Wilbur Smith. Gli angeli piangono.
Copyright 1982 by Wilbur Smith TRAMA Bianchi e neri: l'interminabile rivalità tra du...
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Wilbur Smith. Gli angeli piangono.
Copyright 1982 by Wilbur Smith TRAMA Bianchi e neri: l'interminabile rivalità tra due razze costrette a convivere nel medesimo territorio. L'esplosione della più cieca violenza seguita al flagello della carestia: tra apocalittiche profezie di streghe invasate e travolgenti passioni si consuma l'esaltante avventura africana di una grande famiglia.
GLI ANGELI PIANGONO PARTE PRIMA 1895 Tre uomini uscirono a cavallo dalla foresta con un'impazienza trattenuta che neppure le settimane faticose di continua ricerca avevano potuto smussare. Si fermarono a fianco a fianco e guardarono giù, in un'altra valle poco profonda. Tutti gli steli dell'erba inaridita dall'inverno portavano un seme lanuginoso d'un rosa tenero, e la brezza leggera li agitava e li faceva danzare, così che sul fondovalle le antilopi nere del branco sembravano immerse fino al ventre in una turbinante nebbia rosata. Era un branco con un unico maschio, alto quasi quattordici spanne al garrese. La groppa e le spalle, lucide come raso, erano nere come quelle d'una pantera, ma il ventre e i fregi intricati del muso avevano il candore iridescente della madreperla. Le grandi corna a rilievi, curve come la scimitarra di Saladino,. s'inarcavano all'indietro fino a sfiorare il dorso, e il collo era orgoglioso come quello d'uno stallone arabo. Ormai annientata dai cacciatori nei territori meridionali, la più nobile delle antilopi africane aveva finito per simboleggiare agli occhi di Ralph Ballantyne quella nuova terra, selvaggia e bellissima, tra il Limpopo e l'ampio, verde Zambesi. Il grande maschio nero fissò con arroganza i cavalieri fermi sul dosso, poi sbuffò e scrollò la testa bellicosa. La folta criniera scura ondeggiante, gli zoccoli acuminati che scalpitavano sul terreno sassoso, guidò al galoppo le femmine color cioccolata oltre la cresta opposta, mentre gli uomini osservavano muti la loro maestà e la loro bellezza. Ralph Ballantyne fu il primo a scuotersi. Si girò sulla sella e si rivolse al padre. «Allora, papà» chiese, «hai riconosciuto la zona?» «Sono passati più di trent'anni» mormorò Zouga Ballantyne, accigliandosi con una concentrazione che gli disegnò una punta di freccia al centro della fronte. «Trent'anni, e io ero disfatto dalla malaria.» Si rivolse al terzo cavaliere, il piccolo ottentotto grinzoso che era il suo compagno e il suo servitore fin da quei tempi lontani. «Cosa ne pensi, Jan Cheroot?» L'ottentotto si tolse il malconcio berretto militare e si allisciò i capelli candidi e lanosi, fitti e serrati come granelli di pepe. «Forse...» Ralph s'intromise bruscamente. «Forse fu soltanto un sogno dovuto alla febbre.» Il bel volto barbuto del padre si aggrottò ancor più e la cicatrice sulla guancia sfumò dal biancore della porcellana al rosa, mentre Jan Cheroot sorrideva soddisfatto: quando quei due erano insieme, era uno spasso più grande dei combattimenti dei galli. «Maledizione, ragazzo» scattò Zouga. «Perché non torni ai carri a tener compagnia alle donne?» Zouga sfilò la catena sottile dal taschino e la fece dondolare davanti alla faccia del figlio. «Ecco qui» disse. «Ecco la prova.» All'anello della catena erano appesi un mazzetto di chiavi e altri oggetti, un sigillo d'oro, un san Cristoforo, uno spunta-sigari e un pezzo irregolare di quarzo grosso quanto un acino d'uva. Era screziato come un marmo azzurro e al centro era stellato da un grosso cuneo di luccicante metallo puro. «Oro rosso» disse Zouga. «A disposizione del primo che se lo porterà via!» Ralph sorrise al padre, ma era un sorriso insolente e provocatorio, perché si annoiava. Vagabondare per settimane in una ricerca inutile non era nello stile di Ralph. «Ho sempre sospettato che quello tu l'abbia comprato a qualche bancarella nella Grand Parade di Città del Capo, e che sia soltanto pirite.» La cicatrice sulla guancia del padre divenne di un rosso rabbioso; e Ralph rise soddisfatto e strinse la spalla di Zouga. «Oh, papà, se lo credessi davvero, pensi che sprecherei così le settimane? Con la costruzione della ferrovia e le dozzine d'altre cose con cui devo giostrarmi, pensi che sarei qui invece che a Johannesburg o a Kimberley?» Scosse delicatamente la spalla di Zouga. Il suo sorriso non era più ironico. «E' qui... lo sappiamo tutti e
due. Può darsi che proprio in questo momento ci troviamo sopra al filone, come può darsi che sia appena al di là del prossimo dosso.» Lentamente la cicatrice di Zouga si schiarì, e Ralph continuò con calma: «Il difficile, naturalmente, è ritrovarlo. Potremmo incocciarlo fra un'ora e potremmo dover cercare per altri dieci anni.» Jan Cheroot guardava padre e figlio con un vago senso di disappunto. Li aveva visti azzuffarsi una volta. ma era passato molto tempo. Adesso Ralph era nel fiore dell'età, poco meno di trent'anni, ed era abituato a trattare con le centinaia di uomini rudi che impiegava nella sua compagnia di trasporti e nelle squadre addette alla costruzione, e li faceva filare tutti con lingua, calci e pugni. Era grande e grosso e duro e spavaldo come un gallo; ma Jan Cheroot sospettava che il vecchio cagnone fosse ancora in grado di far rotolare il cucciolo nella polvere. Il soprannome elogiativo che i matabele avevano dato a Zouga Ballantyne era Bakela, «il Pugno» ed egli era ancora agile e snello. Sì, pensò Jan Cheroot con un po' di rammarico, sarebbe valsa la pena di assistere allo scontro; ma sarebbe stato per un altro giorno, perché i due s'erano calmati e avevano ripreso a parlarsi a voce più bassa, tendendosi dalle selle, l'uno verso l'altro. Adesso sembravano più due fratelli: sebbene la rassomiglianza tra loro fosse inequivocabile, Zouga non pareva ancora abbastanza vecchio per essere il padre di Ralph. La pelle era ancora troppo liscia, l'occhio troppo svelto e vivace, e le lievi striature d'argento nella barba dorata potevano essere semplicemente frutto del feroce sole africano. «Se almeno avessi potuto fare il punto con il sole... le altre osservazioni che avevi fatto erano tutte così precise» commentò Ralph. «Sono riuscito a ritrovare tutti i nascondigli d'avorio che avevi lasciato quell'anno.» «Erano già incominciate le piogge.» Zouga scosse la testa. «E per Dio, come pioveva! Non vedevamo il sole da una settimana, tutti i fiumi erano in piena, e noi marciavamo in cerchio, alla ricerca di un guado...» S'interruppe e alzò le redini con la mano sinistra. «Ma te l'ho raccontato cento volte. Continuiamo» propose senza alzare la voce, e scesero al trotto verso il fondovalle. Zouga si sporgeva dalla sella ed esaminava il suolo in cerca di qualche frammento spezzato del filone, si girava adagio per scrutare il profilo del terreno e riconoscere la sagoma delle creste o la macchia azzurrognola di un kopje distante contro lo sfondo dell'alto cielo africano, dove veleggiavano tranquilli i cumuli del bel tempo. «L'unico punto di riferimento sicuro su cui possiamo basarci è il sito della Grande Zimbabwe» borbottò Zouga. «Ricordo che marciammo per otto giorni direttamente verso ovest, partendo dalle rovine.» «Nove giorni» lo corresse Jan Cheroot. «Perdesti un giorno quando morì Matthew. Avevi la febbre. Dovevo curarti come un bambino, e portavamo quel maledetto uccellaccio di pietra.» «Non potevamo fare più di quindici chilometri al giorno» continuò Zouga senza badargli. «Otto giorni di marcia, non più di centoventi chilometri.» «E la Grande Zimbabwe è là. Direttamente a est.» Ralph trattenne il cavallo quando giunsero su un'altra cresta. «Ecco la Sentinella.» Indicò un kopje di roccia, una lontana vetta azzurra modellata come un leone acquattato. «Le rovine subito oltre. Non posso sbagliare.» Per padre e figlio la città in rovina aveva un significato particolare. Là, entro le massicce mura di pietra, Zouga e Jan Cheroot avevano trovato le antiche immagini scolpite d'uccelli, abbandonate dagli abitanti scomparsi ormai da molto tempo. Nonostante la situazione disperata in cui erano ridotti dalla febbre e dalle altre traversie della lunga spedizione dal fiume Zambesi, Zouga aveva insistito per portarsi via una delle statue. Poi, dopo molti anni, era venuto il turno di Ralph. Guidato dal diario del padre e dalle meticolose osservazioni effettuate con il sestante, Ralph aveva ritrovato la cittadella deserta. Anche se era stato inseguito dagli impi di Lobengula, il re dei matabele, aveva sfidato il tabù imposto dal sovrano sul luogo sacro e aveva portato via le statue rimaste. Tutti e tre gli uomini, quindi, conoscevano bene quelle rovine impressionanti e stregate; e mentre guardavano le colline lontane che ne segnavano il sito, tacevano, presi dai ricordi. «Mi chiedo ancora chi erano gli uomini che costruirono Zimbabwe» disse finalmente Ralph. «E dove sono finiti?» La voce aveva un tono insolitamente sognante. E non si aspettava una risposta. «Erano i minatori della regina di Saba? Era questa l'Ofir della Bibbia? Portavano a Salomone l'oro che estraevano?» «Forse non lo sapremo mai.» Zouga si scosse. «Ma sappiamo che apprezzavano
l'oro quanto lo apprezziamo noi. Trovai foglie e perline d'oro e lingotti nel cortile della Grande Zimbabwe, e a pochi chilometri da qui io e Jan Cheroot esplorammo i pozzi che avevano scavato, e scoprimmo mucchi di minerale pronto per la macinatura.» Zouga lanciò un'occhiata al piccolo ottentotto. «Riconosci qualcosa?» Il volto scuro di folletto si raggrinzì come una prugna seccata al sole. «Forse dal prossimo dosso» borbottò Jan Cheroot in tono lugubre; e i tre discesero nella valle che sembrava identica alle cento altre attraversate durante le settimane precedenti. Ralph precedeva gli altri due d'una dozzina di passi, al piccolo galoppo. Fece deviare il cavallo per aggirare un boschetto d'alberi d'ebano, e poi all'improvviso si alzò sulle staffe, si tolse il cappello e lo sventolò. «Ehilà!» gridò. «Via! Via!» E Zouga vide il lampo d'oro bruciato, il movimento fluido sul terreno scoperto del pendio opposto. «Tre diavoli!» L'eccitazione e l'odio erano evidenti nel tono della voce di Ralph. «Jan Cheroot, mandali verso sinistra! Papà, bloccali prima che attraversino il burrone!» Ralph Ballantyne diede gli ordini istintivamente, e gli altri due uomini li accettarono con la stessa naturalezza. Nessuno di loro dubitava della necessità di uccidere i magnifici animali che Ralph aveva stanato dal boschetto. Ralph possedeva duecento carri, e ognuno era trainato da sedici buoi. King's Linn, la tenuta di Zouga creata con le concessioni terriere accordate dalla British South Africa Company ai volontari che avevano annientato gli impi del re matabele, copriva decine di migliaia di ettari, dove pascolavano il meglio delle mandrie tolte ai matabele e i tori da riproduzione importati dal Capo di Buona Speranza e dalla vecchia Inghilterra. Padre e figlio erano allevatori, e avevano subìto perdite gravissime a causa dei branchi di leoni che infestavano quella terra magnifica a nord del Limpopo e dello Shashi. Troppo spesso avevano sentito nella notte i muggiti strazianti delle loro bestie preziose, e allo spuntar del giorno avevano trovato le carcasse sbranate. Per entrambi, i leoni erano i peggiori dei parassiti, e li esaltava quella rara occasione di sorprenderne un branco in pieno giorno. Ralph tolse il Winchester a ripetizione dalla custodia sotto il ginocchio sinistro mentre lanciava il castrone baio al galoppo, all'inseguimentO dei grandi felini biondi. Il leone maschio era stato il primo ad allontanarsi e Ralph lo intravedeva appena, con il ventre un po' pendulo e la schiena arcuata, la folta criniera scura irta per l'allarme, mentre si muoveva maestoso tra i cespugli bassi. La leonessa più vecchia lo seguì prontamente Era magra e sfregiata da mille cacce, e il pelo sulle spalle e il dorso era sfumato di bluastro. Fuggiva a balzi. Ma la leonessa più giovane, non abituata agli uomini, era audace e curiosa come un gatto. Aveva ancora qualche traccia della maculatura dei cuccioli sul ventre dorato; e al margine del boschetto si voltò a soffiare in direzione del cavaliere. Le orecchie erano appiattite contro il cranio, la lingua rosea e rasposa sporgeva tra le zanne, e le vibrisse erano bianche e rigide come gli aculei di un istrice. Ralph lasciò cadere le redini sul collo del castrone, e il cavallo reagì istantaneamente fermandosi di colpo per dargli la possibilità di sparare. Solo il brusco movimento a forbice degli orecchi tradiva l'agitazione. Ralph alzò il Winchester e sparò nell'attimo stesso in cui il calcio gli toccò la spalla. La leonessa gettò un ringhio violento quando il proiettile le penetrò nella carne, diretto al cuore. Balzò nell'aria come se cercasse di afferrare il sole, con un ruggito smanioso. Cadde, rotolò sul dorso, dilaniando i cespugli con i gialli artigli sguainati, poi si protese in un'ultima convulsione sussultante prima di accasciarsi nell'abbandono della morte. Ralph inserì un altro colpo nella camera di scoppio del Winchester e riprese le redini. Il castrone si slanciò in corsa. Lontano, sulla destra, Zouga galoppava lungo il ciglio del burroncello protendendosi in avanti, e in quell'istante la seconda leonessa eruppe allo scoperto davanti a lui e corse verso gli arbusti fitti. Zouga sparò senza intelrompere il galoppo. Ralph vide il sangue sprizzare sotto il ventre della belva. «Troppo basso e a sinistra. Papà sta diventando vecchio» pensò ironicamente Ralph, e fermò di colpo il castrone.
Ma prima che potesse far fuoco, Zouga sparò di nuovo e la leonessa stramazzò e rotolò come una palla dorata sulla terra pietrosa, colpita al collo una spanna dietro l'orecchio. «Bravo!» Ralph rise, euforico, e batté i calcagni contro i fianchi del castrone mentre salivano al galoppo il pendio, spalla a spalla. «Dov'è Jan Cheroot?» gridò Zouga, e nello stesso istante sentirono lo spato nella foresta sulla loro sinistra e girarono i cavalli in quella direzione. «Riesci a vederlo?» gridò Ralph. Davanti a loro gli arbusti erano più fitti, e i rami spinosi sferzavano le cosce dei due cavalieri. Risuonò un secondo sparo e subito dopo i ruggiti furiosi e assordanti del leone si mescolarono agli strilli atterriti di Jan Cheroot. «E' nei guai!» gridò Zouga, preoccupato, mentre uscivano al galoppo dai cespugli. Davanti a loro si estendeva un tratto aperto di erba lussureggiante sotto le alte acacie piatte che orlavano la cresta dell'altura. Un centinaio di metri più avanti Jan Cheroot galoppava furiosamente lungo il dosso, girato sulla sella per guardare indietro. La faccia era una maschera di terrore, gli occhi erano stralunati, bianchissimi. Aveva perso il cappello e il fucile, e sferzava disperatamente il cavallo con le redini sul collo e sulle spalle, sebbene l'animale fosse già lanciato a un galoppo folle, incontrollabile. Il leone era una dozzina di passi più indietro ma guadagnava terreno a ogni balzo, come se cavallo e cavaliere fossero immobili. Il fianco ansimante era lucido di sangue: era stato colpito al ventre, ma la ferita non l'aveva immobilizzato, non l'aveva neppure costretto a rallentare: l'aveva reso pazzo di rabbia piuttosto, e i ruggiti che esplodevano dalla sua gola erano come tuoni. Ralph fece deviare il castrone per tentare d'intercettare l'ottentotto e cambiare l'angolazione per sparare al leone; ma in quel momento il grande felino interruppe la carica sinuosa, si rizzò avventandosi sui quarti posteriori del cavallo, li dilaniò con i lunghi artigli ricurvi. La pelle scurita dal sudore si squarciò in profondi solchi paralleli e il sangue ne uscì fumigando in una nube cremisi. Il cavallo nitrì disperatamente e scalciò: centrò il leone al petto, facendolo barcollare. Ma subito il felino si riprese e si lanciò di nuovo, affiancandosi al cavallo in corsa. Gli occhi gialli erano imperscrutabili mentre si preparava a balzargli sulla groppa. «Buttati, Jan Cheroot!» urlò Ralph. Il leone era troppo vicino all'ottentotto perché fosse possibile arrischiarsi a sparare. «Buttati, accidenti a te!» Ma sembrava che Jan Cheroot non l'avesse sentito. Si teneva aggrappato convulsamente alla criniera aggrovigliata, paralizzato dalla paura. Il leone spiccò un balzo e si posò come un enorme uccello dorato sul dorso del cavallo, schiacciando Jan Cheroot sotto il peso del corpo massiccio e striato di sangue. In quell'attimo cavallo, cavaliere e leone parvero sprofondare nel terreno, e rimase soltanto una colonna turbinante di polvere. Ma i ruggiti furibondi della belva e le urla atterrite di Jan Cheroot divennero ancora più forti mentre Ralph galoppava verso il punto dov'erano scomparsi. Strinse il Winchester con una mano, liberò i piedi dalle staffe e balzò dalla sella, lasciandosi portare avanti dallo slancio fino a che si trovò sul ciglio della fossa scoscesa. E là, sul fondo, vide un groviglio di corpi sussultanti. «Questo diavolo mi ammazza!» urlò Jan Cheroot. Ralph vide che era incuneato sotto il corpo del cavallo. L'animale doveva essersi spezzato il collo nella caduta: era una massa inerte, con la testa piegata sotto la spalla, e il leone stava dilaniando con gli artigli carne e sella per cercare di arrivare a Jan Cheroot. «Stai fermo!» urlò Ralph. «Dammi il tempo di sparare!» Ma fu il leone a udirlo. Abbandonò il cavallo e si avventò su per la parete verticale della fossa con l'agilità di un gatto che si arrampica su un albero. Le lucide zampe posteriori lo sospingevano verso l'alto, gli occhi gialli erano fissi su Ralph, ritto sull'orlo della fossa. Ralph si lasciò cadere su un ginocchio e mirò all'ampio petto dorato. Le fauci erano spalancate, le zanne lunghe quanto l'indice di un uomo erano bianche come l'avorio, il ruggito assordante che
eruttava dalla gola investiva il volto di Ralph. Sentì l'odore di carne putrida nel fiato del leone, mentre i bioccoli di saliva calda gli spruzzavano le guance e la fronte. Sparò, ricaricò e sparò di nuovo, così fulmineamente che gli spari furono un'esplosione ininterrotta. Il leone s'inarcò all'indietro, rimase aggrappato per un lungo attimo alla parete della fossa, e poi ripiombò sulla carcassa del cavallo. Sul fondo della buca più nulla si muoveva. Il silenzio era più intenso del fragore devastante di pochi attimi prima. «Jan Cheroot, tutto bene?» chiamò ansiosamente Ralph. Il piccolo ottentotto non si vedeva. Era coperto dalle carcasse del cavallo e del leone. «Jan Cheroot, mi senti?» La risposta fu un lugubre bisbiglio sepolcrale. «I morti non sentonO... è finita. E' finita per il vecchio Jan Cheroot.» «Vieni fuori» ordinò Zouga Ballantyne, affiancandosi a Ralph. «Non è il momento di fare il buffone, Jan Cheroot.» *** Ralph lanciò una corda a Jan Cheroot, e padre e figlio issarono alla superficie l'ottentotto e la sella del cavallo. La buca dov'era caduto Jan Cheroot era in realtà una trincea stretta e profonda lungo la cresta del dosso. In certi punti era alta anche sei metri, ma non superava mai i due metri di ampiezza. Era quasi completamente intasata di rampicanti e d'erbacce: ma questo non bastava a nascondere che era stata scavata da esseri umani. «Il filone era stato messo allo scoperto lungo questa linea» disse Zouga mentre seguivano il ciglio della vecchia trincea. «I minatori non s'erano presi il disturbo di ricoprirlo.» «E come facevano a frantumarlo?» chiese Ralph. «Laggiù la roccia è compatta.» «Probabilmente vi accendevano sopra i fuochi e poi li spegnevano con l'acqua. La contrazione violenta spaccava la roccia.» «Be', mi sembra che abbiano portato via tutto il minerale, senza lasciare niente per noi.» Zouga annuì. «E' logico. Prima devono aver sfruttato questa sezione, e quando il filone si è esaurito hanno scavato buche per cercare di intercettarlo di nuovo.» Zouga si rivolse a Jan Cheroot. «Adesso riconosci il posto?» chiese; e quando l'ottentotto esitò, tese il braccio per indicare ai piedi del pendio. «La palude nella valle laggiù e i teak...» «Sì, sì.» Jan Cheroot batté le mani. Un lampo di gioia gli passò negli occhi. «E' il posto dove uccidesti quel grosso elefante... le zanne sono sulla veranda di King's Linn.» «L'antico deposito, allora, dev'essere proprio davanti a noi.» Zouga si avviò in fretta. Trovò il monticello coperto dall'erba, e s'inginocchiò per frusare tra le radici. Prendeva a uno a uno i frammenti di quarzo bianco, li esaminava rapidamente e li gettava via. Ogni tanto ne umettava uno con la lingua, lo rigirava sotto il sole per cercare di scoprire lo scintillio del metallo, poi aggrottava la fronte e scuoteva la testa, deluso. Alla fine si alzò e si ripulì le mani sui calzoni. «E' quarzo, sì. Ma gli antichi minatori avevano setacciato tutto il minerale. Dovremo trovare i vecchi pozzi, se vogliamo vedere un po' d'oro.» Dall'alto del vecchio tumulo, Zouga si orientò in pochissimi istanti. «L'elefante cadde in quel punto» disse, indicando, e Jan Cheroot frugò tra l'erba e sollevò un femore enorme, bianco e rinsecchito come gesso, che incominciava a sgretolarsi, dopo trent'anni. «Era il padre di tutti gli elefanti» disse Jan Cheroot in tono reverente. «Non ce ne sarà mai un altro come quello. E fu lui a condurci qui. Quando gli sparasti, cadde in questo punto come per indicarcelo.» Zouga si girò d'un quarto di cerchio e tese di nuovo il braccio. «E là dev'esserci l'antico pozzo dove seppellimmo Matthew.» Ralph ricordava la caccia all'elefante che il padre aveva descritto nel celebre libro Odissea di un cacciatore. Il negro che portava i fucili non era fuggito di fronte alla carica del colosso: era rimàsto per porgere a Zouga il secondo fucile, e aveva sacrificato la vita per salvare il padrone. Ralph lo sapeva. Rimase in silenzio mentre Zouga piegava un ginocchio accanto al cumulo di pietre che segnava il luogo della sepoltura.
Dopo qualche istante Zouga si rialzò, si spolverò il ginocchio e disse semplicemente: «Era un uomo coraggioso.» «Coraggioso ma stupido» commentò Jan Cheroot. «Se fosse stato furbo, sarebbe scappato.» «Se fosse stato furbo, avrebbe scelto un'altra tomba» mormorò Ralph. «E' proprio al centro del filone aurifero. Dovremo disseppellirlo.» Zouga si accigliò. «Lasciamolo in pace. Ci sono altri pozzi lungo il filone.» Si allontanò e gli altri lo seguirono. Cento metri più avanti Zouga tornò a fermarsi. «Ecco!» esclamò soddisfatto. «Il secondo pozzo... erano quattro in tutto.» Anche quell'apertura era stata colmata con frammenti di roccia. Ralph si tolse la giacca, appoggiò il fucile al tronco dell'albero più vicino e scese nella depressione poco profonda, chinandosi verso l'imboccatura ostruita. «Riapriamola.» Lavorarono per mezz'ora, smuovendo i macigni con un ramo d'albero e spingendoli da parte fino a quando misero allo scoperto l'apertura squadrata. Era stretta: così stretta che soltanto un bambino sarebbe potuto passare. S'inginocchiarono a guardare. Era impossibile capire quanto fosse profondo il pozzo. La tenebra era impenetrabile e c'era un lezzo d'umidità, di muffa, di pipistrelli e di putredine. Ralph e Zouga scrutavano nel varco, inorriditi e affascinati. «Dicono che gli antichi facessero lavorare nelle miniere gli schiavi bambini e i prigionieri boscimani» mormorò Zouga. «Dobbiamo scoprire se il filone è lì sotto» disse Ralph. «Ma un uomo adulto...» S'interruppe. Vi fu un altro istante di silenzio pensieroso, poi Zouga e Ralph si scambiarono un'occhiata, sorrisero, e si girarono all'unisono verso Jan Cheroot. «No!» esclamò in tono irremovibile il piccolo ottentotto. «Sono vecchio e malato. No! Ammazzatemi, se volete, ma io non vado!» *** Ralph trovò un mozzicone di candela nella borsa della sella mentre Zouga annodava insieme le tre corde che usavano per legare i cavalli. Jan Cheroot assisteva ai preparativi come un condannato segue la costruzione della forca. «Per ventinove anni, da quando sono nato, non hai fatto che parlarmi del tuo coraggio e della tua audacia» gli rammentò Ralph. Passò un braccio intorno alle spalle di Jan Cheroot e lo guidò verso l'imboccatura del pozzo. «Forse esageravo un pochino» ammise l'ottentotto mentre Zouga gli annodava la corda sotto le ascelle e gli legava una borsa alla vita. «Hai combattuto contro i selvaggi, sei andato a caccia di elefanti ,o di leoni... che cos'hai da temere in questa buca? Qualche serpente, il buio, gli spiriti dei morti, ecco tutto.» «Forse esageravo più di un pochino» bisbigliò Jan Cheroot con voce rauca. «Ma tu non sei un vigllacco, vero, Jan Cheroot?» «Sì.» L'ottentotto annuì, convinto. «Certo che lo sono, e questo non è posto per i vigliacchi.» Ralph lo tirò indietro mentre si dibatteva come un pesce-gatto preso all'amo, lo sollevò agevolmente e lo calò nel pozzo. Le grida di protesta si smorzarono via via, mentre Ralph faceva scorrere la corda. Ralph misurava la lunghezza della fune allargando le braccia: calcolando due metri per ogni tratto, doveva aver calato l'ottentotto per poco meno di una ventina di metri quando sentì che la fune non era più tesa. «Jan Cheroot!» muggì Zouga affacciandosi sul pozzo. «C'è una piccola caverna.» La voce di Jan Cheroot era soffocata, distorta dagli echi. «Ho appena lo spazio per stare in piedi. Il filone è tutto nero di fuliggine.» «I fuochi che accendevano per cucinare. Gli schiavi venivano tenuti laggiù, senza dubbio» disse Zouga. «Non rivedevano più la luce del sole, fino alla morte.» Poi alzò la voce. «C'è altro?» «Corde, corde d'erba intrecciata, e secchi, secchi di cuoio come quelli che usavamo nelle miniere di diamanti a New Rush...» Jan Cheroot s'interruppe con un'esclamazione. «Vanno a pezzi quando li tocco. Sono diventati polvere.» Dall'alto, i due lo sentirono sternutire e tossire. Quando riprese a parlare, la sua voce era diventata
più nasale. «Ci sono attrezzi di ferro, qualcosa che sembra un'ascia.» Poi chiamò di nuovo in tono impaurito. «In nome del grande serpente, qui ci sono uomini morti... Le loro ossa. Voglio risalire... tiratemi su!» Ralph scrutò nel pozzo, e vide sul fondo la luce tremolante della candela. «Jan Cheroot, c'è una galleria che parte dalla caverna?» «Tiratemi su!» «Vedi una galleria?» «Sì. E adesso, mi tirate su?» «No, se prima non la segui fino in fondo.» «Siete matti! Dovrei strisciare carponi.» «Prendi uno degli attrezzi di ferro per staccare un pezzo di minerale.» «No. Ne ho abbastanza. Non faccio un passo di più, con tutti questi morti.» «D'accordo» urlò Ralph. «Allora ti butto addosso la corda.» «No!» «E poi rimetterò le pietre sull'imboccatura.» «Vado.» La voce di Jan Cheroot aveva un tono disperato. La corda cominciò a snodarsi di nuovo nel pozzo come un serpente che rientri nella tana. Ralph e Zouga si accosciarono accanto all'imboccatura. Si passaronO l'ultimo sigaro e attesero, impazienti. «Quando abbandonarono la miniera, chiusero gli schiavi nel pozzo. Uno schiavo era una proprietà d'un certo valore, quindi questo dimostra che stavano ancora sfruttando il filone e che se ne andarono in gran fretta.» Zouga s'interruppe, inclinò la testa per ascoltare e poi esclamò: «Ah!» in tono soddisfatto. Dalle viscere della terra saliva il clangore lontano di un utensile di metallo che batteva sulla roccia viva. «Jan Cheroot è arrivato al punto dove stavano sfruttando il filone.» Trascorsero ancora parecchi minuti prima che vedessero riapparire la luce ondeggiante della candela in fondo al pozzo e giungessero fino a loro le implorazioni patetiche di Jan Cheroot. «Per piacere, padron Ralph, ho fatto quello che volevate. Adesso mi tirate su, per piacere!» Ralph si piazzò saldamente con i piedi ai due lati del pozzo e ritirò la corda. I muscoli delle braccia si tendevano e guizzavano sotto il cotone della camicia, mentre issava verso la superficie l'ottentotto e il suo carico. Quando ebbe finito, il suo respiro era ancora regolare, e non c'era una stilla di sudore sul volto. «Dunque, Jan Cheroot, cos'hai trovato?» Jan Cheroot era coperto dalla testa ai piedi d'una finissima polvere chiara, scavata dai rivoletti di sudore, e puzzava di guano di pipistrello e del sentore di funghi che caratterizza le grotte abbandonate da molto tempo. Con le mani che ancora tremavano per la paura e lo sfinimento aprì la borsa legata al fianco. «Ecco cos'ho trovato» gracchiò, e tese a Zouga un frammento di roccia. Aveva una struttura cristallina che scintillava come ghiaccio, ed era venato d'azzurro e crivellato da minuscole crepe, in parte apertesi sotto i colpi dell'ascia di ferro quando Jan Cheroot l'aveva staccato dalla parete. Ma le schegge di quarzo erano tenute insieme dalla sostanza che aveva riempito ogni screpolatura: e quel cemento era un sottile strato malleabile di metallo lucente che sfolgorò nel sole quando Zouga l'inumidì con la punta della lingua. «Per Dio, Ralph, guarda!» E Ralph prese il pezzo di roccia dalla mano del padre con la reverenza d'un devoto che riceva la comunione. «Oro» mormorò. E l'oro scintillava con quello splendido sorriso giallo che aveva affascinato gli uomini fin quasi dal tempo in cui avevano acquisito la posizione eretta. «Oro!» ripeté Ralph. Per trovare quel barbaglio di metallo prezioso avevano faticato gran parte delle loro vite, padre e figlio, s'erano spinti lontano e, in compagnia d'altri avventurieri, avevano combattuto battaglie cruente, avevano distrutto una nazione orgogliosa, avevano inseguito un re fino alla sua morte solitaria. Guidati da un malato dal cuore dilatato e invalido e dai sogni grandiosi, s'erano impadroniti d'un territorio immenso che ora portava il nome di quel gigante, Rhodesia, e avevano costretto il suolo a cedere a una a una tutte le sue ricchezze. Avevano preso i grandi pascoli e le splendide catene montuose, le foreste di essenze pregiate, le mandrie di bestiame ben nutrito, le legioni di robusti uomini neri che, in cambio di una misera paga, fornivano la manodopera per lo sterminato raccolto. E adesso, finalmente, tenevano nelle mani il tesoro supremo. «Oro!» disse Ralph per la terza volta.
*** Piantarono i paletti lungo il dosso, tagliandoli dalle acacie che grondavano linfa trasparente dalle ferite inferte con le scuri, e conficcandoli nel terreno duro con il piatto della lama. Poi eressero mucchi di pietre per indicare gli angoli delle concessioni. Secondo l'accordo stipulato a Fort Victoria, che entrambi avevano firmato quando s'erano offerti volontari per combattere contro gli impi di Lobengula, ognuno di loro aveva diritto a dieci concessioni aurifere. Naturalmente questo non valeva per Jan Cheroot. Sebbene si fosse avventurato nel Matabeleland con la colonna volante di Jameson e avesse ucciso gli amadoda matabele sul fiume Shangani e al guado del Bemberi con lo stesso entusiasmo dei suoi padroni, era un uomo di colore e non poteva partecipare alla spartizione delle spoglie. Oltre al bottino cui Zouga e Ralph avevano diritto secondo l'Accordo di Victoria, entrambi avevano acquistato interi blocchi di concessioni dai soldati dissoluti e spendaccioni dell'esercito di Jameson: alcuni le avevano cedute per il prezo d'una bottiglia di whisky E quindi, tra tutti e due, potevano recintare l'intero dosso e gran parte dei fondovalle su entrambi i versanti. Era un lavoro faticoso ma urgente, perché c'erano altri cercatori in giro, e qualcuno di loro poteva averli seguiti a distanza. Lavorarono nel caldo meridiano e alla luce della luna fino a quando lo sfinimento li costrinse ad abbandonare le scuri e a buttarsi a terra per dormire. La quarta sera, finalmente, poterono fermarsi nella certezza d'essersi assicurati l'intero filone. Tra i loro paletti non c'erano varchi dove avrebbe potuto insinuarsi un altro cercatore. «Jan Cheroot, è rimasta una sola bottiglia di whisky» borbottò Zouga, stirandosi le spalle indolenzite. «Ma stasera lascerò che tu ne beva quanto ne vuoi.» Padre e figlio rimasero a guardare divertiti mentre Jan Cheroot riempiva fino all'orlo il boccale. Aveva ignorato completamente la linea intorno al fondo che segnava la sua razione quotidiana; e quando il boccale fu pieno, non si fidò a sollevarlo con la mano, ingurgitò la prima sorsata abbondante mettendosi accucciato come un cane. Ralph riprese la bottiglia ed esaminò malinconicamente il liquore rimasto prima di versare una razione per sé e per il padre. «Alla Miniera Harkness» brindò Zouga. «Perché la chiami così?» chiese Ralph, quando abbassò il boccale e si passò sui baffi il dorso della mano. «Fu il vecchio Tom Harkness a darmi la mappa che mi portò fin qui» rispose Zouga. «Potremmo trovare un nome più bello.» «Può darsi, ma questo mi sta bene.» «L'oro sarà lucente comunque, immagino» disse Ralph arrendendosi, e sistemò prudentemente la bottiglia fuori della portata di Jan Cheroot, che aveva già vuotato il boccale. «Sono contento che facciamo di nuovo qualcosa insieme, papà.» Ralph si appOggiò soddisfatto alla sella. «Sì» ammise Zouga, a voce bassa. «E' passato troppo tempo da quando abbiamo lavorato insieme nella miniera di diamanti a New Rush.» «Io conosco l'uomo adatto per aprire i pozzi. E' il migliore dei campi auriferi del Witwatersrand; e farò portare i macchinari con i miei carri prima dell'inizio delle piogge. S'erano accordati in precedenza: Ralph avrebbe fornito gli uomini, il macchinario e il denaro per mettere in attività la Miniera Harkness, quando Zouga l'avesse ritrovata. Ralph, infatti, era ricco. Qualcuno sosteneva che fosse già milionario, sebbene Zouga sapesse che era improbabile. Ma Zouga ricordava che Ralph aveva provveduto ai mezzi di trasporto e ai rifornimenti per la colonna del Mashonaland e per la spedizione contro Lobengula nel Matabeleland, ed era stato ben pagato dalla British South Africa Company del signor Rhodes... non in contanti, ma con azioni della compagnia. Come Zouga, aveva speculato acquistando le concessioni di terreni dagli sbandati improvvidi che avevano costituito il grosso della colonna e li aveva pagati con il whisky trasportato a mezzo dei suoi carri dal capolinea della ferrovia. La Rhodesia Land Company di Ralph possedeva più terre di quante ne avesse Zouga. Ralph aveva speculato anche sulle azioni della British South Africa Company.
In quei giorni esaltanti, quando la colonna aveva raggiunto Fort Salisbury, aveva venduto alla Borsa di Londra per tre sterline e quindici scellini le azioni che il signor Rhodes gli aveva ceduto a una sterlina. E poi, quando le grandi speranze dei pionieri erano appassite nel veld acido e nei giacimenti sterili del Mashonaland, e Rhodes e Jameson avevano preparato in segreto la guerra contro il re dei matabele, Ralph aveva ricomprato le azioni per otto scellini. Le aveva viste salire fino alla quotazione di otto sterline, quando la colonna era entrata fra le rovine in fiamme del kraal di Lobengula a Bulawayo e la Compagnia aveva aggiunto ai suoi possedimenti l'intero reame del sovrano matabele. Ora, mentre ascoltava il figlio che parlava con quell'energia carismatica e contagiosa, non smussata neppure dai giorni e dalle notti di fatica, Zouga ricordò che Ralph aveva posato le linee telegrafiche da Kimberley a Fort Salisbury, che le sue squadre di operai stavano costruendo in quel momento i binari verso Bulawayo, che i suoi duecento carri trasportavano merci a oltre cento posti di scambio, sempre di sua proprietà, sparsi nel Bechuanaland, nel Matabeleland e nel Mashonaland, e che adesso era anche padrone di metà d'una miniera d'oro, probabilmente ricca quanto quelle del favoloso Witwatersrand. Zouga sorrise tra sé mentre ascoltava Ralph che parlava nella luce guizzante del fuoco, e all'improvviso pensò: «Accidenti, può darsi che abbiano ragione, dopotutto... può darsi che il cucciolo sia già milionario.» E il suo orgoglio era sfumato d'invidia. Zouga aveva lavorato e sognato fin da molto tempo prima che Ralph nascesse, aveva compiuto sacrifici e affrontato traversie che lo facevano rabbrividire al ricordo... e ne aveva ricavato molto meno. A parte il nuovo filone, tutto ciò che gli avevano fruttato quegli anni di fatiche era rappresentato da King's Linn e da Louise... Ma poi sorrise: gli bastavano per sentirsi più ricco di quanto avrebbe mai potuto esserlo il signor Rhodes. Zouga sospirò, s'inclinò il cappello sugli occhi, pensò al viso amato di Louise e si abbandonò al sonno mentre, dall'altra parte del fuoco, Ralph continuava a parlare a voce bassa, a se stesso più che a suo padre, ed evocava nuove visioni di ricchezza e di potere. *** Impiegarono due giorni per ritornare ai carri; ma erano ancora a quasi un chilometro dal campo quando furono avvistati, e una marea gioiosa di servitori, bambini, cani e mogli venne rumorosamente a incontrarli. Ralph spronò il cavallo e si sporse dalla sella per sollevare Cathy, così bruscamente che i capelli le piovvero sul viso. Lei si lasciò sfuggire un grido e Ralph lo soffocò baciandola sulla bocca, e continuò a baciarla mentre il piccolo Jonathan saltellava impaziente intorno al cavallo e gridava: «Anch'io! Prendi in sella anche me, papà!» Quando infine Ralph smise di baciare la moglie, continuò a tenerla stretta a sé. Le solleticò l'orecchio con i baffi scuri e morbidi: «Appena saremo nella tenda, Katie, amor mio, collauderemo a dovere il tuo materasso nuovo.» Cathy arrossì e gli allungò uno schiaffetto affettuoso. Ralph rise, si chinò, sollevò Jonathan per un braccio e lo issò sulla groppa del castrone, dietro la sella. Il bambino gli passò le braccia intorno alla vita e chiese con voce acuta, un po' pigolante: «Hai trovato l'oro, papà?» «Una tonnellata.» «Hai sparato ai leoni?» «A cento.» «Hai ammazzato qualche matabele?» «La stagione di caccia è chiusa.» Ralph rise e gli arruffò i capelli folti e scuri, ma Cathy si affrettò a rimproverare il figlio. «Non devi chiedere certe cose a tuo padre, piccolo pagano assetato di sangue..» Louise seguì la donna più giovane e il bambino a passo più tranquillo, muovendosi con agile grazia sulla polvere della strada carraia. I capelli erano tirati all'indietro dalla fronte ampia e scendevano sul dorso in una grossa treccia che arrivava fino alla vita. La pettinatura metteva in risalto le arcate alte degli zigomi. Gli occhi avevano cambiato di nuovo colore. Zouga restava sempre affascinato nel vedere come i mutamenti d'umore si rispecchiassero nei grandi occhi a mandorla. Adesso erano d'un azzurro più
chiaro e tenero, il colore della felicità. Louise si fermò accanto alla testa del cavallo e Zouga smontò dalla staffa, si tolse il cappello e la osservò per un momento con aria solenne prima di parlare. «E' passato così poco tempo, eppure avevo dimenticato quanto sei bella» disse. «Non è stato poco tempo» ribatté Louise. «Ogni ora lontana da te è un'eternità.» Il campo era organizzato in modo piuttosto complesso, essendo la casa di Cathy e Ralph. Non ne avevano altre: si spostavano come zingari dove c'era la ricchezza a chiamarli. Quattro carri erano disposti sotto gli alti fichi selvatici sulla riva del fiume, un po' a monte del guado. Le tende erano di tela nuova, bianchissima; e una, un po' distante dalle altre, serviva per le abluzioni, e conteneva una vasca di ferro zincato dove ci si poteva distendere completamente. C'era un servitore addetto esclusivamente al compito di badare al bidone da quasi duecento litri che stava sul fuoco dietro la tenda e di portare l'acqua calda, di giorno e di notte. In un'altra tenda più piccola stava una seggetta che Cathy aveva dipinto a mano con un fregio di amorini e di mazzi di rose, e accanto alla seggetta aveva sistemato il massimo dei lussi: i fogli di soffice carta colorata e profumata in una cassetta di legno di sandalo. C'erano materassi di crine su ogni branda, comode sedie di tela, e un lungo tavolo a cavalletti per mangiare, sotto il lembo sollevato della tenda che fungeva da sala da pranzo. C'erano recipienti di tela per tenere in fresco lo champagne e la limonata, dispense protette dalla garza per impedire agli insetti di arrivare ai viveri, e trenta servitori. Servitori per tagliare la legna e alimentare i fuochi. servitori che lavavano e stiravano in modo che le donne potessero cambiar d'abito ogni giorno, altri che rifacevano i letti e spazzavano via ogni foglia caduta sul terreno nudo fra le tende e l'innaffiavano con l'acqua per non far alzare la polvere; una era addetta esclusivamente al signorino Jonathan, e lo lavava, lo faceva mangiare, lo portava in spalla e cantava per tenerlo tranquillo quando diventava petulante. C'erano servitori che cucinavano e servivano a tavola, accendevano le lanterne e all'imbrunire legavano i teli delle tende, e ce n'era uno che provvedeva a vuotare il secchio della seggetta dipinta a mano ogni volta che sentiva tintinnare la campanella. Ralph varcò a cavallo l'entrata dell'alta recinzione di rami spinosi che circondava l'intero campo per proteggerlo dalle scorrerie notturne dei branchi di leoni. Cathy era ancora in sella davanti a lui, suo figlio era dietro. Si guardò intorno soddisfatto e strinse la vita di Cathy. «Per Dio, che bellezza essere a casa. Un bagno caldo... e tu potrai lavarmi la schiena, Katie.» Ralph s'interruppe di colpo ed esclamò, sorpreso: «Accidenti, donna! Potevi avvertirmi!» «Non mi hai lasciato il tempo» protestò lei. In fondo alla fila dei carri era ferma una carrozza chiusa con le ruote molleggiate e i finestrini muniti d'imposte di teak per tener fuori il caldo. Sotto la polvere e il fango secco del lungo viaggio, la carrozza era d'un verde delicato, le portiere erano profilate di foglia d'oro come i bordi delle grandi ruote. L'interno era rifinito in lucida pelle verde, e le tende avevano nappe dorate. Sul tetto, nel portabagagli, erano legati i bauli di cuoio e ottone; e poco lontano, nel kraal cintato d'arbusti spinosi, i grossi muli bianchi tutti eguali masticavano i fasci d'erba fresca che i servitori di Ralph avevano tagliato sulla riva del fiume. «Come ha fatto a trovarci?» chiese Ralph mentre faceva scendere Cathy. Non aveva bisogno di chiedere chi fosse il visitatore. Quell'equipaggio magnifico era famoso in tutto il continente. «Siamo accampati a un paio di chilometri dalla strada principale che viene da sud» osservò irritata Cathy. «Era impossibile che non ci vedesse.» «E a quanto pare ha portato tutta la banda» borbottò Ralph. Nel kraal, oltre ai muli bianchi, c'erano due dozzine di purosangue. «Tutti i cavalli del re e tutti gli uomini del re» confermò Cathy, e in quel momento Zouga varcò il cancello con Louise al braccio. Era emozionato al pensiero del visitatore quanto Ralph era infastidito. «Louise mi ha detto che ha interrotto il viaggio per parlare con me.» «Allora è meglio che non lo faccia aspettare, papà.» Ralph sorrise ironicamente. Era strano: tutti gli uomini, persino il
maggiore Zouga Ballantyne, di solito così distaccato e padrone di sé, sembravano cadere sotto l'incantesimo del visitatore. Ralph si vantava d'essere l'unico che riusciva a resistere, anche se a volte gli era necessario un certo sforzo. Zouga s'era avviato a passo svelto lungo la fila dei carri, verso la recinzione interna, e Louise cercava di non farsi distanziare. Ralph indugiò di proposito per ammirare gli animali incredibili che Jonathan aveva modellato con l'argilla del fiume e adesso gli stava presentando. «Che splendidi ippopotami, Jon-Jon! Non sono ippopotami? Oh, capisco, gli sono cadute le corna, no? Bene, sono i cudù senza corna più belli e più grassi che abbia mai visto.» Cathy lo tirò per il braccio. «Sai che vuole parlare anche con te, Ralph» lo esortò; e Ralph si issò Jonathan sulle spalle, prese per mano Cathy (sapeva che quel quadretto domestico avrebbe irritato il visitatore), ed entrò nel recinto interno. I teli della tenda usata come sala da pranzo erano rialzati per lasciar passare la brezza pomeridiana; intorno al lungo tavolo erano seduti sei uomini. Al centro del gruppo troneggiava un personaggio imponente, insaccato in una giacca di costosa stoffa inglese chiusa fino all'ultimo bottone. Il nodo della cravatta era un po' allentato e i colori dell'Oriel College erano velati dalla polvere del lungo percorso compiuto dalla città diamantifera di Kimberley. Persino Ralph, che provava per quel gigante sgraziato un miscuglio ambivalente di ostilità e di riottosa ammirazione, fu colpito dai cambiamenti sopravvenuti in quei pochi anni. Le guance carnose erano cascanti, il colorito acceso e malsano. Aveva appena quarant'anni, ma i baffi e le basette erano sbiaditi dal biondo rossiccio all'argento opaco, e dimostrava quindici anni di più. Soltanto gli occhi celesti avevano conservato la forza e la mistica luce visionaria. «Bene, come va, Ralph?» La voce era chiara e acuta, incongrua in un uomo così massiccio. «Buon pomeriggio, signor Rhodes» rispose Ralph. Controvoglia, lasciò scivolare a terra il figlio. Il bambino corse subito via. «Come procede la mia ferrovia, mentre lei è qui a divertirsi?» «In anticipo sui piani e al di sotto delle spese preventivate» disse Ralph, rintuzzando il rimprovero appena velato. Con un certo sforzo, staccò lo sguardo dagli ipnotici occhi azzurri e lo girò sui due uomini seduti ai lati di Rhodes. A destra c'era l'ombra fedele del grand'uomo: piccolo, con le spalle strette, vestito con cura meticolosa quanto l'altro era trascurato. Aveva i lineamenti austeri e anonimi d'un maestro di scuola, i capelli radi e la fronte stempiata; ma gli occhi acuti e avidi contraddicevano il resto del suo aspetto. «Jameson.» Ralph gli rivolse un cenno di saluto, freddamente. Non usò il titolo ufficiale del dottor Leander Starr Ja meson, e neppure l'abituale, amichevole «dottor Jim.» «Il giovane Ballantyne.» Jameson sottolineò leggermente quel «giovane» con una sfumatura quasi insultante. Fin dall'inizio, tra loro c'era stata un'ostilità reciproca e istintiva. A sinistra di Rhodes si alzò un uomo più giovane con la schiena diritta e le spalle ampie, una bella faccia schietta e un sorriso amichevole che metteva in mostra i grossi denti candidi e regolari. «Salve, Ralph.» La stretta di mano era salda, l'accento del Kentucky disinvolto e simpatico. «Harry, stavo parlando di te proprio questa mattina.» Sinceramente compiaciuto, Ralph girò la testa verso Zouga. «Papà, questo è Harry Mellow, il miglior ingegnere minerario dell'Africa.» Zouga annuì. «Ci hanno già presentati.» Padre e figlio Si scambiarono un'occhiata d'intesa. Il giovane americano era l'uomo che Ralph aveva scelto per sfruttare la Miniera Harkness. Per Ralph non contava molto il fatto che Harry Mellow, come quasi tutti i giovani scapoli più promettenti dell'Africa meridionale, lavorasse già per Cecll John Rhodes, ed era deciso a trovare l'esca più adatta per indurlo in tentazione.
«Dobbiamo parlare, più tardi, Harry» mormorò, e si rivolse a un altro giovane seduto in fondo al tavolo. «Jordan» esclamò. «Per Dio, che gioia rivederti.» I due fratelli si abbracciarono, e Ralph non cercò di nascondere il suo affetto: ma del resto, Jordan era benvoluto da tutti. Lo apprezzavano non soltanto per la sua notevole bellezza e i modi gentili, ma anche per le numerose doti e il calore umano che irradiava. «Oh, Ralph, ho tante cose da chiederti e tante cose da raccontarti.» La felicità di Jordan era intensa quanto quella del fratello. «Più tardi, Jordan» s'intromise Rhodes in tono querulo. Non gradiva essere interrotto, e accennò a Jordan di tornare al suo posto. Jordan obbedì prontamente. Era il segretario personale di Rhodes da quando aveva diciannove anni, e la docilità ai capricci del padrone era diventata per lui una seconda natura. Rhodes lanciò un'occhiata a Cathy e Louise. «Signore, sono certo che i nostri discorsi vi annoierebbero, e senza dubbio avrete cose urgenti da fare.» Cathy alzò il viso verso il marito e vide il lampo d'irritazione per l'arroganza indissimulata con cui Rhodes sembrava aver preso possesso dell'accampamento e di tutto ciò che conteneva. Gli strinse di nascosto la mano per calmarlo e lo sentì rilassarsi un poco. C'era un limite anche per gli atteggiamenti di sfida di Ralph. Anche se non era un subordinato di Rhodes, sapeva che il contratto della ferrovia e i cento percorsi dei suoi carri dipendevano da lui. Poi Cathy guardò Louise e si accorse che anche lei era urtata da quel commiato: c'era un lampo azzurro nei suoi occhi, e un lieve rossore sulle guance spruzzate di lentiggini. Ma rispose in tono impassibile: «Ha ragione; signor Rhodes. Se vuole scusarci...» Tutti sapevano che Rhodes si sentiva a disagio in presenza delle donne. Non aveva alle sue dipendenze neppure una serva, e nella lussuosa residenza di Groote Schuur, al Capo di Buona Speranza, non tollerava quadri o statue di donne. Non sopportava neppure di avere collaboratori stretti che fossero ammogliati, e licenziava anche il dipendente più fidato se si permetteva di sposarsi. «Non può obbedire ai capricci d'una donna e nel contempo servire me» spiegava quando allontanava il colpevole. Rhodes chiamò Ralph con un cenno. «Si sieda qui, dove posso vederla» ordinò, e tornò a rivolgersi immediatamente a Zouga per tempestarlo di domande. Erano domande secche come sferzate, ma l'attenzione con cui ascoltava le risposte testimoniava il suo rispetto per Zouga Ballantyne. Si conoscevano da molti anni, dai primi tempi degli scavi al kopje diamantifero di Colesberg, ribattezzato in seguito Kimberley in onore del segretario delle Colonie che l'aveva accettato nei dominions di Sua Maestà la Regina. Un tempo, in quegli scavi, Zouga aveva sfruttato concessioni dalle quali era uscito tra l'altro anche il famoso diamante Ballantyne; ma adesso tutte le concessioni erano di proprietà di Rhodes, come le altre. In seguito Rhodes aveva inviato Zouga come suo agente personale al kraal di Lobengula, il re dei matabele, perché parlava correntemente la lingua locale. Quando il dottor Jameson aveva guidato la sua colonna volante nella fulminea, vittoriosa offensiva contro il re, Zouga l'aveva accompagnato come ufficiale ed era stato il primo a entrare nel kraal incendiato di Bulawayo dopo la fuga del sovrano. Alla morte di Lobengula, Rhodes aveva nominato Zouga «custode delle proprietà nemiche» e l'aveva incaricato di rastrellare le mandrie dei matabele e di distribuirle come bottino di guerra alla Compagnia e ai volontari di Jameson. Quando Zouga aveva ultimato quel compito, Rhodes avrebbe voluto nominarlo capo-commissario per i rapporti con gli indigeni, per trattare con gli induna dei matabele; ma Zouga aveva preferito ritirarsi nella tenuta di King's Linn con la nuova moglie, e aveva lasciato che quell'incarico fosse assegnato al generale Mungo St John. Tuttavia Zouga faceva ancora parte del consiglio della British South Africa Company, e Rhodes si fidava di lui come di pochi altri. «Il Matabeleland prospera, signor Rhodes» riferì Zouga. «Vedrà che Bulawayo è ormai quasi una città, con la scuola e l'ospedale. E nel territorio vi sono già più di seicento donne e bambini bianchi:
è un segno sicuro che i coloni hanno intenzione di restare. Tutte le terre in concessione sono state occupate, e si lavora già in molte fattorie. Il bestiame pregiato venuto dal Capo si sta abituando alle condizioni locali e s'incrocia bene con i bovini tolti ai matabele.» «E i minerali, Ballantyne?» «Sono state registrate più di diecimila concessioni, e ho visto con i miei occhi alcuni filoni piuttosto ricchi.» Zouga esitò, lanciò un'occhiata al figlio e, quando quello annuì, si rivolse di nuovO a Rhodes. «In questi ultimi giorni io e mio figlio abbiamo ritrovato e cintato l'antica miniera che avevo scoperto per caso negli anni '60.» «La Miniera Harkness.» Rhodes annuì enfaticamente, e persino Ralph rimase colpito da quella memoria prodigiosa. «Ricordo la sua descrizione nell'Odissea di un cacciatore. Ha prelevato campioni della vena?» Anziché rispondere, Zouga posò sul tavolo una dozzina di frammenti di quarzo, e gli uomini seduti tutto intorno si protesero a guardare affascinati il brillio dell'oro grezzo. Rhodes rigirò un campione tra le grosse mani maculate prima di passarlo all'ingegnere americano. «Cosa ne pensa, Harry?» «Renderà cinquanta once la tonnellata.» Harry zufolò tra i denti. «Forse è troppo ricco, come Nome e il Klondike.» Poi l'americano alzò gli occhi verso Ralph. «Che spessore ha il ifilone? Che ampiezza?» Ralph scrollò la testa. «Non lo so. Le gallerie sono troppo strette per arrivarci.» «Questo è quarzo naturalmente, non è il banket aurifero del Witwatersrand» mormorò Harry Mellow. Il banket aveva preso il nome dal doke di caramello, noci, mandorle e chiodi di garofano al quale somigliava incredibilmente il conglomerato aurifero. Era formato dai sedimenti dei letti di antichi laghi interrati, e non era ricco d'oro quanto quel frammento di quarzo; ma aveva uno spessore di qualche metro e si estendeva quanto s'erano estesi un tempo i laghi: un giacimento che poteva essere sfruttato per un secolo senza che si esaurisse. «E' troppo ricco» ripeté Harry Mellow, gingillandosi con il campione. «Non posso credere che la vena abbia uno spessore superiore a qualche centimetro.» «Ma se non fosse così?» chiese bruscamente Rhodes. L'americano sorrise. «Allora, signor Rhodes, lei controllerebbe non soltanto quasi tutta la produzione diamantifera del mondo, ma anche gran parte di quella dell'oro.» Quelle parole rammentarono di colpo a Ralph che la British South Africa Company aveva una percentuale del cinquanta per cento su tutto l'oro estratto nel Matabeleland; e il risentimento lo riassalì. Rhodes e la sua onnipresente Compagnia erano come un'immensa piovra che soffocava le iniziative e le fortune di tutti gli altri. «Permetterà a Harry di venire con me per qualche giorno, signor Rhodes, per esaminare il giacimento?» L'irritazione rese più tagliente il tono della richiesta di Ralph; Rhodes alzò la grossa testa ispida, lo scrutò con gli occhi celesti per un momento come se volesse leggergli nell'anima; poi annuì, cambiò fulmineamente argomento e lanciò una domanda a Zouga. «Gli induna dei matabele... come si comportano?» Questa volta Zouga esitò. «Si lamentano, signor Rhodes.» «Sì?» La faccia gonfia si contrasse in una smorfia. «Logicamente, il bestiame è la causa principale dei problemi» disse Zouga, e Rhodes lo interruppe. «Abbiamo catturato meno di centoventicinquemila capi, e ne abbiamo restituiti quarantamila alla tribù.» Zouga non gli rammentò che la restituzione era stata effettuata solo dopo le energiche proteste di sua sorella Robyn St John. Robyn era la dottoressa della Missione di Khami, e un tempo era stata amica e consigliera di Lobengula. «Quarantamila capi di bestiame, Ballantyne! Un gesto molto generoso da parte della Compagnia!» ripeté Rhodes in tono solenne. Non precisò di aver ordinato la restituzione per scongiurare la carestia che, come aveva previsto Robyn St John, avrebbe decimato la nazione degli sconfitti matabele e avrebbe sicuramente provocato l'intervento del governo imperiale, forse addirittura la revoca della Concessione Reale... ed era grazie a quella concessione che la Compagnia di Rhodes regnava sul Mashonaland e sul Matabeleland. Non era stato un grande gesto di carità, dopotutto, pensò Ralph.
«E dopo aver reso agli induna quei quarantamila capi, a noi ne sono rimasti meno di ottantacinquemila, e la Compagnia si è rifatta a stento delle spese della guerra.» «Comunque gli induna sostengono che gli sono state restituite soltanto bestie scadenti, le mucche più vecchie e sterili e i tori più patiti.» «Dannazione, Ballantyne, i volontari s'erano guadagnati il diritto alla prima scelta. Era naturale che prendessero i capi migliori.» Rhodes puntò l'indice verso il cuore di Zouga, come la canna d'una pistola. «Dicono che le nostre bestie, scelte tra le mandrie catturate, siano le migliori del Matabeleland.» «Gli induna non lo capiscono» rispose Zouga. «Bene, almeno dovrebbero capire che sono una nazione sottomessa. Il loro benessere dipende dalla benevolenza dei vincitori. Non erano altrettanto generosi con le tribù che sconfiggevano, quando signoreggiavano sul continente. Mzilikazi massacrò un milione d'individui indifesi quando devastò il territorio a sud del Limpopo; e suo figlio Lobengula affermava che le tribù minori erano i suoi cani, e che poteva sterminarle o renderle schiave a suo capriccio. E' inutile che adesso piagnucolino perché sentono anche loro il sapore amaro della sconfitta.» Jordan annuì a quelle parole. «Una delle ragioni per cui abbiamo marciato su Bulawayo è stata quella di proteggere le tribù mashona dalle depredazioni di Lobengula» mormorò. «Ho detto che gli induna si lagnano» osservò Zouga. «Non ho detto che hanno ragione.» «Di che altro si lamentano?» chiese Rhodes. «Della polizia. I giovani matabele arruolati e armati dal generale St John spadroneggiano nei kraal, usurpano il potere degli induna, si prendono le ragazze più belle...» Rhodes l'interruppe di nuovo. «Meglio così, piuttosto che una rinascita degli impi agli ordini degli induna. Immagina ventimila guerrieri comandati da Babiaan e Gandank e Bazo? No, St John ha fatto bene a spezare il potere degli induna, e quale commissario per i rapporti con gli indigeni ha il dovere di prevenire il risorgere delle tradizioni bellicose dei matabele.» «Soprattutto in vista degli avvenimenti che si stanno preparando a sud.» Il dottor Leander Starr Jameson parlò per la prima volta da quando aveva salutato Ralph. Rhodes si girò verso di lui. «Mi chiedo se è il momento di parlarne, dottor Jim.» «Perché no? Tutti i presenti sono uomini discreti e degm di fiducia. Siamo tutti votati alla stessa visione luminosa dell'Impero e, Dio lo sa, non c'è pericolo che qualche estraneo ci ascolti. Mi sembra il momento migliore per spiegare perché la polizia della Compagnia debba essere ancora rafforzata, e meglio armata e addestrata» ribatté Jameson. Istintivamente, Rhodes lanciò un'occhiata a Ralph Ballantyne, e Ralph inarcò un sopracciglio in un gesto cinico di blanda sfida che parve decidere Rhodes. «No, dottor Jim. In un'altra occasione.» E quando Jaméson capitolò con una spallucciata, Rhodes si rivolse a Jordan. «Il sole sta tramontando» disse, e Jordan si alzò, obbediente, per riempire i bicchieri. Il whisky del tramonto era già la conclusione tradizionale della giornata in quella terra a nord del Limpopo. *** Le fulgide gemme bianche della Croce del Sud brillavano sopra l'accampamento di Ralph, affievolivano al confronto le stelle minori e inondavano le cupole brulle dei kopje granitici d'una luce perlacea mentre Ralph si avviava verso la sua tenda. Aveva ereditato dal padre la capacità di reggere l'alcol, e il suo passo era saldo e sicuro. Erano le idee, non il whisky, a inebriarlo. Si chinò per passare sotto il telo della tenda buia e sedette sul bordo della branda. Toccò la guancia di Cathy. «Sono sveglia» disse lei. «Che ore sono?» «Mezzanotte passata.» «Cosa ti ha trattenuto tanto a lungo?» chiese Cathy, sottovoce perché Jonathan dormiva al di là dello schermo di tela. «I sogni e le vanterie di uomini ubriachi di potere e di successo.» Ralph sorrise nell'oscurità e si sfilò gli stivali. «E per Dio, anch'io ho sognato e mi sono vantato come gli altri.» Poi si alzò per togliersi i calzoni. «Come ti sembra Harry Mellow?» chiese, cambiando argomento.
«L'americano. E' molto...» Cathy esitò. «Voglio dire, mi sembra virile e piuttosto simpatico.» «Attraente?» chiese Ralph. «Irresistibile per una giovane donna?» «Sai bene che non la penso così» protestò Cathy con aria virtuosa. «Un corno» rise Ralph. La baciò cingendole con la mano un seno tornito. Attraverso la sottile camicia da notte di cotone; era sodo come un melone maturo. Cathy si svincolò dolcemente per liberarsi dalle sue labbra e dalle dita, ma Ralph la trattenne e dopo qualche secondo lei non lottò più, gli passò le braccia intorno al collo. «Sai di sudore, di sigari e di whisky.» «Scusami.» «Non scusarti, mi piace» sussurrò Cathy. «Lascia che mi tolga la camicia.» «No, te la tolgo io.» Molto più tardi, Ralph si adagiò supino mentre Cathy gli si raggomitolava contro il petto nudo. «Ti piàcerebbe se venissero le tue sorelle da Khami?» le chiese all'improvviso. «La vita all'accampamento gli piace, ma soprattutto sarebbero contente di sfuggire per un po' a tua madre.» «Ero io che volevo invitare le gemelle» gli rammentò Cathy con voce assonnata. «E tu hai obiettato perché portavano troppo... scompiglio.» «Per l'esattezza ho detto che erano troppo chiassose» la corresse Ralph. Cathy alzò la testa e lo fissò nel fievole chiaro di luna filtrato dalla tenda. «Hai cambiato idea...» Rifletté per un momento. Sapeva che suo marito aveva sempre una ragione valida anche per i suggerimenti più irrazionali. «L'americano!» esclamò con tanta forza che Jonathan, dietro lo schermo di tela, si mosse e gemette nel sonno. Cathy abbassò di colpo la voce in un mormorio indignato. «Non penserai di servirti delle mie sorelle... vero?» Ralph l'attirò di nuovo vicina. «Ormai sono cresciute. Quanti anni hanno?» «Diciotto.» Il pelo madido del petto di Ralph le solleticava le narici. «Ma...» «Sono già vecchie zitelle.» «Non vorrai servirti di loro?» «A Khami non potranno mai conoscere qualche giovane perbene. Tua madre li fa scappare tutti.» «Sei tremendo, Ralph Ballantyne.» «Ti piacerebbe che ti dimostrassi quanto sono tremendo?» Cathy rifletté per un istante, e poi; «Sì, ti prego» disse con una risata sommessa. *** «Un giorno verrò con te» disse Jonathan. «Non è vero, papà?» «Sì, molto presto» rispose Ralph, scarruffando i riccioli scuri del bambino. «Ma ora voglio che abbia cura di tua madre durante la mia assenza, Jon-Jon.» Jonathan annuì, pallido ma deciso, e represse con forza le lacrime. «Lo prometti?» Ralph strinse a sé il figlio, si sporse dalla sella e lo posò a terra a fianco di Cathy. Jonathan prese la mano della madre come per proteggerla, anche se non le arrivava neppure al fianco. «Prometto, papà» disse, e deglutì guardando il padre in sella al grande cavallo. Ralph sfiorò delicatamente la guancia di Cathy con la punta delle dita. «Ti amo» disse lei, a voce bassa. «Katie, sei bellissima.» Era vero. I primi raggi dorati del sole trasformavano i suoi capelli in un alone luminoso, ed era serena come una madonna nella certezza profonda del loro amore. Ralph spronò il castrone e si allontanò; Harry Mellow girò il suo cavallo per raggiungerlo. Era uno splendido purosangue fulvo della scuderia privata di Rhodes, e Mellow lo cavalcava al modo di un uomo delle pianure. Giunti al limitare della foresta i due si voltarono a guardare. La donna e il bambino erano ancora là, al cancello della recinzione. «Sei fortunato» disse Harry a voce bassa. «Senza una donna non c'è presente, e senza un figlio non c'è domani» ammise Ralph. *** Gli avvoltoi erano ancora posati sugli alberi sebbene le ossa dei leoni fossero già spolpate e disperse sul suolo sassoso del dosso. Dovevano digerire il contenuto dei ventri gonfi prima di poter
volar via, e le sagome scure profilate contro il limpido cielo invernale guidavano Ralph e Harry per gli ultimi chilometri, fino alla cresta della Miniera Harkness. «Sembra promettente.» Harry espresse un giudizio guardingo quella prima sera, mentre stavano accosciati intorno al fuoco. «La roccia è a contatto con il filone. Può darsi che il filone prosegua in profondità, e abbiamo seguito la vena per oltre tre chilometri. Domani segnerò i punti dove dovrai scavare i pozzi per la prospezione.» «Ci sono masse di minerale attraverso l'intero territorio» disse Ralph. «La continuazione della grande mezzaluna d'oro dei giacimenti del Witwatersrand e di Pilgrim's Rest e di Tati s'incurva e passa da qui...» Ralph s'interruppe. «Ma tu hai un dono particolare. Dicono che senti l'odore dell'oro a cento chilometri di distanza.» Harry liquidò quell'affermazione con un cenno modesto, agitando la tazza del caffè, ma Ralph continuò: «E io ho i carri e il capitale per la prospezione e per sfruttare quello che si troverà. Mi sei simpatico, Harry. Credo che lavoreremmo bene insieme: prima la Miniera Harkness e poi... chissà, forse tutto il paese.» Harry fece per parlare ma Ralph gli posò una mano sul braccio per trattenerlo. «Il continente è uno scrigno di tesori. I giacimenti diamantiferi di Kimberley e il bankét di Witwatersrand, a fianco a fianco, tutti i diamanti e tutto l'oro così vicini... chi l'avrebbe mai creduto?» «Ralph.» Harry scrollò la testa. «Io lavoro già per il signor Rhodes.» Ralph sospirò e fissò le fiamme per un minuto. Poi riaccese il sigaro spento e incominciò a discutere con il suo modo di fare più plausibile e convincente. Un'ora dopo, mentre si avvolgeva nella coperta, ripeté la proposta. «Finché lavori per Rhodes, non sarai mai padrone di te stesso. Sarai sempre un servitore.» «Anche tu lavori per il signor Rhodes, Ralph.» «Ho un contratto con lui, Harry, ma i profitti e le peralte sono miei. Sono ancora padrone della mia anima. «E io no» rise Harry. «Associati a me. Vedrai che cosa significa puntare sulle proprie carte, calcolare i rischi e dare gli ordini anziché riceverli. La vita è tutta un gioco, Harry, e c'è solo un modo per giocare, senza tirarsi indietro.» «Sono alle dipendenze di Rhodes.» «Ne riparleremo quando verrà il momento» disse Ralph, tirandosi la coperta sopra la testa. Dopo pochi minuti il suo respiro divenne lento e regolare. *** L'indomani mattina Harry segnò i punti per le prospezioni con mucchi di pietre, e Ralph notò con quanta abilità stava suddividendo la linea prolungata del filone per individuarla di nuovo a una certa profondità. Per mezzogiorno Harry aveva finito; e, mentre sellavano i cavalli, Ralph calcolò rapidamente che sarebbero trascorsi altri due giorni prima che le sorelle di Cathy arrivassero al campo base dalla Missione di Khami. «Dato che siamo arrivati fin qui, dovremmo fare una puntata verso est prima di tornare indietro. Dio sa che altro potremmo trovare... ancora oro, diamanti.» E quando Harry esitò, Ralph insistette: «Il signor Rhodes avrà già ripreso il viaggio per Bulawayo. E là terrà corte almeno per un mese. Non sentirà la tua mancanza.» Harry rinetté per un momento, poi sorrise come uno studentello che si prepara a marinare la scuola per saccheggiare un frutteto. «Andiamo!» disse. Procedevano lentamente. A ogni fiume che incontravano, smontavano per esaminare con la bateia la ghiaia delle verdi lanche stagnanti. Nei punti dove le rocce affioravano dallo strato di terra si fermavano per prelevare campioni. Frugavano nelle tane degli oritteropi e degli istrici e nei nidi delle termiti bianche per scoprire quali granelli e quali frammenti avevano portato dalle viscere della terra. Il terzo giorno Harry disse: «Abbiamo individuato una dozzina di posti promettenti. M'interessano in particolare quei cristalli di berillio. Di solito indicano la presenza di giacimenti di smeraldi.» L'entusiasmo di Harry era cresciuto a ogni chilometro; ma ormai erano arrivati al limite eslremo della puntata verso est, e persino Ralph si rendeva conto che era tempo di tornare indietro. Erano a
cinque giorni di distanza dal campo base, avevano dato fondo al caffè, allo zucchero e alla farina; e Cathy, ormai, doveva essere in ansia. Diedero un'ultima occhiata al territorio che per il momento dovevano rinunciare a esplorare. «E' splendido» mormorò Harry. «Non ho mai visto zona più bella. Come si chiamano quelle colline?» «Quella è la parte meridionale delle Matopos.» «Ne ho sentito parlare dal signor Rhodes. Non sono le colline sacre dei matabele?» Ralph annuì. «Se credessi nella stregoneria...» S'interruppe e ridacchiò imbarazzato. «C'è qualcosa di particolare in quelle colline.» Il primo rosseggiare del tramonto, nel cielo ad occidente, inondava la roccia levigata delle colline cupe e lontane, facendola brillare come un marmo rosato. Le cime erano inghirlandate da fragili serti di nubi che i raggi obliqui tingevano di sfumature avorio e cenere. «Là c'è una grotta segreta, dove viveva una strega che presiedeva le tribù. Mio padre guidò un commando fin lassù e la uccise all'inizio della guerra contro Lobengula.» «Ne ho sentito parlare. E' già una leggenda.» «Ma è vero. Dicono...» Ralph s'interruppe e studiò l'alta catena turrita con un'espressione pensosa. «Quelle non sono nuvole, Harry» disse infine. «E' fumo. Eppure non ci sono kraal nelle Matopos. Potrebbe essere un incendio della boscaglia; ma non credo, non è sviluppato su un fronte ampio.» «Allora da dove viene il fumo?» «E' quel che scopriremo» rispose Ralph; e prima che Harry avesse tempo di protestare lanciò il cavallo al piccolo galoppo attraverso le piane di smorta erba invernale verso l'alto bastione di granito nudo che ostruiva l'orizzonte. *** Un guerriero matabele sedeva in disparte dagli uomini che sciamavano intorno ai forni di terra. Sedeva all'ombra di un cripplevvood. Era magro, e le costole spiccavano attraverso il rivestimento dei muscoli elastici, sotto il mantello. La pelle bruciata dal sole aveva il nero notturno dell'ebano scolpito ed era lucente di salute come il manto di un purosangue, sfregiata soltanto dalle vecchie cicatrici delle ferite d'arma da fuoco sul petto e sul dorso. Indossava un semplice gonnellino e un mantello di pelle conciata, senza piume e sonagli da guerra, code o pennacchi di marabù sulla testa scoperta. Era disarmato, perché i bianchi avevano fatto falò dei lunghi scudi di cuoio e avevano portato via carri e carri di assegai argentei; avevano confiscato anche i fucili Martini-Henry che la Compagnia aveva consegnato al re Lobengula in cambio della concessione dei diritti su tutte le ricchezze minerarie sepolte nelle viscere di quel territorio. Il guerriero portava intorno alla testa l'anello degli induna: era di gomma e d'argilla, intessuto permanentemente nei capelli, e nero e duro come il ferro. Quel simbolo del rango rivelava al mondo che un tempo era stato uno dei consiglieri di Lobengula, l'ultimo re dei matabele. Quell'anello semplicissimo proclamava la sua discendenza reale, il sangue zanzi della tribù dei kumalo che risaliva puro e incorrotto fino al vecchio Zululand, quasi duemila chilometri più a sud. Mzilikazi era stato il nonno di quell'uomo; Mzilikazi, che aveva sfidato il tiranno Chaka e aveva guidato il suo popolo lontano, verso il nord. Mzilikazi, il piccolo capo che aveva massacrato un milione di esseri umani in quella marcia terribile ed era diventato un imperatore potente e crudele non meno di Chaka. Mzilikazi, suo nonno, che aveva finalmente condotto la nazione in quella terra ricca e bellissima ed era stato il primo ad addentrarsi fra le colline magiche e ad ascoltare la miriade di voci misteriose dell'Umlimo, l'Eletta, strega e oracolo delle Matopos. Lobengula, figlio di Mzilikazi, che aveva regnato sui matabele dopo la morte del vecchio re, era lo zio paterno del giovane. Lobengula gli aveva accordato l'onore di quell'anello degli induna, e l'aveva nominato comandante d'uno degli impi scelti. Ma ormai Lobengula era morto e l'impi del giovane inluna era stato annientato dalle mitragliatrici Maxim sulle rive del fiume Shangani, e le stesse Maxim l'avevano marchiato con quelle profonde cicatrici corrugate.
Il suo nome era Bazo, che significa «l'Ascia» ma ormai gli uomini lo chiamavano più spesso «il Vagabondo.» Era rimasto seduto tutto il giorno ai piedi del cripplevvood a osservare i fabbri che compivano i loro riti, perché la nascita del ferro era un mistero per tutti a eccezione degli iniziati. I fabbri non erano matabele: appartenevano a una tribù ancora più vecchia, l'antico popolo le cui origini erano legate alle magiche mura in rovina della Grande Zimbabwe. Sebbene i nuovi padroni bianchi e la loro regina che stava al di là dei mari avessero decretato che i matabele non dovevano più possedere amaholi, schiavi, i fabbri rozwi erano ancora i cani dei matabele e mettevano la loro arte al servizio dei loro bellicosi signori. I dieci fabbri rozwi più anziani e saggi avevano selezionato il minerale nella cava, e avevano discusso su ogni frammento come donne vanitose che scelgono le conterie offerte dai mercanti. Avevano giudicato il minerale secondo il colore e il peso e la perfezione del metallo che conteneva e la purezza, e l'avevano frantumato sulle incudini di pietra fino a quando ogni pezzo aveva raggiunto la grandezza voluta. E mentre lavoravano con cura e attenzione, alcuni apprendisti tagliavano e bruciavano nelle fosse i tronchi degli alberi per preparare il carbone dolce, e controllavano la combustione aggiungendo strati di terra che poi irroravano d'acqua. Nel frattempo un altro gruppo di apprendisti aveva fatto il lungo viaggio fino alle cave di calcare ed era tornato con il catalizzatore spezzettato dentro i sacchi di cuoio appesi ai dorsi dei buoi. Quando i mastri fabbri avevano approvato con riluttanza la qualità del carbone di legna e del calcare, era incominciata la costruzione dei forni d'argilla. Ogni forno aveva la forma del ventre d'una donna gravida, un grosso ventre a cupola nel quale sarebbero stati disposti gli strati alterni di minerale di ferro, di carbone e di calcare. La parte inferiore del forno era l'inguine, vigilato dalle cosce d'argilla simbolicamente tronche, e in mezzo stava la stretta apertura in cui doveva inserirsi il becco di corno del mantice di cuoio. Quando tutto fu pronto, il capo dei fabbri mozzò la testa al gallo sacrificale e si avviò lungo la fila dei forni, spruzzandoli con il sangue caldo mentre salmodiava il primo degli antichi incantesimi dello spirito del ferro. Bazo osservava affascinato, con un brivido di reverenza superstiziosa, mentre il fuoco veniva introdotto nelle aperture vaginali dei forni: era il momento magico della fecondazione, salutato con un grido gioioso dai fabbri radunati. Poi i giovani apprendisti incominciarono ad azionare i mantici di cuoio con una sorta d'estasi religiosa, cantando gli inni che assicuravano la riuscita della fusione e davano il ritmo ai loro movimenti. Quando un apprendista si ritirava esausto, un altro prendeva il suo posto per continuare a insufflare l'aria nelle viscere del forno. Una lieve coltre di fumo aleggiava sopra la radura; come la nebbia marina in una calma giornata estiva, saliva per attorcersi lentamente intorno alle alte vette brulle delle colline. Era venuto il momento di far scorrere il metallo fuso: e quando il capo dei fabbri tolse il tappo di creta dal primo forno, un grido gioioso di ringraziamento salutò il rivolo ardente che sgorgava dal grembo della cupola d'argilla. Bazo si sorprese a fremere d'eccitazione e di stupore, come il giorno in cui il suo primogenito era nato in una delle grotte tra quelle colline. «La nascita delle lame» mormorò; con l'immaginazione udiva già il clangore dei magli che battevano sul metallo, lo sfrigolio sibilante dell'immersione che avrebbe temprato il filo e la punta delle larghe lance. Un tocco sulla sPalla lo strappò alla fantasticheria. Alzò gli occhi verso la donna che gli stava accanto, e sorrise. La donna portava il gonnellino di pelle ornato di perline delle coniugate; ma non c'erano monili intorno ai suoi arti giovani e snelli. Il corpo della donna era diritto e sodo, i seni nudi simmetrici e perfettamente proporzionati. Sebbene avessero già allattato un figlio maschio, non erano deturpati da grinze. Il ventre era concavo come quello d'un levriero, la pelle liscia e tesa come un tamburo. Il collo era lungo ed elegante, il naso diritto e sottile, gli occhi obliqui sopra gli archi egizi degli zigomi. I lineamenti erano quelli di molte statuette ritrovate nelle tombe degli antichi faraoni.
«Tanase» disse Bazo, «altre mille lame.» Poi vide l'espressione della donna e s'interruppe. «Cosa c'è?» chiese allarmato. «Cavalieri» disse la donna. «Due cavalieri. Due uomini bianchi che vengono dalle foreste al sud, e si avvicinano rapidamente.» Bazo si alzò con un unico movimento, svelto come un leopardo all'appressarsi dei cacciatori. Soltanto allora la statura e l'ampiezza delle spalle divennero evidenti: torreggiava di tutta la testa sui fabbri che gli stavano intorno. Si portò alle labbra il fischietto di corno che gli pendeva da un lacciolo intorno al collo e soffiò un'unica nota acuta. Immediatamente il trambusto intorno ai forni cessò, il capo dei fabbri corse verso di lui. «Quanto tempo occorre per estrarre il resto del metallo fuso e distruggere i forni?» chiese Bazo. «Due giorni, signore» rispose il fabbro con un inchino rispettoso. Il fumo gli aveva iniettato gli occhi di sangue e gli aveva tinto di gialliccio i candidi capelli lanosi. «Avete tempo fino all'alba...» «Signore!» «Lavorate tutta la notte, ma fate in modo che i fuochi non si vedano dalla pianura.» Bazo gli voltò le spalle e salì il ripido pendio per raggiungere altri venti uomini che attendevano sotto la cima di granito della collina. Come Bazo, anche quegli uomini portavano semplici gonnellini di pelle ed erano inermi; ma i loro corpi erano temprati e affinati dalla guerra e dalla preparazione alla guerra, e c'era l'arroganza dei guerrieri nel loro atteggiamento quando si alzarono per accogliere l'induna. I loro occhi ardevano. Non c'era dubbio: erano matabele e non cani amaholi. «Seguitemi!» ordinò Bazo, e li condusse al trotto lungo la parte più bassa della collina. Ai piedi del dirupo c'era una stretta caverna: Bazo scostò i rampicanti che nascondevano l'imboccatura e si chinò per entrare nell'interno buio. La grotta era profonda non più di dieci passi, e terminava in un ammasso di macigni. Bazo fece un gesto e due dei suoi uomini si diressero verso il fondo della caverna e spostarono i massi. Nell'apertura così rivelata c'era un luccichio di metallo, come di squame d'un rettile addormentato. Bazo si scostò dall'imboccatura e i raggi obliqui del sole al tramonto penetrarono fino a illuminare l'arsenale segreto. Gli assegai erano ammonticchiati in gruppi di dieci e legati insieme da laccioli di cuoio. I due guerrieri sollevarono un fascio, spezzarono le cinghie e distribuirono in fretta le armi. Bazo brandì la lancia. L'asta era di legno rosso del mkusi, l'albero del sangue; la lama era forgiata a mano, larga quanto il suo palmo e lunga come l'avambraccio. Era così affilata che avrebbe potuto usarla per radersi la peluria sul dorso della mano. Fino a quel momento s'era sentito nudo: ma adesso che sentiva nel pugno quel peso bilanciato, era di nuovo un uomo. Indicò ai suoi di rimettere a posto i macigni per coprire il nascondiglio delle lame nuove, e li guidò di nuovo lungo il sentiero. Tanase lo aspettava su un cornicione di roccia che dominava un ampio tratto delle pianure erbose. Più lontano, le foreste azzurre sognavano dolcemente nella luce della sera. «Là.» Tanase indicò e Bazo li vide immediatamente. Due cavalli che procedevano con scioltezza al piccolo galoppo. Erano arrivati ai piedi delle colline e le stavano costeggiando, in cerca d'un percorso agevole. I cavalieri scrutavano l'intrico dei macigni e le lisce pareti madreperlacee di granito che non offrivano alcun appiglio. C'erano due sole piste d'accesso che portavano alla valle dei fabbri; entrambe erano strette e ripide, e avevano strozzature che si potevano difendere facilmente. Bazo si voltò a guardare, Il fuoco dei forni si andava disperdendo e c'erano soltanto poche spire smorte che s'attorcevano lungo i grigi strapiombi di granito. L'indomani mattina non vi sarebbe stato più nulla che potesse guidare un viaggiatore curioso verso quel luogo segreto; ma restava ancota un'ora di luce, forse meno, perché la notte discende con sorprendente rapidità in Africa a nord del fiume Limpopo. «Devo trattenerli fino a quando verrà buio» disse Bazo. «Devo farli tornare indietro prima che trovino il sentiero.» «E se non si lasceranno convincere a tornare indietro?» chiese Tanase sottovoce; e per tutta risposta Bazo modificò la stretta sull'assegai; poi trasse rapidamente indietro Tanase dal cornicione, perché i cavalieri s'erano fermati e uno di loro, quello più alto e robusto, stava scrutando attento il fianco della collina con un binocolo.
«Dov'è mio figlio?» chiese Bazo. «Nella grotta» rispose Tanase. «Sai che cosa fare se...» Non era necessario che continuasse, e Tanase annuì. «Lo so» mormorò, e Bazo la lasciò e scese a balzi l'erto sentiero, seguito da venti amadoda armati. Bazo si fermò nella strettoia che aveva scelto. Non ebbe bisogno di parlare. A un gesto della sua mano libera gli uomini lasciarono il sentiero e sparirono negli anfratti tra i giganteschi macigni. Dopo pochi secondi, di loro non era rimasta traccia. Bazo spezzò un ramo d'uno degli alberi nani che crescevano in un angolo pietroso e tornò indietro di corsa, spazzando dalla pista ogni segno che potesse rivelare l'imboscata a un occhio diffidente. Poi posò l'assegai su un cornicione e lo coprì con il ramo. Sarebbe stato a portata di mano, se fosse stato costretto a guidare i cavalieri bianchi da quella parte. «Cercherò di farli tornare indietro; ma se non ci riuscirò, aspettate che raggiungano questo punto» gridò ai guerrieri in agguato. «Poi agite in fretta.» Gli uomini erano sparsi per circa duecento passi sui due lati della pista, ma erano più numerosi lì, alla curva. Un'imboscata efficiente deve essere predisposta in profondità, in modo che se una vittima designata riesce a sfondare la prima fila degli aggresSori ve ne siano altri in attesa più lontano. E quella era un'imboscata efficiente: un terreno accidentato, lungo una pista stretta e ripida dove un cavallo non poteva girare facilmente e neppure procedere lanciandosi al galoppo. Bazo annuì soddisfatto e poi, senz'armi e senza scudo, scese a balzi verso la pianura, aglle come un saltarupe sulla pista rudimentale. «Fra mezz'ora sarà buio» gridò Harry Mellow a Ralph. «Dobbiamo trovare un posto per accamparci.» «Dev'esserci un sentiero.» Ralph cavalcava con un pugno sul fianco e il cappello spinto all'indietro, e scrutava i dirupi. «Cosa ti aspetti di trovare lassù?» «Non lo so, ed è questo che mi preoccupa.» Ralph girò la testa sorridendo. Era impreparato e sbilanciato: e quando il cavallo scartò bruscamente, perse quasi una staffa e dovette aggrapparsi al pomolo della sella per non farsi disarcionare, ma nello stesso istante gridò a Harry: «Coprimi!» Con la mano libera, Ralph sfilò il Winchester dalla custodia sotto il ginocchio. Il cavallo s'impennava e scalpitava in cerchio e non gli lasciava la possibilità d'imbracciare l'arma. Sapeva che stava bloccando la linea di tiro di Harry e che in quei secondi interminabili era completamente indifeso. Imprecò, immaginando la carica di un gruppo di guerrieri armati di lance, usciti dalle rocce tormentate e dagli arbusti ai piedi della rupe. Poi si accorse che c'era un solo uomo ed era disarmato, e gridò un avvertimento a Harry, ancora più concitatamente, perché aveva sentito che dietro di lui l'americano aveva caricato e armato il fucile. «Aspetta! Non sparare!» Il castrone s'impennò di nuovo, ma questa volta Ralph lo trattenne e fissò il negro uscito in silenzio, inaspettatamente, da un anfratto del granito. «Chi sei?» chiese, con la voce inasprita dallo shock che gli avvinghiava ancora le viscere e gli faceva tumultuare il sangue nelle vene. «Accidenti a te, per poco non ti sparavo.» Ralph si riprese e ripeté in sindebele, la lingua dei matabele, «Chi sei?» L'uomo dal semplice mantello di cuoio inclinò leggermente la testa, ma rimase eretto, con le mani vuote abbandonate lungo i fianchi. «E' una strana domanda» disse in tono solenne, «perché un fratello la rivolga a un fratello.» Ralph lo fissò: notò la corona dell'induna e la faccia scarna, segnata e scavata dai solchi profondi d'una terribile sofferenza, un'angoscia o un'infermità che doveva aver trasportato quell'uomo alle frontiere dell'inferno. E Ralph si sentì profondamente commosso mentre scrutava il volto devastato, perché negli ardenti occhi scuri e nel tono della voce profonda e misurata c'era qualcosa che gli sembrava familiare e tuttavia alterato al punto d'essere irriconoscibile. «Henshaw.» L'uomo parlò di nuovo, pronunciando il soprannome elogiativo che i matabele avevano dato a Ralph Ballantyne. «Henshaw, il Falco, non mi riconosci? Questi pochi anni ci hanno tanto cambiati?» Ralph scrollò la testa, incredulo. La sua voce era piena di stupore.
«Bazo, non puoi... non puoi essere tu! Allora non sei morto con il tuo impi allo Shangani?» Ralph liberò i piedi dalle staffe e balzò a terra. «Bazo, sei tu!» Corse ad abbracciare il matabele. «Fratello mio, mio fratello nero» disse, e nella sua voce c'era un tono di gioia. Bazo accettò l'abbraccio in silenzio, con le mani lungo i fianchi, e alla fine Ralph si staccò per guardarlo meglio. «Allo Shangani, quando i fucili tacquero, lasciai i carri e avanzai nel tratto scoperto. C'erano i tuoi uomini, le Talpe-che-scavano-sotto-la-montagna.» Era il nome che il re Lobengula aveva dato all'impi di Bazo: Izimvukuzane Ezembintaba. «Riconobbi gli scudi rossi, i pennacchi di marabù, le fasce di pelli di talpa intorno alla fronte.» Erano le insegne reggimentali assegnate all'impi dal vecchio re; e gli occhi di Bazo si accesero per la sofferenza del ricordo mentre Ralph proseguiva: «I tuoi uomini erano là, Bazo, e giacevano uno sull'altro come le foglie cadute nella foresta. Ti cercai, girai i corpi dei morti per vederli in faccia, ma erano tanti.» «Sì, tanti» ammise Bazo. Soltanto gli occhi tradivano la sua emozione. «E avevo così poco tempo per cercarti» spiegò Ralph. «Potevo farlo lentamente e con prudenza, perché alcuni dei tuoi uomini erano fanisa hle.» Era un vecchio trucco degli zulu, fingersi morti sul campo di battaglia e attendere che i nemici venissero a contare e a spogliare i caduti. «Non volevo che qualcuno mi piantasse un assegai nella schiena. Poi smantellammo il laager e i carri proseguirono verso il kraal del re. Dovetti andarmene anch'io.» «Ero là» disse Bazo, e scostò il manto di pelle. Ralph vide le cicatrici orribili e abbassò lo sguardo, mentre Bazo tornava a coprirsi. «Ero tra i morti.» «E adesso?» chiese Ralph. «Adesso che tutto è finito, cosa fai qui?» «Che cosa fa un guerriero quando la guerra è finita e gli impi sono disfatti e disarmati e il re è morto?» Bazo scrollò le spalle. «Ora vado in cerca di miele selvatico.» Girò gli occhi verso le rupi, dove le ultime spire di fumo si confondevano nel cielo che si oscurava mentre il sole toccava le cime degli alberi, nella foresta a occidente. «Stavo affumicando un alveare quando vi ho visti arrivare.» «Ah!» Ralph annuì. «E' stato il fumo a condurci qui.» «Allora è stata una fortuna, fratello Henshaw.» «Mi chiami ancora fratello?» chiese Ralph, gentilmente. «Forse sono stato io a sparare quei proiettili...» Non finì la frase. Lanciò un'occhiata al petto di Bazo. «Un uomo non può essere considerato responsabile di ciò che fa nella furia della battaglia» rispose Bazo. «Se avessi raggiunto i carri, quel giorno» concluse scrollando di nuovo le spalle, «forse saresti tu ad avere queste cicatrici.» «Bazo.» Ralph accennò a Harry di avvicinarsi. «Questo è Harry Mellow, un uomo che conosce i misteri della terra e sa trovare l'oro e il ferro.» «Nkosi, ti vedo.» Bazo salutò Harry solennemente. Lo chiamò «signore» e neppure per un istante lasciò trasparire il profondo risentimento. Il suo re era morto e la sua nazione era stata distrutta a causa della bizzarra passione degli uomini bianchi per il maledetto metallo giallo. «Io e Bazo siamo cresciuti insieme nei campi diamantiferi di Kimberley, e non ho mai avuto un amico più caro» spiegò in fretta Ralph, e si rivolse con ardore a Bazo. «Abbiamo un po' di viveri: li divideremo.» Questa volta notò il guizzo negli occhi di Bazo, e insistette: «Accampati con noi. Abbiamo tante cose da dirci.» «Ho con me la mia donna e mio figlio» rispose Bazo. «Sono tra le colline.» «Portali qui» disse Ralph. «Va', presto, prima che scenda l'oscurità, e portali qui al campo.» *** Bazo avvertì i suoi uomini con il richiamo notturno del francolino, e uno di loro uscì sul sentiero. «Tratterrò i bianchi ai piedi delle colline per questa notte» disse sottovoce Bazo. «Forse riuscirò a mandarli via senza che tentino di trovare la valle. Ma avverti i fabbri: i forni devono essere spenti prima dell'alba di domani e non dev'esserci traccia di fumo.» Continuò a dare ordini: le armi ultimate e il metallo appena fuso dovevano essere nascosti, le tracce dovevano essere cancellate, i fabbri dovevano addentrarsi fra le colline lungo il sentiero segreto, e i guerrieri matabele dovevano coprire la loro ritirata.
«Vi seguirò quando i bianchi saranno andati via. Aspettatemi alla vetta della Scimmia Cieca.» «Nkosi.» I matabele salutarono e si dileguarono nel crepuscolo, silenziosi come leopardi in caccia. Bazo svoltò alla biforcazione del sentiero; quando raggiunse lo sperone di roccia non ebbe bisogno di chiamare. Tanase lo attendeva con il bambino sul fianco, il rotolo delle stuoie in equilibrio sulla testa e il sacco del grano appeso alla schiena. «E' Henshaw» disse Bazo, e sentì il sibilo serpentino del respiro di Tanase. Non vedeva la sua espressione, ma immaginava quale poteva essere. «E' il figlio del cane bianco che ha violato i luoghi sacri.» «E' mio amico» disse Bazo. «Hai giurato» gli ricordò la donna, rabbiosamente. «Com'è possibile che un bianco sia ancora tuo amico?» «Allora era mio amico.» «Ricordi la visione che ebbi, prima che il padre di quest'uomo mi strappasse i poteri della divinazione?» «Tanase» disse Bazo, senza rispondere alla domanda, «dobbiamo scendere da lui. Se vedrà che ho con me mia moglie e mio figlio, non avrà sospetti. Crederà che stiamo davvero cercando il miele delle api selvatiche. Seguimi.» Si voltò per ridiscendere lungo il sentiero, e Tanase lo seguì e abbassò la voce in un bisbiglio: lui poteva udire chiaramente ogni parola. Non si voltò a guardarla, ma ascoltò. «Ricordi la mia visione, Bazo? Ti misi in guardia il giorno in cui vidi per la prima volta l'uomo che tu chiami il Falco. Prima della nascita di tuo figlio, quando il velo della mia verginità era ancora intatto, prima che i cavalieri bianchi venissero con i loro fucili a treppiede che ridono come i demoni del fiume nascosti nelle rocce alla cascata dello Zambesi. Quando tu lo chiamavi ancora fratello e amico, io ti misi in guardia.» «Lo ricordo.» Anche Bazo aveva abbassato la voce. «Nella mia visione ti vidi in alto su di un albero, Bazo.» «Sì» mormorò l'induna, e continuò a percorrere il sentiero senza voltarsi a guardarla. Adesso c'era un tremito superstizioso nella sua voce, perché un tempo sua moglie era stata apprendista dell'incantatore pazzo Pemba. Quando Bazo, al comando del suo impi, aveva espugnato la roccaforte montana di Pemba, gli aveva tagliato la testa e aveva portato via Tanase come bottino di guerra; ma gli spiriti l'avevano rivendicata ancora. Alla vigilia del banchetto nuziale, quando Bazo avrebbe preso la vergine Tanase come prima sposa e moglie principale, un vecchio stregone era disceso dalle Matopos e l'aveva condotta via, e Bazo non aveva potuto impedirlo perché Tanase era figlia degli spiriti delle tenebre e tra quei colli aveva trovato il suo destino. «La visione era così nitida che piansi» gli rammentò Tanase, e Bazo rabbrividì. Nella grotta segreta delle Matopos il potere degli spiriti era disceso su Tanase: era divenuta l'Umlimo, l'Eletta, l'oracolo. Era stata Tanase, parlando con le voci inquietanti degli spiriti, a predire a Lobengula il suo fato. Era stata Tanase a prevedere la venuta degli uomini bianchi e delle loro macchine prodigiose che trasformavano la notte in giorno e dei loro minuscoli specchi che brillavano come stelle sulle colline e trasmettevano i messaggi a distanze immense attraverso le pianure. Nessuno poteva dubitare che un tempo avesse posseduto il potere oracolare e che nelle trance mistiche avesse visto attraverso i veli tenebrosi del futuro il destino della nazione matabele. Ma gli strani poteri dipendevano dalla sua verginità. Tanase lo aveva detto a Bazo, e l'aveva implorato di togliergliela, di liberarla di quelle facoltà terribili; ma Bazo, vincolato dalla legge e dalla tradizione, aveva esitato fino a quando era stato troppo tardi, perché gli stregoni erano discesi dalle colline per reclamarla. All'inizio della guerra che i bianchi avevano portato tanto rapidamente fino al kraal di Lobengula a Bulawayo, una piccola banda s'era distaccata dal grosso dell'esercito: erano i più duri e i più crudeli, guidati da Bakela, il Pugno. S'erano addentrati a cavallo tra le colline. Avevano percorso la pista segreta scoperta da Bakela venticinque anni prima, e avevano raggiunto al galoppo la grotta dell'Umlimo. Bakela conosceva l'importanza dell'oracolo, sapeva che l'Umlimo era sacra e che la sua morte avrebbe gettato nella disperazione la nazione matabele. I cavalieri di Bakela avevano ucciso i guardiani delle caverne ed erano entrati con la forza. Due degli uomini di Bakela avevano trovato Tanase, giovane e bellissima e nuda nei recessi più profondi della grotta, e l'avevano
violentata, strappandole selvaggiamente la verginità che un tempo lei aveva offerto con amore a Bazo. Avevano sfogato la lussuria su di lei fino a che il sangue virginale aveva macchiato il pavimento della caverna e le sue urla avevano attirato Bakela. Bakela aveva scacciato i suoi uomini a pugni e a calci: e quand'erano rimasti soli, aveva guardato Tanase che giaceva ai suoi piedi, sanguinante e distrutta. Stranamente, quell'uomo duro e feroce era stato vinto dalla compassione. Sebbene si fosse avventurato per quella strada pericolosa all'unico scopo di uccidere l'Umlimo, il comportamento bestiale dei soldati aveva incrinato la sua decisione e gli aveva ispirato la necessità d'una sorta di risarcimento. Bakela doveva sapere che con la perdita della verginità aveva perduto i poteri, perché le aveva detto: «Tu eri l'Umlimo, e ora non lo sei più.» L'aveva annientata senza usare il fucile o la spada. Le aveva voltato le spalle ed era uscito dalla grotta buia, lasciandole la vita in cambio della verginità e della perdita dei poteri. Tanase aveva raccontato molte volte a Bazo quell'episodio, e Bazo sapeva che le nebbie del tempo s'erano chiuse davanti ai suoi occhi e ora le nascondevano il futuro; ma nessuno poteva dubitare che un tempo avesse posseduto il potere della Vista. Bazo rabbrividì, e sentì le dita degli spettri sfiorargli la nuca mentre Tanase continuava a bisbigliare. «Piansi, Bazo, mio signore, quando ti vidi lassù sull'albero; e mentre piangevo l'uomo che tu chiami Henshaw il Falco ti guardava... e sorrideva!» *** Mangiarono la carne fredda usando la lama d'un coltello da caccia per estrarla e passandosi le scatole di mano in mano. Non c'era più caffè, e trangugiarono la carne glutinosa con sorsate d'acqua tiepida delle borracce ricoperte di feltro; poi Ralph spartì gli ultimi sigari con Harry Mellow e Bazo. Li accesero con gli stecchi tolti dal fuoco e fumarono a lungo in silenzio. Poco lontano una iena ululava e singhiozzava nell'oscurità, attratta dalla luce delle fiamme e dall'odore del cibo. mentre più lontano, al di là della pianura, i leoni in caccia sfrecciavano allo spuntar della luna: non ruggivano prima di aver ucciso le prede, ma emettevano suoni gutturali simili a colpi di tosse per tenersi in contatto con i compagni del branco. Tanase, con il bambino sulle ginocchia, era seduta al margine del cerchio di luce, in disparte dagli uomini che la ignoravano. Sarebbe stata un'offesa per Bazo se le avessero dedicato troppa attenzione; ma ora Ralph si tolse il sigaro dalla bocca e guardò verso di lei. «Come si chiama tuo figlio?» chiese a Bazo. Per un istante, Bazo esitò prima di rispondere. «Si chiama Tungata Zebiwe.» Ralph aggrottò la fronte, ma trattenne le parole brusche che gli salivano alle labbra. «E' un bel bambino» disse invece. Bazo tese la mano verso il figlio, ma Tanase lo trattenne per un momento con muta ferocia. «Lascialo venire da me» ordinò Bazo in tono secco; riluttante, Tanase lasciò che il bambino insonnolito si avviasse un po' barcollante verso il padre e gli si annidasse tra le braccia. Aveva la pelle di un bel color caramello scuro, con il pancino tondo e gli arti paffuti. Portava bracciali di rame ai polsi e un filo di perline intorno alla vita, ma era nudo. I capelli erano una soffice calotta scura e gli occhi erano sgranati per il sonno mentre fissava Ralph. «Tungata Zebiwe.» Ralph ripeté il nome, poi si tese per accarezzargli la testa. Il bambino non cercò di sfuggirgli, non si mostrò allarmato; ma nell'ombra Tanase sibilò sommessamente, allungò la mano come per riprendere il figlio, la lasciò ricadere. «Colui-che-cerca-ciò-che-è-stato-rubato.» Ralph tradusse il nome del piccino e incontrò gli occhi scuri della madre. «Colui-che-cerca-giustizia... è un dovere pesante, per imporlo a qualcuno tanto giovane» disse senza alzare la voce. «Vorresti farne un vendicatore delle ingiustizie commesse prima della sua nascita?» Poi, con disinvoltura, Ralph passò a un altro argomento.
«Ricordi, Bazo, il giorno che ci conoscemmo? Eri un giovane inesperto, mandato da tuo padre e dal re suo fratello a lavorare nei campi diamantiferi. E io ero ancora più giovane e inesperto quando con mio padre t'incontrai nel veld e lui ti fece firmare un contratto per tre anni, prima che qualche altro scavatore t'imponesse il suo marchio.» I segni della sofferenza e dell'angoscia che deturpavano il viso di Bazo parvero spianarsi quando sorrise; per un istante tornò a essere il giovane spensierato di quei giorni. «Solo più tardi scoprii che Lobengula aveva mandato te e mille altri giovani nei campi diamantiferi con lo scopo preciso di portargli tutte le grosse gemme che potevate rubare.» Risero entrambi; Ralph con nostalgia e Bazo con un vestigio della gaiezza giovanile. «Lobengula doveva aver nascosto chissà dove un grande tesoro. Jameson non trovò quei diamanti quando prese Bulawayo.» «Ricordi il falco da caccia, Scipione?» chiese Bazo. «E il ragno gigante che ci fece guadagnare le nostre prime sovrane d'oro nei combattimenti dei ragni a Kimberley?» continuò Ralph. E parlarono animatamente, rievocando i tempi in cui lavoravano a fianco a fianco nella grande miniera a cielo aperto, e le pazze trovate con cui avevano spezzato la spaventosa monotonia delle loro fatiche. Harry Mellow, che non capiva la lingua, si avvolse nella coperta e se ne tirò un lembo sulla testa. Tanase era seduta nell'ombra, bella come una statua d'ebano. Non sorrideva quando gli uomini ridevano, ma non distoglieva lo sguardo dalle loro labbra mentre parlavano. All'improvviso Ralph cambiò di nuovo argomento. «Anch'io ho un figlio» disse. «E' nato prima della guerra, e quindi ha un anno o due più del tuo.» La risata si spense immediatamente. L'espressione di Bazo rimase neutrale, ma gli occhi erano guardinghi. «Potrebbero essere amici come lo siamo noi» suggerì Ralph, e Tanase guardò allarmata il figlio. Bazo non rispose. «Tu e io potremmo lavorare ancora a fianco a fianco» continuò Ralph. «Presto avrò una ricca miniera d'oro in quelle forèste laggiù, e avrò bisogno di un induna che diriga le centinaia di operai.» «Sono un guerriero» disse Bazo. «Non lavoro più nelle miniere.» «Il mondo cambia, Bazo» riprese Ralph a voce bassa. «Non vi sono più guerrieri nel Matabeleland. Gli scudi sono stati bruciati. Le lame degli assegai sono state spezzate. Gli occhi non sono più rossi, Bazo, perché le guerre sono finite. Ora gli occhi sono bianchi, e in questa terra vi sarà pace per mille anni.» Bazo taceva. «Vieni con me, Bazo. Porta tuo figlio a imparare il sapere dell'uomo bianco. Un giorno saprà leggere e scrivere e diventerà un uomo importante, non un cercatore di miele selvatico. Dimentica il triste nome che gli hai dato e trovane un altro. Chiamalo con un nome fausto e portalo a conoscere mio figlio. Vivranno insieme in questa terra splendida, e saranno fratelli come un tempo lo eravamo noi.» Bazo sospirò. «Forse hai ragione, Henshaw. Come hai detto, gli impi sono stati disciolti. Coloro che erano guerrieri ora lavorano per costruire le strade di Lodzi.» I matabele faticavano a pronunciare la «erre» e quindi Rhodes era «Lodzi»; e Bazo si riferiva al sistema di coscrizione della manodopera introdotto nel Matabeleland dal commissario capo per i rapporti con gli indigeni, il generale Mungo St John. Bazo sospirò ancora. «Se un uomo deve lavorare, è meglio che lo faccia con dignità, svolgendo un compito importante per qualcuno che rispetta. Quando comincerai a estrarre il tuo oro, Henshaw?» «Dopo le piogge, Bazo. Ma vieni con me ora. Porta la tua donna e tuo figlio...» Bazo alzò una mano per interromperlo. «Dopo le piogge, dopo le grandi tempeste, ne parleremo ancora, Henshaw» disse a voce bassa, e Tanase annuì e per la prima volta sorrise, uno strano sorrisetto d'approvazione. Bazo faceva bene a dissimulare e a rabbonire Henshaw con promesse vaghe. Con la sua percezione acutissima, Tanase si rendeva conto che, nonostante l'espressione franca degli occhi
verdi e il sorriso aperto e quasi fanciullesco, quel giovane uomo bianco era ancora più duro e pericoloso di suo padre Bakela. «Dopo le grandi tempeste» aveva promesso Bazo, e questo aveva un significato recondito. La grande tempesta era ciò che stavano preparando in segreto. «Prima vi sono alcune cose che devo fare: ma quando le avrò fatte verrò a cercarti» promise Bazo. *** Bazo procedeva per primo sul sentiero ripido e stretto nelle viscere delle colline di granito, e Tanase lo seguiva a una dozzina di passi. Portava sulla testa la stuoia arrotolata e la pentola di ferro, e la spina dorsale era eretta, il passo fluido e agile per bilanciare il peso. Il bambino le saltellava a fianco, cantilenando una filastrocca infantile con voce acuta. Era l'unico che non fosse impressionato dalla cupezza minacciosa della valle tenebrosa. I cespugli ai margini del sentiero erano fitti e armati di spine acuminate. Il silenzio era opprimente: non c'erano uccelli che cantassero o animaletti che facessero frusciare il fogliame. Bazo passò a balzi leggeri sui massi attraverso il letto del fiumicello che tagliava la pista e si voltò a guardare mentre Tanase raccoglieva un po' d'acqua fresca nel cavo della mano e l'accostava alle labbra del bambino. Proseguirono. Il sentiero finiva all'improvviso ai piedi d'una ripida parete di granito perlaceo. Bazo si fermò e si appoggiò all'asta da lancio, l'unica arma che l'amministratore bianco di Bulawayo permetteva ai negri di portare per difendere se stessi e le loro famiglie contro i predatori così frequenti in quel territorio selvaggio. Era un'arma fragile, non uno strumento da guerra come il poderoso assegai. Bazo alzò lo sguardo alla cima della rupe. Su un cornicione, immediatamente al di sotto della sommità, c'era la capanna del guardiano. Risuonò una voce tremula di vecchio. «Chi osa presentarsi al passo segreto?» Bazo alzò il mento e rispose con un muggito taurino che echeggiò tra i dirupi. «Bazo, figlio di Gandank, Bazo, induna del sangue reale dei kumalo.» Poi, senza degnarsi di attendere la risposta, varcò il tormentato accesso di granito e si avviò nel passaggio che squarciava la roccia. Era un passaggio così stretto che a stento due uomini potevano percorrerlo a fianco a fianco, e il fondo era di pura sabbia bianca costellata di lucidi frammenti di mica che scintillavano e scricchiolavano come zucchero sotto i piedi nudi. Il percorso si attorceva come un serpente ferito e sboccava all'improvviso in un'ampia valle verde e lussureggiante, bisecata da un corso d'acqua che scaturiva dalla parete di roccia vicino al punto dove si trovava Bazo. La valle era un bacino circolare del diametro di circa un chilometro e mezzo, completamente cinto dalle alte rupi. Al centro c'era un piccolo villaggio di capanne di paglia; ma quando Tanase uscì dallo sbocco del passaggio segreto e si fermò a fianco di Bazo, entrambi volsero lo sguardo più lontano, nella parte opposta della vàlle. Ai piedi del dirupo, l'apertura bassa e larga d'una caverna pareva ghignare come una bocca sdentata. Rimasero in silenzio per lunghi istanti; guardavano la grotta sacra, sopraffatti dai ricordi. Là Tanase s'era sottoposta all'indottrinamento e all'iniziazione che l'avevano trasformata nell'Umlimo, e là, sul pavimento di pietra, aveva subito l'oltraggio crudele che l'aveva privata dei suoi poteri e ricondotta allo stato di donna comune. Ora, in quella caverna un altro essere presiedeva al posto di Tanase quale capo spirituale della nazione, perché i poteri dell'Umlimo non morivano mai, e venivano trasmessi da un'iniziata all'altra, com'era sempre avvenuto dai tempi dimenticati quando gli antichi avevano costruito la grande fortezza di pietra di Zimbabwe. «Sei pronta?» chiese finalmente Bazo. «Sono pronta, mio signore» rispose Tanase, e incominciarono la discesa verso il villaggio. Ma prima che lo raggiungessero venne loro incontro una bizzarra processione di esseri, alcuni dei quali erano a malapena riconoscibili come umani, perché si trascinavano carponi e guaivano e
latravano come animali. C'erano vecchie megere grinzose, con i seni vizzi penduli sul ventre, ragazzine aggraziate dai seni in boccio e i volti vacui senza sorriso, vecchi dagli arti deformi che strisciavano nella polvere, giovani snelli e agili dai corpi muscolosi e dai folli occhi roteanti, e tutti erano bardati con gli ornamenti macabri dei negromanti e dei maghi, vesciche di leone e di coccodrillo, pelli di pitone e di uccello, crani e denti di scimmia, d'uomini e di belve. Circondarono Bazo e Tanase, danzando e gnaulando e ghignando, fino a che Bazo si sentì informicolire la pelle per il disgusto e si issò sulla spalla il figlio per sottrarlo alle loro mani protese. Tanase rimase imperturbabile, perché quella folla fantastica era stata un tempo il suo seguito; e non cambiò espressione quando una delle streghe orribili strisciò verso di lei e le sbavò sui piedi nudi. Tra danze e cantilene, i guardiani dell'Umlimo condussero al villaggio i visitatori e poi scomparvero nelle capanne. Ma non erano soli. Al centro del villaggio c'era un setenghi, un'ariosa capanna aperta fatta di bianchi pali di mopani, con un lindo tetto di paglia. All'ombra del setenghi c'erano numerosi uomini in attesa, completamente diversi dalla folla grottesca che aveva accolto i nuovi venuti all'entrata dell'abitato. Gli uomini sedevano su bassi sgabelli intagliati. Alcuni erano grassi, altri magrissimi e curvi, ma erano circondati da un'aura quasi palpabile di dignità e di autorità. Alcuni avevano i capelli bianchi e nivee barbe lanose e volti profondamente incisi dalle rughe, altri erano nel fiore dell'età e delle forze: ma tutti portavano sulla testa il semplice anello nero di gomma e argilla. Nella valle segreta dell'Umlimo erano radunati i capi superstiti della nazione matabele, gli uomini che un tempo avevano comandato gli impi nelle tipiche formazioni «a corna di toro.» Alcuni, i più vecchi, ricordavano l'esodo dal sud, quando erano stati messi in fuga dai cavalieri boeri; in gioventù avevano combattuto agli ordini del grande Mzilikazi e portavano ancora con orgoglio i distintivi d'onore concessi dal sovrano. Tutti avevano partecipato ai consigli del re Lobengula, figlio del grande Mzilikazi, e s'erano trovati sulle Colline degli induna il giorno fatidico in cui il re era apparso davanti ai reggimenti schierati e s'era rivolto verso est, la direzione da cui entrava nel Matabeleland la colonna dei carri e dei soldati bianchi. Avevano gridato il saluto reale «Bayete!» mentre Lobengula bilanciava il corpaccio gonfio sulle gambe deformate dalla gotta e scagliava in segno di sfida la lancia in miniatura, emblema della sovranità, verso gli invasori ancora invisibili al di là dell'orizzonte azzurro. Erano gli induna che avevano guidato i guerrieri nella sfilata davanti al re, cantando le sue lodi e gli inni di battaglia dei reggimenti; avevano salutato Lobengula per l'ultima volta e poi avevano marciato verso il luogo dove le mitragliatrici Maxim li attendevano dietro le fiancate dei carri e le recinzioni spinose del laager dei bianchi. Al centro, adesso, sedevano tre uomini, i tre figli superstiti di Mzilikazi, i più nobili e venerati degli induna. Somabula, seduto a sinistra, era il più vecchio, vincitore di cento battaglie sanguinOse, ed era da lui che avevano preso il nome le bellissime foreste Somabula. A destra stava Babiaan, saggio e valoroso, con il torace e gli arti segnati da cicatrici onorevoli. Ma fu l'uomo che stava al centro quello che si alzò dallo sgabello d'ebano intagliato e uscì nella luce del sole. «Gandank, padre mio, ti vedo e il mio cuore canta» esclamò Bazo. «Ti vedo, figlio mio» disse Gandank. Il suo volto era reso quasi bello dalla gioia che l'illuminava; e quando Bazo s'inginocchiò davanti a lui gli toccò la testa in atto di benedizione e lo risollevò. «Baba!» Tanase batté rispettosamente le mani e quando Gandank le rivolse un cenno di risposta si ritirò in silenzio nella capanna più vicina. Da lì poteva ascoltare tutto, dietro la sottile parete di canne. Una donna non poteva assistere ai sommi consigli della nazione. Ai tempi dei re, una donna meno importante sarebbe stata uccisa se avesse osato avvicinarsi a un indaba. Ma Tanase era stata l'Umlimo, e ancora adesso era la portavoce dell'Eletta. E comunque il mondo cambiava, i re erano morti e le vecchie usanze stavano morendo con loro; e quella donna un tempo aveva avuto un potere più grande di quasi tutti gli induna presenti. Tuttavia
aveva compiuto il gesto di ritirarsi nella capanna chiusa, per non offendere il ricordo delle antiche tradizioni. Gandank batté le mani e gli schiavi portarono a Bazo uno sgabello e un vaso di birra. Bazo si ristorò con una lunga sorsata dell'amara bevanda effervescente, quindi salutò gli altri induna secondo un rigoroso ordine di anzianità e d'importanza: incominciò da Somabula e procedette lentamente, e il cuore gli si strinse nel vedere quanto pochi erano, ormai... appena ventisei. «Kamuza, cugino mio.» Guardò il ventiseiesimo, il più giovane degli induna. «Mio amico carissimo, ti vedo.» Poi Bazo compì un gesto senza precedenti. Si alzò e guardò al di sopra delle teste degli uomini radunati, e continuò con i saluti formali. «Io ti saluto, Manonda, il valoroso!» gridò. «Ti vedo pendere dal ramo del mkosi, morto di tua mano per non vivere schiavo degli uomini bianchi.» Gli induna si voltarono, e seguirono la direzione dello sguardo di Bazo con espressioni di reverenza superstiziosa. «Sei tu, Ntabene? In vita ti chiamavano il Monte, e come un monte cadesti sulla riva dello Shangani. Io ti saluto, spirito coraggioso.» Gli induna compresero: Bazo stava facendo l'appello d'onore, e perciò ripeterono il suo saluto con ringhi gutturali. «Sakubona, Ntabene.» «Ti vedo, Tambo. Le acque del guado del Bembesi si arrossarono del tuo sangue.» «Sakubona, Tambo» borbottarono gli induna dei kumalo. Bazo gettò via il mantello e incominciò a danzare. Era una danza sinuosa e ondeggiante, e il sudore gli rendeva lustra la pelle, le ferite d'arma da fuoco gli brillavano sul petto come gemme scure. Ogni volta che chiamava il nome d'un induna caduto, sollevava il ginocchio destro fino a toccarsi il petto e batteva il piede nudo sulla terra compatta, mentre l'assemblea gridava il nome dell'eroe. Finalmente Bazo sedette sullo sgabello, in un silenzio saturo d'una sorta d'estasi guerresca. Tutti si volsero a guardare Somabula, il più vecchio e autorevole. L'induna si alzò e, poiché quello era un indaba destinato ad avere le conseguenze più importanti, incominciò a recitare la storia della nazione matabele. Sebbene l'avessero ascoltata mille volte dai tempi dell'infanzia, gli induna si protesero avidamente. Non esisteva la parola scritta, non c'erano archivi che documentassero la storia che doveva essere ricordata alla lettera per venire trasmessa ai figli e ai figli dei figli. La storia incominciava nello Zululand, milleseicento chilometri circa più a sud, quando il giovane guerriero Mzilikazi sfidò il tiranno pazzo Chaka e fuggì a nord con il suo impi per scampare alle forze degli zulu. La storia seguiva i suoi vagabondaggi, le battaglie con le schiere inviate all'inseguimento da Chaka, le vittorie conquistate contro le piccole tribù che si paravano sul cammino di Mzilikazi. Narrava come aveva accolto nei suoi impi i giovani delle tribù sottomesse e aveva dato le fanciulle in moglie ai suoi guerrieri. Era l'ascesa di Mzilikazi dapprima ribelle in fuga, quindi capo sempre più potente, e infine grande re. Somabula narrò fedelmente il terribile M'fecane, lo sterminio d'un milione di anime compiuto quando Mzilikazi aveva devastatO il territorio tra il fiume Orange e il Limpopo. Quindi passò a descrivere la venuta dei bianchi e il nuovo metodo di combattimento. Evocò gli squadroni degli uomini barbuti. in sella ai piccoli cavalli robusti, che avanzavano galoppando fino a quando giungevano a tiro, e poi si ritiravano fulmineamente per ricaricare le armi prima che gli amadoda potessero colpirli con gli assegai. Narrò il primo incontro tra gli impi e le fortezze mobili, i quadrati dei carri incatenati insieme, i rami spinosi intrecciati ai raggi delle ruote e in ogni varco della barricata lignea, e desctisse come le schiere dei matabele avevano infranto quelle mura di legno e di spine e vi erano perite. La voce di Somabula si abbassò lugubremente quando parlò dell'esodo verso nord, la fuga dei matabele inseguiti dagli uomini barbuti a cavallo. Ricordò i deboli e i bambini morti in quella tragica marcia, e quindi la sua voce si levò gioiosa per descrivere l'attraversamento del Limpopo e dello Shashi e la scoperta di quella terra ricca e bellissima. Ormai la voce di Somabula era arrochita e forzata. Si lasciò cadere sullo sgabello e bevve una sorsata di birra mentre suo fratello Babiaan si alzava per descrivere i giorni trionfali, la
sottomissione delle tribù circostanti, la moltiplicazione delle mandrie dei matabele, divenute così numerose da oscurare i dolci pascoli dorati, l'ascesa al trono di Lobengula, Colui-che-è-come-ilvento, le feroci scorrerie quando gli impi si spingevano per centinaia di chilometri oltre i confini e per conquistare il bottino e gli schiavi che avevano reso grandi i matabele. Rievocò i reggimenti ornati di pennacchi e di pelli, con i grandi scudi colorati, che sfilavano davanti al re come le acque dello Zambesi; le vergini che danzavano alla Festa dei Primi Frutti, con il seno nudo, cosparse di lucida argilla rossa e adorne di fiori selvatici e di conterie. Descrisse l'esibizione segreta del tesoro, quando le mogli di Lobengula spalmavano di grasso il suo corpo enorme e poi lo costellavano di diamanti, i diamanti che i giovani avevano rubato nella grande miniera a cielo aperto scavata al sud dagli uomini bianchi. Mentre ascoltavano la rievocazione, gli induna rammentavano vividamente le gemme grezze che splendevano sul corpo obeso del re come un usbergo prezioso, o come le squame corazzate di un prodigioso rettile mitico. A quei tempi il loro re era grande, e i suoi capi di bestiame erano innumerevoli, e i giovani erano fieri e bellicosi, e le fanciulle bellissime... E tutti annuivano e prorompevano in esclamazioni. Poi anche Babiaan sedette e si alzò Gandank. Era alto e poderoso, un guerriero nel tardo meriggio delle forze. La sua nobiltà era indiscussa, il suo coraggio era stato dimostrato cento volte: e quando proseguì il racconto, la sua voce era profonda e sonante. Narrò come gli uomini bianchi erano venuti dal sud. All'inizio erano pochi, e vcnivano a chiedere piccoli favori, il permesso di uccidere qualche elefante e di scambiare conterie e bottiglie contro il rame e l'avorio. Poi ne erano venuti altri, e le loro richieste erano divenute più insistenti e fastidiose. Pretendevano di predicare uno strano dio tricipite, volevano scavare nel terreno per cercare il metallo giallo e le pietre brillanti. Turbato, Lobengula s'era recato in quel luogo nelle Matopos; e l'Umlimo gli aveva predetto che quando le immagini degli uccelli sacri si fossero involate dalle rovine della Grande Zimbabwe non vi sarebbe più stata pace nella terra. «I falchi di pietra furono rubati dai luoghi sacri» rammentò Gandank. «E Lobengula comprese che non avrebbe potuto opporsi agli uomini bianchi come non aveva potuto opporvisi suo padre Mzilikazi.» Perciò il re aveva scelto il più potente tra tutti i postulanti bianchi, «Lodzi» l'uomo dagli occhi celesti che aveva divorato le miniere diamantifere ed era l'induna della regina bianca d'oltremare. Nella speranza di farsene un alleato, Lobengula aveva concluso un trattato con Lodzi; in cambio di monete d'oro e di fucili, gli aveva permesso di scavare in esclusiva i tesori sepolti nelle viscere della terra nei suoi domini orientali. Ma Lodzi aveva mandato un grande convoglio di carri, con guerrieri temibili come Selous e Bakela, alla testa di centinaia di giovani bianchi armati per prendere possesso delle terre del trattato. Angosciosamente, Gandank recitò il lungo elenco dei tradimenti, culminati con il crepitare delle mitragliatrici Maxim, la distruzione del kraal reale a Bulawayo e la fuga di Lobengula verso nord. Finalmente Gandank descrisse la morte di Lobengula. Disperato e malato, il re aveva bevuto il veleno, e lo stesso Gandank aveva deposto il SUO corpo in una grotta segreta affacciata sopra la valle dello Zambesi, e gli aveva disposto intorno i suoi averi: lo sgabello, il poggiatesta d'avorio, la stuoia e il kaross di pelliccia, i vasi della birra e le ciotole, i fucili e lo scudo da guerra, la scure e l'assegai, e infine i piccoli recipienti d'argilla pieni di fulgidi diamanti, che aveva posato ai piedi gottosi del re morto. Quando aveva terminato, Gandank aveva murato l'ingresso della grotta e aveva massacrato gli schiavi che avevano compiuto il lavoro. Quindi aveva ricondotto la nazione annientata verso il sud e verso la cattività. Dopo aver ptonunciato quelle ultime parole, Gandank abbandonò le braccia lungo i fianchi e reclinò il mento sull'ampio petto sfregiato. Un silenzio desolato scese sui presenti. Poi parlò uno degli induna seduto nella seconda fila. Era un vecchio fragile, privo di tutti i denti superiori. Le palpebre inferiori ricadevano dagli occhi acquosi rivelando la carne arrossata, e la sua voce era stridula e ansante. «Scegliamo un altro re» esordì, ma Bazo l'interruppe.
«Un re degli schiavi, un re dei prigionieri.» Rise, sprezzante. «Non potrà esservi un re finché non vi sarà di nuovo una nazione.» Il vecchio induna tornò a sedere, mordicchiandosi la bocca sdentata e si guardò intorno depresso. La sua mente divagò subito. «Il bestiame» mormorò. «Hanno preso il nostro bestiame.» Gli altri borbottarono, incolleriti. Il bestiame era l'unica, vera ricchezza. L'oro e i diamanti erano i gingilli degli uomini bianchi, ma il bestiame era la base del benessere della nazione. «Unico Occhio manda a spadroneggiare nei kraal i giovani del nostro popolo che non hanno mai combattuto» lamentò un altro. Unico Occhio era il nome con cui i matabele chiamavano il generale Mungo St John, commissario capo per i rapporti con gli indigeni del Matabeleland. «I poliziotti della Compagnia sono armati di fucili e non hanno rispetto per le tradizioni e la legge. Ridono degli induna e degli anziani delle tribù, e conducono le ragazze nei boschi...» «Unico Occhio ordina che i nostri amadoda, persino quelli di sangue zanzi, guerrieri e rispettati e padri di guerrieri, lavorino come volgari amaholi, come schiavi mangiatori di sudiciume, per costruire le sue strade.» La litania dei torti subiti, reali e immaginari, venne recitata ancora una volta dagli induna infuriati, l'uno dopo l'altro. Soltanto Somabula e Babiaan e Gandank e Bazo tacevano, alteramente. «Lodzi ha bruciato i nostri scudi, ha spezzato le lame dei nostri assegai. Ha negato ai nostri giovani l'antico diritto di depredare i mashona quando tutto il mondo sa che i mashona sono i nostri cani, e possiamo ucciderli o lasciarli vivere secondo il nostro capriccio.» «Unico Occhio ha sciolto gli impi, e ora nessuno sa chi ha il diritto di prendere moglie e a quale villaggio appartiene un dato campo di mais, e tutti litigano come bambini per i pochi bovini denutriti che Lodzi ci ha restituito.» «Che cosa dobbiamo fare?» gridò uno: e avvenne un'altra cosa strana e senza precedenti. Tutti inclusi Somabula, guardarono il giovane alto e sfregiato che ora chiamavano il Vagabondo, e attesero. Bazo fece un cenno e Tanase uscì dalla casupola di canne. Snella, diritta e agile, abbigliata soltanto del breve gonnellino di pelle, portava tra le braccia la stuoia arrotolata; s'inginocchiò davanti a Bazo e la svolse per terra ai suoi piedi. Gli induna più vicini poterono vedere ciò che vi stava nascosto e mormorarono per l'eccitazione. Bazo afferrò l'oggetto con entrambe le mani e lo levò in alto. Tutti soffocarono un grido nel vederlo risplendere alla luce. Il disegno della lama era quello che aveva ideato il re Chaka: il metallo era stato battuto e lucidato come argento dagli esperti fabbri rozwi, e l'asta era fissata con filo di rame e con i ruvidi peli neri della coda d'un elefante maschio. «Jee!» sibilò un induna: era il grido di guerra profondo e protratto degli impi, e gli altri lo ripeterono, ondeggiando un poco mentre i loro volti s'illuminavano della prima, folle estasi del combattimento. Gandank li bloccò. Balzò in piedi e il canto si spezzò a un suo gesto brusco. «Una lama non armerà la nazione, una lama non prevarrà contro i fucili a treppiede di Lodzi» Bazo si alzò e fronteggiò il padre. «Prendila nelle tue mani, Baba» lo invitò, e Gandank scosse rabbiosamente la testa ma non riuscì a staccare lo sguardo dall'arma. «Impugnala, e sentirai che può trasformare in uomo ancke uno schiavo» insistette Bazo con voce calma; e questa volta Gandank tese la destra. Il palmo era esangue per la tensione; le dita si strinsero con un tremito intorno all'asta «E' pur sempre un'unica lama» ripeté. Ma non poté resistere al contatto dell'arma bellissima e la brandì per colpire l'aria. «Ce ne sono mille come questa» mormorò Bazo. «Dove?» latrò Somabula. «Devi dirci dove sono» gridarono gli altri induna, ma Bazo continuò ad aizzarli. «Prima dell'inizio delle piogge ve ne saranno altre cinquemila. I fabbri sono al lavoro in cinquanta luoghi diversi tra le montagne.» «Dove?» ripeté Somabula. «Dove sono?» «Nascoste nelle
grotte.» «Perché nessuno ce l'aveva detto?» chiese Babiaan. Bazzo rispose: «Alcuni avrebbero dubitato che fosse possibile, e avrebbero consigliato indugi e prudenza: e non c'era tempo per parlare.» Gandank annuì. «Sappiamo tutti che ha ragione. La sconfitta ci ha trasformati in vecchie ciarliere. Ma ora...» Porse l'assegai all'uomo che gli stava accanto. «Prendilo!» ordinò. «Come raduneremo gli impi?» chiese l'uomo mentre rigirava l'arma tra le mani. «Ormai sono dispersi e annientati.» «Questo è il compito che spetta a ognuno di voi: ricostituire gli impi e fare in modo che siano pronti quando verranno distribuiti gli assegai.» «E come ci arriveranno?» «Li porteranno le donne, nascosti nei fasci d'erba per rivestire i tetti e nelle stuoie arrotolate.» «Dove attaccheremo? Colpiremo al cuore, il grande kraal che gli uomini bianchi hanno costruito a Bulawayo?» «No.» La voce di Bazo si levò, imperiosa. «Questa pazzia ha già causato la nostra rovina. Spinti dalla rabbia, dimenticammo i metodi di Chaka e di Mzilikazi e attaccammo il grosso del nemico, avanzando allo scoperto verso i carri dove attendevano le mitragliatrici.» Bazo s'interruppe e chinò la testa di fronte agli induna più anziani. «Perdonami, Baba, il cucciolo non deve abbaiare prima che abbia latrato il cane vecchio. Non spettava a me parlare.» «Tu non sei un cucciolo, Bazo» ringhiò Somabula. «Parla!» «Dobbiamo comportarci come le pulci» disse Bazo senza alzare la voce. «Dobbiamo nasconderci nelle vesti dell'uomo bianco e pungerlo nei punti molli fino a ridurlo alla pazzia. Ma quando si gratterà, passeremo a un altro punto debole. «Dobbiamo stare in agguato nell'oscurità e attaccare all'alba, dobbiamo attendere che i bianchi si trovino su un terreno sfavorevole e colpire i fianchi e la retroguardia.» Bazo non alzava mai la voce, ma tutti lo ascoltavano avidamente. «Non dobbiamo mai avventarci contro i muri dei laager; e quando i fucili a treppiede incominciano a ridere come vecchie, dobbiamo disperderci come la nebbia del mattino ai primi raggi del sole.» «Questa non è guerra» protestò Babiaan. «E' guerra, Baba» lo contraddisse Bazo. «Un nuovo tipo di guerra, l'unica che possiamo vincere.» «Ha ragione» esclamò una voce dalle file degli induna. «Così deve essere.» Presero la parola uno dopo l'altro, e nessuno si oppose alla proposta di Bazo, fino a quando fu di nuovo il turno di Babiaan. «Mio fratello Somabula ha detto la verità: non sei un cucciolo, Bazo. Ora devi dirci ancora una cosa: quando sarà?» «Questo non posso dirvelo.» «Chi può dirlo?» Bazo abbassò lo sguardo su Tanase, ancora inginocchiata ai suoi piedi. «Ci siamo riuniti in questa valle per una buona ragione» disse Bazo. «Se siete tutti d'accordo la mia donna, che è intima dell'Umlimo e iniziata ai misteri, salirà alla caverna sacra per chiedere il responso dell'oracolo.» «Deve andare immediatamente.» «No, Baba.» Tanase teneva ancora la bella testa china in segno di profondo rispetto. «Dobbiamo attendere che l'Umlimo ci mandi a chiamare.» *** In certi punti, le cicatrici formavano grumi duri nelle carni di Bazo. I proiettili delle Maxim avevano causato lesioni profonde. Un braccio, anche se fortunatamente non era quello che doveva brandire la lancia, era scorciato e contorto, deformato permanentemente. Dopo una marcia faticosa o un esercizio con le armi da guerra, o dopo la tensione nervosa di pianificare e discutere e convincere altri, spesso i muscoli dilaniati erano contratti da spasmi tormentosi. Inginocchiata accanto a lui nella casupola di canne, Tanase vedeva i muscoli aggranchiti e la contrazione rigida dei tendini sotto la pelle scura, come mamba neri che cercassero di fuggire da una sacca di seta. Ora stava facendo penetrare con le dita forti e affusolate l'unguento di grasso e d'erbe nel muscolo crestato lungo la colonna vertebrale e le scapole e seguiva i sussulti elastici del collo fino alla base del cranio. Bazo gemette al dolce tormento delle dita dure come osso, ma lentamente si rilassò e i muscoli annodati si decontrassero.
«Mi sei preziosa in tanti modi» mormorò. «Sono nata per quest'unica ragione» rispose Tanase, ma Bazo sospirò e scosse lentamente la testa. «Tu e io siamo nati per uno scopo che ancora non ci è rivelato. Lo sappiamo... siamo diversi, noi due.» Tanase gli poso l'indice sulle labbra per farlo tacere. «Ne parleremo domani.» Gli appoggiò le mani sulle spalle, lo fece adagiare riverso sulla stuoia di canne e incominciò a lavorargli i muscoli rigidi del petto e del ventre. «Questa notte esistiamo noi soli» riprese la donna con il suono gutturale d'una leonessa sulla preda, compiacendosi del potere che poteva esercitare su di lui con la pressione lieve delle dita; e nel contempo era preda di una tenerezza così profonda che le attanagliava il cuore. «Questa notte noi siamo tutto il mondo.» Si chinò, toccò con la punta della lingua le cicatrici, e l'erezione di Bazo fu così possente che non le riuscì di cingerla tra il pollice e le altre dita. Bazo cercò di sollevarsi a sedere, ma Tanase lo trattenne poggiandogli le mani sul petto; sciolse il legaccio del gonnellino e con un unico movimento si mise a cavalcioni sopra di lui. Entrambi gridarono involontariamente nell'ardore e nel reciproco desiderio irrefrenabile. Insieme furono trascinati via da una smania improvvisa e squisita. Quando tutto finì, Tanase gli fece appoggiare la testa sul seno e lo cullò come un bambino fino a quando sentì il respiro diventare profondo e regolare nel buio della capanna. Ma anche allora, sebbene restasse in silenzio, non si addormentò con lui: rimase desta, meravigliata del fatto che tanta rabbia e tanta compassione potessero pervaderla nello stesso istante. «Non conoscerò mai più la pace» pensò all'improvviso. «E neppure lui.» E si rattristò per l'uomo amato e per la necessità d'incitarlo e sospingerlo verso il destino che, lo sapeva, li attendeva entrambi. *** Il terzo giorno la messaggera dell'Umlimo scese dalla caverna e si presentò agli induna che attendevano nel villaggio. La messaggera era una graziosa ragazzina con un'espressione solenne e gli occhi saggi di una vecchia. Era alla soglia della pubertà, e già i capezzoli scuri come more s'indurivano, la prima lanugine ombreggiava la fessurina all'incrocio delle cosce. Intorno al collo portava un talismano che soltanto Tanase riconobbe. Era il segno che un giorno quella bambina avrebbe portato il sacro manto dell'Umlimo e avrebbe regnato nella lugubre caverna sovrastante il villaggio. Istintivamente la ragazzina guardò Tanase, accovacciata a lato delle schiere degli uomini, e con gli occhi e un cenno segreto della mano, noto solo agli iniziati, Tanase indicò Somabula l'induna più anziano. L'indecisione della messaggera era un sintomo della rapida degenerazione della società dei matabele. Ai tempi dei re nessuno, bambino o adulto, avrebbe avuto dubbi circa l'ordine di precedenza. Quando Somabula si alzò per seguire la messaggera, i fratelli si alzarono con lui, Babiaan da un lato e Gandank dall'altro. «Anche tu, Bazo» disse Somabula e, sebbene Bazo fosse più giovane di molti dei presenti, nessuno degli altri protestò per la sua inclusione. La strega bambina prese la mano di Tanase, poiché erano sorelle degli spiriti tenebrosi, e si avviarono insieme per prime sul sentiero erto. L'imboccatura della caverna era larga cento passi, ma la volta era così bassa che un uomo poteva passare a stento senza chinarsi. Un tempo, in un passato lontano, l'apertura era fortificata da blocchi di pietra lavorati nello stesso modo delle mura della Grande Zimbabwe; ma questi blocchi erano caduti in mucchi disordinati, lasciando varchi come nella dentatura d'un vecchio. Il piccolo gruppo si fermò. I quattro induna esitarono e si avvicinarono l'uno all'altro come per farsi coraggio. Gli uomini che avevano impugnato l'assegai in cento battaglie sanguinose e s'erano avventati contro le armi da fuoco del laager dei bianchi adesso si accostavano con timore all'ingresso buio.
Nel silenzio una voce parlò all'improvviso sopra di loro. proveniva dalla parete nuda di granito striato di licheni. «Che gli induna del sangue reale kumalo entrino nel luogo sacro!» Erano i toni tremuli e stridenti di una vecchia, e i quattro guerrieri alzarono lo sguardo intimiditi; ma non c'era essere vivente in vista e nessuno di loro trovò l'ardire di rispondere. Tanase aveva sentito la mano della ragazzina fremere nella sua stretta per lo sforzo di proiettare la voce; lei sola conosceva le arti delle streghe al punto di sapere in quale modo il ventriloquio veniva insegnato alle apprendiste dell'Umlimo. La bambina era già un'esperta, e Tanase rabbrividì al pensiero di quali altre cognizioni temibili doveva aver appreso, di quali altre prove e sofferenze atroci doveva avere già sopportato. In uno slancio di partecipazione strinse la piccola mano fresca; e insieme varcarono il portale in rovina. Dietro di loro i quattro guerrieri si avventurarono con la temerità dei bambini: si guardarono intorno ansiosamente e incespicarono sul pavimento diseguale. La gola della caverna si restrinse e Tanase pensò con un lampo di cupa ironia che era meglio per gli induna non distinguere chiaramente le pareti intorno a loro, perché il coraggio bellicoso non sarebbe stato sufficiente a resistere all'orrore delle catacombe. In un'epoca così lontana che la storia orale delle tribù dei rozwi e dei karanga non poteva più narrarla, molte generazioni prima che Mzilikazi guidasse la sua gente tra quelle colline, era passato di là un altro predone. Forse era stata Manatassi, la leggendaria regina conquistatrice alla testa delle sue orde spietate, che aveva devastato la terra e massacrato tutti gli esseri viventi incontrati sul suo cammino, senza risparmiare le donne, i bambini, e neppure gli animali domestici. Le tribù minacciate avevano cercato rifugio nella valle: ma il predone aveva fatto irruzione oltre lo stretto passo, e i fuggiaschi erano riparati nella caverna. La volta era ancora incrostata di fuliggine, perché i conquistatori non avevano ritenuto che valesse la pena di assediare la grotta. Avevano abbattuto il muro di protezione, bloccato l'entrata con mucchi di arbusti e di legna verde, e avevano appiccato il fuoco. Tutti i componenti della tribù erano periti, e il fumo aveva mummificato i loro corpi. Nel corso degli anni erano rimasti a giacere l'uno sull'altro, accatastati fino alla bassa volta. Mentre il gruppo di Tanase avanzava, in distanza un fievole barlume azzurrognolo crebbe d'intensità, e all'improvviso Bazo proruppe in un'esclamazione e additò la muraglia di resti umani. Spesso la carne incartapecorita s'era distaccata, e i teschi candidi ghignavano, le braccia scheletriche e contorte parevano accennare un macabro saluto. Nonostante la frescura dell'oscurità, gli induna erano madidi di sudore e le loro espressioni erano timorose e nauseate. Tanase e la ragazzina percorsero il sentiero tortuoso con infallibile familiarità e finalmente giunsero in un punto sopra un profondo anfiteatro naturale. Un unico raggio di sole penetrava da una stretta fenditura nella volta della caverna. Laggiù sul fondo c'era un focolare e una spira di fumo celeste saliva attorcendosi lentamente verso lo squarcio. Tanase e la ragazzina guidarono gli uomini giù per i gradini di roccia fino al pavimento sabbioso. A un gesto, i quattro induna si accosciarono di fronte al fuoco fumante. Tanase lasciò la mano della bambina e sedette un poco più indietro degli uomini, su un lato. La bambina si diresse verso la parete di fronte, prese una manciata d'erbe da uno dei grandi recipienti d'argilla. La gettò sul fuoco e immediatamente una grande nube giallastra di fumo acre salì ondeggiando; e quando si disperse, gli induna trasalirono e proruppero in esclamazioni di paura superstiziosa. Una figura grottesca li fronteggiava al di là delle fiamme. Era un'albina dalla pelle lebbrosa d'un biancore argenteo. Le grandi mammelle pallide erano pendule, i capezzoli d'un rosa acceso. Era nuda, e il folto pelo pubico era bianco come l'erba invernale colpita dalla brina; il ventre era una successione di molli pieghe di grasSo. La fronte era bassa e sfuggente, la bocca larga e sottile le dava l'espressione d'un rospo. Sul naso largo e appiattito e le guance pallide la pelle priva di pigmentazione era coperta da un eczema. Gli
avambracci tozzi erano incrociati sul ventre, e le cosce, chiazzate da grosse lentiggini color zenzero, si allargarono quando sedette su una pelle di zebra e guardò fissamente gli uomini. «Ti vedo, o Eletta» la salutò Somabula. Per quanto cercasse di dominarsi, gli tremava la voce. L'Umlimo non rispose; Somabula si bilanciò all'indietro sui talloni e tacque. La ragazzina stava trafficando tra i recipienti di coccio: poi venne a inginocchiarsi accanto all'albina e le offrì la pipa d'argilla che aveva preparato. L'Umlimo prese tra le sottili labbra argentee il lungo cannello, e la bambina tolse dal fuoco una brace a mani nude e la posò sulla piccola sfera di sostanza vegetale nel fornello della pipa, che incominciò a brillare e crepitare. L'Umlimo trasse una lunga boccata ed emise il fumo aromatico dalle narici scimmiesche. Immediatamente l'odore pesante e dolciastro dell'insanghu giunse fino agli uomini in attesa. Il dono profetico veniva indotto in molti modi diversi. Prima che Tanase perdesse il potere, discendeva in lei spontaneamente e la gettava in convulsioni mentre le voci degli spiriti lottavano per eromperle dalla gola. Ma la femmina grottesca, venuta dopo di lei, doveva ricorrere al fumo della canapa selvatica. I semi e i fiori della annabis saliva, schiacciati ancora verdi e modellati in sfere seccate al sole, erano la sua chiave del mondo degli spiriti. L'Umlimo fumò in silenzio per una dozzina di brevi inalazioni senza lasciarsi sfuggire il fumo dalle labbra, fino a quando la faccia pallida parve gonfiarsi e gli occhi rossi divennero vitrei. Poi espulse il fumo con un'esalazione esplosiva e ricominciò. Gli induna l'osservavano, così affascinati che in un primo momento non notarono il fruscio sommesso sul pavimento della caverna. Fu Bazo che, alla fine, trasalì e gemette inorridito, stringendo convulsamente il hraccio del padre. Gandank si lasciò sfuggire un'esclamazione e fece per alzarsi, vinto dall'orrore e dalla preoccupazione, ma la voce di Tanase lo fermò. «Non muoverti. E' pericoloso» bisbigliò concitata, e Gandank tornò a sedere e restò immobile. Dai recessi bui in fondo alla caverna un essere correva sulla sabbia chiara verso l'Umlimo. La luce del fuoco scintillò sulla corazza levigata quando raggiunse la donna e cominciò a inerpicarsi sul corpo gonfio e bianco. Si soffermò sul grembo, con la lunga coda segmentata che si ergeva e pulsava e le zampe sottili agganciate al ruvido, bianco pelo del pube: poi riprese a salire sul ventre obeso, si appese a un seno cascante come un frutto malefico da un ramo, salì ancora, sulla spalla, raggiunse l'angolo della mascella sotto l'orecchio. L'Umlimo rimase imperturbata: traeva piccoli sbuffi di fumo narcotico dal bocchino della pipa e i suoi occhi rossi fissavano ciecamente gli induna. L'enorme insetto lucente le si arrampicò sulla tempia, si fermò al centro della fronte sfigurata e restò appeso, capovolto. La coda dello scorpione, lunga più dell'indice di un uomo, s'inarcò sopra il dorso corneo. L'albina incominciò a mormorare e a borbottare! e un filo di bava candida le spuntò sulle labbra spellate. Disse qualcosa in un linguaggio sconosciuto e sulla sua fronte lo scorpione agitò la coda snodata, e dalla punta dell'aculeo rosso sgorgò una goccia trasparente di veleno che brillò come una gemma nella luce fioca. L'Umlimo parlò di nuovo, con voce roca e forzata, ancora in una lingua inintelligibile. «Che cosa dice?» sussurrò Bazo girando la testa verso Tanase. «Che lingua usa?» «Parla la lingua segreta degli iniziati» mormorò Tanase. «Invita gli spiriti a penetrare nel suo corpo e a prenderne possesso.» Lentamente, l'albina alzò la mano e si staccò lo scorpione dalla fronte. Tenne la testa e il corpo nel pugno chiuso, mentre la lunga coda sferzava con un movimento furioso. Piano piano lo abbassò e se l'accostò al seno. Lo scorpione colpì e il rigido aculeo corneo affondò nell'oscena carne rosea. Il viso dell'Umlimo non cambiò espressione, e lo scorpione colpì e colpì di nuovo, lasciando piccole trafitture rosse sul seno flaccido. «Morirà!» esclamò Bazo.
«Lasciala fare» sibilò Tanase. «Non è come le altre donne. Il veleno non le farà alcun male... serve soltanto a schiudere la sua anima agli spiriti.» L'albina si tolse lo scorpione dal seno e lo gettò tra le fiamme dove si contrasse e si accartocciò in un grumo carbonizzato. All'improvviso l'Umlimo proruppe in un urlo ultraterreno. «Gli spiriti stanno entrando in lei» sussurrò Tanase. La bocca dell'Umlimo si aprì, fili vitrei di saliva le colarono sul mento. Tre o quattro voci scatenate parvero uscirle contemporaneamente dalla gola, come se ognuna cercasse di sopraffare l'altra, voci di uomini e di animali, fino a quando una si levò più alta e le altre ammutolirono. Era una voce d'uomo e parlava nella lingua mistica, aliena persino nelle modulazioni e nelle cadenze; ma Tanase tradusse, sommessamente. «Quando il sole di mezzogiorno è scuro per l'ali e gli alberi sono spogli delle foglie di primavera... allora, guerrieri di Matabele, affilate il vostro acciaio.» I quattro induna annuirono. Avevano già udito quella profezia, perché gli oracoli dell'Umlimo spesso si ripetevano ed erano sempre oscuri. Altre volte s'erano arrovellati sulle stesse parole. Era il messaggio che Bazo e Tanase avevano portato alle genti matabele disperse, durante i loro vagabondaggi da un kraal all'altro. L'obesa veggente albina grugnì e agitò le braccia come se lottasse contro un avversario invisibile. Gli occhi rossi rotearono, si strabuzzarono; digrignò i denti con il suono di un cane che rode un osso. La ragazzina, che stava accosciata tra i recipienti di coccio, si alzò senza far rumore, si chinò sull'Umlimo e le gettò in faccia un pizzico di pungente polvere rossa. Il parossismo si placò; la mascella contratta si aprì e un'altra voce parlò con un suono gutturale e confuso, a malapena umano, usando lo stesso bizzarro dialetto. Tanase si protese per captare ogni sillaba e ripeté con calma: «Quando il bestiame giace con la testa girata per toccarsi il fianco e non può rialzarsi, allora, guerrieri dei matabele, prendete animo, perché il momento sarà vicino.» Stavolta la formulazione della profezia era un po' diversa da quella che avevano udito in passato e tutti riflettevano in silenzio, mentre l'Umlimo si accasciava bocconi, sussultando debolmente come una medusa arenata. A poco a poco ogni movimento cessò, e giacque come morta. Gandank fece per alzarsi; ma Tanase sibilò un avvertimento che lo fermò. Attesero. L'unico suono nella caverna era lo scoppiettare delle fiamme e il fruscio delle ali dei pipistrelli, lassù, contro la cupola di pietra. Poi un'altra convulsione squassò il dorso dell'Umlimo. La spina dorsale s'inarcò, il volto orribile si protese. Ma questa volta la voce era infantile e dolce, e parlava nella lingua dei matabele, perché tutti comprendessero. «Quando il bestiame senza corna sarà divorato dalla grande croce, incominci la tempesta.» La testa ricadde in avanti e la bambina coprì l'Umlimo con un kaross di soffici pelli di sciacallo. «E' finita» disse Tanase. «Non dirà altro.» I quattro induna si alzarono e ritornarono per il lugubre percorso attraverso le catacombe: ma quando videro il bagliore del sole oltre l'entrata affrettarono il passo, ed eruppero nella valle con una fretta così poco dignitosa che evitarono di guardarsi negli occhi. Quella notte, mentre sedevano nel setenghi aperto sul fondovalle, Somabula ripeté le profezie dell'Umlimo agli altri induna, e quelli annuirono di fronte ai primi due enigmi già noti come avevano fatto centinaia d'altre volte, ne cercarono il significato senza pervenire a una conclusione e finalmente si trovarono d'accordo: «Scopriremo il senso quando verrà il momento... E' sempre così.» Poi Somabula riferì la terza profezia dell'Umlimo, l'enigma sconosciuto «Quando il bestiame senza corna sarà divorato dalla grande croce.» Gli induna fiutarono il tabacco, si passarono i recipienti della bìrra, e discussero il significato arcano; e solo quando tutti ebbero parlato Somabula girò lo sguardo verso Tanase che stava seduta con il figlio sotto il mantello di pelle per proteggerlo dal freddo della notte. «Qual'è il vero significato, donna?» chiese.
