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PHILIP JOSÉ FARMER I CANCELLI DELL'UNIVERSO (The Gates Of Creation, 1966) CAPITOLO I Migliaia di anni prima, per eliminare il bisogno di dormire, i Signori si erano serviti di droghe, dell'elettronica, dell'ipnotismo e delle psicotecniche. I loro corpi rimanevano freschi e vigorosi, gli occhi limpidi, per giorni e notti, per mesi. A lungo andare, però, la loro mente vacillava. Cadevano in preda di allucinazioni, di collere sfrenate e di un irragionevole senso di sconforto. Alcuni impazzivano definitivamente e dovevano essere uccisi o rinchiusi. Fu così che i Signori scoprirono che anche loro, benché fabbricanti di umversi e padroni di una scienza che li poneva un gradino appena sotto gli dèi, avevano bisogno di sognare. La mente inconscia, privata della comunicazione con la mente conscia durante il sonno, si ribellava. La sua arma era la pazzia, per mezzo della quale abbatteva i pilastri della ragione Perciò, ora, tutti i Signori dormivano e sognavano. Robert Wolff, un tempo chiamato Jadawin, Signore del Pianeta dai Molti Livelli, di un mondo costruito come una Torre di Babilonia, sognava. Sognava che una stella a sei punte era scivolata nella sua camera da letto attraverso una finestra. La stella ruotava vorticosamente, pur restando sospesa in aria, ai piedi del suo letto. Era un pandoogaluz, uno degli antichi simboli della religione, in cui i Signori ormai non credevano più. Wolff, che aveva la tendenza a pensare per lo più in inglese, guardava ad essa come a un esacolo. Era infatti una stella a sei lati, col centro di un biancore incandescente e con un raggio che scaturiva da ciascun lato, uno scarlatto, uno arancione, uno azzurro, uno purpureo, uno nero e uno giallo. L'esacolo pulsava come il cuore d'un sole. I suoi raggi dardeggiavano, morbidamente gli sfioravano le palpebre, come un gatto domestico che allunghi la zampa per svegliare con un lievissimo graffio il suo padrone. «Che cosa vuoi?» domandò Wolff, pur sapendo che era un sogno. L'esacolo rappresentava un pericolo: persino le ombre che si formavano tra i suoi raggi trasudavano malvagità. E lui sapeva anche, chissà come, che l'esacolo gli era stato mandato da suo padre: Urizen, che non vedeva da duemila anni.
«Jadawin!» La voce era silenziosa. I sei raggi, arrotolandosi e contorcendosi come serpenti di fuoco, formavano le parole, lettera per lettera. E le lettere erano quelle dell'antico alfabeto, la scrittura originale dei Signori. Balenavano dinanzi a lui, e lui ne comprendeva il senso non tanto con gli occhi quanto piuttosto attraverso una voce che gli parlava interiormente. I colori raggiungevano il suo cervello ed evocavano una voce morta da tempo. E la voce risonava così intensamente che tutte le sue fibre più riposte vibravano. L'incubo minacciava di persistere in eterno. «Svegliati, Jadawin!» disse la voce di suo padre. Da quelle parole Wolff capì che l'esacolo, con i suoi raggi lampeggianti, non era una creazione della sua mente, ma esisteva nella realtà. Aprì gli occhi. Fissò il soffitto ricurvo, illuminato da una luce dolce e mutevole, venata di rosso, di nero, di giallo e di verde. Tese la mano sinistra per toccare Chryseis, sua moglie. Ma scoprì che il posto accanto a lui era vuoto. Allora si rizzò a sedere, guardò a destra e sinistra: sua moglie non era nemmeno nella stanza. «Chryseis!» chiamò. Vide lo scintillante oggetto a sei raggi, che pulsava e si librava due metri sopra il bordo del letto. La voce di suo padre lo raggiunse: «Jadawin, figlio mio, mio nemico! Non cercare l'essere inferiore che hai onorato facendone la tua compagna. È andata via e non tornerà.» Wolff balzò di scatto giù dal letto. Come aveva fatto quella cosa a entrare nel suo castello? Teoricamente la sua magione era inespugnabile. Numerosi allarmi avrebbero dovuto svegliarlo, molto prima che quella cosa potesse raggiungere la sua camera da letto. C'erano porte massiccie pronte a scorrere e dappertutto proiettori laser pronti a scattare e a fare a pezzi gli eventuali invasori: insomma, cento diverse trappole avrebbero dovuto mettersi in funzione. Come mai l'esacolo non era stato frantumato, colpito, bruciato, esploso, schiacciato, sommerso? Non una luce vibrava sulla grande parete in fondo alla stanza, quella parete che sembrava una semplice decorazione arabescata, ma che in realtà era il pannello con lo schema degli allarmi e i comandi del castello. C'era soltanto il lieve riverbero della luce proveniente dal soffitto. Il pannello era muto, decisamente silenzioso, come se nel raggio di un milione di chilometri non ci fosse alcunché da segnalare.
La voce di Urizen, suo padre, disse ridendo: «Hai forse creduto, con le tue ridicole armi, di poter tenere lontano il Signore dei Signori? Jadawin! Potrei ucciderti anche adesso, lì dove ti trovi, con quella tua bocca spalancata come un idiota, pallido, tremante e coperto di sudore.» «Chryseis!» gridò di nuovo Wolff. «Chryseis non c'è. Non è più nel tuo letto. E nemmeno nel tuo universo. Te l'ho portata via con la stessa destrezza e silenziosità con cui un ladro ruba un gioiello.» «Che cosa vuoi, Padre?» domandò Wolff. «Voglio che tu venga a cercarla. Voglio che tu cerchi di riportarla indietro.» Wolff urlò di rabbia, saltò sul letto e si lanciò oltre il bordo, in direzione dell'esacolo. Quell'oggetto poteva essere mortale, ma Wolff in quel momento aveva accantonato ogni prudenza. Le sue mani cercarono di artigliare la scintillante cosa multicolore. Si ritrovò sul pavimento. Esterrefatto, guardava, sopra di sé, il punto dove prima c'era l'esacolo: non appena le sue mani avevano raggiunto lo spazio occupato dal poliedro stellato, esso era svanito. Dopotutto, forse, non si trattava di un'entità fisica. Forse non era che un'immagine mentale, destata in lui chissà in qual maniera. Ma non ne era del tutto convinto. Forse si era trattato di una configurazione di energie, campi di forza tenuti momentaneamente insieme e trasmessi da qualche luogo remoto. Il proiettore poteva essere nell'universo attiguo, oppure distante un milione di universi. La distanza non contava. Una era la cosa importante: Urizen era riuscito a penetrare entro le mura del suo mondo privato e aveva rapito Chryseis. Wolff non si aspettava una parola di più da suo padre. Urizen non aveva detto dove aveva portato Chryseis, né come Wolff avrebbe potuto trovarla, e neppure che cosa intendeva farle. Eppure Wolff sapeva cosa doveva fare. Intanto bisognava localizzare, in un modo o nell'altro, il cosmo chiuso e nascosto di suo padre, e poi trovare la porta per penetrarvi. Una volta raggiunto l'ingresso di quell'universo, se gli fosse riuscito di scoprire ed evitare le ttappole approntate da Urizen - e le probabilità erano molto basse sarebbe dovuto arrivare sino a lui per ucciderlo. Solo così avrebbe potuto riportare indietro Chryseis. Questo era lo schema plurimillenario del gioco praticato dai Signori. Wolff stesso, in qualità di Jadawin, settimo figlio di Urizen, era soprav-
vissuto a 10.000 anni di quel mortale passatempo. Ed era riuscito a cavarsela per tutti quei secoli solo perché si era sempre accontentato di rimanere nel suo universo. Contrariamente a quel che capitava a molti Signori, il mondo che aveva creato non gli era venuto a noia; anzi, ne aveva tratto piacere, anche se ora doveva ammettere che era stato un piacere crudele. Non solo aveva sfruttato a proprio piacimento gli indigeni del suo mondo, ma aveva anche predisposto insidie per catturare più di un Signore, alcuni anche suoi fratelli e sorelle. I Signori presi in trappola erano poi morti in modo lento e orribile. Se però Wolff era pentito per quel che aveva fatto agli abitanti del suo pianeta, per i Signori che aveva torturato e ucciso non provava alcun rimorso. Quando erano venuti nel suo mondo sapevano quel che facevano, e se fossero riusciti a superare le sue difese e a catturarlo lo avrebbero fatto soffrire a lungo, prima di concedergli la morte. Poi, Vannax, uno dei Signori, era riuscito a sbalzarlo nell'universo della Terra. La trappola però si era richiusa anche su Vannax, trascinato sulla Terra anche lui, insieme con Jadawin. Un terzo Signore, Arwoor, aveva preso possesso del mondo di Jadawin. Jadawin aveva perso completamente la memoria della sua vita precedente, a causa del fatto di essere stato spodestato e scagliato in un universo alieno, inerme e senza i mezzi per tornare nel suo mondo. Lo shock era stato terribile: la sua mente era diventata un foglio bianco, una tabula rasa. Un kentuckiano di nome Wolff lo adottò. E così, lo smemorato Jadawin aveva preso il nome di Robert Wolff. Soltanto a sessant'anni aveva scoperto cos'era accaduto prima del momento in cui era rotolato giù da una montagna del Kentucky. Dopo tutta una vita passata ad insegnare latino, greco ed ebraico, si era ritirato in pensione, nella zona di Phoenix, in Arizona. E là, mentre visitava una casa in vendita, appena costruita, era cominciata la serie di avventure che l'aveva ricondotto, attraverso una «porta», nell'universo che aveva creato e che aveva governato da Signore per 10.000 anni. Sul pianeta, una Torre di Babilonia grande come la Terra, si era aperto la strada lottando, dal livello più basso fino al castello-palazzo di Arwoor. Aveva incontrato Chryseis, una delle sue semicreazioni, e se n'era innamorato. Alla fine era tornato a essere il Signore, anche se molto diverso da quando aveva lasciato quel mondo: era divenuto umano. Le sue lacrime, provocate dall'angoscia per la perdita di Chryseis e dal
terrore di ciò che le sarebbe potuto capitare, erano una prova della sua umanità. Nessun Signore, infatti, versava lacrime per un altro essere vivente, anche se si diceva che Urizen avesse pianto di gioia quando aveva intrappolato due dei suoi figli, qualche migliaio di anni prima. Senza perdere tempo, Wolff si accinse a fare quel che era necessario. Per prima cosa doveva assicurarsi che qualcuno occupasse il castello durante la sua assenza. Non voleva che si ripetesse quel che era accaduto l'ultima volta che aveva lasciato il suo mondo, quando, ritornando, aveva trovato un altro Signore al suo posto. C'era un solo uomo in grado di sostituirlo e di cui poteva fidarsi: Kickaha (nato Paul Janus Finnegan a Terre Haute, Indiana, Terra). Era stato Kickaha a dargli il corno che gli aveva consentito di tornare sul suo pianeta. E sempre Kickaha gli aveva prestato l'aiuto indispensabile per riconquistare la sua Signoria. Il corno! Con quello avrebbe rintracciato l'universo di Urizen e raggiunto l'ingresso. A grandi passi attraversò il pavimento di crisopazio, fino alla parete, ne tirò verso il basso una sezione, scolpita nelle sembianze di una delle gigantesche aquile del pianeta. Rimase impietrito e senza fiato per la sorpresa. Il nascondiglio non aveva più nulla da nascondere; la cavità in cui avrebbe dovuto trovarsi il corno era vuota. Dunque, Urizen non solo aveva rapito Chryseis, ma aveva anche rubato l'antico corno di Shambarimen. E così sia. Wolff piangeva per Chryseis, ma non avrebbe sprecato tempo ad affliggersi inutilmente per un oggetto, non importa quanto prezioso. Percorse velocemente varie sale, e notò che nessuno degli allarmi era scattato. Tutto dormiva, come nei giorni placidi e felici susseguitisi da quando Wolff aveva ripreso possesso del palazzo in cima al pianeta. Non poté fare a meno di rabbrividire. Aveva sempre avuto paura di suo padre, ed ora, dinanzi a una dimostrazione così convincente dei suoi vasti poteri, lo temeva ancor di più. Tuttavia, l'idea di dargli la caccia non lo spaventava. Lo avrebbe raggiunto e ucciso, o sarebbe morto nel tentativo. Era in una delle colossali sale di comando. Sedette davanti a un quadro di controllo e manovrò un dispositivo che gli avrebbe mostrato, in successione, tutti i punti del pianeta dove aveva collocato delle telecamere. Ce n'erano diecimila, su ciascuno dei quattro livelli inferiori, mimetizzate tra rocce ed alberi. Le aveva sistemate per poter osservare quel che accadeva
nei punti chiave del suo mondo. Rimase seduto per due ore, mentre le immagini lampeggiavano sullo schermo. C'era da rimanere lì a osservare per giorni e giorni. Allora programmò l'apparecchio sull'immagine di Kickaha e abbandonò il visore. Se Kickaha fosse stato inquadrato, l'immagine si sarebbe bloccata sullo schermo e un allarme lo avrebbe avvertito. Attivò altri dieci quadri di controllo. Automaticamente prese a esplorare il cosmo degli universi «paralleli», per scoprirli e identificarli. Le registrazioni relative erano vecchie di settant'anni, perciò poteva presumere che altri universi di nuova creazione fossero andati a ingrossare il numero allora conosciuto di mille e otto. A Wolff interessavano questi. Urizen non viveva più nell'universo natale di Gardazrintah, dove Wolff era cresciuto insieme ai suoi molti fratelli, sorelle e cugini. Urizen, che si stancava di universi interi con la stessa rapidità di un bambino viziato nei riguardi dei suoi giocattoli nuovi, aveva abbandonato il suo mondo, per poi trasferirsi ancora una o due volte, chissà. Molto probabilmente ora si trovava in un quarto universo, quello appunto che andava identificato per potervi poi entrare. Teoricamente gli strumenti potevano esaminare tutti gli universi. Wolff non poteva però contare del tutto sugli strumenti. Un universo poteva essere individuato solo per mezzo delle sue «porte», ognuna delle quali emetteva una frequenza particolare. Ma se Urizen avesse voluto rendergli veramente difficile il compito di rintracciarlo, avrebbe potuto regolare la sua porta con una frequenza intermittente. In tal modo essa si sarebbe aperta a intervalli regolari o ad istanti casuali, a volontà di Urizen stesso. Bisognava quindi sperare che l'analizzatore la sorprendesse nel momento in cui era aperta. Diversamente la zona sarebbe risultata «vuota». D'altra parte, Urizen voleva che lui gli desse la caccia. Perciò non glielo avrebbe reso impossibile, e nemmeno troppo difficile. Anche i Signori dovevano mangiare. Wolff fece una leggera colazione, servitagli da un talos. Possedeva oltre un migliaio di quei robot semiproteici dall'aspetto di cavalieri in armatura. Poi si fece la barba e la doccia. La stanza da bagno era scavata in un unico smeraldo. Quando si vestì, scelse indumenti di velluto: scarpe, pantaloni aderenti e una blusa a maniche corte, aperta sul collo ma con il bavero alto sulla nuca. Si mise anche un'alta cintura di cuoio di mammut e una catena d'oro intorno al collo.
Dalla catena pendeva una statuetta di giada rossa di Shambarimen, datagli dal grande artista e artefice dei Signori quando lui, Wolff, era un ragazzino di dieci anni. Il rosso della giada era l'unica nota vivace nel suo abbigliamento, tutto il resto era color bruno-tordo. Quando era al castello si vestiva molto semplicemente o addirittura non si vestiva affatto. Solo nelle rare occasioni in cui scendeva nei livelli più bassi, per cerimonie ufficiali, si abbigliava con gli indumenti sfarzosi e il complesso copricapo dei Signori. Nella maggior parte delle sue discese, però, andava in incognito, vestito come gli indigeni. Lasciò il castello e uscì all'aperto, in uno dei suoi cento e cento spaziosi giardini pensili. Appollaiato sopra un albero c'era un Occhio, un corvo grande come un'aquila della Terra. Era uno dei pochi sopravvissuti all'attacco di Wolff, quando aveva assalito il castello e l'aveva ripreso ad Arwoor. Ora che Arwoor era morto, i corvi avevano trasferito a Wolff la loro lealtà. Wolff gli ordinò di levarsi in volo e di cercare Kickaha. Gli disse di trasmettere l'ordine agli altri Occhi del Signore e di informare anche le aquile di Podarge. Dovevano far sapere a Kickaha che era desiderato subito a palazzo. Se Kickaha, una volta ricevuto il messaggio e giunto al castello, non vi avesse trovato Wolff, poteva anche restarvi quale Signore pro tempore. Dopo un ragionevole lasso di tempo, se Wolff non avesse ancora fatto ritorno, allora Kickaha si sarebbe regolato a suo giudizio. Wolff sapeva che Kickaha gli sarebbe corso dietro. Ogni proibizione era inutile. Il corvo spiccò il volo, felice di avere una missione da compiere. Wolff tornò nel castello. I visori stavano ancora cercando Kickaha, ma senza successo. I cercaporte, invece, avendo bisogno soltanto di pochi microsecondi per localizzare e identificare ciascun universo, li avevano passati in rassegna tutti per cinque volte ed erano già alla sesta. Wolff li lasciò in funzione, nell'eventualità che qualche porta fosse intermittente e che il passaggio dell'analizzatore e l'apertura della porta non avessero coinciso. I risultati dei primi cinque passaggi erano stati registrati su carta, nei classici ideogrammi dell'antica lingua. C'erano trentacinque nuovi universi. Di questi uno solo aveva un'unica porta. Wolff riuscì a ottenerne sullo schermo un'immagine spettrale. Era una stella a sei punte, ma con il centro rosso invece che bianco. Rosso come
pericolo. Capì subito che quella era la porta del mondo di Urizen, altrettanto chiaramente quanto se glielo avesse detto suo padre stesso. Eccomi qui. Vieni a prendermi... se ne hai il coraggio. Rivide con chiarezza il volto di suo padre, i bei lineamenti da falco, con gli occhi grandi simili a diamanti neri. I Signori erano senza età; i loro corpi venivano mantenuti nelle condizioni fisiologiche dei primi venticinque anni di vita. Ma le emozioni erano più forti anche della scienza dei Signori: lavorando insieme al loro alleato, il tempo, lasciavano il segno sulle rocce della carne. L'ultima volta che aveva visto suo padre, aveva notato le rughe dell'odio. Dio solo sapeva quanto fossero profonde adesso, poiché era evidente che Urizen non aveva cessato di odiare. Wolff, o meglio Jadawin, aveva sempre ricambiato l'odio del padre. Ma contrariamente a tanti dei suoi fratelli non aveva mai tentato di ucciderlo. Si era limitato a starsene da parte, evitando ogni contatto. Ora però desiderava ammazzarlo con le sue mani, per quel che aveva fatto all'innocente Chryseis. La costruzione di un duplicato della porta, sintonizzato sulla frequenza dell'esacolo che indicava l'ingresso al mondo di Urizen, era un processo automatico. Tuttavia, occorsero ventidue ore perché le macchine completassero il congegno. Nel frattempo tutti i visori planetari avevano inoltrato il loro rapporto. Kickaha non era stato inquadrato. Ma ciò non voleva necessariamente significare che il suo imprevedibile amico non fosse sul pianeta; poteva essere appena fuori del campo visivo delle telecamere o in centomila altri posti. Il pianeta era più esteso della Terra e i visori ne coprivano soltanto una piccola parte, perciò poteva passare molto tempo prima che Kickaha venisse avvistato. Wolff decise di non perdere altro tempo. Non appena il duplicato dell'esacolo fu pronto, entrò in azione. Fece un pasto leggero e bevve dell'acqua: non sapeva per quanto tempo avrebbe dovuto fare a meno di cibo e bevande, una volta superata la porta. Si armò con un lanciaraggi, un coltello, un arco e una faretra piena di frecce. Portarsi dietro delle armi primitive poteva sembrare piuttosto singolare, specie tenendo conto degli strumenti di morte altamente tecnologici che avrebbe dovuto affrontare. Ma una delle incongruenze nella tecnologia dei
Signori era che in determinate situazioni tali armi si rivelavano utili ed efficaci. In realtà, non sperava molto sulla possibilità di usare quelle armi. Conosceva fin troppo bene i tanti tipi di trappole usate dai Signori. «E adesso» disse, «muoviamoci. È inutile aspettare ancora.» Si introdusse nello stretto passaggio, all'interno dell'esacolo. Un vento sibilante lo sferzò con violenza. Oscurità. Una sensazione come di grandi mani che l'afferrassero. Il tutto in un lampo vertiginoso. Si ritrovò su un prato. Vide frasche gigantesche a una certa distanza, la riva d'un mare vicino e un cielo rosso, che abbracciava l'isola e il bordo estremo del mare. In cielo non c'era sole, e la luce proveniva da tutte le direzioni. Aveva ancora indosso i suoi abiti, nonostante la sensazione che gli venissero strappati via, quando era passato attraverso la porta. Inoltre, era ancora in possesso delle sue armi. Di una cosa era certo: non si trovava all'interno della fortezza di Urizen. Era un luogo troppo convenzionale per il fantasioso gusto di suo padre. Si girò a guardare l'esacolo da cui era passato. Non c'era. Al suo posto, un grande esagono di metallo purpureo si ergeva su un piatto basamento di pietra. Allora si rammentò che qualcosa lo aveva spinto costringendolo a percorrere alcuni passi per non cadere, e così era andato oltre l'esagono per finire a qualche metro dal masso. Dunque, Urizen aveva sistemato una seconda porta, all'interno del suo esacolo, e l'aveva messa in comunicazione con quel posto, ovunque fosse. Il motivo sarebbe apparso evidente anche troppo presto. Wolff sapeva benissimo che cosa sarebbe accaduto se avesse tentato di riattraversare la porta. Tuttavia, non essendo il tipo da prendere le cose per scontate, tentò lo stesso. Si ritrovò senza sforzo dall'altra parte, sul masso. Era una porta a senso unico, proprio come si era aspettato. Qualcuno tossì dietro di lui. Si girò di scatto, con il lanciaraggi puntato. CAPITOLO II Non c'era spiaggia, il terreno terminava bruscamente in mare. L'animale era appena emerso dall'acqua, a pochissimi metri da lui. Stava accovacciato come un rospo su due enormi piedi palmati, con le zampe cilindriche piegate come se fossero prive di ossa. Il torso era umanoide, im-
bottito di grasso, con un ventre prominente come quello di un'oca. Il collo, lungo e flessibile, sorreggeva una testa di forma umana, ma col naso piatto dalle narici lunghe e sottili. Viticci di carne rossa gli germogliavano intorno alla bocca. Non aveva orecchie e gli occhi erano molto grandi e di color verde-muschio. Il cranio, come pure la faccia e il corpo, era ricoperto di un'oleosa peluria turchino scuro. «Jadawin!» disse la creatura. Parlava nell'antica lingua dei Signori. «Jadawin, non uccidermi! Non mi riconosci?» Wolff era scosso, ma non dimenticò di guardarsi alle spalle: forse lo strano essere cercava di distrarlo. «Jadawin! Non riconosci tuo fratello?» Non lo riconosceva. Il corpo a metà tra la rana e la foca, la mancanza di orecchie, la peluria turchina e il naso schiacciato dalle lunghe fessure, rendevano troppo difficile l'identificazione. E poi, c'era il Tempo. Se lui aveva davvero chiamato fratello quel mostro, doveva essere stato millenni prima. Quella voce, però... Scavava fra gli strati polverosi della sua memoria, come un cane alla ricerca di un vecchio osso. Raspava via livello dopo livello e... Wolff scrollò la testa e lanciò un'altra occhiata dietro di sé, verso la vegetazione piumosa. «Chi sei?» domandò. L'essere cominciò a piagnucolare, e allora lui capì che suo fratello (se davvero era suo fratello) doveva trovarsi imprigionato in quel corpo da lungo, lunghissimo tempo. Nessun Signore piagnucolava. «Vuoi forse rinnegarmi? Sei anche tu come gli altri che mi hanno ripudiato? Mi hanno deriso e sputato addosso, mi hanno scacciato a calci e risate. Hanno detto...» Batté insieme le pinne, contrasse il viso e grosse lacrime gli scivolarono dagli occhi verdi sulle guance turchine. «Ti prego, Jadawin, non fare come gli altri! Sei sempre stato il mio favorito, quello che ho sempre amato di più. Non essere crudele come loro!» Gli altri, pensò Wolff. Dunque, anche altri erano stati lì. Ma quanto tempo prima? Con impazienza, disse: «Non divaghiamo, chiunque tu sia. Dimmi il tuo nome!» L'essere si sollevò sulle sue zampe disossate e fece un passo avanti, mentre i muscoli gli si gonfiavano sotto il grasso che lo ricopriva. Wolff non indietreggiò e tenne il lanciaraggi saldamente puntato.
«Ti sei avvicinato abbastanza. Il tuo nome.» L'essere si fermò, ma le lacrime continuarono a scorrergli sulle guance. «Sei malvagio quanto gli altri. Non pensi che a te stesso. Non t'importa che cosa m'è accaduto, non ti toccano affatto le mie sofferenze, la mia solitudine e l'agonia di tutto questo tempo... questo incommensurabile tempo?» «Potrebbe anche, se sapessi chi sei e che cosa ti è accaduto.» «Oh, Signore dei Signori! Mio fratello!» Mise avanti un altro gigantesco piede piatto, facendo schizzare l'umidità da sotto la membrana. Tese una pinna, come per implorare una mano affettuosa, poi si fermò e i suoi occhi guizzarono verso un punto appena a lato di Wolff. Questi si girò di scatto balzando a sinistra, per poter fronteggiare col lanciaraggi anche la zona che prima si trovava alle sue spalle. Non c'era nessuno. Nello stesso istante, l'essere balzò verso Wolff. Le sue zampe scattarono come catapulte e lo proiettarono innanzi. Se Wolff si fosse soltanto girato sarebbe stato preso in pieno, ma si trovava di lato e così poté evitare quel corpo immane. Tuttavia la punta di una pinna lo colpì alla spalla e al braccio sinistro. Si sentì scaraventare lontano, senza più il lanciaraggi e con tutta la parte sinistra del corpo intorpidita. Per sua fortuna, Wolff era estremamente solido e robusto, con gli impulsi nervosi e muscolari portati al doppio della loro intensità naturale grazie alla scienza dei Signori. Un normale terrestre avrebbe avuto il braccio storpiato per sempre e non sarebbe riuscito a sfuggire al secondo assalto del mostro. Strepitando di rabbia e di delusione, l'essere toccò terra nel punto in cui un attimo prima si era trovato Wolff. Affondò sulle zampe come se fossero state due molle, ruotò su se stesso e si lanciò di nuovo. Il tutto fu compiuto a velocità incredibile: sembrava la scena d'un film accelerato. Intanto, Wolff era riuscito a riacquistare l'equilibrio. Si proiettò in avanti, verso il lanciaraggi. L'ombra della creatura gli passò sopra la testa. Udì uno strillo acutissimo, come se il mostro gli avesse urlato direttamente nelle orecchie. Recuperata la sua arma, Wolff rotolò più volte su se stesso e si rialzò in piedi. Ancora una volta l'essere si stava lanciando su di lui. Allora Wolff capovolse il lanciaraggi e lasciò cadere la leggera ma indistruttibile impugnatura dell'arma sulla testa del mostro. Ancora una volta l'impatto con quel corpo enorme lo gettò all'indietro e lo fece rotolare lon-
tano. Ma quando si rialzò, la creatura marina giaceva immobile a faccia in giù, col sangue che le sgorgava dal cranio di foca. Qualcuno, battendo le mani, stava applaudendo. Si girò e vide due esseri umani, lontano trenta metri, sotto l'ombra delle fronde: un uomo e una donna, che indossavano gli sfarzosi abiti dei Signori. Avanzavano verso di lui, a mani nude. Le loro uniche armi erano due spade inguainate in foderi di cuoio grezzo, o di pelle di pesce. Malgrado il loro aspetto inoffensivo, Wolff non abbassò la guardia. Quando furono a venti metri, intimò loro di fermarsi. Il mostro gemeva e muoveva la testa, ma non sembrava intenzionato ad alzarsi. Tuttavia Wolff se ne allontanò per mettersi fuori portata dei suoi eventuali balzi. «Jadawin!» chiamò la donna. Aveva una piacevole voce da contralto che agitò il suo cuore e la sua memoria. Erano cinquecento anni che non la vedeva, ma la riconobbe subito. «Vala!» disse. «Che fai qui?» Era una domanda retorica: sapeva benissimo che anche lei sicuramente era stata presa in trappola dal loro padre. In quel momento riconobbe anche l'uomo. Era Rintrah, uno dei suoi fratelli. Sia Vala che Rintrah erano dunque caduti nella stessa tagliola. Vala gli sorrise e il suo cuore sobbalzò di nuovo. Era più bella di tutte le donne che aveva conosciuto, con due eccezioni: la sua amata Chryseis e l'altra sua sorella, Anana la Splendente. Ma lui non aveva mai amato Anana come aveva amato Vala. Proprio come non aveva mai odiato Anana come aveva odiato Vala. Vala applaudì ancora e disse: «Ben fatto, Jadawin! Non hai perso nulla della tua abilità e astuzia. Quel mostro è pericoloso, oltre che disgustoso. Si fa piccolo piccolo, piagnucola, tenta di guadagnare la tua fiducia è poi... bang! Ti salta alla gola! Ha quasi ucciso Rintrah, appena arrivato qui, e l'avrebbe fatto, se non l'avessi stordito con un sasso. Come vedi, anch'io ho avuto una piccola divergenza d'opinioni con lui.» «E perché non l'hai ucciso?» domandò Wolff. Rintrah sogghignò. «Non riconosci il tuo fratellino, Jadawin? Quel mostro è il tuo amato grazioso piccolo Theotormon.» «Dio!» esclamò Wolff. «Theotormon! Chi l'ha ridotto così?» Nessuno dei due rispose, non c'era bisogno che lo facessero. Quello era il mondo di Urizen: solo lui poteva aver rimodellato a quel modo il loro fratello.
Theotormon gemette e si mise a sedere. Si dondolava avanti e indietro, lamentandosi e tenendo una pinna premuta sulla macchia di sangue che aveva sul capo. Silenziosamente masticava delle invettive che non osava profferire ad alta voce, fissando Wolff con i suoi occhi verdi come licheni. Wolff disse: «Non starai cercando di dirmi che gli hai risparmiato la vita spinta dall'amor fraterno? Ti conosco troppo bene!» Vala rise: «Naturalmente no! Ho solo pensato che avrebbe potuto essere utile in seguito. Conosce bene questo piccolo pianeta, dato che ci è rimasto così a lungo. Vedi, fratello Jadawin, Theotormon è un vigliacco. Non ebbe mai il coraggio di rischiare la vita nel labirinto di Urizen: rimase su quest'isola e sì ridusse allo stesso livello dei suoi degenerati abitanti. Nostro padre si stancò di aspettare che in lui si raccogliesse un inesistente coraggio. E allora, per punirlo della sua mancanza d'audacia, lo prese e se lo portò nella sua fortezza, ad Appirmatzum. Là lo rimodellò, facendone questa repellente cosa marina che tu vedi. Ma neanche allora Theotormon osò attraversare le porte del palazzo di Urizen. È rimasto qui, a vivere come un eremita, detestandosi e disprezzandosi, odiando tutti gli altri esseri viventi, e particolarmente i Signori.» Vala continuò: «Si nutre dei frutti dell'isola, di uccelli, di pesci e degli altri animali marini che riesce a catturare: li mangia crudi. E se gli capita, uccide e divora anche gli indigeni. Un castigo meritatissimo: sono i figli di quei Signori che, come Theotormon, non ebbero il coraggio di rischiare e preferirono vivere le loro miserabili vite su questo pianeta, avere dei bambini, crescerli e poi morire. Urizen li aveva trattati allo stesso modo di Theotormon: li aveva portati ad Appirmatzum, trasformati in forme nauseanti e riportati qui. Sperava in tal modo di scatenare in loro un odio furioso, un odio che li spingesse ad affrontare i pianeti-trappola, per tentare di raggiungere Appirmatzum e vendicarsi. Ma erano tutti vigliacchi. Preferirono continuare a vivere qui, anche dopo la loro ributtante metamorfosi, piuttosto che morire da veri Signori.» Wolff disse: «Ho molto da imparare su questo posticino preparatoci da nostro padre. Ma c'è un fatto: come faccio a sapere se posso fidarmi di voi?» Vala rise di nuovo. «Tutti noi, che siamo caduti nelle trappole di Urizen, ci troviamo su quest'isola. La maggior parte è qui soltanto da poche settimane. Luvah, invece, è arrivato sei mesi fa.» «Chi sono gli altri?» «Alcuni dei tuoi fratelli e cugini. Oltre a Rintrah e Luvah, ci sono altri
due fratelli, Enion e Ariston, e i tuoi cugini Tharmas e Palamabron.» Rise allegramente, indicò il cielo e disse: «Tutti, tutti intrappolati da nostro padre! Tutti di nuovo riuniti, dopo uno straziante distacco di millenni. Una felice riunione di famiglia, quale i mortali non potrebbero nemmeno immaginare.» «Io ci riesco benissimo» disse Wolff. «Ma non hai ancora risposto alla mia domanda: come faccio a fidarmi di voi?» «Abbiamo tutti sottoscritto una tregua e unito le nostre forze» disse Rintrah. «Abbiamo bisogno l'uno dell'altro, perciò dobbiamo mettere da parte le nostre discordie e cooperare. Solo così sarà possibile battere Urizen.» «Non c'è mai stata una tregua simile, da che mi ricordo» disse Wolff. «Rammento però che nostra madre mi raccontava di un accordo, stipulato tanto tempo fa, quattromila anni prima che io nascessi, quando le Campane Nere minacciarono i Signori. Urizen compì allora due miracoli: catturò otto Signori tutti in una volta e li costrinse a una tregua. Che questa invece possa essere la sua rovina.» Wolff aderì quindi alla tregua. Nel nome del Padre di tutti i Signori, il grande Eponimo Los, giurò di osservare tutte le regole del patto fino a quando tutti non fossero morti o non si fossero di nuovo accordati per scioglierlo. Nel momento stesso in cui prestava giuramento, sapeva di non avere alcuna garanzia che gli altri non lo tradissero. Sapeva anche che Rintrah e Vala se ne rendevano conto e che non si fidavano di lui più di quanto lui si fidasse di loro. Ma almeno avrebbero lavorato tutti insieme per un po'. E non era probabile che qualcuno rompesse la tregua alla leggera. Per farlo, avrebbero dovuto coincidere e la buona occasione e una forte probabilità di farla franca. Theotormon gemette. «Jadawin, fratello mio, mio favorito. Dicevi che mi avresti sempre amato e protetto. Invece, sei come gli altri. Vuoi ferirmi, vuoi uccidere me, il tuo fratellino.» Vala gli sputò addosso. «Sudicia bestia codarda!» disse. «Non sei né un Signore, né nostro fratello. Perché non vai ad annegarti in mare, portando lontano da noi e da tutti gli esseri che respirano aria la tua paura e la tua perfidia? Lascia che i pesci si nutrano della tua grassa carogna. Ma forse anche loro ti rivomiterebbero.» Accoccolato, Theotormon si trascinò verso Wolff, tendendo una pinna. «Jadawin, tu non sai quanto ho sofferto. Non hai pietà di me? Ho sempre
creduto che almeno tu avessi quello che manca a loro. Un tempo, avevi un cuore caldo e colmo di compassione, contrariamente a quei mostri senz'anima.» «Hai tentato di uccidermi» disse Wolff. «E tenteresti ancora, se ti si presentasse l'occasione favorevole.» «No, no» protestò Theotormon. E tentò di sorridere. «Mi hai frainteso. Credevo che tu mi odiassi perché preferivo questa vita elementare a una morte da Signore. Volevo solo disarmarti, per impedirti di ferirmi. Poi, ti avrei spiegato che cosa mi era accaduto, come mi ero ridotto così. Allora avresti capito. Avresti provato pietà di me e saresti tornato ad amarmi, come quando tu eri un ragazzo ed io ero il tuo fratellino in fasce, nel palazzo di nostro padre. Ecco tutto quello che volevo fare: spiegarti la mia situazione in modo che tu di nuovo potessi amarmi e non odiarmi. Non volevo affatto farti del male. Lo giuro, nel nome di Los!» «Ne riparleremo» disse Wolff. «Intanto, sparisci!» Theotormon si allontanò, caracollando sulle sue zampe molli. Quando raggiunse la riva, si voltò a gridare insulti e oscenità all'indirizzo di Wolff. Wolff alzò il lanciaraggi, ma solo con l'intenzione di spaventarlo. Il mostro lanciò un grido rauco e balzò in acqua come una rana gigantesca, con le zampe gommose e le dita palmate che gli penzolavano dietro. Scomparve sott'acqua e non ritornò a galla. Wolff domandò a Vala quanto tempo potesse rimanere sotto. «Non lo so, forse mezz'ora. Ma non credo che in questo momento stia trattenendo il fiato. Probabilmente si è rifugiato in una caverna: ce ne sono diverse, nascoste tra le radici e le vesciche che formano la base di quest'isola.» Propose di raggiungere gli altri. Mentre camminavano in mezzo al fogliame, gli spiegò le caratteristiche fisiche di quel mondo, quelle che conosceva. «Avrai notato com'è vicino l'orizzonte. Il pianeta ha un diametro di circa 3600 chilometri.» (All'incirca le dimensioni della luna terrestre, pensò Wolff.) «Tuttavia, la gravità è solo di poco inferiore a quella del nostro pianeta natale.» (Non molto più elevata di quella della Terra, pensò ancora Wolff.) «E diminuisce bruscamente al di sopra dell'atmosfera, estendendosi poi sempre più debole per tutto questo universo. Anche gli altri pianeti hanno campi simili.» Wolff non si stupì. Con i campi di forze e i gravitoni, i Signori potevano fare cose che i terrestri non si sognavano nemmeno.
