamente il punto in cui Foma aveva sputato qualcosa dopo aver strappato il dito del contadino la notte prima. Ora potevo vedere l'oggetto che aveva suscitato tanta ilarità negli Opričniki. Era la fede nuziale dell'uomo. Proseguii verso la porta e la spalancai. Dietro di me udii il rombo e il fruscio che avevano accompagnato la distruzione di Iakov Zevedajnic. Mi voltai e di Pétr non c'era più traccia. Restava solo il forcone che, senza più sostegno, cadde a terra. Un rettangolo di luce entrava dalla porta gettando una forma simile a una bara dove un attimo prima era sdraiato Pétr. Di lui rimaneva una nuvola di fumo. Estrassi la spada dalla porta e me ne andai.
Capitolo 25 Il mio cavallo era ancora a Kurilovo, quasi due verste da lì. Corsi come un matto lungo la strada innevata, scivolando e inciampando. Mi fermai al crocevia, esausto, ansimante. La fune era ancora avvolta intorno al palo a cui avevo legato Filipp, ma non c'erano altre tracce delle avventure di quella notte. Proseguii, ma avevo così poco fiato in gola che probabilmente correvo più lento di come avrei potuto camminare. Giunsi alla carrozza, ancora riversa nel fosso. Il cavallo morto restava sulla strada; l'altro era sparito, slegato da un buon samaritano o da un ladro di cavalli. Proseguii fino al villaggio. Per la strada incontrai l'uomo dai capelli rossi con cui avevo parlato la sera prima. Mi riconobbe e mi chiamò. «Ehi! Siete stato voi a portare via Napoleone? Avete visto cos'è successo a quella carrozza?» Non mi fermai a rispondere. Raggiunsi la taverna, pagai lo stalliere e, senza attendere il resto, montai in sella. Erano passati quasi quindici minuti da quando avevo lasciato il fienile. Spronai il cavallo al galoppo e mi concessi la prima vera opportunità di riflettere. La mia unica speranza risiedeva nel fatto che Iuda non poteva viaggiare di giorno. Era partito circa tre ore prima dell'alba: non sarebbero mai bastate per arrivare a Mosca. Io avevo a disposizione otto ore di luce - un po' meno, ormai - per raggiungerlo, superarlo ed essere da Domnikiia prima che lui potesse risvegliarsi nelle tenebre e andare da lei. Mi attendeva un tragitto di circa ottanta verste, su strade ghiacciate e pericolose. Era fattibile, ma dovevo stare attento. Non ce l'avrei fatta se avessi sfiancato il cavallo. Lo feci rallentare e proseguimmo a un ritmo meno concitato. Se non fossi arrivato a Mosca in tempo, le cose si sarebbero messe male per me, e Domnikiia non avrebbe avuto speranza. L'idea che potesse morire fra atroci sofferenze, come quel contadino e sua moglie, come sapevo che erano morti Maks e Vadim e tanti altri, mi riempiva di una rabbia indicibile. Se fosse andata così, allora non
avrei avuto pace finché non avessi distrutto Iuda. L'avrei inseguito per tutta la Russia, in Austria, in tutto l'Impero ottomano se necessario. Avrei scalato ogni maledetta montagna dei Carpazi, ma l'avrei scovato e sarebbe morto. Non l'avrei fatto soffrire troppo non volevo abbassarmi al suo livello -, ma avrebbe saputo che ero stato io a togliergli la vita, e perché. Durante il viaggio mi abbandonai alle fantasticherie: avrei scoperto Iuda nascosto nei sotterranei di qualche misterioso castello nei Carpazi, magari tra dieci o vent'anni; avrei tirato via il pesante coperchio di pietra dalla sua bara e avrei alzato la lanterna per osservare il volto ancora giovanile del mostro a cui avevo dato la caccia per tanto tempo; lui avrebbe spalancato gli occhi sul mio volto stanco e rugoso, ma mi avrebbe riconosciuto. Avrebbe ricordato ciò che aveva fatto a Domnikiia nel preciso istante in cui il mio paletto gli si conficcava nel cuore e poneva fine per sempre alla sua putrida esistenza, e le sue spoglie mortali si sarebbero ridotte in polvere sotto il peso della corruzione accumulata in una vita troppo lunga e repellente. Non indugiavo in questi pensieri solo perché mi divertivano, ma anche perché volevo scacciarne altri. C'era un'altra possibilità che Pétr aveva menzionato, un altro lato della medaglia. Iuda voleva persuadere Domnikiia a unirsi a lui. Era un'idea ridicola, ma mi raggelò il cuore. Domnikiia era una donna, e una donna vanitosa. Aveva già espresso il desiderio di poter vivere per sempre. Sarebbe stato facile per Iuda convincerla che la sua idea idilliaca della vita da vampira fosse vicina alla verità? Quali bugie avrebbe inventato per influenzarla, bugie sul proprio conto, e sul mio? No, non poteva succedere. Domnikiia era romantica e sognatrice, ma era anche buona e intelligente. Non avrebbe mai scelto quella strada, per quante menzogne le raccontassero. E se però l'avesse scelta, cosa avrei dovuto fare io? Con Iuda mi sarei vendicato più o meno alla stessa maniera, ma con Domnikiia? Una vendetta sarebbe stata necessaria, perché lei non avrebbe più avuto speranza di redenzione. Nell'istante in cui avesse condiviso il sangue di Iuda, la sua anima sarebbe stata dannata. Sarebbe andata all'inferno immediatamente, o solo al momento della distruzione ultima del suo corpo mortale? Non lo sapevo. Ora conoscevo molti modi per
uccidere un vampiro. Quale di essi, mi domandai, avrei dovuto usare sulla mia cara, dolce amante? Spronai il cavallo al galoppo, cercando di non pensarci e concentrandomi invece sul terreno insidioso. Il movimento mi provocava un forte dolore al braccio, dove il forcone mi aveva colpito, ma non osavo controllare la ferita per paura di rallentare l'andatura. Il braccio riusciva ancora a reggere le redini: per il momento doveva bastare. Galoppammo per diversi minuti nella gelida aria invernale, mentre il cuore mi sobbalzava in petto per l'emozione della corsa. Tornai con la mente ai giorni più sereni della giovinezza, quando me ne andavo libero tra i colli e i campi intorno a Pietroburgo, giorni in cui il nome di Bonaparte si pronunciava raramente fuori dalla Corsica, e mai fuori di Francia. Potevo davvero incolpare di tutte le mie sventure quell'unico uomo? Non era stato lui a trasformare gli Opričniki in vampiri, né aveva chiesto loro di venire a Mosca. Il primo delitto era colpa di Satana e il secondo di Dmitrij, con la connivenza di tutti noi. Eppure non dovevo dimenticare che gli Opričniki, malgrado l'abilità con cui uccidevano, in fondo erano parassiti, non predatori. Per sopravvivere dovevano trovarsi in una matrice di morte e paura. Certo, in tempo di pace potevano restare in Valacchia, uccidendo un numero sufficiente di contadini per sfamarsi senza attirare troppo l'attenzione su di sé; ma in guerra, dove la morte era un evento normale, potevano cedere ai loro istinti più biechi. In guerra tutti gli altri mali potevano fiorire indisturbati, sembrando banali in confronto ai massacri quotidiani. Una guerra è un ottimo posto in cui nascondere un crimine - un albero in mezzo a una foresta -, e chi sarebbe così ingenuo da cavillare su un centinaio di morti provocate dagli Opričniki, davanti alle centinaia di migliaia di morti che si avevano da entrambi i lati del conflitto? Bonaparte non era responsabile soltanto di quelle centinaia di migliaia, ma anche di aver svilito l'importanza di ogni altra morte e ogni altra tragedia che fosse avvenuta in Russia, se non in tutta Europa. Quando tanti uomini muoiono da eroi, chi ricorda coloro che muoiono spaventati e soli? Cambiai cavallo a Troitskoe. Non ne avevano uno ferrato, quindi dovetti attendere quasi mezz'ora prima di poter ripartire. Tuttavia una volta rimessomi in viaggio, riguadagnai presto il terreno
perduto. Ma il sole stava già tramontando quando arrivai alla periferia di Mosca. Attraversai la città e legai il cavallo poco lontano dalla via Degtjarnij, per avvicinarmi a piedi. Bussai con impazienza alla porta. Mi aprì Pétr Petrovič, mi scrutò da capo a piedi e, vedendomi trasandato com'ero, arricciò il labbro con un certo sdegno che mal si adattava a un uomo della sua professione. «Mademoiselle Dominique non è disponibile stasera» mi disse, prima che avessi proferito parola. «Con chi è?» «Quando dico "non disponibile" intendo che non è qui. Riprovate domani.» «Dov'è?» «Non ne ho idea. Pensavo sapeste dove se ne va alla sera.» Avrei potuto entrare contro la sua volontà e correre nella stanza di Domnikiia, ma non c'era motivo di dubitare che dicesse la verità. In passato, ogni volta che era impegnata con un cliente, l'uomo me l'aveva detto senza mezzi termini, compiaciuto del fatto che dovessi dividerla con altri. «C'è Margarita?» chiesi, sperando che lei avesse le idee più chiare sugli spostamenti di Domnikiia. L'atteggiamento di Pétr Petrovič mutò leggermente. Non costituivo più una possibile minaccia alla sua sussistenza - lo spasimante che potrebbe sottrargli la sua attrazione migliore -, ma ero di nuovo un cliente come gli altri, pronto a trovare in Margarita un'alternativa quando la mia prima scelta non era disponibile. «Ah, vedo che il signore gradisce le brune, temo però che anche Margarita sia impegnata. Raisa è libera, ma vi prego, capitano, andate prima a cambiarvi i vestiti. E magari potreste darvi una lavata? Se non per il bene di Raisa, almeno per gli altri clienti.» Gli rivolsi un sorriso silenzioso e meditabondo, che speravo comunicasse il messaggio «ti spacco il naso a pugni», poi mi voltai e imboccai la porta. Non sapevo da dove iniziare a cercare Domnikiia. C'era una piccola possibilità che fosse andata alla locanda dove alloggiavo, ma non aveva motivo di attendersi il mio ritorno a
Mosca cosi presto, e in ogni caso ne sarebbe ripartita appena appurata la mia assenza. La cosa migliore era aspettare fuori dal bordello. Era l'unico posto in cui ero certo che Domnikiia sarebbe tornata, ed era lì che Iuda era diretto. E siccome il vampiro non poteva spostarsi di giorno, e ipotizzando che viaggiasse alla mia stessa velocità, potevo attendermi il suo arrivo entro cinque ore, più o meno verso le dieci. Perlustrai con lo sguardo la piazza in cerca di un posto dove nascondermi ad aspettare. Di fronte al bordello c'erano varie case ancora disabitate. Non ebbi difficoltà a introdurmi in una di esse già invasa settimane prima dai francesi - e andai al piano di sopra, da dove potevo tenere d'occhio tutta la piazza. Mentre salivo le scale di quell'abitazione buia e abbandonata, non potei non ripensare a quando, pochi giorni prima, avevo trovato in quell'altra casa tanti cadaveri martoriati - russi, francesi e non solo, e tra loro Vadim -, in parte divorati e poi gettati via come vecchie ossa di pollo. Ma lì non c'era puzza, non c'erano ratti. Era solo una casa vuota e razziata, una delle poche fortunatamente sopravvissute agli incendi. In un salotto, trovai persino alcuni mobili. Mi sedetti su una vecchia sedia del tavolo da pranzo, preparandomi a una lunga veglia. Fui colto di sorpresa. Mi ero appena accomodato, sul lato opposto della piazza, quando vidi accendersi una lampada nella stanza di Domnikiia. Presi il cannocchiale e lo puntai sulla finestra con le tende aperte. Vidi lei e il suo cliente. Evidentemente Pétr Petrovič mi aveva mentito. Domnikiia era nuda e avvinghiata all'uomo. Mentre lui attraversava la stanza diretto alla finestra, le braccia di lei lo stringevano al collo e le gambe alla vita. La testa oscillava da un lato all'altro, oscurando il volto dell'uomo mentre lo baciava sulle labbra. I suoi capelli scuri e lucidi erano sciolti sul collo e sparivano dietro la spalla, tra il suo corpo e quello di lui, lasciando in vista l'elegante schiena bianca. Meno di ventiquattr'ore prima ero stato l'osservatore clandestino di un'altra scena da cui molti avrebbero forse distolto lo sguardo. Io ero rimasto a guardare, nonostante la nausea che mi montava dentro. Stavolta le mie motivazioni erano molto più variegate.
Certo, dovevo controllare Domnikiia per tenerla al sicuro; ma molti uomini avrebbero scelto di non guardare la donna amata nelle braccia di un altro. Da tempo avevo accettato la sua professione, e benché credessi davvero che quegli uomini non significavano nulla per lei, avrei comunque dovuto distogliere lo sguardo e cercare di soffocare il mostro della gelosia. Invece provai solo eccitazione, non soltanto alla vista di due esseri umani come me coinvolti in un atto così intimo e privato, ma in particolare nel vedere la donna che amavo agire in un modo così diverso da come mi avevano educato a pensare che una donna dovesse comportarsi: in modo così simile a un animale. Mi faceva piacere anche vedere l'uomo ingannato, sopraffatto dai suoi istinti primordiali, sapendo che se in quel momento aveva tutto ciò che desiderava, nel lungo periodo non gli sarebbe rimasto nulla. Ero io a possedere il cuore di Domnikiia, l'amore di Domnikiia e l'anima di Domnikiia. Gli altri potevano far la fila per lei tutt'intorno a San Basilio, ma tutti i loro sforzi e il sudore erano niente, nel suo cuore, rispetto al tocco delicato della mia mano. L'uomo era già nudo fino alla cintola, a parte una benda sul braccio. Continuò a camminare per la stanza con Domnikiia avvinghiata addosso, e le appoggiò le mani sotto le natiche per sostenerla. Insieme si avvicinarono alla finestra, e la schiena di lei fu premuta contro i vetri, mentre lui le si addossava. Poi si spostarono leggermente e restarono lì qualche istante, le bocche inseparabili, le dita di lui che vagavano su e giù per la spina dorsale di lei. Poi lui fece un passo indietro e Domnikiia tornò a poggiare i piedi a terra, alzando gli occhi a guardare l'uomo. Finalmente potevo vederlo in faccia. Era Iuda. La fissava con uno sguardo di spaventosa tenerezza, e chinò il capo come per baciarla, ma io seppi all'istante la sua vera intenzione. Balzai in piedi, ma non c'era nulla che potessi fare. Se avessi gridato non mi avrebbero sentito, e comunque non l'avrei fermato. Ci avrei messo più di un minuto a scendere le scale, attraversare la piazza e raggiungerli. Se avessi avuto con me una pistola gli avrei potuto sparare, ma su un vampiro non avrebbe avuto effetto.
Non potei che restare a guardare mentre lui schiudeva le labbra e si preparava a posarle delicatamente sulla gola di Domnikiia. Le scostò i lunghi capelli dalla spalla e li tirò da parte con la mano, liberando la carne del collo per il morso e - così mi sembrò, nel mio terrore attonito - per farmi vedere meglio. La sua bocca discese, la testa di Domnikiia si arcuò leggermente all'indietro nell'istante del contatto. Sopra la sua spalla potevo vedere solo gli occhi grigi e diabolici di Iuda che fissavano nella notte verso di me. Non bevve a lungo, e ben presto sollevò la testa e fece un passo indietro. Lei si mise a sedere traballante sul davanzale, le mani allargate ai fianchi per sostenersi. Teneva la testa sollevata per guardarlo negli occhi, ma io non riuscivo a vedere se l'espressione sul suo viso fosse di terrore, di sottomissione o di estasi. Iuda estrasse di tasca il coltello. La mia improvvisa, ridicola paura che potesse farle del male fu immediatamente cancellata dalla consapevolezza del male che aveva già fatto. Si portò al petto le due punte gemelle del coltello, chiuse gli occhi e le fece scorrere sotto il capezzolo destro, incidendo due linee pulite e rosse. Rivoli di sangue uscirono dalle ferite e scivolarono sul suo stomaco sodo. Domnikiia si alzò in piedi e gli si avvicinò, piegandosi leggermente sulle ginocchia per portare la bocca al livello delle ferite. Piazzò una mano sul torace di lui, a sinistra, e l'altra sulla spalla, spingendogli contro mentre premeva la bocca sul petto. E bevve il suo sangue, dopo avergli lasciato bere il proprio. Iuda piazzò la mano sulla nuca di Domnikiia, tirandola a sé. Chiuse gli occhi e alzò il volto al soffitto con un sorriso di appagamento erotico, poi lasciò ciondolare la testa, aprì di scatto gli occhi e con una scintilla di trionfo guardò fuori dalla finestra, verso l'altro lato della piazza. Benché mi trovassi in una stanza buia, e benché Iuda non potesse sapere che ero lì, seppi che mi stava fissando.
Capitolo 26 Ricaddi sulla sedia. Conoscevo le intenzioni di Iuda, ero corso da Kurilovo a Mosca per fermarlo. Ero arrivato al portone dell'edificio in cui l'evento si era verificato. Eppure, in silenzio e senza intervenire, l'avevo visto fare tutto ciò che avevo temuto, l'avevo visto distruggere un'altra creatura a me cara, gli avevo visto rubare prima la vita e poi l'anima di Domnikiia. Uscii di corsa dalla casa e attraversai la piazza, diretto al bordello. A metà strada alzai gli occhi sulla finestra. Era ancora illuminata, ma all'interno non vedevo traccia né di lei né di Iuda. La luce si spense. Io mi bloccai. Non potevo fare niente. Non ero in condizioni di uccidere. Se fossi entrato, sarei stato una preda facile per Iuda e anche per... Non riuscivo a pensarci. Non riuscivo a pensare a niente. Mi voltai e fuggii nelle strade buie della città. L'avrei uccisa l'indomani, l'avrei lasciata vivere per quella notte. Non so dove vagabondai in quelle ore. Ogni incubo a occhi aperti che avevo avuto durante il viaggio di quel giorno si era avverato. Avevo la strana percezione che Iuda mi avesse ingannato. Avevo attentamente dedotto che non sarebbe arrivato a Mosca prima di varie ore, e certo non prima di me. E dunque, se lui non poteva essere arrivato, ne conseguiva che non fosse stato lì. Pertanto non aveva appena mescolato il suo sangue con quello di Domnikiia, né l'aveva trasformata in una creatura infernale. Era un'argomentazione perfettamente logica, se non fosse che avevo assistito all'evento che avevo appena definito impossibile. Domnikiia era diventata un vampiro, e nessun appello agli dei della ragione avrebbe mutato quel fatto. E dopotutto, bastava un po' di immaginazione per farmi venire in mente dozzine di modi in cui Iuda poteva essere arrivato prima di me. Come potevo applicare le leggi fisiche a una creatura simile? In base ad alcune leggende, poteva trasformarsi in un pipistrello. Quanto può volare veloce un pipistrello? Non importa: un vampiro in forma di pipistrello può volare molto più veloce. Avrebbe potuto rimpicciolirsi in un homunculus minuscolo e farsi portare a Mosca nella bisaccia del mio cavallo. Assurdo? E chi ero io per dirlo?