«Non lo conosce neppure l'Umlimo» rispose Tanase. «Ma quando i nostri antenati videro per la prima volta i bianchi venuti dal sud, credettero che montassero bovini senza corna.» «I cavalli?» chiese pensosamente Gandank. «E' possibile» disse Tanase. «Eppure una parola dell'Umlimo può avere tanti significati quanti sono i coccodrilli nel fiume Llmpopo.» «Che cos'è la croce, la grande croce della profezia?» chiese Bazo. «La croce è il segno del dio a tre teste degli uomini bianchi» rispose Gandank. «La mia prima moglie, Juba, la Piccola Colomba, porta al collo quel simbolo, che le fu dato dalla missionaria a Khami quando le versò l'acqua sulla testa.» «E' possibile che il dio dei bianchi divori i loro cavalli?» chiese Babiaan in tono dubbioso. «Sicuramente li proteggerà anziche annientarli.» E la discussione passò da un anziano all'altro, mentre il fuoco si consumava e sopra la valle il firmamento sfolgorante ruotava con lenta dignità. Verso la parte meridionale della valle, tra gli altri corpi celesti, ardeva un gruppo di quattro grandi stelle bianche che i matabele chiamavano «i Figli di Manatassi.» La leggenda narrava che Manatassi, la terribile regina, aveva strangolato con le proprie mani i figli appena nati perché nessuno di loro potesse usurparle il regno. E le anime dei piccoli erano ascese a brillare nel cielo a eterna testimonianza della crudeltà della loro madre. Nessuno degli induna sapeva che i bianchi conoscevano quelle stelle con il nome di Croce del Sud. *** Ralph Ballantyne s'era ingannato quando aveva predetto a Harry Mellow che prima del loro ritorno al campo base Rhodes e il suo seguito si sarebbero trasferiti a Bulawayo. Quando varcarono i cancelli del recinto vide la magnifica carrozza ancora ferma dove l'aveva vista l'ultima volta, e accanto c'era una dozzina di veicoli decrepiti e provati dai tanti viaggi: carri e carrozze, e persino una bicicletta con i pneumatici sostituiti da strisce di pelle di bufalo. «Il signor Rhodes tiene corte qui» spiegò esasperata Cathy non appena rimase sola con Ralph nella tenda del bagno. «Ho reso troppo comodo l'accampamento, e lui se n'è impadronito.» «Come fa con tutto» osservò filosoficamente Ralph, mentre si toglieva la camicia lercia e la gettava in un angolo. «Ci ho dormito dentro per cinque notti, Dio mio. Il lavandaio dovrà batterla a dovere con un bastone prima di metterla nella tinozza.» «Ralph, non prendi abbastanza sul serio questa situazione.» Cathy pestò il piede a terra. «Questa è casa mia, l'unica che possiedo, e adesso sai... sai che cosa mi ha detto il signor Rhodes?» «C'è un altro sapone?» chiese Ralph mentre saltellava su una gamba sola per sfilarsi i calzoni. «Uno non basterà.» «Ha detto: "Jordan sarà responsabile delle cucine durante il nostro soggiorno, signora Ballantyne, perché conosce i miei gusti". Che cosa te ne pare?» «Jordan è un cuoco bravissimo.» Ralph si calò con prudenza nella vasca e borbottò quando toccò con le natiche nude l'acqua quasi bollente. «Non posso mettere piede nella mia cucina.» «Salta dentro!» ordinò Ralph, e Cathy s'interruppe per fissarlo con aria incredula. «Cosa hai detto?» chiese, ma per tutta risposta Ralph l'afferrò per una caviglia e se la tirò addosso nonostante le sue proteste. L'acqua fumante e i bioccoli di sapone spruzzarono le pareti della tenda. Quando si decise a lasciare Cathy, lei era fradicia fino alla cintura. «Hai l'abito inzuppato» le disse soddisfatto. «Ora non hai scelta... toglilo!» Cathy sedette tutta nuda nella vasca voltandogli la schiena, con le ginocchia contro il mento e i capelli umidi raccolti sulla testa, ma continuò a protestare. «Neppure Louise è riuscita a sopportare l'arroganza e la misoginia di quell'uomo. Ha convinto tuo padre a riaccompagnarla a King's Linn, e adesso devo sopportarmelo da sola!» «Sei sempre stata coraggiosa» disse Ralph, passandole con delicatezza sulla schiena la pezzuola insaponata. «Adesso si è sparsa la voce che è qui e tutti gli sbandati del Matabeleland arrivano da ogni direzione per sbafarsi il whisky gratis.» «Il signor Rhodes è un uomo gereroso» ammise Ralph, facendole scivolare la pezzuola sulle spalle e sul seno.
«Ma il whisky è tuo» disse Cathy, afferrandogli il polso prima che la pezzuola arrivasse all'ovvia destinazione. «Quell'uomo ha una faccia tosta infernale.» Per la prima volta Ralph lasciò trasparire la propria reazione. «Dovremo sbarazzarci di lui. Quel whisky vale dieci sterline la bottiglia, a Bulawayo.» Ralph riuscì a spingere la pezzuola un poco più in giù. «Ralph, mi fai il solletico» disse Cathy, dimenandosi. «Quando arrivano le due gemelle?» Ralph non badò alla protesta. «Hanno mandato avanti un corriere, dovrebbero essere qui prima di notte. Ralph, dammi subito la pezzuola!» «Vedremo se il signor Rhodes ha davvero i nervi d'acciaio...» «Ralph, posso farlo da sola. Ti ringrazio, ma dammi la pezzuola, e subito!» «E vedremo anche quanto sono svelti i riflessi di Harry Mellow...» «Ralph, sei matto? Siamo nel bagno!» «Li sistemeremo tutti e due in una volta sola.» «Ralph, non puoi! Non puoi... nel bagno, no!» «Estrometteremo Jordan dalla tua cucina, faremo di Harry Mellow il sovrintendente della Miniera Harkness e spediremo il signor Rhodes verso Bulawayo un'ora dopo che quelle due saranno arrivate...» «Ralph, tesoro, smetti di parlare. Non riesco a concentrarmi contemporaneamente su due cose» mormorò Cathy. *** La scena intorno al tavolo a cavalletti nella tenda che fungeva da sala da pranzo sembrava immutata dall'ultima volta che Ralph l'aveva vista, come un «quadro» nel Museo delle Cere di Madame Tussaud. Il signor Rhodes indossava lo stesso abito e dominava la tenda con il suo forte carisma. Erano cambiati soltanto coloro che sedevano nelle posizioni dei postulanti di fronte al lungo tavolo. Erano un gruppo eterogeneo di cercatori minerari senza fortuna, aspiranti a qualche concessione, promotori squattrinati di iniziative ambiziose, attratti dalla fama e dai milioni di Rhodes come gli sciacalli e le iene sono attirati dalle prede uccise dal leone. Nel Matabeleland vigeva l'uso di mostrare la propria originalità adottando copricapi eccentrici: e perciò gli uomini seduti di fronte a Rhodes presentavano un assortimento variegato; un berretto scozzese con una penna d'aquila trattenuta da un quarzo affumicato, un copricapo di castoro cirito da un nastro verde in onore di san Patrizio e un magnifico sombrero messicano ricamato, il cui proprietario aveva incominciato a narrare una lunga vicenda di dolorose traversie che Rhodes s'affrettò a interrompere. Ascoltare gli piaceva assai meno che parlare. «Quindi ne ha abbastanza dell'Africa, è così? Ma non ha il denaro per il viaggio?» chiese bruscamente. «Proprio così, signor Rhodes. Vede, la mia vecchia madre...» «Jordan, faccia a quest'uomo un buono perché torni in patria, e lo addebiti sul mio conto personale.» Rhodes interruppe con un cenno i ringraziamenti e alzò gli occhi mentre Ralph entrava nella tenda. «Harry mi ha detto che il nostro viaggio è stato un grande successo. Ha valutato che i campioni del filone dell'Harkness possono dare trenta once la tonnellata, trenta volte di più del miglior banket del Witwatersrand. Credo che dovremmo stappare una bottiglia di champagne. Jordan, non è rimasto un po' del Pommery dell'87?» «Almeno non mi tocca fornire lo champagne, oltre al whisky» pensò cinicamente Ralph mentre alzava il bicchiere per brindare. «Alla Miniera Harkness.» Appena ebbe bevuto si volse al dottor Leander Starr Jameson. «Cos'è questa storia delle leggi minerarie?» chiese. «Harry mi ha detto che state adottando il codice americano.» «Ha qualche obiezione?» Jameson avvampò e i baffi color stoppa si rizzarono. «Quel codice fu stilato da avvocati che miravano ad assicurarsi grasse parcelle in perpetuo. Le nuove leggi del Witwatersrand sono più semplici e un milione di volte più pratiche. Per Dio, non è sufficiente che la vostra Compagnia ci rubi il cinquanta per cento degli utili?» Mentre parlava, Ralph si rese conto che il codice minerario americano avrebbe funzionato come una cortina fumogena dietro la quale l'astuto Rhodes avrebbe potuto manovrare a volontà.
«Ricordi, giovane Ballantyne.» Jameson si allisciò i baffi e batté le palpebre con aria virtuosa. «Ricordi a chi appartiene questo territorio. Ricordi chi ha pagato le spese dell'occupazione del Mashonaland e chi ha finanziato la guerra contro i matabele.» «Il governo con una compagnia commerciale.» Ralph sentì la collera riassalirlo e strinse con forza il bordo del tavolo. «Una Compagnia padrona della polizia e dei tribunali. E se avessi una disputa con voi, chi deciderebbe, il magistrato della BSA?» «Esistono precedenti.» Il tono di Rhodes era ragionevole e conciliante, i suoi occhi no. «La Compagnìa delle Indie...» Ralph scattò. «Il governo britannico, alla fine, fu costretto a sottrarre l'India a quei pirati, Clive, Hastings e simili, che erano corrotti e opprimevano gli indigeni. La rivolta dei sepoy fu la conseguenza logica della loro amministrazione.» «Signor Ballantyne.» La voce di Rhodes diventava sempre stridula quando era eccitato o incollerito. «Devo chiederle di ritirare queste affermazioni che sono storicamente inesatte e quindi anche offensive.» «Ritiro ciò che ho detto, senza riserve.» Ralph, adesso, era furioso con se stesso. Di solito era troppo lucido per cedere alle provocazioni. Non aveva nulla da guadagnare in uno scontro frontale con Cecil John Rhodes. Continuò con un sorriso disinvolto e cordiale: «Sono sicuro che non avremo bisogno di rivolgerci a un magistrato della Compagnia.» Rhodes rispose al sorriso con la stessa disinvoltura, ma c'era un lampo d'acciaio nei suoi occhi quando alzò il bicchiere: «A una miniera redditizia e a rapporti più redditizi ancora» disse: e solo un altro dei presenti riconobbe una sfida in quel brindisi. Jordan si agitò irrequieto sulla sedia pieghevole in fondo alla tenda. Conosceva bene quei due uomini ed era affezionato a entrambi. Ralph, suo fratello, gli era stato vicino nell'infanzia solitaria e tempestosa, l'aveva confortato e protetto nei momenti difficili e aveva condiviso le sue gioie nei momenti lieti. Ora, mentre guardava il fratello e si confrontava con lui, gli sembrava impossibile che potessero essere tanto diversi. Jordan era biondo, snello ed elegante, Ralh bruno, muscòloso ed energico; Jordan era gentile e discreto, Ralph duro, audace e fiero come il falco al quale lo paragonavano i matabele. Istintivamente, Jordan girò gli occhi da lui alla figura massiccia che lo fronteggiava dall'altra parte del tavolo. In questo caso i sentimenti di Jordan trascendevano l'affetto e si elevavano verso un fervore religioso. Non riusciva a vedere i mutamenti fisici che in pochi anni s'erano compiuti nella divinità della sua esistenza: l'appesantimento della figura già voluminosa di Rhodes, il gonfiore del volto chiazzato dalla cianosi delle lesioni cardiache, i capelli biondorossicci sempre più radi e screziati di grigio alle tempie. Come una donna innamorata attribuisce scarsa importanza all'aspetto dell'uomo prescelto, Jordan vedeva al di là dei segni della sofferenza e delle infermità e del passare degli anni. Vedeva l'essenza d'acciaio di quell'uomo, la fonte suprema del suo potere immenso e della sua personalità solenne. Jordan avrebbe voluto gridare un monito al fratello, corrergli accanto e trattenerlo dalla follia di inimicarsi quel gigante. Aveva visto altri uomini fare la stessa cosa e finire implacabilmente schiacciati. Con un senso di nausea che gli attanagliava la bocca dello stomaco, Jordan sapeva da quale parte si sarebbe schierato se mai uno scontro gli avesse imposto una scelta. Era fedele a Rhodes: al di là dei legami fraterni e familiari, fino alla fine della sua vita sarebbe sempre stato fedele a Rhodes. Ora stava cercando disperatamente una scusa plausibile per spezzare la tensione tra le due persone più importanti della sua vita; ma la diversione venne dall'esterno... le grida di gioia dei servitori, l'abbaiare isterico dei cani, il cigolio delle ruote dei carri e le esclamazioni delle donne. Jordan era l'unico, in quel momento, che stesse guardando Ralph, e notò l'espressione soddisfatta e un po' sorniona che assunse mentre si alzava. «Sembra che abbiamo altre visite» disse Ralph, e le gemelle entrarono nel recinto interno. Victoria fu la prima, come Ralph aveva immaginato. Le gambe lunghe e ben modellate erano delineate dall'ondeggiare della sottile gonna di cotone. Era scalza, come per sfidare le convenzioni;
teneva le scarpe con una mano e aveva in braccio Jonathan. Il bambino strillava come un lattonzolo di facocero abbandonato dalla madre. «Vicky! Vicky, che cosa mi hai portato?» «Un bacio sulla guancia e una pacca sul didietro.» Vicky rise e lo strinse a sé. Aveva una risata squillante, allegra e senza affettazioni; la bocca era un po' troppo grande, ma le labbra erano vellutate come petali di rosa e modellate graziosamente, i denti robusti e candidi come porcellana; e quando rideva, la lingua rosea come quella di un gatto s'incurvava un poco. Gli occhi erano verdi e distanti, la carnagione aveva quella serica perfezione tipicamente inglese che il sole e le dosi massicce di chinino antimalarico non potevano deturpare. Sarebbe stata affascinante anche senza i folti capelli biondorame spettinati dal vento e selvaggi come il mare che le scendevano intorno al viso e sulle spalle. Vicky aveva attratto l'attenzione di tutti gli uomini, persino di Rhodes. ma corse verso Ralph, continuando a reggere il bambino, e gli gettò il braccio libero intorno al collo. Era così alta che le bastò sollevarsi un poco in punta di piedi per arrivargli alle labbra. Il bacio non fu lungo: ma la bocca era morbida e umida, la pressione dei seni sotto la camicia di cotone era calda ed elastica, e il contatto delle cosce gli fece scorrere un brivido lungo la schiena. Ralph si liberò dall'abbraccio e per un istante gli occhi verdi lo irrisero, sfidandolo a fare qualcosa che Vicky non comprendeva completamente, inebriata da quella sensazione di potere sugli uomini che non aveva ancora messo del tutto alla prova. Poi passò Jonathan a Ralph, piroettò su se stessa e, scalza, corse a buttarsi tra le braccia di Jordan. «Jordan carissimo, oh, come ci sei mancato!» Lo trascinò in un passo di danza intorno alla recinzione, scrollando i capelli splendenti e canticchiando per la gioia. Ralph lanciò un'occhiata a Rhodes; e quando vide la sua espressiOne di turbamento e di disagio, sorrise e lasciò scendere a terra Jonathan, che corse ad aggrapparsi alla gonna di Vicky e a strillare allegramente; poi si voltò per accogliere la seconda gemella. Elizabeth era alta come Vicky, ma più bruna. I capelli erano di mogano, costellati di scintille violacee, e la carnagione era dorata dal sole come gli occhi d'una tigre. Era snella come una ballerina, con la vita sottile e un lungo collo d'airone; i seni erano più piccoli di quelli di Vicky, ma eleganti e rialzati, e sebbene la voce fosse garbata e la risata gentile e un po' gutturale, c'era un guizzo malizioso nelle sue labbra, un'inclinazione vivace della testa, e una misurata consapevolezza della propria sensualità negli occhi che avevano il colore del miele selvatico. Era al braccio di Cathy, ma si staccò da lei per avvicinarsi a Ralph. «Il mio cognato prediletto» mormorò; e nel guardarla negli occhi Ralph rammentò che, sebbene avesse la voce più sommessa e i modi in apparenza più composti di quelli della gemella, era sempre Elizabeth a istigare e organizzare le malefatte che combinavano insieme. Vista da vicino, era evidente la sua bellezza, meno appariscente di quella di Vicky, ma con un'armonia inquietante tra i lineamenti e la profondità degli occhi bruno-dorati. Baciò Ralph, e il contatto fu breve ma anche meno formale di quello di Vicky; e quando si staccò socchiuse gli occhi con una finta innocenza più letale di qualunque sfacciataggine. Ralph spezzò quel contatto elettrizzante, guardò Cathy con una smorfia di comica rassegnazione e si augurò di poterle far credere che evitava studiatamente le gemelle perché le giudicava troppo infantili e chiassose. Vicky, accaldata e un po' ansante, lasciò Jordan, si mise le mani sui fianchi e chiese: «Ralph, non ci presenti a questi signori?» «Signor Rhodes, posso presentarle le mie cognate?» disse Ralph con aria soddisfatta. «Oh, il famoso signor Rhodes!» esclamò Vicky con slancio teatrale; ma c'erano minuscole scintille verdi nei suoi occhi. «E' un grande onore conoscere il vincitore della nazione ma tabele perché, vede, il re Lobengula era un amico della nostra famiglia.» «Voglia scusare mia sorella, signor Rhodes.» Elizabeth fece una reverenza con aria pudica e dignitosa. «Non intende essere scortese ma i nostri genitori furono i primi missionari presso i matabele, e nostro padre sacrificò la vita nel tentativo di aiutare Lobengula mentre le sue truppe lo inseguivano. Mia madre...» «Signorina, so chi è sua madre» l'interruppe brusco Rhodes.
«Oh, bene» esclamò soavemente Vicky «Allora apprezzerà il dono che mi ha chiesto di portarle.» Vicky frugò nell'ampia tasca della gonna ed estrasse un volumetto. La rilegatura era di cartone, non di marocchino, e la carta gialla era scadente. Lo posò sul tavolo davanti a Rhodes, che quando vide il titolo strinse i denti di colpo. Persino Ralph rabbrividì leggermente. Aveva Densato che le gemelle avrebbero rappresentato un'influenza perturbatrice, ma non aveva pteviStO che causassero subito un'esplosione. Il libro era intitolato Il soldato Hackett del Matabeleland di Robyn Ballantyne, perché la madre delle gemelle scriveva e pubblicava con il cognome da nubile. Probabilmente non c'era un solo uomo entro il recinto che non avesse già letto il libriccino o almeno sentito parlare del contenuto: e se Vicky avesse buttato sul tavolo un mamba vivo la costernazione generale non avrebbe potuto essere più intensa. Il contenuto del volume era così scottante che tre stimati editori londinesi l'avevano rifiutato; e alla fine Robyn St John l'aveva pubblicato privatamente, causando una sensazione immediata. In sei mesi se ne erano vendute quasi duecentomila copie, e c'erano state lunghe recensioni su quasi tutti i giornali influenti dell'Inghilterra e delle colonie. Il frontespizio dava subito un'idea del testo. Era una foto sfuocata che mostrava una dozzina di bianchi nelleuniformi della BSA Company, fermi sotto un teak a guardare i cadaveri di quattro matabele seminudi, impiccati ai rami più alti. La foto non aveva didascalia e le facce dei bianchi erano indistinte irriconoscibili. Rhodes tese la mano e aprì il libro a quella macabra illustrazione. «Sono quattro induna matabele che furono feriti nella battaglia del Bembesi e si suicidarono per non arrendersi alle nostre forze» ringhiò. «Non furono vittime di un'atrocità, come insinua questa volgare porcheria.» Chiuse il libro con uno scatto secco, ed Elizabeth esclamò dolcemente: «Oh, signor Rhodes, la mamma sarà così delusa quando saprà che il suo libro non le è piaciuto!» Il libro narrava le avventure fittizie del soldato Hackett del corpo di spedizione della BSA Company e la sua convinta partecipazione al massacro dei matabele, all'inseguimento e all'uccisione dei superstiti in fuga, all'incendio dei kraal, alla requisizione del bestiame di Lobengula, allo stupro delle ragazze matabele. Poi il soldato Trooper restava separato dallo squadrone e passava la notte solo su di un kopje; e mentre sedeva accanto al fuoco un misterioso bianco sconosciuto usciva dall'oscurità e si avvicinava. Hackett osservava: «Ah, anche lei ha fatto le sue guerre, vedo» e si tendeva a esaminare i piedi dell'uomo. «Per Dio! Tutti e due! Trapassati... dev'essere stato terribile!» Lo sconosciuto rispondeva: «E' accaduto molto tèmpo fa» e al lettore non restavano dubbi sull'identità del personaggio, soprattutto perché l'autrice descriveva il bel viso gentile e gli onniveggenti occhi azzurri. All'improvviso lo sconosciuto ptOrompeva in una fiorita ingiunzione al giovane Hackett. «Porta un messaggio in Inghilterra. Presentati a quel grande popolo e chiedi: "Dov'è la spada che fu data nelle tue mani perché iMponessi la giustizia e dispensassi la misericordia? Come hai pOtUtO affidarla a coloro che aspirano soltanto all'oro e alla ricchezza, e vedono le anime e i corpi dei loro simili come pedine d'un gioco, gli uomini che hanno trasformato la spada d'un grande popolo in un attrezzo per scavare l'oro come i grugni dei maiali grufolano nella terra in cerca di ghiande?"» Non era affatto sorprendente, pensò Ralph sorridendo tra sé che Rhodes avesse scostato il libro e dopo averlo toccato si strofinasse la mano sul bavero della giacca gualcita. «Oh, signor Rhodes» mormorò Vicky, sgranando gli occhi con fare angelico. «Deve leggere almeno la dedica che le ha scritto la mamma.» Prese il volume, l'aprì e lesse a voce alta: «"A Cecil John Rhodes, senza le cui imprese questo libro non sarebbe stato scritto".» Il signor Rhodes si alzò lentamente, con dignità. «Ralph» disse in tono calmo, «grazie per la sua ospitalità. Io e il dottor Jim proseguiremo per Bulawayo, credo. Ci siamo trattenuti già molto a lungo.» Poi guardò Jordan. «I muli sono riposati. Jordan, c'è la luna stanotte?» «Sì, ci sarà la luna piena» rispose pronto Jordan. «E non ci sono nubi, quindi avremo una luce buona.» «Possiamo essere pronti a partire stasera, allora?» Era un ordine
e Rhodes non attese la risposta. Uscì a grandi passi dalla recinzione avviandosi verso la sua tenda, e il dottore lo seguì impettito. Appena se ne furono andati, le gemelle proruppero in una risata argentina e si abbracciarono di slancio. «La mamma sarebbe stata fiera di te, Victoria Isabel...» «Ma io no.» La voce di Jordan stroncò la loro ilarità. Era pallido e tremava di rabbia. «Siete due ragazzine sciocche e maleducate.» «Oh, Jordan!» Vicky gli prese la mano. «Non arrabbiarti. Ti vogliamo tanto bene.» «Oh, sì, davvero. Tutte e due.» Elizabeth gli prese l'altra mano, ma Jordan si svincolò. «Siete così scervellate che non vi rendete conto di giocare un gioco pericoloso, e non soltanto per voi.» Si staccò da loro, ma si soffermò un momento davanti a Ralph. «Neppure tu lo capisci.» La sua espressione si addolcì. Posò una mano sulla spalla del fratello. «Ti prego, sii più prudente... per me, se non per te stesso.» Poi seguì Rhodes. Ralph estrasse dal taschino del panciotto l'orologio d'oro e finse di osservarlo con attenzione. «Bene» annunciò alle gemelle. «Sedici minuti per sgombrare il campo. Dev'essere un nuovo primato persino per voi due.» Rimise in tasca l'orologio e passò un braccio intorno alle spalle di Cathy. «Ecco, amor mio. E' di nuovo casa tua, senza estranei.» «Non è esatto» mormorò una voce dall'accento del Kentucky. Harry Mellow si alzò dal tronco dove s'era seduto e si tolse il cappello. Le gemelle lo fissarono stupite per un istante, poi si scambiarono un'occhiata d'intesa e, di colpo, si trasformarono. Liza si assestò la gonna e Vicky si scostò dal viso icapelli folti. Le loro espressioni divennero solenni, l'atteggiamento degno di due signore. «Puoi presentare questo giovanotto, cugino Ralph» disse Vicky con un accento così raffinato che Ralph la guardò due volte per assicurarsi che fosse proprio lei a parlare. *** Quando i muli trainarono la carrozza fuori dal recinto, un componente del seguito di Rhodes non era a bordo. «Che cos'hai detto al signor Rhodes?» chiese Cathy stringendosi al braccio del marito mentre guardavano la carrozza che si allontanava come un'ombra scura sulla strada inargentata dalla luna. «Gli ho detto che ho bisogno di Harry ancora per un giorno o due, perché mi aiuti a pianificare lo sfruttamento della Miniera Harkness.» Ralph accese l'ultimo sigaro della giornata; e incominciarono il giro del campo che costituiva un rito della loro vita in comune. Era un momento di soddisfazione e d'anticipazione deliziosa, quando parlavano degli avvenimenti della giornata appena trascorsa e facevano progetti per l'indomani, e camminavano toccandosi: la mano di Cathy sul braccio di Ralph, i fianchi che si sfioravano, in una vicinanza che presto avrebbe portato con dolce naturalezza all'ampia branda soffice della tenda conica. «Era vero?» chiese Cathy. «Quasi» ammise Ralph. «Ho bisogno di Harry per più di un giorno o due: probabilmente per dieci o vent'anni.» «Se ci riuscirai, sarai uno dei pochi che l'avranno avuta vinta con il signor Rhodes, e a lui non piacerà.» Ralph la fece fermare. «Ascolta!» Dalla recinzione interna giungevano il bagliore arancione del fuoco e le note di un banjo suonato con rara maestria. Le note limpide zampillavano e confluivano: come il canto di un uccello esotico, la musica salì fino a un crescendo impossibile, quindi s'interruppe così all'improvviso che il silenzio assoluto tremolò nell'aria per lunghi secondi prima che ricominciasse un po' esitante il coro notturno delle cicale sugli alberi, ammutolito dalla vivacità dello strumento. Poi giunsero un suono di applausi discreti e le esclamazioni di sincero entusiasmo delle gemelle. «Il tuo giovane Harry Mellow è un uomo dalle molte doti.» «La più importante è la capacità di percepire la presenza dell'oro in un dente otturato anche attraverso un campo di polo. Tuttavia, non dubito che le tue sorelline finiranno per apprezzare altri suoi meriti.» «Dovrei mandarle a letto» mormorò Cathy. «Non fare la sorella maggiore cattiva» raccomandò Ralph.
La musica riprese: questa volta Harry Mellow cantava con la sua voce baritonale e le gemelle si unirono al ritornello. «Lascia in pace quelle poverine. Ne hanno già abbastanza a casa loro.» «E' il mio dovere» protestò Cathy, non troppo convinta. «Se è a questo che pensi» rise Ralph, «allora, per Dio, donna, hai un altro dovere più importante da compiere!» Si sdraiò sulla branda e, nella luce della lampada, la guardò mentre si preparava ad andare a letto. Cathy aveva impiegato molto tempo per dimenticare la sua educazione di figlia di missionari e permettergli di guardarla; ma adesso lo trovava piacevole e si paVoneggiava un po' davanti a lui. Ralph sorrise e si sporse dalla branda per spegnere il sigaro, poi le tese le braccia. «Vieni qui, Cathy!» ordinò. Ma lei indugiò, provocante. «Sai che cosa voglio?» «No, ma so che cosa voglio io. Voglio una casa...» «La casa ce l'hai.» «Con il tetto di paglia e i muri di mattoni, e un giardino vero.» «Hai un giardino, il più bel giardino del mondo, e si estende dal Limpopo allo Zambesi.» «Un giardino con le rose e i gerani.» Cathy si avvicinò, e lui scostò il lenzuolo. «Mi costruirai una casa, Ralph? «Sì.» «Quando?» «Quando sarà finita la ferrovia.» Cathy sospirò. Le aveva fatto la stessa promessa quando stava posando la linea del telegrafo, prima ancora che nascesse Jonathan; ma sapeva che era inutile ricordarglielo. S'infilò tra le lenzuola e stranamente le braccia che la cinsero divennero per un momento la sua casa. *** Nella primavera meridionale sulle rive d'uno dei grandi laghi situati nelle calde profondità della Rift Valley, la possente faglia geologica che spacca lo Scudo Continentale Africano come un colpo d'ascia, si stava compiendo una schiusa bizzarra. Le masse delle uova della Schistocerca Gregaria, la locusta del deserto, che erano sepolte nella terra smossa lungo il bordo del lago, rilasciarono le ninfe incapaci di volare. Le uova erano state deposte in condizioni climatiche e ambientali eccezionalmente favorevoli. Gli sciami degli insetti, al momento della riproduzione, erano stati spinti dai venti fuori stagione a concentrarsi tra i papiri in riva al lago, un'immensa riserva di cibo che esaltava la loro fecondità. Quando era venuto il momento di deporre le uova, un altro vento capriccioso li aveva spinti in massa su un terreno arido e friabile che aveva la giusta acidità per proteggere le uova dai contagi dei funghi, mentre la leggera umidità che saliva dal lago assicurava l'elasticità ai gusci, in modo che le ninfe potessero uscirne agevolmente. In altre stagioni le uova potevano andare perdute anche nella misura del novantacinque per cento; ma quell'anno la terra generosa restituì una tale moltitudine di ninfe da non poterle contenere. Sebbene il territorio della schiusa fosse di oltre cento chilometri quadrati, gli insetti dovevano strisciare l'uno sul dorso dell'altro, a strati e a mucchi, e la superficie del deserto pareva diventata un unico organismo vivente e mostruoso. L'agitazione incessante e lo stimolo del contatto con i loro simili produssero un cambiamento miracoloso nel mare fremente delle ninfe. Il colore mutò, dal bruno scialbo caratteristico della specie a un arancione vivo e un nero mezzanotte. Il ritmo metabolico accelerò e gli insetti diventarono iperattivi e nervosi. Le zampe divennero più lunghe e possenti, le ali si svilupparono con rapidità impressionante; ed entrarono nella fase gregaria. Quando ebbero compiuto l'ultima muta e le loro ali si furono asciugate, si produsse l'ultimo capriccio casuale del tempo. Le nubi tropicali lungo la scarpata della valle vennero sospinte lontano, e un sole terribile martellò sulla massa brulicante d'insetti. La valle divenne un forno e l'intero sciame di locuste si alzò nell'aria. Nel battesimo del volo, il calore che i loro corpi avevano assorbito dalla terra riarsa della valle fu accresciuto ancora dall'attività muscolare. Non potevano fermarsi, e volarono verso sud in una nube che eclissava il sole e si estendeva da un orizzonte all'altro. Nel fresco della sera la nube sterminata discese a terra, e gli alberi della foresta non ne ressero il peso. I rami grossi quanto il torace di un uomo si spezzarono sotto le masse degli insetti.
Al mattino il ritorno del caldo li spronò a riprendere il volo: s'innalzarono oscurando il cielo e lasciarono gli alberi della foresta completamente spogli del tenero fogliame primaverile, e i rami nudi e contorti sembravano arti di invalidi in un paesaggio morto. *** I muri imbiancati della Missione di Khami brillavano nel sole meridiano con il fulgore abbacinante dell'osso calcinato. L'abitazione della famiglia, circondata da verande ombrose e coperta da uno spesso strato di paglia scura, stava un po' lontano dalla chiesa e dagli edifici circostanti: ma tutti sembravano acquattarsi ai piedi della linea delle colline boscose, come i pulcini si acqUattanO sotto la chioccia quando un falco volteggia nel cielo. Dai gradini della casa il giardino si estendeva oltre il pozzo, fino al fiumicello. Più vicino alla costruzione c'erano le rose e le bougainvillee, le poinsezie e le bordure di phlox, che formavano vivide chiazze di colore sul veld ancora brunito dal lungo inverno asciutto; ma più vicino all'acqua i campi di mais erano curati dai convalescenti della clinica della missione, e presto sulle piante alte e verdi sarebbero spuntate le prime pannocchie. Tra i filari del granturco il terreno era nascosto sotto le scure foglie a ombrella delle zucche. Quei campi sfamavano centinaia di bocche, la famiglia e i servitori e i malati e i convertiti che da ogni parte del Matabeleland giungevano a quella piccola oasi di speranza e di soccorso. Sulla veranda della casa principale, intorno a una tavola nuda di pesante legno di mukwa piallato a mano, la famiglia era seduta per il pasto di mezzogiorno. Era un pasto di fumante pane di granturco, accompagnato dal maas, il denso latte acido versato dalla brocca di pietra; e secondo le gemelle il ringraziamento che l'aveva preceduto era sproporzionatamente lungo per un vitto tanto frugale. Vicky si agitò irrequieta ed Elizabeth sospirò, un sospiro meticolosamente calcolato e rattenuto per non attirarsi la collera materna. La dottoressa Robyn St John, decana della Missione di Khami, aveva doverosamente ringraziato l'Onnipotente per la sua generosità; ma ora continuava, in tono discorsivo, per farGli notare che un po' di pioggia sarebbe stata utile per favorire l'impollinazione delle pannocchie e garantire la continuità di quell'abbondanza. Robyn aveva gli occhi chiusi e il viso rilassato e sereno. La carnagione era liscia quasi come quella di Victoria; i capelli scuri avevano gli stessi riflessi ruggine di quelli di Elizabeth, ma una lieve spruzzata d'argento alle tempie tradiva la sua età. «Buon Dio» disse, «nella Tua saggezza hai permesso che Margherita, la nostra vacca migliore, perdesse il latte. Ci sottomettiamo alla Tua volontà che trascende la comprensione umana, ma abbiamo bisogno di latte perché questa piccola missione continui a operare per la Tua gloria...» Robyn s'interruppe per un momento. «Amen!» disse Juba, in fondo alla tavola. Da quando s'era convertita al cristianesimo, Juba si copriva i seni neri, grossi come meloni, con un panciotto da uomo rigorosamente abbottonato; e tra le collane di frammenti d'uova di struzzo e di conterie che le cingevano la gola era appeso un semplice crocifisso d'oro con una sottile catenella. A parte questo, vestiva ancora il costume tradizionale d'una matrona matabele d'alto rango. Robyn aprì gli occhi e le sorrise. Erano compagne da molti anni, da quando Robyn aveva salvato Juba dalla stiva del dhow dei negrieri àrabi nel canale di Mozambico, ai tempi in cui entrambe erano giovani e, nubili; ma era stato soltanto poco prima di venire annientato dalle forze della Compagnia che il re Lobengula aveva finalmente permesso che Juba si convertisse alla fede cristiana. Juba, la Piccola Colomba... com'era cambiata da quei tempi lontani. Adesso era la moglie principale di Gandank, uno dei grandi induna della nazione matabele, fratello del re Lobengula, e gli aveva partorito dodici figli; il maggiore era Bazo, l'Ascia, e anche lui era un induna. Quattro dei figli più giovani erano morti falciati dalle mitragliatrici Maxim al fiume Shangani e al guado del Bembesi. Ma non appena la breve guerra crudele era terminata, Juba era tornata alla Missione di Khami, da Robyn.
Juba ricambiò il sorriso. Il suo viso era una lustra luna piena, con la serica pelle nera tirata sugli strati di grasso. Gli occhi scuri brillavano d'intelligenza, i denti erano d'un candore perfetto. In grembo, entro il cerchio delle braccia enormi, teneva l'unico figlio maschio di Robyn St John. Robert non aveva ancora due anni: era un bambino esile che non aveva la solida struttura ossea del padre ma gli stessi, strani occhi screziati di giallo. La pelle aveva assunto un colorito olivastro a causa delle dosi regolari di chinino somministrate per prevenire la malaria. Come molti figli di madri alla vigilia della menopausa, aveva una strana aria solenne, come fosse un piccolo gnomo già centenario. Scrutava sempre il viso della madre come se ne comprendesse ogni parola. Robyn chiuse di nuovo gli occhi; e le gemelle che s'erano rianimate alla prospettiva di un amen definitivo si scambiarono un'occhiata di rassegnazione. «Buon Dio, Tu conosci il grande esperimento che la Tua umile serva intraprenderà prima della conclusione di questa giornata; e siamo certi che Tu comprenderai e accorderai la Tua protezione durante i giorni pericolosi che si profilano.» Juba capiva l'inglese appena quanto bastava per seguire quella supplica; e il sorrisO le sparì dal volto. Anche le gemelle rialzarono lo sguardo: erano così turbate e depresse che quando Robyn recitò l'atteso amen non tesero le mani verso i piatti e le brocche. «Victoria, Elizabeth, potete incominciare» le esortò Robyn. Per un po' le due ragazze masticarono in silenzio, controvoglia. «Non ci avevi detto che sarebbe stato oggi» commentò finalmente Vicky. «La ragazza del kraal di Zama è il soggetto ideale. I brividi le sono incominciati un'ora fa e prevedo che la febbre raggiunga il massimo prima del tramonto.» «Ti prego, mamma.» Elizabeth si alzò, andò a inginocchiarsi accanto a Robyn e le cinse la vita con le braccia. «Ti prego, non farlo.» «Non fare la sciocca, Elizabeth» ribatté con fermezza RoDyn. «Torna al tuo posto e mangia.» «Lizzie ha ragione.» Gli occhi verdi di Vicky erano pieni di lacrime. «Non vogliamo che tu lo faccia. E' così pericoloso, così orribile.» L'espressione di Robyn si addolcì un poco. Tese la mano bruna, sottile ed energica, e la posò sulla testa di Elizabeth. «A volte dobbiamo fare cose che ci spaventano. Dio mette alla prova la nostra forza e la nostra fede.» Le scostò i capelli scuri dalla fronte con un gesto carezzevole. «Vostro nonno, Fuller Ballantyne...» «Il nonno era tocco» intervenne Vicky. «Era pazzo.» Robyn scosse la testa. «Fuller Ballantyne era un grand'uomo di Dio, e la sua visione e il suo coraggio non avevano limiti. Soltanto gli individui meschini chiamano pazzi quelli come lui. Dubitavano di vostro nonno come ora dubitano di me; ma come lui, anch'io proverò la verità» disse con fermezza. L'anno precedente Robyn, nella sua qualità di sovrintendente medico della Missione di Khami, aveva presentato all'Associazione dei Medici Britannici una relazione in cui esponeva le conclusioni di vent'anni di studi sulla febbre malarica tropicale. All'inizio del documento aveva riconosciuto scrupolosamente i meriti di Charles-Louis-Alphonse Laveran, il primo che avesse Isolato l'agente parassitario della malaria mediante l'osservazione al microscopio; ma poi era andata oltre e aveva postulato che i parossismi periodici di tremiti e di febbre caratteristici della malattia coincidevano con la segmentazione dei parassiti nel sangue del paziente. Gli illustri membri dell'Associazione dei Medici Britannici conoscevano bene la reputazione di Robyn come agitatrice politica radicale che sfidava le loro concezioni conservatrici. Non le avevano mai perdonato d'essersi spacciata per un uomo per frequentare la facoltà di medicina e di aver profanato il loro regno esclusivamente maschile ottenendo il titolo accademico grazie a ùna simulazione. Ricordavano con preoccupazione lo scalpore e lo scandalo che aveva provocato quando i sovrintendenti del Saint Matthew's Hospital di Londra, dove aveva studiato, avevano logicamente tentato di revocarle la laurea. E avevano seguito di malanimo la pubblicazione dei suoi libri di successo, culminati con il famigerato Soldato Hacket, del Matabeleland, un rabbioso attacco contro la Compagnia nella quale erano investite somme cospicue dei fondi dell'associazione. Naturalmente gli onorevoli membri dell'augusto consesso erano superiori a sentimenti terreni come l'invidia e la malignità, e quindi nessuno le serbava rancore per i principeschi diritti d'autore
ricavati dai suoi libri; e quando alcune delle rivoluzionarie teorie di Robyn sulle malattie tropicali s'erano rivelate esatte, dopo le pressioni di Oliver Wicks, che era il paladino di Robyn e il direttore dello Standard, avevano ritirato le precedenti confutazioni. Tuttavia quando la dottoressa Robyn St John, già Codrington, nata Ballantyne, fosse finalmente riuscita a mettersi nei guai con la sua audacia e la sua presunzione, i membri dell'Associazione dei Medici Britannici non si sarebbero certo disperati. Perciò avevano letto con blando allarme la prima parte dell'ultima relazione di Robyn sulla febbre malarica. La sua teoria sulla coincidenza fra la segmentazione dei parassiti e le alterazioni della temperatura dei pazienti poteva soltanto aggiungere lustro alla sua reputazione. Poi, con soddisfazione crescente, erano arrivati alla seconda parte e s'erano accorti che ancora una volta aveva messo in pericolo se stessa e la sua fama. Era quando Ippocrate aveva descritto per primo la malattia nel Quinto secolo avanti Cristo, nessuno aveva contestato che la malaria, come sottintendeva il nome, venisse trasmessa dai miasmi dei terréni paludosi. Robyn St John postulava che era un errore, e che il contagio si comunicava da un malato a un individuo sano nediante il trasferimento fisico del sangue. E poi, incredibilmente, la relazione proseguiva affermando che gli agenti erano le zanzare, di solito presenti in grande numero nelle paludi e negli acquitrini dove proliferava la malattia. Come prova Robyn citava la sua scoperta: al microscopio aveva trovato il parassita della malaria nello stomaco degli insetti. Di fronte a un'occasione del genere, i colleghi dell'Associazione dei Medici Britannici non avevano saputo resistere alla tentazione di sbeffeggiarla. «La dottoressa St John non dovrebbe lasciare che la sua tendenza verso la narrativa scandalistica invada il sacro campo della ricerca medica» aveva scrittO uno dei critici più caritatevoli. «Non esiste ombra di prova che una malattia possa essere trasmessa nel sangue, e individuare i responsabili nelle zanzare non è molto diverso dal credere nei vampiri e nei lupi mannari.» «Ridevano anche di vostro nonno.» Ora Robyn aveva alzato il mento e la forza e la decisione che si riflettevano sul suo volto erano impressionanti. «Quando confutò la loro convinzione che la febbre gialla fosse una malattia infettiva o contagiosa, lo sfidarono a fornire una prova.» Le gemelle avevano ascoltato dozzine di volte quell'episodio, ed entrambe impallidirono per la nausea. «E così andò in quell'ospedale dove si erano riuniti tutti gli illustri chirurghi, raccolse in un bicchiere del vomito giallo d'uno dei pazienti che stava morendo di quella malattia, brindò ai colleghi e poi lo trangugiò di fronte a tutti.» Vicky si coprì la bocca con le mani, Elizabeth si lasciò sfuggire un gemito soffocato e impallidì ancora di più. «Vostro nonno era un uomo coraggioso e io sono sua figlia» disse semplicemente Robyn. «Ora finite il pranzo. Voglio che mi assistiate questo pomeriggio.» *** Dietro la chiesa c'era il reparto nuovo costruito da Robyn dopo che il suo primo marito era morto nella guerra contro i matabele. Era un capannone aperto e circondato da muri bassi. Il tetto di paglia era sorretto da pali di mopani. Quand'era caldo, la brezza poteva circolare all'interno: ma quando pioveva o faceva freddo, le tende d'erba intrecciata venivano abbassate. Le stuoie dei pazienti erano allineate sul pavimento d'argilla; le famiglie non venivano separate, e i coniugi e i figli sani si accampavano intorno ai loro malati. Robyn avéva preferito trasformare il reparto in una comunità chiassosa, pur di non vedere i ricoverati che si struggevano fino a morire. Ma la sistemazione era così comoda e il vitto così buono che diventava un problema convincere i pazienti ad andarsene dopo la guarigione; alla fine Robyn aveva trovato una soluzione. Mandava i convalescenti e le loro famiglie a lavorare nei campi o a costruire nuovi reparti, e questo serviva a ridurre la popolazione della clinica a proporzioni ragionevoli. Il laboratorio di Robyn era situato tra la chiesa e il reparto. Era un piccolo rondavel dai muri di adobe, con un'unica finestra. Gli scaffali e il banco erano disposti lungo tutto il muro interno. Al
posto d'onore stava il nuovO microscopio di Robyn, acquistato con i diritti d'autore del Soldato Hackett, e accanto c'era il diario degli esperimenti, un grosso volume rilegato in pelle su cui ella stava annotando in quel momento le osservazioni preliminari. «Soggetto: femmina caucasica attualmente in buona salute...» scrisse con mano sicura, ma alzò la testa, irritata dal tono tragico e dall'espressione lugubre di Juba. «Avevi giurato al grande re Lobengula che dopo la sua morte avresti avuto cura del suo popolo. Come puoi onorare la promessa se morirai, Nomusa?» chiese Juba in sindebele, usando il nome elogiativo matabele di Robyn, «Figlia della Misericordia.» «Non morirò, Juba» ribatté irritata Robyn. «E per amore di tutto ciò che è sacro, non fare quella faccia.» «Non è mai saggio provocare gli spiriti tenebrosi, Nomusa.» «Juba ha ragione, mamma» intervenne Vichy. «Hai smesso di prendere il chinino da sei settimane, e le tue osservazioni dimostrano che è cresciuto il pericolo della febbre nera...» «Basta!» Robyn batté la mano sul tavolo. «Non intendo più ascoltarvi.» «Sta bene» disse Elizabeth. «Non cercheremo di fermarti. Ma se ti ammalassi gravemente, dovremmo andare a Bulawayo per chiamare il generale St John?» Robyn lasciò cadere la penna, spruzzando d'inchiostro la pagina aperta, e si alzò di scatto. «Assolutamente no. Mi hai sentita? Non voglio che vi avviciniate a quell'uomo.» «Mamma, è tuo marito» osservò Vicky in tono ragionevole. «E' il padre di Bobby» continuò Elizabeth. «E ti ama» disse Vicky prima che Robyn potesse interromperla. Robyn era sbiancata e tremava di collera e di qualche altra emozione che al momento le impediva di parlare. Elizabeth approfittò di quel silenzio. «E' così forte...» «Elizabeth!» Robynritrovò la voce: era tagliente come una spada. «Sai che vi ho proibito di parlare di quell'uomo.» Tornò a sedere, riprese la penna e per un momento l'unico suono fu lo scricchiolio del pennino. Ma quando parlò di nuovo la sua voce era calma, sbrigativa. «Finché sarò nell'impossibilità di farlo, Elizabeth continuerà a tenere il diario... ha la grafia più chiara. Voglio annotazioni a ogni ora, per quanto possa essere grave la situazione.» «Come vuoi, mamma.» «Vicky, tu provvederai al trattamento, ma non prima che il ciclo sia accertato senza possibilità di confutazioni. Ho preparato un elenco di istruzioni che dovrai seguire, se perdessi conoscenza.» «Come vuoi, mamma.» «E io, Nomusa?» chiese Juba a voce bassa. «Che cosa devo fare?» L'espressione di Robyn si addolcì. Posò la mano sul braccio dell'altra donna. «Juba, devi capire che non rinnego la promessa di aver cura della tua gente. Acquisirò una conoscenza definitiva di una malattia che fin dal tempo dei tempi devasta i matabele e tutti gli abitanti dell'Africa. Fidati di me, cara amica: è un importante passo avanti per liberare la tua gente e la mia da un flagello terribile.» «Vorrei che ci fosse un altro modo, Nomusa.» «Non esiste.» Robyn scrollò la testa. «Mi hai chiesto cosa devi fare per aiutarmi. Mi resterai vicina, Juba, per confortarmi?» «Lo sai» mormorò Juba, e l'abbracciò. Robyn sembrava ancora più esile e giovane tra quelle braccia enormi, e i singhiozzi di Juba le squassavano entrambe. La ragazza nera giaceva sulla stuoia contro il muro basso del capannone. Era in età da marito: quando gridò nel delirio e gettò via il kaross di pelliccia, il corpo nudo apparve pienamente sbocciato, con i fianchi larghi e i capezzoli eretti. Ma la febbre la bruciava. La pelle sembrava fragile come pergamena, le labbra erano cineree e screpolate e gli occhi scintillavano dello splendore innaturale della febbre che la divorava. Robyn le premette la mano sotto l'ascella e si lasciò sfuggire un'esclamazione. «Sembra una fornace. La poverina è al culmine della crisi.» Ritrasse la mano e coprì la malata con il morbido kaross. «Credo che sia il momento. Juba, tienila per le spalle. Vicky, reggile il braccio e tu, Elizabeth, porta la bacinella.» Il braccio nudo della ragazza spuntava dal kaross, e Vicky lo trattenne per il gomito mentre Robyn lo stringeva con un laccio di pelle fino a quando i vasi sanguigni si gonfiarono, nero-violacei e duri come uva acerba. «Su, avanti» ordinò Robyn a Elizabeth, che le porse la bacinella smaltata di bianco e tolse il telo che la copriva. Le tremava la mano.
Robyn prese la siringa. La canna di bronzo aveva uno strettO inserto di vetro nel senso della lunghezza. Robyn tolse l'ago e con il pollice della mano iibera massaggiò le vene del polso della malata; quindi trapassò la pelle con l'ago inclinato. Trovò la vena quasi immediatamente. Uno spruzzo sottile di scuro sangue venoso scaturì dall'estremità aperta dell'ago e piovve sul pavimento d'argilla. Robyn reinserì l'ago nella siringa e tirò indietro lentamente lo stantuffo, osservando il sangue surriscaldato dalla febbre che fluiva nell'interno, visibile attraverso il vetro. «Prelevo due centimetri cubi» mormorò, mentre la linea rossa saliva fino alla graduazione impressa nel bronzo; quindi estrasse l'ago dalla pelle della ragazza e stagnò il sangue con la pressione del pollice. Posò di nuovo la siringa nella bacinella e sciolse il laccio. «Juba» disse, «ora dalle il chinino e resta con lei finché comincia a sudare.» Robyn si alzò con un fruscio di gonne e le gemelle dovettero correre per starle dietro mentre si avviava verso il laboratorio. Appena furono nella stanza, Robyn sbatté la porta. «Dobbiamo sbrigarci» disse, sbottonando il polsino della manica a gigot e rimboccandolo. «Non dobbiamo dare agli organismi contenuti nel sangue il tempo di deteriorarsi.» Tese il braccio a Vicky che vi avvolse il laccio e cominciò a stringerlo. «Annota l'ora esatta» ordinò Robyn. «Le sei e diciassette minuti» disse Elizabeth che le stava accanto e reggeva la bacinella, fissando con orrore appena dissimulato le vene azzurre del braccio della madre. «Useremo la vena basilica» disse Robyn in tono pratico, e prese un altro ago dalla custodia sulla scrivania. Robyn si morse le labbra nel sentire la puntura, ma continuò a cercare delicatamente la vena gonfia fino a che dall'estremità aperta dell'ago uscì un fiotto di sangue. Con un mormorio soddisfatto prese la siringa piena. «Oh, mamma!» gridò Vicky, incapace di trattenersi. «Silenzio, Victoria.» Robyn inserì la siringa nell'ago e, senza pause drammatiche o parole solenni, s'iniettò nella vena il sangue ancora caldo della giovane malata. Estrasse l'ago e srotolò la manica, con un gesto efficiente. «Bene» disse. «Se ho ragione, e ce l'ho, possiamo aspettarci il primo parossismo tra quarantotto ore.» *** Il grande tavolo da biliardo era l'unico che esistesse in Africa a nord del Kimberley Club e a sud dello Shepheard's Hotel del Cairo. Era stato smontato e trasportato per quasi cinquecento chilometri dal capolinea della ferrovia, e Ralph Ballantyne aveva fatto pagare 112 sterline per il noleggio del carro. Ma il proprietario del Grand Hotel s'era rapidamente rifatto delle spese da quando aveva collocato la massiccia lastra d'ardesia sul le tozze gambe di mogano al centro del saloon. Il biliardo rappresentava un motivo d'orgoglio per tutti i cittadini di Bulawayo. In un certo senso, il semplice fatto che i sudditi della regina Vittoria lanciassero le palle d'avorio sul panno verde, nello stesso luogo dove appena pochi anni prima un negro re pagano aveva tenuto le sue macabre cerimonie per identificare i traditori e aveva assistito alle esecuzioni più orribili, sembrava simboleggiare la transizione dalla barbarie alla civiltà. Gli spettatori allineati lungo le pareti o addirittura in piedi sul bancone per poter seguire meglio la partita erano quasi tutti ricchi, perché avevano conquistato terre e concessioni aurifere avventurandosi in quella zona con la colonna del dottor Jim. Ognuno di loro possedeva milleduecento ettari del weld dove pascolavano le loro mandrie, già appartenute al re Lobengula. Molti di loro avevano già piantato i paletti per delimitare le concessioni nei ricchi filoni superficiali dove l'oro brillava visibile nella luce bianca del sole. Naturalmente, alcuni di quei filoni non erano sfruttabili; ma Ed Pearson s'era già assicurato un'antica miniera tra i fiumi Hwe Hwe e Tshibgiwe che, in base ai campioni, doveva rendere cinque
once per tonnellata. L'aveva chiamata Globe and Phoenix, e Harry Mellow, secondo le istruzioni di Rhodes, aveva effettuato i rilevamenti e aveva stimato che c'erano due milioni di tonnellate di minerale: era quindi la più ricca miniera d'oro esistente, eccettuata forse l'Harkness di Ralph Ballantyne, più a sud, con i suoi presumibili cinque milioni di tonnellate di minerale aurifero, alla percentuale incredibile di venti once per tonnellata. In quella terra erano sepolti il ricco oro rosso e chissà quali altri tesori; e l'atmosfera era ottimistica e gaia. Bulawayo era una città in piena espansione, e gli spettatori incoraggiavano i due giocatori di biliardo con incitamenti rumorosi e scommesse folli; Il generale Mungo St John passò meticolosamente il gessetto sulla stecca e si ripulì le dita dalla polvere azzurrina con un fazzoletto di seta. Era alto, con le spalle ampie e i fianchi snelli; ma quando si muoveva intorno al tavolo verde evitava di appoggiarsi troppo a una delle gambe, lesiopata da una vecchia ferita che nessuno osava menzionare in sua presenza. Era senza giacca e gli elastici dorati trattenevano sopra i gomiti le maniche della camicia di lino candido; il panciotto era ricamato d'oro e d'argento. Addosso a un uomo meno importante quell'abbigliamento teatrale sarebbe parso ostentato; ma addosso a Mungo St John era appropriato quanto l'ermellino e la porpora per un imperatore. Si soffermò all'angolo del tavolo e studiò la posizione delle bilie d'avorio. L'unico occhio aveva uno scintillio rapace: era d'un giallo lionato e striato bizzarramente come quello di un'aquila. L'orbita vuota dell'altro occhio era coperta da una toppa di stoffa nera e gli dava l'aria d'un pirata aristocratico, mentre rivolgeva un sorriso all'avversario. «Carambola e palla in buca dopo l'urto contro la rossa» annunciò con calma, e vi fu un vociare di commenti. Una dozzina di spettatori offriva scommesse di cinque a uno e anche più contro la riuscita del colpo. Harry Mellow sorrise e inclinò la testa in segno di riluttante ammirazione per l'audacia del grand'uomo. Il gioco che stavano giocando era detto «tre sponde dichiarate dello Zambesi» ed era diverso dal normale biliardo quanto i piccoli gechi sulle travi del bar erano diversi dai colossali, nodosi coccodrilli delle lanche del fiume. Era una variante locale del gioco, e combinava le caratteristiche più diflicili del biliardo inglese e di quello francese. La palla del giocatore doveva colpire tre sponde prima di completare un colpo; ma oltre a questa condizione mostruosa, il giocatore doveva annunciare in anticipo come intendeva segnare. Sicché, se realizzava un colpo vincente ma non annunciato e quindi non voluto, veniva penalizzato dei punti che avrebbe dovuto ottenere. Era un gioco difficile e impegnativo. Le poste tra i partecipanti erano di cinque sterline al punto; ma naturalmente giocatori e spettatori erano liberi di scommettere come volevano sul risultato d'ogni colpo. Quando erano impegnati assi come Harry Mellow e Mungo St John, c'erano sempre puntate per mille sterline e più per ogni colpo, e le voci che gridavano le offerte e quelle che le accettavano erano arrochite dalla tensione. Mungo St John rimise tra i denti il lungo sigaro nero, atteggiò le dita della mano sinistra in un tripode e appoggiò la lucida stecca d'acero nell'incavo tra pollice e indice. Vi fu un'ultima corsa alle scommesse, e poi il silenzio scese nella sala affollata. L'aria era azzurrata dal fumo del tabacco e le facce protese degli spettatori erano rosse e sudate. Mungo St John mirò alla palla bianca con l'unico occhio; e Harry Mellow, dall'altra parte del tavolo, trattenne il respiro. Se Mungo avesse realizzato la carambola avrebbe segnato due punti, più altri tre per la messa in buca: ma non c'era in palio soltanto questo, perché Harry aveva scommesso cinquanta sterline contro la riuscita del colpo, e avrebbe vinto o perso più di cento ghinee. Mungo St John aveva l'aria solenne d'un professore di filosofia che mediti sugli enigmi dell'universo mentre accennava delicatamente un tiro di prova e si bloccava quando la punta della stecca stava per toccare la palla. Poi trasse la stecca all'indietro, completamente. Nell'istante in cui sferrava il colpo la voce d'una giovane donna risuonò nel silenzio ansioso degli spettatori. «Generale St John, deve venire subito.» C'erano appena cento donne bianche nell'immenso territorio a nord del fiume Shashi e a sud dello Zambesi; novanta erano già sposate e quasi tutte le
altre erano fidanzate. Una voce dai toni così amabili avrebbe fatto voltare tutti gli uomini persino sugli Champs-Elysées: ma nella sala da biliardo del Grand Hotel, nella Bulawayo assetata di donne, ebbe l'effetto di una scarica di mitragliatrice a distanza ravvicinata. Un cameriere lasciò cadere un vassoio pieno di boccali di birra, e una panca di legno si rovesciò fragorosamente quando i sei uomini che vi stavano seduti balzarono sull'attenti; un carrettiere ubriaco piombò riverso dal banco, addosso al barista che istintivamente gli sferrò un pugno, lo mancò, e fece cadere una fila di bottiglie di whisky dallo scaffale. Quel frastuono improvviso che spezzava il silenzio avrebbe sconvolto anche una statua; ma Mungo St John completò il colpo con vellutata precisione. L'occhio giallo brillava nella bella faccia calma mentre seguiva la corsa della bilia. La sfera d'avorio rimbalzò contro la sponda di fronte, attraversò il tavolo, roteò tagliando l'angolo, colpì un'altra sponda perdendo un po' velocità. Ritornò indietro e Mungo St John sollevò la mano sinistra per lasciarla passare; poi toccò l'altra palla bianca con la forza sufficiente per deflettersi di pochissimo e mandarla a baciare la palla rossa come un'innamorata. Il contatto tolse alla palla l'ultimo slancio: restò librata sull'orlo della buca d'angolo per un secondo e poi cadde silenziosamente nella reticella. Era una carambola con buca annunciata eseguita perfettamente, e in quei pochi istanti era stato vinto e perso un migliaio di sterline; ma tutti i presenti, eccettuato Mungo St John, fissavano la soglia in una sorta di trance da ipnosi. Mungo St John riprese la palla dalla reticella, la ricollocò sul tappeto verde, ingessò di nuovo la stecca e mormorò: «Victoria, mia cara, vi sono momenti in cui anche la più graziosa delle donne dovrebbe star zitta.» Si chinò di nuovo sul biliardo. «Rossa in buca» annunciò. I presenti erano così affascinati dalla presenza di quella ragazza dai capelli di rame che nessuno propose o accettò scommesse; ma quando Mungo St John mosse la stecca per tirare di nuovo, Victoria riprese a parlare. «Generale St John, mia madre sta per morire.» Questa volta Mungo St John alzò la testa di scatto, sbarrò l'unico occhio, e fece partire la palla roteante con un violento colpo sbagliato mentre fissava Vicky. Lasciò cadere la stecca sul pavimento e uscì correndo. Vicky rimase ancora per qualche secondo sulla soglia della sala. Il vento le aveva aggrovigliato i capelli sulle spalle e il respiro ansante le sollevava i seni sotto la sottile blusa di cotone. I suoi occhi scrutarono il mare di facce sorridenti e si fermarono quando incontrarono l'alta figura di Harry Mellow, con gli stivali e i calzoni scuri, la camicia blu sbiadita aperta alla gola su un groviglio di pelo ricciuto. Vicky arrossì e si voltò per uscire in fretta. Harry Mellow buttò la stecca al barista e si fece largo tra gli spettatori delusi. Quando arrivò sulla strada, Mungo St John, ancora a testa scoperta e in maniche di camicia, era in sella a una grande cavalla baia e si sporgeva per parlare concitatamente con Vicky, ritta accanto alla sua staffa. Mungo alzò la testa e vide Harry. «Signor Mellow» chiamò, «le sarei grato se volesse scortare la mia figliastra. C'è bisogno di me a Khami.» Piantò i tacchi nei fianchi della cavalla che si lanciò al galoppo lungo la strada polverosa. Vicky salì a cassetta di un piccolo carro traballante, trainato da due asinelli con le orecchie pendule; accanto a lei sedeva una matabele, enorme come una montagna. «Signorina Codrington» chiamò Harry. «Aspetti, la prego.» Raggiunse il carro in pochi passi e alzò gli occhi verso Vicky. «Desideravo rivederla... lo desideravo tanto.» «Signor Mellow.» Vicky alzò il mento con aria altera. «Sulla strada per la Missione di Khami ci sono cartelli molto chiari e non era possibile che si perdesse.» «Sua madre mi ha ordinato di stare lontano dalla missione. Lo sa maledettamente bene.» «La prego di non usare un simile linguaggio in mia presenza» ribatté Vicky con aria virtuosa. «Le chiedo scusa, ma sua madre ha una reputazione temibile. Dicono che una volta ha sparato con tutte e due le canne d'una doppietta contro un visitatore sgradito.» «Ecco» ammise Vicky, «è vero. Ma era uno dei dipendenti del signor Rhodes, la doppietta era caricata a pallini, e mia madre l'ha mancato con il secondo colpo.» «Io sono un dipendente del signor Rhodes e può darsi che sua
madre sia passata ai pallettoni e si sia esercitata per migliorare la mira.» «Mi piace l'uomo deciso. Un uomo che prende ciò che vuole e al diavolo le conseguenze.» «Adesso è lei che usa un linguaggio un po' forte, signorina Codrington.» «Buongiorno, signor Mellow.» Vicky scosse le redini e gli asinelli partirono a un trotto rassegnato. Il carro arrivò alla periferia della città nuova, dove gli edifici di mattoni lasciavano il posto alle casupole di paglia e ai laceri ripari di tela, e dove i carri da ttasporto erano fermi a fianco a fianco sui due lati della pista, ancora carichi di sacchi, rotoli di stoffa e balle che avevano portato dal capolinea della ferrovia. Vicky sedeva diritta a cassetta e guardava davanti a sé; ma chiese ansiosamente a Juba, muovendo appena le labbra: «Dimmi se lo vedi arrivare, però non farti notare da lui.» «Sta arrivando» annunciò tranquilla Juba. «Come un ghepardo che insegue una gazzella.» Vicky sentì lo scalpitio d'un cavallo al galoppo, e si tese leggermente. «Ahu!» Juba sorrise con aria nostalgica. «Ah, la passione di un uomo! Una volta mio marito corse per più di ottanta chilometri senza fermarsi per riposare o per bere. A quel tempo ero così bella che gli uomini impazzivano.» «Non guardarlo, Juba.» «E' forte e impetuoso, e ti farà fare figli bellissimi.» «Juba!» Vicky avvampò. «Una cristiana non deve neppure pensare a certe cose. Probabilmente lo rimanderò indietro.» Juba alzò le spalle e ridacchiò. «Ah! Allora farà quei figli con qualcun'altra. Ho visto come guardava Elizabeth quando è venuto a Khami.» Il rossore di Vicky s'incupì d'una sfumatura di collera. «Sei tremenda, Juba...» Ma prima che potesse continuare, Harry Mellow si affiancò al carro in groppa al poderoso castrone. «Il suo patrigno l'ha affidata alle mie cure, signorina Codrington, e quindi è mio dovere accompagnarla a casa al più presto possibile.» Tese le braccia e, prima che Vicky intuisse le sue intenzioni, le cinse la vita con un braccio; e mentre lei scalciava e strillava per la sorpresa, la issò sulla groppa del suo cavallo, dietro la sella. «Si tenga!» ordinò. «Si tenga forte!» Istintivamente, Vicky si afferrò a lui con entrambe le braccia. Il contatto la sconvolse al punto che allentò la stretta e s'inclinò all'indietro proprio mentre Harry faceva ripartire il castrone. Sbilanciata, Vicky rischiò di volare nella polvere e per reazione si aggrappò al giovane con rinnovato fervore, sforzandosi di non pensare a quelle sensazioni sconosciute. L'educazione ricevuta l'ammoniva che quando qualcosa le dava un senso di calore alla base dello stomaco, le aggricciava la pelle delle braccia e le faceva mancare il respiro, doveva trattarsi d'una tentazione empia e perversa. Per distrarsi, osservò con attenzione i capelli che scendevano sul collo di Harry, la pelle serica dietro le orecchie; e un'altra sensazione le salì alla gola, una sorta di soffocante tenerezza. Provava l'impulso quasi irresistibile di premere il viso contro la stinta camicia azzurra e di aspirare l'odore virile del corpo di Harry. Era l'odore acuto dell'acciaio battuto contro una selce, sfumato d'un sentore più caldo, come quello delle prime gocce di pioggia sulla terra riarsa dal sole. La confusione di Vicky fu dispersa bruscamente dalla constatazione che il castrone continuava a galoppare e che, a quel l'andatura, ben presto sarebbero arrivati a Khami. «Sta affaticando troppo il suo cavallo, signore.» La voce di Vicky tremava un poco e faceva suonare false le sue parole. Harry girò la testa. «Non la sento.» Vicky si protese fino a sfiorargli la guancia con i capelli e l'orecchio con le labbra. «Rallenti.» «Ma sua madre...» «... non è tanto grave.» «Ha detto al generale St John...» «Crede che io e Juba avremmo lasciato Khami se ci fosse stato qualche pericolo?» «St John?» «Era un'ottima scusa per farli incontrare. E' così romantico. Dovremmo lasciare che restino soli per un po' di tempo.» Harry trattenne il castrone e lo fece procedere a un'andatura più tranquilla; ma anziché allentare la stretta, Vicky si avvicinò un poco di più.
«Mia madre non si rende conto dei propri sentimenti» spiegò. «A volte dobbiamo intrometterci io e Lizzie.» Nell'attimo in cui pronunciò il nome della gemella, Vicky se ne pentì. Anche lei aveva notato come Harry Mellow aveva guardato Elizabeth in occasione della sua unica visita alla Missione di Khami, e aveva visto come Elizabeth lo guardava a sua volta. Dopo che Harry aveva lasciato Khami in gran fretta, accommiatato bruscamente da sua madre, Vicky aveva cercato di ottenere da Elizabeth la promessa che non avrebbe incoraggiato le occhiate del signor Mellow. Elizabeth aveva sorriso con quel suo fare esasperante. «Non credi che dovremmo lasciare al signor Mellow il diritto di decidere?» Se prima Harry Mellow le era parso attraente, l'irrazionale tenacia di Elizabeth l'aveva reso irresistibile; istintivamente, Vicky gli strinse più forte le braccia intorno alla vita. Nello stesso istante scorse più avanti i kopje boscosi che segnalavano il luogo della Missione di Khami e provò una stretta al cuore. Tra pcco Harry si sarebbe trovato di fronte ;agli occhi color miele scuro di Elizabeth e alla sua morbida cascata di capelli, tempestata di stelle di luce color ruggine. Era l'unico momento di tutta la sua vita che Vicky ricordava di aver avuto libero da ogni sorveglianza, senza sua madre e Juba e, soprattutto, senza la gemella a portata di voce. Era una sensazione esaltante che si assommava a tutte le altre, sconosciute e tumultuose, e le ultime remore della rigida educazione religiosa furono travolte da quel guizzo improvviso di ribellione. Comprese, con infallibile istinto femminile, che poteva avere quanto desiderava, ma solo se avesse agito subito e con audacia: e si affrettò a farlo. «E' molto triste che una donna debba essere sola, quando ama tanto qualcuno.» La voce s'era abbassata in un mormorio sommesso e suadente, e Harry fu così colpito che mise il cavallo al passo. «Dio non vuole che una donna sìa sola» sussurrò Vicky, e vide un leggero rossore che saliva sotto la pelle delicata, dietro le orecchie di Harry. «E neppure un uomo» continuò. Lui girò adagio la testa e incontrò lo sguardo di due occhi verdi. «Al sole fa così caldo» bisbigliò Vicky, continuando a guardarlo. «Vorrei riposare all'ombra per qualche minuto.» Harry smontò, la sollevò dalla sella, la posò a terra; e lei gli rimase vicina senza distogliere gli occhi. «La polvere alzata dai carri ha coperto tutto e non ha lasciato un posto pulito per sedere» disse Vicky. «Forse dovremmo allontanarci un po' dalla strada.» Gli prese la mano, e con naturalezza lo guidò tra l'erba pallida e soffice, verso una pianta di mimose. Sotto quei rami merlettati sarebbero stati nascosti ai viaggiatori in transito sulla strada. *** La cavalla di Mungo St John era striata di sudore, e i bioccoli di bava volati dalle fauci spalancate macchiavano gli stivali del generale mentre la spronava lungo gli avvallamenti tra i kopje e la lanciava verso gli edifici candidi della missione. Lo scalpitio degli zoccoli rimbombò tra le colline, echeggiò contro i muri della missione, e la figura snella di Elizabeth apparve sull'ampia veranda. Si schermò gli occhi per guardare verso il pendio, e quando riconobbe Mungo scese in fretta i gradini, nel sole, per andargli incontro. «Generale St John, grazie a Dio è venuto.» E accorse per prendere le briglie della cavalla. «Come sta?» Il viso ossuto di Mungo aveva un'espressione stravolta. Liberò i piedi dalle staffe e balzò a terra per afferrare Elizabeth per le spalle e scuoterla ansiosamente. «All'inizio è stato una specie di gioco. Io e Vicky volevamo che venisse dalla mamma perché aveva bisogno della sua vicinanza.. non stava male, aveva soltanto un po' di febbre.» «Maledizione, ragazza!» gridò Mungo. «Cos'è successo?» Nel sentire quel tono, Elizabeth non riuscì a trattenere le lacrime. «E' cambiato tutto... dev'essere stato il sangue di quella ragazza... adesso sta bruciando per la febbre.» «Su, scuotiti.» Mungo la scrollò di nuovo. «Su, Lizzie, non è da te.» Elizabeth deglutì con uno sforzo e la sua voce divenne più ferma.
«Si è iniettata il sangue d'una malata di febbre.» «Il sangue d'una negra? Perché, in nome di Dio?» chiese Mungo, ma non attese la risposta. Lasciò Elizabeth e salì correndo sulla veranda, si avventò oltre la soglia della stanza di Robyn, ma si fermò prima d'essersi accostato al letto. Nella piccola camera chiusa, l'odore della febbre era intenso come quello d'una stia, e il calore irradiato dal corpo sulla branda s'era condensato sul vetro dell'unica finestra come il vapore esalato da un bricco d'acqua bollente. Accovacciato accanto alla branda come un cucciolo ai piedi della padrona, c'era il figlio di Mungo. Robert alzò verso il padre i grandi occhi solenni, e torse la bocca. «Figliolo!» Mungo si avvicinò di un altro passo, ma il bimbetto balzò in piedi e corse in silenzio verso la porta. Evitò agilmente la mano protesa e fuggì sulla veranda con un trepestio frettoloso dei piedi nudi. Per un momento Mungo pensò d'inseguirlo, poi scosse la testa e si avvicinò al letto. Si fermò a guardare la figura immobile. Robyn era così smagrita che le ossa del cranio sembravano quasi trapassare la pelle smorta delle guance e della fronte. Gli occhi erano chiusi, infossati nelle orbite violacee. I capelli sfumati di grigio alle tempie parevano secchi e fragili come l'erba invernale del veld inaridito; e quando Mungo St John si chinò per toccarle la fronte, un trernito la squassò, facendo vibrare la testata di ferro. I denti batterono con violenza; e per un momento parve che dovessero spezzarsi come porcellana. Mungo sentì sotto le dita il calore scottante della pelle e alzò di colpo gli occhi verso Elizabeth che gli stava accanto con un'espressione angosciata. «Chinino?» le chiese. «Gliene ho già dato più di quanto avrei dovuto, cento grani da stamattina; ma non ha fatto nessun effetto.» Elizabeth s'interruppe. Esitava a confidargli il peggio. «Sì? Che altro c'è?» «Prima dell'esperimento, la mamma non prendeva più il chinino da sei settimane. Voleva che la febbre avesse la possibilità di colpire, per dimostrare la sua teoria.» Mungo la fissava inorridito. «Ma i suoi studi...» Scosse la testa, incredulo. «Proprio lei aveva dimostrato che l'astinenza dal chinino, seguita da dosi massicce...» Non riuscì a continuare, come se le sue parole potessero evocare lo spettro più temuto. Elizabeth aveva intuito le sue paure. «Il pallore» mormorò. «La mancanza totale di reazione al chinino... sono terrorizzata.» Con un gesto istintivo Mungo le passò il braccio intorno alle spalle, e per qualche secondo la ragazza si appoggiò a lui. Il generale aveva sempre avuto ottimi rapporti con le gemelle, che erano state le sue complici e le sue alleate segrete alla Missione di Khami fin dal giorno in cui era arrivato lì, moribondo per una ferita suppurata alla gamba. Sebbene a quel tempo fossero appena adolescenti, non avevano saputo resistere al fascino ipnotico che esercitava sulle donne di ogni età. «Vicky e io abbiamo sfidato la provvidenza dicendo che la mamma stava morendo.» «Su, basta.» Mungo la scosse gentilmente. «Ha fatto acqua?» E poi, in tono brusco per superare l'imbarazzo: «Ha urinato?» «No, dopo ieri notte.» Elizabeth scrollò la testa, avvilita, e Mungo la sospinse verso la porta. «Dobbiamo costringerla a ingerire molti liquidi. C'è una bottiglia di cognac nella borsa della mia sella. Cogli qualche limone nel frutteto, e porta una zuccheriera e un grosso boccale d'acqua bollente.» Poco più tardi, Mungo sosteneva la testa di Robyn mentre Elizabeth le versava un po' di liquido fumante tra le labbra sbiancate; ma Robyn lottava e resisteva nel delirio, ossessionata dai fantasmi terribili della febbre malarica. E all'improvviso i brividi di freddo che avevano squassato il corpo della malata lasciarono il posto a un calore arroventato che la disidratava; e sebbene non riconoscesse né il marito né la figlia, bevve avidamente ciò che le porgevano, quasi soffocandosi, sebbene fosse così debole che stentava a sollevare la testa e Mungo doveva sorreggerla. Le mani possenti e quasi brutali erano stranamente tenere e gentili mentre le sosteneva il mento e asciugava le gocce che le scorrevano dalle labbra. «Quanto ha bevuto?» chiese Mungo. «Quasi due litri» rispose Elizabeth, controllando il livello della brocca.
La luce nella stapza mutò, incominciò a scendere la sera, ed Elizabeth si alzò, andò alla porta a guardare la strada che discendeva dalla gola tra i kopje. «Vicky e Juba avrebbero dovuto essere già di ritorno» disse. Ma sua madre gridò di nuovo. Chiuse la porta e si affrettò a tornarle accanto.» All'improvviso, mentre s'inginocchiava a fianco di Mungo, si accorse del pungente odore ammoniacale che ammorbava la camera. Distolse gli occhi e disse a voce bassa: «Devo cambiarla.» Mungo non si alzò. «E' mia moglie» disse. «Vicky e Juba non ci sono, e avrai bisogno d'aiuto.» Elizabeth annuì, scostò il lenzuolo e mormorò con voce soffocata: «Oh, mio Dio.» «E' come temevamo» disse Mungo sottovoce, angosciato. La gonna della camicia da notte di Robyn s'era sollevata intorno alle cosce magre, ed era fradicia, come il materasso sottile. Ma non era la chiazza giallo-zolfo dell'urina che avevano sperato di vedere. Mentre guardava il lenzuolo macchiato, Mungo ricordò l'amara filastrocca che aveva sentito cantare dai soldati della colonna di Jameson: Nera come l'angelo, nera come l'asso di picche, quando scorre l'acqua della febbre è nera come il disonore. Presto lo deporremo nella fossa e lo copriremo di terra. La macchia fetida era nera, nera come vecchio sangue coagulato: era lo spurgo dei reni che tentavano di depurare il sangue dell'anemia devastante che divorava il corpo di Robyn, la distruzione dei giobuli rossi che era la causa del pallore spaventoso. La malaria s'era trasformata in qualcosa di infinitamente più pernicioso e letale. Mentre entrambi fissavano angosciati la chiazza, vi fu un movimento sulla veranda e la porta si spalancò. Victoria apparve sulla soglia. Era trasformata, radiosa, alonata della bellezza strana e fragile d'una giovane donna destata per la prima volta al mistero e al prodigio dell'amore. «Dove sei stata, Vicky?» chiese Elizabeth. Poi vide il giovane alto alle spalle della gemella. Comprese ciò che significava l'espressione assorta e tuttavia fiera di Harry Mellow. Non provò risentimento né invidia, ma soltanto un fuggevole guizzo di gioia per Vicky. Elizabeth non aveva mai desiderato Harry Mellow: aveva punzecchiato la sorella fingendosi interessata, ma amava un uomo che non avrebbe mai potuto avere, e da molto tempo s'era rassegnata all'inevitabile. Era felice per Vicky e triste per se stessa, e Vicky interpretò erroneamente la sua espressione. «Cosa c'è?» Il fulgore si dileguò dal bel viso di Vicky. Si portò una mano al petto come per arginare il panico. «Cos'è successo, Lizzie? Cosa c'è?» «Urina nera» rispose seccamente Elizabeth. «La mamma ha la febbre dell'urina nera.» Non ebbe bisogno di spiegare. Le gemelle avevano sempre vissuto in un ospedale. Sapevano che la malattia era stranamente selettiva. Attaccava soltanto i bianchi, e le ricerche di Robyn avevano collegato quella particolarità all'uso del chinino, limitato quasi in esclusiva ai bianchi. Robyn aveva curato più di cinquanta casi nella missione, nel corso degli anni. All'inizio i colpiti érano i vecchi cacciatori d'avorio e i mercanti, più di recente i soldati della colonna di Jameson e i nuovi coloni e i prospettori che sciamavano oltre il Limpopo. Le gemelle sapevano che, dei cinquanta ammalati, tre soli erano sopravvissuti. Gli altri erano sepolti nel piccolo cimitero al di là del fiume. La loro madre era in pratica condannata a morte. Vicky le corse accanto e s'inginocchiò. «Oh, mamma» sussurrò, sopraffatta dal rimorso. «Avrei dovuto essere qui.» *** Juba scaldò le pietre tonde del fiume sul fuoco e le avvolse nelle coperte. Le disposero intorno al corpo di Robyn, e poi la drappeggiarono in quattro kaross di pelliccia. Lei si dibatté debolmente per scoprirsi, ma Mungo la trattenne. Per il calore interno della febbre e la temperatura esterna delle pietre sotto le pellicce, l'epidermide era secca e bruciante e gli occhi
avevano il brillio cieco del cristallo di rocca levigato dall'acqua. Poi, quando il sole toccò le cime degli alberi e la luce nella stanza si mutò in un arancione cupo, la febbre le sgorgò dai pori della pelle marmorea come il succo della canna da zucchero schiacciata dalla pressa. Il sudore affiorava in grosse gocce lucide sulla fronte e sul mento, che confluivano fino a scorrere simili a serpi oleose tra i capelli, intridendoli come acqua. Le penetrava negli occhi, più in fretta di quanto Mungo potesse asciugarlo, le fluiva lungo il collo e bagnava la pelliccia dei kaross, filtrava attraverso il materasso sottile e gocciolava come pioggia sul pavimento compatto. La temperatura corporea si abbassò bruscamente; e quando il sudore passò Juba e le gemelle lavarono con le spugne il corpo nudo. Era disidratato e così smagrito che le costole spiccavano nette, la pelvi formava un ossuto bacino concavo. Lo toccavano con estrema delicatezza, perché un movimento brusco poteva lacerare le pareti delicate e già lese dei vasi sanguigni renali e provocare l'emorragia torrenziale che molto spesso costituiva la conclusione della malattia. Quando ebbero finito, chiamarono Mungo che era rimasto ad attendere con Harry Mellow sulla veranda della missione. Robyn era in coma. Mungo posò la lanterna sul pavimento perché la luce fioca non la disturbasse. «Ti chiamerò se ci sarà qualche cambiamento.» Mungo mandò via Juba e sedette sullo sgabello accanto alla branda. Robyn peggiorò lentamente durante la notte mentre il morbo le distruggeva il sangue: allo spuntar del giorno sembrava che fosse stata risucchiata da un vampiro mostruoso. Mungo sapeva che stava per morire. Le prese la mano e lei non reagì. Un fruscio gli fece girare la testa. Robert, suo figlio, era sulla soglia. La camicia da notte era lisa e rattoppata, troppo stretta sotto le ascelle e troppo corta. I riccioli folti e spettinati gli ricadevano sull'ampia fronte pallida. Fissava Mungo senza battere le palpebre, con gli occhi stralunati dal sonno. Mungo restò immobile; sapeva che il minimo movimento avrebbe messo in fuga il bambino come un animaletto selvatico spaventato. Attese per cento battiti del cuore, e per la prima volta il piccolo girò lo sguardo sul viso della madre, per la prima volta un'espressione apparve nei suoi occhi. Piano piano, un passo alla volta, si avvicinò al letto, tese esitando la mano per toccare la guancia della madre. Robyn aprì gli occhi già vitrei e ciechi, rivolti al di là delle frontiere della tenebra. «Mammina» disse Robert. «Per piacere, mammina, non morire.» Gli occhi di Robyn rotearono e poi, miracolosamente, puntarono sul viso di Robert. Tentò di alzare una mano, ma subito la lasciò ricadere. «Ascoltami. Se muori» disse con voce aspra Mungo, e Robyn girò lo sguardo verso di lui. «Se muori, il bambino sarà mio.» Per la prima volta lo riconobbe. Mungo ne fu certo. Le sue parole l'avevano colpita. Vide la collera accenderle gli occhi, vide lo sforzo enorme che compiva per parlare: ma non riuscì a emettere un suono. Le labbra formarono un'unica parola. «Mai!» «Allora vivi» la sfidò Mungo. «Vivi, dannazione!» E vide che adesso stava ricominciando a lottare. *** Le energie vitali di Robyn affioravano e sprofondavano con le terribili maree del male, la febbre ardente seguiva i tremiti diacci, e il lungo coma dello sfinimento seguiva le sudorazioni violente. A volte delirava, assalita dalle fantasie e dai demoni del passato. A volte guardava Mungo St John e lo vedeva com'era stato molto tempo prima, sul ponte del suo splendido clipper di Baltimora, lo Huron, quando Robyn aveva poco più di vent'anni. «Così bello» sussurrava lei. «Diabolicamente, assurdamente bello.» Poi la lucidità ritornava per brevi periodi, e la febbre aggiungeva forza alla sua collera. «L'hai ucciso tu... l'hai ucciso tu, ed era un santo» mormorava. La voce era sommessa ma fremeva di furore, e Mungo non riusciva ad acquietarla. «Era mio marito, e tu l'hai mandato al di là del fiume, dove sapevi che l'attendevano gli assegai dei matabele. Hai ucciso mio marito come se fossi stato tu a piantargli la lama nel cuore.» Poi cambiava di nuovo tono. «Ti prego, non mi lascerai mai
in pace?» implorava con una voce così debole che Mungo doveva chinarsi verso di lei per captare le parole. «Sai che non posso resisterti, eppure tutto ciò che rappresenti è un'offesa per me e per il mio Dio, per me e per la gente sperduta e priva d'un capo che è stata affidata alle mie cure.» «Bevi» ordinava lui. «Devi bere.» E Robyn si dibatteva fiaccamente quando le accostava la brocca alle labbra. E poi il male l'attanagliava di nuovo, la trascinava nelle nebbie ardenti della febbre dove non c'era un senso, dove non c'era una realtà. I giorni e le notti volavano via indistinti. A volte Mungo si svegliava con un sussulto e scopriva che era mezzanotte passata e una delle gemelle dormiva sulla sedia dall'altra parte del letto. Allora si alzava, intontito dalla stanchezza, e costringeva Robyn a bere ancora. «Bevi» le sussurrava. Bevi, o morirai.» Poi si lasciava cadere sulla sedia, e quando tornava a svegliarsi era l'alba, e suo figlio era accanto alla sedia e lo fissava. Appena apriva gli occhi, il bambino fuggiva; e quando lui lo chiamava Robyn bisbigliava irosamente dalla branda: «Non l'avrai mai... mai!» A volte, nel meriggio, mentre Robyn giaceva abbandonata, pallida e in silenzio tra un assalto e l'altro della febbre, Mungo riusciva a dormire sul pagliericcio in fondo alla veranda, fino a quando Juba o una delle gemelle veniva a chiamarlo. «E' ricominciato.» E allora ritornava in fretta da Robyn e con parole di gentilezza o di sfida la strappava alla letargia e la costringeva a continuare la lotta. A volte, mentre stava seduto accanto alla branda, ormai smagrito e stravolto, si meravigliava di se stesso. Aveva avuto cento donne più belle di lei. Era consapevole dello strano fascino che esercitava ancora su ogni donna; eppure aveva scelto questa, l'unica che non avrebbe mai potuto possedere veramente. La donna che l'odiava con lo stesso ardore con cui l'amava, che aveva concepito suo figlio in uno slancio di passione divorante e adesso lo teneva lontano dal bambino con tutta la sua forza di volontà. Era stata lei a chiedergli di sposarlo, eppure gli negava con veemenza i diritti coniugali, e non gli permetteva di comparirle davanti se non adesso, perché era troppo debole per opporsi, o nelle rare occasioni in cui il desiderio vinceva la sua coscienza e la sua ripugnanza. Mungo St John ricordava una di quelle occasioni, appena un mese prima o poco più, quando s'era svegliato nella stanza sul retro della sua casupola di mattoni d'argilla alla periferia di Bulawayo. C'era una candela accesa, e Robyn stava ritta accanto al letto da campo che era l'unico mobile. Doveva aver cavalcato nell'oscurità, attraverso il territorio selvaggio, per giungere fino a lui. «Dio mi perdoni!» aveva sussurrato, e s'era gettata fra le sue braccia in una frenesia di desiderio. Alle prime luci lo aveva lasciato, esausto e stordito; e quando l'indomani l'aveva seguita alla Missione di Khami, lei l'aveva accolto sulla veranda armata di un fucile, e Mungo aveva compreso istintivamente che se avesse cercato di salire i gradini per toccarla l'avrebbe ucciso. Non aveva mai visto un ribrezzo intenso come quello che le scorgeva negli occhi, per se stessa non meno che per lui. Robyn aveva continuato a scrivere ai giornali, in patria e al Capo, attaccando quasi tutti i proclami che Mungo St John emanava come commissario capo per i rapporti con gli indigeni del Matabeleland. Aveva attaccato la sua politica del lavoro obbligatorio che assicurava agli allevatori e ai minatori la manodopera negra indispensabile per l'esistenza e la prosperità di quella nuova terra. Aveva attaccato l'arruolamento della sua polizia indigena che gli serviva per mantenere l'ordine nella tribù. Una volta eta piombata addirittura in un indaba che lui stava tenendo con gli induna e li aveva arringati in sindebele perfetto, in sua presenza, accusandoli d'essere «vecchie comari» e «vigliacchi» perché si sottomettevano all'autorità di Mungo e della British South Africa Company. E meno di un'ora dopo l'aveva atteso sul sentiero, tra i cespugli fitti accanto al guado del fiume, e l'aveva abbordato mentre tornava dall'indaba. Avevano fatto l'amore nel veld, sulla coperta della sella, nudi come animali, con una furia così rabbiosa e devastante da lasciarlo scosso e distrutto. «Ti odio, oh, Dio, come ti odio» aveva bisbigliato Robyn con gli occhi pieni di lacrime mentre montava di nuovo a cavallo per allontanarsi al galoppo, noncurante delle spine che le strappavano la gonna.
Le sue esortazioni agli induna erano aperti incitamenti alla rivolta e alla rivoluzione sanguinosa; e nel libro Il soldato Hacket, del Matabeleland, in cui citava Mungo per nome, le parole che gli aveva messo in bocca e le azioni che gli attribuiva costituivano calunnie velenose. Rhodes e altri consiglieri d'amministrazione della BSA Company avevano insistito perché Mungo agisse legalmente contro di lei. «Contro mia moglie, signore?» Mungo aveva strabuzzato l'unico occhio con un sorriso malinconico. «Farei la figura dello sciocco.» Robyn era la sua avversaria più feroce e implacabile, eppure il pensiero che morisse lo straziava; e ogni volta che lei risprofondava verso l'abisso, anche Mungo si sentiva sprofondare, e quando lei si riprendeva, si sentiva rianimare a sua volta. Eppure il gioco dei sentimenti e il modo in cui dava fondo alle proprie riserve d'energia per sostenerla lo stavano fiaccando. E continuò così, senza tregua, giorno dopo giorno, fino a che Elizabeth venne a interrompere le poche ore di sonno plumbeo che s'era concesso. Mungo sentì l'emozione che le faceva tremare la voce e vide le lacrime nei suoi occhi. «E' finita, generale St John» disse lei; e Mungo trasalì come se l'avesse schiaffeggiato, si alzò stordito. Le lacrime gli bruciavano le palpebre. «Non posso crederlo.» Poi si accorse che Elizabeth sorrideva e gli tendeva il vaso da rlotte smaltato che reggeva con entrambe le mani. Puzzava d'ammoniaca e del caratteristico odore putrido della malattia, ma il colore era cambiato, era passato dal nero lugubre della birra Guinness all'oro limpido della Pilsner. «E' finita» ripeté Elizabeth. «L'urina si è schiarita. E' salva. Grazie a Dio è salva.» Ma quel pomeriggio Robyn si sentì abbastanza bene per ordinare a Mungo St John di lasciare la Missione di Khami, e l'indomani mattina tentò di alzarsi dalla branda per costringerlo a obbedire. «Non posso permettere che mio figlio subisca ancora la sua influenza malefica.» «Signora...» tentò di ribattere Mungo. «Finora ho deciso di non parlare di tei a mio figlio. Non sa che suo padre comandava un tempo la più malfamata flotta negriera che abbia attraversato l'oceano. Non sa delle migliaia di dannati, figli innocenti dell'Africa, che ha portato a un continente lontano. Non capisce ancora che sono stati lei e quelli come lei a scatenare senza provocazioni una guerra sanguinosa contro Lobengula e la nazione matabele, e che ora è lo strumento d'un'oppressione crudele... ma se non se ne andrà, cambierò la mia decisione.» La voce fremeva con un riflesso dell'energia di un tempo, e Juba doveva trattenerla per le spalle. «Le ordino di lasciare Khami immediatamente.» Robyn era pallida e ansante per lo sforzo; sorretta dalle mani grasse e gentili si riabbandonò sul cuscino, ed Elizabeth sUSsurrò a Mungo: «Potrebbe avere una ricaduta. Forse sarebbe meglio obbedirle.» Mungo torse l'angolo della bocca nel sorriso ironico che Robyn ricordava così bene; ma nelle profondità dorate dell'unico occhio c'era un'ombra di rimpianto o di solitudine terribile... Robyn non ne era sicura. «Servo suo, signora.» Le rivolse un inchino esagerato e uscì. Robyn ascoltò i passi che attraversavano la veranda e scendevano i gradini. Soltanto allora respinse le mani di Juba e si girò sul fianco, verso il muro imbiancato. Sul dosso, dove il sentiero attraversava una sella tra le colline boscose, Mungo St John trattenne la cavalla e si voltò a guardare. La veranda della casa era deserta. Riprese le redini con un sospiro e si girò di nuovo verso la strada che portava a nord, ma non avviò la cavalla. Aggrottò la fronte e alzò il viso per guardare il cielo. A nord il cielo era scuro. Sembrava che un velo pesante scendesse dal cielo alla terra. Non era una nube, perché aveva una strana densità corporea, come il plancton velenoso della misteriosa marea rossa che aveva visto estendersi sulla superficie dell'Atlantico meridionale e che portava morte e desolazione a tutto ciò che toccava. Eppure Mungo non aveva mai visto nulla di simile. L'enormità del fenomeno sfidava l'immaginazione. Si estendeva in un grande arco su metà dell'orizzonte e, mentre lo guardava, dilagava verso il sole ormai prossimo allo zenit.
Molto più a nord Mungo aveva visto il camsin scatenare le tremende tempeste di sabbia sul Sahara, ma sapeva che entro un raggio di millecinquecento chilometri non c'era un deserto che potesse generare un simile fenomeno. Era qualcosa che esorbitava dalla sua esperienza; e la perplessità si trasformò in allarme quando notò la velocità con cui quella massa veniva verso di lui. Le frange del velo scuro toccarono l'orlo del sole e la bianca luce meridiana si alterò. La cavalla si agitò irreguieta e un branchetto di faraone che stavano starnazzando tra l'erba accanto al sentiero ammutolirono di colpo. La marea tenebrosa inondò rapidamente il cielo, e il sole divenne di un arancione cupo, come un disco di metallo arroventato tolto dalla forgia d'un fabbro, e un'ombra immensa scese sulla terra. Il silenzio dominava il mondo. Il frinire corale degli insetti della foresta tacque, i trilli e i cinguettii degli uccellini tra i cespugli s'interruppero... i suoni che erano il canto in sottofondo dell'Africa e che nessuno notava fino a quando cessavano. Il silenzio era opprimente. La cavalla abbassò la testa e il tintinnio della catenella del morso echeggiò stridente. Il sipario si estese, si addensò, soffocò il cielo, l'ombra divenne più cupa. Adesso c'era un suono. Un sibilo fievole e distante come il vento quando agita le bianche sabbie cristalline delle dune nel deserto. Il sole splendeva smorto come le braci del fuoco agonizzante d'un bivacco. Il sibilo divenne più forte, simile all'eco cavernosa d'una conchiglia accostata all'orecchio, e la luce filtrata del sole acquistò una bizzarra colorazione purpurea. Mungo rabbrividì, scosso da una sorta di timore religioso, sebbene il caldo del meriggio sembrasse ancora più opprimente nella semioscurità. Lo strano fruscio crebbe rapidamente, divenne un profondo fremito ronzante, poi parve l'urlo d'un vento altissimo; e il sole scomparve, completamente cancellato. E nella mezza luce vide lo sciame venire verso di lui, basso sopra la foresta, in colonne attorte come un mostruoso banco di nebbia. Con un rombo sordo di milioni e milioni di ali, lo investì. Lo investì come una scarica di mitraglia, lo colpì al viso, e l'impatto d'ognuno dei minuscoli corpi dalle ali cornee era così violento da lacerare la pelle e far sgorgare il sangue. Mungo alzò di scatto le mani per proteggersi la faccia, e la cavalla impaurita s'impennò. Miracolosamente, egli riuscì a non farsi disarcionare. Era semiaccecato e stordito dal torrente precipitoso d'ali intorno alla sua testa. Gli insetti erano così fitti che quando contrasse le dita ne afferrò uno. Era lungo quasi il doppio del suo indice, e le ali erano d'un arancio sgargiante, segnato da fregi neri. Il torace era ricoperto da una corazza cornea, e gli occhi sfaccettati brillavano come topazi, le lunghe zampe posteriori erano frangiate di minuscoli uncini rossastri. L'insetto scalciò convulsamente nella sua mano, lacerò la pelle e lasciò una fila sottile di gocciole di sangue. Lo schiacciò e l'insetto scricchiolò ed esplose in un fiotto di umore gialliccio. «Locuste!» Alzò di nuovo lo sguardo, sbalordito da quella moltitudine. «L'ottava piaga d'Egitto» disse a voce alta, e girò la cavalla, lontano dalla muraglia torrenziale dei piccoli corpi volanti, la spronò, la lanciò al galoppo giù per il pendio, verso la missione. La nube delle locuste volava più veloce di quanto potesse galoppare la cavalla, e Mungo procedeva nella semioscurità, circondato dal grande rombo tambureggiante delle ali. Per una dozzina di volte perse quasi la strada, tanto era denso lo sciame intorno a lui. Le locuste gli si posavano sul dorso, gli si inerpicavano addosso, pungevano la pelle scoperta con le zampe uncinate. Appena le scacciava, altre ne prendevano il posto; con un senso d'orrore si sentiva sopraffatto e annegato in un calderone brulicante di organismi vivi. Davanti a lui gli edifici della Missione di Khami apparvero nel meriggio oscurato. Le gemelle e i servitori stavano sulla veranda, paralizzati dallo sbigottimento. Mungo balzò dalla cavalla e corse verso di loro. «Mandate giù nei campi tutti quelli che sono in grado di camminare. Portate le pentole, i tamburi... tutto quello che si può battere per fare chiasso, e coperte da sventolare...» Le gemelle reagirono con prontezza. Elizabeth si coprì la testa con uno scialle e corse nella tempesta delle locuste, verso
la chiesa e i reparti dell'ospedale, mentre Vicky spariva per pochi istanti in cucina e ritornava con le braccia cariche di pentole di ferro. «Brava.» Mungo l'abbracciò in fretta. «Quando sarà finita voglio parlare di te e Harry.» Le tolse dalle mani la pentola più grande. «Vieni con me.» Con una subitaneità che li fece arrestare di colpo nella corsa, l'aria si liberò e il sole ritornò così bianco e abbacinante che dovettero schermarsi gli occhi. Ma non era una vera liberazione: l'intera nube delle locuste era discesa a terra e, sebbene il cielo fosse azzurro e limpido, i campi e la foresta s'erano trasformati. Gli alberi più alti sembravano pagliai dai colori grotteschi, mucchi formicolanti d'arancio e nero. I rami ondeggiavano e si piegavano sotto il peso insopportabile dei corpi minuscoli, e a intervalli di pochi secondi risuonava uno scricchiolio secco quando un ramo si spezzava e cadeva a terra. Davanti ai loro occhi il granturco s'era appiattito sotto l'assalto, e la terra pullulava di miriadi di corpi fruscianti. Cento figure umane esagitate corsero nei campi, battendo sulle pentole metalliche e agitando le ruvide coperte grige dell'ospedale: davanti a ognuno di loro gli insetti si sollevavano in un breve frullo d'ali e tornavano a posarsi subito dopo. Adesso l'aria era pervasa da un suono nuovo: le grida eccitate di migliaia di uccelli che s'ingozzavano di locuste. C'erano squadroni di dronghi nerissimi dalle lunghe code forcute, storni d'un verde malachite iridescente, coracidi e meropidi dai gemmei colori della turchese e del sole, gialli, carminio e porpora, che volteggiavano in un'estasi d'ingordigia. Le cicogne, avanzavano nel tappeto vivente che arrivava alle ginocchia... i marabù dalle orride teste squamose, le cicogne dal collo lanoso che sembravano avvolte in vaporose sciarpe bianche, becchiasella con i medaglioni gialli che ornavano i lunghi rostri rossi e neri, e tutti s'ingozzavano famelici, in quel banchetto brulicante. Non durò a lungo: meno di un'ora. Poi, improvvisamente come s'era posato, il grande sciame si avventò rombando nell'aria come se fosse un unico essere. Il crepuscolo innaturale ridiscese sulla terra, il sole venne cancellato, e poi vi fu una falsa aurora quando le nubi d'insetti si diradarono e s'involarono verso il sud. Nei campi vuoti le figure umane sembravano minuscole e insignificanti mentre si guardavano intorno inorridite. Non riconoscevano più la loro casa. I campi di granturco erano ridotti a brulla terra scura; anche gli steli più duri erano stati divorati. I rosai intorno alla casa erano stecchi bruni. I fiori dei peschi e dei meli nel frutteto erano scomparsi e i rami spogli e contorti sembravano un'eco dell'inverno; anche le foreste sulle colline e i fitti cespugli lungo le rive del Khami erano stati devastati. Non c'era traccia di verde, non c'era una foglia o un filo d'erba rimasto intatto nell'ampia fascia bruna di distruzione che lo sciame aveva tracciato nel cuore del Matabeleland. *** Juba viaggiava con due donne di scorta. Era un segno del declino della nazione matabele. Un tempo, prima della venuta della Compagnia, la moglie principale d'uno dei grandi induna della Casa di Kumalo avrebbe avuto un seguito di quaranta donne, e cinquanta amadoda armati e impennacchiati per accompagnarla al kraal del marito. Adesso Juba portava sulla testa la sua stuoia per dormire, e nonostante la corpulenza si muoveva con grazia e leggerezza straordinarie, con la schiena diritta e la testa alta. S'era liberata del panciotto di lana, adesso che era lontana dalla Missione, ma portava ancora al collo il crocifisso. Le enormi mammelle nude ondeggiavano con elasticità giovanile: erano unte di grasso e brillavano al sole, e le gambe guizzavano sotto il corto gonnellino di pelle mentre procedeva a un'andatura simile al trotto che le permetteva di coprire a velocità sorprendente la pista polverosa. Le due accompagnatrici, giovani donne appena sposate del kraal di Juba, la seguivano da vicino: ma non cantavano e non ridevano. Giravano la testa sotto i fardelli per guardare sgomente la terra nuda e desolata intorno a loro. Gli sciami delle locuste erano passati anche di là. Sugli alberi spogli
non c'erano insetti né uccelli. Il sole aveva già calcinato la terra scoperta, che si sgretolava in polvere subito portata via da piccoli turbini di vento. Giunsero su una bassa altura, e involontariamente si fermarono e si avvicinarono l'una all'altra senza neppure posare i fardelli, affascinate e inorridite dallo spettacolo che stava davanti a loro. Un tempo quello era stato il grande kraal reggimentale dell'impi Inyati, comandato da Gandank. Poi, per decreto del nuovo commissario di Bulawayo, l'impi era stato sciolto e disperso. Il kraal era stato distrutto con il fuoco. Ma l'ultima volta che le donne l'avevano visto, l'erba nuova aveva cominciato a nascondere le cicatrici: adesso era stata distrutta dalle locuste e i banchi circolari di cenere nera erano di nuovo scoperti. Evocavano ricordi d'una grandezza passata, e il nuovo kraal costruito per accogliere Gandank e i parenti stretti era al confronto minuscolo e insignificante. Era situato un chilometro e mezzo più a valle sulla riva del fiume Inyati, e il pascolo era stato annientato. Le piogge primaverili non avevanoancora gonfiato il fiume e le rive sabbiose erano d'un candore argenteo, i macigni levigati dall'acqua brillavano nel sole come squame di rettili. Anche il nuovo kraal sembrava deserto e i recinti del bestiame erano vuoti. «Hanno preso ancora il bestiame» disse Ruth, la donna giovane e bella che stava accanto a Juba. Aveva meno di vent'anni e sebbene già da due stagioni portasse l'acconciatura delle donne maritate, non aveva ancora concepito. Era stato il segreto terrore d'essere sterile che l'aveva spinta a convertirsi al cristianesimo: tre dèi onnipotenti come quelli che le aveva descritto Juba non avrebbero certo permesso che rimanesse senza figli. Era stata battezzata da Nomusa quasi una luna prima, e la stessa Nomusa e i nuovi dèi le avevano cambiato il nome, da Kampu in Ruth. Adesso era ansiosa di raggiungere il marito, uno dei nipoti di Gandank, e di mettere alla prova l'efficacia della nuova religione. «No» disse seccamente Juba. «Gandank avrà mandato le mandrie verso est in cerca di nuovi pascoli.» , «Gli amaloda... dove sono gli uomini?» «Forse sono andati con il bestiame.» «E' un compito da ragazzi, non da uomini.» Juba sbuffò. «Da quando Unico Occhio ha tolto loro gli scudi, i nostri uomini non sono altro che mujiba.» I mujiba erano i mandriani non ancora ammessi nei reggimenti dei guerrieri; e le compagne di Juba si vergognarono della verità delle sue parole. I loro uomini erano stati disarmati, e le razzie di bestiame e di schiavi che un tempo avevano costituito l'attività e lo svago principale degli amaloda erano vietate. Ma almeno i loro mariti erano guerrieri che avevano combattuto, avevano immerso le lance nel sangue dei soldati di Wilson sulle rive del fiume Shangani nell'unico, splendido massacro, l'unica vittoria matabele in quella guerra; ma che sarebbe stato degli uomini più giovani, adesso che era loro negato il modo di vivere tradizionale? Sarebbero mai riusciti a conquistare sul campo di battaglia il diritto di andare con le donne e di prendere moglie? Oppure le consuetudini e le leggi che avevano dominato tutte le loro vite sarebbero cadute nell'oblio e nel disuso? E se fosse avvenuto questo, che sarebbe stato della nazione? «Le donne sono ancora qui.» Juba indicò le file di figure nei campi spogli di granturco. Ondeggiavano al ritmo dei colpi di zappa. «Stanno seminando di nuovo» disse Ruth. «E' troppo tardi» borbottò Juba. «Non ci sarà un raccolto da festeggiare alla danza dei primi frutti della stagione.» Poi si scosse. «Scendiamo» disse. Quando raggiunsero una delle lanche basse tra le lingue di sabbia, posarono i carichi e si tolsero i gonnellini, e si lavarono nell'acqua verde e fresca per togliersi di dosso il sudore e la polvere. Ruth trovò un rampicante sfuggito alle locuste e colse i fiori gialli per farne ghirlande per tutte e tre. Le donne nei campi le videro quando si avviarono lungo la riva, e corsero loro incontro gridando di gioia e disputandosi l'onore di rendere omaggio a Juba. «Mamewetbu» la chiamarono, e s'inchinarono e batterono le mani in segno di rispetto. La liberarono del fardello, e due delle sue nipoti si fecero avanti timidamente per prenderle le mani. Poi, con un canto di benvenuto, il piccolo corteo si diresse verso il kraal. Non tutti gli uomini se n'erano andati. Gandank era seduto sotto i rami spogli del fico selvatico, sullo sgabello scolpito del capo, e Juba si affrettò a inginocchiarsi davanti a lui.
Gandank le sorrise con affetto e annuì alle sue attestazioni di obbedienza e di devozione. Poi, con una manifestazione straordinaria dei propri sentimenti, la risollevò e la fece sedere sulla stuoia che una delle mogli secondarie aveva steso accanto a lui. Attese mentre Juba si ristorava con la birra che un'altra moglie era venuta a porgerle inginocchiandosi. Finalmente Gandank allontanò con un gesto le donne e i bambini; rimasti soli, i due accostarono le teste e parlarono come si conveniva a due compagni affezionati. «Nomusa sta bene?» chiese Gandank. Non condivideva il sentimento profondo di Juba per la dottoressa della Missione di Khami; anzi vedeva con sospetto la religione adottata dal la moglie principale. Era stato l'impi di Gandank che aveva sorpreso la piccola pattuglia di Wilson sulle rive dello Shangani, durante la guerra, e l'aveva sterminata. Tra i cadaveri spogliati dai suoi guerrieri e sfregiati dalle ferite violacee degli assegai, c'era anche il primo marito della missionaria. Non poteva mai esservi amore dove c'era stato il sangue. Tuttavia Gandank rispettava la donna bianca. La conosceva fin da quando aveva visto Juba per la prìma volta e aveva assistito ai suoi sforzi irriducibili per difendere e proteggere il popolo dei matabele. Era stata amica e consigliera del vecchio re Lobengula, e aveva dato conforto a migliaia di malati e morenti; perciò ora l'interesse di Gandank era sincero. «Si è liberata degli spiriti maligni che ha attirato su di sé bevendo il sangue della ragazza?» Era inevitabile che il racconto dell'esperimento di Robyn sul contagio malarico si fosse ingarbugliato fino ad assumere una colorazione di stregoneria. «Non ha bevuto il sangue della ragazza.» Juba tentò di spiegare che Nomusa l'aveva fatto per il bene della nazione matabele; ma poiché lei stessa non aveva compreso bene, la sua spiegazione non era convincente. Lesse il dubbio negli occhi di Gandank, e rinunciò al tentativo. «Bazo, l'Ascia?» chiese invece. «Dov'è?» Il figlio primogenito era il suo prediletto. «Tra le colline con tutti gli altri giovani» rispose Gandank. Le Matopos erano sempre il rifugio dei matabele in tempi di pericolo e di calamità, e Juba si protese per chiedere ansiosamente: «Ci sono stati guai?» Gandank alzò le spalle. «Di questi tempi ci sono sempre guai.» «Cos'è successo?» «Unico Occhio ha mandato i suoi kanka, i suoi sciacalli, a dire che dobbiamo fornitgli duecento giovani per lavorare nella nuova miniera d'oro a sud, la miniera di Henshaw, il Falco. «Non li avrai mandati?» «Ho detto ai suoi kanka...» Il nome spregiativo che indicava i poliziotti indigeni della Compagnia li accomunava ai piccoli divoratori di carogne che seguivano il leone per nutrirsi di avanzi, ed esprimeva l'odio dei matabele per i traditori. «Ho detto loro che i bianchi mi avevano tolto lo scudo e l'assegai e l'onore di induna, e quindi avevo perduto il diritto di ordinare ai miei giovani di scavare le miniere dei bianchi e costruire le loro strade.» «E ora Unico Occhio viene qui?» Juba parlò con rassegnazione. Conosceva tutto ciò che doveva essere fatto: il comando, la sfida, il confronto. L'aveva visto accadere altre volte, ed era nauseata dell'orgoglio e delle guerre degli uomini, e della morte e delle menomazioni, della fame e delle sofferenze. «Sì» rispose Gandank. «Non tutti i kanka sono traditori. Uno di loro ci ha avvertiti che Unico Occhio è partito con cinquanta uomini... perciò i giovani si sono nascosti tra le colline.» «Ma tu sei rimasto per incontrarlo?» chiese Juba. «Solo e inerme, ad attendere Unico Occhio e cinquanta armati?» «Non sono mai fuggito davanti a un uomo» rispose semplicemente Gandank. «Mai, in tutta la mia vita.» Juba si sentì soffocare dall'amore e dall'orgoglio mentre guardava il bel volto severo, e notò come se fosse la prima volta i fili argentei nella calotta scura al di sopra dell'anello che gli coronava la fronte. «Gandank, mio signore, i vecchi tempi sono passati. Le cose cambiano. I figli di Lobengula lavorano come servitori nel kraal di Lodzi, lontano nel sud, in riva alla grande acqua. Gli impi sono stati dispersi, e in questa terra vi è un dio nuovo e mite, il dio Gesù. Tutto è cambiato e dobbiamo cambiare anche noi.» GandAnk rimase a lungo in silenzio, e guardò oltre il fiume come se non l'avesse udita. Poi sospirò, prese un pizzico di polvere rossa dal corno che portava appeso al collo. Starnutì, si asciugò gli occhi e guardò Juba.
«Il tuo corpo è parte del mio corpo» disse. «Il tuo primogenito è mio figlio. Se non mi fidassi di te, non potrei fidarmi di me stesso. Perciò ti dico: i vecchi tempi torneranno.» «Che significa, signore?» chiese Juba. «Che strane parole sono queste?» «Le parole dell'Umlimo. Ci ha dato un oracolo. La nazione sarà di nuovo libera e grande...» «L'Umlimo mandò gli impi contro i fucili allo Shangani e al Bembesi» mormorò amaramente Juba. «L'Umlimo predica morte, guerra e pestilenze. Ora c'è un nuovo dio, il dio Gesù della pace.» «La pace?» ribatté Gandank in tono rabbioso. «Se questa è la parola del nuovo dio, allora gli uomini bianchi non l'ascoltano. Chiedi agli zulu quale pace hanno trovato a Ulundi, chiedi all'ombra di Lobengula quale pace hanno portato nel Matabeleland.» Juba non seppe rispondere, perché non aveva compreso bene le spiegazioni di Nomusa; e chinò la testa, rassegnata. Dopo un po', quando Gandank fu certo che avesse accettato le sue parole, continuò: «L'oracolo dell'Umlimo è diviso in tre parti... e la prima si è già realizzata. L'oscurità a mezzogiorno, le ali delle locuste e gli alberi spogli in primavera. E' quanto sta accadendo adesso, e noi dobbiamo volgere gli occhi verso il nostro acciaio.» «I bianchi hanno spezzato gli assegai.» «Tra le colline l'acciaio è nato di nuovo.» Gandank abbassò istintivamente la voce. «Le forge dei fabbri rozwi ardono giorno e notte e il ferro fuso scorre abbondante come le acque dello Zambesi.» Juba lo fissò. «Chi ha fatto questo?» «Bazo, tuo figlio.» «Le ferite delle armi da fuoco sono ancora fresche sul suo corpo.» «Ma è un induna dei Kumalo» bisbigliò con orgoglio Gandank. «Ed è un uomo.» «Un uomo solo» rispose Juba. «Un uomo solo, e dove sono gli impi?» «Si preparano in segreto nelle località selvagge, e si esercitano nuovamente nelle arti che non hanno dimenticato.» «Gandank, mio signore, sento che il mio cuore sta per spezzarsi ancora, sento le lacrime addensarsi come le piogge dell'estate. Dovrà esservi sempre guerra?» «Tu sei una figlia dei matabele, della pura stirpe zanzi del sud. Il padre di tuo padre seguì Mzilikazi, tuo padre sparse per lui il suo sangue, come tuo figlio ha fatto per Lobengula... come puoi chiedere ciò che hai chiesto?» Juba tacque. Sapeva che era inutile discutere quando Gandank aveva negli occhi quella luce. Quando la follia s'impossessava di lui, non e era spazio per la ragione. «Juba, mia Piccola Colomba, ci sarà un compito per te quando si realizzerà la profezia dell'Umlimo. «Signore?» «Le donne devono portare le lame. Saranno avvolte nei rotoli delle stuoie e nei fasci d'erba per i tetti, e le donne le metteranno sulla testa e le porteranno dove attendono gli impi.» «Signore.» La voce di Juba aveva un tono neutro. Abbassò gli occhi di fronte allo sguardo duro e scintillante del marito. «I bianchi e i loro kanka non sospetteranno le donne, le lasceranno passare lungo la strada» continuò Gandank. «Tu sei la madre della nazione, ora che le mogli del re sono morte o disperse. Sarà tuo dovere radunare le donne giovani e istruirle, e fare in modo che consegnino le armi nelle mani dei guerrieri nel tempo previsto dall'Umlimo, quando il bestiame senza corna sarà divorato dalla croce.» Juba esitò a parlare, temendo di destare la collera di Gandank; e questi dovette sollecitare una risposta. «Hai udito la mia parola, donna, e conosci il tuo dovere verso tuo marito e la tua gente.» Soltanto allora Juba alzò la testa e lo fissò negli occhi scuri e ardenti. «Perdonami, signore: Questa volta non posso obbedirti. Non posso contribuire ad attirare nuove sofferenze su questa terra. Non sopporto di ascoltare ancora i lamenti delle vedove e degli orfani. Dovrai trovare un'altra perché porti l'acciaio sanguinario.» Juba s'era aspettata un'esplosione di rabbia. Avrebbe atteso che si esaurisse come era avvenuto già cento volte; ma scorse negli occhi di Gandank qualcosa che non vi aveva mai visto. Era disprezzo, e non poteva SOpportarlo. Quando Gandank si alzò e, senza aggiungere una parola, si avviò lungo il fiume, avrebbe voluto rincorrerlo e gettarsi ai suoi piedi. Ma poi ricordò le parole di Nomusa. «Gesù è un dio mite, ma la strada che traccia per noi è indicibilmente difficile.» E Juba si accorse che non poteva muoversi. Era presa fra due mondi e due doveri e si sentiva dilaniare l'anima. ***
Per il resto della giornata, Juba restò sola sotto il fico spoglio. Sedeva con le braccia incrociate sulle grandi mammelle lucide e si dondolava in silenzio, come se quel movimento potesse confortarla: ma non c'era pace nel movimento e nei pensieri, e quindi provò un senso di sollievo quando finalmente alzò la testa e vide le sue accompagnatrici inginocchiate davanti a lei. Non sapeva da quanto tempo fossero lì. Non le aveva neppure sentite avvicinarsi, immersa com'era nell'angoscia e nella confusione. «Ti vedo, Ruth» disse rivolgendo un cenno alla cristiana e all'altra. «E anche te, Imbali, mio Piccolo Fiore. Perché siete così tristi?» «Gli uomini sono andati tra le colline» mormorò Ruth. «E i vostri cuori sono andati con loro.» Juba sorrise alle due giovani donne. Era un sorriso affettuoso e mesto, come se ricordasse le passioni carnali della sua giovinezza e rimpiangesse che le fiamme si fossero quasi estinte. «Non ho sognato altro che il mio uomo bellissimo, in tutte le notti solitarie che siamo state lontane» mormorò Ruth. «E il figlio robusto che farà con te» ridacchiò Juba. Conosceva la necessità disperata della ragazza e disse amabilmente: «Il tuo uomo ha un nome che gli si addice, Lelesa, il Fulmine.» Ruth chinò la testa. «Non deridermi, Mammewethu» sussurrò malinconicamente, e Juba si rivolse a Imbali. «E tu, Piccolo Fiore? Non c'è nessun'ape che solletichi i tuoi petali?» La ragazza rise e si coprì la bocca, imbarazzata. «Se hai bisogno di noi, Mammewethu» disse Ruth, «resteremo con te.» Juba le tenne sulle spine ancora per qualche secondo. I loro corpi giòvani erano sodi e desiderabili e modellati dolcemente, i loro grandi occhi scuri erano smaniosi, e immenso era il loro appetito per ciò che la vita aveva da offrire. Juba sorrise di nuovo e batté le mani. «Andate» disse. «Tutte e due. C'è chi ha bisogno di voi assai più di me. Andate a raggiungere i vostri uomini tra le colline.» Le ragazze strillarono felici; dimenticarono ogni cerimonia e abbracciarono gioiosamente Juba. «Tu sei il sole e la luna» le dissero, e corsero nelle loro capanne per prepararsi al viaggio, e per un po' il dolore di Juba si placò. Ma al cader della notte, quando nessuna delle mogli giovani venne a chiamarla alla capanna di Gandank, l'angoscia la riassalì; e pianse sola sulla stuoia fino a quando il sonno la colse. Con il sonno vennero i sogni, sogni pieni del bagliore delle fiamme e del lezzo della carne putrefatta, E Juba gridò, ma non c'era nessuno che la udisse e la svegliasse. *** Il generale Mungo St John tirò le redini e si fermò a guardare le foreste devastate. Non c'era più la copertura delle fronde, divorate dalle locuste, e questo avrebbe reso più difficile il suo compito. Si tolse il cappello e si asciugò la fronte. Quello era il mese suicida. I grandi banchi di cumuli si levavano alti lungo l'orizzonte, e il calore tremolava disegnando miraggi sulla terra nuda e riarsa. Delicatamente, Mungo si assestò la toppa nera sull'occhiaia vuota, e si girò sulla sella per guardare le file degli uomini che lo seguivano. Erano cinquanta, tutti matabele, ma abbigliati con un bizzarro assortimento di indumenti tradizionali ed europei. Alcuni portavano calzoni di fustagno rattoppati, altri gonnellini di pelliccia infiocchettati. Alcuni erano scalzi, altri avevano sandali di cuoio non conciato, altri ancora sfoggiavano stivali chiodati, senza calzettoni né ghette. Quasi tutti erano a torso nudo, sebbene alcuni indossassero tuniche o camicie sbrindellate. Ma tutti avevano qualcosa in comune: appeso a una catena intorno al braccio sinistro portavano un lucido disco di ottone con le parole: «Polizia BSA CO.» Ognuno era armato con un nuovo fucile Winchester a ripetizione e una cartucciera. Le gambe erano impolverate fino alle ginocchia perché avevano compiuto una dura marcia verso il sud, seguendo senza troppa fatica il trotto della cavalcatura di Mungo St John. Mungo li guardò con rabbiosa soddisfazione.
Nonostante la mancanza di copertura, pensava che la rapidità dell'avanzata potesse cogliere alla sprovvista i kraal. Era come una delle sue spedizioni per razziare gli schiavi sulla costa occidentale, tanto tempo addietro, prima che quel maledetto Lincoln e la dannatissima Royal Navy mettessero fine a quel traffico da molti milioni di dollari. Per Dio, quelli erano stati tempi magnifici. La rapida marcia, l'accerchiamento del villaggio e l'assalto all'alba, quando le mazze dei negrieri si abbattevano sulle nere teste lanose. Mungo si riscosse. Era un segno di vecchiaia tornare spesso con il pensiero al passato? Si ChieSe. «Ezra» chiamò perché il sergente lo raggiungesse: era l'unico uomo a cavallo della colonna, oltre a lui, e montava un grigio dalla schiena curva e dal pelame ispido. Ezra era un robusto matabele con una guancia sfregiata, ricordo di un incidente nella grande miniera diamantifera di Kimberley, mille chilometri più a sud. Era là che aveva adottato il nuovo nome e aveva imparato l'inglese. «Il kraal di Gandank è ancora lontano?» chiese Mungo. «E' lontano così.» Ezra alzò il braccio e descrisse un arco nel cielo, per indicare circa due ore di percorso del sole. «Sta bene.» Mungo annuì. «Manda avanti gli esploratori. Ma non ammetto sbagli. Spiegagli ancora che devono attraversare il fiume Inyati a monte del kraal e procedere in cerchio per attendere ai piedi delle colline.» «Nkosi.» Ezra annuì. «Di' loro che devono catturare tutti quelli che fuggono dal kraal e ricondurli là.» L'idea di dover far tradurre ogni comando infastidiva Mungo; e per la centesima volta da quando aveva varcato il Limpopo si ripromise di studiare la lingua dei matabele. Ezra salutò Mungo con deferenza esagerata, imitando i soldati britannici che aveva osservato dalla finestra della cella dove scontava la condanna per furto di diamanti, e si girò sulla sella per gridare gli ordini agli uomini che li seguivano. «Avvertili che dovranno essere in posizione prima dell'alba. Allora avanzeremo nel kraal.» Mungo sganciò la borraccia dell'acqua dal pomo della sella e svitò il tappo. «Sono pronti, Nkosi» riferì il sergente. «Sta bene, mandali via» disse Mungo, e si portò la borraccia alle labbra. *** Per lunghi attimi dopo il risveglio, Juba credette che le urla delle donne e il pianto dei bambini facessero parte dei suoi incubi, e si tirò il kaross sopra la testa. Poi la porta della capanna si aprì con uno schianto, una folla si avventò nell'interno buio, e Juba si svegliò completamente e gettò via il kaross. Numerose mani rudi l'afferrarono e, per quanto urlasse e si dibattesse, fu trascinata nuda all'aperto. L'alba schiariva il cielo e i poliziotti avevano aggiunto altra legna al fuoco: Juba riconobbe immediatamente l'uomo bianco e si rifugiò nella folla delle donne singhiozzanti e piangenti prima che potesse notarla. Mungo St John era infuriato: inveiva contro il sergente, camminava avanti e indietro accanto al fuoco e si batteva il frustino sugli stivali. Il suo volto era cremisi come i bargigli del singisi nero, il grottesco avvoltoio del veld, e l'unico occhio lampeggiava nella luce delle fiamme. «Dove sono gli uomini? Voglio sapere dove sono andati gli uomini!» Il sergente Ezra passò in fretta davanti alla fila delle donne e scrutò le facce lacrimose. Si fermò davanti a Juba: aveva riconosciuto subito una delle grandi dame della tribù, che nonostante la nudità totale appariva dignitosa come una regina. Juba si attendeva una manifestazione di rispetto, un gesto di cortesia; invece il sergente le afferrò il polso e le torse il braccio, costringendola a inginocchiarsi. «Dove sono gli amadoda?» le chiese sibilando. «Gli uomini, dove sono andati?» Juba soffocò un singulto di dolore e gracchiò: «E' vero che qui non ci sono uomini, perché non sono certo uomini quelliche portano al braccio il ciondolo di Lodzi...» «Vacca» sibilò il sergente. «Grossa vacca nera.» E le strattonò il braccio verso l'alto, buttandola con la faccia nella polvere.
«Basta, kanka!» Una voce dominò il chiasso, e il tono di comando portò un silenzio immediato. «Lascia stare la donna.» Il sergente lasciò istintivamente Juba e indietreggiò, e persino Mungo St John si fermò di colpo. Gandank avanzò nella luce del fuoco: sebbene portasse soltanto l'anello in capo e un perizoma, era minaccioso come un leone in caccia, e il sergente arretrò d'un passo. Juba si rialzò a fatica, massaggiandosi il polso, ma Gandank non la guardò neppure. Si avvicinò a Mungo St John e chiese: «Che cosa cerchi, uomo bianco? Perché sei venuto nel mio kraal come un ladro nella notte?» Mungo guardò il sergente perché traducesse. «Dice che sei un ladro» spiegò il sergente, e Mungo alzò il mento e fissò minacciosamente Gandank. «Digli che sa perché sono venuto. Digli che voglio duecento uomini giovani e forti.» Gandank si rifugiò nella studiata ottusità difensiva degli africani, che pochi europei sapevano controbattere e che esasperava un uomo come St John perché, dato che non capiva la lingua, doveva servirsi dell'interprete. Il sole era già alto quando Gandank ripeté la domanda che aveva formulato quasi un'ora prima. «Perché vuoi i miei giovani? Sono contenti di star qui.» Mungo stringeva i pugni per lo sforzo di dominarsi. «Tutti gli uomini devono lavorare» tradusse il sergente. «E' la legge dei bianchi.» «Rispondigli» disse Gandank, «che questa non è l'abitudine dei matabele. Gli amadoda pensano che non ci sia dignità e virtù nello scavare la terra. E' un lavoro per le donne e gli amaholt.» «L'induna dice che i suoi uomini non vogliono lavorare.» tradusse il sergente, e Mungo St John non seppe più trattenersi. Avanzò e colpì con il frustino la faccia dell'induna. Gandank sbatté le palpebre; ma non trasalì e non alzò la mano per toccarsi il gonfiore apparso sulla guancia. Non cercò di stagnare il filo sottile di sangue che colava dal labbro lacerato; lasciò che gli sgocciolasse sul petto nudo. «Ora le mie mani sono vuote, uomo bianco» disse in un bisbiglio più penetrante di un urlo. «Ma non lo saranno sempre.» E si avviò verso la sua capanna. «Gandank» gli gridò dietro Mungo St John. «I tuoi uomini lavoreranno, anche se dovrò stanarli e incatenarli come animali.» *** Le due ragazze percorrevano il sentiero con un trotto ondeggiante che non sbilanciava l'equilibrio dei grandi fardelli posati sulle teste. Nei fardelli c'erano doni speciali per i loro uomini, sale e granturco, tabacco da fiuto e conterie e pezze di calicò per perizomi che s'erano fatte dare nel magazzino di Nomusa alla Missione di Khami. Erano tutte e due contente, perché avevano superato la scia della devastazione lasciata dalle locuste, e le foreste di acacie erano nuvole di fiori giallodorati e ronzanti d'api. Davanti a loro s'innalzavano le prime cupole perlacee di granito; e là avrebbero trovato gli uomini. Perciò si scambiavano allegri richiami e osservazioni puerili, e le loro risate erano dolci come un tintinnio di campanelle, un suono che le precedeva in distanza. Girarono intorno alla base di un'alta rupe e senza soffermarsi a riposare incominciarono a salire i gradini naturali di pietra grigia che le avrebbero condotte a una gola scoscesa e poi più su, fino alla sommità. Imbali si fermò di colpo, così bruscamente che per poco Ruth non le finì addosso, e lanciò un sibilo d'allarme. In mezzo al sentiero stava un uomo. Sebbene fosse inequivocabilmente un matabele, le ragazze non l'avevano mai visto. Portava ùna camicia blu, e sul braccio gli brillava un disco di ottone. Teneva in mano un fucile. Ruth si guardò alle spalle e sibilò di nuovo. Un altro uomo armato era uscito dall'angolo in ombra del macigno e tagliava la ritirata. Sorrideva, ma il suo sorriso non era rassicurante. Le due ragazze si tolsero i fardelli dalla testa e si strinsero l'una all'altra. «Dove andate, belle micine?» chiese il kanka sorridente.
«Siete in cerca d'un gattone?» Le ragazze non tisposero. Lo fissarono con gli occhi sgranati per la paura. «Verremo con voi.» Il kanka sorridente aveva il torace così ampio e le gambe così muscolose che sembrava deforme. I suoi denti erano bianchi ed enormi come quelli d'un cavallo, ma il sorriso non gli illuminava gli occhi: erano piccoli, freddi e morti. «Rimettete in testa i fagotti, micine, e portateci dai gatti.» Ruth scosse la testa. «Stiamo andando in cerca di radici medicinali, e non sappiamo cosa volete da noi.» Il kanka si avvicinò. Le gambe curve gli davano una strana andatura ondeggiante. Sferrò un calcio al fardello di Ruth, e il fardello Si aprì. «Ah!» disse l'uomo con un freddo sorriso. «Perché portate questi doni, se andate in cerca di muti?» Ruth si buttò in ginocchio e annaspò tra le pietre per raccogliere il granturco e le conterie. Il kanka le posò la mano sulla schiena, le accarezzò la lucida pelle nera. «Fa' le fusa, micina» disse sorridendo, e Ruth s'immobilizzò, con le mani piene di chicchi. Il kanka le passò la mano sulla nuca. Era una mano enorme, con le nocche nodose, le dita forti. Ruth cominciò a tremare quando sentì quelle dita cingerle il collo. Il kanka alzò gli occhi verso il compagno che continuava a bloccare il sentiero. Si scambiarono un'occhiata. Imbali se ne accorse e comprese. «E' una sposa» mormorò. «Suo marito è nipote di Gandank. Stai attento, kanka.» L'uomo la ignorò. Sollevò Ruth tenendola per il collo e le girò la faccia. «Portaci dove si nascondono gli uomini.» Ruth lo fissò in silenzio per un secondo, e all'improvviso gli sputò rabbiosamente in faccia. La saliva gli spruzzò la guancia gli colò sul mento. «Kanka!» sibilò Ruth. «Sciacallo traditore!» L'uomo non aveva smesso di sorridere. «E' questo che stavo aspettando» disse. Agganciò l'indice nel cordone del gonnellino e lo spezzò. L'indumento cadde intorno alle caviglie di Ruth. Il kanka continuò a tenerla per il collo, mentre lei si dibatteva e si copriva l'inguine con entrambe le mani. La guardò, e il ritmo del suo respiro cambiò all'improvviso. «Sorveglia l'altra» disse al compagno, lanciandogli il Winchester. Il secondo poliziotto l'afferrò per il calcio e pungolò Imbali con la canna, costringendola a indietreggiare contro il grande macigno di granito. «Presto verrà il nostro momento» le disse, e si voltò a guardare gli altri, senza lasciarla. Il kanka trascinò Ruth per qualche passo, lontano dal sentiero. I cespugli erano radi e privi di fogliame. «Il mio uomo ti ucciderà» gridò Ruth. Dal sentiero potevano sentire tutto, anche il respiro ansante del kanka. «Allora dammi soddisfazione, se devo pagarla con la vita» rise l'uomo, e poi gemette per il dolore. «Ah, micina, hai gli artigli aguzzi.» Risuonò il tonfo di un colpo sulla carne morbida e poi vennero suoni di lotta. I cespugli tremarono, i ciottoli rotolarono giù per la china. Il poliziotto che teneva a bada Imbali si tese per vedere meglio. Si leccò le labbra aperte. Scorse un movimento confuso tra i rami spogli; poi sentì il suono di un corpo che cadeva a terra, l'esalare violento del respiro di Ruth sotto un peso schiacciante. «Stai ferma, micina» ansimava il kanka. «Non farmi arrabbiare. Stai ferma.» All'improvviso Ruth urlò. Era l'ultimo strido di un animale morente, ripetuto più volte. Il kanka grugnì. «Sì, ecco, sì» e poi sbuffò come un verro al trogolo, vi fu un suono ritmico, e Ruth continuò a urlare. L'uomo che sorvegliava Imbali appoggiò al macigno il secondo fucile, e con la canna del suo Winchester scostò i rami e guardò. La faccia si gonfiò, si scurì di passione: era completamente concentrato sulla scena che stava osservando. Imbali approfittò di quel momento. Si spostò di lato lungo il granito e indugiò un attimo per raccogliere le forze prima di sfrecciar via. Arrivò all'angolo del sentiero quando l'uomo si voltò e la vide.
«Torna indietro!» gridò. «Cosa c'è?» chiese il kanka dietro i cespugli, con voce convulsa. «L'altra. E' scappata.» «Fermala» muggì il kanka, e il suo compagno corse sull'angolo. Imbali era cinquanta passi più sotto, e fuggiva come una gazzella sul terreno accidentato, spronata dal terrore. L'uomo alzò il cane del Winchester, si portò il calcio contro la spalla e sparò alla cieca, senza mirare. Il proiettile fece centro. Colpì la ragazza alla schiena, le trapassò le viscere e le uscì dal ventre. Imbali stramazzò e rotolò giù per la china ripida, con gli arti che sbattevano afflosciati. Il poliziotto abbassò il fucile. Aveva un'espressione inorridita e incredula. Esitando, raggiunse il punto dove giaceva la ragazza. Era riversa, con gli occhi spalancati, e il foro d'uscita del proiettile era uno squarcio nello stomaco, gli intestini dilaniati sporgevano gonfi. Gli occhi cercarono la faccia dell'uomo, lampeggiarono di terrore per un istante, poi divennero vitrei. «E' morta.» Il kanka aveva abbandonato Ruth e stava scendendo il sentiero. Aveva lasciato il proprio gonnellino tra gli arbusti e le falde della camicia blu gli sventolavano intorno alle gambe. Guardarono entrambi la ragazza uccisa. «Io non volevo» disse il kanka con il fucile rovente tra le mani. «Non possiamo lasciare che l'altra vada a raccontare cos'è successo» rispose il compagno, e tornò indietro. Riprese il fucile appoggiato al macigno e si addentrò oltre lo schermo rado dei cespugli. L'altro stava ancora fissando gli occhi sbarrati di Imbali quando risuonò il secondo sparo. Trasalì e alzò la testa. Mentre gli echi si ripercuotevano tra le pareti di granito, il kanka riapparve sul sentiero. Espulse dal fucile il bossolo che cadde tintinnando sulle pietre. «Adesso dobbiamo inventare qualcosa da raccontare a Unico Occhio e agli induna» disse a voce bassa, e si allacciò il gonnellino di pelliccia intorno alla vita. *** Portarono le due ragazze al kraal di Gandank sul dorso del cavallo grigio del sergente Le gambe pendevano da una parte le braccia dall'altra. Avevano avvolto una coperta intorno ai corpi nudi, come se si vergognassero delle ferite, ma il sangue l'aveva intrisa e s'era coagulato, e le grosse mosche verdi brulicavano felici sulle macchie. Al centro del kraal il sergente fece un cenno al kanka che conduceva il grigio per la briglia, e quello si voltò e tagliò la corda che legava le caviglie delle ragazze. Sbilanciati, i cadaveri scivolarono a capofitto sulla terra nuda. Caddero senza dignità in un groviglio caotico di membra, come prede portate al veld dopo la caccia per essere scuoiate. Le donne, che avevano taciuto fino a quel momento, diedero l'avvio agli ossessivi ululati del lutto. Una raccolse una manciata di polvere e se la versò sulla testa. Le altre seguirono il suo esempio, e le loro urla fecero spuntare la pelle d'oca sulle braccia del sergente, anche se conservò un'espressione impassibile e un tono calmo mentre parlava a Gandank. «Sei stato tu ad attirare questa sventura sulla tua gente, vecchio. Se avessi obbedito alla volontà di Lodzl e avessi mandato qui i giovani com'è tuo dovere, queste donne sarebbero vissute per partorire figli.» «Che delitto hanno commesso?» chiese Gandank, guardando la moglie principale che veniva a inginocchiarsi accanto ai cadaveri insanguinati e coperti di polvere. «Hanno cercatodi uccidere due dei miei poliziotti.» «Ah!» esclamò Gandank, incredulo e sprezzante; e per la prima volta la voce del sergente s'inasprì per la collera. «I miei uomini le avevano sorprese e costrette a condurli dove si nascondono gli amadoda. Stanotte, mentre erano accampati e i miei uomini stavano dormendo, quelle due hanno cercato di piantargli stecchi acuminati negli orecchi per trafiggergli il cervello; ma i miei hanno il sonno leggero. Al loro risveglio, le donne sono fuggite nella notte e hanno dovuto fermarle.» Per un lungo istante Gandank fissò il sergente. I suoi occhi avevano un'espressione così terribile che Ezra girò lo sguardo su Juba, inginocchiata accanto al corpo d'una delle ragazze. Juba chiuse la bocca aperta di Ruth, le pulì delicatamente il sangue dalle labbra e dalle narici.
«Sì» disse Gandank a Ezra. «Guarda bene, sciacallo dell'uomo bianco, e ricorda questa scena per tutti i giorni che ti rimangono da vivere.» «Oseresti minacciarmi, vecchio?» esclamò il sergente. «Tutti gli uomini devono morire.» Gandank alzò le spalle. «Ma alcuni muoiono prima e più dolorosamente degli altri.» Poi si voltò e tornò alla sua capanna. *** Gandank era solo, accanto al fuocherello fumoso. Non aveva toccato la carne arrostita né le focacce di granturco bianco che stavano sul piatto accanto a lui. Guardava le fiamme e ascoltava i lamenti delle donne e il rullo dei tamburi. Juba, lo sapeva, sarebbe venuta ad avvertirlo quando i corpi delle due ragazze fossero stati lavati e avvolti nella pelle verde del bove appena macellato. Appena fosse spuntato il giorno, sarebbe stato suo dovere far scavare la tomba al centro del kraal del bestiame. Non si sorprese quando sentì raspare leggermente sulla soglia, e disse a Juba di entrare. Lei gli si inginocchiò al fianco. «E' tutto pronto per il mattino, marito mio.» Gandank annuì. Rimasero a lungo in silenzio, poi Juba disse: «Vorrei cantare il canto cristiano che mi ha insegnato Nomusa, quando le ragazze verranno sepolte.» Gandank chinò la testa in segno di assenso, e Juba continuò. «E vorrei che scavassi le loro tombe nella foresta: così potrei mettervi sopra le croci.» «Se questa è l'usanza del tuo nuovo dio» disse Gandank. Si alzò e andò alla stuoia nell'angolo. «Nkosi.» Juba restò inginocchiata. «Signore, c'è qualcosa d'altro.» «Che cosa?» Gandank si voltò a guardarla, freddo e remoto. «Io e le mie donne porteremo le lame d'acciaio come mi avevi comandato» mormorò Juba. «L'ho giurato con la mano sulla ferita di Ruth. Porterò gli assegai agli amaloda.» Gandank non sorrise, ma la freddezza sparì dai suoi occhi e le tese la destra. Juba si alzò, si avvicinò, e Gandank le prese la mano e la condusse alla stuoia. *** Bazo discese dalle colline tre giorni dopo che le ragazze erano state sepolte sotto i grandi rami nudi d'una mimosa gigantesca, in un punto affacciato sul fiume. Con lui c'erano due giovani guerrieri, e tutti e tre si recarono subito alle tombe, gUIdati da Juba. Dopo un po', Bazo lasciò i due sposi a piangere le loro donne e tornò dove il padre l'attendeva sotto il fico. Dopo lo scambio rituale dei saluti, bevvero la birra dallo stesso recipiente passandoselo in silenzio; e quando fu vuoto, Gandank sospirò. «E' terribile.» Bazo alzò bruscamente la testa. «Rallegrati, padre mio. Ringrazia gli spiriti dei tuoi antenati» disse, «perché ci hanno fatto un dono che non avremmo osato sperare.» «Non ti capisco.» Gandank fissò il figlio. «Per due vite, due vite senza nessuna importanza, che sarebbero state spese nella vanità e nella stupida frivolezza... per questo prezzo insignificante abbiamo acceso un fuoco nelle viscere della nazione. Abbiamo dato forza d'animo anche ai più deboli e vili dei nostri amadoda. Ora, quando verrà il momento, sappiamo che non ci saranno esitazioni. Rallegrati, padre mio, del dono che abbiamo ricevuto.» «Sei divenuto un uomo spietato» sussurrò finalmente Gandank. «Sono fiero che mi giudichi così» rispose Bazo. «E se non sarò abbastanza spietato per compiere l'opera, in futuro lo sarà mio figlio o suo figlio.» «Non ti fidi dell'oracolo dell'Umlimo?» chiese Gandank. «Ci ha promesso il trionfo.» «No, padre mio.» Bazo scosse la testa. «Rifletti attentamente sulle sue parole. Ci ha detto soltanto di compiere il tentativo. Non ci ha promesso nulla. Sta a noi riuscire o fallire. Ecco perché dobbiamo essere duri e implacabili e non fidarci di nessuno, sfruttare ogni vantaggio e approfittarne fino in fondo.» Gandank rifletté a lungo e sospirò di nuovo. «Prima non era così.» «Non lo sarà mai più. E' cambiato, Baba, e dobbiamo cambiare anche noi.» «Dimmi che altro c'è da fare» chiese Gandank. «Che cosa posso fare per favorire il successo?»
«Devi ordinare ai giovani di uscire dalle colline e di andare a lavorare come comandano i bianchi.» Gandank considerò la richiesta in silenzio. «Da oggi fino a quando verrà l'ora, dobbiamo diventare come le pulci. Dobbiamo vivere sotto il mantello dell'uomo bianco, così vicino alla sua pelle che non ci veda, così vicini da fargli dimenticare che siamo in attesa di pungerlo.» Gandank annuì, ma c'era un rammarico insondabile nei suoi occhi. «Preferivo quando ci schieravamo nella formazione a corna di toro, per circondare il nemico con i veterani ammassati al centro per schiacciarlo. Era bello quando attaccavamo cantando i canti di lode del reggimento, quando uccidevamo alla luce del sole, con i pennacchi al vento.» «Mai più, Baba» disse Bazo. «Non sarà mai più così. In futuro attenderemo in agguato tra l'erba come la vipera. Forse dovremo attendere un anno o dieci, una vita o ancora di più.;. forse non vedremo mai quel momento, padre mio. Forse saranno i figli dei nostri figli a sferrare l'attacco con armi diverse dall'acciaio argenteo che amiamo tanto; ma tu e io apriremo la strada che dovranno seguire, la strada del ritorno alla grandezza.» Gandank annuì. C'era una luce nuova nei suoi occhi, come il primo barlume dell'alba. «Tu vedi con chiarezza, Bazo. Tu li conosci bene, e hai ragione. Gli uomini bianchi sono forti in tutto, eccettuata la pazienza. Vogliono che tutto avvenga oggi. Mentre noi sappiamo aspettare.» Tacquero di nuovo, seduti vicini con le spalle che si sfioravano. Il fuoco si consumò prima che Bazo si riscuotesse. «Me ne andrò prima dello spuntar del giorno» disse. «Dove andrai?» «All'est, dai mashona.» «Perché?» «Anche loro devono prepararsi per quel giorno.» «Vuoi cercare l'aiuto dei cani mashona, i mangiatori di sudiciume?» «Io cerco aiuto dovunque lo si possa trovare» disse semplicemente Bazo. «Tanase dice che troveremo alleati al di là dei nostri confini, al di là del grande fiume. Parla persino di alleati d'una terra così fredda che le sue acque diventano dure e bianche come il sale.» «Esiste una terra simile?» «Non lo so. So soltanto che dobbiamo accettare ogni alleato, da qualunque luogo venga. Perché gli uomini di Lodzi sono combattenti duri e feroci. Tu e io l'abbiamo imparato.» *** Tutti i finestrini della carrozza trainata dai muli erano aperte , le imposte abbassate, in modo che Rhodes potesse conversare liberamente con gli uomini cbe cavalcavano a lato. Erano gli aristocratici della nuova terra, non più di una dozzina; ma tra tutti possedevano tratti immensi di territorio vergine e fertile, mandrie sterminate di bestiame indigeno e giacimenti minerari sotto i quali si nascondevano sogni di ricchezze incalcolabili. L'uomo a bordo della lussuosa carrozza trainata da cinque muli candidi era il loro capo. Quale privato cittadino, disponeva di una ricchezza e di una potenza che di solito erano prerogativa dei re. La sua Compagnia possedeva un'area più vasta del Regno Unito e dell'Irlanda sommati insieme, e l'amministrava come una tenuta privata. Controllava la produzione diamantifera del mondo mediante un'organizzazione che l'aveva reso potente quanto un governo elettivo. Possedeva personalmente le miniere che fornivano il novantacinque per cento di tutti i diamanti del mondo. La sua influenza sui favolosi giacimenti d'oro di Witwatersrand era meno grande di quanto avrebbe potuto essere, perché aveva rinunciato a molte occasioni di acquisire concessioni lungo il filone dove un tempo il banket ricchissimo d'oro spiccava sopra la prateria circostante, nero e affilato come la pinna dorsale d'uno squalo, prima che i minatori lo consumassero. «Non sento il potere in questo filone» aveva detto una volta mentre stava sulla roccia e lo scrutava cupamente con i chiari occhi messianici. «Quando sto sul ciglio della grande miniera a cielo aperto di Kimberley so quanti carati vengono estratti con ogni carico. Ma qui...» Aveva scrollato la testa ed era tornato al suo cavallo, voltando la schiena a cento milioni di libbre d'oro puro.