«Inoltre, questo pianeta è interamente coperto d'acqua.» «E che mi dici di quest'isola?» domandò lui. «Galleggia. Trae origine da una pianta che cresce sul fondo del mare ed è fornita di particolari vesciche. Quando la pianta è a metà del suo sviluppo, le vesciche cominciano a riempirsi di gas per azione d'un batterio. Allora, la pianta si stacca dal fondo, sale alla superficie ed emette delle radici, dei filamenti che vanno a intrecciarsi con quelli di altre piante del genere. Alla fine, ne risulta una massa compatta. A questo punto, mentre la parte inferiore della pianta continua a crescere, quella superiore muore e, decomponendosi, forma il suolo. Gli uccelli che provengono dalle vecchie isole aggiungono i loro escrementi, e questi portano dei semi che producono gli arbusti e la vegetazione che vedi.» Indicò un gruppo di piante simili a canne di bambù. «Da dove vengono quelle rocce?» Al di là dei bambù c'erano parecchi massi biancastri, del diametro di circa quattro metri. «Vedi, le piante a vesciche che formano le isole rappresentano solo una delle tante migliaia di varietà. Ce n'è una, appunto, che si attacca alle rocce del fondo marino e le trascina alla superficie quando raggiunge una sufficiente spinta di galleggiamento. Allora gli indigeni prendono le rocce, se non sono troppo grosse, e le portano sull'isola: chissà per quale motivo, le pietre bianche attirano l'uccello garzhoo, a cui gli indigeni danno la caccia per ucciderlo o per addomesticarlo.» «E per quanto riguarda l'acqua potabile?» «Questo è un oceano di acqua dolce.» Camminavano in mezzo a una distesa di fronde purpuree a strisce gialle, miste a cespugli alti fino alla cintola e carichi di bacche. Wolff puntò lo sguardo attraverso un varco della vegetazione e vide un immenso arco nero apparire all'orizzonte. Sessanta secondi dopo, l'arco era diventato un cerchio completo, che sempre più saliva in cielo. «La nostra luna» spiegò Vala. «Qui le cose vanno a rovescio. Non c'è sole: la luce viene direttamente da tutto il cielo. Così è la luna a portarci la notte, il buio. Una ben misera specie di notte, ma sempre meglio di niente. Più tardi vedrai il pianeta Appirmatzum. Si trova al centro di questo universo e i cinque pianeti secondari gli ruotano attorno. Potrai vedere anche quelli, tutti neri, che riempiono il cielo come la nostra luna.» Wolff le domandò come mai possedesse così tanti dati intorno alla struttura dell'universo di Urizen. Lei rispose che era stato Theotormon a fornire
tutte quelle informazioni, anche se non spontaneamente. Theotormon aveva imparato moltissime cose, mentre era prigioniero di Urizen, e non avrebbe voluto comunicarle agli altri, dato che era una bestia invidiosa ed egoista. Ma una volta catturato dai suoi fratelli e cugini, era stato costretto a parlare. «La maggior parte delle cicatrici è già guarita» disse lei. Rideva. Wolff si chiese se Theotormon non avesse, dopotutto, delle buone ragioni per desiderare di ucciderli. E si chiese anche quanto ci fosse di vero in quella storia del trattamento riservato a Theotormon. Prima o poi, decise, avrebbe fatto quattro chiacchiere con lui, naturalmente a distanza di sicurezza. Vala smise di parlare e afferrò un braccio di Wolff, che si preparò a scattare lontano. Per un attimo aveva avuto l'impressione che lei volesse tentare qualche trucco. Ma Vala, imitata da Rintrah, stava solo guardando in alto con espressione allarmata. CAPITOLO III Le piante, alte venti metri, avevano nascosto fino a quel momento l'oggetto nel cielo. Wolff vide una mole larga almeno mezzo chilometro, lunga quattro volte di più e spessa quindici metri, sospesa a una certa altezza dal suolo. Andava alla deriva, proveniente da un punto imprecisato della rosa dei venti. In quel mondo senza sole il nord, il sud, l'est e l'ovest non significavano nulla. «E quella che cos'è?» domandò. «Un'isola che galleggia nell'aria. Svelto, dobbiamo raggiungere il villaggio prima che cominci l'attacco.» Wolff si accodò agli altri. Di tanto in tanto, attraverso il fogliame, guardava l'aeronesus che stava dirigendosi piuttosto rapidamente verso l'estremità opposta dell'isola. Raggiunse Vala e le domandò come facesse quella specie di aerostato ad abbassarsi. Lei rispose che i suoi abitanti, servendosi di opportune valvole, facevano uscire l'idrogeno dalle vesciche giganti. La manovra impegnava quasi tutti gli indigeni, dato che ogni valvola veniva azionata a mano. Perciò, durante una discesa, erano tutti occupati a badare alla navigazione. «Ma come fanno a dirigerla?» «Le vesciche hanno anche delle aperture laterali. Quando gli abutal vogliono spingere l'isola in una certa direzione, fanno uscire il gas dalle ve-
sciche situate sul lato opposto. Non ottengono una forte spinta, ma sono molto abili. Devono però lottare anche con i venti e perciò non sempre riescono a manovrare con efficacia. Gli abutal ci hanno già attaccati due volte, e tutt'e due le volte hanno mancato la nostra isola. Per rallentare avevano calato delle ancore, grosse pietre legate all'estremità di una gomena. Tuttavia gli attaccanti non riuscirono ad arrestarsi proprio sopra all'isola. Dovettero accontentarsi di un attacco dal mare, e fecero fiasco.» Si interruppe, poi esclamò: «Oh, no! Quelli devono essere gli Ilmawir. Che Los ci aiuti!» In un primo momento, Wolff pensò che i cinquanta apparecchi lanciati dall'isola volante fossero dei piccoli aeroplani. Poi, osservandoli scivolare d'ala in un lungo arco per atterrare contro vento, si rese conto che erano alianti. Le ali, lunghe quindici metri e dai bordi frastagliati, erano costruite con un materiale chiaro e lucido; sul lato inferiore era dipinto un occhio sormontato da due spade incrociate. La fusoliera era un semplice graticcio nudo, dipinto di rosso, come il timone e gli alettoni. Il pilota stava seduto in una specie di cesto di vimini, vicino all'attaccatura dell'ala. L'apparecchio aveva un muso arrotondato, con un lungo corno che si protendeva per una lunghezza di circa sette metri. Come il corno di un narvalo, pensò Wolff. In seguito, scoprì che il corno proveniva proprio da un pesce gigantesco. Un aliante li sorvolò, seguendo una traiettoria che l'avrebbe fatto atterrare davanti a loro. Wolff poté dare un'occhiata al pilota. Aveva i capelli rossi, ritti per almeno trenta centimetri sopra la testa e lucidi di brillantina. Si era dipinto il viso come un pellerossa, con cerchi verdi e scarlatti, e strisce nere gli scendevano al collo attraverso le spalle. «Il villaggio è a circa un chilometro da qui» disse Vala. «All'estremità dell'isola.» Wolff si domandava perché mai fosse così preoccupata. Che cosa poteva importare a un Signore di quel che accadeva agli altri? Vala gli spiegò che se gli Ilmawir fossero riusciti a sbarcare, avrebbero sterminato tutti gli esseri umani dell'isola, per poi installarvi una colonia, in modo da liberarsi della loro popolazione in soprannumero. L'isola non era completamente piatta: qua e là si ergevano delle collinette, formate dalla crescita irregolare delle vesciche. Wolff salì in cima a una di queste alture e guardò al di sopra del fogliame. L'abuta, a cinquanta metri di altezza, stava fermandosi a poco a poco e puntava direttamente sul
villaggio, un gruppo di circa cento capanne di frasche, a forma d'arnia. Un muro alto sei metri circondava il villaggio. Pareva costruito di pietre, di bambù, di frasche e di certi pali grigio opaco, forse le ossa di qualche colossale creatura marina. Uomini e donne, armati di archi e di lance, stazionavano dietro il muro. Altri gruppi erano fuori, allo scoperto. Oltre il villaggio si estendevano dei moli di bambù, dove erano ormeggiati battelli di varie forme e dimensioni. Il lato inferiore dell'isola volante era un folto groviglio di spesse radici. C'erano però delle aperture, e da parecchi di questi boccaporti vennero calate delle grosse pietre, all'estremità di gomene di fibra vegetale. Le pietre, bianche come il gesso e discoidali, trascinate in avanti dal moto dell'isola aerea, scivolarono sul mare come piastrelle, poi colpirono il terreno. Alcune gomene si agganciarono sotto i moli. Vennero lanciate altre ancore, che andarono a colpire le mura del villaggio. Alcune si incastrarono in quel groviglio di materiali ammassati, altre rimbalzarono all'interno, sul terreno privo d'erba, e investirono le pareti di alcune capanne, facendole crollare. Nel frattempo, dai boccaporti scendeva una pioggia di frecce, di pietre e di oggetti fiammeggianti. Questi ultimi esplosero in una densa nube di fumo nero. Alcuni isolani caddero, mentre diverse capanne prendevano fuoco. Comunque, i difensori non si dimostrarono privi di risorse. Da un grande edificio centrale uscì un gruppo di uomini e donne, muniti di strani oggetti infiammati. I proiettili incendiari si innalzarono rapidamente verso la parte sottostante dell'isola aerea, si infilarono nel groviglio di radici ed esplosero diffondendo le fiamme tra la vegetazione circostante. Il tetto di una capanna si sollevò e cadde di lato, come il coperchio d'una botola. Le pareti si aprirono ordinatamente verso l'esterno e toccarono il terreno formando una figura a petali. Al centro della capanna c'era una catapulta, o meglio un arco gigantesco con una freccia ricavata dal corno dello stesso animale che forniva l'asta per il muso degli alianti. Alla freccia erano attaccate un buon numero di vesciche in fiamme. Poi l'arco scattò e anche la freccia incendiaria andò a seppellirsi profondamente nella parte inferiore dell'isola aerea. I serventi dell'arma cominciarono a rimettere in tensione la corda. Un uomo si lasciò cadere da un boccaporto dell'isola, subito seguito da altri dieci. Calarono come appesi a un paracadute: la loro discesa era con-
trollata da un gruppo di vesciche legate a un basto che portavano agganciato al collo e alle spalle. Una freccia colpì il primo abutal, un attimo prima che toccasse il suolo. Dei dieci che lo seguivano, altri tre furono colpiti ancora in aria. I sopravvissuti atterrarono incolumi a pochi passi dall'enorme arco e subito si liberarono dei basti, che risalirono sotto la spinta delle vesciche, ma furono immediatamente circondati. Combatterono con estrema ferocia: uno riuscì quasi a raggiungere l'arco, ma finì trafitto da due lance. Intanto l'aeroisola, sospinta dal vento, stava oltrepassando il villaggio: erano state calate altre ancore, ma solo poche avevano fatto presa nel groviglio delle mura, senza spezzarsi. Allora dall'alto vennero giù delle funi ed enormi lacci si strinsero intorno ai fusti delle frasche. Trattenuta per l'estremità inferiore, l'abuta ruotò e la sua mole immensa si pose di traverso su quel lembo dell'isola. Nel frattempo, gli alianti erano atterrati, anche se non tutti in bello stile. A causa della fitta vegetazione, gli apparecchi erano stati costretti a scendere direttamente in mezzo alle frasche. Alcuni si erano capovolti, altri avevano potato diversi rami prima di impigliarsi e fermarsi, altri ancora avevano evitato la vegetazione alta, ma erano andati a fracassarsi contro i folti e tenaci cespugli. Da dove si trovava, Wolff poté vedere almeno venti piloti che strisciavano incolumi attraverso la giungla. E dovevano essercene altri. Si sentì chiamare per nome: Vala era tornata indietro ed era ai piedi dell'altura. «Cosa intendi fare?» gli chiese irosamente. «Devi assumerti la tua parte anche tu, Jadawin, ti piaccia o meno. Gli abutal ti uccideranno.» «Forse hai ragione» replicò lui, scendendo dall'altura. «Volevo solo farmi un'idea di quello che stava succedendo. Non mi andava di gettarmi in mezzo alla mischia senza sapere dove fosse il nemico, senza una visione di come procedesse la battaglia...» «Sempre il solito Jadawin, prudente e astuto» disse lei. «Bene, meglio così. Ancora una volta debbo notare che non sei uno sciocco. Però tu hai bisogno di me quanto io di te, credimi. Non ce la faresti mai da solo.» Wolff la seguì e poco dopo raggiunsero Rintrah. Questi si teneva accovacciato sotto una frasca e quando li vide fece loro segno di far silenzio. Appena gli furono accanto, Wolff guardò nella direzione che Rintrah stava indicando. Cinque guerrieri abutal erano fermi a meno di venti metri da loro. La
coda d'un aliante fracassato spuntava da dietro un cespuglio, alla loro sinistra. Erano armati di piccoli scudi rotondi d'osso e di giavellotti con la punta di bambù. Due di loro avevano anche arco e frecce. Gli archi erano di una sostanza simile al corno, corti e ricurvi, costituiti di due parti unite al centro da una guaina ossea. I guerrieri erano troppo distanti perché lui potesse ascoltare i loro discorsi. «Qual è la portata del tuo lanciaraggi?» chiese Vala. «Uccide fino a venti metri. Ustioni di terzo grado per i successivi dieci metri, poi ustioni di secondo grado, leggere bruciacchiature, e infine nessun effetto.» «Allora sfrutta questa occasione. Spazzali via. Puoi ucciderli tutti e cinque con una sola raffica, prima ancora che si accorgano di quel che succede.» Wolff sospirò. C'era stato un tempo in cui non avrebbe certo avuto bisogno dell'incitamento di Vala: li avrebbe già uccisi e poi avrebbe fatto forse altrettanto con Vala e Rintrah. Ma lui non era più Jadawin: era Robert Wolff. Vala non poteva capirlo e forse aveva interpretato la sua esitazione come debolezza. Lui non voleva uccidere. Dubitava però che ci fosse un altro modo per costringere gli abutal a desistere dal loro attacco. Vala conosceva quella gente e probabilmente quello che gli aveva detto corrispondeva al vero. Perciò, volente o nolente, doveva partecipare al massacro. Un urlo si levò dietro di loro. Wolff rotolò su se stesso, mettendosi a sedere, e vide altri tre guerrieri abutal distanti appena una dozzina di metri. Erano sbucati da dietro il fogliame e stavano venendo alla carica, con i giavellotti alzati. Wolff si mise in posizione per fronteggiarli. Poi premette la piastra d'attivazione del lanciaraggi, situata sul lato inferiore della canna lunga circa un metro. Un abbagliante raggio bianco, sottile come una matita, segnò il ventre di tutti e tre i guerrieri. Tutt'intorno la vegetazione si mise a fumare. I tre caddero in avanti, lasciandosi sfuggire di mano i giavellotti, poi scivolarono sull'erba a faccia in giù. Wolff si mise in ginocchio e si girò per far fronte agli altri cinque. I due arcieri erano fermi e stavano prendendo la mira. Wolff abbatté prima loro e poi gli altri tre. Rimase accovacciato, guardandosi intorno alla ricerca di altri abutal eventualmente richiamati dalle grida. C'era il vento tra le fronde, e si udivano soltanto le esplosioni e le grida smorzate della battaglia al villaggio. L'odore di carne bruciata gli dava la nausea. Si alzò e andò a rigirare i
cadaveri. Ogni controllo era superfluo: impossibile che qualcuno fosse ancora vivo. Ma Wolff voleva esserne ben certo. Il raggio li aveva quasi tagliati a metà. La pelle appariva increspata lungo le incisioni, coperte di un leggero velo di sangue: non ce n'era molto, poiché l'energia del raggio, assorbita dai corpi, aveva bruciato i polmoni e gli intestini. Le viscere, contraendosi, avevano espulso il loro contenuto. Vala fissò il lanciaraggi. Era molto curiosa, ma capiva che era meglio non chiedere a Wolff di lasciarglielo maneggiare. «È a due posizioni» disse. «Qual è il suo effetto a piena potenza?» «Può perforare una lastra d'acciaio spessa tre metri» rispose lui. «Ma la carica non durerebbe più di sessanta secondi. A mezza potenza, invece, può agire per dieci minuti prima di esaurire la carica.» Wolff sorrise, quando lei gli guardò la tasca. Non aveva alcuna intenzione di dirle quante erano le cariche di scorta. «Che ne è stato delle vostre armi?» domandò. Vala non trattenne un'imprecazione. «Ci furono rubate mentre dormivamo. Non so se sia stato Urizen o quel lumacone di Theotormon.» Wolff s'incamminò verso il luogo della battaglia e gli altri due lo seguirono dappresso. L'abuta, in alto, gettava su di loro una pallida ombra che presto sarebbe divenuta più profonda, non appena la luna avesse coperto quella faccia del pianeta portando con sé la notte. Gli Ilmawir, uomini e donne, stavano ancora calandosi dai boccaporti. Alcuni di loro, sostenuti da vesciche in gran numero, cercavano di domare le fiamme. Usavano strani oggetti sfaccettati. Li premevano, e quelli schizzavano acqua. «Sono creature marine, vive» spiegò Vala. «Sono anfibie: a terra procedono emettendo getti d'acqua e rotolando sulla spinta.» Wolff commutò il lanciaraggi a piena potenza. Ogni volta che passava vicino a una fune legata a un tronco o a un'ancora di pietra, tagliava il cavo. Per tre volte incontrò gli abutal e allora riportò il lanciaraggi sulla posizione di mezza potenza. Quando fu a pochi metri dal villaggio, aveva reciso quaranta cavi e ucciso ventidue abutal, tra uomini e donne. «Una bella fortuna per noi che tu sia arrivato proprio ora» disse Vala. «Senza il tuo aiuto, non credo che avremmo potuto respingerli.» Wolff scrollò le spalle. Espulse la batteria dal lanciaraggi e fece scivolare nella fessura un altro di quei piccoli cilindri. Gliene erano rimaste sei e, se andava avanti così, sarebbero finite assai presto. Ma non c'era niente che lui potesse fare per risparmiarle. Il villaggio era circondato, dal lato terra, da circa novanta abutal. A
quanto sembrava, quelli che si erano calati all'interno del villaggio erano stati spazzati via tutti; d'altra parte, gli abitanti del villaggio erano notevolmente impegnati a spegnere gli incendi. Comunque, non dovevano preoccuparsi di attacchi diretti dall'alto. L'isola degli Ilmawir aveva risentito dei tagli di tanti cavi: era scivolata sottovento per mezzo chilometro, e solo il lancio di un altro centinaio di gomene e di ancore aveva impedito che abbandonasse del tutto l'isola di superficie. Wolff indirizzò il raggio contro un gruppo di ufficiali, in piedi sull'unica altura vicina al villaggio. Gli altri abutal si accorsero subito di quel che stava succedendo. Trenta o quaranta di loro abbandonarono l'assedio per circondare la collina. La zona era irta di frecce e di lance. I Signori erano sottoposti a un tiro concentrato, ma erano ripartiti da un gruppo di quattro idoli di pietra bianca, sull'altura. Vala disse: «Adesso sono sulla difensiva. Se ancora non lo sanno, se ne accorgeranno presto. E questo può farci comodo. Forse...» S'interruppe e rimase silenziosa per un attimo. Wolff colpì tre uomini che stavano correndo verso un avvallamento sul fianco della collina. «Forse cosa?» domandò. «Il nostro beneamato padre ci ha lasciato un messaggio, su quest'isola. Ci ha suggerito qualcosa di ciò che dovremo fare se vogliamo avere una speranza di penetrare nel suo castello. Ovviamente, dobbiamo trovare le porte che ci conducano là, e qui porte non ce ne sono. Pare che ce ne sia un paio su un'altra isola, ma Urizen non ha detto dove sia. Dovremo cercarcela da soli, e così stavo pensando...» Un ruggito sorse dalle schiere abutal e le prime file si lanciarono su per l'altura. Gli arcieri mantennero un tipo di copertura di almeno trenta frecce per salva, mentre Vala e Rintrah si acquattavano al riparo di un idolo, come Wolff aveva detto loro di fare. Per quanto gli rincrescesse di consumare le batterie, si trovava costretto a farlo. Mise il lanciaraggi a piena potenza e sparò sulla prima fila di attaccanti. Del fumo si levò dalla vegetazione. E anche la carne fumava. Gli arcieri avevano dovuto esporsi per tirare bene, e così anche la maggior parte di loro cadde. Alcune frecce tintinnarono intorno a Wolff, rimbalzando sugli idoli di pietra. Una gli sfiorò la spalla e un'altra, ribattuta dalla pietra, gli passò tra le gambe. Poi, la pioggia di frecce cessò. Gli abutal della seconda ondata, vedendo quelli davanti a loro abbattersi al suolo e sentendo l'odore di carne bruciata, esitavano. Wolff rivolse l'arma contro di loro e quelli fuggirono
nella giungla. «Stavi pensando?» domandò. «Potremo continuare a cercare per un migliaio di anni, usando questa isola come nave, e non trovare mai l'isola su cui sono le porte. Forse questa è proprio l'idea di nostro padre. Gli farebbe piacere vederci intenti a una futile ricerca, in preda alla disperazione. E gioirebbe degli attriti e dei delitti, inevitabili se restiamo tutti insieme così a lungo. Ma se fossimo su un'abuta, che ci permettesse non solo di viaggiare più velocemente, ma anche di vedere più lontano, dalla sua altezza...» «È una buona idea. Ma come convincere gli abutal a prenderci con loro? E come essere sicuri che non ci si rivolteranno contro alla prima occasione?» «Hai dimenticato molte cose della tua sorellina. Come puoi proprio tu, di tutti quelli che mi hanno amato, non ricordare quanto so essere persuasiva?» Si alzò e lanciò un grido verso la giungla apparentemente deserta. Passarono alcuni istanti senza che ricevesse risposta. Lei ripeté il richiamo, e allora un ufficiale uscì da dietro una frasca. Era un uomo sulla trentina, alto e robusto e di bell'aspetto, dietro i vistosi cerchi che portava dipinti sul volto. Oltre alle striscie sul collo e sulle spalle, aveva il petto decorato con l'immagine di un uccello marino: era un iiphtarz e stava a indicare il comandante d'una squadra di alianti. Dietro di lui veniva sua moglie, vestita di un corto sottanino di piume rosse e azzurre. Intorno al collo portava una collana di dita. Il suo viso era dipinto a losanghe verdi e bianche, aveva anche lei un iiphtarz disegnato in mezzo ai seni, e tre cerchi concentrici, nero, giallo e cremisi, intorno all'ombelico. Come era costume presso gli abutal, accompagnava il marito in battaglia. Se lui moriva, era suo dovere attaccare i suoi uccisori finché non li avesse ammazzati o non fosse morta lei stessa. I due avanzarono su per l'altura finché Wolff non intimò loro di fermarsi. Vala cominciò a parlare e l'uomo a sorridere in risposta. Sua moglie però, per tutta la durata della conversazione, continuò a osservare Vala con sguardo torvo e sospettosamente attento. CAPITOLO IV Dugarnn, l'ufficiale, cedette solo dopo che fu raggiunto l'accordo su determinate condizioni. Si rifiutava di lasciare l'isola senza aver ottenuto al-
meno parte di ciò che gli Ilmawir si erano proposti di razziare quando avevano attaccato. Vala non esitò a promettergli come bottino di guerra il pollame e gli animali domestici degli indigeni (topi di mare e piccole foche). Inoltre, gli abutal potevano mutilare e scotennare i cadaveri dei loro nemici. Quando gli abitanti dell'isola - i Friiqan - seppero le condizioni, protestarono fieramente. Allora Wolff parlò ai loro capi. Un rifiuto significava la continuazione della guerra, solo che stavolta lui non avrebbe preso le parti di nessuno. A denti stretti, i Friiqan acconsentirono. Gli abutal cominciarono a spogliare gli abitanti del villaggio di tutte le cose di valore. Gli altri Signori, Luvah, Enion, Ariston, Tharmas e Palamabron, al momento dell'attacco erano nel villaggio e nulla sapevano di Wolff. Quando lo videro, rimasero molto sorpresi e non poterono nascondere la loro invidia per il suo lanciaraggi. Soltanto Luvah parve lieto di vederlo. Era il più piccolo di tutti, con i capelli biondo-rame e i lineamenti delicati, a parte la bocca che era larga e tumida. Aveva gli occhi d'un intenso turchino e una spruzzata di lentiggini a cavallo del naso e sulle guance. Luvah gettò le braccia al collo di Wolff, lo abbracciò e persino pianse. Wolff si lasciò abbracciare, Luvah non era tipo da cogliere l'occasione di pugnalarlo a tradimento. Da bambini, erano sempre stati vicini, e avevano molto in comune, essendo entrambi pieni di fantasia e inclini a lasciare che gli altri pensassero e agissero come volevano. Neanche Luvah aveva mai indulto al mortale gioco dei Signori, che consisteva nel tentare di spodestare o uccidere gli altri. Wolff gli domandò: «Come ha fatto nostro padre ad attirarti fuori del tuo mondo, dove vivevi felice e sicuro?» Luvah sorrise con aria maliziosa. «Potrei domandarti la stessa cosa. Forse Urizen ha usato lo stesso trucco, sia con me che con te. Mi mandò un messaggero, un esacolo incandescente, il quale dichiarò che tu l'avevi inviato. Insomma, tu volevi ch'io venissi a trovarti: ti sentivi solo e desideravi parlare di nuovo con l'unico membro della famiglia che non voleva ucciderti. Così, dopo aver preso quelle che credevo fossero buone precauzioni, lasciai il mio universo e attraversai la porta convinto di arrivare a te. Invece, sono finito su quest'isola.» Wolff scosse la testa. «Sei sempre stato troppo impulsivo, fratello, e troppo avventato. Ad ogni modo, mi lusinga il fatto che tu abbia rinunciato
alla tua sicurezza per il desiderio di farmi visita. Solo...» «Capisco, la prudenza non è mai troppa... Avrei dovuto assicurarmi che il mittente dell'esacolo fossi davvero tu. Ma vedi, proprio nel momento in cui l'esacolo si presentò, io stavo pensando a te con nostalgia. Anche noi Signori abbiamo le nostre debolezze, lo sai.» Wolff rimase in silenzio per qualche istante, osservando i trionfanti Ilmawir che si portavano via polli, animali domestici, collane e anelli di giada marina. Alla fine disse: «Siamo nella situazione più disperata che ci sia mai toccato di affrontare, Luvah. Il pericolo maggiore viene naturalmente da nostro padre, ma coloro dai quali dobbiamo in gran parte dipendere sono quasi altrettanto pericolosi. Hanno dato la loro parola d'onore, tuttavia bisognerà tenerli sempre d'occhio. Perciò, ti propongo di aiutarci l'un l'altro. Quando io dormirò, tu terrai gli occhi bene aperti e quando dormirai tu, starò io di guardia.» Luvah sorrise, ancora con una punta di malizia. «E quando dormirai, lo farai con un occhio solo, per potermi sorvegliare con l'altro. Non è così, fratello?» Wolff si accigliò e Luvah aggiunse precipitosamente: «Non andare in collera, Jadawin. Dopotutto, tu e io siamo riusciti a sopravvivere così a lungo proprio perché non ci siamo mai fidati del tutto. E con le migliori ragioni. Com'è triste pensare che tutti noi, fratelli e cugini, un tempo vivevamo, studiavamo e giocavamo insieme con innocenza e persino con amore, mentre oggi siamo pronti ad ammazzarci a vicenda come lupi affamati. E perché, mi domando? È semplice, te lo dico io: perché i Signori sono pazzi. Pensano di essere degli dèi, mentre invece sono sempre e solo degli esseri umani, non migliori in realtà di questi selvaggi. Hanno ereditato un immenso potere, una scienza e una tecnologia, che però usano senza comprenderne i princìpi. Sono come bimbi malvagi in possesso di giocattoli che possono creare e distruggere interi mondi. Gli uomini grandi e saggi che inventarono i giocattoli sono ormai morti da lungo tempo, e il sapere e la scienza sono estinti: quanto c'è di buono nei poteri cosmici è distorto a beneficio dei Signori e soltanto dei Signori.» «Lo so bene, fratello» disse Wolff. «Lo so forse anche meglio di te, dato che un tempo io ero egoista e crudele come gli altri. Ma sono passato attraverso un'esperienza di cui una volta o l'altra ti parlerò, qualcosa che mi ha trasformato in un essere umano... spero, in un essere che solo tu sei capace di apprezzare.» Gli Ilmawir avevano calato dall'abuta delle grandi vesciche simili a pal-
loni e munite di zavorra. Vi assicurarono il bottino, che risalì fluttuando lungo le funi di guida fino ai boccaporti. Anche gli alianti che valeva la pena di riparare furono riportati sull'abuta. Infine, quando il saccheggio a danno dei Friiqan ebbe termine, gli abutal tornarono a bordo. Wolff decollò servendosi d'una imbracatura attaccata a una coppia di vesciche. Teneva pronto il lanciaraggi: gli abutal potevano approfittare di quella sua posizione un po' scomoda per tentare di ucciderlo, anche con una certa probabilità di successo. Comunque, non accadde nulla. Passò attraverso un boccaporto e fu afferrato da due donne sorridenti, che lo trascinarono da parte e lo liberarono dell'imbracatura. Le vesciche vennero riposte all'interno di una grande cavità oscura che fungeva da deposito. Quando tutti i Signori furono a bordo, Dugarnn e la sua donna, Sythaz, li guidarono su per una scala a chiocciola, fino alla parte superiore dell'isola. La scala era costruita con un materiale leggero, sottile come carta, ma robusto: il guscio indurito delle vesciche. Sull'abuta, dove il peso era un fattore critico, ogni cosa doveva essere leggera il più possibile. Questa preoccupazione aveva influito anche sul linguaggio, come più tardi scoprì Wolff. La parlata, sebbene differisse poco nel lessico base dalla lingua madre, aveva subito alcuni cambiamenti nella pronuncia. Inoltre, erano nate nuove parole che si riferivano al peso, alla forma, alla flessibilità, alle dimensioni e alle direzioni verticale e orizzontale, parole che venivano usate come vocaboli classificatori, in un senso sconosciuto ai progenitori della lingua. In pratica, nessun sostantivo e solo pochi aggettivi potevano essere usati senza il relativo classificatore. In più, naturalmente, era sorta una dettagliata terminologia nautica e di navigazione aerea. La tromba delle scale era un pozzo scavato nel fitto groviglio delle radici. Superati gli ultimi scalini, Wolff uscì in una specie di anfiteatro. Il suolo era ricoperto di larghe strisce calcaree, ricavate dal guscio delle vesciche; altre enormi vesciche, tenute insieme dalle radici, formavano le pareti degradanti. Su quel vasto ponte c'era un'unica costruzione, un capannone dal tetto di paglia, aperto da un lato: l'edificio sociale e ricreativo. All'interno, c'era una fila di pietre piatte, su cui ogni famiglia cuoceva i propn pasti. Polli e topi di mare scorazzavano in libertà e foche da macello sguazzavano in una piscina profonda pochi centimetri, quasi al centro del capannone. Sythaz, la moglie del comandante, fece gli onori di casa. Gli alloggi erano dei semplici cubicoli scavati nelle radici, col pavimento e le pareti rico-
perti dei soliti gusci. Ogni pavimento aveva un'apertura, da cui si poteva scendere con una scaletta portatile. La luce proveniva unicamente dal boccaporto o da piccole lampade a olio di pesce. C'era spazio appena sufficiente per muovere due passi in una direzione e due nell'altra; i letti erano delle cavità a forma di bara, incassate nelle pareti, con materassi di pelle di foca imbottiti di piume. La maggior parte delle attività, diurne e notturne, si svolgeva sul «ponte di batteria». Non c'era assolutamente alcuna intimità, salvo che nell'alloggio del capitano. Wolff si era aspettato che gli abutal levassero le ancore e partissero subito. Dugarnn, invece, gli disse che bisognava attendere. Per dirne una, prima di salpare per il mare aperto, era necessario che l'isola raggiungesse una maggiore altitudine. I batteri gasogeni lavoravano molto velocemente, quando venivano ben nutriti, ma ci sarebbero voluti lo stesso altri due giorni per riempire le vesciche a sufficienza. Solo allora Dugarnn avrebbe sciolto gli ormeggi. In secondo luogo, l'invasione era costata agli abutal un numero relativamente impressionante di perdite. Non c'era quindi gente bastevole per manovrare l'isola in modo efficace. Dugarnn propose qualcosa che gli abutal da lungo tempo non avevano avuto bisogno di fare: ovviare alla scarsità di equipaggio con un reclutamento di Friiqan. Dopo essersi sincerato che i suoi «ospiti» potessero disporre di uno spazio per acquartierarsi, Dugarnn scese di nuovo alla superficie. Wolff, curioso, lo accompagnò e Vala insistette per andare con lui, forse per soddisfare la propria curiosità, o forse soltanto per tenerlo d'occhio. Probabilmente per entrambi i motivi. Dugarnn avanzò la sua richiesta. Il capo dei Friiqan, piuttosto depresso, agitò una mano per indicare che non gli importava nulla di quanto potesse accadere. Allora Dugarnn radunò i superstiti e fece la sua offerta. Con sorpresa di Wolff, i volontari furono numerosi. Vala gli spiegò che i due popoli erano nemici irriducibili, ma che ormai í Friiqan avevano perso la faccia. Inoltre, molti giovani consideravano romantica una vita aerea. Dugarnn passò in rassegna i volontari e scelse quelli che si erano distinti in battaglia. Prese più donne che uomini, e in particolare quelle con bambini. Seguì poi una cerimonia di iniziazione a base di torture rituali, consistenti nel procurare al candidato o alla candidata delle leggere bruciature
all'inguine. Normalmente, un nemico catturato veniva torturato a morte, a meno che non dimostrasse un coraggio e uno stoicismo eccezionali, nel qual caso poteva essere accolto nella tribù. Ma in casi d'emergenza, come ora, la tortura era solo simbolica. In seguito, una volta disancorata l'isola, gli iniziati avrebbero partecipato a un'altra cerimonia, per mescolare il loro sangue con quello di un Ilmawir. Ciò avrebbe impedito una vendetta del popolo di superficie, dato che la fratellanza del sangue era sacra. «C'è anche un'altra ragione, oltre a quella di ripristinare l'equipaggio» disse Vala. «Gli abutal... anzi, sia gli isolani di superficie che quelli aerei... hanno la tendenza di incrociarsi tra parenti. Per evitarlo, i prigionieri vengono di tanto in tanto adottati dalla tribù.» Era molto affettuosa e gli si incollava addosso ogni momento. Aveva persino ripreso a chiamarlo wivkrath, termine che presso i Signori significava «tesoro». Gli si appoggiava contro tutte le volte che poteva e ad un certo punto gli diede anche un leggero bacio sulla guancia. Ma Wolff non rispondeva: non aveva dimenticato che cinquecento anni prima, quando erano amanti, lei aveva tentato di ucciderlo. Wolff volle tornare nella zona in cui si apriva la porta attraverso la quale era pervenuto sull'isola. Vala lo seguì. Alle sue domande, Wolff rispose che voleva parlare ancora una volta con Theotormon. «Quel lumacone marino! Che cosa mai puoi volere da lui?» «Informazioni, forse.» Arrivarono alla porta, ma Theotormon non era in vista. Wolff s'incamminò lungo il bordo dell'isola, notando che qua e là il terreno affondava leggermente sotto il suo peso. Evidentemente, le vesciche non erano molto fitte in quel punto. Wolff domandò: «Quante isole come questa ci sono sul pianeta, e qual è la loro massima estensione?» «Non lo so. Da che siamo qui, ne abbiamo avvistate due, ma i Friiqan sostengono che ce ne sono molte di più. Parlano anche della Madre delle Isole, un'isola relativamente enorme che non hanno mai visto, ma di cui hanno sentito parlare. Ci sono anche molte isole aeree, ma nessuna è più grande di quella degli abutal. Ma perché vuoi parlare di queste cose così noiose, quando potremmo parlare di noi stessi?» «Ad esempio?» Lei gli si mise di fronte, così vicina che le sue labbra sollevate gli sfio-
ravano il mento. «Non possiamo dimenticare quello che è accaduto? Dopotutto, è stato tanto tempo fa, quando eravamo più giovani e quindi non così saggi.» «Dubito che tu sia cambiata» disse lui. Lei sorrise. «Come fai a saperlo? Lascia che ti provi quanto sono diversa.» Lo circondò con le braccia e gli pose la testa sul petto. «Diversa in ogni cosa, eccetto una. Un tempo ti amavo ed ora che ti ho rivisto mi sono resa conto che in realtà non ho mai smesso di amarti.» «Anche quando tentasti di assassinarmi nel mio letto?» «Oh, quello! Tesoro, credevo che te la intendessi con quell'odiosa di Alagraada. Ero convinta che tu mi stessi tradendo. Puoi biasimarmi perché divenni pazza di gelosia? Sai che sono terribilmente possessiva.» «Lo so fin troppo bene.» La spinse via e continuò: «Anche da bambina eri egoista. Tutti i Signori sono egoisti, ma pochi al livello da te raggiunto. Non riesco ancora a rendermi conto di come abbia potuto amarti.» «Tu, odioso individuo!» gridò lei. «Mi hai amato perché sono Vala, ecco tutto! Solo perché sono Vala.» Lui scosse la testa. «Può essere stato vero un tempo. Ma ora no. Né mai lo sarà di nuovo.» «Ami un'altra! La conosco? Non certo Anana, non certo la mia stupida sorella assassina.» «No» disse lui. «Anana è assassina, ma non è stupida. Non è caduta nella trappola di Urizen. Non l'ho vista qui. Oppure le è accaduto qualcosa? È morta?» Vala scrollò le spalle e si voltò. «Non ho sue notizie da trecento anni. Ma la tua preoccupazione dimostra che ti importa di lei. Anana! Chi l'avrebbe mai pensato!» Wolff non cercò di farle cambiare opinione. Non reputava saggio fare il nome di Chryseis, anche se forse Vala non aveva mai avuto contatti con lei. Non serviva a niente correre dei rischi inutili. Vala si girò di nuovo verso di luì e domandò: «Che ne è di quella ragazza della Terra?» «Quale ragazza della Terra?» disse lui, preso alla sprovvista da tanta malignità. «Quale ragazza della Terra?» lo scimmiottò lei. «Intendo quella Chryseis, la mortale che hai portato dalla Terra circa duemila e cinquecento anni fa. Da una regione che gli abitanti della Terra chiamano Troia, o qualcosa del genere. L'hai resa immortale e ne hai fatto la tua mantenuta.»
«Insieme a qualche migliaio di altre» disse lui. «Perché sei andata a scegliere proprio lei?» «Oh, lo so io, lo so. Sei diventato un degenerato, fratello WolffJadawin.» «E così, conosci il mio nome terrestre, il nome con cui preferisco essere chiamato. E che altro sai di me? E come?» «Sui Signori ho sempre cercato di ottenere più informazioni che fosse possibile» rispose lei. «Ecco perché sono rimasta viva così a lungo.» «Questo spiega perché tanti altri sono morti.» Lei sorrise, mentre la voce le tornava nuovamente dolce. «Non c'è motivo che tu attacchi briga con me. Davvero non possiamo dimenticare il passato?» «E chi attacca briga? No, non c'è motivo di ricordare il passato, purché sia veramente passato. Ma i Signori non ricordano mai un favore, né dimenticano un insulto. E finché non mi avrai convinto del contrario, ti considererò sempre la stessa Vala di un tempo. Altrettanto bella, forse ancora più bella, ma sempre con un'anima nera e corrotta.» Vala tentò di sorridere. «Sei sempre stato troppo franco. Forse questa è una delle ragioni per cui ti ho amato tanto. E tu eri più uomo degli altri. Sei stato il più grandioso dei miei amanti.» Si aspettava che lui le restituisse il complimento. Invece, Wolff disse: «L'amore è ciò che fa un amante. Io ti ho amata, un tempo. Un tempo.» Si allontanò da lei lungo la riva, guardandosi indietro di tanto in tanto. Vala lo seguiva a venti passi di distanza. Ogni tanto il terreno affondava sotto i suoi piedi. Si fermò, per permetterle di raggiungerlo, e disse: «Devono esserci molte caverne, sul fondo. Come si può chiamare fuori Theotormon?» «Non si può. Ci sono molte caverne, è vero. A volte, un intero gruppo di vesciche muore, o per malattia, o di vecchiaia, o perché vengono mangiate da qualche pesce che le trova di suo gusto. In questo modo si formano delle caverne, anche se dopo un po' vengono riempite da nuove crescite.» Wolff mise da parte l'informazione, in vista di un possibile uso futuro. Se le cose si fossero messe troppo male, avrebbe sempre potuto trovare un rifugio sotto l'isola. Vala doveva aver indovinato che cosa lui stava pensando (una facoltà che quando stavano insieme aveva trovato irritante) perché disse: «Non andrai mai là sotto. L'acqua pullula di mangia-uomini.» «E come fa Theotormon a sopravvivere?» «Non lo so. Forse è troppo forte e veloce, per i pesci. Dopotutto, è stato
adattato a quel genere di vita... se la chiami vita.» Wolff decise d'interrompere la ricerca di Theotormon. Si diresse verso la giungla, con Vala che lo seguiva a ridosso. Ormai, le permetteva di stargli alle spalle: aveva troppo bisogno di lui per tentare di ucciderlo. Aveva percorso soltanto pochi metri, quando qualcosa lo colpì alle spalle e lo gettò a terra. Subito pensò che lei gli fosse saltata addosso. Rotolò lontano, tentando nello stesso tempo di estrarre il lanciaraggi dalla fondina. Vide allora che Vala gli era stata spinta addosso da qualcun altro: l'enorme, lucido corpo umido di Theotormon gli stava volando incontro. L'imponente massa di carne atterrò di piatto sopra il corpo di lui. L'urto di duecento chili gli mozzò il fiato in gola. Subito dopo, Theotormon gli stava seduto sopra e lo colpiva selvaggiamente al volto con le pinne. Il primo colpo lo ridusse alla semi-incoscienza; il secondo lo fece piombare nell'oscurità. CAPITOLO V Soltanto per pochi istanti. Forse, in quel brevissimo lasso di tempo non aveva del tutto perduto i sensi. Infatti, in qualche modo le sue braccia erano sgusciate fuori da sotto quella mole che lo schiacciava. Aveva istintivamente afferrato le pinne di Theotormon e sebbene fossero viscide, era riuscito a mantenere la presa. Riguadagnò la piena coscienza e allora cominciò a torcere le pinne con tutta la forza di cui disponeva. Theotormon strillò di dolore ed ebbe un sobbalzo. Era abbastanza per Wolff, che fece forza contro quel ventre rigonfio e si liberò parzialmente. La sua gamba destra era completamente libera. Wolff riuscì a piegarla, e scalciò. Questa Volta fu Theotormon a restare senza fiato. Wolff si tirò su e lasciò partire un altro calcio violentissimo, con la scarpa indirizzata verso la parte più debole del mostro, la testa. Theotormon, colpito in fronte, crollò all'indietro. Wolff lo colpì di nuovo con un calcio alla mascella e poi gli affondò un altro calcio nel ventre. Theotormon giacque disteso, con gli occhi verdi divenuti vitrei e le zampe ripiegate sotto il corpo. Ma non era ancora fuori combattimento e quando Wolff avanzò verso di lui per completare l'opera, Theotormon fece scattare il suo piede gigantesco. Wolff l'afferrò alla caviglia, evitando così di subire l'intero impatto, ma fu respinto indietro. Theotormon si era rialzato. Si rannicchiò e balzò di nuovo. Ma in quel
preciso momento anche Wolff saltò in avanti, con il ginocchio destro sollevato. Colpì Theotormon al mento ed entrambi rotolarono nuovamente a terra. Wolff si rialzò, cercò a tastoni il lanciaraggi, ma s'avvide che non era più nella fondina. Anche suo fratello si rialzò. Si fronteggiarono a una distanza di due metri, respirando entrambi pesantemente, solo allora consci del dolore dei colpi subiti. La forza di Wolff era stata artificialmente raddoppiata e le sue ossa indurite, senza essere rese fragili, perché potessero adattarsi alla nuova forza dei muscoli. Comunque, tutti i Signori venivano sottoposti allo stesso trattamento, cosicché in una lotta corpo a corpo le loro forze conservavano lo stesso rapporto originale. Il corpo di Theotormon era stato rimodellato da Urizen e superava in peso quello di suo fratello di almeno ottanta chili. Ma Urizen, a quanto sembrava, non aveva aggiunto vigoria al nuovo corpo di Theotormon, dato che Wolff era stato in grado di misurarsi così a lungo con lui. Tuttavia il peso significa molto in una lotta e Wolff doveva usare la massima attenzione. Non doveva dare a Theotormon un'altra possibilità di sfruttare quel fattore a lui favorevole. Theotormon, recuperato il fiato, ringhiò: «Ti metterò fuori combattimento un'altra volta, Jadawin. E allora ti porterò in mare, ti trascinerò in una caverna e starò a guardarti intanto che i miei cuccioli ti mangeranno vivo.» Wolff si guardò intorno. Vala stava in disparte e sorrideva con aria strana. Non sprecò tempo né fiato per chiederle aiuto: caricò Theotormon saltando alto in aria e scalciando a piedi uniti. Suo fratello rimase immobile per un secondo, come congelato dall'attacco inatteso. Poi repentinamente si abbassò. Wolff aveva sperato che lo facesse: puntò i piedi in basso, ma Theotormon fu velocissimo. Le scarpe di Wolff gli piombarono duramente sulla schiena, ma vi slittarono sopra e Wolff cadde pattinando su quel dorso umido. Piroettò lontano nello stesso istante in cui colpiva Theotormon. Il mostro si girò e scattò ancora una volta, sperando di sorprendere Wolff steso piatto di schiena. Invece si buscò un altro calcio alla mascella. Questa volta Theotormon non si rialzò. Giaceva al suolo respirando affannosamente, con lo scuro pelame da foca, rosso dal sangue che gli usciva dal labbro rotto, dalla mascella sfregiata e dal naso in poltiglia. A più riprese Wolff lo prese a calci nelle costole, per essere sicuro che rimanesse giù. Vala applaudì e disse: «Bravo. Sei l'uomo che ho amato un tempo... e
che amo tuttora.» «E allora, perché non mi hai aiutato?» domandò lui. «Non ne avevi bisogno. Sapevo che avresti messo fuori combattimento quel sacco di lardo dal cervello di gallina.» Wolff cercò tra l'erba il suo lanciaraggi, ma non riuscì a trovarlo. Vala rimase immobile. Disse: «Perché non hai usato il tuo coltello?» «L'avrei fatto, se fosse stato necessario. Ma lo voglio vivo. Theotormon verrà con noi.» Lei spalancò gli occhi. «E perché, in nome di Los?» «Perché possiede certe capacità che potranno tornarci utili.» Theotormon gemette e si rizzò a sedere. Wolff gli lanciò un'occhiata ma continuò la sua ricerca. Alla fine, disse: «Va bene, Vala. Tiralo fuori.» Vala si frugò sotto la veste e ne trasse il lanciaraggi. «Potrei anche ucciderti.» «Allora fallo, ma non farmi perdere del tempo con minacce oziose. Non mi fai paura.» «D'accordo. Prendilo, allora» disse lei, furiosa. Sollevò il lanciaraggi e per un momento Wolff pensò di essere andato troppo oltre nella provocazione. Dopotutto, i Signori erano orgogliosi, oltremodo orgogliosi, e oltremodo pronti a reagire agli insulti. Invece, vide Vala puntare accuratamente il lanciaraggi su Theotormon. Un bianco pennello luminoso raggiunse l'estremità d'una pinna. Si levarono delle spire di fumo e si sentì il puzzo di carne bruciata. Theotormon cadde all'indietro, con la bocca e gli occhi spalancati. Vala, sorridendo, capovolse l'arma e la tese a Wolff. Questi imprecò e disse: «Non c'era ragione di farlo, Vala, se non per crudeltà. Crudeltà e stupidità. Theotormon sarebbe stato utilissimo e quel che tu hai fatto può significare per noi la differenza tra la vita e la morte.» Vala avanzò con fare noncurante lungo la battigia e si chinò su Theotormon. Gli sollevò la pinna, dalla punta completamente carbonizzata. «Non è morto... ancora. Puoi salvarlo, se vuoi. Ma dovrai amputare la pinna. È arrostita per una buona metà.» Wolff si allontanò senza ulteriori commenti. Reclutò un certo numero di Ilmawir per trasportare Theotormon a bordo dell'abuta. Sostenuto da quattro vesciche, Theotormon si infilò in un boccaporto, dove fu tirato da parte e disteso sul pavimento di un «brigantino»: era una gabbia dalle sbarre molto leggere, ma resistenti come l'acciaio, ottenuto laminando i gusci del-
le vesciche. Wolff stesso eseguì l'operazione. Dopo aver forzato in gola a Theotormon una bevanda drogata, fornita dallo stregone Ilmawir, passò in rassegna un certo numero di seghe e altri strumenti chirurgici, di proprietà dello stregone, il quale, evidentemente, aveva la cura non solo spirituale della sua tribù. Usando diverse seghe, fabbricate con i denti di un pesce della famiglia degli squali, Wolff amputò la pinna appena al disotto della spalla. La carne cedette senza difficoltà, ma le ossa opposero una resistenza sufficiente a smussare due seghe. Poi lo stregone pose l'estremità incandescente di un tizzone a contatto con l'immane ferita, per cauterizzare i vasi sanguigni, quindi applicò un unguento alla bruciatura, assicurando a Wolff che il balsamo aveva salvato la vita a uomini rimasti ustionati su più di metà del corpo. Vala rimase a osservare l'intera operazione con un lieve sogghigno beffardo. Una volta, il suo sguardo incontrò quello di Wolff, un attimo in cui lui sollevò gli occhi dal suo lavoro. Vala rise e Wolff rabbrividì, nonostante lei avesse una bella risata squillante. Gli ricordava un gong che aveva udito tempo addietro, durante un viaggio lungo il fiume Guzirit, nella terra dei Khamshem, sul terzo livello del suo pianeta. Aveva delle note dorate, e questa era anche l'unica maniera di descrivere la risata di Vala. Il gong era probabilmente di bronzo e stava appeso nell'oscuro penetrale di un antico e cadente tempio di giada, soffocato dalla pietra e dalla verde densità della giungla. Era di bronzo, ma emetteva vibrazioni dorate. Ed era così che risonava la risata di Vala: bronzo e oro, e anche qualcosa di oscuro e bruciante. Lei disse: «Non potrà mai farsi ricrescere di nuovo la pinna, se non gli asporti la crosta. Sai bene che la rigenerazione non avviene in presenza di tessuto cicatrizzato.» «Lascia che mi preoccupi io di queste cose» ribatté Wolff. «Tu hai già fatto anche troppo.» Vala tirò su col naso e salì la stretta scala a chiocciola fino al ponte principale. Wolff attese sino a quando non fu ragionevolmente certo che Theotormon non sarebbe morto per il trauma, poi salì anche lui sul ponte. Per un poco stette a osservare l'addestramento dei Friiqan accolti nella tribù. Poi domandò a Dugarnn come venissero nutrite le piante da gas: gli sembrava che la pastura dovesse pesare molto, e c'erano almeno quattromila vesciche, ognuna grande come la sezione d'un dirigibile.