Inoltre, non importava. In qualche modo, Iuda era arrivato. Non so come, ma era stato possibile. Avevo calcolato con compiacimento che non potesse farcela, però mi ero basato su regole a cui lui non aveva bisogno di attenersi. Era come giocare a scacchi contro un avversario che all'improvviso poteva muovere la regina in modi che a me non erano mai stati insegnati. Anche invocare il soprannaturale era superfluo. A Iuda bastavano un'altra carrozza e un cocchiere umano. Poteva sdraiarsi nell'abitacolo, a dormire nella sua bara, protetto da vetri scuri contro la luce del sole, mentre il suo complice lo guidava a tutta birra verso l'incontro con Domnikiia. Avevo già sospettato che avesse un servitore umano, incaricato di sbrigare commissioni per lui durante il giorno. Non c'era bisogno di scegliere la spiegazione giusta. Il problema era che non avevo considerato le possibilità. Se non fossi stato così arrogante nel credere di averlo battuto, allora avrei potuto impedire che tutto ciò accadesse. Ero orripilato dalla mia stupidità. Ma il vero orrore era sapere che Iuda non aveva esercitato coercizione. Domnikiia aveva fatto quel che aveva fatto di sua volontà. Non amava me, Dio o la vita a sufficienza da resistere alla tentazione della vita eterna, anche a prezzo della dannazione eterna. Sapeva che gli Opričniki erano vampiri, gliel'avevo detto io. Sapeva che erano malvagi. Tutte le volte che ne avevamo parlato - quando lei aveva detto che vivere per sempre era solo una fantasia, quando avevamo riso insieme per la lettera pomposa di Iuda -, ogni volta mi aveva tenuto nascosto qualcosa, covava l'idea che in verità Iuda avesse ragione e io torto. Era quel tradimento a ferirmi. Se fosse stata un'estranea a compiere la scelta fatta da Domnikiia, o qualcuno che conoscevo o addirittura amavo, ma da cui non mi aspettassi di essere riamato, allora sarebbe stato diverso. Avrei provato un dolore passeggero per la follia o la corruzione di una persona che sceglieva di diventare vampiro, ma quella rivelazione della sua vera natura avrebbe cancellato tutta la compassione. Iuda aveva detto che il desiderio di diventare vampiro era l'unico requisito per diventarlo; ugualmente, quel desiderio era sufficiente per non potersi più attendere l'amore
del resto dell'umanità. L'assassino condannato non può aspettarsi pietà per ciò che è, eccetto forse da sua madre. E anche allora, la madre non si chiede forse dove ha sbagliato? E così, il dolore che provavo non era davvero diretto a Domnikiia. Era per me stesso che piangevo. Come in tante altre circostanze, il mio interesse personale era il primo dei miei pensieri. Ero stato io quello tradito. Lei aveva scelto Iuda invece di me. Io non ero riuscito a impedirlo. Era vanità, pura e semplice. Il mio dolore proveniva dall'umiliazione e dall'ascendente di Iuda. Domnikiia era parte del meccanismo, ma non era l'inizio né la fine delle mie emozioni. Eppure niente di tutto ciò era vero. Tutto dipendeva dal fatto che Domnikiia non potesse meritare la mia compassione, e quindi non avesse la mia compassione, e quindi il mio dolore non potesse essere per lei. Ma era per lei che lo provavo. La conoscevo, sapevo che la sua decisione doveva essere stata una minuscola esitazione, e che in qualche modo l'unico frammento della sua mente che mormorava «sì» aveva parlato a voce più alta delle migliaia che avevano gridato «no». Quelle migliaia erano state messe a tacere per sempre. Lo sapevo perché avevo guardato negli occhi di Matfej e Pètr e Iuda e degli altri, e avevo visto quanto poco restava di loro. Era stata una piccola, rumorosa parte della mia mente a persuadermi a far visita per la prima volta a Domnikiia, un anno prima. Le altre voci che in coro gridavano «Marfa» erano state zittite. Da allora, fino a quel giorno, ogni parte di me aveva considerato giusta e buona la mia relazione con Domnikiia. Era così che Domnikiia pensava al suo nuovo stato? Il sapore del sangue di Iuda l'aveva convinta all'istante della gioia della sua esistenza futura, come il mio primo assaggio della sua carne aveva persuaso me? Era una strada pericolosa da seguire. Per quella notte avrei potuto consentirmi di pensare a lei con affetto, di cercare motivi per non giudicarla, ma alla luce del giorno lo sapevo: doveva morire e dovevo ucciderla io. Per quanto fosse stato difficile rinunciare a ogni compassione per Maks quando avevo scoperto che era una spia, sarebbe stato molto più difficile indurirmi l'anima a sufficienza da piantare un paletto di legno nel cuore della mia amante: un cuore che tanto capricciosamente si era rivoltato contro di me. È vero, un vampiro merita la morte mille volte di più di una spia dei francesi,
ma d'altronde il mio amore per Domnikiia era mille volte più grande del mio amore per Maks. Non più grande, diverso. Di conseguenza avevo nutrito, e nutrivo ancora, dubbi sul fatto di aver trattato Maks con equità. Giorni, mesi e anni dopo avrei dubitato di aver fatto bene a uccidere Domnikiia. Per questo motivo, quella notte dovevo lasciar montare in me l'odio: per assicurarmi che quando fosse venuto il momento giusto, sarebbe coinciso con il mio momento di minima indecisione. Una volta annientata lei, avrei potuto concedermi il lusso di dubitare. A quel punto sarebbe stato troppo tardi per fare alcunché, se non pentirmi. Mi ritrovai nel cimitero di Kitaj-gorod dove io e Dmitrij avevamo alloggiato con Boris Michajlovič e Natalia Borisovna. Ero seduto a terra e l'umidità della neve mi entrava nelle ossa, mentre appoggiavo la schiena contro una lapide. Non ricordavo di essere arrivato lì o quanto a lungo mi fossi fermato, ero certo di non aver dormito, eppure in qualche modo la notte era passata. Il cielo a est, nero e stellato, si era impercettibilmente mutato in un blu scuro e lucente, e l'avevamo notato solo io e gli uccelli che iniziavano ad annunciare il sole. Stavolta il mio incubo non ebbe fine con il canto degli uccelli, ma anzi peggiorò. Gli orrori a cui avevo assistito durante la notte erano solo un'ouverture per quelli che il giorno avrebbe portato. Domnikiia sarebbe morta. Era un orrore reso tanto più spaventoso perché non sarei stato solamente un osservatore, ma un partecipante attivo. Potevo tirarmi indietro in ogni momento e l'orrore sarebbe scomparso, rimpiazzato dall'impensabile prospettiva che lei continuasse a vivere. Con l'azione di oggi avrei saldato il debito della mia inazione notturna. Ma la giornata era lunga. Non c'era motivo che andassi subito, appena sorto il sole. Il giorno prima avevo avuto otto ore di luce per correre da Kurilovo a Mosca, e avevo fallito. Oggi avrei potuto contare sullo stesso lasso di tempo, e dovevo solo percorrere alcune strade di Mosca, entrare in una stanza e vibrare una lama di legno in un cuore già morto. Potevo partire all'ora di pranzo, compiere il mio dovere e prendermi quasi tutto il pomeriggio libero. Partii all'istante. Forse Domnikiia non era in condizioni di comprendere la sua esistenza infernale, ma per l'amore che ancora nutrivo per lei, era mio dovere porre fine a quell'esistenza senza un
momento di indugio. Raccolsi una manciata di neve e me la strofinai in faccia, e vidi che era macchiata di rosso. Tutto intorno a me la neve era sporca di sangue. Il mio sangue. La ferita al braccio si era riaperta durante la notte. Mi spostai per trovare neve pulita e mi lavai il viso. Era già fin troppo freddo, ma il contatto gelido mi rinfrescò e mi svegliò. Lasciai sciogliere sulla lingua una manciata di neve. Poi andai a fare il mio dovere. Ero appena uscito dal cimitero quando la risolutezza mi abbandonò di nuovo. Mi avviai non verso la via Degtjarnij, né in direzione opposta; seguii invece una traiettoria che sembrava semplicemente girarle intorno, come se cercassi di arrivarci involontariamente. La mia orbita non era circolare, né ellittica come quella di una cometa, ma procedeva a spirale come quella di una meteora: ogni angolo di strada che svoltavo mi portava più vicino a Domnikiia, però non mi dirigevo mai direttamente verso di lei. Al pari di quando ero tornato a Mosca, dopo Smolensk, stavo di nuovo ingannando me stesso per ritrovarmi al bordello in modo non intenzionale. All'epoca l'avevo fatto affinché il ladro del desiderio potesse aggirare la sentinella del bene e del male. Oggi la mia moralità doveva seguire una rotta ignota ai miei sentimenti. Ben presto mi trovai sotto la sua stanza. La finestra al di sotto, quella del piano terra, si apriva sul salone. Fu facile far scorrere il chiavistello ed entrare di soppiatto in un luogo nel quale poche ore prima sarei stato accolto dalla porta principale come ospite gradito. Davanti a me stava la finestra aperta, e oltre quella la scala che portava in camera di Domnikiia, e quindi a Domnikiia e alla sua morte. Quella era la mia ultima occasione di andarmene. Entrai. Nella casa regnavano un silenzio e un'oscurità nuovi e inopportuni. La stanza al pianterreno, più di ogni altra nel postribolo, era sede delle contrattazioni economiche: era sempre stato un luogo allegro, pieno di luce e di voci. Raramente indugiavo lì, perché nella mia mente c'era un singolo, specifico obiettivo nella camera al piano di sopra, quindi l'ingresso e il salone non mi avevano mai distratto, mai avevano esercitato fascino su di me.
Stavolta scoppiai quasi a piangere al ricordo. Rammentai come avevo pregustato ogni visita; il mio sguardo timido che si posava su una ragazza dopo l'altra fino a trovare Domnikiia; a volte non la vedevo e dovevo attendere che fluttuasse giù dalle scale per venire a salutarmi. Anche al buio, la stanza mi suscitava quei ricordi. Mi pareva di udire le chiacchiere leggere delle ragazze e i mormorii bassi - seduzione superflua - degli spasimanti che un tempo l'avevano riempita. Questa sarebbe stata la mia ultima visita. Avrei sempre ricordato quella stanza buia e silenziosa come l'anticamera di un'occasione molto diversa. Temporeggiavo non solo per bearmi di momenti più felici, ma anche per rinviare la missione che mi attendeva. Fuori era già giorno, ma le tende pesanti a tutte le finestre mantenevano l'interno in una penombra smorzata. Su un tavolo c'era una candela; la accesi. Le ombre gettate dalla fiammella tremolante fecero ben poco per restituire al salone la vitalità a cui l'avevo sempre associato. Iniziai a salire le scale. Il terzo e il quinto gradino scricchiolarono forte. Erano passate le otto e mezza, ma sapevo che nessuno in quella casa si preparava ad alzarsi. Si lavorava fino a notte fonda, e quasi tutta la mattina era destinata a recuperare il sonno. Il rumore dei miei passi non svegliò nessuno. Attraversai il pianerottolo e posai la mano sulla maniglia della porta di Domnikiia. Rimasi in ascolto prima di girare il pomello. Dall'interno non udii alcun suono. Non so cosa mi aspettassi di sentire. Ebbi l'istinto di bussare, e quella breve pausa di cortesia affettata servì a rimpiazzare quell'istinto. Ruotai la maniglia ed entrai. Dentro, tutto mi era familiare. Dal lato opposto alla porta, la toletta di Domnikiia era piena di cosmetici. Lì accanto c'era la finestra: la luce del giorno si intravedeva dietro le persiane chiuse e le tende pesanti. Di fronte c'era il letto. Sentivo il suo respiro leggero e vedevo le coperte sollevarsi e scendere ritmicamente. La notte era stata fredda, e lei si era stretta nelle coperte, da cui spuntava solo il suo bel viso. I lunghi capelli neri, raccolti in una treccia, adornavano il cuscino.
Sarebbe stato facile spalancare le tende e le persiane, e lasciare che il giorno invadesse la stanza e il letto, distruggendo i suoi resti umani come aveva distrutto Iakov Zevedajnic e Pétr; ma ricordai lo sguardo di terrore negli occhi di Pétr quando il sole si era posato su di lui, e il grido raccapricciante emesso da Iakov Zevedajnic quando era stato esposto alla luce. Mi sembrava che quella fosse la morte che trovavano più terribile e dolorosa. Non la volevo per Domnikiia. Con quei due, e con tutti gli Opričniki, avevo voluto che fossero consapevoli della propria morte, volevo capissero che io ne ero la causa. Per questo ero andato nel fienile prima dell'alba, per accertarmi che fossero ancora svegli. Con Domnikiia era esattamente il contrario. Non c'era bisogno che fosse consapevole della brevità della sua esistenza da vampira, o che sapesse che ero stato io a porvi termine. La sua vita vera era stata spezzata da Iuda la sera prima; io stavo solo rimediando al disordine lasciato da lui. Piazzai la candela sul comodino e mi sedetti delicatamente vicino a lei. La luce della candela illuminò una mela sul tavolo accanto, da cui erano stati presi due o tre morsi. La polpa aveva già iniziato a scurirsi. Era certamente il suo ultimo pasto, l'ultimo affondo gradevole dei suoi denti. Cercai di guardarla, ma non ci riuscii. Mi voltai dall'altra parte e mi presi la testa tra le mani, singhiozzando in silenzio. Di nuovo cercai di evocare il mio odio. Non era odio per lei, anche se era stata lei a scegliere di diventare quel mostro. Era un odio rivolto ai vampiri e in particolare a Iuda. La creatura che ora giaceva sul letto accanto a me non era Domnikiia; era una creazione di Iuda, un corpo che lui aveva consumato e poi corrotto rendendolo una continuazione di sé. Era come Mosca sotto l'occupazione francese: le strade e gli edifici erano belli e familiari, ma non erano niente senza le persone che li avevano costruiti e li abitavano. Se distruggere i francesi significava distruggere fisicamente la città, insieme a loro, allora amen. Se distruggere lo spirito mostruoso che giaceva nel letto accanto a me significava distruggere il bel corpo amato che esso aveva rapito, amen anche a questo. Il corpo era solo un ricordo dell'anima che un tempo l'aveva abitato. Il governatore Rostopcin (se era davvero stato lui) si era dimostrato un
vero patriota nell'istigare gli incendi che, pur distruggendo una parte così ampia della città, l'avevano resa inabitabile ai razziatori francesi. Lui aveva compreso che l'essenza di Mosca non risiedeva nei suoi palazzi, bensì nel suo popolo. Nessun vero russo l'avrebbe pensata diversamente. Ora dovevo dar prova della fermezza morale di Rostopcin. Dovevo distruggere il corpo per salvaguardare un bene più grande: non l'anima di Domnikiia - quella era perduta per sempre - ma il ricordo di lei. Se potevo limitare a poche ore la sua esistenza in quello stato alterato, allora, perlomeno, quella creatura non avrebbe potuto cancellare gli anni di bontà della sua vita. Tirai via le coperte per rivelare il suo corpo, vestito di una semplice camicia da notte. Portava ancora al collo il crocifisso d'argento che, malgrado tutte le superstizioni, non avrebbe saputo proteggerla. Borbottò qualcosa e alzò la mano al volto per scostare un capello sfuggito alla treccia, ma non si svegliò. La mano ricadde sul petto e restò lì come a cullare il cuore. La spostai con delicatezza e questa volta ricadde pigramente sul fianco, eliminando l'ultimo ostacolo. Estrassi il pugnale di legno e lo tenni con entrambe le mani. Ricordai la nostra conversazione proprio mentre lo intagliavo - anzi no, era stato quello precedente. Ricordai lo sguardo impaurito nei suoi occhi quando gliel'avevo puntato addosso. Aveva scelto già allora di diventare un vampiro? Oppure era una decisione più recente? Mi chinai su di lei, posando la punta del pugnale sul petto, appena sopra il cuore. Mi bastava appoggiarmi con il peso del corpo sulle mani, e avrei posto fine all'esistenza maledetta di un'altra di quelle creature. Mi domandai quanto ci avrebbero messo i resti di Domnikiia a disfarsi. Lei non si sarebbe tramutata subito in un mucchietto di polvere. La sua morte risaliva ad appena dodici ore prima. Una volta che le avessi piantato la lama nel cuore, il corpo sarebbe rimasto intatto, e avrebbe impiegato settimane a decomporsi, come se fosse stata una donna mortale. Chiusi gli occhi e sussurrai una preghiera per chiedere la forza di fare ciò che dovevo. Sarebbe bastato un minimo movimento per spostare il mio peso e affondare la lama di legno. Attesi di essere
ricolmo della forza e dell'odio necessari a compiere il mio dovere. E attesi ancora. Non ero Rostopcin. Ero incapace di distruggere una cosa bella come Domnikiia, tanto quanto di bruciare Mosca se mi avessero messo in mano una torcia in fiamme e mi avessero indicato l'alloggio di Bonaparte in persona. Ero un patetico emulo di Otello. In me l'amore aveva sconfitto l'intelligenza: ero incapace di uccidere anche quando la ragione me lo ordinava. Era al di là delle mie possibilità, come se una forza più grande di me non potesse tollerare la morte di Domnikiia; tutto l'amore riversato nella sua creazione non poteva essere gettato da parte con tanta facilità. E quindi, se non potevo ucciderla, cosa dovevo fare? Andarmene ora e non vederla mai più, e ogni tanto sentir parlare della strana morte di qualche innocente, e sospettare che fosse opera sua? Il senso di colpa mi avrebbe schiacciato. Ogni morte sarebbe stata colpa mia, colpa della mia mancata azione. Scegliendo ora di non distruggere la creatura che era venuta ad abitare nel corpo di Domnikiia, mi sarei assunto la responsabilità di ogni suo assassinio in futuro. Se fossi perito l'indomani in battaglia, o anche oggi stesso per mano mia (il pensiero mi era balenato), allora tutte quelle morti sarebbero state messe in conto a mio carico nel giorno del giudizio. Non affondare il pugnale in Domnikiia significava condannare anche la mia anima immortale, eppure non ci riuscivo. Quindi ero dannato. Questa certezza mi aprì un nuovo panorama di possibilità. Mi era donata una nuova libertà: potevo fare ciò che volevo, incurante delle conseguenze morali. Come un uomo condannato all'impiccagione per un furtarello, ero libero di commettere qualsiasi crimine. Ancor più libero, anzi, perché il ladro doveva temere ciò che lo attendeva dopo la morte. Era un'idea affascinante, ma mentre ci riflettevo non mi vennero in mente molti atti immorali che desiderassi commettere; di sicuro nessuno che non avessi già commesso prima della mia nuova liberazione etica. Non mi sarei mai considerato una persona particolarmente buona, ma sembrava che a un certo punto della mia vita avessi perso - o non avessi mai acquisito - l'impulso alla malvagità. Non era il timore della dannazione a spingermi ad agire così, piuttosto un tratto del mio carattere; forse innato, forse
prodotto per accumulazione, in una vita intera, di alcune paure. Ma il fatto che non volessi essere malvagio bastava a rendermi buono? Essere buoni non significa forse opporre resistenza agli impulsi maligni, anziché non averne affatto? Solo il debole prega il Signore di non indurlo in tentazione; il forte ha bisogno delle tentazioni per saggiare la propria forza. Mi era stata offerta una sola tentazione: lasciare in vita il mostro che Domnikiia era diventata; e io le avevo ceduto senza combattere. Sapevo che non era troppo tardi, avrei fatto ancora in tempo ad alzare la mano e riabbassarla per ottenere la salvezza, eppure sapevo anche di non poterlo fare e che non avrei mai potuto farlo. Potevo trarre un solo vantaggio dalla mia decisione di condannarmi alla dannazione della colpa? Se avessi trascorso i giorni che mi restavano certo che, al momento della morte, sarei precipitato nel baratro, allora perlomeno non avrei dovuto camminare da solo. Avrei avuto Domnikiia con me. Le avrei permesso di trasformarmi in vampiro come era successo a lei, e così almeno saremmo andati all'inferno tenendoci per mano. Sapevo di aggrapparmi a un ultimo tenue filo di orgoglio, dando per scontato che lei mi avrebbe voluto con sé. In caso contrario, allora sarei morto per mano sua senza rinascere come vampiro. Sarebbe stata la giusta punizione per la mia vanità. Posai il pugnale di legno a fianco del letto e diedi un ultimo sguardo alla bellezza di Domnikiia, poi mi leccai le dita e spensi la candela. Mi tolsi gli stivali e il cappotto e il fodero della spada, posai tutto a terra e mi sdraiai sul letto accanto a lei. Vidi sanguinare la ferita al braccio, ma non mi importava. Quando - se - mi fossi svegliato, sarei diventato una creatura della stessa stirpe di Domnikiia e avremmo avuto un'eternità di fronte a noi. Una ferita come quella non avrebbe significato nulla per me. Non chiudevo occhio da due notti e, quando fui colto dal sonno, iniziai a chiedermi se ero in condizioni di prendere una decisione così profonda sulla mia vita. Cosa avrebbe significato per mia moglie e mio figlio? Anche se la mia anima era destinata all'inferno, finché restavo in vita loro non meritavano forse la mia compagnia e il mio sostegno? Ero troppo stanco per rispondere a domande simili.
Mi venne in mente che uno degli aspetti interessanti di ciò che stavo per fare era l'opportunità di guardare indietro alla mia morte. Avevo osservato la morte dal di fuori in molte occasioni - benché in altri momenti mi rammaricassi di non essere stato lì a osservarla -, ma sarebbe stato un privilegio raro poter ricordare, da vampiro, come era stata realmente. Eppure, pensavo, tutte le anime, che finiscano in paradiso oppure all'inferno, devono avere quella stessa opportunità; altrimenti dovevo chiedermi se credevo nel paradiso e nell'inferno, e in tal caso, come potevo essere così certo della mia dannazione? Ma erano pensieri inutili: presto avrei saputo la verità. Mi addormentai.
Capitolo 27 Quando mi svegliai mi sentii subito a disagio. Mi trovavo in un luogo vagamente familiare, ma ero consapevole di una questione urgente che andava risolta. La memoria mi tornò quasi subito. La mia prima osservazione, forse banale, fu che ero vivo. Allungai il braccio verso destra, ma Domnikiia non era più accanto a me. Doveva essersi svegliata. Doveva avermi visto. Solo da sveglio avrei potuto bere il suo sangue e diventare un vampiro. Avevo forse compiuto quel rituale e poi mi ero riaddormentato, dimenticando l'accaduto? Mi esaminai, cercando di capire se mi sentissi diverso, nel corpo o nell'anima. Non sentii nulla. Guardai fuori dalla finestra. Mi sembrò che fosse mattino inoltrato. La neve brillava al sole. La luce riflessa mi batteva in faccia e proiettava l'ombra della mia mano sul cuscino vuoto vicino a me. Non ero un vampiro. Come avevo sospettato, bisognava essere coscienti per diventare una di quelle creature, per poterne bere il sangue. Domnikiia non mi aveva ancora trasformato, ma l'avrebbe fatto presto. Udii un rumore di passi fuori dalla porta e la maniglia iniziò a ruotare. La mia precedente convinzione che sarei diventato un vampiro mi aveva abbandonato completamente. Mi era impossibile ricostruire il ragionamento che mi ci aveva portato. Ora la prospettiva che Domnikiia mi affondasse i denti nel collo e che io potessi bere il suo sangue era al contempo raccapricciante e spaventosa. Avrei preferito ucciderla piuttosto che soccombere a un destino simile. Allungai un braccio verso il lato del letto dove avevo posato il pugnale la notte prima. Avvertii una fitta dolorosa, e allo stesso tempo notai che la ferita mi era stata bendata mentre dormivo. Il pugnale non c'era. Guardai in giro per la stanza e lo vidi. Era su una sedia, sopra il mio cappotto ordinatamente piegato. Gli stivali erano lì accanto e la spada era appesa allo schienale. Non avrei avuto tempo di raggiungerla prima che si aprisse la porta. Poi il panico si allentò: era giorno. Chiunque stesse entrando non poteva essere un vampiro. Se era Domnikiia, allora sarebbe stata distrutta senza bisogno del mio intervento. Anche così, non potei evitare di farmi
piccolo contro la testiera, e di tirarmi le coperte fino al mento. Era lei. Portava un vassoio con del pane e della carne fredda, e una tazza di quello che, dall'odore, riconobbi come caffè. Attraversò la stanza, passò davanti alla finestra e posò il vassoio sulla toletta. «Buongiorno» disse con un sorriso. Non risposi. Venne a sedersi accanto a me sul letto. Ormai mi era chiaro che non era un vampiro, ma mi ritrassi lo stesso da lei. Non diede segno di averlo notato. Mi abbracciò e mi posò la testa sulla spalla, baciandomi il collo e stringendomi forte. «È stata una bella sorpresa» disse. «Cosa?» riuscii a mugolare. «Svegliarmi con te, naturalmente!» Infilò le gambe sotto le coperte. «Sapevo del tuo ritorno, però. Pètr Petrovič mi ha detto che eri passato. Ma non mi aspettavo facessi tanti sforzi per vedermi. Non so come potrai uscire di qui senza che nessuno si accorga di te. Ah, e avresti potuto farti un bagno, prima.» Si alzò e andò alla toletta. «Scusami» borbottai d'istinto. Il cuore mi batteva forte e il sollievo mi dava alla testa. Era come tornare alla realtà dopo un incubo, un incubo tanto spaventoso che l'unica soluzione è mandare indietro il tempo e scoprire che l'orrore non è mai esistito. Quanto avevo visto alla finestra di Domnikiia la sera prima non era stato un sogno, bensì un orrore di quel tipo. Eppure, chissà come, l'inevitabile conseguenza non si era verificata. Domnikiia era ancora umana. In tutte le mie riflessioni di quella notte non avevo trovato un corso d'azione ragionevole da intraprendere, e adesso la soluzione era giunta da sé, nella forma di un fatto semplice e inesplicabile. Lei non era un vampiro. «Oh, mi dispiace, Ljosa» disse lei con sincero disagio. «Stavo scherzando. Sai che ti amerò sempre, anche se puzzi.» Mi parve crudele non sorridere e non apprezzare il suo umorismo, soprattutto vedendo la delusione sul suo volto, ma avevo troppi pensieri per reagire in qualsiasi modo. Mi porse una tazza di caffè. «Come sta il tuo braccio?» «Dov'eri ieri sera?»