Quando finalmente era stato costretto a riconoscere il potenziale della «Catena delle Acque Bianche» e stava per affrettarsi a tornare e ad assicurarsi le poche proprietà ancora disponibili, un tragico incidente l'aveva trattenuto. Il suo amico più caro, un bellissimo giovane che si chiamava Neville Pickering, suo compagno e socio da molti anni, era stato disarcionato e trascinato al suolo dal proprio cavallo. Rhodes era rimasto a Kimberley per assisterlo e poi per piangerlo, quando Neville era morto. Durante quelle settimane s'era lasciato sfuggire alcune grandi occasioni. Tuttavia, alla fine aveva fondato su quel filone la sua Consolidated Goldfields Company; e sebbene non fosse paragonabile alla sua De Beers Consolidated Mines Company, né all'impero dell'oro costruito dal suo vecchio rivale J. B. Robinson, alla conclusione dell'ultimo anno finanziario aveva pagato un dividendo del 125 per cento. Il suo patrimonio era così immenso che quando, per un capriccio improvviso, aveva deciso di diventare un pioniere della coltivazione della frutta decidua nell'Africa del Sud, aveva ordinato a uno dei suoi direttori di acquistare l'intera valle di Franschhoek. «Signor Rhodes, costerà un milione di sterline» aveva obiettato il direttore. «Non le ho chiesto una stima» aveva ribattuto Rhodes in tono stizzito. «Le ho dato un ordine... la compri!» Questa era la sua vita privata, ma la sua vita pubblica non era meno spettacolare. Era consigliere privato della regina, e quindi poteva parlare direttamente agli uomini che guidavano le sorti del più grande impero mai esistito al mondo. Per la verità, non tutti avevano simpatia per lui. Una volta Gladstone aveva commentato: «Io so una cosa sola sul conto del signor Rhodes. Ha accumulato una quantità enorme di denaro in pochissimo tempo. Questo non mi riempie di fiducia.» Il resto dell'aristocrazia britannica era assai meno critica nei suoi confronti, e ogni volta che egli visitava Londra era il beniamino della buona società, e lord e duchi e conti gli si affollavano intorno, perché c'erano disponibili posti molto lucrosi nel consiglio d'amministrazione della BSA Company, e una parola del signor Rhodes poteva portare a un colpo gobbo in Borsa. Oltre a tutto questo, il signor Rhodes era il primo ministro eletto della Colonia del Capo, sicuro del voto di tutti i cittadini anglofoni e, grazie ai buoni uffici del suo vecchio amico Hofmeyr e dell'Afrikander Bond, poteva contare anche sulla maggior parte dei voti degli abitanti di lingua olandese. Mentre oziava sul sedile di pelle verde della sua carrozza, vestito dell'abito gualcito e abbottonatissimo, con il nodo della cravatta dell'Oriel College un po' allentato, era all'apice della ricchezza, del potere e dell'influenza. Seduto di fronte a lui, Jordan Ballantyne fingeva di esaminare gli appunti stenografati che Rhodes gli aveva appena dettato, ma osservava il principale con un guizzo di preoccupazione negli occhi dalle lunghe ciglia. Sebbene la tesa piatta del cappello ombreggiasse gli occhi di Rhodes e impedisse a Jordan di leggervi tracce di sofferenza, il colorito era acceso e malsano; e benché parlasse con l'abituale energia, sudava più di quanto lo giustificasse la frescura del primo mattino. Rhodes alzò la voce e chiamò con quel suo tono acuto, quasi petulante: «Ballantyne!» E Zouga Ballantyne spronò il caval lo, si accostò al finestrino e si sporse dalla sella. «Mi dica, amico mio» chiese Rhodes, «cos'è quella nuova costruzione?» Indicò con un cenno le fondamenta scavate da poco e le pile di mattoni cotti, all'angolo dove s'incontravano due delle strade ampie e polverose di Bulawayo. «E' la nuova sinagoga» rispose Zouga. «Dunque i miei ebrei sono venuti qui per restare!» disse Rhodes con un sorriso. Zouga sospettava che sapesse benissimo a che cosa erano destinate le fondamenta, e avesse fatto la domanda per poter sfoggiare una battuta spiritosa. «Allora nella mia nuova terra andrà tutto bene, Ballantyne. Sono uccelli di buon augurio, e non si poserebbero mai su un albero che sta per essere abbattuto.» Zouga rise doverosamente, e continuarono a parlare mentre Ralph Ballantyne, in mezzo al gruppo, li osservava con tale interesse da dimenticare la signora che gli cavalcava accanto fino a quando lei gli batté leggermente il frustino sul braccio.
«Ho detto che sarà interessante vedere cosa succederà quando arrivetemo a Khami» ripeté Louise; e Ralph rivolse di nuovo l'attenzione alla matrigna. Cavalcava come un uomo, ed era l'unica donna di sua conoscenza che lo facesse; indossava una lunga gonnapantalone, e il suo portamento in sella era elegante e sicuro. Ralph l'aveva vista gareggiare in velocità con suo padre e batterlo in una corsa impegnativa su terreno accidentato. Era avvenuto a Kimberley, prima del trasferimento al nord; ma gli anni erano stati gentili con Louise. Ralph sorrise tra sé, ricordando la cotta giovanile che s'era preso la prima volta che l'aveva vista guidare il phaéton tirato da una pariglia di palomini dorati lungo l'affollata via principale di Kimberley. Erano trascorsi molti anni e, sebbene in seguito Louise avesse sposato suo padre, provava ancora per lei un affetto particolare che non era filiale né rispettoso. Aveva appena pochi anni più di lui, e il sangue degli indiani piedineri che le scorreva nelle vene conferiva alla sua bellezza un elemento inattaccabile dal tempo. «Non posso credere che Robyn, la mia onorata zia e suocera, sia capace di sfruttare l'occasione delle nozze della figlia minore per scopi politici» disse Ralph. «Sei sicuro al punto di scommetterci una ghinea?» chiese Louise con un sorriso che mise in mostra i denti candidi, ma Ralph inclinò la testa all'indietro e rise. «Ho imparato la lezione... non scommetterò mai più con te.» Poi abbassò la voce. «E comunque, non ho poi tanta fiducia nell'autocontrollo di mia suocera.» «Allora perché mai il signor Rhodes insiste per essere presente alle nozze? Deve sapere che cosa può aspettarsi.» «Ecco, innanzi tutto è proprietario del terreno sul quale sorge la missione, e in secondo luogo probabilmente pensa che le signore di Khami lo privino di un oggetto prezioso.» Ralph alzò il mento per indicare lo sposo che cavalcava un po' più avanti del gruppo. Harry Mellow aveva un fiore all'occhiello, gli stivali lucidi e un sorriso beato sulle labbra. «Ma non l'ha perduto» osservò Louise. «Lo ha licenziato appena si è accorto che non sarebbe riuscito a dissuaderlo.» «Ma è un geologo formidabile. Dicono che senta l'odore dell'oro a un chilometro di distanza.» «Il signor Rhodes non approva i giovani che si sposano, per quanto siano ricchi di talento. «Povero Harry, povera Vicky. Che cosa faranno?» «Oh, è già tutto sistemato» disse Ralph, con aria raggiante. «Tu?» chiese Louise. «E chi altri?» «Avrei dovuto saperlo. Anzi, non mi sorprenderebbe scoprire che hai combinato tutto tu» commentò Louise in tono d'accusa, e Ralph la guardò rattristato. «Sei davvero ingiusta verso di me, mamma.» Sapeva che Louise non gradiva quell'appellativo e l'aveva usato di proposito per punzecchiarla. Poi guardò più avanti e la sua espressione cambiò come quella di un cane da caccia che sente l'usta dei fagiani. Il corteo aveva superato le ultime costruzioni nuove e le baracche alla periferia della città e avanzava sull'ampia strada carraia. Verso di loro, dal sud, stava arrivando un convoglio di carri da trasporto. Erano dieci, sgranati in modo che i più lontani erano riconoscibili soltanto dalle colonne di fine polvere bianca che s'innalzavano al di sopra delle chiome piatte delle acacie. Sulla tenda del carro più vicino, Louise poteva già leggere il nome della Compagnia, RHOLANDS, la forma abbreviata di «Rhodesian Lands and Mining Co.» che Ralph aveva scelto per indudere le sue numerose attività commerciali. «Accidenti a me» esclamò allegramente Ralph. «Il vecchio Isazi li ha portati fin qui con cinque giorni d'anticipo sulla tabella di marcia. Quel piccolo diavolo nero è un prodigio.» Si toccò la tesa del cappello, per scusarsi con Louise. «Gli affari mi chiamano. Ti prego di perdonarmi, mamma.» Si avviò al galoppo. Balzò dal cavallo quando arrivò a fianco del carro di testa e abbracciò l'ometto dalla vecchia giubba militare che era sceso brandendo la frusta lunga nove metri.
«Che cosa ti ha attardato tanto, Isazi?» chiese Ralph. «Hai inContrato lungo la strada una bella ragazza matabele?» Il piccolo conducente zulu si sforzò di nascondere un sorriso, ma la faccia grinzosa si contrasse e negli occhi passò un lampo malizioso. «Sono ancora capace di accontentare una ragazza matabele e sua madre e tutte le sue sorelle nel tempo che tu impiegheresti per attaccare un solo bue a un carro.» Non era soltanto una dichiarazione di virilità, ma anche un'al lusione obliqua all'abilità di Ralph come conducente. Isazi gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva, in quel campo; ma continuava a trattare Ralph con la condiscendenza indulgente che di solito riservava ai bambini. «No, Piccolo Falco, non volevo costringerti a pagare un premio troppo grosso portando qui i carri con più di cinque giorni d'anticipo.» Era un accenno elegante a ciò che Isazi si aspettava con la prossima paga. Il piccolo zulu, con la testa canuta ancora cinta dall'anello accordatogli dal re Cetywayo prima della battaglia di Ulundi, indietreggiò di un passo e osservò Ralph con lo sguardo attento che di solito riservava ai buoi da tiro. «Ahu, Henshaw, come mai tanto lusso?» Squadrò l'abito e gli stivali inglesi, e il rametto fiorito di mimosa all'occhiello di Ralph. «Porti persino i fiori, come una fanciulla civettuola al suo primo ballo. E che cos'hai sotto la giacca? Nella tua famiglia, senza dubbio, è la Nkosikazi che porta in grembo i bambini.» Ralph si guardò di sfuggita lo stomaco. Isazi stava esagerando: c'era appena una traccia di grasso superfluo, che una settimana di caccia impegnativa sarebbe bastata a eliminare; ma continuò lo scherzoso battibecco che li divertiva entrambi. «E' privilegio dei grandi uomini indossare abiti lussuosi e mangiare ottimo cibo» disse. «Allora rimpinzati, Piccolo Falco dalle belle piume.» Isazi scosse la testa con aria di disapprovazione. «Mangia a sazietà. Mentre gli uomini più saggi lavorano, tu giochi come un bambino.» Il tono era smentito dal calore del sorriso, e Ralph gli strinse la spalla. «Non è mai esistito un conducente come te, Isazi, e probabilmente non ce ne saranno mai altri.» «Ahu, Henshaw, dunque sono riuscito a insegnarti qualcosa, se sai riconoscere la vera grandezza quando la vedi.» Isazi ridacchiò, fece schioccare nell'aria la lunga frusta e chiamò i SUOi bUOi. «Avanti, Francese, diavolo nero! Su, Satana, tesoro mio! Pakamisa, presto!» Ralph rimontò in sella e fece indietreggiare il cavallo dalla strada per lasciar passare i suoi carri carichi. In quel convoglio c'era un profitto di tremila sterline, e possedeva duecento carri che facevano continuamente la spola nell'immenso territorio. Scosse la testa, ricordando il vecchio carro da cinque metri e mezzo che lui e Isazi avevano guidato in partenza da Kimberley quella prima volta. L'aveva acquistato con una somma presa in prestito, e l'aveva caricato di merci che non erano sue. «Una strada lunga e difficile» disse a voce alta. Girò il cavallo e lo lanciò al galoppo per inseguire la carrozza e il corteo che accompagnava lo sposo. Si affiancò di nuovo a Louise, e lei si scosse dalla fantasticheria, come se non avesse neppure notato la sua assenza. «Sognavi a occhi aperti» disse Ralph in tono d'accusa, e Louise allargò le dita per ammettere la colpa, poi tese la mano per indicare. «Guarda, Ralph. Guarda com'è bello.» Davanti alla carrozza, sul sentiero, passò un uccello in volo, un'averla dal lucido dorso nero e il petto d'un cremisi abbagliante che splendeva come un rubino prezioso nella luce bianca del sole. «E' tutto bellissimo» esclamò Louise, mentre l'averla spariva tra i cespugli, e si girò sulla sella per indicare l'intero orizzonte con un ampio gesto del braccio che fece oscillare le frange della giacca di candida pelle di daino. «Lo sai, Ralph? King's Linn è la prima vera casa che ho avuto.» Solo in quel momento Ralph ricordò che si trovavano ancora nelle terre di suo padre. Zouga Ballantyne aveva speso tutto il patrimonio strappato al la roccia blu della miniera di Kimberley per acquistare le concessioni terriere degli sbandati e degli insoddisfatti tra i soldati del dottor Jameson che s'erano avventurati nel Matabeleland e avevano sconfitto Lobengula. Ognuno di
loro aveva avuto diritto a milleseicento ettari di sua scelta; e alcuni avevano ceduto quel diritto a Zouga Ballantyne, a volte per il prezzo d'una bottiglia di whisky. Un uomo in sella a un buon cavallo avrebbe impiegato tre giorni per girare intorno ai confini di King's Linn. La casa che Zouga aveva costruito per Louise sorgeva su una di quelle col line lontane, affacciata sull'ampia pianura d'erba doke e di acacie: il tetto di paglia dorata e i mattoni cotti si armonizzavano con gli alti alberi ombrosi, come se la casa fosse stata là da sempre. «Questa terra splendida sarà generosa con noi» mormorò Louise con voce commossa e gli occhi traboccanti d'una gioia quasi religiosa. «Oggi Vicky si sposa, e i suoi figli cresceranno qui sani e forti. Chissà...» S'interruppe e una nube lieve le passò negli occhi. Non aveva ancora rinunciato alla speranza di dare un figlio a Zouga. Ogni notte, dopo che lui aveva fatto teneramente l'amore, restava immobile con le mani intrecciate sull'inguine, e le cosce strette come per contenere nel grembo il suo seme, e pregava mentre Zouga le dormiva accanto. «Chissà...» Ma sarebbe stato di cattivo augurio parlarne; e perciò disse: «Forse un giorno Jonathan o un altro tuo figlio sarà padrone di King's Linn.» Tese la mano e gliela posò sull'avambraccio. «Ralph, ho la strana premonizione che i nostri discendenti vivranno qui per sempre.» Ralph le sorrise affettuosamente e le coprì la mano con la propria. «Be', ecco, mia cara Louise, persino il signor Rhodes parla di quattromila anni appena. Non ti basta?» «Oh!» Louise gli diede una pacca scherzosa sulla spalla. «Non vuoi mai essere serio!» Poi lanciò un'esclamazione e fece deviare il cavallo per staccarsi dal corteo. Sotto una delle acacie a fianco della pista c'erano due ragazzetti matabele sotto i dieci anni. Indossavano soltanto i perizomi, e tenevano le teste abbassate con aria timida mentre Louise parlava loro in sindebele. A King's Linn c'erano dozzine di quei mujiba, per badare alle immense mandrie di bestiame indigeno e ai magnifici tori da riproduzione che Zouga aveva fatto venire dal sud. Quelli erano due dei tanti; ma Louise li conosceva per nome, e i loro visi splendevano di affetto sincero mentre rispondevano al saluto. «Anch'io ti vedo, Balela.» Il nome elogiativo che le avevano dato i servitori di King's Linn significava Colei-che-porta-cieli-sereni-e-soleggiati. I due bambini attesero, rispondendo alle sue domande, finché Louise si frugò nella tasca della gonna e lasciò cadere le caramelle nelle palme rosee delle mani protese. I ragazzini tornarono correndo alle loro mandrie, con le gote gonfie come quelle degli scoiattoli e gli occhi colmi di gioia. «Li vizi» osservò Ralph, raggiungendola. «Sono la nostra gente» rispose lei. E poi, quasi con rammarico: «Ecco il confine. Mi dispiace lasciare la nostra terra.» Il corteo dello sposo superò il palo indicatore a fianco della strada e avanzò nel territorio della Missione di Khami. Passò quasi un'ora prima che i muli trainassero la carrozza su per la pista scoscesa, attraverso la fitta boscaglia, e indugiassero sbuffando nel tratto piano che dominava dall'alto la chiesa imbiancata e gli edifici circostanti. Sembrava che nella valle si fosse accampato un esercito. Jordan balzò dalla carrozza, si tolse lo spolverino di cotone che aveva protetto il bell'abito grigiotortora, si assestò i folti capelli dorati e si avvicinò al fratello. «Cosa diamine succede, Ralph?» chiese. «Questo non me l'aspettavo.» «Robyn ha invitato al matrimonio metà della nazione matabele, e l'altra metà si è autoinvitata.» Ralph sorrise. «Alcuni di loro hanno viaggiato per oltre centocinquanta chilometri per essere presenti: tutti i pazienti che ha curato, tutti i neofiti che ha convertito, tutti gli uomini, le donne e i bambini che sono venuti in passato a chiedere un favore o un consiglio, e tutti coloro che la chiamano Nomusa... sono qui e hanno portato le famiglie e gli amici. Sarà la festa più grande da quando Lobengula tenne la sua ultima cerimonia chawala nel '93.» «Ma chi provvederà a sfamarli tutti?» Jordan si preoccupò immediatamente degli aspetti logistici della situazione. «Oh, Robyn può permettersi di sperperare una parte dei suoi diritti d'autore e io ho mandato in dono cinquanta buoi da macello. E dicono che la moglie di Gandank, la vecchia, grassa Juba, abbia preparato dieci barili della sua famosa twala. Si rimpinzeranno come pitoni e traboccheranno tutti
d'allegria.» Ralph allungò un pugno scherzoso al braccio del fratello. «E questo mi ricorda che anche a me è venuta sete. Andiamo avanti.» La strada era fiancheggiata da centinaia di ragazze che cantavano, tutte ornate di conterie e di fiori. La loro pelle unta di grasso e d'argilla splendeva come bronzo al sole. I gonnellini corti ondeggiavano intorno alle cosce ogni volta che battevano i piedi a terra e si dimenavano, e i seni nudi sobbalzavano e fremevano. «Per Dio, Jordan, hai mai visto uno spettacolo simile?» chiese Ralph per punzecchiare il fratello, giacché conosceva il suo atteggiamento puritano e riservato verso tutte le donne. «Quelle due laggiù potrebbero tenerti ben caldo anche sotto una tempesta di neve, ci giurerei!» Jordan arrossì e si affrettò a ritornare dal suo principale mentre le ragazze si affollavano intorno alla carrozza, costringendo i muli a rallentare. Una delle giovani donne riconobbe Rhodes. «Lodzi!» esclamò, e le altre ripeterono il grido. «Lodzi! Lodzi!» Poi scorsero Louise. «Balela, ti vediamo. Benvenuta, Balela» cantarono battendo le mani e ancheggiando. «Benvenuta Colei-che-porta-cieli-sereni-e-soleggiati.» Poi riconobbero Zouga e gridarono: «Vieni in pace, il Pugno.» E a Ralph: «Ti vediamo, Piccolo Falco, e i nostri occhi sono bianchi di gioia.» Zouga si tolse il cappello e lo sventolò. «Per Dio» mormorò a Louise. «Vorrei che Labouchère e la sua dannata Associazione per la Protezione degli Aborigeni fossero qui a vedere.» «Sono felici e sicuri come non lo erano mai stati sotto il regno sanguinario di Lobengula» disse Louise. «Questa terra sarà generosa con noi, lo sento nel profondo del cuore.» Dall'alto della sella, Ralph poteva vedere al di sopra delle teste delle ragazze. C'erano pochi uomini tra la folla, e si tenevano ai margini. Ma una faccia attirò la sua attenzione, l'unica faccia seria in mezzo ai sorrisi. «Bazo!» Ralph lo chiamò e agitò il braccio; il giovane induna lo guardò, e non sorrise neppure questa volta. «Parleremo più tardi» gli gridò Ralph, e passò oltre, trascinato dalla folla lungo il viale delle alte spathodee verdi-scure dai fiammeggianti fiori color arancio. Quando raggiunsero i prati, le danzatrici negre si fermarono perché, per un tacito accordo, quelli erano riservati agli ospiti bianchi. Erano un centinaio, radunati davanti alla grande veranda. Cathy era là, perché era arrivata tre giorni prima per aiutare nei preparativi. Era snella e fresca nell'abito di mussola gialla; e il cappello di paglia sulla testa bruna era ampio quanto una ruota di carro e carico di fiori di seta colorata che Ralph aveva ordinato a Londra. Jonathan gettò un grido nel vedere Ralph; ma Cathy lo trattenne per la mano perché non venisse travolto dalla folla che si affrettava a circondare lo sposo in un turbine di saluti e di rallegramenti. Ralph lasciò il cavallo, si fece largo tra la gente e abbracciò Cathy con tanto slancio da mettere in pericolo l'equilibrio del cappello. Cathy dovette afferrarlo al volo; poi restò immobile e impallidì. La portiera della carrozza s'era aperta. Jordan balzò a terra e abbassò il gradino pieghevole. «Ralph.» Cathy si aggrappò al braccio del marito. «E' lui! Cos è venuto a fare?» Rhodes era apparso nel vano della portiera, e su tutti era sceso un silenzio sbalordito. «Oh, Ralph, cosa dirà la mamma? Non potevi impedirglielo?» «Nessuno può fermarlo» mormorò Ralph senza lasciarla. «E comunque sarà più divertente d'un combattimento di galli.» Nello stesso istante Robyn St John, attirata dal chiasso, uscì sulla soglia della casa. Il viso, ancora arrossato dal caldo dei fornelli, raggiava in un sorriso di benvenuto per gli ultimi arrivati. Ma il sorriso si spense quando riconobbe l'uomo in cartozza. S'irrigidì; il rossore le defluì dal volto, lasciandola pallidissima. «Signor Rhodes» disse con voce chiara nel silenzio, «sono lieta che sia venuto alla Missione di Khami.» Negli occhi di Rhodes passò un lampo, come se lei l'avesse schiaffeggiato. Non si aspettava quell'accoglienza; chinò il capo con diffidente galanteria, ma Robyn continuò: «Perché questo mi offre la gradita occasione di ordinarle di non varcare la soglia di casa mia.» Rhodes s'inchinò del tutto, sollevato. Non gli piacevano le situazioni irrisolte che sfuggivano al suo controllo. «Ammettiamo che la sua giurisdizione giunga fin qui» disse. «Ma da questa parte della soglia, il terreno sul quale mi trovo appartiene alla BSA Company che io presiedo...» «No, signore» lo
smentì Robyn accalorandosi. «La Compagnia me ne ha accordato l'usufrutto...» «Una sottigliezza legale.» Rhodes scosse la testa con aria solenne. «Chiederò al mio amministratore di esprimere un parete in proposito.» L'amministratore era il dottor Leander Starr Jameson. «Ma nel frattempo vorrei brindare alla felicità dei giovani sposi.» «Le assicuro, signor Rhodes, che a Khami non le verranno serviti rinfreschi.» Rhodes fece un cenno a Jordan, e questi si affrettò a tornare alla carrozza e a dirigere i servitori in uniforme che scaricarono le sedie e i tavoli pieghevoli e li piazzarono all'ombra delle fronde delicate che le spathodee avevano ricacciato fuori dopo il passaggio delle locuste. Mentre Rhodes e i suoi sedevano, Jordan fece saltare il tappo della prima bottiglia di champagne, versò un diluvio spumeggiante in un bicchiere di cristallo, e Robyn St John sparì improvvisamente dalla veranda. Ralph affidò Jonathan alle braccia di Cathy. «Tua madre ha in mente qualcosa» disse, e si lanciò a corsa attraverso il prato. Scavalcò con un salto il muretto della veranda e irruppe nel soggiorno mentre Robyn staccava il fucile appeso sopra il camino. «Zia Robyn, cosa stai facendo?» «Cambio le cartucce. Tolgo i pallini e metto i pallettoni.» «Mia cara suocera, non puoi fare una cosa simile» protestò Ralph, avvicinandosi d'un passo. «Non posso usare i pallettoni?» Robyn gli girò intorno, guardinga, tenendo contro il petto il fucile dai cani a volute. «Non puoi sparargli.» «Perché no?» «Pensa allo scandalo.» «Io e lo scandalo siamo sempre stati compagni di viaggio.» «Allora pensa che sporcherai tutto di sangue» insistette Ralph. «Gli sparerò sul prato» disse Robyn, e Ralph si rese conto che parlava sul serio. Cercò disperatamente un'ispirazione e la trovò. «Il sesto comandamento!» gridò. Robyn si fermò di colpo. «Il sesto comandamento: "Non uccidere".» «Dio non si riferiva a Cecil Rhodes» disse Robyn, ma nei suoi occhi passò un lampo d'incertezza. «Se l'Onnipotente avesse voluto consentire una stagione di caccia per bersagli specifici, sono sicuro che l'avrebbe precisato» l'incalzò Ralph; e Robyn sospirò e tornò verso la cartucciera di cuoio appesa a un gancio. «E adesso che cosa fai?» chiese insospettito Ralph. «Torno a caricarlo a pallini» mormorò Robyn. «Dio non ha vietato d'impallinare qualcuno.» Ma Ralph afferrò il calcio del fucile e, con un minimo accenno di resistenza, Robyn glielo lasciò. «Oh, Ralph» mormorò. «Che sfrontatezza ha quell'uomo. Vorrei tanto che mi fosse permesso imprecare.» «Dio capirà»; l'incoraggiò Ralph. «Maledetto! Che possa finire all'inferno!» disse Robyn. «Va meglio?» «Non molto.» «Prendi» disse Ralph, togliendosi dalla tasca una fiaschetta d argento. Robyn bevve un sorso e batté le palpebre per reprimere le lacrime di rabbia. «Va meglio adesso?» «Un po'» ammise lei. «Che cosa devo fare, Ralph?» «Comportati con gelida dignità.» «Giusto.» Robyn alzò il mento con decisione e uscì di nuovo sulla veranda. Sotto le spathodee, Jordan aveva indossato un grembiule bianco e un alto cappello da chef e serviva champagne e grossi pasticcini dorati a chiunque ne volesse. La veranda, che prima dell'arrivo della carrozza era affollata d'invitati, adesso era deserta, e una folla gioviale circondava il signor Rhodes. «Cominciamo a cuocere le salsicce» disse Robyn a Juba. «Metti al lavoro le tue ragazze.» «Non sono ancora sposati, Nomusa» protestò Juba. E Il matrimonio non sarà prima delle cinque...» «Fa' preparare» ordinò Robyn. «Userò le mie salsicce contro i pasticcini di Jordan Ballantyne per far tornare qui tutti.» «E io scommetto che lo champagne del signor Rhodes riuscirà a trattenerli» disse Ralph. «Puoi offrirne anche tu?» «Non ne ho neppure una goccia, Ralph» ammise Robyn. «Ho birra e brandy, ma non champagne.» Ralph cercò con gli occhi uno degli ospiti più giovani
che si trovavano sul prato, il gestore del suo emporio di Bulawayo. Il giovane si affrettò a salire i gradini, lo raggiunse, ascoltò in silenzio per qualche secondo e corse a prendere il cavallo. «Dove l'hai mandato?» chiese Robyn. «Oggi è arrivato un mio convoglio. Non avranno ancora scaricato. Tra poche ore avremo qui un carro pieno di champagne.» «Non potrò mai ringraziarti abbastanza, Ralph.» Robyn lo scrutò per un momento e poi, per la prima volta in vita sua, si alzò in punta di piedi e gli sfiorò le labbra con un bacio prima di affrettarsi a tornare in cucina. Il carro di Ralph arrivò sulla collina in un momento cruciale. Jordan aveva ormai dato fondo allo champagne, le verdi bottiglie vuote formavano una montagnola disordinata dietro il banco, e gli invitati avevano già cominciato a sciamare verso le fosse del barbecue, dove le apprezzate salsicce alle spezie di Robyn sfrigolavano tra nubi di vapori aromatici. Isazi fermò il carro davanti alla veranda e, come un prestigiatore, scostò il telo per rivelarne il contenuto. La folla accorse, lasciando Rhodes tutto solo accanto alla lussuosa carrozza. Dopo pochi minuti, Jordan si accostò al fratello. «Ralph, il signor Rhodes vorrebbe acquistare qualche cassa del tuo champagne migliore.» «Non lo vendo al minuto. Digli che deve comprare il carro pieno, o niente.» Ralph sorrise, con aria cordiale. «A venti sterline la bottiglia.» «Questa è pirateria» esclamò Jordan. «E' anche l'unico champagne disponibile nel Matabeleland» «Il signor Rhodes non sarà contento.» «Ma io sarò contento anche per lui» gli assicurò Ralph. «Digli che voglio il pagamento anticipato.» Mentre Jordan andava a portare la brutta notizia al principale, Ralph raggiunse lo sposo e gli passò un braccio intorno alle spalle. «Dovresti ringraziarmi, Harry, ragazzo mio. Il tuo matrimonio passerà alla storia. Ma hai già parlato alla deliziosa Victoria della luna di miele?» «Non ancora» ammise Harry Mellow. «Una decisione saggia, figliolo. Il territorio di Wankie non ha certo lo stile dell'appartamento nuziale del Mount Nelson Hotel di Città del Capo.» «Vicky capirà» disse Harry, in tono più energico che convinto. «Senza dubbio» ammise Ralph, e andò incontro a Jordan che tornava brandendo l'assegno scribacchiato da Rhodes su un'etichetta di champagne strappata. «Meravigliosamente appropriato» mormorò Ralph, intascandolo. «Manderò Isazi a prendere l'altro carro.» AlL'annuncio che alla Missione di Khami c'erano vagonate di champagne gratis per tutti trasformò Bulawayo in una città fantasma. Incapace di reggere una simile concorrenza, il barista del Grand Hotel chiuse la sala deserta e si unì all'esodo verso sud. Appena la notizia arrivò fino a loro, gli arbitri sospesero la partita di cricket in corso sulla piazza d'armi della polizia, e i ventidue giocatori, ancora in tenuta di flanella, formarono una scorta d'onore per il carro di Isazi mentre dietro di loro si accodava il resto degli abitanti, a cavallo, in bicicletta o a piedi. La piccola chiesa della missione poteva accogliere solo una minima parte degli invitati e degli abusivi; gli altri si riversarono SUi prati, anche se la massima concentrazione era sempre intorno ai due carri dello champagne, molto lontani l'uno dal l'altro. Le abbondanti bevute di champagne tiepido avevano reso chiassosi e sentimentali gli uomini, e molte delle signore erano commosse fino alle lacrime. Un'acclamazione assordante salutò la sposa quando finalmente apparve sulla veranda della missione. Al braccio del cognato e accompagnata dalle sorelle, Victoria si avviò tra la folla che le faceva ala nel prato. Era molto graziosa, con gli splendenti occhi verdi e la massa di capelli color rame che spiccava sul raso bianco dell'abito; ma quando ritornò lungo lo stesso percorso, questa volta al braccio dello sposo, era di una bellezza smagliante. «Bene» annunciò Ralph. «E' tutto in regola... adesso la festa può cominciare davvero.» Diede un segnale all'orchestrina, un quartetto racimolato frettolosamente e diretto dall'unico impresario di pompe funebri del Matabeleland: e i quattro si lanciarono in una vivace selezione dalle operette di Gilbert e Suilivan, dato che erano gli unici spartiti reperibili a nord del Limpopo. Ogni componente
del quartetto interpretava Il Mikado a modo suo, e quindi gli invitati potevano ballarlo a ritmo di valzer o di polca, a seconda dell'inclinazione personale e degli effetti dello champagne. Verso l'alba del giorno seguente la festa aveva incominciato a riscaldarsi veramente; e dietro la chiesa esplose il primo scontro a pugni. Ma Ralph lo stroncò annunciando agli avversari: «Così non va, signori. Questa è un'occasione di gioia e di buona volontà nei confronti dell'umanità intera.» E prima che quelli si rendessero conto delle sue intenzioni, li mandò tutti e due riversi sull'erba in rapida successione con un destro e un sinistro che neppure videro arrivare. Poi li aiutò premurosamente a rialzarsi e li guidò, barcollanti e intontiti, verso il più vicino carro dello champagne. Allo spuntar del secondo giorno la festa era ancora in pieno svolgimento. Gli sposi, che non volevano perdersi il divertimento, non erano ancora partiti per il viaggio di nozze e guidavano le danze sotto le spathodee. Il signor Rhodes, che durante la notte aveva riposato in carrozza, scese, consumò una robusta colazione di uova e bacon preparata da Jordan sul fuoco all'aperto, l'annaffiò con un abbondante bicchiere di champagne e si lasciò prendere da uno slancio oratorio. Si mise in piedi sulla cassetta della carrozza e parlò con l'abituale eloquenza carismatica, affinata dall'occasione e dalla sua fede ardentissima nell'argomento. «Miei rhodesiani» disse rivolgendosi agli ascoltatori, che interpretarono l'appellativo come un termine affettuoso più che come una rivendicazione di proprietà, e si commossero. «Insieme, io e voi abbiamo compiuto un grande passo avanti per l'avvento del giorno in cui la mappa dell'Africa sarà colorata di rosa da Città del Capo al Cairo, quando questo magnifico continente spiccherà accanto all'India, come un grande diamante accanto a un lucente rubino, nella corona della nostra amata regina...» Tutti l'applaudirono: gli americani e i greci e gli italiani e gli irlandesi, non meno dei sudditi della regina Vittoria. Robyn St John resistette per mezz'ora, poi perse il controllo della gelida dignità consigliata da Ralph; e dalla veranda della sua casa incominciò a leggere a voce alta una delle sue poesie ancora inedite: Egli sta malinconico e silente badando alle altrui mandrie in mezzo al prato che era del padre, dove adesso il bianco costruisce la casa e dà comandi. Sono mesti i suoi occhi. e la sua mano stringe inerte il bastone da pastore. All'oppressione ha ormai chinato il capo. La voce alta e chiara risuonava più forte di quella di Rhodes, e molti dei presenti giravano la testa dall'uno all'altra, come gli spettatori a un ìncontro di tennis. «Questo è solo l'inizio.» Rhodes alzò la voce. «Un grande inizio, sì, ma nulla di più. Vi sono uomini ignoranti e presuntuosi, non tutti integri...» e anche l'ascoltatore più ottuso riconobbe l'allusione al vecchio Kruger, il presidente della Repubblica Sudafricana del Transvaal, «che debbono avere la possibilità di accorrere di loro volontà sotto lo scudo della pax britannica, anziché esservi costretti con la forza delle armi.» Il pubblico era nuovamente affascinato. Ma poi Robyn scel se un'altra delle sue poesie dal tono altrettanto bellicoso, e attaccò: Egli sprezza il dolore e le ferite e ora userà di nuovo per la guerra il suo assegai e lo scudo di cuoio. E' un ribelle? Sì, certo, è una lotta tra il predatore negro e quello bianco. Un selvaggio? Sì, certo, perché or vuole fieramente pagar male con male. Un pagano? Ora insegnagli il tuo credo, o cristiano, se meriti quel nome! Le capacità critiche degli ascoltatori erano smussate da due giorni e due notti di baldoria: applaudirono l'appassionata recitazione di Robyn con eguale fervore, sebbene in realtà non ne avessero compreso il significato. «Il Signore ci scampi e liberi» gemett'e Ralph, «dai versi emetici e dalla scansione lassativa!» E si allontanò nella valle per non sentire più le voci degli oratori: teneva con una mano una bottiglia dello champagne di Rhodes e aveva il figlio appollaiato sulle spalle. Jonathan era vestito alla marinara, con un cappello di paglia dal lungo nastro, e rideva e incitava il padre con piccoli colpi di calcagno come se fosse in groppa a un pony. C'erano cinquanta bovini da macello e mille recipienti di birra da cinque litri, e gli invitati negri si stavano impegnando con huona lena per dare fondo a tutto. Laggiù i balli erano ancora più vivaci che sotto le spathodee: i giovani spiccavano balzi e si dimenavano e battevano i piedi a terra, e la
polvere turbinava intorno a loro, il sudore scorreva a rivoli sulle schiene e sui petti nudi. Le ragazze ancheggiavano e cantavano, i suonatori battevano sui tamburi a ritmo frenetico fino a quando stramazzavano esausti e altri afferravano le mazze di legno e riprendevano a percuotere i tronchi cavi. Mentre sulle spalle di Ralph il piccolo Jonathan gridava di gioia, uno dei buoi da macello, una pesante bestia rossa e gibbosa, fu trascinata fuori dal kraal. Un uomo armato di lancia accorse e gli trafisse la carotide e la giugulare. L'animale crollò con un muggito lugubre, scalciando spasmodicamente. I macellai si avventarono sulla carcassa, la scuoiarono e cominciarono a estrarre i bocconi più ambiti, i rognoni, il fegato e la trippa, li gettarono lucidi di sangue sulle braci ardenti, fecero a pezzi il costato, tagliarono le grosse bistecche e le ammucchiarono sulle grate sopra il fuoco. La carne semicruda e grondante di sangue e di grasso spariva nelle bocche impazienti, i recipienti della birra venivano inclinati verso il caldo cielo estivo. Uno dei cuochi lanciò a Ralph un pezzo di trippa strinato dalle fiamme, con il contenuto che ancora aderiva alla parete interna dello stomaco. Senza mostrare ribrezzo, Ralph strappò via il contenuto e addentò la carne molle e bianchiccia. «Mushle!» disse al cuoco. «Buono! Molto buono.» Ne passò un pezzetto al figlio. «Mangia, JonJon, quello che non strozza ingrassa.» E il bambino obbedì con gioia rumorosa, associandosi al giudizio del padre. «Mushle, è davvero mush, papà.» Poi i danzatori li circondarono volteggiando e saltando, per sfidare Ralph. Ralph mise Jonathan a sedere sulla staccionata del kraal, dove poteva assistere alla scena. Poi si avviò al centro e assunse la posa classica del danzatore nguni. Bazo gli aveva insegnato quando erano ragazzi: ora alzò il ginocchio destro al livello della spalla, batté a terra con un tonfo la suola dello stivale, mentre gli altri danzatori lo incoraggiavano con grida d'approvazione. «Jee! Jee!» Ralph continuò a spiccare balzi e a pestare I piedi e a pavoneggiarsi, e gli altri lo emularono. Le donne battevano le mani e cantavano e, sullo steccato del kraal, Jonathan gridava d'eccitazione e d'orgoglio. «Guardate il mio papà!» Infine, con la camicia fradicia di sudore, ansimante e ridente, Ralph si ritirò dalla danza e si issò di nuovo il figlio sulle spalle. Passarono oltre, salutando per nome coloro che riconoscevano tra la folla, accettando qualche boccone di carne o un sorso dell'acre birra densa, fino a quando, sull'altura dietro il kraal, seduto su un tronco e isolato dai danzatori e dalla folla festante, Ralph trovò l'uomo che stava cercando. «Ti vedo, Bazo, l'Ascia» disse, e sedette sul tronco accanto a lui. Posò tra loro la bottiglia di champagne e porse a Bazo uno dei sigari che avevano imparato ad apprezzare molto tempo prima, nelle miniere di diamanti. Fumarono in silenzio e guardarono i danzatori e il festino fino a quando Jonathan divenne irrequieto e si scostò per cercare qualcosa di più interessante: lo trovò subito. Si trovò di fronte a un bambino più giovane di lui di circa un anno. Tungata, figlio di Bazo, figlio di Gandank, figlio del grande Mzilikazi, era completamente nudo, a parte il filo di conterie di ceramica intorno ai fianchi. L'ombelico sporgeva al centro della pancia tonda, gli arti erano robusti, con le fossette alle ginocchia e i braccialetti di grasso ai polsi. La faccia era tonda e lucida; gli occhi grandi e solenni scrutavano affascinati Jonathan. Jonathan ricambiò lo sguardo con eguale franchezza e non cercò di tirarsi indietro quando Tungata allungò la mano per toccargli il colletto del vestito alla marinara. «Come si chiama tuo figlio?» chiese Bazo. Osservava i bambini con un'espressione inscrutabile sulla faccia scura. «Jonathan.» «Che cosa significa?» «Dono di Dio» rispose Ralph. All'improvviso Jonathan si tolse il cappello di paglia e lo mise sulla testa del principino matabele. Era una scena incongrua, quel copricapo ornato d'un nastro sulla testa del negretto nudo con la pancia e il piccolo pene non ancora circonciso che spuntava ad angolo, e i due uomini sorrisero
involontariamente. Tungata gorgogliò soddisfatto, prese la mano di Jonathan e lo trascinò in mezzo alla folla dei danzatori. Il calore di quel momento magico tra i due bambini sciol se il gelo fra i due uomini. Avevano ritrovato fuggevolmente l'intesa della prima giovinezza. Si passarono la bottiglia di champagne; e quando fu vuota Bazo batté le mani e Tanase venne a inginocchiarsi umilmente davanti a lui e offrìun recipiente di coccio pieno di birra. Non guardò in faccia Ralph, e si ritirò silenziosamente com'era venuta. A mezzogiorno Tanase tornò dai due uomini che stavano ancora parlando. Teneva con una mano Jonathan e con l'altra Tungata, che portava ancora in testa il cappello di paglia. Ralph, che aveva dimenticato quanto gli stava intorno, trasalì nel vedere il figlio. Il sorriso beato del bambino era quasi mascherato da strati di polvere e di grasso di bue. L'abito alla marinara mostrava le conseguenze dei giochi straordinari inventati da lui e dal suo nuovo amico. Il colletto penzolava appeso a un filo, le ginocchia dei calzoni erano lacere, e Ralph riconobbe alcune delle macchie... cenere, sangue di bue, fango, letame bovino fresco. Di altre era meno sicuro. «Oh, mio Dio» gemette Ralph, «tua madre ci strozzerà tutti e due.» Prese il figlio in braccio, un po' impacciato. «Quando ti rivedrò, amico mio?» chiese a Bazo. «Prima di quanto pensi» rispose Bazo a voce bassa. «Ti avevo detto che avrei lavorato di nuovo per te, quando fossi stato pronto.» «sì.» Ralph annuì. «Ora sono pronto» disse semplicemente Bazo. *** Victoria accettò con garbo sorprendente il cambiamento del viaggio di nozze, quando Harry Mellow le spiegò con aria un po' contrita: «E' un'idea di Ralph. Vuole inseguire una delle leggende africane, in un posto che si chiama il territorio di Wankie, presso le grandi cascate che il dottor Livingstone scoprì sullo Zambesi. Vicky, lo so che speravi di andare a Città del Capo e di vedere il mare per la prìma volta, ma...» «Ho fatto a meno del mare per vent'anni, posso aspettare ancora un po'.» Vicky prese la mano di Harry. «Dovunque andrai tu, amor mio, nel territorio di Wankie, a Città del Capo o al Polo Nord, mi va bene, purché siamo insieme.» La spedizione fu organizzata con il solito stile di Ralph Ballantyne: sei carri e quaranta servitori per portare le due famiglie a nord, attraverso le magnifiche foreste del Matabeleland settentrionale, fino al grande fiume Zambesi. Il clima era mite, l'andatura tranquilla. La zona brulicava di selvaggina! e gli sposi tubavano e si guardavano con occhi così languidi che la loro tenerezza era contagiosa. «Ma chi è in viaggio di nozze?» mormorò Cathy all'orecchio di Ralph, in una pigra mattina. «Prima l'azione, poi le domande» rispose Ralph, e Cathy rise soddisfatta e si riadagiò sul materasso di piume. Alla sera e all'ora dei pasti era necessario costringere Jonathan a scendere dal dorso del pony che Ralph gli aveva regalato in occasione del quinto compleanno, e Cathy doveva ungergli con lo Zambuk le piaghe causate dall'attrito della sella. Il ventiduesimo giorno raggiunsero il villaggio di Wankie; e per la prima volta da quando avevano lasciato Bulawayo l'atmosfera idillica si spezzò. Durante il regno di Lobengula, Wankie era stato un rinnegato e un fuorilegge. Per quattro volte Lobengula aveva mandato un impi perché gli portasse a Bulawayo la testa mozza di Wankie; ma questi era astuto quanto insolente, viscido quanto bugiardo, e gli impi erano tornati a mani vuote ad affrontare la collera del re. Dopo la disfatta e la morte di Lobengula, Wankie s'era sfacciatamente proclamato capo del territorio fra lo Zambesi e il Gwaai, e pretendeva tributi da quanti venivano a commerciare o a cacciare gli elefanti che si erano rifugiati nelle zone calanchive lungo la scarpata della valle dello Zambesi, dove la mosca tse-tse metteva in fuga i cavalieri e soltanto i più temerari e resistenti erano disposti ad addentrarsi a piedi per inseguire gli animali giganteschi.
Wankie era un bell'uomo di mezza età, alto, dalla faccia aperta e dall'aria del capo autentico; accettò il dono di coperte e di contetie offerto da Ralph senza troppe manifestazioni di gratitudine, s'informò educatamente della salute di Ralph e di suo padre, dei fratelli e dei figli, e quindi attese come un coccodrillo all'abbeverata che l'ospite esponesse il vero scopo della sua visita. «Le pietre che bruciano?» ripeté in tono vago mentre rifletteva con occhi velati come se si frugasse nella memoria; e poi osservò con fare innocente che aveva sempre desiderato un carro. Lobengula aveva posseduto un carro, e quindi Wankie pensava che ogni grande capo dovesse averlo. Si girò sullo sgabello e fissò eloquentemente i sei magnifìci carri da cinque metri e mezzo, costruiti a Città del Capo, fermi nella radura accanto al kraal. «Questo maledetto briccone ha la sfacciataggine di un bianco» protestò rabbiosamente Ralph rivolgendosi a Harry Mellow che sedeva dall'altra parte del fuoco del bivacco. «Un carro, niente di meno. Vale trecento sterline.» «Ma, caro, se Wankie può farti da guida non è un prezzo conveniente?» chiese Cathy senza scomporsi. «No. Che mi venga un colpo se cederò. Un paio di coperte, una cassa di brandy, ma non certo un carro di quel valore.» «Giusto, Ralph.» Harry rise. «Voglio dire, per quel prezzo noi abbiamo comprato Long Island...» Fu interrotto da un discreto colpo di tosse alle sue spalle. Bazo s'era avvicinato in silenzio, lasciando l'altro fuoco dove stavano i guidatori e i servi. «Henshaw» disse, quando Ralph gli accennò di parlare. «Mi avevi detto che eravamo venuti qui in caccia di bufali per ricavare dalle loro pelli i teli per le tende» disse in tono d'accusa. «Non ti fidavi di me?» «Bazo, tu sei mio fratello.» «E menti ai tuoi fratelli?» «Se a Bulawayo avessi parlato delle pietre che bruciano, cento carri ci avrebbero seguiti quando abbiamo lasciato la città.» «Non ti avevo detto che ho guidato il mio impi su queste colline, in caccia del babbuino pelato che adesso tu colmi di doni?» «Non me l'avevi detto» rispose Ralph, e Bazo si affrettò a cambiare argomento. Non era molto fiero della sua campagna contro Wankie, l'unica in tutti gli anni in cui era stato induna delle Talpe che non si fosse conclusa con un successo. Ricordava ancora le recriminazioni del vecchio re... anche se avrebbe preferito dimenticarle. «Henshaw, se mi avessi parlato, non saremmo costretti a sprecare tempo e a umiliarci parlamentando con quel figlio di trenta padri, quel disgustoso escremento di sciacallo, quel...» Ralph lo interruppe. Si alzò e gli strinse le spalle. «Bazo, puoi condurci là? E' questo che intendi? Puoi portarci dalle pietre che bruciano?» Bazo inclinò la testa in segno d'assenso. «E non ti costerà un carro» rispose. Nella rossa aurora caliginosa avanzarono tra le radure della foresta. Le mandrie dei bufali si aprivano per lasciarli passare e si richiudevano dietro di loro. Le enormi bestie nere levavano in alto i musi umidi in tutta la ponderosa dignità conferita dalle corna massicce, guardavano con stolido stupore i cavalieri che transitavano a poche centinaia di passi, e riprendevano tranquillamente a pascolare. I cavalieri le degnavano appena di un'occhiata: la loro attenzione era fissa sull'ampia schiena sfregiata di Bazo, che li precedeva con un agile trotto verso la linea bassa di piatte colline affioranti dalla foresta. Legarono i cavalli quando raggiunsero il primo pendio, e salirono. Più in alto i piccoli saltarupe bruni e lanosi, svelti come camosci, balzavano con passo sicuro su per le scarpate e un vecchio babbuino, dalla sommità, latrava la sua sfida. Sebbene corressero, non riuscivano a reggere l'andatura di Bazo, che li aspettava su un cornicione oltre il quale la parete di roccia si ergeva verticalmente. Bazo non diede annunci altisonanti, e si limitò a indicare con il mento. Ralph e Harry sgranarono gli occhi, ammutoliti. Ansimavano e avevano le camicie incollate alla pelle dal sudore della fatica. C'era una fascia orizzontale dello spessore di cinque o sei metri, fra gli strati della rupe. Correva lungo la roccia fino a perdita d'occhio in entrambe le direzioni: era nera come la notte e tuttavia scintillava d'una bizzarra iridescenza verdognola nei raggi obliqui del primo sole. «Era l'unica cosa che ci mancava in questa terra» disse Ralph a voce bassa.
«Le pietre che bruciano, l'oro nero... adesso abbiamo tutto.» Harry Mellow si avvicinò e toccò lo strato con reverenza, come fosse un devoto che sfiora la reliquia d'un santo in un sacrario. «Non ho mai visto carbone di questa qualità in un filone così profondo, neppure nelle colline del Kentucky.» All'improvviso si tolse il cappello e con un selvaggio grido indiano lo lanciò giù per il declivio. «Siamo ricchi!» gridò. «Ricchi! Ricchi! Ricchi!» «E' meglio che lavorare per il signor Rhodes?» chiese Ralph, e Harry l'afferrò per le spalle e lo trascinò urlando in una danza di giubilo sullo stretto cornicione mentre Bazo, appoggiato allo strato di carbone, li osservava senza sorridere. Impiegarono due settimane per esaminare e cintare la concessione, coprendo tutto il terreno più in basso dove potevano essere sepolti altri filoni. Harry controllava le linee con il teodolite, e Bazo e Ralph lo seguivano con una squadra di uomini che piantavano i paletti e contrassegnavano gli angoli con cumuli di pietre. Nel corso delle ricerche scoprirono un'altra dozzina di siti tra le colline dove i ricchi, profondi filoni di carbone affioravano in superficie. «Carbone per mille anni» prediceva Harry. «Carbone per le ferrovie e gli altiforni, carbone per dare energia a una nuova nazione.» Il quindicesimo giorno i due fecero ritorno al campo alla testa della squadra di stanchissimi matabele. Victoria, che per due settimane era rimasta separata dallo sposo, era pallida e desolata come una giovane vedova; ma l'indomani mattina a colazione aveva ritrovato il colorito e lo splendore degli occhi mentre circondava Harry di premure, gli versava il caffè e gli riempiva il piatto di fette di facocero affumicate e di gialle uova di struzzo strapazzate. Ralph, seduto a capotavola sotto i giganteschi msasa, si rivolse a Cathy. «Prendi una bottiglia di champagne, Katie carissima. Abbiamo qualcosa da festeggiare.» Poi brindò con il boccale traboccante. «Signore e signori, bevo all'oro della Miniera Harkness e al carbone del giacimento Wankie, e alla loro ricchezza!» Tutti risero, brindarono e bevvero. «Restiamo qui per sempre» disse Vicky. «Sono così felice. Non voglio che finisca.» «Resteremo ancora un po'» annunciò Ralph, cingendo con un braccio la vita di Cathy. «Ho raccontato al dottor Jim che saremmo venuti qui a caccia di bufali. Se non portiamo con noi qualche carro carico di pelli, il dottorino incomincerà a sospettare.» *** Il vento della sera soffiava dolce dall'est. Ralph sapeva che in quella stagione avrebbe continuato costante per tutta la notte, e si sarebbe intensificato con il calore del sole. Mandò avanti due squadre di matabele: erano armati di fiammiferi e guidavano un gruppo di buoi ciascuna. Si diressero verso ovest, e allo spuntar del sole raggiunsero la riva del fiume Gwaai. Lì abbatterono due grandi alberi spinosi morti e agganciarono ai tronchi le catene. Quando appiccarono il fuoco ai rami, il legno secco bruciò come una torcia, e i buoi si spaventarono. I conducenti corsero a fianco di ognuno dei gruppi, e li fecero galoppare in direzioni opposte, traverso al vento, in modo che si trascinassero dietro gli alberi fiammeggianti e spargessero una scia di scintille e di fuscelli incendiati sull'erba alta e secca. Dopo meno di un'ora, le fiamme ardevano lungo un fronte di molti chilometri, e il vento le alimentava ruggendo e le spingeva verso la lunga depressione paludosa dov'erano fermi i carri di Ralph. Il fumo turbinava verso il cielo in un immenso drappo brunastro. Ralph aveva svegliato tutti prima dell'alba per dirigere l'accensione dei controfuochi mentre sulla depressione la rugiada smorzava le fiamme e permetteva di regolarle. I matabele appiccarono il fuoco sul lato del vento e lasciarono che divampasse fino al limitare della foresta: e poi lo spensero prima che attaccasse gli alberi. Isazi avanzò con i carri sulla terra annerita e ancora calda e li dispose in quadrato, con i suoi preziosi buoi raccolti al centro. Per la prima volta ebbero il tempo di guardare verso est. La nube di fumo scuro dell'incendio nascondeva la luce dell'aurora, e la loro piccola isola protetta appariva all'improvviso molto fragile, sul percorso della conflagrazione terribile. Anche i matabele,
solitamente allegri, erano preoccupati e continuavano a lanciare sguardi irrequieti al fronte di fumo ribollente, mentre affilavano i coltelli per scuoiare. «Ci copriremo di fuliggine» protestò Cathy. E Si sporcherà tutto.» «E si strinerà un po', probabilmente.» Ralph rise; poi andò con Bazo a controllare i cavalli di scorta e a infilare i fucili nelle custodie. Tornò da Cathy e le cinse le spalle con un braccio. «Tu e Vicky dovete restare sui carri. Non lasciateli, qualunque cosa succeda. Se sentite caldo, spruzzatevi l'acqua addosso; ma non scendete.» Fiutò il vento e captò il primo sentore del fumo. Strizzò l'occhio a Harry, che stringeva Vicky fra le braccia. «Scommetto la mia parte del giacimento di Wankie contro la tua.» «Niente scommesse pazze, Ralph Ballantyne» intervenne prontamente Vicky. «Ora Harry ha una moglie da mantenere.» «Allora mi accontento di scommettere una ghinea.» «Ci sto!» esclamò Harry. Si strinsero la mano e balzarono in sella. Bazo si avvicinò tenendo per la briglia il cavallo di scorta di Ralph, con un fucile nella custodia e una cartucciera avvolta al pomolo. «Tieniti vicino, Bazo» disse Ralph e si voltò a guardare Harry, che aveva alle spalle l'aiutante matabele e il cavallo di scorta. «Pronto?» chiese Ralph. Harry annuì e uscirono dal laager al trotto. L'odore acre del fumo era forte nel vento e i cavalli dilatavano nervosamente le narici e si muovevano diffidenti come gatti sulla cenere calda del controfuoco. «Guardali!» esclamò Harry in tono quasi reverente. Le mandrie dei bufali avevano incominciato a muoversi sottovento per precedere le fiamme. A poco a poco una mandria s'era fusa con un'altra, e cento capi erano diventati cinquecento, poi mille. E dopo, anche i mille bufali avevano cominciato a moltiplicarsi; lo spostamento verso ovest era divenuto più veloce, i corpi neri s'erano accalcati e la tèrra aveva cominciato a tremare leggermente sotto gli zoccoli ferrei. Adesso, a intervalli di pochi minuti, uno dei capibranco, un animale così nero e solido che sembrava scolpito nella roccia, si soffermava e si voltava indietro, trattenendo la marea delle femmine. Alzava la testa possente dalle corna corrugate e fiutava il vento dell'est con le froge umide, batteva le palpebre per il fumo, si girava di nuovo e ripartiva a un trotto pesante; e le sue femmine sembravano contagiate dalla sua agitazione, mentre i vitelli rossastri muggivano sgomenti e si stringevano ai fianchi delle madri. Le mandrie, ormai, erano pressate l'una contro l'altra. Le bestie enormi, che arrivavano a pesare anche una tonnellata e mezzo, si muovevano a spalla a spalla, muso contro coda, attraverso un fronte ampio un chilometro e mezzo. I primi bufali eruppero come una cascata dalla foresta al margine della depressione, mentre le file serrate si estendevano indietro nelle nubi di polvere e rimanevano nascoste dai tortuosi tronchi argentei dei msasa. Ralph si coprì il naso e la bocca con la sciarpa e si calcò il cappello sugli occhi. «Harry, ragazzo mio, tutti quelli che cadono da questa parte dei carri» disse indicando con un braccio, «sono miei. Tutti quelli che cadono dall'altra parte sono tuoi.» «E in più abbiamo scommesso una ghinea» disse Harry. Inserì una cartuccia nel Lee-Enfield, gettò uno dei suoi folli urli indiani, batté i tacchi contro il fianco del cavallo e si lanciò verso i bufali più vicini. Ralph lo lasciò andare e mantenne il proprio cavallo al trotto. Tagliò ad angolo verso le mandrie in fuga, attento a non spaventarle prematuramente e a lasciare che si preoccupassero delle fiamme dietro di loro anziché del cacciatore che gli stava davanti. Quando giunse molto vicino, scelse un grosso maschio nella prima fila. Spianò il fucile, mirò al collo enorme, nel punto dove la pelle glabra Si corrugava sulla parte anteriore della spalla. Lo sparo fu quasi sommerso dal fragore degli zoccoli e dai muggiti dei vitelli, ma il maschio abbassò il muso a terra, sobbalzò in una capriola, scivolò sul fianco e scalciò convulsamente, mugghiando in toni lugubri come una sirena in una bufera invernale. Le mandrie si avventarono al galoppo.
Ralph guidava il cavallo con i tacchi e le punte dei piedi per avere le mani libere per caricare, mirare e sparare, e si avvicinò alla muraglia dei corpi neri lanciati nella fuga. A volte la canna del fucile arrivava a pochi centimetri da un collo mostruoso o da una spalla, e il lampo dello sparo era fulmineo e brillante come una lancia mentre il proiettile affondava nella spessa pelle nera. A ogni sparo un altro bufalo stramazzava: a quèlla distanza un cacciatore esperto poteva compiere un massacro. Sparava fino a quando il cane batteva sulla camera di scoppio vuota, e poi inseriva altre cartucce e riprendeva a sparare con tutta la rapidità possibile, senza staccare il calcio dalla spalla e l'occhio dal mirino. La canna era arroventata e fumante, e a ogni sparo il calcio gli batteva con violenza contro la spalla facendogli battere i denti. L'indice destro gli sanguinava, il paragrilletto aveva staccato un brandello di pelle dalla seconda giuntura, e Ralph era costretto a perdere qualche secondo prima di ricaricare e di sparare un altro colpo. Era assordato dagli spari che gli schioccavano nei timpani storditi, e il fragore della mandria che galoppava e muggiva gli sembrava lontano, quasi come in un sogno. La vista era velata dal banco di polvere e, quando irruppero di nuovo nella foresta, dalle ombre scure delle chiome degli alberi che si congiungevano sopra quello. Ralph sanguinava dal mento, dal labbro e dalla fronte, dove l'avevano colpito sassi grossi come ghiande sollevati dagli zoccoli in fuga, ma continuava a caricare e a sparare e a ricaricare. Da tempo, ormai, aveva perso il conto dei capi abbattuti, e la mandria interminabile si serrava ancora vicina ai fianchi del cavallo ansimante. All'improvviso si ritrovò con una bandoliera vuota: aveva sparato cento colpi. Ne prese atto con un senso di stupore, e ne estrasse un'altra dalla borsa della sella mentre si chinava istintivamente sotto un lungo ramo. Quando si rialzò, si trovò dietro a un maschio enorme che galoppava poco lontano da lui. Agli occhi stravolti di Ralph sembrava il monarca di tutti i bufali, con le corna così ampie che un uomo non avrebbe potuto toccarle allargando le braccia; era massiccio come uno dei macigni di granito delle Matopos, ed era così vecchio che le punte delle corna erano smussate e arrotondate. I quarti posteriori e la groppa erano grigi e pelati, e le zecche pendevano in grappoli bluastri dalle pieghe profonde della pelle ai lati dei grossi testicoli oscillanti. Il cavallo di Ralph, ormai quasi sfiatato, non riusciva a reggere quell'andatura, e il maschio colossale si allontanava con i muscoli posteriori che si contraevano e si decontraevano, gli zoccoli fessi che affondavano nella soffice terra sabbiosa sotto il peso immane. Ralph si alzò sulle staffe e mirò alla spina dorsale, alla base della lunga coda che sferzava i fianchi nella furia della corsa. Nell'attimo in cui Ralph sparò, un ramo lo urtò alla spalla e il proiettile, deviato, affondò nel rotondo fianco nero. Il bufalo incespicò, rallentò, si bloccò prima di cadere, e deviò bruscamente con il sangue che gli sprizzava sulle zampe posteriori. Ralph spronò il cavallo esausto per inseguirlo; ma un altro, massiccio tronco grigio emerse all'improvviso davanti a lui dalle nubi di polvere e lo costrinse a deviare bruscamente per evitarlo. La corteccia ruvida gli scalfì il ginocchio, e il bufalo si perse nella massa dei compagni in fuga e nella polvere turbinante. «Lascialo andare» si disse Ralph. Era impossibile ritrovare un animale in quella moltitudine. Inserì un'altra cartuccia nel fucile arroventato, e sparò a una lucida femmina rossastra, centrandola alla nuca, e dopo un attimo stese con un proiettile nel la spalla il vitello già quasi adulto. Il caricatore era vuoto. Ralph cominciò a ricaricare, concentrandosi con tutta la sua attenzione, fino a che all'improvviso l'istinto lo mise in guardia. Alzò gli occhi. Il maschio ferito stava tornando indietro per dargli la caccia. Uscì dalla semioscurità come una valanga nera, scostando a cornate i ritardatari per aprirsi un varco nel fiume tumultuoso di bufali in corsa. Il muso era tenuto alto, le froge avevano una lucentezza umida e lunghi fili di muco argenteo pendevano dalle narici dilatate. Si avvicinava al galoppo e la terra polverosa esplodeva in sbuffi pallidi sotto gli zoccoli scalpitanti.
«Su, avanti!» gridò disperatamente Ralph al castrone stanco. Lo incitò con le ginocchia e le redini, facendolo deviare dalla linea di carica del bufalo mentre inseriva una cartuccia nel Winchester. Il bufalo si avventò, e Ralph girò il fucile e sparò a bruciapelo alla testa gigantesca. Sapeva che non avrebbe avuto il tempo per sparare una seconda volta. La testa del bufalo sussultò, una scheggia di corno grigioardesia si staccò dall'enorme scudo frontale. Poi l'animale si raddrizzò, muovendosi con l'agilità d'una gazzella sulle immense zampe anteriori. Abbassò la testa. Se avesse teso la mano, Ralph avrebbe potuto toccargli la cresta irsuta tra le spalle. Invece sfilò la gamba dalla staffa e sollevò il ginocchio fino al mento nell'attimo in cui il bufalo avventava le corna massicce contro il fianco del castrone. La punta smussata di un corno nero affondò nel petto del cavallo, nel punto dove un attimo prima stava il ginocchio di Ralph. Ralph udì lo scricchiolio delle costole che si spezzavano come fuscelli, e l'aria uscì dai polmoni del castrone in un nitrito sibilante. Cavallo e cavaliere vennero sollevati di peso. Il castrone stava ancora nitrendo per il dolore quando Ralph fu scagliato lontano. Il fucile gli schizzò dalla mano, mentre lui atterrava urtando il fianco e la spalla, rotolava e si sollevava sulle ginocchia. La gamba destra era intorpidita dall'impatto e gli fece perdere un paio di secondi preziosi. Il bufalo era puntellato sopra il castrone caduto, con le zampe anteriori divaricate, la testa corazzata tenuta bassa, il sangue che scorreva sui muscolosi quarti posteriori. Agganciò di nuovo il cavallo con le corna nel ventre molle, squarciandolo come un merluzzo sul banco d'una pescivendola. Gli intestini umidi e viscidi come spaghetti stracotti erano avvolti intorno alla punta smussata; il bufalo alzò la testa, strappandoli dal ventre dilaniato. Il cavallo scalciò un'ultima volta e restò immobile. Ralph, trascinando la gamba destra, si spostò verso la base di un teak. «Bazo!» urlò. «Porta il fucile! Porta il cavallo! Bazo!» Sentiva il tono stridulo del panico nella propria voce. E anche il bufalo lo sentì. Abbandonò il cavallo, e Ralph udì i tonfi degli zoccoli sul suolo sabbioso, udì il respiro sbuffante, sentì il crudo lezzo bovino. Urlò di nuovo e si rimise in piedi, saltellando sulla gamba indenne. Sapeva che non sarebbe riuscito a raggiungere il mopani, e si voltò di scatto per fronteggiare il bufalo infuriato. Era così vicino che poteva vedere la traccia umida delle lacrime dagli angoli degli occhietti iniettati di sangue giù fino alle irsute guance nere, e la lingua spugnosa chiazzata di rosa e di grigio che pendeva dalle fauci muggenti. La testa si abbassò per agganciarlo e sventrarlo come aveva sventrato il cavallo, ma in quell'istante un'altra voce gridò in sindebele. «Ahu! Sei più brutto della morte!» Il bufalo esitò, girò sulle tozze zampe anteriori. «Vieni, maledizione delle streghe!» Bazo stava allontanando il bufalo da Ralph. Era arrivato al galoppo dalla polvere, tirandosi dietro il cavallo di scorta. Tagliò la strada al maschio, sfidandolo con la voce e sventolandogli sul muso il manto di pelli di scimmia. Il bufalo accettò la sfida del mantello: abbassò il muso e l'inseguì. Il cavallo di Bazo era ancora fresco ed evitò agilmente l'arco della grande testa ondeggiante: il corno levigato luccicò nel vuoto alla conclusione della carica. «Henshaw» gridò Bazo, «prendi il tuo cavallo.» Abbandonò la briglia e la cavalla rimasta libera continuò la corsa al galoppo verso Ralph. Ralph si acquattò per tagliarle la strada. La grigia lo vide e deviò all'ultimo momento, ma Ralph si slanciò verso la sella e si aggrappò al pomolo. Per una dozzina di passi balzellò a fianco dell'animale, con i piedi che sfioravano il suolo mentre veniva trascinato via. Poi si raccolse e scattò, issandosi di peso. Batté le natiche sulla sella, e non perse tempo a cercare a tentoni le staffe. Sfilò il fucile dalla custodia sotto il ginocchio e scalciò per far girare la cavalla verso il grande bufalo nero. Il bufalo era ancora intento all'inseguimento di Bazo, con una grottesca andatura pesante che pure copriva il terreno a velocità incredibile. In quel momento un ramo basso colpì l'induna seminudo, con violenza, alle spalle e a un lato della testa. Bazo fu scagliato di traverso, il manto di pelli di scimmia saettò via svolazzando come un
corvo nero troppo sazio, e Bazo scivolò ancora più giù, fino a restare appeso, capovolto, con la testa che quasi sfiorava il suolo tra gli zoccoli lampeggianti del suo cavallo. Ralph arrivò all'altezza dei quarti posteriori sanguinanti del bufalo e gli sparò nella schiena, cercando di colpire la spina dorsale nella montagna di pelle nera e di muscoli poderosi. Sparò meccanicamente, azionando la leva di carica, e il fragore gli assordò gli orecchi, così che udì appena i pesanti proiettili di piombo martellare il corpo dell'animale con il suono d'un battipanni che perQlGta un tappeto. Uno dei proiettili penetrò nei polmoni ansanti, perché un torrente di rosso sangue spumoso eruttò all'improvviso dalle froge, e la carica selvaggia si spezzò in un breve trotto affaticato. Ralph si affiancò e il bufalo girò la grossa testa e lo guardò con occhi lacrimosi; allora il giovane si tese, quasi toccò l'ampia fronte sotto le corna con la canna del fucile. Il bufalo ributtò all'indietro la testa per la violenza del colpo al cervello e cadde sulle ginocchia, senza un muggito..Non si mosse più. Ralph proseguì al galoppo e afferrò la briglia del cavallo di Bazo, fermandolo con uno strattone. «Soltanto un matabele è capace di cavalcare con la testa nelle staffe e i piedi sulla sella» esclamò ansando, e rimise diritto Bazo. La corteccia ruvida del ramo aveva scalfito la pelle della fronte di Bazo, e la carne era d'un rosa pallido, le gocciole di linfa trasparente spiccavano come perline. «Henshaw, mio Piccolo Falco» rispose Bazo a denti stretti, «urlavi così forte che credevo stessi perdendo la verginità... con un corno nel didietro.» Ralph proruppe in una risata tremula, quasi isterica per il sollievo dopo il terrore e il pericolo mortale. Bazo scosse la testa per schiarirsi le idee, e i suoi occhi si rimisero a fuoco. Sorrise maliziosamente. «Torna dalle donne, Henshaw, dato che gridi come una ragazzina. Dammi il tuo fucile e penserò io a farti vincere la ghinea che hai scommesso.» «Vedi se riesci a starmi dietro» disse Ralph, e lanciò a corsa la cavalla. La reazione al terrore lo investì come una follia atavica, la smania travolgente del cacciatore, e si avventò sulle mandrie al galoppo con una frenesia sanguinaria. Le fiamme li raggiunsero e posero fine al massacro. Ralph e Bazo rischiarono di restare prigionieri tra le braccia avvolgenti dell'incendio, ma ne uscirono con le criniere dei cavalli strinate dal calore e la camicia di Ralph bruciacchiata a chiazze brunastre. Poi, dal riparo del controfuoco, rimasero a osservare mentre le fiamme divampavano sui due lati. Era una bufera di calore che faceva volteggiare nell'aria i rami incendiati e scrosciava da un albero all'altro, lasciando una breccia ampia una trentina di metri con un ruggito profondo, schiantando le piante come se fossero state colpite dal proiettile esplosivo di un obice. Le fiamme risucchiavano via l'aria e toglievano il respiro, e il calore penetrava nei polmoni, facendoli tossire come fumatori di canapa. Scottava l'epidermide scoperta dei volti, sembrava prosciugare gli occhi e li abbagliava come se fissassero il globo rovente del sole. Poi l'incendio passò oltre, avanzando verso ovest: rimasero ammutoliti e scossi, sopraffatti dalla grandiosità del suo passaggio e dalla propria piccolezza insignificante di fronte a quella potenza elementare. Solo l'indomani mattina il suolo si raffreddò abbastanza perché gli scuoiatori potessero mettersi al lavoro. Le carcasse dei bufali erano semiarrostite, con il pelame bruciato nella parte superiore e integro in quella a contatto con la terra. Gli scuoiatori lavoravano in un paesaggio simile a una visione infernale di Hieronymus Bosch: la terra desolata e annerita, gli alberi spogli grottescamente contorti con le sagome orrende degli avvoltoi appollaiati sui rami più alti. Una squadra provvedeva a girare le enormi carcasse e a praticare le incisioni poco profonde intorno al collo, lungo gli arti e i ventri gonfi; una seconda squadra agganciava le pariglie di buoi e strappava via ogni pelle intera, mentre la terza squadra versava il bianco salgemma sulle pelli umide e le stendeva al sole. Il secondo giorno l'aria era ammorbata dal lezzo di centinaia di carcasse putrefatte; il coro delle grida e degli ululati e dei crocidii dei divoratori di carogne era un accompagnamento intonato alla
scena. Anche se le coltri brunastre di fumo s'erano disperse, il cielo era di nuovo oscurato dalle ali: quelle lucide e nere dei corvi, quelle svelte e nervose dei piccoli falchi e quelle ampie e maestose degli avvoltoi. Intorno a ogni carogna spogliata della pelle e con l'osceno ventre rosso gonfio di gas, la iena urlava e rideva, e il piccolo sciacallo sfrecciava avanti nervosamente per arraffare un boccone di budella. Gli avvoltoi zampettavano, sbattevano le ali e disputavano, si scambiavano colpi con i ferrei rostri adunchi e si insinuavano attraverso l'ano delle carcasse fino alla caverna del ventre. Gli alti marabù neri e bianchi, solenni come impresari delle pompe funebri, si avvicinavano con occhi avidi che brillavano nelle maschere nude. Anche i gozzi erano privi di piumaggio; erano rossi, come ustionati, e pendevano dalla gola come i genitali gonfi di un albino ripugnante. Con i lunghi becchi potenti strappavano brandelli di carne dove già spuntava il riflesso verdognolo della putrefazione; quindi levavano la testa verso il cielo e spalancavano il becco nello sforzo di ingurgitare il boccone nel gozzo già saturo. Il lezzo della carne bruciacchiata e corrotta e l'odore dei divoratori di carogne giungevano fino al piccolo cerchio dei carri e impedivano alle donne di dormire. «Ralph, potremo andarcene domani?» mormorò Cathy. «Perché?» rispose lui insonnolito. «Questo posto ti piace, l'hai detto tu stessa.» «Ora non mi piace più» ribatté Cathy. Poi, dopo un silenzio: «Ralph, se continueremo a incendiare e a uccidere in questo modo, per quanto potrà ancora durare?» Ralph fu così sorpreso che si sollevò su un gomito e la scrutò nella luce della candela. «Di che cosa diamine stai parlando, ragazza mia?» «Quando gli animali non ci saranno più, questa non sarà la terra che conosco e che amo.» «Quando non ci saranno più?» Ralph scosse la testa bonariamente, come se stesse parlando con una bambina sciocca. «Per Dio, Katie, hai visto quelle mandrie? Sono sterminate, innumerevoli. E sono altrettanto fitte fino a Khartoum. Potremmo continuare a cacciare così ogni giorno senza neppure intaccare la superficie. No, Katie, non spariranno mai.» «Quanti ne hai uccisi?» chiese lei a voce bassa. «Io? Duecentoquattordici capi, trentadue più del tuo stimatissimo cognato.» Ralph si riadagiò comodamente e l'attirò vicina. «Ed è costato a quel bastardo presuntuoso una ghinea del suo bottino malguadagnato.» «Fra tutti e due, ne avete uccisi quasi quattrocento... in un solo giorno di caccia, Ralph.» La voce di Cathy era così sommessa che lui la udì appena, ma bastò a spazientirlo. «Accidenti, Katie, ho bisogno di quelle pelli. E chi le vuole se le prende. Tutto qui. Ma adesso dormi, stupidella.» *** Se mai, la stima che Ralph Ballantyne aveva fatto delle mandrie dei bufali era prudenziale. Prohabilmente non era mai avvenuto che un grosso mammifero si riproducesse con tanta prolificità sulla faccia della terra in tutto il corso della sua storia. Le immense mandrie nere vagavano; dal grande Sud, dove il Nilo neonato si snoda tra le interminabili paludi di papiri galleggianti, sulle ampie savane dell'Africa orientale e centrale, fino allo Zambesi e più oltre, fino alle radure dorate e alle foreste del Matabeleland. Le tribù primitive le cacciavano molto di rado. I bufali erano troppo svelti, poderosi e feroci per gli archi e le lance. Scavare una fossa abbastanza grande e profonda per intrappolare una bestia così enorme era una fatica che ben pochi, nelle tribù, prendevano seriamente in considerazione al punto di interrompere le danze, le bevute di birra e le razzie dei bovini domestici. Gli arabi che s'erano avventurati nell'interno non provavano interesse per una selvaggina tanto grossolana, e preferivano catturare e incatenare le tenere ragazzine e i giovani per venderli sui mercati di Malindi e Zanzibar, oppure cacciare il grinzoso elefante grigio per prendere le curve zanne d'avorio. Pochissimi viaggiatori europei, con le loro armi sofisticate, s'erano addentrati finora in quelle terre remote, e persino gli immensi branchi di leoni che seguivano le mandrie non riuscivano a frenarne la moltiplicazione naturale.
Le praterie nereggiavano di quei bovini colossali. Alcune mandrie, forti di venti o trentamila capi, erano così fitte che gli animali alla retroguardia morivano letteralmente di fame perché i pascoli venivano distrutti da quelli che li precedevano. Indeboliti dal loro stesso numero, i bufali erano destinati a diventare facili prede della pestilenza venuta dal nord. Venne dall'Egitto. Era la stessa piaga che Geova il Dio di Mosè, aveva inflitto al faraone. Era la peste bovina la rinderpest, un virus che attacca tutti i ruminanti ma particolarmente i bovini: i bufali e il bestiame domestico. Gli animali colpiti vengono accecati e soffocati dagli spurghi delle mucose. Il muco cola in grossi filamenti dalle narici e dalle fauci. Le evacuazioni sono estremamente contagiose, e persistono nei pascoli dove l'animale è passato ancora molto tempo dopo che questo è perito. Il corso della malattia è rapido e irreversibile. Alle scariche di muco seguono molto presto diarrea e dissenteria, e le bestie si sforzano di evacuare anche quando negli intestini non è rimasto altro che un viscidume sanguinolento. Poi, alla fine, crollano e non hanno più la forza di rialzarsi, e le convulsioni distorcono le teste all'indietro finché il muso tocca il fianco. E' questa la posizione in cui muoiono. La rinderpest dilagò sul continente con la rapidità d'una bufera, e, nelle località dove era maggiore la concentrazione dei bufali, una mandria di diecimila capi fu annientata tra l'alba e il tramonto di un unico giorno. Le carcasse erano così fitte sulla savana denudata che si toccavano, come banchi di sardine avvelenate gettate dal mare su una spiaggia. E sopra quel carnaio aleggiava il caratteristico odore ktido del morbo, al quale si. mescolava ben presto il lezzo della putrefazione perché neppure gli stormi brulicanti di avvoltoi e i branchi di iene avide potevano divorare una millesima parte di quella spaventosa abbondanza. La tempesta di infermità e di morte si diffuse verso il sud e inghiottì le mandrie muggenti... verso il sud, fino a quando raggiunse lo Zambesi. Neppure quell'ampio nastro di turbinosa acqua verde poteva costituire una barriera per la pestilenza, che fu portata sulla sponda opposta nei gozzi gonfi degli avvoltoi e dei marabù, e venne sparsa sui pascoli nelle feci evacuate in volo. La bufera terribile ricominciò e si spinse verso sud, sempre più a sud. *** Isazi, il piccolo conducente zulu, fu il primo a svegliarsi nel laager. Era una soddisfazione, per lui, essere desto e in movimento quando gli altri molto più giovani continuavano a dormire. Lasciò la stuoia e si avvicinò al fuoco di guardia. Era soltanto un mucchio di soffice cenere bianca, ma Isazi accostò le punte annerite dei ciocchi, vi schiacciò nel mezzo alcune foglie secche e si chinò per soffiarvi sopra. La cenere volò via, una brace brillò cupa per un momento, e poi le foglie divamparono con una fiammella allegra. I ceppi presero fuoco e Isazi si scaldò le mani per un momento, poi lasciò il cerchio dei carri e si avviò al recinto dei buoi. Isazi era affezionato ai suoi buoi come certi uomini lo sono ai figli o ai cani. Li chiamava tutti per nome. Conosceva l'indole di ciascuno, i punti di forza e le debolezze. Sapeva quale di loro avrebbe cercato di deviare quando il cammino fosse diventato faticoso o il terreno troppo molle, sapeva quali avevano più coraggio e intelligenza. Naturalmente aveva i suoi prediletti, come il gigante rosso che aveva battezzato Luna Scura per i grandi occhi teneri, un bue che era riuscito a trattenere un carro da cinque metri e mezzo completamente carico nella piena dello Shashi mentre l'argine fangoso gli si sgretolava sotto le zampe, e Olandese, il bue di testa, pezzato di bianco e di nero, che aveva addestrato ad accorrere al suo fischio come un cane e a guidare gli altri al loro posto per farsi aggiogare. Isazi ridacchiò affettuosamente, aprì il cancelletto del kraal provvisorio e fischiò per chiamare Olandese. Nell'oscurità che precede l'alba, una bestia tossì; quel suono aveva qualcosa di strano e sconvolgente che raggelò le viscere di Isazi. Un bue sano non tossiva in quel modo. Si soffermò al cancello, esitando a entrare, e poi sentì un odore che non aveva mai sentito in tutta la sua vita. Era una zaffata debolissima, ma gli diede la nausea. Era l'odore dell'alito d'un
mendicante o delle piaghe d'un lebbroso. Dovette compiere uno sforzo per avanzare, nonostante il puzzo e le proprie paure. «Olandese» chiamò. «Dove sei, bello mio?» Vi fu lo scroscio esplosivo d'una bestia squassata dalla dissenteria; e Isazi accorse. Nonostante la luce scarsa, riconobbe la sagoma pezzata. Il bue era steso al suolo. «Alzati» gridò. «Vusa, thandwa! Alzati, tesoro.» Perché una bestia si sdraia solo quando si è ormai arresa. Il bue sussultò convulsamente, ma non si alzò. Isazi si lasciò cadere in ginocchio e gli cinse il collo con le braccia. Il collo di Olandese era girato all'indietro, in un angolo assurdo, innaturale. Il muso vellutato premeva contro il fianco, e sotto il pelame lucido i muscoli erano contratti e rigidi come ghisa. Isazi passò le mani sul collo dell'animale e sentì il calore furioso della febbre. Gli toccò la guancia, ed era umida e viscida. Si portò la mano al naso: era ricoperta d'un muco denso, e l'odore gli rivoltò lo stomaco. Si rialzò e arretrò impaurito fino al cancello. Poi si voltò di scatto e corse verso i carri. «Henshaw!» gridò disperato. «Vieni, presto, Piccolo Falco.» *** «I gigli di fiamma» ringhiò Ralph Ballantyne. Aveva la faccia congestionata per la rabbia mentre si aggirava a grandi passi nel kraal. Il giglio era un bellissimo fiore cremisi orlato d'oro, e cresceva su un arbusto verde vivo capace di tentare tutti gli erbivori che non lo conoscevano. «Dove sono i mandriani? Porta qui quei maledetti mujiba.» Ralph girò intorno alla carcassa contorta di Luna Scura: un bue esperto come quello poteva valere cinquanta sterline. Non era l'unico bue morto: a terra ce n'erano altri otto, e molti di più mostravano i sintomi della sofferenza. Isazi e gli altri conducenti trascinarono avanti i mandriani. Erano ragazzetti atterriti; il maggiore era sulla soglia della pubertà, il minore aveva dieci anni. Gli inguini immaturi erano coperti soltanto da un brandello di stoffa mutsha, le natiche tonde erano nude. «Non sapete cos'è un giglio di fiamma?» urlò Ralph. «E' vostro dovere riconoscere le piante velenose e tener lontani i buoi. Vi toglierò la pelle per darvi una lezione.» «Noi non abbiamo visto neppure un giglio» dichiarò con fermezza il ragazzo più grande, e Ralph si girò furioso. «Piccolo bastardo sfacciato.» Ralph stringeva in mano uno sjambok di pelle d'ippopotamo. Era lungo un metro e mezzo, e aveva lo spessore di due centimetri e mezzo all'impugnatura e si affusolava in punta come uno spago. La concia aveva dato alla pelle il delicato colore ambrato d'una pipa di schiuma. «T'insegnerò io a badare ai buoi, invece di dormire sotto gli alberi.» Ralph avventò la frusta intorno alle gambe del ragazzo. La frusta sibilò come una vipera e il ragazzo urlò al morso tagliente; Ralph l'afferrò per il polso, lo tenne fermo e lo colpì un'altra dozzina di volte sulle gambe e sulle natiche. Poi lo lasciò e abbrancò un altro mujiba. Il ragazzino danzò al ritmo dello sjambok, urlando a ogni colpo. «Bene.» Ralph era finalmente soddisfatto. «Aggiogate gli animali sani.» Era rimasto appena un numero di buoi suffficiente per tre carri. Furono costretti ad abbandonare metà dei veicoli con i carichi di pelli di bufalo salate, e si misero in cammino verso sud mentre il sole spuntava all'orizzonte. Dopo meno di un'ora un altro bue era stramazzato, con il muso ripiegato all'indietro contro il fianco. Tagliarono le cinghle e lo lasciarono a giacere sul bordo della pista. Poco meno di un chilometro più avanti crollarono altri due buoi. Poi incominciarono a cadere con tanta regolarità che prima di mezzogiorno Ralph dovette abbandonare altri due carri, e l'ultimo proseguì trainato da un numero incompleto di animali. Già da tempo la rabbia di Ralph aveva lasciato il posto all'inquietudine. Era evidente che non si trattava di un normale caso di avvelenamento.
Nessuno dei suoi conducenti aveva mai visto qualcosa di simile, e non esistevano precedenti nell'immenso repertorio di tradizioni africane. «E' un tagathi» disse Isazi. Sembrava rattrappito per il dispiacere alla morte dei suoi amati buoi e gemeva come uno gnomo avvilito. «E' una terribile stregoneria.» «Per Dio, Harry.» Ralph condusse il cognato in disparte, in modo che le donne non potessero sentirli. «Saremo fortunati se riusciremo a portare a casa anche un solo carro. E dobbiamo attraversare ancora più di un fiume pericoloso. E' meglio che andiamo avanti e cerchiamo un guado più agevole sul Lupane.» Il fiume era pochi chilometri più avanti e si scorgeva già il verde scuro della foresta che l'orlava. Ralph e Harry cavalcavano a fianco a fianco, preoccupati e ansiosi. «Cinque carri abbandonati» borbottò Ralph. «A trecento sterline l'uno, senza contare i buoi che ho perduto...» S'interruppe e si raddrizzò sulla sella. Erano giunti in una radura aperta nei pressi del fiume, e Ralph stava fissando le tre enormi giraffe pezzate. Con le gambe a trampolo degli aironi e i lunghi, eleganti colli di cigno, erano i più strani di tutti i mammiferi dell'Africa. Gli occhi grandissimi erano dolci e tristi, le teste brutte e nel contempo belle erano coronate non da vere corna ma da protuberanze ossee rivestite di pelle e di pelo. L'andatura era lenta come quella di un camaleonte, e un grosso maschio poteva pesare una tonnellata e raggiungere cinque metri e mezzo di altezza. Erano mute, e la sofferenza e la passione non potevano strappare un suono dalle gole affusolate. Il loro cuore era grosso come un tamburo per pompare il sangue fino alla testa, e le arterie del collo erano munite di valvole che impedivano al cervello di esplodere per la pressione quando l'animale, con le zampe divaricate, si chinava per bere. Le tre giraffe si muovevano in fila attraverso la radura. Il vecchio maschio che procedeva in testa era quasi nero per la vecchiaia, la femmina che lo seguiva era chiazzata di rossiccio e il più giovane era di un beige tenero. Il giovane danzava. Ralph non aveva mai visto nulla di simile. Ondeggiava, girava su se stesso in lente, eleganti piroette, attorceva e tendeva il collo e lo faceva oscillare prima da una parte e poi dall'altra. A intervalli di pochi passi la madre si voltava ansiosamente per osservare il figlio e poi, divisa tra il dovere e l'amore materno, si slanciava di nuovo per seguire il vecchio maschio. Alla fine, lentamente e con una sorta di grazia stanca, il giovane si accasciò sulla terra erbosa e giacque in un groviglio di arti lunghissimi. La madre indugiò per un minuto o due e poi, obbedendo alla legge delle terre selvagge, abbandonò il figlio agonizzante e seguì il compagno. Ralph e Harry si avvicinarono alla giovane giraffa, quasi con riluttanza. Solo quando la raggiunsero notarono il muco esiziale che colava dalla bocca e dalle nari, e la diarrea che tingeva i quarti posteriori maculati. Fissarono increduli la carcassa, e all'improvviso Ralph arricciò il naso. «Lo stesso odore dei buoi...» disse. E comprese. «Una moria» mormorò. «In nome della santa Vergine, Harry, è una pestilenza. Sta annientando tutto, i buoi e la selvaggina.» Sotto l'abbronzatura, Ralph era diventato cinereo. «Duecento carri» sussurrò. «Quasi quattromila buoi. Se la moria continua a diffondersi, li perderò tutti.» Barcollò sulla sella e dovette aggrapparsi al pomolo per non perdere l'equilibrio. «Sarà la fine. Andrò in malora... in malora.» La sua voce tremò d'autocommiserazione; ma, dopo un momento, si scrollò come un cocker bagnato per scacciare la disperazione, e la sua faccia riprese colore. «No» disse in tono rabbioso. «Non sono ancora spacciatO, non mi arrenderò senza combattere.» Si girò di scatto verso Harry. «Dovrai riportare da solo le donne a Bulawayo» ordinò. «Io prendo i quattro cavalli migliori.» «Dove vai?» chiese Harry. «A Kimberley.» «Perché?» Ma Ralph aveva fatto girare il cavallo con la prontezza d'un giocatore di polo e lo stava lanciando verso l'unico carro che era appena uscito dalla foresta, dietro di loro. Nel momento in cui lo raggiunse, uno dei buoi di testa si accasciò e restò a terra, squassato dalle convulsioni. ***
All'alba del giorno seguente, Isazi non andò nel kraal. Aveva paura di ciò che avrebbe trovato. Andò Bazo al suo posto. Erano tutti morti. Tutti i buoi. Erano già freddi e rigidi come statue, impietriti nella spaventosa convulsione finale. Bazo rabbrividì, si strinse intorno alle spalle il manto di pelli di scimmia. Non era stato il freddo dell'alba, ma il tocco gelido del timore superstizioso a farlo tremare. «Quando il bestiame giace con la testa girata per toccarsi il fianco e non può rialzarsi...» Ripeté le parole dell'Umlimo, e la paura fu cancellata dallo slancio giubilante dello spirito bellicoso. «Sta accadendo ciò che era stato profetizzato.» Mai, prima d'ora, le parole dell'Eletta erano state tanto chiare. Avrebbe dovuto comprenderlo immediatamente; ma il vortice degli eventi l'aveva confuso, e soltanto adesso gli si rivelava il vero significato del morbo letale. Era impaziente di lasciare il laager e di correre verso sud, giorno e notte senza fermarsi, fino a quando avesse raggiunto la grotta segreta tra le colline sacre. Voleva presentarsi agli induna radunati e dire loro: «Voi che avete dubitato, ora dovete credere alle parole dell'Umlimo. Voi che avete nel ventre latte e birra, ponetevi invece una pietra.» Voleva andare dalle miniere alle fattorie, ai nuovi villaggi costruiti dai bianchi, dove i suoi compagni adesso faticavano con piccone e badile, anziché brandire la lama argentea, e indossavano gli abiti smessi dei padroni anziché i pennacchi e i gonnellini del reggimento. Voleva chiedere a tutti: «Ricordate il canto di guerra degli Izimuukuzanc Ezembintaba, le Talpeche-scavano-sotto-la-montagna? Venite, voi che scavate la terra altrui, venite A ripetere con me il canto di guerra delle Talpe.» Ma il momento non era ancora venuto: doveva compiersi il terzo e ultimo atto della profezia dell'Umlimo; e fino ad allora Bazo, come i suoi vecchi compagni, doveva recitare la parte del servo dell'uomo bianco. Mascherò con uno sforzo la sua gioia selvaggia ritraendosi dietro la faccia inscrutabile dell'Africa. Bazo lasciò il kraal pieno di buoi morti e raggiunse l'unico carro rimasto. Le donne bianche e il bambino dormivano a bordo e Harry Mellow era sdraiato, avvolto nella coperta, sotto lo chassis, perché la rugiada non lo bagnasse. Henshaw li aveva lasciati nel pomeriggio precedente, prima ancora che avessero raggiunto la riva del fiume Lupane. Aveva scelto quattro cavalli, i più forti e veloci. Aveva affidato a Bazo il compito di ricondurre a piedi il piccolo gruppo fino a Bulawayo, poi aveva baciato la moglie e il figlio, aveva stretto la mano a Harry Mellow, e s'era diretto a sud al galoppo, verso il Lupane, conducendo i tre cavalli di scorta con una redine lunga, e correndo come se fosse inseguito dai cani selvatici. Bazo si accostò al carro, si chinò e parlò lentamente e con chiarezza all'uomo avviluppato nella coperta. Sebbene la sua conoscenza del sindebele migliorasse di giorno in giorno, Harry Mellow lo parlava ancora come un bambino di cinque anni, e Bazo doveva essere assolutamente certo che lo capisse. «Gli ultimi buoi sono morti. Un cavallo è stato ucciso dal bufalo, e Henshaw ne ha portati via quattro.» Harry Mellow si sollevò a sedere e prese una decisione. «Resta un cavallo per ognuna delle donne, e Jon-Jon può andare con una di loro. Noi andremo a piedi. Quanto tempo impiegheremo per tornare a Bulawayo, Bazo?» La scrollata di spalle di Bazo fu eloquente. «Se fossimo un impi in buona forma, cinque giorni. Ma all'andatura di un uomo bianco con gli stivali...» Sembravano un gruppo di profughi. Ognuno dei servitori portava sulla testa un fardello con le provviste indispensabili. E si sgranavano in una lunga fila dietro i due cavalli. Le donne erano intralciate dalle gonne lunghe ogni volta che procedevano a piedi per far riposare gli animali, e Bazo non sapeva adattarsi a quel ritmo lento. Si spingeva molto più avanti; e quando era fuori di vista ed era certo che non potessero sentirlo, ballava e saltava, vibrando colpi a un avversario inesistente con un assegai immaginario, e accompagnava la giya, la danza di sfida, con il canto di guerra del suo vecchio impi. Come una talpa nelle viscere della terra. Bazo trovò il cammino segreto...
I primi versi del canto commemoravano l'assalto dell'impi alla roccaforte montana di Pemba lo stregone, quando tanto tempo prima Bazo era salito lungo il passaggio sotterraneo fino a raggiungere la sommità del dirupo. Era stato in ricompensa di quell'impresa che Lobengula l'aveva promosso induna, gli aveva accordato l'anello e gli aveva permesso di «andare dentro le donne» e di scegliere Tanase come moglie. Bazo danzava, solo nella foresta, e cantava le altre strofe. Ognuna era stata composta dopo una famosa vittoria... tutte, eccettuata l'ultima. Era l'unica strofa che non fosse mai stata cantata dal reggimento in assetto di battaglia. Era la strofa per l'ultima carica delle Talpe quando, con Bazo alla testa, s'erano avventati verso il laager sulla riva del fiume Shangani. Ma Bazo l'aveva composta mentre giaceva in una grotta delle Matopos, e le ferite d'arma da fuoco che gli martoriavano il corpo sembravano sul punto di ucciderlo. Perché piangete, vedove di Shangani, quando i fucili a treppiede ridono così forte? Perché piangete, figliole delle Talpe, quando vostro padre esegue gli ordini del re? Adesso, all'improvviso, c'era un'altra strofa. Era affiorata già compiuta nella mente di Bazo, come se l'avesse cantata migliaia e migliaia di volte. Le Talpe stanno sottoterra, «Sono morte?» chiedono le figlie di Mashobane. Ascoltate, belle fanciulle, non udite che qualcosa si muove nel buio? E Bazo, l'Ascia, lo gridò ai msasa dai morbidi mantelli di foglie rosse, e gli alberi s'inclinarono lievemente sotto il vento dell'est. come se anch'essi fossero in ascolto. *** Ralph Ballantyne si fermò a King's Linn. Gettò le redini a Jan Cheroot, il vecchio cacciatore ottentotto. «Abbeverali, vecchio mio, e riempimi le sacche di grano. Ripartirò fra un'ora.» Salì correndo sulla veranda della grande casa dal tetto di paglia, e la matrigna uscì per andargli incontro con un'aria preoccupata che si trasformò in un'espressione di gioia quando lo riconobbe. «Oh, Ralph, mi avevi fatto paura...» «Dov'è mio padre?» chiese Ralph mentre le baciava la guancia, e Louise cambiò espressione di nuovo, colpita dalla gravità del suo tòno. «Nel settore nord. Stanno marchiando i vitelli... Ma cos'è successo, Ralph? Non ti ho mai visto così.» Ralph non rispose alla domanda. «Il settore nord è a sei ore da qui. Non posso andare, non ho tempo.» «Allora è una cosa grave» disse Louise. «Non tenermi sulle spine, Ralph.» «Scusami.» Ralph le mise la mano sul braccio. «C'è una moria terribile che sta scendendo dal nord. Ha colpito le mie bestie sul fiume Gwaai e le ho perse tutte. Più di cento capi in dodici ore.» Louise sgranò gli occhi. «Forse...» sussurrò, ma lui l'interruppe bruscamente. «Uccide tutti gli animali, le giraffe, i bufali e i buoi. Finora solo i cavalli non sono stati toccati. Ma per Dio, Louise, ho visto i bufali morti che imputridivano lungo la pista, ieri. Animali che il giorno prima erano forti e sani.» «Che cosa dobbiamo fare, Ralph?» «Vendete» rispose lui. «Vendete tutto il bestiame, a qualunque prezzo, prima che la moria arrivi fin qui.» Si voltò e gridò a Jan Cheroot: «Prendi il taccuino dalla borsa della sella e portamelo.» Mentre Ralph scarabocchiava due righe per il padre, Louise chiese: «Quando hai mangiato l'ultima volta?» «Non ricordo.» Ralph mangiò le fette di cacciagione fredda, le cipolle selvatiche, il formaggio piccante e il pane, e bevve un boccale di birra mentre dava le istruzioni a Jan Cheroot. «Non parlare con nessuno, a parte mio padre. Non dirlo a nessun altro. Ora corri, Jan Cheroot.» Ma lui stesso balzò in sella e ripartì prima che il piccolo ottentotto fosse pronto ad andare. Ralph girò alla larga da Bulawayo per evitare d'incontrare qualche conoscente e per raggiungere la linea telegrafica in una località solitaria lontano dalla strada principale. Erano state le sue squadre a posare quella linea, e quindi ne conosceva ogni chilometro, ogni punto vulnerabile e sapeva qual'era il modo più efficace per isolare Bulawayo e il Matabeleland da kimberley e dal resto del mondo. Legò i cavalli ai piedi d'uno dei pali e si arrampicò fino al grappolo degli isolatori di porcellana e ai lucenti fili di rame.
Usò due morsetti fissati a una cinghia per impedire che i capi del filo cadessero a terra, poi tagliò. Il filo si spezzò con una vibrazione canora, ma la cinghia resse; e quando ridiscese e scrutò in alto ebbe la certezza che soltanto un guarda-fili molto esperto si sarebbe accorto dell'interruzione. Rimontò in sella e lanciò il cavallo al galoppo. A mEzzogiorno giunse sulla pista e la seguì verso sud. Cambiava cavallo a ogni ora, e continuò a galoppare fino a quando fu troppo buio. Impastoiò i cavalli e dormì come un morto sul terreno duro. Prima dello spuntar del giorno mangiò il pane e formaggio che. Louise gli aveva messo nella borsa della sella, e ripartì mentre il cielo a oriente cominciava a schiarirsi. A metà mattina lasciò la pista e trovò la linea del telegrafo che passava dietro un koPje piatto. Sapeva che i guarda-fili della Compagnia alla ricerca della prima rottura della linea ormai dovevano essere sul punto di raggiungerla; e probabilmente nell'ufficio del telegrafo di Bulawayo c'era qualcuno smanioso di segnalare a Rhodes la moria terribile che stava sterminando le mandrie. Ralph tagliò la linea in due punti e proseguì. Nel tardo pomeriggio, uno dei cavalli non ce la fece più. Lo lasciò libero a fianco della strada. Se non l'avesse ucciso un leone, forse qualcuno dei suoi conducenti avrebbe riconosciuto il marchio. L'indomani, a un centinaio di chilometri dal fiume Shashi, incontrò uno dei suoi convogli che arrivava dal sud. C'erano ventisei carri, affidati a un sovrintendente bianco. Ralph si fermò appena il tempo necessario per requisire i cavalli e lasciargli i suoi ormai esausti, e proseguì. Tagliò ancora due volte i fili del telegrafo, su entrambe le rive dello Shashi, prima di raggiungere la ferrovia. Incontrò il sovrintendente, uno scozzese dai capelli rossi. Dirigeva una squadra di negri che lavoravano una decina di chilometri più avanti del resto degli operai, per preparare la posa dei binari. Ralph non smontò neppure. «Ha ricevuto il telegramma che ho spedito da Bulawayo, Mac?» chiese senza perder tempo in convenevoli. «No, signor Ballantyne.» Lo scozzese scrollò la testa impolverata. «Non abbiamo notizie dal nord da cinque giorni... dicono che le linee sono cadute, ed è l'interruzione più lunga che ci sia mai stata.» «Maledizione e poi ancora maledizione.» Ralph imprecò furiosamente per nascondere il sollievo. «Volevo che tenesse un vagone per me.» «Se si sbriga, signor Ballantyne, c'è un convoglio di vagoni vuoti che torna indietro proprio oggi.» Una decina di chilometri più avanti, Ralph raggiunse il terminale ferroviario. La ferrovia attraversava un'ampia distesa piatta costellata di arbusti spinosi. Tutta quell'attività appariva incongrua in quella zona squallida e desolata al margine del deserto del Kalahari. Una locomoTiva verde lanciava verso il cielo sbuffi di vapore argenteo, per trasportare i carri merci piatti fino all'estremità dei binari. Squadre di negri in perizoma, armati di sbarre, scaricavano cantando le rotaie dai vagoni: e quando quelle cadevano in una nuBe di polvere bianca, altre squadre accorrevano per sollevarle e posarle sulle traversine di teak. I capisquadra le assestavano con i cunei di ghisa, e poi venivano i ragazzi armati di maglio che piantavano i cavicchi d'acciaio con mazzate sonanti. Un chilometro più indietro c'era la direzione del cantiere, una baracca squadrata di legno e lamiera ondulata che veniva spostata ogni giorno. L'ingegnere capo, in maniche di camicia, stava sudando a una scrivania fatta di casse di latte condensato inchiodate insieme. «Quanti chilometri?» chiese Ralph dalla soglia della baracca. «Signor Ballantyne.» L'ingegnere si alzò. Era più alto di Ralph e aveva il collo taurino e grossi avambracci villosi, ma aveva paura di lui. Glielo si leggeva negli occhi. Ralph provò un guizzo di soddisfazione. Non aspirava a essere l'uomo più popolare dell'Africa: non sarebbe servito a molto. «Non l'aspettavamo fino alla fine del mese.» «Lo so. Quanti chilometri?» «Abbiamo avuto qualche inconveniente, signore.» «Per Dio. vuol dirmelo o no?» «Dal primo mese...» L'ingegnere esitò. Sapeva che era inutile mentire a Ralph Ballantyne. «Venticinque chilometri.» Ralph si avvicinò alla mappa e controllò i dati. Aveva notato i numeri del terminale, quand'era passato di là. «Ventiquattro chilometri e seicento metri. Non sono venticinque» disse.
«No, signore. Quasi venticinque.» «E' soddisfatto?» «No, signore.» «Nemmeno io.» Era sufficiente, si disse Ralph. Se avesse detto di più avrebbe urtato la suscettibilità dell'ingegnere; e non c'era un uomo che potesse sostituirlo da lì fino al fiume Orange. «Ha ricevuto il telegramma che le ho mandato daGu- Bulawayo?» «No, signor Ballantyne. Le linee sono interrotte da diversi giorni.» «E la linea per Kimberley?» «Quella funziona.» «Bene. Dica al suo telegrafista di trasmettere questo.» Ralph si chinò sul blocco e scribacchiò in fretta. «Avvocato Aaron Fagan, De Beers Street, Kimberley. Arriverò presto domani. Combini incontro urgente mezzogiorno con Rough Rider.» Rough Rider era il nome in codice che indicava Roelof Zeederberg, il principale concorrente di Ralph nel settore dei trasporti. Il servizio espresso delle diligenze di Zeederberg faceva la spola da Delagoa ad Algoa Bay, dai giacimenti auriferi di Pilgrim's Rest al Witwatersrand e al capolinea della ferrovia a Kimberley. Mentre il telegrafista batteva il messaggio sull'apparecchio di bronzo e teak, Ralph si rivolse di nuovo all'ingegnere. «Allora, quali sono le difficoltà che vi hanno fatto perdere tempo, e come possiamo eliminarle?» «La cosa peggiore è la strozzatura allo scalo di smistamento di Kimberley.» Lavorarono per un'ora, poi la locomotiva fischiò davanti alla baracca. Uscirono continuando a discutere. Ralph buttò la borsa della sella e la coperta arrotolata sul primo dei carri merci, e trattenne il treno per altri dieci minuti mentre decideva con l'ingegnere gli ultimi dettagli. «D'ora in avanti riceverà il materiale più in fretta di quanto potrà farlo posare» promise con aria decisa. Balzò sul carro merci e fece un segnale al macchinista. Il fischio lanciò un getto di vapore nell'aria secca del deserto, le ruote della locomotiva girarono e sussultarono, e la lunga fila di vagoni vuoti si mise in moto verso il sud, acquistando rapidamente velocità. Ralph trovò un angolo riparato dal vento e si arrotolò nella coperta. Otto giorni dal fiume Lupane al capolinea della ferrovia. Era una specie di primato. «Ma anche questo non serve a molto» si disse con un sorriso stanco. Si calcò il cappello sugli occhi e si assestò per ascoltare il canto delle ruote sui binari. «Facciamo presto. Facciamo presto.» E poco prima che si addormentasse il canto cambiò. «Il bestiame muore. Il bestiame muore» cantavano le ruote. Ma neppure questo bastava per tenerlo sveglio. *** Dopo sedici ore il treno si fermò allo scalo di smistamento a Kimberley. Erano le quattro del mattino passate da poco. Ralph balzò dal carro merci mentre la locomotiva rallentava, e con la borsa della sella buttata su una spalla si avviò lungo De Beers Street. Nell'ufficio del telegrafo c'era la luce accesa, e Ralph batté sull'imposta fino a quando l'operatore del turno di notte si affacciò come un gufo dal nido. «Voglio mandare un telegramma urgente a Bulawayo.» «Mi dispiace, la linea è interrotta.» «Quando la rimetteranno in funzione?» «Lo sa Dio. Ormai è interrotta da sei giorni.» Ralph stava ancora sorridendo quando entrò nell'atrio del Diamond Lil's Hotel. Il portiere di notte era nuovo e non riconobbe Ralph. Vide un uomo alto e magro, bruciato dal sole, insaccato negli indumenti macchiati e polverosi. La corsa folle aveva smagrito Ralph. Non s'era più fatto la barba da quando aveva lasciato il Lupane, e gli stivali erano graffiati e logorati dall'attrito con gli arbusti spinosi che aveva attraversato. La fuliggine della locomotiva gli aveva scurito la faccia e arrossato gli occhi, e il portiere ebbe la certezza di trovarsi di fronte a un vagabondO. «Mi dispiace, signore» disse. «L'albergo è al completo.» «Chi c'è nella suite Blue Diamond?» chiese affabilmente Ralph. «Sir Randolph Charles.» Il tono del portiere era reverente. «Lo faccia sloggiare» disse Ralph.
«Prego, come ha detto?» Il portiere s'inalberò con aria gelida. Ralph tese il braccio, lo abbrancò per la cravatta di seta e lo tirò più vicino. «Lo faccia sloggiare dalla mia suite» ripeté Ralph, sibilando all'orecchio del portiere di notte. «Subito!» In quel momento arrivò il portiere di giorno. «Signot Ballantyne!» esclamò con un misto di allarme e di gioia simulata, e si precipitò in soccorso del collega. «La sua suite sarà pronta fra un minuto.» Poi sibilò nell'altro orecchio del portiere di notte: «Libera immediatamente quella suite o lo farà lui.» La suite Blue Diamond aveva uno dei pochissimi bagni di Kimberly con l'acqua corrente calda. Due servi negri alimentavano la caldaia esterna per fare in modo che il vapore continuasse a uscire fischiando dalla valvola mentre Ralph, immerso fino al collo, regolava l'afflusso dell'acqua calda con l'alluce sul rubinetto, e nello stesso tempo si radeva con un rasoio a lama libera, senza servirsi dello specchio. Il portiere di giorno aveva fatto portare dal magazzino il baule di Ralph e ronzava intorno ai guardarobieri che stiravano gli abiti e si sforzavano di rendere ancora più lustri gli stivali già lucidissimi. Cinque minuti prima di mezzogiorno Ralph, profumato di brillantina e acqua di colonia, entrò nell'ufficio di Aaron fagan. Aaron era un uomo esile e curvo, con i capelli radi pettinati all'indietro e la fronte dell'intellettuale, il naso adunco, la bocca carnosa ed espressiva, gli occhi scuri svegli e attenti. Era il tipo che giocava a kalabrias senza dare quartiere all'avversario, e tuttavia nel suo carattere c'era una tendenza alla compassione che Ralph apprezzava non meno delle altre qualità. Se avesse saputo cosa intendeva fare Ralph in quel momento, avrebbe cercato di dissuaderlo; ma dopo aver esposto le sue obiezioni, lui avrebbe tirato avanti e avrebbe preparato il contratto con la stessa spietatezza con cui avrebbe sferrato un colpo vincente a kalabrias. Ralph non aveva tempo d'intavolare con Aaron una discussione etica; e perciò, mentre si abbracciavano e si battevano reciprocamente le mani sulle spalle, anticipò ogni domanda chiedendo: «Sono già qui?» e aprì la porta dell'uffficio. Roelof e Doel zeederberg non si alzarono al suo ingresso e non tesero la mano. C'erano stati tra loro già troppi scontri rabbiosi, anche se non decisivi. «Allora, Ballantyne, vuol farci perdere altro tempo?» Roelof aveva ancora un netto accento svedese. Sotto le sopracciglia rossicce gli occhi brillavano d'interesse. «Mio caro Roelof, non farei mai una cosa simile» protestò Ralph. «Voglio soltanto risolvere questa faccenda delle tariffe sul nuovo percorso del Matabeleland prima che ci roviniamo a vicenda.» «Ja!» ammise Doel in tono sarcastico. «E' un'ottima idea come l'idea che mia suocera mi voglia bene.» «Siamo disposti ad ascoltare, almeno per qualche minuto.» Il tono di Roelof era noncurante, ma la sua attenzione era ancora più viva. «Uno di noi dovrebbe rilevare l'azienda dell'altro e fissare le proprie tariffe» disse Ralph in tono blando. I due fratelli si scambiarono un'occhiata. Roelof si diede studiatamente da fare per riaccendere il sigaro nel tentativo di nascondere lo sbalordimento. «Vi state chiedendo perché?» disse Ralph. «Volete sapere perché Ralph Ballantyne ha intenzione di vendere?» I due fratelli non negarono. Attendevano pazienti come due avvoltoi appollaiati su un albero. «La verità è questa. mi sono esposto troppo nel Matabeleland. La Miniera Harkness...» Le labbra contratte di Roelof si distesero. Avevano sentito parlare della miniera. Alla Borsa di Johannesburg correva voce che sarebbe costato cinquantamila sterline avviare la produzione. «Sono indietro con il contratto della ferrovia per il signor Rhodes» continuò Ralph con aria seria. «Ho bisogno di liquidi.» «Ha in mente una cifra precisa?» chiese Roelof, lanciando uno sbuffo di fumo dal sigaro. Ralph annuì, gliela disse, e Roelof si mandò di traverso il fumo e cominciò a tossire. Il fratello gli batté la mano sulla schiena fino a che riprese fiato. Poi Roelof ridacchiò e scosse la testa. Ja» tisse. «Buona. Molto buona.» «A quanto pare avevate ragione» ammise ralph. «Vi faccio perdere tempo.» Scostò la sedia e si alzò.
«Si sieda.» Roelof smise di ridere. «Si sieda e parliamone» disse vivacemente. E per l'indomani a mezzogiorno Aaron Fagan aveva stilato il contratto. Era semplicissimo. Gli acquirenti accettavano l'allegata di chiarazione dei valori riconoscendola completa ed esatta. Si impegnavano a rilevare tutti i contratti di trasporto in corso e la responsabilità delle merci attualmente in transito. Il venditore non forniva garanzie. Il pagamento sarebbe stato effettuato per contanti, senza trasferimenti di azioni, e la data effettiva era quella delle firme. Firmarono tutti e tre alla presenza dei rispettivi legali, e quindi attraversarono la strada, entrarono nella sede principale della Dominion Colonial and Overseas Bank, dove l'assegno della Zeederberg Bros fu presentato e debitamente onorato dal direttore. Ralph stipò i pacchetti di banconote da cinque sterline nella valigia e si tolse il cappello per salutare i fratelli Zeederberg. «Buona fortuna, signori» disse, quindi prese Aaron Fagan per il braccio e lo condusse verso il Diamond Lil's Hotel. Roelof Zeederberg si massaggiò la testa quasi pelata. «Ho uno strano presentimento» mormorò irrequieto mentre li seguiva con gli occhi. *** L'indomani mattina, Ralph lasciò Aaron Fagan sulla porta dell'ufficio. «I buoni fratelli Zeederberg si faranno vivi prima di quanto immagini» lo avvertì affabilmente. «Sii gentile, cerca di non seccarmi con le loro accuse.» E attraversò Market Square, lasciando Aaron a guardarlo perplesso. Ralph non poté procedere molto in fretta. Cinque o sei conoscenti lo fermarono per informarsi premurosamente della sua salute, avere conferma della notizia della vendita della compagnia di trasporti o scoprire se intendeva emettere un quantitativo di azioni pubbliche della Miniera Harkness. «Fammelo sapere quando deciderai, Ralph.» «Se posso essere d'aiuto, signor Ballantyne, sarà un piacere.» Le voci circa il valore del minerale grezzo dell'Harkness lo stimavano fino a sessanta once per tonnellata, e tutti coloro che Ralph incontrava volevano entrare nell'affare: perciò impiegò quasi un'ora per coprire i cinquecento metri che lo separavano dagli uffici della De Beers Consolidated Mines Company. Era un edificio magnifico, un tempo consacrato al culto dei diamanti. Le balconate dei tre piani erano trine bianche di grate di ferro battuto, i muri erano di mattoni rossi con gli spigoli fregiati di blocchi di pietra lavorata, le finestre erano di vetri istoriati e le porte di teark lucido con le rifiniture di bronzo. Ralph firmò il registro dei visitatori e un portinaio in uniforme e guanti bianchi lo condusse su per la scalinata a spirale, fino all'ultimo piano. Sulla porta di teak c'era una targa di bronzo che recava soltanto un nome, senza titoli: JORDAN BALLANTYNE. Ma la grandiosità dell'ufficio bastava a dare un'idea del l'importanza di Jordan nella gerarchia della De Beers Diamond Company. Le finestre s'affacciavano sulla miniera di Kimberley, un enorme scavo ampio un chilometro e mezzo; e persino da quell'altezza era impossibile vederne il fondo. Sembrava che una meteora avesse aperto un cratere nella crosta terrestre. Ogni giorno diventava sempre più profondo, via via che i minatori seguivano il favoloso cono di kimberlite azzurra. Quella miniera a cielo aperto aveva già dato quasi dieci milioni di carati di diamanti bellissimi, ed era interamente di proprietà della compagnia di Rhodes. Ralph si limitò a lanciare un'occhiata all'immensa fossa dove aveva trascorso buona parte della giovinezza a scavare in cerca di gemme, poi girò lo sguardo sull'ufficio. Le pareti erano rivestite di pannelli di quercia stagionata e scolpita, i tappeti erano Qum di seta, e i libri allineati sugli scaffali erano rilegati in marocchino con fregi d'oro. Dalla porta aperta del bagno giungeva un suono d'acqua corrente. Una voce chiese: «Chi è?» Ralph lanciò il cappello sull'attaccapanni e si voltò verso la porta mentre Jordan usciva. Era in
maniche di camicia, e la camicia era del più fine lino irlandese, la cravatta di seta. Si stava asciugando le mani su una salvietta col monogramma, ma si fermò di colpo nel vedere Ralph. Gettò la salvietta e lO raggiunse in tre passi con un'esclamazione di gioia. Dopo un poco Ralph si sciolse dall'abbraccio fraterno e scostò Jordan per squadrarlo. «Sempre elegantissimo» disse in tono scherzoso, scarrufFandogli i riccioli dorati, pettinati all'ultima moda. Jordan era ancora uno degli uomini più belli che Ralph avesse mai incontrato, e la gioia di rivedere il fratello accentuava in lui lo splendore delle guance e la luce degli occhi verdi dietro le lunghe ciglia ricurve. Come sempre, Ralph si sentì conquistato dalla gentilezza e dal fascino del fratello minore. «E tu» disse Jordan con una risata, «sei così magro e solido. Dov'è finita la pancia?» «L'ho lasciata sulla strada del Matabeleland.» «Il Matabeleland!» L'espressione di Jordan cambiò di colpo. «Allora avrai portato la terribile notizia.» Jordan si accostò in fretta alla scrivania. «La linea del telegrafo è rimasta interrotta per più di una settimana, e questo è il primo messaggio che è arrivato. Ho finito di decifrarlo meno di un'ora fA.» Porse il telegramma a Ralph, che lo scorse in fretta. La trascrizione era nella grafia elegante di Jordan tra le righe del testo. Il destinatario era «Giove» il nome in codice di Rhodes, e la comunicazione era stata inviata dal generale Mungo St John, che faceva le funzioni di amministratore del Matabeleland in assenza del dottor Jameson. SEGNALATA MORIA BESTIAME NEL NORD MATABELELAND. PERDITE SESSANTA PER CENTO RIPETO SESSANTA PER CENTO. VETERINARIO RICONOSCE SINTOMI SIMILI A PESTE BOVINA ITALIA 1880. MALATTIA NOTA ANCHE COME RINDERPEST. NON ESISTONO CURE. POSSIBILITA. DI PERDITE CENTO PER CENTO IN MANCANZA D ISOLAMENTO E CONTROLLO. RICHIEDO URGENTEMENTE AUTORIZZAZIONE ABBATTERE E, BRUCIARE TUTTO BESTIAME NELLA PROVINCIA CENTRALE PER PREVENIRE DIFFUSIONE VERSO SUD. Mentre simulava stupore e costernazione per il primo paragrafo, Ralph lesse rapidamente il resto del messaggio. Era un'occasione rara di leggere un rapporto decifrato della BSA Company; il fatto che Jordan glielo mostrasse dava un'idea della sua agitazione. C'erano elenchi della consistenza e della disposizione delle forze della polizia, riepiloghi delle somme distribuite, richieste amministrative, raccomandazioni per la concessione di licenze commerciali e una lista delle richieste di concessioni minerarie presentate a Bulawayo. Ralph restituì il foglio al fratello con aria doverosamente seria. In testa alla lista delle nuove concessioni minerarie aveva visto un blocco di cento chilometri quadrati registrato a nome della Wankie Coal Mining Company. Era il nome che lui e Harry Mellow avevano scelto per la loro società; e si sentiva acceso da una soddisfazione che si guardava bene dal lasciar trasparire. Harry doveva aver ricondotto sani e salvi a Bulawayo le donne e Jonathan, e si era affrettato a registrare la concessione. Ancora una volta Ralph si congratulò con se stesso: aveva scelto bene il socio e cognato. L'unica incertezza era causata dalla premessa alla lista inviata da St John. PREGO COMUNICARE AL PIU' PRESTO DECISIONI COMPAGNIA RIGUARDO CONCESSIONI CARBONE E METALLI VILI... REGISTRAZIONE 198 IN FAVORE DI WANKIE COAL MINING CO. TENUTA IN SOSPESO IN ATTESA DI CHIARIMENTI. La concessione era stata richiesta ma non ancora confermata. Comunque, Ralph se ne sarebbe occupato più tardi. Al momento doveva prestare orecchio ai timori di Jordan. «I possedimenti di papà sono proprio sul percorso della rinderpest. Ha lavorato tanto in vita sua, e ha avuto tanta sfortuna... oh, Ralph, non può capitare proprio a lui, anche stavolta.» Jordan s'interruppe, colpito da un pensiero. «E anche tu. Quanti buoi da tiro avevi nel Matabeleland,
Ralph?» «Neppure uno.» «Neppure uno? Non capisco.» «Ho venduto tutto, buoi e carri, ai fratelli Zeederberg.» Jordan lo fissò. «Quando?» chiese dopo un silenzio. «Ieri.» «Quando hai lasciato Bulawayo, Ralph?» «E questo che c'entra?» «Le linee del telegrafo... erano state tagliate, lo sai? In quattro località diverse.» «Incredibile. Chi può aver fatto una cosa simile?» «Non oso neppure chiederlo.» Jordan scosse la testa. «E pensandoci meglio, non voglio sapere quando hai lasciato Bulawayo e se papà ha venduto il suo bestiame all'improvviso come hai fattO tU.» «Vieni, Jordan. Ti porto a pranzo al club. Una bottiglia di champagne ti consolerà del dispiacere di appartenere a una famiglia di bricconi e di lavorare per un altro briccone.» Il Kimberley Club aveva una facciata alquanto anonima. Dopo la fondazione era stato ampliato due volte, e le nuove aggiunte erano evidenti: mattoni crudi che spiccavano accanto al ferro zincato e ai mattoni cotti. Il tetto di ferro non era dipinto, ma c'erano piccoli, strani tocchi pretenziosi come la staccionata bianca e la porta a vetri veneziani. Fino a che un uomo non diventava socio del Kimberley Club, non poteva considerarsi veramente «arrivato» nel Sud Africa. L'appartenenza al club era tanto ambita che Barney Barnato, il quale nonostante i suoi milioni era stato costantemente respinto, alla fine s'era lasciato indurre a vendere a Rhodes le sue azioni della società diamantifera solo dopo che gli era stata promessa la desiderata ammissione. E anche allora, con la penna in mano, Barnato aveva esitato prima di firmare il contratto. «Come posso essere certo che non mi rifiuteranno ancora, quando avrò firmato?» «Mio caro amico, la faremo consigliere a vita del club» gli aveva assicurato Rhodes, proponendo una tentazione irresistibile per il piccolo cockney nato negli slum di Londra. La prima sera al club, dopo l'ammissione, Barnato s'era avvicinato al banco del bar, vestito come un impresario teatrale, aveva ordinato da bere per tutti e poi aveva fatto lampeggiare il magnifico diamante bianco-azzurro da dieci carati che portava all'anulare. «Cosa ne pensate di questo, eh, signori?» Uno dei soci aveva osservato il diamante per un attimo e aveva commentato: «Stona terribilmente con il colore delle unghie, vecchio mio.» Poi, ignorando l'offerta del drink, era andato nella sala del biliardo e tutti gli altri l'avevano seguito, eccettuati Barney Barnato e il barista. Era un tipo fatto così. Ralph e Jordan erano diventati soci alla maggiore età. Il loro padre non era soltanto uno dei fondatori e consiglieri a vita; aveva un grado di ufficiale ed era un gentiluomo. Queste cose contavano nel Kimberley Club più delle volgari ricchezze. Il portiere salutò i due fratelli e mise i loro biglietti nel tabellone dei presenti. Il barista servì a Jordan un gin aromatizzato con tonico indiano senza bisogno di ricevere l'ordinazione, poi si rivolse a Ralph con l'aria di scusarsi. «Non la vediamo abbastanza spesso, signor Ralph. Prende sempre whisky Glenlivet, signore, con acqua e senza ghiaccio?» Nella sala da pranzo, ordinarono entrambi dal carrello degli arrosti: agnello tenero che conservava nelle carni il sapore sottile delle erbe del Karrù con cui era stato appena svezzato, con contorno di patatine novelle al prezzemolo. Jordan rifiutò lo champagne proposto da Ralph. «Sono un lavoratore» disse con un sorriso. «Ho gusti più semplici. Mi andrà bene uno Chateau Margaux del '73.» Il bordeaux vecchio di vent'anni costava quattro volte più di qualunque champagne sulla lista dei vini. «Per Dio!» commentò Ralph. «Nonostante quell'apparenza urbana, in fondo sei un vero Ballantyne.» «E tu devi nuotare nello sporco denaro dopo quella vendita tanto tempestiva. E' mio dovere di fratello aiutarti a sbarazzartene.» «Ho venduto a prezzi stracciati» protestò Ralph, ma annuì in segno d'approvazione quando assaggiò il vino. Mangiarono in silenzio per qualche minuto. «Cosa pensa il signor Rhodes dei giacimenti di carbone che abbiamo picchettato io e Harry?» chiese con aria distratta.
Fingeva di studiare i riflessi di rubino dello Chateau Margaux, ma osservava la reazione del fratello. Vide gli angoli della bocca di Jordan fremere per la sorpresa, vide gli occhi balenare di un'altra emozione che non riuscì a interpretare in tempo. Poi Jordan si portò alle labbra un pezzetto d'agnello con la forchetta d'argento, masticò meticolosamente, inghiottì, e chiese: «Carbone?» «Sì, carbone!» confermò Ralph. «Io e Harry Mellow abbiamo delimitato un giacimento enorme di ottimo carbone nel Matabeleland settentrionale... non hai ancora visto la richiesta? Il Consiglio non ha approvato la registrazione? Devi saperlo senz'altro, Jordan.» «Che vino splendido.» Jordan aspirò il bouquet. «Che ricco profumo di spezie.» «Oh, naturalmente, la linea del telegrafo era interrotta. Non hai ancora ricevuto niente?» «Ralph, ho saputo dalle mie spie» disse Jordan con fare circospetto, mentre Ralph si tendeva verso di lui, «che il segretario del club ha appena ricevuto un formaggio stilton di dieci chili spedito da Fortnums. Dovrebbe essere maturato perfettamente dopo il viaggio.» «Jordan.» Ralph lo fissò, ma Jordan non alzò gli occhi. «Sai che non posso dire niente» mormorò avvilito. Mangiarono lo stilton con i cracker e l'accompagnarono con il porto d'un bariletto che non figurava sulla carta dei vini perché la sua esistenza era nota solo ai soci privilegiati. Infine Jordan estrasse dal taschino l'orologio d'oro. «Devo tornare in ufficio. Io e il signor Rhodes partiremo per Londra domani a mezzogiorno, e c'è ancora parecchio da fare.» Ma quando uscirono dal club, Ralph prese con fermezza il gomito del fratello e lo guidò lungo De Beers Road, stordendolo con una fiumana di pettegolezzi familiari fino a quando arrivarono davanti a un grazioso cottage di mattoni rossi seminascosto dalle rose canine. Le finestre a forma di rombo avevano tende di pizzo civettuolo, e sul cancello c'era una piccola insegna pudica: SARTORIA FRANCESE, HAUTE COUTURE CUCITRICI DEL CONTINENTE, SPECIALITA' PER OGNI GUSTO Prima che Jordan avesse compreso le sue intenzioni, Ralph aprì il cancelletto e lo precedette lungo il breve viale. Ralph pensava che, dopo il buon pranzo e gli ottimi vini, la compagnia d'una delle giovani donne che Diamond Lil sceglieva con tanto gusto e tanta cura a ornamento del Rose Cottage non avrebbe mancato di sciogliere la lingua anche a un fedele servitore come Jordan, inducendolo a qualche commento indiscreto circa gli affari del principale. Jordan avanzò di un passo oltre il cancello, poi si sottrasse alla stretta di Ralph con violenza. «Dove vai?» chiese. Era impallidito come se un mamba gli avesse tagliato la strada. «Sai che posto è?» «Sì, lo so.» Ralph annuì. «E l'unico bordello che conosco dove un dottore controlla la merce almeno una volta la settimana.» «Ralph, non puoi entrare.» «Oh, smettila, Jordie.» Ralph sorrise e gli riprese il braccio. «Sono tuo fratello. Non fare la scena. Un Giovane scapolo come te, per Dio! Scommetto che lì dentro, sopra ogni letto, c'è una targa con il tuo nome...» S'interruppe: la costernazione di Jordan era autentica. «Cosa c'è, Tordie?» Per una volta, Ralph era insicuro. «Non dirmi che non hai mai frequentato una delle sartine di Lil!» «Non ho mai messo piede lì dentro.» Jordan scrollò la testa con veemenza. Era pallido e gli tremavano le laBbra. «E non dovresti farlo neppure tu, Ralph. Sei sposato.» «Oh, Dio, Jordie, non fare lo scemo. Dopo un po', anche una dieta di caviale e champagne può stancare. Una fetta di prosciutto campagnolo e un boccale di sidro sono un cambiamento piacevole.» «Questo è affar tuo» scattò Jordan. «E non intendo restare qui a discutere davanti a questa... questa istituzione.» Girò sui tacchi e si allontanò di cinque o sei passi prima di voltarsi. «Faresti meglio a consultare il tuo avvocato per queLla tua dannata miniera di carbone, anziché...» Jordan s'interruppe, inorridito dalla propria indiscrezione, e si avviò in fretta verso Market Square. Ralph strinse i denti e i suoi occhi divennero freddi come due smeraldi. Aveva ottenuto la soffiata da Jordan, e non gli era neppure costato il prezzo d'una delle ragazze di Diamond Lil. La tenda di pizzo d'una finestra del Rose Cottage si sollevò e una donna giovane e graziosa dal viso ovale e dalla morbida bocca rossa gli sorrise, scuotendo i riccioletti per invitarlo a entrare.
«Aspettami, carina» disse bruscaMente Ralph. «Resta in caldo per me. Tornerò più tardi.» Schiacciò sotto il tacco il Romeo y Julieta fumato a metà e s'incamminò a grandi passi verso l'ufficio di Aaron Fagan. *** Aaron Fagan li chiamava «il branco di lupi.» «Il signor Rhodes li tiene incatenati in canili costruiti appOsta, ma ogni tanto li lascia uscire perché non perdano il gusto della carne umana.» Non avevano un'aria molto lupesca. Erano quattro uomini vestiti sobriamente, dai trentacinque ai cinquantacinque anni. Aaron li presentò uno per uno, quindi li ripresentò collettivamente. «Questi signori sono i consulenti legali fissi della De Beers Company. E credo di poter aggiungere che rappresentano anche la British South Africa Company.» «Esattamente, signor Fagan» disse il più anziano, e i suoi colleghi sedettero lungo il lato opposto del tavolo. Ognuno si piazzò davanti una cartelletta in pelle di cinghiale e poi, come un quartetto affiatato di attori di varietà, alzarono la testa all'unisono. Soltanto allora Ralph riconobbe la luce lupina nei loro occhi. «In che cosa possiamo renderci utili?» «Il mio cliente chiede chiarimenti circa le leggi minerarie promulgate dalla BSA Company» rispose Aaron; e due ore dopo Ralph stava brancolando disperatamente in un labirinto di complicati e incomprensibili cavilli legali, mentre cercava di seguire la discussione e la sua irritazione diventava sempre più evidente. Aaron gli accennò in silenzio di pazientare, e con uno sforzo Ralph trattenne le parole irose che gli salivano alle labbra. Si rannicchiò ancora di più sulla sedia e in un gesto di sfida volutamente scortese piazzò un piede sul piano lucido del tavolo tra i documenti sparsi, accavallando l'altro sulla caviglia. Ascoltò per un'altra ora, sprofondando sempre più sulla sedia e rivolgendo smorfie ai quattro che gli stavano di fronte, fino a che Aaron Fagan chiese umilmente: «Ciò significa che secondo la vostra opinione il mio cliente non ha soddisfatto le condizioni stabilite dal paragrafo 27 B, clausola cinque, rapportate al paragrafo 7 bis?» «Ecco, signor Fagan, prima dovremmo esaminare la questione degli adempimenti dovuti, precisati nel paragrafo 31» rispose guardingo il capobranco mentre si allisciava i bafffi e lanciava un'occhiata agli assistenti che annuivano all'unisono. «Ai sensi di quel paragrafo...» Ralph era arrivato al limite della pazienza. Tolse i piedi dal tavolo e li posò a terra con un tonfo che fece sussultare i quattro seduti di fronte a lui. Uno rovesciò la cartelletta sul pavimento, e i fogli volarono come penne quando una lince rossa piomba in un pOllaio. «Può darsi che io non distingua la differenza tra gli adempimenti dovuti e l'apertura del suo deretano» annunciò Ralph con una voce che fece impallidire il capobranco. Come tutti gli uomini che vivevano di parole aveva orrore della violenza, e la sentiva nello sguardo fisso su di lui. «Però so riconoscere un vagone di letame quando lo vedo E quello che mi racconta, signore, è letame di prima scelta.» «Signor Ballantyne!» Uno degli assistenti si mostrò più audace del suo superiore. «Devo protestare per il suo linguaggio. Questa insinuazIone...» «Non è un'insinuazione.» Ralph si girò verso di lui. «Vi sto dicendo chiaro che siete un branco di banditi, non vi basta? Devo aggiungere che siete predoni e pirati?» «Signori...» L'assistente balzò in piedi, rosso per l'indignazione, e Ralph tese il braccio al di sopra del tavolo, lo afferrò per il colletto interrompendo bruscamente la protesta. «Stia zitto, brav'uomo, sto parlando io» l'ammonì. Poi continuò: «Sono stufo di trattare con i ladruncoli. Voglio parlare con il capo dei banditi. Dov'è il signor Rhodes?» In quell'istante una locomotiva fischiò nello scalo. Il suono echeggiò nel silenzio che aveva seguito la domanda di Ralph, il quale ricordò ciò che gli aveva detto Jordan a pranzo il giorno prima. Lasciò l'avvocato che si divincolava e che ricadde con un tonfo sulla sedia, ansimando per riprendere fiato. «Aaron» chiese Ralph. «Che ore sono?» «Mezzogiorno e otto minuti.» «Stava per farmela... quel furbo bastardo stava per farmela!» Ralph si precipitò fuori.
*** C'erano cinque o sei cavalli legati davanti alla sede della De Beers. Senza neppure rallentare, Ralph scelse un baio robusto e lo raggiunse. Strinse il sottopancia, slegò le redini e lo girò verso la strada. «Ehi!» gridò il portinaio. «Quello è il cavallo di Sir Randolph!». «Dica a Sir Randolph che può riprendersi la suite» gridb Ralph, e balzò in sella. Era stata un'ottima scelta. Il baio si slanciò con energia. Passarono al galoppo davanti alle costruzioni della miniera, nel varco tra le collinette formate dalle scorie, e Ralph avvistò il treno privato di Rhodes. Stava già superando gli scambi all'estremità meridionale dello scalo per procedere in aperta campagna. La locomotiva trainava quattro carrozze, e a ogni giro il vapore usciva a sbufli dalle bielle delle ruote motrici. Il segnalatore era abbassato, il disco era verde. La locomotiva stava accelerandO. «Su, da bravo.» Ralph incoraggiò il baio, lo fece deviare verso la recinzione di filo spinato a fianco del binario. Il cavallo tese le orecchie in avanTi, come per valutare l'altezza della bartiera, poi si slanciò audacemente. «Oh, bravo!» Ralph lo incitò con le mani e le ginocchia. Sorvolarono la recinzione con un buon margine e atterrarono dall'altra parte. Il terreno era piatto e privo d'alberi, e i binari facevano una curva. Ralph spinse il cavallo in modo da tagliarla e tenne gli occhi a terra, scrutando il terreno sassoso per scoprire le buche in tempo utile. Cinquecento metri più avanti il treno li stava distanziando gradualmente ma il baio continuava a correre con vigore. Poi la locomotiva affrontò la salita delle colline di Magersfontein e lO sbuffare della caldaia cambiò ritmo e rallentò. Raggiunsero il treno a quattrocento metri dalla cresta, e Ralph fece accostare il baio, si sporse dalla sella e si afferrò alla ringhiera del terrazzino dell'ultima carrozza. Con un balzo fu a bordo e si voltò a guardare. Il baio stava già brucando soddisfatto gli arbusti del Karrù, lungo il binario. «Sapevo che saresti arrivato.» Ralph si voltò di scatto. Jordan era fermo sulla soglia della carrozza. «Ti ho fatto addirittura preparare un letto in uno degli scompartimenti per gli ospiti.» «Lui dov'è?» chiese Ralph. «Ti aspetta nel salone. Ha assistito con interesse alla tua galoppata. Ho vinto una ghinea, scommettendo su di te.» Ufficialmente il treno era a disposizione di tutti i membri del consiglio d'amministrazione della De Beers, ma nessuno di loro, eccettuato il presidente, aveva l'ardire di esercitare quel diritto. L'esterno delle carrozze e la locomotiva erano verniciati di color cioccolata e d'oro. L'interno era lussuoso per quanto poteva consentirlo la disponibilità di fondi illimitati, dai tappeti Wilton ai lampadari di cristallo del salone fino al bagno con i sanitari d'onice e i rubinetti d'oro massiccio. Il signor Rhodes era stravaccato su una poltrona di pelle imbottita accanto alla grande finestra panoramica della carrozza privata. Sul ripiano di cuoio italiano a fregi d'oro dello scrittoio c'erano un mucchio di fogli di carta e un bicchiere di cristallo pieno di whisky. Aveva l'aria stanca e sofferente, e la faccia gonfia era chiazzata di viola. I baffi e i capelli ondulati erano più argentei che rossicci, ma gli occhi celesti avevano la stessa luce esaltata, la voce era alta e tagliente. «Si sieda, Ballantyne» disse. «Jordan, porti qualcosa da bere a suo fratello.» Jordan posò sul tavolo accanto a Ralph un vassoio d'argento con una bottiglia intagliata, un bicchiere di cristallo e una brocca d'acqua. Rhodes, intanto, aveva abbassato di nuovo lo sguardo sulle carte che aveva davanti. «Qual'è il capitale più prezioso di una nazione, Ballantyne?» chiese all'improvviso senza rialzare la testa. «I diamanti?» replicò ironicamente Ralph, e sentì Jordan, dietro di lui, soffocare un'esclamazione. «Gli uomini» disse Rhodes come se non l'avesse udito. «Uomini giovani e intelligenti, che durante il periodo più formativo delle loro vite hanno assimilato un disegno grandioso. Giovani come lei,
Ralph, inglesi con tutte le virtù virili.» Rhodes s'interruppe per un momento. «Nel mio testamento sto creando una serie di borse di studio. Voglio che quei giovani vengano scelti con cura e mandati all'università di Oxford.» Poi guardò Ralph per la prima volta. «Vede, è inammissibile che i pensieri più nobili di un uomo debbano finire solo perché quell'uomo muore. Costoro saranno i miei pensieri viventi. Io vivrò in eterno mediante questi giovani.» «Come li sceglierà?» chiese Ralph, affascinato nonostante tutto da quel progetto d'immortalità ideato da un gigante con il cuore malato. «Ci sto lavorando ora.» Rhodes riordinò le carte sullo scrittoio. «Conteranno i risultati letterari e scolastici, naturalmente, il successo negli sport, l'attitudine al comando.» «E dove li troverà?» Per il momento Ralph aveva accantonato la collera e la frustrazione. «Tutti in Inghilterra?» «No, no.» Rhodes scosse la testa leonina. «In ogni parte dell'Impero... Africa, Canada, Australia, Nuova Zelanda... persino in America. Tredici americani ogni anno, uno per ogni stato.» Ralph represse un sorriso. Il colosso dell'Africa, del quale Mark Twain aveva scritto: «Quando sta sulla Table Mountaih, la sua ombra tocca lo Zambesi» aveva strani vuoti di memoria. Era ancora convinto che l'America fosse formata dai tredici stati fondatori. Quelle piccole imperfezioni diedero a Ralph il coraggio di affrontarlo, di opporsi a lui. Non toccò la bottiglia di cristallo intagliato. Aveva bisogno di tutta la sua lucidità per scoprire e sfruttare ogni possibile debolezza. «E dopo gli uomini?» chiese Rhodes. «Qual è il patrimonio più prezioso di una nuova terra? Forse i diamanti come lei ha suggerito, oppure l'oro?» Scosse di nuovo la testa. «e' l'energia che fa funzionare l'e ferrovie e i macchinari delle miniere, e alimenta le fornaci: l'energia che fa girare tutte le ruote. Il carbone.» Tacquero, guardandosi. Ralph sentì tendersi tutti i muscoli del corpo, e i capelli sulla nuca gli si rizzarono per impeto atavico. Il giovane toro di fronte al capo-mandria alla prima prova di forza. «E' molto semplice, Ralph. I giacimenti di carbone del territorio di Wankie devono restare in mani responsabili.» «Le mani della British South Africa Company?» chiese Ralph, incupendosi. Rhodes non ebbe bisogno di rispondere. Continuò a guardarlo negli occhi. «E con che mezzo li prenderà?» chiese Ralph, rompendo il silenzio. «Con tutti i mezzi necessari.» «Legali o no?» «Suvvia, Ralph, sa bene che ho il potere di legalizzare tutto ciò che faccio in Rhodesia.» Non disse Matabeleland o Mashonaland, notò Ralph: Rhodesia. Il sogno megalomane era compiuto. «Naturalmente, sarà risarcito... terre, concessioni aurifere... quel che vorrà. Che cosa sceglie, Ralph?» Ralph scosse la testa. «Io voglio i giacimenti di carbone che ho scoperto e delimitato. Sono miei. E sono pronto a battermi per conservarli.» Rhodes sospirò e si pizzicò il naso. «Sta bene, allora ritiro la mia offerta di risarcimento. Mi permetta invece di farle notare alcune cose che probabilmente ignora. Ci sono due guardafili della Compagnia i quali hanno fatto una dichiarazione giurata in presenza dell'amministratore a Bulawayo, sostenendo di averla vista con i loro occhi mentre tagliava i fili del telegrafo a sud di quella città, il giorno lunedì 4, alle quattro del pomeriggio.» «Mentono» disse Ralph, e si voltò a guardare il fratello. Soltanto lui poteva aver fatto quella deduzione, soltanto lui poteva averla segnalata a Rhodes. Jordan stava seduto in Silenzio su una poltrona. Non alzò gli occhi dal blocco da stenografo che teneva sulle ginocchia; il bel viso aveva un'espressione serena. Ralph sentì il sapore amaro del tradimento, e si voltò di nuovo verso l'avversario. «Forse mentono» ammise Rhodes senza alzare la voce. «Ma sono pronti a testimoniare sotto giuramento.» «Danneggiamento doloso delle proprietà della Compagnia.» Ralph inarcò un sopracciglio. «E' diventato un reato capitale?» «Non ha ancora capito, vero? Un contratto concluso in seguito a un atto di malafede può essere annullato da un tribunale. Se Roelof Zeederberg potesse provare che, quando avete firmato quell'accordo, lei era informato della rinderpest che stava
devastando la Rhodesia, e che aveva commesso un reato per nasconderglielo...» Rhodes non finì. Sospirò di nuovo e si massaggiò il mento. La stoppia argentea strusciò contro il pollice. «Il giorno 4 suo padre, il maggiore Zouga Ballantyne, ha venduto cinquemila capi di bestiame da allevamento ai Gwaai Cattle Ranches, una delle mie società. Tre giorni dopo, metà degli animali sono morti di rinderpest, e gli altri verranno abbattuti secondo le misure preventive della Compagnia. I fratelli Zeederberg hanno già perduto il sessanta per cento dei buoi che gli ha venduto, e hanno duecento carri con i relativi carichi bloccati sulla strada per il nord. Non capisce, Ralph? Il suo contratto di vendita e quello di suo padre potrebbero essere annullati. Entrambi potreste essere costretti a restituire le somme incassate e a riprendervi migliaia di animali morti o moribondi.» La faccia di Ralph era impassibile, ma la pelle era ingiallita come dopo cinque giorni di febbre. Con un movimento nervoso riempì a metà il bicchiere di whisky e ne ingollò una boccata che gli parve polvere di vetro. Rhodes lasciò che l'argomento della rinderpest restasse tra loro come una vipera acciambellata e cambiò apparentemente discorso. «Mi auguro che i miei consulenti legali abbiano seguito le istruzioni e l'abbiano infotmata delle leggi minerarie adottate per i territori della Concessione. Abbiamo deciso di applicare la legge americana, anziché quella del Transvaal.» Rhodes bevve un sorso e rigirò il bicchiere tra le dita. La sua base aveva lasciato un cerchio bagnato sul prezioso cuoio italiano. «Le leggi americane hanno caratteristiche particolari. Dubito che abbia avuto la possibilità di studiarle tutte, perciò mi prendo la libertà di indicargliene una. Ai sensi del paragrafo 23, ogni concessione mineraria picchettata tra il tramonto di un giorno e il levar del sole del giorno successivo non è valida, e il relativo titolo di proprietà può essere dichiarato nullo per ordine del commissario competente. Lo sapeva?» Ralph annuì. «Me l'hanno detto.» «In questo momento, sulla scrivania dell'amministratore c'è una dichiarazione giurata resa in presenza d'un giudice di pace da un certo Jan Cheroot, un ottentotto al servizio del maggiore Zouga Ballantyne. Sostiene che alcune delle concessioni registrate dalla Rhodesian Land and Mining Company della quale lei è il principale azionista, concessioni conosciute come Miniera Harkness, sono state picchettate durante la notte, e qùindi possono essere dichiarate nulle.» Ralph trasalì. Il bicchiere urtò contro il vassoio d'argento e il whisky traboccò dall'orlo. «Prima che lei se la prenda con quel povero ottentotto» continuò Rhodes, «le preciso che era convinto di agire nell'interesse suo e di suo padre quando ha fatto la dichiarazione giurata.» Questa volta il silenzio si prolungò per molti minuti mentre Rhodes guardava dalla finestra gli spazi brulli e calcinati dal sole del Karrù sotto il cielo d'un azzurro lattiginoso. Poi Rhodes riprese a parlare all'improvviso. «So che si è già impegnato ad acquistare macchinari per la Miniera Harkness e che ha firmato garanzie personali per più di trentamila sterline. La scelta che le si pone è molto semplice. Rinunci a ogni pretesa sui giacimenti di carbone del territorio di wankie; altrimenti perderà non soltanto quelli, ma anche il contratto con gli Zeederberg e le concessioni della Harkness. Può rinunciare finché è ancora ricco, oppure...» Ralph attese in silenzio per un tempo corrispondente a dieci battiti del suo cuore martellante, poi chiese: «Oppure...?» «Oppure l'annienterò completamente» disse Rhodes, sostenendo con calma lo sguardo d'odio feroce dell'interlocutore. Ormai era abituato all'adulazione come all'odio, e l'una e l'altro non contavano nulla se rapportati al grande disegno del suo destino. Tuttavia poteva permettersi una piccola concessione. «Deve capire che in questo non c'è nulla di personale, Ralph» disse. «Non provo altro che ammirazione per il suo coraggio e la sua teNacia. Come ho detto prima, è nei giovani come lei che ripongo le mie speranze per il futuro. No, Ralph, non è una questione personale. Ma non posso permettere che niente e nessuno si pari sulla mia strada. So cos'è necessario fare, e per farlo mi rimane ben poco tempo.» Ralph fu assalito dall'impulso di uccidere, una rabbia empia e tenebrosa. Immaginava le proprie dita affondate in quella gola gonfia, sentiva i pollici premuti sulla laringe dalla quale usciva la voce stridula e crudele. Chiuse gli occhi e lottò con la furia.
La scagliò lontana come un uomo getta via un mantello fradicio quando rientra in casa dopo un temporale; riaprì gli occhi ed ebbe la sensazione che tutta la sua vita fosse cambiata. Era gelidamente calmo: il tremito aveva abbandonato le sue dita, la voce era ferma. «Capisco» disse annuendo. «Al suo posto farei probabilmente la stessa cosa. Chiederemo a Jordan di preparare il contratto con cui cedo alla BSA Company ogni diritto che io e i miei soci possiamo vantare sui giacimenti carboniferi nel territorio di Wankie, e in cambio la BSA Company conferma irrevocabilmente i miei diritti sulle concessioni conosciute come Miniera Harkness.» Rhodes chinò la testa in atto di approvazione. «Lei andrà lontano, giovanotto. E' un lottatore.» Poi alzò gli occhi verso Jordan. «Provveda!» disse. *** La locomotiva avanzava rombando nella notte e, nonostante le tonnellate di piombo che erano state sistemate sugli assi per rendere più comodo il viaggio al signor Rhodes, le carrozze sobbalzavano ritmicamente e i binari sferragliavano sotto le ruote d'acciaio. Ralph era seduto accanto al finestrino della sua cabina. La trapunta di piumino era scostata sul grande letto dietro le tende di velluto verde, ma il letto non lo attirava. Era ancora completamente vestito sebbene l'orologio di bronzo dorato sul comodino segnasse le tre. Era ubriaco e tuttavia innaturalmente lucido, come se la rabbia avesse bruciato l'alcol con la stessa rapidità con cui l'ingurgitava. Ralph continuava a guardare dal finestrino. La luna piena dominava le forme bizzarre dei kopje violacei all'orizzonte, e ogni tanto il ritmo delle ruote diventava quello di un gong sonante quando atttaversavano un altro basso ponte d'acciaio sopra il letto d'un fiume in secca dove la sabbia candida brillava come argento fuso. Ralph aveva cenato alla tavola di Rhodes e aveva ascoltato la voce alta e stridente che esponeva una successione di idee strane e grandiose, inframmezzate da inattese verità sconcertanti e da logori luoghi comuni. L'unica ragione per cui Ralph era riuscito a dominare i propri sentimenti, a mantenere un'espressione di urbanità e persino a sorridere delle sortite di Rhodes era la certezza di aver scoperto un'altra delle debolezze dell'avversario. Rhodes viveva a un livello tanto al di sopra degli altri uomini, era così protetto dalle immense ricchezze e accecato dalle sue visioni che non sembrava neppure rendersi conto d'essersi fatto un nemico mortale. Se mai pensava ai sentimenti di Ralph, era convinto che avesse già dato per scontata la perdita dei giacimenti di carbOne del territorio di Wankie e l'aveva accettata filosoficamente e impersonalmente come aveva fatto lui stesso. Ma, nonostante tutto, i piatti raffinati e i vini nobili erano per Ralph insapori come segatura, e li aveva trangugiati con difficoltà provando un guizzo di sollievo quando finalmente Rhodes aveva concluso la serata con il solito fare brusco, scostando la sedia e alzandosi in piedi. Solo allora aveva indugiato un mOmento per scrutare la faccia di Ralph. «Io misuro sempre un uomo secondo lo stile con cui fronteggia l'avversario» aveva detto. «Ce la farà, giovane Ballantyne.» In quel momento Ralph, ancora una volta, era stato sul punto di perdere il controllo; ma poi Rhodes era uscito dal salone con la sua andatura da orso, lasciando i due fratelli seduti a tavola. «Mi dispiace, Ralph» aveva detto semplicemente Jordan. «Avevo cercato di metterti in guardia. Non dovevi sfidarlo. Non dovevi costringermi a scegliere fra te e lui. Ho messo una bottiglia di whisky nella tua cabina. Domattina arriveremo al villaggio di Matjiesfontein. C'è un ottimo albergo di propriEtà d'un certo Logan. Potrai aspettare lì il treno per il nord per tornare a Kimberley. Passerà domani sera.» Adesso la bottiglia di whisky era vuota. Ralph la guardò sbalordito. Avrebbe dovuto essere in uno stato comatoso, dopo tutto quel che aveva bevuto. Solo quando tentò di alzarsi le gambe lo tradirono. Cadde contro il lavamano. Riprese l'equilibrio e si guardò allo specchio.