Dugarnn gli spiegò che una vescica andava nutrita solo durante la crescita, poiché, arrivata a maturazione, moriva. La buccia diventava secca e dura, ma veniva sottoposta a uno speciale trattamento che ne conservava l'elasticità. All'interno, venivano installate delle colonie di quei batteri che generavano il gas. Anche questi andavano nutriti, ma la quantità di gas che producevano era molto elevata in proporzione alla quantità di cibo di cui abbisognavano. Il cibo consisteva principalmente del cuore delle piante giovani, anche se i batteri potevano assimilare carne, pesce o anche piante ormai in putrefazione. Dugarnn lo lasciò, dicendo che c'era molto lavoro da sbrigare. L'ombra della luna scivolò via e tornò la luce piena del giorno. L'isola cominciò a dare violenti strattoni alle gomene d'ormeggio. Dugarnn decise che la spinta ascensionale era ormai sufficiente e diede ordine di salpare le ancore di pietra e di tagliare gli ormeggi legati alle piante. L'isola si mosse e salì lentamente. Sostò un attimo a una quota di cinquanta metri e poi, sotto la spinta del gas che continuava a gonfiare le vesciche, si innalzò tre volte tanto. Allora Dugarnn ordinò di ridurre il cibo ai batteri. Ispezionò l'intera isola, un giro che gli prese parecchie ore, e infine ritornò sul ponte di comando. Wolff scese per vedere come stava Theotormon. Lo stregone gli riferì che il paziente andava anche meglio di quanto si fosse aspettato. Wolff salì una rampa di scale che lo portò in cima alle murate, dove trovò Luvah e uno dei suoi cugini, Palamabron. Quest'ultimo era un uomo ben piantato e di bell'aspetto, più scuro di tutti gli altri membri della famiglia. Portava un cappello a cono con la tesa esagonale decorata con civette verde-smeraldo. Indossava un mantello dal colletto rialzato sulla nuca e spalline a forma di leoni accovacciati, di un tessuto verde lucente, con un disegno a trifoglio intrecciato a una lancia insanguinata. La camicia era blu elettrico, con profilature di piccoli teschi bianchi. Un'alta cintura di cuoio, adorna di borchie d'oro e tempestata di diamanti, smeraldi e topazi, gli cingeva la vita. I pantaloni a sbuffo e stretti al polpaccio, erano a striscie bianche e nere, mentre gli stivali erano di cuoio rosso pallido. Aveva una presenza imponente e se ne rendeva conto. Rispose con un cenno del capo al saluto di Wolff e si allontanò. Wolff lo seguì con lo sguardo, ridacchiando. Disse: «Palamabron non si è mai interessato molto di me. Mi preoccuperei, se lo facesse.» «Non tenteranno scherzi, finché saremo su quest'isola aerea» disse Lu-
vah. «Perlomeno, non lo faranno finché questa ricerca non si dimostrerà troppo lunga. Mi chiedo quanto tempo sarà necessario. Potremmo sorvolare questi mari per l'eternità, senza avvistare mai le porte.» Wolff osservò il cielo rosso, l'oceano verde-azzurro e l'isola che avevano lasciato, un lembo di terra che appariva non più grande di una moneta. Uccelli bianchi, dalle ali enormi, con i gialli becchi ricurvi e gli occhi cerchiati d'arancio, li sorvolarono emettendo urla stridule. Uno si posò non lontano da loro, drizzò la testa e li fissò con gli occhi verdi, dalle palpebre immobili. Wolff si rammentò dei corvi del suo pianeta. C'era forse una porzione di cervello umano all'interno dei crani fuori misura di quegli uccelli? Erano forse lì a osservare e ascoltare per conto di Urizen? Suo padre doveva pur disporre di qualche mezzo per spiarli, altrimenti non avrebbe goduto appieno di quel gioco. «Dugarnn mi ha detto che l'abuta è sospinta sempre dallo stesso vento. La sua traiettoria intorno al pianeta è una spirale, così che l'isola alla fine è in condizioni di sorvolare ogni zona di questo mondo acqueo.» «Ma l'isola su cui sono le porte potrebbe essere sempre su una rotta diversa dalla nostra. Sempre fuori vista.» Wolff alzò le spalle. «In tal caso non la troveremo mai.» «Forse è proprio quello che vuole Urizen. Gli farebbe piacere vederci impazzire per la noia e la frustrazione, vedere che ci tagliamo la gola l'un con l'altro.» «Può darsi. Comunque, l'abuta può cambiare rotta a volontà del suo equipaggio. È una manovra molto lenta, ma fattibile. E poi...» Rimase in silenzio così a lungo che Luvah cominciò a sentirsi a disagio. «E poi cosa?» «Il nostro caro padre ha popolato questo mondo di molte creature. Ho paura che diverse isole, sia acquatiche che aeree, siano popolate di animali poco socievoli.» Vala li chiamò da basso: il pranzo era pronto. Scesero a mangiare, seduti a un'estremità del tavolo del comandante, dove poterono ascoltare i progetti di Dugarnn. Sì preparava a far deviare l'abuta dalla sua rotta. Da qualche parte, a sudovest, navigava un'altra isola aerea, quella dei loro acerrimi nemici, gli Waerish. Ora che gli Ilmawir avevano Wolff e il suo lanciaraggi, potevano ingaggiare la battaglia decisiva con gli Waerish. Sarebbe stata una gloriosa vittoria per gli Ilmawir: gli Waerish sarebbero stati inghiottiti dall'oceano una volta per tutte.
Wolff acconsentì, dato che per il momento c'era ben poco da fare. Ma poiché intendeva conservare per faccende più importanti le batterie di scorta del lanciaraggi, si augurava che l'incontro con gli Waerish non si verificasse. Intanto i luminosi giorni rossi, seguiti dalle pallide notti rosse, passavano numerosi e tutti uguali. All'inizio però, per Wolff furono giorni pieni di attività. Imparò tutto quello che poteva sul modo di governare l'abuta, studiò i costumi tribali e le peculiarità di ogni membro dell'equipaggio. Gli altri Signori, a eccezione di Vala, mostravano ben poco interesse a tutte queste cose. Passavano il loro tempo a prua, aguzzando gli occhi per avvistare l'isola su cui sorgevano le porte di Urizen, oppure lamentandosi con gli abutal o tra loro. Si insultavano continuamente, ma senza oltrepassare un certo limite, in modo da evitare un'aperta sfida da parte dell'offeso. Wolff si disgustava sempre più di loro, col passare dei giorni. Fatta eccezione per Luvah, non ne salvava uno: si comportavano con un'arroganza che infastidiva gli abutal. Wolff li ammonì ripetutamente a questo riguardo, avvertendoli che le loro vite erano in mano agli indigeni. Provocando la loro ostilità correvano il rischio di farsi buttare fuori bordo. I suoi ammonimenti per un po' venivano presi in considerazione, ma poi l'abituale presunzione e l'arroganza, tipiche dei Signori, finivano sempre col prevalere. Wolff passava molto tempo con Dugarnn, sul ponte di comando. Era necessario, per smussare gli spigoli di antipatia che i suoi fratelli e cugini sollevavano in continuazione. Frequentò anche la scuola di addestramento per i piloti d'alianti, dato che gli abutal non concedevano piena ammirazione e rispetto a chi non si fosse guadagnato le ali. Wolff ne domandò il perché a Dugarnn: gli sembrava che gli alianti fossero più che altro un impiccio e una complicazione, una spesa non necessaria. Dugarnn rimase stupefatto. Annaspò in cerca di parole, poi disse: «Be', è così perché... è così. Nessun uomo è veramente uomo finché non ha fatto il suo primo atterraggio da solo. Quanto alla tua insinuazione che gli alianti non valgano la fatica che costano, aspetta che incontriamo un nemico e dovrai rimangiarti le tue parole.» Il giorno dopo, Wolff salì su un aliante: era un apparecchio biposto d'addestramento, trainato da un cavo sorretto da due grandi vesciche. L'aereo salì in alto. Sotto, l'abuta divenne un piccolo ovale marrone. A quella quota, i più veloci venti superiori trascinarono l'apparecchio molti chilometri lontano dall'isola. L'istruttore, che era Dugarnn, sganciò il meccanismo di
traino, così che le vesciche, richiamate da funi sottili ma robuste, ridiscesero sull'abuta. Quando era Jadawin, Wolff aveva pilotato molti aerei. Sulla Terra, poi, aveva ottenuto un brevetto di pilota per aerei da turismo. Non aveva più volato da molti anni, ma non aveva del tutto dimenticato la sua passata abilità. Dugarnn gli lasciò prendere i comandi per qualche minuto, mentre l'aliante discendeva lungo una traiettoria a spirale. Alla fine, prima di riprendere i comandi, batté sulla spalla di Wolff e annuì con aria di approvazione. L'aliante scese controvento e atterrò su un lato del largo ponte. Wolff prese altre cinque lezioni e nelle ultime due compì anche gli atterraggi. Il quarto giorno, andò da solo. Dugarnn era notevolmente impressionato e continuava a dire che generalmente gli allievi avevano bisogno di un tempo perlomeno doppio per conseguire i risultati di Wolff. Wolff domandò che cosa accadeva se un allievo, in volo da solo, mancava l'abuta. Come facevano gli isolani a recuperarlo? Dugarnn sorrise, sollevò le mani con le palme in su, come a dire che lo sfortunato veniva lasciato indietro. L'argomento non fu più ripreso, ma Wolff prese nota che prima del decollo Dugarnn aveva tanto insistito perché il lanciaraggi restasse sull'isola. Wolff allora lo aveva affidato a Luvah, forse il solo che non ne avrebbe fatto cattivo uso. Comunque, meglio a Luvah che ad ogni altro Signore. Da allora in poi, Wolff andò a torso nudo, come conveniva ad un uomo che portava un iiphtarz dipinto sul petto. Dugarnn insistette perché Wolff diventasse anche suo fratello di sangue. Allora, gli altri Signori lo schernirono. «Ma come? Tu, Jadawin, figlio del grande Signore Urizen, discendente diretto dello stesso Los, ora fratello di questi selvaggi ignoranti e dipinti? Non hai il minimo orgoglio?» «Ad ognuno il suo, fratelli» rispose lui. «Questa gente, almeno, non ha tentato di assassinarmi ed è più di quanto possa dire di ognuno di voi, eccettuato Luvah. Inoltre, voi dovreste essere gli ultimi a disprezzarli: sono padroni di questo piccolo mondo, mentre voi siete lontani da casa e chiusi in trappola come grasse oche ottuse. Perciò non siate così pronti a farvi beffe di loro. Meglio sarebbe, invece, se cercaste di farveli amici. Verrà il momento in cui avrete estremo bisogno degli Ilmawir.» Theotormon, con la pinna rosea cresciuta a mezzo, stava accovacciato nella bassa piscina. Disse: «Non avete nessuna speranza, maledetti! Strillerete a lungo quando alla fine Urizen chiuderà su di voi la sua trappola. Ma
voglio dire questo di Jadawin: è due volte più uomo di ciascuno di voi. E gli auguro buona fortuna. Gli auguro di raggiungere il nostro beneamato padre e di vendicarsi. Ma il resto di voi spero che muoia in modo atroce.» «Chiudi quella boccaccia, rospo!» gridò Ariston. «È già abbastanza orribile doverti guardare: mi si torce lo stomaco quando ti vedo. Ma doverti ascoltare, mucchio di pattume, è troppo. Vorrei essere ancora nel mio adorabile mondo ed averti in catene ai miei piedi. Allora sì che ti farei parlare, mostro, per chiedere pietà, e parleresti così velocemente che le tue parole sarebbero solo un indistinto borbottio. Poi ti darei in pasto, centimetro dopo centimetro, ad alcuni miei animaletti speciali... oh, dei bellissimi cuccioli!» «Una di queste notti» replicò Theotormon, «ti getterò oltre il bordo di quest'isola, e riderò guardandoti annaspare in aria e ascoltando il tuo ultimo grido.» «Basta con queste ripicche infantili» disse Vala. «Non capite che questi litigi riempiono di gioia il cuore di nostro padre? Gli piacerebbe moltissimo starci a guardare mentre ci facciamo a pezzi l'un l'altro.» «Vala ha ragione» disse Wolff. «Vi fate chiamare Signori, fabbricanti e reggitori di interi universi, eppure vi comportate come marmocchi viziati e malvagi. Se vi odiate tanto, ricordate che chi vi ha insegnato quest'odio tremendo e che ora ha predisposto tutto per la vostra morte, è ancora vivo. Urizen deve morire. Se il prezzo da pagare sarà la nostra fine, così sia. Ma almeno tentate di vivere con dignità, per conferire dignità anche alla vostra morte.» Con uno scatto, Ariston avanzò a grandi passi verso Wolff. Aveva il viso rosso e la bocca contorta. Torreggiava su Wolff, anche se non era altrettanto robusto. Agitava le braccia, facendo svolazzare la sua veste color zafferano, costellata di embrici verdi e scarlatti. Urlò: «Ho sopportato abbastanza da te, odiato fratello! Ti sei degradato mescolando il tuo sangue con quello di questi animali ed ora addirittura insinui di essere diventato migliore di noi. Basta, i tuoi insulti mi hanno stancato. Ti odio, ti odio come ti ho sempre odiato e molto di più di quanto odii gli altri. Tu non sei niente, sei un... un... trovatello!» Contestare o soltanto mettere in dubbio la vera discendenza era il peggiore tra gli insulti che i Signori potessero concepire. E Ariston lo aveva formulato aggravandolo per di più con un gesto: l'estrazione del coltello. Wolff piegò le ginocchia, pronto a battersi se costretto, ma sperando il contrario. Una zuffa tra Signori avrebbe prodotto una pessima impressione
sugli abutal. In quell'istante, un grido provenne dalla coffa di vedetta a prua dell'isola. I tamburi presero a rimbombare e gli abutal abbandonarono le loro occupazioni. Wolff bloccò un uomo che stava correndo e lo interrogò sui motivi dell'allarme. L'uomo puntò la mano verso sinistra, indicando qualcosa in alto. Wolff si girò e vide un oggetto che spiccava scuro e peloso contro la rossa volta del cielo. CAPITOLO VI Proprio mentre Wolff si metteva a correre verso il ponte di comando, apparve un secondo oggetto. Prima che raggiungessero la plancia, ne vide altri due: provò una strana sensazione di disagio che sulle prime non seppe spiegarsi. Ne capì il motivo mentre arrivava alla cabina di comando: gli oggetti non andavano alla deriva col vento, ma avanzavano ad angolo retto con esso. C'era qualcosa che li faceva muovere. Sulla plancia, Dugarnn disse a Wolff che cosa voleva da lui. Doveva rimanere al suo fianco finché non gli venisse ordinato altrimenti. Quanto agli altri Signori, era venuto il momento che si guadagnassero vitto e alloggio. Dugarnn li aveva sentiti vantarsi del proprio valore. Che mettessero le spade al posto delle bocche, per dimostrare che non erano soltanto parole. Durante una battaglia, sulla superficie dell'isola si comunicava per mezzo di tamburi. Gli ordini per gli uomini all'interno, di stanza agli oblò laterali o ai boccaporti sul fondo, venivano trasmessi con altri sistemi. Per tutta l'abuta correva una rete di tubi sottili. Erano ricavati dalle ossa del pesce girrel e avevano la proprietà di trasmettere il suono abbastanza fedelmente. Lungo le ossa del girrel, gli abutal potevano far giungere la voce a una distanza di venticinque metri. Per distanze superiori, veniva utilizzato un codice battuto con un martelletto. Wolff osservava Dugarnn emanare ordini, che gente bene addestrata eseguiva rapidamente. Nell'ambito delle loro possibilità, anche i bambini svolgevano dei compiti, lasciando così liberi gli adulti per lavori più difficili e pericolosi. Wolff disse a Vala, che era salita sul ponte: «Noi Signori, cosiddetti divini, avremmo molto da imparare sulla cooperazione da questi cosiddetti selvaggi.» «Senza dubbio» assentì Vala. Guardò verso l'oceano. «Adesso sono sei.
Ma che cosa sono?» «Durgann ha menzionato i Nichiddor, ma non ha avuto tempo di spiegarmi che cosa siano. Abbi pazienza, lo sapremo presto. Anche troppo presto, temo.» Gli alianti erano stati assicurati alle vesciche di traino. I piloti entrarono negli abitacoli, mentre gli equipaggi di «terra» agganciavano alle ali le bombe-vesciche esplosive. Poi lo stregone, coperto da una lunga veste e da una maschera, passò lungo la fila degli alianti. Portava una doppia croce ansata, con cui benedì i piloti e i loro mezzi. Ogni tanto si fermava a scuotere la doppia croce ansata verso gli «oggetti volanti non identificati», scagliando maledizioni. Dugarnn era visibilmente sulle spine, tuttavia non osò mettere fretta allo stregone. Bisognò attendere che anche l'ultimo dei venti aviatori venisse toccato dalla croce ansata e benedetto. Soltanto allora Dugarnn poté dare il segnale. Le vesciche con i loro carichi dalle bianche ali furono sganciate e si librarono sempre più in alto, finché non raggiunsero un'altezza di trecento metri. Dugarnn disse: «Si sganceranno non appena i nidi dei Nichiddor saranno a tiro. Che Los li protegga, perché solo pochi riusciranno a passare. Ma se si riesce a distruggere i nidi...» «Adesso ce ne sono otto» disse Wolff. Il più vicino era a un chilometro. A forma di palla, aveva un diametro di oltre duecentocinquanta metri. L'aspetto peloso era dovuto alle molte piante che si protendevano oltre i bordi e coprivano le vesciche a gas, disposte lungo irregolari anelli concentrici. La superficie del nido brulicava di centinaia di piccole figure. Una palla di sterco, pensò Wolff. Dugarnn indicò qualcosa con la mano e Wolff vide diversi oggetti piccoli e scuri. «Esploratori» disse Dugarnn. «I Nichiddor non attaccheranno finché gli esploratori non avranno fatto rapporto.» «Che cosa sono i Nichiddor?» «Eccone là uno che scende a dare un'occhiata da vicino.» Le ali, piumate di nero, avevano un'apertura di almeno quindici metri. Spuntavano dalle spalle, larghe un metro e mezzo, sotto le quali stava un torso umano, privo di peli. Lo sterno sporgeva in fuori per un buon metro e sotto si trovava l'addome, provvisto di ombelico. Le zampe erano sottili e terminavano con piedi enormi, costituiti quasi esclusivamente dalle dita unghiute. Dietro, si protendeva una coda di lunghe penne nere. Il volto era
umano, a parte il naso, che si estendeva come una proboscide d'elefante ed era altrettanto flessibile. Quando passò sopra di loro, il Nichiddor sollevò la proboscide e strombettò stridulo. Dugarnn lanciò un'occhiata al lanciaraggi di Wolff, ma questi scosse il capo e disse: «Preferirei che non sapessero ancora a che cosa vanno incontro. La mia riserva di cariche è limitata. Voglio aspettare finché non potrò prenderne parecchi in un sol colpo.» Osservò il Nichiddor che volava via, battendo pesantemente le ali, in direzione del nido più vicino. Quelle creature erano senz'altro opera di Urizen, che le aveva sistemate su quel pianeta per il proprio divertimento. Con ogni probabilità, erano esseri umani, anche se non necessariamente Signori, rimodellati nel suo laboratorio. Forse li aveva rapiti da altri mondi e qualcuno, magari, era di origine terrestre. Ora vivevano una strana vita sotto un cielo rosso e una luna oscura, nati e cresciuti in un nido aereo che andava alla deriva, spinto dai venti di quel pianeta senza terra. Si nutrivano principalmente di pesce, che catturavano con gli artigli, alla maniera delle procellarie, ma quando capitavano su un'isola, di superficie o aerea, ne uccidevano gli abitanti per mangiare carne umana cruda. Wolff poteva ormai vedere perché i nidi si muovevano trasversalmente rispetto al vento. I Nichiddor che erano a bordo, a centinaia, avevano conficcato gli artigli nelle piante e battevano le ali in perfetta sincronia. L'osceno cocchio del cielo era condotto dagli uccelli più strani che fossero mai esistiti. Quando il nido più vicino fu a mezzo chilometro, le ali cessarono di battere. Gli altri nidi si avvicinarono lentamente. Due andarono a piazzarsi in basso, per potere poi attaccare anche dalla parte inferiore dell'isola. Altri due doppiarono la poppa e accostarono dall'altro lato. Durgarnn attese con calma che i Nichiddor finissero di mettersi in posizione d'attacco. Wolff domandò per qual motivo non ordinava agli alianti di attaccare. «Se i nostri alianti attaccassero subito» spiegò Dugarnn, «tutti indistintamente i Nichiddor si leverebbero a sbarrare la strada e gli alianti non avrebbero alcuna possibilità di passare. Dobbiamo invece attendere che il grosso dei Nichiddor sia su di noi. Allora gli alianti attaccheranno, quando cioè soltanto pochi Nichiddor si troveranno nella zona utile per poter contrastare il passo. Avremo in tal modo una certa probabilità di filtrare fino ai nidi. Questa almeno è la mia esperienza al riguardo, fino ad oggi.» «Non sarebbe più saggio, da parte dei Nichiddor, eliminare prima gli alianti?» domandò Wolff.
Durgann si strinse nelle spalle. «Certamente. Ma i Nichiddor non fanno mai le cose che anche a me sembrano strategicamente migliori. Ho una teoria al riguardo: forse i Nichiddor, essendo stati privati delle mani, hanno sofferto anche un calo d'intelligenza. È vero che possono, fino a un certo punto, maneggiare gli oggetti con i piedi, ma sono molto meno abili di noi. D'altra parte, potrei sbagliarmi. Forse i Nichiddor provano un certo piacere lasciando agli alianti una possibilità di combattere. O forse sono presuntuosi come le aquile marine, che attaccano anche lo squalo, che in peso le supera di tre quintali: un essere crudele che le aquile non sono assolutamente in grado di uccidere e che, ad ogni modo, non potrebbero mai trasportare sull'isola.» Il vento portava verso l'abuta il rumoreggiare di centinaia di voci e lo strombettio di centinaia di proboscidi. All'improvviso cadde il silenzio. Dugarnn era immobile, ma i suoi occhi erano irrequieti. Lentamente, alzò una mano. Un guerriero stava in piedi accanto a lui, con in mano una piccola vescica. A fianco, aveva una ciotola di pietra, piena di carboni ardenti. Teneva lo sguardo inchiodato sul suo comandante. I Nichiddor ruppero il silenzio strillando tutti insieme attraverso i loro nasi serpentiformi. Ci fu come un colpo di tuono, quando si lanciarono dai nidi unendo le ali nel primo battito. Dugarnn lasciò cadere la mano. Il guerriero immerse nel fuoco la corta miccia della vescica e poi la lasciò andare. La vescica salì a venti metri d'altezza ed esplose. Gli alianti abbandonarono i traini, dirigendosi ognuno verso il nido assegnatogli. Wolff guardò le nere orde avanzanti e perse un po' della sua fiducia nel lanciaraggi. Era vero che gli Ilmawir avevano già respinto altri attacchi dei Nichiddor, anche se a costo di gravi perdite, ma mai prima di allora otto nidi avevano circondato l'abuta. Passò un uccello bianco, dalle grandi ali. Il suo grido raggiunse Wolff che ancora una volta si domandò se per caso non fosse un Occhio di Urizen. Suo padre li stava forse osservando attraverso gli occhi e il cervello di quegli uccelli? Se era così, Urizen stava per assistere a uno spettacolo che avrebbe deliziato il suo cuore sanguinario. I Nichiddor, così fitti da formare una nuvola nera e marrone, si avvicinarono all'isola. Ma prima di giungere sotto il tiro degli archi, smisero di avanzare e cominciarono a volare in tondo, in un cerchio sempre più stretto. Gli arcieri Ilmawir, tutti maschi, attendevano che il loro capo desse il segnale di tirare. Le donne erano armate di fionde e sassi, e anche loro aspettavano.
Dugarnn aveva concentrato la sua gente a prua, ben sapendo che una disposizione lungo le murate sarebbe servita solo a indebolire le difese. Sull'altra estremità dell'isola non c'era nulla che potesse contrastare un atterraggio dei Nichiddor. Comunque, non atterrarono sulla zona sguarnita: odiavano dover camminare sulle loro deboli zampe. Wolff puntò lo sguardo sugli alianti. Alcuni erano calati sotto il suo orizzonte visivo per attaccare i nidi che si trovavano sul lato inferiore dell'isola. Gli altri stavano picchiando veloci, in una ripida scivolata. Un certo numero di Nichiddor abbandonò i nidi e mosse loro incontro. Due piloti sorvolarono il nido più vicino. Piccoli oggetti, che lasciavano una scia di fumo, si staccarono dagli aerei e caddero sul nido. Le femmine si alzarono in volo verso gli alianti. Poi vi fu un'esplosione. Dal nido scaturirono fumo e fiamme, quindi un'altra esplosione. I due alianti cabrarono bruscamente, riguadagnata quota grazie alla velocità acquistata nella ripida picchiata, virarono e tornarono indietro per un ultimo e definitivo passaggio. Le loro bombe colsero nuovamente il segno. Il fuoco si diffuse tra le piante secche e raggiunse e avvolse alcune delle gigantesche cellule a gas. Le femmine strillarono così forte che fu possibile udirle anche al di sopra del frastuono d'ali e dello strombettio dell'orda che volava in cerchio. Si alzarono dal nido in fiamme tenendo i piccoli stretti tra gli artigli. L'intero nido esplose, andando in mille pezzi. Alcune femmine furono letteralmente bruciate in volo, altre furono colpite dai frammenti. Dei piccoli precipitarono in mare, battendo inutilmente le loro corte ali. Wolff vide una madre ripiegare le ali e tuffarsi sopra il suo piccolo, come un falco marino. Lo afferrò, batté le ali e s'innalzò lentamente verso un nido intatto. Altri due nidi, avvolti dalle fiamme e dalle esplosioni, precipitarono roteando verso l'oceano. Ma già diverse centinaia di maschi si erano staccati dall'anello intorno all'isola per lanciarsi dietro gli alianti, che erano ormai molto bassi, in procinto di ammarare tra le onde. I nidi a livello dell'isola erano fuori tiro del lanciaraggi, ma forse non era la stessa cosa per i due nidi che operavano al di sotto. Wolff disse a Dugarnn che cosa aveva intenzione di fare e scese di venti metri, con una scala a chiocciola, fino a un boccaporto inferiore. I due nidi erano molto vicini e lui li colpì entrambi con una raffica a piena potenza. Esplosero così violentemente che Wolff si sentì sollevare e fu quasi sbattuto fuori. Molto fumo saliva attraverso il boccaporto. Quando si dissipò, Wolff vide fram-
menti di vegetazione in fiamme e corpi di femmine e di piccoli che piombavano in mare. I guerrieri maschi provenienti dai nidi stavano tentando di entrare dai boccaporti inferiori. Wolff mise il lanciaraggi a mezza potenza e ripulì la zona. Poi, partì di corsa sul ponticello di sentina. Si fermava davanti a ogni boccaporto e faceva fuoco. Eliminò in tal modo non meno di un centinaio di attaccanti. Ma alcuni Nichiddor erano filtrati attraverso i difensori abutal, dai boccaporti all'altra estremità dell'isola. Non fu facile ucciderli, dato che doveva fare attenzione a non colpire le grandi vesciche, che in quella zona erano numerose. Non riuscì a prenderli tutti, solo trenta: l'isola era troppo grande perché lui potesse controllarne tutta la zona sottostante. Quando ritornò sul ponte, s'avvide che i Nichiddor avevano già intrapreso il loro attacco in massa. L'estremità anteriore dell'isola era un marasma vorticante di urli e di schiamazzi. C'erano cadaveri dappertutto. Gli arcieri e le donne fromboliere avevano fatto pagare un pesante pedaggio alla prima ondata e uno più leggero alla seconda. Poi, i Nichiddor erano piombati loro addosso e la battaglia si era fatta confusa. Sebbene non avessero altre armi che le ali e i piedi, gli uomini alati erano ugualmente temibili. Con un colpo d'ala, un Nichiddor poteva mettere fuori combattimento un Ilmawir per poi balzare sul nemico stordito e contuso e farlo a pezzi con i pesanti artigli ad uncino. Gli abutal si difendevano con lance, coltelli e spade. I coltelli erano ricavati da una pianta simile al bambù, e le spade altro non erano che piatte lame guarnite di denti di squalo. Wolff prese ad uccidere metodicamente tutti i Nichiddor nelle vicinanze del ponte principale. I Signori avevano fatto un gruppo compatto, tutti rivolti verso l'esterno, e fendevano l'aria con le spade. Wolff aggiustò accuratamente la mira ed abbatté i Nichiddor che li serravano da presso. Un'ombra calò su di lui. Si gettò di lato e fece fuoco verso l'alto. Due Nichiddor gli piombarono accanto, uno per parte, e l'ala di uno dei due lo schiaffeggiò coprendolo come una bandiera puzzolente di pesce. Wolff strisciò fuori appena in tempo per colpirne altri due che avevano spinto Dugarnn con le spalle al muro. La moglie di Dugarnn gli giaceva accanto. La sua lancia era ancora conficcata nel ventre di un uomo alato. Ma lei aveva il volto e i seni a brandelli e il Nichiddor che l'aveva conciata così le stava straziando il ventre. Quando Wolff lo colpì alle spalle, cadde di schiena con gli artigli ancora stretti alle viscere della donna.
L'istante successivo la morte sfiorò Wolff. Almeno due dozzine di Nichiddor si gettarono su di lui da tutte le direzioni. Wolff girò su se stesso simile a una trottola e azionò il lanciaraggi come se fosse stato uno spruzzatore: i cadaveri, quasi tagliati a metà, fumanti e puteolenti, si ammucchiarono intorno a lui. Li scavalcò e si riportò all'aperto, ai margini della turbinante battaglia. Si mise a sparare in tutte le direzioni. Di solito colpiva il bersaglio, ma in due circostanze furono gli abutal a finire contro il raggio mortale della sua arma. Era inevitabile. Anzi, Wolff poteva considerarsi fortunato se, nell'impeto della lotta, non ne aveva colpiti di più. Gli Ilmawir, nella loro feroce resistenza, avevano perduto metà degli effettivi. Anche con l'aiuto di Wolff, stavano per essere sconfitti. I Nichiddor non mostravano di volersi ritirare, nonostante le perdite gravissime che anche loro avevano subito. Erano intenzionati a sterminare i loro avversari, anche se ciò poteva significare l'annullamento quasi totale di se stessi. Ancora una volta Wolff spazzò via gli attaccanti che circondavano i Signori. Erano coperti di sangue, ma ancora tutti in piedi, e continuavano a mulinare le spade. Wolff li chiamò a far cerchio intorno a lui. Mentre loro avrebbero tenuto lontani gli uomini alati, lui avrebbe sparato al di sopra delle loro teste. Si arrampicò su un mucchio di Nichiddor morti, riuscì a trovare una posizione salda su quei cadaveri viscidi e freddamente riaprì il fuoco. A un tratto si rese conto di essersi ridotto alle ultime due cariche. Aveva sperato di riuscire a conservarne qualcuna per la fortezza di Urizen, ma ora come ora, in quella particolare situazione, non poteva far nulla per risparmiarle. Non usare il lanciaraggi, significava la morte certa per lui e per tutti quelli che combattevano dalla sua parte. Vala, che gli stava proprio davanti, urlò. Wolff sollevò lo sguardo verso il punto che lei stava indicando e vide un oggetto scuro che attraversava il cielo: una cometa nera. Era apparsa mentre tutti erano intenti nella battaglia. Anche gli abutal vicini a loro, guardarono in alto. Lanciarono grida di disperazione e gettarono a terra le armi. Ignorando gli uomini alati, corsero verso i boccaporti più vicini. I Nichiddor, dopo aver cercato in cielo la causa di tanto panico, reagirono con lo stesso terrore. Spiccarono il volo per raggiungere i nidi o per cercare rifugio sotto il lato inferiore dell'isola. Wolff non gettò via il lanciaraggi, ma palesò la stessa frenesia degli altri
quando tentò di raggiungere il riparo più vicino. Dugarnn gli aveva parlato delle comete nere che di tanto in tanto visitavano lo spazio al di sopra del pianeta. Gli aveva anche detto dei fenomeni che sempre accompagnavano il passaggio di quei corpi celesti. Mentre si proiettava verso un boccaporto, Wolff avvertì inforno a sé dei piccoli rumori sibilanti. Diversi buchi si formarono nel fogliame delle murate, piccole spire di fumo si levarono dall'assito del ponte principale. Poco più in alto, un Nichiddor che batteva le sue ali larghe venti metri strillò e cadde sul ponte con la pelle foracchiata e un'ala fumigante. Un altro uomo alato precipitò, poi un altro ancora. Anche alcuni abutal stramazzarono al suolo. I cadaveri sobbalzavano sotto l'urto delle goccioline. Una goccia di argento vivo strappò il lanciaraggi di mano a Wolff, che si fermò a raccoglierlo e poi riprese la corsa. In un primo momento non riuscì a entrare nel boccaporto, perché i Signori vi facevano ressa davanti. Lottavano tra loro, imprecando e invocando Los. Alcuni invocavano persino Urizen o la loro madre, morta da tempo. Ci fu un attimo in cui Wolff pensò selvaggiamente di aprirsi la strada con il lanciaraggi. Era proprio ciò che ognuno di loro avrebbe fatto, ad esclusione forse di Luvah. Rimanere all'aperto voleva dire morire. Ogni briciola di tempo era preziosa. Wolff si tuffò nell'apertura, a testa avanti. Sentì uno spiaccicchìo: mercurio bollente gli si incollò alla nuca. Cadde al di là della bassa scaletta e, abbandonato il lanciaraggi, colpì il pavimento con ambo le mani. Assorbì la maggior parte dell'urto piegando le braccia e rotolando su se stesso. Andò a fermarsi contro Palamabron, che stava scendendo la seconda rampa. Palamabron urlò e cadde in avanti. Wolff, guardando giù per la tromba delle scale, lo vide piombare su un mucchio di Signori. Stavano tutti gridando e imprecando. Nessuno, comunque, sembrava seriamente ferito. In diversa circostanza Wolff avrebbe riso. Ora, era troppo occupato a grattarsi via dai capelli i globuli di mercurio bollente. Si esaminò le gambe, per assicurarsi di essere stato colpito soltanto di striscio, poi prosegui giù per gli scalini. Era meglio scendere il più in basso possibile. Poteva trattarsi di un temporale violento e di lunga durata I ponti superiori rischiavano una completa distruzione e anche le grandi vesciche a gas potevano rimanere forate. In tal caso, addio a tutti per sempre. CAPITOLO VII
Nella mezza luce di un corridoio, presso una cella sferoidale, Vala gli si avvicinò e lo salutò. Stava ridendo. Non era una risata isterica. Vala sembrava divertita. Wolff era sicuro che, se ci fosse stata abbastanza luce, avrebbe potuto vedere i suoi occhi brillare d'allegria. «Sono contento che tu lo trovi divertente» disse. Era ancora coperto di sangue dei Nichiddor, che l'abbondante sudore gli stava lavando via, e stava tremando. «Sei sempre stata strana, Vala. Anche da bambina amavi farci dispetti e giocarci scherzi crudeli. E da donna amavi il sangue e la sofferenza... negli altri... più di quanto amassi l'amore.» «Perché sono una vera Signora» disse lei. «La figlia di mio padre. E la sorella di mio fratello, potrei aggiungere. Tu eri proprio come me, Jadawin, prima di diventare l'umano Wolff, lo smidollato, il degenerato mezzo terrestre.» Gli si accostò. Poi, abbassando la voce: «È passato molto tempo da quando ho avuto un uomo. E anche tu, Jadawin, non hai toccato una donna da quando hai attraversato la porta. So che sei una specie di stallone, fratello, e che stai male se passa un giorno senza che tu non abbia portato a letto una femmina. Non puoi mettere da parte il tuo evidente disgusto (che non capisco) e venire con me? Ci sono centinaia di nascondigli su quest'isola, abitacoli in penombra, caldi e intimi, dove nessuno ci disturberà. Sono io a chiedertelo, anche se il mio orgoglio è grande.» Diceva il vero: lui era un uomo eccezionalmente forte e vigoroso. Wolff avvertì il desiderio assalirlo di sorpresa, un desiderio che aveva tenuto a freno giorno per giorno grazie a una costante attività. Poi. quando giungeva la notte e lui si distendeva nel letto, si distraeva applicando la propria mente contro Urizen. Cercava di prevedere i più svariati ostacoli che suo padre avrebbe frapposto e il modo migliore di superarli. Disse: «Prima il banchetto di sangue e poi il dessert di lussuria. Non sono io ad eccitarti, ma i colpi delle spade e lo sprizzare del sangue.» «Tutt'e due le cose» disse lei, e gli tese la mano. «Vieni.» Lui scosse il capo. «No. E non voglio più sentirne parlare. L'argomento è morto per sempre.» «Come lo sarai tu, tra non molto.» Vala ringhiò: «Nessuno può offendermi a questo modo.» Si voltò e si allontanò. Wolff la vide che stava parlando con ardore a Palamabron. E poi, dopo un poco, i due si allontanarono nella semioscurità del corridoio.
Per un istante, Wolff pensò di ordinare loro di tornare indietro. In effetti, stavano disertando il loro posto. Il pericolo da parte dei Nichiddor era apparentemente finito, ma se il temporale di gocce di mercurio fosse divenuto più violento, l'isola avrebbe corso il rischio di venire seriamente danneggiata o addirittura distrutta. Si strinse nelle spalle. Dopotutto, non gli era stata delegata nessuna autontà. La cooperazione tra i Signori era solo un accordo verbale, non c'era uno statuto organizzativo che prevedesse un sistema di punizioni. Inoltre, se avesse tentato di interferire, lo avrebbero accusato di agire per gelosia, e l'accusa non sarebbe stata del tutto priva di fondamento. Aveva avvertito una stretta al cuore vedendo Vala andarsene via con un altro. Erano trascorsi cinquecento anni e l'ultima volta lei aveva tentato di ucciderlo. Ora, anche se la sua gelosia era appena avvertibile, dava tuttavia la misura di quel che un tempo aveva provato per lei. Domandò a Dugarnn: «Quanto dura un temporale?» «Circa mezz'ora» rispose il comandante. «Le gocce viaggiano con le comete nere. Noi le chiamiamo le stelle di Urizen, perché deve averle create lui. Urizen è un dio crudele e sanguinario che si compiace delle sofferenze del suo popolo.» L'atteggiamento di Dugarnn nei riguardi di Urizen non era ovviamente lo stesso atteggiamento dei Signori. Nel corso di molte migliaia di anni, il nome di Urizen era diventato, per i discendenti dei Signori catturati, quello del dio del male. Dugarnn non aveva alcuna idea della vera natura dell'universo in cui era nato. Per lui quel mondo era il mondo, l'unico mondo. Per lui i Signori erano semidei, figli di Urizen e di donne mortali. E anche i Signori erano mortali, benché eccezionalmente potenti. Ci fu un'esplosione. Per un momento Wolff ebbe paura che una delle vesciche all'altra estremità dell'isola si fosse bucata. Un abutal disse che era saltato un nido Nichiddor. Meno protetto dell'isola, aveva ricevuto una dose concentrata di gocce, così che le vesciche erano esplose una dopo l'altra e, nella reazione a catena, l'intero nido era andato a pezzi. Wolff salì da Theotormon. Suo fratello, accucciato in un angolo, lo guardò con odio e sofferenza. Quando Wolff gli rivolse la parola, girò la testa dall'altra parte. Poi, Wolff si accasciò in silenzio accanto a lui, e allora Theotormon cominciò a dare segni di nervosismo. Alla fine fissò Wolff e disse: «Nostro padre mi disse che ci sono quattro pianeti, in orbita attorno a un quinto pianeta centrale che è Appirmatzum, il pianeta su cui si trova la sua
fortezza. Ogni pianeta ha circa le dimensioni di questo, e tutti distano solo trentamila chilometri da Appirmatzum. Questo universo non è recente: fu creato da nostro padre, insieme a tanti altri, almeno quindicimila anni fa. Urizen li ha sempre tenuti nascosti, attivando le porte solo quando voleva entrare o uscire. È per questo motivo che gli analizzatori non potevano scoprirli.» «Adesso capisco anche perché i pianeti visibili sono tre soltanto» disse Wolff. «Quelli esterni sono agli angoli di un quadrilatero, e così il pianeta opposto a questo rimane sempre occultato da Appirmatzum.» Non si stupiva delle forze che permettevano a corpi così grandi di rimanere relativamente vicini senza tuttavia abbandonare le proprie orbite. La scienza dei Signori era al di là della sua comprensione... anzi, a dire il vero, al di là della comprensione di qualsiasi Signore. Avevano ereditato e facevano uso di un potere di cui non capivano più i princìpi. Non gli importava nulla di non capire: per loro era sufficiente riuscire a far uso di quel potere. Proprio questa ignoranza dei princìpi basilari rendeva a volte i Signori così vulnerabili. Ognuno di loro aveva solo un certo numero di armi e di macchine. Se una qualsiasi andava distrutta, perduta o rubata, un Signore poteva rimpiazzarla solo rubandola a un altro Signore... sempre che ne esistesse ancora qualche esemplare. E le difese che predisponevano contro gli altri Signori avevano sempre delle crepe, per quanto potessero sembrare inespugnabili. L'importante, quando si attaccava un Signore, era vivere abbastanza a lungo da trovare quelle crepe. Per questo, Wolff aveva qualche speranza di vittoria, nonostante il loro gruppo apparisse al momento inerme. Mentre attendeva che cessasse il temporale di mercurio, ebbe tempo di riflettere. Da un cantuccio della mente gli uscì uno strano pensiero, che lo aveva tormentato per lunghissimo tempo. Non aveva nulla a che vedere con l'attuale situazione. Forse, era solo un espediente escogitato dal suo inconscio per impedirgli di pensare a Chryseis, a favore della quale, per ora, non poteva tentare nulla di nulla. I nomi di suo padre, dei suoi fratelli, sorelle e cugini, lo avevano riempito di meraviglia sin da quando aveva riacquistato la memoria della sua vita in qualità di Jadawin, Signore del Mondo dei Piani Sovrapposti. Urizen, Vala, Luvah, Anana, Theotormon, Palamabron, Enion, Ariston, Tharmas, Rintrah: erano questi i nomi della vasta e oscura cosmogonia presente nelle Opere Didattiche e Simboliche di William Blake. Era assurdo pensare
che i nomi fossero uguali per una fortuita coincidenza. Ma dove li aveva scovati il mistico poeta inglese? Aveva forse conosciuto un Signore spodestato, vagante sulla Terra, che gli aveva parlato, per chissà quale motivo, dei Signori? Era possibile. E Blake doveva aver usato i racconti di quel Signore come fonte di ispirazione per la sua poesia apocalittica, anche se poi li aveva notevolmente distorti. Un giorno o l'altro, se fosse uscito da quella trappola, avrebbe compiuto qualche ricerca sulla Terra e tra quei Signori disposti a intavolare una discussione sull'argomento. Il tambureggiare dell'argento vivo cessò. Dopo aver atteso un'altra mezz'ora, per essere sicuri che la tempesta fosse finita del tutto, gli isolani risalirono sul ponte principale. La coperta era fracassata, butterata e bruciacchiata; le murate erano state foracchiate tante di quelle volte che radici e foglie apparivano ridotte a brandelli di vegetazione. La cabina di comando, colpita da una concentrazione particolarmente elevata di gocce, era tutta una rovina. Piccoli globuli di mercurio erano sparsi su tutto il ponte. Theotormon disse: «La pioggia di mercurio non può essere paragonata a una pioggia di meteore. Le gocce viaggiano a una velocità di soli duecento chilometri orari, quando colpiscono l'atmosfera, e inoltre vengono notevolmente rallentate e suddivise, prima di raggiungere la superficie. Tuttavia...» Agitò una pinna per indicare i danni. Wolff guardò verso il mare. I nidi superstiti si stavano allontanando lentamente. Gli uomini alati avevano già abbastanza problemi per conto loro e certo non desideravano riprendere l'attacco. Un nido era così sovraccarico di profughi e di scampati che stava perdendo quota. Dugarnn era abbattuto. Aveva perso troppa gente. Ora sarebbe stato difficile manovrare l'isola e del tutto impossibile difenderla da un altro attacco. Sarebbero andati alla deriva intorno al pianeta, senza speranza: non sarebbero stati in grado di battersi finché i bambini non fossero cresciuti, ed era molto improbabile che l'isola potesse godere di pace e tranquillità così a lungo. «La mia gente è condannata» disse. «No, fin tanto che vi asterrete dal combattere» disse Wolff. «Dopotutto, potete evitare gli scontri con le altre abuta e con le isole di superficie. Mi hai detto che perché due abuta giungano a distanza utile di combattimento è necessario che entrambe manovrino per avvicinarsi. E voi non fatelo! Inoltre, i Nichiddor sono rari. Questa è la prima volta in quindici anni che
avete incontrato un gruppo di nidi.» «Cosa? Fuggire una battaglia?» Dugarnn era a bocca spalancata, con la mandibola pendula. «È... è impensabile. Saremmo dei codardi. I nostri nomi diventerebbero sinonimo di vigliaccheria, in bocca ai nostri nemici.» «Tutte sciocchezze» replicò Wolff. «Gli altri abutal non potranno nemmeno arrivare abbastanza vicini per identificarvi, se non glielo permetterete. Ma questo per voi è fuori discussione. E allora fatevi pure sterminare, per non essere stati capaci di cambiare mentalità, se è questo che volete.» C'era da ripulire l'isola e anche Wolff diede il suo contributo. I Nichiddor morti e feriti vennero scagliati fuori bordo. Gli abutal morti, invece, ricevettero lunghe onoranze funebri, officiate da Dugarnn, dato che lo stregone era morto nel corso della battaglia. Con la testa staccata dal busto. Poi, i corpi furono spinti oltre le murate per essere accolti dal mare. Giorni e notti scivolarono via lentamente, come l'isola trascinata dal vento. Wolff passava molto tempo a osservare le grandi sfere brune degli altri pianeti. Appirmatzum distava solo trentamila chilometri: così vicino, eppure così lontano, come se distasse un milione di chilometri. Era davvero impossibile arrivare lassù? Un piano cominciò a prendere forma nella sua mente, un piano tanto fantastico che Wolff fu tentato di abbandonarlo. Le possibilità di riuscita erano davvero esigue, condizionate per di più dall'estrema improbabilità di reperire i materiali adatti. L'abuta sorvolò la calotta polare, la cui superficie aveva peraltro lo stesso aspetto delle altre zone del pianeta. Per due volte avvistarono a distanza alcune isole nemiche. Quando queste cominciarono a dirigersi verso l'abuta, Dugamn ordinò tristemente di fuggire. Vennero aperte le valvole dei banchi di vesciche sullo stesso lato e l'isola acquistò una lenta deriva laterale, in modo da mantenere sempre la stessa distanza dal nemico. Entrambe le volte, l'abuta nemica rinunciò all'inseguimento dopo aver usato tutto il gas che poteva permettersi di perdere. Dugarnn spiegò che a volte erano necessari anche cinque giorni di manovra perché due abuta potessero portarsi a distanza di combattimento. Wolff ebbe un solo commento: «Non ho mai visto gente tanto ansiosa di morire.» Un giorno, quando ormai i Signori si erano convinti che avrebbero vagato per sempre su quelle acque piatte, una vedetta lanciò un grido che li fece accorrere. «La Madre di Tutte le Isole!» urlò la vedetta. «Diritto di prora! La Madre di Tutte le Isole!»