«Ero in visita da un cliente, se proprio vuoi saperlo. Non lavoro sempre qui.» «A che ora sei tornata?» insistetti, la voce bassa, cercando di mascherare lo stupore e la paura. «Cosa vuoi, Ljosa?» disse lei alzandosi in piedi, in collera. «Lo sai che mestiere faccio. Tutt'a un tratto vuoi sapere i dettagli?» «Dimmelo!» ansimai con intensità supplichevole, sporgendomi verso di lei. Domnikiia si inginocchiò accanto al letto e mi posò le mani sul volto. «Che succede, Ljosa?» Mi fissava negli occhi. «Perché fai così?» «Ti ho vista con Iuda, stanotte» dissi semplicemente. «Cosa?» La sua incredulità sembrava sincera. «Da quella finestra» spiegai, indicando con il dito. «Ti guardavo.» «Mi spiavi?» Era più delusa che arrabbiata. «È troppo tardi per questo» replicai, prendendola per i polsi e alzandomi in piedi. «Vi ho visti insieme e ho visto ciò che hai fatto.» «Ljosa, non ho incontrato nessun uomo in questa stanza stanotte.» Era calma e gelida, sapeva che la sua vita poteva dipendere da ciò che mi diceva. «Ah!» sbuffai. «Dovresti fare l'avvocato. Non hai visto nessun uomo, ma hai visto Iuda.» «Sono tornata qui verso mezzanotte e sono andata dritta a letto. Dimmi cosa hai visto.» «Ho visto quello che è successo. Tu e lui, insieme. L'ho visto portarti in braccio fino alla finestra. Ho visto che ti mordeva. Ho visto quando tu...» Domnikiia si portò una mano al colletto della camicia da notte e lo scostò con un gesto brusco. «Se mi ha morso, dov'è il segno?» Inclinò la testa prima da un lato e poi dall'altro, allungando il collo per mostrarmi che non c'era traccia di contatto con un vampiro. Sbalordito, le passai una mano sul collo e tirai la pelle, guardando da vicino per verificare ciò che era già evidente. Disorientato, tornai a sedermi sul letto, e lei sedette accanto a me. Le posai la testa in
grembo e fissai il soffitto con occhi vacui. «Forse l'hai sognato, Ljosa» disse lei in tono suadente, e per la prima volta mi ricordò esattamente mia madre. Scossi la testa, avvilito. «No, non è stato un sogno. L'ho visto. Ho visto qualcosa.» «E hai pensato che fossi diventata una vampira?» chiese lei in tono di scherno. «Sì» risposi, e mi salì una lacrima agli occhi. Le cercai la mano e me la premetti sulle labbra. Lei rifletté un attimo prima di pormi la domanda più ovvia. «Allora cosa ci facevi qui stamattina?» «Ero venuto per ucciderti.» La prese bene. «Capisco.» «Ma non ce l'ho fatta» spiegai. Lei restò a pensare per un altro momento. «E quindi...» Non terminò la domanda. Invece sentii le sue mani sul mio petto, mi aprivano la camicia in cerca di qualcosa. «Non la porti» disse. «L'icona, l'hai tolta.» «L'ho data a Dmitrij.» «Ma ti avrebbe protetto. Se io fossi stata... se fossi stata un vampiro avrei potuto ucciderti... o peggio. Sei pazzo? Hai dato via la tua unica protezione.» «Non funziona come protezione» le spiegai. «Loro non sono superstiziosi.» «Io sì, però!» gridò Domnikiia. «Avrebbe tenuto lontana me. È questo che volevi?» chiese, incredula. «Sei un idiota, Aleksej Ivanovič: un idiota sentimentale.» Fece una pausa prima di aggiungere, a bassa voce: «Ma grazie». «Come se ci fosse qualcosa in grado di tenerti lontana da me» mormorai. Lei sorrise e si chinò a baciarmi. «Non sappiamo ancora cosa hai visto» disse poi, tornando al punto. «Forse loro possono trasformarsi per somigliare a un altro.»
«Non ti ho mai vista in faccia» confessai. Mi ero già reso conto che i miei motivi per supporre che si trattasse di Domnikiia erano ben poco fondati. «Be', l'ho scampata per un pelo. Non mi sarebbe piaciuto morire nel sonno per mano di un idiota. Allora, cos'è che hai visto?» «Solo la schiena, i capelli. Erano così simili ai tuoi.» Avevo già capito. «Oh! mio Dio!» sussurrò Domnikiia. «Margarita! A volte usa questa stanza quando io non ci sono, è più grande della sua. La porta di comunicazione non è mai chiusa a chiave.» Balzò in piedi e andò alla porta. «Aspetta!» le intimai. «Dato quel che ho visto, ormai sarà una vampira.» «Allora cosa dovrei fare, lasciarla lì?» «Fai entrare prima me.» «E se è una vampira?» «È giorno» spiegai. «Non potrà fare molto.» Presi il pugnale dalla sedia e mi avvicinai alla porta. Sentii Domnikiia poggiarsi contro la mia schiena. Per quanto temessi per la sua incolumità, era rassicurante averla lì con me. Quando girai la maniglia, avvertii montarmi dentro una stanchezza debilitante. Non avevo più la forza di inseguire vurdalaki in giro per Mosca, e neppure di uccidere francesi. Volevo solo che se ne andassero tutti e mi lasciassero in pace a godermi la vita. Ma sapevo di dover andare avanti. Aprii. Dentro era buio. Le tende erano tirate e nella poca luce intravidi una figura sul letto. «Resta dove sei» sussurrai a Domnikiia, e iniziai a farmi strada verso la finestra, tenendo la schiena addossata alla parete. Non persi tempo e scostai da un lato la tenda, inondando di luce la stanza. Iuda non aveva mutato atteggiamento nei riguardi della sua prole. Come mi aveva detto in quella stanza piena di cadaveri putrefatti, continuava a non ritenersi responsabile delle conseguenze a lungo termine. Lo scopo della recita di quella notte non era stato
trasformare Margarita in un vampiro che potesse accompagnarlo lungo il corso dei secoli. Era stata solo una sceneggiata destinata a me, perché mi convincessi che Domnikiia era diventata un mostro e quindi la uccidessi, come in effetti era quasi accaduto. Il mio dolore per averla uccisa personalmente sarebbe stato per Iuda la vittoria suprema, molto più saporita di tutte le torture che potesse infliggerle lui. Ma una volta recitato lo spettacolo, non aveva più bisogno delle comparse. Sul letto, Margarita giaceva nuda sulla schiena. Le gambe erano unite e dritte, le braccia abbandonate aperte ai due lati, in una disgustosa parodia di Nostro Signore crocifisso. I lunghi capelli neri si irradiavano dalla testa sui cuscini come un'aureola, circondando un volto da cui gli occhi morti guardavano inespressivi il soffitto. Sul fianco destro, lenzuola e cuscini erano zuppi di sangue scarlatto, che ricopriva anche lo stomaco, i seni e le guance. Il lato destro della gola era stato aperto dal morso tipico di un vurdalak. Domnikiia gridò. Domnikiia non rimase più al bordello. Nessuna di loro rimase. Le autorità avviarono un'indagine. Un rapido sguardo ai miei documenti bastò a dissuaderli dall'importunare me e Domnikiia, ma dubito li avesse convinti della mia innocenza. Avrei potuto ordinare loro di porre fine all'indagine al più presto, ma scelsi di non farlo. Volevo che la natura di Iuda e degli altri Opričniki diventasse nota a tutti, ed era una cosa che la polizia doveva scoprire da sola. Se avessi semplicemente raccontato la verità non sarei stato creduto. In ogni caso, non si mostrarono molto interessati alla storia di un ennesimo cadavere tra le migliaia. Erano più preoccupati di identificare i moscoviti che avevano collaborato con gli invasori. Se avessero scelto di parlare con Domnikiia, avrebbero potuto notare una discrepanza tra la sua descrizione del corpo di Margarita e quello che avevano trovato. Sarebbe comparsa un'altra ferita. Dopo aver riaccompagnato Domnikiia nella sua stanza, ma prima di chiamare la polizia, ero tornato a guardare Margarita. Il corpo era
privo di vita. Gli occhi morti non reagivano alla luce. La carne non bruciò quando venne in contatto con il sole. Per quanto ero in grado di stabilire, Iuda aveva provocato la sua morte, non avviato la sua trasformazione. Avevo già visto un simile stato: mi ricordava il giovane soldato russo di nome Pavel, trasportato su un carro di legno per le strade di Mosca. Anche lui era sembrato morto, anche lui era stato sotto la luce senza danni. Ma il suo corpo non si era corrotto, e questo perché aveva scambiato sangue con un vampiro, così nel giro di qualche giorno, o qualche settimana, era diventato un vampiro anche lui. Non potevo permettere che accadesse. Bastò un singolo colpo, sferrato senza esitazioni, per spaccare il suo cuore già morto. Con quanta facilità potei fare a Margarita ciò che mai avrei potuto fare a Domnikiia! Lei venne a stare con me alla locanda. Non fu la fase più serena della nostra relazione. Aveva conservato l'anima, ma il suo spirito aveva ricevuto un duro colpo dalla morte dell'amica. La sua vitalità era sbiadita fin quasi a dissolversi. Non sorrideva più, non faceva battute; non odiava neppure. Tutte quelle reazioni, ne ero certo, erano assolutamente naturali date le circostanze, e le sue belle qualità sarebbero tornate con il tempo; ma ora come ora non vedevo neppure l'ombra della Domnikiia che avevo conosciuto e amato. Peggio ancora, trovavo soffocante la sua dipendenza da me. Anche questa non era che una reazione temporanea al trauma, ma mi rammentava che qualsiasi cosa ci accadesse mentre eravamo insieme era una mia responsabilità. Ero già responsabile di Marfa e Dmitrij, e mi bastava. Domnikiia avrebbe dovuto essere la mia irresponsabilità: la persona con cui non dovevo preoccuparmi del futuro e del mondo là fuori. Ora più che mai ne avevo bisogno. I massacri a cui avevo assistito in quei mesi d'autunno del 1812 mi avevano fatto invecchiare precocemente. Avevo perso le tre persone più care: Maks e Vadim perché erano morti, Dmitrij attraverso l'incolmabile sfiducia cresciuta tra noi. La sua fuga codarda si era rivelata una reazione saggia, e adesso, pochi giorni dopo, anch'io facevo lo stesso. Il terrore che mi aveva consumato a Mosca dopo gli incendi era tornato. Allora, la sicurezza sembrava dipendere dalla fuga, ora dall'immobilità. Eppure mi sarebbe piaciuto che Domnikiia
- la vera Domnikiia - fosse stata lì a distrarmi dalla mia inerzia; per riempire le mie giornate di frivole banalità, o per sfidarmi costringendomi a giustificare il mio torpore, o mandandolo in pezzi. Invece, era mansueta. Avrebbe potuto spronarmi verso ovest, all'inseguimento dei francesi o dei due Opričniki sopravvissuti, oppure scongiurarmi di restare con lei a Mosca. Io restavo, ma non perché mi scongiurava: lei stava zitta. Il pretesto era il mio braccio ferito, ma ormai stava guarendo e io ero andato in battaglia con ferite più gravi. Restavo perché avevo paura. Il funerale di Margarita si svolse tre giorni dopo la sua morte. Si scoprì che aveva molti amici e conoscenti anche se tra di loro parlavano poco, soprattutto gli uomini. Dei nove ufficiali in uniforme presenti alla cerimonia, fui stupito di vedere che quattro erano di grado superiore al mio. La cosa davvero sorprendente era che Margarita avesse avuto l'onore di un funerale. Gli incendi di Mosca non avevano mietuto molte vittime, ma la carestia che era seguita aveva ucciso migliaia di moscoviti e invasori. La maggior parte aspettava ancora di essere gettata nelle fosse comuni. Da quanto ero riuscito a capire, era stato Pètr Petrovič a pagare le esequie. La sua diligenza nel prendersi cura dei suoi beni andava ben oltre la normale amministrazione. Ma soprattutto, il funerale segnò un punto di svolta nell'umore di Domnikiia. Dopo che ebbe dato un addio formale alla sua amica e collega, iniziarono a riemergere alcuni indizi del suo fascino. Ma il ricordo della crisi in cui era piombata continuava a tormentarmi. Qualche giorno più tardi, nelle mie stanze alla locanda, Domnikiia mi fece un annuncio. «Mi troverò un lavoro.» «Hai già un lavoro. O lo avrai, quando Pétr Petrovič riapre» le dissi. Mi sembrò strano già mentre lo dicevo. La maggior parte degli uomini sarebbe stata felice di quella scelta, ma io ormai alla professione di Domnikiia ci avevo fatto l'abitudine. «Non posso tornare lì. Quel che è successo a Margarita... Be', se anche non fosse stato Iuda, poteva essere qualcun altro. Un giorno potrebbe succedere a me.»
«Pètr Petrovič ti lascerà andare?» Non stavo cercando di frapporre ostacoli al suo progetto, ma forse era questa l'impressione che davo. «Se non lo fa, dovrà risponderne a te.» Le baciai la guancia. «Questo è sicuro.» Mi sedetti accanto a lei. «Allora cosa farai?» «Potrei lavorare in un negozio, o fare la cameriera.» «Forse conosco qualcuno che ti assumerebbe come cameriera.» «Qui o a Pietroburgo?» «Alcuni qui, ma la maggior parte a Pietroburgo.» «Preferirei Mosca» rispose. Anch'io preferirei che tu restassi a Mosca, pensai, ma non lo dissi. «D'altro canto» chiese pensierosa, «a tua moglie non servirebbe una nuova cameriera?» Mi balenò il pensiero della comodità di quella situazione, ma fu subito rimpiazzato dalla consapevolezza della sua infinita pericolosità. Una moglie in una città e un'amante nell'altra era comodo. Averle entrambe nella stessa città avrebbe aggiunto sapore. Averle entrambe nella stessa casa era roba degna di Molière. Non poteva funzionare. Sapevo che l'avrebbe capito anche lei, con il tempo; ma visto il suo umore attuale, un rifiuto netto poteva causare danni. «Non ti piacerebbe?» proseguì. Non trovavo ancora una risposta da darle. «Prostak» mormorò lei. Era una parola che si sentiva spesso nell'esercito, soprattutto tra i giocatori di carte; un insulto che si applicava a chiunque fosse un bersaglio facile. «Scusa?» esclamai, fingendomi offeso. «Hai sentito» rispose. Non so se per tutto il tempo avesse cercato di prendermi in giro, o se cercava solo di risparmiare l'imbarazzo a entrambi. In ogni caso, fu una gioia sentirla parlare di nuovo con la consueta impertinenza. «Non mi stupisce che per Iuda sia stato così semplice ingannarti» aggiunse, in tono salace. A volte il suo senso dell'umorismo mi inquietava.
«Capitano Danilov!» Ero appena uscito dalla porta della locanda. Era passata una settimana dalla morte di Margarita; un mese dalla ripartenza di Bonaparte. La neve era alta sul terreno. Mi voltai per vedere chi mi avesse chiamato. Feci un largo sorriso quando riconobbi il volto affacciato a un portone all'altro lato della strada. Era Natalia. Corse ad abbracciarmi. Io la strinsi, quasi, aggrappandomi a lei, unica persona nel mio mondo che non mi fosse diventata orribilmente estranea nelle ultime settimane. «E come stai, mia cara Natasa?» le chiesi. «Sto bene. Be', meglio dell'ultima volta che ci hai visti. Ora abbiamo un tetto sulla testa. Mio padre ha lavoro. E tu?» «La guerra mi ha un po' stancato. Meditavo di venire a trovarvi.» Camminammo per la strada continuando a parlare, come fanno abitualmente i moscoviti d'inverno, per evitare che il freddo ci entrasse nelle ossa. «Nessun problema» disse lei. «Il capitano Petrenko ci ha detto che eri impegnato a combattere i francesi.» «Hai visto Dmitrij?» Ero stupito di sapere che fosse passato da Mosca. Natalia annuì. «Ha detto che anche lui intende inseguirli.» «I francesi?» «No, gli inglesi» fece lei, la voce carica di sarcasmo. E perché no? Non aveva motivo di sospettare che Dmitrij e io avessimo altri nemici oltre a Bonaparte. «Quando l'hai visto?» «Uhm... cinque giorni fa.» «Come stava?» «Come te: esausto, ma andava avanti.» Mi domandai se voleva essere una stoccata nei miei confronti. «Gli ho detto di non partire,
che i francesi se ne sarebbero andati anche senza il suo aiuto. Mi ha riposto di doverlo a te. Gli hai detto tu di andare?» «Non intenzionalmente.» «Lo seguirai?» Ci pensai un attimo, ma non giunsi a una conclusione. «Non lo so.» «Poi oggi ho ricevuto una lettera da lui» continuò Natalia. Mi sorprese che una ragazza della sua condizione sapesse leggere, ma la possibilità di avere notizie di Dmitrij era molto più appassionante. «Cosa dice?» chiesi con apprensione. «Sono cose tra me e lui» rispose, con una smorfia fiera. «Ma ha allegato questa per te» soggiunse, porgendomi una piccola busta. «Ha detto che era meno pericoloso così, piuttosto che spedirla a te. Ci sono ancora in giro le spie dei francesi?» Guardai la busta. Fuori c'era scritto solo «Aleksej», ed era un plico molto sottile, forse conteneva un solo foglio. Ero impaziente di leggerlo. «Tu ci credi?» domandò Natalia. «A cosa?» «Che ci siano ancora spie francesi a Mosca.» «Probabilmente no» dissi in tono distratto. «Ma Dmitrij è sempre cauto.» «Vuoi leggerla, no?» Annuii. «Ci avrei scommesso. Per questo te l'ho portata subito. Ti lascio leggere, allora.» «Grazie» le dissi con un sorriso. Le feci il baciamano e mi accomiatai. «Verrai a trovarci?» «Ma certo.» «Anche Mitka ha detto così.» «Allora lo farà.» E almeno di questo, sul conto di Dmitrij, ero
sicuro. Aprii la lettera appena rientrato nella locanda. Era datata 3 novembre, tre giorni prima, ed era breve come nel suo stile. Aleksej, credo di aver rintracciato Iuda e Foma. Si sono infiltrati nell'esercito francese e accompagnano la loro ritirata. L'istinto mi dice di lasciarli fare, ma so che tu non sarai d'accordo, e credo sia tempo di darti retta. Alloggio a Smolensk, all'ostello vicino al Dnieper dove siamo scesi l'altra volta (Я8). Per favore raggiungimi qui prima possibile. Il tuo amico e commilitone, Dmitrij Fetjukovič Petrenko Non avevo più pretesti per trattenermi a Mosca: il mio braccio era quasi guarito. Non avevo più la scusa di non sapere dove andare: la lettera di Dmitrij me lo diceva. Non c'era modo di evitare una partenza, né volevo evitarla. Mostrai la lettera a Domnikiia. La lesse rapidamente. «Quanto tempo pensi che ci vorrà?» chiese. «E chi ha detto che ci vado?» Fece una smorfia per dirmi che non la ingannavo, come non ingannavo me stesso. La mia paura richiedeva pretesti, e la lettera non me ne lasciava nessuno. «Pensi che dovrei andarci, dopo tutto quel che ha fatto Dmitrij?» domandai. «No, ma tu credi di doverci andare.» «E a te non importa?» «Cambierebbe qualcosa?» Probabilmente aveva ragione. Scesi di corsa le scale e ordinai che mi fosse preparato un cavallo, poi tornai di sopra e iniziai a fare le valigie con l'aiuto di Domnikiia. Non ci volle molto. Scrissi una lista di nomi di persone che conoscevo a Mosca e che avrebbero potuto darle un lavoro, insieme a una breve lettera di raccomandazione. Sull'uscio le presi entrambe
le mani. All'improvviso sembrò più un adieu che un au revoir. «Al mio ritorno avrai già un lavoro» le dissi. «Forse» mormorò lei, poi mi guardò dritto negli occhi. «Per favore, non andare, Ljosa» mi implorò. Ci pensai su per un momento, non di più. «Devo andare.» Lei fece un sorriso sghembo. «Vedi» disse, «non c'è verso. Sei così facile, Ljosa, prostak che non sei altro.» Le sorrisi e l'abbracciai stretta. «Tornerò, credimi» sussurrai. Uscii nella strada fredda, montai a cavallo e mi avviai di nuovo a ovest, stavolta non all'inseguimento dei francesi ma degli ultimi due Opričniki rimasti.