Non era la faccia di un ubriaco. La mascella era solida, la bocca salda, gli occhi scuri e pieni di collera. Si scostò dallo specchio, lanciò un'occhiata al letto e si rese conto che non sarebbe riuscito a dormire sebbene fosse quasi completamente esausto per la rabbia e l'odio. Adesso, all'improvviso, voleva la pace di un breve oblio, e sapeva dove trovarla. In fondo al salone, dietro gli alti sportelli intarsiati, c'era un assortimento di bottiglie, i liquori più rinomati ed esotici venuti da ogni terra civile... e là poteva trovare l'oblio che cercava. Ralph attraversò la cabina, aprì a tentoni la porta e uscì. La fredda aria notturna del Karrù gli agitò i capelli. Rabbrividì per un momento e si avviò a passo incerto lungo lo stretto corridoio che portava al salone. Urtò prima con una spalla e poi con l'altra contro le lucide paratie di teak e imprecò contro la propria goffaggine. Attraversò il passaggio aperto tra le carrozze, aggrappandosi alla ringhiera per sostenersi, ansioso di ripararsi dal vento. Quando entrò nel corridoio della seconda carrozza una delle porte scorrevoli si aprì, più avanti, e un fascio di luce gialla delineò una figura snella ed elegante. Jordan non l'aveva visto. Si soffermò sulla soglia e si voltò a guardare nella cabina. La sua espressione era tenera e affettuosa come quella di una madre che lascia il figlioletto addormentato. Con estrema attenzione richiuse la porta scorrevole in modo da non far rumore. Si voltò e si trovò a faccia a faccia con il fratello. Come Ralph, anche Jordan era senza giacca, ma aveva la camicia sbottonata fino alla fibbia argentea dei calzoni; i polsini non erano allacciati, come se si fosse rivestito in fretta, e i piedi erano scalzi, bianchi e ben modellati sui toni scuri della passatoia. Ralph non si sorprese. Si aspettava che, come lui, Jordan avesse fame o sete. Era troppo confuso per pensarci troppo, e stava per invitare il fratello ad accompagnarlo in cerca di un'altra bottiglia quando vide l'espressione sul volto di Jordan. Istantaneamente ebbe la sensazione di tornare indietro di quindici anni, nel bungalow dal tetto di paglia nel campo di suo padre, accanto all'immenso imbuto della miniera di Kimberley dove lui e Jordan avevano trascorso gran parte della prima giovinezza. Una notte, tanto tempo prima, Ralph aveva sorPreso il fratello in un atto infantile di onanismo e aveva visto sul bel volto la stessa espressione di colpa e di timore. Anche questa volta Jordan era come paralizzato, pallido e irrigidito, e fissava Ralph con occhi sgranati e atterriti, una mano alzata come per ripararsi la gola. E di colpo Ralph comprese. Indietreggiò inorridito e urtò contro la porta chiusa del terrazzino. Vi restò appoggiato con la schiena, incapace di parlare per un numero infinito di secondi mentre continuavano a fissarsi. Quando finalmente Ralph ritrovò la voce, era affannosa come dopo una lunga corsa. «Per Dio, adesso capisco perché non vai a puttane. Sei una di loro.» Si voltò, spalancò la porta e si precipitò fuori sul terrazzino. Si guardò intorno disperatamente come un animale in trappola e vide gli spazi puliti del veld, inondati dal chiaro di luna. Aprì con un calcio il cancelletto del terrazzino, scese gli scalini e si lasciò cadere nella notte. Urtò il suolo con una violenza schiacciante, rotolò giù per la breve scarpata e si fermò, bocconi, tra i cespugli irti lungo il binario. Quando alzò la testa i fanalini rossi di coda del treno stavano scomparendo a sud e il suono delle ruote era già smorzato dalla distanza. Ralph si rialzò e si avviò zoppicando e barcollando nel veld. A poco meno di un chilometro dai binari si lasciò cadere di nuovo in ginocchio e vomitò whisky e disgusto, squassato dalla nausea. L'aurora era un'ultraterrena ondata arancione dietro il netto profilo nero delle colline dalla cima piatta. Ralph levò il viso in quella direzione e parlò a voce alta. «Giuro che gliela farò pagare. Giuro che annienterò quel mostro o annienterò me stesso nel tentativo di farlo.» In quel momento l'orlo del sole spuntò dalle colline e lanciò un bronzeo dardo di luce sul volto di Ralph, come se un dio in ascolto avesse suggellato il patto con la fiamma. ***
«In questo punto mio padre uccise un elefante enorme. Le zanne sono sulla veranda di King's Linn» disse Ralph a voce bassa. «Anch'io, qui, ho abbattuto un magnifico leone. Sembra strano pensare che in questo luogo non accadranno più cose simili.» Accanto a lui Harry Mellow si rialzò dal teodolite. Per un momento assunse un'espressione solenne. «Siamo venuti per vincere i territori selvaggi» disse. «PreStO Ci sarà una ciminiera che arriverà fino al cielo; e se il filone dell'Harkness manterrà le promesse, un giorno sorgerà una città con scuole e chiese, centinaia e forse migliaia di famiglie. Non è ciò che vogliamo?» Ralph scosse la testa. «Se non lo volessi mi starei rammollendo. Ma sembra strano, ecco tutto, quando guardi com'è adesso.» Le valli basse erano ancora invase dalla soffice erba rosata, gli alberi svettavano sui dossi con i tronchi inargentati dal sole. Ma proprio mentre li stavano guardando, uno di quegli alberi fremette contro lo sfondo del cielo e crollò con uno schianto lacerante. I boscaioli matabele sciamarono sul gigante abbattuto per tranciare i rami; ancora per un momento l'ombra del rimpianto aleggiò negli occhi di Ralph. Poi si voltò. «Hai scelto un posto adatto» disse, e Harry seguì la direzione del suo sguardo. «Knobs Hill» disse ridendo. La casupola di paglia intonacata era rivolta dalla parte opposta del complesso dove alloggiavano gli operai negri: offriva invece una splendida veduta della foresta fino al punto dove la scarpata meridionale digradava verso infinite lontananze azzurre. Una minuscola figura femminile uscì dalla casupola: il grembiule era una gaia chiazza di giallo-tulipano sullo sfondo della terra rossa che Vicky sperava di poter trasformare un giorno in un giardino. Vide i due uomini, più in basso, e agitò una mano in segno di saluto. «Per Dio, quella ragazza ha fatto miracoli.» Hàrry sventolò il cappello per rispondere, con aria di affettuosa beatitudine. «Niente la spaventa.. neppure il cobra nel gabinetto, questa mattina... gli ha sparato, ecco tutto. Naturalmente, adesso dovrò riparare il sedile.» «E' abituata a questa vita» osservò Ralph. «Se la portassi in città, probabilmente dopo dieci minuti si metterebbe a piangere.» «La mia ragazza non è il tipo» dichiarò Harry in tono d'orgoglio. «D'accordo, hai fatto un'ottima scelta» ammise Ralph. «Ma è cattivo gusto vantarsi della propria moglie.» «Cattivo gusto?» Harry scosse la testa, meravigliato. «Ah, voi inglesi!» E accostò di nuovo l'occhio alla lente del teodolite. «Lascia quel dannato aggeggio per un minuto.» Ralph gli batté la mano sulla spalla. «Non ho cavalcato per cinquecento chilometri al solo scopo di guardare il tuo didietro.» «D'accordo.» Harry si raddrizzò. «Lascerò perdere il lavoro. Di cosa vuoi parlare?» «Mostrami come hai scelto l'ubicazione del pozzo numero uno» chiese Ralph, e discesero nella valle mentre Harry indicava i fattori che gli avevano suggerito la scelta. «I vecchi scavi sono inclinati a poco più di quaranta gradi, e abbiamo tre strati di scisti sovrapposti. Ora, io ho prolungato la linea del vecchio filone, e abbiamo fatto le perforazioni qui...» Le perforazioni esplorative erano stretti pozzi verticali, sotto le travature di legno grezzo, sgranati in linea retta lungo il pendio della collina. «In cinque perforazioni siamo scesi a trenta metri, attraverso i livelli friabili, e abbiamo ritrovato lo strato superiore di scisto...» «Non sarà lo scisto a farci arricchire.» «No, ma sotto c'è ancora il filone.» «Come fai a saperlo?» «Mi hai ingaggiato per il mio fiuto.» Harry rise. «Sento l'odore.» E condusse Ralph più avanti. «Quindi, come vedi, questa è l'unica posizione logica per il pozzo principale. Ho calcolato che incontreremo di nuovo il filone a una profondità di un centinaio di metri, e quando lo raggiungeremo potremo cominciare a sfruttarlo.» Una squadra di negri stava ripulendo l'area intorno al filone, e Ralph riconobbe subito il più alto. «Bazo» esclamò, e l'induna si raddrizzò, appoggiandosi al manico del piccone. «Henshaw» disse in tono solenne. «Sei venuto a vedere al lavoro gli uomini veri.» I muscoli duri di Bazo erano lucidi come antracite bagnata, e il sudore vi lasciava tracce serpeggianti.
«Uomini veri?» chiese Ralph. «Me ne avevi promessi duecento e ne hai portati venti.» «Gli altri aspettano» gli assicurò Bazo. «Ma non verranno se non potranNo condurre con loro le donne. Unico Occhio vuole che le donne restino nei villaggi.» «Possono portare tutte le donne che vogliono. Parlerò io a Unico Occhio. Vai da loro. Scegli i più forti e i migliori. Portami i tuoi vecchi compagni dell'impi delle Talpe, e digli che li pagherò bene e li nutrirò meglio, e che possono portare le loro donne e generare figli robusti che lavoreranno nelle mie miniere.» «Partirò domattina» decise Bazo. «E tornerò prima che la luna mostri di nuovo le corna.» Quando i due uomini bianchi passarono oltre, Bazo li seguì per un po' con lo sguardo. La faccia era inespressiva, gli occhi inscrutabili. Poi rivolse un cenno ai compagni. Quelli si sputarono sulle mani, brandirono i picconi, e Bazo intonò il ritornello iniziale del canto del lavoro: «Ubunyonyo bu ginye entudhla. Le piccole formiche nere possono divorare la giraffa.» Bazo aveva composto quel verso accanto alla carcassa d'una giraffa uccisa dalla rinderpest e lasciata intatta dai sazi divoratori di carogne del veld, finché una colonia di formiche nere l'avevano spolpata fino alle ossa. Bazo non aveva dimenticato il significato di quel fatto: con la perseveranza anche i più grandi possono essere annientati. E il verso apparentemente innocuo e sconclusionato adesso preparava in modo insidioso le menti degli amadoda che lavoravano ai suoi ordini. All'invocazione, levarono in alto i picconi stando a spalla a spalla, e gli attrezzi modellati come mezzelune si profilarono contro l'azzurro piatto del cielo. «Guga mzimba!» risposero in coro. «Sala nhliziyo. Anche se i nostri corpi sono esausti, i nostri cuori sono saldi.» E poi gridarono insieme «Jee!» mentre i picconi si avventavano verso il basso all'unisono e affondavano con un tonfo nella terra dura come il ferro. Ognuno degli uomini liberò la punta del piccone, avanzò di un passo e si puntellò per vibrare un altro colpo mentre Bazo cantava: «Le piccole formiche nere possono divorare la giraffa.» Ancora una volta l'atto si ripeté, e ancora, ancora per cento volte, mentre il sudore sprizzava dai loro corpi e la polvere rossa volava tutt'intorno. Bazo procedeva con un passo ingannevolmente agile che non variava mai, sebbene le colline fossero scoscese e le valli dirupate. Il suo spirito era colmo di gioia; non aveva compreso veramente fino a che punto l'avessero amareggiato le fatiche di quelle ultime settimane fino a che non erano cessate. Molto tempo prima aveva lavorato con piccone e badile nella gialla miniera di diamanti a Kimberley. Allora Henshaw era il suo compagno, e insieme avevano trasformato in un gioco la fatica brutale e interminabile. Questa aveva potenziato i loro muscoli e li aveva resi forti, ma aveva ingabbiato e limitato i loro spiriti fino a quando non avevano più resistito ed erano fuggiti insieme. Da quei tempi lontani Bazo aveva conosciuto la gioia selvaggia e la pazzia divina di quel momento terribile che i matabele chiamano «l'avvicinamento al nemico.» Aveva combattuto i nemici del re e li aveva uccisi alla luce del sole, nello sventolio dei pennacchi reggimentali. Aveva conquistato onori e il rispetto dei suoi pari. Aveva partecipato al consiglio del re con l'anello degli induna sulla fronte, ed era giunto sulla riva del fiume nero e aveva guardato oltre, nella terra proibita che gli uomini chiamano morte; e aveva appreso una verità nuova. Per un uomo era più doloroso arretrare che andare avanti. La mOnotonia faticosa del lavoro manuale bruciava ancora di più, adesso, nel raffronto con le glorie che l'avevano preceduto. Il sentiero scendeva ripido verso il fiume e scompariva nella FOLta vegetazione verde-scura come un serpente nella tana. Bazo lo seguì, si chinò per addentrarsi nella galleria semibuia, e al l'improvviso si arrestò. D'istinto, la sua destra cercò l'assegai che non c'era, sotto l'impugnatura del lungo scudo altrettanto inesistente... le vecchie abitudini sono dure a morire. Lo scudo era stato bruciato molto tempo prima sui falò, con diecimila altri scudi, e la lama dell'assegai era stata spezzata in due sulle incudini dei fabbri della BSA Company. Poi vide che non era un nemico chi gli veniva incontro lungo lo stretto tunnel della vegetazione rivierasca, e il cuore gli balzò quasi dolorosamente contro le costole. «Ti vedo, signore» lo salutò Tanase a voce bassa.
Era snella e diritta come la fanciulla che aveva catturato nella roccaforte di Pemba lo stregone, e aveva le stesse gambe lunghe e aggraziate e la vita sottile, e lo stesso collo d'airone, come lo stelo di un bellissimo GiGlio nero. «Perché sei così lontana dal villaggio?» chiese Bazo mentre lei s'inginocchiava doverosamente e batteva le mani all'altezza della vita. «Ti ho visto sulla strada, Bazo, figlio di Gandank.» E Bazo aprì la bocca per chiedere spiegazioni, perché era venuta così rapidamente; ma cambiò idea quando sentì un piccolo formicolio superstizioso sulla nuca, come mille zampe d'insetti. A volte c'erano ancora in quella donna molte cose che gli ispiravano inquietudine, perché non aveva perduto tutti i poteri occulti nella grotta dell'Umlimo. «Ti vedo, signore» ripeté Tanase, «e il mio corpo chiama il tuo come un infante affamato appena desto cerca la mammella.» Bazo la sollevò e le prese il volto tra le mani per osservarlo come se avesse colto nella foresta un fiore raro e prezioso. Aveva impiegato molto tempo per abituarsi al modo in cui gli parlava dei desideri segreti dei loro corpi. Gli era stato insegnato che era indecoroso per una moglie matabele mostrar piacere nell'atto della generazione, e parlarne come ne parla un uomo: avrebbe dovuto essere semplicemente il docile, sottomesso recipiente del seme del marito, pronta quando lui era pronto, discreta e invisibile quando lui non lo era. Tanase non era così. All'inizio lo aveva scandalizzato e inorridito con alcune delle cose che aveva imparato nel suo apprendistato dei misteri tenebrosi. Ma poi l'orrore s'era trasformato in incanto via via che Tanase gli aveva rivelato le sue abilità. Conosceva pozioni e profumi che potevano eccitare un uomo anche quando era esausto e ferito dopo una battaglia, conosceva trucchi della voce e degli occhi che colpivano come frecce. Le sue dita sapevano trovare infallibilmente i punti sotto la pelle di cui lo stesso Bazo era ignaro; e li sfruttava come se suonasse i tasti della marimba, rendendolo più uomo di quanto avesse mai ritenuto possibile. Sapeva usare il proprio corpo più abilmente di quanto Bazo sapesse impugnare lo scudo e l'assegai, e se ne serviva per infliggere colpi altrettanto decisivi. Sapeva far muovere e contrarre ogni muscolo del proprio corpo in completa indipendenza dai muscoli circostanti. A suo capriccio, poteva portarlo a una soddisfazione precipitosa, o trattenerlo librato in alto come il falco quando va In caccia spjegando le ali possenti. «Siamo stati lontani tanto a lungo» mormorò Tanase con quella combinazione del tono di voce e dell'espressione dei grandi occhi egizi che gli mozzava il fiato e gli faceva battere il cuore. «Ti sono venuta incontro da sola perché potessimo essere liberi per un po' dalla chiassosa adorazione di tuo figlio e dagli sguardi degli abitanti del villaggio.» Lo condusse lontano dal sentiero e si slacciò il manto di pelle per stenderlo sul soffice letto di foglie cadute. Molto tempo dopo che la tempesta era passata e che la tensione smaniosa aveva abbandonato il corpo di Bazo, quando il suo respiro era ridiventato profondo e regolare e le sue palpebre s'erano abbassate nella beata inerzia che segue l'atto d'amore, Tanase si sollevò su un gomito e con una sorta di stupore reverenziale gli passò la punta dell'indice sul volto e disse sottovoce: «Bayete!» Era il saluto riservato soltanto a un re; e Bazo si agitò a disagio e spalancò gli occhi. La guardò, e riconobbe la sua espressione. L'amore non l'aveva addolcita, non le aveva dato sonnolenza. Il saluto reale non era scherzoso. «Bayete!» ripeté Tanase. «Il suono ti turba, mia splendida scure dalla lama affilata. Ma perché è così?» All'improvviso Bazo sentì gli insetti della paura e della superstizione formicolargli di nuovo sulla pelle, e s'incollerì e spaventò. «Non parlare così, donna. Non offendere gli spiriti con le tue chiacchiere insensate.» Tanase sorrise, ma era un sorriso crudele e felino. «Oh, Bazo, tu che sei il più coraggioso e il più forte, perché trasalisci così alle mie parole infantili? Tu, che hai nelle vene il sangue più puro degli zanzi; figlio di Gandank figlio di Mzilikazi, sogni per caso la piccola lancia di mogano che Lobengula stringeva nella mano? Figlio di Juba, il cui bisnonno era il potente Disniwayo, ancora più nobile del suo protetto Chaka che divenne re degli zulu, non senti il sangue reale scorrerti nelle vene e farti desiderare cose di cui non ardisci neppure
parlare a voce alta?» «Sei pazza, donna. Le api del mopani ti sono entrate nella testa e ti hanno fatta impazzire.» Ma Tanase sorrise, con le labbra accostate al suo orecchio, e gli toccò le palpebre con il morbido polpastrello roseo. «Non senti le vedove dello Shangani e del Bembesi gridare a gran voce: "Nostro padre Lobengula non c'è più, siamo orfane e nessuno ci protegge?" Non vedi gli uomini del Matabeleland che, con le mani vuote, implorano gli spiriti? "Dateci un re", gridano. "Dobbiamo avere un re."» «Babiaan» mormorò Bazo. «Somabula e Gandank. Sono i fratelli di Lobengula.» «Sono vecchi, e la pietra è caduta dai loro ventri, il fuoco è scomparso dai loro occhi.» «Tanase, non parlare così.» «Bazo, marito mio, mio re, non vedi verso chi si volgono gli occhi di tutti gli induna quando la nazione è in consiglio?» «E' una follia.» Bazo scosse la testa. «Non sai da chi attendono ora la parola, non vedi che persino Babiaan e Somabula ascoltano quando Bazo parla?» Tanase gli posò la mano sulla bocca per reprimere le sue proteste; poi, con un movimento rapido lo montò e l'inforcò di nuovo, e miracolosamente Bazo fu pronto e più che pronto per lei, e Tanase gridò: «Bayete, figlio di re! Bayete, padre di re! Il tuo seme regnerà quando gli uomini bianchi saranno stati inghiottiti di nuovo dall'oceano che li ha vomitati.» E con un grido tremulo Bazo ebbe la sensazione che lei gli avesse tratto dalle viscere la forza vitale e vi avesse lasciato una smania spaventosa e ossessiva, un fuoco nel sangue, che non si sarebbe placato se non quando avesse stretto nel pugno la piccola lancia di mogano che era il simbolo del monarca degli nguni. *** Si avviarono a fianco a fianco tenendosi per mano, ed era una cosa bizzarra, perché una moglie matabele cammina sempre dietro al marito, con la stuoia arrotolata in bilico sulla testa. Ma erano come bambini smarriti in un sogno delirante, e quando raggiunsero la cresta del valico Bazo la prese tra le braccia e la strinse al petto con uno slancio che non aveva mai provato. «Se io sono l'Ascia, tu sei il filo tagliente, perché sei una parte di me, ma la parte più affilata.» «Insieme, signore, abbatteremo tutto ciò che ostacola il nostro cammino» rispose Tanase, e poi si sciolse dal cerchio delle sue braccia e sollevò la falda della borsa ricamata di perline che portava alla cintura. «Ho un dono che renderà ancora più coraggioso il tuo cuore, e la tua volontà salda come l'acciaio.» Tanase tolse dalla borsa un oggetto morbido e grigio, si alzò in punta di piedi e gli allacciò intorno alla fronte la fascia di pelliccia. «Porta questa pelle di talpa per la gloria che fu e che sarà di nuovo, induna delle Talpe-che-scavanosotto-la-montagna. Un giorno, molto presto, la sostituiremo con una fascia di pelle dorata e maculata di leopardo, con le piume reali dell'airone azzurro.» Gli prese la mano e incominciarono a scendere dalla collina; ma non avevano ancora raggiunto la pianura erbosa quando Bazo si fermò di nuovo e inclinò la testa per ascoltare. La brezza leggera e secca portava un debole suono schioccante, simile alle bolle che scoppiano in una pentola di porridge. «Fucili» disse. «Ancora lontani. Ma sono molti.» «E' così, signore» rispose Tanase. «Da quando te ne sei andato, i fucili dei kanka di Unico Occhio sono indaffarati come le lingue delle vecchie dopo una bevuta di birra.» *** «C'è una pestilenza terribile che infuria in questa terra.» Il generale Mungo St John aveva scelto un formicaio come podio per rivolgersi agli ascoltatori. «Si attacca da un animale all'altro, come il fuoco passa d'albero in albero. Se non riusciremo a contenerla, tutto il bestiame morirà.» Ai piedi del formicaio il sergente Ezra traduceva a gran voce, mentre gli uomini della tribù stavano accosciati in silenzio davanti a loro. Erano quasi duemila, abitanti dei villaggi costruiti sulle rive del fiume Inyati per rimpiazzare i kraal reggimentali degli impi di Lobengula. Gli uomini erano nelle prime file e ascoltavano con facce inespressive e occhi attenti; dietro di loro stavano i giovani e i ragazzi non ancora ammessi nei ranghi dei guerrieri. Erano i mujiba, i
mandriani la cui vita era strettamente legata alle bestie della tribù. Quell'indaba li riguardava non meno degli anziani. Le donne non erano presenti, perché si trattava di bestiame, della ricchezza della nazione. «E' un grave peccato nascondere il bestiame come avete fatto voi, portarlo tra le colline e nella foresta. Quegli animali portano con loro i semi della pestilenza» spiegò Mungo St John, e attese che il sergente traducesse, prima di continuare. «Io e Lodzi siamo sdegnati di questi inganni. Ci saranno multe pesanti per i villaggi che nascondono il bestiame, e come ulteriore punizione raddoppierò le quote del lavoro per gli uomini: dovrete lavorare come amaholi, come schiavi, se cercherete di sfidare la parola di Lodzi.» Mungo St John s'interruppe di nuovo e sollevò la toppa nera per asciugare il sudore che colava da sotto il cappello a làrghe tese. Le grandi, lucenti mosche verdi brulicavano, attratte dalle mandrie che muggivano nel kraal, e c'era un lezzo di letame e di corpi umani sudici. Mungo s'impazientiva all'idea di dover tentare di spiegare le sue azioni a quella folla silenziosa di selvaggi seminudi, perché aveva già ripetuto gli stessi avvertimenti ad altri trenta indaba nel Matabeleland. Il sergente finì di tradurre e alzò la testa a guardarlo con aria d attesa. Mungo St John indicò la massa del bestiame custodito nel kraal dietro di lui. «Come avete visto, è inutile cercare di nascondere le mandrie. La polizia indigena le ritrova.» Mungo s'interruppe ancora e aggrottò la fronte, irritato. Nella seconda fila, un matabele s'era alzato e lo fissava in silenzio. Era alto e muscoloso, ma aveva un braccio deforme, distorto alla spalla. Il suo corpo era quello di un uomo nel pieno delle forze, la faccia era erosa e devastata dall'angoscia o dal dolore, invecchiata anzitempo. Sulla calotta di capelli crespi aveva l'anello degli induna, e intorno alla fronte una fascia di pelliccia grigia. «Baba, padre mio» disse l'induna, «noi udiamo le tue parole, ma come bambini non le comprendiamo.» «Chi è quell'individuo?» chiese Mungo al sergente Ezra; poi annuì alla risposta. «Ne ho sentito parlare. E' un arruffapopolo.» Si rivolse a Bazo e alzò la voce: «Cosa c'è di strano in ciò che ho detto? Che cosa non capite?» «Tu dici, Baba, che la pestilenza uccide il bestiame... e quindi, prima che sia la pestilenza a farlo, voi gli sparate. Tu dici, Baba, che per salvare il nostro bestiame dovete ucciderlo.» Per la prima volta i matabele si scossero. Sebbene le loro espressioni restassero impassibili, qui un uomo tossì, là un altro strusciò i piedi nudi nella polvere, un altro ancora scacciò le mosche. Nessuno rideva, nessuno sorrideva o parlava beffardamente, ma in loro c'era il sarcasmo, e Mungo St John lo percepiva. Dietro quelle nere maschere africane, seguivano divertiti le domande fintamente umili del giovane induna dalla faccia di vecchio. «Noi non comprendiamo una saggezza così profonda, Baba perciò sii paziente con i tuoi figli e spiega. Tu dici che se cercheremo di nascondere il nostro bestiame, ce lo confischerete per pagare le pesanti multe imposte da Lodzi.»: nello stesso tempo dici, Baba, che se saremo figli obbedienti e ti consegneremo il bestiame, lo abbatterete e lo brucerete.» Tra le file dei presenti un vecchio fiutò il tabacco e sternutì rumorosamente, e subito vi fu un'epidemia di sternuti e di colpi di tosse. Mungo St John comprese che stavano incoraggiando il giovane induna nella sua subdola impudenza. «Baba, padre gentile, ci avverti che raddoppierai le nostre quote di lavoro e che saremo come schiavi. E' un'altra cosa che non comprendiamo: un uomo che lavora un giorno agli ordini di un altro è meno schiavo di quello che lavora due giorni? Uno schiavo non è uno schiavo... e un uomo libero non è veramente libero? Baba, spiegaci i gradi diversi della schiavitù.» Adesso c'era un brusio sommesso, come il suono di un alveare a mezzogiorno, e, sebbene le labbra dei matabele schierati di fronte a Mungo St John non si muovessero, vedeva le loro gole vibrare leggermente. Stavano incominciando il mormorio del preludio, che sarebbe stato seguito dallo squillante «Jee! Jee!», del canto. «Io ti conosco, Bazo» gridò Mungo St John. «Ti ascolto e non dimentico le tùe parole. Stai certo che le udrà anche Lodzi.» «Sono onorato, piccolo padre, che le mie umili parole vengano portate
al grande padre bianco Lodzi.» Questa volta c'erano sogghigni furbi e maliziosi sulle facce degli uomini intorno a Bazo. «Sergente» gridò Mungo St John, «portami quell'uomo!» Il sergente, con il distintivo che gli luccicava sul braccio, si fece avanti; ma nello stesso momento le file silenziose dei matabele si alzarono e si chiusero. Nessuno levò una mano, ma lo slancio del sergente fu soffocato: si trovò impegolato nella folla come nelle sabbie mobili, e quando arrivò nel punto dove prima si trovava Bazo, l'induna non c'era più. «Sta bene.» Mungo St John annuì cupamente, quando il sergente tornò da lui. «Lascialo andare. Possiamo attendere, ma adesso abbiamo un lavoro da compiere. Metti i tuoi uomini in posizione.» Dodici poliziotti negri armati avanzarono al trotto e si allinearono di fronte alla folla, imbracciando i fucili. Gli altri salirono sul recinto del kraal e, a un comando, caricarono i Winchester a ripetizione. «Incominciamo.» Mungo fece un cenno, e tuonò la prima scarica. I poliziotti negri sparavano dall'alto nella massa brulicante delle bestie nel kraal, e a ogni colpo un bovino alzava di scatto la testa cornuta, stramazzava e veniva nascosto subito dagli altri. L'odore del sangue fresco faceva impazzire la mandria che si avventava contro la barriera spinosa. I muggiti erano assordanti e dalle file dei matabele si levava un ululato lugubre. Quegli animali erano la loro ricchezza, la ragione della loro esistenza. Da mujiba avevano assistito ai parti nel veld, e avevano aiutato a tenere lontani le iene e gli altri predatori. Conoscevano per nome ogni animale e l'amavano di quell'amore che spinge l'uomo della cultura pastorale a rischiare la vita per proteggere le sue mandrie. Nella prima fila c'era un guerriero vecchissimo, con le gambe stecchite come quelle d'un marabù, la pelle del colore d'una borsa di tabacco e completamente raggrinzita. Sembrava che non fosse rimasta una goccia di liquido nel corpo inaridito, e tuttavia grosse lacrime gli scorrevano sulle guance avvizzite mentre guardava abbattere le bestie. Gli spari continuarono fino al tramonto e, quando cessarono, il kraal era pieno di carcasse. Erano ammassate le une sulle altre come il grano dopo il passaggio della falce. Nessuno dei matabele s'era allontanato. Ora osservavano in silenzio, senza più lamenti. «Le carogne devono essere bruciate.» Mungo St John passò davanti alla prima fila dei guerrieri. «Voglio che le carcasse vengano coperte con la legna. Nessuno degli uomini è esentato dal lavoro, neppure i malati e i vecchi. Tutti useranno le scuri: e quando le carcasse saranno coperte, io stesso appiccherò il fuoco.» *** «Qual è l'umore del popolo?» chiese sottovoce Bazo; e Babiaan, il primo dei consiglieri del vecchio re, gli rispose. A nessuno di quanti erano presenti nella capanna sfuggì che il tono di Babiaan era rispettoso. «Sono addolorati» disse Babiaan. «Dopo la morte del vecchio re non c'era mai stata tanta disperazione nei loro cuori, come ora che il bestiame viene abbattuto. Come se gli uomini bianchi volessero affondarsi l'assegai nel petto.» Bazo annuì. «Ogni azione crudele ci rafforza e conferma la profezia dell'Umlimo. C'è tra voi qualcuno che dubitaancora?» «Nessuno dubita. Ora siamo pronti» rispose Gandank, suo padre; ma anche lui lo guardò in attesa d'una conferma e aspettò la sua risposta. «Non siamo pronti.» Bazo scosse la testa. «Non saremo pronti finché non si sarà avverata la terza profezia dell'Umlimo.» «"Quando il bestiame senza corna sarà divorato dalla grande croce"» mormorò Somabula. «Oggi abbiamo visto abbattere il bestiame risparmiato dalla pestilenza.» «Non è questa la profezia» disse Bazo. «Quando si realizzerà, non avremo dubbi. Fino a quel momento dovremo continuare i preparativi. Qual è il numero degli assegai, e dove sono custoditi?» Uno alla volta gli induna si alzarono e fecero il loro rapporto. Elencarono il numero dei guerrieri addestrati e pronti, la posizione di ogni gruppo, il tempo necessario per armarli e mandarli in
campo. Quando l'ultimo ebbe finito di parlare, Bazo finse di consultare gli induna più importanti e assegnò gli obiettivi. «Suku, induna dell'impi Imbezu. I tuoi uomini batteranno la strada dalla cresta di Malundi verso sud, fino alla miniera di Gwanda. Uccidete tutti quelli che incontrate sul percorso, tagliate i fili di rame a ogni palo. Gli amadoda che lavorano nella miniera saranno pronti per unirsi a voi quando li raggiungerete. A Gwanda ci sono ventotto bianchi, incluse le donne e la famiglia alla stazione commerciale. Dopo, contate i cadaveri per essere certi di averli massacrati tutti.» Suku ripeté gli ordini parola per parola, con la memoria straordinaria dell'analfabeta che non può contare sugli appunti scritti; e Bazo annuì e si rivolse a un altro comandante per dargli le istruzioni e ascoltarlo quando le ripeté. Poco dopo mezzanotte avevano finito di ricevere gli ordini, e Bazo si rivolse di nuovo a tutti. «La furtività e la rapidità sono le nostre alleate. Nessun guerriero porterà lo scudo, perché sarebbe troppo forte la tentazione di battervi sopra. Soltanto l'acciaio, l'acciaio silenzioso. Non canterete i canti di guerra quando correrete perché il leopardo non ringhia prima di attaccare. Il leopardo caccia nell'oscurità e quando entra nell'ovile non risparmia niente... sgozza il capro e uccide la capra e i capretti.» «Le donne?» chiese cupamente Babiaan. «Come i bianchi hanno ucciso Ruth e Imbali» disse Bazo. «I bambini?» chiese un altro induna. «Le bambine bianche crescono e partoriscono bambini bianchi, e i bambini bianchi crescono e portano armi. Quando un saggio trova la tana di un mamba, uccide il serpente e schiaccia le uova.» «Non risparmieremo nessuno?» «Nessuno» confermò Bazo, e nella sua voce c'era un tono che fece rabbrividire suo padre Gandank: costui riconobbe il momento in cui il potere passava dal toro vecchio al più giovane. Indiscutibilmente, Bazo era adesso il loro capo. E quindi fu Bazo che alla fine disse: «Indaba pelile! L'assemblea è terminata!» E a uno a uno gli induna lo salutarono uscirono dalla capanna e si allontanarono furtivi nella notte; e quando l'ultimo se ne fu andato, la tenda di pelli di capra si aprì e Tanase uscì avvicinandosi a Bazo. «Sono così fiera di te» mormorò, «che vorrei piangere come una bambina sciocca.» *** Era una lunga colonna, contando le donne e i bambini: quasi mille esseri umani. Era sgranata su quasi due chilometri e si snodava giù per le colline come una vipera ferita. Ancora una volta la tradizione non era rispettata perché, sebbene gli uomini procedessero in testa, portavano i sacchi di grano e le pentole. Un tempo avrebbero portato soltanto lo scudo e le armi. Erano più di duecento uomini forti che Bazo aveva promesso a Henshaw. Dietro di loro venivano le donne. Molti degli uomini avevano condotto più di una moglie, fino a quattro. Anche le ragazze più giovani che non avevano ancora raggiunto la pubertà reggevano in bilico sulla testa i rotoli delle stuoie per dormire, e le madri tenevano i figli piccoli appesi ai fianchi in modo che durante la marcia potessero poppare dalle gonfie mammelle nere. La stuoia arrotolata di Juba era pesante quanto le altre. Tuttavia, nonostante la sua mole, le donne più giovani dovevano affrettare il passo per non farsi distanziare da lei. La sua voce di soprano alta e chiara guidava il canto. Bazo tornò indietro lungo la colonna mentre le nubili giravano le teste, attente a non sbilanciare i fardelli, e lo guardavano passare e bisbigliavano ridendo tra loro perché, sebbene fosse sfregiato, l'alone di potere e di decisione che lo circondava lo rendeva molto attraente anche per la più giovane e capricciosa. Bazo raggiunse Juba e le si affiancò.
«Mammewethu» la salutò rispettosamente. «I fardelli delle tue ragazze saranno un po' più leggeri dopo che avremo attraversato il fiume. Lasceremo trecento assegai nascosti nei bidoni del miglio e sepolti sotto l'ovile della gente di Suku.» «E il resto?» «Lo porteremo alla Miniera Harkness. E' già pronto un nascondiglio. Da lì le tue ragazze li porteranno poco alla volta ai villaggi circostanti.» Bazo fece per tornare alla testa della colonna, ma Juba lo richiamò. «Figlio mio, sono turbata, profondamente turbata.» «Mi addolora, piccola madre. Che cosa ti turba?» «Tanase mi ha detto che tutti i bianchi dovranno essere baciati dall'acciaio.» «Tutti.» Bazo annuì. «Nomusa è più d'una madre per me. Anche lei deve morire, figlio mio?» così buona e generosa con la nostra gente.» Bazo la prese per il braccio e la condusse lontano dal sentiero, dove gli altri non potessero sentirli. «E' la sua bontà a renderla più pericolosa di tutti» spiegò. «L'amore che le porti ci indebolisce. Se io ti dicessi: "La risparmieremo", tu chiederesti: "Non possiamo risparmiare anche suo figlio, e le sue figlie e i loro figli?"» Bazo scosse la testa. «No, te lo dico sinceramente: se dovessi risparmiare uno di loro, sarebbe Unico Occhio.» «Unico Occhio!» Juba trasalì. «Non capisco. E' fiero e crudele, e non ha compassione.» «Quando i nostri guerrieri lo guardano in faccia e ascoltano la sua voce, ricordano tutti i torti subiti e diventano forti e rabbiosi. Quando guardano Nomusa diventano deboli ed esitanti. Dev'essere tra i primi che moriranno, e manderò un uomo esperto a farlo.» «Dici che tutti devono morire?» chiese Juba. «Anche quel lo che si sta avvicinando?» Juba indicò il punto dove il sentiero si snodava pigramente sotto le chiome delle acacie. Un cavaliere veniva verso di loro al piccolo galoppo dalla direzione della Miniera Harkness: anche a quella distanza era impossibile non riconoscere le spalle ampie, la posizione disinvolta e sicura con cui stava in sella. «Guardalo!» continuò Juba. «Fosti tu a dargli il nome elogiativo di "Piccolo Falco". Quante volte mi hai detto che in gioventù avete lavorato a fianco a fianco e avete mangiato nella stessa pentola? Eri così fiero quando parlavi del falco selvatico che avevate catturato e addestrato.» La voce di Juba si abbassò. «Ucciderai quest'uomo che chiami fratello, figlio mio?» «Non lascerò che sia un altro a farlo» affermò Bazo. «Lo ucciderò di mia mano, con un colpo rapido e sicuro. E poi ucciderò la sua donna e suo figlio. Quando ciò sarà fatto, non si potrà tornare indietro.» «Sei diventato un uomo duro, figlio mio» bisbigliò Juba, con un'ombra di rammarico negli occhi e la sofferenza nella voce. Bazo le voltò le spalle e tornò sul sentiero. Ralph Ballantyne lo vide e sventolò il cappello. «Bazo» disse ridendo mentre si avvicinava. «Imparerò mai a non dubitare di te? Mi hai portato più dei duecento uomini che avevi promesso.» *** Ralph Ballantyne aveva varcato il confine meridionale di King's Linn, ma dovette continuare per altre due ore prima di scorgere all'orizzonte il grigio profilo lattiginoso dei kopje dove sorgeva la casa. Il veld che stava attraversando era silenzioso e quasi deserto. Ralph si sentiva agghiacciato. Là dove qualche mese prima pascolavano le mandrie di grassi bovini multicolori appartenenti a suo padre, l'erba novella risplendeva fitta e verde e incalpestata, come a nascondere le ossa bianche sparse innumerevoli sul terreno. Soltanto l'avvertimento di Ralph aveva salvato Zouga Ballantyne dal disastro finanziario totale. Era riuscito a vendere una parte delle sue mandrie ai Gwaai Cattle Ranches, una sussidiaria della BSA Company, prima che la rinderpest investisse King's Linn; ma aveva perduto il resto dei suoi bovini e le loro ossa luccicavano come file di perle in mezzo all'erba verde. Più avanti, tra le mimose, c'era uno dei recinti di suo padre, e Ralph si alzò sulle staffe e si schermò gli occhi, sconcertato dalla polvere rosa che volteggiava sopra la vecchia staccionata. La polvere era sollevata da numerosi zoccoli, e si sentiva lo schiocco secco d'una frusta da carrettiere, un suono che da molti mesi non si udiva più nel Matabeleland.
Nonostante la distanza, riconobbe le figure appollaiate sullo steccato come due vecchie cornacchie spennacchiate. «Jan Cheroot!» gridò mentre si avvicinava. «Isazi! A che gioco state giocando, vecchi bricconi?» I due sorrisero e scesero per andargli incontro. «Buon Dio!» Lo sbalordimento di Ralph non era simulato, quando vide che cos'erano gli animali nel recinto. Il denso velo di polvere li aveva nascosti fino a quel momento. «E' così che passi il tempo durante la mia assenza, Isazi? Di chi è stata l'idea?» «Di tuo padre Bakela.» Di colpo, l'espressione di Isazi diventò malinconica. «Ed è un'idea stupida.» Gli animali grassi e lucidi erano striati di bianco e nero, e le criniere erano irte come le setole d'una spazzola. «Zebre, per Dio!» Ralph scosse la testa. «Come le avete catturate?» «Abbiamo sfiancato una dozzina di buoni cavalli per dargli la caccia» spiegò Jan Cheroot, e la faccia gialla e coriacea si raggrinzì per la disapprovazione. «Tuo padre spera di rimpiazzare i buoi da tiro con questi stupidi somari. Sono selvatici e irragionevoli come una vergine venda. Mordono e scalciano finché li hai aggiogati, e dopo si sdraiano e rifiutano di tirare.» Isazi sputò, disgustato. Era una pazzia tentare di colmare in pochi mesi l'immenso abisso tra gli animali selvatici e le bestie da tiro addomesticate. C'erano voluti millenni di selezioni e di incroci per creare il coraggio, la volontà e la forza dei buoi da tiro. Il tentativo di Zouga dava una misura del bisogno disperato di mezzi di trasporto che assillava i coloni. «Isazi» disse Ralph scuotendo la testa, «quando avrai finito questo gioco da bambini, ho un lavoro da uomo per te, al campo del capolinea della ferrovia.» «Sarò pronto a seguirti al tuo ritorno» promise con entusiasmo Isazi. «Sono nauseato di questi asini striati.» Ralph si rivolse a Jan Cheroot. «Voglio parlare con te, vecchio amico.» Quando si furono allontanati dal recinto, chiese al piccolo ottentotto: «Hai messo il tuo segno su una carta della Compagnia per dire che avevamo picchettato di notte le concessioni della Miniera Harkness?» «Non ti avrei mai deluso» dichiarò con orgoglio Jan Cheroot. «Il generale St John me l'ha spiegato, e io ho messo il mio segno sulla carta per conservare le concessioni per te e per il maggiore.» Poi notò l'espressione di Ralph e chiese ansiosamente: «Ho fatto bene?» Ralph si sporse dalla sella e gli strinse la spalla ossuta. «Sei sempre stato un buon amico fedele per tutta la vita.» «Dal giorno che sei nato» dichiarò Jan Cheroot. «Quando tua madre morì, io ti diedi da mangiare e ti tenni sulle mie ginocchia.» Ralph aprì la borsa della sella e gli occhi del vecchio ottentotto brillarono nel vedere la bottiglia di brandy del Capo. «Danne un po' anche a Isazi» gli disse Ralph; ma Jan Cheroot si strinse la bottiglia al petto come fosse un figlio primogenito. «Io non spreco il buon brandy per un selvaggio negro» dichiarò in tono indignato, e Ralph rise e proseguì verso la residenza di King's Linn. C'erano tutto il chiasso e il trambusto che si aspettava. C'erano cavalli che non riconosceva, nel recinto sotto la grande casa dal tetto di paglia, e nel mezzo c'erano gli inconfondibili muli bianchi dell'equipaggio di Rhodes. La carrozza era sotto gli alberi, lucida come al solito, e i finimenti erano meticolosamente appesi nella selleria accanto alle stalle. Ralph si sentì pervadere dalla rabbia quando la vide. L'odio gli bruciava dentro come vino scadente, e ne sentiva il sapore acido in fondo alla gola. Deglutì con uno sforzo per dominarlo, mentre smontava. Due mozzi di stalla accorsero a prendergli il cavallo. Uno staccò il rotolo delle coperte, le borse della sella e la custodia del fucile, e li portò verso la grande casa. Ralph lo seguì; era arrivato al centro del prato quando Zouga Ballantyne uscì sull'ampia veranda e si schermò gli occhi con un tovagliolo. Stava ancora masticando un boccone del pranzo. «Ralph, ragazzo mio, non ti aspettavo prima di sera.» Ralph salì i gradini e l'abbracciò; poi Zouga lo condusse lungo la veranda.
Alle pareti erano appesi i trofei di caccia, le lunghe corna tortili dei cudù e dell'antilope alcina, le lucenti scimitarre scure delle antilopi nere e rosse; e ai lati dei due battenti che conducevano in sala da pranzo c'erano le immense zanne del grande elefante maschio che Zouga Ballantyne aveva ucciso sul sito della Miniera Harkness. Erano così alte che un uomo avrebbe potuto toccarne le estremità affusolate solo alzandosi in punta di piedi, ed erano più grosse delle cosce d'una donna obesa. Zouga e Ralph passarono tra le zanne ed entrarono nella sala da pranzo. Sotto il tetto di paglia era fresco e semibuio, dopo l'abbagliante luce bianca del meriggio. Il pavimento era di teak selvatico segato a mano, le travi dello stesso legno. Jan Cheroot aveva costruito il lungo tavolo e le sedie con i sedili di cuoio utilizzando il legname della tenuta; ma l'argenteria splendente proveniva dalla casa di famiglia dei Ballantyne a King's Linn in Inghilterra e rappresentava un tenue legame tra due luoghi che avevano lo stesso nome ma erano tanto dissimili nell'aspetto. La sedia vuota di Zouga era in fondo alla lunga tavola, e di fronte stava una familiare figura massiccia che alzò la testa irsuta all'entrata di Ralph. «Ah, Ralph, che piacere vederla.» Era sorprendente che non vi fosse rancore nella voce e negli occhi di Rhodes. Era possibile che avesse accantonata la disputa per le miniere di carbone di Wankie come se non fosse mai avvenuta? Con uno sforzo, Ralph adeguò la propria reazione a quella dell'altro. «Come sta, signore?» Ralph riuscì a sorridere mentre stringeva la larga mano nodosa. La pelle era fredda come quella d'un rettile, a causa della difficile circolazione sanguigna. Per Ralph fu un sollievo lasciarla e proseguire per salutare gli altri intorno alla tavola. Non era certo di riuscire a nascondere i suoi veri sentimenti all'esame acuto di quegli occhi ipnotici. C'erano tutti. Il piccolo dottore mellifluo era alla destra di Rhodes, al posto che gli spettava. «Giovane Ballantyne» disse freddamente, e tese la mano senza alzarsi. «Jameson!» Ralph gli rivolse un cenno confidenziale; sapeva che l'omissione voluta del titolo lo avrebbe irritato, come lui s'era irritato nel sentirsi chiamare «giovane» con quel tono di condiscendenza. Alla sinistra di Rhodes c'era un ospite inatteso. Era la prima volta che Ralph vedeva il generale Mungo St John a King's Linn. Un tempo c'era stata una relazione tra il militare dall'unico occhio e Louise Ballantyne, la matrigna di Ralph. Era accaduto molti anni addietro, prima che Ralph lasciasse Kimberley per il nord. Ralph non aveva mai indagato su quella relazione e sull'alone di scandalo che l'aveva circondata. Ma era significativo che Louise Ballantyne non fosse presente e che a tavola non vi fosse un posto apparecchiato per lei. Se Rhodes aveva insistito perché St John partecipasse alla riunione e Zouga Ballantyne aveva accettato d'invitarlo, doveva esserci una ragione impellente. Mungo St John rivolse a Ralph quel suo tipico sorriso di lupo mentre si stringevano la mano. Nonostante le complicazioni familiari, Ralph aveva sempre provato ammirazione per quel pirata romantico, e il sorriso con cui gli rispose era sincero. La statura degli altri personaggi radunati intorno al tavolo confermava l'importanza e il significato della riunione. Ralph immaginò che l'incontro si svolgesse lì per assicurare quella segretezza che sarebbe stata impossibile a Bulawayo. E intuì che tutti gli ospiti erano stati scelti e invitati personalmente da Rhodes, anziché da suo padre. A parte Jameson e St John, c'era Percy Fitzpatrick, socio del gruppo minerario di Corner House ed eminente rappresentante della Camera delle Miniere del Witwatersrand, l'organo dei baroni dell'oro di Johannesburg. Era un giovane vivace e simpatico, dalla carnagione chiara, i capelli e i baffi rossicci; nel corso della sua carriera era stato impiegato di banca, conducente di trasporti, caltivatore di agrumi, guida della spedizione africana di Lord Randolph Churchill, scrittore e magnate minerario. Molti anni più tardi, Ralph avrebbe riflettuto sull'ironia del destino, poiché le aspirazioni all'immortalità di quell'uomo straordinario sarebbero state motivate principalmente da un libro sentimentale imperniato su un cane chiamato Jock.
Dopo Fitzpatrick era seduto l'illustre Bobbie White, che aveva appena visitato Johannesburg seguendo il suggerimento di Rhodes. Era un giovane aristocratico bello e garbato, il tipo d'inglese che Rhodes preferiva; ed era anche un militare di carriera, un ufficiale di stato maggiore, come rivelava la sua uniforme. Accanto a lui c'era John Willoughby, vicecomandante della prima colonna di pionieri che aveva occupato Fort Salisbury e il Mashonaland. Aveva anche fatto parte della colonna di Jameson che aveva annientato le forze di Lobengula, e la sua Willoughby's Consolidated Company possedeva quasi mezzo milione di ettari d'ottima terra da pascolo in Rhodesia, in concorrenza con la Rholands Company di Ralph: e perciò il saluto che si scambiarono fu piuttosto guardingo. Quindi c'era il dottor Rutherford Harris, primo segretario della British South Africa Company e membro del partito politico di Rhodes, nel quale rappresentava gli elettori di Kimberley al Parlamento del Capo. Era un uomo grigio e taciturno dagli occhi sinistri, e Ralph diffidava di lui, dato che era uno dei servitori più devoti di Rhodes. In fondo al tavolo, Ralph si trovò a faccia a faccia con il fratello Jordan. Esitò per una frazione di secondo fino a che vide la supplica disperata nei suoi occhi gentili. Gli strinse in fretta la mano, ma non sorrise; lo salutò con voce impersonale come se non fosse nulla più di un conoscente, e quindi prese posto sulla sedia che un servitore nell'uniforme bianca dei kanza e con la fusciacca scarlatta s'era affrettato ad accostare a quella di Zouga a capotavola. La conversazione interrotta dall'arrivo di Ralph era ripresa, e Rhodes la orchestrava. «E le sue zebre addomesticate?» chiese a Zouga, che scrollò la barba dorata. «Era un tentativo disperato, condannato fin dall'inizio al fallimento. Ma se considera che dei centomila capi di bestiame che avevamo nel Matabeleland prima della rinderpest ne sono sopravvissuti cinquecento o poco più, mi è sembrato che valesse la pena di provare.» «Dicono che i bufali del Capo sono stati sterminati completamente dalla pestilenza» intervenne il dottor Jameson. «Che cosa ne pensa, maggiore?» «Le perdite sono state catastrofiche. Due settimane fa mi sono spinto a nord fino al fiume Pandamatenga, dove l'anno scorso avevo contato mandrie di oltre cinquemila capi. Questa volta non ho visto un solo bufalo vivo. Tuttavia non posso credere che si siano estinti: penso che da qualche parte vi siano superstiti dispersi, quelli dotati di immunità naturale, e prevedo che si riprodurranno.» Rhodes non era uno sportivo. Una volta aveva detto del fratello Frank: «Sì, è un brav'uomo, va a caccia e a pesca... in altre parole, è uno sfaccendato.» Quei discorsi sulla selvaggina lo annoiarono quasi subito e cambiò argomento rivolgendosi a Ralph. «La ferrovia... qual è l'ultima posizione?» «Siamo ancora in anticipo di due mesi sui tempi» rispose Ralph con una sfumatura di sfida. «Quindici giorni fa abbiamo varcato il confine del Matabeleland... ritengo che in questo momento il terminale abbia già raggiunto il posto di scambio a Plumtree.» «Bene.» Rhodes annuì. «Fra poco avremo bisogno urgente della sua ferrovia.» E scambiò con il dottor Jim un'occhiata da cospiratore. Quando tutti ebbero gustato il dolce di Louise, ricco di noci e uvetta e grondante di miele selvatico, Zouga congedò i servitori e versò personalmente il cognac, mentre Jordan offriva i sigari. Mentre tornavano a sedersi, Rhodes cambiò argomento di colpo com'era sua abitudine, e Ralph si rese conto che stava per conoscere il vero scopo della convocazione a King's Linn. «Nessuno di voi ignora che il compito della mia vita è vedere la mappa dell'Africa colorata di rosa da Città del Capo al Cairo, e offrire questo continente alla nostra regina come un'altra gemma per la sua corona.» La voce che fino a quel momento era stata irritabile e stizzosa aveva assunto una strana qualità ipnotica. «Noi della razza anglosassone anglofona siamo i primi tra le nazioni, e il destino ci ha imposto un sacro dovere: portare il mondo alla pace sotto un'unica bandiera e un solo grande monarca. Dobbiamo aggiungere l'Africa intera ai dominions della nostra regina. I miei emissari si sono già spinti al nord, fino alla terra tra i fiumi Zambesi e Congo, per preparare la strada.» Rhodes s'interruppe e scosse sdegnosamente la testa. «Ma tutto ciò sarà inutile se la punta estrema del continente ci sfugge.» «La Repubblica Sudafricana» disse Jameson. «Paul Kruger e la sua pseudo-repubblichetta nel Transvaal.» La voce era bassa, amara.
«Non sia emotivo, dottor Jim» lo rimproverò Rhodes in tono blando. «Badiamo esclusivamente ai fatti.» «E quali sono i fatti, signor Rhodes?» Zouga Ballantyne, seduto a capotavola, si protese ansiosamente. «I fatti sono questi: un vecchio fanatico ignorante, convinto che gli zotici nomadi olandesi analfabeti guidati da lui siano i nuovi israeliti, prescelti dal Dio dell'Antico Testamento... questo personaggio incredibile siede su un'ampia distesa della parte più ricca dell'Africa, come un cane selvatico su un osso, e ringhia contro ogni tentativo d'introdurre il progresso.» Tutti tacquero, colpiti da quell'invettiva amara, e Rhodes girò lo sguardo sui loro volti prima di continuare. «Vi sono trentottomila inglesi nelle zone aurifere del Witwatersrand, inglesi che pagano diciannove sterline su ogni venti sterline di tasse affluite nelle casse di Kruger, inglesi che hanno il merito di quanto vi è di civile in quella repubblichetta arretrata: eppure Kruger nega loro il diritto di voto, li dissangua con le imposte e non permette che siano rappresentati. Le loro petizioni per ottenere il voto vengono accolte nel Volksraad dall'irrisione sprezzante di un'assemblea di zotici ignoranti.» Rhodes lanciò un'occhiata a Fitzpatrick. «Sto esagerando, Percy? Lei conosce quella gente, vive con loro ogni giorno. La mia descrizione dei boeri del Transvaal è esatta?» Percy Fitzpatrick alzò le spalle. «Il signor Rhodes ha ragione. Il boero del Transvaal è un animale diverso dai suoi cugini del Capo. Gli olandesi del Capo hanno avuto la possibilità di assimilare alcune delle qualità del modo di vita inglese; al confronto sono urbani e civilizzati, mentre il transvaaler, purtroppo, non ha perso nessuna delle caratteristiche degli antenati olandesi. E' lento, caparbio, ostile, sospettoso, furbo e malevolo. E' esasperante sentirsi mandare al diavolo da simili individui, soprattutto quando chiediamo soltanto ciò che ci spetta come uomini liberi, il diritto di voto.» Rhodes proseguì. «Kruger non si accontenta d'insultare i nostri compatrioti, ma gioca altri giochi ancora più pericolosi. Ha imposto dazi punitivi sulle merci inglesi. Ha assegnato il monopolio del commercio di tutto il materiale essenziale per le attività minerarie, persino la dinamite, ai membri della sua famiglia e del suo governo. Sta armando sfacciatamente i suoi burghers con fucili tedeschi, sta creando un corpo con l'artiglieria prodotta da Krupp, e flirta apertamente con il Kaiser.» Rhodes s'interruppe per un momento. «Una sfera d'influenza tedesca in mezzo ai dominii della nostra regina rovinerebbe per sempre i nostri sogni di un'Africa britannica. I tedeschi non hanno il nostro altruismo.» «Tutto quel bell'oro giallo che finisce a Berlino» mormorò Ralph, e subito si pentì di aver parlato. Ma Rhodes non doveva averlo sentito, perché continuò. «Come si può ragionare con un individuo come Kruger? Come si può discutere con un uomo implicitamente convinto che la terra è piatta?» Rhodes sudava di nuovo, sebbene nella sala fosse fresco. La mano gli tremava tanto che quando cercò di prendere il bicchiere lo rovesciò e il liquidO dorato si sparse sul piano di legno lucido. Jordan si alzò prontamente, l'asciugò prima che potesse colare sulle ginocchia di Rhodes; si tolse un portapillole d'argento dal taschino, e posò una compressa bianca accanto alla mano destra del principale. Rhodes, che respirava ancora pesantemente, la mise sotto la lingua. Dopo qualche istante il respiro divenne più calmo e gli permise di riprendere a parlare. «Io sono andato da lui, signori. Sono andato a Pretoria per vedere Kruger in casa sua, e mi ha mandato un messaggio per mezzo d'un servitore, per dirmi che quel giorno non poteva ricevermi.» Tutti avevano sentito parlare di quell'episodio; la sorpresa stava solo nel fatto che Rhodes riferisse un evento così umiliante. Il presidente Kruger aveva mandato il servo negro da uno degli uomini più ricchi e influenti del mondo con questo messaggio: «Al momento sono occupato. Uno dei miei burghers è venuto a parlarmi di un bue ammalato. Torni martedì.» «Dio lo sa» intervenne il dottor Jim per spezzare il silenzio imbarazzato. «Il signor Rhodes ha fatto tutto ciò che poteva fare un uomo ragionevole. Esporsi al rischio di altri insulti da parte di quel vecchio boero attirerebbe il discredito non solo sul signor Rhodes, ma anche sulla nostra regina e sull'Impero.» Il dottore s'interruppe per scrutare uno dopo l'altro i suoi ascoltatori. Erano tutti attentissimi e attendevano che continuasse. «Che cosa
possiamo fare? Che cosa dobbiamo fare?» Rhodes si scosse e guardò il giovane ufliciale di stato maggiore nell'alta uniforme splendente. «Bobbie?» disse in tono d'invito. «Signori, forse saprete che sono appena tornato dal Transvaal.» Bobbie White prese una borsa di pelle dal pavimento e ne tirò fuori un fascio di fogli. Passò un foglio a ciascuno degli uomini seduti intorno al tavolo. Ralph diede un'occhiata alla sua coPia e trasalì. Era l'ordine di battaglia dell'esercito della Repubblica Sudafricana. La sua sorpresa fu così grande che si lasciò sfuggire la prima parte di quanto stava dicendo Bobbie White. «Il forte di Pretoria è in fase di riparazione e ampliamento. Le mura sono state abbattute a questo scopo in diversi punti, e quindi sarà vulnerabile all'attacco di un piccolo contingente deciso a tutto.» Ralph dovette fare uno sforzo per credere alle proprie orecchie. «A parte il corpo d'artiglieria non esiste un esercito regolare permanente. Come potete vedere dal foglio che avete davanti, il Transvaal dipende, per la difesa, dai commando dei suoi cittadini. Occorrono da quattro a sei settimane perché si radunino e formino una forza sufficiente.» Bobbie White finì di parlare, e Rhodes si rivolse a Percy Fitzpatrick. «Percy?» chiese. «Sapete in che modo Kruger chiama quelli di noi che con capitali e risorse gli hanno creato l'industria aurifera? Ci chiama "Uitlanders", gli "Outlanders", gli Stranieri. Sapete che noi Outlanders abbiamo eletto i nostri rappresentanti, chiamati "Comitato di Riforma di Johannesburg". Io ho l'onore d'essere uno dei membri eletti del Comitato, e perciò parlo a nome di tutti gli inglesi del Transvaal.» Fitzpatrick si interruppe, si allisciò i baffi con l'indice e proseguì: «Vi porto due messaggi. Il primo è breve e semplice. Eccolo: "Siamo decisi e uniti. Potete contare completamente su di nol".» Gli uomini seduti intorno al tavolo annuirono, ma Ralph si sentì scosso da un brivido. Lo prendevano sul serio... non era una ragazzata. Stavano tramando uno dei più audaci colpi di mano della storia. Con uno sforzo enorme conservò un'espressione calma, mentre Fitzpatrick continuava. «Il secondo messaggio è una lettera firmata da tutti i membri del Comitato di Riforma. La leggerò, con il vostro permesso. E indirizzata al dottor Jameson nella sua qualità di amministratore della Rhodesia, e dice quanto segue: Caro signore, la situazione in questo stato è divenuta così critica da darci la certezza che in un periodo non lontano scoppierà un conflitto tra il governo del Transvaal e la popolazione Uitlander...» Via via che la lettera proseguiva, Ralph si rendeva conto che costituiva una giustificazione per l'insurrezione armata. «Una società straniera di tedeschi e olandesi decide i nostri destini, e con l'appoggio dei dirigenti boeri tenta di plasmarli secondo uno stampo completamente estraneo alla mentalità dei PoPoli britannici...» Cercheranno d'impadronirsi con la forza delle armi del più ricco giacimento aurifero esistente, pensò Ralph. «Quando la nostra richiesta del diritto di voto è stata discussa nel Volksraad del Transvaal, un parlamentare ha sfidato gli Uitlanders a battersi per i diritti da loro rivendicati, e nessuno dei suoi colleghi si è alzato per obiettare. Il governo del Transvaal ha creato tutti i fattori necessari per un conflitto armato. «In tali circostanze ci sentiamo costretti a rivolgerci a lei, in quanto inglese, perché venga in nostro soccorso se insorgessero difficoltà. Garantiamo di coprire le spese in cui potrà incorrere aiutandoci e la preghiamo di credere che soltanto la necessità più impellente ci ha spinti a questo appello.» Percy Fitzpatrick alzò gli occhi verso il dottor Jim e concluse: «E' firmata da tutti i membri del Comitato: Leonard, Phillips, il fratello del signor Rhodes, Francis, John Hays Hammond, Farrar, me stesso. Non abbiamo messo la data.» A capotavola, Zouga Ballantyne esalò il respiro in uno zufolio sordo, ma nessuno degli altri parlò mentre Jordan si alzava e faceva il giro per riempire di nuovo i bicchieri. Rhodes stava appoggiato al tavolo, con il mento sulla mano; e guardava dalla finestra, oltre i prati, la linea lontana delle colline azzurre, le Colline degli induna, dove un tempo sorgeva il kraal del re matabele. Tutti attesero che prendesse la parola, e alla fine sospirò pesantemente.
«Io preferisco scoprire il prezzo di un uomo e pagarlo, piuttosto che combatterlo; ma in questo caso non abbiamo a che fare con un uomo normale. Dio ci scampi dai santi e dai fanatici: è meglio un briccone.» Girò la testa verso Jameson e lo fissò con gli occhi celesti. «Dottor Jim» invitò, e il piccolo dottore inclinò la sedia all'indietro e affondò le mani nelle tasche. «Dovremo mandare a Johannesburg cinquemila fucili e un milione di cartucce.» Affascinato nonostante tutto, Ralph l'interruppe per chiedere: «E dove li troverà... dove li troveremo? Non sono merci molto comuni.» Il dottor Jim annuì. «Ecco una domanda intelligente, Ballantyne. I fucili e le munizioni sono già nei magazzini della De Beers a Kimberley.» Ralph batté le palpebre. La trama era molto più avanzata di quanto avesse creduto possibile. Poi ricordò il comportamento sospetto del dottore al campo base dal quale erano partiti per scoprire il filone della Miniera Harkness. Senza dubbio s'erano dati da fare per mesi. Doveva scoprire tutti i dettagli. «Come li porteremo a Johannesburg? Sarà necessario introdurli di nascosto, ed è materiale ingombrante...» «Ralph.» Rhodes sorrise. «Non avrà creduto d'essere stato invitato qui soltanto per un pranzo amichevole. Chi pensa che sia tra noi il più esperto nella spedizione delle armi? Chi portava i fucili Martini a Lobengula? Chi è il più abile trasportatore dell'intero territorio?» «Io?» chiese sbalordito Ralph. «Lei» confermò Rhodes. E mentre Ralph lo fissava si sentiva assalire all'improvviso da una smaniosa eccitazione. Sarebbe stato al centro di quella cospirazione fantastica, ne avrebbe conosciuto ogni dettaglio. La sua mente incominciò a turbinare; sapeva istintivamente che era una di quelle occasioni che capitano una sola volta nella vita e che doveva spremerne tutti i possibili vantaggi. «Accetterà, naturalmente?» Una lieve ombra passò nei penetranti occhi celesti. «Naturalmente» rispose Ralph, ma l'ombra non svanì. «Sono inglese, conosco il mio dovere» continuò con calma sincera, e vide l'ombra dileguarsi dagli occhi di Rhodes. Era qualcosa in cui poteva credere, qualcosa in cui poteva riporre fiducia. Rhodes si rivolse di nuovo al dottor Jameson. «Scusi se l'abbiamo interrotta.» E Jameson continuò: «Arruoleremo un contingente a cavallo di circa seicento uomini scelti...» Guardò John Willoughby e Zouga Ballantyne, che avevano dato entrambi prova delle loro capacità militari. «Conterò molto su voi due.» Willoughby annuì, ma Zouga aggrottò la fronte e disse: «Seicento. uomini impiegheranno settimane per trasferirsi a cavallo da Bulawayo a Johannesburg.» «Non partiremo da Bulawayo» rispose con calma Jameson. «Ho avuto dal governo britannico l'autorizzazione a mantenere un contingente armato mobile nel Bechuanaland, nella fascia di terreno in concessione alla ferrovia che si snoda lungo il confine del Transvaal. Il contingente ha la funzione di proteggere la ferrovia; ma avrà base a Pitsani, a poco più di duecentocinquanta chilometri da Johannesburg. Potremo arrivarci in cinquanta ore a cavallo, molto prima che i boeri abbiano tempo di organizzare la resistenza.» In quel momento Ralph si rese conto che l'operazione era fattibile. Potevano riuscirci, con la fortuna leggendaria del dottor Leander Starr Jameson. Potevano prendere il Transvaal con la stessa facilità con cui avevano strappato il Matabeleland a Lobengula. Per Dio, che bottino sarebbe stato! Un miliardo di sterline in oro annesso alla terra di Rhodes, la Rhodesia. E dopo questo, tutto sarebbe stato possibile: l'Africa Britannica, un intero continente. Ralph era stordito dalla grandiosità di quel disegno. Ancora una volta fu Zouga Ballantyne a individuare infallibilmente la pecca fatale del piano. «Qual'è la posizione del governo di sua maestà? Ci appoggerà?» chiese. «Altrimenti sarà tutto inutile.» «Sono appena ritornato da Londra» rispose Rhodes. «E durante il mio soggiorno ho cenato con il segretario delle Colonie, il signor Joseph Chamberlain. Come sapete, ha instillato in Downing Street un nuovo spirito vigoroso e deciso. Simpatizza completamente con la situazione dei nostri connazionali a Johannesburg; e inoltre si rende conto dei pericoli di un intervento tedesco nell'Africa meridionale. Posso assicurare a tutti voi che io e il
signor Chamberlain ci intendiamo. In questa fase non posso dire altro: dovete fidarvi di me.» Se è vero, pensò Ralph, allora le probabilità d'un successo completo sono migliori che mai. L'affondo fulmineo al cuore del nemico impreparato, l'insurrezione della cittadinanza armata, l'appello al magnanimo governo britannico, e infine l'annessione. Mentre ascoltava la discussione dei piani, Ralph calcolava rapidamente le conseguenze della riuscita.La più importante sarebbe stata che la British South Africa Company e la De Beers Consolidated Diamond Company sarebbero divenute i più potenti organismi commerciali sulla faccia della terra: ed erano l'alter ego di Rhodes. Ralph fu riassalito dalla rabbia e dall'odio con tanta forza che gli tremarono le mani, e dovette appoggiarle sulle ginocchia. Ma non seppe trattenersi dal guardare il fratello minore. Jordan fissava Rhodes con espressione adorante; Ralph era certo che tutti, intorno alla tavola, dovevano notarla, e si sentiva sopraffatto dalla vergogna. Ma non aveva motivo di preoccuparsi: erano tutti presi dallo splendore e dalla grandiosità del sogno di un uomo, affascinati dal carisma e dall'autorità innata del colosso irsuto che sedeva a capotavola. Ancora una volta fu Zouga, pratico come sempre, a sondare alla ricerca di lacune e incrinature. «Dottor Jim, arruolerà qui in Rhodesia tutti i seicento uomini?» chiese. «Per motivi di segretezza e di praticità, non possiamo arruolarli nella Colonia del Capo o altrove» rispose Jameson. «Ora che il flagello della rinderpest ha spazzato via tanti patrimoni, vi saranno molti giovani rhodesiani disposti ad arruolarsi anche soltanto per la paga e le razioni, e saranno tutti validi combattenti che si sono già scontrati contro i matabele.» «Ritiene prudente lasciare il paese privo dei suoi uomini più validi?» Rhodes aggrottò la fronte. «Sarebbe per pochi mesi, e non abbiamo un nemico da temere, no?» «No?» chiese Zouga. «Ci sono decine di migliaia di matabele che...» «Oh, suvvia, maggiore» intervenne Jameson. «I matabele sono una marmaglia sconfitta e disorganizzata. Il generale St John fungerà da amministratore del territorio durante la mia assenza, e probabilmente è l'uomo più adatto per calmare i suoi timori.» Tutti si voltarono a guardare l'uomo seduto a fianco di Jameson. Mungo St John si tolse il lungo sigaro dalla bocca e sorrise, socchiudendo l'unico occhio. «Ho duecento poliziotti indigeni armati, tutti di lealtà indiscussa. Ho piazzato informatori in ogni grosso villaggio matabele, e mi avvertiranno in tempo di ogni irrequietezza. No, maggiore, le assicuro che l'unico nemico di cui dobbiamo tenere conto è quel vecchio, ostinato boero di Pretoria.» «Accetto questa affermazione da un soldato della statura del generale St John» disse semplicemente Zouga, e si rivolse di nuovo a Rhodes. «Possiamo discutere i dettagli dell'arruolamento? Quanto denaro abbiamo a disposizione?» Ralph osservò i volti di quegli uomini mentre discutevano e pianificavano, e notò come sempre che quella di suo padre aveva la stessa espressione avida e impaziente. Qualunque cosa dicano, pensò Ralph, di qualunque argomento diano l'impressione di parlare, in realtà parlano soltanto di denaro. All'improvviso ricordò l'aurora sul Karrù brullo, quando s'era inginocchiato nel deserto e aveva pronunciato un giuramento chiamando Dio a testimone; e dovette fare ricorso a tutta la sua forza di volontà per trattenersi dal guardare Rhodes. Sapeva che questa volta non sarebbe riuscito a nascondetglielo: perciò tenne gli occhi fissi sul bicchiere di cognac, si costrinse a conservare l'autocontrollo e a riflettere spassionatamente. Se era possibile distruggere quel colosso, non lo sarebbe stato anche distruggere la sua Compagnia, e strapparle i poteri di governo e i diritti territoriali e minerari che deteneva sull'intera Rhodesia? Ralph si sentì scorrere un fremito nel sangue: poteva essere non soltanto l'occasione della vendetta, ma anche di un'immensa fortuna. Se il complotto fosse fallito, allora sarebbero crollate le azioni delle società aurifere, il gruppo di Corner House, la Rand Mines, la Consolidated Fields. Un semplice colpo di mano alla Borsa di Johannesburg poteva dare un profitto di milioni di sterline. Ralph Ballantyne provò un senso di timore reverenziale per la grandiosità della prospettiva che gli si schiudeva davanti, una prospettiva di potenza e di ricchezza quale non aveva mai sognato fino a
quel momento. Non sentì la domanda allorché gli venne rivolta, e alzò gli occhi quando Rhodes la ripeté. «Ho detto: fra quanto potrà partire per Kimberley per occuparsi delle spedizioni, Ralph?» «Domani» rispose Ralph, con calma. «Sapevo che potevamo contare su di lei» annuì Rhodes. *** Ralph aveva indugiato di proposito per essere l'ultimo a lasciare King's Linn. Adesso stava con il padre sulla veranda a guardare la colonna di polvere sollevata dalla carrozza di Rhodes che si perdeva ai piedi della collina. Si appoggiò a uno dei pilastri intonacati di bianco che sostenevano il tetto, con le braccia muscolose e abbronzate conserte sul petto, gli occhi socchiusi per ripararli dal fumo che saliva dal sigaro stretto fra i denti. «Non sarai tanto ingenuo da accettare la stima che il giovane Percy ha fatto dei boeri, no, papà?» Zouga ridacchiò. «Lenti, sospettosi, malevoli e tutto il resto.» Scosse la testa. «Cavalcano veloci e sparano diritto, hanno combattuto tutte le tribù negre a sud del Limpopo...» «Per non parlàre dei nostri soldati» gli rammentò Ralph. «Majuba Hill, 1881. Il generale Colley e novanta dei suoi soldati sono sepolti sulla vetta. E i boeri non persero un solo uomo.» «Sono buoni soldati» ammise Zouga. «Ma noi avremo dalla nostra il fattore sorpresa.» «Comunque vorrai riconoscere che sarà un atto di banditismo internazionale, papà.» Ralph si tolse il sigaro dalle labbra e lo scosse per far cadere la cenere. «Non abbiamo neppure un'ombra di giustificazione morale per fare una cosa simile.» Ralph vide la cicatrice sulla guancia del padre diventare bianca come porcellana. Era un barometro infallibile del suo stato d'animo. «Non capisco» disse Zouga. Ma entrambi sapevano che aveva compreso perfettamente. «E' pirateria» insistette Ralph. «Non è un semplice furterello, ma pirateria in grande stile. Stiamo tramando di rubare un paese.» «Abbiamo rubato questa terra ai matabele?» chiese Zouga. «Era diverso.» Ralph sorrise. «Quelli erano selvaggi pagani: ma in questo caso stiamo progettando di rovesciare un governo di altri cristiani.» «Quando prendiamo in considerazione il bene dell'Impero...» La cicatrice di Zouga era passata dal bianco ghiaccio al cremisi. «L'Impero, papà?» Ralph continuò a sorridere. «Se ci sono due uomini che dovrebbero essere completamente sinceri l'uno con l'altro, siamo tu e io. Guardami in faccia e dimmi che da questa faccenda non ricaveremo nessun profitto... oltre alla soddisfazione di aver fatto il nostro dovere verso l'Impero.» Ma Zouga non lo guardò. «Sono un soldato...» «Sì.» Ralph l'interruppe. «Ma sei anche un allevatore appena uscito dalla rinderpest. Hai fatto in tempo a vendere cinquemila capi di bestiame, ma sappiamo che non è bastato. Quanti debiti hai, papà?» Dopo un momento di esitazione, Zouga rispose controvoglia: «Trentamila sterline.» «Hai qualche speranza di saldare tutti i debiti?» «No.» «A meno che prendiamo il Transvaal...» Zouga non rispose, ma la cicatrice impallidì di nuovo. Sospirò.«Sta bene.» disse Ralph. «Volevo soltanto essere certo di non essere l'unico ad avere certe motivazioni.» «Starai al gioco?» chiese Zouga. «Non preoccuparti, papà. Ne usciremo, te lo prometto.» Ralph si scostò dal pilastro e chiamò i mozzi di stalla perché gli conducessero il cavallo. Quando fu in sella guardò il padre e per la prima volta notò che la stanchezza degli anni aveva sbiadito il verde degli occhi. «Ragazzo mio, anche se alcuni di noi saranno ricompensati per il loro impegno, ciò non significa che non sia una nobile impresa. Noi siamo i servitori dell'Impero, e i servitori fedeli hanno diritto a un'equa retribuzione.» Ralph si sporse, gli strinse la spalla, poi prese le redini e discese la collina attraversando le foreste di acacie. ***
La ferrovia stava salendo lentamente la scarpata come una vipera curiosa: spesso seguiva le antiche piste degli elefanti, perché gli enormi animali erano stati i pionieri dei gradienti più dolci e dei passi più agevoli. Aveva lasciato molto più in basso i baobaò maestosi e i gialli alberi della febbre che crescevano nel bacino del Limpopo, e adesso le foreste erano più belle, l'aria più mite, i corsi d'acqua più limpidi e freschi.. Il campo base di Ralph s'era spostato con il terminale della ferrovia in una valle isolata, lontano dal chiasso dei magli che piantavano i grossi chiodi d'acciaio nelle traversine di teak. Il posto aveva molti degli incanti dei territori selvaggi più remoti. La sera un branco di antilopi nere scendeva a pascolare nel la radura erbosa sotto il campo, e a ogni aurora li svegliava il latrare dei babbuini dall'alto delle colline. Tuttavia la baracca del telegrafo, al capolinea, era a dieci minuti di distanza ai piedi del declivio boscoso, e la locomotiva che portava i binari e le traversine da Kimberley consegnava anche la copia più recente del Diamond Fields Advertiser e altri piccoli generi di lusso richiesti dal campo. In caso d'emergenza Cathy avrebbe potuto rivolgersi al sovrintendente della ferrovia e agli uomini della sua squadra, e il campo era protetto da venti fedeli servitori matabele e da Isazi, il piccolo conducente zulu, il quale affermava modestamente di valere quanto tutti loro messi insieme. Nell'eventualità improbabile che Cathy si annoiasse o si sentisse sola, la Miniera Harkness era lontana appena una cinquantina di chilometri, e Harry e Vicky avevano promesso di venire a farle visita ogni fine settimana. «Non possiamo venire con te, papà?» implorò Jonathan. «Potrei aiutarti, davvero.» Ralph lo prese sulle ginocchia. «Uno di noi deve restare a proteggere la mamma» spiegò. «Sei l'unico di cui posso fidarmi.» «Potremmo condurla con noi» propose Jonathan, e Ralph ebbe la visione fuggevole della moglie e del figlio in mezzo a una rivoluzione armata, con le barricate per le vie e i commando boeri che devastavano le campagne. «Sarebbe molto bello, Jon-Jon» disse Ralph. «Ma come farebbe la nuova bambina? Cosa succederà se la cicogna arrivasse mentre siamo tutti via e non ci fosse nessuno a firmare la ricevuta della tua sorellina?» Jonathan fece una smorfia. Cominciava già a nutrire una netta antipatia per quel personaggio femminile che non era ancora arrivato ma era già onnipresente. La sorellina sembrava ostacolare ogni prospettiva piacevole e ogni piano eccitante; i genitori riuscivano a introdurla in ogni conversazione e sua madre trascorreva lavorando a maglia o cucendo o sorridendo tra sé gran parte del tempo che prima dedicava a lui. Non usciva più a cavallo con lui la mattina e la sera e non partecipava più ai giochi vivaci e chiassosi che a lui piacevano tanto. Jonathan aveva già consultato Isazi circa la possibilità di far arrivare un messaggio alla cicogna per dirle di non disturbarsi perché avevano cambiato idea. Ma Isazi non era stato molto incoraggiante, anche se aveva promesso di parlare con lo stregone locale a nome di Jonathan. Adesso, posto ancora di nuovo di fronte a quella femminuccia impicciona, Jonathan capitolò a malincuore. «Bene, potrò venire con te quando ci sarà la sorellina a badare alla mamma?» «Ho una proposta di gran lunga migliore da farti, vecchio mio. Ti piacerebbe attraversare il mare su una grandissima barca?» Era il tipo di discorso che Jonathan preferiva: s'illuminò in ViSo. «Potrò governarla?» chiese. «Sono sicuro che il comandante accetterebbe il tuo aiuto» rise Ralph. «E quando saremo a Londra, alloggeremo in un bell'albergo e compreremo tanti regali alla tua mamma.» Cathy lasciò ricadere in grembo il lavoro a maglia e lo guardò nella luce della lampada. «E io?» chiese Jonathan. «Potremo comprare tanti regali anche per me?» «E per la tua sorellina» promise Ralph. «Poi, quando torneremo, andremo a Johannesburg e compreremo una grande casa con i lampadari splendenti e i pavimenti di marmo.» «E la scuderia per il mio pony.» Jonathan batté le mani. «E una cuccia per Chaka.» Ralph gli spettinò i riccioli. «Tu andrai in una bella scuola di mattoni con tanti altri bambini.» Il sorriso di Jonathan tremolò leggermente: questo era forse un po' troppo.
Ralph lo rimise in piedi, gli diede una pacca sul sedere e disse: «Ora vai a dare il bacio della buonanotte alla mamma e dille di metterti a letto.» Cathy ritornò in fretta dalla tenda-nursery; rientrò nel cerchio di luce del fuoco con la dolce goffaggine della gravidanza, e si avvicinò a Ralph che sedeva sulla sedia pieghevole, con gli stivali allungati verso il fuoco e il bicchiere di whisky in mano. Si fermò dietro di lui, gli cinse il collo con le braccia e poi, premendogli le labbra sulla guancia, sussurrò: «E' vero o lo dici per prendermi in giro?» «Hai avuto anche troppa pazienza. Ti costruirò una casa come non sognavi neppure.» «Con i lampadari?» «E una carrozza per portarti all'opera.» «Non so se l'opera mi piacerà... Non ci sono mai stata.» «Lo scopriremo a Londra, no?» «Oh, Ralph, sono così felice che vorrei piangere. Ma perché proprio adesso? Cos'è successo, per cambiare tutto?» «Prima di Natale succederà qualcosa che cambierà le nostre vite. Diventeremo ricchi.» «Credevo che lo fossimo già.» «Intendo dire ricchi veramente, come lo sono Robinson e Rhodes.» «Puoi spiegarmi di cosa si tratta?» «No» rispose semplicemente Ralph. «Ma dovrai aspettare poche settimane. Fino a Natale, non oltre.» «Oh, tesoro» sospirò Cathy. «Starai lontano così a lungo. Mi mancherai tanto.» «Allora non sprechiamo in chiacchiere altro tempo prezioso.» Ralph si alzò, la sollevò tra le braccia e la portò delicatamente nella tenda conica sotto il fico selvatico. L'indomani mattina Cathy, tenendo lo scalpitante Jonathan per mano, guardava Ralph sul predellino della grande locomotiva verde. «Sembra che non facciamo altro che dirci addio.» Cathy dovette alzare la voce per farsi sentire nel sibilo del vapore delle ruote motrici e nel ruggito delle fiamme nella caldaia. «E' l'ultima volta» le promise Ralph. Era così bello e allegro che Cathy si sentiva soffocare. «Torna da me al più presto possibiie.» «Sì, al più presto possibile.» Il macchinista abbassò la leva e lo sbuffo di fumo soffocò le ulteriori parole di Ralph. «Che cosa? Che cosa hai detto?» Cathy si avviò a passo frettoloso e pesante a fianco della locomotiva che si era avviata sui binari. «Non perdere la lettera» ripeté Ralph. «Non la perderò» promise lei, e lo sforzo di reggere l'andatura della locomotiva divenne eccessivo. Si fermò, agitò il fazzoletto di trina bianca fino a quando la curva del binario diretto a sud nascose il treno dietro un kopje e l'ultimo singulto doloroso del fischio si perse nell'aria. Poi tornò verso Isazi che li aspettava con il calesse. Jonathan si svincolò e la precedette correndo per arrampicarsi a cassetta. «Posso guidare io, Isazi?» chiese, e Cathy provò un guizzo d'irritazione per la spensieratezza dell'infanzia: un momento prima Jonathan era piangente e addolorato e adesso gridava di gioia all'idea di tenere le redini. Mentre sedeva sullo strapuntino di pelle del calesse, Cathy infilò la mano nella tasca del grembiule per assicurarsi che ci fosse ancora la busta chiusa affidatale da Ralph. La prese e lesse le istruzioni che aveva scritto sulla parte anteriore. «Aprila solo quando avrai ricevuto il mio telegramma.» Stava per riporla nella tasca; poi si morse le labbra, lottando contro la tentazione, ma alla fine infilò l'unghia per aprirla ed estrasse il foglio piegato. Quando riceverai il mio telegramma, mandane immediatamente uno urgente a: «Maggiore Zouga Ballantyne, Quartier Generale del Reggimento Cavalleria Rhodesiano e Pitsani, Bechuanaland: SUA MOGLIE LOUISE BALLANTYNE GRAVEMENTE MALATA RITORNI SUBITO KING'S LYNN.» Cathy rilesse le istruzioni e fu assalita da una paura improvvisa. «Oh, tesoro mio, che cosa hai intenzione di fare?» mormorò, mentre Jonathan avviava i cavalli al trotto lungo la pista, in direzione dell'accampamento. *** L'officina delle miniere d'oro Simmer e Jack era situata ai piedi della torre d'acciaio sulla cresta del dosso. La città di Johannesburg si estendeva più in basso, nella valle e sulle col line tondeggianti.
L'officina aveva il tetto e le pareti di lamiera ondulata e il pavimento di cemento era macchiato da pozzanghere d'olio di macchina. C'era un caldo da forno, e al di là delle grandi porte scorrevoli in fondo al capannone la luce della prima estate era accecante. «Chiudete» ordinò Ralph Ballantyne, e due uomini del piccolo gruppo andarono a tirare le massicce strutture di ferro e legno, sbuffando e sudando per lo sforzo fisico cui non erano abituati. Con le porte chiuse l'interno era buio come una cattedrale gotica e i bianchi raggi del sole che filtravano attraverso le fessure nelle pareti erano pieni di un pulviscolo turbinante. Al centro dell'officina stava una fila di cinquanta bidoni gialli. Sul coperchio di ognuno erano stampigliate in vernice nera le parole: OLIO PESANTE DA MACCHINA. 200 LITRI. Ralph si tolse la giacca di lino beige, sciolse il nodo della cravatta e rimboccò le maniche. Scelse un martello da un ripiano e uno scalpello dal banco da lavoro e cominciò a battere per aprire il coperchio del primo bidone. Gli altri quattro uomini si avvicinarono per osservare. I colpi di martello echeggiavano cavernosi nel lungo capannone. La vernice gialla volava via a scaglie sotto lo scalpello e il metallo grezzo era lucido come scellini appena coniati. Finalmente Ralph forzò il coperchio semistrappato e lo piegò all'indietro. La superficie dell'olio baluginava nera e glutinosa nella luce scarsa. Ralph immerse il braccio destro fino al gomito ed estrasse un lungo fagotto gocciolante avvolto nella tela cerata. Lo portò sul banco da lavoro, tranciò i legacci con lo scalpello e quando rimosse la tela cerata risuonarono esclamazioni soddisfatte. «Sono fucili Lee Metford ultimo modello, che sparano senza fare fumo. Non esistono fucili al mondo in grado di eguagliarli.» Si passarono l'arma di mano in mano. Quando arrivò a Percy Fitzpatrick, fece scattare rapidamente l'otturatore. «Quanti?» «Dieci per bidone» rispose Ralph. «Cinquanta bidoni.» «E il resto?» chiese Frank Rhodes. Era diverso dal fratello minore quanto Ralph era diverso da Jordan. Era alto, magro, con gli occhi incassati, gli zigomi alti, e i capelli già grigi che recedevano dall'alta fronte ossuta. «Posso portarne un carico ogni settimana per le prossime cinque settimane» rispose Ralph mentre si asciugava le mani unte con uno straccio. «Non può far prima?» «E voi ce la farete a pulirli e distribuirli in meno tempo?» ribatté Ralph e, senza attendere una risposta, si rivolse a John Hays Hammond, il formidabile ingegnere minerario americano del quale si fidava più che dell'inetto fratello di Rhodes. «Avete deciso il piano d'azione definitivo?» chiese. «Il signor Rhodes vorrà saperlo quando tornerò a Kimberley.» «Il nostro primo obiettivo è impadronirci del forte e dell'arsenale di Pretoria» disse Hays Hammond, e incominciarono una discussione dettagliata mentre Ralph prendeva appunti sul retro d'un pacchetto di sigarette. Quando alla fine Ralph annuì e mise il pacchetto nella tasca dei calzoni, Frank Rhodes chiese: «Che notizie ci sono da Bulawayo?» «Jameson ha i suoi uomini, più di seicento. Sono montati e armati. Sarà pronto a muovere verso sud per puntare su Pitsani l'ultimo giorno del mese: è la sua più recente comunicazione.» Ralph indossò di nuovo la giacca. «Sarà più prudente non farci vedere insieme.» Tornò a stringere la mano a tutti, ma quando arrivò al colonnello Frank Rhodes non seppe resistere alla tentazione di soggiungere: «E sarebbe anche più saggio, colonnello, se lei limitasse all'essenziale ì suoi messaggi telegrafici. Il codice che usa, i riferimenti quotidiani alla flottazione fittizia della sua miniera d'oro sono sufficienti per attirare l'attenzione anche del più stupido degli agenti di polizia del Transvaal, e sappiamo con certezza che ce n'è uno nell'ufficio telegrafico di Johannesburg.» «Signore, non abbiamo inviato comunicazioni superflue» rispose impettito Frank Rhodes. «Allora come giudica l'ultima: "I seicento azionisti del nord sono in posizione per assumere le loro obbligazionl"?» Ralph scimmiottò la voce affettata del colonnello, poi fece un cenno di saluto, uscì per raggiungere il suo cavallo e si avviò lungo la strada che portava alla discesa di Fordsberg e alla città.
*** A un'occhiata della madre Elizabeth si alzò e incominciò a raccogliere le ciotole della zuppa. «Non hai finito, Bobby» disse al fratellino. «Non ho fame, Lizzie» protestò il bambino. «Ha un sapore che non mi piace.» «Hai sempre una scusa buona per non mangiare, signorino Robert» lo rimproverò Elizabeth. «Non mi meraviglia se sei così magro. Non diventerai mai alto e forte come il tuo papà.» «Basta, Elizabeth» disse bruscamente Robyn. «Lascia in pace il bambino, se non ha fame. Sai che non sta bene.» Elizabeth lanciò un'occhiata alla madre, poi ammucchiò la ciotola di Robert con le altre. Nessuna delle ragazze era mai stata autorizzata a lasciare il cibo nel piatto, neppure quando erano tormentate dalla malaria; ma aveva imparato a non protestare per i favoritismi che Robyn riservava all'unico figlio maschio. Reggendo con l'altra mano la lanterna a cherosene, uscì dalla porta posteriore e raggiunse la casupola della cucina. «E' ora che prenda marito.» Juba scosse la testa tristemente. «Ha bisogno di un uomo nel letto e di un bambino al seno per tornare a sorridere.» «Non dire sciocchezze, Juba» scattò Robyn. «Ci sarà tempo più tardi. Qui sta facendo un lavoro importante, non potrei lasciarla andare. E' utile come un dottore.» «I giovani vengono da Bulawayo uno dopo l'altro, e lei li manda via tutti» continuò Juba ignorando l'ingiunzione di Robyn. «E' una ragazza seria e sensata» disse Robyn. «E' una ragazza triste e ha un segreto.» «Oh, Juba, non tutte le donne vogliono passare la vita al servizio di un uomo» ribatté Robyn. «Ricordi quand'era bambina?» continuò imperturbabile Juba. «Com'era vivace... splendeva di gioia. Scintillava come una goccia di rugiada mattutina.» «E' cresciuta.» «Pensavo che fosse il giovane cercatore di rocce, l'uomo venuto d'oltremare che ha portato via Vicky.» Juba scosse la testa. «Ma non era lui. Elizabeth rideva alle nozze di Vicky, e non era la risata di una ragazza che ha perduto il suo amore. E' qualcosa d'altro» dichiarò solennemente Juba. «O qualcun altro.» Robyn stava per protestare ancora, ma fu interrotta da un suono di voci eccitate nell'oscurità, fuori della porta, e si affrettò ad alzarsi. «Cosa c'è?» gridò. «Cosa sta succedendo, Elizabeth?» La fiamma della lanterna riattraversò ondeggiando lo spiazzo: illuminava i piedi agili di Elizabeth, ma le lasciava in ombra il viso. «Mamma! Mamma! Vieni, presto!» La voce squillava d'eccitazione. Elizabeth entrò precipitosamente. «Controllati, ragazza mia.» Robyn le scosse la spalla ed Elizabeth trasse un respiro profondo. «Il vecchio Moses è tomato dal villaggio... dice che ci sono soldati, centinaia di soldati che stanno passando davanti alla chiesa.» «Juba, prendi la giacca di Bobby.» Robyn staccò dai ganci dietro la porta lo scialle di lana e il bastone. «Elizabeth, dammi la lanterna!» Robyn si avviò per prima lungo il viale sotto le spathodee, e passò davanti ai capannoni dell'ospedale, diretta verso la chiesa. Procedevano in un gruppetto, con Bobby infagottato in una giacca di lana e sorretto sul fianco grasso di Juba; ma prima che arrivassero alla chiesa molte altre figure indistinte si affollarono frettolose intorno a loro nell'oscurità. «Stanno uscendo dall'ospedale!» s'indignò Juba. «E poi domani staranno male di nuovo.» «Non riuscireste mai a fermarli.» Elizabeth sospirò rassegnata. «La curiosità uccide il gatto.» Poi esclamò: «Eccoli! Moses aveva ragione.. guardateli!» La luce delle stelle era abbastanza viva per rivelare il torrente di cavalieri che si riversava sulla strada dalla strozzatura fra le colline. Procedevano affiancati a due a due, distanziati d'una lunghezza. Era troppo buio per vedere le facce sotto le ampie tese dei cappelli, ma dietro la spalla di ognuno spuntava come un indice accusatore la canna d'un fucile, profilata contro le gelide distese di stelle che riempivano il cielo. La polvere alta della pista smorzava lo scalpitio degli zoccoli in un suono farinoso; ma il cuoio delle selle scricchiolava e le catene dei morsi tintinnavano ogni volta che un cavallo scuoteva la testa. Eppure la moltitudine era stranamente silenziosa. Nessuna voce si levava più forte di un bisbiglio, non giungevano gli ordini di serrare le file, e neppure i consueti avvertimenti «Attenti, buca!» di
una massa di cavalieri che si muovono in formazione nell'oscurità su un terreno sconosciuto. La testa della colonna raggiunse la biforcazione della strada sotto la chiesa, ma svoltò verso sinistra sulla vecchia carraia che portava al sud. «Chi sono?» chiese Juba con un fremito superstizioso nella voce. «Sembrano fantasmi.» «Non sono fantasmi» disse seccamente Robyn. «Sono i soldatini di stagno di Jameson, il suo nuovo Reggimento di Cavalleria Rhodesiano.» «Perché prendono la strada vecchia?» Anche Elizabeth parlava sottovoce, suggestionata da Juba e dal silenzio innaturale. «E perché procedono al buio?» «Sento puzza di Jameson... e del suo padrone.» Robyn si portò sul bordo della strada e gridò, alzando la lanterna sopra la testa: «Dove state andando?» Una voce bassa le rispose dalla colonna: «Andiamo là e torniamo per vedere quant'è distante, signora!» e risuonarono alcune risate, ma la colonna passò oltre la chiesa senza rallentare. Al centro della colonna c'erano i trasporti, sette carri trainati dai muli, dato che la rinderpest non aveva lasciato buoi da tiro. Dopo i carri venivano otto veicoli a due ruote, con i teli che coprivano le Maxim, e quindi tre leggeri cannoni da campagna, residuati del corpo di spedizione di Jameson che aveva conquistato Bulawayo pochi anni prima. La coda della colonna era formata di altri uomini a cavallo, affiancati per due. Impiegarono quasi venti minuti per sfilare tutti davanti alla chiesa, e poi il silenzio divenne assoluto. Soltanto il sentore di polvere nell'aria ricordava il loro passaggio. I pazienti dell'ospedale cominciarono ad allontanarsi per tornare nelle ombre più cupe sotto le spathodee; ma il piccolo gruppo familiare restò lì senza dir nulla, in attesa che Robyn si muovesse. «Mamma, ho freddo» frignò infine Bobby, e Robyn si scosse. «Chissà quale diavoleria stanno preparando» mormorò, incamminandosi verso casa. «Ormai i fagioli si saranno raffreddati» protestò Elizabeth, e si affrettò a tornare in cucina mentre Robyn e Juba salivano i gradini della veranda. Juba lasciò scivolare a terra Bobby, che corse subito nella luce calda della lampada della sala da pranzo. Juba stava per seguirlo, ma Robyn la trattenne posandole la mano sul braccio. Le due donne rimasero vicine, sicure nell'affetto che provavano l'una nei confronti dell'altra. Guardarono la parte opposta della valle, nella direzione in cui erano spariti i cavalieri silenziosi. «Com'è bello!» mormorò Robyn. «Penso sempre che le stelle siano mie amiche. Sono così costanti, così fidate, e stanotte sono così vicine.» Alzò la mano come per coglierle dal firmamento. «Ecco là Orione, e il Toro.» «Ed ecco là i quattro figli di Manatassi» disse Juba. «I poveri bambini assassinati.» «Le stesse stelle.» Robyn la strinse a sé. «Le stesse stelle splendono su noi tutti, sebbene le conosciamo con nomi diversi. Tu chiami Figli di Manatassi quelle quattro stelle bianche... ma noi le chiamiamo la Croce. La Croce del Sud.» Sentì Juba trasalire e rabbrividire, e subito assunse un tono preoccupato. «Cosa c'è, mia Piccola Colomba?» chiese. «Bobby aveva ragione» bisbigliò Juba. «E' freddo, dovremmo rientrare.» Rimase in silenzio durante il resto del pasto, ma quando Elizabeth portò Bobby a dormire, disse semplicemente: «Nomusa, devo tornare al villaggio.» «Oh, Juba, Ci sei appena stata. Cos'è successo?» «Ho un presentimento, Nomusa, il presentimento che mio marito abbia bisogno di me.» «Gli uomini» disse amaramente Robyn. «Se potessimo ammazzarli tutti... La vita sarebbe tanto più semplice se fossimo noi donne a governare il mondo.» *** «E' il segno» mormorò Tanase, stringendosi al seno il figlio. La luce del piccolo fuoco fumoso al centro della capanna lasciava nell'ombra i suoi occhi come le orbite d'un teschio. «Le profezie dell'Umlimo sono sempre così: il significato diventa evidente solo quando si realizzano gli eventi.» «Le ali che oscurano il cielo a mezogiorno» disse Bazo annuendo. «E le bestie con le teste contorte fino a toccare i fianchi, e adesso...» «Adesso la croce ha divorato il bestiame senza corna, i cavalieri sono andati a sud nella notte. E' il terzo e ultimo ségno che attendevamo» esultò Tanase.
«Gli spiriti dei nostri antenati ci spronano. Il tempo dell'attesa è finito.» «Piccola madre, gli spiriti ti hanno scelta per rendere chiare le loro intenzioni. Senza di te non avremmo saputo in che modo i bianchi chiamano quelle quattro grandi stelle. Ora gli spiriti hanno un altro compito per te. Tu sei quella che sa dove sono e quanti sono, alla Missione di Khami.» Juba guardò il marito. Le labbra le tremavano, i grandi occhi erano pieni di lacrime. Gandank le accennò di parlare. «C'è Nomusa» mormorò Juba. «Nomusa che è per me più di una madre e di una sorella, Nomusa che tagliò la mia catena sulla nave dei negrieri...» «Scaccia dalla mente questi pensieri» consigliò soavemente Tanase. «Ora non sono opportuni. Chi altri c'è alla missione?» «Ci sono Elizabeth, la mia gentile e triste Lizzie, e Bobby, che porto in braccio.» «E poi?» insistette Tanase. «Non ce ne sono altri» mormorò Juba Bazo guardò il padre. «Sono tuoi, tutti quelli della Missione di Khami. Sai cosa dev'essere fatto.» Gandank annuì e Bazo si rivolse di nuovo a Juba. «Dimmi, dolce piccola madre» disse con voce suadente. «Dimmi di Bakela, il Pugno, e della sua donna. Che cosa sai di lui?» «La settimana scorsa era nella grande casa di King's Linn, lui e Balda, Colei-che-porta-cieli-sereni-e-soleggiati.» Bazo si girò verso uno degli altri induna che sedevano schierati dietro Gandank. «Suku!» L'induna si sollevò su un ginocchio. «Baba?» «Bakela è tuo, e anche la sua donna» disse Bazo. «E quando avrai finito quel lavoro, prosegui per Hartley Hills e prendi con te i minatori. Ci sono tre uomini, e una donna con quattro cuccioli.» «Nkosi Nkulu.» L'induna accettò l'ordine e nessuno obiettò quando chiamò Bazo «Nkosi Nkulu, Re.» «Piccola madre, dove sono Henshaw e la sua donna, che è figlia di Nomusa?.» «Nomusa ha ricevuto una lettera da lei tre giorni fa. lE al capolinea della ferrovia, con il figlio. Porta in grembo una creatura che dovrebbe nascere al tempo della festa di Chawala. Ha scritto della sua grande gioia.» «E Henshaw?» chiese paziente Bazo. «Dov'è Henshaw?» «Nella lettera diceva che era là, ed era la fonte della sua felicità. Forse è ancora con lei.» «Sono miei» disse Bazo. «Loro e i cinque uomini bianchi al capolinea della ferrovia. Poi procederemo sulla strada dei carri e uccideremo i due uomini, la donna e i tre bambini alla Miniera Antelope.» Continuò tranquillamente ad assegnare un compito a ognuno dei suoi comandanti: ogni fattoria e ogni miniera isolata venne data a uno di loro con il numero delle vittime da massacrare, le linee telegrafiche da tagliare, i poliziotti indigeni da sterminare; le posizioni dovevano essere sorvegliate, tutte le strade carraie dovevano essere battute per eliminare i viaggiatori, le armi da fuoco dovevano essere prelevate, il bestiame rubato e nascosto. Quando ebbe finito, si rivolse alle donne. «Tanase, tu farai in modo che tutte le nostre donne e i bambini vadano nell'antico rifugio; tu stessa li guiderai nelle sacre Colline Matopos. Ti assicurerai che rimangano in piccoli gruppi, ben separati gli uni dagli altri e che i mujiba, i ragazzi non ancora iniziati, sorveglino dalle cime per segnalare l'avvicinarsi dei bianchi. Le donne prepareranno le pozioni e il muti per i nostri uomini che resteranno feriti.» «Nkosi Nkulu» ripeté Tanase dopo ogni istruzione, e lo scrutò cercando di non lasciar trapelare l'orgoglio e la folle esultanza. «Re!» lo chiamò come avevano fatto gli induna. Poi Bazo tacque. Il silenzio nella capanna era teso e intenso, il bianco degli occhi brillava nelle facce d'ebano lucido. Tutti attendevano un'ultima cosa, e infine Bazo parlò di nuovo. «Per tradizione, la notte della luna di Chawala i figli e le figlie di Mashobane, di Mzilikazi e di Lobengula devono celebrare la Festa dei Primi Frutti. Questa stagione non ci saranno pannocchie di mais da cogliere perché le locuste le hanno colte per noi. Questa stagione non vi sarà un toro nero che i giovani guerrieri dovrebbero uccidere a mani nude, perché la rinderpest ha già compiuto la loro opera.» Bazo si guardò intorno. «Perciò la notte di questa luna di Chawala, incominceremo. Che la tempesta infuri. Che gli occhi diventino rossi. Che i giovani matabele si scatenino!» «Jee!» mormorò Suku nella seconda fila degli induna, e il vecchio Babiaan riprese il canto di guerra, e tutti cominciarono a dondolarsi con le gole protese e gli occhi rossi e sporgenti nella luce del fuoco, mentre la divina pazzia della guerra scendeva su di loro. ***
Le munizioni erano la merce che faceva perdere più tempo e Ralph poteva contare soltanto su venti uomini fidati. C'erano diecimila colpi in ogni cassetta di ferro con la sigla WD e la freccia impressa sul coperchio. Erano chiuse da un semplice fermaglio che si poteva aprire con il calcio d'un fucile. L'esercito britannico imparava sempre le lezioni nel modo più doloroso. Questa l'aveva imparata a Isandhlwana, la Collina della Piccola Mano alla frontiera dello Zululand, dove Lord Chelmsford aveva lasciato mille uomini nel campo base mentre guidava una colonna volante per dar battaglia agli induna. Ma gli induna avevano evitato lo scontro con la colonna, erano tornati indietro e avevano assaltato il campo base. Solo quando gli impi brulicanti avevano sfondato il perimetro, i furieri s'erano accorti che Chelmsford avevà portato con sé le chiavi delle casse di munizioni. Isazi, il piccolo conducente zulu, aveva descritto a Ralph la fine cui aveva assistito con i suoi occhi. «Cercavano di aprire le casse con le scuri, le baionette e le mani nude. Imprecavano e urlavano di rabbia e d'angoscia quando li assaltavamo con gli assegai, e alla fine cercavano di difendersi con i fucili scarichi.» Gli occhi di Isazi s'erano velati al ricordo, come quelli d'un vecchio che rammenti un amore perduto. «Ti assicuro, Piccolo Falco, che erano valorosi e che fu bellissimo ucciderli.» Nessuno sapeva con certezza quanti inglesi fossero morti alla Piccola Mano perché era passato quasi un anno prima che Chelmsford riprendesse l'accampamento; ma era stato uno dei disastri più terribili della storia militare britannica, e subito dopo il War Office aveva ordinato di modificare le cassette delle munizioni. E adesso il fatto che le munizioni fossero in quelle cassette WD indicava quanto fosse profonda l'intesa tra Rhodes e il segretario delle Colonie a Whitehalk. Ma i pacchi dovevano essere aperti e riconfezionati in carta cerata. Cento colpi per pacchetto, che dovevano essere saldati entro fogli di stagnola prima di venire immersi nei bidoni d'olio. Era un compito oneroso, e per Ralph era un sollievo abbandonare per qualche ora le officine della De Beers Consolidated Mines Company dove veniva eseguito il lavoro. Aaron Fagan lo attendeva in ufficio, con la giacca indosso e il cappello in mano. «Stai diventando un tipo misterioso, Ralph» disse in tono d'accusa. «Non potresti darmi un'idea di quello che hai in mente?» «Lo scoprirai molto presto» promise Ralph, mettendosi un sigaro tra i denti. «La sola cosa che voglio sapere da te è se questo tale è discreto e degno di fiducia.» «E' il figlio maggiore di mia sorella» ribatté irritato Aaron; e Ralph gli accese un sigaro per calmarlo. «Molto bene, ma saprà tenere la bocca chiusa?» «Ci giocherei la vita.» «Potresti essere costretto a farlo» disse Ralph in tono asciutto. «Bene, andiamo a trovare questo gioiello.» David Silver era un giovane piuttosto grasso, con la faccia rosea e lustra, il pince-nez d'oro, i capelli lucidi di brillantina e pettinati con una scriminatura in mezzo che sembrava la cicatrice d'un colpo di spada. Trattò con deferente cortesia lo zio Aaron e si assicurò che i due visitatori fossero comodi, che le loro sedie fossero disposte con la luce alle spalle, e che ognuno dei due avesse un portacenere accanto e una tazza di tè in mano. «E' pekoe» osservò modestamente, mentre sedeva accanto alla scrivania. Poi congiunse le punte delle dita, sporse. le labbra e guardò Ralph con aria d'attesa. Mentre Ralph gli spiegava laconicamente ciò che voleva, David Silver annuiva di continuo ed emetteva mormorii d'incoraggiamento. «Signor Ballantyne.» Quando Ralph ebbe finito, Silver continuò ad annuire come una bambola di porcellana e allargò le mani. «Noi agenti di cambio la chiamiamo, nel nostro gergo, un'operazione ribassista o vendita allo scoperto. E' una transazione molto comune.» Aaron Fagan si agitò un po' sulla sedia e guardò Ralph con aria di scusa. «David, credo che il signor Ballantyne sappia già...» «No, no.» Ralph alzò una mano. «Lascia che il signor Silver continui, ti prego. Sono sicuro che le sue precisazioni saranno illuminanti.»
L'espressione era solenne, ma gli occhi brillavano divertiti. David Silver, che non ne afferrava l'ironia, accettò l'invito. «E' un contratto speculativo a breve. Tengo sempre a ricordarlo ai clienti che si propongono di concluderne. Per essere del tutto sincero, signor Ballantyne, io non approvo queste speculazioni. Ho sempre pensato che la Borsa dovesse essere uno strumento per investimenti legittimi, un mercato dove il capitale può allearsi con l'iniziativa lecita. Non avrebbe dovuto trasformarsi in una specie di ippodromo dove c'è chi punta sui brocchi basandosi su soffiate.» «E' una concezione molto nobile» riconobbe Ralph. «Sono lieto che la pensi così.» David Silver gonfiò le gote. «Comunque, per tornare a questo genere d'operazione, ecco. Il cliente si affaccia sul mercato e si offre di vendere azioni di una data società, che al momento non possiede, a un prezzo inferiore al valore corrente di mercato, e di consegnarle in futuro, di solito entro un periodo che va da uno a tre mesi. »«Sì.» Ralph annuì con aria solenne. «Fin qui credo di seguirla.» «Naturalmente l'aspirazione del ribassista è che le azioni scendano molto di valore prima che sia obbligato a consegnarle all'acquirente. Dal suo punto di vista, tanto maggiore sarà la caduta, tanto più grande sarà il suo profitto.» «Ah!» disse Ralph. «Un modo facile per guadagnare.» «D'altra parte...» Il viso tondo di David Silver assunse un'espressione severa. «D'altra parte, se le azioni aumentassero nel frattempo di valore il ribassista incorrerebbe in perdite considerevoli. Sarebbe costretto ad acquistare azioni ai prezzi aumentati per poterle consegnare all'acquirente, e com'è ovvio gli verrebbe pagato solo il prezzo pattuito in precedenza.» «E' ovvio.» «Ora capisce perché cerco di dissuadere i miei clienti dall'impegnarsi in questo genere d'affari.» «Suo zio mi aveva assicurato che lei è un uomo prudente.» David Silver lo guardò con aria soddisfatta. «Signor Ballantyne, penso debba sapere che al momento la Borsa è euforica. Ho sentito dire che alcune delle società del Witwatersrand avranno profitti elevatissimi questo trimestre. Secondo me, è il momento di acquistare azioni delle società aurifere, non di venderle.» «Signor Silver, io sono un terribile pessimista.» «Sta bene.» David Silver sospirò con l'aria dell'essere superiore abituato all'intrattabilità dell'uomo comune. «Vuol dirmi esattamente che cos'ha in mente, signor Ballantyne?» «Voglio vendere allo scoperto le azioni di due società» disse Ralph. «Consolidated Goldfields e British South Africa Company.» Una profonda tristezza colmò lo sguardo di David Silver. «Ha scelto le società più forti del listino. Sono del signor Rhodes. Ha in mente una cifra, signor Ballantyne? Il numero minimo di azioni che si può scambiare è cento...» «Duecentomila» disse Ralph in tono blando. «Duecentomila sterline!» esclamò David Silver. «Azioni» lo corresse Ralph. «Signor Ballantyne.» Silver era impallidito. «Le BSC sono quotate dodici sterline e le Consolidated otto. Se lei vende duecentomila azioni... be', è una transazione da due milioni di sterline.» «No, no!» Ralph scosse la testa. «Mi ha frainteso.» «Dio sia ringraziato.» Le Guance paffute di David Silver avevano ripreso un po' di colore. «Non intendevo duecentomila in totale, ma duecentomila azioni per ogni società. Un valore complessivo di quattro milioni di sterline.» David Silver si alzò con uno scatto che rovesciò la sedia contro la parete. Per un momento sembrò che avesse intenzione di fuggire in strada. «Ma...» balbettò. «Ma...» Non seppe che altro aggiungere. Le lenti del pincenez si velarono, il labbro inferiore si sporse come quello d'un bambino imbronciato. «Si sieda» ordinò gentiimente Ralph, e Silver si lasciò ricadere sulla sedia. «Dovrò chiederle di versare un deposito» disse Silver in un ultimo tentativo. «Quanto occorre?» «Quarantamila sterline.» Ralph aprì il libretto degli assegni, l'appoggiò sulla scrivania e prese una delle penne di David Silver. Lo scricchiolio del pennino fu l'unico suono nel piccolo ufficio caldissimo, FIno A quando Ralph agitò l'assegno per asciugare l'inchiostro.
«Un'ultima cosa» disse. «Fuori da queste quattro pareti nessuno dovrà mai sapere che sono io a effettuare questa operazione.» «Ha la mia parola.» «O i suoi testicoli» l'avvertì Ralph mentre si tendeva per porgere l'assegno. E sebbene sorridesse, i suoi occhi erano d'un verde così freddo che David Silver rabbrividì e provò una fitta gelida negli organi minacciati. *** Era una tipica casa boera dell'alto veld, su una cresta rocciosa che dominava la pianura ondulata d'erba argentea. Il tetto di lamiera zincata incominciava ad arrugginire. La costruzione era circondata da ampie verande, e l'intonaco bianco era macchiato e scrostato. Dietro c'era una grossa girandola su un traliccio. Le pale giravano contro lo sfondo del cielo pallido e sereno, ruotavano nel vento secco e polveroso, e a ogni giro dello stantuffo una tazza d'acqua verde e torbida si versava nella cisterna rotonda di cemento accanto alla porta della cucina. Non c'era un giardino o un prato. Alcuni polli magri e screziati raspavano la terra nuda e calcinata o stavano appollaiati con aria sconsolata sul carro abbandonato e sul resto dell'equipaggiamento in rovina che non mancava mal sull'aia d'una casa boera. Dalla parte del vento prevalente stava un alto eucalipto australiano, con la corteccia vecchia, che pendeva a brandelli dal tronco argenteo come la pelle d'un serpente in muta. Nell'ombra scarsa erano legati otto piccoli, robusti cavalli bai. Quando Ralph smontò davanti alla veranda, un branco di cani bastardi accorse a ringhiare intorno a lui. Li disperse con qualche calcio e un colpo tagliente dello sjambok di pelle d'ippopotamo. «U kom, n bietjie laat, meneer.» Un uomo era uscito sulla veranda. Era in maniche di camicia, e le bretelle reggevano i calzoni marrone sformati che lasciavano scoperte le caviglie nude. Portava un paio di velskoen di pelle greggia, senza le calze. «Jammer.» Ralph si scusò per il ritardo, nella forma semplificata d'olandese che i boeri chiamavano taal, la lingua. L'uomo gli aprì la porta e Ralph si chinò per entrare nel soggiorno privo di finestre. C'era odore di fumo freddo e di cenere spenta. Il pavimento era coperto di stuoie di canne e di pelli di animali. C'era un'unica tavola al centro, di massiccio legno scuro tagliato rozzamente. Di fronte al camino era appeso un arazzo ricamato, i dieci comandamenti in scrittura olandese. Sul piano nudo del tavolo era aperto l'unico libro esistente in quella casa: un'enorme Bibbia olandese con la rilegatura in pelle e i fermagli d'ottone. Otto uomini sedevano ai lati del tavolo su sedie a strisce di cuoio. Tutti guardarono Ralph quando entrò. Tra loro non ce n'era uno che avesse meno di cinquant'anni, perché i boeri apprezzavano nei capi l'esperienza e la saggezza. Quasi tutti avevano la barba; tutti portavano indumenti rozzi e sciupati, e avevano l'aria seria e solenne. L'uomo che aveva accolto Ralph lo seguì e gli indicò in silenzio una sedia libera. Ralph sedette e tutte le teste irsute e barbute si distolsero da lui per girarsi verso l'uomo a capotavola. Era il più imponente di tutti, e di una bruttezza straordinaria, pari a quella di un bulldog o di un grosso antropoide. La barba era una sparsa frangia grigia, ma il labbro superiore era rasato. La pelle cascante era bruciata da diecimila feroci soli africani, ed era macchiata e sfregiata dalle verruche e dalle chiazze del cancro benigno della pelle, come le pagine di un libro vecchissimo. Una palpebra cadente gli dava un'espressione furba e sospettosa. Anche gli occhi color melassa avevano risentito dell'accecante bagliore del sole dell'Africa, della polvere del veld e dei campi di battaglia, ed erano perpetuamente iniettati di sangue, doloranti e infiammati. La sua gente lo chiamava Oom Paul, zio Paul, e lo venerava poco meno di quanto venerasse il Dio dell'Antico Testamento. Paul Kruger riprese a leggere a voce alta dalla Bibbia aperta davanti a sé. Leggeva lentamente, seguendo il testo con l'indice. La mano era priva del pollice, tranciato dallo scoppio della canna d'un fucile trent'anni prima. La voce era un rombante basso profondo. «'Solo che il popolo che abita nella terra è forte e le città sono fortezze grandissime: vi vedemmo anche gli Anakiti...' Solo Caleò fece tacere il popolo che mormorava contro Mosè e disse: "Saliamo e
conquistiamola, perché lo possiamo".» Ralph l'osservava con attenzione, studiando l'enorme COtpO curvo, le spalle così ampie che la testa sgraziata sembrava posata come un uccello spennacchiato sulla cima d'una montagna; e pensava alla leggenda che circondava quello strano uomo. Paul Kruger aveva nove anni quando il padre e gli zii avevano caricato i carri e radunato le mandrie e s'erano spinti verso nord, lontano dal dominio britannico, spronati dal ricordo dei loro eroi popolari impiccati dalle Giubbe Rosse a Slachters Nek. I Kruger se ne andavano per sottrarsi all'ingiustizia della liberazione dei loro schiavi, ai tribunali inglesi, ai giudici che non parlavano la loro lingua, alle tasse imposte sulla terra che apparteneva loro e alle truppe straniere che confiscavano le loro amate mandrie in pagamento di quelle tasse. Era l'anno 1835 e durante quel duro viaggio di trasferimento Paul Kruger diventò un uomo a un'età in cui quasi tutti i ragazzetti giocano con le bilie e gli aquiloni. Ogni giorno gli vemvano consegnati una carica di polvere e un'unica palla, e veniva mandato a procurare la carne per la famiglia. Se non portava una preda, il padre lo picchiava. Era diventato un esperto tiratore per necessità. Uno dei suoi compiti era precedere la carovana in cerca di acqua e di buoni pascoli. Divenne un cavaliere abilissimo e sviluppò un'attrazione quasi mistica per il veld e le Breggi di pecore e le mandrie di bovini multicolori che rappresentavano la ricchezza della sua famiglia. Come un muiba matabele, conosceva ogni bestia per nome e sapeva individuare un animale malato in mezzo al branco a un chilometro di distanza. Quando Mzilikazi, l'imperatore matabele, mandò i suoi impi contro la piccola carovana di carri, Paul prese posto con gli altri uomini alle barricate. C'erano trentatré combattenti boeri entro il cerchio dei carri: i carri erano uniti insieme con le catene e le aperture fra le ruote erano colmate da ammassi di rami spinosi. Gli amadoda matabele erano innumerevoli. Caricavano, un reggimento dopo l'altro, sibilando il loro sonante «Jee!» Attaccarono per sei ore senza tregua; e quando i proiettili cominciarono a scarseggiare, le donne boere fusero il piombo e ne fecero altri in mezzo alla battaglia. Quando finalmente i matabele ripiegarono, i loro morti erano accatastati intorno ai carri e il piccolo Paul era diventato adulto perché aveva ucciso un uomo... anzi, molti uomini. Stranamente, soltanto dopo altri quattro anni uccise il primo leone, sparandogli nel cuore una pallottola corazzata mentre la belva balzava sulla groppa del suo cavallo. Da allora aveva imparato a mettere alla prova un cavallo nuovo lanciandolo al galoppo sul terreno accidentato. Se cadeva, il giovane Paul atterrava in piedi come un gatto, scuoteva la testa con aria di disapprovazione e se ne andava. Quando cacciava i bufali, stava rivolto verso la coda del cavallo per poter sparare meglio allorché i grandi bovini lo inseguivano, come facevano invariabilmente. Quel modo inconsueto di stare in sella non sminuiva la sua capacità di controllare il cavallo, e sapeva girarsi con la faccia in avanti agilmente e con rapidità, in modo da non alterare l'andatura al pieno galoppo. Più o meno a quell'epoca incominciò a dare prova di poteri extrasensoriali. Prima di una caccia si piazzava accanto al cavallo, piombava in una trance autoindotta e cominciava a descrivere il territorio circostante e gli animali che vi si trovavano. «A un'ora di distanza, a nord, c'è una piccola pozza fangosa. Vi si sta abbeverando un branco di zebre quagga, e cinque grasse antilopi scendono verso l'acqua. Sulla collina più in alto, sotto un albero spinoso, riposa un branco di leoni: 'n ou swart maanhaar, un vecchio maschio dalla criniera nera, e due leonesse. Nelle valli dell'altra parte ci sono tre giraffe.» E i cacciatori trovavano gli animali, o i segni del loro passaggio, esattamente come li aveva descritti il giovane Paul. A sedici anni gli fu riconosciuto il diritto di scegliersi due fattorie: tutto il terreno che un cavaliere poteva delimitare girandogli intorno in un giorno. Ognuna era all'incirca di seimilacinquecento ettari. Erano state le prime delle immense proprietà terriere che aveva acquisito e conservato durante la sua vita: a volte aveva barattato seimilacinquecento ettari d'ottimi pascoli con un aratro o un sacco di zucchero.
A vent'anni era held cornet, una carica elettiva che era una via di mezzo tra il giudice e lo sceriffo; e il fatto che venisse scelto tanto giovane da uomini che avevano una venerazione per la vecchiaia lo rendeva eccezionale. Più o meno a quel tempo aveva sfidato a piedi un uomo a cavallo su una distanza di millecinquecento metri, e aveva vinto d'una lunghezza. Più tardi, durante una battaglia contro il capo negro Sekukuni, il generale boero fu colpito alla testa e cadde sul pendio di un kopje. Il generale era un uomo massiccio che pesava centoventi chili, ma Paul Kruger era balzato giù per i dirupi, aveva sollevato il corpo e aveva risalito il pendio sotto il fuoco dei moschetti di Sekuni. Quando partì per andare a prender moglie, si trovò il cammino bloccato dalla piena del Vaal che trascinava nella corrente le carcasse del bestiame domestico e della selvaggina. Nonostante le grida di avvertimento del traghettatore e senza neppure togliersi gli stivali, lanciò il cavallo nelle acque brune e attraversò. I fiumi straripati non potevano fermare un uomo come Paul Kruger. Dopo aver combattuto Moshesh e Mzilikazi e tutte le altre tribù bellicose a sud del Limpopo, e dopo aver bruciato la missione del dottor David Livingstone perché lo sospettava di fornire armi agli indigeni, dopo aver combattuto anche contro i propri compatrioti, i boeri ribelli dello Stato Libero d'Orange, era stato nominato comandante in capo dell'esercito e, in seguito, presidente della Repubblica Sudafricana. E questo vecchio indomabile, coraggioso, poderoso, brutto, ostinato, fanatico e stizzoso, ricchissimo di terre e di mandrie, alzò la testa dalla Bibbia e concluse la lettura con un'ingiunzione agli uomini che l'ascoltavano attentamente. «Temete Dio e diffidate degli inglesi» disse chiudendo il libro. Senza distogliere dalla faccia di Ralph gli occhi iniettati di sangue mugghiò a gran voce: «Porta il caffè!» e una cameriera negra entrò con un vassoio di latta carico di boccali fumanti. Gli uomini intorno al tavolo si scambiarono le borse di trinciato nero Magaliesberg e caricarono le pipe, osservando Ralph con espressioni chiuse e guardinghe. Quando il fumo azzurro e oleoso ebbe velato l'aria, Kruger riprese a parlare. «Ha chiesto di vedermi, mijn heer?» «Da solo» disse Ralph. «Mi fido di costoro.» «Sta bene.» Parlavano in taal. Ralph sapeva che Kruger parlava discretamente l'inglese, e che non voleva farlo per questioni di principio. Ralph aveva imparato a parlare il taal nella miniera di diamanti. Era il più semplice di tutti i linguaggi europei, adatto alla vita quotidiana di una società di cacciatori e contadini anche se persino loro, per le discussioni politiche e il culto, ricorrevano al più sofisticato altotedesco. «Mi chiamo Ballantyne.» «So chi è. Suo padre era il cacciatore di elefanti. Un uomo forte, dicono, e onesto... Ma lei...» Un torrente d'odio si insinuò nei toni del vecchio. «Lei appartiene a quel pagano di Rhodes.» E sebbene Ralph scuotesse la testa, continuò: «Non pensi che non conosca le bestemmie di quell'uomo. So che quando gli chiesero se credeva nell'esistenza di Dio, rispose...» A questo punto Kruger passò a un inglese dall'accento fortissimo: «'Assegno a Dio cinquanta probabilità su cento di esistere'.» Kruger scosse la testa. «Un giorno la pagherà, perché il Signore ha ordinato: "Non pronunciare il mio nome invano".» «Forse quel giorno è vicino» disse Ralph a voce bassa. «E forse lei è lo strumento scelto da Dio.» «Osa bestemmiare come Rhodes?» chiese bruscamente il vecchio. «No.» Ralph scosse la testa. «Vengo a consegnare nelle sue mani il bestemmiatore.» Posò una busta sul piano di legno scuro e con un movimento scattante la fece scivolare lungo il tavolo fino a quando si fermò davanti al presidente. «Un elenco delle armi che ha mandato in segreto a Johannesburg, e dove sono custodite. I nomi dei ribelli che intendono usarle. La consistenza del commando radunato al confine a Pitsani, il percorso che seguirà per raggiungere i ribelli a Johannesburg e la data in cui conta di partire.» Tutti gli altri seduti intorno al tavolo s'erano irrigiditi. Solo il vecchio continuava a fumare la pipa con calma. Non toccò la busta. «Perché è venuto da me?» «Quando vedo un ladro che sta per fare irruzione nella casa di un vicino, ritengo mio dovere avvertirlo.» Kruger si tolse la pipa dalla bocca e sputò un getto giallastro sul pavimento. «Noi siamo vicini» spiegò Ralph. «Siamo bianchi che vivono in Africa. Abbiamo un
destino comune. Abbiamo molti nemici, e forse un giorno dovremo combatterli insieme.» La pipa di Kruger gorgogliò sommessamente. Nessuno parlò per un paio di minuti, fino a che Ralph ruppe il silenzio. «E sta bene» disse. «Se il tentativo di Rhodes fallirà, io guadagnerò molto, molto denaro.» Kruger sospirò e annuì. «Bene. Ora finalmente le credo, perché questa è la ragione valida per il tradimento di un inglese.» Prese la busta nella vecchia mano nodosa. «Addio, mijn heer» disse a voce bassa. *** Cathy aveva ripreso la cassetta dei colori. L'aveva messa via quando era nato Jon-Jon, ma adesso aveva di nuovo il tempo. Questa volta era decisa a lavorare seriamente, anziché accontentarsi di zuccherosi ritratti di famiglia e graziosi paesaggi. Aveva incominciato uno studio degli alberi della Rhodesia, e ne aveva già una raccolta considerevole. Per prima cosa raffigurava l'albero intero, ed eseguiva fino a venti studi degli esemplari tipici prima di sceglierne uno rappresentativo; quindi aggiungeva i disegni dettagliati delle foglie e dei fiori e dei frutti che effigiava fedelmente ad acquerello; e infine pressava foglie e fiori veri e raccoglieva i semi e redigeva una descrizione particolareggiata della pianta. S'era resa conto molto presto della sua ignoranza, e aveva scritto a Città del Capo e a Londra per farsi mandare libri di botanica e il Systema Naturae di Linneo per le piante, e stava cercando di acquisire una buona competenza. Aveva già identificato otto alberi mai descritti in precedenza, e uno l'aveva chiamato «Terminalia Ralphii» in onore di Ralph, a un altro aveva dato un nome in omaggio a Jonathan, che s'era arrampicato sui rami per portarle i bei fiori rosa. Quando aveva mandato alcuni esemplari seccati e una cartella di disegni a Sir Joseph Hooker, ai Kew Gardens, aveva ricevuto una lettera molto incoraggiante, che elogiava la qualità del suo lavoro e confermava la classificazione delle nuove specie. Con la lettera era arrivata una copia del suo Genera Plantarum con dedica autografa «a una collega nello studio delle meraviglie della natura»: e quello era stato l'inizio di una corrispondenza ricca d'interesse. Era un passatempo che Cathy poteva praticare mentre Jon-Jon dava la caccia ai nidi, e l'aiutava a riempire le giornate vuote durante le assenze di Ralph, anche se ora faticava a star dietro al figlio. Il ventre ingombrante la costringeva a camminare con pesantezza poco dignitosa e doveva lasciare al bambino la soddisfazione di arrampicarsi sugli alberi e sulle rocce. Quella mattina stavano lavorando in una gola delle colline attorno al campo, dove avevano trovato un bell'albero dalla chioma ampia e strani grappoli di frutti a candelabro sui rami più alti. Jonathan era a sei metri da terra e si sporgeva per afferrare un ramo carico quando Cathy sentì le voci che chiamavano tra gli arbusti fitti all'imboccatura della gola. Si riabbottonò in fretta la blusa e riabbassò la gonna sulle gambe nude... il caldo era opprimente nel canalone tra le colline, e lei s'era seduta sulla riva per immergere i piedi nell'acqua. «Yoohoo!» chiamò, e il telegrafista salì sudando per il declivio ripido. Era un uomo che sembrava un gamberetto, con la testa calva e gli occhi sporgenti, ed era uno dei più ferventi ammiratori di Cathy. L'arrivo d'un telegramma per lei era un pretesto per lasciare la baracca e venire a cercarla. Attese con il cappello in mano e un'aria d'adorazione mentre Cathy leggeva il messaggio. «Posti prenotati Union Castle partenza Città del Capo per Londra 20 marzo stop apri busta e segui scrupolosamente istruzioni stop tornerò presto abbracci Ralph.» «Può spedire un telegramma per me, signor Braithwaite?» «Ma certo, signora Ballantyne, sarà un piacere.» L'ometto arrossì come una ragazzina e abbassò la testa intimidito. Cathy scrisse su un foglio dell'album degli schizzi il messaggio per richiamare Zouga Ballantyne a King's Linn, e il signor Braithwaite se lo strinse al petto come se fosse un talismano sacro. «Buon Natale, signora Ballantyne» disse.
Cathy trasalì. I giorni erano passati in fretta, e non s'era accorta che l'anno 1895 stava per giungere alla fine. All'improvviso la prospettiva di passare il Natale sola in quella zona selvaggia, un altro Natale senza Ralph, la sgomentò. «Buon Natale, signor Braithwaite» disse Cathy, e si augurò che il telegrafista se ne andasse prima che lei cominciasse a piangere. La gravidanza la rendeva così debole e lacrimosa... se almeno Ralph fosse ritornato. Se almeno... *** Pitsani non era una cittadina e neppure un villaggio. Era un unico emporio commerciale che sorgeva solitario nel piatto veld sabbioso al margine del deserto del Kalahari che si estendeva verso ovest per oltre duemila chilometri. Era a poca distanza dalla frontiera del Transvaal, ma non c'erano recinzioni né pali confinari che indicassero la divisione. Il territorio era così piatto e uniforme e gli arbusti così bassi che il cavaliere poteva vedere il posto di scambio a una distanza di dodici chilometri e, tutt'intorno, tremule come fantasmi nel miraggio del calore, le piccole, bianche tende coniche di un esercito accampato. Il cavaliere aveva spronato spietatamente il cavallo lungo i cinquanta chilometri dalla ferrovia a Mafeking, perché portava un messaggio urgente. Era un messaggero di pace abbastanza inverosimile, essendo un militare e un uomo d'azione. Era il capitano Maurice Heany, un bell'uomo dai capelli e i baffi scuri e gli occhi lampeggianti. Aveva prestato servizio nella cavalleria di Carrington e nella polizia del Bechuanaland, e durante la guerra contro i matabele aveva comandato un drappello di fanteria a cavallo. Era un falco e portava il messaggio d'una colomba. Le sentinelle avvistarono la polvere a tre chilometri di distanza e chiamarono fuori la guardia. Quando Heany entrò al trotto nel campo, tutti gli ufficiali erano già radunati davanti alla tenda del comando, e il dottor Jameson in persona gli andò incontro per stringergli la mano e accompagnarlo all'interno, al riparo da occhi curiosi. Zouga Ballantyne versò tonico indiano e gin e gli porse il bicchiere. «Mi dispiace, Maurice, non siamo al Kimberley Club. Purtroppo non c'è ghiaccio.» «Ghiaccio o no, lei mi ha salvato la vita.» Si conoscevano molto bene. Maurice Heany era stato uno dei soci di Ralph Ballantyne e di Harry Johnston quando avevano stipulato il contratto per condurre nel Mashonaland la prima colonna di pionieri. Heany bevve e si forbì i baffi prima di alzare gli occhi verso John Willoughby e il dottor Jim. Non sapeva esattamente a chi doveva consegnare il messaggio perché, sebbene Willoughby fosse il comandante del reggimento e Zouga Ballantyne il suo vice, e sebbene il dottor Jameson fosse ufficialmente un osservatore civile, tutti sapevano a chi spettava l'autorità suprema. Jameson lo tolse dall'imbarazzo ordinando apertamente: «Sta bene, amico, sentiamo.» «Non sono buone notizie, dottor Jim. Il signor Rhodes ha deciso che dovrete restare qui fino a che il Comitato di Riforma avrà conquistato Johannesburg.» «E quando sarà?» chiese rabbiosamente Jameson. «Guardi qui!» Prese dal tavolo pieghevole un fascio di telegrammi. «Un messaggio nuovo a ogni ora, nell'esecrabile codice di Frank Rhodes. Prenda questo, arrivato ieri.» James lo lesse a voce alta: «"E' assolutamente necessario rimandare flottazione in attesa di accordarci su carta intestata società".» Jameson lasciò ricadere i telegrammi con una smorfia di disgusto. «Questa ridicola discussione sulla bandiera da far sventolare. Accidenti a me; ma se non lo facciamo per l'Union Jack, allora per che cosa lo facciamo?» «E' un po' come la sposa timida che, dopo aver fissato la data, guarda avvicinarsi con deliziosa confusione il giorno delle nozze» commentò sorridendo Zouga Ballantyne. «Dovete ricordare che i nostri amici del Comitato di Riforma, a Johannesburg, sono abituati alle transazioni in Borsa e alle speculazioni finanziarie più che all'uso dell'acciaio. Come la vergine pudibonda, forse avranno bisogno che qualcuno gli forzi garbatamente la mano.» «Appunto.» Il dottor Jameson annuì. «Eppure il signor Rhodes non vuole che ci muoviamo prima di loro.» «C'è un'altra cosa che dovete sapere.» Heany esitò. «Pare che i signori di Pretoria si siano accorti che si sta preparando' qualcosa. Corre persino la voce che tra noi ci sia un traditore.» «E' impensabile» scattò Zouga.
«Sono d'accordo con lei, Zouga» annuì il dottor Jim. «E' molto più probabile che quei maledetti telegrammi così puerili di Frank Rhodes siano arrivati all'attenzione del vecchio Kruger.» «Sia come sia, signori, i boeri stanno facendo certi preparativi... è addirittura possibile che abbiano già chiamato i loro commando nelle divisioni Rustenburg e Zeerust.» «Se è così» disse Zouga abbassando la voce, «abbiamo una scelta. Possiamo muoverci immediatamente, oppure possiamo tornare tutti a Bulawayo.» Il dottor Jameson non riuscì più a stare seduto. Si alzò di scatto dalla sedia di tela e cominciò a camminare avanti e indietro a piccoli passi nervosi. Tutti lo seguirono in silenzio con gli occhi fino a quando si fermò davanti all'apertura e fissò la piana calcinata dal sole, verso l'orizzonte orientale oltre il quale si estendeva l'immenso tesoro aurifero del Witwatersrand. Quando finalmente si girò verso di loro, tutti compresero che aveva deciso. «Io vado» disse. «L'immaginavo» mormorò Zouga. «E lei cosa intende fare?» chiese Jameson. «Verrò con lei» rispose Zouga. «L'immaginavo» disse Jameson. Lanciò uno sguardo a Willoughby, che annuì. «Bene! Johnny, raduni gli uomini. Vorrei parlare con loro prima della partenza... Zouga, si accerti che le linee del telegrafo vengano tagliate. Non voglio più vedere quelle comunicazioni di Frankie. Se ha qualcosa d'altro da dire, potrà dirmelo in faccia quando arriveremo a Johannesburg.» *** «Hanno preso Jameson!» Il grido echeggiò nella quiete elegante del Kimberley Club come l'urlo di guerra degli unni alle porte di Roma. La costernazione fu immediata e sconvolgente. I soci lasciarono il bar per riversarsi nell'atrio marmoreo e circondarono l'uomo che aveva gridato la notizia. Altri uscirono dalla sala di lettura e si affollarono alle ringhiere, lanciando domande dall alto. In sala da pranzo qualcuno urtò il carrello degli arrosti nella fretta di accorrere nell'atrio e lo rovesciò con un tonfo il cosciotto rotolò sul pavimento lucido mentre le patate lo precedevano come una squadra di valletti. Il portatore della notizia era uno dei ricchi agenti per gli acquisti dei diamanti di Kimberley, una professione che non veniva più chiamata kopjewalloping: ed era così agitato che aveva dimenticato di togliersi il cappello di paglia quando era entrato, una mancanza che in un altro momento gli sarebbe costata una reprimenda da parte del comitato. Adesso era al centro dell'atrio, con il cappello calcato sulla testa e gli occhiali da lettura sulla punta del naso reso paonazzo dall'agitazione. Stava leggendo una copia del Diamond Fields AdiJertiser, dall'inchiostro così fresco che gli macchiava le dita: «Jameson alza bandiera bianca a Doornkop dopo un accanito combattimento che è costato sedici morti. "Dottor Jameson, è un onore incontrarla." Il generale Cronje accetta la resa.» Ralph Ballantyne non aveva lasciato il suo posto al tavolo d'angolo, anche se i suoi ospiti l'avevano abbandonato per accorrere nell'atrio con gli altri. Accennò all'avvilito cameriere addetto ai vini di riempirgli il bicchiere e si servì un'altra porzione di sole bonne femme in attesa del ritorno dei suoi commensali. Tornarono preceduti da Aaron Fagan, e parevano reduci da un funerale. «I boeri dovevano aspettarli...» «Il dottor Jim è caduto nella trappola...» «Che cosa pensava di fare?» Le sedie scricchiolarono e tutti tesero le mani verso i bicchieri non appena furono seduti. «Aveva seicentosessanta uomini armati. Per Dio, allora era una cosa pianificata con precisione.» «Ci saranno molte spiegazioni da dare.» «E cadranno molte teste, senza dubbio.» «La proverbiale fortuna del dottor Jim l'ha infine abbandonato.» «Ralph, tuo padre è fra i prigionieri!» Aaron stava leggendo il giornale. Per la prima volta Ralph si scosse. «Non è possibile.» Strappò il giornale dalla mano di Aaron e lo fissò, angosciato. «Cos'è successo?» mormorò. «Oh, Dio, cos'è successo?» Ma qualcun altro stava gridando nell'atrio.
«Kruger ha fatto arrestare tutti i membri del Comitato di Riforma... e ha promesso di farli processare.» «Le miniere d'oro!» disse chiaramente un'altra voce nel silenzio che seguì. Istintivamente tutti gli occhi si rivolsero all'orologio appeso sopra l'entrata della sala da pranzo. Mancavano venti minuti alle due. Alle due in punto, la Borsa avrebbe riaperto. Vi fu un'altra corsa, questa volta fuori della porta del club. Sul marciapiede, i soci gridavano impazienti per chiamare le loro carrozze, mentre altri si avviavano al trotto sostenuto in direzione della sede della Borsa. Il club era quasi deserto. In sala da pranzo non erano rimaste più di dieci persone. Aaron e Ralph erano soli al tavolo d'angolo, e Ralph aveva ancora in mano l'elenco dei prigionieri. «Non posso crederlo» mormorò. «E' una catastrofe. Che cosa può essere saltato in mente a Jameson?» confermò Aaron. Sembrava che fosse accaduto il peggio, e che nulla potesse eguagliare le spaventose notizie arrivate fino ad allora; ma poi il segretario del club uscì dal suo ufficio e, con la faccia cinerea, si fermò sulla soglia della sala da pranzo. «Signori» gemette, «ho altre notizie terribili. E' appena arrivato un telegramma. Il signor Rhodes ha presentato le dimissioni da primo ministro della Colonia del Capo, e dalla presidenza della Charter Company, della De Beers e della Consolidated Goldfields.» «Rhodes» bisbigliò Aaron. «C'era dentro il signor Rhodes. E una cospirazione... solo Dio sa quali saranno le conseguenze di questa storia, e quanti saranno quelli che Rhodes trascinerà nella sua caduta.» «Io penso che dovremmo ordinare una bottiglia di porto» disse Ralph, scostando il piatto. «Non ho più fame.» Pensò al padre in una prigione boera, e all'improvviso ebbe la visione di Zouga Ballantyne in camicia bianca, con le mani legate dietro la schiena, la barba striata d'oro e d'argento che brillava nel sole, il muro imbiancato alle spalle, mentre guardava la fila dei fucilieri davanti a lui con quei calmi occhi verdi. Ralph era nauseato, e il raro, vecchio porto aveva sapore di chinino sulla sua lingua. Posò il bicchiere. «Ralph.» Aaron, seduto di fronte a lui, lo stava fissando. «La transazione ribassista. Hai venduto allo scoperto le azioni della Charter e della Consolidated, e la tua posizione è ancora aperta.» *** «Ho chiuso tutte le sue transazioni» disse David Silver. «Ho pagato in media le azioni della BSA un po' più di sette sterline, e questo, dopo la commissione e i prelievi, le dà un profitto di circa quattro sterline per azione. Ha fatto un affare anche migliore con le Consolidated Goldfields, che sono state le più colpite dal crollo: da otto sterline, quando ha cominciato a venderle, sono precipitate a circa due sterline non appena è sembrato che per rappresaglia Kruger stesse per confiscare le compagnie minerarie del Witwatersrand.» David Silver s'interruppe e guardò Ralph con timorosa ammirazione. «E' quel tipo di colpo da maestro che diventa una leggenda in Borsa, signor Ballantyne. Che rischio tremendo ha corso!» esclamò scuotendo la testa. «Che coraggio! Che lungimiranza!» «Che fortuna!» disse spazientito Ralph. «Ha l'assegno per la differenza?» «Sì.» David Silver aprì la borsa di pelle nera ed estrasse una busta candida sigillata con una rosetta di ceralacca scarlatta. «E' controfirmato e garantito dalla mia banca.» David la posò con reverenza sulla scrivania dello zio Aaron. «Il totale» mormorò in toni da innamorato, «è un milione e cinquantotto sterline, otto scellini e sei pence. Dopo quello che il signor Rhodes pagò a Barney Barnato per la sua parte della miniera di Kimberley, è l'assegno più alto compilato in Africa a sud dell'equatore... che ne dice, signor Ballantyne?» Ralph guardò Aaron che era seduto dietro la scrivania. «Tu sai che cosa farne. Assicurati che non sia mai possibile risalire fino a me.» «Ho capito.» Aaron annuì, e Ralph cambiò argomento. «E' arrivata la risposta al mio telegramma? Di solito mia moglie non tarda tanto.» E poiché Aaron era un vecchio amico ed era affezionato a Cathy come gli altri suoi ammiratori, Ralph continuò a spiegare. «Mancano meno di due mesi al parto. Ora che la polvere dell'avventura di Jameson sta
cominciando a posarsi e non c'è più pericolo di guerra, devo portare Cathy qui, dove potrà avere un'assistenza medica adeguata.» «Manderò il mio impiegato all'ufficio telegrafico.» Aaron si alzò e andò alla porta dell'ufficio per dare disposizioni. Poi si voltò verso il nipote. «C'è altro, David?» Il piccolo agente di cambio trasalì. Stava fissando Ralph Ballantyne con una luce di venerazione negli occhi. Si affrettò a radunare le carte e a riporle nella borsa, prima di alzarsi e di tendere a Ralph la molle mano bianca. «Non so dirle quale onore sia stato lavorare per lei, signor Ballantyne. Se c'è qualcosa che posso fare... Aaron dovette insistere per mandarlo via. «Povero David» mormorò tornando alla scrivania. «Il suo primo milionario è come uno spartiacque, nella carriera di un giovane agente di cambio.» «Mio padre...» Ralph non sorrise. «Mi dispiace, Ralph. Non possiamo fare altro. Tornerà in Inghilterra in catene con Jameson e gli altri. Li terranno imprigionati in Wormwood Scubs fino a quando non saranno chiamati a rispondere dell'accusa.» Aaron scelse un foglio dal mucchio accumulato sulla scrivania. «"Con la complicità di certe altre persone, nel mese di dicembre del 1895, in Sudafrica, nei domittions di sua maestà, hanno illegalmente preparato e attrezzato una spedizione militare per procedere contro uno stato amico, la Repubblica Sudafricana, contrariamente alle disposizioni della Legge sul Reclutamento del 1870".» Aaron posò il foglio e scosse la testa. «Ormai nessuno di noi può far nulla.» «Che ne sarà di loro? E' un reato capitale...» «Oh, no, Ralph, sono sicuro che non si arriverà a tanto.» Ralph si rincantucciò sulla sedia e guardò dalla finestra rimproverandosi per la centesima volta di non aver previsto che Jameson avrebbe fatto tagliare le linee telegrafiche prima di marciare verso Johannesburg. Il messaggio che Cathy aveva mandato a Zouga Ballantyne, la falsa notizia della grave malattia di Louise, non l'aveva mai raggiunto, e Zouga era finito nella trappola dei commando boeri insieme con tutti gli altri. Se almeno... pensò Ralph, e i suoi pensieri furono interrotti. Alzò la testa mentre l'impiegato entrava con aria esitante. «E' arrivata la risposta di mia moglie?» chiese Ralph, e l uomo scosse la testa. «Mi dispiace, signor Ballantyne, ma non è arrivata.» L'uomo esitò ancora, e Ralph insistette. «Allora? Cosa c'è? Avanti, sentiamo.» «Sembra che tutte le linee telegrafiche con la Rhodesia siano interrotte da mezzogiorno di lunedì.» «Ah, dunque è per questo.» «No, signor Ballantyne, non è tutto. E' arrivato un messaggio da Tati, al confine rhodesiano. Pare che un cavaliere ce l'abbia fatta a passare questa mattina.» L'impiegato deglutì. «E pare che il messaggero fosse l'unico superstite.» «L'unico superstite?» Ralph lo fissò. «Che cosa significa? Di cosa diavolo sta parlando?» «I matabele sono insorti. Stanno assassinando tutti i bianchi in Rhodesia... uomini, donne, bambini, li massacrano tutti!» *** «Mamma, Douglas e Suss non ci sono. Non c'è nessuno per prepararmi la colazione.» Jon-Jon entrò nella tenda mentre Cathy si stava spazzolando i capelli per attorcerli in trecce. «Li hai chiamati?» «Li ho chiamati e chiamati.» «Di' a uno dei mozzi di andare a cercarli, tesoro.» «Non ci sono neanco i mozzi.» «Non ci sono neppure i mozzi.» Cathy lo corresse automaticamente e si alzò. «Va bene, andiamo a vedere cosa si può fare.» Cathy uscì nella luce dell'aurora. In alto il cielo era di uno splendido rosa scuro che sfumava in arancione all'est, e il coro degli uccelli sui rami degli alberi sopra il campo era come un tintinnio di campanelle d'argento. Il fuoco del bivacco s'era spento in un mucchietto di leggera cenere grigia e non era stato riattizzato. «Aggiungi un po' di legna, Jon-Jon» disse Cathy, e raggiunse la capanna che fungeva da cucina. Aggrottò la fronte, irritata. Era deserta. Prese una scatoletta dalla dispensa protetta dal la zanzariera e alzò la testa nel vedere un'ombra che oscurava l'apertura.