Se quella era la madre delle isole, allora i suoi bebé dovevano essere davvero piccoli. A cento metri di quota, Wolff poteva abbracciare con un solo sguardo l'intera massa galleggiante, da spiaggia a spiaggia. Nel punto più largo misurava circa cinquanta chilometri ed era lunga quasi altrettanto. Ma molte cose sono relative: su quel mondo, l'isola poteva rappresentare un continente. C'erano baie e insenature, e anche depressioni che il mare riempiva formando delle lagune. In passato, forse in seguito a collisioni con altre isole, si erano formate gobbe e raggrinzimenti. Insomma, l'isola appariva collinosa. E fu sulla cima di una delle colline che Wolff vide le porte. Erano due esagoni di metallo rilucente, larghi come l'hangar d'un dirigibile. Wolff si avviò di corsa a informare Dugarnn. Il comandante era già al corrente e stava abbaiando ordini. Tempo prima, aveva promesso a Wolff che quando fossero state scoperte le porte avrebbe considerato sciolto l'accordo. Wolff, il lanciaraggi e i Signori potevano lasciare l'abuta. Non c'era il tempo di manovrare per la discesa. Prima di raggiungere la quota voluta, l'abuta sarebbe scivolata ben oltre Mitza, la madre delle isole. Perciò i Signori scesero in fretta al ponte inferiore, dove erano già pronte per loro le imbracature da salto. Si legarono le cinghie alle spalle, al petto e alle gambe. Poi furono rimorchiati fino al boccaporto. Dugarnn e gli abutal si affollarono intorno a loro per aiutarli. Rivolsero però la parola solo a Wolff e a Luvah, li baciarono e li inghirlandarono con i fiori delle giovani piante da gas. Wolff disse loro addio e si buttò dal boccaporto. Cadde alla velocità di un uomo appeso a un paracadute, seguito dagli altri Signori. Tentò di atterrare in mezzo a una radura, ma calcolò male il vento e così piombò sulla cima d'una pianta, che però si piegò sotto il suo peso facendolo scendere a terra dolcemente. Anche gli altri compirono un discreto atterraggio, anche se alcuni riportarono qualche ammaccatura. Theotormon aveva un'imbracatura di dimensioni extra, per sostenere i suoi duecento chili, e tuttavia venne giù più velocemente degli altri. Piegò le zampe gommose, rotolò su se stesso e fu in piedi, lamentandosi perché aveva battuto la testa. Wolff attese che tutti si fossero radunati. Agitò un braccio verso gli Ilmawir, che si sporgevano dai boccaporti. Poi l'isola passò oltre e poco dopo sparì all'orizzonte.
I Signori si aprirono la strada attraverso la giungla in direzione della collina. Stavano all'erta, perché ancora sull'abuta avevano visto molti villaggi indigeni. Comunque, arrivarono alle porte in cima alla collina senza incontrare aborigeni e poco dopo erano ai piedi dei torrioni esagonali. «Perché due?» domandò Palamabron. Vala disse: «Questo è un altro degli indovinelli di nostro padre, ne sono sicura. Una porta deve condurre al suo palazzo su Appirmatzum. L'altra, chissà dove.» «Ma come faremo a sapere qual è quella giusta?» insistette Palamabron. «Stupido!» esclamò Vala. «Non lo sapremo finché non passeremo per l'una o per l'altra.» Wolff ebbe un leggero sorriso. Non era trascorso molto tempo da quando Vala si era appartata con Palamabron, ma da allora la donna aveva trattato il cugino con disprezzo e un sarcasmo anche maggiori di quelli che usava con gli altri. Palamabron ne era sconcertato. Evidentemente, si era aspettato una forma di gratitudine. Wolff disse: «Prenderemo tutti la stessa porta. Non sarebbe saggio dividere le nostre forze. Che sia giusto o sbagliato, dobbiamo restare uniti.» Palamabron disse: «Hai ragione, fratello. Inoltre, una volta divisi, quelli di noi che riuscissero a penetrare nella fortezza di Urizen e ad ucciderlo, avrebbero la situazione in pugno e tradirebbero sicuramente quelli dell'altro gruppo.» «Non è questo il motivo per cui pensavo che dovessimo stare insieme» disse Wolff, «ma hai centrato un buon argomento.» «Al massimo delle sue possibilità» interloquì Vala «Palamabron non è un pensatore più di quanto non sia un grande amante.» Palamabron arrossì e posò la mano sull'elsa della spada. «Sono stufo di dover ingoiare i tuoi insulti, razza di cagna in calore. Un altro ancora e la testa ti rotolerà dalle spalle.» «Avremo abbastanza da combattere in futuro» disse Wolff. «Conserva la tua furia per ciò che troveremo al di là di una di queste porte.» Vide un movimento tra i cespugli, a circa cento metri di distanza. Subito dopo comparve una faccia: un indigeno li stava osservando. Wolff si domandò se qualche indigeno avesse mai tentato di attraversare le porte. Forse qualcuno l'aveva fatto, ma la sua scomparsa doveva aver terrorizzato gli altri. Probabilmente la zona era tabù. Si interessava delle possibili reazioni degli indigeni, perché pensava che
prima o poi avrebbero potuto essere utili. Sul momento però, non aveva tempo e non voleva sprecarne. Chryseis era nella fortezza di Urizen e ogni minuto passato là dentro doveva essere un'agonia. E poteva anche trattarsi di un'agonia non solo dello spirito: forse Urizen ne torturava anche il corpo. Rabbrividì e tentò di scacciare dalla mente l'immagine. Una cosa alla volta. Guardò gli altri. Lo stavano osservando con occhiate attente. Anche se pronti a negarlo con veemenza, lo consideravano il capo. Non era il fratello maggiore, e uno dei cugini era più anziano di lui. Ma era stato lui a prendere misure immediate ed energiche ogni volta che era sopraggiunta una crisi. E aveva il lanciaraggi. Inoltre, riscontravano in lui qualcosa di diverso, una dimensione che a loro mancava... Certo, non erano disposti ad ammetterlo, ma la sua esperienza come Robert Wolff, il Terrestre, gli aveva procurato una certa dimestichezza con questioni che loro avevano sempre considerato troppo indegne per un Signore. Non essendo mai stati sottoposti a un duro lavoro e non avendo mai avuto a che fare con situazioni a livello tanto primitivo, si sentivano perduti. Un tempo erano stati fabbricanti e semidivini reggitori dei loro universi privati. Ora non valevano quanto quei selvaggi che tanto disprezzavano, e forse anche meno. Jadawin, o Wolff, come avevano cominciato a chiamarlo, era invece un uomo che in un mondo di selvaggi sapeva come cavarsela. Wolff disse: «L'una o l'altra. È una classica situazione da an-ghin-go.» «Che razza di barbaro linguaggio è mai questo?» fece Vala. «Un linguaggio di tipo terrestre. Ti spiegherò.» Poi aggiunse: «Vala è la sola donna qui...» «Ma più uomo della maggior parte di voi» l'interruppe lei. «... e così, perché non lasciamo che sia lei a scegliere per quale porta entrare? È un metodo di scelta buono come un altro.» «Quella cagna non ha mai fatto niente di giusto in vita sua» disse Palamabron. «Ma sono d'accordo: che sia lei ad indicare la porta. Dopodiché, non sbaglieremo se passeremo da quella che non ha scelto.» «Fa' come ti pare» disse Vala. «Ma io dico... quella.» Indicò con la mano l'esagono di destra. «Molto bene» disse Wolff. «Dato che ho il lanciaraggi, andrò io per primo. Non so che cosa ci sia dall'altra parte. O meglio: so che cosa c'è: la morte. Ma non so che forma prenderà. Prima di andare, vorrei dirvi questo:
c'è stato un tempo, fratelli e cugini, in cui ci volevamo bene. A quell'epoca, nostra madre era viva e noi vivevamo felici con lei. Nutrivamo un timore reverenziale per nostro padre, il tenebroso, il remoto e minaccioso Urizen. Ma non lo odiavamo. Poi, nostra madre morì. Come morì, ancora oggi lo ignoro. Penso, come forse anche altri di voi, che sia stato Urizen a uccidere nostra madre: solo tre giorni dopo la sua morte, prese in moglie Araga, Signora di un universo, e così unì i propri domini a quelli di lei. «Ad ogni modo, chiunque sia stato ad assassinare nostra madre, sappiamo che cosa accadde dopo. Scoprimmo che Urizen stava cominciando a pentirsi di aver messo al mondo dei figli. Era uno dei pochissimi ad avere dei bambini che venissero cresciuti come Signori. I Signori stanno scomparendo: stanno pagando con una graduale estinzione la loro cosiddetta immortalità. E hanno già pagato con la perdita dell'unica cosa che renda la vita degna di essere vissuta: l'amore.» «L'amore!» disse Vala. Scoppiò a ridere e gli altri si unirono a lei. Luvah fece un mezzo sorriso, ma non rise. «Mi fate venire in mente un branco di iene» disse Wolff. «Le iene sono divoratrici di carogne, sono bestie ripugnanti e crudeli, il cui puzzo e le cui abitudini suscitano l'odio e il generale disprezzo. Hanno comunque un'utile funzione, e questo è più di quanto possa dire di voi. «Ho detto "amore". E lo ripeto. Ma questa parola non significa niente per voi: da troppe migliaia d'anni non provate più questo sentimento. E dubito che anche in passato qualcuno di voi l'abbia provato con la dovuta intensità. Ad ogni modo, come stavo dicendo, scoprimmo che Urizen meditava di toglierci di mezzo. O almeno di ripudiarci e spedirci a vivere con gli indigeni di un pianeta di uno dei suoi universi, un mondo che avrebbe poi privato delle porte, così che non potessimo mai rivalerci su di lui. Fuggimmo. Lui ci diede la caccia e tentò di ucciderci. Ma noi scampammo alla sua caccia, uccidemmo altri Signori e ci impadronimmo dei loro mondi. «Poi, dimenticammo di essere fratelli sorelle e cugini, e diventammo dei veri Signori: pieni d'odio, intriganti, gelosi e possessivi. Assassini crudeli, sia l'un dell'altro che nei riguardi degli esseri miserevoli che popolavano i nostri mondi.» «Adesso basta, fratello» intervenne Vala. «Dove vuoi arrivare?» Wolff sospirò. Stava sprecando fiato. «Stavo per dire che forse Urizen ci ha fatto un involontario favore. Forse potremmo trovare in noi stessi la volontà di far rivivere ora l'amore dell'infanzia, di agire come dovrebbero agire dei fratelli. Noi...»
Si interruppe. I loro volti sembravano quelli di altrettanti idoli di pietra. Il tempo avrebbe potuto segnarli, ma l'amore non li avrebbe mai ammorbiditi. Si voltò e passò dalla porta di destra. CAPITOLO VIII I piedi slittarono e Wolff cadde su un fianco. Ebbe una rapida visione di lisce superfici vetrose, mentre scivolava giù per la collina sulla cui sommità si trovava la porta. Scendeva a tutta velocità, ma il materiale, sebbene desse un'impressione di viscido e di oleoso, era asciutto. Malgrado tentasse di affondarvi i calcagni e vi premesse sopra con forza le palme delle mani, non riuscì a rallentare. Anzi, continuò ad acquistare velocità. Era come trovarsi sul ghiaccio. Scendendo a velocità sempre maggiore, cercò di raddrizzarsi. Si contorse convulsamente e riuscì a mettersi in una posizione che via via gli permetteva di individuare la traiettoria alla quale il suo corpo era obbligato. Più avanti, il pendio si faceva più dolce. La sua velocità diminuì leggermente, tuttavia stava scivolando ad almeno cento chilometri orari e senza possibilità di fermarsi. Teneva la testa sollevata per evitare di scorticarsi il viso, e le mani bene in alto. L'attrito, che avrebbe già dovuto bruciargli gli abiti e la pelle, era come se non esistesse. Wolff continuava a scendere a gran velocità, accusando solo una lieve sensazione di calore. Il cielo era purpureo. Appena sopra l'orizzonte appariva l'arco di una luna... o di quello che lui pensava fosse una luna. L'arco era di color porpora, più cupo di quello del cielo. Evidentemente, non si trovava all'interno del palazzo di Urizen, ma su un altro pianeta. A giudicare dalla distanza dell'orizzonte, doveva avere all'incirca le stesse dimensioni di quello che aveva appena lasciato. Era convinto, anzi sicuro, che si trattava di uno dei pianeti che aveva visto nel cielo del mondo acqueo. Urizen li aveva giocati. Aveva regolato la porta da cui erano passati in modo da farli arrivare su uno dei corpi che ruotavano attorno ad Appirmatzum. Forse l'altra porta, là sul mondo d'acqua, conduceva al pianeta di Urizen. O forse anche quella conduceva lì. Al momento, non c'era modo di saperlo. Quale che fosse la strada che si apriva al di là della seconda porta, era troppo tardi per tentare qualcosa. Era caduto, senza possibilità di scampo, in uno dei trabocchetti di suo padre. Proprio un bello scherzo, se si po-
teva chiamare così la morte. Aveva percorso forse tre chilometri, quando il pendio cominciò a piegare verso l'alto. In poco tempo la sua velocità diminuì sensibilmente. Ora viaggiava a cinquanta chilometri all'ora, forse più, forse meno. Senza precisi punti di riferimento era impossibile giudicare. C'erano sì, alla sua destra e piuttosto lontani, alcuni alberi dall'aspetto singolare. Ma, non sapendo quanto fossero alti o quanto fossero distanti, Wolff non poteva valutare neanche approssimativamente a che velocità stesse andando. Ad un certo punto, proprio quando ormai procedeva a forse venti chilometri all'ora, il pendio s'inclinò bruscamente verso l'alto ed egli superò il ciglio. Wolff si ritrovò nel vuoto: un precipizio si apriva sotto di lui. Cadde, incapace di trattenere un urlo. Vide, quindici metri più sotto, un corso d'acqua non molto largo, la riva opposta fatta della stessa sostanza vetrosa su cui era scivolato fino a quel momento. Precipitò nella gola, scalciando per mantenere una posizione eretta, in modo da colpire l'acqua con i piedi. L'acqua, comunque, non era lontana come aveva creduto, dato che si trovava solo dieci metri più in basso. Affondò in un liquido tiepido, poi risalì a galla e si mise a nuotare. La corrente lo afferrò, trascinandolo velocemente tra le pareti della gola. Nell'attimo in cui, nuotando, aggirava una curva, vide un Signore colpire l'acqua e un altro ancora a mezz'aria. La gola si aprì e il fiume si allargò. Poco dopo, Wolff dovette affrontare una serie di cadute lungo una successione di rapide. Fortunatamente, le rocce erano arrotondate e lisce, anzi vetrose, e anche se si buscò qualche sbucciatura, poté evitare dei brutti tagli. Al di là delle rapide, la corrente era più lenta. Nuotò verso la riva. La pendenza era lieve, tuttavia Wolff non riuscì a far presa sul terreno e scivolò di nuovo nel fiume. Allora continuò a nuotare lungo la sponda sperando di trovare più avanti il punto adatto per uscire dall'acqua. Gli abiti e soprattutto le armi lo appesantivano. Finché poté, resistette alla tentazione di sbarazzarsene, ma quando cominciò a sentirsi stanco si liberò dell'arco e della faretra. Poco dopo, lasciò cadere in acqua la cintura, con la fondina e il fodero, infilandosi però nei pantaloni il lanciaraggi ed il coltello. Alla fine si sbarazzò anche del coltello. Ogni tanto si guardava indietro. Otto teste ballonzolavano sul pelo dell'acqua. Per ora erano tutti vivi, ma se non fossero riusciti ad arrampicarsi a riva sarebbero presto annegati tutti. Tutti, eccetto Theotormon, che anche
con una pinna cresciuta a metà era senz'altro il nuotatore migliore. Fu allora che Wolff ebbe un'idea. Prese a nuotare controcorrente, anche se lo sforzo gli costava più energie di quante non potesse permettersi di spendere. Continuò a nuotare finché Luvah, Vala e Tharmas non gli giunsero accanto. Allora gridò loro di mettersi a nuotare controcorrente, se volevano salvarsi. Poco dopo, la massa enorme oleosa e nerazzurra di Theotormon fu accanto a lui. Dietro, venivano Ariston, Emion e Rintrah. Ultimo era Palamabron, il più vanaglorioso, quello però che con più paura aveva attraversato la porta. Era affannato più degli altri, ed era pallidissimo. «Salvami, fratello!» gridò. «Non posso resistere ancora per molto. Morirò.» «Risparmia il fiato» disse Wolff. Poi, rivolgendosi a Theotormon: «Abbiamo bisogno di te, fratello. Adesso tu, tanto disprezzato, sei l'unico che possa aiutarci. Senza di te annegheremo tutti.» Theotormon, nuotando senza sforzo controcorrente, ridacchiò. «Perché dovrei? Mi avete tutti sputato addosso... Avete detto che vi faccio schifo.» «Io non ti ho mai sputato, addosso» disse Wolff. «Né ho mai detto che mi facevi schifo. E sono stato io che ho insistito per portarti con noi. L'ho fatto perché sapevo che avremmo avuto bisogno di te. Ci sono cose che tu puoi fare, con quel corpo, e noi no. È una ironia che Urizen, che ha predisposto questa trappola e trasformato te in un mostro marino, abbia proprio fatto in modo che tu potessi sopravvivere alla sua trappola. Senza volerlo, ti ha dato i mezzi per uscirne e così aiutare anche noi a cavarcela.» Date le le circostanze, il discorso era lungo e lo lasciò senza fiato. Ma era necessario adulare Theotormon, altrimenti avrebbe potuto lasciarli morire e ridendoci anche sopra. Theotormon disse: «Vuoi dire che Urizen si è messo nel sacco da solo?» Wolff annuì. «E come posso tirarmi fuori di qui?» domandò ancora Theotormon. «In acqua sei forte e veloce come una foca. Puoi lanciarti a una velocità tale da catapultarti sulla riva. Puoi spingere a riva anche noi, uno alla volta. So che puoi farlo.» Theotormon ghignò furbescamente. «E perché dovrei?» «Se non lo fai, resterai solo su questo mondo straniero» disse Wolff. «Potrai anche sopravvivere per un po', ma sarai solo. Dubito che qui ci sia qualcuno con cui parlare. Inoltre, se vogliamo andarcene da questo pianeta, dobbiamo trovare la porta per uscirne. Puoi farcela da solo? Una volta a
terra, avrai bisogno di noi.» «Andate al diavolo!» urlò Theotormon. Si rizzò e scomparve sott'acqua. «Theotormon!» chiamò Wolff. Gli altri fecero eco al suo richiamo. Annaspavano per restare a galla e si guardavano l'un l'altro, disperati. Sui loro volti non c'era più nulla che ricordasse gli altezzosi Signori di poco prima. Improvvisamente, Vala urlò. Sollevò le braccia e finì sott'acqua. Dalla rapidità dell'immersione si capiva bene che qualcosa l'aveva trascinata sotto. Passarono alcuni secondi, poi apparve la testa oleosa e nerazzurra di Theotormon e, un momento dopo, i capelli rossi di Vala. Le lunga dita palmate di suo fratello erano impigliate nei suoi capelli, cosicché i piedi di Theotormon le tenevano sollevata la testa. «Di' che ti dispiace!» sbraitava Theotormon. «Chiedi scusa! Dimmi che non sono un disgustoso sacco di lardo! Dimmi che sono bello! Prometti di fare l'amore con me, come hai fatto con Palamabron, sull'isola!» Vala si liberò la chioma con uno strappo, lasciandogli alcuni fili rossastri tra le dita. «Ti ucciderò, sgorbio! Sono ancora molto lontana dal morire! E anche se così fosse, andrei a morte volentieri, piuttosto che cedere a te!» Theotormon sbarrò gli occhi e si allontanò da lei pagaiando con i piedi. Si rivolse a Wolff e disse: «Visto? Perché dovrei salvare lei o chiunque altro di voi? Dopo, continuerete ad odiarmi, proprio come io odierei voi.» Palamabron prese ad annaspare ancora più affannosamente e gridò: «Salvami, Theotormon! Non ce la faccio più a tenermi a galla, sono troppo stanco. Morirò!» «Resterai solo!» ansimò Wolff. «Ricorda quello che ti ho detto!» Theotormon sogghignò e s'immerse: poco dopo stava spingendo Palamabron davanti a sé. Con la testa contro le natiche del fratello, avanzava veloce grazie alle pinne e ai grandi piedi palmati. Palamabron fu proiettato fuori dell'acqua e scivolò in avanti sulla riva vetrosa per una lunghezza doppia di quella del suo corpo. Rimase bocconi, ansimando come un cavallo bolso, con l'acqua che gli colava dal naso e la saliva dalla bocca. Uno alla volta, Theotormon lanciò anche gli altri sulla sponda, dove giacquero come morti. Solo Vala rifiutò il suo aiuto. Si mise a nuotare più forte che poteva, facendo appello a un'energia che Wolff non avrebbe creduto le fosse rimasta. Scivolò a riva quant'era lunga e subito prese a strisciare, molto lentamente, su per il lieve pendio. Quando ebbe raggiunto una zona pianeggiante, si mise a sedere con estrema cautela. Guardò gli altri e disse con scherno:
«Sono dunque questi i miei fratelli? Gli onnipotenti Signori degli universi! Un gruppo di topi semiannegati. Sicofanti di un lumacone marino, che supplicano per le loro vite.» Poi, anche Theotormon si proiettò a riva e scivolò oltre i Signori. Molleggiandosi sulle zampe, passò accanto a Vala, senza guardarla. Anche gli altri, quando ebbero riacquistato un po' di forza e di fiato, strisciarono verso il terreno pianeggiante. Uno spettacolo pietoso, dato che la maggior parte di loro aveva abbandonato in acqua abiti e spade. Solo Wolff e Vala avevano conservato i vestiti. Inoltre, lui aveva perduto tutte le armi eccetto il lanciaraggi, e lei aveva ancora la spada. A parte i capelli, appariva come se non fosse mai stata in acqua. I suoi indumenti erano idrorepellenti. Luvah strisciò verso Wolff. Due volte aveva tentato di camminare e due volte era finito col sedere per terra. Il suo viso aveva riacquistato colore, cosicché le lentiggini sul naso e sulle guance non risaltavano troppo. Disse: «Prima, quando nostro padre ci ha catturati, eravamo come bambini che giocavano a nascondino. Ora, da bambini siamo diventati neonati. Non possiamo nemmeno camminare, dobbiamo strisciare carponi, come lattanti. Pensi che nostro padre stia cercando di dirci qualcosa?» «Questo non lo so» disse Wolff. «Ma di una cosa sono sicuro. Urizen ha progettato tutto questo da moltissimo tempo, sto cominciando a credere che abbia creato i pianeti che ruotano ad Appirmatzum per un unico scopo. Questo mondo e gli altri sono destinati a tormentarci e a metterci alla prova.» Luvah rise, senza molta allegria. «E se sopravviviamo ai tormenti e superiamo le prove, che premio ci tocca?» «Avremo la possibilità di venire uccisi direttamente da nostro padre o di essere noi a uccidere lui.» «Credi davvero che agirà lealmente? Non avrà reso la sua fortezza del tutto inespugnabile? Io non credo che nostro padre sia tanto sportivo.» «Sportivo? Come sarebbe, sportivo? Credi forse che ci sia una specie di tacito accordo per cui ogni Signore debba lasciare qualche piccola fessura nelle proprie difese? Qualche difetto che permetta a un attaccante estremamente abile e capace di passare? Può anche darsi che questo sia vero, a volte. Ma alcuni dei Signori che sono stati uccisi o spodestati erano convinti di essere al sicuro dai più abili e potenti aggressori. Non penso che chi ha avuto successo l'abbia avuto grazie a una debolezza nelle difese volutamente predisposta dal difensore. Le fessure nell'armatura ci sono per un altro motivo.
«Il motivo è che i Signori hanno ereditato le armi che detengono. Non sanno come procurarsi quelle che non hanno ereditato o strappato agli altri. La razza ha perduto la sua antica abilità e sapienza, è diventata una razza di utilizzatori, di consumatori, non certo di creatori. Perciò, un Signore deve arrangiarsi con quello che ha. E se le sue armi non coprono ogni eventualità, se lasciano scoperti dei buchi nell'armatura, ecco che qualcuno riesce a passare. «C'è anche un altro fatto. I Signori combattono per difendere le proprie vite e per uccidere gli altri. Ma la maggior parte di loro ha vissuto troppo a lungo. Sono annoiati di tutto. Vogliono morire. Giù negli abissi delle loro menti, sotto le migliaia di strati depositati dagli anni di troppo potere e di troppo poco amore, c'è il desiderio di morire. E così, compaiono le crepe nei muri.» Luvah era sbalordito. «Di' un po', fratello. Non crederai mica davvero a questa pazza teoria? Io non sono affatto stanco di vivere. Amo la vita adesso come quando avevo cent'anni. E anche gli altri lottano per la vita, come hanno sempre fatto.» Wolff fece spallucce e disse: «È solo una delle mie teorie. L'ho sviluppata da quando sono diventato Robert Wolff. Ora posso vedere cose che prima non potevo e che nessuno di voi è in grado di vedere.» Strisciando, raggiunse Vala e le disse: «Prestami un momento la tua spada. Voglio tentare un esperimento.» «Ad esempio, tagliarmi la testa» disse lei. «Se volessi ucciderti, avrei il lanciaraggi.» Lei estrasse dal fodero la corta lama e gliela tese. Wolff ne batté leggermente il filo tagliente sulla superficie vetrosa. Poiché il primo colpo non aveva lasciato segni, colpì ancora e più forte. Vala disse: «Che stai facendo? Rovinerai il filo.» Wolff indicò la scalfittura provocata dal secco colpo. «Ha lo stesso aspetto di un graffio sul ghiaccio. Questa sostanza è priva d'attrito, ed è molto più scivolosa del ghiaccio, ma per altri aspetti sembra proprio acqua gelata.» Le restituì l'arma ed estrasse il lanciaraggi. Dopo averlo regolato a mezza potenza, lo puntò a terra. La sostanza divenne rossa, poi si mise a bollire. Cominciò a scorrere del liquido. Wolff spense il lanciaraggi e soffiò via il liquido dal buco. Gli altri si avvicinarono strisciando, per osservare. «Sei un uomo strano» disse Vala. «Chi mai avrebbe pensato di fare una cosa simile?»
«Ma perché lo fa?» domandò Palamabron. «Se si diverte a far buchi per terra, vuol dire che è matto.» Palamabron aveva completamente recuperato la sua alterigia e il suo modo distaccato di parlare. Vala replicò: «No, non è matto. È curioso, ecco tutto. Hai dimenticato che cosa vuol dire essere curiosi, Palamabron? A giudicare da come ti comporti, si direbbe che tu sei morto. Eppure, poco fa, sembravi abbastanza vivace.» Palamabron arrossì, ma non disse niente. Si mise a osservare i piccoli cristalli che crescevano sulle pareti della buca e lungo i margini del graffio. «Autorigenerazione» disse Wolff. «A dire il vero, ho letto più che potevo intorno all'antica scienza dei nostri antenati, ma non ho mai letto né sentito niente del genere. Urizen deve avere delle conoscenze che per tutti noi altri sono perdute.» «Forse» disse Vala, «le ha ottenute da Orco Rosso. Si dice che Orco sappia più di tutti gli altri Signori messi insieme. È l'ultimo degli antichi. Si dice che sia nato più di mezzo milione di anni fa.» «Si dice, si dice» la scimmiottò Wolff. «La verità è che nessuno ha più visto Orco Rosso da centomila anni. Penso che sia morto, ma che viva ancora la sua leggenda. Ma adesso basta. Dobbiamo trovare il prossimo gruppo di porte, anche se non so dove ci condurranno.» Si alzò con cautela e strascicò i piedi, avanzando di alcuni passi. La superficie di quel mondo non era che una sterile vetrosità; alla distanza di diverse centinaia di metri si levavano degli alberi, ampiamente intervallati, e tra questi crescevano dei cespugli a forma di fungo. Gli alberi avevano sottili tronchi a striscie bianche e rosse disposte a spirale, come l'insegna d'un barbiere. I tronchi si ergevano dritti per sette, otto metri, poi piegavano a destra o a sinistra. Dove cominciavano a curvarsi, spuntavano dei rami a forma di 9, sdraiati e coperti di una fine peluria grigia, i cui filamenti erano lunghi circa mezzo metro. Rintrah, nudo, rabbrividì e disse: «Non fa freddo, ma c'è qualcosa che mi mette a disagio e mi dà i brividi. Forse è il silenzio. State ad ascoltare: non si sente niente.» Tutti stettero zitti. C'era solo un lontano mormorio, il vento che sussurrava tra i cespugli e i rigidi germogli dei rami arrotolati, e lo sciabordio del fiume. A parte questo, null'altro. Nessun uccello cantava. Non si sentiva il grido di animale alcuno. Nessuna voce umana. Solo il rumore del vento e del fiume, e anche questo soffocato, come se fosse schiacciato dal rosso
del cielo. Intorno a loro il pallido terreno bianco si estendeva sino all'orizzonte. C'erano alcune colline piuttosto arrotondate, la più alta delle quali era quella da cui erano scivolati a tutta velocità. Dal punto dove si trovavano potevano vederne la mole e la porta, un piccolo oggetto scuro, sulla sua sommità. Il resto del paesaggio era costituito da colline basse e dal terreno pianeggiante. Dove andremo, da qui? pensò Wolff. Senza un qualche sentiero, potremmo vagare per sempre. Fino al termine delle nostre vite, ammesso che troveremo qualcosa da mangiare lungo la via. Poi, ad alta voce: «Credo che dovremo seguire il fiume. Scorre verso il basso, forse verso qualche grande massa d'acqua. Urizen ci ha fatto cadere nel fiume. Ciò vuol dire che forse il fiume può guidarci alla prossima porta...» «Può darsi» disse Enion. «Ma tuo padre, e mio zio, ha un cervello contorto. Secondo la sua perversa maniera, potrebbe aver usato il fiume per indicarci che dobbiamo andare in su e non secondo la corrente.» «Forse hai ragione, cugino» replicò Wolff. «Comunque, c'è un solo modo di scoprirlo. Io suggerisco di seguire la corrente, se non altro perché sarà più facile procedere.» Si rivolse a Vala: «Tu che ne pensi?» Lei alzò le spalle e disse: «Non so. L'ultima volta ho scelto la porta sbagliata. Perché me lo chiedi?» «Perché tu sei sempre stata quella più vicina a nostro padre. Conosci meglio di tutti noi il suo modo di pensare.» Vala abbozzò un'ombra di sorriso. «Non credo che tu voglia farmi un complimento. Ma lo prenderò come tale. Per quanto odii Urizen, lo ammiro e rispetto le sue capacità. È sopravvissuto dove molti dei suoi coetanei non ci sono riusciti. Comunque, dato che me lo chiedi, io dico di seguire la corrente.» «Che ne pensano gli altri?» domandò Wolff. Aveva già deciso in quale direzione andare, ma non voleva che gli altri se la prendessero con lui se si fosse rivelata sbagliata. Era meglio che tutti condividessero la responsabilità. Palamabron cominciò a parlare: «Io dico di no, insisto che...» CAPITOLO IX
Un gemito arrivò contro vento e i Signori si girarono, fissando lo sguardo a monte del fiume. Da dietro una collina, lontana alcune centinaia di metri, era apparso un animale alto come un elefante. Stava immobile tra due grandi massi. La testa, in cima a un lungo collo, era molto simile a quella d'un cammello con le corna. Gli occhi erano enormi e i denti lunghi e aguzzi, da carnivoro. Il corpo era rosso-bruno, peloso, e si allungava ad angolo acuto sotto le spalle. Le zampe, sottili come quelle d'una giraffa malgrado il corpo pesante, terminavano con delle grandi coppe allargate, blu scuro. Appena vide i piedi a coppa, Wolff ne indovinò la funzione. Assomigliavano troppo a ventose, e questo era uno dei pochi sistemi che potessero permettere di camminare su quella superficie levigata. «Restate fermi» disse agli altri. «Noi non possiamo correre. E anche se lo potessimo, non sapremmo dove andare.» La bestia sbuffò e si mosse lentamente verso di loro. Faceva ondeggiare avanti e indietro il collo e ogni tanto girava la testa per guardarsi alle spalle. Il piede anteriore destro e il posteriore sinistro si alzavano contemporaneamente, con le coppe che producevano uno schiocco sonoro. Poi, le due ventose calavano al suolo per ottenere un sostegno, mentre si sollevavano il piede anteriore sinistro e il posteriore destro. In questo modo l'animale poteva procedere. Quando fu a quaranta metri, si fermò e sollevò la testa. Emise un verso che era a metà raglio e a metà vagito. Abbassò il collo finché la mandibola toccò terra e poi fece oscillare avanti e indietro la testa, strofinando la pallida superficie con la parte inferiore del muso. Wolff ebbe un'intuizione. Quel movimento somigliava troppo al raspare nella polvere che fa il toro terrestre prima di caricare. Mise il lanciaraggi a mezza potenza e attese. Improvvisamente, la creatura sollevò la testa più in alto che poteva, strillò in modo molto simile a un coniglio ferito, e partì al galoppo verso di loro. Era necessariamente un galoppo lento, dato che le coppe a ventosa non si staccavano facilmente, ma ai Signori parve anche troppo veloce. Wolff decise di aspettare ancora per vedere se per caso la bestia non stesse bluffando. Quando questa fu a quindici metri, puntò il lanciaraggi in direzione della giuntura tra il collo e il torace. Spire di fumo si levarono dal pelame rosso-bruno, che si annerì all'istan-
te. L'animale strillò di nuovo, ma non arrestò la sua carica. Wolff continuò a tenere puntato il lanciaraggi più fermamente che poteva. Poi, vedendo che l'impeto della corsa avrebbe potuto portare la bestia a una distanza tale da riuscire ad afferrarli con le mascelle zannute, commutò l'arma sulla piena potenza. L'animale diede un ultimo strillo. Le sue lunghe zampe si piegarono e il corpo cadde di schianto. O meglio: le coppe si inchiodarono al terreno e le zampe si spezzarono sotto il peso del corpo, che si adagiò lentamente al suolo. Il collo si afflosciò e la testa ciondolò, con la lingua rossa sporgente e gli occhi nocciola ormai vitrei. Cadde il silenzio, rotto dalla risata di Vala. «Ecco il pranzo, la colazione e poi ancora il pranzo, già bell'e cotti.» «Sempre che sia commestibile» disse Wolff. Rimase a osservare, mentre Vala e Theotormon, che teneva il coltello stretto in un piede, scuoiavano l'animale e ne tagliavano delle fette bruciacchiate. Theotormon rifiutò di provare la carne. Wolff arrancò in avanti con estrema cautela, e tuttavia i piedi gli mancarono. Vala e Theotormon, che erano arrivati fino alla bestia senza scivolare, scoppiarono a ridere. Wolff si rialzò e continuò ad avanzare faticosamente. Disse: «Se nessun altro ne ha il coraggio, proverò io la carne. Non possiamo star qui a discutere se è commestibile o no.» Vala disse: «Non è che abbia paura, solo che mi disgusta. Ha un odore così rancido.» Ne addentò un pezzo, masticò con aria disgustata e inghiottì. Wolff osservava: ormai era inutile che la provasse anche lui. Attese, insieme agli altri. Quando fu trascorsa mezz'ora e Vala ebbe mostrato di non risentire effetti nocivi, si mise a mangiare. Gli altri strisciarono e si contorsero fino alla carcassa dell'animale e mangiarono anche loro. Non c'era molto da utilizzare, dato che la maggior parte della carne era carbonizzata o cruda, e solo in una piccola zona il calore aveva arrostito la carne al punto giusto. Wolff prese a prestito il coltello di Theotormon e tagliò altre fette di carne. Con riluttanza, poiché desiderava conservare l'energia del lanciaraggi, arrostì le bistecche. Poi, ognuno si caricò di cibo e cominciarono a marciare lungo il fiume. Wolff esitò alcuni istanti, prendendo in considerazione la possibilità di asportare le ventose e servirsene per camminare più agevolmente. Abbandonò l'idea non appena ebbe controllato lo spessore delle os-
sa delle zampe e la durezza delle cartilagini. La spada di Vala avrebbe potuto farcela, ma poi il suo filo sarebbe rimasto troppo danneggiato. Al termine di una faticosa avanzata di tre chilometri, raggiunsero un gruppo di cespugli presso la sponda del fiume. Erano alti un metro e a forma di fungo, con la parte superiore che si allargava di molto sulla base sottile. I rami erano piuttosto grossi, a forma di cavatappi, coperti di una peluria che a distanza ravvicinata appariva costituita da aghi sottili. C'erano anche delle grandi bacche rosso scuro, che spuntavano a grappoli all'estremità dei rami. Wolff ne colse una e l'annusò. L'odore gli rammentò quello della noce americana. La buccia era liscia e leggermente umidiccia. Era titubante ad addentare la bacca. Di nuovo fu Vala a sperimentare lo strano cibo. Ne mangiò una, proclamandone per tutto il tempo il gusto squisito. Nella mezz'ora successiva ne mangiò altre sei. Allora Wolff ne assaggiò qualcuna anche lui e finalmente anche gli altri cominciarono a mangiarle. Palamabron, l'ultimo a provarle, si lamentò che non gliene fossero rimaste molte. «Non è colpa nostra se sei così vigliacco» disse Vala. Palamabron la guardò torvo, ma non rispose. Theotormon, pensando di aver finalmente trovato qualcuno che non avrebbe osato rispondergli, riprese gli insulti da dove Vala li aveva lasciati. Palamabron lo schiaffeggiò in pieno volto. Theotormon ruggì di furore e tentò di balzare sul fratello, ma i suoi piedi slittarono e finì pattinando sul viso contro le gambe di Palamabron, che andò giù come un birillo e scivolò di lato, fuori portata dalla pinna di Theotormon. Entrambi si esibirono in un frenetico quanto vano tentativo di saltarsi addosso l'un l'altro. Alla fine Wolff, che non si era unito alle risate di scherno degli altri, intimò loro di fermarsi. «Se questi dispetti da bambini perditempo continueranno, penserò io a farli finire. Non con il lanciaraggi: non ho la minima intenzione di sprecare dell'energia per tipi come voi. Solo, vi scacceremo e continueremo senza di voi. Dobbiamo stare uniti, con il minimo di discordia, se non vogliamo dare a Urizen il piacere di vederci distruggere l'un l'altro.» Theotormon e Palamabron si sputarono addosso ancora una volta e la rissa finì. In silenzio, nella pallida ombra purpurea della luna, i Signori ripresero la loro marcia strisciante. La notte aveva posto fine al silenzio. Udirono dei belati, come di pecore, e dei muggiti, come di una mandria lontana. Qualcosa ruggì, come un leone. Passarono accanto a un altro gruppo
di cespugli e videro dei piccoli bipedi che si nutrivano di bacche. Erano alti più di mezzo metro, di pelo marrone e col muso di lemuri. Avevano grandi orecchie da coniglio e occhi a mandorla. Le zampe superiori terminavano con delle specie di mani e le inferiori con dischi a ventosa. Le code, scarlatte, erano corte, da coniglio. Alla vista degli esseri umani, smisero di mangiare e volsero il muso verso di loro, con i nasi frementi. Dopo essersi convinti che i nuovi venuti non rappresentavano un pericolo, ripresero a mangiare, ma uno di loro continuò a fissarli e abbaiò come un cane. All'improvviso, un quadrupede dalle dimensioni di un bracco norvegese sbucò da dietro una piccola altura. Era irsuto come un cane da pastore, giallastro e sagomato come una volpe. Sotto i piedi aveva dei sottili pattini d'osso che gli permettevano di avanzare a grande velocità verso i bipedi. Questi abbaiarono allarmati e si diedero alla fuga tutti assieme. Tenevano un'andatura piuttosto veloce, malgrado le ventose, ma il lupo a pattini era molto più rapido. Il capo dei bipedi, vedendo che non avevano scampo, rimase indietro, finché non fu a pari del più lento dei suoi protetti. Urtò il ritardatario, sbattendolo per terra, poi corse avanti. Il sacrificato guaì e tentò di rimettersi ritto sulle ventose, ma fu gettato a terra di nuovo dal ringhiante lupo a pattini. Ci fu una breve lotta, subito finita quando le mandibole del lupo si chiusero sulla gola del bipede. Wolff disse: «Ecco la spiegazione dei graffi che abbiamo visto di tanto in tanto sulla superficie: ci sono animali con i pattini.» Rimase silenzioso per un poco, pensando che anche loro avrebbero potuto procedere molto più facilmente se muniti di pattini. Il problema stava diventando assillante. Passarono accanto a un altro di quegli animali dal collo lungo, il corpo da iena e le corna da cervo. Questo non cercò di disturbarli: addentò una roccia di sostanza vetrosa, ne strappò un grosso pezzo e prese a masticarlo. Teneva gli occhi fissi sul gruppo dei Signori, mugolando di piacere per il gusto della roccia, con lo stomaco che gli brontolava come la tubatura difettosa di una vecchia casa. Proseguirono, e circa trecento metri più avanti si imbatterono in un intero gregge di quelle creature, tutte indaffarate a grattare e a raspare le rocce. Tra loro c'erano dei cuccioli, che si davano goffamente la caccia l'un l'altro o suggevano il latte alle poppe materne. Alcuni maschi ragliarono contro gli intrusi, e uno li seguì per un tratto. Incontrarono anche degli animali
simili alle antilopi, col mantello a losanghe rosse su fondo bianco e le corna intrecciate. Alle estremità delle loro zampe spuntavano dei pattini d'osso. Wolff cominciò a cercare un posto per dormire. Condusse il gruppo in una specie di anfiteatro, una zona pianeggiante tra quattro colline. «Farò il primo turno di guardia» disse. Per il turno successivo designò Luvah e, dopo Luvah, Enion. Quest'ultimo protestò, chiedendo con quale autorità Wolff si permetteva di sceglierlo. «Se vuoi, puoi anche rifiutarti di assumere la tua parte di responsabilità. Ma se dormirai durante il tuo turno, potresti svegliarti in bocca a quello.» Indicò qualcosa alle spalle di Enion, che si girò così in fretta da perdere l'equilibrio. Gli altri guardarono nella direzione dove Wolff puntava il dito. Dalla sommità di una delle colline, un enorme animale dalla folta criniera li stava fissando torvamente. Aveva la testa di un coccodrillo, ma col muso schiacciato e il corpo simile a quello di un gatto, con le zampe che terminavano in grandi coppe. Wolff mise il lanciaraggi a mezza potenza e sparò. Premette breveniente la piastra d'attivazione, mirando ai peli della criniera, che si raggrinzirono e cominciarono a fumare. L'animale ruggì, si voltò e scomparve dietro l'altura. Wolff disse: «Adesso è necessario nominare ufficialmente un capo. Finora abbiamo evitato una decisione al riguardo. Avete lasciato che fossi io a dirigere le cose, soprattutto perché siete troppo pigri o troppo occupati con i vostri futili problemi per affrontare l'argomento. Bene, è arrivato il momento di sistemare la questione. Senza un capo i cui ordini vengano immediatamente eseguiti in casi d'emergenza, siamo perduti. Allora, che ne dite?» «Amato fratello» disse Vala, «penso che tu abbia dimostrato di essere l'uomo da seguire. Io voto per te. Inoltre, tu hai il lanciaraggi, e questo fa di te il più forte. A meno che, naturalmente, qualcuno di noi non abbia delle armi nascoste che non ha ancora tirato fuori.» «Tu sei la sola che abbia abbastanza vestiti da nascondere delle armi» disse lui. «Quanto al lanciaraggi, resterà in dotazione a chiunque starà di guardia.» A quelle parole tutti sollevarono le sopracciglia. Wolff continuò: «Non è perché mi fidi della vostra lealtà. Solo non credo che qualcuno di voi sia tanto stupido da cercare di tenerselo per sé e andarsene per i fatti suoi. Quando riprenderemo il cammino, mi aspetto di
riavere indietro il lanciaraggi.» Dopodiché, tutti votarono, eccetto Palamabron, il quale disse che non c'era bisogno che votasse, perché era ovvio che sarebbe stato comunque sopraffatto dalla maggioranza. «Sono certa, fratello, che non volevi presentare la tua candidatura» disse Vala. «Neanche tu, pur col tuo spaventoso egocentrismo, potresti pensarlo.» Palamabron fece finta di non averla udita. Invece, disse a Wolff: «Perché non sono fra le sentinelle? Non ti fidi di me?» «Potrai fare il primo turno di guardia domani notte» replicò Wolff. «Ora, cercate di dormire un poco.» Wolff rimase seduto di guardia, mentre gli altri dormivano sui loro duri letti di roccia bianca. Stava ad ascoltare il verso degli animali lontani: il belato asinino, i ruggiti e alcuni suoni nuovi: un acuto verso flautato, un singhiozzo triste, un fischiettio. A un certo punto, qualcosa diede un suono di gong e in alto ci fu un battito d'ali. Di tanto in tanto, Wolff si alzava m piedi e girava lentamente su se stesso per osservare l'intero arco dell'orizzonte. Passata mezz'ora, svegliò Luvah e gli diede il lanciaraggi. Come gli altri, non aveva orologio per misurare il tempo, ma, come loro, ne sapeva valutare lo scorrere. Da bambino era stato sottoposto ad un trattamento ipnotico che lo aveva messo in grado di scandire i secondi con la stessa accuratezza del più preciso dei cronometri. Per un po' non riuscì a prendere sonno. Era preoccupato del primo turno della notte successiva, quando il lanciaraggi sarebbe stato affidato a Palamabron. Di tutti i Signori era il più instabile. Odiava Vala anche più degli altri. Sarebbe riuscito a resistere alla tentazione di ucciderla nel sonno? Wolff decise di parlarne a Palamabron la mattina dopo. Suo fratello doveva capire che se avesse ucciso Vala, avrebbe dovuto uccidere anche tutti gli altri. Avrebbe potuto farlo, con il lanciaraggi a disposizione, ma poi sarebbe rimasto solo. E questa era una cosa singolare: sebbene i Signori non potessero tollerarsi, sopportavano ancor meno l'idea di rimanere soli. In altre circostanze non avrebbero desiderato altra compagnia che se stessi, ma adesso preferivano condividere con qualcuno la paura di loro padre e inoltre trovavano un certo conforto nell'avere dei compagni di sventura e di pericoli. Proprio prima di addormentarsi ebbe un'idea. Imprecò: perché non ci aveva pensato prima? Perché non ci avevano pensato gli altri? Era così ov-
vio. Non c'era alcun bisogno di strisciare, di arrancare faticosamente sul terreno. Con delle barche avrebbero potuto viaggiare molto più rapidamente e sicuramente. Al sicuro dei predatori, perlomeno. La mattina dopo avrebbe visto che cosa si poteva fare al riguardo. All'alba, fu strappato al sonno da un grido. Si rizzò a sedere e vide Tharmas che sparava a un animale dalla folta criniera, del tutto simile al leondrillo che lui aveva spaventato strinandogli il pelo. La belva stava scendendo rapidamente la collina e si sentiva il plop-plop delle sue ventose. Più dietro giacevano tre dei suoi simili, morti. Il superstite arrivò fino a tre metri di distanza e poi cadde, col muso tagliato a metà. Tharmas rimase a fissare la carcassa, continuando a tenere attivato il lanciaraggi. Wolff gli gridò di spegnerlo: il raggio stava perforando il fianco della collina. Tharmas si accorse di quello che stava facendo e disattivò l'arma. Ma ormai la maggior parte della carica era perduta. Digrignando i denti, Wolff si riprese il lanciaraggi. Adesso era ridotto all'ultima batteria. Gli altri si misero rapidamente al lavoro. Si diedero il cambio con i coltelli di Theotormon e di Vala per tagliare a strisce la spessa pelle delle belve morte. Era un lavoro lento, sia a causa della loro scarsa pratica, sia perché continuavano a scivolare sulla superficie vetrosa. Inoltre, non riuscivano a trattenersi dal protestare con Wolff: secondo loro quel lavoraccio non serviva a niente. Dove avrebbero preso lo scheletro per le barche che lui aveva in mente? Anche se quelle pelli potevano servire per rivestire le barche, non erano comunque abbastanza. Wolff ingiunse loro di chiudere il becco e di continuare a lavorare. Sapeva quello che stava facendo. Con Luvah, Vala e Theotormon, strisciò fino ai cespugli più vicini, dove fu necessario usare altra energia per uccidere un animale che stava mangiando le bacche e si rifiutava di rinunciare ai suoi diritti. Assomigliava a un drago cinese. Sibilò e dardeggiò minaccioso la testa prima ancora che fossero alla sua portata. La pelle era spessa e scagliosa come le piastre d'una armatura e solo un raggio a piena potenza avrebbe potuto perforarla. Anche gli occhi erano protetti: quando Wolff li prese di mira, il raggio rimbalzò su trasparenti corazzature. La creatura prese a muovere selvaggiamente la testa, impedendo a Wolff di concentrare il raggio su un unico punto. Alla fine, il raggio riuscì a perforare l'armatura. La bestia cadde all'indietro e morì, mettendo in mostra le piastre seghettate e le piccole ventose che costituivano il suo sistema di lo-