Capitolo 28 La strada per Smolensk era quasi irriconoscibile rispetto all'ultima volta che l'avevo vista. L'afa e la foschia dell'estate erano state rimpiazzate da una densa coltre di neve. Il fondo era ben battuto e spesso la neve diventava una poltiglia sciolta, a tratti persino fango. Anch'io ero cambiato. Dodici settimane prima eravamo partiti in quattro, speranzosi e imbevuti di cameratismo, impazienti di difendere la nostra terra e fiduciosi nei nostri nuovi alleati. Adesso eravamo rimasti solo io e Dmitrij, e la fiducia tra noi era fragile. Vadim e Maksim giacevano silenziosi in tombe senza nome. I francesi erano arrivati a Mosca e ne erano ripartiti. Noi e gli Opričniki avevamo influito su quegli eventi? Ne dubitavo. Il destino di Bonaparte era stato segnato nel momento in cui aveva varcato il confine con la Polonia. Quelli dell'Ovest non si rendono conto di quanto est ci sia. Varsavia è molto, molto lontana da Parigi: se Bonaparte era arrivato fin lì, Mosca poteva essere tanto più lontana? In realtà, Mosca è tanto distante da Varsavia quanto Varsavia da Parigi, e il viaggio è cento volte più pericoloso. Durante il viaggio potei vedere le tracce della devastazione portata dagli eserciti che avevano marciato avanti e indietro nelle ultime settimane. Nei villaggi le case erano state distrutte dal fuoco o, a volte, semplicemente dalla forza bruta. Forse erano stati i francesi durante l'avanzata, ma più probabilmente erano stati i russi in ritirata: non solo l'esercito russo, ma anche gli stessi contadini che vivevano in quei villaggi. La strategia di distruzione, che a Mosca si era rivelata così efficace, era messa in atto ovunque l'esercito di Bonaparte scegliesse di marciare. Oltre Mozajsk, qualcosa di nuovo e orribile iniziò a punteggiare il panorama, aumentando per gradi a ogni versta che percorrevo. Il progetto originale di Napoleone era di non tornare indietro per la stessa strada percorsa all'andata, ma di dirigersi a sud di quella principale da Mosca a Smolensk. Ma a Malojaroslavetz, la battaglia da cui era fuggito quel capitano francese impiccato al crocevia di Kurilovo, il generale Kutuzov aveva costretto Bonaparte a deviare dalla rotta stabilita, a dirigersi di nuovo verso nord. A Mozajsk i
francesi avevano ritrovato la strada principale, e li si iniziavano a vedere le tracce lasciate da un esercito in fuga. I cavalli - i cavalli dei francesi - giacevano morti sul ciglio della strada, a centinaia. Alcuni erano crollati per lo sfinimento, la fame o il freddo, ma molti solo per l'ignoranza o la pigrizia dei fabbri francesi. I ferri non avevano le tre punte che un fabbro russo avrebbe aggiunto istintivamente d'inverno per impedire allo zoccolo di scivolare sul ghiaccio. Una volta che il cavallo perdeva l'equilibrio sulla strada ghiacciata, c'era poco che lui o il cavaliere potessero fare per risollevarsi. Sentii dire in seguito che i soldati francesi affamati si gettavano su ogni cavallo barcollante anche mentre cercava di rimettersi in piedi, e lo facevano a pezzi per cibarsene. Soltanto una piccola parte delle carcasse testimoniava la pietà di una pallottola alla testa. Anche così, gli uomini soccombevano al freddo al pari dei loro animali. Se nella neve giacevano abbandonati solo i cadaveri dei cavalli e non quelli dei soldati, probabilmente non era tanto perché ne morissero meno, ma perché i commilitoni avevano fatto lo sforzo di seppellirli. Con il tempo avevano smesso di badare a simili sottigliezze. Man mano che proseguivo, i corpi degli uomini giacevano sempre più spesso accanto a quelli dei cavalli caduti. Ogni volta che incontravo un cadavere una frotta di uccelli si lanciava in aria, spaventata dal mio passaggio. Appena mi allontanavo, quelli tornavano a beccare la carne rimasta. Poco dopo Mozajsk vidi volteggiare davanti a me immensi stormi di corvi. Il loro verso era forse un annuncio di speranza, la nuova alba; ma la loro comparsa è spesso sinonimo di morte. Ben presto mi accorsi di essere nei pressi del campo di Borodino. Nel giorno della battaglia avevo visto ben poco, ma avevo sentito raccontare gli orrori dai sopravvissuti. Ora, quasi tre mesi dopo, per la prima volta vidi con i miei occhi le vere proporzioni del massacro. Dopo quella battaglia non c'era stato un momento per fermarsi a respirare, di certo non per i miei compatrioti, e i cadaveri non erano stati rimossi. Non dagli uomini, almeno: cani, lupi e uccelli avevano preso ciò che potevano dalle migliaia di corpi, eppure rimaneva abbastanza per indovinare il punto in cui era caduto ogni soldato. La
strada correva per circa otto verste attraverso il campo di battaglia, con al centro il villaggio di Borodino. Da entrambi i lati, i cadaveri si estendevano a perdita d'occhio verso l'esterno. I francesi, da quel che potevo vedere, avevano almeno tentato di seppellire i loro morti, ma senza troppa cura: molti corpi erano stati riportati in superficie dalle forti piogge. Contarli era impossibile, oltre che raccapricciante, ma dovevano essere decine di migliaia. Era come se un gigante extraterrestre avesse scelto di assestare uno schiaffo alla superficie della terra proprio in quel punto, schiacciando in un sol colpo chiunque si trovasse lì. Ovviamente non c'era bisogno di una spiegazione sovrannaturale. Ogni uomo lì era morto come muore la maggior parte degli esseri umani: per mano altrui. Spronai il cavallo e attraversai il campo più in fretta possibile. Anche al di là, i cadaveri non si diradavano. Ora però non erano più i corpi dei morti in battaglia, erano quelli morti durante la ritirata. Non era il caso di riflettere su quale delle due sorti fosse più tragica. Dalle persone con cui parlai lungo la via appresi che a uccidere i francesi in ritirata non erano stati solo il gelo e la fame, ma anche i contadini russi. Quando i francesi passavano in un villaggio venivano accolti a braccia aperte, ricevevano cibo e brandy e un letto caldo, poi nel sonno qualcuno gli tagliava la gola o gli piantava una pallottola in testa. Ricordai il corpo impiccato del capitano linciato a Kurilovo. I servi della gleba non avevano motivo di provare compassione per gli invasori; e se anche ne provavano, avrebbero comunque obbedito agli ordini dei padroni uccidendoli senza pietà. Impiegai tre giorni per arrivare a Smolensk. Lungo la strada fu difficile trovare alloggio e cavalli riposati, ma me la cavai. I francesi erano passati di lì due settimane prima: quello che era stato per loro un sentiero ostile in una terra straniera, di necessità era diventato una linea di rifornimento vitale per le armate russe che li inseguivano. Cavalli e vettovaglie, nascosti durante l'avanzata francese, erano riapparsi dopo il loro passaggio, come se Napoleone fosse stato un Mosè che conduceva il suo esercito di israeliti attraverso il Mar Rosso; ma quel che si era aperto davanti a lui, e richiuso dietro, avrebbe portato la vita non al proprio esercito, bensì alla truppe russe. Smolensk era ridotta più o meno allo stesso modo di Mosca:
macerie e incendi. Ma, mentre Mosca era stata liberata dopo sole cinque settimane, Smolensk era rimasta nelle mani nemiche per tre mesi. Alla fine dell'occupazione erano sparite anche le ultime tracce di disciplina militare: infreddoliti e spaventati, i residui dell'esercito di Bonaparte avevano depredato e saccheggiato. C'erano state meno di due settimane di tempo per ricostruire, e Smolensk versava in uno stato peggiore di come avessi mai visto Mosca. Andai alla locanda da cui Dmitrij aveva spedito la sua lettera. Ero sceso lì qualche mese prima, ma non riconobbi il proprietario. Una breve conversazione mi rivelò che il suo predecessore, un cugino, era stato ucciso durante i primi attacchi francesi. Dmitrij mi aveva lasciato un'altra lettera, datata due giorni prima. Aleksej, scusa se non sono rimasto ad aspettarti. Non che io sia impaziente o dubiti del tuo arrivo, ma ho scoperto esattamente dove si trova Foma. Lui e Iuda erano insieme, ma ora non trovo più traccia di Iuda. Se riesco a catturare Foma, potrei usarlo come esca per attirarlo. Altrimenti, ne resterà comunque uno in meno. In ogni caso mi farebbe comodo il tuo aiuto. In questa regione la nostra lista di luoghi d'incontro è piuttosto scarna, ma cercherò di raggiungere la fattoria a nord di Jarcevo (Г1) e di aspettarti lì più a lungo possibile. Come sempre, Dmitrij Jarcevo distava altri due o tre giorni verso ovest. Sentivo freddo, ero stanco e indolenzito dalla cavalcata. Passai una lunga e meritata notte di riposo a Smolensk prima di riprendere il viaggio. Il piano di Dmitrij era avventato, nella migliore delle ipotesi. Catturare Foma poteva essere fattibile, ma se l'avessi catturato io non l'avrei tenuto in vita abbastanza a lungo da consentire a Iuda di accorrere in suo aiuto. L'avrei ucciso subito: meglio ancora, l'avrei ucciso prima che si accorgesse della mia presenza. Alla pragmatica luce delle mie paure, non desideravo più che quelle creature fossero consapevoli della loro morte. L'idea, poi, che Iuda mettesse a repentaglio la sua vita per salvare
un compagno era la parte più ridicola della strategia di Dmitrij. Tra tutti gli Opričniki, Iuda era il meno umano, quello che più difficilmente poteva essere traviato dal senso di cameratismo o dall'amicizia. Tuttavia Dmitrij aveva chiesto il mio aiuto, e io dovevo aiutarlo. Mi interessavano poco i pesci piccoli come Foma, ma se lui o Dmitrij sapevano dove trovare Iuda, allora poteva andare bene. La mattina dopo di buon'ora mi avviai verso ovest. La terra era ancora gelata e il vento soffiava in una tormenta che avrebbe ricoperto di neve qualunque cosa o persona che fosse rimasta immobile per più di qualche minuto. Jarcevo era poche verste a nord della città di Orsa. La strada fin li fu relativamente facile, sempre in discesa lungo la valle del Dnieper, e non ebbi difficoltà a trovare del cibo e un cavallo riposato. A farmi compagnia lungo il tragitto, di nuovo, cadaveri di cavalli e uomini. A molti soldati erano stati rubati gli effetti personali e persino i vestiti. Non ero così sciovinista da credere che una simile profanazione non potesse essere stata perpetrata dai contadini o dai soldati russi, ma erano stati i francesi ad avere la prima opportunità di depredare i corpi dei commilitoni caduti, ed erano i francesi ad avere più bisogno di abiti caldi. Arrivai a Orsa dopo altri due giorni e passai la notte lì, per poi iniziare l'ultima tappa del viaggio. Non mi muovevo più su strade larghe, tra città grandi e popolose. Quando avevamo stilato la nostra lista di luoghi d'incontro, non potevamo sapere se ci saremmo rivisti sotto il regno benevolo dello zar Aleksandr oppure sotto il giogo dell'invasore Bonaparte. Inoltre avevamo ideato i nostri piani sotto uno splendido sole estivo. Allora, la strada da Orsa a Jarcevo sarebbe stata un percorso piacevole tra boschi verdeggianti. Se avessimo potuto prevedere le circostanze future, avremmo scelto di incontrarci davanti al caminetto più grande della taverna più calda di Orsa. Invece avevamo scelto un posto in cui un uomo poteva morire a novembre e spuntar fuori dalla neve a marzo perfettamente conservato dal gelo. Ma perlomeno la strada non era più quella già battuta dai francesi, quindi non era più ingombra di carcasse di cavalli e uomini. Una ben magra consolazione, di fronte alla tremenda morsa del freddo.
Iniziai a dubitare che fosse il caso di proseguire, dato che la neve mi arrivava alle ginocchia e tenendo conto che ero seduto a cavallo. Avevo provato a smontare e a condurre la cavalla a piedi nelle grandi distese imbiancate, e per un po' eravamo andati più veloci. Ma in certi punti la neve era più alta di me. Le possibilità di arrivare al luogo d'incontro si facevano scarse; e se anche fossi arrivato, dubitavo che Dmitrij potesse farcela. D'altro canto ero convinto di essere ormai più vicino a Jarcevo che a Orsa, quindi avanzare era l'opzione più sensata. La neve era sempre più alta: a tratti dovevamo farci strada come una nave bloccata nel ghiaccio del Baltico. Lo strato superiore era più alto della testa della mia cavalla, e solo per la fiducia o la paura che provava nei miei confronti riuscivo a farla marciare lungo un sentiero che non vedeva. Sotto mezza dozzina di strati di vestiti, il gelo mi mordeva con aggressività carnivora. Come la cavalla resistesse a tutto ciò, non saprei dirlo. Dopo il tramonto scorsi infine le luci del villaggio: in condizioni normali mi avrebbero guidato come un faro, ma nella tormenta si vedevano per un istante e scomparivano il successivo. Mi avviai nella direzione in cui le avevo viste. Cinque minuti dopo le vidi ancora, stavolta sulla sinistra e più lontane. Spronai la cavalla, che malvolentieri si voltò verso le luci. Il vento e la neve sferzavano la stretta fessura tra il cappello e il colletto da cui spuntava il mio viso. Sarebbe stato più piacevole essere frustato sugli occhi. Passarono altri dieci minuti prima che scorgessi di nuovo le luci del villaggio. Stavolta erano più vicine, ma ancora alla mia sinistra, ad angolo retto rispetto alla direzione in cui puntavamo. Cercai di far voltare ancora la cavalla, lei però rifiutava di muoversi. Non per testardaggine, ma perché era bloccata. Provò a nitrire, ma il suono fu smorzato dalla neve che le entrava nella bocca e nelle narici. Smontai di sella e scoprii di non poter più vedere le luci del villaggio. Mi trovavo in un mucchio di neve più alto di me. Arrancai, tirandone via una manciata dopo l'altra e gettandola da parte, ma la neve era più veloce di me. Presto non riuscii più a muovere né le gambe né le braccia. A ogni movimento del mio corpo la neve si congelava sempre più e mi stringeva in una morsa più forte. Per quella notte non sarei potuto procedere oltre, e se non mi fossi
mosso quella notte non mi sarei mosso mai più. Nella mia disperazione il freddo sembrò raddoppiare d'intensità, e io seppi che non avrei resistito a lungo. Decisi di pensare a cose piacevoli nei miei ultimi istanti di vita. Mi vennero in mente mia moglie e il bambino, ma le loro immagini furono subito rimpiazzate da quelle di Domnikiia. L'occhio dell'immaginazione mi si staccò dal corpo e tornò in volo verso Mosca per osservarla. Si posò sui suoi occhi grandi, sulle labbra, sui lobi pallidi delle orecchie. La osservai con attenzione, benché lei fosse ignara della mia presenza. Riportai accanto a me la sua voce argentina, e anche se non distinguevo le parole era proprio la voce di Domnikiia. Non avrei saputo immaginare uno stato mentale più sereno in cui morire. Tra i fischi del vento udii l'ululato di un lupo, presto seguito da un secondo. Pregai che il freddo mi togliesse i sensi prima che le bestie venissero a sbranarmi. Allo stesso tempo, ricordai che secondo il folclore il vurdalak poteva trasformarsi in lupo. Modificai la mia preghiera. Se il freddo non poteva salvarmi, sperai almeno che gli ululati provenissero da lupi normali e rispettabili. Ricordo di essere stato trascinato sulla neve, e ricordo le voci che gridavano tutto intorno a me. Rammento anche di aver percepito bocche e denti aguzzi vicino al mio viso, il puzzo repellente della carne mezza digerita che risale da un esofago carnivoro, e la sensazione stranamente piacevole di qualcuno che mi leccava il viso. Quando mi svegliai, l'unica idea che si fece strada tra le tante sensazioni fu quella del calore. Ero avvolto in una pelliccia pesante, e accanto a me una stufa di ferro riempiva la stanza di tepore. Sentii il sapore del brandy sulle labbra: qualcuno doveva avermelo spinto in bocca mentre ero privo di sensi. Vicino al fuoco c'erano due cani enormi, sdraiati a terra, con il respiro pesante e le lingue penzoloni a un lato del muso. Il pelo era una mescolanza di grigio e bianco, e gli occhi grigi mi guardavano con vacua curiosità. Uno dei cani aggrottò la fronte e distolse lo sguardo, voltandosi in direzione di un suono.
«Bevete dell'altro brandy!» La voce veniva da dietro di me. Un uomo, alto di statura e corpulento, stava accanto al fuoco, a fissare le fiamme danzanti, a inspirarne il tepore dalle grandi narici pelose. Sul tavolo c'erano un bicchiere di liquore scuro e una bottiglia. Bevvi, e l'uomo mi riempì di nuovo il bicchiere. «Grazie» dissi, tornando a bere. «Siete molto lontano dal resto delle truppe» disse lui. «Come fate a sapere che sono un soldato?» «Portate una spada, anche se non avete l'uniforme.» «Come sapete che non sono francese?» «Non lo sapevo, finché non avete parlato» spiegò, posando delicatamente sul tavolo una pistola con la sicura inserita. «Ora lo so.» Il fatto che parlassimo entrambi in russo era rassicurante per me quanto per lui. Mi ero spinto così a ovest che avrei potuto ritrovarmi in una casa polacca, e lì l'accoglienza riservata a un soldato russo sarebbe stata meno calorosa. I cani voltarono la testa dall'altra parte della stanza, verso la porta. Entrò un secondo uomo, più giovane ma altrettanto robusto. «Ah, è sveglio» disse il nuovo arrivato. «Sì» rispose il primo, «e sembra sia dei nostri, ma non mi ha ancora detto cosa ci fa qui.» «Dovrei incontrare una persona» spiegai. «Siamo a Jarcevo?» «Sì» confermò l'uomo più anziano. «C'è una fattoria a circa una versta da qui, a nord» proseguii, «verso Mezevo.» «Non c'è più, è andata a fuoco.» «I francesi?» chiesi. «No. È bruciata più di un anno fa.» «Capisco. Credo che il mio amico verrà comunque a cercarmi lì.» «Non abbiamo visto nessuno. Badate, con questo tempo
qualcuno potrebbe passare davanti al villaggio o addirittura attraversarlo senza essere visto. È una fortuna che i cani vi abbiano fiutato.» «C'era quel fumo che abbiamo visto da laggiù l'altro giorno, papà» disse il più giovane. «Quando?» domandai io. «Ieri o l'altro ieri.» «Devo andare a cercarlo» dissi, alzandomi dalla sedia. «Non stanotte, non se ne parla neppure» fece il vecchio. Mi piazzò una delle sue manone sulla spalla e mi spinse giù a sedere con una forza spaventosa, che mi ricordò il modo in cui il vampiro Pavel mi aveva spintonato contro il muro. Quando l'uomo si mosse, i suoi cani si alzarono lesti e digrignarono i denti in silenzio. «Ci andrete domattina» aggiunse in tono secco. Passai la notte su quella sedia, a godermi il tepore delle pellicce e del fuoco. Fui svegliato di buon'ora quando una donna - dall'età immaginai che fosse la moglie dell'uomo più anziano - venne a portare altra legna per il camino. Poi mi fece cenno di seguirla in un'altra stanza, dove feci colazione in silenzio con lei, il marito e il figlio. Poco dopo l'alba il capofamiglia si rivolse a me. «Pensate ancora di andare alla fattoria?» chiese. «Devo andarci» risposi. «Be', non mi offro di accompagnarvi, ma vi mostrerò la strada. Non è lontano, ma con questo tempo è pericoloso. Dovreste lasciare qui il cavallo e andare a piedi.» «La mia cavalla è viva?» chiesi, sorpreso. Non mi era neppure passato per la testa. «Perché non dovrebbe? Stava molto meglio di voi quando vi abbiamo trovati.» Mi infilai il cappotto e il cappello e uscimmo. Il villaggio non era grande e gli edifici sembravano stringersi l'uno all'altro per riscaldarsi.
Aveva smesso di nevicare, e il vento era più leggero, ma faceva ancora freddissimo. Percorremmo l'unica strada fino al limitare dell'abitato. «Dovete proseguire di li» mi disse l'uomo, indicando un sentiero che si intravedeva appena tra gli alberi. «È una sola versta. Della fattoria rimane in piedi abbastanza per riconoscerla, a meno che non l'abbia coperta la neve.» «Vi ringrazio.» «Se non siete di ritorno fra tre ore non verrò a cercarvi, perché sarete morto. Vi seppellirò in primavera, se i lupi non vi mangiano prima.» Gli porsi la mano, ma lui preferì non estrarre la sua dalla tasca. Mi incamminai lungo la strada che mi aveva indicato. Mi voltai a salutarlo, ma si era già avviato, e vidi solo la schiena china diretta al tepore della sua casa. Mi ritrovai a camminare controvento, e ogni passo era sempre più difficile, mentre i fiocchi di neve mi sferzavano il viso. Sembrava assurdo pensare che Dmitrij fosse arrivato fin laggiù, tantomeno che vi fosse rimasto; ma essendo ormai così vicino, sarebbe stato ridicolo da parte mia tornare indietro. Lo stesso pensiero poteva essere passato nella testa di Dmitrij. Se era arrivato fin lì avrebbe proseguito, e questo si poteva dire di lui anche quando «fin lì» significava un solo passo. E poi era stato visto del fumo, quindi qualcuno era stato lì e con tutta probabilità si trattava di Dmitrij, ma era improbabile che poi si fosse fermato. Fu solo grazie a un momentaneo attenuarsi del vento che riuscii a vedere le rovine della piccola fattoria. La neve non aveva coperto del tutto il rudere carbonizzato, che aveva ancora vagamente la forma di una casa, ma avvolto nella tormenta sarebbe stato difficile da notare. Camminando tra i tizzoni anneriti, scorsi all'altro capo della struttura i resti di un fuoco più recente: un bivacco. Le forme contorte dei tronchi coperti di neve che erano stati ammucchiati per creare un sedile circondavano in parte un ampio spiazzo pieno di tizzoni e carboni. Ci posai una mano e sentii che si era completamente raffreddato. Era passato più di un giorno da quando il fuoco si era spento. Tuttavia, ero ormai certo che Dmitrij fosse
passato di lì. Nessuno avrebbe degnato di uno sguardo quel posto freddo e deserto, e men che mai si sarebbe fermato ad accendere un fuoco, se non avesse avuto un buon motivo per essere lì. Anch'io ero arrivato all'appuntamento, ma in ritardo. Esplorai le rovine in cerca di un messaggio di Dmitrij nel codice che ci era stato tanto utile, sperando di scoprire dove si fosse diretto. Non ci misi molto a trovarlo. Un tavolo semicarbonizzato era stato addossato a quello che un tempo era lo stipite di una porta. Era coperto di neve, ma ripulendolo portai alla luce il messaggio inciso chiaramente sulla superficie: 11-9-21 -Д Tre giorni prima. Senza dubbio era stato impossibile attendere tanto a lungo in quel freddo, ma non c'erano altri messaggi a indicare dove potesse essere andato. Spazzai via con la mano il resto della neve dal tavolo e ripetei l'operazione sull'altro lato, ma non trovai nulla. Tornai al punto in cui Dmitrij aveva acceso il fuoco e mi sedetti su uno dei tronchi. Il legno duro e nodoso mi si conficcò nelle membra e il freddo mi penetrò nella carne. Cosa dovevo fare? Dmitrij era stato lì, ma poi dov'era andato? Il suo piano per catturare Foma aveva avuto successo, oppure doveva ancora attuarlo, oppure Foma aveva avuto la meglio? O addirittura, Dmitrij era riuscito a usare Foma come esca, poi però era stato sconfitto da Iuda? Questo poteva significare che Iuda era ancora nei paraggi, in attesa del mio arrivo. Ringraziai il cielo di essere arrivato durante il giorno. Potevo solo supporre che Dmitrij fosse ancora vivo, altrimenti ogni mia azione sarebbe stata inutile. Se fossi stato al posto suo, avrei cercato di raggiungere l'esercito regolare. Da quanto avevo sentito a Orsa, i russi erano diretti a Borisov nel tentativo di impedire a Bonaparte di attraversare la Beresina. A cavallo ci volevano un paio di giorni. Ipotizzai che Dmitrij avesse scelto di andare lì, e quindi decisi di cercarlo in quella direzione. Tirai su i piedi per alzarmi. Nel farlo, smossi la neve accanto al
tronco su cui sedevo, rivelando un oggetto che scintillava. Mi chinai, tolsi altra neve e appurai che si trattava di una catenella d'argento: era incastrata sotto uno dei rametti sporgenti dal tronco. Tolsi altra neve, e d'un tratto balzai in piedi con un sussulto incredulo. Non era un rametto, era la mano di un uomo. Non ero seduto su un tronco d'albero, ma su un cadavere congelato.