«Oh, Isazi» disse al piccolo zulu. «Dove sono gli altri servitori?» «Chi sa dove si nasconde un cane matabele quando c'è bisogno di lui?» chiese Isazi in tono sprezzante. «Probabilmente hanno passato la notte ballando e tracannando birra e adesso hanno la testa troppo pesante.» «Dovrai aiutarmi tu» disse Cathy, «fino a quando arriverà il cuoco.» Dopo colazione, nella tenda adibita a sala da pranzo Cathy chiamò di nuovo Isazi. «Non è ancora tornato nessuno?» «Non ancora, Nkosikazi.» «Voglio andare al capolinea della ferrovia. Spero che sia arrivato un telegramma di Henshaw. Ti dispiace attaccare i cavalli al calesse, Isazi?» Per la prima volta Cathy notò l'espressione preoccupata sulla faccia grinzosa del vecchio zulu. «Cosa c'è?» «I cavalli... non sono nel kraal.» «E dove sono?» «Forse uno dei mujiba li ha portati fuori presto. Andrò a cercarli.» «Oh, non importa.» Cathy scosse la testa. «L'ufficio del telegrafo non è lontano. Camminare mi farà bene.» Poi chiamò Jonathan. «Portami il cappello, JonJon.» «Nkosikazi, forse non è prudente. Il piccolo...» «Oh, non preoccuparti tanto» disse gentilmente Cathy, prendendo la mano di Jonathan. «Se trovi i cavalli in tempo, potrai venire a prenderci.» Poi, facendo dondolare il cappello per il nastro e con Jonathan che le saltellava a fianco, si avviò lungo la pista che girava alla base della collina boscosa e raggiungeva la ferrovia. Non si sentiva il clangore dei martelli sull'acciaio. Jonathàn fu il primo a notarlo. «Che silenzio, mamma.» Si fermarono in ascolto. «Non è venerdì» mormorò Cathy. «Non è possibile che il signor Mac stia pagando le squadre.» Scosse la testa. Non s'era ancora allarmata. «E' strano.» E proseguirono. All'angolo della collina si fermarono di nuovo, e Cathy alzò il cappello per riparare gli occhi dal sole basso. I binari si estendevano verso sud e brillavano come fili serici d'una ragnatela; ma sotto di loro cessavano bruscamente davanti allo squarcio aperto attraverso gli arbusti. C'erano una catasta di traversine di teak e una più piccola di rotaie: la locomotiva di servizio doveva arrivare da Kimberley quel pomeriggio per portare altro materiale. I magli e i badili erano ammonticchiati in ordine dove li avevano lasciati gli operai la sera prima. Non c'era anima viva intorno al terminale. «Questo è ancora più strano» disse Cathy. «Dov'è il signor Henderson, mamma?» chiese Jonathan, con voce insolitamente bassa. «Dove sono il signor Mac e il signor Braithwaite?» «Non lo so. Saranno ancora nelle loro tende.» Le tende del sovrintendente, dell'ingegnere e dei sovrintendenti erano raggruppate al di là della baracca di lamiera ondulata del telegrafo. Non c'era segno di vita intorno alla baracca o tra le linde piramidi di tela, a parte un unico corvo nero appollaiato sulla sommità d'una di esse. Il crocidio roco arrivò fino a loro e, mentre Cathy lo guardava, il corvo spiegò le ali nere e svolazzò pesantemente a terra all'entrata della tenda. «Dove sono tutti gli operai?» pigolò Jonathan, e all'improvviso Cathy rabbrividì. «Non lo so, tesoro.» La voce le si spezzò. Si schiarì la gola. «Andremo a vedere.» Si accorse di aver parlato troppo forte, e Jonathan le si strinse contro le gambe. «Mamma, ho paura.» «Non fare lo sciocchino» disse Cathy con fermezza. Lo prese per mano e cominciò a scendere la collina. Quando raggiunse la baracca del telegrafo si muoveva con tutta la velocità consentita dal ventre ingombrante e respirava con affanno. «Resta qui.» Non avrebbe saputo dire che cosa le suggerisse di lasciare Jonathan sui gradini. Salì da sola alla soglia. La porta era socchiusa. Cathy la sospinse. Il signor Braithwaite era seduto accanto al tavolo, di fronte alla porta. La fissava con gli occhi chiari e sgranati e aveva la bocca aperta. «Signor Braithwaite» disse Cathy, e al suono della sua voce vi fu un ronzio come se uno sciame d'api prendesse il volo, e le grosse mosche azzurro-cobalto che avevano coperto la camicia del telegrafista s'innalzarono nell'aria. Cathy vide che il ventre era un molle squarcio rosso, e gli intestini pendevano a grappoli tra le ginocchia, in un groviglio che toccava il pavimento.
Cathy indietreggiò contro la porta. Si sentiva mancare le gambe e ombre nere le passavano davanti agli occhi come ali di pipistrelli al tramonto. Una delle mosche blu-metallico le si posò sulla guancia, muovendosi torpidamente verso l'angolo della bocca. Cathy si piegò in avanti lentamente, scossa dai conati di nausea, e rigettò la colazione sul pavimento di legno. Uscì lentamente dalla porta, a ritroso, cercando di cancellare dalle labbra il sapore dolciastro del vomito. Barcollò sui gradini e si lasciò cadere seduta. Jonathan le corse accanto e le strinse il braccio. «Cos'è successo, mamma?» «Devi essere un ometto coraggioso» mormorò Cathy. «Stai male, mamma?» Il bambino le scosse il braccio, agitato. Cathy faticava a pensare. Sapeva che cosa aveva causato l'atroce mutilazione del cadavere nella baracca. I matabele sventravano sempre le loro vittime. Era un rituale che liberava lo spirito del morto e gli permetteva di raggiungere il suo Walhalla. Lasciare intatte le viscere significava imprigionare sulla terra l'ombra dell'ucciso, che sarebbe tornata a perseguitare l'assassino. Il signor Braithwaite era stato sventrato da un affilatissimo assegai matabele, e gli intestini caldi erano stati strappati via come quelli di un pollo. Era l'opera di un gruppo di guerrieri matabele. «Dov'è il signor Henderson, mamma?» chiese Jon-Jon con voce acuta. «Io vado nella sua tenda.» L'ingegnere era uno degli amici prediletti di Jonathan. Cathy l'afferrò per il braccio. «No, Jon-Jon... non andare!» «Perché?» Il corvo s'era fatto coraggio. Entrò saltellando nella tenda dell'ingegnere e sparì. Cathy sapeva che cosa lo aveva attratto. «Per favore, Jon-Jon, sta' zitto» implorò Cathy. «Lascia che la mamma pensi.» I servitori scomparsi; Erano stati avvertiti, naturalmente, come gli operai matabele. Sapevano che c'era in giro una banda di guerrieri e si erano dileguati... Un pensiero agghiacciante colpì Cathy. Forse anche i servitori facevano parte della banda. Scosse la testa, con forza. No, loro no. Doveva essere un piccolo gruppo di rinnegati, non certo i suoi. Avevano colpito all'alba, logicamente: era l'ora che preferivano. Avevano sorpreso Henderson e il suo capo operaio addormentati sotto le tende. Solo il piccolo, fedele Braithwaite era accanto al suo apparecchio. Il telegrafo... Cathy si scosse. Il telegrafo era il suo unico legame con il resto del mondo. «Jon-Jon, resta qui» ordinò, e tornò verso la porta della baracca. Si fece forza e poi sbirciò all'interno, cercando di non guardare l'ometto sulla sedia. Le bastò un'occhiata. L'apparecchio telegrafico era stato divelto dal muro e fracassato sul pavimento. Arretrò, barcollando, si appoggiò alla parete di lamiera, stringendosi il ventre con entrambe le mani e sforzandosi di riflettere. La banda di guerrieri aveva attaccato il capolinea della ferrovia ed era sparita di nuovo nella foresta... Poi Cathy ricordò i servi scomparsi. Il campo. Non erano affatto scomparsi, stavano tornando indietro fra gli alberi, verso il campo. Si guardò intorno disperatamente, attendendo di vedere da un momento all'altro le file nere e silenziose di guerrieri impennacchiati che uscivano furtivamente dai fitti arbusti. Il treno di servizio da Kimberley doveva arrivare sul tardi quel pomeriggio, di lì a dieci ore. Era rimasta sola con Jonathan. Cathy si lasciò cadere in ginocchio, lo abbracciò, lo strinse con la forza della disperazione, e solo in quel momento si accorse che il bambino stava guardando a occhi sbarrati oltre l'uscio aperto. «Il signor Braithwaite è morto!» disse Jonathan in tono calmo. Cathy gli girò il viso dall'altra parte. «Uccideranno anche noi, no, mamma?» «Oh, Jon-Jon!» «Abbiamo bisogno di un fucile. Io so sparare. Me l'ha insegnato papà.» Un fucile... Cathy guardò le tende silenziose. Non credeva di avere il coraggio di entrare, neppure per cercare un'arma. Sapeva quale carneficina vi avrebbe trovato. Un'ombra cadde su di lei. Cathy urlò. «Nkosikazi. Sono io.» Isazi aveva disceso la collina, silenzioso come un leopardo. «I cavalli sono spariti» le disse, e Cathy gli accennò di guardare nella baracca del telegrafo.
Isazi non cambiò espressione. «Dunque» disse a voce bassa, «gli sciacalli matabele possono ancora mordere.» «Le tende» sussurrò Cathy. «Vedi se riesci a trovare un'arma.» Isazi si mosse con l'agilità di un uomo molto più giovane, passando da una tenda all'altra. Quando tornò, teneva in mano un assegai dall'asta rotta. «Il più alto si è battuto bene. Era ancora vivo, con gli intestini strappati e i corvi che li divoravano. Non poteva più parlare, ma mi ha guardato. Gli ho dato la pace. Non ci sono più fucili... li hanno portati via i matabele.» «Ci sono i fucili al campo» mormorò Cathy. «Vieni, Nkosikazi.» Isazi l'aiutò gentilmente ad alzarsi, e Jonathan le prese con decisione l'altro braccio, sebbene non le arrivasse neppure all'ascella. Le prime doglie colpirono Cathy prima che avessero raggiunto i fitti cespugli al margine della radura, e la costrinsero a piegarsi su se stessa. Il vecchio e il bambino la sostennero finché durò il parossismo. Jonathan non capiva cosa stesse accadendo, ma il piccolo zulu era incupito e taciturno. «E' passato.» Cathy si raddrizzò e cercò di scostarsi dal viso i capelli incollati dal sudore. Salirono la pista al passo di Cathy. Isazi sorvegliava la foresta su entrambi i lati, e stringeva nella mano libera l'assegai rotto, pronto a usarlo. Cathy gemette e barcollò, colta da una nuova fitta. Questa volta non riuscirono a sorreggerla e si lasciò cadere in ginocchio nella polvere. Quando la crisi passò, alzò gli occhi verso Isazi. «Sono troppo vicine. Ormai manca poco.» Non fu necessario che Isazi rispondesse. «Conduci Jonathan alla Miniera Harkness.» «Nkosikazi, il treno...» «Il treno arriverà troppo tardi. Dovete andare.» «Nkosikazi... che sarà di te?» «Senza un cavallo non potrei mai raggiungere l'Harkness. Sono quasi cinquanta chilometri. Ogni momento che perdi. metti in pericolo la vita di Jon-Jon.» Isazi non si mosse. «Se puoi salvarlo, Isazi, salverai una parte di me. Se rimarrai qui, moriremo tutti. Va'. Va', presto!» insistette Cathy. Isazi fece per prendere la mano di Jonathan, ma il bambino si scostò di scatto. «Non voglio lasciare la mia mamma.» La voce salì, istericamente. «Il mio papà mi ha detto che devo badare alla mamma.» Cathy si fece forza. Dovette fare appello a tutta la sua decisione per compiere l'azione più difficile della sua giovane vita. Schiaffeggiò Jonathan con la mano aperta, avanti e indietro, con tutte le sue energie. Il bambino indietreggiò barcollando. I segni cremisi delle dita gli spiccavano sulle guance pallide. Non l'aveva mai schiaffeggiato. «Fai quello che ti dico» gridò furiosamente. «Vai con Isazi, e subito!» Lo zulu sollevò il bambino e la guardò ancora per un istante. «Hai il cuore di una leonessa. Io ti rendo omaggio, Nkosikazi.» E si allontanò a balzi nella foresta, portando con sé Jonathan. Dopo pochi secondi scomparve. Soltanto allora Cathy lasciò che i singhiozzi le salissero alla gola. Essere completamente sola, pensò, era la cosa più insopportabile. Pensò a Ralph: non l'aveva mai amato e desiderato come in quel momento. Per un po' le parve di aver dato fondo a tutto il suo coraggio nello schiaffeggiare il figlio, per allontanarlo nella speranza remota che potesse salvarsi. Sarebbe rimasta lì, inginocchiata nella polvere, sotto il primo sole, fino a quando fossero venuti per colpirla con il ferro crudele. Poi, nel profondo del suo essere, trovò la forza di alzarsi e di avviarsi barcollando lungo il sentiero. Dal fianco della collina guardò il campo. Sembrava così tranquillo, in ordine. La sua casa. Il fumo del fuoco del bivacco saliva come una pallida piuma grigia nell'aria immobile del mattino, così accogliente, così sicuro; illogicamente, ebbe la sensazione che se fosse riuscita a raggiungere la tenda tutto sarebbe andato per il meglio. S'incamminò. Non aveva percorso una dozzina di passi quando sentì qualcosa lacerarsi dentro di lei, e poi lo scorrere del liquido caldo all'interno delle gambe, la rottura delle acque. Si sforzò di proseguire, intralciata dalle gonne fradicie. E poi, incredibilmente, raggiunse la sua tenda. L'interno era così fresco e buio, come una chiesa, pensò; e le gambe le mancarono di nuovo. Si trascinò a fatica per terra e i capelli le piovvero sugli occhi e l'accecarono. Brancolando, raggiunse
il baule ai piedi della grande branda da campo, si scostò i capelli dagli occhi e si appoggiò per riposare. Il coperchio era così pesante che dovette fare appello a tutte le sue forze; ma finalmente si aprì con un tonfo. La pistola era riposta sotto le coperte bianche lavorate all'uncinetto, tenute in serbo per la casa che un giorno Ralph avrebbe costruito per lei. Era una grossa pistola Webley d'ordinanza, e Cathy aveva sparato una sola volta, con Ralph che la sosteneva da dietro e le reggeva i polsi per attenuare il contraccolpo. Ora dovette usare entrambe le mani per estrarla dal baule. Era troppo stanca per salire sulla branda. Restò seduta con le spalle contro il baule, le gambe allungate per terra, e tenne la pistola stretta sul grembo. Doveva essersi assopita perché, quando si svegliò con un sussulto, sentì uno scalpiccio di piedi sulla terra nuda. Alzò gli occhi. C'era l'ombra di un uomo profilata dai raggi obliqui del sole contro la tela bianca della tenda, come una figura proiettata dalla lanterna magica. Cathy alzò la pistola e puntò verso l'entrata. Nera e minacciosa, l'arma le tremò nella mano; e un uomo varcò la soglia. «Oh, Dio sia ringraziato.» Cathy si lasciò cadere la pistola sulle ginocchia. «Oh, Dio sia ringraziato, sei tu» mormorò, ripiegando la testa in avanti: la folta cortina dei capelli si schiuse, si divise lasciando scoperta la nuca delicata. Bazo la fissò. Vide una vena palpitare lieve sotto la pelle. Bazo portava soltanto un gonnellino di code di zibetto, e intorno alla fronte aveva una fascia di pelli di talpa, senza piume e senza nappe. Era scalzo. Nella mano sinistra stringeva un grosso assegai, nella destra un knobkerrie simile alla mazza d'un cavaliere medievale. L'impugnatura era di corno di rinoceronte, lunga quasi un metro, e la testa era una sfera di legno pesante costellata di spuntoni di ferro forgiati a mano. Quando vibrò il colpo con il knobkerrie, lo fece con tutta la forza delle ampie spalle, e mirò alla vena pulsante della nuca di Cathy. Due guerrieri entrarono nella tenda e si afliancarono a Bazo. I loro occhi erano ancora vitrei per la follia omicida. Anch'essi portavano la fascia di pelli di talpa intorno alla fronte. Guardarono il corpo accasciato sul pavimento della tenda. Uno dei guerrieri strinse più forte l'assegai, pronto per sferrare il colpo. «Lo spirito della donna deve volare» disse. «Procedi!» ordinò Bazo, e il guerriero si chinò e lavorò in fretta, con movimenti esperti. «C'è vita dentro di lei» disse. «Vedi? Si muove ancora.» «Uccidila!» ordinò Bazo, lasciando la tenda; poi uscì a grandi passi nel sole. «Trovate il bambino» ordinò ai suoi uomini che attendevano. «Trovate il cucciolo bianco.» *** Il macchinista era terrorizzato. S'erano fermati per pochi minuti al posto di scambio accanto ai binari di raccordo di Plumtree, e aveva visto i cadaveri del commerciante e dei suoi familiari abbandonati al suolo. Ralph Ballantyne gli puntò tra le scapole la canna del fucile, e lo costrinse a risalire a bordo e a procedere verso nord, addentrandosi sempre di più nel Matabeleland. Erano arrivati dallo scalo di smistamento di Kimberley alla massima velocità, e Ralph aveva dato il cambio al fuochista, spalando i pezzi di carbone nella caldaia con un ritmo monotono, a torso nudo, sudando nel bagliore rosso mentre la polvere nera gli impiastricciava le braccia e il volto come quelli d'uno spazzacamino, e le palme delle mani erano piene di vesciche scoppiate. Avevano superato di quasi due ore il primato sul percorso fino al capolinea. Quando arrivarono rombando intorno alla curva tra le colline e videro il tetto di lamiera ondulata della baracca del telegrafo, Ralph gettò da parte la pala e si arrampicò all'esterno per vedere meglio. Il cuore gli diede un guizzo di gioia. C'era movimento intorno alla baracca e fra le tende, c'era vita! Poi il cuore gli si strinse con eguale violenza quando riconobbe le furtive sagome canine.
Le iene erano così intente a disputarsi i resti trascinati fuori dalle tende che non avevano paura. Si dispersero solo quando Ralph cominciò a sparare. Abbatté una mezza dozzina di belve ripugnanti prima di scaricare il fucile. Corse dalla baracca a ognuna delle tende, poi tornò alla locomotiva. Il macchinista e il fuochista non erano scesi. «Signor Ballantyne, quei maledetti pagani assassini torneranno da un momento all'altro...» «Aspetta!» gridò Ralph, e scavalcò la fiancata del carro bestiame agganciato dietro al tender. Tolse i cavicchi e il portellone si abbassò di schianto, formando uno scivolo. Ralph fece scendere i cavalli. Erano quattro, e uno era già sellato: gli animali migliori che fosse riuscito a trovare. Indugiò solo il tempo necessario per stringere il sottopancia, e balzò in sella con il fucile ancora in mano. «Non ho intenzione di restare qui ad aspettare» gridò il macchinista. «Cristo onnipotente, quei negri sono bestie, bestie!» «Se mia moglie e mio figlio sono qui, dovrà portarli indietro. Datemi un'ora» chiese Ralph. «Non aspetto neppure un minuto. Io torno indietro.» Il macchinista scosse la testa. «Allora va' all'inferno» disse freddamente Ralph. Lanciò il cavallo al galoppo, trascinandosi dietro gli altri, e salì sul fianco del kopje, verso il campo. E mentre correva pensava per l'ennesima volta che forse avrebbe dovuto dare ascolto ad Aaron Fagan, forse avrebbe dovuto reclutare a Kimberley un'altra dozzina di cavalieri perché andassero con lui. Ma non avrebbe sopportato le poche ore d'attesa necessarie per trovare uomini in gamba. Aveva lasciato Kimberley meno di mezz'ora dopo aver ricevuto il messaggio da Tati... il tempo necessario per prendere il Winchester, riempire di munizioni le borse della sella e portare i cavalli dalla scuderia di Aaron alla stazione. Prima di svoltare all'angolo della collina, si girò a guardare. La locomotiva stava già sbuffando lungo la curva del binario, verso sud. Ora, per quanto ne sapeva, poteva essere l'unico uomo bianco rimasto vivo nel Matabeleland. Ralph entrò al galoppo nel campo. L'avevano preceduto. Il campo era stato saccheggiato, la tenda di Jonathan era crollata, i suoi indumenti erano sparsi e calpestati nella polvere. «Cathy!» gridò Ralph mentre smontava. «Jon-Jon! Dove siete?» Udì un fruscio di carta sotto i piedi e abbassò lo sguardo. La cartella dei disegni di Cathy era stata buttata a terra e s'era aperta, e gli acquerelli di cui era tanto fiera erano strappati e gualciti. Ralph ne raccolse uno: raffigurava i bei fiori scarlatti a tromba della Kigelia africana, il cosiddetto albero dei salami. Tentò di spianare il foglio rovinato e si rese conto dell'inutilità di quel gesto. Corse alla loro tenda e scostò con violenza il telo. Cathy giaceva sul dorso, con la creaturina accanto. Aveva promesso a Ralph una figlia... e aveva mantenuto la promessa. Si gettò in ginocchio accanto a lei e cercò di sollevarle la testa: ma il corpo era spaventosamente irrigidito come una statua di marmo. Quando la sollevò, vide la grande depressione a forma di coppa sulla nuca. Ralph indietreggiò, si precipitò fuori della tenda. «Jonathan!» urlò. «Jon-Jon! Dove sei?» Attraversò correndo il campo come un pazzo. «Jonathan! Ti prego, Jonathan!» Quando non trovò traccia d'esseri viventi, si avviò barcollando nella foresta, su per il pendio del kopje. «Jonathan! Sono papà. Dove sei, tesoro?» Vagamente, nella sua angoscia si rese conto che le grida potevano attirare gli amadoda come il belato della capra attira il leopardo; e all'improvviso lo desiderò con tutta la sua anima. «Venite!» urlò alla foresta silenziosa. «Venite! Venite a cercare anche me!» E si fermò per sparare in aria con il Winchester e ascoltare gli echi che rimbalzavano nella valle. Infine non ebbe più la forza di correre e di gridare, e si appoggiò ansimando al tronco di un albero. «Jonathan» gemette. «Dove sei, bambino mio?» Si voltò, adagio, e scese la collina. Si muoveva come un vecchio.
Al limitare del campo si fermò e socchiuse gli occhi, guardando qualcosa abbandonato nell'erba. Si chinò e lo raccolse. Lo rigirò tra le mani, poi lo strinse nel pugno. Le nocche si sbiancarono per la forza della contrazione. Era una fascia morbida di pelli di talpa. Continuò a stringerla nella mano, e andò nel campo a preparare i corpi per la sepoltura. *** Robyn St John si svegliò nel sentir grattare leggermente all'imposta della stanza da letto, e si sollevò su un gomito. «Chi è?» chiamò. «Sono io, Nomusa.» «Juba, mia Piccola Colomba, non ti aspettavo.» Robyn scese dal letto e andò alla finestra. Quando aprì l'imposta, la notte era resa iridescente dal chiaro di luna, e Juba era rannicchiata sotto il davanzale. «Sei infreddolita.» Robyn le prese il braccio. «Prenderai un malanno. Vieni subito dentro. Ti porto una coperta.» «Nomusa, aspetta.» Juba le afferrò il polso. «Devo andare.» «Ma sei appena arrivata.» «Nessuno deve sapere che sono stata qui; ti prego di non dirlo a nessuno, Nomusa.» «Che cosa succede? Stai tremando...» «Ascolta, Nomusa, non potevo abbandonarti... tu sei mia madre, mia sorella e mia amica, non potevo abbandonarti.» «Juba...» «Non parlare. Ascoltami» implorò Juba. «Ho così poco tempO,» Soltanto allora Robyn si accorse che non era il freddo della notte a far tremare Juba. Era squassata da singhiozzi di paura e di angoscia. «Devi andare via, Nomusa. Tu ed Elizabeth e il bambino. Non portare via nulla, vattene immediatamente. Va' a Bulawayo, forse là sarai al sicuro. E' la migliore possibilità.» «Non ti capisco, Juba. Che assurdità stai dicendo?» «Loro stanno per arrivare, Nomusa. Stanno per arrivare. Ti prego, fa' presto.» Poi si dileguò. Si mosse in fretta e senza far rumore nonostante la mole, e parve confondersi con le ombre della luna, sotto le spathodee. Quando Robyn mise sulle spalle lo scialle e corse lungo la veranda, non c'era più traccia di Juba. Robyn si avviò in fretta verso i capannoni dell'ospedale, inciampando sul bordo del sentiero e chiamando con esasperazione crescente. «Juba, torna qui! Mi senti? Basta con queste sciocchezze!» Si fermò davanti alla chiesa, senza sapere quale percorso doveva seguire. «Juba! Dove sei?» Il silenzio fu spezzato soltanto dal guaito d'uno sciacallo, in alto sulla collina sopra la missione. Un altro guaito rispose dalla cima del passo, dove la strada per Bulawayo attraversava le colline. «Juba!» Il fuoco di guardia accanto al bungalow-ospedale s'era spento. Robyn si avvicinò, vi buttò un ceppo dal mucchio della legna da ardere. Il silenzio era innaturale. Il ceppo si accese e fiammeggiò, e in quella luce Robyn salì i gradini del bungalow. Le stuoie dei pazienti erano allineate su due file; ma erano vuote. Erano spariti anche i malati più gravi. Dovevano averli portati via, perché alcuni non erano in grado di camminare. Robyn si strinse addosso lo scialle. «Poveri pagani ignoranti» disse a voce alta. «Un altro panico provocato dalla stregoneria Fuggirebbero davanti alle loro ombre.» Si avviò tristemente verso casa, nell'oscurità. Nella stanza di Elizabeth c'era una luce accesa. Mentre Robyn saliva i gradini della veranda, la porta si aprì. «Mamma! Sei tu?» «Che cosa stai facendo, Elizabeth?» «M'era parso di sentire un suono di voci.» Robyn esitò. Non voleva allarmare Elizabeth, ma sua figlia era una ragazza di buon senso ed era improbabile che si lasciasse prendere dall'isteria per le superstizioni dei matabele. «Juba è venuta qui. Dev'essersi lasciata spaventare da qualche altra superstizione. E' scappata via subito.» «Che cosa ti ha detto?» «Oh, che dovremmo andare a Bulawayo per scampare a non so quale pericolo.» Elizabeth uscì sulla veranda in camicia da notte, con la candela in mano. «Juba è cristiana, non pratica la stregoneria.» Elizabeth aveva un tono preoccupato. «Cos'altro ha detto?» «Solo questo.» Robyn sbadigliò. «Torno a letto.» Si avviò lungo la veranda, poi si fermò. «Oh, tutti gli altri sono scappati. L'ospedale è vuoto. E' molto seccante.» «Mamma, credo che dovremmo fare quel che ha detto Juba.» «Cosa vorresti dire?» «Credo che dovremmo andare
subito a Bulawayo.» «Elizabeth, ti credevo più intelligente.» «Ho un presentimento spaventoso. Credo che dovremmo andare. Forse c'è davvero pericolo.» «Questa è casa mia. Io e tuo padre la costruimmo con le nostre mani. Non c'è forza al mondo che possa costringermi a lasciarla» disse Robyn con fermezza. «Ora torna a letto. Senza nessuno che ci aiuti, domani avremo molto da fare.» *** Erano accosciati in lunghe file silenziose nell'erba alta sotto la cresta delle colline. Gandank si muoveva senza far rumore, e ogni tanto si soffermava per scambiare una parola con un vecchio compagno d'armi, per rievocare il ricordo di un'altra attesa prima d'una battaglia di molto tempo prima. Era strano, sedere sulla terra nuda durante l'attesa. In passato si sarebbero seduti sugli scudi, i lunghi scudi screziati di durissima pelle di bue, per nascondersi agli occhi dei nemici vigili fino al momento di atterrirli e di affondargli l'acciaio nel cuore; sarebbero stati seduti sugli scudi per impedire che qual che giovane baldanzoso, in preda alla divina follia, cominciasse troppo presto a battere sul cuoio con l'assegai e segnalasse la presenza dell'impi in agguato. Ed era anche strano non essere bardati con tutte le insegne reggimentali dell'impi dell'Inyati, i pennacchi e le pellicce e le nappe, i sonagli da guerra alle caviglie e ai polsi e le alte acconciature che trasformavano un uomo in un gigante. Erano vestiti come neofiti, come ragazzi che non avevano ancora ucciso, e portavano soltanto i gonnellini intorno ai fianchi; ma le cicatrici sui corpi neri e il fuoco nei loro occhi smentivano quell'impressione. Gandank si sentiva soffocare da un orgoglio che aveva creduto di non poter più provare. Li amava, amava la loro ferocia e il loro valore, e sebbene la sua faccia fosse calma e inespressiva, l'amore gli brillava negli occhi. E i guerrieri glielo restituivano, moltiplicato cento volte. «Baba!» lo chiamavano con le voci basse e profonde. «Padre, pensavamo che non avremmo più combattuto al tuo fianco» dicevano. «Padre, quelli dei tuoi figli che moriranno oggi saranno giovani per sempre.» Al di là del valico tra le colline uno sciacallo ululò in toni lugubri, e da vicino giunse la risposta. L'impi era in posizione: era sulle colline di Khami come un mamba acciambellato, pronto e in attesa. Nel cielo c'era un chiarore. La falsa alba, che sarebbe stata seguita dall'oscurità più fonda prima dell'alba vera. L'oscurità profonda che gli amadoda amavano e sapevano sfruttare così bene. Si mossero senza far rumore e piantarono fra i calcagni le aste degli assegai, pronti per l'ordine: «In piedi, figli miei. E' il tempo delle lance.» Questa volta l'ordine non venne, e la vera alba arrossò di sangue il cielo. Gli amadoda si guardarono in quella luce. Uno dei guerrieri anziani, che aveva meritato il rispetto di Gandank su cinquanta campi di battaglia, parlò per tutti. Andò da Gandank che sedeva solo, in disparte. «Baba, i tuoi figli sono confusi. Spiega perché attendiamo.» «Vecchio amico, le vostre lance sono così assetate del sangue delle donne e dei bambini da non saper attendere un cibo più ricco?» «Possiamo aspettare finché comanderai, Baba. Ma è difficile.» «Vecchio amico, io uso un tenero capretto come esca per un leopardo» disse Gandank, e lasciò ricadere il mento sui muscoli del petto. Il sole si levò e indorò le chiome degli alberi lungo le col line, e Gandank continuò a restare immobile, e le schiere silenziose attesero nell'erba dietro di lui. Un giovane guerriero bisbigliò a un altro: «La tempesta è già incominciata. Altrove i nostri fratelli sono all'opera. Si burleranno di noi quando sapranno che siamo rimasti su una collina senza far nulla...» Uno dei più anziani gli sibilò un rimprovero e il giovane guerriero ammutolì; ma più avanti un altro giovane si assestò e urtò l'assegai contro quello del vicino. Gandank non alzò la testa.. Dalla cima della collina un francolino selvatico gridò. Il grido penetrante era un suono caratteristico del veld, e soltanto un orecchio attento vi avrebbe captato qualcosa di strano.
Gandank si alzò. «Sta arrivando il leopardo» disse a voce bassa, e raggiunse il punto dal quale poteva guardare tutta la strada che conduceva alla città di Bulawayo. La sentinella che aveva lanciato il richiamo del fagiano selvatico indicò in silenzio con l'asta dell'assegai. Sulla strada c'erano una carrozza scoperta e un drappello di cavalieri. Gandank li contò: erano undici, si muovevano velocemente e venivano verso le colline di Khami. L'uomo che li precedeva era inconfondibile anche a quella distanza. La statura, il portamento vigile della testa, le staffe lunghe. «Ahu! Unico Occhio!» Gandank lo salutò sottovoce. «Ti ho atteso per molte lune.» *** Il generale Mungo St John era stato svegliato nel cuore della notte e, in camicia lunga, aveva ascoltato il farneticare isterico di un servo di colore che era fuggito dal posto di cambio sul TenMile Drift. Raccontava una storia assurda e sconclusionata di massacri e d'incendi, e il suo fiato puzzava di brandy del Capo. «E' ubriaco» disse seccamente Mungo St John. «Portatelo via e bastonatelo.» Il primo bianco arrivò in città quando mancavano tre ore all'alba. Aveva una profonda ferita da taglio alla coscia e il braccio sinistro fratturato in due punti dai colpi di knobkerrie. Si teneva aggrappato al collo del suo cavallo con la manO indenne. «I matabele si sono scatenati!» gridò. «Incendiano le fattorie...» Escivolò svenuto dalla sella. Alla prima luce c'erano cinquanta carri disposti in un laager sulla piazza del mercato. Non c'erano più buoi per trainarli, ed erano stati gli uomini a spingerli in posizione. Tutte le donne e i bambini erano stati condotti all'interno del laager e s'erano messi al lavoro per preparare bende, ricaricare le munizioni e cuocere il pane in vista di un assedio. I pochi uomini validi che il dottor Jameson non aveva condotto con sé nel Transvaal furono prontamente organizzati in drappelli, e quelli che non li avevano furono forniti di cavallo e fucile. In mezzo al trambusto e alla confusione, Mungo St John aveva requisito una carrozza scoperta con il cocchiere di colore, aveva scelto i cavalieri migliori e aveva dato l'ordine, avvalendosi della sua autorità di amministratore supplente. «Seguitemi!» E adesso St John fermò il cavallo sulla cresta delle colline sopra la Missione di Khami, nel punto dove la strada era più stretta e l'alta erba gialla e la foresta la delimitavano sui lati come muraglie. Si schermò l'unico occhio per vedere meglio. «Dio sia ringraziato!» mormorò. I tetti di paglia della missione, che aveva immaginato di vedere avvolti da fumo e fiamme, spiccavano intatti nella tranquilla valle verdeggiante. I cavalli sudavano e sbuffavano dopo la salita, e la carrozza era rimasta duecento passi più indietro. Non appena la vide arrivare, Mungo, senza concedere un attimo di riposo ai muli, gridò: «Drappello, avanti!» e spronò lanciandosi giù per la pista, seguito dai suoi uomini. Robyn St John uscì dal rondavel che le serviva da laboratorio, e non appena riconobbe l'uomo alla testa della colonna si piazzò le mani sui fianchi snelli e alzò il menfo in uno scatto d'ira. «Che significa questa intrusione, signore?» chiese. «Signora, la tribù matabele si è ribellata. Stanno assassinando donne e bambini e incendiando le case.» Robyn indietreggiò d'un passo, perché Robert era uscito in quel momento e le si era aggrappato alla gonna. «Sono venuto per portare al sicuro lei e i suoi figli.» «I matabele sono miei amici» disse Robyn. «Non ho nulla da temere da loro. Questa è la mia casa e non intendo lasciarla.» «Non ho tempo per assecondare la sua predilezione per le polemiche, signora» disse cupamente Mungo, alzandosi sulle staffe. «Elizabeth!» gridò, ed Elizabeth uscì sulla veranda della casa. «I matabele sono in rivolta. Siamo tutti in mortale pericolo. Hai due minuti per raccogliere gli effetti personali indispensabili per la famiglia...» «Non ascoltarlo, Elizabeth» ordinò rabbiosamente Robyn. «Noi resteremo qui.» Prima che Robyn si
rendesse conto delle sue intenzioni, Mungo spronò il cavallo e lo fece indietreggiare verso la porta del laboratorio; poi si sporse e le passò un braccio intorno alla vita. La issò sul pomolo della sella, con il sedere all'aria e le gonne intorno ai fianchi. Robyn scalciò e urlò indignata, ma Mungo spinse al passo il cavallo a fianco della carrozza e, con uno scatto della spalla, scaricò Robyn sul sedile posteriore in un altro svolazzare di sottovesti. «E se non resterà lì, signora, non esiterò a farla legare. Non sarà molto dignitoso.» «Questo non lo perdonerò mai!» ansimò Robyn stringendo le labbra sbiancate: ma s'era accorta che la minaccia era seria. «Robert» ordinò Mungo St John al figlio, «va' da tua madre. Immediatamente!» Il bambino corse alla carrozza e salì. «Elizabeth!» gridò di nuovo Mungo St John. «Presto, figliola! Non c'è tempo da perdere.» Elizabeth uscì di corsa sulla veranda, con un fagotto sulla spalla. «Brava!» Mungo St John le sorrise. Era così carina, coraggiosa e sensata, e le era sempre stato affezionato. Balzò a terra per aiutarla a salire in carrozza e rimontò in sella. «Drappello, al passo. Marcia! Trotto!» ordinò, e gli uomini girarono i cavalli per lasciare lo spiazzo. La carrozza era in fondo alla colonna. I dieci uomini la precedevano in doppia fila e Mungo St John era ancora più avanti, di cinque lunghezze. Nonostante tutto, Elizabeth era emozionata e persino la paura le sembrava esaltante. Era tutto così diverso dalla vita tranquilla e monotona nella Missione di Khami: gli uomini armati, la tensione in ognuno di loro, la minaccia tenebrosa dell'ignoto che li circondava, il gesto romantico del marito venuto a sfidare la morte per salvare la donna amata. Come appariva nobile e affascinante alla testa della colonna, con quanta disinvoltura stava in sella... e quando si voltava a guardare la carrozza, quanta audacia c'era nel suo sorriso... c'era un solo uomo al mondo che fosse paragonabile a lui. Se fosse stato Ralph Ballantyne, venuto a salvarla! Era un pensiero peccaminoso ed Elizabeth lo scacciò; per distrarsi si voltò a guardare. «Oh, mamma!» gridò, rizzandosi in piedi nella carrozza sobbalzante e tendendo il braccio. «Guarda!» La missione stava bruciando. Il tetto di paglia della chiesa era un alto faro di fiamma. Il fumo saliva dalla casa. E mentre guardavano inorridite videro le minuscole, scure sagome umane che correvano lungo il viottolo sotto le spathodee e brandivano torce d'erba secca. Una si fermò per scagliare la torcia sul tetto del laboratorio. «I miei libri» mormorò Robyn. «Tutte le mie carte. Il lavoro di tutta la mia vita.» «Non guardare, mamma.» Elizabeth si lasciò cadere seduta accanto a lei, e si strinsero l'una all'altra come bambine smarrite. La piccola colonna raggiunse la cresta del passo. Senza indugiare, i cavalli stanchi si lanciarono giù per l'altro versante... e nello stesso momento i matabele uscirono dai due lati della pista. Si alzarono dall'erba in due onde nere e il ruggito vibrante del canto di guerra era come il suono di una valanga che precipita da uno scosceso pendio montano. Gli uomini del drappello tenevano le carabine armate, con il calcio appoggiato sulla coscia destra; ma l'assalto dei matabele fu così improvviso che risuonò un solo sparo. Non arrestò l'ondata nera; e poi, mentre i cavalli s'impennavano e nitrivano di terrore, i volontari furono trascinati giù dalle selle e trafitti, dieci, venti volte. I guerrieri erano impazziti, assetati di sangue. Brulicavano sui corpi ringhiando e ululando come cani che sbranano la carcassa della volpe. Un guerriero gigantesco, lucido di sudore, abbrancò per la gamba il cocchiere negro e lo strappò da cassetta. Non era ancora caduto quando un altro guerriero lo trapassò con la larga lama argentea dell'assegai. Soltanto Mungo St John, che precedeva la colonna di cinque lunghezze, era passato. Era stato colpito a un fianco da un assegai e il sangue gli scorreva sulla gamba, lungo lo stivale, e sgocciolava dal tacco. Si erse sulla sella e girò la testa per guardarsi indietro. Al di sopra delle teste dei matabele incontrò gli occhi di Robyn.
Fu solo per un istante; poi girò il cavallo e si avventò nella massa dei negri, verso la carrozza. Sparò con la pistola d'ordinanza in faccia a un guerriero che si avventava per bloccargli il cavallo; ma dall'altro lato un altro matabele gli sferrò un colpo dall'alto in basso, nell'ascella. Con un gemito soffocato, Mungo St John spronò il cavallo. «Eccomi!» gridò a Robyn. «Non temere, amor mio...» Un guerriero gli trafisse il ventre. Si piegò su se stesso. Il cavallo stramazzò colpito al cuore da un assegai; ma miracolosamente Mungo St John si rialzò con la pistola in mano. La pezza sull'occhio era stata strappata via, e l'orbita vuota appariva così demoniaca che per un momento i guerrieri indietreggiarono mentre stava in mezzo a loro, con le ferite terribili al petto e al ventre che grondavano sangue rosso. Gandank uscì dalla calca. Scese il silenzio. I due uomini rimasero a faccia a faccia per un lungo istante. Mungo tentò di alzare la pistola ma gliene mancarono le forze. E Gandank gli affondò nel petto la lama argentea che spuntò dal dorso per una spanna. Gandank rimase ritto accanto al corpo. Posò un piede sul petto di Mungo St John e liberò la lama, con rumore di risucchio, come uno stivale nel fango denso. Fu l'unico suono; poi venne il silenzio. Il silenzio era ancora più terribile del canto di guerra e delle urla dei morenti. La calca circondava la carrozza e nascondeva i corpi degli uccisi. Gli amadoda formavano un cerchio intorno al punto dove Mungo St John giaceva riverso, con il viso ancora contratto in una smorfia di collera e di sofferenza. L'unico occhio era fisso minacciosamente sul nemico che non vedeva più. Uno alla volta i guerrieri alzarono la testa e guardarono le due donne e il bambino nella carrozza scoperta. L'aria era satura di minaccia, gli occhi erano annebbiati dalla follia omicida, il sangue macchiava le braccia, i petti e i volti come una macabra pittura di guerra. Le file ondeggiavano come l'erba della prateria sfiorata da un soffio di brezza. Alla retroguardia una voce incominciò a cantare: ma prima che il canto si diffondesse Robyn St John si alzò e li squadrò dalla carrozza. Il suono si spense. Robyn tese le mani e prese le redini. I matabele la guardavano. Nessuno di loro si mosse. Robyn scosse le redini e i muli si avviarono al passo. Gandank, figlio di Mzilikazi, induna anziano dei matabele, si scostò dalla pista, e dietro di lui si aprirono i ranghi degli amadoda. I muli passarono lentamente in mezzo a loro, scavalcando i cadaveri mutilati. Robyn guardava fisso davanti a sé e stringeva le redini con mani rigide. Quando arrivò accanto al corpo di Mungo St John, lo guardò per un momento e poi tornò a guardare la strada. La carrozza scese lentamente la collina. Quando Elizabeth si voltò, la strada era deserta. «Se ne sono andati, mamma» mormorò, e soltanto allora si accorse che Robyn tremava, scossa da singhiozzi silenziosi. Elizabeth le cinse le spalle con un braccio, e per un momento Robyn si appoggiò a lei. «Era un uomo terribile ma, Dio mi perdoni, lo amavo tanto» mormorò; poi si raddrizzò e incitò i muli, avviandoli al trotto verso Bulawayo. *** Ralph Ballantyne cavalcava nella notte, seguendo il difficile percorso diretto fra le colline anziché l'ampia strada carraia. I cavalli di scorta erano carichi dei viveri e delle coperte che aveva recuperato al campo della ferrovia, e li conduceva al passo sul terreno roccioso, risparmiandoli in vista degli sforzi che li attendevano. Cavalcava con il fucile sulle ginocchia, carico e armato. Ogni mezz'ora fermava i cavalli e sparava tre colpi distanziati verso il cielo stellato. Tre spari, il segnale universale di richiamo. Quando gli echi si disperdevano rombando tra le colline, restava in ascolto e si girava lentamente sulla sella, in ogni direzione; e poi chiamava, gridando la sua disperazione nel silenzio. «Jonathan ! Jonathan !» Poi procedeva di nuovo lentamente nell'oscurità. All'alba abbeverò i cavalli a un corso d'acqua e li lasciò pascolare per qualche ora; rimàse a sorvegliarli, seduto su un formicaio, masticando gallette e carne secca e ascoltando. Era strano: tanti suoni della boscaglia
potevano sembrare le grida d'un bambino a chi ascoltava speranzoso. Il guaito lugubre di un turaco grigio fece balzare in piedi Ralph con il cuore in gola: lo strido di una suricata e persino il gemito del vento tra le cime degli alberi lo sconvolgevano. A metà mattina sellò e ripartì. Sapeva che in pieno giorno c'era ancora più pericolo d'imbattersi in una pattuglia di matabele, ma la prospettiva non lo atterriva. L'attendeva con ansia. C'era dentro di lui uno spazio freddo e buio che non aveva mai scoperto; e adesso, mentre procedeva, lo sondava e vi scopriva un odio e una collera così grandi da non crederli possibili. Mentre cavalcava attraverso le foreste bellissime nella luce bianca e pulita del sole, scopriva d'essere un estraneo per se stesso; fino a quel giorno non aveva mai saputo che cos'era veramente, ma ora incominciava a capirlo. Fermò il cavallo su un alto dosso brullo, dove gli occhi dei matabele in agguato avrebbero potuto scorgerlo da lontano, profilato contro l'azzurro, e sparò altri tre colpi. E quando vide che la sfida non faceva accorrere una fila di guerrieri, l'odio e la collera ingigantirono ancora di più. Un'ora dopo mezzogiorno salì sulla cresta dove Zouga aveva ucciso l'elefante gigantesco e vide dall'alto la Miniera Harkness. Le costruzioni erano state bruciate. Sul dosso di fronte i muri che Harry Mellow aveva eretto per Vicky si reggevano ancora, ma le finestre vuote erano come le occhiaie di un teschio. Le travi del tetto erano annerite, e alcune erano crollate sotto il peso della paglia carbonizzata. Il giardino era calpestato, e sui prati erano sparsi i relitti di due giovani vite... la testata d'ottone del letto, il materasso strappato, i bauli con il corredo di Vicky sfasciati, il contenuto disperso e bruciacchiato. Più in basso, nella valle, erano stati incendiati anche l'ufficio e il magazzino della miniera. I mucchi di materiale fumavano ancora, e nell'aria c'era il lezzo della gomma e del cuoio bruciati. E c'era anche un altro odore, come di carne grassa di maiale che cuoce. Era la prima volta che Ralph sentiva il lezzo della carne umana carbonizzata, ma comprese istintivamente e gli si rivoltò lo stomaco. Sugli alberi intorno alle costruzioni incendiate stavano appollaiati gli avvoltoi. Erano centinaia, dai grandi avvoltoi neri con le teste calve e rosse a quelli color marrone sporco, con le oscene calotte lanose che coprivano i lunghi colli. Tra gli avvoltoi c'erano i marabù, i corvi gracchianti e i piccoli nibbi neri. Doveva esserci un banchetto molto ricco per attirarli così numerosi. Ralph scese dalla cresta e trovò quasi immediatamente i primi cadaveri. Erano guerrieri matabele, notò con rabbiosa soddisfazione, e s'erano trascinati lontano per morire delle ferite. Harry Mellow s'era battuto molto più validamente degli uomini al capolinea della ferrovia. «Spero che abbia portato con sé mille di quei macellai neti» disse Ralph a voce alta; e proseguì cautamente, con il fucile pronto a sparare. Smontò dietro le rovine dell'emporio della miniera e legò i cavalli con nodi lenti, per poter fuggire in tutta fretta. C'erano altri matabele morti, tra le loro armi spezzate e abbandonate. La cenere era ancora calda, e tre o quattro cadaveri giacevano all'interno delle macerie: erano carbonizzati e irriconoscibili, e l'odore di carne di maiale era soffocante. Ralph tenne il fucile spianato e si avviò guardingo tra la cenere verso l'angolo dell'edificio. Le strida e i colpi d'ala degli avvoltoi coprivano i suoni dei suoi movimenti, ed egli era pronto ad affrontare la carica improvvisa dei guerrieri che forse erano in agguato ad aspettarlo. Cercò di farsi coraggio, di prepararsi alla scoperta dei cadaveri di Harry e della piccola graziosa Vicky. Seppellire i corpi mutilati di Cathy e della piccina non lo aveva reso insensibile all'orrore di ciò che si aspettava di trovare. Arrivò all'angolo, si tolse il cappello e sbirciò cautamente oltre il muro. C'erano duecento metri di terreno scoperto fra il magazzino bruciato e l'imboccatura del pozzo numero uno che Harry aveva aperto nel fianco della collina. L'intero tratto era costellato di guerrieri UCCISI. Erano a mucchi e cataste. Alcuni erano contorti in sculture straziate di membra nere; altri
erano isolati. come se riposassero raggomitolati nella posizione fetale. Molti erano stati dilaniati e azzannati da avvoltoi e sciacalli, ma altri erano intatti. La vista di quella carneficina diede a Ralph un senso di amara soddisfazione. «Bravo, Harry, ragazzo mio» mormorò. Ralph stava per uscire allo scoperto quando gli crepitò nei timpani uno sparo, un colpo così vicino che sentì i capelli agitarsi sulla fronte. Si riparò dietro il muro e scrollò la testa per liberarsi dal ronzio che gli riempiva gli orecchi. La pallottola doveva essergli passata vicinissima; un tiro eccezionale per un cecchino matabele. I matabele erano notoriamente pessimi tiratori. Era stato imprudente. I mucchi dei guerrieri morti l'avevano distratto; aveva presunto che l'impi avesse portato a termine il suo compito sanguinoso e fosse passato oltre... una presunzione stupida. Si chinò, ritornò correndo lungo l'edificio bruciato, e scrutò con occhi resi più acuti dall'adrenalina che gli scorreva nelle vene. I matabele preferivano i movimenti accerchianti: se erano davanti a lui, presto si sarebbero portati alle sue spalle, lassù tra gli alberi. Raggiunse i cavalli, sciolse le redini e li condusse attraverso la cenere calda al riparo dei muri. Prese dalla borsa della sella una cartucciera nuova e se la passò sulla spalla, attraverso il petto, come un bandito messicano. «Bene» mormorò, «avanti, bastardi negri, bruciamo un po' di polvere.» Un angolo del muro era crollato quando i mattoni crudi non avevano più retto al calore. La breccia era irregolare, e avrebbe mascherato il profilo della sua testa, mentre il muro sul fondo avrebbe evitato che apparisse controluce. Scrutò cautamente sul terreno insanguinato. Erano ben nascosti, probabilmente tra i cespugli sopra l'imboccatura della miniera. Poi, con un trasalimento di sorpresa, si accorse che l'imboccatura del pozzo d'accesso era stata barricata. Era ostruita da grossi pezzi di legno e da sacchi che dovevano essere pieni di mais. Erano nella miniera... ma non aveva senso. Era sconcertante. Eppure la conferma venne subito. Ci fu un movimento indistinto oltre la barricata e un altro proiettile colpì il muro sotto il naso di Ralph, accecandolo con la polvere di mattone. Ralph si chinò, si asciugò gli occhi. Poi gonfiò il petto e urlò. «Harry! Harry Mellow!» Vi fu un silenzio. Anche gli avvoltoi e gli sciacalli erano ammutoliti dopo gli spari. «Harry... sono io, Ralph.» Gli rispose un grido soffocato. Ralph balzò in piedi, scavalcò il muro sbreccato e corse verso la miniera. Harry Mellow gli corse incontro, balzando sui mucchi dei matabele morti, con un gran sorriso stampato sul volto. S'incontrarono e s'abbracciarono con la violenza del sollievo, scambiandosi manate sulla schiena e poi, prima di parlare, Ralph guardò oltre la spalla dell'americano. Dalla barricata rudimentale erano usciti altri. Vicky, vestita da uomo, con un fucile in mano e i capelli di rame sciolti sulle spalle. Al suo fianco c'era Isazi, il piccolo conducente zulu; e qualcuno, ancora più piccolo, li precedeva correndo. Il bambino correva mulinando le braccia, con il viso contratto. Ralph lo sollevò, lo strinse al petto, premette la guancia ispida contro la pelle vellutata del figlio. «Jonathan» ansimò, e gli mancò la voce. Il contatto di quel corpo piccolo e caldo, l'odore lattiginoso del suo sudore erano quasi insopportabili. «Papà.» Jon-Jon scostò la testa. Era pallido e sconvolto. «Non ho potuto badare alla mamma. Lei non ha voluto.» «Non importa, Jon-Jon» mormorò Ralph. «Hai fatto del tuo meglio...» E poi pianse, i terribili singulti secchi di un uomo spinto alle frontiere più lontane del suo amore. *** Sebbene gli dispiacesse lasciare il figlio anche solo per un momento, Ralph mandò Jonathan ad aiutare Isazi che dava da mangiare ai cavalli accanto all'entrata del pozzo. Poi prese in disparte Vicky e Harry Mellow e, nella semioscurità della galleria dove non potevano vederlo in faccia, disse semplicemente: «Cathy è morta.» «Come?» Harry spezzò il silenzio allibito. «Com'è
morta?» «Orribilmente» disse Ralph. «Orribilmente. Non voglio dire altro.» Harry tenne fra le braccia Vicky mentre lei piangeva; e poi, quando ebbe superato il primo momento d'angoscia, Ralph continuò: «Non possiamo restare qui. Abbiamo una scelta. Il capolinea della ferrovia o Bulawayo.» «A quest'ora, può darsi che Bulawayo sia già stata saccheggiata e incendiata» osservò Harry. «E può darsi che ci sia un impi, tra qui e il capolinea della ferrovia» disse Ralph. «Ma se Vicky vuole tentare di raggiungerlo, potremo mandare lei e Jon-Jon al sud con il primo treno che passerà.» «E poi?» chiese Harry. «E poi?» «Poi andrò a Bulawayo. Se sono ancora vivi, avranno bisogno di rinforzi.» «Vicky?» Harry abbracciò la moglie. «Mia madre e la mia famiglia sono a Bulawayo. Questa è la terra dove sono nata... non voglio fuggire.» Vicky si asciugò le lacrime con i pollici. «Verrò a Bulawayo con voi.» Ralph annuì. Si sarebbe sorpreso se Vicky avesse consentito ad andare a sud. «Partiremo subito dopo aver mangiato.» Si avviarono lungo la strada carraia, verso nord, una strada lugubre. I carri abbandonati durante la rinderpest erano spaziati a intervalli come pietre miliari. I teli erano già marci, i carichi erano stati saccheggiati e sull'erba erano sparse casse e cassette sfondate e lattine arrugginite. Ad alcuni carri erano ancora attaccate le carcasse mummificate dei buoi, con le teste girate all'indietro dalle convulsioni che li avevano uccisi. E poi incontrarono la morte e la devastazione più recenti. Una delle diligenze espresse dei fratelli Zeederberg era in mezzo alla pista, con i muli trafitti e, appesi ai rami di un albero spinoso, i cadaveri sventrati del conducente e dei passeggeri. Al guado del fiume Inyati restavano soltanto i muri anneriti del posto di scambio. L'abituale mutilazione dei morti qui aveva assunto una variante macabra. I corpi nudi della moglie e delle tre figlie del gestore erano allineati sullo spiazzo, con aste di knobkerrie infilate nelle parti intime. Il gestore era stato decapitato, il corpo gettato nel fuoco. La testa, infissa su un assegai, ghignava al centro della strada. Ralph coprì con la giacca il viso di Jon-Jon e lo tenne stretto a sé mentre passavano oltre. Ralph mandò avanti Isazi in ricognizione al guado, e scoprì che era difeso. Ralph radunò il suo gruppetto; si lanciarono al galoppo, cogliendo di sorpresa la dozzina di amadoda matabele. Ne abbatterono quattro mentre correvano per prendere le armi e risalirono sull'altra riva, insieme, tra la polvere e il fumo degli spari. I matabele non li seguirono anche se Ralph, nella speranza che lo facessero, tornò indietro e si piazzò in agguato sul bordo della strada. Quella notte Ralph tenne Jonathan sulle ginocchia. A intervalli di pochi minuti si svegliava sussultando dagli incubi in cui Cathy urlava e implorava pietà. All'alba si accorse che, senza rendersene conto, aveva estratto la fascia di pelli di talpa dalla giacca e la stringeva nel pugno. La rimise nella tasca e abbottonò la falda come se fosse un oggetto raro e prezioso. Per tutto quel giorno proseguirono verso nord e passarono davanti alle piccole miniere e alle abitazioni dove gli uomini e le loro famiglie avevano incominciato a costruirsi una vita. Alcuni erano stati colti completamente di sorpresa. Indossavano ancora le camicie da notte. Un bambino stringeva a sé l'orsacchiotto di pezza mentre la madre morta tendeva verso di lui la mano che non riusciva a sfiorare i riccioli fradici. Altri avevano venduto le loro vite a caro prezzo, e i matabele caduti erano sparsi intorno alle case bruciate, come schegge di legno intorno a una segheria. Una volta trovarono diversi amadoda morti, ma neppure un bianco assassinato. C'erano le tracce di cavalli e di un veicolo diretti verso nord. «Gli Anderson. Sono riusciti a scappare» disseRalph. «A Dio piacendo, ormai saranno arrivati a Bulawayo.» Vicky avrebbe voluto percorrere la vecchia strada dei carri che passava dalla Missione di Khami, ma Ralph non cedette. «Se sono là, è troppo tardi. Hai già visto abbastanza. Se si sono messi al sicuro, li troveremo a Bulawayo.» Entrarono in Bulawayo nelle prime ore del mattino del terzo giorno. Le barricate si aprirono per ammetterli nell'enorme laager nella piazza, e gli abitanti della città si affollarono intorno ai loro cavalli e li tempestarono di domande.
«I soldati stanno per arrivare?» «Quando arriveranno i soldati?» «Avete visto mio fratello? Era nella Miniera Antelope... «Avete qualche notizia?» Nel vedere Robyn che si sbracciava su uno dei carri, Vicky pianse per la prima volta da quando aveva lasciato la Miniera Harkness. Elizabeth saltò giù dal carro, si fece largo tra la folla e raggiunse il cavallo di Ralph. «Cathy?» chiese. Ralph scosse la testa e vide la propria angoscia rispecchiata nei limpidi occhi color miele. Elizabeth tese le braccia e sollevò Jon-Jon dalla sella. «Avrò cura di lui, Ralph» disse a voce bassa. *** La famiglia era accampata in un angolo del laager centrale. Sotto la direzione di Robyn e Louise, il carro era stato trasformato in un'abitazione affollata ma efficiente. Il primo giorno dell'insurrezione Louise e Jan Cheroot, il piccolo ottentotto, avevano portato il carro da King's Linn. Uno dei sopravvissuti all'attacco contro la Miniera Victoria era passato al galoppo davanti alla casa gridando un avvertimento quasi incoerente. Louise e Jan Cheroot, già messi in allarme dalla diserzione dei servitori e dei dipendenti matabele, avevano caricato sul carro viveri in scatola, coperte e munizioni ed erano partiti per Bulawayo. Jan Cheroot teneva le redini e Louise s'era piazzata sul mucchio del carico con un fucile tra le mani. Per due volte aveva visto da lontano piccoli gruppi di guerrieri matabele: ma qualche sparo d'avvertimento li aveva tenuti a distanza. Erano arrivati in città tra gli ultimi profughi. Quindi la famiglia non doveva affidarsi alla carità dei cittadini, come tanti altri che erano arrivati a Bulawayo con un cavallo coperto di sudore e un fucile scarico. Robyn aveva improvvisato un'infermeria sotto un tendone accanto al carro; e il Comitato per l'Assedio le aveva chiesto di occuparsi della salute e dell'igiene di quanti s'erano rifugiati nel laager; mentre Louise aveva assunto con molta naturalezza la guida di tutte le altre donne: aveva creato un sistema di ammasso e razionamento dei viveri e del materiale indispensabile; aveva affidato i cinque o sei orfani a madri provvisorie, e stava organizzando le altre attività, da un comitato addetto agli svaghi fino alle lezioni per insegnare a caricare e a sparare alle donne che non sapevano ancora farlo. Ralph lasciò a Vicky il compito di annunciare alla madre la morte di Cathy, affidò Jon-Jon a Elizabeth e attraversò il laager per parlare con un membro del Comitato per l'Assedio. Ralph tornò al carro quando era già buio. Stranamente, sulla città aleggiava un fragile clima festoso. Nonostante le perdite terribili subite da quasi tutte le famiglie, nonostante la minaccia degli impi che si radunavano oltre le barriere del laager, le grida dei bambini che giocavano a nascondino fra i carri, le note allegre d'una fisarmonica, le risate delle donne e lo sfolgorio dei fuochi di guardia ricordavano un picnic dei tempi più lieti. Elizabeth aveva fatto il bagno a Jonathan e a Robert, che erano tutti lustri e odorosi di sapone disinfettante; e mentre stavano cenando intorno al tavolo pieghevole, raccontò una storia che gli faceva sgranare gli occhi nella luce della lampada. Ralph le rivolse un sorriso di gratitudine e chiamò a sé Harry Mellow con un cenno. I due uomini si avviarono insieme per fare il giro del laager. Camminavano con le teste accostate, e Ralph disse sottovoce: «Sembra che il Comitato per l'Assedio stia facendo un buon lavoro. Hanno già tenuto un censimento, e calcolano che ci siano 632 donne e bambini e 815 uomini. La difesa della città sembra bene avviata, ma finora nessuno ha pensato ad altro che a quello. Per loro è stato un sollievo sapere che a Kimberley e a Città del Capo sono informati della situazione. Sono stato io a portargli le prime notizie arrivate dall'esterno del territorio dopo lo scoppio della rivolta.» Ralph tirò una boccata di fumo dal sigaro. «Sembrano convinti che siano già in marcia due reggimenti di cavalleria. Ma noi sappiamo che non è vero.» «ci vorranno mesi perché le truppe arrivino fin quassù.» «Jameson e i suoi ufficiali sono in viaggio
per l'Inghilterra e il processo, e Rhodes è stato convocato da una commissione d'inchiesta.» Ralph scrollò il capo. «E ci sono notizie anche peggiori. Le tribù mashona sono insorte d'accordo con i matabele.» «Buon Dio!» Harry si fermò di colpo e strinse il braccio di Ralph. «L'intero territorio... contemporaneamente?» un colpo pianificato con ogni cura.» «Ci sono stati combattimenti asprissimi nella valle di Mazoe e nei distretti Charter e Lomagundi, intorno a Fort Salisbury.» «Ralph, quante persone hanno assassinato quei selvaggi?» «Non lo sa nessuno. Ci sono centinaia di fattoiie e di piccole miniere, là fuori. Dobbiamo calcolare che i morti siano almeno cinquecento tra uomini. donne e bambini.» Per un po' proseguirono in silenzio. Una sentinella li fermò, ma riconobbe Ralph. «Ho sentito dire che ce l'aveva fatta, signor Ballantyne... i soldati stanno arrivando?» «I soldati stanno arrivando?» mormorò Ralph quando passarono oltre. «E' quello che chiedono tutti, dal Comitato per l'Assedio in giù.» Arrivarono all'estremità del laager, e Ralph parlò sottovoce alla guardia. «Sta bene, signor Ballantyne, ma tenga gli occhi aperti. Quei pagani assassini sono dappertutto.» Ralph e Harry varcarono il cancello e si avventurarono nella città. Era completamente deserta. Tutti si erano trasferiti nel Iaager centrale. Le casette di canne e di paglia erano buie e silenziose. I due uomini procedettero al centro della polverosa via principale fino a quando gli edifici divennero meno numerosi. Si fermarono a scrutare il terreno costellato di cespugli. «Ascolta!» disse Ralph. Uno sciacallo guaì in riva al fiume Umguza, e un altro gli rispose dalle ombre della foresta di acacie, più lontano a sud. «Sciacalli» disse Harry, ma Ralph scosse la testa. «Matabele.» «Attaccheranno la città?» Ralph non rispose immediatamente. Stava scrutando lontano, nel veld, e teneva in mano qualcosa che rigirava come un rosario. «Probabilmente là fuori ci sono ventimila guerrieri. Ci hanno imbottigliati qui e prima o poi, quando avranno ammassato un grande numero di impi per farsi coraggio, verranno all'attacco. Verranno molto prima che possano arrivare i soldati.» «Che speranze abbiamo?» Ralph si avvolse intorno a un dito l'oggetto che teneva in mano, e Harry vide che era una fascia di pelliccia grigia. «Abbiamo quattro mitragliatrici Maxim, ma ci sono seicento donne e bambini; e su novecento uomini, una metà non è in grado di usare un fucile. Il modo migliore per difendere Bulawayo non è restare nel laager ad aspettarli...» Ralph si voltò e tornarono indietro lungo la via silenziosa. «Volevano che entrassi nel Comitato per l'Assedio, ma gli ho risposto che gli assedi non mi piacciono.» «Che cosa intendi fare, Ralph?» «Radunerò un gruppo di uomini, uomini che conoscono la tribù e il territorio, che sappiano sparare e parlare il sindebele abbastanza bene per spacciarsi per indigeni... e andremo là, tta le colline Matopos, o dovunque si nascondano, e cominceremo a uccidere i matabele.» *** Isazi portò quattordici uomini. Erano tutti zulu del sud, conducenti e inservienti della Zeederberg Company che un tempo avevano lavorato per la Rholands Transport ed erano rimasti bloccati a Bulawayo dalla rinderpest. «So che sapete guidare un carro trainato da diciotto buoi.» Ralph li guardò in faccia mentre quelli, accosciati intorno al fuoco, si passavano di mano in mano il barattolo rosso di tabacco da fiuto che gli aveva fornito. «So anche che ognuno di vOi e capace di mangiare in un solo pasto il proprio peso in farinata di mais e di innaffiarlo con tanta birra da stordire un rinoceronte; ma sapete combattere?» E Isazi rispose per tutti, usando il tono paziente che di solito riservava a un bambino ottuso. «Siamo zulu.» Era l'unica risposta necessaria.
*** Jan Cheroot ne portò altri sei, tutti giovani del Capo di sangue misto, boscimano e ottentotto, come lui. «Questo si chiama Grootboom, Grande Albero.» Ralph pensò che somigliava piuttosto a un arbusto spinoso del Kalahari, scuro, asciutto e spigoloso. «Era caporale del 52º Fanteria al forte di Città del Capo. «E' mio nipote.» «Perché ha lasciato Città del Capo?» Jan Cheroot fece una smorfia. «C'è stata una disputa a causa di una donna. Un tale è finito con la gola tagliata, e hanno accusato il mio caro nipote di quell'atto criminale.» «Era stato lui?» «Certo. Maneggia il coltello meglio di chiunque altro... me escluso» dichiarò modestamente Jan Cheroot. «Perché vuoi uccidere i matabele?» chiese Ralph in sindebele, e l'ottentotto gli rispose correntemente nella stessa lingua. «E' un lavoro che capisco e apprezzo.» Ralph annuì e si rivolse al secondo uomo. «Può darsi che questo sia un mio parente ancora più stretto» lo presentò Jan Cheroot. «Si chiama Taas e sua madre era una grande bellezza. Era proprietaria d'una famosa bettola ai piedi di Signal Hill, sopra il porto di Città del Capo. Un tempo eravamo molto intimi, ma la signora aveva molti amici.» La recluta aveva il naso piatto, gli zigomi alti, gli occhi orientali e la pelle lucida di Jan Cheroot... se era davvero uno dei suoi bastardi e aveva passato l'infanzia nella malfamata zona portuale di Città del Capo, allora doveva essere un tipo efficiente quando si trattava di battersi. Ralph annuì. «Cinque scellini al giorno» disse, «e una bara gratis per seppellirti se i matabele ti ammazzano.» *** Jameson aveva portato con sé al sud molte centinaia di cavalli, e i matabele avevano razziati quelli rimasti nelle fattorie. Maurice Gifford aveva già condotto centosessanta uomini verso Gwanda per portare in salvo i superstiti che potevano trovarsi isolati nelle fattorie e nelle miniere. Intanto il capitano George Grey aveva formato un drappello di fanteria a cavallo, gli «Scout di Grey» con quasi tutti i cavalli che restavano ancora. I quattro che Ralph aveva portato con sé erano beslie magnifiche, ed era riuscito a comprarne altri sei a prezzi esorbitanti, cento sterline per un animale che al massimo ne avrebbe spuntate quindici sul mercato di Kimberley. Ma non ce n'erano altri. Rimase sveglio a lungo, dopo la mezzanotte, pensando a quel problema mentre stava sdraiato sotto il carro e sopra di lui Robyn e Louise dormivano con le due ragazze e i bambini sotto il tendone di tela. Ralph teneva gli occhi chiusi. A pochi passi da lui Harry Mellow respirava profondamente e regolarmente nel sonno. Eppure, nonostante la preoccupazione, Ralph percepì un'altra presenza vicina nell'oscurità. Per prima cosa sentì l'odore, l'odore di fumo di legna e di pelli conciate e del grasso con cui si cospargono il corpo i guerrieri matabele. Ralph insinuò la mano destra sotto la sella che usava per cuscino, e toccò con le dita il calcio di noce zigrinato della pistola Webley. «Henshaw» bisbigliò una voce che non riconobbe. Ralph passò fulmineamente il braccio sinistro intorno a un collo muscoloso, e nello stesso istante premette la canna della pistola contro il corpo dell'uomo. «Presto.» sibilò. «Dimmi chi sei prima che ti uccida.» «Mi avevano detto che eri svelto e forte.» L'uomo parlava in sindebele. «Ora lo credo.» «Chi sei?» «Ti ho portato uomini validi e la promessa di procurarti molti cavalli.» Nessuno di loro aveva alzato la voce. «Perché sei venuto come un ladro?» «Perché sono matabele e i bianchi mi uccideranno se mi troveranno qui. Sono venuto per condurti da quegli uomini.» Ralph allentò la stretta, cautamente, e prese gli stivali.
Lasciarono il laager e si avviarono furtivi attraverso la città deserta e silenziosa. Ralph aveva parlato una sola volta. «Sai che ti ucciderò, se è un tradimento.» «Lo so» aveva risposto il matabele. Era alto, alto quanto Ralph ma ancora più massiccio. A un certo momento, quando si voltò a guardare Ralph, la luce della luna mostrò la lucentezza del tessuto cicatriziale sotto l'occhio destro. Sullo spiazzo d'una delle ultime case della città, vicino al veld aperto ma separato dal muro che un cittadino aveva eretto orgogliosamente per proteggere l'orto, c'erano altri dodici amadoda matabele. Alcuni indossavano gonnellini di pelliccia, altri laceri capi di vestiario occidentali. «Chi sono questi uomini?» chiese Ralph. «E tu chi sei?» «Mi chiamo Ezra. Ero sergente di Unico Occhio, che gli impi hanno ucciso sulle colline di Khami. Questi uomini sono tutti della Polizia della Compagnia.» «La Polizia della Compagnia è stata sciolta e disarmata» disse Ralph. «Sì, ci hanno tolto i fucili. Dicono che non si fidano di noi, che potremmo passare con i ribelli.» «Perché non lo fate?» chiese Ralph. «Alcuni dei vostri fratelli l'hanno già fatto. Dicono che cento uomini della polizia sono passati agli insorti e hanno portato con loro i fucili.» «Noi non possiamo... neppure se lo volessimo.» Ezra scosse la testa. «Hai sentito parlare dell'uccisione di due ragazze matabele presso il fiume Inyati? Una che si chiamava Ruth e l'altra che si chiamava Imbali, Piccolo Fiore?» Ralph aggrottò la fronte. «Sì, ricordo.» «Sono stati questi uomini, e io ero il loro sergente. L'induna chiamato Gandank ha ordinato di portarci vivi da lui. Vuole scegliere personalmente il modo per farci morire.» «Io ho bisogno di uomini capaci di uccidere le donne dei matabele con la stessa facilità con cui loro hanno ucciso le nostre» disse Ralph. «E i cavalli?» «I cavalli catturati dai matabele a Essexvale e Belingwe sono custoditi fra le colline in un posto che conosco.» *** Molto prima che suonasse la campana del coprifuoco erano usciti dal laager centrale da soli e a coppie, e Jan Cheroot e i suoi ragazzi del Capo avevano portato con loro i cavalli; e quando Ralph e Harry Mellow s'incamminarono per la via principale come se volessero respirare l'aria della sera prima di tornare per la cena, gli altri erano già tutti radunati nel giardino cintato in fondo alla strada. Il sergente Ezra aveva portato i gonnellini e le lance e le knobkerrie, e Jan Cheroot aveva il grande paiolo pieno di grasso di bue e di nerofumo. Ralph, Harry e gli ottentotti si spogliarono completamente e si spalmarono l'un l'altro con quel miscuglio rancido, distribuendolo con cura dietro le orecchie, le ginocchia e i gomiti e sotto gli occhi, dove la pelle chiara poteva essere più visibile. Quando la campana della chiesa anglicana incominciò a suonare per annunciare il coprifuoco, erano già tutti vestiti con i gonnellini degli amadoda matabele. Ralph e Harry si coprirono i capelli troppo riconoscibili con acconciature di penne nere di viduini. Isazi e Jan Cheroot legarono i coprizampe di cuoio greggio sugli zoccoli dei cavalli mentre Ralph impartiva gli ultimi ordini parlando in sindebele, l'unica lingua che avrebbero usato durante l'intera incursione. Lasciarono la città nell'oscurità subitanea fra il calar del sole e il levar della luna. Il suono degli zoccoli era attutito dalle pelli, e i matabele di Ezra correvano a fianco dei cavalli senza far rumore. Dopo la prima ora, Ralph mormorò loro un ordine secco; e quelli si afferrarono alle cinghie delle staffe e si tennero appesi, un uomo da ogni lato d'un cavallo. Il ritmo della marcia non divenne mai più lento del piccolo galoppo. Procedettero verso sud-est, fino a quando le creste dentellate delle Matopos si profilarono contro il cielo schiarito dalla luna. Un po' più tardi di mezzanotte, Ezra borbottò. «Ecco il posto!» Ralph si rizzò sulle staffe e alzò il braccio destro. Gli uomini della colonna smontarono. Taas, il presunto bastardo di Jan Cheroot, venne a prendere i cavalli mentre Jan Cheroot controllava le armi dei suoi uomini. «Farò in modo che si mettano fra voi e la luce del fuoco» gli bisbigliò Ralph. «Aspetta il mio segnale.» Poi Ralph sorrise a Isazi e i suoi denti balenarono nella lucida faccia tinta di nero. «Non
faremo prigionieri. Restate vicini, ma attenti alle pallottole di Jan Cheroot.» «Henshaw, voglio venire con te.» Harry Mellow aveva parlato in sindebele e Ralph gli rispose nella stessa lingua. «Tu spari meglio di quanto parli. Va' con Jan Cheroot.» A un altro ordine di Ralph, ognuno degli uomini frugò nella borsa di cuoio appesa al fianco ed estrasse una collana di nappe formate dai ciuffi delle code di bovini bianchi. Erano i distintivi che avrebbero evitato loro di uccidersi l'un l'altro nella confusione del combattimento. Soltanto Ralph aggiunse un altro ornamento alla sua tenuta. Prese dalla borsa la fascia di pelli di talpa e se la legò intorno al braccio; quindi brandì il pesante assegai e il knobkerrie di legno e rivolse un cenno a Ezra: «Precedimi!» La fila dei matabele, con Ralph al secondo posto, salì correndo attraverso il pendio della collina. Quando superarono il contrafforte meridionale, videro il bagliore rosso d'un fuoco di guardia nella valle sottostante. Ralph allungò il passo e precedette Ezra in testa alla fila. Si riempì i polmoni e cominciò a cantare. Alza la pietra sotto cui dorme il serpente Alza la pietra e libera il mamba. Il mamba di Mashobane ha le zanne d'acciaio argenteo. Era uno dei canti di battaglia dell'impi Insukamini; e dietro di lui i matabele ripresero il ritornello con voci profonde e melodiose. Il canto risuonò tra le colline e destò l'accampamento nella valle. Le figure nude si alzarono dalle stuoie, gettarono legna sui fuochi, e il chiarore rosso illuminò la parte inferiore delle chiome delle acacie che formavano un baldacchino simile alla tenda d'un circo. Ezra aveva calcolato che vi fossero quaranta amadoda a guatdia dei cavalli; ma quelli radunati intorno ai fuochi erano già più numerosi, e a ogni secondo altri affluivano nel bivacco, tornavano dagli avamposti per scoprire che cosa causava quell'agitazione. Ralph contava proprio su questo. Non voleva che ci fossero sbandati. Dovevano essere concentrati perché i suoi fucilieri potessero sparare nel mucchio, perché una pallottola potesse fare il lavoro di tre o quattro. Ralph si avventurò al trotto nell'accampamento dei matabele. «Chi comanda qui?» Ralph interruppe il canto di battaglia e chiese con un muggito: «Che il comandante si faccia avanti e ascolti il messaggio che gli porto da Gandank.» Sapeva, dal resoconto del massacro delle colline di Khami fattogli da Robyn, che il vecchio induna era uno dei capi dell'insurrezione. Quel nome ebbe l'effetto che aveva sperato. «Io sono Mazui.» Un guerriero si fece avanti rispettosamente. «Attendo la parola di Gandank, figlio di Mzilikazi.» «I cavalli non sono più al sicuro in questo posto. I bianchi hanno scoperto dove si trovano. Al levar del sole li condurremo più addentro fra le colline» disse Ralph. «In un luogo che ti mostrerò.» «Sarà fatto.» «Dove sono i cavalli?» «Sono nel kraal, vigilati dai miei amadoda e al sicuro dai leoni.» «Richiama tutte le tue pattuglie» sibilò Ralph. Il comandante gridò un ordine e si voltò premuroso verso di lui. «Che notizie ci sono dei combattimenti?» «C'è stata una grande battaglia.» Ralph si lanciò in un racconto fantasioso, mimando il combattimento nel modo tradizionale, tra salti e urla e colpi di assegai sferrati all'aria. «E così siamo arrivati alla retroguardia dei cavalieri, e così e così li abbiamo trafitti...» I suoi matabele proruppero in un coro di «Jee!» protratti e saltarono e si pavoneggiarono con lui. Gli ascoltatori erano estasiati e incominciavano a pestare i piedi e a dondolarsi all'unisono con Ralph e i suoi matabele. Le sentinelle e le pattuglie arrivarono dalla periferia del campo. Poi dall'ombra non uscirono più nere figure frettolose. C'erano tutti... cento, forse centoventi, non di più, calcolò Ralph, contro i suoi quaranta uomini. Non era una sproporzione troppo grande: i ragazzi di Jan Cheroot erano tutti ottimi tiratori e Harry Mellow, con un fucile imbracciato, valeva cinque uomini normali. Da vicino, sul primo declivio della collina, risuonò il richiamo d'un caprimulgo. Era un grido tremulo e musicale che sembrava dire: «Buon Dìo, salvaci»; ed era questo che gli dava il nome popolare di uccello della litania. Era il segnale che Ralph stava aspettando; provò una rabbiosa soddisfazione al pensieto che Jan Cheroot avesse seguito così fedelmente i suoi ordini.
Dalla posizione sul pendio, Jan Cheroot doveva vedere la folla degli amadoda profilati contro la luce del fuoco. Fingendo di continuare la danza, Ralph si allontanò volteggiando e battendo i piedi al suolo fino a mettere una distanza di venti passi tra sé e il matabele più vicino. Concluse bruscamente la danza, con le braccia spalancate in croce. Restò immobile come un morto a fissare i suoi ascoltatori con occhi stralunati, e un silenzio scese su tutti. Lentamente Ralph alzò le braccia sopra la testa. Per un momento rimase così: una figura eroica lucida di grasso, con i muscoli delle braccia e del petto che spiccavano orgogliosi, il gonnellino di code di zibetto che scendeva fino alle ginocchia, la collana di nappe bianche intorno alla gola, il talismano destinato a proteggerlo dalla morte in agguato nell'oscurità al di là del cerchio della luce del fuoco. La faccia annerita era contratta in una smorfia feroce che affascinava gli spettatori. La danza e il canto erano serviti allo scopo: avevano distratto gli amadoda e avevano mascherato i rumori che gli zulu e gli ottentotti potevano aver fatto mentre si portavano in posizione intorno al bivacco. All'improvviso Ralph lanciò un ululato demoniaco che fece rabbrividire gli amadoda e riccWassò le braccia... il segnale che stavano aspettando Harry e Jan Cheroot. I veli dell'oscurità furono squarciati dai lampi dei fucili ammassati. Erano così vicini che le canne quasi toccavano la ressa dei corpi nudi. I colpi li martellarono: un unico proiettile bastava a penetFare attraverso un ventre, un petto, una spina dorsale e ad abbattere quattro uomini, e si arrestava soltanto spezzandosi contro un osso compatto della pelvi o contro un femore. L'attacco fu così inaspettato che la massa dei guerrieri mulinò senza un orientamento, e ricevette tre raffiche dei Winchester a ripetizione prima di sbandarsi e fuggire. Più di metà degli amadoda era già a terra e molti di quelli ancora in piedi erano feriti. Corsero verso gli zulu di Isazi e si ammucchiarono contro di loro come l'acqua contro una diga. Ralph udiva le grida squillanti: «Ngi dhla! Ho mangiato!» quando gli zulu affondavano l'acciaio, udì le urla dei morenti. Ora i matabele si stavano riprendendo, si schieravano a spalla a spalla per incontrare la linea sottile degli zulu e travolgerla. Era il momento che Ralph aveva atteso. Condusse a corsa i suoi matabele dalla retroguardia e li scagliò contro le spalle indifese dei guerrieri impegnati nella battaglia. Molto tempo prima, quando erano ragazzi e lavoravano nella grande miniera di Kimberley, Bazo aveva insegnato a Ralph l'uso dell'assegai. Ralph era diventato esperto nel maneggiare la larga lama come tutti i giovani matabele suoi compagni. Ma una cosa era esercitarsi a sferrare il lungo colpo mortale, un'altra era affondare la punta dell'arma nella carne vivente. Ralph era impreparato alla sensazione dell'acciaio stretto nella sua mano che penetrava e rallentava contro una resistenza risucchiante e toccava stridendo l'osso, al contraccolpo dell'impugnatura sotto la mano mentre le vittime sussultavano convulsamente per la sofferenza. Gli sembrava l'impugnatura di una canna da pesca quando il salmone tenta la prima fuga. Istintivamente Ralph rigirò la lama nel corpo dell'uomo come gli aveva insegnato Bazo, massimizzando la lesione dei tessuti e aprendo una via d'uscita alla lama... poi la liberò e per la prima volta sentì lo spruzzo lieve e caldo del sangue eruttato dalla ferita che gli volava in faccia e gli bagnava il braccio destro e il petto. Scavalcò il moribondo che si dibatteva al suolo e affondò di nuovo la lama, più volte. L'odore del sangue e le grida lo facevano impazzire; ma era una follia fredda e feroce che potenziava la sua vista, facendo rallentare i secondi del combattimento, consentendogli di scorgere subito un nemico passato al contrattacco e di deviare la lama dell'avversario con disinvoltura sprezzante, di usare lo slancio delle spalle per avventare la punta oltre la guardia del matabele, nell'attaccatura della clavicola alla base della gola. Il respiro dell'uomo sibilò sulle corde vocali tranciate; lasciò cadere l'assegai e afferrò con le mani nude quello di Ralph. Ralph lo ritirò di scatto; gli orli affilati come rasoi tagliarono fino all'osso le dita dell'uomo, e le mani si spalancarono snervate. Il matabele cadde in ginocchio. Ralph lo scavalcò con un balzo e si preparò a sferrare un altro affondo.
«Henshaw!» gli urlò in faccia una voce. «Sono io!» E attraverso la nebbia della follia Ralph vide il collare di nappe bianche intorno alla gola dell'uomo e trattenne il colpo. Le due file degli attaccanti s'erano incontrate. «E' fatta» ansimò Isazi, e Ralph si guardò intorno sbigottito. Era accaduto tanto in fretta. Scosse la testa per liberarsi dalla fredda morsa della follia combattiva che l'attanagliava. Erano tutti a terra, anche se alcuni si contorcevano e sussultavano e gemevano ancora. «Isazi, finiscili!» ordinò Ralph, e rimase a guardare mentre gli zulu incominciavano il macabro compito e passavano in fretta da un corpo all'altro: cercavano il pulsare della vena sotto l'orecchio e, se lo trovavano, lo stroncavano con un affondo fulmineo. «Ralph.» Harry salì correndo il pendio alla testa degli zulu del Capo. «Per Dio, questa volta...» «Non parlare inglese» l'avvertì Ralph e poi, alzando la voce: «Ora prenderemo i cavalli. Porta le briglie e le redini.» C'erano cinquantatré ottimi cavalli nel kraal cintato da arbusti spinosi. Quasi tutti portavano il marchio della BSA Company. Ognuno degli zulu e dei matabele si scelse una cavalcatura, e gli altri furono condotti via per le briglie lunghe. Nel frattempo gli zulu del Capo si stavano aggirando sul campo con rapidità e precisione: sceglievano i fucili che si potevano utilizzare e gettavano sul fuoco i Martini-Henry, gli schioppi ad avancarica e i knobkerrie, spezzavano gli assegai nelle biforcazioni degli alberi. Il bottino che scoprirono, formato da posate, vasellame e indumenti di manifattura europea, dimostrava che quell'impi aveva partecipato ai saccheggi nei primi giorni dell'insurrezione. Buttarono tra le fiamme anche quello. Meno di un'ora dopo il primo colpo di fucile si rimisero in movimento. Questa volta ognuno degli uomini era montato, e i cavalli di scorta li seguivano al piccolo galoppo. Percorsero la via principale di Bulawayo nell'incerta luce grigia che precede l'alba. Ralph e Harry s'erano ripuliti alla meglio le facce annerite, ma per essere certi di non farsi sparare sddosso da qualche sentinella nervosa portavano una bandiera ricavata da una maglia di flanella bianca di Harry Mellow. Gli occupanti del laager balzarono dai letti per guardare a bocca aperta e tempestarli di domande. E poi incominciarono a capire che quella cavalcata rappresentava la prima rappresaglia contro i massacri commessi dalle tribù, e gli applausi e le acclamazioni si levarono in una gioiosa isteria. Mentre Vicky ed Elizabeth servivano loro la colazione a razioni doppie sotto il tendone del carro, Ralph e Harry ricevettero una fila interminabile di gente che veniva a complimentarsi, vedove piangenti che avevano perduto i mariti sotto gli assegai dei matabele e portavano un ringraziamento e mezza dozzina di uova o una torta appena cotta; bambini malinconici venuti ad ammirare gli eroi, e giovani decisi che chiedevano con impazienza: «E' qui che ci si arruola negli Scout di Ballantyne?» *** Vi furono grida divertite quando Judy incominciò a picchiare con il bastone il rassegnato marito. I bambini in prima fila battevano le mani mentre i colpi grandinavano sulla testa di legno di Punch e, sulla sua gobba grottesca, i campanelli del berretto tintinnavano. Jon-Jon aveva la faccia rossa come il naso adunco di Punch e non condivideva i sentimenti più diffusi tra gli spettatori. «Picchiala anche tu!» urlò indignato, pestando i piedi. «E' solo una donna!» «Hai parlato da vero Ballantyne» rise Ralph, e trattenne a forza il figlio che smaniava di avventarsi in soccorso del malcapitato Punch. Elizabeth era seduta dopo Jon-Jon, con Robert sulle ginocchia. Il bambino, con un'espressione solenne sul viso malaticcio, si succhiava con impegno il pollice come uno gnomo succhia la pipa. Per contrasto, Elizabeth era raggiante di gioia puerile: con le guance arrossate e gli occhi accesi, incitava Judy a pestare ancora più forte.
Una ciocca di capelli era sfuggita al pettine di tartaruga e le cadeva contro la pelle tenera e vellutata della tempia, arricciolandosi intorno al lobo dell'orecchio. L'orecchio era d'un rosa lieve, così sottile e delicato che la luce del sole l'attraversava come se fosse di rara porcellana. E il sole faceva brillare i riflessi color bordeaux come scintille elettriche nei folti capelli scuri. L'attenzione di Ralph si distolse dai burattini: la osservò senza darlo a vedere al di sopra della testa ricciuta di Jonathan. La risata era armoniosa e gutturale, spontanea e disinibita, e anche Ralph rise di nuovo. Elizabeth girò la testa e per un momento la guardò nel profondo degli occhi. Era come guardare in una ciotola di miele caldo, e gli dava la sensazione di poter vedere fino a profondità illimitate e pagliuzzate d'oro. Poi la ragazza abbassò il velo delle scure ciglia ricurve e tornò a guardare il minuscolo palcoscenico. Ma non rideva più. Il labbro inferiore le tremava e una vampata di rossore le saliva alla gola. Con uno strano senso di colpa che lo lasciò scosso, Ralph si affrettò a rivolgere gli occhi, se non l'attenzione, sui burattini che strillavano e si azzuffavano. La commediola finì con immensa soddisfazione di Jonathan, quando Judy fu condotta in arrèsto da un poliziotto in uniforme con l'elmetto blu, e il piccolo, mite e occhialuto contabile del Meikles Store uscì da dietro il teatrino con i burattini ancora nelle mani per inchinarsi al pubblico. «Sembra tutto il signor Kipling» mormorò Elizabeth, «e ha la stessa fantasia sanguinaria e violenta.» Ralph provò uno slancio di gratitudine per Elizabeth che riusciva a superare con tanta grazia quel momento inaspettato d'imbarazzo. Prese in braccio i bambini, se li issò sulle spalle e insieme seguirono attraverso il laager la folla che si disperdeva. Jonathan, in spalla al padre, era loquace come un branco di stornelli, e spiegava a Bobby le sottigliezze della commediola, evidentemente troppo difficili per un'intelligenza inferiore alla sua. Ma Ralph ed Elizabeth camminavano in silenzio. Quando raggiunsero il carro, Ralph fece scendere a terra i due bambini che corsero via subito. Elizabeth accennò a seguirli, un po' svogliatamente, ma si fermò e si voltò non appena Ralph aprì bocca. «Non so che cosa avrei fatto senza di te... sei stata meravigiosa..» Ralph esitò. «Senza Cathy...» Vide la sofferenza negli occhi di Elizabeth e s'interruppe. «Volevo solo ringraziarti.» «Non è necessario, Ralph» rispose lei a voce bassa. «Qualunque cosa di cui tu abbia bisogno... sarò sempre qui per aiutarti.» Poi il suo riserbo si spezzò. Fece per aggiungere qualcosa, ma le tremarono le labbra; si voltò bruscamente e seguì i due bambini a bordo del carro. *** Ralph aveva pagato un prezzo esorbitante per la bottiglia di whisky, scribacchiando un assegno per venti sterline sull'etichetta d'una scatola di carne. La nascose sotto la giacca e la portò a Isazi, Jan Cheroot e al sergente Ezra che sedevano intorno a un fuoco, un po' separati dai loro uomini. I tre scossero i fondi di caffè dalle tazze smaltate, e le tesero per farsi versare una buona dose di whisky. Per un po' sorseggiarono in silenzio, fissando le fiamme e lasciando che il calore dell'alcol si diffondesse nei loro corpi. Finalmente Ralph fece un cenno al sergente Ezra che cominciò a parlare sottovoce. «Gandank e il sUO impi dell'Inyati stanno ancora aspettando fra le colline di Khami... ha milleduecento uomini, tutti guerrieri esperti. Babiaan è accampato ai piedi delle Colline degli induna con altri seicento. Potrebbe arrivare qui in un'ora...» Rapidamente, Ezra riferì le posizioni degli impi, i nomi degli induna, la potenza e gli umori dei guerrieri. «E Bazo e le sue Talpe?» Finalmente Ralph si decise a fare la domanda che più gli premeva, ed Ezra alzò le spalle. «Non ne sappiamo nulla. Ho mandato tra le colline i miei uomini migliori a cercarli. Nessuno sa dove sono le Talpe.» «Dove colpire, ora?» La domanda di Ralph era retorica. Fissava pensieroso il fuoco. «Babiaan tra le Colline degli Induna, oppure Zama con i suoi mille guerrieri che bloccano la
strada di Mangivve?» Isazi tossì per esprimere educatamente il suo disaccordo; e quando Ralph alzò gli occhi verso di lui, disse: «Ieri notte mi sono seduto intorno a uno dei fuochi del bivacco di Babiaan, ho mangiato la sua carne e ho ascoltato i suoi uomini che parlavano. Parlavano del nostro attacco al campo dei cavalli e dicevano che gli induna li hanno avvertiti di stare in guardia, in futuro, contro tutti gli sconosciuti, anche se portano le pellicce e i pennacchi degli impi combattenti. Non potremo usare due volte lo stesso trucco.» Jan Cheroot ed Ezra borbottarono per dichiararsi d'accordo. Il piccolo ottentotto capovolse il boccale per mostrare che era vuoto e lanciò un'occhiata significativa alla bottiglia posata tra i piedi di Ralph. Ralph versò di nuovo, e mentre teneva il boccale fra le mani e aspirava il profumo pungente dell'alcol, tornò con il pensiero a quel pomeriggio.. alle risate dei bambini e una ragazza incantevole con i capelli che ardevano di fuochi dolci nella luce del sole. La sua voce risuonò aspra. «Le loro donne e i bambini» disse. «Saranno nascosti nelle grotte e nelle valli segrete delle Matopos. Trovateli!» *** C'erano cinque bambini sotto l'argine del fiumicello. Erano tutti nudi, e avevano le gambe incrostate di argilla giallastra fin sopra le ginocchia. Ridevano e si azzuffavano allegramente, e scavavano l'argilla dall'argine con gli stecchi appuntiti e l'ammucchiavano in rozze ceste di canne. Tungata Zebiwe, «Colui-che-cerca-ciò-che-è-stato-rubato» fu il primo a uscire dal fiumicello: trascinò il cesto in un punto ombroso, si accovacciò e si mise al lavoro. Gli altri salirono dietro di lui e sedettero in cerchio. Tungata prese dal cesto una manciata d'argilla, l'arrotolò in una salsiccia molle tra le palme rosate. Poi la modellò con abilità, formando la schiena gibbosa e le gambe tozze. Quando ebbe terminato, posò il corpo d'argilla tra le ginocchia su un pezzo di corteccia secca, quindi incominciò a modellare separatamente la testa, con le spine curve per le corna e i frammenti di cristallo di rocca levigati dall'acqua per gli occhi. Fissò la testa al collo poderoso e sporse la lingua per la concentrazione mentre la sistemava e poi la scrutava con aria critica. «Inkunzi Nkulu!» esclamò per salutare la sua creazione. «Grande Toro!» Sorridendo di gioia, portò la bestia d'argilla al formicaio e la posò sulla base di corteccia perché si asciugasse al sole. Quindi si affrettò a tornare indietro e incominciò a modellare le vacche e i vitelli per la sua mandria. Mentre lavorava, irrideva le creazioni dei compagni, le paragonava al suo grande toro, e sogghignava sfacciatamente delle risposte. Tanase lo guardava dall'ombra. Era scesa in silenzio lungo il sentiero, attraverso la fitta boscaglia della sponda, guidata dalle risate infantili e dalle voci gioiose. Adesso esitava a interrompere quel momento magico. Tra la tristezza e la lotta, le minacce e il fumo della guerra, sembrava che la gioia e l'ilarità fossero state dimenticate. Era necessaria la visione di un bambino per ricordarle ciò che era stato un tempo... e che poteva essere di nuovo. Il peso soffocante dell'amore la sopraffece, seguito quasi immediatamente da un timore imprecisato. Avrebbe voluto correre verso il figlio e prenderlo fra le braccia, stringerlo al seno e proteggerlo da... da qualcosa che non avrebbe saputo definire. Poi Tungata alzò gli occhi, la vide, e venne a mostrarle con timido orgoglio il toro d'argilla. «Guarda che cosa ho fatto.» «E' bellissimo.» «E' per te, Umame, l'ho fatto per te.» Tanase prese il dono. «E' un magnifico toro e genererà molti vitelli» disse, e il suo amore era così forte che le lacrime le bruciavano le palpebre. Non voleva che il bambino le vedesse. «Togliti l'argilla dalle gambe e dalle braccia» gli disse.
«Dobbiamo andare alla grotta.» Tungata si avviò saltellando al suo fianco, con la pelle ancora bagnata e splendente d'un nero vellutato, e rise felice quando Tanase si mise sulla testa il toro d'argilla e procedette con la schiena diritta e i fianchi ondeggianti per tenere in equilibrio il carico. Salirono il sentiero fino alla base dello strapiombo. Non era esattamente una grotta, ma una lunga, bassa sporgenza della parete di roccia. Non erano i primi che se ne servivano come di una casa. Il tetto di pietra era annerito dalla fuliggine di innumerevoli fuochi, e la parete di fondo era decorata dagli antichi disegni e dalle incisioni dei piccoli boscimani gialli che avevano cacciato in quella zona molto tempo prima che Mzilikazi conducesse i suoi impi tra le colline. Erano immagini meravigliose di rinoceronti e giraffe e gazzelle, e di piccole figure elementari dai genitali enormi e armate d'arco che cacciavano gli animali. C'erano quasi cinquecento persone che vivevano in quel luogo, uno dei luoghi segreti e sicuri della tribù dove venivano mandati le donne e i bambini quando la guerra o qualche altra catastrofe minacciava i matabele. Sebbene la valle fosse stretta e scoscesa, c'erano cinque vie di fuga, sentieri nascosti che scalavano i dirupi e anfratti nel granito che impedivano a un nemico di intrappolarli nelle viscere della valle. Il fiumicello dava l'acqua pura da bere, trenta vacche sopravvissute alla rinderpest fornivano il maas, il latte inacidito che costituiva uno dei cibi abituali della tribù. E quando erano venuti lì, ogni donna aveva portato sulla testa un sacco di pelle pieno di cereali. Le locuste avevano divorato il raccolto: ma con meticolosa pianificaziòne avrebbero potuto resistere in quel luogo per molti mesi. Le donne erano sgranate lungo il riparo di roccia, impegnate nei loro lavori. Alcune battevano il mais nei mortai ricavati dal tronco di un albero e usavano un pesante pestello di legno che sollevavano con entrambe le mani fin sopra la testa per lasciarlo ricadere nella coppa del mortaio: quindi battevano le mani e riafferravano il pestello per vibrare un altro colpo. Altre intrecciavano strisce di corteccia per confezionare stuoie, conciavano pelli di animali selvatici, infilavano perline di ceramica. Sulla scena aleggiavano la nebbiolina azzurra dei fuochi e il dolce brusio delle voci delle donne, frammisto ai gorgogli e ai cinguettii dei bimbetti neri che strisciavano nudi sulle rocce o pendevano come mignatte grasse dalle mammelle delle madri. Juba era all'estremità del rifugio e insegnava a due delle figlie e alla nuova moglie d'uno dei figli i segreti delicati della preparazione della birra. Il sorgo era stato intriso d'acqua ed era germogliato, e adesso veniva il momento di asciugarlo e di macinare il lievito. Era un compito impegnativo, e Juba non si accorse della presenza della prima nuora e del nipote fino a quando non le furono accanto. Allora alzò la testa e un sorriso si schiuse nella gran faccia tonda. «Madre mia.» Tanase s'inginocchiò rispettosamente davanti a lei. «Ti devo parlare.» Juba si sforzò di alzarsi, ma restò inchiodata dal peso. Le figlie la presero per i gomiti e la sollevarono. Appena fu in piedi, si mosse con agilità sorprendente, si issò Tungata sul flanco e lo portò senza fatica lungo il sentiero. Tanase le si affiancò. «Bazo mi ha mandata a chiamare» le disse. «Ci sono dissensi fra gli induna e Bazo ha bisogno che gli chiarisca le parole dell'Umlimo. Altrimenti la combattività si spegnerà tra esitazioni e chiacchiere. Perderemo ciò che abbiamo conquistato. «Allora devi andare, figlia mia.» «Devo andare in fretta, non posso portare con me Tungata.» «Qui sarà al sicuro. Avrò cura di lui. Quando andrai?» «Immediatamente.» Juba sospirò e annuì. «Così sia.» Tanase toccò la guancia del bambino. «Obbedisci a tua nonna» gli disse sottovoce, e scomparve come un'ombra oltre la curva dello stretto sentiero. *** Tanase varcò i portali di granito che custodivano la valle dell'Umlimo. Aveva soltanto i ricordi di quel luogo come compagni di viaggio, e non erano una piacevole compagnia. Eppure, quando si avviò giù per il sentiero procedette eretta, quasi con la grazia dell'antilope, le membra che si muovevano liberamente, la testa tenuta alta sul lungo collo d'airone.
Non appena entrò nel piccolo gruppo di capanne nel fondovalle, i suoi sensi allenati si accorsero immediatamente delle tensioni e della collera che aleggiavano su quel luogo come miasmi malsani su una palude. Sentì la rabbia e la frustrazione in Bazo quando s'inginocchiò davanti a lui e s'inchinò doverosamente. Sapeva bene che cosa significavano quei groppi di muscoli contratti all'attaccatura delle mascelle e la luce rossa negli occhi. Prima di rialzarsi Tanase notò che gli induna s'erano divisi in due gruppi separati. Da una parte stavano gli anziani, e di fronte a loro i giovani irriducibili schierati intorno a Bazo. La donna attraversò lo spazio che li divideva e andò a inginocchiarsi davanti a Gandank e ai suoi fratelli canuti, Somabula e Babiaan. «Ti vedo, figlia mia.» Gandank rispose solennemente al suo saluto; e la prontezza brusca con cui affrontò il vero motivo della convocazione nise in guardia Tanase. «Vogliamo che tu ci parli del significato dell'ultima profezia dell'Umlimo.» «Mio signore e padre, non sono più esperta nei misteri...» Gandank l'interruppe con impazienza. «Ne capisci più di chiunque altro fuori da quella grotta spaventosa. Ascolta le parole dell'Umlimo e spiegale fedelmente.» Tanase chinò la testa, ma si voltò leggermente per poter scorgere Bazo con la coda dell'occhio. «Così ci ha parlato l'Umlimo: "Soltanto un cacciatore sciocco blocca l'apertura della grotta quando il leopardo ferito cerca di fuggire".» Gandank ripeté la profezia e i suoi fratelli annuirono per confermarne l'esattezza. Tanase abbassò le ciglia sugli occhi e girò leggermente la testa. Ora poteva vedere la mano destra di Bazo appoggiata sulla coscia nuda. Gli aveva insegnato i rudimenti del linguaggio a segni degli iniziati. L'indice di Bazo si piegò e toccò la prima giuntura del pollice. Era un comando. «Taci!» diceva quel gesto. «Non parlare!» Tanase segnalò di aver capito, con la mano abbandonata lungo il fianco. Quindi alzò la testa. «E' tutto, signore?» chiese a Gandank. «C'è altro» rispose quello. «L'Umlimo ha parlato una seconda volta: "Il vento caldo del nord brucerà le erbe nei campi prima che si possa piantare il nuovo mais. Attendete il vento del nord".» Tutti gli tnduna si protesero ansiosi e Gandank disse: «Spiegaci il significato.» «Il significato delle parole dell'Umlimo non è mai chiaro immediatamente. Devo riflettere.» «Quando ce lo dirai?» «Quando avrò una risposta.» «Domattina?» insistette Gandank. «Forse.» «Allora passerai la notte sola perché la tua meditazione non sìa disturbata» ordinò Gandank. «Mio marito» chiese Tanase. «Sola» ripeté bruscamente Gandank. «Con una sentinella alla porta della tua capanna.» La sentinella era un giovane guerriero non ancora sposato e quindi ancora più suscettibile all'astuzia di una bella donna. Qllando portò la scodella a Tanase, lei gli sorrise e lo fece indugiare sulla soglia. Gli offrì un boccone scelto; il giovane guardò fuori con aria colpevole e venne a prenderlo dalla sua mano. Il boccone aveva uno strano sapore amaro, ma per non offendere Tanase il guerriero si fece coraggio e lo trangugiò. Il sorriso della donna prometteva cose che gli sembravano impossibili; ma appena cercò di rispondere ai vezzi provocanti, la voce gli si confuse stranamente, e fu sopraffatto da una tale debolezza che dovette chiudere gli occhi per un momento. Tanase tappò di nuovo il piccolo corno che leneva nascosto nella mano e scavalcò la sentinella addormentata. Fischiò. e Bazo accorse prontamente e in silenzio dove lei s'era fermata ad aspettarlo, in riva al fiumicello. «Dimmi, signore, che cosa devo fare» bisbigliò Tanase. Quando tornò alla capanna, il giovane dormiva ancora. Lo puntellò accanto alla porta con l'arma sulle ginocchia. L'indomani mattina avrebbe avuto il mal di testa ma si sarebbe guardato dal riferire agli induna come aveva passato la notte.
*** «Ho riflettuto profondamente sulle parole dell'Umlimo» disse Tanase inginocchiandosi davanti agli induna. «E ho compreso il significato della parabola del cacciatore sciocco che esita davanti all'ingresso della caverna.» Gandank aggrottò la fronte, intuendo dove sarebbe andata a parare la risposta, ma Tanase continuò con calma. «Il cacciatore coraggioso ed esperto non entrerebbe audacemente nella caverna dove si annida l'animale, e non lo ucciderebbe?» Uno degli induna più anziani emise un sibilo di disapprovazione e balzò in piedi. «Io dico che l'Umlimo ci ha ammoniti di lasciare aperta la strada per il sud, perché i bianchi possano lasciare per sempre questa terra con tutte le loro donne e il resto» gridò, e subito Bazo si alzò di scatto e lo fronteggiò. «Gli uomini bianchi non se ne andranno mai. Il solo modo per sbarazzarci di loro è seppellirli.» I giovani induna raggruppati intorno a Bazo emisero un ruggito di approvazione, ma Bazo alzò la mano per farli tacere. «Se lasciate aperta la strada del sud, verrà sicuramente percorsa dai soldati con i fucili a treppiede.» Vi furono grida rabbiose, di smentita e d'incoraggiamento. «Dico che il vento caldo del nord siamo noi, la profezia dell'Umlimo afferma che noi bruceremo l'erba...» Le grida che lo interruppero dimostravano quanto fossero divisi i capi della nazione, e Tanase si sentì sopraffare da nera disperazione. Gandank si alzò; e il peso della tradizione e della consuetudine era così grande che persino i più fanatici e rabbiosi dei giovani induna ammutolirono. «Dobbiamo dare agli uomini bianchi una possibilità di andarsene con le loro donne. Lasceremo aperta la strada, e attenderemo con pazienza il vento caldo, il miracoloso vento del nord che, come promette l'Umlimo, spazzerà via i nostri nemici...» Bazo era stato il solo a non accosciarsi rispettosamente davanti al vecchio induna. Ora fece qualcosa che non aveva precedenti. Interruppe il padre con voce colma di disprezzo. «Tu gli hai dato già abbastanza possibilità» disse. «Hai lasciato che la donna di Khami e i suoi figli se ne andassero liberi. Ti faccio una domanda, padre mio: quel che proponi è bontà o vigliaccheria?» Tutti proruppero in esclamazioni, perché se un figlio poteva parlare così al padre, il mondo che tutti avevano conosciuto e compreso era cambiato. Gandank fissò Bazo. La breve distanza che li separava era un abisso che non si sarebbe colmato mai più. Sebbene Gandank fosse ancora eretto, nei suoi occhi c'era un'angoscia che lo faceva apparire vecchio quanto le circostanti colline di granito. «Tu non sei più mio figlio» disse semplicemente. «E tu non sei più mio padre» replicò Bazo. Gli voltò le spalle e uscì dalla capanna. Prima Tanase e poi i giovani induna si alzarono e lo seguirono nel sole. *** Un esploratore arrivò al galoppo e fermò il cavallo così bruscamente che l'animale s'impennò e scrollò la testa. «Signore» gridò l'uomo, «un grosso gruppo di ribelli ci sta venendo incontro lungo la strada.» «Sta bene, soldato.» L'aristocratico Maurice Gifford, comandante dei drappelli B e D delle forze di Bulawayo, si toccò la tesa del cappello con la mano guantata. «Vai avanti e tienili d'occhio.» Poi si girò sulla sella. «Capitano Dawson, disporremo i carri in laager sotto quegli alberi: ci sarà un buon raggio di tiro per le Maxim... io porterò con me cinquanta uomini a cavallo per impegnare il nemico.» Era un vero colpo di fortuna incontrare un gruppo di ribelli tanto vicino a Bulawayo. Dopo aver battuto per settimane la campagna, Gifford e i suoi centosessanta uomini erano riusciti a raccogliere una trentina di superstiti nei villaggi isolati e nei posti di scambio, ma finora non avevano ancora avuto occasione di misurarSi con i matabele. Gifford lasciò a Dawson il compito di preparare il laager e si lanciò lungo la strada di Bulawayo alla testa di cinquanta dei suoi uomini migliori.
Gifford era il figlio minore d'un conte, un bel giovane aristocratico, ufficiale d'un famoso reggimento delle guardie. Aveva trascorso la licenza andando a caccia in Africa, e aveva avuto la fortuna che quella vacanza fosse ravvivata da un'insurrezione indigena. In generale, si pensava che l'illustre Maurice Gifford fosse un giovane intelligente e in gamba, destinato a fare molta strada. Fermò il cavallo sulla cresta del dosso e alzò la destra guantata per fermare il drappello. «Eccoli là, signore» gridò l'esploratore. «Li vede?» Il nobile Maurice Gifford pulì le lenti del binocolo con la sciarpa di seta gialla e guardò. «Sono tutti a cavallo» disse. «E hanno ottime bestie, se è per questo» mormorò. «Ma sembrano un branco di banditi.» I cavalieri erano ancora a quasi un chilometro. Indossavano gonnellini da guerrieri e acconciature vistose, e avevano un bizzarro assortimento di armi moderne e primitive. «Drappello in ordine sparso, a sinistra e a destra» ordinò Gifford. «Sergente, sfrutteremo il pendio per caricarli, poi c sganceremo e cercheremo di portarli a tiro della Maxim.» «Mi scusi, signore» mormorò il sergente, «ma non c'è un bianco alla loro testa?» Gifford alzò di nuovo il binocolo e guardò. «Diavolo, è vero» borbottò. «Ma è vestito come un indigeno.» L'uomo agitò allegramente il braccio e continuò ad avvicinarsi, alla testa della banda eterogenea. «Buongiorno. Lei non è Maurice Gifford, per caso?» «Sì, signore» rispose Gifford in tono gelido. «E lei chi è, se posso chiederlo?» «Mi chiamo Ballantyne, Ralph Ballantyne.» L'uomo gli rivolse un sorriso accattivante e indicò con il pollice i suoi seguaci. «E questi signori sono gli Scout di Ballantyne.» Gifford li squadrò con disgusto. Era impossibile riconoscerne l'origine razziale, perché erano tutti impiastricciati di grasso e d'argilla per sembrare matabele, e portavano indumenti smessi o costumi tribali. Soltanto Ballantyne aveva la faccia del colore naturale, probabilmente per farsi identificare dalle forze di Gifford; ma era altrettanto probabile che se la sarebbe tinta di nero non appena avesse ottenuto da loro ciò che voleva. E non esitò a rivelare le sue intenzioni. «Un ordine di requisizione, signor Gifford» disse, porgendo un foglio piegato e sigillato che aveva tolto dalla borsa alla cintura. Gifford strinse tra i denti un dito del guanto destro e lo sfilò, prese il messaggio e ruppe il sigillo. «Non posso consegnarle la mia Maxim, signore» esclamò mentre leggeva. «Ho il dovere di proteggere i civili affidati alle mie cure.» «Siete a soli sei chilometri dal laager di Bulawayo e la strada è sgombra. L'abbiamo appena ripulita dai matabele. Non c'e più pericolo per i SUOi.» «Ma...» disse Gifford. «L'ordine di requisizione è firmato dal colonnello William Napier, comandante delle forze campali di Bulawayo. Le consiglio di discuterne con lui quando arriverà a destinazione.» Ralph continuava a sorridere. «Ma al momento noi abbiamo molta fretta. Prenderemo la Maxim e non le daremo altri fastidi.» Gifford accartocciò il foglio, fissò Ralph con irritazione impotente e cambiò linea di attacco. «Lei e i suoi uomini portate uniformi nemiche» disse in tono d'accusa. «E' contrario agli articoli del codice di guerra, signore.» «Vada a leggere gli articoli agli induna, signor Gifford, in particolare quelli che vietano di assassinare e torturare i non combattenti.» «Un inglese non può abbassarsi allo stesso livello dei selvaggi contro i quali combatte» disse alteramente Gifford. «Ho avuto l'onore di conoscere suo padre, il maggiore Zouga Ballantyne. E' un gentiluomo, e mi chiedo che cosa direbbe della sua condotta.» «Mio padre e i suoi compagni di cospirazione, tutti gentiluomini inglesi, sono attualmente sotto processo con l'accusa di aver mosso guerra a un governo amico. Tuttavia chiederò la sua opinione sulla mia condotta non appena ne avrò l'occasione. Ora, se vuole avere la cortesia di mandare con noi il sergente per consegnarci la Maxim, le augurerò il buongiorno, signor Gifford.» Tolsero la Maxim dal carro, presero il treppiede e le cassette delle munizioni e caricarono il tutto su tre cavalli da soma. «Come hai convinto Napier a rinunciare a una delle sue preziose Maxim?» chiese Harry Mellow mentre stringeva i sottopancia.
«Un trucco.» Ralph gli strizzò l'occhio. «La penna è più potente della...» «Hai falsificato l'ordine di requisizione.» Harry lo fissò. «Ti fucileranno.» «Prima dovranno prendermi.» Ralph si voltò e gridò ai suoi Scout: «TrupPa, a cavallo! Avanti al passo!» *** Era un mago, senza dubbio. Un ometto grinzoso, non molto più alto di Tungata e dei suoi compagni, dipinto di colori meravigliosi, zigzag cremisi, bianchi e neri sulla faccia e sul petto. Quando era uscito dalla boscaglia in riva al fiumicello della valle segreta, in un primo momento i bambini erano rimasti agghiacciati dal terrore. Ma prima che potessero riprendere la presenza di spirito quanto bastava per fuggire, il piccolo mago dipinto aveva lanciato una successione di grida e di grugniti, imitando il cavallo e l'aquila e il babbuino, e aveva incominciato a saltare e a sbattere le braccia e a razzolare, e il terrore aveva lasciato il posto a un interesse affascinato. Poi il mago aveva estratto dal sacco che portava in spalla un enorme pezzo di zucchero. Lo succhiava rumorosamente e i bambini che non assaggiavano zucchero da settimane si avvicinarono e lo guardarono con i lucidi occhi scuri. Il mago offrì il pezzo di zucchero a Tungata che si avvicinò guardingo, l'afferrò e si ritrasse in fretta. Il piccolo mago rise con un'ilarità contagiosa, e gli altri bambini risero con lui e gli sciamarono intorno per prendere gli altri pezzetti di zucchero. Circondato dai bambini che ridevano e battevano le mani, il piccolo mago salì il sentierc sul fianco della valle, verso il rifugio tra le rocce. Le donne, rassicurate dalla gaiezza dei bambini, si affollarono intorno al mago, e risero, e le più audaci gli chiesero: «Chi sei?» «Da dove vieni?» «Cosa c'è nel sacco?» In risposta all'ultima domanda, il mago estrasse una manciata di nastri colorati, e le donne più giovani lanciarono strilletti vanitosi e se li annodarono ai polsi e alla gola. «Io porto doni e liete notizie» starnazzò il mago. «Guardate che cosa vi porto.» C'erano pettini d'acciaio e specchietti rotondi, una scatoletta che suonava una musica dolce e tintinnante. Le donne si affollarono, completamente incantate. «Doni e liete notizie» cantilenò il mago. «Racconta! Racconta!» gridarono le donne. «Gli spiriti dei nostri antenati sono venuti ad aiutarci. Hanno mandato un vento divino per divorare gli uomini bianchi come la rinderpest ha divorato il bestiame. Tutti i bianchi sono morti!» «Gli amakiwa sono morti!» «Hanno lasciato tutti questi doni meravigliosi. Nella città di Bulawayo non vi sono più uomini bianchi; ma queste cose sono là, a disposizione di chi vuole prenderle. Tutto ciò che volete... ma affrettatevi perché tutti i matabele, uomini e donne, stanno già accorrendo e non resterà nulla per i ritardatari. Guardate, guardate queste bellissime pezze di stoffa, ve ne sono migliaia. Chi vuole questi graziosi bottoni, questi coltelli affilati? Chi li vuole mi segua!» cantava il mago. «Perché i combattimenti sono finiti! I bianchi sono morti. I matabele hanno trionfato, chi vuole seguirmi?» «Guidaci, piccolo padre» lo supplicarono le donne. «Noi ti seguiremo.» Il mago dipinto continuò a estrarre gingilli e ornamenti dal sacco, e si avviò verso l'estremità della stretta valle; e le donne presero in braccio i figli piccoli, se li legarono alla schiena con pezzi di stoffa, chiamarono i figli più grandicelli e si affrettarono a seguire l'ometto. «Seguitemi, gente di Mashobane!» pigolava il mago. «E' venuto il tempo della vostra grandezza. La profezia dell'Umlimo si è realizzata. Il vento divino del nord ha spazzato via gli amakiwa.» Quasi isterico per l'eccitazione e il timore di restare indietro, Tungata si precipitò lungo il riparo nella roccia fino a quando vide la figura corpulenta accovacciata contro la rupe. «Nonna» strillò. «Il mago ha cose bellissime per tutti. Dobbiamo andare!» *** Nel corso dei millenni il fiumicello s'era aperto una stretta, tortuosa via d'uscita dalle viscere della valle, fiancheggiata da alte pareti. Il granito era dipinto di licheni arancione e gialli. Stretto in quella
spaccatura, il fiume precipitava in cascate fumanti di acqua bianca prima di sboccare in una valle più ampia e meno profonda, quasi ai piedi delle colline. La valle era rigogliosa d'erba colore del grano maturo. Il sentiero seguiva il ciglio della spaccatura; da un lato c'era un salto pericoloso verso l'acqua spumeggiante, dall'altro la parete rocciosa saliva a perpendicolo. Poi il gradiente diveniva più dolce e il sentiero sfociava nella valle tranquilla. L'acqua piovana vi aveva scavato profondi donga, trincee naturali: e uno di essi offriva la postazione ideale per la Maxim. Ralph aveva ordinato a due dei suoi uomini di piazzarla con la canna raffreddata ad acqua appena al di sopra del ciglio del donga. C'erano duemila colpi nelle cassette rettangolari ammonticchiate accanto all'arma. Mentre Harry Mellow tagliava rami spinosi per mimetizzare la Maxim, Ralph si avviò sulle creste davanti al donga ed eresse un cumulo di pietre accanto al sentiero. Poi risalì il pendio e disse a Harry: «Regola la mira suitrecento metri.» Quindi s'incamminò lungo il donga, impartendo ordini a ognuno degli uomini e facendoli ripetere per essere certo che non ci fossero malintesi. «Quando Jan Cheroot raggiungerà il mucchio di pietre, la Maxim sparerà. Aspettate la MaXim, e poi aprite il fuoco sulla coda della colonna e spostatelo a poco a poco verso la testa.» Il sergente Ezra annuì e inserì una cartuccia nel Winchester. Socchiuse le palpebre, calcolò la deviazione del vento in base all'ondeggiare dell'erba e al soffio che gli lambiva la faccia. Poi appoggiò il gomito al parapetto della trincea naturale e accostò la guancia sfregiata al calcio dell'arma. Ralph tornò da Harry Mellow che stava preparando la Maxim. Rimase a guardare mentre Harry girava la vite dell'alzo per sollevare leggermente la canna fino alla gittata di trecento metri, quindi brandeggiò l'arma a destra e a sinistra sul treppiede per accertarsi che si muovesse liberamente. «Carica uno» ordinò Ralph; e Taas, che stava caricando, inserì la linguella di ottone della cartucciera. Harry lasciò scattare la maniglia e il meccanismo sferragliò rumorosamente. «Carica due!» Harry azionò la maniglia una seconda volta, fece scorrere il nastro. Il primo proiettile, estratto dalla cartucciera, si inserì agevolmente nella culatta. «Pronti!» Harry guardò Ralph. «Adesso non resta che aspettare.» Ralph annuì, aprì la borsa appesa al fianco. Estrasse la fascia di pelli di talpa e la legò meticolosamente intorno al braccio destro, sopra il gomito. Poi si accinse all'attesa. Attesero nel sole che martellava sulle schiene nude e unte, fino a quando il sudore sgorgò dai pori occlusi e le mosche arrivarono a sciami. Attesero finché il sole raggiunse lo zenit e incominciò la discesa dall'altra parte del cielo. All'improvviso Ralph alzò la testa; e a quel movimento un piccolo fremito corse lungo la fila dei tiratori appostati lungo il donga. C'era un suono di molte voci in lontananza, e destavano echi tra le rupi chiazzate di licheni che sorvegliavano l'ingresso della gola. Poi vennero i canti, le voci dolci dei bambini, un suono che diventava più forte a ogni colpo di vento, a ogni svolta del corridoio roccioso. Dall'imboccatura della gola uscì danzando una figura minuscola. I bizzarri fregi di colore rosso, nero e bianco mimetizzavano la faccia camusa di Jan Cheroot e il giallo burroso della pelle; ma era impossibile non riconoscere il passo elastico e il modo in cui teneva la testa ad angolo, come un uccello. Aveva abbandonato il sacco di gingilli ormai vuoto che gli era servito come esca. Jan Cheroot scese correndo il sentiero verso il cumulo di pietre eretto da Ralph. Dietro di lui venivano i matabele. Erano così impazienti che s'intruppavano affiancati a tre o quattro per volta, e si urtavano per star dietro al loro Pifferaio Magico. «Sono più di quanti sperassi» mormorò Ralph. Ma Harry Mellow non lo guardava. Lo strato di grasso nero mascherava il pallore del suo viso, ma gli occhi erano stralunati mentre guardava fisso al di sopra del mirino della Maxim.
La lunga colonna dei matabele stava ancora uscendo dalla gola; e già Jan Cheroot era quasi arrivato all'altezza del mucchio di pietre. «Pronto» sibilò Ralph. Jan Cheroot raggiunse il mucchio di pietre e, con un miracoloso movimento guizzante, scomparve come se fosse stato inghiottito da un trabocchetto. «Ora!» disse Ralph. Non un uomo si mosse nella lunga fila dei fucilieri. Tutti guardavano nella valle. «Ora!» ripeté Ralph. La testa della colonna s'era arrestata per lo stupore causato dall'improvvisa scomparsa di Jan Cheroot, e quelli più indietro continuarono ad avanzare. «Apri il fuoco!» ordinò Ralph. «Non posso» mormorò Harry, piazzato dietro la Maxim con le dita contratte sulle impugnature. «Accidenti a te!» La voce di Ralph tremava. «Hanno sventrato Cathy e le hanno strappato dal grembo mia figlia. Uccidili, accidenti a te!» «Non posso» ripeté Harry con voce soffocata, e Ralph l'afferrò per la spalla e lo strattonò all'indietro. Si buttò dietro la mitragliatrice e strinse le due impugnature. Tolse le sicure con gli indici e premette i pollici sui pulsanti zigrinati. La Maxim incominciò il suo ruggito infernale e convulso, e i bossoli vuoti schizzarono nell'aria come un torrente. Ralph continuò a scrutare tra le nubi di fumo azzurrognolo, spostò lentamente la canna da sinistra a destra, spazzando il sentiero dall'imboccatura della gola al mucchio di pietre; e dal donga, ai suoi fianchi, i Winchester a ripetizione aggiunsero il loro tuono al fragore. Gli spari sommersero i suoni che venivano dalla valle sottostante... ma non del tutto. *** Juba non poteva reggere l'andatura delle donne più giovani e dei bambini che correvano. Rimase sempre più distanziata. mentre Tungata la esortava ansiosamente. «Arriveremo troppo tardi, nonna. Dobbiamo affrettarci.» Prima che arrivassero alla gola in fondo alla valle, Juba ansimava e vacillava e tutti i rotoli di grasso lucido oscillavano a ogni passo. Vedeva chiazze nere davanti agli occhi. «Devo riposare» borbottò, e si lasciò cadere sul bordo del sentiero. I ritardatari le passarono davanti, ridendo e scherzando. «Ah, piccola madre, vuoi salirmi sulla schiena?» Tungata attendeva accanto a lei, saltellando un po' su un piede e un po' sull'altro, e si torceva le mani per l'impazienza. «Oh, nonna, su, vieni..» Quando finalmente le macchie nere si dispersero, Juba annuì e il bambino le prese le mani e si sforzò di aiutarla ad alzarsi. Juba si avviò faticosamente lungo il sentiero: ormai erano gli ultimi della fila, e sentivano le risate e i canti più oltre, amplificati dall'imbuto della gola. Tungata corse avanti e poi, richiamato dal senso del dovere, tornò indietro saltellando per prendere la mano di Juba. «Per favore, nonna... oh, per favore!» Juba fu costretta a fermarsi altre due volte. Adesso erano soli e la luce non penetrava nelle profondità della stretta gola. L'ombra e il freddo che saliva dalle tumultuose acque bianche agghiacciavano persino lo spirito euforico di Tungata. Nonna e nipote superarono la curva e guardarono tra gli alti pilastri di granito l'ampia conca erbosa e soleggiata. «Eccoli là!» gridò Tungata in tono di sollievo. Il sentiero attraverso la prateria gialla era invaso dalla gente: ma come una fila di formiche in marcia che ha incontrato un ostacolo impossibiie, la testa della colonna s'era intruppata e si muoveva confusamente. «Presto, nonna, possiamo raggiungerli!» Juba si alzò pesantemente e avanzò verso la luce calda e accogliente del sole. In quel momento l'aria intorno a lei incominciò a palpitare come se un uccello fosse imprigionato nella sua testa. Per un momento pensò che fosse un sintomo di sfinimento; ma poi vide le masse di
figure umane, più avanti, che cominciavano a ondeggiare come granelli di polvere in un turbine di vento. Sebbene non li avesse mai uditi, aveva ascoltato quando i guerrieri che avevano combattuto allo Shangani e al Bembesi descrivevano i fucili a treppiede che ridevano come vecchie donne. Armata all'improvviso di riserve di energia che non aveva mai saputo di possedere, Juba afferrò Tungata e ritornò pesantemente nella gola come una grande elefantessa in fuga. *** Ralph Ballantyne era seduto sull'orlo della branda. C'era una candela accesa piazzata nella cera sulla cassa da tè rovesciata che fungeva da tavolo, e accanto c'erano una bottiglia di whisky semipiena e un boccale smaltato. Ralph aggrottò la fronte e osservò la pàgina aperta del diario, cercando di mettere a fuoco lo sguardo nella luce gialla e palpitante della candela. Era ubriaco. Mezz'ora prima la bottiglia era piena. Prese il boccale e lo vuotò, lo posò e tornò a versare il whisky. Qualche goccia si sparse sulla pagina bianca del diario. L'asciugò con il pollice e studiò la traccia umida con la ponderosa concentrazione degli ubriachi. Scosse la testa per cercare di schiarirsi le idee, riprese la penna, l'intinse e tolse con cura meticolosa dal pennino l'inchiostro in eccesso. Scrisse laboriosamente. Quando l'inchiostro toccava l'umidità lasciata dalle gocce di whisky, si spandeva sulla carta come un ventaglio celeste. Questo lo irritava terribilmente. Posò la penna con un gesto brusco e riempì di proposito il boccale fino all'orlo. Bevve indugiando due volte per riprendere fiato; e quando il boccale fu vuoto lo tenne stretto fra le ginocchia, a testa china. Dopo molto tempo e con uno sforzo rialzò la testa e rilesse ciò che aveva scritto. Muoveva le labbra per formare le parole, come uno scolaretto alle prese con il primo sillabario. «La guerra ci trasforma tutti in mostri.» Tese la mano per riprendere la bottiglia; ma la rovesciò e il liquore bruno-dorato uscì gorgogliando e formò una pozza sul coperchio della cassa da tè. Ralph si lasciò ricadere sulla branda e chiuse gli occhi, con le gambe penzoloni e un braccio ripiegato sul viso. Elizabeth aveva messo a letto i bambini nel carro e s'era infilata nella cuccetta sotto la loro, attenta a non disturbare la madre. Ralph non aveva cenato con la famiglia, e aveva rimandato indietro bruscamente Jonathan quando il bambino era andato per chiamarlo a tavola. Elizabeth era sdraiata sul fianco, sotto la coperta di lana; il suo occhio era all'altezza dell'apertura nel telo e poteva vedere fuori. La candela era ancora accesa nella tenda di Ralph; ma nell'angolo del laager la tenda di Harry e Vicky era al buio da un'ora. Chiuse gli occhi e si sforzò di addormentarsi; ma era così irrequieta che accanto a lei Robyn St John sospirò irritata e si girò. Elizabeth aprì di nuovo gli occhi e sbirciò furtivamente dalla fenditura. La candela, nella tenda di Ralph, era sempre accesa. Scostò con delicatezza la coperta senza staccare gli occhi dalla madre. Raccolse lo scialle posato sul coperchio del baule e scese a terra senza far rumore. Si strinse nello scialle e sedette sul timone del carro. Soltanto un telo la separava ancora dalla madre, e poteva ascoltare il ritmo del respiro di Robyn. Si accorse del momento in cui scese sotto il livello della coscienza perché il respiro causava un sommesso fremito glottale in fondo alla gola. Era una notte calda e il laager era quasi completamente silenzioso. Un cagnolino guaiva irritato a un'estremità; e più vicino il vagito affamato d'un bambino fu subito smorzato dal capezzolo materno. Due delle sentinelle s'incontrarono all'angolo più vicino e mormorarono per un po'. Quindi si separarono ed Elizabeth scorse la sagoma d'un cappello floscio profilato contro il cielo notturno quando uno dei due uomini passò vicino al punto dov'era seduta. Nella tenda la candela era ancora accesa; e ormai doveva essere mezzanotte passata. La fiamma l'attirava come una falena. Si alzò e si avvicinò alla tenda. In silenzio, quasi furtivamente. Sollevò il telo, entrò, e lo lasciò ricadere dietro di sé.
Ralph era supino sulla branda d'acciaio, con i piedi abbandonati verso il suolo e il viso coperto da un braccio. Gemeva nel sonno. La candela agonizzava, consumata nella pozza della cera fusa, e l'odore del whisky rovesciato era netto, pungente. Elizabeth si avvicinò alla cassa e raddrizzò la bottiglia. Poi la pagina aperta del diario attrasse la sua attenzione e lesse la grafia grande e irregolare: «La guerra ci trasforma tutti in mostri.» Sopraffatta da una fitta di pietà, chiuse il diario rilegato in pelle e guardò l'uomo che aveva scritto quelle parole tormentate. Avrebbe voluto tendere la mano per toccargli la guancia rasata; invece raccolse la camicia da notte e si accosciò accanto alla branda. Sciolse i lacci agli stivali e poi, stringendoli fra le ginocchia uno alla volta, li sfilò. Ralph mormorò nel sonno e scostò il braccio dal viso, muovendosi per sottrarsi alla luce della candela. Gentilmente, Elizabeth gli sollevò le gambe e le posò sulla branda. Con un gemito Ralph si raggomitolò in posizione fetale. «Come un bambino» sussurrò Elizabeth e sorrise tra sé. Poi non seppe resistere e accarezzò la folta ciocca di capelli scuri, gliela scostò dalla fronte. La pelle era febbricitante, madida di sudore. Gli posò il palmo contro la guancia. Il contatto con la barba ispida le fece scorrere nel braccio un formicolio elettrico. Ritrasse la mano, spiegò la coperta ai piedi della branda e gliela stese addosso. Elizabeth si chinò per assestargliela sotto il mento, ma Ralph si girò di nuovo e, prima che lei Dotesse scostarsi. un braccio muscoloso le cinse le spalle. Perse l'equilibrio e gli piombò sul petto. Il braccio la tenne inchiodata inesorabilmente. Elizabeth rimase immobile, mentre il cuore le batteva all'impazzata. Dopo un minuto la stretta del braccio si allentò, e lei cercò di liberarsi con delicatezza. Al suo primo movimento, il braccio la serrò con una forza così selvaggia da toglierle il respiro. Ralph mormorò, tese l'altra mano ed Elizabeth trasalì quando gliela posò sulla coscia. Non osava muoversi. Sapeva che non sarebbe riuscita a liberarsi. Non aveva immaginato che Ralph fosse così vigoroso, e si sentiva indifesa come una neonata, completamente in suo potere. Sentiva il calore del suo corpo che si comunicava attraverso la camicia da notte, la mano dietro di lei che si muoveva e saliva a tentoni... e poi si accorse del momento in cui Ralph si svegliò. La mano le salì alla nuca, le attirò in avanti la testa con una forza gentile ma insopprimibile, fino a quando sentì il caldo umido della bocca sulla sua bocca. Sapeva di whisky e di qualcosa d'altro, un sapore muscoso e virile; e indipendentemente dalla sua volontà le labbra di Elizabeth si schiusero e si ammorbidirono. I suoi sensi turbinavano come ruote di fiamma dietro le palpebre chiuse; erano sensazioni così tumultuose che non s'era accorta che Ralph le aveva sollevato la camicia da notte fino alle scapole e che le dita dure come osso e ardenti come il fuoco scorrevano in una lunga, lenta carezza lungo la fessura tra le natiche nude e si posavano nella curva morbida dove si congiungevano alle cosce. Elizabeth si sentì fremere. Cercò di liberarsi con uno scossone, di sfuggire alla tortura del desiderio folle e crudele, di sottrarsi alle dita insistenti. Ralph la teneva vicina, con la bocca premuta contro la gola, e la sua voce era roca e aspra. «Cathy! Mia Cathy! Mi sei tanto mancata!» Elizabeth smise di dibattersi. Si abbandonò contro di lui come una morta. Non lottava più, non respirava neppure. «Cathy!» Le mani di Ralph erano disperatamente ansiose di trovarla, ma lei era morta, morta. Adesso Ralph era completamente sveglio. Le sue mani lasciarono il corpo di Elizabeth, le cercarono il viso. Le sollevò la testa. La guardò senza capire per un lungo istante, e lei vide la trasformazione negli occhi verdi. «Non sei Cathy!» mormorò Ralph. Lei gli aprì le dita, gentilmente, e si alzò.
«Non sono Cathy» disse sottovoce. «Cathy non c'è più, Ralph.» Si chinò sulla candela agonizzante, la riparò con una mano e la spense con un soffio. Si raddrizzò nell'improvvisa oscurità totale. Sbottonò il corpino della camicia da notte, la sfilò da sopra le spalle e la lasciò cadere intorno alle caviglie. Poi si sdraiò sulla branda a fianco di Ralph, gli prese la mano e tornò a posarla là dove era stata poco prima. «Non sono Cathy» mormorò. «Stanotte sono Elizabeth. Stanotte e per sempre.» E gli cercò la bocca con la bocca. Quando lo sentì finalmente dentro di sé, la sua gioia fu così intensa che le sembrò schiacciarle l'anima, e disse: «Ti amo. Ti ho sempre amato. Ti amerò sempre.» *** Jordan Ballantyne era accanto al padre sul marciapiede della stazione di Città del Capo. Erano entrambi irrigiditi e impacciati al momento della separazione. «Ti prego, non dimenticare di portare a Louise...» Jordan esitò prima di scegliere le parole. «I miei saluti più sinceri.» «Sono sicuro che le farà piacere» disse Zouga. «Non la vedo da tanto tempo...» Zouga s'interruppe. La separazione dalla moglie s'era protratta per i lunghi mesi del processo all'alta corte, davanti al giudice capo, il barone Pollock, il giudice Hawkins e una speciale giuria. Il giudice capo aveva orientato la giuria riluttante verso il verdetto inevitabile. «Secondo le prove e le risposte ai quesiti specifici che vi ho rivolto, ritengo che dovreste emettere un verdetto di colpevolezza a carico di tutti gli imputati.» E così era stato. «Perciò la sentenza di questa corte è che lei, Leander Starr Jameson, e lei, John Willoughby, veniate rinchiusi in carcere per quindici mesi senza lavori forzati. E lei, maggiore Zouga Ballantyne, è condannato a tre mesi di carcere senza lavori forzati.» Zouga aveva scontato quattro settimane a Hollovvay, e poi era stato graziato. Con la liberazione era venuta la tremenda notizia: in Rhodesia i matabele erano insorti e Bulawayo era assediata. La navigazione verso il sud era stata una tortura. Non aveva saputo nulla di Louise e di King's Linn, e la sua immaginazione evocava orrori alimentati dai racconti d'episodi di massacri e di mutilazioni. Solo quando il postale dell'Union Castle era attraccato quella mattina nel porto di Città del Capo, le sue ansie terribili avevano trovato sollievo.. «Louise è sana e salva a Bulawayo» era stata la risposta di Jordan alla prima domanda. Sopraffatto dall'emozione, Zouga aveva abbracciato il figlio minore e aveva ripetuto convulsamente: «Dio sia ringraziato, oh, Dio sia ringraziato.» Avevano pranzato insieme al ristorante del Mount Nelson Hotel, e Jordan aveva riferito al padre le ultime notizie arrivate dal nord. «Sembra che Napier e il suo Comitato per l'Assedio abbiano stabilizzato la situazione. Hanno radunato i superstiti a Bulawayo e Grey, Selous e Ralph con i loro irregolari hanno inflitto ai ribelli diverse batoste sanguinose per tenerli a distanza. «Naturalmente i matabele dominano completamente il territorio fuori dei laager di Bulawayo, di Gwelo e di Belingwe. Fanno quello che vogliono anche se, stranamente, sembra che non abbiano chiuso la strada per il sud. Se riuscirai a raggiungere Kimberley in tempo per unirti alla colonna dei soccorsi comandata da Spreckley, dovresti raggiungere Bulawayo entro la fine del mese... e io e il signor Rhodes non tarderemo a seguirvi. «Spreckley porterà soltanto le provviste indispensabili e qualche centinaio di uomini per rafforzare la difesa di Bulawayo fino a quando potranno arrivarci anche le truppe imperiali. Come probabilmente sai, il comando è stato afffidato al maggiore generale Sir Frederick Carrington, e io e il signor Rhodes partiremo con il suo stato maggiore. Sono certo che riusciremo a domare la ribellione molto in fretta.» Jordan aveva continuato il suo monologo durante il pranzo per nascondere l'imbarazzo causato dalle occhiate e dai mormorii degli altri clienti, deliziosamente scandalizzati dalla presenza di uno degli avventurieri di Jameson. Zouga ignorò lo scalpore che
stava causando, e si concentrò sulle portate e sulla conversazione con Jordan fino a quando si accostò al tavolo un giovane giornalista del Cape Times armato di taccuino. «Vorrei sapere se è disposto a fare un commento circa la clemenza delle condanne stabilite dal giudice capo.» Soltanto in quel momento Zouga alzò la testa con aria cupa. «Negli anni futuri assegneranno medaglie e onorificenze agli uomini che riusciranno a realizzare quanto noi abbiamo tentato di fare» disse senza alzare la voce. «E ora abbia la cortesia di lasciarci mangiare in pace.» Alla stazione, Jordan si assicurò che il baule di Zouga fosse nel bagagliaio e che gli fosse toccato un posto rivolto nella direzione di marcia del treno, a bordo dell'ultima carrozza. Poi siguardarono, impacciati, mentre risuonava il fischio che invitava i passeggeri a salire in vettura. «Il signor Rhodes desidera sapere se sei ancora disposto a fargli da agente a Bulawayo.» «Di' al signor Rhodes che sono onorato perché continua ad aver fiducia in me.» Si strinsero la mano e Zouga montò in carrozza. «Se vedi Ralph...» «Sì?» chiese Zouga. «Non importa.» Jordan scosse la testa. «Fai buon viaggio, papà.» Zouga si affacciò dal finestrino mentre il treno lasciava la stazione e studiò la figura sempre più lontana del figlio minore. Era un bel giovane, pensò, alto e atletico, vestito all'ultima moda nel tre pezzi grigio d'esemplare sobrietà... eppure c'era in lui qualcosa d'incongruo, un'aria smarrita e incerta e profondamente infelice. «Che maledetta stupidaggine» si disse Zoùga. Ritirò la testa dal finestrino e rialzò il vetro. La locomotiva accelerò attraverso la piana del Capo per aggredire i bastioni della montagna che vigilavano sullo Scudo Continentale Africano. *** Jordan Ballantyne si avviò al piccolo galoppo sul viale che portava alla grande casa bianca accovacciata tra le querce e i pini sulle balze più basse della montagna piatta. Era ossessionato da un senso di colpa. Da molti anni non trascurava i suoi doveri per un'intera giornata. Appena un anno prima sarebbe stato impensabile. Ogni giorno, incluse le domeniche e le festività pubbliche, il signor Rhodes aveva bisogno di averlo vicino. Il sottile cambiamento avvenuto nei loro rapporti accresceva il suo senso di colpa e introduceva un'emozione più oscura e corrosiva. Non sarebbe stato indispensabile che trascorresse l'intera giornata con il padre, dal momento in cui il postale era entrato nella Table Bay nell'aurora rosseggiante mentre il vento di sud-est soffiava furioso, fino a quando l'espresso per il nord era uscito dalla pensilina a vetri della stazione di Città del Capo. Avrebbe potuto liberarsi e tornare alla scrivania dopo poche ore; ma aveva cercato di strappare un rifiuto al signor Rhodes, un riconoscimento della sua indispensabilità. «Si prenda pure qualche giorno di libertà, Jordan, se vuole... Arnold provvederà a sbrigare tutto.» Il signor Rhodes aveva appena alzato gli occhi dai giornali londinesi. «C'è il nuovo abbozzo della Clausola 27 del suo testamento...» Jordan aveva cercato di stimolarlo, ma aveva ricevuto la risposta che più temeva. «Oh, lo dia ad Arnold. E' ora che incominci a capire qualcosa delle borse di studio. E comunque gli darà l'occasione di usare la sua nuova Remington.» Il piacere puerile che il signor Rhodes trovava nel vedere la sua corrispondenza battuta ordinatamente e rapidamente a macchina era un'altra fonte di inquietudine per Jordan. Non aveva ancora imparato a familiarizzarsi con la tastiera rumorosa, soprattutto perché Arnold monopolizzava gelosamente la macchina. Jordan aveva ordinato un modello anche per sé: ma doveva venire da New York e avrebbe impiegato mesi ad arrivare. Jordan fermò il grande baio davanti ai gradini della veranda posteriore di Groote Schuur; smontò, gettò le redini al mozzo di scuderia ed entrò in casa.
Salì la scala di servizio che portava al secondo piano, e andò direttamente nella sua stanza. Si sbottonò la camicia e sfilò le falde dai calzoni mentre chiudeva la porta con un calcio. Versò l'acqua dalla brocca nella catinella e si lavò il viso. Si asciugò con una soffice salvietta bianca, la gettò da parte, prese le spazzole d'argento e le passò sui riccioli dorati. Stava per scostarsi dallo specchio per cercare una camicia pulita quando si fermò e fissò pensieroso la sua immagine. Si accostò adagio allo specchio e si toccò il viso con le punte delle dita. C'erano grinze sottili agli angoli esterni degli occhi: stirò la pelle ma le rughe persistettero. Girò leggermente la testa, e la luce della finestra mise in risalto le borse sotto gli occhi. «Si vedono soltanto in questa angolazione» pensò, e si allisciò i capelli all'indietro con il palmo della mano. La cute luccicò madreperlacea tra le ciocche un po' rade, e Jordan si affrettò a gonfiare un poco i capelli con le dita. Avrebbe voluto allontanarsi: ma lo specchio possedeva un fascino perverso. Sorrise, e fu una smorfia che gli sollevò il labbro superiore. Il canino sinistro era più scuro, decisamente più scuro di quanto lo fosse un mese prima quando il dentista aveva trapanato via il nervo. All'improvviso Jordan fu sopraffatto da una disperazione gelida e penetrante. «Fra meno di due settimane compirò trent'anni... oh, Dio, sto diventando vecchio, vecchio e brutto. Come posso piacere ancora a qualcuno?» Represse il singhiozzo che minacciava di soffocarlo e voltò le spalle allo specchio crudele. In ufficio c'era un biglietto al centro del ripiano di marocchino della scrivania, sotto il calamaio d'argento. «Venga da me al più presto. C.J.R.» Era scritto nella grafia spigolosa che conosceva così bene. Jordan si sentì rianimare. Prese il blocco da stenografo e bussò alla porta di comunicazione. «Avanti!» ordinò la voce acuta e Jordan entrò. «Buonasera, signor Rhodes, voleva vedermi?» Rhodes non rispose immediatamente; continuò a correggere il foglio dattiloscritto che aveva davanti, cancellando una parola e sostituendola con un'altra, cambiando una virgola in un punto e virgola. E mentre lavorava, Jordan studiava il suo viso. Il declino era sconvolgente. Ormai era quasi completamente grigio, e le borse sotto gli occhi erano di un intenso colore violaceo. Le guance erano cascanti, le palpebre orlate di rosso; e l'azzurro messianico delle iridi era pallido e slavato. Quel cambiamento s'era prodotto nei sei mesi o poco più trascorsi dal disastroso tentativo di Jameson; e Jordan ritornò con il pensiero al giorno in cui era giunta la notizia. Era stato lui a portarla a Rhodes, lì, in biblioteca. C'erano tre telegrammi. Uno era di Jameson, indirizzato all'ufficio del signor Rhodes a Città del Capo, non alla residenza di Groote Schuur, e quindi era rimasto per tutto il fine settimana nella cassetta delle lettere, nell'edificio deserto. Incominciava: «Dato che non ho ricevuto sue disposizioni in contrario...» Il secondo telegramma era del magistrato di Mafeking, il signor Boyes. Diceva tra l'altro: «Il colonnello Grey è partito con distaccamenti di polizia per andare di rinforzo al dottor Jameson...» L'ultimo telegramma era del commissario della polizia di Kimberley: «E' mio dovere informarla che il dottor Jameson alla testa di un contingente armato ha varcato il confine del Transvaal...» Il signor Rhodes aveva letto i telegrammi, li aveva disposti ordinatamente sul piano della scrivania. «Credevo di averlo fermato» aveva continuato a mormorare mentre leggeva. «Pensavo avesse capito che doveva aspettare.» Quando aveva terminato di leggere era cereo; e la pelle gli cascava dalle ossa della faccia come pasta non lievitata. «Povero vecchio Jameson» aveva mormorato alla fine. «Siamo amici da vent'anni, e adesso mi rovina.» Aveva appoggiatO i gomiti sulla scrivania, il viso tra le mani. Era rimasto così per lunghi minuti, e poi aveva detto con voce chiara: «Bene, Jordan, ora vedrò chi sono i miei veri amici.» Poi Rhodes non aveva dormito per cinque notti. Jordan era rimasto sveglio nella sua stanza in fondo al corridoio: ascoltava i passi pesanti che andavano avanti e indietro sul parquet; e poi, prima della
luce dell'alba, il signor Rhodes suonava per chiamarlo, e usciva con lui a cavallo, per ore e ore, sulle pendici della Table Mountain prima di ritornare alla grande casa bianca ad affrontare le ultime smentite e gli ultimi dinieghi, a guardare impotente la sua vita e tutta la sua opera che si sgretolavano inesorabilmente. Poi era arrivato Arnold e aveva preso posto come assistente di Jordan. Il titolo ufficiale era secondo segretario, e Jordan aveva gradito la sua collaborazione nei dettagli più spiccioli della complessa gestione della residenza. Arnold li aveva accompagnati nella visita a Londra dopo la disavventura di Jameson ed era rimasto al fianco di Rhodes durante il lungo viaggio di ritorno che li aveva portati attraverso il Canale di Suez fino a Beira e poi a Salisbury. Adesso Arnold stava accanto alla scrivania del signor Rhodes e gli porgeva un foglio dattiloscritto, attendeva che l'avesse letto e corretto, quindi porgeva un altro foglio. Con un acre guizzo d'invidia Jordan si rese conto, e non per la prima volta, che Arnold aveva quella bellezza bionda e pulita tanto ammirata dal signor Rhodes. Il suo contegno era modesto e franco, ma quando rideva sembrava rischiarato da una luce interiore. Aveva studiato a Oriel, il vecchio college ossonìense di Rhodes, e diventava sempre più evidente che Rhodes trovava piacevole averlo accanto, come un tempo aveva trovato piacevole la presenza di Jordan. Jordan attese in silenzio accanto alla porta. Si sentiva stranamente fuori posto in quella che aveva finito per considerare la sua casa. Finalmente il signor Rhodes restituì ad Arnold l'ultimo foglio corretto e alzò la testa. «Ah, Jordan» disse. «Volevo avvertirla che ho anticipato il giorno della mia partenza per Bulawayo. Penso che i miei rhodesiani abbiano bisogno di me. Devo andare da loro.» «Provvederò immediatamente.» Jordan annuì. «Ha deciso la data, signor Rhodes?» «Lunedì prossimo.» «Naturalmente prenderemo l'espresso per Kimberley, no?» «Lei non mi accompagnerà» disse Rhodes in tono secco. «Non capisco, signor Rhodes.» Jordan fece un piccolo gesto sconcertato. «Io esigo dai miei dipendenti lealtà e onestà assolute.» «Sì, signor Rhodes, lo so.» Jordan annuì. A poco a poco assunse un'espressione incerta, incredula. «Non starà dicendo che sono stato sleale o disonesto..» «Porti quel fascicolo, Arnold, per favore» ordinò Rhodes, e quando Arnold l'ebbe preso dal tavolo della biblioteca, soggiunse: «Lo dia a lui.» In silenzio, Arnold si avviò sul folto tappeto di seta e lana, e porse i fogli a Jordan. Nel momento in cui tendeva le mani per prenderli, per la prima volta Jordan notò qualcosa che non era franchezza o interesse amichevole negli occhi di Arnold: era un lampo di trionfo vendicativo, tagliente come una sferzata in pienO ViSO. Durò appena una frazione di secondo e svanì come se non fosse mai apparsa: ma lasciò a Jordan la sensazione di essere completamente vulnerabile e in tremendo pericolo. Posò il fascicolo sul tavolo e l'aprì. All'interno c'erano almeno cinquanta fogli. Quasi tutti erano battuti a macchina e portavano la dicitura «copia dell'originale.» Erano ordini di vendite e di acquisti, fatti da un'agenzia di cambio, per le azioni della De Beers e della Consolidated Goldfields. Le transazioni riguardavano quantitativi enormi di azioni, per milioni di sterline. L'agenzia di cambio era la Silver & Co., che Jordan non aveva mai sentito nominare sebbene, a quanto risultava dalla documentazione, operasse a Johannesburg, Kimberley e Londra. C'erano copie di rendiconti d'una mezza dozzina di banche, nelle diverse città dove esistevano gli ufFici della Silver & Co. Una dozzina delle annotazioni sui rendiconti era sottolineata in inchiostro rosso: «Accredito a Rholands, £ 86.321, 7 s 9 d. Accredito a Rholands, £ 146.821 9 s 11 d.» Quel nome lo sconvolse. Era la società di Ralph. E sebbene non comprendesse il perché, la sensazione di pericolo divenne ancora più forte. «Non capisco che cosa abbia a che fare con me...» Jordan alzò lo sguardo verso il signor Rhodes. «Suo fratello aveva concluso una serie di cospicue operazioni ribassiste sulle società che sono state più danneggiate dal fallimento dell'impresa di Jameson.» «Si direbbe...» cominciò incerto Jordan, e Rhodes lo interruppe.