comozione. «Se continua così, rimarremo senza energia» disse Wolff rivolgendosi agli altri Signori. «Pregate che non giunga quel momento.» Wolff controllò la corteccia dei cespugli e la trovò notevolmente consistente. Si convinse che tagliare e fare a pezzi i cespugli per costruire lo scheletro di un paio di rozze giunche sarebbe stato un lavoro lungo e difficile. E avrebbe rovinato la spada. Fu allora che, osservando il vermidrago aveva battezzato con questo nome l'animale appena ucciso - vide un'imbarcazione già pronta. Be', non del tutto finita, ma il completamento avrebbe richiesto meno lavoro della barca che aveva avuto in mente all'inizio. La spada, manovrata dal suo braccio potente, fu all'altezza del compito. Bisognava separare le piastre di locomozione del vermidrago dall'armatura del corpo. Poi, spada e coltello tagliarono via gli organi interni. Gli altri Signori lo raggiunsero e gli diedero il cambio. In breve, furono tutti ricoperti di sangue, che scorreva anche sul terreno, rendendolo ancor più scivoloso. Diversi leondrilli, dapprima attirati e poi resi frenetici dall'odore del sangue, si lanciarono all'attacco. Wolff fu costretto a consumare altra energia per ucciderli. Le sole fonti possibili da cui ricavare delle pagaie erano i rami a forma di nove degli alberi. La loro corteccia resistette al filo della spada e Wolff dovette di nuovo usare il lanciaraggi. Tagliò rami a sufficienza per fare dieci pagaie, tre in più del necessario, dato che Theotormon non poteva certo maneggiarne una con le sue pinne. Con il coltello ripulì senza difficoltà i rami dagli aghi che li coprivano. Avevano a disposizione una canoa piuttosto flessibile, lunga venti metri. Le sole aperture di cui preoccuparsi erano la bocca e le narici. Risolsero il problema piegando all'indietro e all'insù la parte frontale cava e legandovi un piccolo masso con lo scialle di Vala. Il peso del masso impediva alla parte anteriore di raddrizzarsi e quindi l'avrebbe tenuta al di sopra del pelo dell'acqua. Almeno, lo speravano. Di nuovo Wolff dovette usare dell'altra energia per bruciare i pezzi di cartilagine e il sangue che aderiva alla superficie interna delle piastre dell'armatura. Poi, procedendo sulle ginocchia, i Signori spinsero verso il fiume la loro imbarcazione di fortuna. Presso la riva, si alzarono in piedi ed entrarono nella dragobarca, saltando oltre i bordi e ricadendo sul fondo. Salirono a coppie, uno per parte, per
evitare che l'imbarcazione si rovesciasse di lato. Quando tutti furono a bordo, Wolff e Vala, rimasti a terra, spinsero la barca verso l'acqua. Fortunatamente, il pendio era dolce. Appena l'imbarcazione ebbe preso un po' di velocità, Wolff e Vala si aggrapparono ai bordi e gli altri li tirarono dentro. Mentre la dragobarca galleggiava seguendo la corrente, la luna si alzò all'orizzonte e con essa giunse la notte. Due Signori erano di servizio alle pagaie con l'incarico di mantenere in rotta la barca, mentre gli altri tentavano di dormire. La luna tramontò, lasciando scoperta la porpora brillante del cielo nudo. Il fiume era calmo, mosso appena da piccole onde e increspature. Attraversarono alcune gole e sbucarono di nuovo in un'area collinosa. Il giorno passò senza incidenti. Si lamentavano del puzzo della carne e del sangue che non erano riusciti a eliminare. Scherzarono quando dovettero disfarsi del cibo e delle bevande andate a male. Parlarono brontolando del sonno perso la notte prima. Chiacchierarono di quello che si sarebbero trovati davanti quando avessero finalmente trovato la porta del palazzo di Urizen. Così, trascorsero un giorno e una notte. Diverse ore dopo la seconda alba, uscirono da una larga ansa del fiume. Davanti a loro si ergeva una roccia che divideva in due il fiume, una bianca cupola alta nove o dieci metri. Sulla cima, fianco a fianco, due torreggianti cornici esagonali. CAPITOLO X Dalla sponda del fiume, dove era approdata la dragobarca, Wolff studiò il problema. Era inutile tentare di scalare il roccione che si ergeva quasi a perpendicolo, senza alcun appiglio e praticamente privo di attrito. Bisognava lanciare una corda che si agganciasse a qualcosa. Ma gli esagoni erano troppo larghi, per tentare di farvi passare attorno un cappio. Una graffa a uncino avrebbe potuto servire allo scopo. Era presumibile che un uncino avrebbe fatto presa dall'altro lato della porta, che lui sperava si aprisse su un altro pianeta. Le pelli degli animali potevano essere tagliate e legate o cucite insieme per fare una corda, anche se le fettucce avevano bisogno di una concia per acquistare la necessaria flessibilità. Il grosso problema era trovare il metallo per l'uncino. Poteva anche esserci del metallo, da qualche parte su quel mondo, magari nemmeno troppo lontano. Ma arrivarci via terra sarebbe costato troppo
tempo. Così, una sola era la cosa che restava da tentare: convincere i suoi due fratelli alla cooperazione. Ma era molto difficile che lo ascoltassero. E infatti non lo fecero. Vala non voleva rinunciare alla sua spada e Theotormon rifiutò di mettere a disposizione il suo coltello. Wolff discusse con loro per parecchie ore, facendo notare che se non avessero ceduto le loro armi sarebbero comunque morti in breve tempo. Dopo l'ultimo e violento rifiuto di Theotormon, Wolff disse: «E va bene, non volete mollare! Ma se troveremo un altro modo di passare la porta, non vi prenderemo con noi. Lo giuro! Vi abbandoneremo in questo pallido mondo di pietra glaciale e ci resterete finché qualche belva non vi divorerà o non morirete di vecchiaia.» Vala fece girare lo sguardo sui Signori seduti in circolo intorno a lei e sorrise. «D'accordo» disse. «Prendete pure la mia spada.» «Il mio coltello invece non lo avrete, ve lo garantisco» disse Theotormon. Allora gli altri cominciarono a strisciare stringendosi sempre più intorno a Theotormon, che si alzò e tentò di scappar via. I suoi piedi enormi gli consentivano una presa efficace su quella superficie bianca, ma Wolff si tese, gli afferrò una caviglia e lo fece cadere. Theotormon si difese come meglio poté, sommerso da un mucchio di corpi, ma alla fine si arrese, piangendo. Poi, brontolando e lanciando occhiate torve, si allontanò per andare a sedersi tutto solo sulla riva del fiume. Con una pietra gessosa che aveva trovato, Wolff tracciò delle linee sulla spada di Vala. Mise il lanciaraggi a piena potenza e ne ritagliò rapidamente tre pezzi triangolari. Li aggiustò insieme e vi posò sopra alcuni pezzi rotondi, ricavati anch'essi dalla spada. Con il lanciaraggi a mezza potenza, fuse in un sol blocco i tre rebbi e i pezzi rotondi. Dopo averli immersi nell'acqua fredda, scaldò nel mezzo i tre rebbi e li forgiò in sottili forme a uncino. Curvò e forgiò a caldo un'altra striscia di metallo della spada e la fuse alla base di quella specie di rastrello, in modo da potervi legare attorno una corda. Restituì il coltello a Theotormon, dal momento che non aveva dovuto utilizzarlo. Tagliò a punta l'estremità di ciò che restava della spada di Vala e ne ricavò in tal modo una specie di corta daga. Come fece notare a Vala, era sempre meglio di niente. Per ottenere una corda ci vollero diversi giorni. Non era difficile uccide-
re e scuoiare animali e tagliare le pelli a strisce di giusta lunghezza. Difficile era la concia. Wolff cercò i materiali adatti, ma senza successo. Alla fine, sperando per il meglio, decise di ungere la pelle grezza attorcigliata con grasso animale. Un giorno, all'alba, mentre l'ombra purpurea della luna si ritirava, la dragobarca fu varata piuttosto a monte della roccia su cui si ergevano le porte. Mentre i Signori dietro di lui pagaiavano contro corrente, Wolff stava ritto a prua e lanciò in alto il grappino, in un grande arco, lasciando filare la corda. L'arnese a tre punte attraversò la porta e sparì. Wolff diede uno strattone, mentre la barca andava a piantarsi contro la base della roccia. Per un secondo pensò di aver ottenuto la presa, ma poi il grappino uscì dalla porta svolazzando e lui cadde all'indietro. Cercò di tenersi, ma l'instabile equilibrio dell'imbarcazione era ormai rotto. Il battello si capovolse ed i Signori finirono tutti in acqua. Si aggrapparono al fondo della dragobarca rovesciata e Wolff riuscì a tenere stretti corda e grappino. Mezz'ora più tardi tentarono ancora. «Chi la dura la vince» disse Wolff. «È un vecchio detto della Terra.» «Risparmiami i tuoi proverbi» disse Rintrah. «Sono inzuppato come un topo affogato e altrettanto miserevole. Pensi che serva a qualcosa tentare ancora?» «Che altro c'è da fare? Insistiamo. Forse saremo promossi all'esame di riparazione.» Lo guardarono senza capire e poi, con riluttanza, vararono di nuovo la barca. Questa volta Wolff tentò un lancio più difficile. Mirò proprio verso la sommità di un esagono. Questo era alto almeno quattro metri, il che poneva la sommità della cornice a tredici metri dall'acqua. Ciò nonostante, fece un buon lancio e i rebbi agganciarono l'altro lato della cornice. «Ce l'ho fatta!» gridò sorridendo. Tirò la corda per impedire che si allentasse, mentre la barca scivolava lungo il lato destro della roccia, strisciandovi contro. Wolff ordinò alla sua ciurma di continuare a remare all'indietro, cosa che quelli tentarono di fare, ma senza risultato. La barca cominciò a ruotare, la corrente la costringeva a girare intorno alla roccia. Wolff, a prua, si rese conto che se si fosse fatto trascinare ancora dalla barca, i rebbi sarebbero scivolati fuori lungo la sommità della cornice. Si aggrappò alla fune di pelle grezza e lasciò che la barca gli sfuggisse di sotto. Si ritrovò a penzolare dalla fune, con i piedi in acqua; li sollevò nel
tentativo di abbrancare la roccia, ma scivolò sulla pietra levigata. Allora abbandonò quel sistema di scalata e si issò, una mano dietro l'altra, lungo la corda ingrassata. Non era una cosa facile, dato che la roccia si curvava quel tanto che bastava perché la corda ne seguisse strettamente la curvatura, di modo che la tensione era massima proprio nel punto in cui lui stringeva in mano la fune. In quelle condizioni era costretto a far strisciare a forza le mani tra fune e roccia. Saliva lentamente. A metà strada, sentì venir meno la tensione. Ci fu un crac appena udibile sopra il turbinio dell'acqua, alla base della roccia. Urlando di delusione, Wolff ricadde nel fiume. Quando Vala ed Enion lo ebbero tirato fuori, scoprì che i due rebbi si erano spezzati nel punto in cui si univano al manico. I pezzi erano ormai perduti in fondo al fiume. «E adesso che facciamo?» gli ringhiò contro Palamabron. «Hai fatto a pezzi le nostre armi e prosciugato gran parte dell'energia del lanciaraggi, ma non siamo più vicini di prima ad attraversare la porta. Anzi, lo siamo ancor meno. Guardaci. Guardami. Grondante acqua come un vecchio pesce salito a galla dagli abissi e debole, oh Los, quanto debole!» «Va a giocare con l'aquilone!» disse Wolff. «Un altro vecchio detto della Terra.» Si interruppe, spalancando gli occhi, e disse: «Mi chiedo...» Palamabron alzò le mani al cielo. «Oh no, non un'altra delle tue brillanti idee!» «Brillanti o no, sono idee» replicò Wolff. «Finora sono stato il solo a produrre qualcosa... a parte i vostri pianti, i lamenti e le calunnie.» Rimase sdraiato per un poco, fissando il cielo purpureo e masticando un boccone di carne che Luvah gli aveva teso. Era tanto strano pensare a un aquilone? E poi, quando fosse riuscito a costruirlo, avrebbe funzionato? Scartò l'idea dell'aquilone. Anche se abbastanza grande da sostenere un pesante gancio, non sarebbe riuscito a passare attraverso l'esagono. Un momento! E se avesse fatto volare l'aquilone sopra l'esagono, reggendo un uncino in fondo a una corda? Wolff gemette e rinunciò di nuovo all'aquilone: non poteva assolutamente funzionare. Improvvisamente si rizzò a sedere e gridò: «Può andare! Sì, con due può andare!» «Due che?» domandò Luvah, svegliandosi di soprassalto. «Non certo aquiloni!» «E chi ha parlato di aquiloni?» disse Luvah.
«Due barche e due uomini in gamba per il lancio» gridò Wolff. «Potrebbe funzionare. È il meglio a cui riesco a pensare. Ormai, sono a corto di idee ed è evidente che da voi non ne avrò. Per migliaia d'anni avete usato il vostro cervello per raggiungere un unico obiettivo: scannarvi tra di voi. Non siete buoni a niente altro. Ma, per Los, ora vi insegnerò io!» «Sei stanco» disse Vala. «Sdraiati e riposa.» Stava sorridendo. Wolff ne fu sorpreso. Perdiana, cos'era che la divertiva? Era fradicia, indolenzita e delusa tanto quanto gli altri. Provava forse un po' d'amore per lui, sotto la scorza dell'odio? Ma forse era soltanto orgogliosa di lui, del fatto che continuasse a improvvisare e a lottare, mentre gli altri erano capaci solo di coltivare i propri risentimenti. Wolff non capiva. Comunque, un Signore aveva mille e mille ragioni per diffidare di chiunque, massimamente degli altri Signori. Quando le due chiatte furono costruite a metà, Wolff cambiò i suoi piani. All'inizio, aveva voluto due piccole imbarcazioni rotonde che si avvicinassero alla roccia da ciascun lato. Alla fine, decise che sarebbe stato meglio averne una. Usando il legno dei cespugli, i rami degli alberi e strisce di pelle per i legamenti, costruì un'alta incastellatura. Ognuna delle quattro zampe poggiava su una barca: una sulla dragobarca e le altre tre sulle chiatte. Allora, dopo aver ripetuto molte volte ai Signori quello che dovevano fare, Wolff diede inizio all'operazione. Lentamente, le imbarcazioni che sostenevano la base rettangolare dell'impalcatura furono spinte in acqua. La corrente presso la riva non era rapida come al centro del fiume, perciò i Signori poterono evitare di essere trascinati via di colpo. Mentre gli altri nuotavano spingendo le barche, Wolff si arrampicò lungo la sottile scaletta costruita sul fianco dell'incastellatura. La dragobarca, essendo piuttosto grande, non affondò troppo. Tuttavia, Wolff temette per un attimo che la costruzione si capovolgesse. Comunque, quando si mosse carponi sul tavolato dell'impalcatura, la struttura si raddrizzò. Gli altri Signori, divisi in squadre, salirono sulla barca grande e sulle tre piccole. Agirono simultaneamente per distribuire il peso in modo uniforme. Vala, Theotormon e Luvah, ognuno su una chiatta, aiutarono Palamabron, Enion e Ariston. Tharmas fu molto agile: entrò nella dragobarca con un rapido sollevamento, torcendo il corpo. I Signori presero a pagaiare per mantenere ritta l'incastellatura. All'inizio si trovarono in difficoltà, dato che le chiatte, costruite più come tinozze
che come barche, erano difficili da controllare. Ma avevano varato la costruzione bene a monte del bersaglio e così, prima di raggiungere la roccia, poterono impratichirsi della manovra. Wolff si teneva stretto alla parte anteriore della costruzione, il ponte, che si protendeva sull'acqua. Il ponte rollava e beccheggiava, e per due volte Wolff fu sul punto di vedersi catapultato fuori. Poi, la bianca cupola della roccia con i dorati esagoni gemelli si presentò diritta di prua. Wolff lanciò un grido ai Signori, che cominciarono a pagaiare all'indietro. Era d'importanza vitale che l'incastellatura non investisse la roccia a velocità troppo elevata. Fragile com'era, non avrebbe resistito a un urto troppo violento. Wolff aveva deciso di passare per la porta di sinistra, dato che l'ultima volta avevano preso quella di destra. Ma mentre l'estremità del ponte si avvicinava alle porte, l'incastellatura virò. Il ponte si diresse di sghembo verso l'esagono di destra. Wolff si sollevò in posizione rannicchiata e, mentre l'incastellatura andava a sbattere con gran fracasso contro la roccia, balzò in avanti. Si lanciò attraverso l'esagono, con il lanciaraggi alla cintola e una corda arrotolata intorno alle spalle. CAPITOLO XI Non aveva la più pallida idea di quel che avrebbe trovato dall'altra parte. Si aspettava un altro pianeta, oppure la fortezza di Urizen. Sospettava però che suo padre non avesse ancora finito di giocare con loro. Era quindi più verosimile che si sarebbe ritrovato sul terzo pianeta che ruotava intorno ad Appirmatzum, dove avrebbe potuto toccare terra dolcemente, oppure piombare in una fossa di belve affamate o cadere giù da un precipizio. Ancor prima di toccare terra, si accorse di essere finito contro un ripido pendio. Piegò le ginocchia e tese le mani, evitando così di urtare la roccia troppo rudemente. Era liscia, ma non del tutto priva di attrito, e gli si innalzava davanti secondo un angolo di quarantacinque gradi. Girandosi capì perché il grappino era scivolato fuori, al primo tentativo: la base dell'esagono, da quel lato, era a livello del terreno. Non c'era alcuna sporgenza che potesse offrire una presa. Sorrise rendendosi conto che suo padre aveva previsto gli uncini e aveva opportunamente predisposto la trappola. Ma lui, suo figlio, era passato lo stesso. Spinse una mano contro la zona apparentemente vuota all'interno dell'e-
sagono. A differenza della porta che l'aveva fatto passare nel mondo d'acqua, questa non era a senso unico. Evidentemente, Urizen non si curava affatto che potessero tornare sul pianeta dal cielo purpureo, oppure era certo che non avrebbero mai voluto tornarci. Wolff si inerpicò su per il pendio che formava il fianco di una collina. Legò un capo della corda intorno a un alberello, poi tornò alla porta e vi lanciò, attraverso, l'estremità libera della corda. La fune si tese e poco dopo apparve il volto di Vala. Wolff l'aiutò a passare e poi insieme si misero ad afferrare i Signori a mano a mano che sbucavano. Quando Rintrah, l'ultimo, fu al sicuro, Wolff infilò la testa nella porta per dare un'ultima occhiata. Fu solo uno sguardo rapido, perché gli dava un senso di paura sapere che il suo corpo era su un pianeta che distava trentamila chilometri dalla sua testa. E sarebbe stato proprio un bello scherzo, giusto del genere che piaceva a suo padre, se Urizen avesse disattivato la porta in quel momento. L'estremità del ponte distava appena un metro dall'esagono. L'incastellatura era ancora nella stessa posizione, ma tra non molto la corrente avrebbe fatto ruotare una delle barche che sostenevano le zampe e trascinato via l'intera costruzione. Ritirò la testa con un senso di sollievo, come se avesse appena sfilato il collo da una ghigliottina. I Signori avrebbero dovuto essere esultanti, ma erano troppo stanchi per le fatiche sostenute e oppressi dal pensiero del futuro: si erano ormai resi conto di essere su un altro dei satelliti di Appirmatzum. Il cielo era giallo cupo, il terreno si stendeva piatto intorno a loro, a parte la collina su cui si trovavano. Il suolo era coperto di un'erba alta un palmo e costellato di cespugli molto simili alle piante terrestri che Wolff conosceva: erano di almeno una dozzina di specie diverse e portavano bacche di varie forme, dimensioni e colore. Le bacche, comunque, avevano una caratteristica comune: emanavano tutte un odore sgradevolissimo. Vicino alle colline c'era la riva di un mare. Una larga spiaggia di sabbia gialla si estendeva a perdita di occhio. Wolff guardò verso l'entroterra e vide delle montagne. Il fianco di una di queste aveva delle curiose conformazioni che la facevano assomigliare a un volto. Più osservava e più si sentiva sicuro che fosse un volto. Disse agli altri Signori: «Nostro padre ci ha lasciato un segnale, credo. Un cartello indicatore della strada per la prossima porta. E sono convinto che non l'abbia fatto per
il nostro esclusivo vantaggio.» S'incamminarono per la pianura, verso le lontane catene dei monti. Poco dopo, incontrarono un largo fiume e si misero a seguirne il corso. Scoprirono che l'acqua era dolce e pura, e pranzarono con la carne e le bacche che si erano portati dal mondo bianco e porpora. Poi, la luna spuntò all'orizzonte e calò la notte. Era color malva, come gli altri satelliti, e copriva la superficie del pianeta di un pallido crepuscolo. Dormirono e poi marciarono per tutto il giorno successivo. Formavano una squadra silenziosa, stanchi com'erano, con i piedi indolenziti, nervosi per essere rimasti senz'armi. Il loro silenzio era anche un riflesso della quiete di quel mondo. Non si sentiva gridare un animale né un uccello e non videro altro segno di vita che la vegetazione. Diverse volte parve loro di scorgere piccoli animali a una certa distanza, ma quando si avvicinavano non c'era niente di niente. Le montagne erano a tre giorni di cammino. A mano a mano che avanzavano, i lineamenti si facevano più distinti. La sera del secondo giorno il volto divenne quello di Urizen. Sorrideva loro, con gli occhi rivolti in basso. Da quel momento, i Signori divennero ancor più silenziosi e nervosi, dato che non potevano sfuggire al gigantesco volto di pietra di loro padre, che sembrava deriderli in continuazione. A metà del quarto giorno si trovarono ai piedi della montagna, sotto il mento titanico di Urizen. La montagna era di roccia compatta, color carne e molto dura. Nei pressi si apriva una stretta gola che si inerpicava verso la cima, almeno tremila metri più in alto. Wolff disse: «Questo mi sembra l'unico passaggio. A meno che non si voglia aggirare le montagne. Ma penso che sarebbe solo una perdita di tempo.» «Perché dovremmo fare quello che vuole nostro padre?» disse Palamabron. «Non abbiamo scelta» replicò Wolff. «Oh, certo, balleremo al suono della musica e poi lui ci prenderà e ci metterà allo spiedo, come tanti polli. Sono stufo di scarpinare. Questa strada non finisce mai.» «E dove vorresti piantare le tende?» disse Vala. «Qui? In questo paradiso? Forse sei troppo stupido per averlo notato, fratello, ma siamo quasi rimasti senza niente da mangiare. La carne è quasi finita e l'ultima bacca l'abbiamo mangiata stamattina. Su questo mondo non abbiamo visto nulla che sembri commestibile. Puoi provare le bacche, se vuoi, ma secondo me
sono velenose.» «Oh Los! Pensi che Urizen voglia farci morire di fame?» notò Palamabron. «Moriremo certo di fame, se non troviamo qualcosa da mangiare» disse Wolff. «E non lo troveremo restando qui.» S'incamminò per primo verso la gola. Il sentiero li condusse a un banco di lisce pietre nude che era stato un tempo il letto del fiume. Il fiume si era poi spostato sull'altro lato della gola ed ora era diversi metri sotto i banchi di pietre. Radi cespugli crescevano sul bordo dei lastroni. I Signori seguirono il tortuoso sentiero per tutto il giorno. La sera, mangiarono le loro ultime provviste. Quando giunse l'alba, si alzarono con le pance vuote e la sensazione che stavolta la fortuna li aveva abbandonati. Wolff li guidò all'andatura più sostenuta che osasse tenere, pensando che quanto prima fossero usciti da quella cupa gola, tanto meglio sarebbe stato. Inoltre, il luogo non offriva alcuna possibilità di procurarsi il cibo. Nel fiume non c'erano pesci; non c'erano nemmeno insetti. Il secondo giorno di digiuno videro finalmente una creatura vivente. Sbucarono da dietro una curva, lentamente e in silenzio, avvicinandosi sottovento. Ciò permise loro di giungere molto vicino all'animale, prima che questo li scoprisse. Alto sessanta centimetri, stava ritto sulle zampe posteriori, da canguro, e teneva un ramo con due mani da lemure. Vedendoli smise di mangiare le bacche, lanciò disperate occhiate tutt'intorno e poi si allontanò a grandi balzi. La sua lunga coda sottile si protendeva rigida dietro di lui. Wolff cominciò a corrergli dietro, ma desistette appena si rese conto della sua velocità. Quando fu a un centinaio di metri, l'animale si fermò e si girò a guardarli. Aveva una testa molto simile a quella di un gatto persiano di razza pura, eccetto le orecchie che erano da coniglio. Il corpo era color kaki, la testa cioccolata e le orecchie magenta. Wolff riprese ad avanzare deciso verso l'animale, che fuggì fino a portarsi fuori vista. Wolff capì che sarebbe stato bene avere dei bastoni, nel caso fossero nuovamente arrivati a breve distanza dal saltellante. Tagliò degli arbusti per fare delle mazze abbastanza pesanti da servire allo scopo. Palamabron gli chiese perché non avesse ucciso la bestia col lanciaraggi. Wolff rispose che stava cercando di non sciupare energia. L'animale era scattato così rapidamente che non si era sentito sicuro di riuscire a colpirlo. La prossima volta, risparmio d'energia o meno, avrebbe sparato. Dovevano assolutamente procurarsi qualcosa da mangiare.
Proseguirono il loro cammino e cominciarono a vedere altri saltellanti, che però dovevano essere stati messi sull'avviso dal primo. Infatti, si tennero tutti a ragguardevole distanza. Due ore dopo, arrivarono a una larga fenditura nelle pareti della gola. Wolff si inoltrò e scoprì che portava a un canalone cieco, circa dieci metri più a basso della gola principale, largo circa trecento metri e lungo quattrocento. Il fondo era coperto di cespugli, e tra questi scorse un saltellante. Tornò indietro e spiegò agli altri Signori che cosa fare. Luvah e Theotormon rimasero a bloccare lo stretto passaggio, mentre gli altri si diressero al canalone. Si allargarono a ventaglio per circondare il solitario animale. Il saltellante stava ritto in un largo spiazzo, arricciava il naso e girava rapidamente la testa da una parte e dall'altra. Wolff disse agli altri di fermarsi e si incamminò lentamente verso l'animale, tenendo la mazza nascosta dietro la schiena. Il saltellante attese finché Wolff non fu a quattro metri. Poi scomparve. Wolff si girò di scatto, pensando che avesse saltato con tanta rapidità da non farsi scorgere. Non c'era nessun animale, dietro di lui. C'erano solo i Signori, che si domandavano stupefatti che cosa fosse accaduto. Approssimativamente tre secondi dopo, l'animale riapparve. Adesso era a dieci metri da lui. Wolff mosse un passo nella sua direzione e quello sparì di nuovo. Tre secondi dopo, nella radura c'erano due animali: uno era a quattro metri da Vala, l'altro a sei metri da Wolff, sulla sinistra. «Ma che diavolo...» esclamò Wolff. Ce ne voleva per stupirlo, ma ora era più che stupito. Era completamente esterrefatto. L'animale vicino a Vala scomparve, e così ne rimase uno solo. Wolff gli si precipitò addosso, con la mazza alzata e gridando, nella speranza di gelare di spavento l'animale. Il saltellante sparì. Poco dopo riapparve sulla destra, insieme a un altro esemplare. I Signori si strinsero in cerchio. I due animali divennero improvvisamente cinque. Subito, nacque una gran confusione, con urla e schiamazzi. Alcuni animali erano spuntati alle spalle dei Signori e qualcuno si girò per dare loro la caccia. Allora, le creature, che in seguito Wolff avrebbe battezzato cronoillusionisti, rimasero in due e subito divennero tre, mentre la caccia continuava furiosa per altri tre secondi.
Poi, ne rimase uno solo. I Signori inseguirono quell'unico esemplare e improvvisamente se ne trovarono davanti due. Tre secondi dopo davano la caccia a tre animali. Poi, a uno. I Signori si precipitarono su quello a gran velocità, da tutte le direzioni. Riapparvero altri due animali, uno direttamente davanti a Palamabron, che ne fu sconcertato al punto da tentare di fermarsi, inciampare e cadere a faccia avanti. La creatura lo scavalcò con un salto e poi svanì, proprio mentre Rintrah gli tirava un colpo di bastone. Adesso ce n'erano due. Tre. Tutto a un tratto, nessuno. I Signori smisero di correre e si guardarono l'un l'altro. Solo il vento e il loro pesante ansimare risonava nella gola. Improvvisamente, tre animali comparvero in mezzo a loro e la caccia riprese. Ne rimase uno. Cinque. Tre. Sei. Per sei secondi, tre. Sei di nuovo. Wolff ordinò di smettere quella caccia disordinata. Ricondusse i Signori all'ingresso del canalone, dove si misero a sedere per riprendere fiato. Dopodiché, presero a parlare tutti insieme, facendo tutti la stessa domanda, senza peraltro trovare la risposta. Wolff studiò i sei animali, distanti un centinaio di metri. Avevano dimenticato il loro panico, ma tenevano d'occhio i Signori, brucando le bacche. Il silenzio calò di nuovo tra i Signori, che sì misero a fissare il loro pensieroso fratello. Vala disse: «Che ne dici, Jadawin?» «Stavo ripensando al momento in cui è sparito il primo animale che abbiamo avvistato» rispose lui. «Ho tentato di calcolare la durata delle scomparse degli altri e la correlazione tra il loro numero a un certo istante e quello negli istanti successivi.» Scrollò la testa. «Non so. Può darsi, anche se non sembra possibile. Ma come spiegarlo altrimenti? O perlomeno de-
scriverlo? Ditemi, nessuno di voi ha mai sentito parlare di un Signore che avesse compiuto con successo degli esperimenti sui viaggi nel tempo?» Palamabron scoppiò a ridere. «Somaro!» lo rimbeccò Vala. Poi, rivolgendosi a Wolff: «Ho sentito dire che Orco Rosso tentò per molti anni di scoprire i segreti del tempo. Ma si dice che si sia arreso. Dichiarò che tentare di sviscerare il tempo era un problema altrettanto irrisolvibile che cercare di spiegare l'origine dell'universo.» «Perché l'hai domandato?» interloquì Ariston. «C'è una minuscola particella subatomica, che gli scienziati della Terra chiamano neutrino» rispose Wolff. «È una particella priva di carica elettrica e con massa a riposo uguale a zero. Sapete di che cosa sto parlando?» Tutti scossero la testa. Luvah disse: «Sai che un tempo ci fu data un'istruzione accuratissima, Jadawin. Ma sono passate migliaia d'anni dall'ultima volta che ci siamo interessati di scienza, se non per usare gli apparecchi che avevamo a disposizione per i nostri scopi.» «Siete proprio un branco di dèi ignoranti» disse Wolff. «Gli esseri più potenti del creato, e tuttavia divinità barbare analfabete.» «Cos'ha a che fare questo con la nostra attuale situazione?» scattò Enion. «E poi, perché ci insulti? Tu stesso hai detto che dovevamo smetterla con gli insulti, se volevamo sopravvivere.» «Perdonatemi» disse Wolff. «È solo che qualche volta sono sopraffatto dalla discrepanza... Non fateci caso. Ad ogni modo, il neutrino si comporta in modo alquanto singolare: si potrebbe cioè dire che va a ritroso nel tempo.» «Lo fa veramente?» chiese Palamabron. «Ne dubito. Ma il suo comportamento può essere descritto in termini di viaggio nel tempo, segua o no il neutrino un cammino cronologicamente invertito. «Credo che si possa dire la stessa cosa di quelle bestie laggiù. Può darsi che possano andare avanti o indietro nel tempo. Forse Urizen aveva il potere di creare animali simili, ma ne dubito. Probabilmente, li ha trovati in qualche universo che noi non conosciamo e li ha portati qui. «Qualunque sia la loro origine, hanno la capacità di comportarsi in modo che sembrino saltare avanti e indietro nel tempo. Entro un limite di tre secondi, direi.» Con la punta del bastone disegnò un cerchio nella polvere. «Questo rappresenta l'animale che abbiamo visto per primo.»
Tracciò una linea che partiva dal cerchio e ne disegnò un altro all'estremità. «Questo rappresenta la sua scomparsa, la sua non-esistenza nel nostro tempo. Stava andando avanti nel tempo, o sembrava che lo facesse.» «Giurerei che non è stato via per tre secondi, quando è sparito la prima volta» disse Vala. Wolff tirò una linea dal secondo cerchio e disegnò un terzo cerchio alla sua estremità. Poi, tracciò una linea ad angolo retto con la precedente, facendola tornare verso il secondo cerchio. «È nuovamente balzato avanti nel tempo, o si può descrivere la cosa come se l'avesse fatto. Poi è tornato indietro, nell'intervallo di tempo che non aveva occupato quando aveva fatto il primo salto. Perciò, abbiamo visto un animale per sei secondi, ma non sapevamo che era andato avanti e indietro. «Quindi l'animale... chiamiamolo cronoillusionista... è saltato ancora in avanti, al momento in cui la sua prima incarnazione era uscita dal primo balzo. «Così ne abbiamo due. Lo stesso animale, raddoppiato da un viaggio nel tempo. «Uno è saltato nuovamente in avanti di tre secondi e in quel periodo non l'abbiamo visto. L'altro invece di saltare si è messo a correre. Ha fatto il suo salto quando è riapparso il cronoillusionista N. 2. «Ma anche il N. 1 è saltato all'indietro proprio mentre il N. 2 usciva dal balzo temporale. E così, ne abbiamo ancora due.» Rintrah domandò: «Ma come mai tutt'a un tratto ne abbiamo visti cinque?» «Vediamo. Ne avevamo due. Il N. 1 aveva già fatto il salto che l'ha reso uno dei cinque. È saltato all'indietro per essere uno dei cinque. È saltato all'indietro per essere uno dei due precedenti. Poi, è saltato avanti di nuovo per diventare il N. 3 del gruppo dei cinque. «Il N. 2 aveva compiuto un salto, quando c'era soltanto un cronoillusionista, per diventare il N. 2 dei cinque. UN. 1 e il N. 2 sono balzati in avanti e poi indietro per diventare il N. 4 e il N. 5 del quintetto. «Poi il N. 4 e il N. 5 sono saltati avanti, nel periodo in cui ce n'erano solo due. Intanto il N. 1 aveva fatto un salto di tre secondi, il N. 4 non è saltato e il N. 5 sì. Così in quel momento ce ne sono stati soltanto due.» Sorrise alle loro facce stranite. «Capite, ora?» «È impossibile» disse Tharmas. «Viaggi nel tempo! Tu sai che è impossibile!»
«Certo, lo so. Ma se questi animali non viaggiano nel tempo, che altro fanno? Tu non sai niente di più di quel che so io. Perciò, se posso descrivere il loro comportamento in termini di salti temporali, e la descrizione ci aiuta a catturarli, a che scopo mettersi a cavillare?» «Perché non usi il tuo lanciaraggi?» domandò Rintrah. «Siamo tutti affamati e io mi sento debole, dopo aver dato la caccia a quelle svolazzanti creature tipo ci-sono-e-non-ci-sono.» Wolff si strinse nelle spalle, si alzò e s'incamminò verso gli illusionisti, che continuarono a mangiare, ma tenendolo d'occhio. Quando fu a trenta metri, gli animali si allontanarono con grandi balzi. Lui li seguì finché non furono a ridosso della parete cieca del canalone, dove cominciarono a sparpagliarsi. Mise il lanciaraggi a mezza potenza e ne prese di mira uno. Forse il cronoillusionista fu spaventato dal sollevarsi dell'arma. Fatto sta che sparì nell'attimo in cui Wolff sparò, e l'energia del raggio fu assorbita da un masso che si trovava sullo sfondo. Wolff imprecò, spense il raggio e ne prese di mira un altro, che balzò di lato ed evitò il primo tiro. Wolff lasciò acceso il raggio e gli fece descrivere un arco per raggiungere l'animale. L'illusionista balzò di nuovo, evitando il raggio di stretta misura. Wolff torse il polso per seguirlo, ma l'illusionista scomparve. Rapidamente, Wolff girò l'arma verso gli altri animali. Un illusionista attraversò saltando il suo campo visivo e lui gli puntò addosso il raggio. L'animale scomparve nello stesso momento. Ci fu un grido alle spalle di Wolff, che si girò e vide i Signori che indicavano un animale morto, a pochi metri sulla sua sinistra. Giaceva ammucchiato, col pelo combusto. Wolff batté più volte le palpebre. Vala arrivò correndo e disse: «È uscito dal niente, era morto e arrostito, quando ha toccato il suolo.» «Ma io non ho colpito nulla, se non adesso» disse lui. «E l'animale che ho colpito non è ancora riapparso.» «Quell'illusionista era morto quando è arrivato tre secondi fa e forse poco più» disse lei. «Tre secondi prima che tu colpissi l'altro.» S'interruppe e sorrise. «Ma che dico... l'altro? Ma è lo stesso che tu hai colpito. Ucciso prima che tu lo colpissi. Oppure ucciso proprio nell'attimo in cui l'hai colpito, solo che è saltato all'indietro.» Wolff disse, lentamente: «Stai cercando di dirmi che prima l'ho ucciso e poi l'ho colpito?» «No, non proprio cosí. Ma sembrava così. Oh, non so, sono confusa.» «Ad ogni modo, abbiamo qualcosa da mangiare» disse lui. «Ma non è
molto. Qui non c'è carne abbastanza per soddisfare le nostre necessità.» Si girò di scatto e fece descrivere al raggio un arco orizzontale. Il raggio colpì alcune rocce, poi raggiunse un illusionista. E si spense. Wolff continuò a tenere puntato il lanciaraggi sull'illusionista, che si bilanciava sulle zampe posteriori e ammiccava con i grandi occhi. «L'energia è finita» disse. Espulse la batteria e si infilò il lanciaraggi alla cintola. Ormai era inutile, ma non aveva nessuna intenzione di buttarlo via. Poteva arrivare il momento in cui avrebbe messo le mani su delle batterie nuove. Voleva continuare subito la caccia con i bastoni, ma gli altri votarono contro. Deboli e affamati, avevano bisogno di cibo subito. Sebbene la carne fosse mezzo carbonizzata, la divorarono avidamente e placarono in tal modo il brontolio dei loro ventri. Si riposarono un momento, poi si levarono e ripresero la caccia. Il loro piano era di allargarsi in un ampio cerchio che si sarebbe poi ristretto per spingere tutti gli animali a portata delle loro mazze. Gli illusionisti cominciarono a saltare disperatamente e a svolazzare dentro e fuori lo stato di esistenza... e il tempo. A un certo momento, non ne rimase alcuno: dovevano aver tutti deciso simultaneamente di saltare avanti o all'indietro. Nella confusione della caccia era difficile dire esattamente che cosa stesse accadendo, ma all'inizio Wolff non fece fatica a tenere il conto. Ce n'erano sei, poi zero, poi sei, tre, ancora sei, uno, poi sette. Avanti e indietro, dentro e fuori, mentre i Signori correvano in giro, ululando come lupi, e agitavano i loro bastoni, nella speranza di colpire un illusionista proprio nell'istante in cui usciva da un cronobalzo. Improvvisamente, la mazza di Tharmas urtò la tempia di un animale, mentre questo si materializzava. L'illusionista crollò, ebbe qualche sussulto e morì. Ne erano apparsi otto. Uno era rimasto indietro cadavere, mentre gli altri sparivano. Subito dopo avrebbero dovuto essere in sette, ma furono di nuovo otto. Tre secondi dopo, ce n'erano tre. Altri tre secondi ed erano nove. Zero. Ancora nove. Poi, due. Undici. Sette. Due. Undici. Wolff lanciò il suo bastone, colpendo un illusionista alla schiena. L'animale stramazzò in avanti, sul muso. Vala gli fu sopra con il suo bastone e lo colpì a morte prima che potesse riaversi dallo stordimento. Ne apparvero quindici, rapidamente ridotti a tredici quando Rintrah e Theotormon ne uccisero uno a testa. Poi, zero. Un istante dopo, i cronoillusionisti parvero impazzire. Atterriti, si lanciavano avanti e indietro e divennero ventotto, zero, ancora ventotto, zero,
e poi cinquantasei, o almeno tanti ne calcolò approssimativamente Wolff. Era impossibile fare dei conti precisi. Poco dopo, Wolff fu sicuro solo perché l'aritmetica gli assicurava che doveva essere così, che gli sdoppiamenti avevano dato un risultato di millesettecentonovantadue animali. Non c'erano state altre perdite a ridurre il numero degli illusionisti. I Signori non erano riusciti a ucciderne nessuno. Vennero respinti dall'orda in continuo aumento, travolti dagli animali saltellanti che apparivano davanti, dietro e di fianco a loro, calpestati, graffiati e malmenati. Improvvisamente, gli animaletti si diedero a una fuga disordinata verso l'uscita del canalone. Si lanciarono attraversò la radura e avrebbero certamente fatto ressa nello stretto passaggio, ma riuscirono in qualche modo a formare uno schieramento ordinato e uscirono tutti. Lentamente, doloranti e scossi, i Signori si rialzarono. Guardarono i quattro animali morti e scossero la testa. Dei milleottocento a portata di mano e, in teoria, facile preda, erano rimasti solo quei miseri quattro. «Mezzo illusionista sarà un buon pasto per ognuno di noi» disse Vala. «È meglio di niente. Ma che faremo domani?» Gli altri non risposero. Cominciarono a raccogliere legna per i fuochi. Wolff si fece dare il coltello da Theotormon e cominciò a scuoiare gli animali. Il mattino dopo, mangiarono gli avanzi del banchetto serale, dopodiché Wolff riprese la marcia. La gola era silenziosa come sempre, a parte il mormorio del fiume. Le pareti cominciarono a stringersi, sotto un cielo che splendeva giallo. Alcuni illusionisti comparvero a una certa distanza e Wolff tentò di colpirli lanciando pietre. Di striscio ne colpì uno, solo per vederlo sparire come se fosse scivolato dietro un angolo d'aria. Tornò in vista di nuovo, tre secondi dopo, alla distanza di cinque o sei metri, e subito si dileguò saltellando come se avesse avuto un importante appuntamento di cui si fosse improvvisamente ricordato. Digiuni ormai da due giorni, i Signori erano disposti a tentare con le bacche. Palamabron argomentò che l'odore repellente non voleva necessariamente dire che le bacche avessero un sapore sgradevole. E anche in tal caso, non era detto che fossero velenose. Ad ogni modo, stavano per morire. Quindi, perché non provare le bacche? «Accomodati» disse Vala. «La teoria e la speranza sono tue. Mangiane qualcuna!» Gli sorrideva con espressione deliziata, come se stesse godendo del con-
flitto tra la fame e la sua paura. «No» disse Palamabron. «Non sarò il vostro porcellino d'India. Perché dovrei sacrificarmi per tutti voi? Mangerò le bacche solo se tutti faranno altrettanto e contemporaneamente a me.» «Così potrai morire in buona compagnia» disse Wolff. «Suvvia, Palamabron. Can che abbaia non morde... vecchio proverbio della Terra. Discutendo, perdi solo del tempo. O lo fai o la pianti.» Palamabron annusò la bacca che aveva in mano, fece una smorfia e la lasciò cadere sul terreno roccioso. Wolff riprese a camminare e i Signori lo seguirono. Un'ora dopo, si imbatté in un altro canalone laterale. Ci si infilò, raccogliendo un sasso rotondo che sembrava fatto apposta per essere lanciato. Se solo fosse riuscito a strisciare abbastanza vicino a un illusionista e a tirargli il sasso mentre quello guardava da un'altra parte! Il canalone era un po' più piccolo di quello in cui i Signori avevano cacciato la prima volta. Vicino alla parete di fondo, un solo illusionista stava tranquillamente mangiando le bacche. Wolff, carponi, cominciò ad avvicinarsi, arrancando lentamente. Sfruttò ogni roccia, per nascondersi, e riuscì ad arrivare a metà del canalone, prima che l'animale si accorgesse di qualcosa. Di colpo l'illusionista smise di muovere le mascelle, si rizzò e guardò in giro dimenando il naso, mentre le orecchie gli vibravano come un'antenna TV sotto un forte vento. Wolff si appiattì contro il suolo e rimase del tutto immobile. Stava sudando per lo sforzo e per la tensione: l'inedia lo aveva considerevolmente indebolito. Avrebbe voluto scattare in piedi, correre verso l'illusionista, gettarglisi addosso, farlo a pezzi e mangiarlo crudo. Si sentiva di divorare l'intero animale, dalla punta delle orecchie alla punta della coda, e poi spezzare le ossa per succhiarne il midollo. Ancora si costrinse a restare immobile. Per poter riprendere quel tartarughesco avvicinamento, era necessario che l'animale abbandonasse i suoi sospetti. In quel momento un altro animale comparve da dietro una roccia, vicino all'illusionista. Era grigio, a parte le grosse orecchie da lupo, con un lungo muso appuntito e una coda cespugliosa; le sue dimensioni erano a metà strada tra quelle d'una volpe e quelle di un coyote. Avvicinatosi alle spalle del cronoillusionista, gli balzò addosso proprio mentre quello stava guardando altrove. I suoi denti si richiusero sull'aria. L'illusionista era scomparso, sfuggen-
do a quelle mascelle per una frazione di centimetro. Anche il predatore scomparve immediatamente, svanendo ancor prima di toccare terra. Apparvero tre animali, due illusionisti e un predatore, che Wolff, a cui piaceva etichettare le cose sconosciute, battezzò subito cronolupo. Per la prima volta stava osservando la creatura che la natura o Urizen aveva posto su quel mondo per impedire agli illusionisti di sovrappopolarlo. Wolff immaginò senza difficoltà che cos'era accaduto ai cronoanimali. All'inizio ce n'erano due; poi, nessuno e infine tre. Perciò, l'illusionista originale e il cronolupo erano saltati in avanti; l'illusionista però, aveva sostato per un solo microsecondo e poi era tornato indietro. In tal modo, si era riprodotto ed ora il lupo ne aveva due da cacciare. Gli animali svanirono di nuovo e poi riapparvero, ma stavolta in quattro: due illusionisti e due cronolupi. La caccia era in corso, non solo nello spazio, ma anche negli imprevedibili e grigi corridoi temporali. Un altro balzo simultaneo nel limbo del tempo. Wolff ne approfittò per correre verso un masso contornato da numerosi cespugli. Si gettò a terra e si sporse tra il fogliame. Adesso gli animali erano sette. Un lupo era sbucato chissà da dove, proprio alle spalle della sua preda. Si lanciò in avanti e le sue mascelle si chiusero sul collo dell'illusionista. Si udì un sonoro crac e l'illusionista cadde morto. Sette vivi e un morto: un illusionista era andato indietro e poi ancora avanti. I vivi scomparvero. Evidentemente, il lupo non intendeva fermarsi per divorare la sua vittima. Sei animali apparvero nella radura. Un lupo ne azzannò selvaggiamente un altro alla gola e l'aggredito si accasciò morto. Per tre secondi non accadde nulla. Wolff corse avanti e si gettò di nuovo al suolo. Era allo scoperto, ma sperava che grazie alla sua immobilità, combinata al terrore degli illusionisti e alla frenesia di sangue dei lupi, gli animali non si avvedessero di lui. Un altro lupo era uscito dai lembi del tempo. Partenogenesi dei viandanti temporali. Due lupi si lanciarono uno contro l'altro, mentre il terzo restava a osservarli e gli illusionisti saltellavano intorno in preda a un'evidente confusione. Il predatore rimasto in disparte divenne parte attiva, ma non nella lotta tra i suoi compagni, bensì nella caccia: azzannò un illusionista alla gola, quando questo, nel suo panico cieco, gli piombò addosso. Un illusionista e un lupo morirono.