Capitolo 29 Ancor prima di aver smosso la neve, seppi che era Dmitrij. Il corpo era sdraiato accanto al tronco su cui doveva essersi seduto. Quando era stramazzato a terra, la neve li aveva coperti entrambi, facendoli sembrare un unico oggetto. Gliela tolsi dalla barba, dai capelli e dagli occhi. Le labbra e gli occhi erano serrati, e l'espressione non rivelava l'agonia della morte, soltanto la ferma determinazione di un uomo che affronta una notte all'addiaccio. La catenella d'argento pendeva ancora dalla sua mano stretta a pugno. Aprii le dita a una a una e all'interno trovai l'icona che gli avevo dato l'ultima volta che ci eravamo parlati, appena dopo aver seppellito Maksim. Dunque avevo ragione io, e Domnikiia torto: l'icona non l'aveva protetto dalla morte. Decisi di non espormi al freddo per rimettermi la catenella al collo; la avvolsi intorno all'immaginetta del Cristo e me la infilai in tasca. Non sembravano esserci ferite sul corpo di Dmitrij, sicuramente non al collo. Come tanti francesi in fuga, era stato sconfitto da un nemico terrificante, l'inverno russo: un nemico più forte, più affidabile e molto più spietato degli Opričniki. Restava una domanda. Dmitrij era riuscito a catturare Foma? Mi guardai intorno, osservando con occhi nuovi gli altri tronchi distesi accanto al fuoco consumato. Ciascuno di essi poteva rivelarsi, sotto la coltre di neve, un cadavere dalle membra contorte che si fosse trascinato agonizzante sul terreno. Quando infine posai gli occhi sul corpo di Foma, la sagoma di un uomo divenne irrefutabilmente chiara. Una volta piantata nella mente l'idea che potesse essere un cadavere, ciò che vedevo non era interpretabile in altro modo. Foma era sdraiato prono. Una protuberanza all'altezza dei fianchi sembrava indicare le mani, legate dietro la schiena da Dmitrij quando l'aveva catturato. Mi stupii che il suo corpo esistesse ancora, all'aria aperta. Avevo visto gli effetti del sole su Pétr e Iakov Zevedajnic, e sapevo che ben poco sarebbe dovuto rimanere anche di Foma. Potevo solo supporre che la neve offrisse una protezione
sufficiente dalla luce, oppure che una volta morto di freddo e congelato, il sole non potesse avere altro effetto sul suo corpo. Il cadavere era lontano da quello di Dmitrij, verso la casa bruciata. Sembrava che Foma avesse camminato - o strisciato per terra, poiché aveva le mani e i piedi legati - per allontanarsi da lui. Forse Dmitrij aveva ceduto al freddo prima di Foma, che quindi aveva colto l'occasione per fuggire, benché non mi fosse chiaro da che parte sarebbe potuto andare. Comunque era diventato ben presto una massa solida di carne ghiacciata. Premetti la punta della spada sul corpo, attraverso la neve. Era solido come la pietra. Due giorni all'aperto con quel clima potevano trasformare in roccia ogni cosa vivente che non continuasse a muoversi. Voltai il cadavere sulla schiena e mi chinai a osservarlo, ripulendogli il viso dalla neve per accertarmi che fosse davvero Foma. Era sicuramente lui. Era morto con gli occhi aperti, che in vita non erano stati più espressivi di quanto lo fossero ora. Gli occhi si mossero all'improvviso verso sinistra e poi verso destra. Sobbalzai, e subito lo guardai di nuovo. Lui ripeté l'azione due volte, con una pausa nel mezzo. Foma non era umano, era un vampiro. Come non poteva morire per una ferita da taglio, così era impossibile che morisse congelato. Il suo corpo era sceso alla temperatura dell'ambiente intorno a lui, decine di gradi sotto lo zero, e ogni fluido che un tempo vi scorreva si era tramutato in ghiaccio solido; eppure la vita, o l'equivalente vampirico della vita, non poteva essere estinta. Riusciva a muovere soltanto gli occhi, che pure dovevano essere piccole sfere di ghiaccio solido. Ora saettavano rapidi in tutte le direzioni attraverso l'unica fessura nello strato esterno di neve, come gli occhi di un uomo che scrutano da una finestra ghiacciata in una stanza accogliente, tiepida, scaldata dal fuoco. Mi ricordai di quando l'avevo visto in piedi e congelato contro il muro in un vicolo di Mosca, mentre solo con gli occhi ispezionava le potenziali prede che gli passavano davanti. In quell'occasione la sua immobilità era stata volontaria, per nascondersi. Adesso era forzata. Non so quale messaggio, se ce n'era uno, Foma stesse cercando di comunicarmi. Forse non pensava affatto, o non mi aveva neppure
riconosciuto. Forse erano solo i movimenti degli occhi nel sogno, rivelati al mondo ora che non poteva chiudere le palpebre congelate. Non poteva sperare che lo salvassi, ma forse sperava che lo uccidessi in fretta, di poter morire subito anziché restare in quel limbo fino a primavera, quando il calore del sole avrebbe cancellato sia la neve sia il vampiro che avvolgeva. In effetti morì immediatamente, ma non per causa mia. Gli tolsi un altro po' di neve dal viso, per vedere se riusciva a muovere altro a parte gli occhi. Se prima la mia ombra l'aveva protetto, quando il primo raggio di sole gli colpì la guancia la carne iniziò a sciogliersi. Balzai all'indietro, capendo cosa stava per succedere. La scena a cui assistetti fu stranamente bella, non solo perché provavo piacere nel veder morire un'altra di quelle creature - stavo diventando troppo smaliziato per questo -, ma anche per il modo teatrale in cui si svolse. Era come uno spettacolo di fuochi d'artificio, di quelli che si vedono a Mosca o a Pietroburgo. Attraverso il lembo di pelle che avevo ripulito, il sole iniziò a bruciare il vampiro. Il calore a sua volta fece sciogliere altra neve, e gli incenerì perfino i vestiti, esponendo nuova carne al sole. Una scintilla infiammata si irradiò dalla testa di Foma e in pochi secondi percorse l'intero corpo, sciogliendo altra neve, e la neve sciolta portava alla luce altro carburante per la combustione. Udii una specie di ruggito mescolato al fischio del vento. Per un momento vidi solo un'aura di bianco abbacinante con le fattezze di un corpo umano - mi ricordò l'immagine mentale che ho sempre avuto dell'ascensione di Nostro Signore -, ma svanì quasi subito. Ben presto non rimase che una pozza di neve sciolta, in parte ancora tiepida e fumante. Nel giro di pochi minuti l'inverno si riaffermò padrone, e la pozza divenne un manto di ghiaccio brillante. Mi sarebbe piaciuto seppellire Dmitrij. Era stato un amico per parecchio tempo: sette anni. Con lui non avevo avuto la stessa confidenza che con Maks, ma questo era dipeso solo dalle nostre personalità, non dai nostri cuori. Ci eravamo fidati l'uno dell'altro tutti noi - e benché, come con Maks, la mia fiducia avesse vacillato, poi era tornata. Ero fortunato ad aver avuto l'opportunità di accertarmi che Dmitrij ne fosse consapevole. Speravo che in qualche
modo lo sapesse anche Maks. Ma seppellire Dmitrij era impossibile. Se anche avessi avuto degli attrezzi, la terra ghiacciata era impenetrabile come roccia, e non sarei riuscito a scavare. Il meglio che potessi fare era coprirlo di neve e costruire una croce con un paio di ciocchi di legna bruciacchiata presi dalla casa. Sperai di poter tornare prima della primavera e offrirgli una sepoltura più degna. Mi avviai verso Jarcevo. Il vento, che aveva soffiato contro di me mentre mi allontanavo dal villaggio, aveva cambiato direzione, sicché mi ritrovai controvento anche nel viaggio di ritorno. La tormenta di neve mi sferzò di nuovo il volto, ma il tragitto fu più semplice perché sapevo quanto mancava alla destinazione. Arrivato al villaggio, bussai alla porta dei miei salvatori. Mi aprì il più giovane dei due uomini. «L'avete trovato?» «No» risposi, senza entrare nei dettagli. «Ve l'avevo detto» esclamò il padre, avvicinandosi alle sue spalle. «Suppongo vorrete fermarvi qui anche stanotte...» «No» dissi, «credo che riuscirò a tornare a Orsa entro oggi.» «Non vorrete perdervi di nuovo come la notte scorsa.» «Cercherò di evitarlo.» «Mostragli il suo cavallo» disse l'uomo al figlio. Il figlio, accompagnato dai due enormi cani simili a lupi, che lo seguivano fedelmente, mi condusse in una stalla, dove trovai la cavalla ben nutrita e riposata. Tornammo alla casa e il padre mi porse i miei bagagli. «Grazie per il vostro aiuto» dissi a entrambi, con tutto il calore che i loro modi burberi mi consentivano. «Siamo cristiani» disse il padre, intendendo che per loro era un dovere, non un piacere. Gli porsi del denaro. Lui lo guardò con disprezzo - non so se perché era troppo poco o perché gliel'avevo offerto - e se lo mise in tasca. Mi chiusero la porta alle spalle prima ancora che fossi montato in sella.
Il viaggio di ritorno a Orsa fu più facile, in pieno giorno. La neve aveva già coperto le tracce del mio passaggio della sera precedente, e non riuscii a vedere in che punto mi fossi allontanato dalla strada. Il sole iniziava a tramontare quando entrai in città. Guardai il cielo a ovest, sapendo che in quella direzione marciavano i pochi francesi rimasti, e con loro, a quanto ne sapevo, c'era Iuda, l'unico Opričnik superstite. Nell'altra direzione, lungo la stessa strada, c'era Mosca, e lì Domnikiia. A nord un'altra strada portava a Pietroburgo, a mia moglie e mio figlio. Tornai alla locanda in cui ero sceso due notti prima. Qualsiasi decisione sul giorno dopo, e su quelli successivi, poteva essere rimandata. Mangiai, feci un bagno e piombai in un sonno profondo. Al risveglio avevo preso una decisione. La scelta difficile, quella foriera di dubbi e rabbia, era tra Mosca e Pietroburgo; quindi scelsi la terza opzione, dirigermi a ovest e raggiungere l'esercito. Sapevo che molti altri soldati avevano fatto la stessa scelta: sfuggire alla complessità della vita per rifugiarsi in un mondo dove si poteva passare il tempo a scampare alla morte. Pensavo di avere poche possibilità di trovare Iuda (sebbene anche lui potesse trovare me); tuttavia, potevo rendermi utile coadiuvando la disfatta dei francesi con le tecniche di guerra tradizionali a cui sentivo di dovermi riabituare. Le tracce lasciate dai francesi in ritirata erano ancora sparse per le strade, e diventavano sempre più disgustose. Ancor prima di Orsa avevo notato che un numero sempre maggiore di cavalli non erano semplicemente morti: erano stati macellati. Non potevo biasimare i soldati affamati e disperati per aver deciso di mangiare i loro fedeli compagni in modo da salvarsi la pelle. Magari i primi cavalli erano morti di freddo o di fame; solo a quel punto erano stati visti come carne. In seguito, però, anche quelli sani erano stati considerati una fonte di cibo, ed erano stati uccisi di proposito. Anche in questo caso non me la sentivo di stigmatizzare quegli uomini. Fu un sollievo vedere, proseguendo lungo la strada, che i corpi di giumente e stalloni si diradavano. Ma giunto quasi a Orsa, ritrovai sui cadaveri degli uomini gli stessi
segni visti sulle carcasse degli animali. Con la morte degli ultimi cavalli si era estinta una fonte di nutrimento. I vivi, che avevano già imparato a trarre cibo dal corpo di una bestia, erano passati ad applicare lo stesso metodo ai corpi umani. La fame aveva portato al cannibalismo. Come con i cavalli, forse avevano iniziato violando chi era già morto. Non avrebbero mai ucciso altri uomini per mangiarne la carne. Doveva essere così, per forza. Erano forse quelli i prodromi del percorso intrapreso dagli Opričniki o dai loro antenati? Ma no. Come avevo visto nel fienile, e come mi aveva detto Pétr, gli Opričniki non mangiavano per nutrirsi, ma per piacere. Non si potevano paragonare a quegli uomini abbrutiti e mezzi morti di fame che, nella disperazione, si erano rivolti alla carne dei commilitoni. D'altronde, anch'io mangiavo per piacere. Il nutrimento è una necessità, ma era solo la minore delle motivazioni dietro a ogni pasto nella peggior taverna di Mosca. C'era stato un momento parallelo, nella storia dei vampiri e in quella dell'umanità, in cui il nutrimento si era trasformato da necessità in vizio? Mi stavo ormai avvicinando alla retroguardia dell'esercito russo, e la strada si riempiva di ritardatari che cercavano di rimettersi al passo o di corrieri che portavano messaggi in entrambe le direzioni. Nessuno badava a ripulire il caos che la Grande Armée si era lasciata dietro; e neppure io. Bonaparte non era ancora sconfitto: ci sarebbe stato tempo per ripulire, dopo. Due giorni fuori da Orsa, e ancora a est di Borisov, incontrai un grosso accampamento di truppe russe. Mi avvicinai alle sentinelle e smontai di sella. Era già buio da varie ore, e loro si insospettirono vedendo un uomo senza uniforme. «Parola d'ordine?» berciò uno dei due. «Non ne ho idea, temo» gli dissi, «ma ecco i miei documenti.» Gli porsi le mie credenziali, e lui le ispezionò. Bastarono a convincerlo del mio rango e che non facevo parte dell'esercito regolare. Oltre a ciò, giudicò opportuno non fare domande. «Potete portarmi dal vostro ufficiale comandante?» gli chiesi quando mi ebbe restituito i documenti. Lui corse in una tenda e tornò con un ragazzo sui vent'anni, in divisa da sottotenente della
fanteria imperiale. «Capitano Danilov, se ho ben capito?» Ricambiai il suo saluto. «Mi chiamo Tarasov. Piacere di conoscervi. Allora, cosa porta un uomo come voi in prima linea?» Non c'era traccia di risentimento nella sua voce. Era un soldato professionista, e comprendeva che un uomo può servire il suo Paese in molti modi. Con un gesto della mano mi chiese di seguirlo attraverso l'accampamento. «Sono qui per combattere» gli spiegai mentre camminavamo. «Capisco» disse lui, con un'ombra di incredulità. «Stanco di giocare a fare la spia, eh?» «Non c'è più nessuno da spiare.» «Presto non ci sarà più neppure un nemico da combattere, grazie al cielo. Fossi in voi, avrei aspettato altre due settimane, con Bonaparte morto da un pezzo!» «Ho bisogno di sentire di nuovo in mano il peso della spada.» Tarasov scoppiò a ridere, la risata di un uomo che nel fondo del cuore non comprendeva i miei sentimenti. «Be', buon per voi» disse. «Allora, qual è la disposizione attuale dei francesi?» chiesi. «Sono praticamente intrappolati a Borisov. Speravano di passare la Beresina lì, ma l'ammiraglio Cicagov è arrivato prima di loro da ovest e ha bruciato il ponte.» «Hanno bisogno di un ponte?» mi stupii. «Il fiume sarà ghiacciato, ormai.» «Ah, no. Loro avranno anche Napoleone, ma noi abbiamo Dio dalla nostra parte. Non avete notato il disgelo?» Lo fissai, avvolto nel suo cappotto pesante, con la sciarpa e i guanti. Era più sensibile di me se aveva percepito un disgelo. «Il fiume era ghiacciato, ora però è tornato a scorrere. Non lo attraverseranno mai.» «Quindi andiamo ad ammazzarli?» «Be', non possiamo mica lasciarli lì, non credete? Sta arrivando anche Kutuzov da sud. Sono in trappola.» «E chi comanda lì?» «Wittgenstein» disse Tarasov con orgoglio.
«E Bonaparte combatterà?» «Non ha speranze, dovrà arrendersi.» «Non è da lui. Forse andrà a sud.» «Non lo aiuterà. Il fiume si allarga laggiù, non troverà un guado.» «Finché non gela di nuovo» osservai. «Allora congelerà anche lui.» Eravamo arrivati a una tenda. Tarasov entrò e poco dopo si affacciò alla porta e mi fece cenno di entrare, annunciandomi. «Il capitano Danilov, signore!» «Grazie, tenente» disse il tenente colonnello che sedeva dietro un tavolo pieghevole. C'era con lui un certo numero di ufficiali, in piedi o seduti, in un'atmosfera rilassata e cordiale. «Accomodatevi, Danilov» proseguì, indicandomi una panca di fronte a sé. «A proposito, io sono il tenente colonnello Cernysév.» Gli rivolsi un saluto militare prima di prendere posto. «Bevete qualcosa?» chiese. «Grazie, signore» risposi. «Vino o vodka?» «Vodka, grazie, signore.» «Brav'uomo.» Mi porse un bicchiere di vodka e mi offrì un sigaro. Lo accesi dalla candela sul tavolo. «Allora ditemi, Danilov, chi è il vostro ufficiale comandante?» volle sapere Cernysév. «Il maggiore Savin.» «Savin? Vadim Fëdorovič, dite?» Sorrisi. «Esatto. È vostro amico?» «Oh, sì, un caro amico. Pietroburghese, come me.» «Anch'io» gli dissi. «Davvero? Splendido.» Ma non sembrava interessato. Tornò all'argomento che gli premeva: «Come sta Vadim Fëdorovič?». «È morto, signore.» «Ah!» Cernysév accolse la notizia con la pacata rassegnazione che
ho visto in molti ufficiali esperti. Nonostante la sua spavalderia, la morte di ciascun sottoposto lo turbava. Più soldati morivano e più lui soffriva, ma diventava anche più bravo a nasconderlo. Alcuni pensano di non poter mai lasciare l'esercito, per paura che il dolore di troppe morti gli si riversi addosso tutto insieme. Chi se ne va soffre ancor di più, quando si accorge che i civili non capiscono cos'ha passato. «Ditemi, capitano Danilov» continuò il tenente colonnello, «perché siete venuto a farvi reclutare da noi?» Tirai un gran respiro e mi preparai a dare una risposta che non conoscevo. Prima che potessi parlare, uno degli altri ufficiali si chinò a sussurrare all'orecchio di Cernysév, che rispose con un altro bisbiglio e annuì udendo la risposta. «Bene, capitano Danilov» proseguì, «sembra si sia verificata una specie di coincidenza.» Attese la mia reazione, ma c'era poco che potessi dire. «Pare che in questo accampamento ci sia qualcuno che vi conosce. Un prigioniero, nientemeno. Un francese, addirittura!» Sembrava particolarmente sconvolto all'idea che il prigioniero fosse francese, benché il fatto in sé non fosse per nulla strano. All'improvviso capii perché doveva essere andato tanto d'accordo con Vadim. «Ha detto il suo nome?» «No. Raccontagli i dettagli, Mironov.» L'ufficiale che aveva appena sussurrato a Cernysév si rivolse a me. «È arrivato circa un'ora fa. L'hanno catturato sulle colline a nordest. Non ha opposto resistenza, e non ha detto come si chiama. Porta un'uniforme francese, rango di chef de bataillon. Dice solo di voler parlare con il capitano Aleksej Ivanovič Danilov.» «Sapeva che ero qui?» chiesi. «Evidentemente sì» disse Mironov stringendosi nelle spalle. Ero nell'accampamento da meno di un'ora. L'unica spiegazione era che fossi stato seguito. «Che aspetto ha?» «Temo di non averlo visto di persona» rispose Mironov. «Volete che vi porti da lui?»
«No, non ancora.» Buttai giù un altro sorso di vodka. «Che ore sono?» «È appena passata la mezzanotte» mi disse Mironov. «E quando sorge il sole?» «Verso le otto.» «Gli parlerò alle sette. Dove lo tenete?» «Con gli altri prigionieri.» Riflettei un momento, poi dissi: «Tenetelo separato dagli altri. Assicuratevi che sia legato mani e piedi. Lasciatelo all'aria aperta, da qualche parte, accanto a un fuoco. Tenetelo al caldo, ma rigorosamente all'aperto». Stavo adottando il metodo ideato da Maks alcuni mesi prima. «E state molto, molto attenti con lui. È pericoloso.» «Quindi sapete chi è?» chiese il tenente colonnello Cernysév. «Penso proprio di saperlo» confermai, aspirando una boccata dal sigaro. Anche quella notte dormii bene. Fui svegliato verso le sei ed ebbi tempo di fare colazione con calma prima che il tenente Mironov mi portasse dal prigioniero misterioso. «Spero non passerete troppo tempo con lui, capitano Danilov» mi disse mentre attraversavamo l'accampamento. «Pare che Napoleone si stia dirigendo a sud. I francesi stanno cercando di costruire un ponte.» «E noi dobbiamo seguirli?» «Assolutamente. L'ammiraglio Cicagov Io sta braccando, sull'altra sponda della Beresina. Stiamo già iniziando a smontare le tende. Partiremo tra quattro ore.» «Vi assicuro, tenente, che all'alba avrò finito con il prigioniero.» «Lo spero, signore.» Eravamo quasi arrivati a un grande fuoco che mi scaldava anche da quella distanza.
Lì accanto sostavano due guardie, stanche per la veglia notturna ma ancora abbastanza sveglie. Tra di loro, seduto su una panca accanto al fuoco, un uomo alto di statura e con i polsi legati, chino in avanti, i gomiti sulle ginocchia. I lunghi capelli biondi e spettinati gli coprivano il volto come una cortina. Anche così era inconfondibile. « È l'uomo che pensavate?» chiese Mironov. «Oh, sì» risposi.
Capitolo 30 «Buongiorno, Iuda» dissi a voce bassa. Lui alzò la testa. Aveva un'aria decrepita. I capelli non lavati e arruffati, il mento non rasato e la carnagione pallida. Sembrava non "mangiasse" da giorni. La mandibola era gonfia per il livido di un pugno recente. Eppure sorrideva. «Buongiorno, Aleksej Ivanovič.» «Ha cercato di fare qualcosa?» chiesi a una delle guardie. «Niente, signore, continuava a chiedere quando sareste arrivato, ma l'ho zittito.» Mimò l'azione di un colpo con il calcio del moschetto. Iuda fece una smorfia al momento appropriato, mimando lo stesso gesto per schernire il soldato. Gli scoccò un'occhiata, poi distolse lo sguardo. «Era armato?» domandai. «Solo questo.» Il soldato frugò nello zaino e mi porse il coltello a doppia lama che avevo visto in mano a Iuda. «È un oggetto strano, non vi pare, signore? Non capisco che utilità pratica possa avere.» «È una delle cose che intendo scoprire.» «Volete che restiamo nei paraggi, signore?» Era una consolazione trovarmi di nuovo tra uomini cosi affidabili e risoluti, ma il suo suggerimento poteva essere motivato anche dall'interesse personale: stare vicino a noi voleva dire rimanere vicino al fuoco. I due soldati erano pallidi e intirizziti, nei loro cappotti abbottonati fino al mento. Anche così, i miei timori ebbero la meglio sulla compassione. «Non troppo vicino» risposi. «Per motivi che comprenderete, è meglio che non sentiate la nostra conversazione.» L'uomo annuì convinto. Non avevo dubbi che sarebbe rimasto quasi a portata d'orecchio, e per sicurezza avrei parlato a Iuda in francese. «E dovrete tenervi pronti, per il vostro bene oltre che per il mio, nel caso diventi pericoloso.» Tutto intorno a noi, l'accampamento era in subbuglio. I soldati stavano smontando le tende, legando i cannoni ai cavalli, caricando i bagagli sui carri. L'attività era abbastanza frenetica da tenerli caldi
nonostante il gelo della notte; ma per me e Iuda, e per le due guardie che si erano piazzate da parti opposte a una certa distanza, il fuoco offriva l'unica forma di riscaldamento. Mi sedetti davanti a Iuda mentre le guardie si allontanavano con circospezione. Meditai su come esordire, sperando dicesse qualcosa lui, ma restò in silenzio, gli occhi fissi a terra. Malgrado le circostanze, aveva ancora un'espressione di trionfo. Poi capii il perché. Per quanto ne sapeva, il suo trucco con Margarita aveva funzionato: io avevo creduto che Domnikiia fosse diventata un vampiro e l'avevo uccisa. «Non vuoi dirmi che Domnikiia non era un vampiro?» gli chiesi. Lui si accigliò per un istante. Il nome non gli era familiare. Poi fece il collegamento con Dominique. «Sembra che tu lo sappia già.» «È viva e vegeta, sai.» «Non ne dubito» disse lui, sorpreso. «Oh, coraggio, Iuda. Avrai anche il tuo orgoglio da difendere, ma penso che ormai potresti essere sincero con me. Questi sono i tuoi ultimi momenti sulla terra, non sprecarli. So che volevi farmi assistere al tuo spettacolino con Margarita.» «Non li sprecherò, Ljosa. E non dovresti neppure tu. Hai ragione, però: sapevo che mi guardavi dalla finestra.» «E ti aspettavi che corressi lì e piantassi un paletto nel cuore di Domnikiia, così poi me ne sarei pentito per il resto della vita.» «Sai giocare a scacchi, Ljosa?» «Un po'.» «Quando elabori un piano d'attacco, e allo stesso modo quando prepari un attacco in una vera battaglia, lo visualizzi mentalmente fino alla fine, oppure il piano si ramifica a seconda delle diverse possibili reazioni dell'avversario?» «Si ramifica, naturalmente, ma ritengo sempre più probabile che l'avversario faccia la mossa migliore.» Ero sorpreso della rapidità con cui Iuda aveva preso le redini della conversazione.