«Si direbbe che abbia ricavato utili superiori a un milione di sterline, e che lui e i suoi agenti si siano dati molto da fare per mascherare e nascondere queste macchinazioni.» «Signor Rhodes, perché lo dice a me? Perché ha adottato quel tono? E' mio fratello, è vero, ma non posso essere considerato responsabile...» Rhodes alzò una mano per farlo tacere. «Nessuno l'ha ancora accusato... questa fretta di giustificarsi è disdicevole.» Poi aprì le Vite di Plutarco, rilegate in pelle, che stavano sull'angolo della scrivania. Tra le pagine c'erano tre fogli di carta da lettera. Rhodes li prese e porse il primo a Jordan. «Lo riconosce?» Jordan arrossì fino ai capelli. In quel momento non poteva perdonarsi di aver scritto quella lettera. L'aveva fatto nel terribile travaglio spirituale dopo la notte delle brutali accuse di Ralph a bordo del treno privato partito da Kimberley. «E' la copia d'una lettera personale che ho scritto a mio fratello...» Non trovò la forza di guardare Rhodes negli occhi. «Non so che cosa mi abbia indotto a tenerla.» Un capoverso attirò il suo sguardo e non seppe trattenersi dal rileggere le parole. Non c'è nulla che non farei per convincerti del mio affetto immutato, perché soltanto ora, quando sembra che l'abbia perduta, mi rendo conto di quanto significhi per me la tua stima. Jordan strinse il foglio. «E' una comunicazione privata e riservata» disse abbassando la voce che tremava di vergogna e di indignazione. «A parte mio fratello, al quale è indirizzata, nessun altro ha il diritto di leggerla.» «Quindi non nega di esserne l'autore?» «Sarebbeinutile.» «Appunto, sarebbe inutile» riconobbe Rhodes porgendogli il secondo foglio. Jordan lo lesse con stupefazione crescente. La scrittura era la sua, le parole no. Tuttavia sembravano una continuazione tanto naturale dei sentimenti espressi nel primo foglio che si sorprese quasi a dubitare della propria memoria. Stava leggendo l'impegno a comunicare a Ralph informazioni confidenziali e riservate, relative alla pianificazione e ai tempi dell'intervento di Jameson nel Transvaal. Riconosco che l'impresa progettata esorbita completamente dalle leggi della civiltà e questo mi ha convinto ad aiutarti... questo e il debito morale che sento di avere nei tuoi confronti. Soltanto allora si accorse che l'inclinazione e la forma d'una lettera dell'alfabeto non erano di sua mano. L'intera pagina era un abile falso. Scosse la testa in silenzio. Aveva la sensazione che la trama della sua esistenza fosse stata lacerata. «La sua cospirazione è riuscita, come sappiamo dalla ricca messe raccolta da suo fratello» disse Rhodes con il tono stanco dell'uomo che è stato tradito molte, troppe volte, e ormai non si sente più ferito. «Mi congratulo con lei, Jordan.» «Questo da dove è venuto?» Il foglio tremava nella mano di Jordan. «Dove...» S'interruppe e guardò Arnold, in piedi dietro al principale. Non c'era più traccia dell'espressione di trionfo vendicativo. Arnold aveva un'aria seria e preoccupata... ed era insopportabilmente bello. «Capisco.» Jordan annuì. «E' un falso, ovviamente.» Rhodes fece un gesto spazientito. «Davvero, Jordan, chi si prenderebbe la briga di falsificare rendiconti bancari che si possono controllare con molta facilità?» «Non mi riferisco ai rendiconti, ma alla lettera.» «Ha riconosciuto che è sua.» «Non questo foglio, no...» L'espressione di Rhodes era remota, gli occhi freddi e insensibili. «Avvertirò il contabile perché venga dall'ufficio in città a esaminare i registri con lei e a fare l'inventario. Naturalmente consegnerà le chiavi ad Arnold. Appena tutto sarà sistemato, darò disposizione al contabile di farle un assegno per tre mesi di stipendio in sostituzione del preavviso; ma sono certo che capirà la mia riluttanza a fornirle una lettera di raccomandazione. Le sarei grato se volesse sgombrare da qui e portar via tutto ciò che le appartiene prima del mio ritorno dalla Rhodesia. «Signor Rhodes...» «Non abbiamo altro da dirci.» ***
Il signor Rhodes e il suo seguito, incluso Arnold, erano partiti tre settimane prima con l'espresso del nord, diretti a Kimberley e al capolinea della ferrovia nel Matabeleland. Jordan aveva impiegato tutto quel tempo per terminare gli inventari e completare la contabilità. Dopo quel colloquio, Rhodes non gli aveva più parlato. Arnold gli aveva riferito due brevi istruzioni e Jordan aveva fatto appello alla propria dignità e aveva resistito alla tentazione di scagliare recriminazioni inutili contro il rivale trionfante. Aveva rivisto Rhodes tre sole volte dopo quella sera fatidica: due volte dalla finestra dell'ufficio mentre tornava dalle lunghe cavalcate senza meta tra le pinete sulle pendici più basse della montagna; e la terza e ultima volta quando era salito in carrozza alla stazione. Ora, com'era sempre stato in quelle tre lunghe settimane, Jordan era solo nella grande residenza deserta. Aveva ordinato ai servitori di andarsene presto e aveva controllato personalmente le cucine e le stanze sul retro prima di chiudere a chiave le porte. Si avviò a passo lento per i corridoi reggendo la lampada a petrolio con entrambe le mani. Indossava la vestaglia di broccato cinese che era stato il regalo di Rhodes in occasione del suo venticinquesimo compleanno. Si sentiva bruciato, carbonizzato come un albero della foresta dopo che l'incendio è passato oltre lasciando il tronco svuotato che continua ad ardere all'interno. Stava compiendo un pellegrinaggio per dire addio alla grande casa e ai ricordi che conteneva. Era stato presente fin dai primi giorni, quando era stato deciso di rinnovare e ridecorare la vecchia costruzione. Aveva trascorso molte ore ascoltando Herbart Baker e il signor Rhodes, prendendo appunti delle loro conversazioni, e ogni tanto aveva avanzato un suggerimento, su invito di Rhodes. Era stato Jordan a proporre il motivo dominante della residenza, una rappresentazione stilizzata dell'uccello di pietra del le antiche rovine della Rhodesia, il falco di Zimbabwe. Il rapace, sul piedestallo decorato da un fregio a denti di squalo, ornava la balaustrata della scalinata principale, era scolpito nel granito lucido dell'immenso bagno nell'appartamento di Rhodes, era affrescato intorno alle pareti della sala da pranzo; e quattro copie del falco sostenevano gli angoli della scrivania del padrone di casa. Il falco aveva sempre fatto parte della vita di Jordan, fìn dal tempo a cui risalivano i suoi primi ricordi. La statua originale era stata asportata da Zouga Ballantyne dall'antico tempio, ed era una delle sette statue identiche che vi aveva scoperto. Aveva potuto portarne via una sola, quella meglio conservata. Quasi trent'anni più tardi Ralph Ballantyne era tornato nella Grande Zimbabwe, guidato dal diario del padre e dalla mappa da lui disegnata. Ralph aveva trovato le sei statue rimanenti nel recinto del tempio, fra le rovine, così come le aveva lasciate Zouga: ma lui era venuto preparato. Aveva caricato le statue SUI buoi da tiro e, nonostante i tentativi compiuti dai matabele per impedirglielo, s'era diretto verso sud con il suo tesoro, al di là del fiume Shashi. A Città del Capo un consorzio di uomini d'affari presieduto dal multimilionario Barney Barnato aveva acquistato da Ralph quelle reliquie per una somma cospicua e le aveva donate al Museo Sudafricano della città. Le sei statue erano ancora là, esposte al pubblico. Jordan aveva visitato il museo e per un'ora era rimasto a guardarle affascinato. Ma il giovane rimaneva legato alla magia della prima statua scoperta da suo padre, e che durante tutta la sua infanzia aveva viaggiato come zavorra sulle ruote posteriori del carro della famiglia, durante i loro vagabondaggi attraverso lo sterminato veld africano. Jordan aveva dormito mille notti sopra il falco; e in un certo senso lo spirito del falco aveva pervaso il suo. Quando finalmente Zouga aveva condotto la famiglia alla miniera diamantifera di Kimberley, la statua era stata scaricata dal carro e piazzata sotto l'albero spinoso che contrassegnava il loro ultimo accampamento. E allorché la madre di Jordan, Aletta Ballantyne, s'era ammalata della terribile febbre ed era morta, la statua aveva finito per assumere un ruolo ancora più importante nella vita del giovane. Aveva battezzato il falco «Panes» come la dea delle tribù indiane dell'America del Nord, e più tardi aveva studiato avidamente le tradizioni della grande dea Panes, descritte da Framer nel Ramo
d'Oro, uno studio sulla magia e la religione. Aveva appreso che Panes era una donna bellissima e che era stata condotta tra le montagne. Per l'adolescente Jordan, Panes e il falco di pietra s'erano confusi con l'immagine della madre morta. Segretamente, aveva ideato una forma d'invocazione alla dea, e nel cuore della notte, mentre tutti gli altri membri della famiglia dormivano, usciva furtivamente a offrire a Panes un piccolo sacrificio, qualche boccone di cibo messo da parte di proposito, e a venerarla con riti di sua invenzione. Quando Zouga s'era trovato in difficoltà finanziarie ed era stato costretto a vendere la statua a Rhodes, il ragazzo era rimasto desolato... fino a che l'occasione di entrare al servizio di Rhodes e di seguire la dea aveva colmato il vuoto nella sua esistenza non già con una sola divinità ma con due: Panes e il signor Rhodes. Anche quando era divenuto adulto, la statua aveva continuato a dominare la coscienza di Jordan, benché solo raramente, nei momenti del più profondo tumulto dello spirito, avesse fatto ricorso ai riti puerili del culto. Adesso aveva perso la colonna della sua vita ed era attratto irresistibilmente verso la statua per l'ultima volta. Scese lentamente la scalinata curva. Nel passare accarezzava i pilastrini scolpiti, copie fedeli dell'antico falco. L'atrio maestoso aveva un pavimento di lastre di marmo bianco e nero disposte a scacchiera. I battenti della porta principale erano di massiccio teak rosso, con le rifiniture di bronzo brunito. La luce della lampada che Jordan reggeva tra le mani lanciava ombre grottesche e deformi e le faceva guizzare sul marmo o svolazzare come pipistrelli giganteschi contro l'alto soffitto decorato. Al centro stava un tavolo pesante dove troneggiavano i vassoi d'argento per i biglietti da visita e la posta; e tra i vassoi un'alta decorazione di fiori di protea secchi che Jordan aveva composto con le sue mani. Jordan posò la lampada in porcellana di Sèvres sul tavolo come una lanterna rituale su un altare pagano. Indietreggiò di qualche passo e alzò la testa. Il falco di pietra autentico, l'originale di Zimbabwe, stava nell'alta nicchia a vigilare sull'ingresso di Groote Schuur. Nel vederlo così era impossibile dubitare dell'aura di potere magico che alonava l'immagine scolpita. Sembrava che le preghiere e gli incantesimi degli antichi sacerdoti di Zimbabwe tremolassero ancora nell'aria tutto intorno, che il sangue delle vittime sacrificali esalasse vapori fumanti dalle ombre tremule sul pavimento di marmo, e che le profezie dell'Umlimo, l'Eletta degli antichi spiriti, le conferissero una vita indipendente. Zouga Ballantyne aveva ascoltato le profezie dalle labbra dell'Umlimo e le aveva diligentemente annotate nel diario. Jordan le aveva rilette cento volte e avrebbe saputo ripeterle a memoria; le aveva integrate nel suo rito personale d'invocazione alla dea. Non ci sarà pace nel regno dei mambo o dei monomotapa finché essi non torneranno. L'aguila bianca continuerà a combattere contro il toro nero finché i falchi di pietra non si poseranno di nuovo. Jordan alzò gli occhi verso la testa fiera e crudele del rapace, gli occhi ciechi e fissi verso il nord, verso la terra dei mambo e dei monomotapa che ora gli uomini chiamavano Rhodesia, dove l'aquila bianca e il toro nero erano di nuovo impegnati in un conflitto mortale; e provò una sensazione d'impotenza e di vuoto, quasi fosse imprigionato nelle spire del destino e non riuscisse a liberarsi. «Abbi pietà di me, grande Panes» disse, e si lasciò cadere in ginocchio. «Non posso andarmene. Non posso abbandonare né te né lui. Non so dove andare.» Nella luce della lampada il suo viso era sfumato di verdastro, come scolpito nel ghiaccio. Alzò dal tavolo la lampada di porcellana e la sorresse sopra la testa con entrambe le mani. «Perdonami, grande Panes» mormorò, e scagliò la lampada contro i pannelli di legno che rivestivano la parete. Per un momento l'atrio piombò nell'oscurità mentre la fiamma della lampada frantumata lingueggiava sull'orlo dell'estinzione. Poi emise una spettrale luce azzurra che si diffuse sulla superficie delLa pozza dilagante di petrolio. All'improvviso le fiamme divamparono più forti e toccarono gli orli delle lunghe tende di velluto che coprivano le finestre. Ancora inginocchiato davanti alla statua di pietra, Jordan tossì quando le prime spire di fumo lo avvolsero. Si stupì un poco perché, dopo la prima fitta bruciante nei polmoni, non provò quasi
sofferenza. L'immagine del falco, alta sopra di lui, recedette lentamente, offuscata dalle lacrime che gli riempivano gli occhi e dalle dense, vorticanti volute di fumo. Le fiamme emisero un rombo sordo e tambureggiante quando si appiccarono ai pannelli di legno e saettarono verso il soffitto. Una delle pesanti tende bruciò completamente e ricadde spiegandosi come le ali di un avvoltoio enorme. Le ali ardenti di velluto coprirono la figura inginocchiata di Jordan, il loro peso lo trascinò giù, prostrato sul pavimento di marmo. Già asfissiato dal denso fumo azzurro, non tentò neppure di lottare; e in pochi secondi il mucchio di velluto gualcito si trasformò in una pira funebre e le fiamme si protesero gioiosamente per lambire il piedestallo del falco di pietra nell'alta nicchia. *** «Bazo è finalmente disceso dalla grotta dell'Umlimo» disse sottovoce Isazi, e Ralph non seppe trattenersi. «Sei sicuro?» chiese, impaziente, e Isazi annuì. «Mi sono seduto intorno ai fuochi dei bivacchi del suo impi, e l'ho visto con questi occhi, con le cicatrici delle pallottole che spiccano sul suo petto come medaglie argentee; con questi orecchi l'ho sentito arringare i suoi amadoda e incitarli in vista dei combattimenti che li attendono.» «Dov'è, Isazi? Dimmi dove posso trovarlo.» «Non è solo.» Isazi non intendeva rovinare l'effetto studiato del suo racconto rivelando prematuramente i fatti essenziali. «Bazo ha con sé la strega, la sua donna. Se Bazo è bellicoso, quella Tanase è la favorita degli spiriti delle tenebre, è audace e spietata, è spinta da una crudeltà così sanguinosa che gli amadoda, nel vedere la sua bellezza, rabbrividiscono come se fossero di fronte a una bruttezza indescrivibile.» «Dove sono?» ripeté Ralph. «Bazo ha con sé i più fanatici e temerari dei giovani induna, Zama e Kamuza, e hanno portato i loro amadoda, tremila dei più feroci e valorosi. Con Bazo e Tanase alla testa, quegli impi sono pericolosi quanto un leone trafitto al ventre, letali come il vecchio bufalo maschio che si aggira nella fitta boscaglia per tendere l'agguato al cacciatore ignaro...» «Maledizione, Isazi, abbiamo aspettato già abbastanza a lungo» ringhiò Ralph. «Dimmi dov'è.» Isazi lo guardò con aria un po' offesa e fiutò una presa di tabacco. I suoi occhi si annacquarono: sternutì beato e si strofinò le narici sul palmo della mano. «Gandank e Babiaan e Somabula non sono con lui.» Isazi riprese il racconto nel punto preciso in cui Ralph l'aveva interrotto con scarsa delicatezza. «Ho ascoltato mentre gli amadoda parlavano di un indaba svoltosi molte settimane fa nella valle dell'Umlimo. Dicono che i vecchi induna hanno deciso di attendere l'intervento divino degli spiriti, di lasciare aperta la strada verso il sud perché i bianchi possano abbandonare il Matabeleland, e sedere sui loro scudi fino a quando si compirà tutto questo.» Ralph fece un gesto di rassegnazione disgustata. «Non affrettarti nel raccontare, o saggio» disse, incoraggiando Isazi con pesante sarcasmo. «Non risparmiarci il minimo dettaglio.» Isazi annuì, serio, ma gli occhi scuri brillavano. Si tirò la barbetta per non sorridere. «I ventri dei vecchi induna si stanno raffreddando. Ricordano i campi di battaglia dello Shangani e del Bembesi. Le loro spie riferiscono che il laager, qui a Bulawayo, è protetto dai fucili a treppiede. Ti assicuro, Henshaw, che Bazo è la testa del serpente. Tagliala, e il corpo morirà.» Isazi annuì con aria saputa. «E ora mi dirai dov'è Bazo, mio vecchio, saggio e valoroso amico?» Isazi annuì di nuovo, in segno di soddisfazione per il cambiamento del tono di Ralph. «E' molto vicino» disse. «A meno di due ore di marcia dal punto dove ci troviamo.» Fece un ampio gesto che indicava il laager buio. «Sta con i suoi tremila amadoda nella Valle delle Capre.» Ralph alzò gli occhi verso la falce di luna librata nella parte bassa del cielo. «Mancano quattro giorni al novilunio» mormorò. «Se Bazo intende attaccare il laager, lo farà quando non c'è luna.» «Tremila uomini» mormorò Harry Mellow. «E noi siamo cinquanta.»
«Tremila. Le Talpe e gli Insukamini e i Nuotatori.» Il sergente Ezra scosse la testa. «Come ha detto Isazi, sono i più feroci e valorosi.» «Li attaccheremo» disse con calma Ralph Ballantyne. «Li attaccheremo fra tre notti nella Valle delle Capre. Ed ecco come faremo...» *** Bazo, figlio di Gandank, che aveva rinnegato il padre e sfidato i grandi induna dei kumalo, passava da un fuoco di guardia all'altro; e al suo fianco si muoveva la figura snella e squisitamente armoniosa della sua donna, Tanase. Bazo si avvicinò al fuoco e si fermò, torreggiante. Le fiamme gli illuminavano il volto dal basso, e le cavità delle orbite erano grotte nere dove gli occhi luccicavano come le spire di un rettile mortale. La luce del fuoco delineava in crudi dettagli ogni ruga che la sofferenza aveva scavato in quella faccia. Intorno alla fronte era legata la semplice fascia di pelli di talpa: non aveva bisogno delle piume dell'airone o del viduino per suggellare la sua maestà. I bagliori si riflettevano sui grandi muscoli del petto e delle braccia, e le cicatrici erano le sue uniche insegne d'onore. La bellezza di Tanase spiccava ancora di più, accanto a quei lineamenti devastati. I seni nudi erano incongrui nei consigli di guerra: ma sotto quelle curve di raso erano duri come i muscoli forgiati dalla battaglia, e i capezzoli scuri e raggrinziti, grossi come la prima falange del mignolo di un uomo, erano come le borchie al centro di uno scudo. Mentre stava a fianco di Bazo nella luce del fuoco, i suoi occhi erano feroci come quelli dei guerrieri; guardò il marito con orgoglio rabbioso quando incominciò a parlare. «Io vi offro una scelta» disse Bazo. «Potete continuare a essere ciò che siete, i cani dei bianchi. Potete restare come amaholi, gli infimi tra gli schiavi, oppure potete ridiventare amadoda.» La sua voce non era alta né forzata; sembrava uscire rombando dalla gola ma echeggiava nitida fino alla parte più alta dell'anfiteatro naturale; e le masse scure dei guerrieri che riempivano la conca si agitarono e sospirarono a quelle parole. «Sta a voi scegliere, ma dovete farlo in fretta. Questa mattina ho ricevuto i corrieri venuti dal sud.» Bazo s'interruppe, e gli ascoltatori si protesero. Erano tremila, accosciati in file serrate, ma non emettevano il minimo suono: attendevano le prossime parole di Bazo. «Avete sentito i vili dirvi che se non contrasteremo il passaggio sulla strada per il sud, i bianchi che stanno a Bulawayo caricheranno i loro carri, prenderanno le loro donne e percorreranno docilmente quella strada fino al mare.» Anche questa volta i guerrieri non fiatarono. «Avevano torto... e adesso c'è la prova. E' venuto Lodzi» disse Bazo, e si levò un sospiro che era come il suono del vento tra l'erba. «Lodzi è venuto» ripeté Bazo. «E con lui sono venuti i soldati e i fucili. Ora si stanno radunando al capolinea della ferrovia costruita da Henshaw. Presto, molto presto, incominceranno a marciare lungo la strada che abbiamo lasciato aperta per loro. Prima che la nuova luna cresca, arriveranno a Bulawayo, e allora voi sarete veramente amaholi. Voi e i vostri figli e i figli dei vostri figli lavorerete nelle miniere dei bianchi e baderete alle mandrie dei bianchi.» Vi fu un ringhio, come di un leopardo al risveglio, che scosse le file dei guerrieri fino a che Bazo levò in alto l'assegai argenteo. «Non sarà così. L'Umlimo ci ha promesso che questa terra apparterrà di nuovo a noi, ma è compito nostro fare in modo che la profezia si trasformi in realtà. Gli dèi non favoriscono quanti attendono che il frutto cada dall'albero nella loro bocca aperta. Figli miei, noi scuoteremo l'albero.» «Jee!» disse una voce tra le file ammassate, e immediatamente tutti intonarono il canto di guerra. «Jee!» cantò Bazo, pestando a terra il piede destro e puntando la lama larga verso il cielo senza luna, e i suoi uomini cantarono con lui. Tanase stava immobile al suo fianco come una statua d'ebano, ma teneva le labbra leggermente socchiuse, e gli immensi occhi obliqui splendevano come lune nella luce del fuoco. Finalmente Bazo tese di nuovo il braccio e aspettò che ritornasse il silenzio. «Sarà così» disse, e i guerrieri si sporsero di nuovo verso di lui per captare ogni parola. «Prima divoreremo il laager di Bulavvayo. E' sempre stata usanza dei matabele piombare addosso ai nemici
nell'ora che precede l'alba, quando sta per spuntare la prima luce del giorno.» I guerrieri cantilenarono sommessamente in segno di assenso. «E i bianchi conoscono la nostra usanza» continuò Bazo. «Ogni mattina, nell'ultima oscurità profonda, stanno accanto ai loro fucili, in attesa che il leopardo cada nella loro trappola. I matabele vengono sempre prima dell'alba, dicono l'uno all'altro. Sempre! dicono... ma io vi dico che questa volta sarà diverso, figli miei.» Bazo indugiò e scrutò attentamente le facce degli uomini accosciati nella prima fila. «Questa volta sarà nell'ora prima della mezzanotte, quando all'est sorgerà la stella bianca.» Bazo assegnò l'ordine di battaglia stando ritto davanti a loro; e, accosciato in mezzo alla massa nera dei corpi seminudi, con le spalle che quasi sfioravano quelle degli amadoda ai suoi fianchi, i capelli coperti dall'acconciatura di piume e la faccia e il corpo impiastricciati d'un miscuglio di grasso e nerofumo, Ralph Ballantyne ascoltava le istruzioni dettagliate. «In questa stagione il vento si alza con il levarsi della stella bianca. Verrà dall'est, e quindi anche noi verremo dall'est. Ognuno di voi porterà sulla testa un fardello d'erba e le foglie verdi dei msasa» disse Bazo; e Ralph, anticipando ciò che stava per venire, sentì le terminazioni nervose fremere nelle punte delle dita. «Una cortina fumogena» pensò. «E' una tattica della marina.» «Non appena si alzerà il vento, accenderemo un grande fuoco» continuò Bazo. «Ognuno di voi vi getterà il suo fardello al passaggio, e avanzeremo nell'oscurità e nel fumo. A loro non servirà a nulla lanciare i bengala nel cielo, perché il nostro fumo accecherà i mitraglieri.» Ralph immaginava la scena: i guerrieri che uscivano dall'impenetrabile, ondeggiante banco di fumo e restavano invisibili fino a quando erano abbastanza vicini per sferrare i colpi, e sciamavano oltre la barriera dei carri o strisciavano fra le ruote. Tremila aggressori che venivano silenziosi e implacabili... Anche se il laager fosse stato preavvertito e preparato, sarebbe stato impossìbile fermarli. Le Maxim sarebbero state quasi inutili in mezzo al fumo; e gli assegai a lama larga, in quelle condizioni, erano le armi più efficaci. Un'immagine vivida del massacro gli fiammeggiò nella mente. Ricordò il cadavere di Cathy, immaginò i resti di Jonathan e di Elizabeth straziati in modo altrettanto orribile. La collera gli diede nuova energia mentre guardava nell'anfiteatro l'alta figura imponente dalla faccia alterata che predisponeva i dettagli del massacro. «Non dobbiamo lasciarne vivo neppure uno. Dobbiamo distruggere l'ultima ragione che indurrebbe Lodzi a portare i suoi soldati. Se compirà il tentativo gli offriremo soltanto cadaveri, edifici bruciati e acciaio argenteo.» E Ralph, preso dal furore, gridò con gli altri amaloda e cantò il selvaggio canto di guerra con il viso stravolto come quello degli altri, gli occhi altrettanto folli. «L'indaba è finito» disse alla fine Bazo. «Andate alle vostre stuoie a riposare in attesa del domani. Quando vi alzerete con il sole, il primo compito per ognuno di voi sarà tagliare un fascio d'erba secca e di fronde verdi, il più pesante che potrete portare.» *** Ralph Ballantyne era disteso sotto il kaross dipelliccia su una stuoia di canne intrecciate e ascoltava mentre il campo si addormentava intorno a lui. S'erano ritirati nella parte più stretta della valle. Vide i fuochi di guardia affievolirsi, i cerchi della luce arancione restringersi. Sentì il brusio delle voci che si smorzava; e il respiro dei guerrieri accanto a lui cambiava, diventava plù profondo e regolare. In quel tratto la Valle delle Capre era una gola rocciosa e accidentata, invasa da fitti arbusti spinosi, e gli Impi non potevano concentrarsi in un'unica area. Erano sparsi nell'intera lunghezza della valle, una cinquantina di uomini in ogni piccola radura, e i sentieri tortuosi fra i cespugli erano sovrastati da alberi più alti che formavano con le loro chiome una sorta di baldacchino.
L'oscurità divenne più minacciosa quando gli ultimi fuochi si spensero nella fine cenere grigia; e Ralph, sotto la coPerta di pelliccia, strinse l'asta dell'assegai e attese il momento opportuno. Quando il momento venne, Ralph scostò furtivamente il kaross. Si mosse carponi e raggiunse il guerriero più vicino, tendendo la mano per toccarlo. Sfiorò con le dita la pelle nuda d'un braccio. Il guerriero si svegliò con un sussulto e si sollevò a sedere. «Chi è?» cese con voce gutturale, arrochita dal sonno, e Ralph gli trafisse lo stomaco. L'uomo urlò. Fu un urlo straziante che echeggiò tra le pareti di roccia della valle, spezzò il silenzio della veglia notturna. E Ralph urlò con lui. «I diavoli! I diavoli mi uccidono!» Ralph rotolò su se stesso e trafisse un altro guerriero facendolo urlare per la sorpresa e il dolore. «Qui ci sono i diavoli!» Intorno ad altri cinquanta fuochi nella valle, gli Scout di Ballantyne trafiggevano e gridavano come Ralph. «Difendetevi, gli spettri si sono scatenati!» «Tagati! Stregoneria! Guardatevi dal maleficio!» «Uccidete i colpevoli!» «Stregoneria! Difendetevi!» «Fuggite! Fuggite! I diavoli sono tra noi.» Tremila guerrieri, abituati fin dall'infanzia a credere nelle superstizioni e nelle stregonerie, si svegliarono nel sentire le urla e le grida dei morenti e i moniti atterriti di uomini che si trovavano a faccia a faccia con le legioni del cliavolo. Si svegliarono nell'oscurità accecante e afferrarono le armi e vibrarono colpi urlando di paura, e i compagni feriti da loro urlavano ancora più forte e ricambiavano colpo per colpo. «Mi feriscono! Difendetevi dai diavoli! Ah! Ah! I diavoli mi uccidono!» La notte brulicava di figure che correvano e si scontravano, sferravano affondi e gridavano. «La valle è infestata!» «I diavoli ci uccideranno tutti!» «Fuggite! Fuggite!» E dall'imboccatura della valle si levò un ululato mostruoso e possente, un urlo lacerante che poteva essere soltanto la voce del grande demone Tokoloshe, il divoratore d'uomini. Era un suono che spinse quegli uomini terrorizzati oltre l'ultima frontiera della ragione, nel regno del pandemonio insensato. Ralph si trascinò carponi lungo lo stretto sentiero, tenendosi al di sotto del livello dei colpi di lancia mentre le figure convulse degli uomini in fuga si profilavano contro la luce fievole delle stelle; e quando sferrava un colpo dal basso in alto, mirava all'inguine e al ventre senza uccidere perché i feriti aggiungessero anche le loro urla al clamore. Dall'imboccatura della valle, Harry Mellow fece suonare di nuovo la sirena di bronzo, e l'ululato trovò un'eco nelle urla degli uomini che si arrampicavano freneticamente sui fianchi della valle e fuggivano nella prateria scoperta. Ralph continuò ad avanzare, cercando una voce tra mille. Nei primi minuti centinaia di guerrieri, quasi tutti disarmati erano fuggiti dalla valle. Scomparivano nella notte in ogni direzione e a ogni secondo erano seguiti da altri: uomini che si sarebbero avventati alla carica contro le canne fumanti delle mitragliatrici Maxim, ma che la paura del sovrannaturale aveva ridotto a bambini irragionevoli e dominati dal panico. Le loro grida svanirono in distanza; e finalmente Ralph udì la voce che attendeva. «Non fuggite, Talpe» ruggì la voce. «Restate con Bazo. Non sono demoni.» E Ralph strisciò verso quel suono. Nella radura davanti a lui un fuoco alimentato da nuovi ceppi divampò all'improvviso, e Ralph riconobbe l'alta figura dalle spalle ampie, e la donna che gli stava accanto. «E' un trucco dei bianchi» urlava la donna. «Aspettate, figli miei.» Ralph balzò in piedi e corse verso di loro,, tra i cespugli fitti. «Nkost» gridò. Non era necessario che cambiasse la voce: era arrochita dalla polvere, dalla tensione e dalla smania di combattere. «Signore, sono con te! Opponiamoci al tradimento.» «Valoroso compagno!» Bazo lo accolse con sollievo quando Ralph uscì dall'oscurità. «Piazzati schiena contro schiena, forma un cerchio in cui ognuno di noi proteggerà l'altro, e chiama altri coraggiosi perché ci aiutino.» Bazo voltò le spalle a Ralph e attirò al suo fianco la donna. Fu Tanase a girare la testa e a riconoscere Ralph mentre si chinava.
«E' Henshaw» urlò, ma l'avvertimento venne troppo tardi. Prima che Bazo potesse voltarsi per affrontarlo, Ralph aveva cambiato la presa sull'impugnatura dell'assegai e, usandolo come la mannaia d'un macellaio, con un unico colpo aveva mirato alla parte posteriore delle gambe di Bazo, appena al di sopra delle caviglie, e i tendini si tranciarono con un molle schiocco gommoso. Bazo crollò in ginocchio, immobilizzato come uno scarafaggio inchiodato a una tavoletta. Ralph afferrò Tanase per il polso, la strattonò fuori dal cerchio di luce e la scagliò a terra. La tenne bloccata senza difficoltà, le strappò il gonnellino di pelle e le puntò l'assegai all'inguine. «Bazo» sibilò, «getta la tua lancia nel fuoco o squarcerò le parti segrete della tua donna come tu hai squarciato quelle della mia.» *** Ai primi barlumi del nuovo giorno, gli Scout avanzarono lentamente nella valle in una linea sgranata per finire i matabele feriti. Intanto; Ralph mandò Jan Cheroot dove avevano lasciato i cavalli per prendere le corde. L'ottentotto ritornò dopo pochi minuti, con i pesanti rotoli di nuove funi gialle sopra le selle dei cavalli che conduceva per le briglie. «I matabele si sono dispersi fra le colline» riferì. «Impiegheranno una settimana per ritrovarsi e raggrupparsi.» «Noi non aspetteremo tanto a lungo.» Ralph prese le corde e cominciò a fare i nodi. Gli Scout ritornarono, asciugando le lame degli assegai con manciate d'erba secca, e il sergente Ezra disse a Ralph: «Abbiamo perduto quattro uomini, ma abbiamo trovato Kamuza, l'induna dei Nuotatori, e abbiamo contato più di duecento cadaveri.» «Preparatevi a ripartire» ordinò Ralph. «Quello che rimane da fare non richiederà molto tempo.» Bazo era seduto accanto al fuoco spento. Aveva le braccia legate dietro la schiena con cinghie di cuoio, e i piedi allungati in avanti. Non era in grado di muoverli: erano afflosciati come pesci morenti arenati dal ritirarsi della marea, e il sangue acquoso sgorgava dagli squarci profondi sopra i calcagni. Vicino a lui era seduta Tanase. Era nuda e legata, con le braccia dietro la schiena. Il sergente Ezra la guardò e mormorò: «Abbiamo lavorato parecchio per tutta la notte. Meritiamo un po' di divertimento. Lascia che io e i miei kanka portiamo per un po' questa donna fra i cespugli.» Ralph non si degnò di rispondere. Si rivolse a Jan Cheroot. «Conduci i cavalli» ordinò. Tanase parlò a Bazo senza muovere le labbra, nel modo degli iniziati. «Perché le corde, signore? Perché non ci sparano e non la fanno finita?» «E' l'usanza dei bianchi per manifestare il loro disprezzo. Sparano ai nemici onorati e usano le corde per i criminali.» «Signore, il primo giorno che incontrai quello che tu chiami Henshaw, sognai che tu eri appeso a un albero, e lui ti guardava e sorrideva» mormorò Tanase. «E' strano che in quel sogno non abbia visto anche me stessa al tuo fianco.» «Ora sono pronti» disse Bazo, e girò la testa verso di lei. «Ti abbraccio con tutto il mio cuore. Sei stata la sorgente della mia vita.» «Ti abbraccio, marito mio. Ti abbraccio, Bazo, che sarai padre di re.» Continuò a fissare la faccia devastata di Bazo e non girò la testa quando Henshaw si avvicinò e disse con voce aspra e tormentata: «Vi do una morte meno atroce di quella che voi avete dato a chi amavo.» *** Le corde erano di lunghezza diversa e Tanase pendeva un po' più in basso del suo signore. Le piante dei piedi nudi, all'altezza della testa di un uomo, erano bianchissime, e le dita erano rivolte verso terra come quelle di una bambina che si regga sulle punte. Il lungo collo d'airone era piegato da una parte; sembrava che ascoltasse ancora la voce di Bazo. La faccia gonfia di Bazo era sollevata verso il cielo giallo dell'aurora, perché il nodo scorsoio era finito sotto il mento.
Anche il viso di Ralph Ballantyne era sollevato, mentre stava ai piedi dell'alta acacia in fondo alla Valle delle Capre e li guardava. La visione di Tanase era stata ingannevole anche su un altro punto... Ralph Ballantyne non sorrideva. E così Lodzi arrivò e con lui vennero il maggiore generale Carrington e il maggiore Robert Stephenson Smyth Baden-Powell che un giorno avrebbe fondato l'organizzazione dei boy-scout, e dietro di loro vennero i cannoni e i soldati. Le donne e i bambini uscirono dal laager di Bulawayo per offrire mazzolini di fiori selvatici e cantarono For they are jolly good fellows e piansero di gioia. Gli induna anziani dei kumalo, traditi dalle promesse dell'Umlimo, incerti e con il fuoco che si smorzava rapidamente nei loro ventri, in dissidio tra loro e intimoriti dalla massiccia dimostrazione di potenza militare che avevano provocato, si ritirarono con i loro impi dai dintorni di Bulawayo. Le truppe imperiali uscirono in grandi colonne e spazzarono le valli e i territori scoperti. Incendiarono i villaggi abbandonati e le colture rimaste e portarono via il poco bestiame risparmiato dalla rinderpest. Cannoneggiarono le colline dove sospettavano che si annidassero i matabele e cavalcarono fino a sfiancare i cavalli, all'inseguimento delle sfuggenti ombre nere che si dileguavano davanti a loro nelle foreste. Le Maxim sparavano fino a quando l'acqua del sistema di raffreddamento bolliva, ma la distanza era di novecento metri o più e i bersagli erano svelti come conigli. Le settimane si trascinarono e divennero mesi, e i militari cercarono di affamare i matabele e di costringerli a una battaglia campale; ma gli induna si annidavano nel terreno accidentato e si rifugiavano nelle Matopos, dove i soldati non osavano seguirli. Ogni tanto i matabele sorprendevano una pattuglia isolata o un uomo da solo: una volta, persino il leggendario Frederick Selous, avventuriero e famoso cacciatore di elefanti. Selous era smontato per centrare uno dei ribelli che stavano scomparendo oltre la cresta, quando una pallottola aveva scalfito il suo cavallo, e l'animale che di solito si comportava impeccabilmente era fuggito e l'aveva lasciato a terra. Solo in quel momento Selous s'era reso conto che aveva troppo distanziato il grosso dei suoi Scout e che i matabele s'erano accorti della situazione. I matabele erano tornati indietro e l'avevano inseguito come cani lanciati dietro una lepre. Era una corsa quale Selous non aveva più fatto dai tempi in cui cacciava gli elefanti. Gli amadoda, scalzi ed equipaggiati leggermente, avevano guadagnato terreno, e s'erano avvicinati fino al punto di liberare gli assegai dai cinghioli e d'incominciare quel loro terribile canto di guerra. Soltanto allora il tenente Windiey, il vice di Selous, era arrivato al galoppo, aveva sfilato il piede dalla staffa sinistra per farlo montare e l'aveva portato al sicuro tra i ranghi degli Scout. In altri momenti la fortuna favoriva i militari: sorprendevano una banda di matabele a un guado o nella boscaglia, e li impiccavano agli alberi più vicini. Era una piccola guerra crudele e inconcludente che si trascinava senza fine. Gli ufficiali che conducevano la caMpagna non erano uomini d'affari, non pensavano in termini di rapporto tra costo ed efficienza; e il conto per i primi tre mesi fu di un milione di sterline, al prezzo di cinquemila sterline per ogni matabele ucciso. E il conto era a carico del signor Cecil John Rhodes e della sua British South Africa Company. Nelle Matopos gli induna venivano spinti alla fame e a Bulawayo Rhodes era spinto altrettanto inesorabilmente verso la bancarotta. *** I tre cavalieri avanzavano un po' distanziati per proteggersi l'un l'altro. Stavano al centro della pista, e avevano i fucili carichi e spianati. Jan Cheroot procedeva cento metri più avanti degli altri. La testa lanosa si girava continuamente da una parte e dall'altra, per scrutare nella boscaglia. Dietro di lui veniva Louise Ballantyne, felice di essere finalmente uscita dal laager di Bulawayo dopo tutti quei mesi. Era in sella a cavalcioni, con tutto l'élan dell'amazzone nata, e portava un
berretto verde con la piuma. Quando, a intervalli di pochi minuti, si voltava indietro, le sue labbra si schiudevano in un sorriso affettuoso. Non s'era ancora riabituata ad avere vicino Zouga, e provava la necessità di assicurarsene continuamente. Zouga era cento metri più indietro, e rispondeva ai suoi sorrisi in un modo che la toccava profondamente. Stava eretto sulla sella, con il cappello a larghe tese inclinato su un occhio. Il sole aveva cancellato il pallore del carcere di Hollovvay, e la barba d'oro e d'argento gli dava l'aspetto di un capo vichingo. Salirono distanziati dalle praterie, sotto gli alti rami arcuati dei msasa, su per il primo pendio delle colline; e quando raggiunse la sommità Jan Cheroot si rizzò sulle staffe e gridò di gioia e di sollievo. Incapaci di trattenersi, Louise e Zouga avanzarono al piccolo galoppo e si fermarono accanto a lui. «Oh, Dio sia ringraziato» mormorò Louise con voce rauca, tendendo la mano a Zouga. «E' un miracolo» disse lui a voce bassa, stringendole le dita. Davanti a loro il tetto di paglia dorata di King's Linn brillava nel sole. Sembrava lo spettacolo più bello che avessero mai visto. «Intatta.» Louise scosse la testa, meravigliata. «Dev'essere l'unica casa del Matabeleland che non sia stata bruciata.» «Oh, vieni, tesoro» gridò Louise, felice. «Torniamo a casa nostra.» Zouga la trattenne davanti ai gradini del vasto portico anteriore, la fece rimanere in sella con il fucile spianato, a reggere le redini di tutti i cavalli, mentre lui e Jan Cheroot entravano per accertare che non vi fossero matabele in agguato. Quando Zouga riapparve sulla veranda teneva il fucile abbassato e sorrideva. «Nessun pericolo.» L'aiutò a smontare e, mentre Jan Cheroot conduceva via i cavalli per portarli nella scuderia e dar loro il foraggio che aveva nei sacchi, Zouga e Louise salirono i gradini tenendosi per mano. Le curve eburnee delle zanne del vecchio elefante incorniciavano ancora l'ingresso della sala da pranzo, e Zouga ne accarezzò una mentre passava. «I tuoi portafortuna» mormorò Louise con una risatina indulgente. «Le divinità della casa» la corresse Zouga, ed entrarono. La casa era stata saccheggiata. Era il minimo che potessero aspettarsi; ma i libri c'erano ancora, buttati sul pavimento. Alcuni avevano i dorsi rotti, le copertine di pelle danneggiate o rosicchiate dai topi, ma c'erano tutti. Zouga ritrovò i suoi diari e li spolverò con il fazzoletto di seta. Erano dozzine, la documentazione della sua vita, scritti meticolosamente a mano e illustrati con disegni a inchiostro e mappe colorate. «Perderli mi avrebbe spezzato il cuore» mormorò, ammucchiandoli con cura sul tavolo e accarezzando la copertina di marocchino rosso. L'argenteria era sparsa sul pavimento della sala da pranzo: molti pezzi erano malconci, ma quelli intatti erano ancora numerosi. Non avevano valore per i matabele. Si aggirarono per la grande casa, passando per le stanze che Zouga aveva aggiunto all'edificio originale, e ritrovarono piccoli tesori tra il ciarpame: un pettine d'argento che Zouga aveva regalato a Louise in occasione del loro primo Natale, i gemelli di diamanti e di smalto che Louise aveva regalato a Zouga per il compleanno. Glieli porse e si alzò in punta di piedi, of frendo il volto a un bacio. C'erano ancora piatti e bicchieri sugli scaffali della cucina, anche se tutte le pentole e i coltelli erano stati rubati e le porte della dispensa e dei magazzini erano state scardinate. «Ripararle non sarà difficile» disse Zouga. «Non riesco a credere che abbiamo avuto tanta fortuna.» Louise uscì sull'aia e trovò quattro delle sue galline rosse del Rhode Island che razzolavano tra la polvere. Richiamò Jan Cheroot dalla scuderia e gli chiese qualche manciata di granaglie. Quando chiamò le galline, arrivarono svolazzando per beccuzzare il cibo. I vetri delle finestre della camera da letto padronale erano sfondati e gli uccelli selvatici erano entrati per appollaiarsi sulle travi. La coperta era macchiata di escrementi; ma quando Louise la
tolse, le lenzuola e il materasso risultarono puliti e asciutti. Zouga le passò un braccio intorno alla vita, la strinse e la guardò in un modo che Louise conosceva molto bene. «Sei uno scostumato, maggiore Ballantyne» mormorò lei con voce rauca. «Ma non ci sono tende alle finestre.» «Per fortuna ci sono ancora le imposte.» Zouga andò a chiuderle mentre Louise ripiegava l'orlo del lenzuolo e si slacciava il primo bottone della camicetta. Zouga tornò in tempo per aiutarla a slacciare gli altri. Un'ora dopo, quando uscirono di nuovo sulla veranda, videro che Jan Cheroot aveva spolverato le sedie e il tavolo e aveva aperto il cesto da picnic portato da Bulawayo. Bevvero l'ottimo vino di Constantia e mangiarono pasticcio freddo, mentre Jan Cheroot li serviva e li intratteneva raccontando aneddoti delle prodezze degli Scout di Ballantyne. «Non c'erano altri come noi!» dichiarò modestamente. «Gli Scout di Ballantyne! I matabele hanno imparato a conoscerci bene.» «Oh, non parliamo della guerra» supplicò Louise. Ma Zouga chiese con bonario sarcasmo: a Che fine hanno fatto tutti i tuoi eroi? La guerra continua, e abbiamo bisogno di uomini come voi.» «Padron Ralph è cambiato» disse oscuramente Jan Cheroot. «E' cambiato così.» E schioccò le dita. «Dal giorno in cui abbiamo preso Bazo nella Valle delle Capre, non ha più mostrato interesse. Non è più uscito con gli Scout, e dopo una settimana è tornato al capolinea per finire di costruire la sua ferrovia. Dicono che porterà il primo treno a Bulawayo prima di Natale, ecco cosa dicono.» «Basta!» esclamò Loùise. «E' il primo giorno che passiamo a King's Linn dopo quasi un anno. Non voglio più sentir parlare di guerra. Versa un po' di vino, Jan Cheroot, e prendine anche tu.» Poi si rivolse a Zouga. «Tesoro, non possiamo lasciare Bulawayo e tornare qui?» Zouga scosse la testa con aria di rammarico. «Mi dispiace, amor mio. Non posso farti correre un simile rischio. La ribellione dei matabele non è finita, e questo posto è così isolato...» Da dietro la casa giunse lo starnazzare improvviso dei polli spaventati. Zouga s'interruppe e balzò in piedi. Tese la mano per riprendere il fucile appoggiato al muro e disse sottovoce, concitatamente: «Jan Cheroot, gira intorno alla scuderia. Io farò il giro dall'altra parte.» Poi a Louise: «Aspetta qui, ma tieniti pronta a correre ai cavalli se senti uno sparo.» I due uomini si allontanarono senza far rumore lungo la veranda. Zouga raggiunse l'angolo del muro sotto la camera da letto padronale mentre le galline ricominciavano a starnazzare e a sbattere le ali. Girò intorno all'angolo e corse lungo lo spesso muro che cingeva il cortile della cucina, acquattandosi accanto al cancello. Tra gli strilli delle galline terrorizzate e il frullo delle ali, sentì una voce gridare: «Tienila! Non lasciarla scappare!» La voce aveva parlato in sindebele, e quasi immediatamente una figura seminuda varcò correndo il cancello. Stringeva nelle mani due galline. Una sola cosa impedì a Zouga di sparare: le mammelle nude e pendule che sbattevano contro le costole della matabele. Colpì la donna tra le scapole con il calcio del fucile, stendendola a terra; la scavalcò d'un balzo e s'avventò nel cortile. Jan Cheroot era accanto alla porta della cucina. Con una mano stringeva il fucile e con l'altra tratteneva un ragazzetto negro, nudo, magro e scalciante. «Devo spaccargli la testa?» chiese Jan Cheroot. «Non fai più parte degli Scout di Ballantyne» disse Zouga. «Tienilo stretto ma non fargli male.» E si voltò a guardare la sua prigioniera. Era una matabele anziana e denutrita. Un tempo doveva essere stata molto grassa, perché la pelle le grondava addosso a pieghe e grinze, e le mammelle dovevano aver avuto le dimensioni di due cocomeri, ma adesso erano sacche vuote che penzolavano fin quasi all'ombelico. Zouga l'afferrò per il polso e la mise in piedi, la trascinò nel cortile. Sentiva le ossa del braccio attraverso la carne floscia. Jan Cheroot stava ancora trattenendo il ragazzetto, e Zouga lo studiò per un momento. Anche quello era magro e scheletrito: le costole e le vertebre spuntavano dalla pelle, e la testa sembrava troppo grossa per il corpo, gli occhi troppo grandi per la testa. «Il piccolo è denutrito» disse Zouga.
«Un modo come un altro per sbarazzarci di loro» disse Jan Cheroot, e in quel momento Louise apparve sulla soglia della cucina con il fucile ancora tra le mani, e la sua espressione cambiò nell'istante in cui vide la negra. «Juba» disse. «Sei tu, Juba?» «Oh, Balela» gemette la matabele. «Pensavo che non avrei più rivisto il sole del tuo volto.» «Questa, poi!» esclamò cupamente Zouga. «Abbiamo catturato due capi di selvaggina importanti, Jan Cheroot. La moglie principale del grande e nobile induna Gandank, e il cucciolo dev'essere suo nipote! Non li avevo riconosciuti, tanto sono allo stremo.» Tungata Zebiwe sedette sulle ginocchia ossute della nonna e cominciò a mangiare con la silenziosa frenesia e l'impegno totale di un animale famelico. Mangiò gli avanzi del pasticcio e poi ripulì il piatto di Zouga. Louise frugò nelle borse delle selle e trovò una scatoletta di carne, e il bambino mangiò anche quella, cacciandosi la carne nella bocca con tutte e due le mani. «Ma bravi» borbottò Jan Cheroot in tono acido. «Ingrassatelo adesso, così più tardi dovremo sparargli.» E se ne andò imbronciato a sellare i cavalli per tornare a Bulawayo. «Juba, Piccola Colomba» chiese Louise, «tutti i bambini sono ridotti così?» «I viveri sono finiti.» Juba annuì. «Tutti i bambini sono così, e alcuni dei più piccoli sono già morti.» «Juba, non è tempo che noi donne poniamo fine alla follia dei nostri uomini, prima che muoiano tutti i bambini?» «E' tempo, Balela» riconobbe Juba. «Prima che sia troppo tardi.» *** «Chi è questa donna?» chiese il signor Rhodes con quel tono acuto ed esasperato che tradiva l'agitazione, e scrutò Zouga. I suoi occhi erano ancora più sporgenti, come se una pressione li spingesse fuori del cranio. «E' la moglie principale di Gandank.» «Gandank... Non comandava l'impi che massacrò la pattuglia di Wilson sullo Shangani?» «Era un fratellastro di Lobengula. Con Babiaan e Somabula, è il più anziano di tutti gli induna.» «Penso che non ci sia niente da perdere a parlare con loro.» Rhodes alzò le spalle. «Questa faccenda ci distruggerà tutti se continuerà ancora a lungo. Dica a questa donna di portare un messaggio: gli induna devono deporre le armi e venire a Bulawayo.» «Mi dispiace, signor Rhodes» rispose Zouga. «Non lo faranno. Hanno tenuto un indaba tra le colline; tutti gli induna hanno parlato, e c'è un'unica possibilità.» «Quale, Ballantyne?» «Vogliono che vada lei da loro.» «Io... personalmente?» chiese Rhodes a voce bassa. «"Parleremo soltanto con Lodzi, e dovrà venire da noi disarmato. Dovrà venire nelle Matopos senza i soldati. Potrà portare con sé altri tre uomini, ma nessuno di loro dovrà avere un'arma, altrimenti li uccideremo".» Zouga ripeté il messaggio che Juba gli aveva portato dalle colline; e Rhodes chiuse gli occhi e li coprì con il palmo della mano. La voce era un ansito faticoso e Zouga stentò ad afferrare le sue parole. «In loro potere» disse. «Solo e disarmato, completamente in loro potere.» Rhodes lasciò ricadere la mano e si alzò. Si avviò a passo pesante all'apertura della tenda. Strinse le mani dietro la schiena e si dondolò sui tacchi. Fuori, nel rovente meriggio polveroso, una tromba suonava l'avanzata, e c'erano il rumore lontano di un drappello di cavalleria che lasciava il laager, lo scalpitio degli zoccoli e i tonfi delle impugnature delle lance nelle custodie di cuoio. Rhodes si girò di nuovo verso Zouga. «Possiamo fidarci di loro?» chiese. «Possiamo permetterci di non fidarci, signor Rhodes?» *** Lasciarono i cavalli nel luogo concordato, in una delle tante valli fra le colline di granito che s'impennavano in creste spezzate e precipitavano in gole profonde, simili alla risacca pietrificata di
una bufera atlantica. Da quel punto fu Zouga Ballantyne a fare da guida lungo lo stretto sentiero tortuoso che si snodava tra gli arbusti fitti; si muoveva lentamente e a intervalli di pochi passi si voltava a guardare la pesante figura irsuta che lo seguiva. Quando il sentiero cominciò a salire, Zouga si fermò e attese che Rhodes riprendesse fiato. La faccia di Rhodes era chiazzata di bluastro e coperta di sudore. Ma dopo pochi minuti accennò con impazienza a Zouga di proseguire. Rhodes era seguito dagli altri due accompagnatori, secondo gli accordi presi con gli inluna. Uno era un giornalista, dato che Rhodes aveva troppo il senso dello spettacolo per lasciarsi sfuggire un'occasione del genere; e l'altro era un medico, poiché si rendeva conto che gli assegai dei matabele non erano l'unico pericolo per lui in quel viaggio terribile. Il calore delle Matopos faceva danzare l'aria sopra le superfici di granito come se fossero piastre di una stufa a legna. Il silenzio era soffocante, quasi tangibile, e gli improvvisi, acuti richiami degli uccelli che l'infrangevano a intervalli di pochi minuti servivano solo a sottolinearne l'intensità. I cespugli fitti fiancheggiavano il sentiero, e a un certo punto Zouga vide un ramo vibrare e fremere quando non c'era brezza. Continuò a salire a passo misurato, come se guidasse una guardia d'onore a un funerale militare. Il sentiero svoltò all'improvviso in una fenditura verticale nel punto più alto della muraglia di granito: e Zouga attese di nuovo. Rhodes lo raggiunse, si appoggiò con la spalla contro il granito caldo e si asciugò il viso e il collo con un fazzoletto bianco. Per lunghi minuti non riuscì a parlare; poi chiese, ansimando: «Crede che verranno, Ballantyne?» Più in basso, nella valle, dove i cespugli erano più folti, un pettirosso lanciò il suo richiamo e Zouga inclinò la testa per ascoltare. Era un'imitazione quasi convincente. «Sono qui davanti a noi, signor Rhodes. Le colline brulicano di matabele.» Guardò negli occhi celesti, cercando una traccia di paura. Quando non la trovò mormorò, quasi intimidito: «E' un uomo molto coraggioso, signore.» «Un uomo pratico, Ballantyne.» Un sorriso contrasse il viso gonfio e devastato dal male. «Discutere è sempre meglio che combattere.» «Mi auguro che i matabele siano d'accordo.» Zouga ricambiò il sorriso, e si avventurarono nella spaccatura verticale nel granito. Passarono rapidamente dall'ombra alla luce del sole: sotto di loro si estendeva una conca. Era circondata da alti bastioni di pietra spezzata, e non offriva ripari. Zouga guardò la piccola valle circolare. Il suo istinto di soldato si ribellava. «E' una trappola» disse. «Una trappola senza vie d'uscita. «Scendiamo» disse Rhodes. Al centro del baciro c'era un basso formicaio, una piattaforma rialzata di dura argilla giallastra, e istintivamente il piccolo gruppo di bianchi si avviò in quella direzione. «Tanto vale metterci comodi» ansimò Rhodes, e sedette. Gli altri due accompagnatori sedettero ai due lati. Soltanto Zouga rimase in piedi. Sebbene conservasse un'espressione impassibile, si sentiva formicolare la pelle per il timore. Quello era il cuore delle Matopos, le Colline Sacre dei matabele, la roccaforte dove si sarebbero dimostrati più temerari e implacabili. Era una pazzia venire disarmati in quel luogo, alla mercé della tribù più selvaggia e sanguinaria d'un continente crudele.» Zouga stava immobile sui tacchi, scrutando la muraglia di roccia che li circondava. Non aveva ancora completato il giro quando disse a voce bassa: «Bene, signori. Eccoli!» Senza far rumore, senza un comando, gli impi si alzarono dai nascondigli e formarono una barricata vivente, profilata contro il cielo. Erano schierati a spalla a spalla, e circondavano completamente la valle. Era impossibile contarli, impossibile immaginare quanti fossero. Ma il silenzio perdurava come se i visitatori avessero le orecchie otturate con la cera. «Non muovetevi, signori» avvertì Zouga. Aspettarono sotto il sole. Attesero mentre gli impi silenziosi e impassibili montavano la guardia intorno a loro. Nessun uccello lanciava il suo richiamo, e neppure la brezza più lieve agitava la foresta di acconciature piumate e di gonnellini di pelliccia.
Finalmente le schiere si aprirono e avanzò un gruppo di uomini. I ranghi si chiusero dietro di loro. Il gruppo scese il sentiero. Erano i grandi principi dei kumalo, gli zanzi di sangue reale... ma com'erano ridotti. Erano tutti vecchi, con la brina degli anni che scintillava sui capelli lanosi e sulle barbe. Erano magri come cani randagi, i muscoli erano inariditi, e la pelle lasciava trasparire le vecchie ossa. Alcuni avevano bende intrise di sangue avvolte intorno alle ferite; gli arti e le facce di altri erano segnati dalle piaghe causate dalla fame e dalle privazioni. Li guidava Gandank e, un passo più indietro, venivano i suoi fratelli Babiaan e Somabula, e più indietro ancora altri figli di Mashobane, con le corone d'onore, armati degli assegai argentei e degli alti scudi di cuoio non conciato che avevano dato loro il nome di matabele, «il popolo dai lunghi scudi.» Quando fu a dieci passi da Zouga, Gandank si fermò, puntellando a terra lo scudo. I due uomini si guardarono negli occhi, pensando al giorno in cui s'erano incontrati per la prima volta, trenta e più anni addietro. «Ti vedo, Gandank, figlio di Mzilikazi» disse infine Zouga. «Ti vedo, Bakela, che colpisci con il pugno.» E alle spalle di Zouga il signor Rhodes ordinò in tono calmo: «Gli chieda se dovrà esservi guerra o pace.» Zouga non distolse lo sguardo da quello dell'induna emaciato. «Gli occhi sono ancora rossi per la guerra?» chiese. La risposta di Gandank fu un borbottio sordo ma giunse chiaramente a tutti gli induna che l'avevano seguito e salì verso le schiere dei guerrieri allineati sulle alture. «Di' a Lodzi che gli occhi sono bianchi» disse, e si chinò posando a terra lo scudo e l'assegai. *** Due matabele, coperti unicamente dai perizomi, spinsero il carrello d'acciaio lungo il binario a scartamento ridotto. Quando arrivarono all'estremità, uno dei due tolse il cavicchio, e il carrello si rovesciò e lasciò cadere cinque tonnellate di quarzo azzurro nello scivolo a imbuto. Il quarzo precipitò tra le sponde di legno, si ammassò sulla grata d'acciaio, e un'altra dozina di matabele si avventò con i magli da cinque chili, frantumandolo in modo che potesse piovere attraverso la grata verso i pistoni sottostanti. I pistoni erano di ghisa massiccia, il vapore sibilante li sospingeva su e giù in un ritmo monotono, e riducevano il minerale alla consistenza della polvere di talco. Il rombo dei pistoni era assordante. Un getto ininterrotto d'acqua, convogliato per mezzo di tubi dal fiumicello della valle, trascinava via quella polvere e la portava lungo i condotti di legno fino alle tavole di arricchimento. Sotto il capannone aperto, Harry Mellow stava accanto alla prima tavola e osservava l'afflusso dell'acqua fangosa sul pesante rivestimento di rame. Il piano era inclinato in modo che la fanghiglia priva di valore scorresse via, e le camme eccentriche muovevano delicatamente la tavola per spandere il flusso e fare in modo che ogni particella di minerale toccasse il piano rivestito. Harry chiuse la valvola a vite e dirottò il flusso del fango verso la tavola numero due. Poi azionò la leva e il movimento cessò. Harry levò gli occhi verso Ralph Ballantyne e Vicky che lo osservavano ansiosi e alzò il pollice per rassicurarli. Il fragore dei pistoni impediva di parlare. Poi Harry si chinò di nuovo verso la tavola. Il piano era rivestito d'uno strato di mercurio; con una grossa spatola, Harry incominciò a rimuoverlo dal rame e a plasmarlo in una pesante sfera scura. Una delle proprietà esclusive del mercurio consisteva nella capacità di raccogliere le particelle d'oro come la carta assorbente risucchia l'inchiostro. Quando Harry ebbe terminato, la sfera di amalgama di mercurio era grande il doppio d'una palla da base-ball e pesava quasi venti chili. Dovette usare entrambe le mani per sollevarla. La portò al rondavel dal tetto di paglia che fungeva da laboratorio e da raffineria della Miniera Harkness, e Ralph e Vicky lo seguirono nella stanza minuscola. Rimasero a guardare affascinati mentre la sfera di amalgama incominciava a sciogliersi e a gorgogliare entro la storta, sopra l'intensa fiamma azzurra del fornello.
«Facciamo evaporare il mercurio» spiegò Harry, «poi lo condensiamo di nuovo. Ed ecco quel che resta.» Il liquido argenteo ribollì, si ridusse di quantità, incominciò a cambiare colore. Scorsero la prima promessa giallorossiccia, il brillio che incanta gli umani da più di sei millenni. «Guardate!» Vicky batté le mani, emozionata. Scrollò i folti capelli color rame. I suoi occhi splendevano come per un riflesso del liquido prezioso. Il mercurio finì di evaporare e lasciò una pozza d'oro puro. «Oro» disse Ralph Ballantyne. «Il primo oro della Miniera Harkness.» Rovesciò all'indietro la testa e rise. Quel suono sorprese gli altri due. Non l'avevano sentito ridere da quando aveva lasciato Bulawayo. Li afferrò entrambi, Vicky con una mano, Harry con l'altra, e li trascinò fuori nel sole a passo di danza. Danzarono in cerchio e i due uomini gridarono, Ralph come un montanaro scozzese e Harry come un indiano delle pianure, mentre gli operai matabele smettevano di lavorare e li osservavano, dapprima con stupore, poi ridendo con loro. Vicky fu la prima a staccarsi, ansante, e si premette le mani sul ventre appena incurvato dalla gravidanza. «Siete matti!» rise. «Matti, tutti e due! E vi adoro!» *** Il miscuglio era metà e metà, argilla del fiume estratta dalle rive del Khami e creta gialla dei termitai, con le qualità adesive potenziate dalla saliva delle termiti che l'avevano portata alla superficie attraverso le gallerie sotterranee. Le argille furono ammucchiate in una fossa accanto al pozzo, il pozzo che Clinton Codrington, il primo marito di Robyn, e Jordan Ballantyne avevano scavato insieme molto tempo addietro, prima ancora che i pionieri della Charter Company si avventurassero nel Matabeleland. Due dei convertiti della missione estraevano i secchi dal pozzo e li versavano nella fossa, altri due vi spalavano l'argilla, e una dozzina di bambini negri e nudi, guidati da Robert St John, la calpestavano fino a darle la consistenza esatta, allegramente, come se fosse un gioco. Robyn St John aiutava a pressare l'argilla negli stampi rettangolari di legno, cinquanta centimetri per venticinque. In una lunga fila, i ragazzi e le ragazze della missione portavano via gli stampi pieni e rovesciavano cautamente i mattoni umidi sull'erba secca, poi tornavano indietro con gli stampi vuoti per farli riempire di nuovo. C'erano migliaia di mattoni gialli allineati sotto il sole; ma Robyn aveva calcolato che ne sarebbero stati necessari almeno ventimila soltanto per la nuova chiesa. E poi, naturalmente, avrebbero dovuto tagliare il legname e lavorarlo; e tra un mese l'erba del piano sarebbe stata abbastanza alta perché fosse possibile incominciare a tagliarla e farla seccare per usarla per i tetti. Robyn si raddrizzò, si premette la mano incrostata di fango sulle reni per alleviare l'indolenzimento dei muscoli. Una ciocca di capelli screziati di grigio era sfuggita dalla sciarpa che aveva annodato intorno alla testa. C'era una macchia di fango sulla guancia e sulla gola, ma i piccoli rivoli di sudore la erodevano e scendevano a macchiare il colletto della blusa. Guardò le rovine bruciate della missione; le travi carbonizzate erano crollate e le piogge intense dell'ultima stagione umida avevano sciolto i muri di mattoni crudi in una montagnola informe. Avrebbero dovuto posare di nuovo ogni mattone, e rimettere a posto ogni trave; e la prospettiva di quel lavoro sfibrante dava a Robyn St John un senso d'euforia profonda ed esaltante. Si sentiva giovane e viva come la giovane dottoressa missionaria che quasi quarant'anni prima s'era avventurata sullo spietato suolo africano. «Sia fatta la Tua volontà, o Signore» disse a voce alta, e la ragazza matabele che le stava accanto esclamò gioiosamente: «Amen, Nomusa!» Robyn le sorrise. Stava per chinarsi di nuovo sugli stampi dei mattoni quando trasalì, si schermò gli occhi, raccolse le gonne e scese verso il fiume, correndo come una ragazzina.
«Juba!» esclamò. «Dove sei stata? Ho atteso così a lungo che ritornassi.» Juba posò il pesante carico che reggeva in equilibrio sulla testa, e le andò incontro. «Nomusa!» Pianse, stringendola a sé. Le grosse lacrime le scorsero sulle guance e si mescolarono al sudore e al fango che macchiavano il viso di Robyn. «Non piangere, sciocca» la rimproverò Robyn amorevolmente. «Mi spaventi. Guarda come sei magra! Dovremo rimpinzarti a dovere. E questo chi è?» Il bambino negro che portava soltanto un perizoma sporco si fece avanti timidamente. «E' mio nipote, Tungata Zebiwe.» «Non lo riconoscevo. Com'è cresciuto.» «Nomusa, l'ho portato da te perché gli insegni a leggere e a scrivere.» «La prima cosa che dobbiamo fare è dargli un nome civile. Lo chiameremo Gideon e dimenticheremo quell'orribile nome che sa di vendetta.» «Gideon» ripeté Juba. «Gideon Kumalo. E gli insegnerai a scrivere?» «Prima abbiamo molto lavoro da fare» rispose Robyn con fermezza. «Gideon può andare a mescolare l'argilla con gli al tri bambini e tu mi aiuterai a riempire gli stampi. Dobbiamo ricominciare, Juba, dobbiamo ricostruire tutto.» *** «Ammiro la grandiosità solitaria delle Matopos, e perciò desidero essere sepolto nelle Matopos, sulla collina che visitavo spesso e che chiamavo "la Veduta del Mondo", in una fossa che dovrà essere scavata nella roccia della vetta e coperta da una semplice lastra di bronzo con queste parole: QUI GIACE CECIL JOHN RHODES.» E così, quando il cuore malato smise di battere, Rhodes tornò ancora una volta a Bulawayo con la ferrovia costruita da Ralph Ballantyne. La carrozza speciale che trasportava il feretro era parata di porpora e nero; e a ogni cittadina e a ogni scalo lungo il percorso coloro che in vita egli aveva chiamato «i miei rhodesiani» accorrevano a offrire ghirlande. Da Bulawayo la bara, issata su un affusto di cannone, fu portata nelle Matopos, e i buoi neri salirono lentamente verso la cupola tondeggiante di granito che aveva scelto. Al di sopra del sepolcro aperto stava un argano a treppiede, e tutt'intorno c'era una folla di gentiluomini eleganti, ufficiali in uniforme, signore con i nastri neri sui cappelli. Poi, più lontano, si estendeva un immenso mare nero di matabele seminudi: erano venuti in ventimila per vederlo seppellire. E alla loro testa c'erano gli induna che si erano incontrati con lui nei pressi di quella stessa collina per trattare la pace. C'erano Gandank e Babiaan e Somabula, e tutti erano molto vecchi. Accanto alla tomba c'erano gli uomini che li avevano sostituiti nella realtà del potere, gli amministratori della Charter Company, Milton e Lawley, e i membri del primo Consiglio Rhodesiano. Ralph Ballantyne era tra loro, e aveva al fianco la giovane moglie. Ralph conservò un'espressione solenne e tragica mentre il feretro veniva calato con le catene nella tomba spalancata e il vescovo leggeva il necrologio composto da Rudyard Kipling: Com'è suo desiderio ora egli guarda, oltre il mondo da lui conquistato, verso il granito dell'antico nord e i grandi spazi inondati di sole. Là rimarrà in paziente attesa, come quando la morte avea sfidato: attenderà che un popolo percorra le strade da lui audacemente aperte. Quando la pesante lastra di bronzo fu abbassata sulla tomba, Gandank uscì dalle file dei matabele e levò una mano. «Il padre è morto» gridò, e in un tuono che echeggiava come in una tempesta tropicale, la nazione matabele rese l'omaggio che non aveva mai dedicato a un bianco. «Bayete!» gridarono all'unisono. «Bayete!» Il saluto a un re. Le folle si dispersero lentamente, quasi con riluttanza. I matabele si dileguarono come fumo tra le valli delle Colline Sacre, e i bianchi discesero il sentiero che si snodava giù per la cupola di granito. Ralph aiutava Elizabeth sul terreno accidentato e le sorrideva. «Quell'uomo era un mascalzone, ma hai pianto per lui» disse scherzando.
«Era così commovente.» Elizabeth si asciugò gli occhi. «E quando Gandank ha...» «Sì. Era riuscito a ingannare tutti, anche coloro che aveva trascinato in cattività. Accidenti, è una fortuna che lo abbiano sepolto nella roccia e l'abbiano coperto con una lastra di bronzo, altrimenti avrebbe imbrogliato anche il diavolo e ne sarebbe uscito all'ultimo momento.» Ralph allontanò la moglie dalla fiumana di gente che percorreva il sentiero. «Ho detto a Isazi di portare la carrozza dietro la collina. Così non resteremo presi in mezzo alla ressa.» Sotto i loro piedi il granito era tinto dall'arancio vivo dei licheni, e le lucertole dalle teste azzurre correvano a rifugiarsi nei crepacci e poi li fissavano con le gole palpitanti e le creste erette. Ralph indugiò sulle pendici più basse della cupola, dove un msasa deforme aveva messo precariamente radici in un crepaccio, e si voltò a guardare la vetta. «E' morto, alla fine, ma la sua Compagnia continua a governarci. Ho ancora da fare, e sarà un lavoro che potrebbe richiedere tutto il resto della mia vita.» All'improvviso, stranamente, Ralph rabbrividì sebbene il sole brillasse caldissimo. «Che cosa c'è, caro?» Elizabeth si girò premurosa verso di lui. «Niente» disse Ralph. «Forse ho appena camminato sulla mia tomba.» Poi rise. «E' meglio che scendiamo, prima che Jon-Jon faccia ammattire completamente il povero Isazi.» Le prese il braccio e la guidò dove Isazi aveva fermato la carrozza all'ombra, e da una distanza di cento passi sentirono il pigolio delle domande di Jonathan, intervallate da richieste imperiose: «Uthint, Isazi? Cosa dici, Isazi?» E la risposta paziente: «Eh eh, Bawu. Sì, sì, Piccolo Tafano.» FINE DELLA PARTE PRIMA
PARTE SECONDA 1977 La Land Rover lasciò la strada asfaltata e, appena si immise sulla pista, la polvere chiara si sollevò turbinando sotto le ruote posteriori. Era un veicolo piuttosto vecchio, e la vernice color sabbia era scalfita e graffiata da rovi e rami fino a mostrare il metallo nudo. Le rocce e i sassi acuminati avevano sbocconcellato le gomme massicce. Le portiere e la cappotta erano state tolte e il parabrezza incrinato era ripiegato sul cofano, così che il vento investiva i due uomini sul sedile anteriore. Dietro le loro teste c'era la rastrelliera delle armi. I morsetti foderati di gommapiuma trattenevano un formidabile assortimento: due fucili FN semiautomatici, mimetizzati di verde e camoscio, un Uzi corto da 9 millimetri con il caricatore lunghissimo, pronto per l'uso immediato e, ancora chiuso nella custodia di tela, un pesante Colt Sauer «Grand African» che poteva stendere un elefante con uno solo dei suoi proiettili corazzati. Ai supporti erano appesi gli zaini con i caricatori di scorta e una borraccia di tela, che oscillavano ritmicamente a ogni sobbalzo della Land Rover. Clay Mellow guidava premendo l'acceleratore a tavoletta. Anche se la carrozzeria del veicolo sferragliava e sbatacchiava, egli curava sempre il motore personalmente, e l'ago del tachimetro toccava il fermo all'estremità del quadrante. C'è un solo modo per avventurarsi in un'imboscata: correre a tutta velocità. Attraversare il più presto possibile e tenere presente che di solito si estende per almeno mezzo chilometro. Anche a centocinquanta all'ora, si riceveva il fuoco per dodici secondi. E in dodici secondi un tiratore un po' svelto armato d'un AK 47 può vuotare tre caricatori da trenta colpi ciascuno. Sì, il sistema consisteva nel correre a tutta velocità... ma naturalmente una mina era una bestia d'una specie del tutto diversa. Quando ne caricavano una con dieci chili di plastico, spediva te e il tuo veicolo a quindici metri d'altezza e ti faceva uscire la spina dorsale attraverso la calotta cranica. E quindi, anche se Clay era assestato comodamente sul duro sedile di cuoio, scrutava attento la strada. A quell'ora del giorno era stato preceduto da altri mezzi, e cercava con gli occhi le tracce zigrinate nella polvere; ma stava attento a ogni ciuffo d'erba, a ogni vecchio pacchetto di sigarette e a ogni mucchietto di letame secco che poteva nascondere i segni d'una buca scavata in mezzo alla strada. Naturalmente, così vicino a Bulawayo aveva più da temere da un automobilista ubriaco che dall'attività dei terroristi, ma la prudenza non era mai troppa. Clay lanciò un'occhiata al passeggero e indicò con il pollice alle proprie spalle. L'uomo si girò sul sedile e frugò nella cassetta frigorifera. Tirò fuori due lattine di birra Lion coperte di gocce mentre Clay tornava a rivolgere l'attenzione alla strada. Clay Mellow aveva ventinove anni, anche se il ciuffo spettinato di capelli scuri, l'espressione innocente degli occhi castani e il taglio vulnerabile della bocca larga e mite gli davano l'aria di un bambino che attende da un momento all'altro una reprimenda immeritata. Sulla camicia cachi portava ancora le mostrine verdi ricamate di ranger del Dipartimento per la Tutela della Fauna e della Natura. Samson Kumalo, seduto accanto a lui, aprì le lattine di birra. Portava la stessa uniforme, ma era un matabele d'alta statura, con la fronte intelligente e il mento aguzzo ben rasato. Si piegò un attimo quando uno sprizzo di spuma volò dalle lattine, quindi ne porse una a Clay e ne tenne una per sé. Clay alzò la lattina a mo' di brindisi e trangugiò una sorsata, si leccò il labbro superiore e lanciò la Land Rover sulla strada tortuosa fra le colline di Khami. Prima che raggiungessero la cresta, Clay buttò la lattina vuota nel sacco di plastica appeso al cruscotto e rallentò in cerca della svolta. L'erba alta e gialla nascondeva il piccolo cartello scolorito. MISSIONE ANGLICANA DI KHAMI Abitazioni del personale, Strada senza uscita Era passato almeno un anno dall'ultima volta che Clay aveva fatto quella strada; quasi gli sfuggiva. «Ci siamo!» l'avvertì Samson, e Clay sterzò bruscamente sulla pista secondaria.
Si snodava nella foresta e sfociava all'improvviso nel lungo viale diritto e alberato che conduceva al villaggio del personale. I tronchi avevano lo spessore del torace di un uomo e i rami scuri s'intrecciavano in alto. All'inizio del viale, quasi nascosto dagli alberi e dall'erba alta, c'era un muretto imbiancato con un cancello di ferro battuto tutto rugginoso. Clay si fermò sul bordo della strada e spense il motore. «Perché ci siamo fermati proprio qui?» chiese Samson. Parlavano sempre in inglese quando erano soli, così come parlavano sempre in sindebele quando qualcuno li ascoltava; allo stesso modo Samson lo chiamava «Clay» in privato e «Nkosi» o «Mambo» nelle altre occasioni. Era un'intesa tacita fra loro, perché in quella terra torturata e dilaniata dalla guerra c'era chi aveva preso l'inglese fluente di Samson come il segno caratteristico dello «sfacciato ragazzo delle missioni» e chi nell'intimità fra i due aveva visto la prova che Clay era un individuo di dubbia lealtà, un latin lover. «Perché ci fermiamo nel vecchio cimitero?» ripeté Samson. «Tutta quella birra.» Clay smontò dalla Land Rover e si stirò. «Devo mettere in funzione le pompe.» Urinò contro la ruota anteriore; poi andò a sedersi sul muretto del cimitero e fece dondolare le lunghe gambe nude e brunite dal sole. Portava i calzoni corti cachi e le desert boots senza calzettoni, perché i semi uncinati dell'erbasaetta si agganciano alla lana. Clay guardò dall'alto i tetti della Missione di Khami, ai piedi delle colline boscose. Alcune delle costruzioni più vecchie, che risalivano al secolo precedente, erano ricoperte di paglia anche se la scuola nuova e l'ospedale avevano i tetti di tegole. Ma le file delle modeste abitazioni del complesso erano coperte da lastre di eternit ondulata e formavano una sgraziata macchia grigia accanto al verde ameno dei campi irrigati. Offendevano il senso estetico di Clay, che distolse gli occhi. «Avanti, Sam, muoviamoci...» Clay s'interruppe e aggrottò la fronte. «Cosa diavolo fai?» Samson aveva varcato il cancelletto di ferro battuto, era entrato nel recinto del cimitero e stava urinando con noncuranza su una delle lapidi. «Gesù, Sam, è una profanazione.» «Una vecchia abitudine di famiglia.» Samson si scosse e richiuse la lampo. «Me l'ha insegnato mio nonno Gideon» spiegò, passando al sindebele. «Bisogna dare acqua perché il fiore ricresca» disse. «E cosa diavolo vuol dire?» «L'uomo sepolto lì uccise una ragazza matabele che si chiamava Imbali, il Fiore» spiegò Samson. «Mio nonno piscia sempre sulla sua tomba quando passa di qui.» L'aria scandalizzata di Clay lasciò il posto alla curiosità. Saltò giù dal muretto e raggiunse Samson. Alla memoria del generale Mungo St John, ucciso durante la ribellione dei matabele nel 1896. Clay lesse a voce alta l'iscrizione: Non v'è amore più grande di quello di chi dà la propria vita per un altro. Marinaio intrepido, soldato valoroso, marito fedele e padre devoto. Sempre ricordato dalla vedova Robyn e dal figlio Robert. Clay si scostò con le dita i capelli dagli occhi. «A giudicare da quel che c'è scritto qui, era un uomo eccezionale.» «Era un assassino sanguinario... fu lui a provocare la rivolta.» «E' proprio vero?» Clay passò a un'altra tomba e lesse anche quell'iscrizione. Qui giacciono i resti mortali della dottoressa ROBYN ST JOHN, nata BALLANTYNE fondatrice della Missione di Khami. Lasciò questa vita il 16 aprile 1931 all'età di 94 anni. Bene hai fatto, buono e fedele servitore. Clay si voltò a guardare Samson. «Sai chi era?» «Mio nonno la chiama Nomusa, la Figlia della Misericordia. Era una delle persone migliori che siano mai esistite.» «Mai sentita nominare.» «Eppure avresti dovuto sentir parlare di lei; era la tua trisavola.» «Non mi sono mai curato molto della storia di famiglia. Mia madre e mio padre erano secondi cugini, ed è tutto quello che so. Mellow e Ballantyne per generazioni e
generazioni... non ci ho mai capito niente.» «"Un uomo senza passato è un uomo senza futuro"» citò Samson. «Sai una cosa, Sam? Qualche volta sei insopportabile. Clay sorrise. «Hai una risposta per tutto.» Proseguì lungo la fila di vecchie tombe. Alcune avevano lapidi elaborate, con colombe e gruppi d'angeli piangenti, omate da fiori finti sbiaditi sotto cupole di vetro trasparente. Altre erano coperte da semplici lastre di cemento con le scritte corrose e quasi illeggibili. Clay decifrava quelle ancora comprensibili. ROBERT ST JOHN, ANNI 54 FIGLIO DI CLINTON E ROBYN JUBA KUMALO, ANNI 83 VOLA, PICCOLA COLOMBA Poi si fermò, nel vedere il suo stesso cognome. VICTORIA MELLOW NATA CODRINGTON MORTA L'8 APRILE 1936 A 63 ANNI FIGLIA DI CLINTON E ROBYN, MOGLIE DI HAROLD «Ehi, Sam, se hai ragione a proposito degli altri, questa dev'essere la mia bisnonna.» C'era un ciuffo d'erba che spuntava da una crepa nella lapide, e Clay si chinò a strapparlo. E in quell'istante avvertì che c'era un legame tra lui e la polvere che giaceva sotto quella pietra: polvere che un tempo aveva riso e amato e partorito perché lui potesse vivere. «Ciao, nonna» mormorò. «Chissà com'eri. «Clay, è quasi l'una» l'interruppe Sam. «Va bene, vengo.» Ma Clay indugiò ancora per qualche attimo, trattenuto da una nostalgia inconsueta. «Lo chiederò a Bawu» decise, tornando alla Land Rover. Si fermò di nuovo davanti al primo cottage del villaggio. Il giardinetto era stato rastrellato da poco e le petunie fiorivano nei mastelli sulla veranda. «Ascolta, Sam» incominciò Clay, con aria un po' impacdata. «Non so cosa hai intenzione di fare. Potresti entrare nella polizia, come me. Forse sarebbe meglio, se fossimo di nuovo insieme.» «Forse» disse Sam, impassibile. «Oppure potrei dire a Bawu di trovarti un lavoro a King's Linn.» «Impiegato all'ufficio paghe?» chiese Sam. «Già, capisco.» Clay si grattò l'orecchio. «Comunque, è sempre qualcosa.» «Ci penserò» mormorò Sam. «Diavolo, mi dispiace, ma non eri obbligato a venire con me, lo sai. Potevi restare.» «No, dopo quello che ti hanno fatto.» Sam scosse la testa. «Grazie, Sam.» Per un po' rimasero in silenzio, poi Sam smontò e tirò giù la borsa dalla Land Rover. «Verrò a trovarti appena mi sarò sistemato. Qualcosa scoveremo» promise Clay. «Tieniti in contatto, Sam.» «Sicuro.» Sam tese la mano e se la strinsero. «Hamba gashle, va' in pace» disse Sam. «Shala gashle. Rimani in pace.» Clay avviò la Land Rover e ritornò indietro. Mentre percorreva il viale di spathodee, sbirciò nello specchietto retrovisivo. Sam era fermo in mezzo alla strada, con la borsa sulla spalla, e lo guardava allontanarsi. Clay provò un angoscioso senso di vuoto. Erano rimasti insieme per tanto tempo. «Qualcosa scoverò» ripeté, deciso. *** Clay rallentò in cima all'altura come faceva sempre, per godersi la prima veduta della casa: ma questa volta provò una piccola fitta di disappunto. Bawu aveva tolto il tetto di paglia e l'aveva sostituito con lastre di eternit ondulata. Era stato inevitabile, naturalmente: sarebbe bastato un razzo RPG-7 lanciato da lontano su quella paglia e l'intera costruzione sarebbe volata in aria come un fuoco d'artificio il 5 di novembre. Ma a Clay quel cambiamento dispiaceva, come dispiaceva la perdita dei bellissimi alberi di jacaranda. Erano stati piantati dal nonno di Bawu, il vecchio Zouga Ballantyne, che aveva costruito King's Linn all'inizio degli anni '90. In primavera la pioggia gentile dei petali azzurri aveva ancora ricoperto i prati; ma
erano stati abbattuti per aprire un campo di fuoco difensivo intorno alla casa, e adesso al loro posto stava la recinzione di sicurezza alta tre metri, fatta di rete metallica e di filo spinato. Clay scese con la Land Rover nella depressione poco profonda al di sotto della casa e si diresse verso il complesso di uffici, magazzini e officine dei trattori che Costituivano il cuore dell'immenso ranch. Non era ancora a metà della discesa quando una figura dinoccolata apparve sulla soglia dell'officina e restò a braccia conserte a guardarlo avvicinarsi. «Ciao, nonno.» Clay smontò dalla Land Rover e il vecchio aggrottò la fronte per nascondere la propria gioia. «Quante volte devo dirti di non chiamarmi così! Vuoi che la gente mi creda vecchio?» Jonathan Ballantyne era bruciato e inaridito dal sole, indurito come il biltong, la carne di selvaggina tagliata a strisce e seccata che costituiva una leccornia rhodesiana. Si aveva l'impressione che, se fosse stato ferito, dalla piaga sarebbe uscita segatura e non sangue: ma gli occhi erano ancora di un verde vivo e scintillante, i capelli bianchi e folti gli scendevano fin sul collo. I capelli erano una delle sue manie: li lavava ogni giorno e li spazzolava con un paio di spazzole d'argento che teneva sul comodino accanto al letto. «Scusa, Bawu.» Clay lo chiamò con il nome matabele, il Tafano, e gli prese la mano. Era tutta ossa, sotto la pelle fresca e asciutta, ma la stretta era sorprendentemente energica. «Ti sei fatto licenziare di nuovo» disse Jonathan in tono d'accusa. Portava la dentiera, ma gli stava benissimo e riempiva le guance scarne; si curava quei denti finti in modo che brillassero come i capelli e i baffi argentei. Era un'altra delle sue manie. «Ho dato le dimissioni» lo smentì Clay. «Ti hanno buttato fuori.» «Stavano per farlo» ammise Clay. «Ma li ho battuti sul tempo. Mi sono dimesso.» Clay non si stupiva che Jonathan fosse già informato della sua ultima disavventura. Nessuno sapeva con certezza quanti anni avesse Jonathan Ballantyne, e certuni gli attribuivano cent'anni, anche se Clay stimava che non arrivasse ai novanta: fatto sta che non gli sfuggiva mai nulla. «Puoi darmi un passaggio fino a casa.» Jonathan salì agilmente sul sedile del passeggero e incominciò a indicare soddisfatto le nuove aggiunte che aveva apportato alla difesa della casa. ««Ho messo altre venti Claymore sul prato.» Ognuna delle mine Claymore di Jonathan era costituita da dieci chili di esplosivo plastico stipato in un bidone di ferro montato su un treppiede di tubo metallico. E poteva farle deflagrare con un comando elettrico dalla sua camera da letto. Jonathan soffriva d'insonnia cronica, e Clay immaginava che passasse tutte le notti seduto con il dito sul pulsante, ad augurarsi che qualche terrorista gli capitasse a tiro. La guerra gli aveva allungato la vita di vent'anni. Non s'era più divertito tanto dalla prima battaglia della Somme, quando aveva ottenuto la sua prima Croce al Valor Militare in una splendida mattina d'autunno eliminando con le bombe a mano, una dopo l'altra, tre postazioni di mitragliatrici tedesche. Personalmente, Clay era convinto che la prima cosa che imparavano i guerriglieri dello ZIPRA, lo Zimbabwe People's Revolutionary Army, all'inizio dell'addestramento, era stare lontano il più possibile da King's Linn e dal vecchio pazzo che vi abitava. Mentre varcavano i cancelli della recinzione di sicurezza e venivano circondati da un temibile branco di rottweiler e di dobermann, Jonathan spiegò gli ultimi perfezionamenti del suo piano di battaglia. «Se arrivano girando dietro al kopje, li lascerò avanzare nel campo minato, poi li prenderò d'infilata...» Stava ancora spiegando a grandi gesti, quando salirono i gradini dell'ampia veranda, e concluse l'aggiornamento aggiungendo con aria misteriosa: «Ho appena inventato un'arma segreta. La collauderò domattina. Potrai vedere anche tu.» «Con piacere, Bawu.» Clay lo ringraziò, incerto. Gli ultimi collaudi di Jonathan avevano fatto esplodere le finestre delle cucine e ferito leggermente il cuoco matabele. Clay seguì il nonno lungo la veranda ombrosa. Il muro era ornato di trofei di caccia, corna di bufalo, di cudù e di antilopi alcine; e ai lati della porta a vetri a due battenti che conduceva nella vecchia sala da pranzo, ora trasformata in biblioteca, stavano un paio di enormi zanne d'elefante,
così lunghe e curve che le punte quasi s'incontravano all'altezza del soffitto, formando un arco. Mentre varcava la soglia, Jonathan ne accarezzò una, distrattamente. Sulla curva gialla c'era un punto reso lucido dal tocco delle dita nel corso dei decenni. «Versa il gin per tutti e due, ragazzo mio», ordinò. Jonathan aveva smesso di bere whisky il giorno in cui il governo di Harold Wilson aveva impOsto le sanzioni contro la Rhodesia. Era un tentativo di ritorsione, da parte di Jonathan, per danneggiare l'economia delle Isole Britanniche. «Per Dio, l'hai affogato» protestò Jonathan assaggiando l'intruglio; e Clay si affrettò a riportare il bicchiere al mobile bar e ad aggiungere un'altra dose di gin. «Così va un po' meglio.» Jonathan sedette alla scrivania e posò il bicchiere di cristallo al centro del sottomano di cuoio e ottone. «E ora» disse, «raccontami cos'è successo questa volta.» E fissò Clay con i luminosi occhi verdi. «Ecco, Bawu, è una storia lunga. Non voglio annoiarti.» Clay si assestò sulla poltrona di pelle e guardò con intenso interesse l'arredamento della stanza che conosceva fin dalla prima infanzia. Lesse i titoli sui dorsi dei volumi rilegati in marocchino e allineati sugli scaffali, studiò le innumerevoli coccarde di seta azzurra che i tori Afrikander di King's Linn avevano vinto a tutti i concorsi del bestiame a sud dello Zambesi. «Vuoi che ti dica quello che ho sentito? Hai rifiutato di obbedire a un ordine legittimo del tuo superiore, vale a dire il capo guardacaccia, e successivamente hai perpetrato un atto di violenza contro quel degno uomo, o per essere più precisi gli hai dato un pugno in faccia. E così gli hai offerto l'occasione per licenziarti, che probabilmente cercava con affanno dal primo giorno del tuo arrivo nel Parco.» «Quante esagerazioni.» «Non rivolgermi quel sorriso da ragazzino innocente, giovanotto. Non è una cosa da poco» disse Jonathan in tono severo. «Hai rifiutato di partecipare a un'operazione di sfoltimento degli elefanti, è vero o no?» «Hai mai partecipato a un'operazione di sfoltimento, Jon-Jon?» chiese Clay abbassando la voce. Chiamava il nonno con quel nomignolo solo nei momenti di profonda sincerità. «L'aereo da ricognizione avvista un branco, diciamo cinquanta animali, e ci guida via radio. Noi percorriamo a piedi, di corsa, l'ultimo chilometro e mezzo. Ci avviciniamo a una decina di passi e spariamo dal basso in alto. Usiamo i corazzati per ucciderTi. Scegliamo le vecchie regine del branco, perché gli animali più giovani le amano e le rispettano al punto che non vogliono abbandonarle. Colpiamo per prime le regine, alla testa, naturalmente, così abbiamo tutto il tempo per massacrare gli altri. Ormai abbiamo imparato alla perfezione. Li stendiamo così in fretta che dopo debbono intervenire i trattori. E restano i più piccoli. E' interessante osservare un piccolo elefante che cerca di sollevare con la proboscide la madre morta.» «E' necessario, Clay» disse Jonathan senza alzare la voce. I parchi sono sovraffollati da migliaia di animali.» Ma Clay non mostrò di averlo sentito. «Se gli orfani sono troppo giovani per sopravvivere, uccidiamo anche quelli. Ma se sono dell'età adatta, li rastrelliamo e li vendiamo a un simpatico vecchio che li porta via e li rivende a uno zoo a Tokyo o ad Amsterdam, dove staranno dietro le sbarre con una catena intorno a una zampa e mangeranno le noccioline lanciate dai turisti.» «E' necessario» ripeté Jonathan. «Lui prendeva bustarelle dai venditori di animali» disse Clay. «Quindi avevamo l'ordine di lasciare orfani così giovani che avevano appena cinquanta probabilità su cento di sopravvivere. Andavamo in cercadi branchi con un'alta percentuale di piccoli. E lui prendeva le bustarelle.» «Chi? Non ti riferirai a Tomkins, il capo guardiano?» esclamò Jonathan. «Sì., proprio a Tomkins.» Clay si alzò e prese i due bicchieri per andare a riempirli di nuovo. «Hai le prove?» «Non ne ho, naturalmente» rispose irritato Clay. «Se le avessi, le avrei portate al ministro.» «Quindi ti sei rifiutato di partecipare all'operazione.» Clay si lasciò cadere di nuovo sulla poltrona, allungò le gambe. I capelli gli spiovevano sugli occhi. «Non è tutto. Rubano l'avorio, in queste operazioni. Dovremmo risparmiare i grossi maschi, ma Tomkins ha ordinato di sparare a tutti gli esemplari con zanne vistose, e poi le zanne scompaiono.» «Immagino che non avrai le prove neppure di questo» dìsse Jonathan in tono asciutto. «Ho visto l'elicottero che andava a portarle via.» «E hai la sigla?» «Era mascherata.» Clay scosse la testa. «Ma era un apparecchio militare. E' tutto organizzato.» «Così hai preso a pugni
Tomkins?» «E' stato magnifico» disse Clay in tono sognante. «Era finito a quattro zampe e cercava di raccogliere i suoi denti sparsi sul pavimento dell'ufficio. Non ho capito che cosa avesse intenzione di farne.» «Clay, ragazzo mio, che cosa speravi di ottenere? Credi che basterà a fermarli, anche se i tuoi sospetti sono fondati?» «No, ma mi sono sentito molto meglio. Quegli elefanti sono quasi umani. Gli ero molto affezionato.» Per un po' rimasero entrambi in silenzio, poi Jonathan sospirò. «Quanti lavori hai fatto fino a oggi, Clay?» «Non ho tenuto il conto, Bawu.» «Non posso credere che qualcuno con il sangue dei Ballantyne nelle vene sia completamente privo di talento o di ambizione. Cristo, figliolo, noi Ballantyne siamo vincitori nati.iGuarda Douglas, guarda Roland...» «Io sono un Mellow, Ballantyne solo per metà.» «Sì, immagino che questo possa spiegarlo. Tuo nonno sperperò la sua parte della Miniera Harkness, e così quando tuo padre sposò la mia Jean era quasi un poveraccio. Buon Dio, al giorno d'oggi quelle azioni varrebbero dieci milioni di sterline.» «Fu durante la grande depressione degli anni '30... Molti persero il loro denaro in quel periodo.» «Noi no... noi Ballantyne no.» Clay alzò le spalle. «No, i Ballantyne raddoppiarono il loro patrimonio durante la depressione.» «Siamo vincitori» ripeté Jonathan. «Ma cosa sarà di te, adesso? Conosci la mia regola: da me non avrai più un soldo.» «Sì, conosco la regola, Jon-Jon.» «Vuoi provare a lavorare di nuovo qui? L'ultima volta non è andata molto bene, vero?» «Sei un vecchio bastardo impossibile» disse affettuosamente Clay. «Ti voglio bene, ma preferirei lavorare per Idi Amin piuttosto che tentare di lavorare di nuovo per te.» Jonathan aveva un'aria profondamente soddisfatta. Un'altra delle sue manie consisteva nell'immaginarsi duro, implacabile e spietato. Si sarebbe sentito offeso profondamente se qualcuno lo avesse definito generoso. Le cospicue donazioni anonime che faceva a ogni organizzazione assistenziale, meritevole o no, erano sempre accompagnate da minacciose intimazioni di non rivelare la sua identità. «Dunque, stavolta che cosa hai intenzione di fare?» «Be', durante il servizio militare mi sono specializzato come armiere, e c'è un posto libero nella polizia. Secondo me, finirò per essere richiamato comunque; perciò, tanto vale che li preceda e mi arruoli.» «La polizia» mormorò Jonathan. «Ha un vantaggio; è una delle poche cose che non avevi ancora tentato. Dammi un altro drink.» Mentre Clay versava il gin and tonic, Jonathan assunse l'espressione più feroce per nascondere l'imbarazzo e ringhiò: «Sta' a sentire, figliolo; se proprio sei a corto di quattrini, per una volta farò uno strappo alla regola e ti darò qualcosa per aiutarti a superare il momento difficile. Ma si tratta di un prestito, sia chiaro.» «Sei molto gentile, Bawu, ma una regola è una regola.» «Io l'ho fatta, io posso cambiarla.» Jonathan lo guardò minacciosamente. «Quanto ti occorre?» «Sai quei vecchi libri che t'interessavano?» mormorò Clay mentre posava di nuovo il bicchiere davanti al nonno. Negli occhi di Jonathan apparve un'espressione astuta che cercò invano di nascondere. «Quali libri?» chiese con simulata innocenza. «I vecchi diari.» «Oh, quelli!» Istintivamente, Jonathan lanciò un'occhiata agli scaffali accanto alla scrivania dov'era allineata la sua collezione di diari di famiglia. Risalivano fino a più di cento anni prima, dall'arrivo in Africa di suo nonno Zouga Ballantyne nel 1860 fìno alla morte di suo padre Sir Ralph Ballantyne nel 1929: ma la sequenza era interrotta dalla mancanza di alcuni anni, tre volumi che erano passati al ramo della famiglia cui apparteneva Clay, attraverso il vecchio Harry Mellow, che era stato il socio e il più caro amico di Sir Ralph. Per uno spirito di contraddizione che non sapeva spiegarsi, Clay aveva resistito finora alle lusinghe del vecchio, ai suoi tentativi di ottenere quei diari. Probabilmente perché rappresentavano la sua unica leva nei confronti di Jonathan, Clay aveva sempre resistito fin da quando ne era entrato in possesso al compimento del ventunesimo anno... gli unici oggetti di valore ereditati dal padre morto ormai da parecchio tempo. «Sì, quelli.» Clay annuì. «Pensavo che potrei cederteli.» «Devi trovarti in gravi difficoltà.» Il vecchio cercò di non lasciar trasparire la soddisfazione. «Ancor più del solito» ammise Clay.
«Butti sempre via tutto quello che...» «D'accordo, Bawu. Ne abbiamo già parlato.» Clay si affrettò a interromperlo. «Li vuoi?» «Quanto?» chiese insospettito Jonathan. «L'ultima volta mi hai offerto mille a volume. «Dovevo essere rimbecillito.» «E da allora c'è stata un'inflazione del cento per cento...» Jonathan amava mercanteggiare, perché esaltava l'immagine dell'uomo duro e implacabile che aveva di se stesso. Clay calcolava che quell'uomo valesse una decina di milioni di sterline. Era padrone di King's Linn e di altri quattro ranch. Era proprietario della Miniera Harkness, che dopo ottant'anni di produzione dava ancora cinquantamila once d'oro l'anno, e aveva altre ricchezze fuori di quel paese assediato, prudentemente depositate nel corso degli anni a Johannesburg, Londra e New York. Dieci milioni erano probabilmente una stima modesta, pensò Clay, e decise di mercanteggiare con lo stesso accanimento del vecchio. Finalmente si accordarono su una cifra e Jonathan borbottò: «Valgono la metà.» «Ci sono altre due condizioni, Bawu» disse Clay, e subito Jonathan tornò a insospettirsi. «Prima condizione: me li lascerai nel testamento... tutti i diari di Zouga Ballantyne e di Sir Ralph, tutti.» «Roland e Douglas...» «A loro andranno King's Linn, l'Harkness e tutto il resto... Me l'hai detto da un pezzo.» «Verìssimo» borbottò Jonathan. «Loro non butteranno tutto dalla finestra come faresti tu.» «Possono tenerseli.» Clay sorrise, disinvolto. «Loro sono Ballantyne come dici. Ma io voglio i diari.» «E la seconda condizione?» chiese Jonathan. «Voglio avervi accesso subito.» «Cosa significa?» «Voglio avere la possibilità di leggerli e studiarli quando mi pare.» «Diavolo, Clay, non te ne sei mai interessato. Non credo che tu abbia neppure letto i tre volumi che hai.» «Li ho sfogliati» ammise Clay con l'aria di vergognarsene un po'. «E adesso?» «Stamattina sono passato dalla vecchia Missione di Khami, il vecchio cimitero. C'era una tomba, Victoria Mellow...» Jonathan annuì. «La zia Vicky, la moglie di Harry. Continua.» «Ho avuto una sensazione stranissima. Come se mi parlasse.» Clay si tirò il ciuffo che gli cadeva sugli occhi e non trovò il coraggio di guardare il nonno. «Così, all'improvviso mi è venuta l'idea di scoprirne di più sul conto suo e degli altri.» Rimasero per un po' in silenzio, poi Jonathan annuì. «D'accordo, ragazzo mio, accetto le tue condizioni. Un giorno tutti quei diari saranno tuoi, e nel frattempo potrai leggerli quando vorrai.» Jonathan s'era sentito raramente soddisfatto come per quell'accordo. Dopo trent'anni aveva completato la serie; e se il ragazzo aveva davvero l'intenzione di leggerli, gli aveva trovato la sistemazione migliore. Dio lo sapeva: Douglas e Roland non se ne interessavano, e nel frattempo i diari potevano servire ad attirare più spesso Clay a King's Linn. Compilò l'assegno e lo firmò con uno svolazzo mentre Clay andava alla Land Rover a prendere i tre manoscritti rilegati in pelle che stavano nella borsa. «Immagino che spenderai tutto per quella barca» disse Jonathan in tono d'accusa, quando lo vide rientrare dalla veranda. «In parte» ammise Clay, posando i libri sul tavolo. «Sei un sognatore.» Jonathan gli allungò l'assegno. «A volte preferisco i sogni alla realtà.» Clay controllò in fretta la cifra, poi ripose l'assegno nel taschino. «Questo è il tuo guaio» disse Jonathan. «Bawu, se hai intenzione di ricominciare con le prediche, me ne torno subito in città» Jonathan alzò le mani in segno di resa. «D'accordo» disse ridacchiando. «La tua vecchia stanza è ancora come l'hai lasciata, se ti interessa.» «Lunedi ho un appuntamento con l'ufficiale reclutatore della polizia; ma resterò per il fine settimana, se a te va bene.» «Stasera telefonerò a Trevor e sistemerò quel colloquio.» Trevor Pennington era il vicecommissario della polizia. Jonathan preferiva incominciare dall'alto.
«Vorrei che non lo facessi, Jon-Jon.» «Non dire scemenze», scattò Jonathan. «Devi imparare ad approfittare di tutti i vantaggi, ragazzo mio. La vita funziona così.» Jonathan prese il primo dei tre volumi manoscritti e l'accarezzò avidamente con le dita brune e nodose. «Adesso puoi lasciarmi solo per un po'» ordinò, inforcando gli occhiali da lettura. «A Queen's Linn stanno giocando a tennis. Ci vediamo qui per bere qualcosa al tramonto.» Clay si voltò a guardarlo dalla soglia: Jonathan Ballantyne era già curvo sul volume, sulle annotazioni d'inchiostro giallastro e sbiadito che lo riportavano ai tempi della sua infanzia. *** Sebbene confinasse con King's Linn per un tratto di quasi dodici chilometri, Queen's Linn era un ranch separato. Jonathan Ballantyne l'aveva aggiunto alle sue proprietà durante la grande depressione degli anni '30, pagandolo un ventesimo del valore effettivo. Adesso formava la parte orientale della Rholands Ranching Company. E là abitavano l'unico figlio superstite di Jonathan, Douglas Ballantyne, e sua moglie Valerie. Douglas era anche il direttore della Rholands e della Miniera Harkness, e in più era ministro dell'Agricoltura nel governo di Ian Smith; e con un po' di fortuna poteva darsi che fosse via per qualche misterioso impegno governativo o di lavoro. Una volta Douglas Ballantyne aveva detto francamente a Clay cosa pensava di lui. «In fondo sei un hippy, Clay. Dovresti tagliarti i capelli e svegliarti. Non puoi continuare a cincischiare per tutta la vita e pretendere che Bawu e il resto della famiglia provvedano a te in eterno.» Clay fece una smorfia al ricordo mentre passava davanti ai recinti di Queen's Linn e aspirava il tanfo ammoniacale del letame bovino. Le enormi bestie di razza Afrikander erano di un rosso-cioccolato scuro; i tori avevano la gobba, e le giogaie pendenti quasi sfioravano la terra. Era una razza che aveva reso famoso il bestiame rhodesiano quasi quanto i bovini marezzati cobo. Nella sua qualità di ministro dell'Agricoltura, Douglas Ballantyne aveva il compito di fare in modo che, nonostante le sanzioni, il mondo non venisse privato di quella squisitezza. Per arrivare sui tavoli dei grandi ristoranti, la carne passava per Johannesburg e Città del Capo, dove ovviamente cambiava denominazione; ma gli intenditori la riconoscevano e la chiedevano con il suo «nome di battaglia» e probabilmente si sentivano solleticati all'idea di assaggiare qualcosa di proibito. Anche il tabacco, il nichelio, il rame e l'oro della Rhodesia passavano per la stessa strada, mentre la benzina e il gasolio compivano il percorso in senso inverso. Uno degli adesivi che si vedevano più spesso sui paraurti delle macchine diceva semplicemente: GRAZIE SUDAFRICA. Al di là dei recinti e dell'ufficio veterinario, protetti dalla rete metallica e dal filo spinato, si estendevano i prati verdi, le bordure di cespugli fioriti e gli sfolgoranti alberi dei paternostri dei giardini di Queen's Linn. Le finestre erano protette da reti antigranata e prima del tramonto i servitori abbassavano le imposte d'acciaio antiproiettile: ma qui le difese non erano state create con la stessa soddisfazione che Bawu aveva messo in mostra a King's Linn, e si inserivano nell'ambiente elegante senza dare nell'occhio. La splendida, vecchia casa era sempre quella che Clay ricordava da prima della guerra: mattoni rosati e ampie verande fresche. Gli alberi di jacaranda che orlavano l'ampio viale erano in fiore, simili a un banco di eterea nebbia azzurra; e sotto di quelli erano parcheggiate almeno due dozzine di macchine, Mercedes e Jaguar, Cadillac e BMW, con la vernice velata dalla polvere rossa del Matabeleland. Clay nascose la veneranda Land Rover dietro un intrico di bouganville rosse e violacee per non rovinare il tono di un sabato a Queen's Linn. Per abitudine, mise in spalla un fucile FN e girò intorno alla casa. *** Da più avanti giungevano i suoni delle voci dei bambini, gaie come canti di uccelli, e i rimproveri affettuosi delle governanti negre, punteggiati dai secchi poc poc che venivano dai campi da tennis.
Clay si soffermò all'inizio dei prati digradanti. I bambini si rincorrevano in cerchio come cuccioli sull'erba verde. Più vicini ai campi di argilla gialla, i loro genitori erano stesi sui plaid o seduti intorno ai tavolini bianchi, sotto gli ombrelloni colorati. Erano uomini e donne giovani e abbronzati in tenuta da tennis, che bevevano tè o birra negli alti bicchieri appannati e lanciavano commenti e consigli ai giocatori. L'unica nota incongrua era rappresentata dalla fila di pistole mitragliatrici e di fucili automatici accanto ai servizi da tè in argento e alle ciambelle con la panna. Qualcuno riconobbe Clay e gli gridò: «Ciao, Clay, è un pezzo che non ti facevi vedere» e altri lo salutarono agitando la mano, ma c'era una vaga sfumatura di condiscendenza nel trattamento riservato al parente povero. Erano le famiglie dai grandi patrimoni, un circolo chiuso di ricchi nel quale, nonostante la loro cordialità, Clay non avrebbe mai avuto pieno diritto di cittadinanza. Valerie Ballantyne gli venne incontro, snella e aggraziata nel gonnellino bianco da tennis. «Clay, sei magro come uno stecco.» Clay ispirava sempre sentimenti materni in tutte le donne tra gli otto e gli ottant'anni. «Ciao, zia Val.» Lei gli porse la guancia liscia e profumata di violetta. Nonostante la sua aria delicata, Valerie era presidentessa del Women's Institute, faceva parte delle commissioni di una dozzina di scuole, enti assistenziali e ospedali ed era una perfetta padrona di casa. «Lo zio Douglas è a Salisbury. Smithy l'ha chiamato ieri. Gli dispiacerà non averti visto.» Valerie gli prese il braccio. «Come sta il Dipartimento della Fauna?» «Probabilmente sopravvivrà senza di me.» «Oh, no, Clay! Ancora?» «Purtroppo sì, zia Val.» In quel momento Clay non aveva molta voglia di mettersi a discutere di lavoro. «Ti dispiace se prendo una birra?» C'era un gruppo di uomini intorno al lungo tavolo a cavalletti che fungeva da bar. Il gruppo si aprì per lasciarlo passare, ma la conversazione ritornò subito all'ultimo raid che le forze rhodesiane avevano compiuto nel Mozambico. «Ve l'assicuro. quando siamo piombati nell'accampamento c'erano ancora le pentole sul fuoco. Abbiamo preso qualche sbandato, ma gli altri erano stati avvertiti.» «Bill ha ragione; me l'ha detto un colonnello del servizio segreto, non faccio nomi, ma c'è una gravissima falla nella sicutezza. C'è un traditore vicino al vertice e i terroristi vengono avvisati anche con dieci ore d'anticipo.» «Non abbiamo più fatto un colpo grosso dallo scorso agosto, quando ne abbiamo presi seicento.» Gli eterni discorsi di guerra annoiavano Clay. Cominciò a sorseggiare la birra e a seguire la partita sul campo più vicino. Era un incontro di doppio misto, e in quel momento i giocatori si stavano scambiando il campo. Roland Ballantyne girò intorno alla rete circondando con un braccio la vita della compagna. Rideva, e i denti spiccavano candidi e regolari nel viso abbronzato. Gli occhi avevano il caratteristico verde dei Ballantyne, il verde di una crème de menthe in un bicchiere di cristallo; e i capelli corti erano folti e ondulati, schiariti dal sole in sfumature biondo-miele. Si muoveva con l'andatura pigra d'un leopardo, e la superba forma fisica, requisito indispensabile degli Scout, era evidente nei muscoli degli avambracci e delle gambe nude. Aveva solo un anno più di Clay, ma la sua sicurezza dava sempre a quest'ultimo la sensazione d'essere goffo e sprovveduto. Una volta Clay aveva sentito una ragazza che ammirava molto, una ragazza solitamente scettica e poco impressionabile, affermare che Roland Ballantyne era lo stallone più splendido in circolazione. Roland lo vide e agitò la racchetta. «To', ecco Clay!» esclamò, e poi disse qualcosa alla ragazza. Lei rise e guartò Clay. Clay avvertì una stretta alla bocca dello stomaco che gli saliva alla gola come le increspature d'un sasso lanciato in uno stagno tranquillo. La fissò impietrito, incapace di distoglierle gli occhi dal viso. La ragazza smise di ridere, ricambiò il suo sguardo ancora per un momento, poi si svincolò tal braccio di Roland e raggiunse la linea di fondo facendo rimbalzare leggermente la palla sulla racchetta; e Clay ebbe la certezza che le sue guance erano diventate un poco più rosee di prima. Non riusciva ancora a staccare gli occhi da lei. Era la cosa più perfetta che avesse mai visto. Era alta: arrivava quasi alla spalla di Roland, che era uno e novanta. I capelli erano tagliati in un lucido
caschetto di riccioli che cambiavano colore nel gioco dei raggi del sole e passavano dall'iridescenza brunita dell'ossidiana al ricco splendore scuro d'un nobile vino di Borgogna osservato alla luce d'una candela. Il viso era un poco squadrato, e il mento aveva una linea decisa, quasi ostinata; ma la bocca era larga, tenera e ilare. Gli occhi erano distanti e tagliati obliquamente, quasi al punto di dare l'impressione di un lievissimo strabismo che le conferiva un'aria vulnerabile. Ma quando guardò Roland, gli occhi assunsero un brillio malizioso. «Distruggiamoli, partner» esclamò, e il tono armonioso della voce fece accapponare la pelle a Clay. La ragazza girò le spalle e i fianchi, lanciò in alto la palla, si sollevò in punta di piedi e la colpì. La racchetta vibrò sonoramente, la palla sfrecciò al di sopra della rete e fece sprizzare un po' di gesso bianco dalla linea centrale. Lei attraversò il campo con passi svelti ed eleganti e ribatté al volo la risposta. Tirò la palla nell'angolo e lanciò un'occhiata a Clay. «Bel colpo!» gridò Clay, con una voce che gli rimbombò nell'orecchio, e un sorrisino soddisfatto increspò gli angoli della bocca della ragazza. Si voltò e si chinò per recuperare una palla persa. Dava la schiena a Clay e teneva i piedi un po' allargati. Non piegò le ginocchia. Le gambe erano lunghe e affusolate, e quando il gonnellino pieghettato si sollevò, Clay ebbe una visione fuggevole di un paio di mutandine di pizzo e di due glutei sodi e simmetrici che gli ricordavano due uova di struzzo nel sole del Kalahari. Clay abbassò gli occhi con aria colpevole, come se fosse stato sorpreso a fare il guardone. Si sentiva stordito e stranamente sfiatato. S'impose di non guardare più il campo; ma il cuore gli martellava come al termine d'una corsa campestre, e la conversazione che si svolgeva intorno a lui sembrava in una lingua straniera o trasmessa da una radio difettosa. Non aveva senso. Gli sembrò che fossero trascorse diverse ore quando un braccio muscoloso gli si posò intorno alle spalle e la voce di Roland gli risuonò all'orecchio. «Hai l'aria di star bene, vecchio mio.» Finalmente Clay si,decise a guardarsi intorno. «I terroristi non ti hanno ancora fatto fuori, Roly?» «No, Sonny.» Roland l'abbracciò. «Permettimi di presentarti a una ragazza che mi ama.» Soltanto Roland riusciva a far apparire spiritosa e sofisticata una frase del genere. «Questa è Bugsy. Bugsy, questo è il mio cugino preferito, Clay, il famoso maniaco sessuale.» «Bugsy?» Clay guardò gli occhi stranamente obliqui. «Non ti si addice.» Si accorse che gli occhi non erano neri, ma di un blu indaco. «Janine» disse lei. «Janine Carpenter.» Tese la mano. Era sottile, calda, sudata. Clay non avrebbe voluto lasciarla più. «Ti avevo avvertito.» Roland rise. «Smettila di molestare la ragazza e vieni a fare un set con me, Sonny.» «Non sono attrezzato.» «Ti occorrono soltanto le scarpe. Abbiamo la stessa misura, manderò un servitore a prenderne un paio.» *** Clay non giocava da più di un anno, e sembrava che quel periodo di riposo gli avesse fatto benissimo. Non aveva mai giocato così bene. La palla schizzava via dal punto più dolce della racchetta, così veloce e pulita da dargli la sensazione di averla mancata, e l'effetto la portava sulla linea di fondo, esattamente come una calamita. Effettuava senza fatica tiri passanti a destra e a sinistra, e poi batteva la palla così corta da lasciare Roland arenato a metà campo. Metteva dentro primi servizi che sfioravano la linea, ribatteva tiri che normalmente non avrebbe cercato d'inseguire, poi si precipitava a rete e neutralizzava i migliori diritti di Roland. Era così entusiasta, così preso dalla meravigliosa, inconsueta sensazione di potenza e d'invincibilità, da non accorgersi neppure che il torrente di chiacchiere disinvolte di Roland Ballantyne s'era inaridito da un pezzo...
fino a quando vinse un altro game e Roland disse: «Cinque a zero.» Qualcosa, in quel tono, colpì finalmente Clay. Per la prima volta da quando avevano incominciato a giocare guardò veramente la faccia di Roland. Era rossa e gonfia, e i denti erano così contratti che i muscoli formavano groppi sotto gli orecchi. Gli occhi erano di un verde feroce; era pericoloso come un leopardo ferito. Clay distolse gli occhi mentre cambiavano campo, e si accorse che la loro partita aveva affascinato tutti. Anche le signore più anziane avevano lasciato i tavoli da tè e si erano avvicinate alla recinzione. Vide la zia Val con un sorrisetto nervoso sulle labbra: lei riconosceva l'umore del figlio in base all'esperienza. Clay vide le espressioni soddisfatte degli uomini. Roland era stato riserva della squadra di Oxford, e per tre anni consecutivi era stato campione di singolare del Matabeleland. Gli spettatori si stavano divertendo quanto s'era divertito Clay fino a quel momento. All'improvviso Clay si sgomentò del proprio successo. Non aveva mai battuto Roland in niente, in nessun genere di confronto, neppure a Monopoli o alle freccette, in ventinove anni. L'elasticità e la forza gli defluirono dalle gambe. Si piantò sulla linea di fondo e si sentì ridiventare un ragazzo dinoccolato con i calzoncini cachi stinti e le scarpe da tennis senza calze. Deglutì, avvilito, si scostò i capelli dagli occhi, e si acquattò per rispondere al servizio. Roland Ballantyne, al di là della rete, era una figura alta e atletica. Guardava minacciosamente Clay. Clay sapeva che non vedeva lui: vedeva un avversario, qualcosa da annientare. «Noi Ballantyne siamo vincitori nati» aveva detto Bawu. «Abbiamo l'istinto di azzannare alla giugulare.» Assurdamente, Roland parve diventare ancora più alto. E servì. Clay cominciò a muoversi verso sinistra, si accorse che era il lato sbagliato e tentò di cambiare. Inciampò e finì lungo disteso sul terriccio giallo. Si rialzò, recuperò la racchetta e si spostò. Aveva una macchia sanguinante sul ginocchio. Il secondo servizio di Roland fu un ace: Clay non riuscì neppure a sfiorare la palla con la racchetta. Quando venne il suo turno, tirò una palla in rete e sbagliò la seconda. Roland gli tolse il servizio per tre volte consecutive e continuò così. «Match point» disse Roland. Aveva ripreso a sorridere, allegro, bello e gioviale mentre faceva rimbalzare la palla ai suoi piedi e si preparava a battere l'ultimo servizio. Clay sentiva il vecchio peso plumbeo nelle membra, la disperazione di chi è nato perdente. Lanciò un'occhiata sui bordi del campo. Janine Carpenter lo guardava: e nell'attimo prima che gli rivolgesse un sorriso incoraggiante Clay lesse la pietà negli occhi d'indaco scuro, e fu sopraffatto dalla collera. Ribatté a due mani il servizio di Roland, e rimandò la palla con la stessa potenza. Tirò un cross di diritto, e Roland rispose con un gran sorriso. Clay prese di nuovo la palla perfettamente, e Roland fu costretto a un pallonetto. Clay era lì sotto, pronto e infuriato, e colpì con tutta la sua forza e tutta la disperazione. Fu il suo colpo migliore. Poi non aveva più niente da dare. Roland bloccò la palla sul rimbalzo prima che potesse salire, la lanciò oltre il fianco destro di Clay mentre questi era ancora sbilanciato dalla potenza del suo stesso tiro. Roland rise e scavalcò agilmente la rete. «Niente male, Sonny.» Passò il braccio intorno alle spalle di Clay. «D'ora in poi, starò attento a non lasciarti vantaggi iniziali» disse, guidandolo fuori del campo. Quelli che pochi minuti prima avevano sorriso pregustando un'umiliazione di Roland lo attorniarono servilmente. «Bella partita, Roly.» «Bravissimo.» Clay si allontanò senza dare nell'occhio. Prese dal mucchio una salvietta pulita e si asciugò il collo e la faccia. Andò al bar deserto, cercando di nascondere l'avvilimento, e pescò una birra sotto una montagna di ghiaccio tritato. Ne trangugiò un sorso: era così amara da appannargli gli occhi. Attraverso le lacri me si accorse all'improvviso che Janine Carpenter era lì accanto..
«Avresti potuto farcela» disse lei a voce bassa. «Ma hai rinunciato.» «E' la storia della mia vita.» Clay si sforzò di assumere un tono allegro e spiritoso, come Roland; ma la voce aveva un suono d'autocommiserazione. Janine sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi scosse la testa e si allontanò. *** Clay usò la doccia di Roland, e quando uscì con l'asciugamani intorno ai fianchi, Roland stava davanti al grande specchio e regolava l'angolazione del basco. Il basco era marrone scuro, con un distintivo di bronzo Sopra l'orecchio sinistro. Il distintivo era una testa umana con la fronte da gorilla e il naso schiacciato. Gli occhi erano grottescamente strabuzzati e la lingua sporgeva tra le labbra negroidi, come la maschera maori di un idolo guerriero. «Quando il vecchio bisnonno Ralph reclutava gli Scout durante la ribellione» aveva spiegato una volta Roland a Clay, «una delle sue imprese più famose fu catturare il capo dei rivoltosi e impiccarlo a un'acacia. Noi l'abbiamo scelto come l'emblema del reggimento: la testa di Bazo. Ti piace?» «Magnifico» aveva risposto Clay. «Hai sempre avuto gusti squisiti, Roly.» Roland aveva creato gli Scout tre anni prima, quando la guerriglia sporadica dei primi tempi aveva cominciato a intensificarsi fino a diventare lo spietato conflitto intestino ancora in corso. La sua idea iniziale era stata radunare un contingente di giovani rhodesiani bianchi che sapessero parlare correntemente il sindebele, e rafforzarlo con giovani matabele che avessero lavorato fin dall'infanzia con i bianchi e fossero di una lealtà indiscussa. La sua intenzione era addestrare insieme bianchi e neri, formando una forza scelta in grado di muoversi facilmente nelle aree tribali, fra i contadini, di parlare la loro lingua e di capire le loro abitudini, di calarsi a volontà nei panni di individui comuni o di terroristi dello ZIPRA, di affrontare il nemico al confine, piombargli addosso dal cielo e attaccarlo nelle condizioni più favorevoli. Era andato a parlare con il generale Peter Walls al comando supremo delle Forze Armate. Naturalmente Bawu aveva fatto le solite telefonate per spianargli la strada, e lo zio Douglas aveva accennato a qualcosa con Smithy durante una riunione del governo. Avevano autorizzato Roland a procedere, e così gli Scout di Ballantyne erano rinati settant'anni dopo lo scioglimento della prima organizzazione. In quei tre anni, gli Scout di Ballantyne erano entrati nella leggenda. Seicento uomini ai quali era stata accreditata ufficialmente l'uccisione di duemila nemici; uomini che si erano addentrati oltre confine nello Zambia per ottocento chilometri per colpire un campo d'addestramento dello ZIPRA; uomini che s'erano seduti intorno ai fuochi dei villaggi nelle terre tribali ad ascoltare le chiacchiere delle donne che avevano appena portato ceste di grano alle squadre di terroristi tra le colline; uomini che avevano teso imboscate e le avevano mantenute per cinque giorni, seppellendo i propri escrementi e aspettando pazienti e immobili come un leopardo accanto all'abbeverata per colpire un'altra preda. Roland si staccò dallo specchio quando Clay entrò nella stanza. Aveva sulle spalle i gradi di colonnello, e sul cuore la croce d'argento era fissata sotto la piastrina alla camicia color cachi perfettamente stirata. «Prendi pure quel che ti occorre, Sonny» invitò, e Clay aprì l'armadio a muro e scelse un paio di calzoni di flanella e un maglione da cricket, bianco con i colori dell'Orid College intorno allo scollo. Indossare gli abiti smessi di Roland gli dava davvero la sensazione di essere tornato a casa. Era sempre indietro di un anno rispetto a lui. «La mamma mi ha detto che ti hanno licenziato di nuovo.» «E' vero.» La voce di Clay era soffocata dal maglione che stava infilando. «Per te c'è sempre posto negli Scout.» «Roly, non mi va l'idea di passare una corda da pianoforte intorno al collo di qualcuno e di staccargli la testa.» «Non lo facciamo tutti i giorni» rispose Roland con un sorriso.
«Personalmente preferisco il coltello: puoi usarlo anche per affettare il biltong quando non sei in giro a tagliar gole. Scherzi a parte, Sonny, ci saresti utile. Parli la lingua come uno di loro, e sei un mago con gli esplosivi.» «Quando ho lasciato King's Linn ho giurato che non avrei più lavorato per uno della famiglia.» «Gli Scout non sono di famiglia.» «Tu sei gli Scout, Roly.» Potrei farti precettare, lo sai?» «Non servirebbe a niente.» «No» ammise Roland. «Sei sempre stato un testone. «e, se cambi idea, fammelo sapere.» Estrasse per metà una sigaretta dal pacchetto floscio e finì di estrarla tenendola fra le labbra. «Cosa pensi di Bugsy?» La sigaretta ondeggiò mentre formulava la domanda e faceva scattare il Ronson d'oro. «Mi pare che sia a posto» disse Clay, cautamente. «Tutto qui?» protestò Roland. «Prova a dire che è magnifica, sensazionale, meravigliosa, supergrande... assumi toni lirici, perché stai parlando della donna che amo.» «Il numero mille e dieci nell'elenco delle donne che hai amato» lo corresse Clay. «Calma, vecchio mio. Questa me la sposo.» Clay si sentì assalire da una sensazione di freddo e si voltò per pettinarsi i capelli bagnati davanti allo specchio. «Hai sentito che cosa ho detto? La sposerò.» «Lei lo sa?» «La lascerò maturare un pochino prima di dirglielo. «Prima di chiederglielo, immagino.» «Il vecchio Roly certe cose le dice, non le chiede. A questo punto tu dovresti esclamare: "Congratulazioni, spero che sarai molto felice".» «Congratulazioni. Spero che sarai molto felice.» «Ecco, bravo. Vieni, ti offro da bere.» Si avviarono per il lungo corridoio centrale che bisecava la casa; ma prima che raggiungessero la veranda il telefono squillò nell'atrio, e sentirono la voce della zia Val. «Vado a chiamarlo. Resti in linea, prego.» E poi, più forte: «Roland, caro, c'è Ghepardo per te.» Ghepardo era il nome convenzionale della base degli Scout. «Vengo, mamma.» Roland entrò nell'atrio e Clay lo sentì dire: «Ballantyne.» Poi, dopo un breve silenzio: «Sicuri che sia proprio lui? Cristo, è l'occasione che aspettavamo. L'elicottero sta già arrivando? Bene! Tendete la rete intorno al posto, ma non muovetevi prima del mio arrivo. Voglio farlo io.» Quando tornò nel corridoio era trasformato. Aveva la stessa espressione con cui aveva guardato Clay attraverso la rete del campo da tennis: fredda, pericolosa, spietata. «Puoi accompagnare Bugsy in città, Sonny? Noi doWiamo andare.» «Ci penso io.» Roland uscì sulla veranda. Gli ultimi invitati si stavano avviando verso le automobili, richiamavano i figli e le bambinaie, si gridavano saluti e inviti per la settimana prossima. Un tempo, una riunione come quella non si sarebbe sciolta prima di mezzanotte; ma adesso nessuno percorreva le strade di campagna dopo le quattro del pomeriggio, la nuova ora delle streghe. Janine Carpenter stava salutando una coppia che viveva in un ranch viCino. «Verrei con molto piacere» disse, e poi alzò gli occhi e notò l'espressione di Roland. Si affrettò a raggiungerlo. «Cos'è successo?» «Dobbiamo andare. Sonny ti accompagnerà. Ti telefonerò più tardi.» Roland scrutava il cielo, già remoto e distaccato. E all'improvviso arrivò il rombo sferzante delle pale dell'elicottero, e l'apparecchio comparve a bassa quota sopra il kopje. Era dipinto di marrone opaco, e c'erano due Scout in piedi accanto al portellone aperto, uno bianco e uno negro, tutti e due mimetizzati e armati. Roland scese correndo incontro all'elicottero che stava per posarsi; e prima che toccasse il suolo spiccò un salto per afferrarsi al sergente matabele, e balzò a bordo. Mentre l'elicottero s'innalzava e puntava verso il kopje, Clay scorse Roland per l'ultima volta. Aveva già sostituito il basco con un berretto a visiera, e il sergente lo aiutava a indossare la giubba mimetica. «Roly mi ha detto di accompagnarti a casa. Immagino che abiti a Bulawayo» disse Clay, mentre l'elicottero scompariva e il suono dei rotori si smorzava. Janine rivolse di nuovo l'attenzione a lui con un certo sforzo. «Sì, a Bulawayo, grazie.» «Non ce la faremo questa sera, prima dell'ora delle imboscate. Io contavo di fermarmi a casa di mio nonno.» «Bawu?» «Lo conosci?» «No, ma mi piacerebbe. Roly mi ha raccontato tante cose incredibili di lui.
Pensi che ci sarebbe un letto anche per me?» «A King's Linn ci sono ventidue letti.» Janine sedette al suo fianco a bordo della vecchia Land Rover, e il vento le fece svolazzare i capelli. «Perché lui ti chiama Bugsy?» Clay dovette alzare la voce per farsi sentire nel rombo del motore. «Sono entomologa» gridò Janine. «Sai, mi occupo d'insetti, familiarmente detti bugs.» «Dove lavori?» L'aria fresca della sera le incollava la camicetta al torace, ed era evidente che non portava reggiseno. Le mammelle'erano piccole e perfettamente modellate e il freddo faceva spiccare i capezzoli scuri sotto la stoffa sottile. Era difficile non fissarli. «Al museo. Sapevi che abbiamo la più splendida collezione di insetti tropicali e subtropicali esistente al mondo, migliore di quelle dello Smithsonian e del museo di storia naturale di Kensington?» «Complimenti.» «Scusami. Ti sto annoiando?» «No, certo.» Janine sorrise con gratitudine ma cambiò argomento. «Da quanto conosci Roland?» «Da ventinove anni.» «Quanti anni hai?» «Ventinove.» «Parlami di lui.» «Cosa si può dire di qualcuno che è perfetto?» «Prova a pensare qualcosa» lo incoraggiò Janine. «Era il primo della classe alla Michaelhouse. Capitano della squadra di rugby e di cricket. Una borsa di studio Rhodes a Oxford, all'Oriel College. Vincitore del campionato di canottaggio e di cricket, secondo classificato nel campionato di tennis, colonnello degli Scout, croce d'argento al valore, erede di venti milioni di dollari e più. Sai, le solite cose.» Clay alzò le spalle. «Non ti è simpatico» disse lei in tono d'accusa. «Gli sono affezionato» rispose Clay. «A modo mio.» «Preferisci non parlare più di lui?» «Preferirei parlare di te.» «Mi sta bene. Che cosa vuoi sapere?» Clay desiderava vederla sorridere di nuovo. «Incomincia dal momento della tua nascita e non omettere niente.» «Sono nata in un paesino dello Yorkshire. Mio padre è il veterinario.» «Quando? Ti ho pregato di non lasciar fuori nulla.» Janine socchiuse gli occhi maliziosamente. «Qual'è l'espressione locale per indicare una data indeterminata... prima della rinderpest?» «La rinderpest fu negli anni '90.» «Bene.» Janine tornò a sorridere. «Sono nata qualche tempo dopo la rinderpest.» Funzionava, pensò Clay. Lo trovava simpatico. Sorrideva più facilmente e la loro conversazione era spensierata e disinvolta. Forse era soltanto uno scherzo dell'immaginazione: ma a Clay pareva di percepire una certa sensualità nel suo atteggiamento, nel modo in cui teneva la testa e muoveva il corpo, nel modo in cui... Poi all'improvviso pensò a Roland e provò il tocco gelido della disperazione. Jonathan Ballantyne uscì sulla veranda di King's Linn, diede un'occhiata a Janine e adottò immediatamente il ruolo di arzillo dongiovanni. Le baciò la mano. «E' la ragazza più carina che Clay abbia mai scovato, sì, di gran lunga la più carina.» Lo spirito di contraddizione spinse Clay a smentire. «Janine è amica di Roly, Bawu.» «Ah.» Il vecchio annuì. «Avrei dovuto immaginarlo. Troppa classe per i tuoi gusti, figliolo.» Il matrimonio di Clay era durato un po' più a lungo dei suoi impieghi, qualcosa di più di un anno; ma Bawu non aveva approvato la scelta, l'aveva detto prima del matrimonio e dopo, prima del divorzio e dopo... e in ogni possibile occasione. «Grazie, signor Ballantyne.» Janine guardò Jonathan e socchiuse gli occhi. «Può chiamarmi Bawu.» Era il massimo delle concessioni, per Jonathan. Le offrì il braccio e disse: «Venga a vedere le mie mine Claymore, mia cara.» Clay li seguì con gli occhi mentre si avviavano per fare il giro delle difese: un altro segno sicuro dell'approvazione di Bawu. «Ha sepolto tre mogli là sul kopje» mormorò malinconicamente Clay. «Ed è ancora arrapato come un vecchio caprone.» ***
Clay si svegliò quando la porta della camera da letto cigolò sui cardini e Jonathan Ballantyne gli gridò: «Hai intenzione di dormire tutto il giorno? Sono già le quattro e mezzo.» «Solo perché tu non dormi da vent'anni, Bawu...» «Basta con queste impertinenze, figliolo... Oggi è il gran giorno. Chiama quella graziosa puledrina di Roland, e andremo tutti a collaudare la mia arma segreta.» «Prima di colazione?» protestò Clay. Ma il vecchio se n'era già andato, emozionato come un bambino invitato a un picnic. Era parcheggiata a distanza di sicurezza dalla costruzione più vicina. Il cuoco aveva minacciato di dare le dimissioni se ci fossero stati altri esperimenti nei pressi della sua cucina. Era sul bordo di un campo di mais da semente quasi maturo, ed era circondata da una piccola folla di operai, trattoristi e impiegati. «Cosa diavolo è?» chiese perplessa Janine mentre attraversavano i campi arati; ma prima che qualcuno potesse rispondere, un uomo dalla bisunta tuta blu si staccò dalla folla e venne loro incontro a passo svelto. «Signor Clay, grazie al cielo c'è lei. Deve assolutamente fermarlo.» «Non fare l'idiota, Okky» ordinò Jonathan. Okky van Rensbùrg era da vent'anni il capomeccanico di King's Linn. Quando non era presente, Jonathan giurava che Okky era capace di smontare un trattore John Deere e di usarne i pezzi per costruire una Cadillac e due Rolls Royce Silver Cloud. Era un uomo piccolo, magro e solido, tutto impiastricciato di grasso. Ignorò l'intimazione di Jonathan. «Bawu si ammazzerà, se qualcuno non lo ferma.» E si torse penosamente le mani sfregiate e annerite. Ma Jonathan aveva già messo l'elmetto e stava fissando il sottogola. Era lo stesso elmetto che aveva portato in quel lontano giorno del 1916 in cui aveva guadagnato la Croce al valor militare, e l'ammaccatura laterale era stata prodotta da una scheggia di shrapnel tedesco. C'era una luce diabolica nei suoi occhi mentre si avvicinava al veicolo mostruoso. «Okky ha convertito un camion Ford da tre tonnellate» spiegò a Janine. «Ha sollevato lo chassis...» E Il corpo del veicolo sembrava montato su trampoli, alto sulle gomme enormi. «Ha piazzato i deflettori qui...» Jonathan indicò le pesanti lastre d'acciaio a forma di «V» sotto il camion, che avrebbero disperso e attutito l'esplosione di eventuali mine. «Ha blindato la cabina...» La carrozzeria sembrava quella d'un carro armato Tigre, con le botole d'acciaio, la feritoia per il pilota e quella per una mitragliatrice pesante Browning. «Ma guardi cosa c'e qui sopra!» A prima vista poteva sembrare la torretta di un sottomarino nucleare. E Okky continuava a torcersi le mani. «Ha venti tubi d'acciaio galvanizzato, pieni di esplosivo plastico e di dodici chili di bilie metalliche ciascuno.» «Buon Dio, Bawu!» Persino Clay era inorridito. «Esploderanno!» «Li ha messi dentro blocchi di cemento» gemette Okky, «e li ha puntati verso l'esterno, sulle due fiancate, come i cannoni di una nave di Nelson. Dieci per parte.» «Un Ford da venti cannoni» mormorò sbalordito Clay. «Quando incappo in un'imboscata, non devo far altro che premere un pulsante e... bum! Una bordata di centoventi chili di bilie d'acciaio investe quei bastardi.» Jonathan era raggiante. «Una piccola scarica a mitraglia, come diceva il vecchio Bonaparte.» «Salterà in aria» gemette Okky. «Piantala di frignare come una vecchia comare» disse Jonathan. «E aiutami a salire.» «Bawu, questa volta sono d'accordo con Okky.» Clay tentò di fermarlo, ma il vecchio si arrampicò sulla scaletta metallica con l'agilità d'una scimmia e si piazzò teatralmente, affacciato alla botola come il comandante d'una divisione di panzer. «Sparerò ùna bordata alla volta, prima da dritta.» Poi girò gli occhi su Janine. «Le piacerebbe farmi da secondo pilota, mia cara?» «E' davvero molto gentile, Bawu, ma credo che potrò vedere meglio da quel canaletto per l'irrigazione.» «Allora tiratevi indietro, tutti quanti.» Jonathan fece un gesto imperioso, e gli operai e i trattoristi matabele che avevano assistito al precedente esperimento fuggirono come una brigata di fanti egiziani durante la Guerra dei Sei Giorni. Alcuni stavano ancora correndo quando superarono il dosso del kopje.
Okky raggiunse il canale per l'irrigazione precedendo Clay e Janine di mezza dozzina di passi; poi tutti e tre sporsero cautamente la testa dal riparo. A trecento metri di distanza, il grottesco Ford stava isolato come un monumento in mezzo al terreno arato. Jonathan si sbracciò per salutarli allegramente dal portello, e sparì. Si tapparono le orecchie e attesero. Non successe niente. «Gli è mancato il coraggio» disse speranzoso Clay, e in quel momento la botola tornò ad aprirsi. Jonathan si riaffacciò, rosso in viso per l'indignazione. «Okky, figlio d'un cane, hai staccato i fili!» ruggì. «Sei licenziato. Hai capito? Licenziato!» «E' la terza volta che mi licenzia, questa settimana» borbottò stizzito Okky. «Era l'unico modo per fermarlo.» «Abbia pazienza, mia cara.» Jonathan si rivolgeva a Janine. «Li ricollegherò in un attimo.» «Non si preoccupi per me, Bawu» gridò di riinando Janine, ma lui era sparito di nuovo. I minuti passavano con lentezza esasperante, e a poco a poco le speranze rinacquero. «Non funziona.» «Andiamo a tirarlo fuori.» «Bawu, ora veniamo a prenderti!» Clay si portò le mani attorno alla bocca e ruggì: «Arrenditi senza fare storie!» Uscì piano dal fossatello, e in quel momento il Ford blindato sparì in una gigantesca nube turbinante di fumo e di polvere. Una lingua di fiamma bianca lambì il mais, lo falciò come la lama di una mostruosa mietitrebbiatrice, e poi furono invesiti da un'ondata di fragore così terribile che Clay perse l'equilibrio e ricadde nel fossatello addosso agli altri due. Si dibatterono freneticamente per districarsi, poi tornarono a guardare intimoriti verso il campo arato. Il silenzio terribile era spezzato soltanto dal ronzio che echeggiava nelle loro orecchie e dai guaiti sempre più lontani dei ferocissimi rottweiler e dei dobermann del vecchio che scappavano in preda al panico lungo la strada e verso casa. Il campo era nascosto da una fitta cortina di fumo azzurrQ e di polvere rosso-bruna. Uscirono dal canaletto e scrutarono la polvere e il fumo mentre la brezza li disperdeva dolcemente. Il Ford era rovesciato. Le quattro ruote massicce erano puntate verso il cielo, come in segno di resa. «Bawu!» gridò Clay, accorrendo. Le bocche dei cannoncini vomitavano ancora ghirlande di fumo oleoso, ma non c'erano altri movimenti. Clay si buttò sulla botola d'acciaio, la sollevò, entrò strisciando. L'interno era buio, ammorbato dall'odore acre dell'esplosivo bruciato. «Bawu!» Lo trovò accasciato in fondo alla cabina, e pareva allo stremo: la faccia era stravolta, la voce un borbottio incomprensibile. Lo prese tra le braccia e cercò di trascinarlo verso il portel lo; ma il vecchio resistette con energia disperata, e finalmente Clay capì cosa stava dicendo. «I miei denti, maledizione, mi ha fatto schizzar via i denti!» S'era buttato di nuovo carponi e cercava come un disperato. «Non posso lasciare che mi vedano così, trovali, ragazzo, trovali.» Clay ritrovò la dentiera sotto il sedile di guida; e quando l'ebbe rimessa al suo posto, Jonathan si precipitò fuori della botola e incominciò a insolentire Okky van Rensburg. «L'avevi appesantito troppo in alto, vecchio idiota pasticcione.» «Non può parlarmi così, Bawu. Non lavoro più per lei. Mi ha licenziato.» «Sei riassunto» muggì Jonathan. «E adesso raddrizza quel coso!» Cantilenando e sudando, venti matabele raddrizzarono piano piano il Ford, che finalmente ricadde di nuovo sulle quattro ruote. «Sembra una banana» commentò Okky con ovvia soddisfazione. «Il rinculo dei suoi cannoni lo ha quasi piegato in due. Non riuscirà più a riassestare lo chassis.» «C'è un solo modo per riassestarlo» annunciò Jonathan, tornando ad allacciarsi il sottogola dell'elmetto. «Cos'hai intenzione di fare, Jon-Jon?» chiese ansioso Clay. «Sparare l'altra bordata, naturalmente» rispose Jonathan in tono deciso. «Lo rimetterà in sesto.» Ma Clay gli afferrò un braccio, Okky gli afferrò l'altro, e Janine mormorò parole suadenti per distrarlo mentre lo conducevano verso la Land Rover. ***
«Prova a immaginare Bawu che allunga la mano verso l'accendino e sbaglia pulsante mentre percorre Main Street» rise Clay. «E spara una bordata di quel genere contro l'entrata del municipio.» Continuarono a riderne durante il tragitto fino in città; e mentre passavano davanti ai bellissimi prati dei giardini municipali, Clay propose con disinvoltura: «La domenica sera a Bulavvayo c'è da morire di esaurimento nervoso per il troppo spasso. Permettimi di prepararti una delle mie famose cene a bordo dello yacht, così te lo risparmierai.» «Lo yacht?» Janine s'incuriosì. «Qui? A duemilaquattrocento chilometri dall'acqua salata più vicina?» «Non dirò altro» dichiarò Clay. «O vieni con me, o sarai eternamente divorata dalla curiosità insoddisfatta.» «Un destino peggiore della morte» ammise Janine. «E sono sempre stata un buon marinaio. Andiamo!» Clay prese la strada dell'aeroporto; ma prima di lasciare la zona abitata, svoltò in uno dei quartieri più vecchi della città. Fra due cottage in rovina c'era uno spiazzo vuoto, isolato dalla strada dal verde folto d'un filare di manghi. Clay parcheggiò la Land Rover sotto uno degli alberi e guidò Janine in una giungla disordinata di bougainvillee e di acacie, fino a quando lei si fermò di colpo ed esclamò: «Non scherzavi. E un vero yacht.» «Più vero di così non si può» riconobbe Clay in tono d'orgoglio. «Progettato da Livranos, tredici metri e mezzo fuori tutto, e ogni tavola è stata posata con le mie mani.» «Clay, è bellissimo!» «Lo sarà un giorno, quando lo finirò.» L'imbarcazione stava su un'invasatura di legno, puntellata da pali. La chiglia profonda e lo scafo oceanico facevano sì che i candelieri d'acciaio inossidabile del ponte si trovassero quattro metri e mezzo al di sopra della tèsta di Janine, quando corse avanti incuriosita. «Come faccio a salire?» «C'è una scaletta dall'altra parte.» Janine si arrampicò in coperta e gridò dall'alto: «Come si chiama?» «Non ha ancora un nome.» Clay la raggiunse nel pozzetto. «Quando lo varerai, Clay?» «Dio solo lo sa» rispose lui con un sorriso. «C'è ancora una montagna di lavoro da fare, e ogni volta che resto a corto di quattrini tutto si ferma.» Aprì le mezze porte; nel momento in cui le fissava, Janine si affrettò a scendere. «E' molto intimo.» «Io vivo qui.» Clay scese in saletta e lasciò cadere la borsa. «Ho finito l'interno. Là c'è la cambusa. Due cabine, ognuna con cuccetta doppia, la doccia e la toilette chimica.» «E' bellissimo» ripeté Janine, passando le dita sul teak verniciato e collaudando l'elasticità delle cuccette. «Sempre meglio che pagare l'affitto» ammise Clay. «Cosa resta ancora da fare?» «Non molto... motori, argani, sartiame, vele, circa ventimila dollari in tutto. Comunque, ho appena estorto quasi la metà della somma a Bawu.» Clay mise in funzione il frigo a gas, poi scelse un nastro e lo collocò nel registratore. Janine ascoltò per qualche istante i suoni liquidi del pianoforte, poi chìese: «Ludwig van B., ovviamente? «Ovviamente. Chi, se no?» Poi, in tono un po' meno sicuro, lei chiese: «La Patetica?» «Oh, bravissima» sorrise Clay mentre prendeva da un armadietto una bottiglia di Zonnebipem Riesling. «E l'artiste?» «Oh, andiamo!» «Prova a indovinare.» «Kentner?» «Non male, ma è Pressler.» Janine fece una smorfia mortificata, e Clay stappò la bottiglia e riempì per metà i bicchieri del vino dorato. «Alla tua, piccola.» Janine bevve un sorso e mormorò: «Mmm! E' buono». «La cena!» Clay cominciò a frugare nell'armadietto. «Riso e scatolame. Le patate e le cipolle sono qui da tre mesi e stanno mettendo i germogli.» «Macrobiotica» disse lei. «Fa bene alla salute. Posso aiutarti?» Lavorarono allegramente a spalla a spalla nella minuscola cambusa; e ogni volta che si muovevano, si sfioravano. Janine aveva un profumo di saponetta, e quando Clay la guardava dall'alto, i capelli ricciuti erano così fitti e lucidi da dargli l'impulso quasi irresistibile di affondarvi il viso. Invece andò in cerca di un'altra bottiglia di vino. Vuotò quattro scatole diverse nella pentola, tagliò le cipolle e le patate, versò anche quelle, e aggiunse la polvere di curry. Servì il tutto sul riso.