I superstiti si dissolsero nel nulla. Quando riapparve, un lupo afferrò un illusionista per il collo e glielo spezzò. Wolff si levò lentamente. Nel momento esatto in cui uno dei lupi moriva, scagliò il sasso contro il vincitore. Questi però dovette cogliere il movimento con la coda dell'occhio: un attimo prima che il sasso lo colpisse era svanito. Quando riemerse dai canali del tempo, si diresse verso l'uscita del canalone alla massima velocità consentitagli dalle sue quattro zampe. «Sono dolente di doverti privare delle spoglie della vittoria» gli gridò dietro Wolff, «ma potrai riprendere la caccia altrove.» Andò a chiamare gli altri per informarli che la fortuna era cambiata. Sei animali avrebbero riempito loro la pancia e fornito anche qualcosa per il giorno dopo. Tuttavia giunse di nuovo il momento in cui i Signori si ritrovarono senza cibo da tre giorni. Erano scarni, le guance incavate, gli occhi infossati in profonde e scure cavità, i ventri che si avviavano a toccare le spine dorsali. Quel giorno Wolff li spedì a caccia a coppie. Personalmente, avrebbe voluto andare da solo, ma Vala insistette perché prendesse con sé Luvah. Lei avrebbe cacciato da sola. Wolff volle saperne il motivo. Lei rispose che non le andava a genio di dover rimanere sola con un uomo. «Hai paura di restare vittima di un atto di cannibalismo?» domandò Wolff. «Esattamente. Sai bene che se continueremo a patire la fame, finiremo inevitabilmente col mangiarci l'un l'altro. Forse è stato Urizen a progettare tutto questo. Si divertirebbe moltissimo a vedere che ci uccidiamo tra noi e ci riempiamo la pancia della nostra stessa carne e del nostro stesso sangue.» «Fa' come vuoi» disse Wolff, e si avviò insieme con Luvah per esplorare una serie di canaloni laterali. I due scorsero un certo numero di illusionisti che pascolavano tra i cespugli e cominciarono la paziente, lunghissima avanzata verso di loro. Arrivarono a un pelo dal successo. Il sasso lanciato da Wolff passò appena dietro la testa di quella che avrebbe dovuto essere la sua vittima. Dopodiché, tutto fu perduto. Gli illusionisti non si presero nemmeno la briga di rifugiarsi nel tempo, ma si allontanarono balzelloni e si persero in un altro canalone. Wolff e Luvah continuarono a cercare finché non fu prossimo il momento in cui la luna avrebbe portato un'altra notte di famelica insonnia. Quando arrivarono al punto di ritrovo, trovarono gli altri molto turbati. Mancavano Palamabron e il suo compagno di caccia, Enion.
Disse Tharmas: «Ma io sono troppo esausto per mettermi a cercare quei due maledetti sciocchi. E voi?» «Forse dovremmo farlo» disse Vala. «Potrebbero aver avuto fortuna e in questo momento essere occupati a rimpinzarsi di buona carne, invece di dividerla con noi.» Tharmas imprecò, ma continuò a rifiutarsi di andare a cercarli. Se avevano avuto fortuna, disse, lo avrebbe saputo non appena avesse visto le loro facce. Non avrebbero potuto nascondere la loro soddisfazione, e lui allora li avrebbe uccisi a causa della loro ingordigia e del loro egoismo. «Tu ti saresti comportato come loro» disse Wolff. «E poi, perché tanto chiasso? Non sappiamo se hanno preso qualcosa. In fondo, è solo un'idea di Vala, non abbiamo alcuna prova, neanche minima.» Grugnirono e imprecarono, ma ben presto l'estrema debolezza li fece cadere addormentati. Anche Wolff si addormentò, ma si svegliò nel bel mezzo della notte. Gli era parso di udire un grido in lontananza. Si rizzò a sedere e guardò gli altri. C'erano tutti, eccetto Palamabron ed Enion. Anche Vala si rizzò a sedere e disse: «Hai sentito niente, fratello? O era solo il brontolio delle nostre pance?» «Veniva dal fiume a monte» disse lui. Si alzò in piedi. «E meglio che vada a vedere.» «Vengo con te. Non riesco più a dormire. Il pensiero che magari stanno banchettando mi tiene sveglia e furiosa.» «Non credo che il banchetto sia a base di saltellanti.» «Pensi...» «Non lo so» replicò Wolff. «Hai accennato tu alla possibilità, una possibilità che diventa ogni giorno più forte, quanto più noi diventiamo deboli e affamati.» Raccolse il suo bastone e insieme a Vala s'incamminò lungo la sponda del fiume. Non era difficile vedere dove mettevano i piedi: la luna creava soltanto una specie di semioscurità. E anche se le pareti della gola incupivano il crepuscolo, c'era pur sempre abbastanza luce per camminare speditamente e senza soverchia attenzione. Fu così che videro Palamabron prima che lui vedesse loro. La sua testa apparve per un istante al di sopra di un masso, vicino alla parete della gola. Si presentò loro di profilo, poi scomparve. A piedi nudi avanzarono nella sua direzione. Il vento portava il rumore di quello che Palamabron stava facendo. Sembrava che stesse picchiando
una pietra sull'altra. «Sta forse cercando di accendere un fuoco?» sussurrò Vala. Wolff non rispose. Uno solo era il motivo che poteva spingere Palamabron ad accendere un fuoco, e a quel pensiero Wolff si sentiva male. Quando arrivò al roccione dietro cui si trovava Palamabron, si fermò esitante. Non voleva vedere quello che era certo avrebbe veduto quando avesse girato intorno al masso. Palamabron voltava le spalle. Stava in ginocchio davanti a un mucchio di rami e batteva un pezzo di pietra focaia contro una roccia ricca di ferro. Wolff esalò un sospiro di sollievo. Il corpo accanto a Palamabron era quello di un illusionista. Ma Enion, dov'era? Wolff si avvicinò silenziosamente alle spalle di Palamabron, tenendo alto il bastone. Parlò a voce alta: «E allora, Palamabron?» Il Signore diede un breve grido e si tuffò in avanti, sopra il mucchio di legna. Rotolò su se stesso e si rialzò in piedi, fronteggiandoli. Teneva in mano un rozzo coltello di selce. «È mio» ringhiò. «L'ho ucciso io e me lo tengo. Morirò se non mangio qualcosa!» «Come tutti noi» disse Wolff. «Dov'è tuo fratello?» Palamabron sputò e disse: «Quell'animale! Non è mio fratello. Perché dovrei sapere dov'è? Non sono la sua balia.» «Vi siete allontanati insieme» insistette Wolff. «Non so dove sia. A un certo momento, mentre stavamo cacciando, ci siamo trovati separati.» «Ci era parso di sentire un grido» disse Vala. «Forse era un illusionista» disse Palamabron. «Anzi, lo era senz'altro. Quello che ho ucciso poco fa. L'ho trovato che dormiva e l'ho ucciso: ha gridato, mentre moriva.» «Può darsi» disse Wolff. Si allontanò da Palamabron, camminando all'indietro finché non fu a distanza di sicurezza, e continuò a seguire la riva del fiume. Prima di aver percorso cento metri, vide la mano che spuntava da dietro un masso. Girò attorno alla roccia e trovò Enion. Aveva la nuca fracassata. E vicino c'era il sasso che l'aveva ucciso. Tornò sui suoi passi. Vala c'era ancora, ma il Signore e l'illusionista erano scomparsi. «Perché non l'hai fermato?» domandò. Lei si strinse nelle spalle e sorrise. «Sono solo una donna. Come potevo
fermarlo?» «Avresti potuto benissimo» replicò lui. «Ma penso che tu voglia godere la caccia a Palamabron. Be', se vuoi saperlo, non ci sarà nessuna caccia. Nessuno di noi ha energie da sprecare ad arrampicarsi qui intorno. E quando avrà mangiato, Palamabron avrà energie sufficienti per salire più in alto e per correre più veloce di noi.» «Bene» disse Vala. «E allora, che facciamo?» «Continuiamo ad andare avanti e a sperare per il meglio.» «E a morire di fame!» esclamò lei. Indicò il masso che nascondeva il corpo di Enion. «Lì c'è cibo a sufficienza per tutti noi.» Per un momento Wolff restò senza parole. Aveva evitato di prendere il problema in esame, ma ora che gli veniva posto di fronte, capì che Vala aveva ragione. Senza quel cibo, per quanto orribile fosse il pensiero, sarebbero quasi certamente morti. In un certo qual modo, Palamabron aveva fatto loro un favore. Si era accollato la responsabilità di uccidere per conto loro. Avrebbero potuto mangiare senza considerarsi degli assassini. Certo, gli altri non si sarebbero preoccupati per una uccisione, ma lui avrebbe patito le pene dell'inferno se le circostanze lo avessero costretto ad ammazzare un essere umano per poter sopravvivere. O forse, no. La verità era che provava soltanto una leggera repulsione al pensiero di mangiare carne umana. La fame aveva attutito alquanto il suo normale orrore nei riguardi del cannibalismo. Svegliò gli altri Signori, mentre Vala raccoglieva le pietre lasciate cadere da Palamabron. Quando furono di ritorno, lei non solo aveva già acceso il fuoco, ma era anche intenta al lavoro di macelleria. Wolff dapprima esitò, poi, pensando che se condivideva il cibo doveva condividere anche il lavoro, prese il coltello di Theotormon. Gli altri si offrirono in aiuto, ma lui li respinse. Era come se volesse punirli, lasciando cadere su di sé la maggior parte di quel macabro lavoro. Quando la carne fu arrostita, o meglio mezzo arrostita, prese la sua parte e andò a mangiare dall'altra parte del masso. Non era sicuro di poter mandare giù quel cibo, ma era sicuro che se fosse rimasto a guardare gli altri non sarebbe riuscito a trattenere il vomito. In un certo qual modo, gli sembrava meno orribile, una volta da solo. L'alba li trovò ancora intenti a cucinare. Ripresero il cammino solo a metà della mattinata. La carne avanzata venne avvolta tra le foglie. «Se Urizen ci stava osservando» disse Wolff, «deve proprio aver riso.»
«Lascia che rida» disse Vala. «Verrà anche il mio turno.» «Il tuo turno? Vuoi dire il nostro turno.» «Voi potete fare quello che vi pare. A me interessa solo quello che faccio io.» «Tipico dei Signori» disse Wolff, e non aggiunse altro, ma si mise a osservarla. Aveva una vitalità sorprendente. Forse era il cibo che le aveva dato un passo così scattante e le aveva riempito le guance e le braccia, ma lui non credeva a tutto questo. Anche quando tutti avevano sofferto la fame, sempre Vala aveva dato l'impressione di non soffrire, di non logorarsi come tutti gli altri. Se c'era qualcuno che aveva qualche probabilità di sopravvivere e di arrivare fino a Urizen, era proprio Vala, pensò. «Possa io avere la sua stessa forza» pregò, «non tanto per vendicarmi di Urizen, sebbene lo desideri, quanto per salvare Chryseis.» CAPITOLO XII Non mangiavano da un giorno, quando emersero dalla gola. Davanti a loro, ai piedi d'un lungo e dolce declivio, una pianura si stendeva fino all'orizzonte. Alla distanza di mezzo chilometro c'era una collinetta. Sulla sommità spiccavano due giganteschi esagoni. Si fermarono stremati a guardare la loro meta. Wolff disse: «Suggerisco di passare subito, da una o dall'altra porta. Forse, dall'altra parte troveremo del cibo.» «E in caso contrario?» chiese Tharmas. «Preferisco morire rapidamente tentando di superare le difese di Urizen, piuttosto che consumarmi lentamente per la fame. Il che, al momento mi sembra...» Lasciò che la sua voce si spegnesse: i Signori erano già fin troppo abbattuti. Lo seguirono pigramente fino ai piedi delle cornici dorate e incrostate di pietre preziose. Wolff si rivolse a Vala: «Sorella, a te l'onore di scegliere per noi l'ingresso di destra o quello di sinistra. Avanti. Solo, fa' in fretta. Sento che le forze mi stanno abbandonando.» Vala raccolse un sasso, girò la schiena alle porte e lo gettò all'indietro, facendolo passare al di sopra della testa. La pietra volò attraverso la porta di destra, colpendone quasi la cornice. «Così sia» disse Wolff. Guardò gli altri e rise. «Che ciurma! I prodi Si-
gnori! Vagabondi, piuttosto! Bastoni, una spada spezzata, un coltello, muscoli che tremano per la debolezza e ventri che brontolano per il desiderio di carne. Fu mai un Signore assalito nella sua fortezza da una banda tanto miserevole?» Anche Vala si mise a ridere. «Almeno, ti è rimasto dello spirito, Jadawin. E già qualcosa.» «Lo spero» disse lui. Corse avanti e balzò attraverso la porta di destra. Uscì sotto un cielo blu cupo e su un terreno che cedette leggermente sotto i suoi piedi. Il paesaggio era piatto, fatta eccezione per poche erte colline, così informi e scure da sembrare più escrescenze che masse di terriccio. Non credeva che fossero fatte di terra, dato che non lo era nemmeno la superficie sotto i suoi piedi. Era bruna e liscia, cosparsa di forellini. Steli alti trenta centimetri, sottili come nettapipe, crescevano da ciascun foro. Quasi come la pelle d'un gigante, pensò. La sola vegetazione, se così si poteva chiamarla, era costituita da un certo numero di alberi ben distanziati. Erano alti circa dodici metri, con tronchi sottili e rami lisci e puntuti che uscivano dal fusto, proiettandosi verso l'alto secondo un angolo di quarantacinque gradi. I rami avevano un colore più scuro dello zafferano del tronco ed erano coperti di rade foglie lamellate, lunghe circa mezzo metro. Gli altri Signori uscirono dalla porta un minuto dopo. Wolff si voltò e disse: «Sono contento di non aver trovato niente che non potessi affrontare senza il vostro aiuto.» «Erano tutti sicuri che questa volta la porta avrebbe condotto nella fortezza di Urizen» disse Vala. «E che forse io avrei fatto scattare qualche trappola, prima di soccombere» aggiunse Wolff, «dando così ai superstiti una possibilità di vivere qualche minuto in più.» Gli altri non replicarono. Wolff lanciò un'occhiata di rimprovero a Luvah, le cui guance si imporporarono. Wolff controllò la porta: o era stata disattivata o era anch'essa monopolare. Lontano, vide una lunga linea nera, forse la riva d'un lago o di un mare. Su questo pianeta, a differenza di quello che avevano appena lasciato, non c'erano indicazioni sulla direzione da prendere. Però, di fianco a loro, nella direzione in cui si era voltato all'inizio, aveva visto due informi colline scure, molto vicine l'una all'altra. Potevano essere un segno di Urizen. C'era un solo modo di scoprirlo, e Wolff si avviò senza esitare. S'incamminò sul suolo leggermente elastico e gli altri si accodarono. L'ombra di un volatile passò sopra di loro e tutti alzarono gli occhi. Era
bianco, con le zampe rosse, grande come un condor, e aveva un muso da scimmia, con un ricurvo becco da uccello al posto del naso. Luvah gli gettò contro il suo bastone. L'uccello starnazzò indignato e si allontanò rapidamente. Wolff disse: «Sembra che ci sia un nido, su quell'albero. Andiamo a vedere se per caso ci sono delle uova.» Luvah corse avanti per recuperare il suo bastone, ma si arrestò quasi subito. Wolff fissò lo sguardo nel punto che Luvah stava indicando. Il suolo si stava increspando. Si sollevò in onde alte alcuni centimetri, onde che avanzarono verso il bastone. Luvah si girò per correre via, ci ripensò, si girò di nuovo e corse a raccogliere la sua arma. Dietro di lui, il terreno si gonfiò, sollevandosi sempre più in alto, finché non si lanciò in avanti, come un frangente. Wolff urlò. Luvah si voltò, vide il pericolo e scappò velocemente. Correva dirigendosi obliquamente verso un'estremità dell'onda. Wolff lo seguì, nella speranza di poter fare qualcosa per aiutarlo. Poi, l'onda si spense. Wolff e Luvah si fermarono. Improvvisamente, Wolff sentì il terreno sollevarsi sotto i suoi piedi e vide che un altro rigonfiamento era sorto a pochi metri da Luvah. Entrambi si voltarono e corsero via, mentre il terreno, o qualunque cosa fosse, li inseguiva. Si diressero verso l'area circostante la porta, che si era mantenuta stabile e avrebbe continuato a esserlo... Così almeno speravano. Raggiunsero la zona di sicurezza appena in tempo per sfuggire all'improvviso sprofondare del terreno dietro di loro. Apparve un buco, dapprima largo e profondo, che poi si restrinse e si richiuse. I bordi si saldarono, ci fu un suono schioccante e il buco invertì il processo originale: si restrinse finché il suolo non fu tornato liscio come prima, a parte i sottili arbusti che spuntavano alti mezzo metro e che continuavano a vibrare. «Che roba, in nome di Los!» ripeté più volte Luvah. Era pallido e le lentiggini risaltavano come una galassia di paura. Wolff stesso era un po' scosso. Sentire la terra che gli tremava sotto era stato come trovarsi in mezzo a un terremoto. In effetti, era proprio quello che aveva pensato all'inizio. Qualcuno strillò alle sue spalle. Si girò e vide Palamabron che tentava di riattraversare la porta da cui era appena uscito, con l'unico risultato di saltare vanamente attraverso la cornice. Li aveva seguiti, aveva atteso finché non si fossero sufficientemente allontanati dall'entrata, ma adesso era in trappola quanto loro.
Meglio così, pensò Wolff, poiché aveva in mente di servirsi di lui. Spinse via gli altri che si erano lanciati su Palamabron e gridò loro di lasciarlo solo. I Signori si ritirarono, mentre Palamabron tremava e batteva i denti. «Palamabron» disse Wolff, «sei stato condannato a morte: hai rotto la tregua e hai ucciso tuo fratello.» Palamabron, rendendosi conto che il processo non era sommario, riprese coraggio. Forse pensava di avere ancora una possibilità. Gridò: «Io almeno non ho mangiato mio fratello! Sì, l'ho ucciso! Ma lui mi ha attaccato per primo!» «Enion è stato colpito alla nuca» disse Wolff. «L'ho gettato a terra!» urlò Palamabron. «Stava per rialzarsi quando ho afferrato un sasso e l'ho colpito. Non era colpa mia se mi voltava le spalle. Secondo te, avrei dovuto aspettare finché non si fosse girato?» «È inutile discutere» disse Wolff. «Ma tu sei libero di andartene. Non ci sporcheremo le mani col tuo sangue. Comunque, non puoi restare con noi. Nessuno di noi si sentirebbe sicuro, la notte, nessuno accetterebbe di voltarti le spalle.» «Mi lasciate andare?» chiese Palamabron. «Perché?» «Non perdere tempo in chiacchiere» disse Wolff. «Se entro dieci minuti non sarai sparito, lascerò mano libera agli altri. Faresti meglio ad andartene, e subito!» «Un momento» disse Palamabron. «C'è qualcosa che non quadra. No, non me ne vado.» Wolff fece un gesto rivolto agli altri. «Avanti. Uccidetelo.» Palamabron strillò, si girò e scappò via il più velocemente possibile. Appariva molto debole e le sue gambe cominciarono a muoversi più lentamente dopo pochi metri. Si guardò indietro diverse volte, poi, vedendo che non lo stavano inseguendo, smise di correre. Il suolo si gonfiò dietro di lui e crebbe fino a raggiungere il doppio della sua altezza. Nel momento stesso in cui toccò l'altezza massima, Palamabron si guardò di nuovo alle spalle. Vide l'onda gigante precipitarsi verso di lui, gridò e riprese a correre. L'onda si abbatté e i sussulti che ne seguirono rovesciarono a terra Palamabron mandandolo a gambe all'aria. Si rialzò a fatica e continuò a correre, benché ormai stesse barcollando. Un buco si aprì davanti a lui. Palamabron gridò e scattò ad angolo retto. Sembrava che il terrore gli procurasse nuove energie. Il buco scomparve, ma davanti a lui se ne spalancò un secondo. Di nuovo Palamabron deviò, questa volta in diagonale rispetto al buco.
Un'altra onda prese a crescere di fronte a lui. Palamabron si girò, scivolò finendo disteso, rotolò su se stesso e cercò di trascinarsi lontano. Subito dopo, il rigonfiamento che si era prodotto tra i Signori e Palamabron divenne così alto da nascondere quest'ultimo alla loro vista. L'ombra sembrò congelarsi per un istante, rimanendo del tutto immobile, a parte un leggero tremore. Poi, si abbassò gradatamente e la spianata fu di nuovo liscia, ad eccezione di un tumulo lungo due metri. «Inghiottito» disse Vala. Appariva eccitata: aveva gli occhi sbarrati, la bocca leggermente aperta e il labbro inferiore umido. La lingua si mostrava a tratti, per seguire con la punta l'ovale delle labbra. Wolff disse: «Nostro padre ha veramente creato un mostro! Forse l'intero pianeta è coperto dalla pelle di... di questo Weltthier.» «Wel... che?» domandò Theotormon. Aveva ancora gli occhi vitrei per il terrore. E sebbene fosse già dimagrito per la fame sofferta sul pianeta precedente, sembrava aver perduto altri trenta chili negli ultimi due minuti. La pelle gli pendeva addosso in grandi pieghe. «Weltthier. Animale-mondo. Dal tedesco, una lingua terrestre.» Un pianeta coperto di pelle, pensò. O forse, non era tanto una pelle quanto un'ameba dalle dimensioni d'un continente, sparsa su tutto il globo. L'idea lo fece sussultare. La pelle esisteva, non si poteva negarlo. Ma come faceva per non morire di fame? Milioni e milioni di tonnellate di protoplasma avevano bisogno di nutrimento. Anche se mangiava animali, non poteva certo averne a sufficienza per sopravvivere. Wolff decise di studiare il problema. Era curioso come una scimmia, come un gatto siamese, sempre intento a sperimentare, a valutare, a riflettere, ad analizzare. Non riusciva a mettersi tranquillo finché non avesse saputo il perché e il percome di ogni cosa. Si sedette a riposare, mentre rifletteva sul da farsi. Anche gli altri si sedettero e si sdraiarono, eccetto Vala, che si incamminò fuori della «zona calma» facendo bene attenzione a dove metteva i piedi. Osservandola, Wolff capì che cosa stava facendo. Perché non ci aveva pensato anche lui? Vala evitava accuratamente di toccare le piante (peli?) che crescevano dai buchi (pori?). Dopo aver percorso una circonferenza con un raggio di circa venti metri, Vala ritornò presso la porta. Non una sola volta la pelle aveva tremato o accennato ad assumere forme minacciose. Wolff si alzò e disse: «Ottimo, Vala. Questa volta mi hai battuto. La bestia, o qualunque cosa sia, avverte la presenza di esseri viventi attraverso il
contatto con quei sensori, o peli. Quindi, se procediamo con la cautela di una nave in mezzo alle secche, possiamo attraversare questa... cosa. Ma c'è un guaio...» Tese una mano ad indicare i monticelli callosi, le colline-escrescenza. I peli cominciavano a infittirsi in vicinanza delle pendici, e già sulle prime alture tappezzavano letteralmente il terreno. Vala scrollò le spalle e disse: «Non so davvero come faremo a passare oltre.» «Ci penseremo quando saremo là» disse lui. Si avviò, guardando in basso per evitare i sensori. I Signori lo seguirono in fila indiana, ancora con la sola eccezione di Vala, che procedeva parallelamente sulla sua destra, a una distanza di quattro o cinque metri. «In queste condizioni» disse Wolff, «sarà difficilissimo dare la caccia a un animale. Dovremo tenere un occhio ai peli e l'altro alla selvaggina. Un handicap spaventoso.» «Io non mi preoccuperei» disse Vala. «Può darsi che non ci siano animali.» «Sono sicuro che almeno un animale esiste» disse lui. Non aggiunse altro al riguardo, anche se era evidente che Vala sì stava chiedendo che cosa avesse voluto dire. Wolff si diresse verso «l'albero», su un ramo del quale aveva scorto il nido. Costituito da un mucchio rotondo di stecchi e foglie, era appoggiato alla giuntura tra il tronco e un ramo, e aveva un diametro di circa un metro. Gli stecchi e le foglie sembravano tenuti insieme da una sostanza collosa. Passò tra due sensori, appoggiò all'albero il bastone e si arrampicò su per il tronco. A mezza altezza, vide su uno dei monticelli la cima di due esagoni. Raggiunto il nido, si afferrò al tronco con le gambe e un braccio, mentre con l'altra mano frugava tra le foglie del nido. Portò alla luce due uova, screziate di verde e di nero e due volte più grandi di quelle di tacchino. Le prese e le passò, uno alla volta, a Vala. In quel momento ritornò la madre. Più grande di un condor, era bianca a strisce bluastre, pelosa, col viso da scimmia e il becco da falco. Aveva dei denti a sciabola, le orecchie da lupo, le ali da pipistrello, la coda da archeopterix e le zampe da avvoltoio. Si gettò su di lui con le ali ripiegate. Un attimo prima di colpire, aprì le ali in un gran risucchio d'aria. Diede un grido, come di ferro spezzato. Forse intendeva in quel modo immobilizzare la preda. Comunque, mancò il suo scopo: Wolff abbandonò la presa sul tronco e si lascio cadere. Sopra di
lui ci fu un rovinio e un altro grido, questa volta di frustrazione e di panico, mentre la bestia andava a urtare in parte il nido e in parte il tronco. Evidentemente, si era aspettata che il corpo di Wolff assorbisse il suo abbrivo e, nella furia, doveva aver calcolato male la velocità. Wolff piombò al suolo e rotolò lontano, pur sapendo che in tal modo metteva in azione i sensori, ma senza poter far nulla per impedirlo. Si rimise in piedi, mentre mucchi di foglie e stecchi incollati venivano giù dal nido distrutto. Saltò di lato appena in tempo per evitare di essere colpito dal corpo dell'uccello semistordito. L'urto non sarebbe stato comunque troppo violento, dato che la creatura aveva rallentato la propria caduta allargando istintivamente le ali. La pelle-terra stava ormai reagendo ai messaggi trasmessi dai sensori. Non li aveva toccati soltanto Wolff: infatti, quando era caduto, gli altri Signori si erano sparpagliati, stuzzicando i peli che crescevano intorno all'albero «Sull'albero» gridò loro Wolff. Vala aveva anticipato il suo suggerimento e si trovava già a metà del tronco. Luì cominciò ad arrampicarsi dietro di lei e subito sentì gli artigli aguzzi e caldi come uncini al calor bianco piantarglisi nella schiena. L'animale alato si era ripreso e gli era nuovamente addosso. Una volta ancora, Wolff lasciò la presa e cadde all'indietro. Puntò i piedi contro il tronco e spinse, per lanciarsi orizzontalmente. In questo modo, piombò al suolo con violenza, ma con la bestia sotto di sé. Due respiri furono espulsi con forza, il suo e quello dell'animale schiacciato sotto il suo corpo. Subito Wolff rotolò lontano, si rialzò e prese a calci nelle costole l'animale. La bocca dell'uccello si spalancò sotto il becco bruno, mettendo in mostra i canini coperti di saliva e di sangue. Wolff gli diede un altro calcio, poi si girò verso l'albero, ma venne buttato a terra da due Signori che cercavano freneticamente di raggiungere la salvezza offerta dalla pianta. Tharmas gli mise i piedi in testa, usandola come pedana di lancio per saltare sul tronco. Rintrah tirò giù Tharmas, lo spinse lontano e cominciò ad arrampicarsi. Barcollando per la spinta ricevuta, Tharmas cadde addosso a Wolff, che si stava proprio allora risollevando ginocchioni. Appollaiata presso la cima dell'albero, Vala stava ridendo. Rideva, battendosi le mani sulle cosce, ma improvvisamente strillò. Perse la presa, cadde a corpo morto ruotando su se stessa, spezzò un ramo e urtò il suolo con una spalla. Giacque stordita alla base dell'albero. Theotormon era forse il più atterrito. Ancora enorme, nonostante le mol-
te libbre di grasso che gli si erano sciolte addosso, e ostacolato per avere delle pinne al posto delle mani, si trovava in difficoltà a scalare l'albero. Continuava a scivolare giù, e nello stesso tempo non riusciva a trattenersi dal guardarsi indietro, farfugliando. Wolff riuscì a rimettersi in piedi. Intorno a lui, o meglio intorno all'albero, la pelle stava impazzendo. Si sollevò in grandi onde per dare la caccia a Luvah e Ariston, che stavano correndo in cerchio a gran velocità. La paura donava nuove energie ai loro corpi deboli e affamati. Dietro di loro, la carne-terra si gonfiò, avanzò rapidamente, poi cominciò a ripiegarsi su se stessa. Altre onde apparvero davanti a loro, mentre numerose buche cominciarono a sbadigliare sotto i loro piedi. Ad un certo punto, Luvah ed Ariston s'incrociarono. I tumori e le depressioni, in violento movimento alle loro calcagna, entrarono in collisione. Wolff rimase confuso nel caos di forme protoplasmatiche che venivano proiettate in alto, si urtavano, rimbalzavano e si inghiottivano. La scena gli ricordava un maelstrom. Prima che la pelle-terra riuscisse a riorganizzarsi, Ariston e Luvah fecero in tempo a raggiungere il tronco dell'albero, ma qui si ostacolarono a vicenda nel tentativo di salire. Mentre si aggrappavano l'uno all'altro, Wolff raccolse il corpo dell'uccello e lo lanciò più lontano che poteva. Il corpo atterrò sopra un rigonfiamento avanzante. La gobba si arrestò nell'istante in cui percepì la carcassa. Subito una depressione apparve e l'uccello affondò lentamente fino a scomparire sotto la superficie. Allora le labbra del buco si richiusero, solo un gonfiore e una sutura rimasero a mostrare che cosa c'era sotto. L'uccello era stato sacrificato: l'intenzione di Wolff era infatti di ricavarne cibo, ma aveva dovuto rinunziarvi. L'area intorno all'albero si appiattì, s'increspò ancora leggermente e poi tornò inerte come se fosse fatta veramente di terra. Wolff girò intorno all'albero per dare un'occhiata a Vala. Stava seduta, ansimando pesantemente, col viso contorto dal dolore. D'altra parte, la pelle era elastica e quindi l'urto non era stato violento. Vala si era scorticata una spalla e per un po' non avrebbe potuto muovere il braccio. Anche un lato del suo volto appariva escoriato. La ferita peggiore sembrava quella inferta alla sua dignità. Imprecava contro tutti, chiamando i Signori un branco di codardi, pazzi e maschi adatti solo a fare gli schiavi. I Signori erano imbarazzati, e risentiti a causa dei suoi insulti. Sentivano che Vala aveva ragione e si vergognavano. Ma non avevano certo l'intenzione di ammettere la verità.
Wolff cominciava a pensare che l'intera faccenda era davvero buffa. Scoppiò a ridere, ma si raddrizzò subito con un gemito. Aveva dimenticato i profondi graffi inflittigli dagli artigli dell'uccello. Luvah gli guardò la schiena e chiocciò. Il sangue stava ancora colando, anche se tra non molto avrebbe smesso. Wolff sperava sinceramente che non sopraggiungesse un'infezione, dato che non c'erano medicine a disposizione. «Avete proprio un'aria allegra» grugnì. Si guardò in giro, in cerca delle uova. Una si era fracassata e giaceva spiaccicata alla base dell'albero. L'altra non si vedeva da nessuna parte: probabilmente era stata inghiottita dalla pelle-terra. «Oh Los!» gemette Ariston. «Che faremo, adesso? Siamo sul punto di morire di fame. Siamo perduti. Non possiamo abbandonare quest'albero senza essere ingoiati vivi da quel mostro. Nostro padre ci ha già eliminati, e non ci siamo nemmeno avvicinati alla sua fortezza.» «Siete Signori e Fabbricanti di Universi, ma vi riducete a ben poca cosa quando siete lontani dalle mura delle vostre fortezze e dalle vostre armi» disse Wolff. «Vi citerò un altro vecchio proverbio della Terra. C'è più d'un modo di spellare un gatto.» «Quale gatto? Dove?» fece Theotormon. «Potrei mangiare una dozzina di gatti, anche subito.» Wolff alzò gli occhi al cielo e non rispose. Disse ai Signori di mettersi dall'altra parte dell'albero e di salirvi sopra, poi prese il coltello di Theotormon e si allontanò di qualche passo. Accovacciato, vibrò una coltellata alla pelle con tutta la sua forza. Se era abbastanza flessibile da assumere la forma di rozzi pseudopodi o di buchi, doveva anche essere vulnerabile. Estrasse il coltello dalla ferita, si alzò e si ritirò di alcuni passi. La pelle si raggrinzì, si formò un buco, poi intorno alla ferita si produsse un cono che si innalzò come un cratere in lenta formazione. Wolff rimase immobile, attendendo con pazienza. Rapidamente, il cratere si appiattì e riapparve la ferita. Invece del sangue, che quasi si era aspettato di vedere, fluiva un pallido liquido trasparente. Si avvicinò alla ferita, evitando con cura i peli circostanti. Rapido, pugnalò di nuovo la pelle, ne ritagliò un tremolante pezzo di carne e tornò di corsa all'albero. Ancora una volta ci fu una tempesta di forme protoplasmatiche: onde, crateri, creste e brevi vortici, nei quali la carne si torceva su se stessa. Alla fine, tutto tornò calmo. Wolff disse: «La pelle immediatamente intorno all'albero sembra essere più spessa e meno flessibile di quella più lontana. Fintanto che restiamo
qui, penso che saremo al sicuro, anche se forse la pelle è in grado di creare una... una marea che potrebbe spazzarci via. Ad ogni modo, ora abbiamo da mangiare.» A turno gli altri Signori tagliarono via bocconi di carne. La carne cruda era dura, intrisa di quel liquido pallido e con un cattivo odore, ma poteva essere masticata e inghiottita. Con qualcosa nello stomaco, si sentirono più forti e più ottimisti. Qualcuno si sdraiò a dormire. Wolff si diresse alla riva del fiume. Vala e Theotormon lo seguirono. Luvah, vedendoli, decise di andare con loro. Il terreno e l'acqua si congiungevano bruscamente, senza formare spiaggia. Lungo il bordo c'erano così pochi sensori che poterono rilassarsi un attimo. Wolff era in piedi proprio sull'orlo e guardava nell'acqua. Nonostante l'assenza di un sole che lanciasse i suoi raggi, la limpidezza dell'acqua gli permetteva di vedere abbastanza a fondo. C'erano molti pesci di varie forme, dimensioni e colori, che nuotavano vicino alla riva. Proprio mentre stava a guardare, vide un lungo tentacolo, esile e pallido, fuoruscire da sotto il bordo e afferrare un grosso pesce. L'animale si dibatté, ma venne rapidamente trascinato sotto il bordo. Wolff si mise carponi e si sporse per vedere che razza di creatura fosse quella che aveva appena catturato la preda. L'orlo sporgeva di parecchio, cosicché non riuscì a vederne la base. Vide invece una massa convulsa di tentacoli, molti dei quali stringevano un pesce. Ancor più a fondo, c'erano altri tentacoli che si protendevano nelle cavità abissali. In quell'istante, uno dei tentacoli si arrotolò su se stesso e portò su dal fondo un gigantesco pesce. Wolff ritirò in fretta il capo, dato che uno dei tentacoli più vicini stava serpeggiando verso l'alto, vicino a lui. Disse: «Mi chiedo come un simile mostro riesca a procurarsi abbastanza da mangiare. La sua principale fonte di nutrimento deve essere la fauna marina. E scommetterei che l'animale su cui ci troviamo è un enorme galleggiante. Questa cosa deve essere libera di muoversi, priva di ormeggi, come le isole del mondo d'acqua.» «È una bella cosa da sapere» disse Luvah. «Ma a che ci serve?» «Abbiamo bisogno di altra roba da mangiare» replicò Wolff. «Theotormon, quello che nuota meglio sei tu. Vorresti saltar dentro e fare una nuotatina? È sufficiente che tu rimanga vicino alla riva e che ti tenga sempre pronto a risalire. Ma, in caso di necessità, esci velocemente dall'acqua, sulla spinta, come una foca.» «Perché dovrei?» disse Theotormon. «Hai visto anche tu come quei ten-
tacoli hanno acchiappato i pesci.» «Sono convinto che afferrino alla cieca. Forse possono percepire le vibrazioni dell'acqua, non so. Ma tu sei abbastanza veloce da poterli evitare. E poi, i tentacoli vicino all'orlo sono piccoli.» Theotormon scosse la testa. «No, non rischierò la vita per voi.» «Morirai di fame, se non lo fai» insistette Wolff. «Non possiamo continuare a tagliare pezzi di pelle. Reagisce troppo violentemente.» Indicò un pesce che stava passando appena sotto il pelo dell'acqua. Era grasso e tardo, con una testa fatta come quella d'una sfinge. «Non ti piacerebbe addentarlo?» Theotormon sbavò. Il suo ventre rimbombava, ma non si tuffò. «Dammi il tuo coltello, allora» disse Wolff. Estrasse l'arma dal fodero prima che Theotormon, in piedi su una sola zampa, potesse sollevare l'altra per afferrare l'elsa con le unghie. Si girò, prese la rincorsa e si tuffò più lontano che poté. Il pesce si scostò e si allontanò in fretta. Era lento, ma non così lento da poter essere preso. Né lui aveva creduto di riuscirci. Era interessato a scoprire se un tentacolo, sentendo le vibrazioni del tuffo e i suoi movimenti, sarebbe venuto a cercarlo. Uno lo fece. Uscì ondulando dalla base carnosa a cui era attaccato e si diresse verso di lui. Wolff nuotò verso la riva, con la testa sott'acqua per tenerlo d'occhio. Quando vide che il tentacolo, acquistando improvvisamente velocità, gli si avvicinava, allungò una mano e ne afferrò l'estremità. Aveva un certo sospetto che i tentacoli fossero velenosi, come quelli della medusa, anche se il pesce che era stato catturato non aveva dato segni di avvelenamento. Il tentacolo si ripiegò su se stesso, formò un cappio e l'avviluppò. Wolff abbandonò la punta, si torse e afferrò il tentacolo a circa trenta centimetri dall'estremità. Cominciò a segarne la pelle con il coltello, che affondò facilmente. Il tentacolo cessò di avvolgerglisi e cominciò a ritirarsi. Wolff mantenne la presa con una mano e continuò a tagliare. L'acqua divenne più scura, mentre il tentacolo, contraendosi, lo trascinava sotto il bordo. Poi, il coltello passò dall'altra parte e Wolff tornò alla superficie nuotando e tenendo il pezzo di tentacolo tra i denti. Lo gettò sulla riva. Stava cominciando a issarsi fuori dell'acqua quando sentì qualcosa che gli si avvolgeva intorno al piede destro. Guardò in giù e vide una bocca, aperta all'estremità di un altro tentacolo. La bocca era pnva di denti, ma abbastanza forte da mantenere ugualmente la stretta sul suo piede. Con le braccia si aggrappò alla sponda e rantolò: «Aiuto!»