«Esatto. Ed è deludente, non è vero, quando lui non fa la mossa migliore? Quando cade in una sciocca trappola che gli hai messo davanti, non per catturarlo ma solo per indurlo ad andare dove volevi tu... Alla fine vinci lo stesso, ma ti viene sottratto il piacere di dimostrare appieno la brillantezza del tuo piano.» «Credo che questo dipenda dal tipo di persona che sei, se preferisci il gioco o la vittoria» risposi. «Chiaramente, senza la vittoria, il gioco è niente» disse lui, annuendo. «Ma è vero anche il contrario. E non dirmi che giocare non ti diverte, Aleksej Ivanovič. Hai avuto molte opportunità di chiudere questa partita alla svelta, e non le hai colte.» «Non le ho colte?» «Forse è stata solo prudenza da parte tua.» Provai lo stesso disagio di quel giorno al crocevia, e notai in Iuda la stessa tranquilla sicurezza. Stavolta però non ne comprendevo il motivo: eravamo nel mio territorio, e non c'era nessun cadavere impiccato che potesse balzare in suo aiuto. Forse si era aspettato che andasse così. Forse non sapeva che Foma era morto. Ecco, forse era questo: il piano era che Foma sarebbe venuto a salvarlo. Mi sarebbe piaciuto vederlo reagire alla notizia della morte del compagno, ma per il momento scelsi - come non si può fare in una partita a scacchi di tenere quell'asso nella manica. Negli scacchi si possono camuffare i propri piani, mai dissimularli del tutto. «E così la tua scena con Margarita era solo un diversivo, una di quelle piccole trappole in cui non sono caduto?» domandai. «Hai sempre fatto la mossa migliore quando ti è stata lasciata la scelta. Soltanto un idiota ucciderebbe la donna che ama senza prima accertarsi che sia un vampiro.» Era la stessa parola usata da Domnikiia. Iuda sorrise, come se sapesse quant'ero arrivato vicino a compiere l'azione da lui descritta. «Allora qual è il tuo vero piano, se questo era solo un diversivo? Farti catturare qui e morire al sole del mattino?» «Ci sono altre mosse da fare prima che tu lo scopra.» «Gli scacchi non sono basati sul bluff, Iuda. Un gentiluomo si
arrende quando capisce di non poter vincere.» «Ti assicuro che sono un gentiluomo.» «E tutti i tuoi sforzi di pianificazione» proseguii, consapevole che la sua poteva essere semplice spavalderia «si basano in gran parte sulla fortuna. Come potevi essere certo che quella notte sarei tornato a Mosca per vedere Domnikiia?» «Perché ho detto a Pétr e Iakov Zevedajnic che sarei andato da lei» rispose lui. «E hai chiesto loro di riferirlo a me, immagino?» «No, ho proibito loro di dirtelo.» «Sapevi che gli avrei estorto questa informazione?» «Loro due erano nel fienile, tu fuori. O ti sconfiggevano - il che sarebbe stata una delusione, ma comunque una vittoria per noi oppure tu avresti sconfitto loro, e probabilmente gli avresti estorto l'informazione. Chi è stato a parlare, a proposito? Sospetto sia stato Iakov Zevedajnic.» «È stato Pétr. Iakov Zevedajnic non ne ha avuto l'opportunità. Come facevi a sapere che ero li?» «Dove altro potevi essere? Non ti ho più visto dopo che la carrozza si è ribaltata, ma sapevo che non saresti fuggito. Non siamo stati molto attenti a non farci seguire, quando siamo tornati al fienile.» «E non ti importava niente degli altri. Hai mandato a morire Pètr e Iakov Zevedajnic per mano mia solo per perseguire i tuoi scopi. Tutti i vampiri sono così, Iuda, oppure solo tu?» «A nessuno di loro è mai importato degli altri, né a me di loro. Certo, ci sono momenti in cui conviene agire in branco, e a volte vale la pena di arrabbiarsi per la morte dei propri compagni, come abbiamo fatto con Maksim Sergeevič, ma lo facciamo più che altro per dare spettacolo. Non nutriamo alcun amore fraterno che ci spinga a sacrificarci l'uno per l'altro.» «Mi domando come mai la vostra anima abbia bisogno di essere dannata» osservai, pensieroso. «Sentirsi così dev'essere già un inferno.»
«Al contrario, è una delle qualità più desiderabili in un vampiro. Non so perché tanti umani nutrano quei sentimenti di affetto per i loro simili, né perché i vampiri smettano di nutrirne. Sono certo che un giorno un grande scienziato ce lo spiegherà. Quanto a me, sospetto abbia a che fare con i diversi metodi di riproduzione.» Lo guardai senza comprendere. Non credeva ancora che quelli fossero i suoi ultimi minuti di vita. Raccolsi il suo coltello, che avevo piantato nella neve tra i miei piedi, e lo ispezionai. Era un oggetto semplice, identico a come me l'ero immaginato quando l'avevo visto la prima volta. Due coltelli a lama corta, uguali, legati all'impugnatura con un lungo laccio di pelle. Il legaccio era molto stretto: non riuscii a muovere le lame. Al di sotto doveva esserci qualcos'altro che le teneva ferme. Le lame erano lisce su un bordo, dentellate sull'altro, e i denti puntavano leggermente all'indietro verso l'impugnatura; ideale, in una lama singola, per scorticare la pelliccia dalla carcassa di un animale. Ogni lama terminava in una punta affilata che poteva essere usata per pugnalare. La distanza tra le lame era di due dita abbondanti. «Non portate tutti coltelli come questo, giusto?» chiesi a Iuda. «No, solo io.» «Perché ne hai bisogno? I denti non ti bastano? Troppi zuccheri nella tua dieta?» Abbozzò un sorriso a labbra strette, e mi venne in mente che non l'avevo mai visto sorridere mostrando i denti. Forse avevo ragione. Forse era una creatura sventurata, un vampiro dai denti marci. «Non proprio» disse. «Utile, suppongo, per ferirti al petto quando vuoi creare un altro dei vostri.» «Per quello, e per altre cose.» Era più reticente, su questa faccenda, di quanto fosse stato su altre. Mi venne in mente un'altra domanda, e rividi la mia mano che piantava un paletto nel torace di una giovane donna. «Avevo bisogno di uccidere Margarita?» domandai. «Era morta quando l'abbiamo trovata, oppure l'avevi trasformata in... una di voi?»
«Era morta» disse lui con calma, gli occhi fissi nei miei. «L'ho uccisa io.» «Ma perché? Perché sprecare l'occasione di vampirizzarla?» «L'ho uccisa perché era divertente farlo. Quanto a trasformare le persone in vampiri, purtroppo non ne sono capace.» «E come mai? Sono certo che sei molto più bravo degli altri a persuadere la gente a lasciarsi vampirizzare.» Non mi piaceva fargli un complimento, ma come avevo scoperto ormai da tempo era l'unico Opričnik che mostrasse una vera personalità. «Certo, e questa per me è una delle parti più piacevoli. Il problema però è di natura fisica.» «Che vuoi dire?» «Come ti ho già detto, io non sono un medico, non so spiegare come funzionano queste cose. Posso seguire tutte le regole, eppure non ottengo il risultato voluto, come non lo otterresti tu, se ci provassi.» «Io non vorrei mai provarci» replicai con convinzione. «Forse è questa la differenza tra noi.» Sorrise. «Quindi alla fine, nonostante ciò che entrambi avete fatto, nonostante la sua volontà, Margarita non è diventata un vampiro. Quando l'hai uccisa, è morta da umana.» Lui annuì pensieroso e poi mi rivolse uno sguardo intenso, pizzicandosi il labbro inferiore con le dita, incurante della scomodità delle mani legate. Ricordai la discussione sugli scacchi. Aveva fatto una mossa, ora cercava di capire se io, l'avversario, ne avevo compreso tutte le conseguenze. «Cosa stavi facendo quando sei stato catturato?» chiesi. «Spiavo per conto dei francesi.» «Davvero?» Risi. «Davvero. Dovevo lasciare la Russia. Loro stanno abbandonando la Russia, o almeno ci provano. Posso aiutarli, finché i nostri interessi coincidono.» «La tua cattura non li aiuterà molto. Presumo non facesse parte
del piano.» «No, hai ragione. Non finché non ti ho visto per caso sulla strada per l'accampamento. Allora ho capito che dovevo incontrarti un'altra volta.» Quindi - posto che stesse dicendo la verità - non mi aveva seguito. Era stato per puro caso che ci eravamo ritrovati, un caso però che entrambi avevamo cercato di influenzare. Che lui non mi stesse seguendo rendeva ancor più probabile che non sapesse della morte di Foma. A questo punto fui sicuro che per lui non c'era via di fuga. «Un'ultima volta prima della tua morte» aggiunsi. «Un'ultima volta prima di lasciare il tuo Paese» ribatté. «Essendo l'ultimo rimasto, mi sembra che sia mio dovere.» «L'ultimo rimasto?» «Be', mi hai detto di Pètr e Iakov Zevedajnic, e presumo che ormai Dmitrij abbia ucciso Foma.» Annuii. «Foma è morto.» Ero deluso, ma dovevo nasconderlo. Se Foma non faceva parte del piano di fuga di Iuda, allora che piano era? Ricordai la possibilità che avesse un collaboratore umano. Se era così, e se costui era un russo, allora non avrebbe avuto problemi a infiltrarsi nell'accampamento. Era questo il motivo della sicurezza ostentata da Iuda, o era solo un bluff? Lui guardò i due soldati, che stazionavano a una certa distanza da noi, come per giudicare fin dove potesse correre prima che lo agguantassero. «Dmitrij Fetjukovič si è dimostrato un uomo molto valoroso» proseguì. «Uccidere un vampiro è un conto, catturarlo vivo è molto più difficile.» «L'hai visto accadere?» «Oh, sì.» «E non hai fatto niente per aiutare Foma?» «Perché avrei dovuto? Non valeva la pena di rischiare la vita. Dmitrij era convinto che sarei andato a salvarlo, ma davvero non capiva. Come ti ho detto, neppure un vampiro rischierebbe la vita
per salvarne un altro. Suppongo quindi tu abbia visto Dmitrij. È qui con te?» «No, non è qui» risposi. «Dimmi, Iuda, come pensi di fuggire?» Finse di aver inteso male. «Be', a quanto ho capito, la marcia di Napoleone verso sud è una finta. Cicagov è già partito all'inseguimento sull'altra sponda della Beresina, e Kutuzov andrà presto nella stessa direzione.» Benché non fosse ciò che stavo cercando di appurare, era comunque un'informazione vitale. Lo incalzai. «Mentre invece il vero piano di Bonaparte è...?» «Ah!» esclamò Iuda con un sorriso. «Guardate come l'astuto inquisitore torchia la sua preda per farle rivelare tutta la verità!» Si chinò in avanti e mi fece l'occhiolino con aria cospiratrice. «Detto tra noi, Ljosa, Bonaparte ha trovato un guado a monte, in un posto che si chiama Studienka. C'è ancora bisogno di un ponte, ovviamente, ma dovrebbe bastare a farli passare.» «A far passare lui» ribattei io, cinico. «In che senso?» «Non è rimasto molto della Grande Armée. Trentamila, su mezzo milione? Ormai la faccenda riguarda l'imperatore, non l'esercito.» «E perché no? Napoleone è un grand'uomo.» «Lo pensi davvero?» «Mi semplifica parecchio la vita.» «Quindi Dmitrij si sbagliava di grosso. Non sei mai stato dalla nostra parte...» Più che turbato, ero soddisfatto di aver avuto ragione. «Niente affatto. Se Napoleone avesse sconfitto la Russia, avrebbe determinato un'egemonia francese su tutta l'Europa. E questo avrebbe significato la pace, una pace che io e te avremmo disprezzato per motivi diversi, comunque nemica di entrambi i nostri stili di vita. Certo, saremmo ancora stati in guerra con la Gran Bretagna, ma in mare non me la sono mai cavata bene.» «Quindi tu stai sempre dalla parte dell'avversario in svantaggio?»
«Mi piace contribuire a mantenere l'equilibrio dei poteri.» «E ora ti allei con la Francia perché è debole?» «Esattamente.» «Da quanto lo fai?» gli chiesi con sincera curiosità. «Quante volte hai cambiato casacca? Quante guerre hai cercato di perpetuare per i tuoi scopi?» Ma stavo tergiversando. «Quel che voglio chiederti, Iuda, è: quando sei diventato un vampiro?» «Domanda interessante» disse lui, ma non intendeva rispondere. Non l'avevo notato prima, con la pausa nella conversazione, mi accorsi che i pochi uccelli che sceglievano di non migrare durante i mesi invernali avevano iniziato a cantare. Il cielo si era appena schiarito a oriente, e gli uccelli salutavano l'imminente arrivo dell'alba. Mi dispiacque un po'. C'erano molte altre domande che avrei voluto porre a Iuda, ma non potevo permettermi di essere sentimentale. Avrei potuto facilmente imparare a pentirmi di ogni possibilità di sopravvivenza che gli avessi offerto. «Mi è concesso fumare?» chiese lui educatamente. Non ci vidi niente di male. Gridai a una delle guardie: «Avete una pipa, o un sigaro?». Lui mi raggiunse e mi porse un sigaro. Era sottile e consunto - proprio come l'uomo che lo offriva - e fatto à l'espagnole, avvolto solo nella carta. Forse era tutto ciò che aveva. Lo pagai con una moneta, solidale con la sua istintiva disponibilità a cedere i suoi effetti personali su richiesta di un ufficiale superiore; pagai un prezzo simile a quello che avrei richiesto nei miei giorni da venditore di tabacco nella Mosca occupata. Di nuovo Iuda guardò il soldato, in cerca di un'opportunità di fuga. Accesi il sigaro al fuoco e glielo porsi. Lui mi fece un cenno con le mani legate e mi rivolse un'espressione di umile supplica. Mi misi in bocca il sigaro e gli liberai le mani tagliando la fune con il suo coltello, poi glielo porsi di nuovo. Aveva ancora i piedi legati, e io avevo le guardie con me. E comunque, presto sarebbe sorto il sole e Iuda non avrebbe più costituito una minaccia per nessuno. Mi sentivo al sicuro. «Grazie» mi disse, inalando una boccata profonda. Tornai a sedermi e gettai di nuovo il coltello nella neve tra i miei piedi. C'era
poco tempo, quindi mi sforzai di pensare ad altre domande da porgli. Me ne venne subito in mente una. «Come sei riuscito a tornare così in fretta da Kurilovo a Mosca?» «A cavallo» rispose semplicemente. «Come te.» «Ma io ci ho messo otto ore, e tu sei arrivato prima.» «Be', sono partito prima di te.» «Voglio dire» incalzai, frustrato perché sembrava non capire, «come hai fatto a viaggiare di giorno?» «Ah, capisco. Una delle molte maledizioni a cui un vampiro deve rassegnarsi. Mi domando spesso se questa situazione non presenti dei vantaggi.» «L'immortalità di sicuro» dissi io. Era la voce di Domnikiia a mettermelo in testa. «Teoricamente sì, ma non all'atto pratico. Pétr si è forse dimostrato immortale? E Matfej? E quel ragazzo, Pavel? La sua esistenza da vampiro è durata poche settimane. I vampiri sono facili da uccidere.» «Non l'ho trovato così facile.» «Sì, invece, Ljosa! Una volta che sai cosa fare. E anche se non lo sai, la faccenda della luce solare dev'essere una disgrazia. Migliaia di vampiri muoiono per errore solo perché qualcuno apre le tende.» Non provò a nascondere il sorriso sarcastico, il piacere di mettersi in ridicolo da solo. «Allora perché ci sono persone che scelgono volontariamente questa strada?» domandai. «Come dici tu, alcuni sono pazzi lo fanno per l'immortalità. Altri per la libertà.» «Libertà?» «Sì, libertà. Dubito che i vampiri desiderino l'eguaglianza, e so che non hanno alcun concetto di fratellanza, ma la libertà non è ciò che tutti gli uomini cercano?» Era come se sapesse cosa avevo pensato mentre ero sdraiato su quel letto con Domnikiia, in attesa di raggiungerla in un nuovo
mondo di immortalità immorale. Eppure ero costretto ad ascoltare quel che Iuda aveva da dire: dovevo comprendere quale tentazione potesse spingere un uomo a trasformarsi volontariamente in un mostro. «Libertà da cosa?» chiesi. «La maggior parte degli uomini vuole la libertà da molte cose diverse, ma tutti cercano - e pochi ottengono - la libertà da se stessi. Cerca questo, chi beve il sangue caldo appena sgorgato da un vampiro. Questo è ciò che anch'io ho trovato: essere svincolato dalla mia coscienza e da Dio, potersi abbandonare al piacere assoluto di arrecare dolore e di vederlo arrecare, liberi dalla risacca fangosa dei propri... sentimenti.» Pronunciò l'ultima parola come se puzzasse di pesce marcio, poi sorrise. «Chi può saperlo meglio di te, Ljosa.» Scoccò un'occhiata eloquente alle cicatrici sulla mia mano sinistra, ma non poteva sapere quanto mi suonassero vere le sue parole. «E per questo vale la pena di diventare un vampiro?» Ero al contempo affascinato e disgustato dalle sue parole. Lui tacque e chinò la testa. L'ombra lunga e distorta nel sole basso all'orizzonte dietro di lui mi arrivò ai piedi. «Non lo so» disse, con voce stanca. «Ci sono così tanti vincoli, così tante cose a cui rinunciare. Il desiderio di uccidere è strettamente intrecciato al desiderio di mangiare... proprio come negli umani. La prima preda della notte esaudisce entrambi i desideri, ma man mano che ha meno fame, il vampiro perde anche, in certa misura, l'istinto di uccidere. L'abbondanza sopprime l'appetito. Quant'è meglio separare le due cose? Mangiare per fame e uccidere per il piacere. Tu vai a caccia, Ljosa?» «Occasionalmente» dissi. «Allora forse puoi capirmi. Più di questo, però, ci sono altri problemi, di natura semplicemente meccanica, che rendono poco appetibile la vita di un vampiro. Per esempio, Ljosa, hai mai considerato che un vampiro non può guardare negli occhi la sua vittima mentre la uccide? Tu puoi farlo, e sono certo che l'hai già fatto. Hai guardato il viso di un uomo che tirava l'ultimo respiro grazie a te. Un vampiro deve mordere al collo, quindi non può godersi quel piacere.
«Ora, con il mio coltello...» Si chinò in avanti, gettò da parte il sigaro e allungò la mano verso il coltello. Ero così suggestionato dalle sue parole, e il movimento era così appropriato alla conversazione, che quasi glielo lasciai fare. Solo all'ultimo momento gli scalciai via la mano. Lui raddrizzò la schiena e mi mostrò i palmi in segno di scusa. La guardia con cui avevo parlato ci guardò ma non fece nulla. «Con il mio coltello» riprese Iuda «posso infliggere tutto il dolore che un vampiro provoca con i denti, e anche di più, e intanto guardare in volto la mia vittima e vedere ogni squisita reazione a ogni lancinante azione che compio. E unendomi agli altri - gli Opričniki, mi pare ci chiamaste come gruppo - avevo altre undici armi tanto più brutali a cui assegnare il compito di infliggere dolore, mentre io me ne stavo seduto a godermi il piacere.» Mi tornò alla mente la scena del fienile nei pressi di Kurilovo. Ciascuno degli Opričniki si era prestato ai suggerimenti di Iuda. Lui aveva appena sfiorato l'uomo, e non ne aveva quasi assaggiato la carne, eppure era stato lui a trarre il massimo piacere dalla situazione. Il sole, già sorto a est dietro la testa di Iuda, e che appariva più grande perché vicino all'orizzonte, formava dietro di lui un'aureola illogica. «Quale libertà, mi domando, hanno davvero - i vampiri - che non abbia ottenuto anch'io?» disse Iuda. «Ottenuto?» «Hai ragione come sempre, Ljosa. Non posso considerarlo un mio successo. È qualcosa che ho sempre avuto, qualcosa con cui sono nato, qualcosa che gli altri uomini possono ottenere solo diventando vampiri. Posso godere dei vantaggi di entrambe le condizioni: posso crogiolarmi al sole, e mangiare un pasto normale; ma posso anche abbandonarmi al piacere supremo che risiede nell'indicibile, assoluta, sfrenata sofferenza di un altro essere umano.» «Gli altri vampiri non ti hanno mai riconosciuto per quello che sei realmente?» «Per quello che sono? Potrei porre a te la stessa domanda. Non
avevi idea che noi dodici fossimo vampiri, all'inizio. E poi, quando l'hai capito, non avevi idea che io non lo fossi. Non è una magia. Io mi comporto come loro. Sento quel che sentono loro. Uccido come loro. Non ci faranno caso se ogni tanto esco durante il giorno... per notarlo dovrebbero ammazzarsi. Zmeevič, naturalmente, è un'altra questione. Lui è un vampiro da molto, molto tempo. Ma qualsiasi sospetto nutra sul mio conto, ha le sue ragioni per non indagare.» Sedetti in silenzio di fronte a lui. Ancor oggi non so dire esattamente a che punto della conversazione avessi intuito la verità. Era sorprendente, ma non rivoluzionaria. Iuda era esattamente ciò che diceva di essere. Non era un vampiro, proprio come Maksim non era francese. Aspirava a essere un vampiro. Si comportava come un vampiro. Ma ogni tanto poteva beneficiare del fatto di non esserlo. Lo stesso Maks era consapevole che meritava di essere trattato come un francese. Analogamente, pur essendo definibile come umano in senso stretto, Iuda meritava di essere trattato come un vampiro. Il problema era che la luce del sole non poteva più agire al posto mio. Era un problema e al contempo un piacere: sarei stato felice di vederlo morire in modo più tradizionale. Mi alzai in piedi e mi piazzai di fronte a lui. «Credo potremo mettere insieme un plotone d'esecuzione prima di smobilitare l'accampamento. Dopotutto, sei una spia dei francesi.» Alzai la mano per chiamare la guardia. Iuda si accigliò e distolse lo sguardo da me con un'espressione delusa e impaziente. Scosse la testa e schioccò le labbra a bassa voce. «Quindi, vedi, lei non avrebbe mai potuto diventare un vampiro» disse. C'era un punto che la nostra conversazione non aveva toccato. «Margarita, vuoi dire?» «Mi chiedo quando abbia capito di non essere stata trasformata, che sarebbe rimasta mortale.» «Credo tu abbia dimostrato la sua mortalità abbastanza in fretta» sbottai io. «In che senso?» «Uccidendola subito dopo.»