«Delizioso» dichiarò Janine. «Come si chiama?» «Non fare domande imbarazzanti.» «Quando varerai la barca, dove la farai navigare?» Clay tese la mano sopra la testa di Janine e tirò giù dal ripiano una carta e un portolano dell'Oceano Indiano. «Ecco.» Indicò una posizione sulla carta nautica. «Ora siamo ancorati in una caletta isolata, in una delle Seicelle. Se guardi dall'oblò vedrai le palme e la spiaggia più bianca dello zucchero. Sotto di noi l'acqua è così trasparente che sembra di galleggiare nell'aria.» Janine guardò dall'oblò. «Sai una cosa... è vero! Ci sono le palme, e sento suonare le chitarre.» Quando ebbero finito di mangiare spinsero da parte i piatti e studiarono i manuali e le carte. «E poi? Andrebbero bene le isole greche?» «Ci sono troppi turisti.» Janine scosse la testa. «L'Australia e la Barriera Corallina?» «Bello!» Janine imitò l'accento australiano. «Posso mettermi in topless, cocco?» «Puoi stare anche senza niente addosso, se vuoi.» «Maleducato.» Il vino le aveva arrossato le gllance e le aveva acceso gli occhi. Gli diede un bufletto sulla guancia. Clay comprese che in quel momento avrebbe potuto baciarla ma, prima che avesse il tempo di muoversi, lei continuò: «Roland mi ha detto che sei un sognatore.» Quel nome lo bloccò. Sentì freddo al petto e all'improvviso s'irritò con Janine perché aveva rovinato l'atmosfera del momento. Avrebbe voluto ferirla, come lei l'aveva ferito. «Vai a letto con lui?» chiese, e Janine indietreggiò di scatto e lo fissò scandalizzata. Poi gli occhi si socchiusero come quelli d'un gatto, e le alette delle narici sbiancarono per l'indignazione. «Che cos'hai detto?» La sua caparbietà non gli permise di tirarsi indietro dal precipizio. Si buttò. «Ti ho chiesto se vai a letto con lui.» «Sei sicuro di volerlo sapere?» «Certo.» «Sta bene. La risposta è sì, ed è meraviglioso. Ti basta?» «Mi basta» disse Clay, avvilito. «E adesso puoi portarmi a casa, se non ti dispiace.» Fecero il tragitto in un silenzio interrotto solo dalle laconiche indicazioni di Janine; e quando Clay fermò la Land Rover davanti a un caseggiato a tre piani, notò che si chiamava Beau Vallon. come la spiaggia delle Seicelle che avevano visitato con la fantasia. Janine scese. «Grazie per il passaggio» disse, avviandosi lungo il vialetto lastricato che portava all'ingresso. Poi si fermò e tornò indietro. «Sai che sei un ragazzino viziato?» chiese. «E che rinunci sempre a tutto, come hai fatto sul campo di tennis?» Questa volta sparì nell'atrio senza voltarsi. Quando tornò allo yacht, Clay mise via le carte nautiche e i manuali, lavò le stoviglie, le asciugò e le sistemò nello scolapiatti. Pensava di aver lasciato una bottiglia di gin in uno degli armadietti, ma non la trovò. Non era rimasto neppure un po' di vino. Sedette in saletta, con la lampada a gas che sibilava sommessamente sopra la sua testa. Si sentiva intontito e svuotato. Era nutile sdraiarsi in cuccetta. Sapeva che non avrebbe dormito. Aprì la borsa. C'era il diario rilegato in pelle che gli aveva prestato Jonathan. L'aprì e incominciò a leggere. Era stato scritto nel 1860 da Zouga Ballantyne, il suo trisavolo. Dopo un po', Clay non si sentiva più svuotato e intontito: era sul ponte di una grande nave che correva sul verde Atlantico, verso sud. verso un continente selvatico e incantato. *** Samson Kumalo si fermò al centro della pista polverosa e seguì con gli occhi la scassata Land Rover di Clay che si allontanava rombando lungo il viale di spathodee. Quando svoltò oltre il vecchio cimitero e scomparve, raccolse la borsa e aprì la porta del giardino del cottage del personale. Girò intorno alla costruzione e si fermò davanti al portico sul retro. Suo nonno Gideon Kumalo era seduto su una sedia da cucina. Il bastone da passeggio, intagliato come un serpente attorto, era appoggiato tra i piedi, e le mani sostenevano la testa. S'era addormentato sulla sedia scomoda, nel fulgore bianco del sole. «Solo così riesco a scaldarmi» soleva dire a Samson. I capelli erano bianchi e soffici come ovatta, la barbetta alla punta del mento tremolava a ogni respiro. La pelle era sottile e delicata e sembrava sul punto di lacerarsi come un'antica pergamena: e
ne aveva anche il colore, ambra scuro. La rete di grinze che la coprivano erano crudelmente rilevate dalla luce diretta. Samson salì i gradini, attento a non togliere il sole al vecchio, e sedette sul muretto davanti a lui. Gli studiò il viso e provò di nuovo quel soffocante sentimento d'affetto. Era più del rispetto che ogni ragazzo matabele imparava a portare ai suoi vecchi; trascendeva le convenzioni dell'affetto parentale, perché tra i due c'era un legame quasi mistico. Per quasi sessant'anni Gideon Kumalo era stato il vicedirettore della scuola della Missione di Khami. Migliaia di giovani matabele, maschi e femmine, erano cresciuti sotto la sua guida: ma nessuno era stato importante per lui quanto il nipote. All'improvviso il vecchio sussultò e aprì gli occhi. Erano lattiginosi e spenti come quelli di un cucciolo appena nato. Inclinò la testa ad angolo, per ascoltare. Samson trattenne il respiro e rimase immobile, temendo che Gideon avesse finito per perdere quella sua percezione quasi miracolosa. Il vecchio girò lentamente la testa dall'altra parte e rimase in ascolto. Samson lo vide dilatare appena le narici per fiutare l'aria. «Sei tu?» chiese con voce roca, simile al cigolio d'un cardine non lubrificato. «Sì, sei tu, Vundia.» La lepre ha sempre avuto un posto importante nel folklore africano: è all'origine della leggenda di Fratel Coniglietto che gli schiavi portarono con loro in America. Gideon aveva dato a Samson il soprannome di quel piccolo aniMale furbo e vivace. «Sì, sei tu, mio Leprotto!» «Baba!» Samson esalò il respiro e piegò un ginocchio davanti a lui. Gideon gli cercò a tentoni la testa e l'accarezzò. «Non sei mai stato lontano» disse. «Perché vivi sempre nel mio cuore.» Samson ebbe la certezza che si sarebbe soffocato se avesse tentato di parlare. Prese in silenzio le mani fragili del vecchio e se le portò alle labbra. «Dovremmo bere un po' di tè» mormorò Gideon. «Tu sei l'unico che sappia farlo come mi piace.» Il vecchio amava il sapore dolce, e Samson mise sei cucchiaini colmi di zucchero bruno nella tazza smaltata prima di versarvi il tè dal bricco di latta annerita. Gideon prese la tazza fra le mani, sorseggiò rumorosamente, poi sorrise e annuì. «Adesso raccontami, Leprotto, che cosa ti è successo? Sento in te qualcosa, un'incertezza, come d'un uomo che ha smarrito la strada e cerca di ritrovarla.» Ascoltò bevendo e annuendo mentre Samson parlava. Poi disse: «E' tempo che tu ritorni alla missione per insegnare. Una volta mi dicesti che non potevi insegnare a vivere ai giovani prima di averlo imparato tu stesso. Hai imparato?» «Non lo so, Baba. Che cosa posso insegnargli? Che la morte devasta questa terra, che la vita ha il valore di una pallottola?» «Vuoi vivere sempre con i dubbi, mio caro nipote? Devi sempre cercare interrogativi senza risposta? Se un uomo dubita di tutto, non tenta mai nulla. I forti di questo mondo sono coloro che hanno sempre la certezza di aver ragione.» «Forse io non sarò mai forte, nonno.» Finirono il tè e Samson ne preparò ancora. Neppure la malinconia della conversazione poteva offuscare il piacere che trovavano l'uno nella compagnia dell'altro; e continuarono così fino a quando Gideon chiese: «Che ore sono?» «Le quattro passate.» «Constance smonterà alle cinque. Vuoi andare a prenderla all'ospedale?» Samson indossò un paio di jeans e una camicia celeste e lasciò il vecchio sotto il portico. Discese la collina. Al cancello della recinzione di sicurezza che circondava l'ospedale si lasciò perquisire dalle guardie in uniforme; poi passò davanti ai reparti dei convalescenti. Costoro, avvolti nelle vestaglie blu, sedevano al sole sul prato. Molti erano mutilati, perché l'Ospedale di Khami ospitava vittime delle mine e feriti di guerra. Tutti i pazienti erano negri. L'Ospedale di Khami era classificato come esclusivamente africano. Al banco dell'accettazione, nell'atrio, le due piccole infermiere matabele lo riconobbero e cinguettarono come passeri. Gentilmente, Samson si fece raccontare gli ultimi pettegolezzi della missione, i matrimoni e le nascite, le morti e i corteggiamenti di quella piccola comunità. Una voce secca e autoritaria lo interruppe.
«Samson, Samson Kumalo!» Samson si voltò e vide la sovrintendente dell'ospedale che gli veniva incontro lungo il corridoio a passo deciso. La dottoressa Leila St John portava un camice bianco con una fìla di biro nel taschino e uno stetoscopio appeso al collo. Sotto il camice aperto s'intravedevano un informe maglione marrone e una lunga gonna gualcita di cotone indiano dagli sgargianti motivi. Ai piedi portava un paio di calzettoni verdi da uomo, e sandali aperti con la fibbia laterale. I capelli scuri erano lisci e snervati, legati con cinghiette di cuoio in due code che spuntavano ai lati della testa sopra le orecchie sporgenti. La carnagione di un pallore innaturale, ereditata dal padre Robert St John, era sfregiata dalle cicatrici d'una vecchia acne. Gli occhiali dalla montatura d'osso erano squadrati e mascolini, e una sigaretta le pendeva dall'angolo delle labbra sottili. Aveva una faccia seria, all'antica, ma lo sguardo degli occhi verdi era franco e intenso quando si fermò davanti a Samson e gli strinse la mano con fermezza; «Dunque il figliol prodigo è tornato... per scappare con una delle mie migliori infermiere, senza dubbio.» «Buonasera, dottoressa Leila.» «Continui a fare il "boy" del tuo colono bianco?» chiese la dottoressa. Leila St John aveva passato cinque anni nel carcere politico di Gwelo. C'era stata rinchiusa contemporaneamente a Robert Mugabe che adesso, dall'esilio, comandava l'ala zANu del cosiddetto esercito di liberazione. «Clay Mellow è un rhodesiano della terza generazione da entrambi i rami della sua famiglia. E' mio amico. Non è un colono.» «Samson, sei un uomo istruito e capace. Tutt'intorno a te il mondo ribolle nel crogiolo del mutamento, la storia viene forgiata sull'incudine della guerra. Ti accontenterai di sprecare i talenti che Dio ti ha dato e di lasciare che altri inferiori a te ti sottraggano il futuro?» «La guerra non mi piace, dottoressa Leila. Tuo padre ha fatto di me ùn cristiano.» «Solo i pazzi amano la guerra; ma quale altro modo c'è per distruggere la violenza insensata del sistema capitalista e imperialista? Quale altro modo esiste per soddisfare le nobili e legittime aspirazioni dei poveri, dei deboli e dei politicamente oppressi?» Samson si voltò a lanciare un'occhiata all'atrio, poi sorrise. «Non preoccuparti, Samson. Qui sei tra amici. Veri amici.» Leila St John diede un'occhiata all'orologio. «Devo andare. Dirò a Constance di portarti a cena. Ne riparleremo.» Si voltò bruscamente, e i tacchi dei sandali sciupati sbatacchiarono sul pavimento di piastrelle mentre si affrettava verso la doppia porta con la scritta PAZIENTI ESTERNI. Samson sedette su una panca davanti a quella porta e attese fra i malati e gli zoppi, tra quelli che tossivano e quelli che sternutivano, quelli con gli arti fasciati e quelli che sanguinavano. L'odore acuto di antisettico dell'ospedale sembrava impregnargli gli indumenti e la pelle., Finalmente Constance uscì. Una delle infermiere doveva averla avvertita, perché girava la testa con impazienza e i suoi occhi scuri brillavano nel cercarlo. Samson assaporò il piacere di osservarla per qualche secondo, prima di alzarsi dalla panca. Constance aveva l'uniforme inamidata e ben stirata, con il grembiule bianco che spiccava sul camice a righe rosa, e la cuffietta posata quasi in bilico sulla testa. Sul petto portava le insegne che la qualificavano come infermiera di sala operatoria e di ostetricia. I capelli rialzati erano intrecciati in un'acconciatura complicata che richiedeva sempre ore di cure. La faccia era liscia e tonda come una luna scura: la classica bellezza nguni con i grandi occhi neri e gli scintillanti denti candidi messi in mostra da un sorriso di benvenuto. La schiena era diritta, le spalle strette ma forti. Sotto il grembiule bianco i seni erano sodi, la vita sottile e i fianchi larghi e fecondi. Si muoveva con la grazia delle africane, come se ballasse al suono d'una musica che lei sola poteva udire. Si fermò davanti a lui. «Ti vedo, Samson» mormorò. Poi, intimidita, abbassò gli occhi. «Ti vedo, cuor mio» rispose lui, a voce altrettanto bassa. Non si toccarono, perché una manifestazione passionale in pubblico era contraria alla tradizione e sarebbe stata sgradevole per entrambi.
S'incamminarono lentamente su per la collina, verso il cottage. Anche se non era parente di Gideon Kumalo, Constance era stata una delle sue allieve preferite prima che l'indebolimento della vista lo costringesse a ritirarsi. Quando la moglie di Gideon era morta, Constance era andata a stare con lui, per assisterlo e tenergli la casa. E là aveva incontrato Samson. Sebbene chiacchierasse con sufficiente disinvoltura e gli riferisse i piccoli fatti avvenuti durante la sua assenza, Samson sentiva in lei una specie di riserbo; per due volte Constance si voltò a guardare lungo il sentiero con un'espressione impaurita negli occhi. «Che cosa ti preoccupa?» chiese Samson quando si fermarono al cancello del giardino. «Come sai...» cominciò Constance, e poi si rispose da sé. «Naturalmente lo sai. Tu sai tutto di me.» «Che cosa ti preoccupa?» «I "ragazzi"sono qui» disse semplicemente Constance, e Samson sentì un gelo che gli accapponò la pelle. I «ragazzi» e le «ragazze» erano i guerriglieri dell'esercito rivoluzionario dello Zimbabwe. «Qui?» chiese. «Qui nella missione?» Constance annuì. «Portano pericolo di morte per tutti» disse amaramente lui. «Samson, cuor mio» bisbigliò Constance. «Devo dirtelo. Non potevo più rifiutarmi di fare il mio dovere. Mi sono arruolata. Adesso sono una delle "ragazze".» *** Cenarono nella stanza centrale del cottage che fungeva da cucina, sala da pranzo e salotto. Al posto della tovaglia, Constance aveva steso sul tavolo i fogli del Rhodesian Herald. Le colonne a stampa erano inframmezzate da colonne bianche, in segno di silenziosa protesta della direzione contro le regole draconiane della censura. Al centro aveva piazzato una grande pentola di polenta di mais, compatta e bianca, e accanto una ciotola di trippa e fagioli. Riempì la scodella del vecchio, gliela mise davanti e gli posò il cucchiaio tra le dita. Restò seduta accanto a lui durante il pasto, per guidargli la mano e asciugare il sugo che si rovesciava. Un piccolo televisore in bianco e nero accostato al muro mostrava le immagini confuse del telegiornale. «In quattro contatti separati nel Mashonaland e nel Matabeleland, ventisei terroristi sono stati uccisi dalle forze di sicurezza nelle ultime ventiquattro ore. Sedici civili sono rimasti uccisi nelle sparatorie e altri otto dall'esplosione di una mina sulla strada di Mrevva. Il Comando delle Operazioni ha il rammarico di annunciare la morte in combattimento di due membri delle forze di sicurezza. I caduti sono il sergente John Sinclair degli Scout di Ballantyne...» Constance si alzò e spense il televisore, tornò a sedersi e aggiunse ancora trippe e fagioli nella scodella di Gideon. «E' come un incontro di calcio» disse con una rabbia che Samson non aveva mai sentito nella sua voce. «Ogni sera ci danno i risultati. Terroristi 2, forze dell'ordine 26. Dovremmo compilare le schedine.» Samson vide che stava piangendo, e non seppe che cosa dire per confortarla. «Ci dicono il nome e l'età dei soldati bianchi, e quanti figli lasciano; ma gli altri sono soltanto "terroristi"e "civili negri". Eppure anche loro hanno madri, e padri, e mogli, e figli!» Constance trattenne le lacrime. «Sono matabele come noi, sono del nostro popolo. La morte è diventata così facile e comune in questa terra, ma coloro che non muoiono vengono qui da noi... i nostri compagni con le gambe dilaniate o il cervello così danneggiato da essere ridotti a idioti bavosi.» «La guerra è setnpre più crudele, quando sono coinvolti le donne e i bambini» disse Gideon con la sua voce secca di vecchio. «Noi uccidiamo le loro donne, e loro uccidono le nostre.» Si sentì grattare leggermente alla porta, e Constance si alzò e si precipitò ad aprire, ma prima spense la lampadina. Fuoti era notte, ma Samson scorse due sagome sulla soglia buia. Entrarono furtivamente e la porta si richiuse. Constance riaccese la lampada.
Contro il muro stavano due uomini. A Samson bastò un'occhiata per capire che cos'erano. Indossavano calzoni e camicie di tela jeans, ma c'era una vigilanza animalesca nel modo in cui si muovevano e negli occhi irrequieti. Il più anziano fece un cenno all'altro, che andò subito nelle camere da letto, le ispezionò in fretta, poi tornò a controllare le tende alle finestre per assicurarsi che non ci fossero varchi. Rivolse un cenno all'altro e uscì di nuovo. Il più anziano sedette sulla panca di fronte a Gideon Kumalo. Aveva l'ossatura fine, il naso grifagno da arabo, ma la pelle era d'un nero violaceo e la testa era rasata. «Io sono il compagno Tebe» disse a voce bassa. «Tu come ti chiami, vecchio padre?» «Il mio nome è Gideon Kumalo.» Il cieco teneva gli occhi fissi oltre la spalla del visitatore e la testa inclinata leggermente. «Non è il nome che ti diede tua madre, non è il nome con cui ti conosceva tuo padre.» Il vecchio cominciò a tremare. Per tre volte cercò di parlare, prima di trovare la voce. «Tu chi sei?» mormorò. «Non ha importanza» disse l'uomo. «Stiamo cercando di scoprire chi sei tu. Dimmi, vecchio, hai mai sentito il nome Tungata Zebiwe? Colui-che-cerca-ciò-che-è-stato-rubato, Colui-che-cerca-giustizia?» Il vecchio tremava così forte che rovesciò la scodella. La scodella cadde sul pavimento e rotolò tintinnando sul pavimento ai suoi piedi. «Come conosci quel nome?» mormorò. «Come sai queste cose?» «Io so tutto, vecchio padre. E conosco un canto. Lo canteremo insieme, tu e io.» E il visitatore cominciò a cantare con voce di baritono sommessa e vibrante: Come una talpa nelle viscere della terra Bazo trovò il cammino segreto... Era l'antico inno di battaglia dell'impi delle Talpe, e i ricordi riassalirono Gideon Kumalo. Come accade ai vecchi, ricordava in tutti i dettagli i giorni dell'infanzia, mentre gli eventi della settimana precedente già diventavano confusi. Ricordò una grotta nelle Matopos, la faccia mai dimenticata della madre nella luce del fuoco, e rammentò le parole del canto: Le Talpe stanno sottoterra. «Sono morte?» cbielono le figlie di Mashobane. Gideon cantava con la stridula voce di vecchio; e mentre cantava le lacrime gli scorrevano dagli occhi ciechi e lattiginosi e scendevano sulle guance. Ascoltate, belle fanciulle, non sentite che qualcosa si muove nel buio? Quando il canto finì, il visitatore rimase in silenzio mentre Gideon si asciugava le lacrime, poi disse a voce bassa: «Gli spiriti dei tuoi antenati ti chiamano, compagno Tungata Zebivve.» «Io sono un vecchio cieco e debole, non posso rispondere al loro richiamo.» «Allora devi mandare qualcuno al tuo posto» disse lo sconosciuto. «Qualcuno che abbia nelle vene il sangue di Bazo l'Ascia e di Tanase la Strega.» Poi si girò lentamente verso Samson Kumalo che era seduto a capotavola e lo guardò negli occhi. Samson ricambiò freddamente l'occhiata. Era incollerito. Aveva compreso istintivamente perché era venuto. Pochi matabele erano laureati, pochi avevano gli altri suoi doni. Da molto tempo sapeva che lo volevano, e aveva dovuto ricorrere a tutta la sua ingegnosità per sfuggirgli. Adesso l'avevano trovato ed era furioso con loro e con Constance. Era stata Constance a condurli fino a lui. Aveva notato il modo in cui continuava a sbirciare la porta mentre mangiavano. Ora sapeva che era stata lei a informarli della sua presenza. Più forte della collera era il peso della stanchezza e della rassegnazione. Sapeva che non poteva più resistere, Conosceva i rischi che avrebbe comportato quella scelta, e non per lui solo. Erano spietati, temprati nel sangue e di una crudeltà che era difficile immaginare. Capiva perché il visitatore aveva parlato prima a Gideon Kumalo. Per far capire a lui, Samson, che se adesso avesse rifiutato di piegarsi ai loro ordini, il vecchio sarebbe stato in pericolo. «Devi mandare qualcuno al tuo posto.» Era il baratto antichissimo, una vita per una vita. Se Samson avesse rifiutato, il vecchio avrebbe perso la vita, e non sarebbe finita così. Lo volevano e l'avrebbero avuto. «Mi chiamo Samson Kumalo» disse. «Sono cristiano e aborrisco la guerra e la crudeltà.» «Sappiamo chi sei» disse lo sconosciuto, «e sappiamo che di questi tempi non c'è posto per la mollezza.» Lo sconosciuto s'interruppe quando la porta si socchiuse e il suo compagno che stava
di guardia fuori si affacciò nella stanza e disse in tono concitato: «Kanka!» Solo quella parola, «Sciacalli!» e si dileguò. Il compagno Tebe si alzò, sfilò dalla cintura dei jeans una pistola Tokarev 7.62 e nello stesso tempo spense la luce. Nell'oscurità mormorò all'orecchio di Samson: «La stazione degli autobus di Bulawayo. Fra due giorni alle otto del mattino.» Poi Samson sentì scattare la serratura della porta. Erano rimasti di nuovo loro tre soli. Attesero per cinque minuti nel l'oscurità fino a che Constance disse: «Se ne sono andati.» Riaccese la luce, cominciò a raccogliere i piatti e appallottolò il giornale che aveva usato come tovaglia. «Qualunque cosa abbia preoccupato i "ragazzi"doveva essere un falso allarme. Il villaggio è tranquillo. Non c'è traccia delle forze di sicurezza.» I due uomini non risposero. Constance preparò la cioccolata. «Alle nove c'è un film alla televisione, I figli della ferrovia.» «Sono stanco.» disse Samson. Era ancora furioso con lei. «Anch'io sono stanco» mormorò Gideon, e Samson lo accompagnò nella camera da letto. Dalla soglia si voltò a guardare Constance, e lei gli rivolse un'occhiata così patetica e supplichevole che Samson sentì spegnersi la collera. Si sdraiò sullo stretto letto di ferro accanto a quello del vecchio, e nell'oscurità ascoltò i suQni che venivano dalla cucina mentre Constance metteva in ordine e preparava la colazione per l'indomani mattina. Poi la porta della stanza da letto piccola si chiuse. Samson aspettò fino a quando il vecchio cominciò a russare, e si alzò senza far rumore. Si drappeggiò sulle spalle nude la coperta di lana ruvida e andò alla porta di Constance. Non eta chiusa a chiave. Si spalancò sotto il suo tocco, e Samson sentì Constance che si sollevava di scatto sul letto. «Sono io» disse lui sottovoce. «Oh, avevo tanta paura che non saresti venuto.» Samson tese la mano e le toccò la pelle nuda, fresca e morbida come il velluto. Constance gli prese le dita, l'attirò vicino, e lui sentì dissolversi l'ultima ombra di risentimento. «Mi dispiace» mormorò lei. «Non ha importanza» disse Samson. «Non avrei potuto continuare a nascondermi per sempre.» «Andrai?» «Se non andrò uccideranno mio nonno, e questo non gli basterà.» «Non è per questa ragione che devi andare. Andrai per la stessa ragione per cui l'ho fatto io. Perché dovevo.» Constance era nuda come lui. Quando si mosse, gli strusciò i seni sul petto e Samson sentì il calore che incominciava a scorrere in lei. «Andrai nella boscaglia?» le chiese. «No. Non ancora. Mi hanno ordinato di restare qui. C'è del lavoro da fare.» «Sono contento.» Samson le sfiorò la gola con le labbra. Nella boscaglia non avrebbe avuto molte possibilità. Le forze di sicurezza mantenevano un rapporto di uccisioni di trenta a uno. «Ho sentito che il compagno Tebe ti ha dato un'ora e un posto. Credi che avranno bisogno di te nella boscaglia?» «Non lo so. Credo che prima mi addestreranno.» «Forse questa sarà l'ultima notte che passeremo insieme per molto tempo» mormorò Constance, e Samson non rispose ma le passò le dita sulla spina dorsale, nella valle di muscoli elastici e vellutati, fino alla profonda fenditura delle natiche. «Voglio che tu mi metta un figlio nel grembo» mormorò Constance. «Voglio che tu mi dia qualcosa che io possa tenere mentre siamo separati.» «E' un'offesa alla legge e alla tradizione.» «In questa terra non c'è legge se non quella delle armi, non c'è tradizione se non quella che vogliamo osservare.» Constance si rotolò sotto di lui e l'avvinghiò con le membra dure. «Eppure, in mezzo alla morte dobbiamo tramandare la vita. Dammi tuo figlio, cuor mio, dammelo questa notte perché forse per noi non ci saranno altre notti.» Samson si svegliò in un incubo fiammeggiante. La luce inondava la stanzetta attraverso la tenda lisa dell'unica finestra e gettava nette ombre in
movimento sullo spoglio muro imbiancato. Constance si strinse a lui, ancora calda e umida e con le palpebre appesantite dal sonno. Dall'esterno una voce mostruosamente distorta gridava ordini. «Qui è l'Esercito rhodesiano. Uscite tutti dalle case, immediatamente. Non fuggite. Non nascondetevi. Agli innocenti non succederà nulla. Uscite immediatamente dalle case, con le mani in alto. Non fuggite. Non tentate di nascondervi.» «Vestiti» disse Samson a Constance. «Poi aiutami con il vecchio.» Ancora semiaddormentata, Constance andò all'armadio d'angolo e indossò un abitino di cotone rosa sul corpo nudo. Poi, scalza, seguì Samson nell'altra camera da letto. Samson portava solo un paio di calzoncini cachi e stava aiutando Gideon ad alzarsi. Fuori gli altoparlanti gridavano con le stentoree voci metalliche. «Uscite immediatamente. Agli innocenti non succederà nulla. Non fuggite.» Constance drappeggiò una coperta di lana sulle spalle del vecchio, e lo guidarono insieme attraverso il soggiorno, fino al portico. Samson aprì la porta e uscì, tenendo le mani in alto e le palme rivolte in avanti. Il raggio accecante del riflettore era fisso su di lui, e dovette proteggersi la faccia con una mano. «Porta fuori il nonno.» Constance condusse il vecchio fuori della porta. Tutti e tre rimasero accostati in un gruppetto patetico, accecati dalla luce e confusi dal muggito insistente dell'altoparlante. «Non fuggite. Non cercate di nascondervi.» La fila delle casette del personale era stata circondata. I riflettori rifulgevano nella tenebra e inquadravano i piccoli gruppi familiari degli insegnanti e dei dipendenti dell'ospedale, stretti gli uni agli altri, quasi tutti riparati soltanto da pigiami o camicie da notte o da coperte drappeggiate frettolosamente. Dall'oscurità impenetrabile dietro i riflettori emersero figure che si muovevano vigili come pantere. Una di loro scavalcò la ringhiera della veranda e si appiattì contro il muro, usando il corpo di Samson per ripararsi dalla porta e dalle finestre. «Siete soltanto tre?» chiese in sindebele. Era un uomo magro e poderoso, con il giubbotto e il berretto da combattimento. Aveva la faccia e le mani mimetizzate di scuro ed era impossibile capire se era bianco o negro. «Soltanto noi tre» rispose Samson. L'uomo teneva un fucile FN contro il fianco, e faceva ondeggiare lentamente la canna per tenerli tutti sotto mira. «Se c'è qualcun altro lì dentro, sbrigatevi a dirlo; altrlmenti moriranno.»' «Non c'è nessuno.» Il militare gridò un ordine e i suoi entrarono simultaneamente dalle porte e dalle finestre. Perquisirono la casetta in pochi secondi, lavorando come una squadra addestrata e coprendosi l'un l'altro. Quando furono certi che non c'era nessuno, si dispersero nuovamente nell'oscurità e lasciarono i tre sulla veranda. «Non muovetevi!» gridarono gli altoparlanti. «Restate dove siete.» Nel buio sotto le spathodee il colonnello Roland Ballantyne riceveva via via i rapporti delle unità. A ogni risultato negativo, la sua frustrazione cresceva. Le informazioni erano esatte, la pista calda. Era una pista che aveva seguito già molte altre volte. Il compagno Tebe era uno dei loro obiettivi principali. Era un commissario dello ZIPRA che operava nel Matabeleland ormai da quasi sette mesi. In altre tre occasioni gli erano arrivati altrettanto vicini. Era sempre lo stesso: la segnalazione di uno degli informatori o di uno degli Scout che operava sotto la copertura di civile. Tebe era nel tale o nel talaltro villaggio. Si avvicinavano senza far rumore e lo circondavano, chiudendo metodicamente ogni scappatoia. Poi nell'oscurità, nell'ora più buia della notte, intervenivano e rastrellavano. Una volta avevano preso due dei suoi luogotenenti, ma Tebe non era con loro. Il sergente maggiore degli Scout, Esau Gondele, aveva interrogato i terroristi in presenza di Roland. Prima dell'alba nessuno dei due era più in grado di reggersi in piedi, ma non avevano parlato. «Prendi l'elicottero» aveva ordinato Roland.
S'erano fermati a un'altitudine di seicento metri mentre il sergente maggiore Gondele faceva penzolare nel vuoto il più ostinato dei terroristi, sostenendolo per la cinghia passata sotto le ascelle. «Dimmi un po', amico, dove troveremo il tuo compagno Tebe?» Il terrorista aveva girato la testa e aveva cercato di sputare in faccia a Esau Gondele, ma il vento delle pale aveva portato via la saliva. Il sergente maggiore aveva guardato Roland, e al suo cenno aveva aperto il pugno. Il terrorista era precipitato da seicento metri, roteando lentamente. forse non aveva più la forza di urlare o forse quella era la sua ultima sfida: ma era rimasto in silenzio durante la caduta. Il sergente maggiore Gondele aveva passato la cinghia sotto le ascelle del secondo terrorista. Mentre lo calava dal portellone, con i piedi legati che penzolavano seicento metri al di sopra delle praterie dorate del Matabeleland, l'uomo aveva alzato la testa e aveva detto: «Ve lo dirò io.» Ma i terroristi avevano tenuto duro per mezz'ora di troppo. Quando gli Scout erano piombati sul nascondiglio in Hillside Location, il compagno Tebe se n'era già andato. La frustrazione di Roland Ballantyne era corrosiva. La settimana prima il compagno Tebe aveva messo un congegno esplosivo nel carrello di un supermercato. Aveva ucciso sette persone, cinque donne e due bambine inferiori ai dieci anni. Roland desiderava ardentemente prenderlo: così ardentemente che quando si rese conto d'esserselo lasciato sfuggire ancora una volta, un nero senso d'oppressione gravò sulla sua mente. «Portate l'informatore» ordinò, ed Esau Gondele mormorò qualcosa nella radio portatile. Pochi minuti dopo sentirono la Land Rover che saliva la collina. I fari baluginavano tra gli alberi della foresta. «Bene, sergente maggiore. Faccia allineare questa gente.» Erano una sessantina, in riga sul bordo della strada davanti alla lunga fila delle casette del personale. I riflettori li inchiodavano in un bagliore crudo e spietato. Il colonnello Roland Ballantyne balzò sulla Land Rover e si portò alle labbra il megafono. Parlò correntemente in sindebele. «I malvagi sono stati tra voi. Hanno lasciato il loro lezo di morte in questo villaggio. Sono venuti qui per tramare sciagure, per uccidere e mutilare voi e i vostri figli. Avreste dovuto rivolgervi a noi perché vi proteggessimo. Dato che avete avuto paura di chiedere il nostro aiuto, avete attirato sulle vostre teste guai ancora più gravi.» I negri, uomini e donne e bambini, stavano immobili, stolidi come animali. Erano stretti fra due macine: i guerriglieri da una parte e dall'altra le forze di sicurezza. Stavano immobili nella luce bianca dei riflettori e ascoltavano. «Il governo è vostro padre. E come un buon padre cerca di proteggere i suoi figli. Ma tra voi vi sono figli stupidi, coloro che cospirano con i malvagi, li sfamano, passano loro informazioni e li avvertono quando stiamo per arrivare. Sappiamo tutte queste cose. Sappiamo chi li ha avvertiti.» Ai piedi di Roland, sulla panca della Land Rover, c'era una figura umana. Era drappeggiata in un unico telo dalla testa ai piedi ed era lmpossibile capire se era un uomo o una donna. Il cappuccio aveva due fori per gli occhi. «Ora staneremc i malvagi che sono tra voi, coloro che aiutano i portatori di morte» annunciò Roland. La Land Rover procedette lentamente lungo la fila. Quando arrivava davanti a un uomo o a una donna, il soldato gli puntava la torcia elettrica in faccia a una distanza di pochi passi. Nella parte posteriore del veicolo, la figura ammantata e incappucciata scrutava attraverso i fori. Gli occhi scuri brillavano nella luce riflessa della lampada tascabile mentre studiavano ogni volto. L'informatore velato rimase immobile mentre la Land Rover avanzava a passo d'uomo verso il punto dove Samson e Constance sostenevano il vecchio. Senza muovere le labbra Samson chiese: «C'è pericolo? Ti conoscono?» «Non lo so» rispose lei. «Che cosa possiamo fare...» Ma ormai la Land Rover si stava avvicinando e Constance non ebbe il tempo di rispondere. Nel retro del veicolo, la figura mascherata si mosse per la prima volta. Un lungo braccio nero si sporse dal lenzuolo e indicò la faccia di Constance.
Nessuno pronunciò una parola. Ma due degli Scout mimetizzati uscirono dall'oscurità alle sue spalle e le afferrarono le braccia. «Constance!» Samson corse verso di lei a braccia tese. Il calcio di un fucile gli colpì la schiena all'altezza delle reni e il dolore lancinante gli divampò lungo la spina dorsale, esplodendo contro la volta del cranio. Crollò in ginocchio. Gli si distorse la vista. La torcia elettrica gli splendeva in faccia abbagliandolo. Si rialzò con uno sforzo violento e scoprì che qualcuno gli premeva contro lo stomaco la canna di un fucile FN. «Non è te che vogliamo, amico. Non immischiarti in quel che non ti riguarda.» Gli Scout stavano conducendo via Constance, che procedeva con apparente docilità. Sembrava piccola e indifesa tra i due soldati in tenuta da combattimento. Si voltò a guardare Samson, lo fissò con i grandi occhi teneri e mosse le labbra. Per un istante la Land Rover bloccò il fascio di luce del riflettore. Il buio avvolse il gruppetto e dopo un secondo, quando il riflettore l'inquadrò di nuovo, Constance stava fuggendo. «No!» utlò Samson, straziato. Sapeva cosa stava per accadere. «Fermati, Constance, fermati!» Constance sembrava volare come una falena nella luce, con il rosa dell'abito che svolazzava fra i tronchi delle spathodee; poi i proiettili strapparono schegge di legno bianco dagli alberi intorno a lei, e Constance non apparve più così veloce e graziosa: era come se un bambino crudele avesse strappato le ali alla falena. Quattro soldati riportarono indietro il corpo, tenendolo per le braccia e le gambe. La testa quasi toccava il suolo, e il sangue che usciva dalle narici e dalla bocca e scorreva sulle guance era denso e nero come melassa nella luce dei riflettori. La buttarono a bordo della Land Rover, in un groviglio di arti scuri, come una gazzella uccisa nel veld durante una caccia. *** Samson Kumalo percorreva la strada principale di Bulawayo. Il fresco della notte perdurava ancora e le ombre degli alberi di jacaranda gettavano lunghe striature sulla superficie azzurra dell'asfalto. Si mimetizzava facilmente nel pigro flusso della gente che camminava sul marciapiede; e non cercò di distogliere la faccia quando all'angolo del parco passò accanto a un poliziotto della BSA con l'uniforme blu e cachi e il casco coloniale. Mentre attendeva che scattasse il semaforo, guardò le facce intorno a lui: le espressioni piatte dei matabele dagli occhi velati, le giovani donne bianche dagli abiti a fiorami che andavano a far la spesa con una borsa appesa a una spalla e una pistolamitragliatrice appesa all'altra. C'erano pochissimi uomini bianchi per le strade, e quasi tutti erano troppo vecchi per prestare servizio militare... gli altri erano tutti armati in uniforme. I veicoli che stavano passando all'incrocio davanti a lui erano quasi tutti militari. Dopo l'imposizione delle sanzioni economiche, la razione di benzina era stata ridotta a pochi litri al mese. Gli agricoltori che venivano in città guidavano le sgraziate macchine antimina con i deflettori e la carrozzeria blindata. Per la prima volta, dopo la morte di Constance, Samson si rendeva conto della vera intensità del suo odio mentre scrutava quei volti bianchi. Prima di quel giorno c'era stato in lui uno stordimento che agiva come un anestetico, ma ormai stava svanendo. Non aveva bagagli, perché un pacco avrebbe immediatamente attirato l'attenzione e causato una perquisizione. Portava jeans, una camicia a maniche corte e scarpe da ginnastica; non aveva la giacca, che avrebbe potuto nascondere un'arma. E come gli altri matabele intorno a lui, la sua faccia era priva d'espressione. Era armato soltanto del suo odio. Il semaforo scattò. Attraversò la strada senza fretta e svoltò verso la stazione degli autobus. Era affollata anche a quell'ora. C'erano code di contadini pazienti che aspettavano di tornare alle terre tribali. Erano tutti carichi di provviste, sacchi di farina e di sale, latte di olio da cucina o di cherosene, involti di stoffe e scatole di cartone, fiammiferi, saponette e candele. Stavano accosciati sotto le tettoie di ferro e chiacchieravano e ridevano, sgranocchiavano pannocchie di granturco e bevevano Coca-Cola; alcune delle madri allattavano i figli in pubblico o rimproveravano quelli più grandicelli.
A intervalli di pochi minuti un autobus arrivava in una nube untuosa di fumi di scarico e vomitava un'orda di passeggeri che venivano immediatamente rimpiazzati da quelli che attendevano in coda. Samson si appoggiò al muro della latrina. Era la posizione più centrale. Si accinse ad aspettare. Non riconobbe a prima vista il compagno Tebe: portava una lurida tuta blu con la scritta MACELLERIA COHEN ricamata a lettere rosee sulla schiena. Stava curvo per mascherare l'alta statura e un'espressione d'idiozia bonaria lo faceva sembrare innocuo. Passò accanto a Samson senza guardarlo ed entrò nella latrina. Samson attese qualche secondo prima di seguirlo. La latrina puzzava d'urina vecchia e di fumo di tabacco scadente. Eta affollata. Il compagno Tebe urtò Samson e gli infilò nella mano un biglietto azzurro. Samson entrò in uno dei gabinetti e lo esaminò. Era un biglietto di terza classe da Bulawayo alle Cascate Vittoria. Prese posto nella coda per le cascate: fra lui e Tebe c'erano cinque persone. L'autobus era in ritardo di trentacinque minuti, e vi fu la solita corsa per issare i bagagli sul tetto e trovare un sedile. Tebe sedette accanto al finestrino, tre file più avanti di Samson. Non si voltò mai mentre l'autobus rosso stracarico avanzava pesantemente attraverso i sobborghi settentrionali. Percorsero il lungo viale di jacaranda piantate da Cecil Rhodes che conduceva al Palazzo del Governo, alto sulla città sopra la collina, dove un tempo sorgeva il kraal reale di Lobengula, sovrano dei matabele. Superarono la svolta per l'aeroporto e incontrarono il primo posto di blocco. Ogni passeggero dovette scendere e identificare il proprio bagaglio, che veniva aperto e controllato dagli agenti; poi uomini e donne scelti a caso furono perquisiti. Samson e Tebe non erano tra questi. Dopo un quarto d'ora l'autobus, di nuovo carico di passeggeri, poté ripartire. Mentre procedevano rombando verso nord, le acacie e la savana lasciarono il posto alla foresta maestosa. Samson si rannicchiò sulla panca e guardò fuori. Più avanti, Tebe sembrava addormentato. Un po' prima di mezzogiorno raggiunsero la fermata della Missione di Saint Matthew sul fiume Gwaai, al margine della Riserva della Foresta di Sikumi. Quasi tutti i passeggeti scaricarono i bagagli e si avviarono a piedi lungo la rete dei sentieri che si addentravano nella foresta. «Facciamo sosta per un'ora» disse agli altri l'autista in uniforme. «Potete accendere il fuoco e prepararvi da mangiare.» Tebe lanciò un'occhiata a Samson e si avviò verso il piccolo emporio al crocicchio. Quando Samson lo seguì, in un primo momento non lo vide. Poi si accorse che la porta dietro il banco era socchiusa; e il proprietario la indicò con un cenno d'invito. Tebe lo aspettava nel retro, tra i mucchi di pelli conciate e di sacchi di mais, gli scatoloni di sapone disinfettante e le casse di bibite. S'era spogliato della tuta lurida e del personaggio dell'operaio sfaticato. «Ti vedo, compagno Samson» disse a voce bassa. «Non è più il mio nome» rispose Samson. «Qual è il tuo nome?» «Tungata Zebiwe.» «Ti vedo, compagno Tungata.» Tebe annuì soddisfatto. «Tu lavoravi nel Dipartimento della Fauna. T'intendi di armi, no?» Tebe non attese una'risposta. Aprì uno dei bidoni metallici di farina appoggiati contro il muro di fondo; tirò fuori un lungo involto coperto da una sacca di plastica verde per fertilizzanti agricoli, e spazzò via la farina bianca come polvere. Sciol se la corda che lo legava e porse l'arma che conteneva a Tungata Zebiwe; e questi la riconobbe immediatamente. All'inizio della guerra nella boscaglia, le forze di sicurezza avevano organizzato una campagna per indurre gli informatori a segnalare la presenza delle armi dei guerriglieri nei loro villaggi. S'erano serviti di spot pubblicitari e di annunci sui giornali. Nelle aree tribali più lontane avevano effettuato massicci lanci di volantini, che oflrivano cinquemila dollari di ricompensa per informazioni in grado di portare utili al ritrovamento di quelle armi. Era un fucile d'assalto automatico 7.62, un kalaschnikov (AK). Tungata lo prese fra le mani e si accorse che era sorprendentemente pesante per le sue dimensioni. Diversamente da quasi tutte le armi della NATO, non era formato di componenti stampate, ma di acciaio massiccio. Il calcio era di legno laminato.
«Questi sono i caricatori.» I rhodesiani lo chiamavano banana gun per quei caratteristici caricatori curvi. «Si riempiono così.» Tebe lo mostròJ premendo con il pollice le corte cartucce leggere. «Prova.» Tungata si destreggiò subito benissimo: caricò i trenta colpi del secondo caricatore in altrettanti secondi. «Bene.» Tebe annuì di nuovo, soddisfatto della scelta. «Adesso carica il fucile. Così.» Premette l'estremità anteriore del caricatore nella fenditura e inclinò verso l'alto l'estremità posteriore. Vi fu un clic metallico. In meno di tre minuti Tebe aveva dimostrato perché l'AK era l'arma preferita dai guerriglieri di tutto il mondo. La maneggevolezza e la robustezza lo rendevano ideale. Con sprezzante spirito razziale, i rhodesiani dicevano che era l'unica arma «a prova di cafri» esistente in circolazione. «Il selettore si alza al massimo ed è in sicura.» Tebe terminò la dimostrazione. «Abbassato completamente è semiautomatico. A metà, è completamente automatico.» Mostrò a Tungata le due lettere cirilliche. «AB» disse. «E' russo per "automatico". Prendìlo.» Lo porse e restò a guardare mentre Tungata caricava e armava e scaricava rapidamente senza sbagliare. «Sì, bene. Ricorda che è pesante, ma la canna si alza quand'è sull'automatico. Stringilo forte.» Tebe arrotolò l'arma in una coperta grigia in modo da poterla estrarre istantaneamente. «Il padrone dell'emporio è uno di noi» disse Tebe. «In questo momento ci sta caricando le provviste sull'autobus. E' ora che ti dica perché siamo qui e dove stiamo andando.» Quando Tungata e Tebe lasciarono l'emporio e si avviarono verso l'autobus, i ragazzi erano già arrivati. Erano una sessantina: i maschi in camicie cachi e calzoni corti, le femmine in tunichetta azzurra da ginnastica con la cintura verde della scuola della Missione di Saint Matthew. Erano tutti scalzi. Chiacchieravano e ridevano, felici di quella gita inaspettata, che li liberava dal tedio della scuola. Tebe aveva detto che erano allievi dell'ultima classe delle medie, e quindi dovevano avere all'incirca quindici anni. Tutte le ragazze sembravano nell'età della pubertà, con i seni tondi sotto la stoffa ruvida dell'uniforme scolastica. Agli ordini dell'insegnante, un giovane matabele occhialuto, s'erano schierati obbedienti accanto al polveroso autobus rosso. Appena vide Tebe, l'insegnante gli si precipitò incontro. «Ho fatto come hai ordinato, compagno.» «Cos'hai raccontato ai padri della missione?» «Ho detto che era un'esercitazione e che saremmo tornati solo dopo l'imbrunire, compagno.» «Falli salire sull'autobus.» «Immediatamente, compagno.» L'autista, con il berretto a visiera calcato sulla fronte, cominciò a protestare per l'assalto dei giovani passeggeri, tutti senza biglietto, ma Tebe gli andò alle spalle e gli puntò la pistola Tokarev contro le costole; allora l'autista diventò cinereo e si lasciò ricadere sul sedile. I ragazzi si disputarono i posti accanto ai finestrini e poi alzarono le facce lucide, in attesa. «Faremo un viaggio emozionante» disse l'insegnante occhialuto. «Dovete fare esattamente quello che vi viene ordinato. Capito?» «Capito» risposero quelli in coro, doverosamente. Tebe toccò la spalla dell'autista con la canna della pistola. «Dirigiti a nord, verso lo Zambesi e le Cascate Vittoria» ordinò sottovoce. «Se dovessimo incontrare un blocco stradale della sicurezza, fermati immediatamente e comportati come se fosse tutto normale. Hai sentito?» «Sì» mormorò l'autista. «Devi dire: "Ti ho sentito, compagno, e obbedirò"» ordinò Tebe. «Ti ho sentito, compagno, e obbedirò.» «Se non obbedirai, sarai il primo a morire. Ti do la mia parola.» Tungata sedette in fondo all'autobus, con l'AK avvolto nella coperta posato ai suoi piedi. Aveva contato i ragazzi e aveva fatto un elenco. Erano cinquantasette, e ventisette erano ragazze. Mentre chiedeva i loro nomi, valutava approssimativamente la loro intelligenza e la loro potenziale attitudine al comando, e faceva un asterisco accanto ai migliori. Fu soddisfatto quando vide che l'insegnante occhialuto confermava la sua scelta. Aveva scelto quattro maschi e una femmina. La femmina aveva quindici anni, si chiamava Miriam ed era snella e graziosa, con un sorriso pronto e gli occhi luminosi. In lei c'era qualcosa che gli ricordava Constance; gli stava seduta accanto e così Tungata poteva vedere come reagiva alla prima seduta d'indottrinamento.
Mentre l'autobus procedeva rombando sotto la volta meravigliosa della foresta, sulla piatta strada asfaltata, il compagno Tebe si piazzò accanto al sedile dell'autista e si voltò verso i giovani. «Come mi chiamo?» chiese. E poi lo disse: «Sono il compagno Tebe. Come mi chiamo?» «Compagno Tebe» gridarono i ragazzi. «Chi è il compagno Tebe? Il compagno Tebe è vostro amico e vostro capo.» «Il compagno Tebe è nostro amico e nostro capo.» Le domande e le risposte continuarono a susseguirsi. «Chi è il compagno Tungata?» «Il compagno Tungata è nostro amico e nostro capo,» Le voci dei ragazzi avevano assunto un fervore stridulo e nei loro occhi c'era un brillio ipnotico. «Che cos'è la rivoluzione?» «La rivoluzione è il potere al popolo» strillarono tutti, simili a ragazzi occidentali della loro età a un concerto pop. «Chi è il popolo?» «Noi siamo il popolo.» «Chi è il potere?» «Noi siamo il potere.» Si dondolavano tutti sui sedili, in preda all'estasi. Quasi tutte le ragazze gridavano di gioia. «Chi è il compagno Inkunzi?» «Il compagno Inkunzi è il padre della rivoluzione.» «Che cos'è la rivoluzione?» «La rivoluzione è il potere al popolo.» Il catechismo ricominciò e, per quanto potesse sembrare impossibile, i ragazzi si sentirono trasportare ancora più in alto dalle ali del fanatismo politico. Tungata, che era stranamente eccitato come gli altri, si meravigliava dell'astuzia e della facilità con cui la scena veniva orchestrata. Tebe li spronò ancora di più fino a quando persino Tungata si sorprese a strillare con gli altri in una meravigliosa catarsi dell'odio e dell'angoscia che l'avevano tormentato dopo la morte di Constance. Tremava come scosso dalla febbre, e quando l'autobus sobbalzò e gli buttò addosso il corpo snello e appena maturo di Miriam, si sentì subito eccitato sessualmente. Era una strana follia quasi religiosa che li sopraffaceva tutti; e alla fine il compagno Tebe fece intonare loro la canzone. «E' la canzone che canterete quando andrete in battaglia, è il canto della vostra gloria, il canto della rivoluzione.» Lo cantarono con le dolci, pure voci da ragazzi; e le ragazze battevano le mani in un ritmo spontaneo: Ci sono fucili al di là del confine e i vostri padri assassinati fremono. Ci sono fucili al di là del fiume e i vostri figli nati schiavi piangono. C'è una luna di sangue che sorge: fino a quando dormirà la libertà? Ora, finalmente, Tungata sentì le lacrime scorrergli dagli occhi e discendergli sulla faccia in rivoli scottanti. Ci sono fucili in Angola e un sussurro nel vento. Ci sono fucili a Maputo e una ricca messe rossa da mietere. C'è una luna di sangue che sorge: fino a quando dormirà la libertà? Il canto li lasciò storditi ed esausti, come i sopravvissuti di un'avventura terribile. Il compagno Tebe parlò a voce bassa all'autista, e lasciarono la strada principale per avventurarsi in una pista appena distinguibile nella foresta. L'autobus fu costretto a rallentare a passo d'uomo mentre seguiva il tracciato serpentino intorno ai tronchi degli alberi più grossi e giù per i letti dei fiumi in secca. Era buio quando si fermarono. La pista s'era persa tra la vegetazione e quasi tutti i ragazzi s'erano addormentati. Tungata passò lungo la corsia per svegliarli e farli scendere. I maschi furono mandati a raccogliere legna da ardere, le ragazze dovettero preparare un semplice pasto di farina di mais e del tè dolce. Tebe prese in disparte Tungata e spiegò: «Siamo entrati nell'area liberata. I rhodesiani non pattugliano più questo tratto di territorio. Proseguiremo a piedi. Impiegheremo due giorni per arrivare al guado. Tu marcerai in coda alla colonna, e starai attento alle diserzioni. Fino a quando raggiungeremo il fiume ci sarà sempre pericolo che qualcuno voglia tirarsi indietro. Adesso liquiderò l'autista.» Tebe condusse via l'uomo terrorizzato, tenendogli un braccio intorno alle spalle. Ritornò da solo dopo venti minuti. Intanto quasi tutti i ragazzi avevano mangiato e s'erano raggomitolati come cuccioli sulla terra nuda intorno ai fuochi. La giovane Miriam si avvicinò timidamente con una ciotola di polenta di mais, e i due uomini sedettero vicini per mangiare. Tebe parlò a bocca piena.
«Tu credi che siano bambini» disse indicando i giovani studenti addormentati. «Invece imparano in fretta e fanno quel che gli si insegna, senza discutere. Non hanno la concezione della morte e quindi non hanno paura. Obbediscono, e quando crepano non si perdono uomini addestrati e insostituibili. I simba li usavano nel Congo, i vietcong li usavano contro gli americani. Sono l'ideale carne da cannone di cui si nutre la rivoluzione.» Tebe finì di raschiare la ciotola. «Se una delle ragazze ti piace, puoi usarla come vuoi. E' uno dei loro doveri.» Tebe si alzò. «Tu farai il primo turno di guardia. Ti darò il cambio a mezzanotte.» Si allontanò continuando a masticare. Quando arrivò accanto al fuoco più vicino si accosciò accanto a Miriam e le bisbigliò qualcosa. Lei si alzò subito e lo seguì fiduciosamente nel buio. Più tardi, mentre Tungata faceva la ronda al perimetro del campo, sentì un gemito soffocato di dolore dall'oscurità dove Tebe aveva portato la ragazza. Poi si sentì il rumore d'una percossa e il gemito si smorzò in un singhiozzo. Tungata girò dall'altra parte del campo per non sentire. Prima dello spuntar del giorno Tungata guidò l'autobus fino alla riva scoscesa del corso d'acqua; e lì, tra grida di giubilo, i maschi lo spinsero dalla scarpata. Le femmine li aiutarono a raccogliere i rami e ad ammucchiarli sul veicolo, in modo che non fosse visibile da un elicottero in volo a bassa quota. Alla prima luce proseguirono verso nord. Tebe stava in testa, circa mezzo chilometro più avanti della colonna. L'insegnante rimase con i ragazzi, imponendo il silenzio assoluto ordinato da Tebe. Non avevano percorso più d'un chilometro e mezzo, e l'insegnante aveva già la camicia fradicia di sudore e gli occhiali appannati. Tungata veniva per ultimo, con l'AK, evitando il sentiero e restando nell'ombra screziata della foresta. A intervalli di pochi minuti si soffermava e restava in ascolto, e ogni ora tornava indietro per mettersi in agguato sul bordo del sentiero e assicurarsi che non fossero seguiti. Non aveva dimenticato le astuzie di guardacaccia. Si trovava completamente a suo agio ed era stranamente felice. Il futuro era ormai deciso. S'era impegnato. Non aveva più dubbi,.non provava rimorsi. Il sangue guerriero di Gandank e di Bazo gli scorreva rabbioso nelle vene. A mezzogiorno si fermarono per riposare un'ora. Non accesero i fuochi, mangiarono la polenta fredda e bevvero l'acqua fangosa di una pozza tra i mopani. L'acqua aveva il sapore dell'urina degli elefanti che vi avevano fatto il bagno durante la notte. Quando Miriam portò la razione a Tungata non lo guardò in faccia; e quando si allontanò si muoveva con cautela, come se fosse dolorante. Nel pomeriggio incominciarono a scendere verso lo Zambesi, e il carattere della boscaglia cambiò. Le foreste grandiose lasciarono il pOstO alla savana più aperta, e apparvero segni vistosi della presenza della selvaggina. Mentre faceva un ampio giro dietro la colonna, Tungata sorprese un vecchio maschio d'antilope nera, con il manto d'ebano e bianco e le eleganti corna arcuate all'indietro. Era nobile e maestoso. Tungata provò uno strano senso d'affinità verso l'animale; e quando l'antilope fiutò il vento e fuggì al galoppo, gli lasciò la sensazione d'essere arricchito e fortificato. Tebe fece fermare la colonna a metà del pomeriggio e disse: «Marceremo tutta la notte. Ora dovete riposare.» Poi prese da parte Tungata e tracciò una mappa nella polvere con uno stecco. «Questo è lo Zambesi. Sull'altra riva c'è lo Zambia. Sono nostri alleati. E là che andremo. A ovest ci sono il Botswana e il territorio privo d'acqua. Ci stiamo muovendo parallelamente al confine, ma prima di raggiungere lo Zambesi dobbiamo attraversare la strada tra le Cascate Vittoria e Kazungula. I rhodesiani la pattugliano. Dobbiamo attraversarla nell'oscurità. Poi, più oltre, lungo questa sponda del fiume i rhodesiani hanno disposto il loro cordon sanitaire. E' un campo minato per impedirci di passare ai guadi. E' necessario che ci arriviamo all'alba.» «Come attraverseremo il campo minato?» «I nostri ci aspettano per farci da guida. Ora riposa.» Tungata si svegliò nel sentire la mano che gli toccava la spal la, e spalancò gli occhi. «La ragazza» bisbigliò Tebe. «La ragazza, Miriam. E scappata.» «Il maestro non l'ha fermata?» «Gli ha detto che andava a fare i suoi bisogni.» «Non è importante» disse Tungata. «Lasciala
andare.» «Lei non è importante» disse Tebe. «Ma è importante dare un esempio agli altri. Trovala» ordinò. Miriam doveva conoscere la topografia dell'estremo angolo nordoccidentale del Matabeleland. Anziché tornare indietro, s'era avviata verso nord lungo la loro linea di marcia: evidentemente sperava di raggiungere la strada di Kazungula finché era ancora chiaro, e di cercare una delle pattuglie rhodesiane. «Abbiamo fatto bene a seguirla» mormorò Tebe, non appena le tracce divennero evidenti. «Quella troia ci avrebbe attirato addosso i kanka entro un'ora.» La ragazza non aveva cercato di nascondere le tracce, e Tungata le seguiva correndo. Era in perfetta forma, perché aveva lavorato con Clay Mellow nelle sanguinose operazioni di sfoltimento dei branchi di elefanti, e sedici chilometri bastavano appena per appesantirgli il respiro. Il compagno Tebe gli stava a fianco agilmente, svelto come un leopardo e con gli occhi crudeli che scrutavano tra la vegetazione. Raggiunsero Miriam tre chilometri prima che arrivasse alla strada. Quando se li vide alle spalle, la ragazza desistette. Si lasciò cadere in ginocchio. Tremava irrefrenabilmente e batteva i denti. Si fermarono accanto a lei, e Miriam non osava guardarli. «Ammazzala» ordinò Tebe a voce bassa. Istintivamente, Tungata aveva sempre saputo che sarebbe finita così: tuttavia provò un senso di gelo nell'anima. «Noi non ripetiamo mai un ordine» disse Tebe, e Tungata si affrettò a imbracciare l'AK. «Non con il fucile» disse Tebe. «La strada è dietro quegli alberi. I rhodesiani arriverebbero dopo pochi minuti.» Tebe si tolse dalla tasca il coltello a serramanico e lo passò a Tungata. Questi appoggiò il fucile al tronco di un mopani e aprì la lama. Vide che la punta era spezzata, e quando ne controllò il filo sul pollice scoprì che Tebe l'aveva smussato di proposito strusciandolo contro una pietra. Si sentì sgomento e nauseato all'idea di ciò che doveva fare e dal modo in cui doveva farlo. Si affrettò a nascondere le sue emozioni perché Tebe l'osservava incuriosito. Capiva che quella era una prova, una prova di crudeltà, e sapeva che se l'avesse fallita sarebbe stato spacciato come la ragazzina, Miriam. Impassibile, Tungata si sfilò la cintura di cuoio dai jeans e l'usò per legare le mani di Miriam. Si piazzò dietro di lei per non vedere gli occhi scuri e terrorizzati, le piantò un ginocchio tra le scapole e le tirò all'indietro il mento per scoprirle la gola. Poi lanciò un'altra occhiata a Tebe. Tebe non cambiò espressione. Tungata si mise all'opera. Ci volle un po', perché la lama era sciupata e la ragazza si dibatteva disperatamente: ma alla fine dalla carotide fiottò uno zampillo di sangue, e Tungata lasciò ricadere Miriam bocconi. Ansimava e puzzava di sudore rancido; ma finalmente le ultime vestigia dell'esistenza di Samson Kumalo erano cadute. Adesso era davvero Tungata Zebiwe, Colui-che-cerca-ciò-che-è-statorubato... Colui-che-cerca-giustizia. Strappò un fascio di foglie da un giovane mopani e si asciugò le mani. Poi pulì la lama piantandola per terra. Quando restituì il coltello al compagno Tebe, incontrò con fermezza i suoi occhi e vi scorse una scintilla di pietà e di comprensione. «Adesso non puoi più tornare indietro» sibilò Tebe. «Finalmente sei davvero uno di noi.» *** Raggiunsero la strada un po' dopo mezzanotte, e mentre l'insegnante tratteneva i ragazzi in un gruppo silenzioso dentro un boschetto, Tebe e Tungata ne esplorarono i margini per un chilometro in entrambe le direzioni, nell'eventualità che i rhodesiani avessero teso un'imboscata. Quando constatarono che la via era libera, portarono i ragazzi dall'altra parte, nel punto scelto da Tungata, dove la ghiaia compatta non avrebbe rivelato le orme. Poi Tungata tornò e spazzò meticolosamente la superficie della strada con un grosso fascio d'erba.
Raggiunsero il cordon sanitaire prima che facesse giorno. La fascia minata era lunga sessantacinque chilometri e ampia cento metri, e conteneva più di tre milioni di congegni esplosivi di diversi tipi, dalle Claymore agli ordigni a scatto, alle mine antiuomo che potevano mutilare d'un arto ma difficilmente uccidevano sul colpo. Lo scopo era lasciare al nemico un ferito da soccorrere, un ferito che non avrebbe più potuto combattere. Il bordo del campo minato era contrassegnato da una fila di dischi smaltati piazzati su pali o inchiodati ai tronchi degli alberi. Sui dischi spiccava un teschio rosso con le tibie incrociate e la scritta: PERICOLO, MINE. Tebe ordinò ai ragazzi di restare sdraiati nella fitta erba bruna e di tirarsi addosso gli steli per mimetizzarsi e non venire riconosciuti dall'alto. Poi si misero in attesa. Tebe spiegò a Tungata: «Le mine antiuomo sono disposte secondo un certo schema; ma è molto difficile scoprirne la chiave e spesso ci sono lacune volute. O«orre una grande abilità e un coraggio di ferro per addentrarsi nel campo minato, scoprirne lo schema e identificare esattamente il punto in cui inizia e anticiparne la sequenza. Le Claymore sono diverse e richiedono altri trucchi.» «Quali trucchi?» «Lo vedrai quando arriverà la nostra guida.» Ma all'alba la guida non arrivò. A mezzogiorno Tebe disse: «Non possiamo far altro che aspettare. Avventurarsi da soli nel campo minato sarebbe andare incontro a morte sicura.» Non c'erano viveri né acqua, ma non permise ai ragazzi di muoversi. «Dovrebbero impararlo comunque» disse alzando le spalle. «La pazienza è la nostra arma.» La guida arrivò nel tardo pomeriggio. Persino Tungata se ne accorse solo quando fu in mezzo a loro. «Come ci hai trovati?» «Ho cercato lungo il bordo della strada fino a quando ho visto il punto dove avevate attraversato.» Non era molto più anziano degli studentelli sequestrati, ma i suoi occhi erano quelli d'un vecchio che la vita non riesce più a sorprendere. «Sei in ritardo» disse Tebe in tono d'accusa. «C'è un'imboscata dei rhodesiani al guado.» La guida alzò le spalle. «Ho dovuto fare il giro.» «Quando puoi farci passare?» «Non prima che scenda la rugiada.» La guida si sdraiò a fianco di Tungata. «Non prima di domattina.» «Mi spiegherai lo schema delle mine?» chiese Tungata, e il ragazzo diede un'occhiata a Tebe che annuì per dare il suo consenso. «Pensa alle venature nella foglia del mopani» esordì la guida, e tracciò le linee nella polvere. Parlò per quasi un'ora, mentre Tungata annuiva e ogni tanto l'interrompeva per fare qualche domanda. Quando ebbe finito di parlare, il ragazzo appoggiò la testa sulle braccia conserte e non si mosse più fino all'alba dell'ìndomani mattina. Era un'abitudine che avevano acquisito tutti, l'abitudine di addormentarsi istantaneamente e di svegliarsi istantaneamente. Quelli che non l'acquisivano non duravano molto. Non appena la luce fu abbastanza forte, la guida strisciò al limitare del campo. Tungata la seguì da vicino. Nella destra, il ragazzo teneva un raggio affilato di ruota di bicicletta, nell'altro un mazzo di striscioline di plastica gialla, ritagliate da un sacchetto per la spesa. Si accovacciò a terra e inclinò la testa come un passero. «La rugiada» bisbigliò. «La vedi?» E Tungata trasalì. A pochi passi da loro, una fila di scintillanti gocciole diamantine sembrava sospesa nell'aria a pochi centimetri da terra. Il filo quasi invisibile di una Claymore era imperlato da quella collana di rugiada colpita dai primi, bassi raggi del sole. La guida la contrassegnò con una striscia gialla e incominciò a sondare con il raggio di bicicletta. Dopo qualche secondo incontrò qualcosa nel terriccio molle e friabile e liberò delicatamente con le dita la grigia superficie circolare d'una mina antiuomo. Si alzò lasciandosela fra i piedi, e si sporse per sondare di nuovo. Lavorava con rapidità sorprendente. E trovò altre tre mine. «Dunque abbiamo trovato la chiave» disse a Tungata che stava sdraiato al margine del campo. «Adesso dobbiamo muoverci in fretta, prima che la rugiada si asciughi.» Il giovane strisciò audacemente lungo il passaggio del quale aveva scoperto l'entrata. Contrassegnò i fili di altre due
Claymore prima di arrivare alla svolta invisibile nel passaggio. Sondò di nuovo e non appena trovò la conferma dello schema, svoltò nel nuovo zig-zag. Impiegò ventisei minuti per aprire e segnare il percorso fino all'estremità opposta della fascia minata. Poi tornò indietro e sorrise a Tungata. «Credi di poterlo fare anche tu, adesso?» «Sì» rispose Tungata in tono sicuro, e il sorriso baldanzoso del ragazzo si dileguò. «Sì, credo che potresti riuscirci... ma stai sempre attento a quelle fuori schema. Le mettono apposta. E' impossibile prevederle, bisogna stare molto in guardia.» La guida e Tungata fecero attraversare i ragazzi a gruppi di cinque, ordinando loro di tenersi per mano. Ogni volta che arrivavano a una Claymore, Tungata o il ragazzo si piazzavano con un piede da ogni lato dei fili per assicurarsi che nessuno li toccasse nel passare. Durante l'ultimo tragitto, quando Tungata era a meno di una dozzina di passi dalla salvezza e stava ancora a cavallo dell'ultimo filo, sentirono tutti il rombo del motore di un aereo. Stava arrivando lungo il fiume dalla direzione delle Cascate Vittoria, e cresceva rapidamente di volume. Tungata e gli ultimi tre ragazzi erano allo scoperto. La tentazione di correre via era quasi irresistibile. «Non muovetevi» gridò disperatamente la guida. «Restate immobili, giù!» S'inginocchiarono in mezzo al campo minato, e il sottile filo d'acciaio con il contrassegno di plastica passava sotto l'inguine di Tungata. Era a pochi centimetri dalla morte. Il fragore dell'aereo s'intensificò rapidamente e passò sopra le chiome degli alberi tra loro e il fiume. Era un Beechcraft Baron dipinto d'argento con la scritta RUAC in nero sopra la fusoliera. «Rhodesian United Air Carriers» l'identificò la guida. «Portano i porci turisti capitalisti a vedere il Fumo Tonante.» L'apparecchio era così basso e così vicino che poteva vedere chiaramente il pilota con la passeggera seduta accanto a lui; poi all'improvviso virò e venne nascosto dalle fronde delle palme dell'avorio vegetale che crescevano lungo le rive dello Zambesi. Tungata si raddrizzò lentamente. Aveva la camicia incollata addosso dal sudore. «Muoviti» disse al ragazzo che gli stava accanto. «Ma con prudenza.» Nelle Cascate Vittoria lo Zambesi si tuffa in un precipizio e si getta nella stretta gola sottostante in un tumulto di spruzzi fragorosi che ha ispirato il nome africano di Fumo Tonante. Pochi chilometri più a monte di questo fenomeno incredibile incominciano i guadi. Per sessantacinque chilometri, fino al piccolo posto di confine di Kazungula, l'ampio fiume discende tra le rapide e poi si allarga in secche tranquille. Vi sono dodici località dove i buoi possono trainare un carro fino alla riva settentrionale, o dove un uomo può passare a guado se è disposto a sfidare i coccodrilli dello Zambesi, che pesano fino a una tonnellata e sono capaci di strappare la zampa d'un bufalo e trangugiarla intera. «Hanno teso un'imboscata ai guadi» disse la guida a Tungata. «Ma non possono sorvegliarli tutti. So dov'erano stamattina, ma può darsi che si siano spostati. Vedremo.» «Vai con lui» disse Tebe, e Tungata accettò l'ordine come una manifestazione di fiducia. Quella mattina imparò dalla giovane guida che per sopravvivere era necessario usare tutti i sensi, non soltanto la vista e l'udito. I due si avvicinarono a uno dei guadi. Avanzavano un centimetro alla volta, scrutando e ascoltando, studiando i fitti cespugli rivieraschi e le liane aggrovigliate sotto i tronchi gonfi d'acqua della foresta. Il tocco della guida mise in allarme Tungata. Si stesero a spalla a spalla su uno strato di muffa umida, assolutamente immobili ma tesi come vipere pronte a scattare. Qualche minuto più tardi Tungata si accorse che la guida stava fiutando l'aria; poi il giovane gli accostò le labbra all'orecchio e sussurrò sottovoce: «Sono qui.» Tirò indietro Tungata e, quando furono un po' lontani, chiese: «Hai sentito l'odore?» Tungata scosse la testa e la guida sogghignò. «La menta. Gli ufFiciali bianchi non capiscono che l'odore del dentifricio resta nell'aria per giorni interi.» Trovarono un guado incustodito e attesero l'oscurità per farlo attraversare ai ragazzi, ordinando loro di prendersi per mano. Quando furono sull'altra riva, la guida non li lasciò riposare. Li costrinse a procedere sebbene tremassero di freddo negli indumenti fradici.
«Ora siamo nello Zambia, ma non siamo ancora al sicuro» disse. «Il pericolo, qui, è grande come sulla riva sud. I kanka vanno e vengono come vogliono; e se sospettano che siamo qui, ci inseguiranno.» Li fece marciare per tutta la notte e per metà del giorno seguente. I ragazzi si trascinavano e gemevano per la fame e la stanchezza. Nel pomeriggio la pista li condusse improvvisamente fuori della foresta, sulla linea ferroviaria principale. Accanto alle rotaie c'era una mezza dozzina di rudimentali baracche di tela e di pali. Sul binario morto c'erano due carri bestiame. «Il posto di reclutamento dello ZIPRA» spiegò la guida. Per il momento siete al sicuro.» La mattina dopo, mentre i ragazzi venivano caricati su uno dei carri bestiame, la guida andò a cercare Tungata. «Va' in pace, compagno. Ho un istinto per riconoscere quelli che sopravvivranno e quelli che moriranno nella boscaglia. Credo che tu vivrai per veder realizzato il sogno della gloria.» Gli strinse la mano, alternativamente il palmo e il pollice in segno di rispetto. «Credo che c'incontreremo ancora, compagno Tungata.» Ma s'ingannava. Qualche mese dopo Tungata venne a sapere che la guida era incappata in un'imboscata ai guadi. Con lo sto maco squarciato, s'era infilato nella tana di un oritteropo e aveva tenuto a bada i militari fino a quando aveva sparato l'ultimo colpo. Poi aveva strappato la linguella a una bomba a mano e se l'era stretta contro il petto. *** Il campo era trecentoventi chilometri a nord dello Zambesi. C'erano millecinquecento reclute alloggiate nelle caserme dai tetti di paglia. Quasi tutti gli istruttori erano cinesi. L'istruttore di Tungata era una giovane donna di nome Wan Lok. Era bassa e tozza, con le membra robuste della contadina. La faccia era piatta e giallastra, gli occhi oblìqui e lucidi come quelli di un mamba, e portava un berretto di tela e una goffa uniforme di cotone che sembrava un pigiama. Il primo giorno li fece correre nel caldo per quaranta cllilometri con uno zaino da quaranta chili. Sebbene portasse lo stesso peso, procedeva in testa agevolmente e ogni tanto tornava indietro per arringare e rimproverare i ritardatari. Prima di sera, Tungata non trovò più da ridire all'idea di venire addestrato da una donna. Poi corsero ogni giorno e si esercitarono con pesanti pertiche di legno e impararono la disciplina cinese della boxe allenandosi contro l'ombra. Lavorarono con gli AK fino a quando riuscirono a smontarli a occhi bendati e a rimontarli in quindici secondi. Lavorarono con i lanciarazzi RPG-7 e le bombe a mano; lavorarono con le baionette e i coltelli da trincea. Impararono a piazzare le mine e a potenziarle con esplosivo plastico in modo da distruggere anche i veicoli antimine. Impararono a infilare le mine sotto la superficie d'una strada asfaltata scavando a partire dal bordo. Impararono a tendere un'imboscata nei sentieri della foresta e lungo le grandi strade. Impararono a organizzare un ripiegamento difensivo di fronte a una potenza di fuoco superiore e a ritardarla e intralciarla. E facevano tutto questo mentre vivevano d'una razione quotidiana costituita da un mestolo di polenta di mais e una manciata di kapenta secchi, i pesciolini puzzolenti del lago Kariba simili ai bianchetti. Lo Zambia, il paese che li ospitava, pagava a caro prezzo l'appoggio dato alla causa dei terroristi. La linea ferroviaria per il sud che attraversava il ponte sulle Cascate Vittoria era chiusa dal 1973, e le forze rhodesiane avevano attaccato e distrutto i ponti d'accesso nella Tanzania e nel Mozambico, gli unici collegamenti dello Zambia con il mondo esterno. Le razioni riservate ai guerriglieri erano sontuose in confronto a quelle che toccavano ai comuni cistadini dello Zambia. Smagriti dalla fame e induriti come il ferro dalle fatiche, passavano metà delle notti nei comizi politici, a cantare interminabilmente e a gridare risposte collettive al catechismo del commissario. «Che cos'è la rivoluzione?» «La rivoluzione è il potere al popolo.» «Chi è il popolo?» «Chi è il potere?» Dopo mezzanotte veniva loro concesso di trascinarsi nelle caserme per dormire... fino a quando gli istruttori venivano a svegliarli di nuovo alle quattro del mattino.
Dopo tre settimane, fungata fu condotto nella sinistra baracca isolata alla periferia del campo. Circondato da istruttori e commissari politici, fu spogliato nudo e costretto a «lottare.» Mentre gli urlavano gli insulti peggiori e lo chiamavano «cane dei capitalisti razzisti» e «controrivoluzionario» e «reazionario imperialista» Tungata fu indotto a denudare anche la propria amma. Gridò a gran voce le sue confessioni. Disse che aveva lavorato con i tiranni capitalisti, aveva rinnegato i suoi fratelli, aveva dubitato e aveva nutrito pensieri reazionari e controrivoluzionari, aveva desiderato il cibo e il riposo e aveva tradito la fiducia dei compagni. Lo lasciarono completamente esausto e distrutto sul pavimento della baracca. Poi Wan Lok lo prese per mano come se fosse sua madre e lo condusse barcollante e piangente alla caserma. L'indomani gli fu permesso di dormire fino a mezzogiorno e si svegliò in forma e sereno. La sera, al comizio politico, fu chiamato a prendere il suo posto in prima fila tra i capi-sezione. Un mese dopo Wan Lok lo convocò nella susa baracca, nel complesso degli istruttori. Gli stava davanti, tozza e sgraziata nell'uniforme di cotone gualcito. «Domani te ne andrai» gli dìsse, togliendosi il berretto. Tungata non le aveva mai visto i capelli. Le arrivavano fino alla cintura, folti e neri e liquidi come olio greggio. «Non mi rivedrai piu» disse lei, sbottonandosi l'uniforme. Aveva il corpo color burro, sodo e incredibilmente robusto: ma ciò che sorprese e incuriosì Tungata fu il pelo pubico, liscio come i capelli, senza riccioli. Lo eccitò indicibilmente. «Vieni, disse lei, e lo condusse al materasso sottile, sul pavimento di terra della baracca. *** Al ritorno non passarono dai guadi; attraversarono lo Zambesi con le canoe, nel punto dove il fiume si gettava nell'immensità del lago Kariba. Nel chiaro di luna i profili degli alberi semisommersi erano argentei, con rami simili a membra di lebbrosi contro lo sfondo del cielo stellato. Erano quarantotto persone, agli ordini di un commissario politico e di due capitani giovani ma già temprati dalle battaglie. Tungata era uno dei quattro capi-sezione, con dieci uomini sotto di lui. Ognuno, anche il commissario, portava un carico di sessanta chili. Non c'era posto per i viveri negli zaini, e perciò si nutrivano di lucertole e di ragni e delle uova degli uccelli selvatici. Disputavano alle iene e agli avvoltoi gli avanzi putrefatti delle prede dei leoni, e di notte visitavano i kraal dei contadini negri e gli vuotavano le scorte di grano. Attraversarono i monti Chizarira e procedettero verso sud nella foresta e nel deserto fino a quando arrivarono al fiume Shangani. Lo seguirono ancora verso sud, passando a pochi chilometri dal monumento solitario nella foresta di mopani, eretto nel luogo dove Allan Wilson e la sua pattuglia avevano opposto l'ultima, eroica ma vana resistenza contro l'impi di Gandank, figlio di Mzilikazi e fratello dell'ultimo re matabele, Lobengula. Quando arrivarono nelle terre degli agricoltori bianchi, incominciarono il loro lavoro. Posarono sulle strade sterrate le pesanti mine che avevano trasportato a spalla. Poi, liberati da quei fardelli onerosi, attaccarono le case isolate. In una settimana assaltarono quattro fattorie, nella certezza che le forze regolari non si spostavano più in soccorso di una residenza isolata, durante la notte, perché sapevano che i terroristi minavano tutte le strade di avvicinamento prima di un attacco. In questo modo i guerriglieri avevano a disposizione una notte intera per portare a termine l'impresa e dileguarsi. La tecnica, ormai, era perfezionata. Al cader della notte avvelenavano i cani e tagliavano i fili dell'allarme. Poi sparavano razzi nelle finestre e nelle porte e si avventavano nelle brecce. In due fattorie furono tenuti a bada da un'accanita difesa: ma nelle altre due riuscirono a entrare. Gli orrori che si lasciarono alle spalle erano una provocazione voluta per i soccorritori che sarebbero arrivati alle prime luci.
Ciò che avrebbero trovato avrebbe potuto indurre le forze di sicurezza a sfogare la rabbia contro la popolazione negra locale e quindi a spingerla dalla parte dello ZIPRA. Alla fine, dopo sei settimane di attività, quando rimasero a corto di munizioni e di esplosivi, incominciarono a ripiegare, tendendo continue imboscate. La prima l'abbandonarono dopo due giorni di attesa inutile. Ma ebbero fortuna nella seconda imboscata, su una remota strada di campagna. Presero un agricoltore bianco che stava portando all'ospedale la moglie colpita da peritonite. L'agricoltore aveva sull'auto anche due figlie adolesrenti. Riuscì quasi a sfondare l'imboscata: ma quando il veicolo blindato passò davanti a Tungata, questi balzò fuori dai cespugli e lo rincorse. Lo colpì da tergo, a distanza ravvicinata, con un razzo perforante RPG-7. L'agricoltore e la figlia maggiore rimasero uccisi sul colpo, ma la moglie malata e la figlia più giovane erano ancora vive. Il commissario politico lasciò che i «ragazzi» se la spassassero con le due donne morenti. Si misero in fila e le violentarono in mezzo alla strada, accanto ai veicoli sfasciati, uno dopo l'altro. Quando vide che Tungata non si univa alla fila, il commissario si degnò di spiegare: «Quando un ratele ti guida all'alveare, devi lasciargli un pezzo di favo. Fin dall'inizio della storia, lo stupro è sempre stato una delle ricompense dei vincitori. Li aiuta a combattere meglio e fa infuriare il nemico.» Quella notte abbandonarono la strada e si avventurarono di nuovo tra le colline, verso il lago e il rifugio. Gli Scout di Ballantyne li sorpresero verso la metà del pomeriggio seguente. Non vi fu un preavviso molto utile. Un minuscolo Cessna 210 da ricognizione li sorvolò in cerchio; e mentre i commissari e i capitani stavano ancora gridando l'ordine di piazzarsi e di fotmare un perimetro, arrivarono gli Scout. L'apparecchio era un vecchio bimotore Dakota che durante la Seconda guerra mondiale aveva prestato servizio nel Deserto Occidentale. Era dipinto di grigio non riflettente per sfuggire alle testate autocercanti a infrarossi dei missili SAM-7. Volava così basso che sembrava sfiorare le creste rocciose dei kopje; e quando la sua ombra nascose il sole per un momento, i combattenti si lanciarono dal portellone spalancato. Gli ombrelli verde-oliva dei paracadute si aprirono pochi secondi prima che toccassero terra. Quando la seta si spiegava, erano già al suolo. Atterrarono in piedi e, prima ancora che i paracadute ricadessero in pieghe morbide, si sganciarono dalle imbracature e avanzarono di corsa, sparando. Il commissario e i due capitani furono uccisi durante i primi tre minuti, e gli Scout avanzarono, spingendo i guerriglieri verdi per il terrore contro la base del kopje. Istintivamente Tungata radunò gli uomini che gli stavano più vicini e li guidò in un contrattacco disperato in un crepaccio poco profondo che bisecava la linea degli Scout. Sentì il comandante degli Scout che impartiva un ordine con l'altoparlante: «Verde e rosso, restate in posizione; blu, ripulite quel canalone.» La voce echeggiava distorta fra le colline, ma Tungata la riconobbe. L'aveva sentita l'ultima volta alla Missione di Khami, la notte della morte di Constance. E gli restituì freddezza e lucidità. Calcolò con esattezza il momento e uscì dal crepaccio sotto il crepitare sferzante degli FN. La sua calma diede coraggio agli uomini che erano con lui. Incominciò il ripiegamento difensivo che gli aveva insegnato Wan Lok. Rimasero in contatto per tre ore COn una formazione scelta, e Tungata tenne in pugno la sua piccola banda: contrattaccarono, posarono le mine antiuomo e resistettero in tutte le posizioni favorevoli fino a quando venne buio. Allora Tungata si disimpegnò e portò via i suoi uomini. Ormai erano rimasti soltanto in otto, e tre di loro erano feriti. Sette giorni più tardi, prima che si asciugasse la rugiada, Tungata aprì un passaggio attraverso il cordon sanitarie sondando con la baionetta fino a quando ebbe trovato la chiave dello schema, e portò i suoi uomini al di là del guado. Erano cinque. Nessuno dei feriti ce l'aveva fatta a reggere l'andatura, e Tungata li aveva liquidati personalmente con la Tokarev del commissario perché non venissero interrogati dagli inseguitori.
Nella città di Livingstone, sulla riva nord dello Zambesi di fronte alle Cascate Vittoria, Tungata si presentò al comando dello ZIPRA e il commissario rimase sbalordito. «Ma non siete morti tutti? I rhodesiani hanno dichiarato alla televisione...» *** Una Mercedes nera con autista e la bandiera del partito sul cofano portò Tungata alla capitale dello Zambia, Lusaka; e là, in una casa d'una strada tranquilla, venne ammesso in una stanza sobriamente arredata dove un uomo sedeva solo dietro una modesta scrivania di pino. «Baba!» Tungata lo riconobbe immediatamente. «Nkosi Nkulu! Grande capo!» L'uomo rise, un muggito gutturale. «Puoi chiamarmi così quando siamo soli, ma nelle altre occasioni devi chiamarmi compagno Inkunzi.» In sindebele, Inkunzi significava «toro.» Era un nome adatto a quell'uomo: era enorme, con il petto che sembrava una botte, il ventre che pareva un sacco di grano. I capelli erano folti e bianchi. Aveva tutti i requisiti venerati dai matabele, la forza fisica e la potenza, e la canizie della vecchiaia e della saggezza. «Ti ho seguito con interesse, compagno Tungata. Sono stato io che ti ho fatto cercare.» «Sono onorato, Baba.» «E tu hai ripagato la mia fiducia.» L'uomo si assestò sulla sedia e intrecciò le dita sullo stomaco. Tacque per un po' studiando la faccia di Tungata, poi chiese all'improvviso: «Che cos'è la rivoluzione?» La risposta ripetuta tante volte salì spontaneamente alle labbra di Tungata. «La rivoluzione è il potere al popolo.» Il compagno Inkunzi proruppe in un'altra risata tonante e divertita. «Il popolo è una stupida mandria di bovini» disse. «Non saprebbe cosa fare del potere se qualcuno fosse tanto stupido da darglielo! No, no! E' ora che tu impari la vera risposta.» Tacque e smise di sorridere. «La verità è che la rivoluzione è il potere per pochi eletti. La verità è che io sono il capo di questi pochi e che adesso tu, compagno Tungata, ne fai parte.» *** Clay Mellow fermò la Land Rover e spense il motore. Spostò lo specchietto retrovisivo e ci guardò dentro per regolare l'angolo del berretto a visiera. Poi girò gli occhi sul nuovo edificio elegante che ospitava il museo. Era al centro dei giardini botanici, circondato da palme altissime e prati verdi e aiuole sgargianti di gerani e piselli odorosi. Clay si accorse che stava cercando di rimandare il momento decisivo e strinse i denti. Lasciò la Land Rover nel parcheggio e salì la scalinata del museo. «Buongiorno, sergente.» La ragazza al banco delle informazioni riconobbe i galloni sulla manica dell'uniforme cachi e blu della polizia. Clay si vergognava ancora un po' della rapida promozione. «Non fare l'imbecille, ragazzo» aveva borbottato Bawu quando lui aveva protestato per quel ricorso all'influenza della hmiglia. «E' una nomina tecnica, sergente armiere.» «Salve!» Clay rivolse alla ragazza un sorriso da bravo ragazzo, e quella si raddolcì a vista. «Vorrei vedere la signorina Carpenter.» «Mi dispiace, ma non la conosco.» La ragazza sembrava rammaricarsi di doverlo deludere. «Ma lavora qui» insistette Clay. «Janine Carpenter.» «Oh!» La ragazza s'illuminò. «Vuol dire la dottoressa Carpenter. La sta aspettando?» «Sono sicuro che sa che sarei venuto» dichiarò Clay. «Stanza 211. Salga la scala, svolti a destra, passi dalla porta con il cartello "Ingresso riservato al personale", e poi la terza porta a destra.» Clay spinse l'uscio quando, dopo aver bussato, sentì l'invito «Avanti.» Era uno stanzone lungo e stretto, con i lucernari e i tubi fluorescenti in alto e le pareti rivestite fino al soffitto da una quantità di cassetti, ognuno con una coppia di lucide maniglie di bronzo. Janine era in piedi accanto al banco che occupava il centro dello stanzone.
Portava un paio di jeans e una camicia di lana da boscaiolo a quadri vistosi. «Non sapevo che portassi gli occhiali» disse Clay. Le davano un'aria da gufo erudito, e Janine si affrettò a toglierli e a nasconderli dietro la schiena. «Bene!» esclamò. «Che cosa vuoi?» «Senti» disse Clay, «dovevo assolutamente scoprire che cosa fa un entomologo. Avevo la strana impressione che facessi la lotta con le mosche tse-tse e ammazzassi le locuste a bastonate.» Chiuse la porta e continuò a parlare mentre si accostava al banco. «Ehi, dev'essere interessante!» Janine sembrava una gatta irritata con la schiena arcuata e il pelame ritto; ma si rilassò a poco a poco. «Vetrini» spiegò con riluttanza. «Sto preparando i vetrini per il microscopio.» Poi, nuovamente irritata, continuò: «Sai, dimostri i tipici pregiudizi dei profani disinformati. Non appena qualcuno parla di insetti, voi pensate immediatamente a quelli nocivi come le locuste e ai portatori di malattie come le mosche tse-tse.» «E' sbagliato?» «Gli esapodi costituiscono la classe più numerosa del più grande tipo d'invertebrati del regno animale, quello degli artropodi. Ha centinaia di migliaia di membri, quasi tutti utili all'uomo, mentre quelli nocivi rappresentano un'enorme minoranza.» Clay avrebbe voluto ribattere che «enorme minoranza» era una contraddizione in termini, ma per una volta diede ascolto al buon senso e si limitò a dire: «Non ci avevo mai pensato. In che senso sono utili all'uomo?» «Impollinano le piante, controllano gli insetti nocivi e servono da cibo...» Janine era lanciata, e dopo qualche minuto l'interesse di Clay non fu più simulato. Come tutti gli specialisti appassionati, Janine parlava in modo affascinante del suo campo di sapere. E quando si accorse di avere un ascoltatore ricettivo, divenne ancora più eloquente. I cassetti contenevano la collezione che, come aveva detto a Clay in occasione del loro primo incontro, risultava la più ricca del mondo. Mostrò a Clay microscopici coleotteri della famiglia Ptiliidae lunghi un quarto di millimetro e li comparò con i mostruosi scarabei Golia africani. Gli mostrò insetti dalla squisita bellezza gemmea e altri di bruttezza ripugnante. Gli mostrò insetti che imitavano le orchidee, i fiori, gli stecchi, la corteccia degli alberi e i serpenti. C'era una vespa che usava un sassolino come utensile e una mosca che, come il cuculo, deponeva le uova nei nidi altrui. C'erano formiche che allevavano gli afidi come vacche da latte e coltivavano funghi. Gli mostrò insetti che vivevano nei ghiacciai e altri che prosperavano nel centro del Sahara, alcuni che campavano nell'acqua marina, e persino larve che esistevano nelle pozze di petrolio grezzo e divoravano gli altri insetti rimasti intrappolati nel liquido glutinoso. Gli mostrò libellule con ventimila occhi e formiche capaci di sollevare oggetti mille volte più pesanti del loro peso corporeo; gli spiegò i modi più bizzarri della nutrizione e della riproduzione; ed era così rapita che dimenticò la propria vanità e rimise sul naso gli occhiali dalla montatura d'osso. Era tanto carina che Clay avrebbe voluto abbracciarla. Dopo due ore Janine si tolse gli occhiali e lo fronteggiò con aria di sfida. «Bene» disse, «io sono soprattutto il curatore della collezione di esapodi, ma sono anche consulente dei Dipartimenti dell'Agricoltura, della Conservazione della Natura e della Fauna e della Sanità. E' quel che fanno gli entomologi, signor mio. E tu cosa diavolo fai?» «Io? Invito a pranzo gli entomologi.» «A pranzo?» Janine lo guardò senza capire. «Che ora è? Mio Dio, mi hai fatto perdere l'intero sabato mattina!» «Bistecche» insistette Clay. «Ho appena preso la paga.» «Forse pranzerò con Roly» disse Janine, con una punta di crudeltà. «Roly è nella boscaglia.» «Come lo sai?» «Ho telefonato alla zia Val a Queen's Linn per informarmi.» «Furbacchione.» Janine rise, per la prima volta. «Sta bene, mi arrendo. Portami a pranzo.» Le bistecche erano tenere e la birra era ben ghiacciata, con le gocciole che scorrevano all'esterno del bicchiere. Risero molto e al termine del pranzo Clay chiese: «Cosa fanno gli entomologi il sabato pomeriggio?» «Cosa fanno i sergenti di polizia?» ribatté lei. «Vanno a caccia degli antenati della loro famiglia in posti strani e meravigliosi... vuoi venire anche tu?» Ormai Janine conosceva bene la Land Rover, perciò mise in testa un foulard di seta e inforcò gli occhiali scuri per proteggersi dal vento, e Clay rifornì di birra e ghiaccio tritato la cassetta frigorifera. Andarono nel Rhodes Matopos National Park, tra le colline incantate dove un tempo aveva regnato l'Umlimo e dove i matabele s'erano rifugiati nei momenti dei disastri tribali.
La bellezza di quei luoghi colpì Janine. «Le colline sembrano quei meravigliosi castelli fatali lungo le rive del Reno.» Nelle valli c'erano branchi di antilopi nere e di cudù, domestici come pecore. Alzavano appena la testa quando passava la Land Rover e poi riprendevano a pascolare. Sembrava che avessero le colline tutte per loro; pochi altri avrebbero osato avventurarsi lungo quelle strade sterrate nella roccaforte della tradizione matabele; ma quando Clay parcheggiò la Land Rover in un boschetto ombroso ai piedi di una massiccia, nuda cupola di granito, un vecchio custode matabele con l'uniforme del Parco venne loro incontro e li scortò fino al cancello con l'iscrizione: QUI SONO SEPOLTI UOMINI CHE BEN MERITARONO DEL LORO PAESE. Salirono sulla collina e là, vegliata da sentinelle di granito naturale e coperta da una pesante lastra di bronzo, trovarono la tomba di Cecil John Rhodes. «So così poco di lui» confessò Janine. «Credo che nessuno lo conoscesse bene» disse Clay. «Era un uomo enigmatico; ma quando lo seppellirono i matabele gli rivolsero il saluto reale. Aveva un potere incredibile sugli altri.» Scesero dall'altra parte della collina verso il mausoleo squadrato di blocchi di pietra con un fregio bronzeo di figure eroiche. «Allan Wilson e i suoi uomini» spiegò Gaig. «Hanno esumato i loro corpi dal campo di battaglia sullo Shangani e li hanno sepolti qui.» Sulla parte a settentrione del monumento c'era l'elenco dei caduti, e Clay passò l'indice sulla lista, fermandosi a un nome. «Il reverendo Clinton Codrington» lesse a voce alta. «Era il mio trisnonno, un uomo molto strano. E sua moglie, la mia trisnonna, anche lei era una donna fuori del comune. Loro due, Clinton e Robyn, fondarono la Missione di Khami. Qualche mese dopo che il marito fu ucciso dai matabele, Robyn sposò il comandante della colonna che aveva mandato Clinton incontro alla morte, un americano di nome St John. Scommetto che c'era sotto un intrigo molto interessante.» «Usava anche allora?» chiese Janine. «Credevo che fosse un'invenzione dei nostri tempi.» Proseguirono intorno al fianco della collina e arrivarono a un'altra tomba, sotto un msasa nano e deforme che aveva messo radici in una fenditura del granito. Come la tomba alla sommità del colle, anche questa era coperta da una pesante lastra di bronzo un po' sciupata dagli agenti atmosferici, ma l'iscrizione diceva: Qui giace il corpo di SIR RALPH BALLANTYNE PRIMO MINISTRO DELLA RHODESIA MERIDIONALE Ha ben meriTaTo della patria. «Ballantyne» disse Janine. «Dev'essere un antenato di Roly.» «Un antenato comune a tutti e due» disse Clay. «Il nostro bisnonno, padre di Bawu. E' per questo che si«Mo venuti qui.» «Cosa sai di lui?» «So molte cose, per la precisione. Ho appena finito di leggere i suoi diari personali. Era un tipo formidabile. Se non gli avessero dato il titolo di "Sir" probabilmente avrebbero dovuto impiccarlo. Secondo le sue confessioni segrete era un mascalzone di prim'ordine, ma molto pittoresco.» «Ecco da chi hai preso» rise Janine. «Continua.» «Stranamente, era nemico giurato di quell'altro briccone sepolto lassù.» Clay indicò nella direzione della tomba di Cecil Rhodes. «E qui sono sepolti quasi a fianco a fianco. Nel suo diario, il bisnonno Ralph scrive che fu lui a scoprire il giacimento di carbone di Wankie, e che Rhodes glielo fregò con un inghippo. Allora Ralph giurò di annientare Rhodes e la sua Compagnia, e lo scrisse! Te lo farò vedere. E si vantò d'esserci riuscito. Nel 1923 finì il dominio della British South Africa Company creata da Rhodes. La Rhodesia meridionale diventò una colonia britannica e il vecchio Sir Ralph fu nominato primo ministro. Aveva realizzato la sua minaccia.» Sedettero a fianco a fianco accanto alla tomba e Clay raccontò a Janine gli episodi più strani e interessanti che aveva letto nei diari segreti; lei ascoltava affascinata. «E' strano pensare che sono parte di noi e che noi siamo parte di loro» mormorò Janine. «E che quanto sta succedendo adesso ha avuto le radici in ciò che loro fecero e dissero.» «Senza passato non c'è futuro.» Clay ripeté le parole di Samson Kumalo e proseguì. «A proposito, c'è un'altra cosa che voglio fare prima di tornare in città.» Questa volta Clay non ebbe bisogno di qualcuno che lo
avvertisse in anticipo della svolta nascosta: girò sulla pista che passava davanti al cimitero, lungo il viale di spathodee che conduceva fino alle casette imbiancate della Missione di Khami. La prima delle casette era deserta. Non c'erano tende alle finestre e quando Clay andò sotto il portico e sbirciò all'interno, vide che le stanze erano vuote. «Chi cerchi?» chiese Janine quando Clay tornò alla Land Rover. «Un amico.» «Un buon amico?» «Il miglior amico che abbia mai avuto.» Clay proseguì fino all'ospedale e si fermò di nuovo. Lasciò Janine sulla Land Rover ed entrò nell'atrio. Una donna gli venne incontro a grandi passi. Portava un camice bianco e la faccia pallidissima aveva un cipiglio bellicoso. «Spero che non sia venuto a tormentare e a spaventare i nostri» disse. «Qui la polizia vuol dire guai.» «Mi dispiace.» Clay si guardò l'uniforme. «E' una faccenda privata. Sto cercando un mio amico. La sua famiglia abitava qui. Samson Kumalo...» «Oh.» La donna annuì. «Adesso la riconosco. Era il superiore di Sam. Be', se n'è andato.» «Se n'è andato? Sa dove?» «No» rispose secca la donna. «Suo nonno Gideon...» «E' morto.» «Morto?» Clay era sgomento. «E come?» «E' morto di crepacuore... quando voi della polizia avete assassinato qualcuno che gli era caro. Adesso, se non vuole sapere altro... Qui le uniformi non sono gradite.» *** Raggiunsero la città nel tardo pomeriggio. Clay andò direttamente allo yacht senza chiedere prima a Janine; e quando parcheggiò sotto i manghi lei non fece commenti. Scese e si avviò al suo fianco verso la scaletta. Clay mise un nastro sul registratore, stappò una bottiglia di vino e prese il diario di Sir Ralph che gli aveva prestato Bawu. Sedettero a fianco a fianco sul divano della saletta e lo sfogliarono attentamente. I disegni a inchiostro sbiadito e a matita che decoravano i margini entusiasmarono Janine; quando arrivò alla descrizione dell'invasione delle locuste negli anni '90 rimase affascinata. «Il vecchio aveva un notevole spirito d'osservazione» commentò, studiando il disegno d'una locusta. «Sembra quasi l'opera di un naturalista: guarda i dettagli.» Janine alzò gli occhi verso Clay che le sedeva accanto. Sembrava un cucciolo, un cucciolo in adorazione. Lei chiuse il volume rilegato in pelle senza distogliere lo sguardo. Clay si fece più vicino e Janine non cercò di scostarsi. Le coprì le labbra con le labbra, Le sentì intenerirsi e aprirsi. I grandi occhi obliqui si schiusero. Le ciglia erano lunghe e delicate come ali di farfalla. Dopo molto tempo Janine bisbigliò con voce rauca: «Per amor di Dio, non dire stupidaggini. Continua a fare quello che stai facendo.» Clay obbedì; e poi fu Janine a rompere il silenzio. Le tremava la voce. «Spero che avrai avuto la preveggenza di fare la cuccetta abbastanza larga per due.» In silenzio, la sollevò tra le braccia e la portò a constatarlo direttamente. «Sai, non immaginavo che potesse essere così.» C'era un tono di stupore nella voce di Clay, mentre la guardava appoggiandosi su un gomito. «E' stato così bello, naturale e facile.» Janine gli passò l'indice sul torso nudo, tracciandogli piccoli cerchi intorno ai capezzoli. «Mi piacciono i toraci villosi» mormorò. «Voglio dire... sai ho sempre pensato che fosse una cosa solenne... dopo voti e proclamazioni.» «Il suono dell'organo?» ridacchiò Janine. «Se mi perdoni l'espressione.» «Ecco un'altra cosa» disse lui. «L'unica volta che ti ho sentita ridacchiare è mentre lo fai o quando hai appena finito di farlo.» «E' l'unico momento in cui mi va di ridacchiare» ammise Janine, e ridacchiò ancora. «Sii gentile, va' a prendere i bicchieri e il vino.» «E adesso cosa c'è di tanto divertente?» chiese Clay dalla scaletta. «Hai il didietro bianco e liscio come quello di un neonato... No, non coprirlo.» Mentre Clay frugava nella cambusa, lei gli gridò dalla cabina: «Hai un nastro della Pastorale?» «Credo.» «Allora metti quello, tesoro.
«Perché?» «Te lo dirò quando tornerai a letto.» Janine era seduta sulla cuccetta, nuda nella posizione del loto. Clay le porse uno dei bicchieri; dopo qualche contorsione riuscì ad attolcere le gambe nella stessa posizionee si piazzò di fronte a lei. «Dimmi» la invitò. «Non essere tonto, Clay... non è l'accompagnamento ideale?» Un'altra tempesta di musica e di amore li investì, lasciandoli aggrappati disperatamente l'una all'altro. E nel silenzio quasi doloroso che seguì, Janine gli scostò teneramente i capelli madidi di sudore che gli erano caduti sugli occhi. Clay non resistette più. «Ti amo» esclamò. «Oh, Dio, ti amo tanto!» Janine lo scostò quasi bruscamente e si sollevò a sedere. «Sei un ragazzo simpatico e divertente e un amante piacevole, ma hai la capacità mostruosa di dire le cose più stupide nel momento meno opportuno.» L'indomani mattina Janine disse: «Tu hai preparato la cena, io preparerò la colazione.» Andò in cambusa. Portava soltanto una delle vecchie camicie di Clay. Dovette rimboccarsi le maniche, e le falde le pendevano sotto le ginocchia. «Hai abbastanza uova e bacon per aprire un ristorante... aspettavi una visita?» «Non l'aspettavo, ma ci speravo» gridò Clay dalla doccia. «Le mie uova ben cotte!» Dopo colazione Janine lo aiutò a installare sul ponte i grandi verricelli d'acciaio inossidabile. Clay aveva bisogno di qualcuno che tenesse in posizione le piastre mentre le perforava e le imbullonava. «Ci sai fare, eh?» disse Janine. Dovevano gridare per parlarsi, perché Clay lavorava sottocoperta mentre lei stava rannicchiata sul bordo del pozzetto. «Sei molto gentile a notarlo.» «Immagino che sarai anche un armiere di prima classe.» «Sono abbastanza bravo.» «E fai quello che sospetto? Prepari i fucili?» «E' uno dei miei compiti.» «Come puoi fare una cosa simile? I fucili sono diabolici.» «E' il tipico pregiudizio del profano disinformato» disse Clay, ripeténdo la critica che Janine aveva rivolto a lui il giorno prima. «Le armi da fuoco sono, su un certo piano, utensili estremamènte funzionali e utili; e su un altro piano possono essere magnifiche opere d'arte. L'uomo ha dedicato alle armi, molto spesso, i suoi istinti più creativi.» «Ma il modo in cui gli uomini le usano!» protestò Janine. «Per esempio, sono state usate per impedire che Adolf Hitler sterminasse l'intero popolo ebraico» le fece notare Clay. «Oh, Clay, andiamo. Per quale scopo vengono usate nella boscaglia in questo momento?» «Le armi non sono malefiche, ma sono malvagi alcuni degli uomini che le usano. Si può dire la stessa cosa anche delle chiavi inglesi.» Clay strinse più forte i dadi del verricello e si affacciò dalla botola. «Per oggi basta... il settimo giorno Dio si riposò. Cosa ne diresti d'una birra?» Clay aveva sistemato un altoparlante nel pozzetto. Oziarono al sole, bevvero la birra e ascoltarono la musica. «Senti, Jan, non conosco un modo raflinato per dirlo, ma non voglio che tu veda nessun altro. Capisci che cosa intendo dire?» «Ecco che ricominci.» Gli occhi si socchiusero e balenarono come ghiaccio azzurro. «Stai zitto, Clay!» «Voglio dire, dopo quello che c'è stato fra noi» continuò lui, ostinato. «Penso che dovremmo...» «Senti, mio caro, hai la possibilità di scegliere: farmi arrabbiare o farmi ridacchiare ancora. Che cosa preferisci?» Il lunedì, all'ora di pranzo, Janine andò al quartier generale della polizia e mangiarono i sandwich al prosciutto mentre Clay le faceva da guida nell'armeria. Nonostante tutto, Janine rimase affascinata dalle armi e dagli esplosivi catturati. Clay le spiegò il funzionamento dei vari tipi di mine e il modo per scoprirlo e renderle innocue. «Bisogna riconoscerlo» ammise Clay. «Quei porci dei terroristi le portano a spalla per trecento chilometri e più nella boscaglia. Prova un po' a sollevarne una e capirai che cosa intendo.» Infine la condusse in una stanzetta sul retro. «Questo è il mio progetto speciale. Si chiama R & I, come rintracciare e identificare.» Indicò le carte che coprivano le pareti e le cassette di bossoli vuoti, accatastate accanto al banco da lavoro. «Dopo ogni contatto con i terroristi i nostri armieri rastrellano l'area e raccolgono tutti i bossoli usati. Prima li controllano per scoprire le impronte
digitali: se il terrorista ha precedenti, possiamo identificarlo subito. Se ha lustrato i bossoli prima di caricare o se le sue impronte non sono schedate, possiamo comunque rintracciare esattamente quale fucile ha sparato quel colpo.» Clay condusse Janine al banco e le disse di guardare nel microscopio. «Il percussore di ogni fucile lascia sul bossolo un'intaccatura identificabile come un'impronta digitale. Possiamo seguire gli spostamenti di ogni terrorista in attività; possiamo effettuare una stima precisa del loro numero e riconoscere quelli che scottano.» «Quelli che scottano?» Janine alzò la testa dal microscopio. «Su cento terroristi in azione, circa novanta si rintanano al coperto presso un villaggio che può rifornirli di viveri e di ragazze giovani; e cercano di stare alla larga dal pericolo e dai contatti con le nostre forze. Ma quelli che scottano sono diversi. Sono le belve, I fanatici, gli assassini. E i diagrammi li indicano.» Clay la condusse davanti alla parete. «Guarda questo. Lo chiamiamo Ptimula perché il suo percussore lascia un segno che sembra un fiore. E' nella boscaglia da tre anni, ed è stato in contatto novantasei volte, all'incirca una volta ogni dieci giorni. Dev'essere d'acciaio.» Clay fece scorrere l'indice sul grafico. «Eccone un altro. Lo chiamano Zampa di Leopardo: il perché puoi vederlo dall'impronta del suo percussore. E' un nuovo arrivato; è la prima volta che ha passato il fiume, ha attaccato quattro fattorie, ha organizzato un'imboscata e poi ha avuto un contatto con gli Scout di Roly. Non sono molti quelli che sopravvivono: i ragazzi di Roly sono incredibili. Hanno spazzato via quasi tutti, ma Zampa di Leopardo si è battuto come un veterano e s'è sganciato portandosi via un gruppo dei suoi. Nel suo rapporto Roly dice di aver perso quattro uomini a causa delle mine antiuomo che Zampa di Leopardo ha piazzato durante la fuga, e altri sei nel combattimento vero e proprio. Sono state le perdite più pesanti subite dagli Scout in un contatto.» Clay batté sul nome. «E' uno che scotta. Sentiremo ancora parlare di lui.» Janine rabbrividì. «E' spaventoso... morte e sofferenze. Quando finirà?» «Ha avuto inizio quando l'uomo ha cominciato a reggersi sulle gambe, e non finirà certo domani. Parliamo piuttosto della cena di stasera. Passerò a prenderti alle sette in punto, d'accordo?» Janine gli telefonò all'armeria un po' prima delle cinque. «Clay, non venire a prendermi questa sera.» «Perché?» «Non ci sarò.» «Cos'è successo?» «Roly è tornato dalla boscaglia.» Clay lavorò un po' sul ponte dello yacht, e piazzò le gallocce; ma quando fu troppo buio scese sottocoperta e si aggirò sconsolato. Janine aveva lasciato gli occhiali da sole sul tavolino accanto alla cuccetta e il rossetto sul bordo del lavabo. La saletta conservava ancora l'odore del suo profumo, e i due bicchieri da vino erano accostati nell'acquaio. «Credo che mi sbronzerò» decise Clay. Ma non aveva acqua tonica, e il gin allungato con l'acqua naturale aveva un sapore orribile. Lo buttò via, e mise la Pastorale sul registratore; ma le immagini che evocava erano troppo dolorose. Premette il pulsante dello «stop.» Prese dal tavolo il diario di Sir Ralph e lo sfogliò. L'aveva letto due volte; avrebbe dovuto andare a King's Linn per il fine settimana. Bawu aspettava che andasse a prendere il volume successivo della serie. Ricominciò a leggerlo e fu un rimedio immediato per la solitudine. Dopo un po' frugò nel cassetto del tavolo da carteggio e trovò il quaderno a quadretti che aveva usato per disegnare la disposizione delle cabine e della cambusa. Strappò i fogli usati: ne restavano ancora più di cento. Sedette al tavolo della saletta con una matita e fissò per quasi cinque minuti il primo foglio bianco. Poi scrisse: «L'Africa stava accucciata sull'orizzonte, quasi un leone pronto all'agguato, color fulvo e oro nel primo sole, gelata dal freddo della Corrente del Benguela. «Robyn Ballantyne stava in piedi accanto al parapetto della nave e la guardava...» Clay rilesse ciò che aveva scritto e provò una strana esitazione, qualcosa che non aveva mai conosciuto in tutta la sua vita. Gli sembrava di vedete la giovane donna con il mento sollevato ansiosamente e il vento che le aggrovigliava i capelli. La matita cominciò a correre sulla pagina bianca; e la donna si mosse nella sua mente, parlò con voce chiara. Clay girò pagina e continuò a scrivere; poi, quasi prima che se ne rendesse conto, il
quaderno fu completamente pieno della sua grafia appuntita mentre oltre l'oblò il cielo andava rischiarando. *** Fin da quando Janine Carpenter riusciva a ricordare c'erano sempre stati i cavalli nelle scuderie di suo padre, dietro all'ambulatorio veterinario. Quando aveva otto anni suo padre l'aveva condotta per la prima volta a una caccia. Dopo il ventiduesimo compleanno, qualche mese prima della partenza per l'Africa, Janine aveva ricevuto i distintivi ufficiali di cacciatrice provetta. La cavalla che le aveva assegnato Roland Ballantyne era una bella baia senza segni particolari. Era ben strigliata e brillava al sole come seta rossa bagnata. Janine l'aveva montata spesso: era veloce e forte, e s'intendevano benissimo. Roland era in sella al suo stallone, un enorme animale nero che si chiamava Mzilikazi in ricordo del vecchio re. Le vene gli spiccavano come serpenti vivi sotto la pelle delle spalle e del ventre. I grossi testicoli neri erano rozzamente, poderosamente mascolini. Quando piegava gli orecchi all'indietro e snudava i denti, la membrana mucosa agli angoli degli occhi selvaggi aveva il colore del sangue. La sua arroganza minacciosa spaventava ed eccitava Janine. Cavallo e cavaliere si somigliavano. Roland Ballantyne portava calzoni marrone e stivali alti tirati a lucido come specchi. Le maniche corte della camicia bianca si tendevano sui muscoli duri e levigati delle braccia. Janine era certa che portasse sempre camicie bianche per far risaltare l'abbronzatura delle braccia e del viso. Pensava che fosse di una bellezza rara, e che quella sfumatura di crudeltà e di spietatezza lo rendesse ancora più attraente di quanto avrebbe potuto renderlo soltanto il suo aspetto. Quella notte, nel suo appartamento, Janine gli aveva domandato: «Quanti uomini hai ucciso?» «Quanti era necessario» aveva risposto Roland; e sebbene Janine odiasse la guerra e la morte e la sofferenza, s'era sentita incredibilmente eccitata. Più tardi Roland aveva riso e aveva detto: «Sei una carognetta depravata, lo sai?» E Janine aveva provato un impulso d'odio perché l'aveva capita, e s'era vergognata disperatamente e s'era infuriata al punto che aveva cercato di graffiargli gli occhi. Roland l'aveva bloccata senza fatica, continuando a ridere, e le aveva bisbigliato all'orecchio fino a farle perdere di nuovo il controllo. Ora, mentre lo guardava cavalcare al suo fianco, provava ancora un po' di paura di lui. Le. si accapponava la pelle delle braccia e un nodo le serrava la bocca dello stomaco. Salirono sulle colline e Roland fermò lo stallone che danzò in uno stretto cerchio, sollevò delicatamente gli zoccoli e cercò di annusare la cavalla; ma Roland lo costrinse a girare la testa dall'altra parte e indicò gli orizzonti che digradavano azzurri in ogni direzione. «Tutto ciò che vedi da qui, ogni filo d'erba, ogni granello di terra appartiene ai Ballantyne. Abbiamo combattuto per ottenerlo, l'abbiamo conquistato... è nostro, e chiunque voglia togliercelo dovrà prima uccidermi.» L'idea che qualcuno o qualcosa potesse fare una cosa simile era assurda. Roland era un giovane dio, uno degli immortali. Smontò e condusse i cavalli verso uno dei grandi msasa. Li legò, poi tese le braccia e sollevò Janine dalla sella. L'accompagnò sul ciglio dello strapiombo e la tenne vicina, con la schiena contro il petto, perché potesse vedere tutto il panorama. «Ecco!» disse. «Guarda.» Era bellissimo: ricchi pascolidorati e alberi slanciati, acque che scorrevano in fiumicelli trasparenti o brillavano come specchi laddove le trattenevano le dighe, le mandrie tranquille dei grandi bovini rossi, rossi come la terra ricca sotto i loro zoccoli: e su tutto s'inarcava l'alto cielo africano azzurro, screziato di nubi. «Ho bisogno di una donna che lo ami come lo amo io» disse Roland. «Una donna che metta al mondo figli capaci di amarlo e di conservarlo come io lo conserverò.» In quel momento Janine comprese ciò che stava per dire; e, adesso che stava per accadere, si sentiva stordita e confusa. Incominciò a tremare.
«Voglio che quella donna sia tu» disse Roland Ballantyne, e Janine si mise a piangere irrefrenabilmente. I sottufficiali degli Scout di Ballantyne si accordarono per offrire una festa di fidanzamento al colonnello e alla promessa sposa. La festa si svolse nella mensa dei sergenti della caserma Thabas Indunas. Erano stati invitati tutti gli ufficiali e le signore, e quando Roland e Janine arrivarono con la Mercedes, sulla veranda c'era una folla ad attenderli. A un segnale del sergente maggiore Gondele, i presenti intonarono con brio stonato For they are jolly good fellows. «Per fortuna non combattete come cantate» disse Roland. «A quest'ora i vostri didietro avrebbero più buchi di un crivello.» Roland li trattava con ruvida severità e con affetto paterno, e con la disinvoltura totale del maschio dominante; e loro lo veneravano apertamente. Questo Janine lo capiva. Si sarebbe sorpresa se le cose fossero state diverse. La sorprendeva, invece, la familiarità che regnava tra gli Scout, il modo in cui ufficiali e uomini, bianchi e negri, erano uniti da un legame quasi tangibile di fiducia e di armonia. Intuiva che si trattava di qualcosa ancora più forte del più stretto legame famigliare; e ogni volta che ne parlava a Roland, lui rispondeva semplicemente: «Quando la tua vita dipende da un altro uomo, finisci per affezionarti a lui.» Tutti trattavano Janine con immenso rispetto, quasi con soggezione. La chiamavano «Donna» se erano matabele, e «signora» se erano bianchi; e lei si abituò prontamente. Il sergente maggiore Gondele le portò un gin che avrebbe steso un elefante e la guardò con aria mortificata quando lei chiese un po' più di acqua tonica. Poi le presentò la moglie, la graziosa figlia rotondetta di un importante capo tribale matabele: «e quindi è una specie di principessa» spiegò Roland. Aveva cinque figli, lo stesso numero che Janine e Roly avevano deciso di avere, e parlava benissimo l'inglese. Le due giovani donne attaccarono subito una vivace conversazione, dalla quale Janine venne distolta più tardi quando una voce risuonò al suo fianco. «Dottoressa Carpenter, mi scuso per il ritardo.» Le parole erano pronunciate con i toni perfettamente modulati e l'accento di un annunciatore della BBC O di un diplomato della Reale Accademia d'Arte Drammatica. Janine girò la testa verso un'elegante figura nell'uniforme di comandante di stormo delle Forze Aeree rhodesiane. «Douglas Hunt-Jeffreys» disse lui, tendendo una mano snella e liscia, quasi femminea. «Ero desolato al pensiero di non conoscere l'incantevole fidanzata del prode colonnello.» Aveva lineamenti fini e inespressivi; e l'uniforme, nonostante il taglio perfetto, sembrava fuori posto sulle sue spalle strette. «L'intero reggimento è completamente nel pallone da quando abbiamo saputo la clamorosa notizia.» Janine comprese istintivamente che non era un gay, nonostante l'aspetto e la scelta delle parole. Ma c'era qualcosa nel modo in cui le teneva la mano, nello sguardo sottile che le avvolgeva tutto il corpo come una vestaglia di seta e poi tornava a fissarsi sul suo volto. Era interessante, come una lama di rasoio avvolta nel velluto. Se Janine avesse avuto bisogno di una conferma dell'eterosessualità di Hunt-Jeffreys, l'avrebbe trovata nella prontezza con cui Roland riapparve quasi immediatamente al suo fianco quando notò con chi stava parlando. «Dougie, vecchio cocco.» Il sorriso di Roland ricordava quello di uno squalo. «Bon vsoir, mon brave.» Il comandante di stormo si tolse di tra i denti il bocchino d'avorio. «Devo dire che non mi aspettavo da te una dimostrazione di gusto tanto squisito. La dottoressa Carpenter è incantevole. Approvo, ragazzo mio, approvo sinceramente.» «Dougie deve approvare tutto ciò che facciamo» spiegò Roland. «E' il nostro collegamento con il Comando Operazioni Combinate.» «Io e la dottoressa Carpenter abbiamo appena scoperto che eravamo quasi vicini, che facciamo parte dello stesso circolo della caccia, e che era compagna di scuola della mia sorella minore. Non capisco come mai non ci fossimo incontrati prima.» In quel momento, con un senso d'incredulità, Janine si accorse che Roland Ballantyne era geloso di lei e di quell'uomo.
Le prese il braccio, appena al di sopra del gomito, ed esercitò una pressione leggera per condurla via. «Scusaci, Douglas. Voglio far conoscere a Bugsy qualcuno dei ragazzi...» «Bugsy? Assurdo!» Douglas Hunt-Jeffreys scosse la testa con aria incredula e addolorata. «Questi coloniali sono tutti barbari.» E si allontanò in cerca di un altro gin and tonic. «Non ti è simpatico?» Janine non resistette alla tentazione di attizzare un po' la gelosia di Roland. «Sa far bene il suo lavoro» rispose Roland laconicamente. «A me è sembrato piuttosto carino.» «Perfidia Albione» rispose lui. «Che cosa significa?» «E' inglese.» «Lo sono anch'io» disse Janine, con una lieve sfumatura tagliente nel sorriso. «E se torni un po' indietro nel tempo, anche tu sei inglese, Roland Ballantyne.» «La differenza è che io e te siamo inglesi buoni. Douglas Hunt-Jeffreys è un cazzone.» «Oh, uno di quelli? Interessante!» E Roland rise con lei. «Se c'è una cosa che approvo senza riserve è una ninfomane dichiarata» disse. «Allora andremo perfettamente d'accordo, noi due.» Janine gli strinse il braccio in un gesto di riconciliazione, e Roland la condusse verso un gruppo di giovani in fondo al bar. Con i capelli tagliati cortissimi e le facce fresche sembravano studentelli: ma i loro occhi avevano un'espressione piatta e dura. Janine ricordava come li aveva chiamati Hemingway: «occhi da mitragliere.» «Nigel Taylor, Nandele Zama, Peter Sinclair.» Roland li presentò. «C'è mancato poco che si perdessero la festa. Sono tornati dalla boscaglia appena due ore fa. Questa mattina hanno avuto un buon contatto presso il Gwaai: ventisei morti.» Janine esitò prima di scegliere le parole, poi disse con un filo di voce: «Interessante» anziché «congratulazioni»; ma l'uno e l'altro sembravano clamorosamente poco appropriati per commentare la fine di ventisei vite umane. Comunque, parve che andasse bene così. «Monterà il colonnello questa sera, Donna?» chiese ansioso il giovane sergente matabele. Janine si affrettò a guardare Roland per chiedere un chiarimento. Anche in quell'ambiente familiare, sembrava una domanda un po' strana. «E' una tradizione della mensa.» Roland sorrise nel vederla a disagio. «A mezzanotte io e il sergente maggiore faremo una corsa, Ffino al cancello principale e ritorno. La principessa Gondele sarà il suo fantino; e temo che tu dovrai essere il mio.» «Non è grassa come la principessa.» Il giovane matabele squadrò Janine con aria attenta. «Scommetterò dieci dollari su di lei, Donna.» «Oh, santo cielo. Spero che non la deluderemo.» Verso mezzanotte l'eccitazione era diventata frenetica: quell'eccitazione particolare dell'ambiente di uomini che vivono la vita quotidiana in pericolo mortale e sanno che ogni ora rubata di esistenza ridente può essere l'ultima. Mettevano fasci di banconote nelle mani dell'aiutante che fungeva da ricevitore di scommesse e si affollavano intorno ai rispettivi favoriti per incoraggiarli a gran voce. La principessa e Janine s'erano tolte le scarpe e s'erano rimboccate le gonne nelle mutandine come due bambine che giocano in riva al mare. Erano salite su due sedie ai lati dell'ingresso principale della mensa. Fuori, la strada asfaltata che arrivava al cancello era illuminata dai fari dei veicoli militari parcheggiati e affollata di transfughi del bar, tutti pieni di gin e d entusiasmo. Sul banco, il sergente maggiore Gondele e Roland s'erano spogliati parzialmente ed erano rimasti in calzoni e stivali. Esau Gondele era un gigante nero, con la testa rapata che sembrava una palla di cannone e le spalle straripanti di muscoli. Accanto a lui persino Roland sembrava un ragazzo: il suo torace non toccato dal sole era liscio e bianco. «Ptova a farmi lo sgambetto questa volta, sergente maggiore, e ti spacco la testa» dichiarò, ed Esau gli batté la mano sulla spalla per rassicurarlo. «Chiedo scusa, capo. Non mi verrà abbastanza vicino per farle lo sgambetto.» L'aiutante ricevette le ultime scommesse, poi montò barcollando un poco sul banco del bar, con una pistola d'ordinanza in una mano e un bicchiere nell'altra.
«Silenzio, tutti quanti. Allo sparo i due concorrenti berranno una bottiglia da litro a testa. Quando la bottiglia sarà vuota, potranno caricarsi in spalla una delle due belle signore.» Vi fu un uragano di grida e di applausi. «Silenzio, gente!» L'aiutante vacillò precariamente sul piano del bar e cercò di assumere un'aria imperiosa. «Le regole le conosciamo tutti.» «Procediamo!» L'aiutante fece un gesto di rassegnazione, puntò la pistola al soffitto e premette il grilletto. Lo sparo echeggiò e una delle lampade si spense. La testa calva dell'aiutante fu innaffiata da una pioggia di frammenti di vetro. «Ehi, ho dimenticato di caricarla a salve» mormorò allarmato; ma nessuno s'interessava più a lui. Il sergente maggiore Gondele e Roland rovesciarono la testa all'indietro, puntando verso il soffitto le basi delle bottiglie nere. Le loro gole palpitavano ritmicamente nello sforzo di tracannare la birra. Gondele finì un secondo prima di Roland, saltò giù dal banco con un grande rutto, e si issò sulle spalle la principessa che rideva e strillava. Si precipitò fuori della porta prima che Janine potesse avvolgere le gambe nude intorno al collo di Roland. Roland ignorò la scalinata della veranda e scavalcò d'un balzo la ringhiera. C'era un salto di un metro e venti fino al prato: e Janine, che pure era abituata alla caccia, riuscì a restargli sulle spalle solo afferrandogli i capelli per mantenere l'equilibrio. Ma avevano ridotto d'un paio di metri il vantaggio del colossale matabele. Gli rimasero dietro a poca distanza lungo il viale curvo, mentre gli stivali martellavano sull'asfalto nero e Roland sbuffava a ogni passo con Janine che gli ondeggiava sulle spalle. Gli spettatori urlavano e acclamavano e pigiavano i clacson dei camion parcheggiati, e il pandemonio era assordante. Raggiunsero il cancello principale e la sentinella negra riconobbe Roland e lo salutò doverosamente. «Riposo!» gli gridò Roland mentre svoltava nella scia di Gondele. «Se ti capita a tiro, butta giù la principessa» disse ansimando a Janine. «Ma è barare!» protestò lei. «E' la guerra, piccola.» Gondele respirava come un toro. Saliva la collina con le luci dei fari che gli brillavano sui muscoli bruniti; e Roland, sempre indietro di due passi, correva a passi svelti e leggeri. Janine sentiva l'energia irradiarsi dal suo corpo come elettricità: ma non era quella soltanto che incominciava a rosicchiare centimetri su centimetri al vantaggio di Gondele. Era la stessa smania di vincere che Janine aveva visto impossessarsi di lui sul campo da tennis di Queen's Linn. Ed ecco che d'un tratto correvano affiancati, sforzando cuori e muscoli al di là della semplice Potenza fisica. Era un confronto tra due volontà, una prova per scoprire chi dei due poteva sopportare più a lungo quella sofferenza. Janine lanciò un'occhiata alla principessa e comprese dalla sua espressione che si aspettava un brutto scherzo: sapeva che rientrava nelle regole e aveva sentito Roland dare l'ordine a Janine. «Non si preoccupi» le gridò Janine, e ottenne come risposta un sorriso smagliante. I due uomini giunsero a spalla a spalla alla curva del viale; il prato sembrava estendersi per accoglierli e Janine ebbe la sensazione che Roland facesse un appello quasi mistico a riserve che non dovevano esistere. Per lei era impensabile che qualcuno potesse compiere un simile sforzo per vincere una gara puerile... un uomo normale non avrebbe potuto farlo, un uomo del tutto sano di mente non l'avrebbe fatto. In Roland Ballantyne c'era una follia scatenata che la spaventava e nel contempo la esaltava. Tra il chiarore dei fari e gli incitamenti degli spettatori, Roland Ballantyne bruciò l'avversario più potente e più alto, e se lo lasciò indietro di mezza dozzina di metri quando balzò su per i gradini, si precipitò oltre la porta della mensa e scaricò Janine sul piano del bar. Le accostò al viso la faccia gonfia, rossa e sfigurata. «Ti avevo detto di fare qualcosa» le ringhiò con voce rauca. «Non disobbedirmi mai più, mai più!» E in quel momento Janine ebbe veramente paura di lui.
Poi Roland andò incontro a Esau Gondele; si abbracciarono singultando per le risate e lo sfinimento, e girarono barcollanti l'uno intorno all'altro cercando di sollevarsi a vicenda. L'aiutante mise nella mano di Roland un rotolo di banconote. «Le sue vincite, signore» disse, e Roland le sbatté sul banco del bar. «Venite, ragazzi, aiutatemi a bere tutto» esclamò, ansimando ancora per riprendere fiato. Esau Gondele bevve un sorso di birra e versò il resto sulla testa di Roland. «Mi perdoni, Nkosi» sghignazzò. «Ma è qualcosa che ho sempre sognato di fare.» «Questa, mia cara, è una tipica serata tranquilla con gli Scout di Ballantyne.» Janine si voltò e trovò al suo fianco Douglas Hunt-Jeffreys, che stringeva tra i denti il bocchino d'avorio. «Qualche volta, quando l'atmosfera da squadra universitaria di rugby sbiadisce un po' e il suo promesso è lontano nella boscaglia, potrà scoprire che una compagnia più civile costituisce un piacevole cambiamento.» «L'unica cosa che m'interessa in lei è scoprire cosa le fa pensare che potrei essere interessata.» «Fra simili ci si intende, tesoro.» «E' un impertinente. Potrei dirlo a Roland.» «Certo» disse HuntJeffreys. «Ma mi è sempre piaciuto vivere pericolosamente. Buonanotte, dottoressa Carpenter, spero che ci incontreremo ancora.» Lasciarono la mensa dopo le due del mattino. Nonostante l'alcol ingurgitato, Roland guidava come sempre, svelto e abilmente. Quando arrivarono all'appartamento di Janine, la portò in braccio su per le scale, ignorando le sue proteste soffocate. «Sveglierai tutti quanti i coinquilini.» «Se hanno il sonno così leggero... Aspetta che ti abbia portato di sopra. Ti faranno scrivere dai loro avvocati o ti manderanno biglietti con gli auguri di pronta guarigione.» Dopo aver fatto l'amore, Roland si addormentò di colpo. Janine rimase sveglia e lo scrutò nei lampi rossi e arancio dell'insegna al neon sul tetto della stazione di servizio dall'altra parte della strada. Così, rilassato, era ancora più bello che da sveglio; ma Janine si sorprese improvvisamente a pensare a Clay Mellow, al suo spirito e alla sua gentilezza. «Sono tanto diversi» pensò. «Eppure adesso li amo tutti e due, in due modi differenti.» Era così turbata che si addormentò solo quando l'aurora fece sbiadire i lampi al neon sulle tende della stanza da letto. Le sembrò che Roland la svegliasse subito dopo. «Colazione, ragazza mia» ordinò. «Ho una riunione alle nove al Comando Operazioni Combinate.» Sedettero sulla terrazza, nella foresta in miniatura delle piante in vaso di Janine e mangiarono uova strapazzate e funghi. «So che di solito è prerogativa della sposa, Bugsy; ma possiamo fissare una data verso la fine del mese prossimo?» «Così presto? Puoi dirmi perché?» «Non posso dirti tutto... ma più tardi andremo in guarantena, e può darsi che io resti fuori circolazione per un po'.» «In quarantena?» Janine posò la forchetta. «Quando incominciamo l'addestramento per un'operazione speciale andiamo in isolamento totale. In questi ultimi tempi ci sono state troppe falle nella sicurezza. Troppo spesso i nostri ragazzi hanno fatto un'operazione a vuoto. Adesso se ne sta preparando una molto grossa, e l'intero gruppo andrà in quarantena in un campo speciale; nessuno, neppure io, potrà avere contatti con l'esterno, neppure con i genitori o la moglie, fino al termine dell'operazione.» «Dov'è questo campo?» «Non posso dirtelo. Ma se passeremo la luna di miele alle Cascate Vittoria come volevi tu, a me andrà benissimo. Dopo tu potrai tornare qui con l'aereo e io andrò direttamente in quarantena.» «Oh, tesoro, è troppo presto. Ci saranno tante cose da organizzare. Non so se mio padre o mia madre potranno arrivare in tempo.» «Telefonagli.» «E va bene» disse Janine. «Ma non mi piace l'idea che tu debba andartene subito dopo.» «Lo so. Non sarà sempre così.» Roland diede un'occhiata all'orologio. «Devo scappare. Questa sera tornerò un po' tardi. Voglio parlare con Sonny. Ho sentito dire che è tornato ad abitare a bordo di quella barca.» Janine cercò di nascondere il proprio turbamento. «Sonny? Clay? Perché vuoi vederlo?» Quando Roland le spiegò il perché, lei non seppe che cosa rispondere. Continuò a fissarlo in silenzio, allibita. Janine gli telefonò all'armeria della polizia non appena arrivò al museo.
«Clay, devo vederti.» «Meraviglioso, t'invito a cena.» «No, no, immediatamente. Lascia l'ufficio.» Clay rise. «Ho questo posto da pochi mesi. Sarà un primato persino per me.» «Raccontagli che tua madre sta male.» «Sono orfano.» «Lo so, tesoro, ma è questione di vita o di morte.» «Come mi hai chiamato?» «Mi è sfuggito.» «Ripetilo.» «Clay, non fare l'idiota.» «Ripetilo.» «Tesoro.» «Dove e quando?» «Fra mezz'ora, al chiosco della banda ai giardini e... Clay, è una brutta notizia.» Janine riappese senza lasciargli il tempo di ribattere. Fu lei la prima a scorgerlo. Arrivava a grandi passi come un cucciolo di sanbernardo, con le gambe troppo larghe, i capelli che spuntavano dalla visiera del berretto e un'espressione preoccupata. Ma quando la vide seduta sui gradini del chioschetto dipinto di bianco la sua fronte si spianò e gli occhi s'illuminarono dello sguardo tenero che quel giorno Janine non riusciva a sopportare. Non parlarono fino a quando arrivarono al fiume. Sedettero sulla riva e guardarono una bambina dall'abito bianco ornato di nastri rosa che buttava il pane alle anatre. «Dovevo dirlo a te per primo» mormorò Janine. «E' il minimo che ti devo.» Lo sentì tendersi accanto a lei; ma non riuscì a guardarlo né a ritirare la mano. «Prima che tu aggiunga qualcosa d'altro, voglio ripeterti quello che ti ho già detto. Ti amo, Jan.» «Oh, Clay.» «Mi credi?» Lei annuì e deglutì. «Sta bene, adesso dimmi quello che devi dirmi.» «Roland mi ha chiesto di sposarlo.» La mano di Clay incominciò a tremare. «E io ho risposto di sì. «Perché, Jan?» Janine riuscì infine a svincolare la mano. «Accidenti a te, perché devi sempre fare così?» «Perché?» insistette Clay. «So che mi ami. Perché lo sposerai?» «Perché lo amo di più» disse Janine, ancora irritata. «Se fossi al mio posto, chi sposeresti?» «Se la metti così» ammise Clay, «probabilmente hai ragione.» Janine lo guardò. Era pallidissimo. «Roly è sempre stato un vincitore. Spero che sarai molto felice, Jan.» «Oh, Clay, mi dispiace tanto.» «Sì, lo so. Dispiace anche a me. Lasciamo le cose come stanno, Jan. Non c'è altro da aggiungere.» «Sì, c'è altro. Roland verrà a trovarti questa sera. Ti chiederà di fargli da testimone.» *** Roland Ballantyne sedette sull'orlo del tavolo delle operazioni, un enorme plastico del Matabeleland. La disposizione delle forze di sicurezza era indicata da minuscoli segnalini, e la loro consistenza da un cartoncino numerato inserito in ogni segnalino. Ogni organizzazione aveva il suo colore: gli Scout di Ballantyne erano marrone. Ce n'erano duecentocinquanta nella caserma di Thabas Indunas; ma c'era anche una pattuglia di cinquanta elementi presso il Gwaai, impegnata nell'inseguimento dei superstiti del contatto del giorno precedente. Dall'altra parte del tavolo, il comandante di stormo Douglas Hunt-Jeffreys si batté la bacchetta di legno sul palmo della mano. «Sta bene» disse annuendo. «E' riservato ai soli capi di stato maggiore. Ricominciamo dall'inizio, per favore.» C'erano loro due soli nella sala delle operazioni, e sopra la porta d'acciaio era accesa la luce rossa. «Nome in codice Bufalo» disse Roland. «L'obiettivo dell'operazione è l'eliminazione di Josiah Inkunzi ed uno o tutti i suoi comandanti, Tebe, Chitepo e Tungata.» «Tungata?» chiese HuntJeffreys. «E' uno nuovo» spiegò Roland. «Continua, prego.» «Li beccheremo nel nascondiglio di Lusaka, a una data posteriore al 15 novembre, quando prevediamo che Inkunzi tornerà da una visita in Ungheria e nella Germania comunista.» «Sarai informato del suo ritorno?» chiese Douglas, e quando Roland annuì, continuò: «Puoi dirmi chi è la tua fonte?» «Questo non posso dirlo neppure a te, Dougie, vecchio mio.» «Sta bene, purché prima di muoverti abbia la certezza che Inkunzi sia nella sua tana.» «D'ora in poi chiamiamolo Bufalo.» «Come lo raggiungerete?» «Per via di terra. Una colonna di Land
Rover con le sigle della polizia zambiana, e tutto il personale indosserà uniformi della stessa polizia.» Douglas inarcò un sopracciglio. «E la Convenzione di Ginevra?» «Legittima astuzia di guerra» ribatté Roland. «Se vi prendono, vi fucilano.» «Lo farebbero comunque, anche senza le uniformi. Tutto sta nel far sì che nessuno dei nostri ragazzi venga preso.» «D'accordo, andate per via di terra. Quale strada?» «LivingstoneLusaka.» «Un viaggio maledettamente lungo attraverso un territorio ostile; e le nostre forze aeree hanno fatto saltare i ponti a Kaleya.» «C'è un percorso alternativo più a monte. Ci sarà una guida che ci aspetterà per condurci a raggiungerlo attraverso la boscaglia.» «D'accordo, così avete eliminato il problema del ponte. Ma come attraverserete lo Zambesi?» «C'è un guado più a valle di Kazungula.» «E l'avete controllato, naturalmente?» «Abbiamo fàtto una ricognizione. Con argano e galleggianti abbiamo portato un veicolo dall'altra parte in nove minuti esatti. Faremo attraversare l'intera task force in meno di due ore. C'è una pista che ci porterà sulla grande strada del nord cinquanta chilometri dopo Livingstone.» «E i rifornimenti?» «La guida che ci aspetta a Kaleya è un bianco, un coltivatore di mais. Ha carburante nella fattoria, e noi useremo gli elicotteri come appoggio.» «Immagino che vi servirete degli elicotteri per l'evacuazione, se sarete costretti a sospendere tutto.» Roland annuì. «Appunto, Dougie, vecchio mio. Prega che non sia necessario.» «Parliamo un po' del personale. Quanti uomini ti porterai dietro?» «Quarantacinque Scout, inclusi il sergente maggiore e me, e dieci specialisti.» «Specialisti?» «Prevediamo di trovare mucchi di documenti nel quartier generale di Bufalo. Probabilmente saranno tanti che non potremo portarli via tutti. Avremo bisogno di almeno quattro esperti del servizio segreto perché facciano una valutazione sul posto e decidano che cosa dovremo tenere e cosa bruciare. Sceglili tu.» «Gli altri specialisti?» «Due medici. Henderson e il suo aiutante. Li abbiamo usati già altre volte.» «Bene. E poi?» «Artificieri che liberino la casa dalle trappole, piazzino le nostre quando ce ne andremo e facciano saltare i ponti dietro di noi quando ci metteremo sulla strada del ritorno.» «Specialisti di Salisbury?» «Posso trovare due ragazzi in gamba qui a Bulawayo. Uno è mio cugino.» «Benissimo, fammi avere un elenco dei nomi.» Douglas estrasse con cura il mozzicone della sigaretta dal bocchino, lo schiacciò, inserì un'altra sigaretta presa dal pacchetto di Gold Leaf. «E il sito per il campo della quarantena?» chiese. «Ci hai pensato?» «C'è la Wankie Safari Lodge nella radura di Dett. E a due ore di macchina dallo Zambesi, ed è affidata soltanto a un custode da quando la pista di Wankie è stata abbandonata.» «Una sistemazione da cinque stelle... gli Scout si stanno rammollendo.» Douglas sorrise ironicamente. «Bene, te la farò avere.» Prese un appunto e alzò la testa. «E adesso passiamo alle date. Quando sarete pronti per partire?» «Il 15 di novembre. Così avremo otto settimane per radunare l'equipaggiamento e fare le prove per l'operazione...» «E probabilmente si adatterà benissimo alla data del tuo matrimonio, no?» Douglas si batté il bocchino d'avorio contro i denti e sorrise nel vedere lo scatto irritato di Roland Ballantyne. «La data fissata per l'operazione non ha niente a che vedere con le mie faccende private. Sarà condizionata esclusivamente dai movimenti di Bufalo. Comunque, il mio matrimonio avrà luogo una settimana prima dell'inizio della quarantena. Io e Janine passeremo la luna di miele al Victoria Falls Hotel, che si trova a due sole ore di macchina dal campo della Wankie Safari Lodge. Janine rientrerà a Bulawayo con l'aereo e io andrò direttamente in quarantena dalle Cascate Vittoria.» Douglas alzò una mano in atto di difesa e sorrise ironicamente. «Calma, calma, vecchio mio. Era soltanto una domanda cortese. A proposito, credo che il mio invito al matrimonio l'abbia perso la posta...» Ma Roland aveva ripreso a studiare l'elenco con tutta la sua attenzione. *** Douglas Hunt-Jeffreys era sdraiato sull'ampio letto nella stanza fresca e scrutava la donna nuda che dormiva accanto a lui.
All'inizio gli era sembrata molto poco promettente, con la faccia pallida e sfregiata dall'acne e gli sconcertanti occhi sbarrati dietro le lenti dalla montatura d'osso, i modi bruschi, aggressivi, quasi mascolini, e l'intensità fanatica della militante politica. Ma quando si toglieva il maglione sformato e le gonne ingombranti, le pesanti calze di lana e i rozzi sandali di cuoio, aveva un corpo snello, quasi da bambina, con i seni piccoli che a Douglas piacevano molto. E quando si toglieva gli occhiali, il suo sguardo assumeva la dolcezza sfuocata della miopia; e sotto le labbra e le dita esperte di Douglas il suo corpo si scatenava in una tumultuosa reazione fisica che all'inizio l'aveva sbalordito, poi deliziato. Aveva scoperto che poteva indurla a una passione epilettica, uno stato in cui diventava quasi catatonica e completamente suscettibile alla sua volontà; e la depravazione, allora, trovava limiti soltanto nell'ambiente della fertile inventiva di Douglas. «Al diavolo le donne belle» pensò, sorridendo soddisfatto tra sé. «I piccoli brutti anatroccoli sono più sconvolgenti.» S'erano incontrati a metà mattina e adesso erano... Attento a non disturbarla, Douglas diede un'occhiata al Rolex d'oro. Erano le due del pomeriggio. Persino per lui era una prestazione da maratoneta. «Il povero agnellino è esausto.» Avrebbe voluto fumare una sigaretta, ma decise di lasciarle ancora dieci minuti. Non c'era fretta. Poteva permettersi di restare lì ancora un poco, a riflettere con calma sulla situazione. Come molti controllori efficienti, Douglas aveva scoperto che una relazione sessuale con i suoi agenti donne, e ogni tanto anche con gli agenti uomini, era un efficace strumento di manipolazione, una scorciatoia per arrivare alle dipendenze e alle lealtà così comode e opportune nel suo mestiere. Quel caso era un esempio perfetto. Senza la leva fisica, la dottoressa Leila St John sarebbe stata un soggetto difficile e imprevedibile, mentre così era diventata una dei migliori agenti che avesse mai avuto. Per uno scherzo della guerra, Douglas Hunt-Jeffreys era rhodesiano di nascita. Suo padre era andato in Africa all'inizio della guerra contro Hitler per comandare la base d'addestramento della RAF a Gwelo. Aveva conosciuto e sposato una ragazza del posto e Douglas era venuto al mondo nel 1941 con l'aiuto del dottore dell'aeronautica. La famiglia era tornata in Inghilterra quando il padre aveva terminato il turno di servizio; e Douglas aveva seguito la strada tradizionale che l'aveva condotto a Eton e quindi nella Royal Air Force. Poi c'era stata una diversione insolita nella sua carriera: si era ritrovato a lavorare per il servizio segreto militare britannico. Ancora nel 1964, quando Ian Smith era arrivato al potere in Rhodesia e aveva incominciato a minacciare di rompere con la Gran Bretagna proclamando unilateralmente l'indipendenza, Douglas Hunt-Jeffreys era stato l'agente ideale da piazzare sul campo. Era tornato in Rhodesia, aveva ripreso la nazionalità rhodesiana, era entrato nelle Forze Aeree locali e aveva incominciato immediatamente a dare la scalata al comando. Adesso era il coordinatore capo del servizio segreto britannico in tutto il territorio, e la dottoressa Leila St John era una delle sue reclute. Naturalmente lei non immaginava neppure per chi lavorasse in realtà: ogni riferimento a un servizio segreto militare, di qualunque paese fosse, l'avrebbe indotta ad arrampicarsi su un albero come una gatta spaventata. Douglas sorrise pigramente al pensiero di quell'immagine. Leila St John credeva di far parte di un piccolo, coraggioso gruppo di guerriglieri di sinistra, impegnati a strappare la loro terra natale ai conquistatori razzisti e fascisti e a consegnarla alle delizie del comunismo marxista. D'altra parte, l'interesse di Douglas Hunt-Jeffreys e del suo governo consisteva nell'arrivare al più presto a un accordo accettabile per l'ONU, gli Stati Uniti, la Francia, la Germania Federale e gli altri alleati occidentali, e nel districarsi da una situazione imbarazzante, caotica e dispendiosa con tutta la dignità e la prontezza possibili, lasciando preferibilmente il potere nelle mani del meno abominevole tra i capi guerriglieri africani. Le stime dei servizi segreti britannici e americani indicavano che Josiah Inkunzi, nonostante la sua retorica di estrema sinistra e l'assistenza militare che aveva sollecitato e ricevuto dalla Cina comunista e dai paesi del blocco sovietico, era un individuo pratico. Dal punto di vista occidentale
rappresentava ancora il male minore, mentre la sua eliminazione avrebbe spianato la strada a un'orda di marxisti veramente rabbiosi che avrebbero preso il potere e avrebbero portato il futuro Zimbabwe nelle grinfie dell'orso russo. Una considerazione secondaria era che la riuscita del colpo di mano rhodesiano a danno di Inkunzi avrebbe riacceso la tentennante volontà di combattere del governo rhodesiano, e avrebbe reso Ian Smith e il suo gruppo di ministri di destra ancora meno docili di quanto si fossero dimostrati fino a quel momento. No, era assolutamente indispensabile che la vita di Josiah Inkunzi venisse protetta a ogni costo. E Douglas Hunt-Jeffreys fece delicatamente il solletico alla donna addormentata. «Svegliati, micina» le disse. «Dobbiamo parlare.» Lei si sollevò a sedere, si stirò, gemette sommessamente e si tastò con cautela. «Ah» mormorò con voce gutturale. «Sono tutta indolenzita, dentro e fuori, ed è così piacevole.» «Accendi due sigarette» ordinò lui, e Leila ne inserì una nel bocchino d'avorio con allenata destrezza, l'accese e gliela mise tra le labbra. «Quando aspetti il prossimo corriere da Lusaka?» Douglas lanciò un anello turbinante di fumo che si spezzò sul seno di lei come nebbia su una collina. «E' già in ritardo» disse lei. «Ti ho detto dell'Umlimo.» «Oh, sì.» Douglas annuì. «La medium degli spiriti.» «Le disposizioni per trasportarla sono già state date e Lusaka manda un alto funzionario del partito, probabilmente un commissario, per provvedere al trasferimento. Dovrebbe arrivare da un momento all'altro.» «Mi sembra che si diano un po' troppo da fare per una vecchia strega rimbambita.» «E' il capo spirituale del popolo matabele» rispose con ardore Leila. «La sua presenza nell'esercito dei guerriglieri avrebbe un valore incalcolabile per il loro morale.» «Sì, capisco, mi hai spiegato le loro superstizioni.» Douglas le accarezzò la guancia e lei si rabbonì a poco a poco. «Dunque mandano un commissario. Molto bene, anche se non riesco a capire come facciano a Passare avanti e indietro dal confine. da una città all'altra, da una zona del paese all'altro, e senza difficoltà.» «Per l'uomo bianco medio, una faccia nera è eguale a tutte le altre» spiegò Leila. «Non esiste un sistema di passaporti o di salvacondotti; ogni villaggio è una base, quasi tutti i neri sono alleati. Purché non portino armi o esplosivi, possono viaggiare con gli autobus e le ferrovie e attraversare impunemente i posti di blocco.» «Sta bene» disse Douglas. «L'importante è che quello che devo dirti venga riferito a Lusaka al più presto possibile.» «Entro la settimana prossima al più tardi» promise Leila. «Gli Scout di Ballantyne stanno organizzando un'operazione su vasta scala per eliminare Inkunzi e il suo stato maggiore nel nascondiglio di Lusaka.» «Oh, mio Dio, no!» esclamò Leila inorridita. «Sì, purtroppo andrà così, a meno che troviamo il modo di metterlo in guardia. Ecco tutti i dettagli. Imparali a memoria, per favore.» *** Il vecchio autobus traballante scendeva la strada tortuosa fra le colline, lasciandosi dietro una lunga, nera scia untllosa di fumi di gasolio che si disperdevano torpidamente nella brezza leggera. Sul tetto erano ammucchiati fagotti legati con corde e spago, scatoloni e modestissime valige, polli starnazzanti nelle stie di corteccia e ramoscelli verdi e altri oggetti meno facili da identificare. L'autista premette il freno quando vide il posto di blocco, e il chiacchiericcio e le risate dei passeggeri si spensero in un silenzio impacciato. Appena l'autobus si fermò, i passeggeri negri scesero dallo sportello anteriore e secondo le istruzioni dei poliziotti armati si separarono in due gruppi, gli uomini da una parte, le donne e i bambini dall'altra. Due agenti negri, intanto, erano saliti a bordo per accertarsi che qualche fuggiasco non si fosse rintanato sotto i sedili o avesse nascosto delle armi. Il compagno Tungata Zebiwe era nel gruppo degli uomini. Portava un cappellaccio floscio, una camicia lacera e calzoni corti cachi; le luride scarpe da tennis sfondate lasciavano spuntare le grosse dita nere. Sembrava il tipico manovale itinerante, come quelli che costituivano in maggioranza la
manodopera del paese; non correva pericoli finché il controllo della polizia era superficiale, ma aveva ogni motivo di credere che quello non lo sarebbe stato. Dopo aver attraversato nell'oscurità il guado dello Zambesi e aver superato il cordon sanitaire, s'era diretto a sud e aveva raggiunto la strada principale vicino alle miniere di carbone di Wankie. Viaggiava solo e portava falsi documenti di disoccupazione per dimostrare che due giorni prima era stato licenziato dalla miniera. Avrebbe dovuto essere sufficiente per permettergli di superare un normale posto di blocco. Ma due ore dopo essere salito sull'autobus affollato, mentre si avvicinavano alla periferia di Bulawayo, s'era accorto improvvisamente che tra i passeggeri c'era un altro corriere dello ZIPRA. Era una matabele sulla trentina, che aveva conosciuto nel campo d'addestramento nello Zambia. Era vestita come una contadina e portava un bambino piccolo legato sulla schiena secondo l'usanza tradizionale. Tungata l'aveva studiata furtivamente mentre l'autobus procedeva rombando verso sud, e s'era augurato che portasse addosso materiale scottante. Se lo portava e se fosse stata scoperta a un posto di blocco, tutti gli altri passeggeri dell'autobus sarebbero stati assoggettati a un meticoloso controllo di sicurezza, incluse le impronte digitali; e dato che Tungata era un ex dipendente del governo rhodesiano, le sue impronte erano schedate. La donna, sebbene fosse una compagna e un'alleata, adesso era per lui un pericolo mortale. Era una pedina del tutto priva d'importanza, nient'altro che un corriere, ed era sacrificabile. Ma che cosa stava portando in quel momento? Tungata la osservò furtivamente, in cerca di qualche indicazione utile; e all'improvviso la sua attenzione si concentrò sul bambino legato sulla schiena della ragazza. Con un guizzo di terrore alla bocca dello stomaco, Tungata si rese conto della situazione. La donna era «attiva.» Se l'avessero presa, avrebbero quasi sicuramente preso anche lui. Si accodò agli altri passeggeri per la perquisizione; dall'altra parte dell'autobus, le passeggere stavano formando un'altra fila. Le donne poliziotto le avrebbero controllate meticolosamente. La ragazza era al quinto posto nella fila, e faceva oscillare il bambino addormentato sulla sua schiena: la testolina dondolava da una parte e dall'altra. Tungata non poteva più esitare. Si fece largo alla testa della fila e parlò sottovoce, concitatamente, al sergente negro che dirigeva i controlli. Poi additò la ragazza nella fila delle donne. La ragazza vide l'indice accusatore puntato contro di lei, si guardò intorno, si staccò dalla fila e cominciò a correre. «Fermatela!» gridò il sergente; e la ragazza in fuga allentò la fascia di stoffa che le tratteneva sulla schiena il neonato e lasciò cadere a terra il corpicino nero. Poi, liberata da quel peso, corse verso il filare di folti cespugli spinosi lungo il bordo della strada. Ma il posto di blocco era stato disposto in modo da prevenire simili tentativi di fuga, e due agenti che stavano nascosti ai margini degli arbusti si fecero avanti. La ragazza tornò indietro correndo, ma ormai l'avevano presa in trappola; un colpo alle reni con il calcio del fucile la fece finire lunga distesa sull'erba. La trascinarono indietro mentre si dibatteva e scalciava, soffiava e ringhiava come un gatto. Quando passò davanti a Tungata, gli urlò: «Traditore, ti divoreremo! Sciacallo, morirai..» Tungata la fissò con indifferenza bovina. Uno degli agenti raccolse il bambino nudo che la ragazza aveva lasciato cadere e proruppe in un'esclamazione. «E' freddo!» Girò il corpicino, e gli arti minuti ciondolarono senza vita. «E' morto!» esclamò inorridito l'agente, e poi sussultò: «Guardate! Guardate qui!» Il corpo del piccolo era stato sventrato come un pesce. Il taglio saliva dall'inguine attraverso lo stomaco e lo sterno fino alla base della gola, e l'apertura era stata ricucita con refe grossolano, a punti rudimentali. Con un'espressione di nausea e d'orrore, il capitano della polizia tagliò i punti, e la cavità si spalancò. Era piena di esplosivo plastico. «Bene.» Il capitano si rialzò. «Tratteneteli tutti. Faremo un controllo preciso sul conto di ognuno di quei bastardi.» Poi si avvicinò a Tungata. «Ben fatto, amico» disse battendogli la mano sulla spalla. «Puoi andare a ritirare la ricompensa alla stazione di polizia. Cinquemila dollari... una bella somma, eh? Basta che consegni questo.» Scribacchiò qualcosa sul taccuino e strappò il foglietto. «Qui ci sono il mio nome e il mio grado. Confermerò la tua richiesta. Una delle nostre Land Rover partirà fra qualche minuto per Bulawayo... ti farò dare un passaggio fino in città.» Tungata subì
docilmente la perquisizione ordinaria da parte delle guardie all'entrata dell'ospedale della Missione di Khami Portava ancora i suoi stracci da operaio e aveva la falsa lettera di licenziamento della miniera di Wankie. Una delle guardie diede un'occhiata ai documenti. «Che malattia hai?» «Ho un serpente nello stomaco.» Tungata si premette le mani sul ventre. Un serpente nello stomaco poteva significare di tutto, da una colica a un'ulcera duodenale. La guardia rise. «I dottori ti toglieranno quel mamba. Vai all'ambulatorio.» Indicò l'entrata laterale e Tungata si avviò con un'andatura fiacca e sgraziata. L'infermiera matabele dell'ambulatorio lo riconobbe con un trasalimento di sorpresa; poi ridiventò impassibile, gli preparò la scheda e gli indicò di prendere posto su una delle panche affollate. Dopo un paio di minuti l'infermiera negra si alzò, andò all'ufficio con la scritta MEDICO Di TURNO, entrò e chiuse la porta. Quando uscì, tese l'indice verso Tungata. «Tocca a te!» disse. Tungata attraversò il corridoio ed entrò dalla stessa porta. Leila St John gli andò incontro con aria estasiata. «Compagno commissario!» bisbigliò abbracciandolo. «Ero così preoccupata!» Lo baciò sulle guance e si scostò per guardarlo. Tungata s'era trasformato di colpo: il contadino stupido era diventato un guerriero spietato dalla faccia minacciosa e fredda. «Hai i vestiti per me?» Dietro il paravento, Tungata si cambiò in fretta e uscì abbottonandosi il camice bianco. Sul bavero portava la targhetta che lo identificava come il DOTTOR G. S. KUMALO, e lo poneva al di sopra di ogni sospetto. «Voglio sapere che disposizioni hai preso» disse, sedendo davanti alla scrivania di Leila St John. «Ho ricoverato l'Umlimo nel reparto geriatrico da quando l'hanno portata qui i suoi seguaci dalla Riserva delle Matopos, circa sei mesi fa.» «In che condizioni è?» «E' vecchia... vecchissima. Non ho motivo di dubitare delle sue parole quando sostiene di avere centoventi anni. Era già una giovane donna quando gli avventurieri di Cecil Rhodes entrarono in Bulawayo e incominciarono a inseguire il re Lobengula fino alla sua morte.» «In che condizioni è?» «Soffriva di denutrizione; l'ho alimentata per via endovenosa e adesso è molto più forte, ma non può camminare e non ha il controllo dell'intestino e della vescica. E' albina e soffre di un tipo di allergia della pelle; le ho prescritto un unguento antistaminico che le ha dato grande sollievo. L'udito e la vista stanno peggiorando, ma il cuore e gli altri organi vitali sono eccezionalmente forti per la sua età. E la sua mente funziona. Sembra completamente lucida.» «Quindi è in condizioni di viaggiare?» insistette Tungata. «E' impaziente di farlo. L'ha detto nella sua profezia: deve attraversare le grandi acque prima che le lance della nazione prevalgano.» Tungata fece un gesto spazientito, e Leila St John l'interpretò. «Non hai molta fiducia nell'Umlimo e nelle sue predizioni, non è vero, compagno?» «E tu, dottoressa?» «Ci sono campi che la nostra scienza non ha ancora penetrato. E' una donna straordinaria. Non dirò che credo a tutto ciò che si dice sul suo conto, ma sento in lei una grande forza.» «Secondo la nostra stima, sarà estremamente utile come arma propagandistica. I nostri, nella stragrande maggioranza, sono ignoranti e superstiziosi. Non hai ancora risposto alla mia domanda, dottoressa? E' in grado di viaggiare?» «Penso di sì. Ho preparato le medicine che dovrà prendere durante il viaggio. E anche i certificati che dovrebbero bastare per farle superare tutti i controlli di sicurezza fino al confine con lo Zambia. Le assegnerò uno dei miei migliori infermieri che viaggerà con lei. L'accompagnerei personalmente, ma attirerei troppa attenzione.» Tungata rimase a lungo in silenzio, assorto e pensieroso. Aveva una tale presenza autoritaria che Leila attese quasi intimidita le sue parole, pronta a rispondere e a obbedire. Ma quando Tungata parlò, si limitò a mormorare: «La donna è utile da morta come da viva, e se fosse morta sarebbe più facile trasportarla. Immagino che potresti conservare il cadavere in
formaldeide o qualcosa del genere, no?» Leila trasalì; tuttavia era stranamente affascinata da quella spietatezza, eccitata dalla decisione del visitatore. «Spero che non sarà necessario» sussurrò fissandolo. Non aveva mai incontrato un uomo simile. «Prima voglio vederla, poi deciderò» disse Tungata a voce bassa. «E voglio vederla immediatamente.» C'erano tre megere accovacciate davanti alla porta della stanza privata, all'ultimo piano dell'ala sud dell'ospedale. Indossavano pelli di gatto selvatico, di sciacallo e di pitone; e appesi al collo e alla cintura portavano boccette e zucche e corni, vesciche di capra e sonagli d'osso, flaconi e sacchetti di pelle che contenevano gli ossicini per la divinazione. «Sono le seguaci della vecchia» spiegò Leila St John. «Non la lasceranno.» «La lasceranno» disse Tungata a voce bassa. «La lasceranno quando l'ordinerò io.» Una delle tre megere gli andò incontro zoppicando e piagnucolando. Tese la mano per toccargli la gamba con le dita luride, e Tungata la scostò con un calcio e aprì la porta. Entrò, e Leila lo seguì e richiuse. Era una stanzetta con il pavimento piastrellato e le pareti dipinte di bianco. Sul comodino c'era un vassoio d'acciaio inossidabile con le medicine e vari strumenti. Il letto era a rotelle, con una manovella ai piedi per regolare l'inclinazione. La testata era leggermente sollevata e la figura fragile sotto il lenzuolo non era più grande di quella d'un bambino. Sopra il letto era appeso un flacone per le flebo, con un tubicino serpeggiante di plastica. L'Umlimo dormiva. La pelle priva di pigmentazione era di un grigio rosato e polveroso, coperta di croste scure che si estendevano fin sulla testa calva. L'epidermide che le copriva il cranio era così sottile e fragile che le ossa sembravano trasparire come sassi levigati dall'acqua sotto la superficie di un ruscello di montagna; ma dalla fronte fino all'orlo del lenzuolo bianco che le arrivava al mento, la pelle era tutta pieghe e grinze come d'un fossile vivente sopravvissuto all'era dei grandi rettili. La bocca era aperta, le labbra inaridite tremavano a ogni respiro, e un unico dente giallo spuntava dalle gengive grige. Aprì gli occhi. Erano rossi come quelli d'un coniglio bianco, affondati tra le pieghe della pelle cinerea e immersi in un muco gommoso. «Salute vecchia madre.» Leila si avvicinò e le toccò la guancia scavata. «Ho un visitatore per te» disse in perfetto sindebele. La vecchia emise un lamento acuto, gutturale, e cominciò a tremare, scossa da convulsioni, mentre guardava Tungata. «Calmati, vecchia madre.» Leila era preoccupata. «Non ti farà alcun male.» La vecchia liberò un braccio dal lenzuolo, l'alzò. Era scheletrico, con la giuntura del gomito ingrossata dall'artrite, la mano che sembrava una zampa d'uccello, le nocche voluminose e le dita storte. Le puntò verso Tungata. «Figlio di re» gemette, con voce stranamente chiara e forte. «Padre di re, re che regneranno quando torneranno i falchi. Bayete, tu che sarai re. Bayete!» Era il saluto reale, e Tungata s'irrigidì, scosso. Divenne grigio in faccia e la sua fronte si costellò di gocce di sudore. Leila St John indietreggiò contro il muro e fissò la vecchia fragile: la saliva sbavava dalle labbra sottili e piene di croste, gli occhi rossi roteavano. La voce lamentosa divenne più acuta. «I falchi sono volati lontano. Non ci sarà pace nei regni dei Mambo e dei Monomotapa fino al loro ritorno. Colui che riporterà i falchi di pietra avrà i regni.» La voce divenne uno strido. «Bayete, Nkosi Nkulu. Salve, Mambo. Vivi per sempre, Monomotapa.» L'Umlimo salutò Tungata con tutti i titoli degli antichi sovrani, poi si accasciò sui soffici cuscini bianchi. Leila le andò accanto, le posò le dita sul polso esile. «Tutto bene» disse dopo un momento, e guardò Tungata. «Che cosa vuoi che faccia?» Tungata si scosse come se si svegliasse da un sonno profondo, e con la manica del camice bianco si asciugò dalla fronte il sudore gelido della superstizione. «Abbi cura di lei. Assicurati che sia in condizioni di partire domattina. La porteremo a nord al di là del grande fiume» disse.