Theotormon mosse verso di lui alcuni passi sulle sue zampe gommose, poi si arrestò. Vala lo guardò e sorrise. Luvah le strappò dal fodero il moncone di spada e si gettò in acqua. Allora, Vala scoppiò a ridere e si tuffò dietro Luvah. Tornò a galla, tolse il coltello a Wolff e si immerse di nuovo. Lei e Luvah attaccarono il tentacolo a circa un metro dalla bocca. L'arto si spezzò. Quando Wolff si tirò fuori dell'acqua, un pezzo di quella cosa era ancora avviluppata intorno al suo piede. Per rendere commestibili i due pezzi di carne, dovettero batterli e ribatterli contro il tronco dell'albero, per ammorbidirli. Nonostante il trattamento, ai Signori parve quasi di masticare della gomma. Ma era pur sempre dell'altro cibo nello stomaco. Finito di mangiare, si incamminarono con cautela per la pianura e si arrestarono nei pressi del primo monticello, dove i peli cominciavano a infittirsi. Ormai potevano vedere distintamente la loro meta: lontano mezzo miglio sulla cima di un'erta collinetta, si ergeva la coppia di esagoni dorati. Wolff aveva raccolto il ramo che Vala aveva spezzato cadendo. Lo lanciò con quanta forza aveva e lo osservò cadere in mezzo ai peli. L'intera zona reagì subito e molto più violentemente di quella meno pelosa. La pelle sembrava in preda a una vera e propria tempesta. «Oh, Los!» esclamò Ariston. «Siamo perduti! Non riusciremo mai a passare.» Agitò il pugno contro il cielo e urlò: «Tu, padre! Ti odio! Ti detesto e aborrisco il giorno in cui mi hai generato dai tuoi lombi immondi! Forse pensi di averci portato dove volevi. Ma, per Los e per il deforme Enintharmon, giuro che ti raggiungeremo lo stesso!» «Bene» disse Wolff. «Per un momento, ho creduto che stessi per metterti a guaire come un cane malato. Cantagliele, al vecchio bastardo! Probabilmente può udirti.» Ariston, ansimante e con i pugni serrati, disse: «Un discorso abbastanza coraggioso. Ma ancora non so che cosa faremo.» «Nessuna idea?» domandò Wolff agli altri. I Signori scossero la testa. Allora, Wolff disse: «Dov'è tutta la diabolica abilità e l'agile furberia che si suppone debbano avere i figli di Urizen? Ho sentito molto parlare delle vostre imprese, di come avete attaccato le fortezze di molti Signori, conquistandone gli universi, grazie al vostro ingegno e ai vostri poteri. E adesso, che vi succede?» «Erano abbastanza coraggiosi e abili, quando avevano le armi» disse Vala. «Ma credo che non si siano ancora ripresi dallo shock di essersi fatti intrappolare da nostro padre. E di essere rimasti senza i loro congegni. Senza
quelli, perdono tutto ciò che li rende Signori. Adesso sono soltanto uomini, e anche piuttosto penosi.» «Siamo troppo stanchi» disse Rintrah. «I muscoli mi dolgono e bruciano. Non si reggono, è come se mi trovassi su un pianeta ad alta gravità.» «Muscoli!» disse Wolff. «Muscoli!» Li ricondusse all'albero. Nonostante il bruciore che gli tormentava la schiena ogni qual volta si chinava, lavorò di buona lena a raccogliere legna. Gli altri Signori lo aiutarono e presto ognuno ebbe tra le braccia il suo fascio di rami. Ritornarono al limitare della zona lussureggiante e qui cominciarono a lanciare i pezzi di legno tra i sensori. Li lanciavano il più lontano possibile, non tutti in una volta, ma intervallando i lanci. La pelle si sollevò come un mare in burrasca: onde, crateri e creste correvano avanti e indietro. Ma, via via che continuavano a stuzzicarla, la pelle diminuiva sempre più la sua furia. Quando i rami furono quasi al termine, le sue reazioni erano ormai molto deboli. L'ultimo bastoncino non ottenne altro risultato che un buchetto e una piccola increspatura subito quetata. «Ormai è stanca» disse Wolff. «Comunque, può darsi che abbia un tempo di recupero piuttosto breve. Pertanto, sarà meglio muoverci immediatamente.» Aprì il cammino, procedendo veloce. La pelle rabbrividì e s'ingobbì, in risposta ai segnali dei sensori. Larghi buchi si aprirono, profondi dieci centimetri. Wolff li costeggiò, ma poi decise di accelerare. Non si fermò finché non giunse ai piedi dell'altura. Anche questa, come la prima che avevano già superato, aveva l'aspetto di un'escrescenza, come fosse un'enorme verruca della pelle. Benché i fianchi s'innalzassero a perpendicolo, era abbastanza corrugata da offrire abbondanti appigli. La scalata fu difficile, ma non impossibile, e tutti arrivarono in cima senza incidenti. Wolff disse: «L'onore è ancora tuo, Vala. Quale porta?» «Finora non se l'è cavata molto bene» interloquì Ariston. «Perché fai scegliere a lei?» Vala gli si rivoltò contro come una tigre. «Fratello, se pensi di poter fare meglio di me, scegli tu! Ma dovrai dimostrare la tua fiducia in te stesso passando per primo dalla porta che avrai scelto.» Ariston arretrò di un passo. «Benissimo. È inutile rompere una tradizione.» «Una tradizione!» commentò Vala. «Bene, scelgo quella di sinistra.» Wolff non esitò. Anche se avvertiva che questa volta avrebbe potuto ri-
trovarsi, debole e disarmato, all'interno della fortezza di Urizen, attraversò decisamente la porta. Al primo istante, non riuscì a capire dove fosse e cosa stesse accadendo, tanta fu la vertigine che provò e tanto strani erano gli oggetti che gli turbinavano sopra. CAPITOLO XIII Era su un enorme cilindro di metallo grigio, che ruotava rapidamente. Sopra di lui, da entrambi i lati, c'erano altri cilindri grigi, e altri ne apparivano a mano a mano che il cilindro ruotava. Il cielo, sullo sfondo, era di un color rosa pallido. In mezzo ad ogni coppia di cilindri balenavano tre raggi color malva. Scaturivano dal centro e da due punti situati a circa tre metri dalle estremità. Di tanto in tanto, lampi colorati avvampavano lungo i raggi, percorrendoli avanti e indietro. Rosei, arancioni, neri, bianchi e purpurei, sprizzavano come razzi e poi andavano su e giù, come comandati da un filo invisibile. Arrivati a circa quattro metri dai cilindri, sfolgoravano accecanti e si spegnevano di colpo. Wolff chiuse gli occhi per scacciare la vertigine e la nausea. Quando li riaprì, vide che anche gli altri erano passati dalla porta. Ariston e Tharmas caddero sulla superficie del cilindro e cercarono di aderirvi con tutte le loro forze. Theotormon si mise a sedere, come se avesse paura che la forza centrifuga lo facesse scivolare sul metallo e potesse magari lanciarlo nello spazio vuoto tra i cilindri. Soltanto Vala non appariva turbata: stava sorridendo, anche se forse lo faceva soltanto per dar mostra di coraggio. Anche in tal caso, era pur sempre da ammirare. Con la massima attenzione, Wolff osservò ciò che lo circondava. I cilindri avevano più o meno le dimensioni d'un grattacielo. Non riusciva a capire come mai la forza centrifuga non li avesse ancora scaraventati lontano: quei corpi non potevano certo possedere una forte gravità. Eppure, l'avevano. Forse... anzi sicuramente, Urizen aveva realizzato un equilibrio di forze che permettesse agli oggetti di non cadere uno sull'altro. Forse, i lampi colorati che correvano lungo i raggi erano una manifestazione del continuo riequilibrarsi delle forze, statiche o dinamiche che fossero, forze che tenevano in posizione quelle piccole masse, di gravità pari a quella terrestre. C'era una cosa che Wolff sapeva bene: la scienza ereditata dai Signori
era ben al di là di quella conosciuta dai terrestri. Dovevano esserci migliaia, forse centinaia di migliaia di quei cilindri. Distavano circa un chilometro e mezzo l'uno dall'altro e ruotavano sul proprio asse, mutando lentamente anche le loro reciproche posizioni in una danza intricata. Da lontano, pensò Wolff, tutti quei cilindri dovevano apparire come un'unica massa solida. Doveva trattarsi di uno dei pianeti che avevano osservato dal mondo d'acqua. Ora, la loro situazione presentava però un vantaggio. Su un mondo così piccolo, non sarebbero dovuti andare molto lontano per trovare le porte successive. Ma non sembrava verisimile che Urizen avesse reso la cosa tanto facile. Wolff tornò alla porta e cercò di rientrarvi. Come si era aspettato, riuscì soltanto ad attraversare la cornice e a tornare sul cilindro. Si voltò e provò l'altro lato della porta, che si rivelò altrettanto infruttuoso. Allora s'incamminò lungo la circonferenza di base del cilindro, in cerca delle porte. Aveva fatto meno di un chilometro, quando vide i due esagoni. Erano all'altra estremità, librati a pochi centimetri dalla superficie, con il pallido cielo rosa che brillava tra il lato inferiore della cornice e la superficie stessa. Wolff si diresse alla loro volta, seguito dagli altri. Teneva gli occhi fissi sulle porte e tentava di non guardare i vorticanti oggetti in moto intorno a lui. Dato che era in testa, Wolff fu il primo ad accorgersi dell'inconsueto comportamento dei due esagoni. Quando giunse a quindici metri di distanza, le porte cominciarono ad allontanarsi. Wolff accelerò il passo e le porte continuarono ad allontanarsi, senza però riuscire a mantenere la distanza. Quando si mise a correre, gli esagoni si mossero più velocemente, ma lui guadagnò ancora un po' di terreno. Si fermò e le porte si fermarono. Partì di scatto nella loro direzione, con l'unico risultato di vederle allontanarsi come prima. Ma quando aumentò nuovamente la velocità, guadagnò ancora terreno. Gli altri Signori lo seguivano da presso. I loro piedi schiaffeggiavano la superficie metallica e i loro ansiti sibilavano nell'atmosfera. Wolff si fermò di nuovo e anche le porte si arrestarono. Gli altri Signori, a parte Vala, si raccolsero intorno a lui, balbettando. «Los! Prima ci affama a morte... poi ci fa correre a morte.» Wolff attese un po', per riprendere fiato, poi disse: «Penso che prima o poi riusciremo a prenderle. Quando io acceleravo, esse rallentavano e, mi
sembra, con una diminuzione proporzionale di velocità. Ma non credo di poter correre abbastanza velocemente e abbastanza a lungo da raggiungerle. Chi è il più veloce, qui?» Luvah si fece avanti. «Sono sempre riuscito a battervi, in una corsa a piedi. Ma ora sono così stanco e debole...» «Prova!» lo incitò Wolff. Luvah gli sorrise incerto e si diresse verso le porte, che subito si allontanarono librandosi in aria. Luvah si lanciò di scatto e poco dopo era sparito dietro la curvatura del cilindro. Wolff si girò e corse nella direzione opposta. Vala gli tenne dietro. L'orizzonte, vertiginosamente vicino, gli balzò incontro: accelerò e poco dopo scorse Luvah e le porte. Luvah era ormai a tre metri dalle aperture, ma stava rallentando. E mentre le sue gambe si rifiutavano di muoversi come lui avrebbe voluto, mentre il fiato gli esplodeva nei polmoni, le porte si spinsero più lontano. Wolff arrivava dalla direzione opposta e quando giunse anche lui come Luvah accanto alle porte, queste scivolarono di lato, come una saponetta bagnata. Vala si diresse diagonalmente verso di loro, ma le porte la schivarono. Gli ansimanti Signori si fermarono ai tre vertici di un quadrato, di cui le porte costituivano il quarto vertice. «Dove sono gli altri?» domandò Wolff. Luvah agitò un pollice. Wolff si voltò e li vide arrivare in ordine sparso. Li chiamò. In quell'atmosfera dalle strane proprietà, la sua voce risonò in modo soprannaturale. Luvah riprese l'avanzata, ma si fermò a un ordine di Wolff. Ariston, Tharmas, Rintrah e Theotormon si sparpagliarono. Sotto la direzione di Wolff, formarono un pentagono, con le porte al centro. Poi cominciarono tutti a stringersi sulla preda, mantenendo le distanze tra loro e avanzando tutti alla stessa velocità. Le porte oscillavano avanti e indietro, ma non accennarono a volar via. Dopo due minuti di lento e paziente avvicinamento, i Signori riuscirono ad afferrare le cornici. Questa volta Wolff non si preoccupò di chiedere a Vala. Scelse la porta di sinistra e passò per primo. Gli altri lo seguirono subito dopo e il loro sguardo costernato rifletté il suo. Erano su un altro cilindro, con un nuovo paio di esagoni all'altra estremità. Di nuovo ripresero l'estenuante caccia alle porte. Ancora una volta passarono attraverso la cornice, questa volta quella di destra. E di nuovo si trovarono su di un altro cilindro.
La cosa si ripeté per cinque volte. Alla fine, i Signori si fermarono a guardarsi con occhi arrossati dalla fatica e cerchiati per lo sfinimento. Avevano le gambe tremanti e i polsi indolenziti. Erano coperti di sudore e nel contempo disidratati, come per un vento del Sahara. Riuscivano a malapena a tener fermi gli esagoni. «Non possiamo andare avanti ancora per molto» disse Rintrah. «Non essere così ovvio» disse Vala. «Cerca di dire qualcosa di originale, una volta tanto.» «Benissimo, ecco: ho tanta sete da bere il tuo sangue. E potrei anche farlo, se non troverò presto un sorso d'acqua.» Vala rise. «Se mi verrai abbastanza vicino, sarò io a spillarti, con la mia spada. Il tuo sangue sarà senz'altro pallido e disgustoso, ma spero almeno che sia abbastanza umido.» «Non so come» disse Wolff, «ma sembra che prendiamo sempre la porta che ci conduce dappertutto meno che da Urizen. Forse questa volta dovremo dividerci. Forse qualcuno di noi riuscirà ad arrivare fino a nostro padre.» Gli altri, ad eccezione di Vala e Luvah, si misero a discutere. Alla fine, Wolff disse: «Io passerò da una porta, con Vala e Luvah, e gli altri passeranno per l'altra. Questo è quanto.» «Perché Vala e Luvah?» domandò Theotormon. Teneva gli occhi socchiusi, in atteggiamento sospettoso, e nella sua voce c'era un lieve tono di lamento. «Perché loro? Voi tre sapete forse qualcosa che noi non sappiamo? State progettando di abbandonarci?» «Prendo con me Luvah perché è il solo di cui possa fidarmi, almeno così spero» rispose Wolff. «E Vala, come lei stessa ha fatto più volte notare, è l'uomo migliore tra voi.» Li lasciò protestare. Poi, insieme a Luvah e a sua sorella, passò per la porta di sinistra. Pochi istanti dopo, apparvero gli altri. Si mostrarono sconcertati nel vedere Wolff. Luvah e Vala. «Ma noi siamo passati per la porta di destra» disse Rintrah. Vala scoppiò a ridere. «Nostro padre ci ha fatto un altro bello scherzo. Entrambe le porte si aprono sul medesimo cilindro. Ho paura che sarà così per tutte.» «Non è leale!» disse Ariston. A quelle parole, Wolff e Luvah scoppiarono a ridere e poco dopo anche gli altri, eccettuato Ariston, si unirono alla loro ilarità. Quando le sghignazzate, che però contenevano anche una nota di dispe-
razione, si furono spente, Wolff disse: «Può darsi che mi sbagli, ma penso che ognuno di questi innumerevoli cilindri, in questo mondo... "a birilli", abbia una coppia di porte. Se continuiamo così, le passeremo tutte. A parte il fatto che moriremo prima di aver percorso una minima parte del cammino. Dobbiamo pensare a qualche cosa di nuovo.» Cadde il silenzio. I Signori stavano seduti o sdraiati sul duro metallo grigio e scintillante. I cilindri, sopra di loro, giravano uno intorno all'altro, in una sarabanda intricata e silenziosa, con gli esagoni gemelli che apparivano e scomparivano alle loro estremità, quasi a deriderli. Alla fine, Vala disse: «È impossibile che non ci sia una via d'uscita. Nostro padre non vorrà certo fermare il gioco quando abbiamo ancora fiato e spirito combattivo. Sicuramente vorrà trascinare l'agonia finché non crolleremo. Io sono sicura che intende farci trovare la porta conducente nella sua fortezza. Deve averci preparato un'accoglienza di prim'ordine, e resterebbe deluso, se non potessimo arrivare fin là.» Poi, Vala aggiunse: «Vediamo quindi di usare la testa. Ovviamente, queste porte conducono solo ad altre porte su altri cilindri. Sarà sempre così, finché le attraversiamo nel modo regolamentare, cioè dalla parte ornata di pietre preziose. Ma se le porte fossero bipolari? Se l'altro lato ci portasse dove vogliamo andare?» «Ho già provato l'altro lato» disse Wolff «quando sono passato per la prima porta.» «Già, hai provato la prima porta. Ma ne hai provata qualcuna delle altre?» Wolff scosse il capo. «La stanchezza e la sete mi hanno privato del buon senso. Avrei dovuto pensarci. Dopo tutto, è l'unica cosa che ci resta ancora da tentare.» «Allora alziamoci e andiamo» disse Vala. «Raccogliete le vostre forze: questa può essere la volta che riusciremo ad abbandonare questo maledetto mondo a birilli.» Una volta ancora, circondarono e catturarono gli esagoni gemelli. Vala passò per prima attraverso il lato opposto a quello gemmato. Scomparve e Wolff la seguì. Uscendo dall'altra parte, vide un altro cilindro e sentì il morale evaporargli come vino sotto vuoto. Poi scorse la porta all'altra estremità e capì che erano sulla strada giusta. C'era un solo esagono dorato. Anche questo era librato a qualche centimetro dalla superficie, ma ruotava intorno al proprio asse, facendo un giro ogni secondo e mezzo.
Comparvero anche gli altri. Quando si resero conto di trovarsi su un altro birillo, imprecarono, ma appena scorsero l'unica porta ruotante, alcuni s'illuminarono in volto, mentre altri si accartocciarono su se stessi al pensiero del nuovo pericolo che avevano di fronte. «Perché gira?» domandò debolmente Ariston. «Proprio non saprei dirlo, fratello» disse Vala. «Ben conoscendo nostro padre, sospetto che la porta abbia un solo lato sicuro. Se scegliamo il lato giusto, passeremo incolumi. Ma se prenderemo il lato sbagliato... Avrai notato che non ci sono pietre preziose su nessun lato: sono entrambi spogli. Così, non c'è modo di distinguerli l'uno dall'altro.» «Sono così stufo che non me ne importa più di niente» disse Ariston. «Darei il benvenuto alla morte. Dormire per sempre, libero da quest'agonia di corpo e di spirito, ecco tutto ciò che desidero.» «Se pensi davvero così» disse Vala, «allora dovresti tentare la porta per primo.» Wolff non disse niente, ma gli altri unirono le loro voci all'incitamento di Vala. Ariston non sembrava più tanto impaziente di morire; si tirò indietro dicendo che non sarebbe stato tanto stupido da sacrificarsi per loro. «Oltre che debole sei anche vigliacco» disse Vala. «Non importa sarò io la prima.» Piccato, Ariston si diresse verso l'esagono rotante, ma si fermò a due metri di distanza. Rimase immobile a fissare la porta, mentre Vala lo scherniva. Alla fine, Vala lo spinse da parte con tale violenza che Ariston barcollò e cadde sulla superficie grigia. Poi, Vala si accovacciò davanti alla trottola dorata e la studiò con attenzione per diversi minuti. Improvvisamente, si lanciò e attraversò la cornice a testa avanti. La porta continuò a girare. Ariston si rialzò, senza guardare gli altri e senza rispondere ai loro sarcasmi. Si avvicinò alla porta, piegò le ginocchia e vi si tuffò attraverso. Uscì dall'altra parte e ricadde sulla superficie grigia. Wolff, il primo ad arrivare presso di lui, lo rigirò. Ariston aveva la bocca spalancata e gli occhi vitrei. La pelle stava diventando grigia. Wolff si alzò e disse: «È passato dal lato sbagliato. Adesso sappiamo che razza di porta è.» «Quella cagna di Vala ha tutte le fortune!» disse Tharmas. «Hai fatto caso da che lato è passata?» Wolff scosse il capo. Studiò la cornice, avvolta nel crepuscolo rosa. Non
c'era alcun segno che permettesse di distinguere i due lati. Confabulò con Luvah, poi insieme raccolsero il corpo di Ariston, prendendolo per i piedi e per le spalle. Lo fecero oscillare avanti e indietro finché, al grido di Wolff, lasciarono andare il cadavere nel momento in cui era all'estremo dell'oscillazione. Il corpo fu proiettato attraverso la cornice, uscì dall'altra parte e cadde sulla superficie del cilindro. Wolff e Luvah andarono dall'altra parte e ancora una volta fecero oscillare il corpo, per poi scagliarlo attraverso la cornice. Questa volta non ricomparve. Wolff domandò a Rintrah: «Stai contando?» Rintrah annuì col capo. Wolff disse: «Alza un dito e, quando si presenta il lato giusto, puntalo. Ma fa' alla svelta!» Rintrah attese finché non furono completati altri due giri, poi pugnalò l'aria con il dito. Wolff si lanciò attraverso la cornice, sperando che Rintrah non avesse commesso un errore. Atterrò sul corpo di Ariston. Si udiva il rumore delle onde, sopra di lui c'era un cielo rosso. Vala era ritta nei pressi e rideva sommessamente. La beffa di Urizen sembrava davvero divertirla. Erano tornati su un'isola del mondo d'acqua. CAPITOLO XIV Gli altri Signori uscirono a uno a uno dalla porta. Rintrah fu l'ultimo. Apparivano delusi, ma non abbattuti: ora, per lo meno, erano su un terreno familiare, quasi a casa. E, come fece notare Theotormon, potevano finalmente mangiare a sazietà. La porta da cui erano passati era quella di destra di un'enorme coppia. Si ergevano entrambe su di una bassa collina. La configurazione del terreno circostante era familiare. Dopo essere andati in riva al mare a spegnere la sete, i Signori cucinarono e mangiarono i pesci presi da Theotormon. Organizzarono dei turni di guardia e andarono a dormire. Il giorno dopo si diedero ad esplorare i dintorni. Non c'erano dubbi: si ritrovavano sulla grande isola che gli indigeni chiamavano «La Madre delle Isole». Disse Wolff: «Le porte sono quelle di partenza, quando abbiamo cominciato questa specie di giostra. Eravamo passati da quella di destra, perciò, con tutta probabilità, la sinistra conduce al mondo di Urizen.» Disse Tharmas: «Be', questo non è il più desiderabile dei mondi, ma è meglio godersi la vita qui, piuttosto che morire tra i tormenti in una delle celle di Urizen. Perché non dimentichiamo quella porta? Qui ci sono cibo,
acqua e donne indigene. Lasciamo che Urizen sieda in eterno sul suo trono regale e imputridisca nell'attesa di vederci arrivare.» «Dimentichi che senza le tue droghe invecchieresti e moriresti» disse Wolff. «È questo che vuoi? E poi, chi ci garantisce che non sarà Urizen a venire da noi, se noi non andiamo da lui? No, tu puoi anche restare seduto lì, immerso nei tuoi sogni come un mangiatore di loto, ma io intendo continuare la lotta.» «Vedi, Tharmas» disse Vala con un sorriso storto, «Jadawin ha un incentivo più forte del nostro. La sua donna, che, per incìso, non è una Signora, ma un essere inferiore della Terra, è prigioniera di Urizen. Non può fermarsi finché lei è nelle mani di nostro padre.» «Sta a voi decìdere quel che volete fare» disse Wolff. «Ma io sono padrone di me stesso.» Osservò attentamente il cielo rosso, i due immensi pianeti in vista in quel momento e una sottile scia che poteva anche essere una cometa nera. Disse: «Perché passare dalla porta principale, dove Urizen ci sta aspettando? Perché non entrare di nascosto dalla porta di servizio? Oppure, per usare una metafora migliore, passando dalla finestra?» In risposta alle loro domande, spiegò l'idea che gli era venuta osservando gli altri pianeti e la cometa. I Signori replicarono che era pazzo e che i suoi progetti erano troppo fantastici. «Perché non dovremmo tentare?» domandò Wolff. «Come ho detto, possiamo procurarci tutto quello che occorre, anche se dovremo riattraversare le porte. E Appirmatzum dista solo 40.000 chilometri. Perché non potremmo arrivarci, con la nave che ho proposto?» «Un aerostato-astronave?» commentò Rintrah. «Jadawin, la vita sulla Terra ti ha mandato in pappa il cervello!» «Ho bisogno dell'aiuto di ciascuno di voi» disse Wolff. «È un progetto molto vasto e complesso. Ci vorrà un sacco di lavoro e molto tempo. Ma si può realizzare.» Vala disse: «Anche se fosse possibile, come si fa a impedire che nostro padre individui la nostra astronave, mentre attraversa lo spazio tra questo mondo e il suo?» «Dobbiamo contare sulla possibilità che non abbia predisposto dei rivelatori per astronavi. In fondo, perché avrebbe dovuto farlo? Il solo ingresso a questo universo è attraverso la porta che lui stesso ha costruito.» «E se uno di noi fosse un traditore?» insistette lei. «Non hai mai pensato che uno di noi potrebbe essere al servizio di Urizen e spiarci per suo con-
to?» «Certo che ci ho pensato. Come anche tutti gli altri. Ad ogni modo, non riesco a immaginare un traditore che si caccia volontariamente in mezzo ai mortali pericoli che abbiamo appena attraversato.» «Come facciamo a esser certi che Urizen, in questo momento, non stia ascoltando i nostri discorsi?» chiese Theotormon. «Non possiamo saperlo. È un altro rischio che dobbiamo correre.» «È sempre meglio che non far niente» disse Vala. A questo punto sorsero molte discussioni, ma alla fine tutti i Signori acconsentirono ad aiutarlo nel suo piano. Anche i più contrari sapevano che, se Wolff avesse avuto successo, chi si fosse rifiutato di aiutarlo sarebbe stato abbandonato sull'isola. Nessuno poteva sopportare il pensiero che i suoi fratelli avrebbero potuto ridiventare veri Signori, lasciando i renitenti alla pari degli indigeni. Per prima cosa, Wolff cercò di rendersi conto dell'indole degli indigeni che vivevano nei dintorni. Scoprì con sorpresa che non erano ostili. Avevano visto i Signori scomparire dentro la porta e poi uscirne incolumi. Soltanto gli dèi o i semidei potevano riuscire a farlo: pertanto, i Signori dovevano essere delle creature speciali... e pericolose. Gli indigeni furono più che felici di cooperare con Wolff. La loro religione, una versione degradata dell'antica religione dei Signori, fu determinante a tale scopo. Credevano in Los quale Dio del Bene e in Urizen quale Dio del Male, la loro versione di Satana. I loro profeti e stregoni predicavano che un giorno il Dio del male, Urizen, sarebbe stato sconfitto. Quando questo si fosse avverato, sarebbero tutti entrati in Alulos, il loro paradiso. Wolff non cercò nemmeno di aprire loro gli occhi. Fintanto che lo aiutavano, che credessero pure quel che volevano. Mise tutti al lavoro: c'erano delle cose che potevano fare subito con i materiali reperibili su quel mondo. Poi, insieme con Luvah, riattraversò la porta che conduceva agli altri pianeti. Entrambi erano sostenuti da vesciche a gas assicurate alla schiena ed erano armati di corte lance, di archi e frecce. Viaggiarono, porta dopo porta, alla ricerca di quanto occorreva a Wolff. Sapevano ciò che li aspettava e quali pericoli evitare. Ma anche così, le avventure che vissero in quel viaggio e nei molti successivi, sarebbero state sufficienti a riempire parecchi libri. Comunque, non subirono altre perdite. Nei viaggi successivi, Vala e Rintrah accompagnarono Wolff e Luvah. Dal pianeta degli animali con i pattini e le ventose riportarono dei pezzi di materiale vetroso. Dal Weltthier, invece, riportarono mucchi di escrementi
d'uccello. Questi, uniti ai loro e a quelli degli indigeni, servivano per ottenere il nitrato di sodio necessario al progetto di Wolff. Il mercurio l'ebbero dagli indigeni, che ne conservavano grandi quantità, raccolte sull'isola dopo i temporali che accompagnavano le comete nere. Le goccioline di mercurio erano oggetto di culto e furono consegnate a Wolff solo dopo che ebbe fatto presente che sarebbero state usate contro Urizen. Wolff, poi, scoprì che si poteva ricavare alcool metilico da una delle piante che crescevano sull'isola. Altre piante poterono essere bruciate per ottenere i carboni di cui abbisognava. Il pianeta dei cronoillusionisti fornì lo zolfo. Per produrre acido nitrico, Wolff aveva bisogno di un catalizzatore di platino. Quando si era trovato sui cilindri del mondo a birilli, aveva pensato che i cilindri stessi potessero essere di platino o di una lega di platino, metallo con un punto di fusione di 1773,5 gradi centigradi e resistente al taglio. Wolff non aveva i mezzi per fonderlo sul mondo a birilli, né strumenti abbastanza affilati da tagliarne dei pezzi dai cilindri. Quando Luvah glielo fece notare, Wolff replicò che avrebbero utilizzato allo scopo gli stessi marchingegni di Urizen. Prese con sé tutti i Signori, anche se Theotormon e Tharmas protestarono con forza. Catturarono una coppia di porte mobili e le trascinarono fino all'orlo del cilindro. A questo punto, Theotormon capì perché Wolff lo aveva voluto con loro a tutti i costi. Era necessario il suo peso per inclinare e poi spingere orizzontalmente le porte sulla curvatura della base del cilindro. Le forze che tenevano ritte le porte erano notevoli, ma non poterono resistere all'azione combinata del peso e dei muscoli dei Signori. Una porzione di circonferenza passò per una delle porte. Se la porta fosse stata tenuta immobile, il pezzo di cilindro sarebbe stato semplicemente proiettato su un altro cilindro, attraverso la porta corrispondente. Ma quando la porta venne spinta lateralmente lungo il bordo, qualcosa dovette cedere. La porta agì da cesoia e tagliò di netto il pezzo di cilindro al di là della cornice. Dopo aver raddrizzato la porta, i Signori l'attraversarono e giunsero sul cilindro successivo, dove trovarono il frammento di platino. Usarono la porta seguente per tagliare il frammento in pezzi più piccoli. Arrivati sul cilindro con la mortale porta rotante, Wolff la controllò lanciandovi attraverso delle pietre. Non appena una pietra scomparve, segnò il lato sicuro con uno spruzzo di vernice gialla, che si era portato con sé dal
mondo d'acqua. Dopodiché, non ci furono più problemi per distinguere il lato mortale da quello sicuro. Negli altri pianeti, Wolff fece trasportare in luoghi più comodi le porte che potevano essere spostate. L'isola del mondo d'acqua divenne una vasta fucina, piena di fumo e di puzza. I Signori e gli indigeni protestavano continuamente e con veemenza. Wolff ascoltava e li scherniva ridendo, e li minacciava, a seconda di quel che richiedevano le circostanze. Li spronava incessantemente. Passarono così trecentosessanta lune oscure. Il lavoro era lento, molte volte deludente e spesso pericoloso. Wolff e Luvah continuavano a viaggiare attraverso le porte, portando i materiali necessari. L'astronave-pallone era ormai costruita per metà. Una volta finita, si sarebbe innalzata, con i Signori a bordo, fino a superare il limite dell'atmosfera, dove, se bisognava credere a Theotormon, il campo di pseudogravità si indeboliva rapidamente e la nave avrebbe potuto sfruttare l'attrazione della luna oscura per acquistare altra velocità. Poi, dei razzi a polvere nera l'avrebbero ulteriormente accelerata. Le manovre direzionali sarebbero state compiute grazie a piccole esplosioni o lasciando sfuggire getti di gas dalle vesciche. Bisognava che l'abitacolo fosse a tenuta d'aria. Wolff non si era ancora occupato del problema del ricambio e della circolazione dell'aria, né di quelli connessi alla mancanza di gravità. Non sarebbero arrivati nello spazio allo stesso modo d'un razzo, raggiungendo la velocità di fuga: sarebbero saliti levitando, grazie al gas in espansione nelle vesciche, fin dove cessava l'atmosfera. Una volta usciti dall'atmosfera, la nave avrebbe perduto la sua spinta ascensionale, così che per ottenere la velocità necessaria a sfuggire al mondo di acqua avrebbe dovuto confidare soltanto sull'attrazione della luna e sulla debole reazione dei razzi dell'involucro di legno. «Non è possibile determinare matematicamente l'esatta traiettoria di fuga e i relativi vettori» disse Wolff a Luvah. «Dovremo proprio suonare a orecchio.» «Speriamo allora di non essere stonati» disse Luvah. «Pensi veramente che abbiamo una possibilità di successo?» «Con quello che ho in mente, sì» rispose Wolff. «Ma adesso voglio pensare ad altre cose. Bisogna darsi da fare per le tute spaziali, ad esempio. Dovremo indossarle, in cabina, dato che non possiamo contare sul fatto che sia davvero a tenuta d'aria.» Venne prodotto il fulminato di mercurio per le capsule esplosive. Era
una polvere bruno scuro, ottenuta dalla reazione tra il mercurio, l'alcool e l'acido nitrico concentrato. L'acido nitrico era stato ricavato per passi successivi. L'azoto libero dell'aria fu «fissato» combinandolo con l'idrogeno preso dalle vesciche a gas. Si ottenne così dell'ammoniaca, che venne mescolata all'ossigeno alla temperatura appropriata. La miscela fu fatta passare sopra un sottile reticolato di platino, levigato e compatto, per la catalisi. Il risultante ossido d'azoto venne disciolto in acqua. Distillando poi l'acido diluito si ottenne l'acido nitrico concentrato. Il materiale per le fornaci, per i contenitori e per le tubazioni, era costituito dalla sostanza vetrosa raccolta sul pianeta dei pattinatori. La polvera nera risultò dalla miscela di carbone, zolfo e salnitro, cioè nitrato di sodio e di potassio, ottenuto dagli escrementi degli uccelli e dalle feci umane. Wolff riuscì anche a produrre del nitrato d'ammonio, una polvere esplosiva di considerevole potenza. Un giorno Vala disse: «Non credi di produne fin troppi esplosivi? Potremo prenderne a bordo soltanto una piccola quantità, diversamente la nave non si alzerà mai da terra.» «Questo è vero» rispose Wolff. «Forse vi chiedete anche perché abbia immagazzinato gli esplosivi in luoghi così lontani e diversi. Il fatto è che la polvere da sparo è instabile. In questo modo, anche se un deposito salta, gli altri magazzini non ne risentiranno.» Qualcuno tra i Signori impallidì. Rintrah disse: «Vuoi dire che gli esplosivi che prenderemo con noi sulla nave potrebbero saltare in qualsiasi momento?» «Sì. È un altro dei rischi che dobbiamo correre. Non si può pretendere che tutto sia facile e sicuro. Ma vorrei aggiungere una possibile nota allegra: è ironico, direi buffo, ma se avremo successo sarà stato Urizen stesso a fornirci i materiali per batterlo, a darci le armi fondamentali per sconfiggere la sua supertecnologia.» «Se vivremo, rideremo» disse Rintrah. «Ho paura, comunque, che sarà Urizen a ridere.» «Vecchio proverbio terrestre: Gli daremo quel che ha pagato. Altro proverbio: Ride bene chi ride ultimo.» Quella notte Wolff si recò nella capanna di Luvah, che si svegliò immediatamente al tocco della mano di Wolff sulla sua spalla. Fece il gesto di estrarre il coltello, fatto con la selce del pianeta dei cronoillusionisti, ma
Wolff disse: «Sono venuto per parlare, non per uccidere. Luvah, tu sei l'unico di cui possa fidarmi per un aiuto. E ho bisogno d'aiuto.» «Mi sento onorato, fratello. Tu sei di gran lunga il migliore di noi e so che non hai intenzione di propormi un tradimento.» «Parte di ciò che sto per dirti potrebbe anche sembrarlo, a prima vista. Ma è necessario. Ascolta attentamente, fratellino.» Meno di un'ora dopo, lasciarono la capanna. Portando arnesi da scavo e da taglio, andarono alla collina su cui si ergevano le porte gemelle. Qui si incontrarono con venti indigeni, dei quali Wolff era sicuro di potersi fidare. Cominciarono a scavare e a tagliare il groviglio di vegetazione putrefatta e di radici che formavano l'isola. Lavorarono veloci e di buona lena. Quando la luna tramontò ponendo fine alla notte, avevano completato una trincea attorno alla collina. Continuarono a lavorare finché non rimasero che pochi centimetri di radici a separarli dall'acqua sottostante. Allora gli indigeni calarono nella trincea il nitrato di ammonio e le capsule di fulminato. Fatto questo, ricoprirono la trincea con le radici tagliate e il terriccio, cercando di far scomparire i segni dello scavo. «Chiunque si accorgerebbe a prima vista che qui si è scavato» disse Wolff. «Ma spero che non venga nessuno. Ho detto a tutti che oggi sarebbe stato un giorno di riposo, in modo che non si alzassero fino a tardi.» Guardò le porte. «Adesso tu e io dobbiamo percorrere di nuovo il circuito. E dobbiamo fare in fretta.» Quando giunsero sul pianeta dei cronoillusionisti, Wolff diede a Luvah una delle sue cerbottane. Erano ricavate da quelle piante cave, simili al bambù, che crescevano sull'isola. Gli indigeni le usavano per lanciare dardi intinti in uno stupefacente tratto da un pesce, quando andavano a caccia degli uccelli e dei ratti dell'isola. Wolff e Luvah entrarono in un canalone e mise'ro fuori combattimento cinque illusionisti. Poi, Wolff cercò finché non trovò l'ingresso della tana di un cronolupo. Infilò nella tana l'estremità della cerbottana e lanciò il dardo. Dopo aver atteso un minuto, allungò una mano e trascinò fuori un lupo addormentato. Gli animali, ancora incoscienti, furono gettati nella porta che si apriva sul mondo di Urizen. Così almeno speravano. Era infatti possibile che entrambe le porte conducessero soltanto al successivo pianeta secondario, come era accaduto nel mondo a birilli. «Spero che queste bestioline facciano scattare gli allarmi di Urizen» dis-
se Wolff. «Gli allarmi lo terranno occupato per un po'. C'è anche la possibilità che la facoltà di balzare nel tempo e di duplicarsi permetta agli illusionisti e al lupo di sopravvivere per qualche tempo. Potrebbero persino moltiplicarsi al punto di spargersi per il palazzo e mettere fuori uso tutte le trappole e gli allarmi. Urizen non capirà che cosa stia succedendo, e forse distoglierà la sua attenzione dalla porta che immette nella fortezza.» «Non puoi esserne sicuro» disse Luvah. «Entrambe queste porte, come quelle del mondo d'acqua, potrebbero condurre solo a un universo secondario.» «Non c'è niente di certo, in nessuno degli innumerevoli universi» disse Wolff. «E anche per gli immortali Signori la morte è in attesa dietro ogni angolo. Perciò... giriamolo, quest'angolo!» Attraverso la porta, passarono sul Weltthier. Nessuna traccia dei cronoanimali. C'era quindi una probabilità che gli animali fossero finiti nella fortezza di Urizen. Di ritorno dal mondo d'acqua, Luvah si allontanò per compiere la sua missione. Wolff stette a guardarlo, mentre se ne andava. Forse aveva avuto torto a sospettare che Vala si fosse alleata col padre. Ma era sempre stata troppo fortunata nel raggiungere un luogo sicuro ogniqualvolta si era presentato un pericolo. Aveva sempre agito con troppa rapidità. Inoltre, quando si erano trovati sul fiume, nel mondo di ghiaccio, si era tenuta a galla troppo facilmente e si era comportata con troppa sicurezza. Wolff sospettava che il bracciale che Vala portava intorno al polso contenesse un congegno che le permetteva di rimanere a galla. Ed era stata lei a scegliere le porte. Ogni volta, avevano condotto su un universo secondario. Era estremamente improbabile che nemmeno una volta essa avesse indovinato la porta giusta. Anche tenendo conto del suo carattere, la verità era che si era sempre dimostrata troppo sicura di sé. Dava quasi l'impressione che stesse giocando. Sebbene odiasse suo padre, avrebbe benissimo potuto unirsi a lui per portare alla morte i fratelli e i cugini. Poiché li odiava almeno altrettanto. Poteva avere dei ricetrasmettitori installati su di sé, si da permettere a Urizen di ascoltare, e forse anche vedere, tutto quello che lei faceva. Aveva goduto del gioco prendendovi parte attiva, ancor più soddisfacendo la sua perversità per il fatto che lei stessa era in pericolo. Forse anche Urizen aveva goduto di quel gioco mortale, come davanti a un apparecchio TV: un vero e proprio spettacolo agonistico. Wolff ritornò alla collina per dare inizio alla penultima fase. Gli indigeni
avevano ormai finito di caricare sulla nave la polvere nera, il nitrato d'ammonio e il fulminato di mercurio. Il vascello, non ancora ultimato, consisteva di due graticciati di bambù, cavi, nei quali erano state piazzate le celle a gas. Uno era il ponte inferiore della nave, secondo il progetto. La parte superiore l'avrebbero montata in un secondo tempo. Fin dall'inizio, Wolff si era reso conto che era impossibile usare quella nave per viaggiare nello spazio. Dubitava molto che avrebbe funzionato e che, anche in tal caso, fosse possibile effettuare il viaggio tra quel pianeta e Appirmatzum. Le probabilità contrarie erano troppo elevate. Ma aveva dato a vedere di crederci, in modo che il lavoro andasse avanti. Inoltre, contava di aver ingannato ogni eventuale spia che potesse nascondersi tra i Signori, o qualsiasi altro informatore di Urizen. Forse, proprio in quel momento Urizen lo stava osservando e si stava chiedendo che cosa avesse intenzione di fare. In tal caso, quando l'avesse scoperto sarebbe stato troppo tardi. Gli indigeni mollarono gli ormeggi delle due mezze navi, che si innalzarono di alcuni metri e poi si stabilizzarono, appesantite da parecchie tonnellate di esplosivi. La quota raggiunta era esattamente quella desiderata da Wolff. Diede il segnale e gli indigeni spinsero su per la collina i due gusci, finché le loro prue non furono quasi all'interno della cornice. C'era spazio appena sufficiente perché la nave scivolasse oltre. Wolff aveva ordinato di costruirla in due sezioni, poiché la nave intera non sarebbe passata. Persino le due metà separate avevano un gioco di appena tre centimetri per lato. Wolff accese le micce che pendevano da ambo i lati dei due graticciati fluttuanti e fece un segnale ai suoi uomini. Salmodiando, gli indigeni spinsero le due sezioni all'interno della cornice. Wolff, in piedi sul lato della porta, poteva vedere il territorio dell'isola dall'altra parte. La prima mezza nave parve venir masticata, anzi affettata, mentre attraversava fluttuando la cornice della porta. Poco dopo, rimaneva fuori solo la poppa della seconda metà, e poi scomparve anche quella. Luvah sbucò dalla giungla, portando in spalla il corpo incosciente di Vala. Dietro a lui venivano gli altri Signori, allarmati, sconcertati, arrabbiati e spaventati. Wolff spiegò loro che cosa aveva intenzione di fare. «Non ho potuto dirlo a nessuno, eccetto Luvah» disse, «poiché non potevo fidarmi di nessun altro. Sospetto che Vala sia una spia di nostro padre, ma può anche darsi che sia innocente. Comunque, non potevo correre rischi con lei. Così nel sonno l'ho fatta mettere fuori combattimento da Lu-
vah. Ce la porteremo dietro, nella possibilità che non sia colpevole. Quando si sveglierà, saremo ormai in ballo. Troppo tardi perché possa fare qualcosa.» Li invitò a indossare le tute. «Come vi ho spiegato, nell'acqua funzionano come nello spazio e anche meglio, poiché sono state progettate proprio per andare sott'acqua.» Luvah volse lo sguardo alla porta. «Pensi che gli esplosivi siano saltati?» Wolff si strinse nelle spalle. «Non c'è modo di saperlo: questa è, ovviamente, una porta a senso unico e non possono giungere segnali dall'altra parte. Ma spero che ormai le trappole piazzate da Urizen, all'ingresso siano state distrutte. E spero anche che nostro padre sia confuso e sconvolto e si stia chiedendo che cosa stiamo combinando.» Luvah mise una tuta a Vala e poi fece altrettanto. Wolff sovrintese all'accensione delle micce, collegate agli esplosivi piazzati in fondo al fossato che circondava la collina. Passando attraverso sottili condotti di bambù, le micce arrivarono fino alla polvere nera, al nitrato d'ammonio e al fulminato di mercurio. CAPITOLO XV Ci fu un rombo e la terra tremò. La vegetazione putrefatta e le radici schizzarono in alto, in una grande nuvola di fumo nero. Quando i detriti furono ricaduti e il fumo si fu dissolto, Wolff guidò i Signori verso la collina. Ciò che ne rimaneva stava affondando rapidamente; il suo ancoraggio con il resto dell'isola era stato tranciato e il suo basamento divelto. Andava a fondo, sotto il peso dei massicci esagoni dorati. Wolff lanciò diverse granate alla base delle porte perché sprofondassero in mare più rapidamente. Le porte si inclinarono. Wolff trattenne i suoi uomini fino a che la parte superiore delle porte non colpì il bordo della fossa scavata dall'esplosione. Quando le porte cominciarono a scivolare nell'acqua sottostante, diede ordine di saltare. Con la maschera sul viso, i serbatoi d'aria in funzione, una lancia dalla punta di selce in mano e un coltello e una scure di selce alla cintura, si tuffò anche lui. La sommità delle porte scomparve proprio mentre lui tornava a galla per guardare meglio. L'acqua era talmente torbida per i pezzi di radici e per il terriccio che non riusciva a vedere niente. Si aggrappò alla sommità della cornice e si lasciò tirare sotto dal peso della porta. La porta sarebbe andata
a fondo, ma lui doveva percorrere solo un tratto di quella discesa. Sentì Luvah, che teneva Vala con un braccio, abbrancato alla caviglia con l'altra mano. Theotormon era l'unico in grado di nuotare da solo, almeno finché non fossero passati attraverso la porta. Wolff si accertò, al tatto, di essere sulla porta di sinistra, poi cominciò a nuotare. Non ebbe difficoltà a infilarsi nella porta il flusso d'acqua marina lo trascinò con sé. La corrente lo condusse in un lungo atrio. Le pareti erano luminose e irradiavano abbastanza luce da permettergli di distinguere i particolari. Alcune piastre murali erano state parzialmente divelte e piegate. All'estremità dell'atrio, due spessi battenti di metallo bianco erano grottescamente contorti. L'esplosivo aveva compiuto un ottimo lavoro. Le porte avrebbero potuto evitare che il resto del palazzo venisse inondato. Alla fine, naturalmente, la pressione dell'acqua marina le avrebbe forzate, ma sotto quella pressione i Signori sarebbero già stati uccisi da un pezzo. Wolff oltrepassò le porte fracassate e percorse un corridoio. Quando poté vederne il fondo, si girò su se stesso per mettersi a piedi avanti. Alla fine del corridoio, l'acqua ribolliva contro la parete, uscendo poi da un secondo corridoio in leggera pendenza. Wolff assorbì l'urto con i piedi, fece leva e si ritrovò nell'altro corridoio, trascinato dalla corrente. La luce gli permise di vedere sotto di sé una serie di lunghe punte metalliche. Senza dubbio erano state predisposte per i Signori, che ora vi passavano sopra. Il corridoio si inclinava bruscamente. L'acqua scorreva verso il basso secondo un angolo di cinquanta gradi. Wolff ebbe appena il tempo di vedere che si ramificava in altri due corridoi, prima di essere trascinato, senza poter far nulla, attraverso la grande finestra che si apriva sul fondo. Cadde, ruotando su se stesso, verso un giardino sottostante, mentre le mura del palazzo gli scorrevano accanto vertiginosamente. Era trascinato da una cascata formata dal mare che traboccava dalla finestra. Il tuffo nel laghetto, ai piedi della cascata, lo stordì. Semicosciente, nuotò verso l'alto e verso l'esterno e si ritrovò ai bordi del laghetto, che in origine era stato un giardino subacqueo. Fortuna per lui, pensò, altrimenti si sarebbe sfracellato. Si issò faticosamente sulla sponda di pietra, con la lancia ancora stretta in pugno. Gli altri Signori vennero a galla a uno a. uno. Theotormon fu il primo, Luvah il successivo e, dietro di lui, Vala, cosciente e spaventata. Rintrah arrivò nuotando pochi secondi dopo. Tharmas, invece, fluttuò a faccia in
giù, con le braccia allargate, verso il bordo del laghetto. Wolff lo tirò su e lo girò. Doveva aver urtato contro lo stipite della finestra, prima di essere trascinato fuori: un lato della faccia era tutto insanguinato. Vala era furibonda, ma Wolff le disse di chiudere il becco. Non c'era tempo per le discussioni. Con poche parole, le spiegò che cosa aveva fatto e perché. Vala riacquistò immediatamente il controllo. Sorrise, anche se era ancora pallida, e disse: «Ce l'hai fatta un'altra volta, Jadawin! Hai rivolto contro Urizen i suoi stessi congegni!» «Non so se sei colpevole o no» disse Wolff. «Forse sono troppo sospettoso, ma non posso non esserlo quando ho a che fare con un altro Signore. Ad ogni modo, se sei innocente, ti farò le mie scuse. In caso contrario, be', nostro padre deve essersi ormai convinto che tu l'abbia tradito e che sei dalla nostra parte. Perciò ti ucciderà senza darti il tempo di dire una parola, a meno che non lo uccida prima tu. Non hai scelta.» «Sei sempre stato una volpe, Jadawin! E sia! Ucciderò nostro padre alla prima occasione. Chissà, potrei proprio averla io, l'occasione favorevole! Fino a poche ore fa avrei giurato che saremmo caduti in trappola non appena entrati nei suoi domini. E invece, siamo qui ed è lui ad avere un problema mortale per le mani!» Indicò la grande finestra da cui il mare usciva a cataratte. «Ovviamente, la porta d'ingresso si trova al piano più alto del palazzo. E l'acqua scorre verso il basso. Se non fa qualcosa alla svelta, annegherà come un topo nella sua tana.» Si voltò e indicò il territorio che circondava il palazzo. «Come puoi osservare, il palazzo si trova in una valle completamente chiusa tra alte montagne. Ci vorrà del tempo, ma alla fine l'intero mare del mondo d'acqua si riverserà qui, a meno che le porte non si posino su un bassofondo. Questa valle verrà allagata, poi l'acqua traboccherà dalle montagne e inonderà tutto il pianeta.» «Perché non ci limitiamo ad arrampicarci sui monti e a stare a guardare nostro padre che annega?» chiese Rintrah. Wolff scosse il capo. «No, là dentro c'è Chryseis.» «E a noi che importa?» ribatté Rintrah. «Urizen avrà senz'altro degli aerei» disse Wolff. «Se ne usa uno per fuggire dal palazzo, potrà catturarci uno alla volta. E anche se riuscissimo a nasconderci, saremmo ugualmente perduti. Lui si limiterebbe ad abbandonarci qui. Alla fine, questo mondo resterà inondato e noi saremo in trappo-
la, magari di nuovo alla fame. No, se volete andarvene di qui e tornare nei vostri universi, dovrete prima aiutarmi a uccidere Urizen.» Si girò verso Theotormon. «Quando eri suo prigioniero, godevi di un po' di libertà. Se riesci a ritrovare il posto che sai, potremo evitare le trappole con più successo.» «C'è un ingresso sul fondo del giardino, dove adesso c'è questo lago» disse Theotormon. «Io suggerirei quella entrata. Possiamo nuotare fino ai piani non ancora allagati. Se stiamo attenti a non toccare il pavimento e le pareti, potremo evitare di far scattare le trappole.» Si immersero. Costeggiando il bordo del lago per non essere colpiti dall'acqua che cadeva, girarono a nuoto dietro la cateratta. Fu facile localizzare l'ingresso, dato che un torrente d'acqua vi si precipitava ruggendo. Si lasciarono trascinare dalla corrente finché arrivarono a una scala. Era larga, scolpita in pietra rossa e nera. La salirono nuotando. Dopo alcune svolte giunsero al piano superiore. Anche questo era allagato, perciò continuarono a salire. Il piano successivo era coperto da alcuni centimetri d'acqua e si stava riempiendo rapidamente. I Signori seguirono le scale fino al terzo piano. Il palazzo di Urizen era fantastico, sotto tutti i punti di vista, come d'altronde quello di qualsiasi altro Signore. In circostanze diverse, Wolff avrebbe magari indugiato ad ammirare i quadri, gli arazzi, le sculture e tutti gli altri tesori, bottino razziato su molti mondi. Ma ora non aveva che due pensieri. Uccidere Urizen e salvare la sua Chryseis dai grandi occhi. Wolff si guardò in giro. «Dov'è Vala?» domandò. «Era dietro di me, un momento fa» disse Rintrah. «Allora non è nei guai» commentò Wolff. «Però potremmo esserci noi. Se è sgattaiolata via per raggiungere Urizen...» «Allora faremmo meglio a cercare di arrivare prima di lei» disse Luvah. Wolff s'incamminò in testa al gruppo, aspettandosi una trappola ad ogni passo. Comunque, c'era la possibilità che Urizen avesse lasciato sguarnito quel piano. C'erano senza dubbio delle trappole a difesa di ogni ingresso, ma Urizen poteva aver pensato di essere al sicuro, a quel livello. Inoltre, l'acqua che entrava da sopra e da sotto poteva aver disattivato i generatori. Qualunque situazione avesse previsto Urizen, non poteva certo aver immaginato che i mari di un altro pianeta si sarebbero riversati nei suoi possedimenti. Theotormon disse: «Il piano di sopra è quello dove ero tenuto prigioniero. Ci sono anche gli appartamenti privati di Urizen.»