Iuda fece un sorriso a denti stretti, sarcastico, che a fatica non si trasformò in una risata. «Dimmi, Ljosa. Cosa ti ha convinto che non fosse Dominique la donna con me alla finestra?» Ci pensai su un momento, ma non c'era trucco, la risposta era ovvia. «Il fatto che poi non sia diventata un vampiro.» «Il che vuol dire...» «Il che vuol dire?» Iuda sospirò. «Non mi diverto se non ti sforzi di arrivarci da solo.» Lo guardai senza capire. «Hai concluso che Dominique non era con me, perché se fosse stata con un vampiro sarebbe diventata un vampiro» spiegò, paziente come un maestro di scuola. Forse non c'ero arrivato da solo, o forse non volevo arrivarci: ma ora Iuda mi impediva di continuare a ignorare la verità. Mi accasciai sul sedile. Poteva essere stata davvero Domnikiia, lì con Iuda alla finestra, e non Margarita? Certo che non era diventata un vampiro: Iuda non avrebbe potuto trasformarla. Lei poteva succhiargli il sangue fino all'ultima goccia e non avrebbe sortito nessun effetto. Ma lei ci aveva creduto. Era rimasta sorpresa quanto me, la mattina dopo, scoprendo di non essere stata trasformata? Aveva appurato con sua grande delusione di poter ancora esporsi alla luce del mattino, e si era messa a piangere pensando alla morte che un giorno le sarebbe toccata? Avrebbe dovuto inventarsi una storia in tutta fretta, per farmi credere che avevo visto Margarita. No, era impossibile. Doveva averlo deciso prima. O Iuda le aveva detto di dir così, oppure l'avevano pianificato insieme. C'era stato un grande sfoggio di coreografia per assicurarsi che, guardando dall'altro lato della piazza, io vedessi Domnikiia soltanto di schiena. Margarita sapeva del piano? Domnikiia era sembrata sinceramente sconvolta nel vedere il suo cadavere. Sinceramente? Come potevo considerare sincera qualsiasi cosa sul suo conto? Una donna che aveva scelto di diventare un vampiro non si sarebbe tirata indietro di fronte alla necessità di uccidere la sua migliore amica. Non poteva essere vero, eppure non trovavo un difetto nel mio ragionamento. Io stesso ero sicuro di aver visto Domnikiia con Iuda, finché non avevo scoperto che lei non era un vampiro. Ora avevo
una spiegazione migliore. Ero così folle da scambiare Margarita per Domnikiia solo perché avevano capelli simili - io, che conoscevo ogni palmo del suo corpo? Dovevo aver visto qualcos'altro, qualcosa di cui non mi ero accorto a livello cosciente, ma che mi aveva detto che quella era Domnikiia, e ora sapevo che era vero. Tutto il suo dolore e l'angoscia nei giorni successivi erano stati molto convincenti, ma d'altronde quella era la sua specialità. Sentii sussurrare la voce di Domnikiia, ripeteva una sola parola. Quanto doveva aver riso tra sé e sé quando me l'aveva detta la prima volta. «Prostak! Prostak!
Prostak!»
Iuda mi posò una mano sul ginocchio con fare consolatorio, e disse: «Lei l'ha fatto per te, Ljosa. Credeva di poter restare per sempre con te». Si era alzato in piedi. A un certo punto, senza che io lo notassi, aveva recuperato il coltello e si era tagliato le funi che gli legavano i piedi. Sentii una delle due guardie gridare qualcosa all'altra, ma era troppo tardi. L'altro soldato si era momentaneamente voltato di spalle e Iuda era già dietro di lui. Un rapido colpo delle lame dentellate sul collo e l'uomo cadde a terra, e sulla neve pura e bianca intorno a lui si sparse una chiazza rossa che andò allargandosi mentre il sangue fuoriusciva dalla ferita, tra le dita del moribondo. L'altro soldato aveva puntato il moschetto, ma aveva indugiato prima di sparare per paura di ferire il commilitone. Quando sparò era troppo tardi. Iuda si era già dato alla fuga, tenendosi basso e cambiando più volte direzione. Mi lanciai all'inseguimento. La guardia fece lo stesso, pochi passi dietro di me. Il resto dell'accampamento, indaffarato nei preparativi per la partenza, non notò subito cosa stava succedendo, ma ben presto le nostre grida li allertarono. Quelli che si gettarono sulla traiettoria di Iuda non gli furono d'impedimento. Lui era molto più brutale ed efficace con il coltello di quanto potesse esserlo un vampiro con i denti. Alcuni uomini lo affrontarono con spade e baionette; lui non mostrò paura, e anche se alcune lame andarono a segno, non sembrò curarsene. Nessuna delle ferite era abbastanza profonda da provocare danni seri. E poi, fingendosi vampiro aveva imparato a controllare il dolore - oltre a tanti altri sentimenti - per non smascherarsi. Eravamo ormai fuori dall'accampamento, vicino al bosco, dove
Iuda avrebbe potuto nascondersi facilmente. La guardia che l'aveva inseguito più da vicino, più giovane e in forma di me, l'aveva quasi raggiunto. Scaricato il moschetto, non aveva fatto in tempo a ricaricarlo, e l'unica arma che gli restava era la baionetta. Era a portata di tiro quando Iuda si fermò e si voltò. Il soldato non si fermò in tempo. Non aveva mirato con la baionetta, che quindi scivolò sul fianco di Iuda senza ferirlo. Voltandosi, Iuda allungò la mano: il soldato si infilzò sul coltello e la lama gli penetrò appena sotto lo sterno, affondando dietro la cassa toracica. La forza del colpo lo sbalzò in aria, la schiena inarcata, le braccia e le gambe spalancate per il dolore. Con un gesto repentino della mano Iuda estrasse il pugnale, e io sentii chiaramente lo strappo, il raschio dei denti della lama che slabbravano la ferita. Si voltò e riprese a correre, ma gli ero già addosso. Mi gettai su di lui e lo afferrai per la vita. Finimmo a terra e la neve mi entrò negli occhi, accecandomi. Mi alzai in ginocchio e mi asciugai gli occhi, appena in tempo per vedere la sua mano abbattersi su di me con le lame dentellate. Mi gettai all'indietro, scostando la testa. Mentre cadevo sentii un dolore cocente alla guancia sinistra, dove le lame mi avevano toccato. Caddi sulla schiena, con respiri affannosi; l'aria mi entrava dalla guancia ferita, oltre che dalla bocca. Mi tirai su per prepararmi a schivare il colpo successivo, che però non venne. Un rumore d'arma da fuoco risuonò da dietro di me. Iuda fu colpito al braccio. Si voltò e fuggì nei boschi, lasciandomi a convivere con il dolore che mi aveva inflitto.
Capitolo 31 La ferita alla guancia non era grave come mi era sembrato all'inizio. L'aria gelida mi divenne amica per il momento, intorpidendomi il volto mentre il chirurgo suturava il taglio. Tornai dal tenente colonnello Cernysév per riferirgli l'accaduto. «Scappato?» tuonò lui. «Temo di sì, signore» risposi. «Farò frustare quelle guardie.» «Troppo tardi, signore.» Mi guardò in volto e comprese. «Capisco» disse. «Be', è un solo uomo, dopotutto. Una bella perdita di tempo, però.» «La svolta di Bonaparte verso sud è un trucco, signore. Me l'ha detto il prigioniero. La vera traversata sarà a nord, a Studienka.» «Perlomeno è qualcosa. Quindi verrete lì con noi?» «No, signore, vorrei inseguire il prigioniero.» «Ne vale la pena, per un solo uomo?» «Sono convinto di sì» dissi. «Be', suppongo che voialtri sappiate fare il vostro lavoro. Non posso prestarvi neppure un uomo.» «Non ne chiedo, signore. Solo un'uniforme francese, se ne avete.» «Ne abbiamo a dozzine. Tenente Mironov, procurategli quel che gli serve.» Mironov mi fornì un'uniforme da dragone, un cavallo e delle provviste, e ben presto mi avviai fuori da quel che rimaneva dell'accampamento smantellato. All'inizio procedetti a fianco delle truppe russe in avanzata (per fortuna non avevo ancora indossato la nuova uniforme), ma presto piegai a nord e il rumore della marcia svanì dietro di me. L'unico indizio lasciato da Iuda era l'intenzione di attraversare la Beresina con Bonaparte a Studienka. Poteva benissimo avermi mentito, o aver cambiato idea, ma non potevo far altro che tentare
di intercettarlo lì. Non avevo avuto tempo di pensare nei dettagli a quel che Iuda mi aveva detto; ora, cavalcando nei boschi silenziosi e gelidi, iniziai a riflettere. La questione meno dolorosa da affrontare era il fatto che Iuda non fosse un vampiro. Ero già arrivato alla conclusione che questo non cambiava la mia opinione di lui. Se un uomo sceglie di diventare un vampiro per potersi comportare come un mostro, o se è capace di comportarsi come un mostro pur restando umano, è comunque un mostro, e felice di esserlo. Iuda era e rimaneva un pericolo per chiunque incontrasse. Dovevo chiedermi se anche qualcun altro degli Opričniki non fosse un vampiro. Iuda aveva lasciato intendere che lo fossero tutti tranne lui, ma c'era da fidarsi? L'evidenza dei miei occhi bastava per molti di loro, perché dopo la morte avevo assistito alla decomposizione fisica immediata. Non avevo visto cos'era stato dei corpi di Ioann e Filipp. Le morti di Simon, Iakov Alfejnic e Faddej erano state causate dalla luce del sole, se potevo credere a Maks. Confidavo che tutti e undici fossero stati veri vampiri. E se no, cosa me ne importava? Come non importava, in fondo, se lo fosse Iuda, così era per gli altri. Ma Domnikiia? L'idea di essere ingannato - tradito - proprio da lei era il vero incubo da cui non credevo di potermi svegliare. Quando mi prendeva in giro rivelava la sua intelligenza e il suo spirito, ma scherzare in quel modo e su quei temi era folle da parte sua. «Non mi stupisce che per Iuda sia stato così semplice ingannarti» erano state le sue parole. Si divertivano entrambi a menarmi per il naso, e finora li avevo lasciati fare. Ma ricordavo anche ciò che aveva detto una volta Maksim sul fatto che il posto migliore dove nascondere un albero fosse una foresta, e il posto migliore in cui nascondere una bugia fosse in mezzo alle verità. Perché Iuda si era lasciato catturare? Per parlare con me. Cosa voleva dirmi? Non dei piani di Bonaparte. Non le sue opinioni sugli scacchi. Neppure di non essere un vampiro. Voleva insinuarmi nella mente il pensiero che Domnikiia avesse scelto di diventare un vampiro. In mezzo a quella foresta di verità, era l'unico fatto che aveva voluto far passare. Non era neppure un fatto, era un'informazione che poteva essere vera oppure no.
La verità non era conoscibile, quindi il dubbio mi avrebbe tormentato per sempre. Il gioco di Iuda, che fosse previsto o che stesse improvvisando, si era svelato per gradi ai miei occhi, come quando si scala una montagna e ogni falsa vetta, una volta conquistata, ne rivela alle spalle una ancor più alta. Dapprima ero convinto che avesse trasformato Domnikiia in un vampiro. Poi avevo scoperto che anche in quel caso non sarei riuscito a ucciderla. Poi che non era un vampiro e che, se l'avessi uccisa, avrei ucciso una donna mortale. Quella mattina Iuda mi aveva convinto che Domnikiia aveva sempre voluto essere trasformata, ma lui non ne era stato capace. Non poteva continuare per sempre a premere su un piatto della bilancia e poi sull'altro e a farmi cambiare idea, avanti e indietro; ma ora non ne aveva più bisogno, perché aveva trovato il punto di equilibrio perfetto. Non avrei mai avuto modo di scoprire la verità, e quindi, qualsiasi cosa scegliessi di fare, avrei passato metà della vita a pentirmene. Se avessi abbandonato Domnikiia, avrei temuto di averle fatto del male, credendo all'ultima menzogna di Iuda sul suo conto quando invece lei si era comportata sempre con perfetta innocenza. Se fossi rimasto con lei, mi sarei sempre chiesto cosa fosse successo tra loro quella notte a Mosca. Ero ormai così sballottato tra le mie mutevoli opinioni sulla verità - non solo su Domnikiia, ma su Maksim, su Dmitrij, sugli Opričniki e su Iuda stesso - da non essere più certo di nulla. Sapevo che Vadim mi avrebbe consigliato di tornare a Pietroburgo, di tornare da Marfa. Di lei non avevo mai dubitato, e non ne avevo motivo. Con lei avrei trovato un porto sicuro, la serenità. Ma poi anche il consiglio di Vadim mi parve ambiguo: lui avrebbe disprezzato l'idea di fuggire verso un porto sicuro. Mi stavo avvicinando al villaggio di Studienka. Smontai, legai il cavallo e malgrado il gelo mi tolsi una parte dei vestiti per indossare l'uniforme francese. Girando intorno al villaggio, al riparo del bosco, mi spinsi fino a un piccolo colle da cui potevo vedere il fiume. Lì rimasi, nascosto dalla neve che quasi subito prese a cadere, e osservai i miseri resti della Grande Armée. Miseri eppure magnifici. Davanti a me dovevano esserci
cinquantamila persone: per metà soldati, l'altra metà civili, tutti impazienti di guadare quel fiume, di uscire dalla Russia e tornarsene a casa. La grande campagna di Bonaparte era in rovina, l'ambizione di conquista trasformata in terrore e nell'istinto di sopravvivenza. Nessuno avrebbe potuto immaginare che l'esercito più grande mai assemblato al mondo sarebbe stato sterminato in meno di sei mesi, con una tale carneficina. Eppure era successo, e io ero felicissimo di esserne testimone. Ma per essere un esercito decurtato a meno di un decimo delle dimensioni originarie, afflitto dal freddo inenarrabile di un inverno straniero e intrappolato fra tre diverse armate russe, ciascuna numerosa quanto loro, aveva compiuto un'impresa non da poco. Sul fiume erano stati eretti due ponti. Vedevo ancora genieri e pontieri immersi fino alle ascelle nell'acqua gelida, a rafforzare e riparare i piloni mentre migliaia di uomini rompevano le righe per superarli. Ogni edificio del villaggio era stato abbattuto per fornire legname. Sull'altra sponda del fiume l'avanguardia aveva già piazzato una posizione difensiva. Venivano attaccati da sud. Cicagov, resosi conto del suo errore, era corso di nuovo a nord, al vero guado. Gli schieramenti francesi già sull'altra sponda lo tenevano a freno e consentivano al resto dell'armata di fuggire verso ovest una volta passato il fiume. Sulla sponda orientale, una moltitudine innumerevole attendeva di passare sui due stretti istmi artificiali. Non solo soldati, che pure erano tanti, ma tutto l'entourage di cui un esercito ha bisogno per sopravvivere, soprattutto così lontano da casa: civili, uomini e donne, e quelli i cui incarichi, per quanto importanti, non richiedevano di portare una spada o un moschetto, si ritrovavano ultimi nella gerarchia; e poi cuochi, lavandaie, fabbri e armieri, e anche tra di loro si sarebbe stabilito un ordine di merito. Un esercito impegnato in una fuga disperata nel ghiaccio avrebbe favorito chi gli teneva in ordine le armi oppure chi gli riempiva la pancia? Il mio tentativo di individuare un uomo tra le decine di migliaia non era futile come poteva sembrare. Sarebbe stato impossibile controllare una per una le facce stanche che si assiepavano sulla riva, ma i ponti erano stretti, e tutti dovevano passare sull'uno o sull'altro. In realtà la maggior parte transitava sul ponte più piccolo, perché
l'altro era usato per i cannoni, i carri e i cavalli. Quando l'avevo visto l'ultima volta, Iuda non aveva un cavallo. Non potevo sapere se se ne fosse procurato uno nel frattempo. Con l'aiuto del cannocchiale potevo guardare in volto ogni uomo che si avvicinava al ponte, ma ero così lontano che Iuda sarebbe stato già sull'altra sponda quando fossi riuscito a raggiungere la riva. La mia unica speranza era infiltrarmi tra i francesi. Decisi a far passare più gente possibile di là dal fiume, i francesi avevano dovuto rinunciare a ogni altro aspetto della disciplina militare. Non mi fu chiesta una parola d'ordine né le credenziali mentre mi facevo strada dapprima nella folla dei feriti e dei civili che avrebbero attraversato il ponte per ultimi, sempre che ci fossero riusciti, e poi tra i soldati di fanteria che attendevano impazienti il loro turno. Sembravo fuori posto; l'idea stessa di uniforme era stata abbandonata dalla maggioranza della Grande Armée, in favore di abiti più pratici - qualsiasi tipo di abiti - capaci di tenere fuori il gelo. Anche così, nessuno mi badò. Avvicinandomi ai ponti fui spintonato più volte da chi pensava che stessi saltando la fila, ma fu facile rassicurarli che ero lì solo per fare la guardia. Mi unii al gruppo delle rudi sentinelle piazzate all'inizio del ponte più piccolo, quello pedonale. «Cos'hai combinato per farti mettere di guardia qui?» chiese una di loro. Evidentemente quell'incarico ingrato punizione. «Ho frainteso un ordine» risposi.
era
assegnato
come
«Molti soldati sono duri d'orecchio, oggi» rise lui. Non ci scambiammo altre parole. Non c'era molto da fare se non osservare la fila degli uomini che sgomitavano per salire sul ponte, e ogni tanto dare qualche spintone, quando si agitavano troppo. Ispezionavo ogni viso che mi passava davanti, e intanto cercavo di tenere d'occhio gli uomini a cavallo sull'altro ponte, ma non vidi traccia di Iuda. Non ero certo di cosa avrei fatto se l'avessi visto. Ucciderlo lì - un soldato francese che ne uccide un altro, apparentemente non provocato - mi avrebbe garantito quasi
sicuramente un'esecuzione immediata. Benché mi fossi introdotto volontariamente nelle file del nemico disperato, non ero in vena di suicidarmi. La morte di Iuda era una questione secondaria per me. Quello che volevo da lui era la certezza. Se avessi avuto fortuna, avrei potuto vederlo morire in seguito. Ora dovevo sapere cos'era successo davvero tra lui e Domnikiia. Non mi veniva in mente altro modo per stabilirlo. Avrei potuto chiederlo a lei, ma non avrei creduto alla risposta; almeno, non se l'avesse negato. L'avrei creduta soltanto se la risposta fosse stata quella che non volevo sentire. Avrei potuto rintracciare l'uomo con cui diceva di essere stata quella notte, ma per difendere la sua reputazione, lui avrebbe immediatamente negato di averla mai sentita nominare. Iuda era l'unica altra persona a conoscere la verità. Mi aveva già detto che si era trattato di Domnikiia, ma in precedenza mi aveva consentito di pensare l'opposto. Sarei andato all'inferno - e quell'esodo ghiacciato mi sembrava molto simile all'inferno - pur di ottenere da lui una risposta definitiva. Quel pomeriggio ricevetti un privilegio inatteso, se questa è la parola giusta da usare. Per la prima e unica volta in vita mia vidi Bonaparte in carne e ossa. Accompagnato dalla Guardia Imperiale un tempo maestosa, si faceva strada sul ponte più grande verso la sponda occidentale del fiume. Non era l'uomo che avevo immaginato. La mia immagine di lui era basata su incisioni e dipinti e confortata dalla sua reputazione. Non mi sorprendeva che quel giorno non fosse al suo meglio. Era più vecchio e più grasso di ogni ritratto che avessi visto. Il naso non era adunco, come è spesso dipinto, ma di taglia normale e con una lieve gobba. I capelli non erano neri, ma di un biondo rossastro scuro. Mi domandai se anche le immagini dell'imperatrice Marie-Louise che avevo visto fossero poco fedeli, e se davvero Domnikiia le somigliasse. L'imperatore cercava di cavalcare con la schiena dritta, ma tendeva ad afflosciarsi nella sella. Sulle labbra aveva la smorfia di un uomo sofferente. Nonostante tutto questo, gli occhi azzurri ardevano ancora di un intenso desiderio di conquista: era stato quello sguardo a portare ai suoi piedi tutta l'Europa? Oppure era lo scudo opaco dietro cui si trincerava, ancora fiero, un uomo umiliato? Per gli stanchi rimasugli della Grande Armée, era ancora vera la
prima opzione. Un grido di acclamazione - al quale mi unii istintivamente - salutò il suo avanzare, anche da parte degli uomini che erano ancora in acqua per assicurarsi che i ponti reggessero il peso non solo dell'imperatore, ma di ciascun suddito. Per almeno un'ora dopo il suo passaggio, nell'atmosfera continuò ad aleggiare la tensione, la conversazione fu più fitta e si diffuse l'idea che tutti sarebbero sopravvissuti e tornati a casa. Ma guardando la massa di quelli che ancora aspettavano di salire sui ponti, vedevo che l'entusiasmo non era generalizzato. Intorno a me, tuttavia, le emozioni erano sincere. Solo molto dopo che Napoleone si fu allontanato, tra gli uomini accanto a me tornò a diffondersi il realismo. «Mi stupisce che si sforzino ancora, adesso che lui è passato» disse uno, spostando gli occhi avanti e indietro tra le persone che continuavano a scorrergli davanti all'infinito. «Ci tirerà fuori» disse un altro. «Come fai a esserne così certo?» «Perché mancano altre duecento leghe a Varsavia. Ha bisogno di noi fino a lì.» «Ma noi abbiamo bisogno di lui?» «Tu avresti potuto far costruire i ponti?» Quella sera, con mia grande sorpresa, l'orda che si era riversata in una processione interminabile sui ponti si ridusse a nulla. Decine di migliaia dovevano ancora attraversare, ma si erano seduti intorno a enormi fuochi, ad arrostire la carne dei cavalli caduti in attesa di riprendere la traversata al mattino. Con il senno di poi, pensando a quanti non erano riusciti a passare prima che le forze russe si abbattessero loro addosso, si trattò di un'assurda perdita di tempo, ma nessuno diede l'ordine, quindi nessuno salì sui ponti. L'oscurità e il silenzio sarebbero stati un'opportunità perfetta per Iuda: poteva attraversare il ponte evitando la folla. Cercai di restare sveglio per impedirglielo, ma non ci riuscii. Se fosse giunto quella notte, non l'avrei notato. Se mi avesse visto, avrebbe potuto uccidermi facilmente. Ma non passò.
Mi svegliai verso le sette. Sentivo il fuoco dell'artiglieria, più vicino della sera prima, ma non penso fosse stato quello a svegliarmi. Guardai e vidi una figura solitaria attraversare il fiume sul ponte più piccolo. Non pensai neppure per un istante che potesse essere Iuda, anche se il cappello e i vestiti gli coprivano interamente il viso; era troppo basso. Indossava una pelle d'orso - almeno, quello era lo strato più esterno - con un buco da cui spuntava la testa. Era pratico, benché poco elegante. Potevo solo immaginare che fosse uno di quei rari soldati francesi dalla libertà di giudizio sufficiente per attraversare il fiume quando si presentava l'opportunità. Ero sicuro che fosse uno dei pochi che sarebbero tornati sani e salvi in Francia. Ben presto sorse il sole, e il passaggio della Beresina ricominciò en masse. L'indolenza della sera precedente si era trasformata con il nuovo giorno in una grande concitazione. Tutti avevano sentito mormorare che le forze russe si stavano avvicinando al nostro lato del fiume, e da nord e da est iniziammo a udire il rumore della battaglia, cominciata non lontano da lì e in ulteriore avvicinamento con il trascorrere delle ore. Più tardi, quando le prime palle di cannone russe iniziarono a cadere sulla sponda del fiume, evaporarono le ultime tracce di disciplina. Le folle intorno all'ingresso dei ponti si fecero più disordinate, e chi non riusciva a salire veniva buttato in acqua dalla calca che gli premeva alle spalle. Caricato con troppi cavalli e troppi carri, il ponte più grande iniziò ad affossarsi nel mezzo, e poco dopo, con uno strepito e uno scricchiolio di legno spezzato, una parte della struttura crollò. Cavalli, carri e uomini furono gettati nella corrente. Quelli rimasti sul ponte dall'altro lato corsero al riparo con un'alacrità che non avevano mostrato quando il ponte era intatto. La folla sulla riva all'inizio non si rese conto di quanto era successo, e continuò a premere per salire su quello che credevano un ponte, ma che adesso era un molo. A dozzine caddero nel fiume - i soldati divennero marinai, obbligati a camminare sul pontile -, prima che fosse ripristinata una parvenza di ordine. Quando la gente capì cos'era successo, ci fu una corsa all'altro ponte, dove stavo di guardia io. Ormai tutte le altre guardie avevano abbandonato la posizione, volontariamente oppure perché travolte dalla folla. Un maresciallo
francese - credo fosse Lefebvre - stava all'imboccatura del ponte e cercava di riportare la calma, ma tutti lo ignoravano e alla fine fu costretto ad attraversare con loro, per non essere calpestato. Io mi rifugiai dietro uno dei pilastri posti a sostegno del ponte; l'acqua del fiume mi lambiva i piedi scorrendo sopra il ghiaccio. Continuai la mia sorveglianza. Con il calare delle tenebre non c'era ancora segno di Iuda. Avevo sempre saputo di avere ben poche possibilità di trovarlo, ma ora compresi che, oltre a non sapere cosa avrei fatto se l'avessi trovato, non avevo la minima idea di cosa fare se non l'avessi trovato. Se l'evacuazione fosse proseguita, presto sarei stato travolto e condotto dall'altra parte del ponte con il resto delle truppe. In qualche modo dovevo allontanarmi da loro. Farlo su questo lato della Beresina sarebbe stato preferibile, ma probabilmente avrei dovuto passare di nuovo il fiume in senso inverso, da quel ponte o da un altro, per tornare nelle linee russe. Qualunque piano stessi per formulare, fui interrotto dal rombo dei cannoni. A est, le forze russe erano molto vicine. La retroguardia francese, che aveva tenuto a freno il corpo principale dell'esercito russo, iniziava a sganciarsi. Nuove frotte di uomini scendevano dalle sponde del fiume e cercavano di salire sui ponti. Sull'altra sponda, le granate dei cannoni francesi ora gridavano sopra le nostre teste per andare a piovere sulle truppe russe, invisibili dietro gli alberi. Stavolta il tramonto non avrebbe fatto diminuire il flusso di persone sul fiume. Sempre più soldati si affollavano sul piccolo ponte, e iniziò a diffondersi la sensazione che la fine fosse prossima; che se non fossimo passati subito, i russi sarebbero arrivati e noi non avremmo più avuto possibilità di fuga. Ufficiali e soldati semplici, che finora avevano mantenuto una parvenza di disciplina, abbandonavano le postazioni e si univano alla mischia che premeva e spintonava. Altri decidevano di lasciar perdere i ponti e affrontare direttamente il fiume. Vicino alla riva l'acqua restava ghiacciata, e alcuni uomini iniziarono a camminare sul ghiaccio spingendosi più avanti possibile.