Wolff imboccò la prima scala che incontrarono. Salì lentamente, guardandosi attorno con estrema attenzione per scoprire eventuali segni che denunciassero la presenza di qualche trappola. Arrivarono al pianerottolo senza inconvenienti e si arrestarono un istante. Più si avvicinavano a Urizen e più diventavano nervosi. Il loro odio cominciava ad acquistare una sfumatura del vecchio timore reverenziale che avevano provato per lui da bambini. Si trovarono in un'immensa anticamera, dalle pareti di marmo bianco, che erano scolpite in bassorilievo con scene di diversi pianeti. Una di queste mostrava Urizen assiso in trono. Sotto i suoi piedi, un nuovo universo stava uscendo dal caos. Un'altra scena lo mostrava in un prato, con dei bambini che giocavano intorno a lui. Wolff riconobbe se stesso e i suoi fratelli, sorelle e cugini. Erano stati tempi felici, anche se di tanto in tanto erano apparse delle ombre, premonitrici dei giorni dell'odio e dell'angoscia. Theotormon disse: «Udite anche voi il rombo dell'acqua, di sopra. Non ci vorrà molto perché anche questo piano venga inondato.» «Probabilmente Chryseis è rinchiusa nello stesso posto in cui eri prigioniero tu» disse Wolff. «Quindi, mostraci la strada.» Theotormon si avviò velocemente, con le zampe gommose che funzionavano come molle. Li guidò senza esitazioni attraverso una serie di stanze e di sale, un frastornante labirinto per qualsiasi forestiero. Theotormon si fermò davanti a un'alta arcata ovale di pietra scarlatta, ornata di sporgenze purpuree che ripetevano le frastagliate figure di creature alate. Al di là, si apriva una vasta sala, dalla quale proveniva un fioco bagliore rossastro. «Questa è la stanza in cui ho trascorso la maggior parte del mio tempo» disse. «Ma ho paura a varcarne la soglia.» Wolff allungò la sua lancia oltre l'arcata. Theotormon disse: «Aspetta un minuto. La reazione può essere ritardata, in modo da colpire chi sia già entrato.» Wolff continuò a reggere la lancia. Contò i secondi, calcolando di quanto si sarebbe inoltrato nella sala, se fosse entrato. Ci fu una fiammata di luce che lo accecò e lo ricacciò indietro barcollante. Quando riacquistò la vista, vide che la lancia era stata troncata di netto. Il calore usciva a ondate dalla sala, insieme all'aria che si espandeva, e c'era puzzo di legno bruciato. «Fortuna per te che la maggior parte del calore era localizzata ed è sfuggita verso l'alto» disse Theotormon.
La trappola copriva circa venti metri. Al di là, la sala probabilmente era sicura. Ma come schivare la morte in attesa? Wolff indietreggiò di qualche passo, scagliò il mozzicone di lancia attraverso l'arcata e voltò la schiena. La luce lampeggiò di nuovo, proiettando le ombre dei Signori sulle pareti del corridoio e investendoli con una vampata di calore. Wolff si girò e lanciò una freccia nella sala, voltando nuovamente la schiena all'arcata e mettendosi a contare. Passarono tre secondi prima che la trappola scattasse ancora. Lanciò un ordine e tutti tornarono alle scale, che erano ormai coperte a metà dall'acqua in continua ascesa. Si misero le maschere a ossigeno e si tuffarono. Poi risalirono e tornarono all'arcata correndo alla massima velocità possibile, nella speranza che l'acqua non gli si asciugasse addosso. Giunto sulla soglia, Wolff scagliò un'altra freccia dall'altra parte. Appena il lampo si spense, e prima che il calore si fosse completamente dissipato, scattò nella sala. Dietro di lui partirono Theotormon e Luvah. Avevano tre secondi per percorrere venti metri. Ce la fecero. Il calore asciugò la pellicola d'acqua sulle tute e scottò loro la schiena. Ma passarono. Rintrah scoccò una freccia nella sala, poi lui e Tharmas si tuffarono nella vampa di calore. Wolff si era girato a osservarli, non appena era scomparsa la luce. Lanciò un grido: Tharmas aveva avuto un attimo di esitazione. Ma Tharmas non badò al suo avviso di attendere e riprovare dopo, forse perché non lo aveva udito. Stava correndo disperatamente, con gli occhi sbarrati dietro il vetro della maschera. Wolff urlò agli altri di voltarsi, mentre Rintrah gli passava accanto a tutta velocità. Ci fu un'altra nova di luce, un grido e un tonfo. Il calore passò a ondate sui Signori: si avvertiva il puzzo della pelle di pesce carbonizzata sulle tute e della carne umana bruciata. Tharmas era una massa scura sul pavimento, le dita delle mani e dei piedi quasi completamente incenerite. Senza una parola, gli altri si girarono e attraversarono la sala. Giunti vicino a una seconda arcata, Theotormon operò alcuni controlli, poi guidò i compagni attraverso uno stretto pertugio. Entrarono in una sala emisferica, di almeno cento metri di diametro. Nella sala si trovavano parecchie grandi gabbie, tutte vuote salvo una. Wolff fu il primo a vedere l'occupante della gabbia. Lanciò un grido: «Urizen!»
CAPITOLO XVI La gabbia misurava tre metri per tre. Come uniche dotazioni aveva una sottile coperta sul pavimento, un tubo per l'acqua potabile, un foro per gli escrementi e un distributore automatico di cibo. Il prigioniero era molto alto e molto magro. Aveva il volto di un falcone barbuto e affamato. La barba gli arrivava sotto le ginocchia e i capelli gli ricadevano sulla schiena, fino ai polpacci, ed erano striati di grigio, dal che Wolff capì che suo padre si trovava da lungo tempo in quella gabbia. Infatti, l'effetto delle cosiddette droghe d'immortalità durava per anni, anche dopo che si era smesso di prenderle. Urizen si avvicinò alle sbarre, facendo però bene attenzione a non toccarle. A bassa voce, Wolff avvertì gli altri di restare indietro. Si diresse verso le sbarre come se avesse intenzione di afferrarle. Urizen lo osservava con occhi febbrili e profondamente incavati, ma non aprì bocca. A pochi centimetri dalle sbarre, Wolff si fermò e disse: «Ci odii dunque ancora tanto, Padre, che vorresti farci morire?» Grattò le sbarre con la punta di una freccia: venature di luce corsero sul metallo. Urizen sorrise di traverso e parlò a voce bassa e spezzata dal dolore: «Toccare le sbarre è soltanto doloroso, non mortale. Ah, Jadawin, sei sempre stato una volpe! Nessun altro che te poteva arrivare così lontano. Nessuno, salvo te e tua sorella Vala, e forse Orco Rosso.» «E così, Vala ha eluso tutte le trappole e ha accalappiato l'accalappiatore» disse Wolff. «Mia sorella è davvero una donna notevole.» «Dov'è?» chiese Urizen. «È morta, questa volta? So che era con voi, perché mi ha detto quello che intendeva fare.» «È nel palazzo, e dobbiamo ancora occuparcene» disse Wolff. «Per tutto questo tempo ci ha fatto credere che tu fossi assiso sul Seggio del Potere. Ha giocato con noi, dividendo con noi i pericoli e fingendo di essere nostra alleata. Sospettavo che lavorasse per te, ma questo... questo non l'avrei nemmeno sognato.» «Sono finito» disse Urizen. «Non posso uscire di qui e tu non puoi aprire questa gabbia per liberarmi. Anche se lo volessi, non potresti. E sono destinato a morire presto, se non riceverò aiuto. Vala ha trapiantato nel mio organismo delle cellule cancerose ad azione lenta e dolorosissima. Lo ha già fatto altre tre volte, ma ogni volta le ha asportate prima che morissi e poi mi ha curato per farmi tornare in salute.»
«Mentirei se dicessi che mi dispiace, e tu lo sai» disse Wolff. «Hai quello che ti meriti.» «Lezioni morali da te, Jadawin!» esclamò Urizen. Nei suoi occhi balenò il vecchio fuoco e Wolff sentì un tremito interiore. Il timore per suo padre non era ancora morto. «Avevo sentito dire che eri cambiato molto, dopo essere vissuto sulla Terra, ma non riuscivo a crederci. Ora so che è vero.» «Non sono venuto qui per discutere con te» disse Wolff. «Ad ogni modo, è rimasto poco tempo per le chiacchiere. Dimmi, Padre, come possiamo arrivare senza pericoli alla stanza di controllo? Se vuoi vendicarti, devi dircelo. Vala è ancora libera, e probabilmente adesso è proprio nella stanza di controllo.» «Perché dovrei dirti una qualsiasi cosa? Sto per morire, ma almeno avrò il piacere di sapere che tu, Rintrah, Luvah e Theotormon morirete con me.» «Ti fa piacere sapere che Vala avrà il suo trionfo? Che continuerà a vivere? Che anche il tuo corpo verrà imbalsamato e appeso nella sala dei trofei?» Urizen sorrise amaramente. «Se ti dicessi quello che tu desideri, allora Vala potrebbe morire, ma voi vivreste. È una scelta odiosa da fare. Io perderò in entrambi i casi.» «Puoi anche odiarci» disse Wolff, «ma noi non ti abbiamo fatto niente. Vala, invece...» Theotormon disse: «Il mare invaderà presto questo piano. Allora moriremo tutti, e Vala, al sicuro nella sua stanza di controllo, riderà. E si prenderà qualsiasi vendetta abbia progettato su Chryseis.» Wolff si sentì disperato. Non poteva minacciare Urizen per farlo parlare. Che cos'altro poteva fargli, che non gli fosse già stato fatto? «Andiamo» ordinò. «Non possiamo perdere altro tempo.» Poi, rivolgendosi ad Urizen: «Addio per sempre, Padre. Devi morire, e presto. So che custodisci nel cuore il desiderio di vendicarti di Vala, e potresti realizzarlo, sol che tu parlassi. Ma l'odio ti acceca e fa sì che sia tu stesso a negarti questo piacere.» Urizen gridò alle loro spalle: «Aspettate!» Con fretta ansiosa, Wolff tornò alla gabbia. Urizen si umettò le labbra e disse: «Se te lo dico, mi farai un favore?» «Non posso liberarti, Padre» disse Wolff. «Sai bene che non abbiamo il tempo di inventare un modo per farlo. E poi, anche se potessi, non lo farei. Ti ucciderei piuttosto che lasciarti in libertà.»
«È esattamente il favore che ti chiedo» disse Urizen. «La morte. Sto soffrendo le pene dell'inferno, figlio mio. Solo l'orgoglio mi ha finora impedito di confessarlo. Ma un altro minuto di questa vita mi sembrerebbe un migliaio d'anni. Se non fosse stato per il mio orgoglio, già da tempo mi sarei gettato in ginocchio davanti a te per pregarti di por fine alle mie torture. Cosa che non farei mai: Urizen non prega. Ma un cambio è un'altra cosa.» «D'accordo» disse Wolff. «Una freccia tra le sbarre e sarà tutto finito.» Allora, Urizen disse loro, in poche parole e sussurrando, quello che avevano bisogno di sapere. Aveva appena finito di parlare, quando una risata esplose all'altra estremità della sala. Wolff si girò di scatto e vide Vala che si stava avvicinando. Incoccò una freccia alla corda dell'arco, sapendo però, mentre lo faceva, che Vala non si sarebbe esposta a quel modo se non si fosse sentita sufficientemente protetta. Poi, attraverso il corpo di Vala vide la parete e capì che non si trattava di sua sorella, ma soltanto di una sua proiezione. Sperava che non avesse ascoltato le parole di Urizen. Altrimenti, avrebbe potuto fare di loro ciò che avesse voluto. «Non avrei potuto fare di meglio, nemmeno se l'avessi progettato io stessa» disse l'immagine di Vala. «Farvi morire tutti insieme! Che bella riunione di famiglia! Ognuno di voi potrà essere spettatore dell'agonia degli altri. Stupendo! Io, invece, abbandonerò questo pianeta e questo universo e poi mi dedicherò al compito di prendere in trappola l'ultimo fratello rimasto e la mia amata sorella, Anana. Ma prima, mi concederò giusto il tempo di divertirmi con la tua Chryseis.» «Finora hai fallito e continuerai a fallire!» gridò Wolff. «Anche se ci uccidi, non vivrai abbastanza per godere il tuo trionfo! Conosci il veleno etsfagwo degli indigeni del mondo d'acqua, vero? Sai bene che può essere ammannito nel cibo senza alterarne il sapore. Sai bene che si insinua nelle vene e vi resta per lungo tempo senza effetti nocivi, e che poi reagisce improvvisamente. Sai anche che la vittima si piega in due per i dolori atroci che durano ore e che non esiste antidoto. Bene, Vala. Ti sospettavo di tradimento, perciò ho messo l'etsfagwo nella tua cena di ieri sera. Te ne accorgerai presto, sorella, e allora non potrai più ridere di noi.» Wolff non l'aveva fatto e, fino a quel momento, non aveva nemmeno pensato di farlo. Ma era deciso a far sì che Vala pagasse con qualche ora di tortura mentale la sua morte. L'immagine di Vala strillò di furia e disperazione. «Stai mentendo, Jadawin! Non l'hai fatto! Non avresti potuto! Stai solo cercando di spaven-
tarmi.» «Tra pochissimo tempo saprai se ho detto la verità oppure se ho mentito» gridò Wolff. Si voltò per scoccare la freccia tra le sbarre della gabbia, come aveva promesso a Urizen. Appena si mosse, vide l'immagine di Vala farsi indistinta e svanire. Immediatamente dopo, una schiuma verde scaturì da orifizi nascosti nel soffitto. Schizzò con forza verso il basso, si diffuse, salì alle ginocchia dei Signori e li fece tossire con le sue acri esalazioni. Wolff si piegò su se stesso, gli occhi che gli lacrimavano. Brancicò sul pavimento per raccogliere l'arco e la freccia che aveva lasciato cadere, ma le esalazioni lo fecero tossire ancor più violentemente. Quasi di colpo, la schiuma gli arrivò all'altezza del collo. Si dibatté per liberarsi e raggiungere la porta all'altra estremità della sala, anche se laggiù poteva attenderlo un'altra trappola. La schiuma gli salì fin sopra la testa. Trattenne il fiato e si infilò la maschera ad aria. Poi, allontanò un poco la maschera dal viso e soffiò fuori la schiuma che vi si era raccolta. Sperò che anche gli altri avessero abbastanza presenza di spirito da pensare alle loro maschere. A pochi passi dall'uscita, sentì che la schiuma cominciava a indurirsi. Si dibatté, spingendo con tutte le sue forze, ma la resistenza continuò ad aumentare, riducendo i suoi progressi a una lentissima avanzata. Di colpo, la schiuma si tramutò in gelatina e la verde opacità scomparve. Wolff rimase bloccato, come una mosca in un cubo d'ambra. Non poteva vedere gli altri, che si trovavano dietro di lui, perché aveva il viso rivolto all'arcata che si sforzava di raggiungere. Tentò di muovere le braccia e le gambe e scopri che riusciva ad avanzare un poco. Con uno sforzo immane, riuscì a spingersi avanti di alcuni centimetri. Poi, la gelatina, come una marea, lo respinse indietro e si irrigidì intorno a lui. Non c'era niente da fare, salvo aspettare che la sua riserva d'aria si esaurisse. L'apparato di respirazione era a ciclo chiuso: riutilizzava l'aria e non dissipava l'anidride carbonica. Se avesse avuto un respiratore a ciclo aperto, sarebbe stato già morto. La gelatina lo fasciava così strettamente che non ci sarebbe stato spazio disponibile per l'anidride carbonica espirata. Gli restava forse mezz'ora di vita. Vala stava certo ridendo. E Chryseis, la bella Chryseis dai grandi occhi, cosa stava facendo? Era costretta a osservare la scena? O stava ascoltando da Vala la descrizione di quello che Vala aveva in mente per lei? Trascorsero quindici minuti, durante i quali tutti i suoi pensieri furono
concentrati su una possibile via d'uscita. Invano. Questa era la fine dopo oltre 25.000 anni di vita, trascorsi godendo i poteri di un dio. Aveva vissuto per niente; tanto valeva che non fosse mai nato. Lui sarebbe morto, Chryseis sarebbe morta, ed entrambi sarebbero stati imbalsamati, appesi ed esibiti nella sala dei trofei. No, questo almeno non sarebbe accaduto. Vala avrebbe dovuto lasciare quel luogo, lo garantiva l'acqua che ruggiva attraverso la porta permanente, sulla sommità del palazzo. Le sarebbe stato negato quel piacere. Il suo corpo e quello di Chryseis sarebbero rimasti sotto il mare, al buio e al freddo, finché le correnti non avessero trascinato le ossa e la carne putrefatta, disperdendole qua e là. L'acqua! Aveva dimenticato che stava scorrendo nelle sale del piano superiore e giù per le scale. Se solo gli fosse riuscito di... La prima ondata riempì a metà il corridoio, al di là dell'arcata, e strappò via una fetta di gelatina. Il corridoio si riempì in fretta e la gelatina cominciò a dissolversi. Il processo, comunque, richiese un certo tempo. L'acqua avanzava verso di lui, scavandosi la strada attraverso la gelatina e trasformandola in una schiuma verde, che veniva assorbita dal liquido. Ormai, era trascorsa più di mezz'ora da quando aveva calcolato che gli rimanevano circa trenta minuti d'aria. Sentiva che ogni respiro poteva essere l'ultimo. La gelatina che lo circondava ritornò schiuma verde, oscurandogli la vista. La densa sostanza si disciolse e Wolff fu libero. Ma era ugualmente in pericolo; sommerso dall'acqua, sarebbe annegato, una volta finita l'aria. Nuotò in direzione degli altri, che scorgeva a malapena attraverso un velo verde. Li liberò a strattoni dalla gelatina che ancora li serrava, ma scoprì che Rintrah era già morto. Si era messo la maschera in tempo, ma qualcosa non doveva aver funzionato. Wolff richiamò con un gesto Theotormon e Luvah e si diresse nuotando verso l'ingresso, quello che si apriva sulla loro unica speranza. Infatti, tentare di passare per la porta da cui il mare entrava tumultuando era impossibile, a causa della corrente. Volenti o nolenti, furono trascinati verso l'altra arcata. Wolff spinse la gelatina che ingombrava la soglia finché non cedette. La corrente lo catapultò a testa avanti nella stanza adiacente. I suoi fratelli entrarono dietro di lui, strisciando col viso sul pavimento, e gli si ammucchiarono addosso, contro la parete di fronte. Rotolarono fuori del flusso della corrente e si rialzarono. Wolff chiuse l'aria e si tolse la maschera. Non solo aveva bisogno di parlare, ma per un minuto o due, prima che la
stanza si riempisse d'acqua, avrebbe potuto risparmiare quel poco d'aria che restava nei serbatoi. «Urizen mi ha detto che c'è una porta segreta che conduce ad un duplicato della stanza di controllo! L'aveva preparata per il caso che qualcuno riuscisse a impadronirsi della stanza di controllo principale. Ma per arrivarci dobbiamo attraversare la porta con la trappola termica e Urizen non ha fatto in tempo a dirmi come disattivarla. Quando l'acqua sarà troppo alta, ci rimetteremo le maschere e poi proveremo a passare. L'acqua dovrebbe mettere fuori uso i proiettori... spero!» Si misero le maschere sulla fronte e si rannicchiarono in un angolo vicino all'arcata, per non essere investiti in pieno dalla violenza della corrente. Il mare colpiva la parete di fronte e poi rimbalzava sul pavimento e usciva dalla porta. Vedendo che l'acqua non metteva in azione i raggi termici, Wolff lanciò attraverso la soglia la sua ascia di pietra. Vide il lampo, anche attraverso le palpebre abbassate. Quando riaprì gli occhi, l'acqua stava bollendo, ma l'ascia aveva varcato la porta. Il livello dell'acqua crebbe rapidamente, sollevando verso il soffitto i Signori, che con affanno pedalavano per mantenersi a galla. Quando rimasero soltanto trenta centimetri d'aria tra il mare e il soffitto, si misero le maschere. Wolff si immerse, scese il più vicino possibile al pavimento e cominciò a nuotare. Improvvisamente, l'afflusso di aria s'interruppe. Trattenne il fiato e continuò a nuotare. Ci fu un bagliore accecante. Wolff sentì l'acqua scottargli le mani nude e la nuca, urtò contro lo stipite dell'arcata e sbucò nella stanza. Senza indugiare un attimo spinse con i piedi contro il pavimento, lanciandosi verso l'alto. Teneva le mani tese, per attutire l'urto contro il soffitto non ancora in vista. Quando toccò la pietra con la testa, si tolse la maschera e inspirò. I polmoni gli si riempirono d'aria, ma l'acqua gli sciabordò in bocca facendolo tossire. Riacquistò la vista e si accorse che Theotormon e Luvah gli erano accanto. Alzò una mano e poi la puntò in basso. «Seguitemi!» Si immerse tenendo gli occhi bene aperti e facendo scivolare le mani lungo la parete. Accoccolata in una nicchia, c'era una statua di giada verde, alta trenta centimetri, un tempo idolo del popolo di qualche universo. Wolff ne fece ruotare la testa: una sezione della parete si aprì verso l'interno. I tre Signori furono trascinati in una grande sala. Si rimisero in piedi annaspando, poi Wolff corse a un quadro di comando e tirò una leva dal manico rosso. La porta si chiuse lentamente contro la pressione dell'acqua. Nella stanza ne rimase soltanto un palmo.
Identificato il quadro di comando di cui gli aveva parlato Urizen (ce n'erano almeno trenta), Wolff premette una pietra rettangolare recante un ideogramma dell'antica scrittura usata un tempo dai Signori. Fece un passo indietro sorridendo. Da lungo tempo non gli capitava più di sorridere a quel modo. «Adesso Vala non può più usare i suoi comandi» disse. «Non solo, è anche intrappolata all'interno della sua stanza di controllo. Tutte le porte d'uscita sono disattivate. Solo le porte permanenti, come quella che si apre sul mondo d'acqua, funzionano ancora.» Wolff allungò una mano verso il pulsante che avrebbe attivato lo schermo visore nell'altra stanza di controllo, ma poi la ritirò e rimase pensieroso per qualche istante. «È meglio che nostra sorella sappia il meno possibile intorno alla nostra vera situazione» disse. «Theotormon, vieni qui e ascolta attentamente.» Wolff e Luvah si nascosero dietro il quadro di comando e si affacciarono a una piccola fessura tra il quadro stesso e lo schermo. Con la punta di una pinna, Theotormon premette il pulsante. L'immagine di Vala lo fissò, con il viso contorto dal furore e i lunghi umidi capelli rossi. «Tu!» esclamò. «Salve, sorella» rispose Theotormon. «Sei sorpresa di vedermi ancora vivo? E tu come ti senti sapendo che ti ho chiuso tutte le vie di fuga e tolto tutte le armi?» «Dove sono i tuoi fratelli, tanto migliori di te?» domandò Vala, cercando di scrutare la stanza alle spalle di Theotormon. «Sono morti. I loro serbatoi d'aria si sono esauriti, come anche il mio. Ma io, grazie a questo corpo che mi ha dato nostro padre, ho potuto trattenere il fiato finché l'acqua non ha sciolto la tua gelatina.» «E così Jadawin sarebbe finalmente morto? Non ci credo. Stai cercando di imbrogliarmi, stupido lumacone!» «Non sei nella posizione di affibbiare epiteti.» «Fammi vedere il suo corpo» disse Vala. Theotormon scrollò le spalle. «È impossibile. Sta fluttuando da qualche parte, nel palazzo. Io stesso sono riuscito a malapena a raggiungere questa stanza. Se esco di qui per andare a cercarlo, anche questo ambiente verrebbe inondato.» Vala guardò l'acqua sul pavimento e sorrise. «Così, sei in trappola anche tu! Sei un idiota che puzza di pesce, ma non hai nemmeno il cervello d'un pesce! Non avresti dovuto dirmi qual è la tua situazione.»
Theotormon spalancò la bocca. «Ma... ma...» «Puoi anche credermi in tuo potere» disse Vala. «Ed è così, in certo qual modo. Ma anche tu sei in mio potere. Io sola so dov'è la nave spaziale. Io sola sono in grado di far fuggire tutti e due da questo pianeta, per arrivare a quello con le porte che ci permettano di abbandonare questo universo. Quindi, che cosa proponi per superare questo stallo?» Con la punta di una pinna, Theotormon si grattò la peluria sulla sommità del cranio. «Non so.» «Oh, sì che lo sai! Sei stupido, ma non fino a questo punto! Farai un patto con me. Tu mi lasci uscire e io ti prenderò con me sulla nave. Non c'è altra via d'uscita, per nessuno di noi due.» Wolff non poteva vedere l'espressione di Theotormon, ma poteva dedurre, dal suo tono di voce, la furberia e il sospetto che doveva aver dipinti sul volto. «Come faccio a sapere che posso fidarmi di te?» «Non puoi, non più di quanto possa io. Dovremo fare in modo che nessuno di noi due possa ingannare l'altro. Sei d'accordo?» «Be', non so...» «Questa stanza di controllo non verrà distrutta nemmeno se il mare raggiungerà l'altezza d'un chilometro e rimarrà per sempre a coprire il palazzo. Ho cibo e acqua sufficienti per un anno. Potrei starmene seduta qui a lasciarti morire, per poi scovare un modo di andarmene. Credimi: lo troverei.» «In tal caso» disse Theotormon, «perché non lo fai?» «Perché non voglio restare un anno chiusa in questa stanza. Ho troppe cose da fare.» «D'accordo. E per quel che riguarda Chryseis?» «Verrà con me. Ho dei progetti per lei» disse Vala. La sua voce assunse un tono sospettoso. «Perché te ne interessi?» «Ma no. Chiedevo soltanto. Magari... magari, potresti darmela. Da quel che diceva Jadawin, dev'essere molto bella.» Vala scoppiò a ridere. «Anche questa sarebbe una forma di tortura per lei. Ma non è abbastanza. No, non puoi averla.» «Allora, niente da fare» disse Theotormon. «Tientela. Ma non so se ti divertirai a restare chiusa con lei per un anno. Inoltre, non credo che riusciresti a nuotare fino all'astronave. La pressione dell'acqua non te lo consentirebbe.» «Tu, stupida bestia bavosa ed egoista! Moriresti, piuttosto che lasciarmi
qualcosa! Benissimo, allora prenditela!» Wolff sorrise. Era stato lui a suggerire a Theotormon di portare il discorso su Chryseis. La questione era abbastanza irrilevante e così tipica dell'egoismo di Theotormon: forse Vala sarebbe caduta nel tranello. Theotormon batté insieme le pinne per la gioia. Wolff sperava che tanta contentezza fosse solo una finta: non era poi tanto sicuro che Theotormon, all'ultimo momento, non lo avrebbe tradito. «Bene» disse Theotormon. «Come si arriva all'astronave?» «Prima devi liberarmi. Non ho intenzione di dirtelo, per poi vederti andar via senza di me.» «Ma se apro la porta della tua stanza, tu potresti uscire e lasciarmi qui.» «Non puoi predisporre i comandi in modo che la porta si apra nel momento in cui arriverai qui?» Theotormon grugnì, come se il pensiero fosse una novità. «Giusto. Però dovrai uscire senza niente addosso. Dovrai essere nuda e a mani vuote. Io uscirò disarmato dalla mia stanza. Ci muoveremo nello stesso momento e ci incontreremo nel corridoio che unisce le due stanze.» Vala ansimò. «Io credevo... Vuoi dire che durante tutto questo tempo sapevi come arrivare qui... Ora capisco dove sono gli altri comandi! E io che pensavo che l'altra estremità del corridoio fosse un muro!» «Non ti servirà a niente saperlo» disse Theotormon. «Non puoi uscire, finché non te lo permetto io. Oh, sì, spoglia anche Chryseis. Non voglio che tu nasconda delle armi su di lei.» «Non vuoi correre rischi, vero? Forse sei più intelligente di quanto pensavo.» Che cosa stava progettando? Se incontrava Theotormon a metà corridoio, sarebbe stata alla mercé della sua forza, di gran lunga superiore. Theotormon le sarebbe saltato addosso nel momento stesso in cui avesse rivelato dove si trovava l'astronave, e lei doveva saperlo. La verità era che Wolff, Luvah e Theotormon sapevano dov'era la nave. Theotormon aveva finto di ignorarlo solo per farle credere di essere in vantaggio. Bisognava adescarla fuori della sala, altrimenti non sarebbe mai uscita. Wolff conosceva sua sorella. Piuttosto che arrendersi, sarebbe morta e avrebbe portato con sé Chryseis. Per lei era inconcepibile che un Signore mantenesse la promessa di non assalirla. Aveva ottime ragioni per pensarla così. In effetti, lo stesso Wolff, sebbene non avesse più pensato a se stesso come a un vero Signore, non era poi certo di mantenere la propria con Vala. D'altra parte era chiaro che anche Vala non si aspettava che
Theotormon stesse ai patti. Ma allora, che cosa aveva in mente? Theotormon, per non insospettire Vala, le chiese nuove assicurazioni, fingendo di non essere del tutto tranquillo. Poi, spense lo schermo e si voltò verso Wolff e Luvah. Wolff aprì la porta del corridoio, in modo che lui e Luvah potessero uscire per primi. Come aveva detto Theotormon, il corridoio univa le due stanze di controllo. Entrambe le stanze e il corridoio erano incapsulati in un unico blocco di lega metallica dello spessore di quattro metri. Il blocco era in grado di sopportare qualsiasi pressione dell'acqua e avrebbe anche potuto resistere all'esplosione diretta di una bomba all'idrogeno. Le pareti interne erano rivestite di una sostanza in grado di respingere i neutroni di una bomba neutronica. Urizen aveva costruito la stanza di controllo segreta all'interno del blocco, vicino alla stanza principale, proprio in previsione di situazioni come quella. Chiunque fosse riuscito a entrare nella stanza di controllo principale non avrebbe saputo che c'era una porta, all'altra estremità del corridoio, fino a che non si fosse aperta una sezione della parete, apparentemente monolitica. Lo stesso corridoio era attrezzato per ospitare i Signori, anche se come soluzione di emergenza. Conteneva quadri, sculture e mobili che un miliardario terrestre non avrebbe potuto acquistare nemmeno con tutte le sue sostanze. Un candeliere, ricavato dalla lavorazione di un singolo diamante e pesante mezza tonnellata, pendeva da un'enorme catena di lega dorata. E non era l'oggetto più prezioso presente nel corridoio. Wolff si nascose dietro uno scrittoio rivestito di pelle azzurro-cioccolata. Luvah si rifugiò dietro il basamento di una statua. Theotormon si assicurò che fossero pronti, poi ritornò nella stanza di controllo per informare Vala che potevano procedere all'incontro, come programmato. Infine, premette il pulsante che azionava la porta della stanza di Vala. La parete, all'altra estremità del corridoio, scivolò verso l'alto. Un fiotto di luce uscì dall'apertura e Vala sporse cautamente la testa dallo stipite. Theotormon fece altrettanto. Uscì di scatto, pronto a ributtarsi dentro se lei avesse avuto un'arma. Vala scoppiò in una risata rauca e uscì tenendo le mani aperte per mostrare che erano vuote. Era nuda e magnifica. Wolff le diede solo un'occhiata. Aveva occhi solamente per la donna che la seguiva. Era Chryseis, la bella ninfa dagli occhi immensi e dai capelli tigrati. Anche lei era nuda. «Il corno di Shambarimen» disse Theotormon. «Quasi lo dimenticavo.
Dov'è?» «Nella stanza di controllo» rispose Vala. «Non l'ho portato perché mi avevi detto di uscire a mani vuote.» «Va' a prenderlo, Chryseis» ordinò Theotormon. «Ma quando ritorni, tienilo alto sulla testa, a braccia tese, e non puntarmelo contro. Se farai un qualsiasi movimento brusco col corno, ti ucciderò.» La risata di Vala riempì il corridoio. «Sei così diffidente che sospetti persino di lei? Non ti farebbe mai del male! Non ha alcuna intenzione di farmi un simile favore!» Theotormon non rispose. Istruito da Wolff, stava sostenendo la parte del Signore più che guardingo, per impedire a Vala di sospettare un tradimento. Se Theotormon si fosse mostrato troppo fiducioso, Vala avrebbe avvertito subito puzzo di bruciato. Vala e Theotormon cominciarono ad avanzare l'uno verso l'altra, muovendo un passo alla volta, lentamente e in sincronia. Sembrava quasi che fossero impegnati in una specie di cerimonia, tanto si muovevano maestosamente e con un ritmo così preciso. Wolff si accucciò e attese. Si era tolto la tuta, perché non lo impacciasse nei movimenti. Aveva il corpo madido di sudore per la tensione. Né lui né Luvah erano armati: avevano perduto tutte le loro armi prima di raggiungere la stanza segreta. E la stanza, con suo disappunto, non conteneva armi di sorta. Evidentemente Urizen non l'aveva ritenuto necessario. Oppure, molto più probabilmente, c'erano delle armi, ma nascoste dietro le pareti e accessibili solo a chi sapeva trovarle. Urizen non aveva fatto in tempo a dare tale informazione... se mai aveva avuto intenzione di darla. Il piano era di attendere finché Vala non avesse oltrepassato Luvah, nascosto sull'altro lato del corridoio. Quando Luvah fosse sbucato dietro di lei, Theotormon doveva saltarle addosso. Wolff sarebbe uscito dal suo nascondiglio e avrebbe dato man forte agli altri due. Vala si fermò un metro prima del candeliere di diamante. Anche Theotormon si fermò. Vala disse: «Bene, mio orribile fratello, sembra che tu abbia tenuto fede alla tua parte di contratto.» Theotormon annuì e disse: «E allora, dov'è l'astronave?» Avanzò di un passo, nella speranza che Vala lo imitasse e venisse più vicina. Vala, però, rimase immobile. Beffarda, disse: «L'entrata è proprio dietro quello specchio a forma di rosa. Avresti potuto andartene e lasciarmi morire... se l'avessi saputo! Tu, spazzatura senza cervello!» Theotormon ringhiò e balzò verso di lei. Luvah usci da dietro la statua,
ma si scontrò con Chryseis che stava tornando. Wolff si alzò e si lanciò a tutta velocità contro Vala. Vala gridò e sollevò la mano destra, con il palmo ad angolo retto rispetto al polso e le dita che puntavano rigide verso il soffitto. Dal palmo scaturì un raggio di un bianco intenso, non più spesso di un ago. Vala fece descrivere alla mano un arco orizzontale, verso sinistra. Il raggio sferzò il collo di Theotormon, troncandogli netta la testa. Per un istante, il corpo di Theotormon rimase ritto, col sangue che zampillava dal collo, poi cadde in avanti. Wolff piroettò come un corridore di cross. Si gettò sul pavimento, dietro i piedi di Theotormon. Vala, sentendo i passi di Luvah, che si era ripreso dallo scontro con Chryseis, si girò. Evidentemente lo riteneva il pericolo più vicino e pensava di avere tutto il tempo per occuparsi di Wolff. Chryseis aveva dei riflessi rapidi. Vedendo cadere e rotolare a terra la testa di foca di Theotormon, si era tuffata al riparo, dietro una statua. Il raggio di Vala tagliò via un pezzo del piedistallo della statua, ma mancò Chryseis. In quel momento, sopravvenne Luvah a testa bassa. Vala balzò agilmente di lato e calò su di lui il taglio della mano sinistra. Luvah cadde in avanti, sul viso, privo di sensi. Perché non l'avesse ucciso con il piccolo lanciaraggi innestato nella carne del palmo, era un mistero. Forse voleva qualcuno da serbare come vittima di future torture, in accordo con la psicologia dei Signori. Wolff era indifeso, o almeno così pensava Vala, che avanzò verso di lui. «Ti ucciderò subito» disse. «Sei troppo pericoloso, non posso lasciarti in vita un secondo più del necessario.» «Non sono ancora morto» replicò Wolff. Afferrò la testa di Theotormon e gliela gettò contro. Un attimo dopo era in piedi e correva verso di lei, sapendo di non avere alcuna possibilità, ma sperando ugualmente che qualcosa potesse deviare la mira di Vala. Lei sollevò la mano per parare il macabro proiettile. Il raggio tagliò la testa in due, ma una metà proseguì il suo volo verso di lei. Il raggio, diretto momentaneamente verso il soffitto, recise la catena di metallo dorato, così che il candeliere di diamante da mezza tonnellata le piombò addosso. Wolff stava ancora caricando, quando accadde tutto questo. Si tuffò sul pavimento per portarsi al di sotto della sua linea di tiro, nel caso Vala fosse ancora viva e in grado di muovere la mano. Vala lo guardò con odio, la luce nei suoi occhi non era ancora spenta. Braccia e gambe erano inchiodate
sotto il diamante, e il sangue scorreva sul pavimento. «Ce l'hai fatta, fratello» ansimò. Chryseis uscì da dietro la statua e si gettò tra le braccia di Wolff. Si aggrappò a lui, singhiozzando. Wolff non se la sentiva di rimproverarla per questo, ma c'erano ancora delle cose da fare. La baciò alcune volte, la strinse, poi l'allontanò da sé. «Dobbiamo andarcene di qui, finché siamo in tempo» disse. «Spingi il terzo arabesco da sinistra, sulla parte superiore della cornice di quello specchio.» Chryseis eseguì e lo specchio si aprì verso l'interno. Wolff si caricò in spalla il fratello svenuto e si diresse verso l'ingresso. Chryseis lo richiamò: «Robert! E lei?» Wolff si fermò. «Lei cosa?» «Vuoi lasciarla soffrire a quel modo? Potrebbe passare molto tempo prima che muoia.» «Non credo» disse lui. «E poi, se l'è voluto lei.» «Robert!» Wolff sospirò. Per un momento, era stato di nuovo un vero Signore, era ridiventato il vecchio Jadawin. Posò Luvah sul pavimento e si diresse verso Vala. Lei si contorse e riuscì a liberare una mano, mentre un pezzo del diamante intagliato cadeva sul pavimento. Wolff le balzò addosso e le afferrò la mano proprio nel momento in cui il raggio scaturiva dal palmo. Le torse la mano con tanta violenza che le ossa si spezzarono. Vala gridò di dolore una sola volta, prima di morire. Diretto da Wolff, il raggio laser l'aveva quasi ghigliottinata. Wolff, Chryseis e Luvah entrarono nell'astronave, che salì diritta lungo la rampa di lancio fino all'estrema sommità del palazzo. Wolff puntò la nave in direzione della porta che conduceva fuori di quell'universo e che era nascosta tra le montagne del pianeta dei cronoillusionisti. Solo allora trovò il tempo per domandare com'era riuscita Vala a far uscire Chryseis dal suo letto e dal loro mondo. «Mi svegliò l'esacolo» raccontò Chryseis, «mentre tu dormivi ancora. Mi avvisò... la voce di Vala... che se avessi cercato di svegliarti ti avrebbe ucciso in modo orribile. Vala mi disse che solo seguendo le sue istruzioni ti avrei salvato dalla morte.» «Avresti dovuto sapere che se fosse stata in grado di nuocermi lo avrebbe fatto» disse Wolff. «Ma immagino che allora tu fossi troppo preoccupata per me. Non hai osato correre il rischio di vedere se stava bluffando.»
«Sì. Avrei voluto gridare, ma avevo paura che potesse mettere in atto le sue minacce. Avevo tanta paura per te, non riuscivo a pensare lucidamente. Così, passai per la porta che mi aveva indicato, una di quelle che conducono a un livello inferiore del nostro pianeta. Vala mi stava aspettando nella caverna, dove si apriva la porta. Ne aveva già predisposta un'altra per questo universo. Il resto lo sai.» Wolff passò i comandi a Luvah, in modo da poterla abbracciare e baciare. Chryseis incominciò a piangere e, poco dopo, si ritrovò in lacrime anche lui. Piangeva non solo per il sollievo di averla ritrovata sana e salva e per lo sciogliersi dell'enorme tensione che l'aveva attanagliato durante le avventure vissute, ma anche per i fratelli e la sorella morti. Non era triste per coloro che erano appena morti, cioè per gli adulti, ma per i bambini che erano stati un tempo: rimpiangeva l'amore che avevano provato allora l'uno per l'altro e si rammaricava per la perdita di ciò che avrebbero potuto essere e non erano stati. FINE