Uno raggiunse il bordo della lastra e saltò in acqua. Fu trascinato via in un attimo: era tempo di disgelo, il fiume era in piena e scorreva veloce. Altri furono più fortunati. Vidi due o tre che si erano tolti i fucili, le spade e gli stivali - tutta la zavorra - e quindi riuscirono a traversare il fiume a nuoto. Quanto avrebbero potuto marciare ancora, senza stivali, non lo sapevo, ma da entrambi i lati della Beresina c'erano tanti morti che non avrebbero più avuto bisogno dei loro indumenti. Un altro uomo fu trascinato dalla corrente, e la testa gli scomparve all'istante sotto l'acqua turbolenta; ma lo vidi riemergere molto più giù, e arrancare felice a riva. Più su, una dozzina circa di uomini si avventurava sul ghiaccio. Il primo della fila si voltò verso gli altri e gridò di tornare indietro, perché il loro peso avrebbe spezzato la fragile lastra. Il vigore dei suoi gesti lo sbilanciò e cadde sul ghiaccio; con uno scricchiolio, l'intera lastra si spezzò allontanandosi dalla riva. Quasi subito si ribaltò, scaraventando gli altri in acqua. La corrente li portò via in fretta e li sbalzò verso il lato del ponte. Alcuni si arrampicarono sulla struttura e furono buttati giù a calci da quelli che già tentavano disperatamente di attraversare. Altri rimasero in acqua, aggrappati ai piloni, finché la stessa lastra di ghiacciò si abbatté su di loro schiacciandoli e gettando contemporaneamente in acqua molti di quelli sul ponte. Mi tornarono in mente terribili ricordi di Austerlitz e degli uomini annegati nel lago Satschan: ricordi contro cui lottavo da quando ero arrivato lì, da quando era iniziato l'inverno. Ad Austerlitz erano stati russi e austriaci a morire, ora il punteggio era tornato in parità. Stavolta non c'era stato bisogno di sparare sul ghiaccio per spezzarlo, come aveva fatto Bonaparte a Satschan. Non che non provenisse fuoco dai cannoni russi: solo uccidevano con metodi più tradizionali. Il terrore ebbe infine la meglio sul mio desiderio di affrontare Iuda. Era tempo di andarmene, ma non sarebbe stato facile. Vicino al ponte ero protetto dalla folla, che procedeva all'unisono e in unità di intenti. Sarebbe stato più semplice inserirmi in quella folla e lasciarmi trascinare oltre il fiume, ma il ponte era così gremito che forse neppure la metà di loro riuscì ad arrivare dall'altra parte senza
cadere in acqua. Ricordai quando avevo attraversato il ponte sulla Moscova, quando Mosca era stata evacuata e io ero l'unica persona a voler andare controcorrente. Quel ponte era stato più facile da varcare, ma d'altronde i francesi, adesso, erano cento volte più sicuri della sconfitta rispetto a quei russi. Venni via, in direzione opposta al resto degli uomini sulla riva. Non mi guardarono con curiosità o sospetto, non cercarono di fermarmi, ma per quanto tentassi di allontanarmi dalle acque gelide, continuavo a essere trascinato in quella direzione. Afferrai braccia e cappotti e cercai di spingerli da parte per farmi strada, nuotando contro la corrente di corpi umani. Quando presi un uomo per il bavero, per scostarmelo da davanti, lui mi guardò con occhi freddi, familiari, grigi. Per una volta non stava cercando me, e io avevo appena smesso di cercare lui; eppure io e Iuda ci eravamo trovati.
Capitolo 32 Fu quasi un valzer quello che ingaggiammo nel farci strada fra la folla terrorizzata. Ciascuno di noi aveva afferrato l'altro, non nella posa convenzionale del ballo ma reggendo forte perché non scappasse. Ciascuno spingeva, nessuno dei due se ne rendeva conto, ma avevamo lo stesso obiettivo: liberarci dalla folla per affrontarci faccia a faccia. Quando finalmente fummo rilasciati dalla pressione e dal sostegno degli uomini e delle donne premuti contro di noi, cademmo a terra. Rotolammo giù per la sponda ripida verso il fiume, fermandoci in una pozzanghera gelida che migliaia di piedi avevano mantenuto liquida. Per fortuna mi ritrovai sopra Iuda, e gli assestai un pugno alla mandibola che sperai inibisse in lui ogni spirito combattivo. Lui portava ancora l'uniforme da chef de bataillon, io ero un soldato semplice, ed entrambi eravamo fin troppo eleganti in confronto alla gente che ci circondava; ma nessuno sembrò domandarsi perché trattassi in quel modo il mio ufficiale superiore. Sull'altra sponda la gerarchia militare si era forse riaffermata, da questa parte l'anima di ogni uomo apparteneva solo a se stesso. «Presumo che ormai non ti sogni nemmeno più di credermi» gridò Iuda, cercando di farsi sentire sopra il caos. «Ho smesso da tempo» mentii io. All'improvviso una massa di uomini spuntò come un'ernia dalla calca, ridisegnando le linee arbitrarie che dividevano la folla dallo spazio vuoto tutt'intorno. In centinaia ci superarono e si avventarono sul ghiaccio, travolgendomi e strappandomi Iuda dalle mani. Mi tirai in piedi, e sentendomi scivolare mi accorsi con terrore che anch'io ero finito sul fiume ghiacciato. Sette anni prima, sul lago Satschan, avevo provato lo stesso terrore. Oggi, sostenuto sopra le onde non come san Pietro dalla volontà di Dio, ma da un sottile strato di acqua ghiacciata, cercai di restare in piedi. Mi guardai intorno: dovevo riacciuffare Iuda prima che sparisse nella folla. Attraverso il velo sempre più sottile di uomini e donne spaventati che scivolavano e arrancavano verso la riva, lo vidi venire
verso di me. «Sei già andato oltre la sfiducia?» gridò tra la gente. Non mi aveva letto nel pensiero; l'aveva semplicemente compreso alla perfezione. Una volta avevo sentito raccontare la storia di un giocatore di scacchi - si diceva fosse allievo di Philidor - che sapeva prevedere e mettere per iscritto le cinque mosse successive del suo avversario, ma solo se l'avversario era un grande scacchista: contro un giocatore mediocre si sbagliava sempre. In realtà era l'avversario a sbagliarsi, mentre il maestro aveva ragione. Iuda sapeva che a un certo punto sarei giunto alla conclusione che la sua parola non aveva valore nei termini della verità che rappresentava, e quindi era tanto più potente per le idee che suggeriva. «Devo saperlo» dissi. Ormai eravamo faccia a faccia. «Non posso dirtelo» rispose lui, in volto il solito sorriso malizioso e soddisfatto. «Me lo dirai!» Lo afferrai per un polso e gli tirai un calcio allo stinco, togliendogli il sostegno delle gambe. Cadendo si contorse e riuscì a tirare giù anche me. Lo strato di ghiaccio si inclinò sotto il nostro peso ed entrambi scorremmo verso l'acqua. La mia presa sul polso di Iuda era ora ricambiata dalla sua sul mio, ma nessuno dei due trovava appiglio sulla superficie vitrea da cui stavamo scivolando. Mi piovve in viso uno scroscio di ghiaccio tritato quando lui affondò il coltello nella lastra per rallentare la nostra caduta. Si fermò sul bordo estremo del lastrone, ma io gli sbattei contro mandandolo ancor più avanti, e lui finì con le gambe in acqua. Rotolandomi sulla schiena gli scalciai via il coltello dalla mano, e l'arma scivolò sparendo nell'acqua con un piccolo tonfo. Iuda allargò le braccia, cercando un appiglio per non cadere nell'acqua gelida e torbida. Ma non era un vurdalak, non riusciva a trovare presa sulla più liscia delle superfici. Ritrovai l'equilibrio mentre lui restava appeso al bordo del ghiaccio, ormai immerso in acqua fino al petto. A ogni movimento, affondava sempre più. «Non puoi lasciarmi morire» disse. Non una supplica, ma un dato
di fatto. «Perché no?» «Perché così non lo saprai mai.» Sbattei il piede con forza accanto alla sua mano. Lui lo afferrò e ci si aggrappò, avvinghiandosi alla mia gamba come fa la coda di un serpente. «Allora» chiesi io, prendendo respiri profondi e cercando di calmarmi ora che ero in vantaggio, «la donna con te era Margarita o Domnikiia?» Lui alzò lo sguardo su di me con la testa inclinata di lato. «Era...» Si interruppe per pensare, come se gli avessi chiesto se preferiva vitello o montone per cena. «Margarita!» annunciò con aria decisa. Poi mi strattonò la gamba, gettandomi di nuovo sdraiato con la schiena sul ghiaccio. Mentre ricominciavo a scivolare verso il fiume, anche Iuda aveva perso il suo unico ancoraggio e la testa gli finì sott'acqua. Lo strato di ghiaccio sotto di me iniziò a inclinarsi, e mi ritrovai a slittare più veloce verso l'acqua in cui era appena scomparso lui. Mi rotolai sullo stomaco e aprii le braccia, ma come Iuda anch'io avevo ben pochi appigli. La mano destra trovò una presa momentanea, ma le dita della sinistra non potevano fare niente. In pochi secondi ero in acqua, e affondando sentii il gelo infiltrarsi nelle ultime parti di me che erano state protette dagli abiti. Quando riguadagnai la superficie, vidi che lui aveva fatto lo stesso. «Non posso più mentirti, Ljosa» disse, sputando e deglutendo acqua. «Era Dominique.» Di nuovo svanì tra le onde. Avrei potuto tuffarmi per riportarlo in superficie, ma ora la mia preoccupazione principale era la corrente che mi trascinava verso i piloni del ponte. Allungai in avanti braccia e gambe, ma neppure così potevo proteggermi completamente dalla forza dell'impatto. Mi mancò il respiro quando battei il petto e la testa contro il legno del palo, rischiando di svenire. Solo l'istinto mi disse di aggrapparmi ovunque riuscissi; altrimenti, appesantito dagli abiti bagnati, sarei affondato. Pochi istanti dopo ero tornato pienamente cosciente. Mi tirai
fuori dall'acqua e avvolsi le gambe intorno a una trave. Guardando a sinistra, vidi che anche Iuda stava riemergendo, portandosi sulla struttura di sostegno del ponte. Si muoveva come una salamandra che si trascini via dal fango del suo habitat umido verso la terraferma. Si fermò un attimo, ansimante, e solo allora alzò gli occhi e vide che avanzavo verso di lui, allungandomi da un pilone a una trave sulla ragnatela lignea che costituiva la struttura del ponte. Si ritrasse all'interno, attraversando il lato inferiore del ponte. Io lo seguii, ma fui più veloce, e riuscii ad arrivare all'altro lato, avvicinandomi a lui. Eravamo ora al centro esatto del fiume, equidistanti dalle due sponde. Sopra le nostre teste, centinaia di francesi si calpestavano l'un l'altro nel tentativo di raggiungere la riva destra. Le palle dei cannoni russi cadevano in acqua intorno a noi. Il fiume scorreva veloce e libero verso sud. Oltre quel ponte, e oltre il poco che la corrente aveva lasciato dell'altro ponte distrutto, non c'era più nulla per miglia e miglia. Da qualche parte, giù lungo il corso del fiume, forse ce n'era un altro, contro cui si sarebbero ammassati i cadaveri. Altrimenti li attendeva il Mar Nero, molto, molto lontano. Iuda si tuffò e io mi sporsi per afferrarlo. Con la mano sinistra riuscii soltanto a ghermire una ciocca di capelli biondi e sporchi, mentre mi reggevo al ponte con la destra. Due sole dita e il pollice non consentivano una buona presa, ma i capelli erano lunghi e ben presto li afferrai saldamente. Iuda era alla mia mercé, immerso nell'acqua fino al collo. Potevo spingerlo sotto, tirarlo in salvo o lasciarlo andare. «Dimmi la verità!» gli gridai. «Te l'ho detta» rispose, ridendo malgrado la situazione. «Quando?» chiesi. Non era una domanda retorica e lui lo sapeva. Volevo scoprire quale delle sue affermazioni contraddittorie fosse vera. «Spesso» fu l'unica risposta, di nuovo accompagnata da una risata. Lo spinsi sott'acqua, contando mentalmente i secondi per assicurarmi che non morisse. Lo tirai su e lui ansimò in cerca d'aria, senza mai perdere il sorriso.
«Dimmelo!» gli gridai ancora. «Non puoi torturarmi, Ljosa.» Alzò la mano per scostare i capelli bagnati dagli occhi. «Godo della protezione ultima: il fatto che non mi crederai mai. Ti ho detto tutto: non solo tutta la verità, ma anche tutto il resto. Posso offrirti solamente l'illuminazione estrema: non solo ciò che è, ma ciò che potrebbe essere. Sapere tutto è non sapere nulla. A che ti serve chiedere ancora? A che pro estorcermi informazioni? Tanto vale torturare una moneta affinché esca croce.» Gli spinsi di nuovo sotto la testa. Aveva ragione lui. Molte persone scelgono di vivere in base alla propria reputazione; Iuda sceglieva di vivere in base all'assenza di una reputazione. Con la mia complicità, mi aveva impedito di credere a ogni sua affermazione. Per quante volte gli immergessi la testa in acqua, avrebbe sempre potuto cambiare risposta. L'ultima risposta non sarebbe mai stata quella definitiva, perché poteva sempre seguirne un'altra. Potevo fargli patire le pene dell'inferno, e lui poteva gridare «Margarita!» novecentonovantanove volte, e ancora non gli avrei creduto, per paura che la millesima volta mormorasse «Domnikiia». Lo tirai in superficie, stringendo più forte i capelli come per strapparglieli dallo scalpo. «Sei lento oggi, Ljosa» disse. «Pensi ancora di potermi far dire la verità?» Silistra mi aveva insegnato più di una cosa sulla tortura. Mi aveva insegnato a essere una vittima, ma anche un carnefice. Avevo imparato che non sempre si tortura per ottenere informazioni: a volte la tortura è un fine in sé. Scossi la testa e aspettai di vedergli negli occhi la convinzione che la tortura fosse finita. Nell'istante in cui la vidi, lo spinsi di nuovo sott'acqua e ricominciai a contare. Sapeva che stavolta non avevo intenzione di tirarlo su. Aveva scelto un gioco che portava alla sua distruzione; aveva scelto di perdere con una mossa astuta, anziché sopravvivere con una mossa banale. Mentre contavo i secondi, lui tentava di divincolarsi; dieci, venti, trenta e quaranta. Poi si fermò. Non era passato tempo sufficiente per farlo affogare: sapevo che era un bluff. La mia mano era così fredda che quasi non sentivo più la testa al di sotto. Strinsi più forte; non sentivo più neppure il dolore e
mi chiesi se rischiavo di spezzarmi le dita. Dopo circa un minuto lui iniziò a divincolarsi di nuovo, e poi il corpo fu scosso da una convulsione. Era stato l'ultimo, irresistibile impulso a respirare, quando l'istinto dei polmoni aveva avuto la meglio sulla consapevolezza di essere circondato dall'acqua e non dall'aria? Poi non si mosse più. Aspettai un altro minuto con il braccio indolenzito immerso nel fiume prima di sollevarlo e guardarlo in faccia. Se n'era andato. Una ciocca di capelli biondi era rimasta avvolta alle mie dita insensibili, il resto di lui era sparito. La corrente del fiume me l'aveva strappato di mano. Guardai a valle, ma era impossibile distinguere un cadavere galleggiante dall'altro. Tra di loro, alcuni nuotatori riuscivano ancora a mettersi al sicuro sulla sponda occidentale; non vidi Iuda neppure lì. Mi riportai sotto il ponte, con le ginocchia al petto, e restai lì come uno gnomo ad ascoltare i tonfi cadenzati dei piedi sopra la mia testa. Iniziai a tremare. Gli strati di stoffa che indossavo erano tutti fradici. Se avessi lasciato posata la mano troppo a lungo sulla struttura del ponte, sarebbe congelata. Mi rimisi in movimento verso la riva orientale. Migliaia di persone dovevano ancora attraversare il fiume, ma ormai sarebbero passati in pochi. Le truppe russe al comando di Kutuzov e Wittgenstein erano vicine. Mi diressi a sud lungo la sponda, liberandomi rapidamente del cappotto francese. La scelta era tra morire di freddo o restare ucciso da una pallottola russa. Scelsi non in base alla preferenza ma alla probabilità, e le probabilità si equivalevano quasi. Proseguii lungo il corso del fiume, e mi bastarono poche parole per persuadere i pochi soldati russi che incontrai. Per convincere i francesi, ancor meno numerosi, bastò qualche parola nella loro lingua. Ben presto arrivai a Borisov, la città abbandonata da Bonaparte pochi giorni prima. Ora Bonaparte stava tornando a ovest. Quanto del suo esercito sarebbe riuscito a tornare con lui non era certo, ma lui sarebbe rientrato sicuramente a Parigi. Non desideravo più inseguirlo, né inseguire altri francesi. E se Iuda era ancora vivo, non volevo neppure inseguire lui, né scoprire se era morto o no. Era fuori dalla Russia, o lo sarebbe stato molto presto, trascinato a sud
verso il Mar Nero, o a ovest con la Grande Armée verso la Polonia e oltre. Non era più un mio problema. I miei problemi erano quelli che mi aveva lasciato. Era ancora buio quando arrivai a Borisov, ma ebbi la fortuna di trovare un cavallo, dimenticato dai francesi nella fuga verso nord. Lo montai e mi diressi fuori città. Bonaparte avrebbe lottato per alcuni altri anni e addirittura sarebbe risorto brevemente come una fenice prima del gran finale, ma lì in Russia era iniziata la sua sconfitta. Non era una sconfitta a cui avessi contribuito. L'avevo combattuto ad Austerlitz e avevamo perso. Poi a Smolensk, e avevamo perso. Dopo Borodino avevo trovato un altro avversario da combattere. Se i miei nipoti un giorno mi avessero chiesto come avessi contribuito alla caduta di Napoleone, non avrei potuto dir loro la verità. Avrei potuto parlare di Maksim e di Vadim e di Dmitrij e di come avevamo collaborato per sette anni con metodi poco ortodossi, ma non avrei mai potuto raccontare l'epilogo. Né di come Dmitrij fosse morto assiderato, e quanto fosse stato fortunato rispetto a Vadim, e che anche Vadim era stato fortunato rispetto a Maksim. Perché Vadim e Maksim erano morti di una morte simile, ma Maks aveva avuto in più la dolorosa certezza di essere stato condannato da quelli che pensava fossero i suoi amici. Il dubbio su Domnikiia, che Iuda aveva astutamente instillato in me, era facile da gestire, ora lo capivo. Era stato Maks a suggerirmi la soluzione. Era una questione di fede. La fede, aveva detto Maks, ci permette di sentirci sicuri a proposito di cose che non possiamo mai sapere con certezza. Non avrei mai scoperto se con Iuda ci fosse stata Domnikiia o Margarita - quello era un dato inconoscibile -, ma era chiaro quale volevo fosse la verità. Dovevo solo avere fede nella versione della realtà che avevo scelto. Non sarebbe stato facile, certo non per un uomo come me, mantenere una simile fede; ma poiché mi avrebbe permesso di restare con Domnikiia, ne valeva la pena. Ogni giorno in cui la mia fede fosse stata ricompensata avrebbe rafforzato a sua volta quella fede, e il mio bisogno di lei. Ma non avrei visto Domnikiia ogni giorno. La città di Borisov ha una posizione geografica interessante. Si
trova al vertice di un triangolo equilatero, agli altri due vertici sorgono Mosca e Pietroburgo. Da lì Mosca e Pietroburgo erano equidistanti, e la stessa distanza intercorreva tra le due città. Potevo sobbarcarmi ora la scelta di quale strada prendere, e non avrei neppure tentato di ingannarmi pensando che fosse una scelta tra due città: era una scelta tra Domnikiia e Marfa. Non importava quale strada imboccassi ora, Mosca o Pietroburgo: avrei sempre potuto spostarmi a piacere tra l'una e l'altra. Sapevo di non poter rinunciare a Domnikiia, semplicemente perché non volevo. Sapevo che non avrei mai abbandonato Marfa, non solo perché non avrei abbandonato mio figlio, ma perché il mio amore per lei era sempre dentro di me, e aspettava di essere rinfocolato quando io gliel'avessi permesso. Spronai il mio nuovo cavallo e mi avviai sotto un cielo rosso, che iniziava appena a illuminarsi verso oriente. Gli uccelli si svegliarono salutando il nuovo giorno, e con quel canto l'incubo iniziò a sbiadire. Il mio Paese aveva affrontato cinquecentomila invasori. Io ne avevo affrontati solo dodici. Avevamo vinto entrambi. Ci saremmo ripresi entrambi. Ma a differenza della Russia, quando io avessi guardato indietro agli eventi dell'autunno e dell'inverno dell'anno 1812, non avrei sentito il sangue scorrere nelle vene, il cuore gonfiarsi nel petto e il labbro tremare al ricordo degli onori passati. Oh, sì, avrei versato una lacrima per gli amici caduti. Ma, a differenza del mio Paese, non sarei stato orgoglioso.