*** Leila St John entrò a marcia indietro con la piccola Fiat nella rimessa delle ambulanze accanto al pronto soccorso. Al riparo dagli occhi curiosi. Tungata salì dietro e si accovacciò tra i sedili. Leila gli buttò addosso un plaid di mohair, rimise in moto la macchina e raggiunse il cancello principale. Parlò brevemente a una delle guardie e svoltò sulla strada che portava alla residenza del sovrintendente. Parlò senza voltarsi indietro e senza muovere le labbra. «Per ora non c'è traccia delle forze di sicurezza. Sembra che il tuo arrivo sia passato inosservato, ma è meglio non correre rischi.» Parcheggiò nel garage che era stato aggiunto al vecchio edificio dai muri di pietra; e mentre scaricava la valigia e un mucchio di cartellette, si assicurò che nessuno li stesse osservando. Il giardino era isolato dalla strada e dalla chiesa per mezzo di rampicanti su graticci e di cespugli fioriti. Aprì la porta laterale della casa e disse: «Stai giù, per favore, ed entra più presto che puoi.» Tungata scese dalla Fiat e Leila lo seguì in soggiorno. Le imposte e le tende erano chiuse, ed era quasi buio. «Mia nonna costruì questa casa dopo che la prima era stata bruciata durante i disordini del 1896. Per fortuna prese qualche precauzione per il futuro.» Leila si avviò sul pavimento di teak rhodesiano, lucido e coperto da pelli di animali e tappeti tessuti a mano a fregi vistosi e colori primari. Giunse accanto all'alto camino di pietra e scostò la grata nera. Il camino era pavimentato di lastre d'ardesia, e Leila si servì d'un attizzatoio per sollevarne una. Quando Tungata si avvicinò, vide che aveva scoperto un pozzo verticale quadrato con una serie di gradini di pietra. «E' qui che era nascosto quella notte il compagno Tebe?» chiese Tungata. «Quando gli Scout, i kanka, non sono riusciti a trovarlo?» «Sì. Era qui. Ora è meglio che scendi.» Tungata si calò nel pozzo e si trovò nell'oscurità. Leila entrò, richiuse la botola e lo raggiunse. Cercò a tentoni e girò un interruttore. Una lampadina elettrica illuminò il soffitto della celletta di pietra. C'erano un tavolino pieghevole con qualche libro sciupato, uno sgabello e, in un angolo, una branda. Ai piedi della branda c'era una toilette chimica. «Non è molto lussuoso» disse Leila in tono di scusa. «Ma qui nessuno ti troverà.» «Sono stato in alloggi anche meno lussuosi di questo» le assicurò Tungata. «E adesso parliamo.» Leila St John aveva già pronti sul tavolo i certificati medici; sedette sullo sgabello e scrisse gli ordini per il trasporto dell'Umlimo mentre Tungata glieli dettava. Quando ebbe finito, lui disse: «Impara tutto a memoria e distruggi il foglio..» «Sta bene.» Tungata la guardò mentre lei studiava attentamente l'elenco e poi alzava la testa. «Ora c'è un messaggio che devi portare al compagno Inkunzi» gli disse. «Da parte del nostro amico altolocato.» «Dimmi.» «Gli Scout di Ballantyne, i kanka, stanno preparando un'operazione speciale per eliminare il compagno Inkunzi e i suoi collaboratori. Anche il tuo nome figura nell'elenco.» L'espressione di Tungata non cambiò. «Hai i dettagli dei loro piani?» «Tutti i dettagli» gli assicurò lei. «Ecco che cosa faranno.» Leila St John parlò lentamente per quasi dieci minuti e Tungata non la interruppe. Quando ebbe finito, continuò a restare in silenzio, steso sul letto, gli occhi fissi sulla lampadina. Poi Leila St John vide che la mascella si contraeva e che gli occhi s'erano arrossati. Quando parlò, la voce era carica d'odio. «Il colonnello Roland Ballantyne. Se potessimo ucciderlo! E' responsabile della morte di più di tremila dei nostri... lui e i suoi kanka. Nei campi bisbigliano il suo nome come se fosse una specie di demone. Solo a sentirlo nominare i nostri più coraggiosi diventano vigliacchi. Ho visto all'opera lui e i suoi macellai. Oh, se potessimo prenderlo!» Si sollevò a sedere. «Forse» continuò con voce soffocata e tremula, come se l'odio lo ubriacasse, «forse questa è la nostra occasione.» Afferrò
Leila per le' spalle, le affondò le dita nella carne, la trattenne senza fatica quando lei trasalì e cercò di liberarsi. «La sua donna. Hai detto che tornerà in aereo dalle Cascate Vittoria? Puoi darmi la data, il numero del volo, l'ora esatta?» Leila St John annuì, spaventata, terrorizzata da quella furia. «Abbiamo una nostra spia nell'ufficio prenotazioni dell'aeroporto» mormorò, senza più cercare di sottrarsi alla stretta. «Posso fartelo sapere.» «L'esca» disse Tungata. «Il tenero agnellino che attirerà in trapPola il leopardo.» Leila St John gli portò da mangiare e da bere e poi rimase in attesa. Per un po' Tungata masticò in silenzio; poi all'improvviso tornò a parlare dell'Umlimo. «I falchi di pietra» attaccò. «Hai sentito quel che ha détto la vecchia?» Lei annuì e Tungata continuò: «Dimmi tutto quello che sai di questa storia.» «Ecco, i falchi di pietra sono l'emblema sulla bandiera. Figurano sulle monete del paese.» «Sì, continua.» «Sono statue antiche. Vennero scoperte tra le rovine di Zimbabwe dai primi avventurieri bianchi, che le rubarono. Secondo una leggenda, Lobengula tentò di impedirlo. Ma le statue furono portate a sud.» «Adesso dove sono?» chiese Tungata. «Una andò distrutta quando bruciò la casa di Cecil Rhodes a Groote Schuur. Le altre... non sono assolutamente certa, ma credo che siano a Città del Capo, in Sudafrica.» «E dove?» «Nel museo.» Tungata grugnì e riprese a mangiare. Quando la scodella e il boccale furono vuoti li scostò e tornò a fissarla con gli occhi velati. «Le parole della vecchia» cominciò, poi tacque. «La profezia dell'Umlimo» continuò Leila St John. «Ha detto che l'uomo che riporterà i falchi diventerà padrone di questa terra, e che quell'uomo sei tu.» «Non riferirai a nessuno quello che ha detto... mi capisci?» «Non lo dirò a nessuno» promise lei. «Sai che se lo farai ti ucciderò.» «Lo so» disse lei, semplicemente. Riprese la ciotola e il boccale e li rimise sul vassoio. Poi si fermò a guardarlo in attesa e, nel vedere che Tungata non diceva niente, gli chiese: «Non c'è altro?» Tungata continuò a fissarla e lei abbassò gli occhi. «Vuoi che rimanga?» «Sì» disse lui, e Leila St John si voltò verso l'interruttore. «Lascia accesa la luce» ordinò Tungata. «Voglio vedere come sei bianca.» La prima volta gridò di paura e di dolore; la seconda, e tutte le altre innumerevoli volte che vennero poi, gridò nei ciechi, incoerenti trasporti dell'estasi. *** Douglas Ballantyne aveva scelto una dozzina delle migliori bestie da macello tra le mandrie di King's Linn e di Queen's Linn. Le carcasse erano rimaste per tre settimane nella cella frigorifera, e adesso erano perfette. Venivano arrostite intere sopra le fosse piene di carbone in fondo ai giardini. I servitori della cucina di Queen's Linn lavoravano a turno per girare gli spiedi e condire le sfrigolanti carcasse dorate tra nubi di vapori fragranti. C'erano tre orchestrine che si alternavano a suonare. Gli approvvigionatori erano stati portati in volo da Johannesburg con tutto l'equipaggiamento ed erano stati compensati con un adeguato sovrapprezzo perché dovevano lavorare in zona pericolosa. I giardini delle case, per un raggio di ottanta chilometri, erano stati spogliati dei fiori, e i tendoni erano ornati di decorazioni di rose e poinsettie e dalie in cinquanta sfumature sfolgoranti. Bawu Ballantyne aveva noleggiato un aereo speciale per portare il liquore dal Sudafrica, più di quattro tonnellate di vini e superarcolici. Dopo un esame di coscienza politico, Bawu aveva deciso di sospendere le sanzioni personali nei confronti del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda per la durata dei festeggiamenti, e aveva incluso nella spedizione cento casse di whisky Chivas Regal. Era il suo contributo più prezioso ai preparativi: ma ce n'erano stati anche altri. Aveva trasferito alcune delle sue predilette e potentissime mine Claymore dalle difese di King's Linn e le aveva aggiunte alle decorazioni dei giardini di Queen's Linn. «La prudenza non è mai troppa» spiegava cupamente quando qualcuno faceva domande. «Se ci fosse un attacco dei terroristi durante la cerimonia...» Mimava il gesto di premere un pulsante, e
l'intera famiglia rabbrividiva al pensiero d'una nube a forma di fungo che aleggiava sopra Queen's Linn. Avevano dovuto compiere uno sforzo di persuasione concertato per convincerlo a portarsi via le sue amatissime mine. Poi Bawu s'era introdotto furtivamente nelle cucine e aveva aggiunto altre sei bottiglie di brandy all'impasto Per la torta nuziale. Per fortuna Valerie aveva effettuato un ultimo assaggio; e quando aveva ripreso fiato aveva ordinato allo chef di buttare via tutto e di preparare un nuovo impasto. Da quel momento, a Bawu era stato vietato l'ingresso alle cucine, e Douglas aveva incaricato vari membri della famiglia di tenerlo sotto sorveglianza durante il gran giorno. A Clay era toccato il primo turno dalle nove del mattino, quando dovevano incominciare ad arrivare i duemila invitati, fino alle undici, quando avrebbe passato il compito a un cugino e avrebbe assunto le mansioni di testimone di Roland. Clay aveva aiutato il vecchlo a indossare l'uniforme della guerra contro il Kaiser. Un sarto del posto era stato accompagnato a King's Linn per effettuare le modifiche, e i risultati erano sorprendenti. Bawu era azzimato e vivace, con il cinturone, il frustino, e la doppia fila di nastrini colorati sul petto. Clay si sentì fiero di lui quando Bawu si piazzò sulla veranda anteriore, guardò i prati affollati e incominciò a rispondere con cenni di saluto alle esclamazioni affettuose degli ospiti, allisciandosi i lucidi baffi argentei e inclinandosi su un occhio la visiera del cappello. «Accidenti, figliolo» disse a Clay. «Questa faccenda mi fa sentire di nuovo romantico. Non mi sono più sposato da quasi vent'anni. Ho una mezza intenzione di fare un ultimo tentatiVO.» «C'è sempre la vedova Angus» suggerì Clay, e Bawu Ballantyne reagì con uno scatto d'indignazione. «Quella vecchia cornacchia!» «Bawu, è ricca e ha appena cinquant'anni.» «E' vecchia, ragazzo mio. E' meglio prenderle giovani e addestrarle per bene. Questo è il mio motto.» Bawu strizzò l'occhio. «Cosa ne dici di quella?» Bawu aveva adocchiato una venticinquenne già divorziata due volte che indossava una minigonna fuori moda e si guardava intorno audacemente. «Puoi presentarmela» disse Bawu in tono magnanimo. «Credo che il primo ministro voglia vederti, Bawu.» Clay cercò disperatamente di distrarre il nonno prima che allungasse un pizzicotto al didietro della giovane donna. Aveva avuto altre occasioni di vedere il modo di flirtare del vecchio. Lasciò Bawu con il gin and tonic in mano, impegnato a dare a Ian Smith qualche lezione di diplomazia internazionale. «Deve ricordare che quegli individui, Callaghan e i suoi amici, sono operai, Ian, ragazzo mio, e non può trattarli come se fossero gentiluomini. Non lo capirebbero neppure..» E il primo ministro, pallido e stanco e logorato dalla responsabilità, con una palpebra cascante e i capelli chiari sempre più radi, annuì cercando di nascondere un sorriso. «E' giustissimo, zio Bawu, non lo dimenticherò.» Clay pensò che non ci sarebbe stato pericolo a lasciarlo per dieci minuti; era il tempo sufliciente perché il vecchio esprimesse una parte di ciò che pensava del governo laburista britannico. Si avviò in fretta tra la folla, verso i genitori di Janine che stavano con un piccolo gruppo in fondo alla veranda. Si insinuò senza dare nell'occhio in quella cerchia di persone, e studiò con la coda dell'occhio la madre di Janine. Gli dava una strana sensazione dolorosa riconoscere gli stessi lineamenti, la fronte alta, il mento, appena smussati dal passare del tempo. Aveva gli stessi occhi obliqui e felini della figlia. La madre di Janine notò il suo sguardo e sorrise. «Signora Carpenter, sono un amico di Janine. Mi chiamo Clay Mellow.» «Oh, sì. Jan ha parlato di lei nelle sue lettere.» Il sorriso era cordiale, la voce sembrava un'eco di quella della figlia. Clay si sorprese a parlare precipitosamente con lei, senza riuscire a trattenersi... fino a quando la signora Carpenter disse a voce bassa e gentile: «Jan mi aveva scritto che era un così caro ragazzo. Mi dispiace. Mi dispiace sinceramente.» «Prego?» Clay s'irrigidì. «Ama moltissimo Jan, non è vero?» Clay la fissò, depresso, incapace di rispondere; e lei gli toccò il braccio per indicare che aveva capito. «Mi scusi» balbettò Clay. «Roland si starà vestendo. Devo andare.» E per poco non cadde dai gradini della veranda.
«Per Dio, Sonny, dov'eri finito? Pensavo che mi avresti lasciato andare in battaglia da solo» gridò Roland da sotto la doccia. «Hai portato l'anello?» Attesero a fianco a fianco sotto il pergolato, davanti all'altare coperto di fiori. Roland era in alta uniforme, il basco marrone con la testa di Bazo come distintivo, le insegne di colonnello sulle spalline, la croce d'argento al valore sul petto, i guanti bianchi e la spada dorata alla cintura. Nella semplice uniforme della polizìa, Clay si sentiva scialbo e goffo, come un passero accanto a un'aquila dorata, un gatto accanto a un leopardo. E l'attesa sembrava protrarsi all'infinito. Clay continuò ad aggrapparsi disperatamente all'idea che non sarebbe accaduto... era l'unico modo per tenere a bada l'angoscia. Poi giunsero le note trionfanti della marcia nuziale, e lungo la passatoia che scendeva dalla casa la folla degli invitati mormorò incuriosita. Clay sentì la propria anima che incominciava a inabissarsi nel gelo e nella tenebra. Non trovò il coraggio di voltarsi. Continuò a guardare in faccia il prete. Lo conosceva fin dall'infanzia: ma adesso gli sembrava uno sconosciuto, e il suo volto gli tremolava indistinto davanti agli occhi. Poi sentì Janine: riconobbe il suo profumo nonostante gli effluvi dei fiori sull'altare, e si sentì quasi soffocato dai ricordi che evocava. Sentì lo strascico dell'abito da sposa sfiorargli la caviglia. Indietreggiò leggermente e si voltò per poterla vedere un ultima volta. Janine era al braccio del padre. Il velo le copriva i capelli e le nascondeva il viso: ma sotto le pieghe morbide Clay scorgeva i grandi occhi obliqui, dello stesso indaco scuro d'un mare tropicale, che brillavano dolcemente mentre guardavano Roland Ballantyne. «Miei cari, siamo qui riuniti alla presenza di Dio e della Sua Chiesa per unire quest'uomo e questa donna nel santo matrimonio...» Clay non riusciva a distogliere gli occhi dal viso di Janine. Non gli era mai apparsa così incantevole. Portava una corona di violette che avevano lo stesso colore dei suoi occhi. E Clay sperava ancora che non accadesse, che qualcosa lo impedisse. «Perciò, se qualcuno può rivelare una giusta causa perché non possano essere congiunti legittimamente, parli ora...» Clay avrebbe voluto gridare. Avrebbe voluto gridare: «L'amo, è mia!» Ma aveva la gola così secca e dolorante che non riusciva neppure a respirare. E poi accadde. «Io, Roland Morris, prendo in moglie te, Janine Elizabeth...» La voce di Roly era chiara ed energica e feriva Clay fino al profondo dell'anima. Poi, nulla ebbe più importanza. Clay aveva la sensazione di essere distaccato da tutto, come se le risate e la gioia fossero al di là d'un divisorio di vetro: le voci erano stranamente smorzate e persino la luce sembrava offuscata, come se una nuvola stesse passando davanti al sole. Restò a guardare dal margine della folla, sotto le jacaranda, mentre Janine usciva sulla veranda con il bouquet di violette, già vestita dell'abito azzurro per il viaggio di nozze. Roland la teneva per mano. La sollevò su un tavolo, e le ragazze proruppero in gridolini emozionati quando Janiné si accinse a lanciare il bouquet. In quel momento guardò sopra le teste degli invitati e vide Clay. Il sorriso non abbandonò la bella bocca; ma qualcosa passò negli occhi, un'ombra scura, forse di pietà o forse di rimpianto. Poi lanciò il bouquet, una delle sue damigelle l'afferrò al volo, e Roland posò Janine a terra e la condusse via. Tenendosi per mano, gli sposi corsero nel prato dove li attendeva l'elicottero con le pale che ruotavano. Correvano ridendo: Janine teneva stretto con una mano il cappello di paglia, e Roland cercava di ripararla dalla tempesta di coriandoli che turbinava intorno a loro. Clay non attese che l'elicottero li portasse via. Tornò dove aveva lasciato la vecchia Land Rover, dietro le scuderie. Raggiunse lo yacht. Si tolse l'uniforme, la buttò sulla cuccetta e infilò un paio di calzoncini da jogging. Andò in cambusa e prese dal frigo una lattina di birra. Sorseggiò la spuma e tornò in saletta. Era sempre stato un solitario e si era creduto immune ai tormenti della solitudine; ma adesso sapeva che non era così. Ormai c'era un mucchio di oltre cinquanta quaderni sul tavolo, e tutti erano scritti dalla prima all'ultima pagina. Sedette, scelse una matita dal mucchio che spuntava da un boccale come un
mazzo di aculei d'istrice. Cominciò a scrivere, e a poco a poco il tormento corrosivo della solitudine si attenuò e divenne un dolore sordo. Il lunedì mattina, quando entrò nel comando della polizia per andare nell'armeria, il responsabile di turno lo chiamò in ufficio. «Clay, ho qui un ordine di trasferimento. Sei distaccato in missione speciale.» «Di cosa si tratta?» «Diavolo, non lo so. Io lavoro qui e basta. Nessuno mi dice mai niente. Comunque, hai l'ordine di presentarti al comandante di zona, a Wankie, il giorno 28...» L'ispettore s'interruppe e studiò la faccia di Clay. «Ti senti bene?» «Sì. Perché me lo chiedi?» «Hai un'aria da far paura.» L'ispettore rifletté per qualche istante. «Stai a sentire, se fili via di qui il 25, puoi prenderti un paio di giorni di riposo prima di presentarti per il nuovo incarico.» «Sei l'unica stella del mio firmamento, George.» Clay sorrise ironicamente, e pensò: «E' proprio quel che mi occorre: tre giorni senz'altro da fare che compiangermi.» *** Il Victoria Falls Hotel è uno dei più bei monumenti ai tempi grandiosi dell'Impero. I muri sono spessi come quelli di un castello ma sono dipinti di un bianco brillante. I pavimenti sono di marmo, e ci sono scalinate maestose e porticati, e soffitti altissimi come quelli delle cattedrali, con fregi di gesso e ventilatori che girano dolcemente. Le terrazze e i prati si estendono fino al ciglio dell'abisso in cui il fiume Zambesi ribolle in tutta la sua furia e in tutta la sua potenza. La gola è attraversata dalla delicata trina d'acciaio del ponte arcuato, voluto da Cecil Rhodes: «Voglio che gli spruzzi delle cascate bagnino il mio treno quando passa diretto al nord.» Gli spruzzi formano un perpetuo manto niveo sopra l'abisso, che ondeggia e si attorce su se stesso al soffio della brezza; e c'è sempre il rombo smorzato dell'acqua che precipita, come un suono di marosi udito da lontano. Quando David Livingstone, il missionario esploratore, s'era fermato sul ciglio della gola, ne aveva guardato le cupe profondità e aveva detto: «Vedute come questa devono essere contemplate dagli angeli in volo.» La suite Livingstone, che si affaccia su questo spettacolo, prende il nome da lui. Uno dei facchini negri che avevano portato i loro bagagli disse orgogliosamente a Janine: «Qui ha dormito il re Giorgio... e anche la principessa Elisabetta, che adesso è regina, e sua sorella Margaret, quando erano bambine.» Roly rise. «Diavolo, se andava bene per il re Giorgio andrà bene anche per noi!» Diede una mancia spropositata ai facchini sorridenti e stappò la bottiglia di champagne che era ad attenderli in un secchiello d'argento pieno di ghiaccio. Passeggiarono tenendosi per mano lungo il sentiero incantato in riva allo Zambesi, mentre le timide antilopi maculate fuggivano tra la vegetazione tropicale e le scimmiette strillavano dai rami degli alberi. Sempre tenendosi per mano corsero ridendo nella foresta pluviale, sotto la pioggia torrenziale della spuma. I capelli di Janine le ricadevano sul viso, e gli indumenti fradici s'incollavano ai loro corpi. Quando si baciavano sul ciglio dell'alta rupe, la roccia tremava sotto i loro piedi e l'aria spostata dall'enorme volume d'acqua cadente li investiva e gettava sui loro volti gli spruzzi gelidi. Navigarono al tramonto nei placidi tratti a monte delle cascate; noleggiarono un aereo leggero per sorvolare a mezzogiorno i meandri tortuosi della gola, e Janine si aggrappò a Roland, sopraffatta da una vertigine deliziosa, quando sfiorarono l'orlo roccioso dello strapiombo. Ballarono sotto le stelle al suono degli strumenti a percussione africani; e gli altri ospiti, che riconoscevano l'uniforme di Roland, li guardavano con orgoglio e affetto. «Uno degli Scout di Ballantyne» si dicevano. «Sono eccezionali, gli Scout.» E inviavano alla loro tavola, nella principesca sala da pranzo, bottiglie di vino pregiato per manifestare il loro apprezzamento. Roland e Janine restavano a letto fino a tardi, la mattina, e si facevano servire la colazione in camera. Giocavano a tennis, e Roland lanciava lobs di servizio e rispondeva di diritto al servizio di
Janine. Si sdraiavano al sole sui bordi della piscina e si spalmavano l'un l'altra con la crema solare. Nei costumi da bagno erano come giovani animali magnificamente sani, e così chiaramente innamorati da apparire incantati, diversi dagli altri. La sera sedevano sotto le chiome dei grandi alberi, sulla terrazza, e bevevano Pimms e provavano un meraviglioso senso di sfida nel mostrarsi ai loro nemici mortali dall'altra parte della gola. Poi una sera, a cena, il direttore si fermò al loro tavolo. «So che partirà domani, colonnello Ballantyne. Ci mancherete molto tutti e due.» «Oh, no!» Janine scosse la testa, ridendo. «Resteremo qui fino al 26.» «Domani è il 26, signora Ballantyne.» *** Il capo dei facchini aveva ammucchiato tutti i loro bagagli all'ingresso, e Roland stava pagando il conto. Janine lo aspettava sotto il portico. All'improvviso trasalì quando riconobbe la vecchia, malconcia Land Rover scoperta che stava entrando dal cancello e andava a fermarsi in uno spazio libero in fondo al parcheggio. La reazione iniziale, quando lo vide districare le gambe lunghe e scostarsi i capelli dagli occhi prima di scendere, fu un gUiZZO di collera. «E' venuto apposta» pensò. «Per rovinare tutto.» Clay venne verso di lei con le mani affondate nelle tasche; ma quando fu a meno d'una dozzina di passi la riconobbe e la fissò con una confusione che non era simulata. «Jan.» Clay arrossì di colpo. «Oh, mio Dio, non sapevo che fossi qui.» L'irritazione di Janine si placò. «Ciao, Clay. No, era un segreto, fino a ora.» «Mi dispiace moltissimo...» «Non preoccuparti, tanto ce ne andiamo.» «Sonny.» Roland uscì dall'albergo e andò a passare un braccio, fraternamente, intorno alle spalle di Clay. «Sei in anticipo. Come va?» «Tu sapevi che sarei arrivato?» Clay sembrava ancora più confuso. «Lo sapevo» ammise Roland. «Ma non ti aspettavo così presto. Dovevi presentarti il 28.» «George mi ha dato un paio di giorni di libertà.» Dopo le prime parole, Clay non aveva più guardato Janine. «Ho pensato di venire a passarli qui.» «Bravo, il riposo ti farà bene. Io e te avremo un lavoretto da fare insieme. Stai a sentire, Sonny, beviamo qualcosa in fretta. Te lo spiegherò... almeno in parte.» «Oh, tesoro» l'interruppe Janine, «non abbiamo il tempo. Perderò l'aereo.» Non avrebbe potuto sopportare ancora per un momento l'espressione confusa e addolorata di Clay. «Accidenti, penso che abbia ragione.» Roland diede un'occhiata all'orologio. «Dovremo aspettare fino a quando ci rivedremo dopodomani, Sonny.» In quel momento il minibus della linea aerea entrò nel viale dell'albergo. Roland e Janine erano gli unici passeggeri diretti all'aeroporto. «Tesoro, quando ti rivedrò?» «Ecco, non posso dirtelo con certezza, Bugsy. Dipende da molte cose.» «Allora mi telefonerai o mi scriverai?» «Sai che non posso.» «Lo so. Ma comunque starò nell'appartamento, caso mai...» «Vorrei che andassi a vivere a Queen's Linn... è il tuo posto.» «Il mio lavoro...» «Al diavolo il tuo lavoro. Le mogli dei Ballantyne non lavorano.» «Stia a sentire, signor colonnello, c'è la moglie di un Ballantyne che ha intenzione di continuare a lavorare fino a che...» «Fino a che?» chiese Roland. «Fino a che mi darai qualcosa di meglio da fare. «Per esempio?» «Per esempio un bambino.» «E' una sfida?» «Oh, ti prego, signor colonnello, interpretala come se lo fosse.» All'aeroporto c'era una folla allegra e chiassosa di giovani in uniforme, venuti per assistere alla partenza dell'aereo. Quasi tutti conoscevano Roland, e vollero offrire da bere a lui e a Janine: e questo rese più sopportabili gli ultimi minuti. Poi, all'improvviso furono al cancello, e la hostess invitò a salire a bordo. «Mi mancherai tanto» mormorò Janine. «Pregherò per te.» Roland la baciò e la strinse così forte che quasi le tolse il respiro.
«Ti amo» disse Roland. «Questo non l'avevi mai detto.» «No» ammise lui. «No, non l'avevo mai detto a nessuno. Ora vai, donna... prima che faccia una stupidaggine.» Janine era l'ultima della fila dei passeggeri che salivano la scaletta del vecchio Viscount. Portava una camicetta bianca con una gonna color giallo-narciso e i sandali senza tacchi, e aveva un foulard giallo sui capelli e una borsa appesa alla spalla. Quando fu in cima alla scaletta si voltò indietro, si schermò gli occhi per cercare Roland; e appena lo scorse gli sorrise e salutò con la mano, poi entrò. Il portello si chiuse e la scaletta venne portata via. I motori turbo Rolls Royce Dart sibilarono e rombarono, e il Viscount argenteo, con l'emblema del falco di Zimbabwe sulla coda, si avviò sulla pista per prepararsi alla partenza. Quando fu autorizzato a decollare, tornò indietro sulla pista e salì lentamente nell'aria. Roland lo guardò virare verso sud, verso Bulawayo, e rientrò nella sede dell'aeroporto. Mostrò il lasciapassare alla guardia e imboccò le scale che portavano alla torre di controllo. «Cosa possiamo fare per lei, colonnello?» chiese l'assistente controllore di volo. «Aspetto un elicottero che deve venire a prelevarmi da Wankie...» «Oh, è il colonnello Ballantyne... Sì, sappiamo del suo elicottero. E' decollato dodici minuti fa. Sarà qui fra un'ora e dieci minuti.» Intanto il controllore di volo, seduto davanti alla grande vetrata, stava parlando via radio con il pilota del Viscount in partenza. «Siete autorizzati alla partenza normale, salite fino a quindicimila piedi, e proseguite per Bulawayo su avvicinamento 118 virgola 6. Buongiorno.» «Ricevuto, partenza normale, salita fino ad altitudine di volo...» La voce calma, quasi annoiata del pilota s'interruppe, e per un minuto l'apparecchio radio fece sentire un ronzio. Poi la voce ritornò, concitata. Roland si staccò dalla scrivania dei piani di volo e andò alla console del controllore. Si aggrappò alla spalliera della poltroncina e scrutò il cielo attraverso le grandi vetrate. Le alte nuvole del bel tempo si stavano colorando di rosa nell'imminenza del tramonto, ma il Viscount era invisibile, laggiù al sud. Il viso di Roland era indurito dalla collera e dalla paura mentre ascoltava la voce del pilota che usciva gracchiando dagli altoparlanti delle radio. *** Il lanciamissili terraaria portatile, designato SAM-7, è un'arma dall'aspetto rozzo, che quasi non si distingue dal bazooka anticarro della Seconda guerra mondiale. Sembra un comunissimo tubo da grondaia lungo un metro e mezzo, ma a una estremità è leggermente svasato a imbuto. Nel baricentro c'è una piastra al di sotto della canna, mentre sopra c'è un congegno di puntamento e di sparo che sembra una piccola radio a modulazione di frequenza. Per usare l'arma occorrono due uomini. Quello che carica si limita a piazzare il missile nella canna, si assicura che le alette si inseriscano nelle fenditure e lo spinge avanti fino a quando l'estremità entra a contatto con i terminali elettrici e si blocca nella posizione di sparo. Il missile pesa un po' meno di dieci chili. Ha la forma convenzionale del razzo, ma sulla punta c'è un occhio di vetro opaco dietro il quale sta il sensore a infrarossi. Le alette di coda sono mobili, e permettono al missile di puntare su un bersaglio in movimento e di seguirlo. Chi spara si piazza l'arma sulla spalla, mette la cuffia e attiva la batteria. L'artigliere cerca il bersaglio per mezzo del mirino a collimatore. Non appena il sensore del missile individua la fonte infrarossa, incomincia il segnale audio e una minuscola spia rossa si accende nel mirino per confermare che il missile è attivato. Ormai non resta altro che premere il grilletto dell'impugnatura, simile a quella di una pistola, e il missile si lancia alla ricerca implacabile della preda, deviando per seguirla esattamente nelle virate e nei cambiamenti di altitudine. Tungata Zebiwe aveva tenuto i suoi uomini in posizione per quattro giorni. Erano otto, a parte lui; e li aveva scelti a uno a uno con estrema cura. Erano tutti veterani che avevano dato prova di coraggio e di decisione; ma, cosa ancora più importante, erano tutti intelligenti e capaci di prendere l'iniziativa.
Ciascuno di loro era stato addestrato a usare i lanciamissili SAM-7, e ogni uomo portava uno dei missili, oltre agli AK 47 e al solito arsenale di bombe a mano e di mine antiuomo. Ogni paio di uomini poteva effettuare l'attacco; ed erano stati istruiti per farlo. La direzione del vento avrebbe deciso la linea di partenza di tutti gli apparecchi che fossero decollati dalla pista principale dell'aeroporto delle Cascate Vittoria. E la velocità del vento avrebbe condizionato l'altitudine dell'aereo. Tungata era favorito nei suoi calcoli dal fatto che il vento prevalente di nord-est aveva continuato a soffiare costantemente alla velocità di quindici nodi per tutti i quattro giorni che erano rimasti in posizione. Aveva scelto un piccolo kopje densamente alberato perché desse loro una buona copertura, ma non tanto da impedire di vedere bene al di sopra delle chiome degli alberi. Dall'altro, durante le prime ore del mattino, quando non s'erano ancora addensate la foschia e la polvere, Tungata era riuscito a scorgere l'argentea nube stazionaria degli spruzzi che indicava chiaramente la posizione delle Cascate Vittoria, all'orizzonte settentrionale. Ogni pomeriggio s'erano esercitati nella manovra d'attacco. Mezz'ora prima dell'ora prevista per la partenza del volo del Viscount dalle cascate a Bulawayo, Tungata li aveva piazzati in posizione: sei uomini in cerchio al di sotto della vetta per difendersi da un eventuale attacco di sorpresa delle forze di sicurezza, e tre uomini più in alto, che costituivano il gruppo d'assalto vero e proprio. Tungata s'era riservato il compito di sparare; e l'addetto alla carica del pezzo e il suo aiutante erano stati scelti perché avevano l'udito e la vista molto acuti. Durante le esercitazioni dei tre pomeriggi precedenti avevano sentito i motori turbo Rolls Royce Dart qualche minuto dopo il decollo. Il ronzio dei motori era caratteristico, e attirava l'occhio verso la minuscola sagoma a croce dell'apparecchio contro lo sfondo azzurro del cielo. Il primo pomeriggio il Viscount era salito quasi direttamente sopra il loro kopje, a un'altitudine non superiore a duemilacinquecento metri, e Tungata lo aveva preso di mira e l'aveva seguito con gli occhi fino a quando era scomparso alla vista e poi non s'era più sentito. Il secondo pomeriggio l'aereo era passato più o meno alla stessa altitudine, ma otto chilometri più a est della loro posizione. Era il raggio d'azione massimo per il missile. Il segnale audio era arrivato debole e intermittente, e la spia rossa s'era accesa soltanto a tratti. Tungata doveva ammettere che un attacco in quelle condizioni sarebbe probabilmente fallito. Il terzo giorno il Viscount era passato di nuovo a est, a poco più di cinque chilometri. Sarebbe stato un ottimo bersaglio, e quindi le probabilità sembravano all'incirca di due a uno in loro favore. Il quarto giorno Tungata portò il gruppo in posizione sulla vetta quindici minuti prima, e collaudò il SAM puntandolo verso il sole che calava. La cuffia gli trasmise un ululato di eccitazione per quell'immensa fonte di infrarossi. Tungata spense la batteria; e incominciarono l'attesa, scrutando il cielo. Il servente diede un'occhiata all'orologio e mormorò: «Sono in ritardo.» Tungata lo azzittì con un sibilo rabbioso. Sapeva che erano in ritardo, e già i dubbi lo assillavano... poteva darsi che il volo fosse stato rimandato o annullato, che vi fosse stata una soffiata, e che i kanka stessero per arrivare. «Ascolta!» disse l'uomo. E dopo qualche secondo anche Tungata udì il fievole ma distinto ronzio fischiare nel cielo settentrionale. «Pronto!» ordinò. Si assestò l'arma sulla spalla e attivò la batteria. Il sistema audio era preregolato, ma lo controllò di nuovo. «Carica!» disse. Sentì il missile che veniva inserito e spostava leggermente all'indietro il baricentro. Poi udì lo scatto dell'orlo che si assestava contro i terminali. «Caricato!» confermò il suo numero due, battendogli la mano sulla spalla. Tungata brandeggiò a sinistra e a destra, si assicurò d'essere piazzato saldamente, e il suo aiutante parlò di nuovo.
«Nansi! Là!» Tese il braccio sopra la spalla sinistra di Tungata e puntò con l'indice verso l'alto. Tungata cercò con lo sguardo e identificò la scintilla argentea, il riflesso del sole sopra il metallo brunito. «Bersaglio identificato» disse, e sentì i due assistenti che si spostavano per evitare la vampata del razzo. Il puntolino minuscolo ingrandì rapidamente e Tungata si accorse che sarebbe passato meno di ottocento metri a ovest della collinetta, e che era almeno trecento metri più basso di quanto lo fosse stato nei pomeriggi precedenti. Era una posizione ideale per l'attacco. L'inquadrò nel collimatore del mirino e il missile ululò bramoso nella cuffia, un suono come quello di un branco di lupi in caccia al plenilunio. Il missile aveva percepito le radiazioni a infrarossi dei motori Rolls Royce. Nel mirino, la spia rossa brillava come l'occhio ardente di un ciclope infuriato. Tungata premette il grilletto. Vi fu un whoosh assordante, ma quasi nessun rinculo scosse l'arma sulla sua spalla quando scaricò attraverso la svasatura a imbuto sul retro. Per qualche secondo fu avvolto da fumi bian chi e polvere vorticante; ma quando furono spazzati via dalla loro stessa velocità, vide il piccolo missile argenteo che saliva e saliva nell'azzurro, seguito dal pennacchio di vapore. Era come un falco da caccia che si avventa dal polso inguantato per portarsi al di sopra della selvaggina. La velocità era abbagliante: parve rimpicciolire miracolosamente nel nulla, lasciando soltanto il lieve rombo tambureggiante del razzo. Tungata comprese che non c'era tempo per un secondo lancio. Prima che potessero ricaricare, il Viscount sarebbe stato ormai fuori tiro. Guardarono il piccolo aereo splendente, e i secondi parvero scorrere con la lenta viscosità del miele. Un piccolo guizzo d'argento liquido distorse la perfetta sagoma cruciforme delle ali. Qualcosa si squarciò come un bocciolo di cotone maturo, e il Viscount sohbalzò, sbandò e si riassestò di nuovo. Dopo qualche secondo udirono lo schianto che confermava quanto avevano visto, e un rauco grido di trionfo eruppe dalla gola di Tungata Zebiwe. Il Viscount virò dolcemente, poi qualcosa di grande e nero si staccò da un'ala e precipitò verso terra. L'aereo inclinò bruscamente il muso e il suono del motore divenne un urlo stridulo. *** Nella torre di controllo, mentre guardava oltre le vetrate antiriflesso il cielo dolce della sera e ascoltava il dialogo concitato fra il controllore di volo e il pilota del Viscount, Roland Ballantyne era stretto in una morsa paralizzante d'impotenza e di furore. «May-day! May-day! May-day! Qui Viscount 782, ci sentite, torre?» «Viscount 782, che cos'è successo?» «Siamo stati colpiti da un missile al motore di sinistra. Il motore si è spento.» «Viscount 782, è proprio sicuro?» Il pilota scattò, tesissimo. «Accidenti a voi, torre, sono stato in Vietnam. Ci hanno beccati con un SAM, vi dico. Ho attivato gli estintori e abbiamo ancora il controllo dell'apparecchio. Sto iniziando una virata a centottanta gradi!» «Qui terremo tutto pronto per l'emergenza, Viscount 782. Qual è la vostra posizione?» «Siamo a ottanta miglia nautiche dalla pista.» La voce del pilota si spezzò. «Oh, Dio, il motore di sinistra è andato. Si è staccato ed è caduto nel vuoto.» Vi fu un lungo silenzio. Sapevano che il pilota stava lottando per mantenere il controllo dell'apparecchio mutilato; si batteva contro la spinta asimmetrica del motore superstite che cercava di lanciare il Viscount in una esiziale sPira di vite,si batteva contro l'enorme spostamento del peso causato dalla perdita del motore. Nella torre di controllo tutti erano impietriti in un'angoscia silenziosa. Poi l'altoparlante della radio crepitò e gracchiò. «Stiamo scendendo di novecento metri al minuto. Troppo veloce. Non riesco a tenerlo. Precipitiamo, Gli alberi. Troppi alberi! Ecco! Oh, mamma, ecco!» Poi più nulla. ***
Nella torre di controllo, Roland si slanciò verso il banco dei piani di volo e si rivolse all'assistente controllore. «Gli elicotteri di soccorso!» «C'è un solo elicottero nel raggio di cinquecento chilometri. E' il suo e sta arrivando da Wankie.» «E' certo che sia l'unico?» «Sono stati richiamati tutti per un'operazione speciale nelle montagne di Vumba, e il suo è l'unico in questa zona.» «Mi metta in contatto» ordinò Roland, e prese il microfono dalla mano del controllore non appena venne stabilito il contatto. «Qui Ballantyne, abbiamo perso un Viscount con quarantasei persone tra passeggeri ed equipaggio» disse. «Ho ascoltato le trasmissioni» rispose il pilota dell'elicottero. «Il suo è l'unico mezzo di soccorso. Qual è l'ora prevista dell'atterraggio?» «Arriveremo fra cinquanta minuti.» «Che personale ha a bordo?» «Il sergente maggiore Gondele e dieci uomini.» Roland aveva stabilito di effettuare varie prove di lanci notturni durante il ritorno a Wankie. Gondele e i suoi Scout erano in assetto da combattimento e dovevano avere a bordo il suo zaino personale e le sue armi. «Vi aspetterò sulla pista. Avremo con noi un dottore» disse. «Qui Ghepardo Uno, resto in ascolto.» *** Janine Ballantyne aveva un posto di corsia, nella penultima fila a sinistra del Viscount. Accanto al finestrino era seduta un'adolescente con l'apparecchio per raddrizzare i denti e le trecce. I genitori erano sui sedili più avanti. «E' stata all'allevamento dei coccodrilli?» chiese a Janine. «No, non ci siamo andati» ammise Janine. «Hanno un coccodrillo enorme, lungo cinque metri. Lo chiamano Big Daddy» esclamò emozionata la ragazzina. Il Viscount s'era stabilizzato in assetto di volo, e le spie delle cinture di sicurezza s'erano spente. L'hostess in uniforme blu si alzò dal sedile dietro Janine e si avviò verso la testa dell'apparecchio. Janine girò lo sguardo dall'altra parte della corsia, oltre i due sedili vuoti e l'oblò di perspex. Il sole calante era una grande sfera rossa con uno sbaffo di nubi violacee. La foresta era un mare verdescuro che si estendeva sotto di loro in tutte le direzioni in una monotonia interrotta ogni tanto dal foruncolo di un'altura. «Mio padre mi ha comprato una maglietta con Big Daddy, ma è nella valigia...» Vi fu uno schianto, una grande nuvola argentea oscurò gli oblò e il Viscount sobbalzò pazzamente, scagliando Janine contro la cintura di sicurezza. La hostess fu lanciata in alto verso il soffitto della cabina; ricadde come un pupazzo sullo schienale d'uno dei sedili vuoti. I passeggeri proruppero in grida e invocazioni, e la ragazzina si aggrappò come una disperata al braccio di Janine, gettando strilli incoerenti. La cabina s'inclinò nettamente quando l'aereo virò; e all'improvviso il Viscount si tuffò in avanti e oscillò da un lato all'altro. La cintura di sicurezza tratteneva Janine al sedile: ma era come una pazzesca corsa in ottovolante giù per il cielo. Janine si sporse e abbracciò la ragazzina per cercare di acquietare i suoi urli acutissimi. Sebbene la sua testa venisse sbatacchiata da una parte all'altra, Janine riuscì a guardare dall'oblò e vide l'orizzonte che girava come i raggi d'una ruota, e la vertigine e la nausea la vinsero. Poi, bruscamente, fissò lo sguardo sull'ala argentea dell'aereo, sotto di lei. Al posto del motore c'era uno squarcio irregolare, e attraverso quel varco scorgeva la coltre piumosa della foresta. L'ala dilaniata si fletteva e si torceva, e il metallo levigato si riempiva di corrugamenti. Le orecchie le schioccavano per il cambiamento violentissimo della pressione, e gli alberi salivano precipitosamente verso di lei in una confusa chiazza verde-scura. Si staccò dal collo le braccia della ragazzina e le premette la mano sulla testa.
«Stringiti le ginocchia» gridò. «Tieni giù la faccia.» Lei stessa fece ciò che aveva ordinato all'altra. Poi venne il colpo, e fu un fragore assordante, un rombo, uno schianto. Janine fu sbatacchiata nel sedile, accecata e stordita e bersagliata da una pioggia martellante di oggetti. Le parve che continuasse per l'eternità. Vide il soffitto, sopra la sua testa, squarciarsi e lasciarpassare per un momento la luce abbacinante del sole. Poi la luce sparì, e qualcosa le colpì uno stinco. Chiaramente, in mezzo a tutti gli altri suoni, sentì l'osso spezzarsi, e la fitta lancinante le saettò lungo la spina dorsale, fino al cranio. Roteò su se stessa, poi qualcosa d'altro le colpì la nuca, e la sua vista esplose in un turbine di scintille di luce attraverso un vuoto nero e canoro. Quando riprese i sensi era ancora sul sedile; ma pendeva capovolta, trattenuta dalla cintura di sicurezza. Aveva la faccia saturata e gonfiata dall'afflusso del sangue, e la sua vista tremolava come in un miraggio causato dal calore. Le doleva la testa. Le sembrava che un maglio le stesse piantando un chiodo arroventato al centro della fronte. Si girò lentamente e vide la gamba fratturata che le pendeva davanti alla faccia, con le dita girate dalla parte in cui si sarebbe dovuto trovare il calcagno. «Non potrò più camminare» pensò, e quell'orrore la indusse a scuotersi. Tese la mano verso l'allacciatura della cintura di sicurezza, e poi ricordò che se fosse caduta da quella posizione avrebbe rischiato di rompersi il collo. Agganciò il gomito al bracciolo del sedile e fece scattare il fermaglio. Si rovesciò mentre cadeva e atterrò sul fianco, con la gamba fratturata contorta sotto il suo peso. Il dolore insopportabile le fece perdere di nuovo i sensi. Dovevano essere trascorse ore quando riprese conoscenza, perché era quasi buio. Il silenzio era spaventoso. Janine impiegò parecchio tempo per capire dov'era, perché aveva sotto gli occhi l'erba, i tronchi d'albero e la terra sabbiosa. Poi comprese che la fusoliera del Viscount era stata tranciata proprio davanti al suo sedile, come da una ghigliottina; lì intorno era rimasta soltanto la sezione di coda. Sopra la sua testa pendeva il corpo della ragazzina che era stata seduta accanto a lei. Le braccia ciondolavano al di sotto della testa, le trecce bionde puntavano verso terra. Gli occhi erano spalancati e il viso contorto dal terrore dell'istante della morte. Janine si puntellò con i gomiti per strisciare fuori della fusoliera distrutta trascinandosi dietro la gamba ftatturata e si sentì assalire dal freddo e dalla nausea dello shock. Vomitò fino a quando fu così debole che non poté far altro che lasciarsi sprofondare di nuovo nella tenebra della propria mente. Poi udì un suono nel silenzio, dapprima debole e quindi sempre più intenso. Era il rumore delle pale di un elicottero. Guardò verso il cielo; ma era nascosto dalle chiome degli alberi. Si accorse che gli ultimi raggi del giorno erano spariti e stava scendendo precipitosamente sulla terra la rapida notte africana. «Oh, aiuto!» urlò. «Sono qui. Aiuto!» Ma il suono dell'elicottero non divenne più forte. Sembrò passare a poche centinaia di metri dal punto dove si trovava Janine, sotto gli alberi, poi il rombo dei rotori si allontanò rapidamente con la discesa dell'oscurità, e infine venne il silenzio. «Un fuoco» pensò. «Devo accendere un fuoco come segnale.» Si guardò intorno disperatamente. Quasi alla sua portata era accasciato il corpo del padre della ragazzina bionda, che era stato seduto nel posto davanti a lei. Lo raggiunse strisciando e gli toccò la faccia, passandogli leggermente l'indice sulle palpebre. Non vi fu nessuna reazione. Si scostò con un singulto, poi si fece forza e si riavvicinò per frugare nelle tasche del morto. Nella tasca della giacca c'era un accendino Bic di plastica. Al primo scatto diede una fiammella gialla e Janine singultò ancora... questa volta di sollievo. *** Roland Ballantyne era al posto del secondo pilota dell'elicottero Super Frelon e scrutava le chiome degli alberi, non più di sessanta metri sotto di lui. Era così buio che le radure nella foresta
apparivano come pallide chiazze lebbrose. Le cime degli alberi non avevano profili: erano un materasso scuro e amorfo. Anche prima, quando la luce era più forte, le probabilità di scorgere i rottami al di sotto della vegetazione erano comunque remote. Naturalmente, c'era la possibilità che una parte dell'ala o una sezione della coda fosse stata strappata via e fosse rimasta appesa in alto, bene in vista. Ma non potevano farci conto. All'inizio avevano cercato uno squarcio nel fogliame, un groviglio di rami schiantati, le bianche macchie rivelatrici di corteccia lacerata e di legno umido. Cercavano il lampo di un razzo da segnalazione, un pennacchio di fumo o il riflesso del sole basso sul metallo nudo. Ma poi la luce aveva cominciato ad affievolirsi. Adesso continuavano a volare per disperazione, nell'attesa poco convinta di scorgere un bengala, una torcia, un fuoco. Roland si girò verso il pilota e gli gridò, nel frastuono della cabina: «Le luci d'atterraggio. Le accenda!» «Si surriscalderanno e si bruceranno in cinque minuti» gridò di rimando il pilota. «E' inutile!» «Le tenga accese per un minuto e poi le spenga per un altro minuto perché si raffreddino» disse Roland. «Provi.» Il pilota tese la mano verso l'interruttore. Sotto di loro, la foresta fu inondata dal crudo bagliore bianco-azzurro delle lampade al fosforo. Il pilota si abbassò ancora di più. Le ombre sotto gli alberi erano nitide e nere. In una radura scorsero un piccolo branco di elefanti. Gli animali apparivano mostruosi e ultraterreni nel mare di luce, e allargavano in segno di allarme le orecchie enormi come tende. Poi l'elicottero passò oltre e li fece ripiombare nell'oscurità. Continuarono a volare avanti e indietro, coprendo il corridoio che il Viscount avrebbe dovuto seguire: ma era lungo cento miglia nautiche e largo dieci... mille miglia quadrate. Ormai era notte; Roland diede un'occhiata al quadrante luminoso dell'orologio. Erano le nove, ed erano passate quasi quattro ore da quando l'aereo era precipitato. Se c'erano superstiti, ormai stavano sicuramente morendo per il freddo e lo shock, l'emorragia e le lesioni interne, mentre nella cabina del Super Frelon c'era un dottore con venti litri di plasma, un mucchio di coperte... e una possibilità di salvezza. Roland guardava cupamente nel brillante cerchio di luce bianca che danzava sulle chiome degli alberi come il riflettore sul palcoscenico d'un teatro; c'era in lui una disperazione fredda e desolata che sembrava appesantire lentamente le sue membra e paralizzare la forza di volontà. Sapeva che Janine era laggiù, così vicina, così vicina... eppùre non poteva far nulla per lei Strinse convulsamente la mano destra e batté il pugno contro il divisorio metallico. La pelle si sbucciò sulle nocche e la fitta di dolore saettò lungo il braccio fino alla spalla: ma la sofferenza era uno stimolante, e gli restituì la collera. Strinse a sé quella collera, riparandola come un uomo ripara la fiamma d'una candela nel vento intenso. Accanto a lui il pilota controllò sul cronometro il tempo trascorso e spense le luci d'atterraggio per farle raffreddare. La tenebra parve ancora più intensa per il contrasto con il fulgore che l'aveva preceduta. Roland non vedeva più nulla: i suoi occhi si riempirono d'un formicolio di luci stellanti e fu costretto a coprirli con le mani per qualche attimo, per farli riposare e lasciare che si riabituassero. Non vide la minuscola scintilla rossa che, proprio sotto di lui, apparve attraverso le fronde della foresta per una frazione di secondo e subito venne superata mentre il Super Frelon ritornava indietro rombando per proseguire la ricerca in un'altra direzione. *** Janine aveva raccolto un mucchio d'erba secca e di ramoscelli, e l'aveva disposto in un cono, pronta a far scattare la fiamma dell'accendino. Era stata un'impresa difficile. S'era trascinata lentamente all'indietro, sulle natiche e sulle mani, con la gamba spezzata che scivolava sul terreno mentre raccoglieva i fuscelli dagli arbusti più vicini. Ogni volta che la gamba urtava un'irregolarità del terreno dissestato, Janine rischiava di svenire di nuovo per la sofferenza.
Dopo aver preparato tutto per il fuoco, aveva posato l'accendino di plastica e s'era distesa per riposare. Quasi immediatamente il freddo della notte era penetrato attraverso gli indumenti leggeri, e brividi irrefrenabili avevano incominciato a scuoterla. Dovette compiere un immane sforzo di volontà per muoversi ancora, ma cominciò a trascinarsi verso la sezione di coda del Viscount. C'era appena un po' di luce, abbastanza per scorgere la scia della devastazione aperta nella foresta dalla parte anteriore dell'aereo. C'erano frammenti di metallo e valige esplose, e cadaveri che costellavano quella scia terribile anche se il relitto più voluminoso, trascinato avanti dal proprio peso, non era visibile dal punto dove si trovava Janine. Ancora una volta provò a chiamare: «C'è qualcuno? C'è qualcuno che è vivo?» Ma la notte era muta. Continuò a trascinarsi. La sezione di coda, più leggera, doveva aver urtato contro uno degli alberi più alti, ed era stata tranciata nettamente. La violenza dell'impatto aveva spezzato il collo ai passeggeri intorno a lei... s'era salvata soltanto perché al momento dell'urto stava china in avanti, con la faccia premuta sulle ginocchia. Janine raggiunse la coda schiantata e si sollevò per scrutare all'interno, evitando di guardare il corpo della ragazzina, ancora penzolante dal sedile capovolto. Gli armadietti accanto alla cambusa s'erano spalancati e, nell'oscurità, Janine riuscì a scorgere un tesoro di coperte, viveri in scatola e bevande. Si trascinò centimetro per centimetro in quella direzione. Il contatto d'una coperta di lana intorno alle spalle fu come una benedizione; poi bevve avidamente due lattine di limonata amara prima di cercare meglio nel contenuto caotico dell'armadio. Trovò la cassetta del pronto soccorso, e si steccò e si fasciò alla meglio la gamba. Il senso di sollievo fu immediato. C'erano siringhe usaegetta e una dozzina di fialette di morfina. La prospettiva di liberarsi dalla sofferenza era una tentazione acuta; ma sapeva che l'avrebbe intontita, e l'inattività e l'incapacità di reagire con prontezza potevano essere mortalmente pericolose nelle lunghe ore di oscurità. Stava lottando con la tentazione quando sentì di nuovo l'elicottero. Stava arrivando veloce nella sua direzione... Janine lasciò cadere la siringa e si buttò goffamente verso lo squarcio nella fusoliera. Cadde nella terra polverosa con un salto di circa un metro, e il dolore alla gamba l'inchiodò per lunghi secondi. Poi, attraverso il velo della sofferenza, udì il sibilo e il ritmo battente dell'elicottero che si avvicinava. Affondò le unghie nella terra, si morse il labbro inferiore fino a che sentì il sapore del sangue, sforzandosi di dominare il dolore mentre si trascinava verso il mucchio di legnetti. Quando lo raggiunse, il rombo dell'elicottero era un fragore immenso dentro la sua testa, e il cielo al di sopra degli alberi si rischiarava di un bagliore bianco-azzurrognolo. Janine fece scattare l'accendino di plastica e accostò la fiammella all'erba secca. L'erba divampò immediatamente. Alzò il viso verso il cielo e, nella luce del fuoco e nel biancore delle luci d'atterraggio, le sue guance erano incrostate di polvere e di sangue raggrumato, bagnate dalle lacrime di sofferenza e di speranza che le sgorgavano dalle palpebre gonfie. «Ti prego» mormorò. «Oh, buon Dio misericordioso, ti prego, fa' che mi vedano.» Le luci divennero più forti, abbaglianti, accecanti... e all'improvviso si spensero. Il buio la colpì come una mazzata. Il rombo dell'elicottero passò sopra di lei: sentì l'aria smossa con violenza dalle pale. Per un istante brevissimo scorse la nera sagoma di squalo profilata contro le stelle... e poi si allontanò, e il suono dei rotori si smorzò rapidamente nel silenzio. In quel silenzio Janine sentì le proprie urla convulse. «Tornate indietro! Non potete abbandonarmi! Vi prego, tornate indietro!» Riconobbe l'isteria della propria voce, e si premette un pugno contro la bocca per dominarla; ma i singulti irrefrenabili continuavano a squassarla, e il freddo della notte era reso insopportabile dalla morsa gelida della disperazione. Si trascinò più vicino al fuoco. Era riuscita a cogliere appena qualche manciata di fuscelli. Non sarebbe durato molto, ma le allegre fiamme arancione e gialle le diedero un breve calore e un
momento di conforto. Dominò un ultimo singhiozzo soffocante. Chiuse gli occhi, contò lentamente fino a dieci e si sentì un po' più calma. Riaprì le palpebre. Dall'altra parte del fuoco, all'altezza del suo capo, vide un paio di stivali di tela. Alzò gli occhi lentamente e li schermò con una mano. Scorse la figura di un uomo, un uomo molto alto. La luce guizzante del fuoco gli illuminava il viso. La guardava con un'espressione indecifrabile che forse era pietà. «Oh, Dio, grazie» mormorò Janine. «Oh, grazie.» Cominciò a trascinarsi verso l'uomo. «Mi aiuti!» gemette. «Ho la gamba fratturata... la prego, mi aiuti!» *** Dalla cima del kopje, Tungata Zebiwe vide l'aereo colpito piombare dal cielo come un'anatra impallinata. Buttò via il lanciarazzi, levò entrambe le mani strette a pugno e le scosse in un gesto di trionfo. «E' fatta» ruggì. «Sono morti!» Aveva la faccia gonfia per l'afflusso rabbioso del sangue, e gli occhi erano ardenti come le scorie che escono dalla fornace. Dietro di lui gli uomini agitarono le armi sopra le teste, egualmente presi dalla divina follia omicida dei vincitori, l'istinto atavico dei loro antenati che si erano disposti nella formazione «a corna di toro» e s'erano avventati per trafiggere i nemici. Il Viscount precipitò verso le chiome degli alberi e all'ultimo momento parve cambiare assetto. Il muso del piccolo apparecchio argenteo uscì dal tuffo mortale e per qualche secondo sembrò volare parallelo al terreno. Ma continuò a perdere quota rapidamente. Poi toccò le cime delle piante e scomparve subito. Il punto dov'era precipitato era così vicino che Tungata aveva potuto sentire, sia pure vagamente, lo schianto del metallo contro gli alberi e la terra. «Segnalo!» ordinò Tungata, ritrovando la lucidità. «Compagno, la bussola! Annota la posizione!» Misurò a occhio la distanza. «Sono meno di dieci chilometri, possiamo arrivarci prima che faccia buio.» Partirono dalla base del kopje in formazione a freccia, con i fianchi che coprivano gli uomini con l'equipaggiamento pesante e la punta che apriva la pista e accertava che non ci fossero imboscate. Si muovevano svelti, a un'andatura che permetteva di coprire sette chilometri l'ora. Tungata era in testa e ogni quarto d'ora si fermava e piegava un ginocchio a terra per controllare la bussola. Poi si rialzava e levava il pugno per segnalare agli altri di avanzare. E continuavano, svelti e instancabili. Quando la luce incominciò ad affievolirsi sentirono l'elicottero, e Tungata diede agli altri il segnale di buttarsi al coperto. L'apparecchio passò un chilometro e mezzo più a est: Tungata li fece alzare e procedere per altri dieci minuti prima di fermarsi di nuovo. Chiamò a sé i due più vicini e disse sottovoce: «Ci siamo. L'aereo è a poche centinaia di metri.» Girarono lo sguardo sulla foresta. Le colonne alte e contorte dei tronchi sembravano toccare il cielo quasi buio. Attraverso una fenditura nella volta fronzuta della foresta, la stella della sera era un candido punto di luce. «Avanzeremo in linea estesa» disse Tungata, «e procederemo nella stessa direzione.» «Compagno commissario, se ci tratteniamo troppo, domani non riusciremo a raggiungere il fiume. I kanka saranno qui alle prime luci» fece notare uno dei suoi uomini. «Troveremo il rottame» disse Tungata. «Non ci pensare. L'abbiamo fatto apposta. Per lasciare una traccia che i kanka seguiranno. Incominciamo la ricerca.» Si mossero nella foresta come lupi grigi; Tungata li teneva allineati e nella direzione giusta con una serie di fischi che imitavano i richiami del caprimulgo. Proseguirono per venti minuti verso sud, poi Tungata diede il segnale di tornare indietro. Andarono in silenzio, chini sotto gli zaini ma con gli AK 47 tenuti alti contro il petto. Ancora per due volte Tungata fece deviare la linea. Cercarono avanti e indietro mentre passavano i minuti. Erano le nove, e non avrebbero osato rimanere molto più a lungo nell'area del relitto. Il suo uomo aveva ragione.
Alla prima luce i vendicatori sarebbero discesi dal cielo. «Un'altra ora» si disse a voce alta. «Cercheremo per un'altra ora.» Sapeva che andarsene senza lasciare una pista calda per gli sciacalli avrebbe significato rinunciare alla parte più importante dell'operazione. Doveva attirare Ballantyne e i suoi kanka sul luogo del massacro che era stato scelto con tanta cura. Doveva trovare il relitto e lasciare qualcosa che facesse infuriare i kanka e li spingesse a inseguirlo senza pensare alle conseguenze. Poi sentì l'elicottero. Era ancora lontano ma stava ritornando rapidamente. Vide il bagliore delle luci di atterraggio sopra le cime degli alberi e diede ai suoi il segnale di mettersi al coperto. L'elicottero passò a meno di mezzo chilometro da loro. Il fascio di luce abbagliante confuse le ombre sotto gli alberi e le fece scorrere sul fondo della foresta come spettri. All'improvviso la luce si spense; ma lasciò una rossa chiazza rovente negli occhi di Tungata. Ascoltarono il rombo del motore che si allontanava; poi Tungata fischiò ai suoi uomini per farli alzare, e proseguirono di nuovo. Dopo duecento passi Tungata si fermò ancora e fiutò l'aria fredda e umida della foresta. Fumo di legna! Il cuore gli balzò contro le costole. Lanciò il richiamo modulato che imponeva di stare all'erta. Si tolse dalle spalle il pesante zaino e lo posò a terra. Poi la fila proseguì l'avanzata, muovendosi in silenzio, con leggerezza. Più avanti qualcosa torreggiava nel buio, qualcosa di chiaro e voluminoso. Tungata vi puntò contro il raggio della lampada tascabile. Era il muso del Viscount, privo di un'ala e con la fusoliera squarciata. Stava rovesciato sul fianco, e Tungata puntò il raggio della torcia elettrica all'interno dell'abitacolo. Il pilota e il copilota erano morti, ancora legati ai sedili. Le facce erano esangui, gli occhi vitrei e sbarrati. La linea dei guerriglieri proseguì in fretta lungo la scia che l'apparecchio aveva aperto nella foresta. Era cosparsa di rottami, di indumenti sbalzati fuori dalla stiva dei bagagli, di libri e di giornali che svolazzavano nella leggera brezza notturna. I cadaveri sembravano stranamente sereni. Tungata puntò il fascio di luce sulla faccia di una donna dai capelli grigi. Era riversa e non presentava ferite visibili. La gonna era pudicamente abbassata sotto le ginocchia, le mani erano rilassate lungo i fianchi. Ma la dentiera era schizzata via dalla bocca rattrappita come quella di una vecchia megera. Tungata passò oltre. I suoi uomini si fermavano quasi a ogni passo per derubare i morti, o per esaminare una borsetta o una cartella abbandonate. Tungata aveva bisogno di un sopravvissuto. Aveva bisogno di un sopravvissuto, e intorno a lui c'erano soltanto morti. «Il fumo» mormorò. «Ho sentito odore di fumo.» E più avanti, quasi al limitare della linea della foresta, scorse un fiore di fiamma che palpitava e ondeggiava nel movimento gentile dell'aria. Cambiò la presa del fucile e regolò il selettore sul semiautomatico. Dalle ombre scrutò attentamente l'area intorno al fuoco, poi si avvicinò. Gli stivali non fecero il minimo rumore. Accanto al fuoco era stesa una donna. Portava una gonna gialla, macchiata di sangue e di terriccio. Si copriva il viso con il braccio, ed era squassata dai singhiozzi. La gamba che spuntava dalla gonna era legata in modo rudimentale con stecche e bende. Alzò lentamente la testa. Gli occhi erano bui come quelli di un teschio e la pelle chiara era sporca di terra e di sangue, come gli indumenti. Alzò la testa, lo guardò e le parole le uscirono precipitose dalle labbra. «Oh, Dio, grazie» mormorò, e incominciò a strisciare verso Tungata, trascinandosi dietro la gamba. «Oh, grazie. Mi aiuti!» La voce era così roca e spezzata che le parole si capivano appena. «Ho la gamba fratturata... la prego, mi aiuti! Tese la mano e gli strinse la caviglia. «La prego» balbettò la donna, e Tungata si accosciò accanto a lei. «Come si chiama?» chiese gentilmente.
Quel tono la commosse; ma Janine non riusciva a pensare... non riusciva neppure a ricordare il proprio nome. Tungata fece per rialzarsi, ma lei si mosse, sopraffatta dalla paura d'essere lasciata sola di nuovo. Gli afferrò la mano. «Non se ne vada, la prego. Mi chiamo... Janine Ballantyne.» Lui le accarezzò la mano teneramente e sorrise. Fu quel sorriso a metterla in guardia. Era selvaggio e trionfale. Janine ritirò di scatto la mano e si sollevò su un ginocchio. Si guardò intorno, disperata. Poi vide le altre figure di tenebra che uscivano dalla notte. Vide le loro facce, il bagliore bianco dei ghigni. Vide le armi nelle loro mani, lo sguardo dei loro occhi. «Voi» gemette. «Siete voi.» «Sì, signora Ballantyne» disse Tungata a voce bassa. «Siamo noi.» Si alzò e parlò ai suoi uomini. «Ve la do. E' vostra. Usatela... ma non uccidetela. Non dovete ucciderla... voglio lasciarla qui viva.» Due degli uomini si avvicinarono e afferrarono Janine per i polsi, la trascinarono lontana dal fuoco, dietro il rottame. Gli altri compagni deposero i fucili e li seguirono. Ridevano e discutevano sottovoce l'ordine di precedenza mentre cominciavano a sbottonarsi i calzoni. All'improvviso le urla che venivano dall'oscurità si fecero così agghiaccianti che Tungata si girò dall'altra parte e si accovacciò davanti al fuoco e vi gettò altri fuscelli per distrarsi. Ma poi non vi furono altre urla, soltanto un singhiozzo soffocato e ogni tanto qualche grido subito spento. Continuò a lungo e l'inquietudine di Tungata si dissipò. Non c'era passione o desiderio in quell'impresa. Era un atto di violenza, un'estrema provocazione a un nemico temuto, un atto di guerra senza rimorso né compassione, e Tungata era un guerriero. A uno a uno i suoi uomini tornarono accanto al fuoco rassettandosi gli abiti. Erano stranamente impassibili. «Abbiamo finito?» Tungata alzò la testa: uno di loro lo stava guardando con aria interrogativa. Tungata annuì. «Sbrigatevi» disse. «Mancano appena sette ore alla prima luce.» Nessuno tornò dietro il rottame; ma quando furono pronti a mettersi in marcia, vi andò Tungata. Il corpo nudo e bianco della donna di Ballantyne era raggomitolato in posizione fetale. S'era morsa le labbra fino a spellarle, e gemeva in toni soffocati e monocordi. Tungata s'accosciò accanto a lei, le prese la faccia tra le mani e la girò a forza per guardarla negli occhi. Le puntò in viso la torcia elettrica. Erano gli occhi di un animale ferito e terrorizzato; e forse la donna aveva già varcato la linea di confine tra la razionalità e la pazzia. Non poteva esserne certo, e quindi parlò lentamente, come a una bambina ritardata. «Digli che mi chiamo Tungata Zebiwe, Colui-che-cerca-ciò-che-è-stato-rubato... Colui-che-cercagiustizia, vendetta» disse, e si alzò. Janine tentò di rotolare via, ma il dolore la fermò. Mentre si copriva l'inguine con le mani, Tungata vide il rivolo di sangue che le sprizzava fra le dita. Le voltò le spalle e raccolse la gonna gialla macchiata che era stata buttata su un cespuglio. Tornò verso il fuoco e mise la gonna in una tasca. «Lungela!» disse. «Bene, è fatta! Andiamo!» *** A mezzanotte il pilota gridò a Roland Ballantyne: «Abbiamo quasi esaurito il carburante, dobbiamo tornare indietro. C'è un'autobotte che ci aspetta sulla pista.» Per qualche istante parve che Roland non capisse. Nel riflesso verdognolo del quadro degli strumenti il viso era inespressivo, ma la bocca aveva una piega crudele e gli occhi erano terribili. «Andiamo in fretta» disse. «E torniamo qui immediatamente.» Sulla pista il medico degli Scout, Paul Henderson, era in attesa per sostituire il dottore che Roland aveva trovato alle Cascate Vittoria. Quando Henderson fu a bordo, Roland prese in disparte il sergente maggiore Gondele.
«Se almeno potessimo sapere da che parte sono diretti quei bastardi» mormorò. «Andranno verso sud, o stanno tornando al fiume? Tenteranno di passare a uno dei guadi... ma quale?» Esau Gondele si rendeva conto che Roland aveva bisogno di parlare, di dire qualcosa per non pensare all'orrore di ciò che li aspettava nella foresta buia. «Non riusciremo a seguirli con l'elicottero, disse. «La foresta è troppo fitta. Ci sentirebbero da dieci chilometri di distanza e sparirebbero.» «Non Possiamo seguirli così» ammise Roland. «Hanno un SAM-7. Ci butterebbero giù. Con l'elicottero sarebbe un suicidio... L'unico modo è trovare le loro tracce e andargli dietro a piedi.» «Avranno una notte di vantaggio, una notte intera.» Esau Gondele scosse dubbiosamente la grande testa nera e tonda come una palla da cannone. «Il gatto non può resistere alla tentazione di sbranare un uccellino morto» disse Roland. «Forse non sono ancora scappati. Forse sono ancora ubriachi di sangue e potremo prenderli.» «Pronto per partire!» gridò il pilota mentre l'autobotte faceva marcia indietro e si allontanava dal Super Frelon. Tornarono correndo al portello aperto e si arrampicarono a bordo. L'elicottero si sollevò rapidamente, non perse tempo per salire in quota e si lanciò rombando basso sopra la boscaglia buia. L'indomani mattina, alle cinque meno dieci, molto prima che il sole fosse spuntato all'orizzonte ma quando la luce era già abbastanza forte per rivelare forme e colori, Roland batté una mano sulla spalla del pilota e indicò a sinistra. Il pilota virò bruscamente in quella direzione. Era un ramo spezzato; le pagine inferiori delle foglie più chiare di quelle circostanti, avevano attirato l'occhio di Roland. Poi apparve un'altra macchia bianca, il troncone di un ramo spezzato da poco che si tendeva nella luce del mattino. Il pilota fece fermare a mezz'aria il Frelon, tenendolo librato a una quindicina di metri d'altezza. Scrutarono attraverso la coltre di fogliame, e qualcosa di bianco svolazzò nell'aria smossa dalle pale. «Giù!» gridò Roland; e quando si abbassarono all'improvviso videro tutto, i rottami contorti e i detriti che turbinavano nel vento dei rotori. «C'è una radura!» Roland tese il braccio e, quando l'elicottero discese, gli Scout balzarono a terra da quattro o cinque metri e si sparsero immediatamente in un perimetro difensivo. Poi Roland li fece disporre in linea di avanzata esplorativa; procedettero nella scia lasciata dall'aereo, in rapide corse, pronti ad affrontare il fuoco dei nemici. In pochi minuti avevano accertato che non c'era nessuno. «I superstiti!» ordinò Roland. «Cercate i superstiti!» Ritornarono indietro nella scia dell'aereo. Nella luce dell'aurora, la carneficina era orribile. Accanto a ognuno dei corpi, gli Scout indugiavano per qualche attimo: ma erano tutti freddi e irrigiditi e gli uomini passavano oltre. Roland raggiunse il muso e guardò all'interno. Non c'era niente da fare per l'equipaggio: restava solo da attendere l'arrivo dei lunghi sacchi di plastica verde. Tornò indietro e cercò disperatamente una macchia di giallo vivo, il colore della gonna di Janine. «Colonnello!» Un grido risuonò dal margine della foresta. Roland accorse. Il sergente maggiore Gondele era fermo accanto alla sezione di coda sventrata. «Cosa c'è?«chiese Roland con voce aspra. Poi la vide. Esau Gondele aveva coperto il corpo nudo di Janine con un plaid azzurro trovato fra i rottami. Era raggomitolata come una bambina, e si vedeva soltanto la testa spettinata. Roland si lasciò cadere su un ginocchio e sollevò con delicatezza un angolo della coperta. Janine aveva gli occhi gonfi e violacei, le labbra spellate a sangue. Per qualche secondo non la riconobbe; poi credette che fosse morta. Le posò sulla guancia il palmo della mano. La pelle era umida e tiepida. Janine aprì gli occhi, due fenditure sottili nella carne martoriata. Lo guardò, e quegli occhi opachi e senza vita erano più spaventosi di tutto. Poi gli occhi si animarono... di terrore. Janine urlò, e in quel suono c'era l'eco della pazzia. «Tesoro.» Roland la prese tra le braccia, ma lei resistette furiosamente, urlando. Gli occhi erano sbarrati, e il sangue colava dalle croste screpolate delle labbra. «Dottore!» gridò Roland. «Qui!
Immediatamente!» Dovette fare ricorso a tutte le sue forze per trattenere Janine.'Aveva buttato via la coperta e, nuda, scalciava e graffiava. Paul Henderson arrivò di corsa e aprì lo zaino. Riempì una siringa e mormorò: «Tienila ferma» mentre strofinava un po' di ovatta sulla pelle. Inserì l'ago e iniettò nel braccio il contenuto trasparente della siringa. Janine continuò a urlare e a lottare ancora per un minuto e poi, gradualmente, si acquietò e si rilassò. Il dottore la tolse dalle braccia di Roland e fece un cenno al suo assistente. Il giovane infermiere resse una coperta come uno schermo mentre il dottore adagiava Janine su un'altra. «Togliti di torno» intimò a Roland, e incominciò la visita. Roland riprese il fucile, e si avviò vacillando verso la sezione di coda del Viscount, appoggiandosi per non cadere. Il suo respiro, convulso e irregolare, già si stava normalizzando. Roland si raddrizzò. «Colonnello, signore.» Esau Gondele apparve al suo fianco. «Abbiamo trovato le loro tracce, all'andata e al ritorno.» «Da quanto se ne sono andati?» «Almeno cinque ore, probabilmente di più.» «Tenetevi pronti a muovere. Li inseguiremo.» Roland gli voltò le spalle. Aveva bisogno di restare solo ancora un po': non riusciva a controllarsi completamente. Due degli Scout arrivarono al trotto dall'elicottero, reggendo una barella di plastica gialla. «Colonnello!» Paul Henderson rimboccò con cura la coperta azzurra intorno a Janine e poi, con l'aiuto dell'infermiere, la sollevò, l'adagiò delicatamente sulla barella e agganciò le cinghie. Mentre l'infermiere preparava il flacone di plasma, il dottore prese Roland in disparte. «Non va molto bene» disse a voce bassa. «Che cosa le hanno fatto?» chiese Roland, e Paul Henderson glielo disse. Roland strinse così forte il calcio del fucile che le braccia incominciarono a tremare, i muscoli si contrassero in nodi e cordoni. «Ha un'emorragia interna» concluse Henderson. «Dobbiamo portarla al più presto in una sala operatoria. In un ospedale attrezzato per questo genere d'intervento. Bulawayo.» «Prendi l'elicottero» ordinò bruscamente Roland. Portarono in fretta la barella al Super Frelon. L'infermiere reggeva il flacone del plasma. «Colonnello.» Henderson si voltò. «E' ancora cosciente. Se vuoi...» Non finì. Il gruppetto attendeva accanto alla fusoliera, senza sapere se doveva caricare la barella a bordo. Roland si avviò a passo pesante, con una strana riluttanza. I nemici avevano violentato la sua donna. E lei era una delle cose più sacre. Quanti erano stati? Il pensiero lo fermò; dovette compiere uno sforzo per proseguire verso la barella. Guardò Janine. Soltanto il viso spuntava dalla coperta. Era grottescamente gonfio, e la bocca era una rossa piaga. I capelli erano incrostati di sudiciume e di sangue coagulato, ma gli occhi erano limpidi. Il sedativo aveva scacciato la follia, e ora Janine lo guardava. Gli occhi erano gli stessi, blu indaco. Faticosamente, le labbra martoriate formarono una parola, ma non emisero il minimo suono. Janine stava cercando di pronunciare il suo nome. «Roland!» La ripugnanza lo assalì, invincibile. Quanti l'avevano presa in quel modo? Una dozzina? Di più? Era stata la sua donna; ma ora tutto era distrutto. Si sforzò di lottare; ma aveva la nausea e il sudore gli agghiacciava il viso. Cercò di chinarsi su di lei, di baciare il viso terribilmente martoriato, ma non poté. Non riusciva a parlare né a muoversi. Lentamente, la luce si spense negli occhi di Janine, lasciando il posto all'espressione vacua che Roland aveva visto prima. Poi lei chiuse le palpebre gonfie e livide e girò adagio la testa dall'altra parte. «Abbiate cura di lei» mormorò Roland con voce rauca. Caricarono la barella sull'elicottero. Paul Henderson si girò verso di lui, con il viso stravolto dalla pietà e dalla collera impotente, e gli posò la mano sul braccio. «Roly, non è stata colpa sua» mormorò. «Se dici ancora qualcosa, ti ammazzo.» La voce di Roland era arrochita dal disgusto e dall'odio.
Paul Henderson si staccò da lui e salì a bordo. Roland diede un segnale al pilota, e il grosso apparecchio s'innalzò nel cielo, rumorosamente. «Sergente maggiore!» gridò Roland, «seguiamo la pista!» E non si voltò mentre l'elicottero saliva nell'aurora rosata e virava verso sud. *** Procedevano in formazione allungata: se fossero incappati in un'imboscata, quelli di coda avrebbero potuto accerchiare gli aggressori e liberare quelli in testa. Procedevano veloci come una tempesta, troppo veloci per essere davvero sicuri, con un'andatura da maratoneti. Durante la prima ora, Roland aveva ordinato agli Scout di liberarsi degli zaini. Abbandonarono tutto tranne la radio, le armi, le borracce e gli astucci del pronto soccorso; e Roland li fece procedere ancora più svelti. Si alternava in testa con Esau Gondele: ogni ora uno di loro tornava indietro e l'altro lo sostituiva. Persero due volte le tracce sul terreno sassoso, ma ogni volta le ritrovarono più avanti. Erano chiare, disposte in linea retta; e non era stato difficile calcolare che si trattava di nove uomini. Dopo meno di due ore Roland aveva imparato a riconoscerli a uno a uno dalle impronte che lasciavano. Ce n'era uno con un'intaccatura nel tacco sinistro che si muoveva a passi di un metro e più; e anche ognuno degli altri aveva una caratteristica che lo differenziava. Roland li conosceva e smaniava di raggiungerli. «Sono diretti verso i guadi» borbottò Esau Gondele mentre dava il cambio a Roland. «Dovremmo avvertire via radio e ordinare che una pattuglia vada a cercarli.» «Ci sono dodici guadi lungo un tratto di quasi settanta chilometri. Non basterebbero mille uomini.» Roland li voleva per sé, tutti e nove. A Esau Gondele bastò un'occhiata per capirlo. Riprese a seguire le tracce. Stavano attraversando una radura d'erba dorata. Gli inseguiti avevano lasciato un'ampia scia nel l'erba, con gli steli ancora piegati nella direzione della fuga, e il sole vi si rifletteva con un'intensità differente. Era come seguire un'autostrada. Proseguirono correndo agevolmente: Più avanti, Esau Gondele vide alcuni degli steli che si raddrizzavano. Erano già molto vicini, e non era ancora mezzogiorno. Avevano ridotto di almeno tre ore il vantaggio dei terroristi dello ZIPRA. «Possiamo prenderli prima del fiume... possiamo averli tutti per noi» pensò rabbiosamente Esau Gondele resistendo all'impulso di allungare l'andatura. Non potevano muoversi più velocemente: un centimetro in più a ogni passo avrebbe messo un limite alla loro resistenza, mentre così avrebbero potuto continuare a correre fino a quando fosse calato il sole e si fosse alzata la luna. Alle due del pomeriggio persero di nuovo le tracce. Erano su una cresta lunga e bassa di roccia sedimentaria ricca di ferro, e il suolo non riceveva le impronte. Non appena Esau Gondéle perse il contatto, la linea si fermò e si piazzò in assetto difensivo. Roland avanzò e andò a inginocchiarsi un po' lontano dal sergente maggiore, in modo che fosse impossibile centrarli entrambi con un'unica raffica. «Cosa ti pare?» Roland scacciò dagli occhi e dalle narici le minuscole api del mopani che cercavano con insistenza ossessiva la minima traccia di umidità. «Io penso che siano andati diritto.» «Se avevano intenzione di deviare, questo è il posto più adatto» rispose Roland. Si asciugò il viso con l'avambraccio e la tintura grassa della mimetizzazione si staccò in una chiazza brunastra e verde. «Se andiamo a cercare più avanti possiamo perdere una mez'ora» osservò Esau Gondele. «Tre chilometri.» «Se procediamo alla cieca, rischiamo di perdere molto di più, e potremmo non riprenderli mai.» Roland girò pensieroso lo sguardo sulla foresta di mopani lungo il dosso. «Non mi piace» decise alla fine. «Andiamo a vedere.» Girarono oltre la cresta e, come aveva previsto Esau Gondele, costò loro mezz'ora del tempo guadagnato. Ma non trovarono nulla. Non c'erano tracce sulla linea retta che avevano seguito: la preda aveva deviato.
«Possono soltanto aver continuato lungo la cresta: abbiamo cinquanta probabilità sU cento. Verso est si allontanerebbero dai guadi e non credo che correrebbero questo rischio. Andiamo verso ovest, alla cieca» decise Roland. Continuarono più energicamente di prima: erano riposati e dovevano rifarsi della mezz'ora perduta; Roland correva con il dubbio che gli attanagliava le viscere e la roccia nera che si sgretolava sotto gli stivali. Esau Gondele era lontano, sul fianco destro, sulla terra più molle al di sotto della cresta e cercava il punto dove gli inseguiti l'avevano abbandonata per svoltare verso nord, di nuovo verso il fiume... se mai l'avevano fatto. Roland non poteva tener d'occhio anche il versante meridionale della cresta: la fascia di roccia sedimentaria ricca di ferro era troppo ampia. Avrebbe dovuto dividere le sue poche forze. Il versante sud era un versante cieco. Se erano tornati indietro o avevano deviato verso est, allora li aveva persi. Era una prospettiva insopportabile. Strinse convulsamente i denti fino a quando ebbe la sensazione che stessero per spezzarsi e controllò l'orologio... erano sulla cresta da quarantacinque minuti. Stava facendo mentalmente la conversione del tempo in distanza quando vide gli uccelli. Erano quattro, due coppie di pernici delle sabbie, e volavano con il caratteristico, tipico battito affrettato delle ali che rendeva inequivocabili le loro intenzioni. «Stanno scendendo all'acqua» disse Roland a voce alta, e seguì la loro discesa al di sotto delle chiome degli alberi prima di dare un segnale a Esau Gondele. L'acqua era una grande pozza tra i mopani, un residuo dell'ultima pioggia. Aveva venti metri di diametro ed era quasi tutta fango nero che il calpestio delle mandrie selvatiche aveva reso consistente come stucco. Le orme dei nove uomini spiccavano nitide: andavano direttamente alla pozza centrale d'acqua fangosa e poi si dirigevano verso nord e verso il fiume. Avevano ritrovato le tracce della preda. L'odio di Roland divampò con rinnovato furore. «Vuotate le borracce» ordinò. Era inutile inquinare l'acqua pura che avevano con il lurido liquido color caffè della pozza. Bevvero avidamente; poi uno di loro raccolse le borracce e si avventurò in mezzo al fango per riempirle. Roland non intendeva mettere in pericolo i suoi uomini più dello stretto necessario, in quel tratto scoperto. Erano quasi le quattro quando furono pronti a seguire di nuovo le tracce; secondo il calcolo di Roland erano ancora a una quindicina di chilometri dal fiume. «Non possiamo lasciare che l'attraversino, sergente maggiore» disse a voce bassa. «D'ora in poi dobbiamo mettercela tutta.» L'andatura era troppo sostenuta, anche per atleti superbamente allenati. Se fossero entrati in contatto con il nemico in quel momento, sarebbero stati sfiatati e quasi impotenti nei lunghi minuti necessari per riprendersi... Ma raggiunsero la strada di Kazungula senza incontrare nessuno. Da quattro ore almeno non era passata una pattuglia della sicurezza su quella superficie di ghiaia. Trovarono il punto dove gli inseguiti avevano effettuato una ricognizione della strada e avevano preso la precauzione di cancellare i segni del loro passaggio. Gli era costato minuti preziosi, e gli Scout erano ormai vicinissimi al contatto. Il tratto di terreno dove aveva urinato uno dei terroristi era ancora bagnato: il suolo sabbioso non aveva avuto il tempo di assorbire l'urina, il sole di farla evaporare. La distanza era di pochi minuti. Era una pazzia avvicinarsi correndo; ma quando attraversarono la strada Roland ripeté: «Avanti!» E allorché si voltò indietro e vide il lampo negli occhi di Esau Gondele, continuò: «Vado in testa io.» Guidò gli uomini correndo e scavalcando i bassi cespugli spinosi; si affidava esclusivamente alla velocità per sperare di sopravvivere alla prima raffica quando fossero entrati in contatto e sapeva che anche se i terroristi l'avessero colpito avrebbe potuto lasciare a Esau Gondele e ai suoi uomini il compito di portare a termine l'operazione. Per Roland la sopravvivenza non era più importante: l'importante era riprenderli e annientarli, come loro avevano annientato Janine.
Tuttavia, quando scorse il guizzo di un colore più avanti tra gli arbusti, si buttò ventre a terra e rotolò rapidamente su se stesso per sottrarsi alla mira. Un attimo dopo puntò sul bersaglio e sparò una breve raffica: un tocco leggero sul grilletto e l'FN gli martellò contro la spalla. Poi gli echi si dispersero e vi fu un silenzio assoluto. I terroristi non rispondevano al fuoco, e i suoi Scout erano a terra, al coperto dietro di lui: non avrebbero sparato fino a che non avessero individuato un bersaglio. Diede un segnale a Esau Gondele: «Resta qui e coprimi!» Si rialzò in piedi e corse avanti, tenendosi curvo e cambiando continuamente direzione. Si buttò a terra di nuovo accanto a un cespuglio. Tra i rami spinosi, sopra la sua testa, c'era l'oggetto che l'aveva indotto a sparare. Sventolava nella brezza calda del fiume. Era una gonna di cotone morbido, d'un vivace giallo ranuncolo, ma era macchiata di sangue coagulato e di terriccio. Roland allungò il braccio, strappò la gonna dalle spine, l'appallottolò nel pugno e se la premette contro il viso. Conservava ancora il profumo di Janine, molto debole ma inconfondibile. Roland si rialzò e riprese a correre con tutte le sue forze e tutto il suo odio, spronato da una frenesia ormai sfuggita a ogni controllo. Davanti a lui, fra gli alberi, vide i segnali lungo il bordo del cordon sanitaire. I piccoli teschi rossi sembravano sfidarlo e pungolarlo. Non rallentò quando gli passò accanto: niente avrebbe potuto fermarlo, ormai; E davanti a lui si stendeva il campo minato. Qualcosa lo urtò con violenza dietro le ginocchia e lo gettò bocconi, senza fiato. Immediatamente tentò di rialzarsi. Esau Gondele loplaccò di nuovo, lo trascinò indietro. Barcollarono avvinghiati. «Lasciami andare!» ansimò Roland. «Devo...» Esau Gondele liberò il braccio destro e gli assestò un pugno alla guancia, con una violenza che lo stordì, e approfittò di quel momento di vantaggio per torcergli il braccio dietro la schiena e trascinarlo indietro, lontano dal campo minato. Poi lo gettò a terra e si lasciò cadere accanto a lui, tenendolo inchiodato con il braccio poderoso. «Pazzo bastardo, ci farà ammazzare tutti» ringhiò in faccia a Roland. «C'era già dentro... un altro passo...» Roland lo fissò senza capire, come se si svegliasse in quel momento da un incubo. «Sono passati attraverso il cordon» sibilò Esau. «Sono passati. E' finita. Se ne sono andati.» «No.» Roland scrollò la testa. «Non se ne sono andati. Porta qui la radio. Non possiamo lasciare che se ne vadano.» Roland usò la frequenza della sicurezza, 129,7 megahertz. «A tutte le unità, qui Ghepardo Uno... rispondete!» Chiamava a voce bassa, ma con una sfumatura di disperazione. La potenza dell'apparecchio era di quattro watt appena, e le Cascate Vittoria erano una cinquantina di chilometri più a valle. L'unica risposta era il ronzio delle scariche. Passò alle frequenze dell'aviazione, e cercò quella delle Cascate, sui 126,9. Anche questa volta non ebbe risposta. Passò alla frequenza della torre e fece scattare il pulsante del microfono. «Torre, qui Ghepardo Uno. Rispondete!» Vi fu un bisbiglio, stridulo e debole. «Ghepardo Uno, qui è la torre delle Cascate Vittoria, state trasmettendo su una frequenza riservata.» «Torre, siamo un'unità degli Scout di Ballantyne e inseguiamo i terroristi.» «State inseguendo la banda che ha abbattuto il Viscount?» «Torre, risposta affermativa.» «Ghepardo Uno, potete contare sulla nostra piena collaborazione.» «Ho bisogno di un elicottero che ci porti oltre il cordon sanitaire. Ne avete uno a disposizione?» «Negativo, Ghepardo Uno. Abbiamo soltanto apparecchi ad ala fissa.» «Un momento.» Roland abbassò il microfono e scrutò al di là del campo minato. Era così stretto. Sarebbero bastati venti secondi per attraversarlo, eppure era come se fosse esteso quanto il Sahara. «Se mandano un veicolo a prenderci... possiamo partire con l'aereo dalle cascate e lanciarci con il paracadute sull'altra sponda» gli mormorò all'orecchio Esau Gondele. «E' inutile. Ci vorrebbero due ore...» Roland s'interruppe. «Per Dio, ho trovato!» Premette il pulsante del microfono. «Torre, qui Ghepardo Uno.» «Parli, Ghepardo Uno.» «C'è un artificiere della polizia al Victoria Falls Hotel, il sergente Clay Mellow. Voglio che lo lanciate sulla mia posizione al più presto possibile perché apra il campo minato.
Telefoni all'albergo.» «Rimanga in ascolto, Ghepardo Uno.» La voce sussurrante della torre s'interruppe. Rimasero distesi nel sole a sudare, bruciati dal caldo e dall'odio. «Ghepardo Uno, abbiamo contattato Mellow. Sta arrivando all'aeroporto. Effettueremo il lancio con un Beechcraft Baron argenteo con le sigle della RUAC. Ci dia la posizione e il segnale di riconoscimento.» «Torre, siamo sul cordon sanitaire, circa cinquanta chilometri a monte delle cascate. Lanceremo una granata bianca al fosforo.» «Roger, Ghepardo Uno. Ricevuto: segnale di fumo bianco. Tenendo conto del pericolo del SAM, potremo fare un unico sorvolo a bassa quota. Aspettate la consegna fra venti minuti.» «Torre, la luce se ne sta andando. Ditegli di sbrigarsi, per amor di Dio, o quei bastardi ci scapperanno.» *** Esau Gondele aveva fissato il lanciagranate alla canna del fucile FN. Sentirono il rombo fioco di un bimotore che arrivava dalla direzione verso valle, e Roland toccò il braccio del sergente maggiore. «Pronto?» chiese. Il suono dei motori aumentò rapidamente. Roland si sollevò su un ginocchio e scrutò verso est. Vide il lampo argenteo sopra le cime degli alberi e batté la mano sulla spalla di Esau. «Via!» Vi fu il crepitio della cartuccia a salve e la granata s'innalzò in una parabola pigra, lontano dal campo minato e in direzione della strada di Kazungula. La granata esplose e una colonna di fumo bianco eruttò sopra i cespugli bruniti dal sole. Il piccolo bimotore virò dolcemente verso il segnale e si riportò in assetto. Il portello dalla parte del passeggero era stato rimosso, lasciando un'apertura squadrata sopra l'attaccatura dell'ala. In quel varco stava acquattata una figura dinoccolata e familiare, con le cinghie del paracadute che salivano dall'inguine al petto e alle spalle, e il paracadute ripiegato che gli pendeva contro le gambe. Portava l'elmetto da paracadutista e gli occhialoni, ma le gambe erano nude, i piedi calzati di semplici scarpe alte. Il Beechcraft era molto basso... forse troppo. Roland provò una fitta d'ansia. Sonny non era uno Scout. Aveva effettuato gli otto lanci regolamentari per ottenere il distintivo di paracadutista: ma s'era trattato di normali lanci da milletrecento metri. Il Beechcraft era si e no settanta metri sopra la boscaglia. Il pilota non voleva offrirsi come bersaglio ai SAM. «Un altro passaggio» gridò Roland. «Sei troppo basso!» Incrociò le braccia sopra la testa per indicare di allontanarsi: ma proprio in quel momento la figura investita dal vento nel portello del Beechcraft si buttò a capofitto oltre l'orlo dell'ala argentea. La coda parve avventarsi contro di lui come la scure d'un carnefice, sfiorandogli la schiena, e il lungo nastro della corda a strappo si snodò, ancora fissata all'apparecchio come un cordone ombelicale. Clay piombò verso terra come un sasso e Roland, che lo seguiva con lo sguardo, si sentì mancare il respiro. All'improvviso l'ombrello di seta si aprì con uno schiocco secco come una frustata, e Clay fu strattonato bruscamente, eretto, con le gambe protese che quasi toccavano il suolo. Per un lungo istante rimase sospeso come un impiccato; poi cadde e rotolò sul dorso con i piedi uniti ma sollevati da terra. Un altro ruzzolone e fu diritto: tagliò le corde del paracadute per sgonfiare il grande fungo di seta. Roland esalò un lungo respiro. «Portatelo qui» ordinò. Due Scout afferrarono Clay per le braccia, lo costrinsero a correre tenendosi basso. Si lasciò cadere a terra accanto a Roland che l'accolse in tono aspro: «Devi farci passare, Sonny, e al più presto possibile.» «Roly, Janine era sul Viscount?» «Sì, accidenti a te. Adesso facci passare.» Clay aveva aperto lo zaino e stava radunando gli attrezzi, la sonda, la tronchesina e i rotoli di nastro colorato, il metro metallico e la bussola.
«E' viva?» Clay non osò guardare in faccia Roland per cercare la risposta. Incominciò a tremare quando la sentì. «E' viva. Appena.» «Dio sia ringraziato, oh, Dio sia ringraziato» mormorò Clay, e Roland lo scrutò, pensieroso. «Non m'ero accorto dei tuoi sentimenti, Sonny.» «Non sei mai stato molto acuto.» Finalmente Clay lo guardò con aria di sfida. «L'ho amata dal primo momento che l'hovista.» «Bene, allora vorrai prendere quei bastardi quanto lo voglio io. Apri il campo, e in fretta.» Roland fece un segnale e i suoi Scout si avvicinarono prontamente e si stesero lungo il bordo del campo minato,con le armi puntate in avanti. Roland si rivolse a Clay. «Pronto?» Clay annuì. «Conosci lo schema?» «Prega perché lo conosca.» «Vai, Sonny» ordinò Roland, e Clay si alzò, avanzò nel campo minato e si mise al lavoro con la sonda e il metro metallico. Roland frenò l'impazienza per meno di cinque minuti, poi chiamò: «Cristo, Sonny, ci restano due ore di luce... quanto tempo ci vorrà?» Clay non si voltò. Stava curvo come un raccoglitore di patate, e sondava con delicatezza il terreno. Il sudore aveva intriso la schiena della camicia cachi di una lunga chiazza scura. «Non puoi sbrigarti?» Con la concentrazione di un chirurgo che blocca un'arteria con una pinza emostatica, Clay tagliò il filo metallico di una mina Claymore, posò il nastro colorato a terra dietro di sé e avanzò di un passo. Clay stava svolgendo il filo d'Arianna che doveva condurli attraverso il labirinto. Clay sondò di nuovo. Aveva scelto un punto d'entrata poco propizio dove si sovrapponevano due sistemi separati. In una situazione normale sarebbe ritornato indietro lungo il nastro colorato e avrebbe ricominciato in un altro punto del perimetro: ma questo poteva costargli tempo prezioso, anche venti minuti. «Clay, sei sempre lì fermo» lo chiamò Roland. «Cristo, hai perso il coraggio?» A quell'accusa, Clay trasalì. Avrebbe dovuto controllare il sistema alla sua sinistra: doveva esserci una mina antiuomo a un angolo di trenta gradi rispetto a quella che aveva trovato, e un varco di sessanta centimetri nel mezzo, se aveva interpretato esattamente lo schema. Per controllare avrebbe impiegato due minuti. «Muoviti, Mellow, accidenti a te» lo sferzò la voce di Roland. «Non restare lì! Muoviti!» Clay si fece forza. Le probabilità erano tre a una in suo favore. Mosse un passo in avanti, appoggiò delicatamente il peso sul piede sinistro. Il terreno era solido. Mosse un altro passo, appoggiò il piede destro con la cautela di un gatto che fa la posta a un uccello. Il terreno era solido anche questa volta. Poi il piede sinistro. Una goccia di sudore gli cadde dalla fronte nell'occhio, semiaccecandolo. Batté le palpebre per rimuoverla e completò il passo. Ancora tutto bene. Adesso doveva esserci una mina Claymore sulla sua destra. Gli tremavano le gambe: ma si accosciò. Il filo non c'era! Aveva interpretato lo schema in modo errato. Era cieco in mezzo al campo, completamente affidato al caso. Batté rapidamente le' palpebre e poi, con un senso di sollievo, scorse il filo quasi invisibile nel punto esatto in cui doveva essere. Sembrava vibrare per la tensione, come i suoi nervi. Clay stava per usare la tronchesina quando la voce di Roland gli risuonò accanto alla spalla. «Non perdere tempo...» Clay sussultò e ritrasse di scatto la mano dal filo metallico. Si voltò a guardare. Roland aveva seguito il nastro colorato. S'era avventurato nel campo minato e stava con un ginocchio a terra, il fucile FN sulla coscia, un passo più indietro. La faccia era mascherata da uno strato di tinta mimetica: sembrava un guerriero primitivo venuto da un altro tempo, selvaggio e mostruoso. «Vado più in fretta che posso.» Clay si asciugò dalla fronte le gocce di sudore. «Non è vero» disse seccamente Roland. «Sei qui dentro da quasi venti minuti e non ti sei mosso di venti passi. Sarà buio prima che riusciamo a traversare, se hai tanta fifa. «Accidenti a te!» sibilò Clay.
«Sì» lo incoraggiò Roland. «Arrabbiati. Devi arrabbiarti.» Clay tese la mano e tranciò il filo metallico che emise una minuscola vibrazione tremula, come la corda di una chitarra toccata da un'unghia. «Ecco, Sonny. Muoviti!» La voce di Roland era alle sue spalle, come una litania monotona. «Pensa a quei bastardi, Sonny. Sono là fuori come sciacalli rabbiosi. Pènsa che ci stanno scappando.» Clay avanzò. A ogni passo si muoveva con maggiore fermezza. «Hanno ammazzato tutti a bordo del Viscount, Clay. Tutti, uomini, donne e bambini. Tutti, tranne lei.» Roland non pronunciò il nome di Janine. «L'hanno lasciata viva. Ma quando l'ho trovata non era in grado di parlare, Sonny. Poteva soltanto urlare e dibattersi come un animale selvatico.» Clay si fermò di colpo e si voltò. Il suo viso era pallido, gelido. «Non fermarti, Sonny. Continua.» Clay si fermò, sondò rapidamente il terreno. La mina antiuomo era lì, esattamente dove doveva essere. Procedette nel corridoio con passi corti e svelti, e il bisbiglio secco di Roland continuava a risuonargli nell'orecchio. «L'avevano violentata, Sonny, tutti quanti. S'era fratturata una gamba quando l'aereo è precipitato, ma questo non li ha trattenuti. Si sono buttati su di lei come animali in calore, uno dopo l'altro.» Clay si sorprese a procedere svelto nel corridoio invisibile. Si limitava a contare i passi, non usava il metro metallico per misurare la lunghezza né la bussola per calcolare l'angolo della svolta. Alla fine si lasciò cadere bocconi e affondò freneticamente la sonda nel terreno. Ma la voce di Roland era lì, dietro di lui. «Quando hanno finito tutti quanti, hanno ricominciato» mormorò Roland. «Ma la seconda volta l'hanno girata e l'hanno sodomizzata, Sonny...» Clay udiva i singhiozzi che gli erompevano dalla gola a ogni affondo della sonda. Urtò l'involucro di una mina che si trovava appena sotto la superficie, e la forza del colpo gli intorpidì il braccio. Lasciò cadere la sonda e raschiò la terra con le dita, mettendo allo scoperto la sommità circolare della mina antiuomo. Aveva le dimensioni d'una delle vecchie lattine da cinquanta pacchetti di sigarette Players Navy Cut. Clay la estrasse dalla cavità, la depose da una parte e andò avanti, ma il bisbiglio di Roland lo seguiva implacabile. «L'hanno fatto tutti, Sonny, uno dopo l'altro, tranne l'ultimo. Non poteva farcela due volte, e allora ha preso la baionetta e le ha piantato dentro quella.» «Basta, Roly! Per amor di Dio, basta!» «Hai detto di amarla, Sonny... e allora sbrigati, sbrigati, fallo per lei!» Clay trovò la seconda mina antiuomo, la estrasse dalla terra e la scagliò lontano, attraverso il campo. La mina rimbalzò e rotolò come una palla di gomma prima di sparire in un folto ciuffo d'erba. Non esplose. Clay continuò ad avanzare, affondando ferocemente la sonda come se la piantasse nel cuore d'uno dei terroristi, e trovò la terza mina, l'ultima nell'angolo a novanta gradi del corridoio. Adesso la via era aperta fino al lato opposto del campo minato, dove avrebbe incontrato altre due Claymore. Clay balzò in piedi e si lanciò lungo il corridoio, sfiorando la morte violenta a ogni passo. Era quasi accecato dalle lacrime e singhiozzava al ritmo della corsa. Arrivò in fondo al corridoio e si fermò. Adesso c'erano soltanto i fili a scatto, i fili delle Claymore, e poi sarebbero arrivati dall'altra parte del cordon sanitaire. «Bravo, Sonny.» La voce di Roland era sempre vicina. «Bravo, ce l'hai fatta.» Clay si passò la tronchesina nella mano destra e avanzò di un altro passo. Sentì il terreno muoversi sotto la pianta del piede destro in un cedimento quasi infinitesimale, come se avesse calpestato una tana di talpa. «Non doveva esserci» pensò disperatamente, e il tempo parve fermarsi. Sentì lo scatto dell'attivatore. Sembrava quello dell'obiettivo d'una macchina fotografica, ma smorzato dal sottile strato di terra sabbiosa che lo copriva. «La mina piazzata fuori schema» pensò. Il tempo era ancora immobile. Ebbe un attimo per riflettere. «La mina piazzata fuori schema.» E non accadde nulla, oltre a quel «clic.» Provò un guizzo di speranza. «Non esploderà, farà cilecca.» Sì, se la sarebbe cavata.
Poi la mina gli esplose sotto la gamba destra. Ebbe la sensazione che qualcuno l'avesse colpito sotto la pianta del piede con una sbarra di ferro. Non sentì dolore, ma soltanto quell'urto violentissimo al piede che si propagava lungo la spina dorsale e gli faceva sbattere le mascelle. Sentì la lingua tranciarsi sotto i denti, recisa di netto. Non ci fu dolore, ma soltanto la ventata accecante di polvere e di fumo davanti alla faccia, e poi fu lanciato in aria come il giocattolo d'un gigante maligno, e ripiombò a terra bocconi. Era completamente sfiatato e cercava di respirare, con la bocca piena del sangue che sgorgava dalla lingua addentata. Il fumo e la polvere gli bruciavano gli occhi. Li asciugò. Davanti a lui c'era la faccia di Roland, che tremolava confusa e indistinta come un miraggio causato dal caldo. Le labbra si muovevano ma Clay non sentiva le parole. Aveva le orecchie intronate dall'esplosione. «Non è niente, Roly» riuscì a dire, e la sua voce quasi si smarrì nel ricordo vibrante dell'esplosione. «Non è niente», ripeté. Si sollevò, si girò e si mise a sedere. La gamba sinistra era protesa davanti a lui; l'interno del polpaccio era lacerato e nero-violaceo per lo scoppio, e il sangue colava dall'apertura dei calzoncini cachi. I frammenti dovevano essersi piantati nei glutei e nel basso ventre, ma lo stivaletto era ancora calzato sul piede sinistro. Provò a muovere il piede che reagì con prontezza rassicurante. Ma c'era qualcosa che non andava. Era intontito, aveva ancora le orecchie intronate, eppure capiva che qualcosa non andava, assolutamente. E poi, a poco a poco, comprese. Non aveva più la gamba destra: c'era soltanto il corto moncone che spuntava dai calzoncini. Il calore dell'esplosione aveva cauterizzato la ferita, l'aveva imbiancata, lo stesso bianco esangue del congelamento. Clay la fissò, ed ebbe la certezza che doveva trattarsi di un'illusione ottica, perché sentiva che la gamba c'era ancora. Tentò di muovere il piede che non vedeva, e lo sentì muoversi. Ma non c'era. «Roly.» Nonostante il frastuono negli orecchi percepiva l'acuto tono isterico della propria voce. «Roly, la mia gamba. Oh, Dio, la mia gamba. Non c'è più!» E infine venne il sangue. Eruttò in vividi fiotti rossi dalla carne bruciata. «Roly, aiutami!» Roland si avvicinò, si accostò con i piedi piantati ai lati del corpo di Clay, voltandogli le spalle e nascondendogli la vista della parte mutilata. Srotolò l'involto di tela che conteneva il kit del pronto soccorso, prese il laccio emostatico e lo strinse intorno al moncone. L'emorragia si ridusse quando legò la medicazione. Lavorava in fretta, con la destrezza dell'esperienza e della lunga pratica: e nell'istante in cui finì, si voltò a guardare la faccia di Clay pallida e impolverata e striata di sudore. «Sonny, le Claymore. Puoi rendere inoffensive le Claymore. Devi farlo per lei, Sonny. Tenta!» Clay lo fissò. «Sonny... per Janine» mormorò Roland, e lo sollevò a sedere. «Tenta! Tenta, per lei!» «La tronchesina» mormorò Clay, fissando con occhi Sgranati e sofferenti il turbante intriso di sangue che gli avvolgeva il moncone. «Trovami la tronchesina.» Roland gli mise l'utensile nella mano. «Girami sul ventre» disse Clay. Roland lo girò, delicatamente, e Clay cominciò a scivolare avanti; puntellò i gomiti nella terra sconvolta, trascinò l'unica gamba rimasta oltre il cratere poco profondo lasciato dall'esplosione della mina antiuomo, poi si fermò e protese le mani. Vi fu la vibrazione, come la corda d'una chitarra, e il primo dei fili metallici a scatto si spezzò sotto le ganasce della tronchesina. Poi, laboriosamente come un insetto schiacciato dal tacco d'un giardiniere, Clay strisciò fino al bordo del campo minato. Tese per l'ultima volta la mano: gli tremava convulsamente, e si strinse il polso con la sinistra per sostenerlo; singhiozzando per lo sforzo, guidò le ganasce della tronchesina sopra il filo d'acciaio sottile come un capello, e strinse. Il filo si tranciò con un ping, e Clay lasciò cadere l'attrezzo. «Bene, è aperto» singultò, e Roland sfilò il cordoncino dallo scollo della camicia e si portò il fischietto alle labbra. Soffiò un'unica volta, e agitò il braccio sopra la testa. «Andiamo!» Gli Scout attraversarono di corsa il campo minato, mantenendo rigorosamente i dieci passi di distanza tra l'uno e l'altro e seguendo gli zig-zag del nastro che Clay aveva posato per
guidarli. Quando uno di loro arrivava al punto dove Clay giaceva ancora bocconi, lo scavalcava agilmente e si dileguava nel la boscaglia aperta oltre il campo minato per disporsi nella formazione d'avanzata. Roland indugiò ancora un momento a fianco di Clay. «Non posso lasciare qualcuno con te, Sonny.» Gli posò accanto alla testa il kit del pronto soccorso. «C'è la morfina per quando diventerà troppo forte.» Poi depose un altro oggetto. Era una bomba a mano. «Può darsi che i terroristi ti raggiungano prima dei nostri. Non farti prendere.» Roland si sporse e gli baciò la fronte. «Dio ti benedica, Sonny» disse. Si rialzò e riprese a correre. Dopo qualche secondo, la fitta vegetazione rivierasca dello Zambesi lo inghiottì, e Clay abbassò lentamente la faccia nell'incavo del braccio. Alla fine, la sofferenza lo assalì come un leone famelico. *** Il commissario Tungata Zebiwe si acquattò sul fondo della trincea e ascoltò la voce gutturale che usciva dalla radio portatile. «Hanno attraversato il campo minato e stanno arrivando al fiume.» I suoi osservatori erano sulla riva settentrionale dello Zambesi, nelle postazioni prestabilite, dalle quali potevano scrutare la sponda opposta e le piccole isole boscose che dividevano i tratti poco profondi dall'ampio corso fluviale. «Quanti?» chiese Tungata nel microfono. «Al momento non sappiamo.» Naturalmente dovevano essere soltanto guizzi di movimento nell'oscurità, ed era impossibile contarli mentre avanzavano di corsa, coprendosi l'un l'altro. Tungata guardò il cielo: mancava meno di un'ora all'imbrunire, calcolò, e fu riassalito dai dubbi che l'avevano assediato da quando aveva portato i suoi compagni attraverso il guado, circa tre ore prima. Avrebbe potuto indurre gli inseguitori ad attraversare il fiume? Se non ci fosse riuscito, la distruzione del Viscount e tutti i trionfi ottenuti finora avrebbero perduto metà del valore propagandistico e psicologico nei confronti dei nemici. Doveva attirare gli Scout nel terreno predisposto meticolosamente per il massacro. Aveva portato con sé la sottana della donna e l'aveva lasciata al margine del cordon sanitaire per quello scopo preciso, per spronarli ad andare avanti. Eppure si rendeva conto che sarebbe stata un'azione irresponsabile per qualunque comandante condurre un piccolo contingente attraverso una barriera naturale come lo Zambesi alla conclusione della giornata, quando mancavano pochi minuti all'oscurità, in un territorio ostile e contro un nemico di entità sconosciuta che doveva aver previsto il suo arrivo e doveva essersi preparato con calma. Tungata non poteva aspettarsi che venissero... poteva soltanto sperarlo. Dipendeva soprattutto dal comandante degli inseguitori. L'esca che aveva gettato per attirarli sarebbe stata eflicace soltanto con un uomo: lo stupro e le mutilazioni inflitti alla donna, la sottana insanguinata avrebbero avuto pieno effetto soltanto sul colonnello Roland Ballantyne. Tungata cercò di valutare obiettivamente le probabilità che fosse Ballantyne in persona a comandare l'inseguimento. Ballantyne aveva alloggiato al Victoria Falls Hotel, gli agenti dello ZIPRA l'avevano identificato con certezza. La donna aveva detto di chiamarsi Ballantyne, gli Scout erano il contingente più vicino nella zona. Senza dubbio erano stati i primi ad arrivare sul posto dove si trovava il relitto, e senza dubbio Ballantyne sarebbe stato con loro. Tungata poteva ritenere che probabilmente l'operazione sarebbe andata secondo i suoi piani. La prima conferma che gli inseguitori erano vicini gli era arrivata un po' prima delle quattro del pomeriggio, quando c'era stato un breve crepitio di armi automatiche sulla riva meridionale. In quel momento, la squadra di Tungata aveva appena completato la traversata del guado. Erano ancora fradici e giacevano a terra ansanti come cani da caccia dopo una corsa troppo affannosa, e Tungata s'era sentito agghiacciare quando s'era reso conto che gli Scout erano ormai vicinissimi, dietro di loro, nonostante le molte ore di vantaggio con cui era partito e l'andatura che aveva imposto ai suoi. Ancora venti minuti e sarebbero stati sorpresi sulla riva sud, al cordon sanitaire; e Tungata non si
faceva illusioni... sapeva che cosa avrebbe significato. I suoi uomini erano l'élite delle forze dello ZIPRA, ma non erano degni avversari degli Scout di Ballantyne. Sulla riva meridionale sarebbero stati spacciati; ma adesso che avevano attraversato lo Zambesi la situazione era cambiata completamente. Tungata aveva lavorato per dieci giorni per prepararsi a ricevere gli inseguitori; e quei preparativi erano stati compiuti con la piena collaborazione dell'esercito e della polizia dello Zambia. La radio crepitò di nuovo. Tungata si portò il microfono alle labbra e diede laconicamente il «pronto all'ascolto.» La voce dell'osservatore era bassa, quasi avesse paura che giungesse fino ai temibili avversari, di là dal fiume. «Non hanno tentato la traversata. O stanno aspettando che si faccia buio o non hanno intenzione di venire.» «Devono venire» mormorò tra sé Tungata, e premette il tasto del microfono. «Lanciate il bengala» ordinò. «Subito!» rispose l'osservatore, e Tungata abbassò il microfono e guardò il porpora e il rosa del cielo serotino. Era un rischio... ma era stato tutto un rischio, dal momento in cui avevano attraversato lo Zambesi portando il SAM-7. Il bengala saettò nel tramonto e centocinquanta metri sopra il fiume esplose in una sfera di fuoco cremisi. Tungata lo guardò mentre cominciava a discendere verso terra. Si accorse di aver stretto il microfono così convulsamente che aveva affondato le unghie nel palmo delle mani. Il bengala lanciato così vicino alla riva del fiume, dietro il primo filare degli alberi sulla sponda settentrionale, poteva spaventare gli Scout e indurli a rinunciare all'inseguimento; oppure poteva avere l'effetto desiderato da Tungata. Poteva convincerli che ormai erano vicinissimi alla preda e scatenare in loro il riflesso felino che spinge a rincorrere tutto ciò che fugge. Tungata attese mentre i secondi passavano lentamente. Scosse la testa, affrontando infine la prospettiva del fallimento. Un senso di gelo incominciò a irradiarsi dalla bocca dello stomaco. Poi la radio crepitò. La voce dell'osservatore era tesa e rauca: «Arrivano!» Tungata si portò il microfono alle labbra. «A tutte le unità. Aspettate a sparare. Qui è il compagno Tungata. Aspettate a sparare.» Poi dovette interrompersi. Il sollievo era misto al timore che all'ultimo momento uno dei suoi guerriglieri innervositi facesse scattare la trappola prematuramente. Aveva piazzato seicento uomini: ma un reggimènto era il minimo indispensabile per affrontare un distaccamento di kanka. Tungata li aveva visti combattere, e non poteva accettare un rapporto di forze che fosse inferiore a venti contro uno. Aveva realizzato il vantaggio numerico che voleva: ma proprio nell'imponenza del numero stava un pericolo nascosto. Il controllo era indebolito; non tutti i suoi uomini erano guerrieri validi, e tra loro dovevano essercene molti innervositi, suscettibili alla suggestione, al timore quasi superstizioso che alonava di leggenda gli Scout di Ballantyne. «A tutti i comandanti» continuò a ripetere nel microfono, «aspettate a sparare. Qui è il compagno commissario Tungata. Aspettate a sparare.» Poi abbassò il microfono e per l'ultima volta studiò accuratamente il terreno davanti a sé. La sponda settentrionale del fiume era a circa un chilometro e mezzo dal punto in cui si trovava. Era contrassegnata da un filare di alberi più alti, dai tronchi contorti dei grandi fichi e dei mkusi, con i rami grondanti di liane; e ancora più svettanti c'erano le eleganti palme-bottiglia, con le fronde ispide profilate contro il rosseggiare del tramonto. La muraglia di vegetazione fitta non lasciava scorgere il fiume. All'improvviso la linea della foresta era interrotta da un'ampia apertura simile a un pascolo. Era una delle piane alluvionali dello Zambesi. Nella stagione delle piogge, quando il fiume straripava, quell'area veniva inondata e si trasformava in una laguna poco profonda, piena di ninfee e di canne; ma adesso s'era prosciugata e le canne erano avvizzite e cadute e non offrivano più riparo per un fuggiasco o per un inseguitore.
Una delle preoccupazioni principali di Tungata era stata mantenere la superficie soffice di quell'ampia distesa non contaminata da impronte umane. Ormai da quasi dieci giorni c'era un reggimento accampato lungo i margini, un reggimento che aveva scavato le trincee e le postazioni per i mortai. Sarebbe stato sufficiente che un uomo solo attraversasse il tratto pianeggiante per lasciare un avvertimento agli inseguitori; ma la piana era stata tenuta intatta. Le uniche tracce, là fuori, erano quelle delle mandrie di bufali selvatici, delle eleganti antilopi puku e dei nove uomini, le stesse tracce rinvenute nel luogo dov'era precipitato il Viscount e che Tungata e i suoi avevano lasciato appena tre ore prima. Le tracce emergevano dalla fascia della vegetazione rivierasca e correvano al centro della piana alluvionale in direzione del terreno più alto e coperto dalla foresta. La radio di Tungata ronzò. La voce sussurrante dell'osservatore avvertì: «Sono a metà del guado.» Tungata immaginò la fila delle teste scure sopra le acque tinte di rosa dal tramonto, come una fila di conterie su un corpetto di velluto. «Quanti?» chiese Tungata. «Dodici.» Tungata provò una fitta di delusione. Così pochi? Aveva sperato che fossero di più. Esitò per un istante, prima di domandare: «C'è un ufficiale bianco?» «C'è un solo uomo con la faccia mimetizzata, ed è in testa alla fila.» «E' Ballantyne» disse Tungata. «Il grande sciacallo in persona. Deve essere lui.» La voce uscì di nuovo dalla radio. «Hanno attraversato, sono in mezzo agli alberi. Li abbiamo persi di vista.» E adesso si sarebbero avventurati ad attraversare la piana alluvionale. Tungata puntò il binocolo a infrarossi sulla linea degli alberi. Le lenti captavano ogni raggio di luce... ma le sagome degli alberi e dei cespugli stavano diventando indistinte. Il sole era sparito, gli ultimi colori del tramonto sbiadivano, le prime stelle spuntavano nella volta scura del cielo notturno. «Sono ancora fra gli alberi.» La voce alla radio era diversa, più profonda e aspra. Era uno degli osservatori della seconda linea che sorvegliavano il margine meridionale della piana. Tungata impartì un altro ordine al microfono. «Scoprite il fuoco!» Dopo qualche secondo, nella linea degli alberi più lontana dal fiume apparve il minuscolo bagliore giallo del fuoco di bivacco. Tungata lo scrutò: una figura umana passò davanti alle fiamme basse. Dava l'illusione perfetta di un campo tranquillo fra gli alberi dove la preda, esausta per il lungo inseguimento ma convinta d'essere finalmente al sicuro, stava riposando e preparava il pasto della sera. Ma non era forse un'esca troppo ovvia, si chiese ansioso Tungata, non stava forse facendo troppo affidamento sull'indignazione che animava gli inseguitori? I suoi dubbi trovarono risposta quasi immediatamente. La voce aspra alla radio disse all'improvviso: «Hanno lasciato gli alberi, stanno traversando la piana.» Era troppo buio per distinguere qualcosa a quella distanza. Tungata doveva affidarsi agli avvistamenti delle postazioni avanzate. Girò il quadrante luminoso dell'orologio per vedere il movimento della lancetta dei secondi. La piana era ampia un chilometro e mezzo: e gli Scout, di corsa, avrebbero impiegato approssimativamente tre minuti per attraversarla. Senza staccare gli occhi dal quadrante, Tungata ordinò nel microfono: «Mortai, pronti con i razzi illuminanti.» «Mortai, pronti!» La lancetta dei secondi completò il giro del quadrante, ne incominciò un altro. «Mortai, fuoco!» ordinò Tungata. Dalla foresta dietro di lui vennero i tonfi sordi dei mortai da tre pollici, poi il sibilo flautato dei razzi che sfrecciavano verso l'alto. All'improvviso, allo zenit della traiettoria, i razi esplosero. Erano appesi a minuscoli paracadute, e irradiavano un crudo chiarore blu-elettrico. La piana alluvionale scoperta era illuminata come uno stadio gigantesco. Il piccolo gruppo di uomini che stavano correndo al centro rimase intrappolato in quel bagliore nudo; le loro ombre sul suolo sembravano nere e pesanti come pietra.
Si buttarono immediatamente a terra... ma non c'erano ripari. Sebbene fossero appiattiti al suolo, i loro corpi erano sagome definite nettamente. Ma furono cancellati quasi subito dai vortici di polvere e di zolle di terra che s'innalzavano intorno a loro come un banco di nebbia. Tungata aveva seicento uomini in agguato fra gli alberi che circondavano la piana. Tutti stavano sparando, e l'uragano del fuoco automatico saettava al di sopra delle figure acquattate al centro della piana. Dalle batterie dei mortai situati più all'interno nella foresta i razzi salivano altissimi sopra la testa di Tungata e cadevano sulla distesa piatta. Il fragore delle esplosioni aggiungeva un contrappunto secco al rombo delle altre armi, e gli scoppi delle bombe dei mortai sollevavano pallidi vortici di polvere nella luce dei razzi illuminanti. Niente poteva sopravvivere là fuori. Gli Scout dovevano essere stati fatti a pezzi dagli spari e dalle schegge: ma l'inferno continuò per minuti e minuti, mentre altri razzi illuminanti deflagravano in alto nella bruciante luce azzurra. Tungata girò lentamente il binocolo sullo schermo di polvere e di fumo. Non vide segno di vita... e finalmente spostò il microfono per ordinare il cessate il fuoco. Ma prima che avesse il tempo di parlare scorse un movimento direttamente di fronte alla sua posizione, a meno di duecento passi: e dalla cortina di polvere uscirono due figure spettrali. Avanzavano correndo a fianco a fianco, come se guadassero la densa palude di fumo e di polvere, e apparivano mostruose e disumane nella luce cruda dei razzi. Uno di loro era un colosso matabele. Aveva perso l'elmetto e aveva la testa rotonda e nera come una palla di cannone, la bocca aperta era una caverna rosea orlata di denti d'avorio e il suo muggito taurino era ancora più forte del fragore delle armi da fuoco. L'altro era un bianco, con la camicia strappata che lasciava scoperta la pelle chiara del petto e delle spalle; ma la faccia era chiazzata da strisce diaboliche di colore verdescuro e marrone. I due venivano avanti sparando e Tungata provò un fremito di quella paura superstiziosa che aveva tanto disprezzato nelle sue truppe, perché i due sembravano immuni alla tempesta di proiettili in cui si stavano avventando. «Uccideteli!» Tungata sentì la propria voce che urlava. Poi una raffica dell'FN impugnato da uno dei due strappò via il bordo di terra smossa davanti alla sua trincea. Tungata si rannicchiò e corse a raggiungere il mitragliere. «Prendi la mira attentamente» gridò, e il mitragliere sparò una lunga raffica micidiale, ma i due continuavano a correre indenni verso di loro. Tungata scostò l'uomo dalla mitragliatrice e prese il suo posto. Per lunghi secondi interminabili scrutò attraverso il mirino, regolò l'alzo dell'arma, poi sparò. Il matabele fu scagliato all'indietro come se fosse stato investito da un'automobile impazzita e parve disintegrarsi come un pupazzo di paglia nel vento, fatto a pezzi dai proiettili. Stramazzò sulla superficie della piana. L'altro continuò ad avanzare, correndo e sparando e gridando sfide incoerenti, e Tungata gli puntò contro la mitragliatrice. Indugiò per una frazione di secondo per essere certo della mira e vide nel mirino il lampo della pelle bianca, la faccia diabolicamente dipinta. Tungata sparò e l'arma pesante gli sobbalzò nella mano, poi s'inceppò e tacque. E Tungata si sentì raggelato, completamente preda di un terrore sovrannaturale, perché l'uomo continuava ad avanzare. Aveva lasciato cadere il fucile FN, e metà della spalla era dilaniata. Il braccio fratturato gli pendeva inservibile lungo il fianco, ma era ancora in piedi e veniva verso Tungata. Tungata balzò in piedi ed estrasse la pistola Tokarev dalla fondina. L'uomo era quasi arrivato alla trincea, era a meno di dieci passi, e Tungata gli spianò contro la pistola. Sparò e vide il proiettile colpire il centro del petto nudo e bianco. L'uomo cadde in ginocchio, incapace di continuare a muoversi; ma si sforzava ancora di farlo, e tendeva verso il suo nemico l'unico braccio rimastogli, e nessun suono usciva dalla bocca aperta e intasata di sangue.
A quella breve distanza. nonostante la maschera della mimetizzazione, Tungata lo riconobbe dalla notte indimenticata alla Missione di Khami. I due uomini si guardarono ancora per un secondo, poi Roland Ballantyne stramazzò bocconi. Lentamente, il grande uragano di fuoco che infuriava dal limitare della piana si smorzò e cessò. Tungata Zebiwe uscì faticosamente dalla trincea e si avvicinò a Roland Ballantyne. Con il piede lo spinse, facendolo rotolare sul dorso giù dall'argine di terra e, con una sensazione d'incredulità, vide le palpebre fremere e aprirsi lentamente. Nella luce dei razzi illuminanti gli occhi verdi che lo fissavano erano ancora colmi di furore e di odio. Tungata si accosciò accanto a lui e disse sottovoce in inglese: «Colonnello Ballantyne, sono molto felice di rivederti.» Poi si tese in avanti, gli accostò la canna della Tokarev alla tempia a pochi centimetri dall'orecchio e piantò una pallottola nel cervello di Roland Ballantyne. *** Il reparto paraplegici del Saint Giles' Hospital era un rifugio dove Clay Mellow s'era ritirato con spirito di riconoscenza. Era più fortunato di alcuni degli altri ricoverati. Aveva fatto due soli viaggi lungo il corridoio dipinto di verde, con le ruote della barella che cigolavano aritmicamente e le facce mascherate e impersonali delle infermiere di sala operatoria curve su di lui, oltre la porta a due battenti in fondo, nell'odore insopportabile degli antisettici e degli anestetici. La prima volta gli avevano costruito un solido moncherino, con uno spesso cuscino di carne e di pelle intorno, per adattarsi alla gamba artificiale. La seconda volta gli avevano asportato quasi tutte le schegge che, al momento dell'esplosione della mina, gli avevano crivellato l'inguine, i glutei e la parte bassa della schiena. E avevano cercato, senza trovarla, una causa meccanica della paralisi completa che attanagliava il suo corpo al di sotto della cintura. Il corpo mutilato s'era ripreso dagli interventi chirurgici con la rapidità di un animale giovane e sano; ma la gamba di plastica e acciaio inossidabile stava inutilizzata accanto all'armadietto, e le braccia s'erano gonfiate di muscoli per la fatica di sollevarsi aggrappandosi alle maniglie e di manovrare la sedia a rotelle. Clay aveva trovato in fretta le sue nicchie speciali nel vecchio, grande ospedale e nei giardini. Trascorreva buona parte della giornata nell'officina terapeutica, a lavorare sulla sedia a rotelle. Aveva smontato completamente la Land Rover e aveva rifatto il motore, modificando l'albero e il blocco. Poi l'aveva convertita ai comandi a mano, aveva montato varie maniglie e aveva adattato il sedile di guida perché gli fosse più facile issare dentro e fuori il suo corpo paralizzato. Aveva costruito un supporto per sistemare la sedia a rotelle pieghevole, dove un tempo stavano le rastrelliere per le armi, dietro il sedile anteriore, e aveva riverniciato la carrozzeria di un marrone lucente. Quando aveva finito di lavorare alla Land Rover, aveva cominciato a progettare e a realizzare infissi di acciaio e di bronzo per lo yacht, sgobbando per ore ai torni e ai trapani. Finché le sue mani erano occupate, riusciva a tenere lontani i ricordi ossessivi; e perciò si dedicava al suo compito con una concentrazione totale, producendo piccoli capolavori di legno e di metallo. La sera leggeva e scriveva, anche se non sfogliava mai i giornali e non guardava la TV nella sala di ricreazione dell'ospedale. Non partecipava mai con gli altri pazienti alle discussioni sui combattimenti e sulle complicate trattative di pace che erano incominciate con grandi speranze e che s'interrompevano regolarmente. In quel modo, Clay poteva illudersi che i lupi della guerra non fossero più scatenati. Soltanto la notte non riusciva a dominare gli scherzi della memoria; e allora sudava di terrore in un interminabile campo minato, mentre la voce di Roly gli mormorava oscenità all'orecchio, o vedeva il bagliore dei razzi illuminanti nel cielo notturno sopra il fiume e udiva la tempesta degli spari. Allora si svegliava urlando, e trovava accanto a sé l'infermiera preoccupata. «Non è niente, Clay, è stato soltanto un brutto sogno. Va tutto bene.» Ma non andava bene affatto, e Clay sapeva che non sarebbe mai andata bene, mai.
La zia Valerie gli scriveva. L'unica cosa che torturava lei e lo zio Douglas era il fatto che il corpo di Roland non fosse mai stato recuperato. Avevano sentito una storia orribile, attraverso il servizio segreto delle forze di sicurezza: il cadavere di Roland, dilaniato dai proiettili, era stato esposto al pubblico nello Zambia, e nei campi d'addestramento erano stati tutti invitati a urinarvi e sputarvi sopra per convincersi che fosse veramente morto. Poi la salma era stata gettata in una latrina del campo d'addestramento dei terroristi. La zia Valerie si augurava che Clay capisse: lei e lo zio Douglas non se la sentivano di venirlo a trovare per il momento. Ma se aveva bisogno di qualcosa, qualunque cosa, non doveva far altro che scrivere. Jonathan Ballantyne, invece, veniva a far visita a Clay ogni venerdì. Arrivava al volante della vecchia Bentley argentea e portava un cesto da picnic che conteneva invariabilmente una bottiglia di gin e mezza dozzina di bottigliette d'acqua tonica. Jonathan e Clay bevevano insieme in un angoletto tranquillo, in fondo al giardino dell'ospedale. Come Clay, il vecchio voleva evitare il presente doloroso; e insieme trovavano rifugio nel passato. Ogni settimana Bawu portava uno dei vecchi diari di famiglia e ne discutevano appassionatamente. Clay cercava di farsi raccontare tutti i ricordi che il vecchio aveva conservato di quei giorni lontani. Soltanto due volte vennero meno al tacito patto d'oblio e di silenzio. Una volta fu quando Clay chiese: «Bawu, che è stato di Janine?» «Valerie e Douglas volevano che andasse a vivere a Queen's Linn, quando è stata dimessa dall'ospedale, ma non ha accettato. Per quanto ne so, lavora ancora al museo.» La settimana dopo fu Bawu a fermarsi mentre stava per risalire a bordo della Bentley e disse: «Quando hanno ucciso Roly, per la prima volta mi sono reso conto che avremmo perso la guerra.» «La perderemo, Bawu?» «Sì» disse il vecchio, e se ne andò lasciando Clay che lo seguiva con lo sguardo dalla sedia a rotelle. Dopo dieci mesi al Saint Giles', Clay fu mandato a sottoporsi a una serie di analisi e di test che durarono quattro giorni. Gli fecero le radiografie e gli fissarono addosso degli elettrodi, gli controllarono la vista e i tempi di reazione ai vari stimoli, gli esaminarono la superficie dell'epidermide per scoprire le variazioni termiche che potevano denotare una disfunzione nervosa, gli praticarono la puntura lombare e prelevarono un po' di liquido spinale. Alla fine, Clay era innervosito ed esausto. Quella notte ebbe un altro incubo. Era di nuovo a terra nel campo minatO e sentiva Janine. Janine era nell'oscurità, più avanti. Le stavano facendo quello che aveva riferito Roland, e gridava per chiedergli aiuto. E lui non poteva muoversi. Quando alla fine si svegliò, il sudore aveva formato una pozza tiepida sul sottolenzuolo di gomma rossa. L'indomani il dottore che si occupava del suo caso gli disse: «Gli esami hanno dato risultati magnifici, Clay, siamo davvero fieri di lei. Ora incominceremo un nuovo trattamento. La manderò dal dottor Davis.» Il dottor Davis era un giovane deciso, con uno sguardo dalla franchezza sconcertante. Clay lo prese immediatamente in antipatia: intuiva che avrebbe cercato di distruggere il bozzolo di pace che era quasi riuscito a intessere intorno a sé. Si rese conto che Davis era uno psichiatra soltanto dieci minuti dopo essere entrato nel suo ufficio. «Stia a sentire, dottore, non sono matto.» «No, non lo è. Ma noi pensiamo che potrebbe avere bisogno di un po' d'aiuto, Clay.» «Sto benone. Non ho bisogno d'aiuto, io.» «Il suo organismo e il suo sistema nervoso non hanno niente che non vada. Vogliamo scoprire perché non ha la funzionalità nella metà inferiore del corpo.» «Senta, dottore, posso risparmiarle la fatica. Non posso muovere il moncone e la gamba sana perché sono finito su una mina antiuomo e quella mi ha fatto a pezzettini.» «Clay, esiste un tipo di condizione che una volta veniva chiamata shock da esplosione...» «Dottore» l'interruppe Clay, «ha detto che non ho niente che non va?» «Il suo organismo è guarito perfettamente.» «Benissimo. Perché nessuno me l'aveva detto?» Clay spinse la sedia a rotelle lungo il corridoio e tornò nella sua camera. Impiegò cinque minuti per impacchettare libri e carte; poi uscì, raggiunse la lucida Land Rover marrone, caricò la valigia, si issò sul sedile di guida, sistemò la sedia a rotelle sul supporto e se ne andò per raggiungere il suo yacht.
Nel laboratorio del Saint Giles' aveva progettato e realizzato un sistema di pulegge e di argani a mano per issarsi a bordo senza fatica. Adesso le altre modifiche incominciarono ad assorbire tutta la sua energia e la sua ingegnosità. Per prima cosa dovette installare le maniglie per spostarsi sul ponte, nel pozzetto e sottocoperta. Cucì toppe di cuoio sul fondo dei calzoni e si spostò qua e là scivolando sul sedere per adattare la cambusa, abbassare la cuccetta e ricostruire il tavolo da carteggio secondo le sue nuove esigenze. Lavorava con la musica che usciva a tutto volume dagli altoparlanti e un bicchierone di gin a portata di mano... La musica e il liquore lo aiutavano a tenere lontano i ricordi indesiderati. Lo yacht era una fortezza. Lo lasciava una volta al mese, quando andava in città a ritirare l'assegno della pensione della polizia e a far provviste di viveri, bevande e carta per scrivere. Durante uno di quei viaggi trovò una macchina per scrivere di seconda mano e un volumetto tascabile che insegnava la dattilografia. Avvitò la macchina per scrivere a un angolo del tavolo da carteggio, dove sarebbe stata al sicuro anche in una bufera in alto mare, e cominciò a convertire i quaderni manoscritti in mucchi ordinati di cartelle dattiloscritte: e con la pratica divenne così veloce che riusciva a battere sui tasti al ritmo della musica. Alla fine il dottor Davis, lo psichiatra, lo rintracciò; e Clay gli gridò dall'alto dello yacht: «Stia a sentire, doc, mi rendo conto che aveva ragione lei. Sono uno psicopatico, un maniaco omicida. Se fossi al suo posto, non mi azzarderei a mettere piede su quella passerella.» Poi Clay realizzò un sistema a contrappeso per issare la passerella come se fosse un ponte levatoio. La calava soltanto per Bawu; e ogni venerdì bevevano il gin insieme e costruivano un piccolo mondo di fantasia dove potevano rifugiarsi. Poi Bawu venne un martedì. Clay era sul ponte e rinforzava la base dell'albero maestro. Il vecchio scese dalla Bentley, e l'allegra esclamazione di benvenuto si spense sulle labbra di Clay. Bawu sembrava incartapecorito, vecchissimo e fragile come una delle mummie del settore egizio del British Museum. Sul sedile posteriore della Bentley c'era il cuoco matabele di King's Linn che lavorava per il vecchio da quarant'anni. Seguendo le istruzioni di Bawu, il matabele scaricò dal portabagagli due casse e le mise nel montacarichi. Clay le issò a bordo e calò la passerella per far salire il nonno. Quando furono in saletta riempì i bicchieri di gin ed evitò di guardare il vecchio. Si sentiva imbarazzato per lui. Bawu era veramente vecchio, adesso. Gli occhi erano acquosi e sfuocati, la bocca flaccida, e borbottava e si succhiava rumorosamente le labbra. Non si accorgeva neppure quando un filo di gin gli colava sulla camicia. Rimasero a lungo in silenzio, mentre Bawu annuiva e borbottava sommessamente tra sé. Poi, all'improvviso, disse: «Ti ho portato la tua eredità.» Clay comprese che le casse dovevano contenere i diari, oggetto del loro lontano mercanteggiamento. «Tanto, Douglas non saprebbe cosa farsene. «Grazie, Bawu.» «Ti ho raccontato di quella volta che Rhodes mi prese sul le ginocchia?» chiese Bawu, cambiando argomento con una subitaneità sconcertante. Clay aveva ascoltato quell'episodio già una cinquantina di volte. «No, mai. Mi piacerebbe sentirlo, Bawu.» «Ecco, fu in occasione di un matrimonio alla Missione di Khami... doveva essere il '95 o il '96.» Il vecchio continuò a parlare per una decina di minuti, divagando, fino a che perse completamente il filo del racconto e ammutolì di nuovo. Clay riempì i bicchieri, e Bawu continuò a fissare la paratia di fronte; e all'improvviso Clay si accorse delle lacrime che scorrevano sulle guance grinzose. «Che cosa c'è, Bawu?» chiese, allarmato. Quelle lacrime lente erano uno spettacolo terribile. «Non hai sentito il giornale radio?» chiese il vecchio. «Lo sai che non l'ascolto.» «E' finita, ragazzo mio, è finita. Abbiamo perduto. Roly, tu, tutti quei giovani, è stato tutto inutile... abbiamo perduto la guerra. Tutto ciò per cui ci siamo battuti noi e i nostri padri, tutto ciò che avevamo conquistato e costruito, è tutto perduto. L'abbiamo perduto
intorno a un tavolo, in un posto che si chiama Lancaster House.» Le spalle di Bawu tremavano, le lacrime gli scorrevano ancora sulle guance. Clay si trascinò attraverso la saletta e si issò sul divanetto accanto a lui. Prese la mano di Bawu e la strinse. Era fragile, leggera e asciutta, come le ossa disseccate di un uccello marino morto. Il vecchio e il giovane rimasero così, tenendosi per mano come due bambini spaventati in una casa deserta. *** Il venerdì seguente, Clay si svegliò presto e mise tutto in ordine in attesa della solita visita di Bawu. Il giorno prima aveva portato mezza dozzina di bottiglie di gin per non restare a secco; ne aprì una e la mise accanto a due bicchieri ben lustrati. Poi mise le prime trecento pagine del dattiloscritto vicino alla bottiglia. «Servirà a tirar su di morale il vecchio.» Aveva impiegato mesi per trovare il coraggio di dire a Bawu cosa stava tentando di fare. Adesso che stava per permettere a un'altra persona di leggere il suo dattiloscritto, era preso da emozioni contrastanti: c'era la paura che la sua opera venisse giudicata del tutto priva di valore e che avesse sprecato tempo e speranze per qualcosa che non contava nulla; e un acuto risentimento al pensiero che il mondo personale, creato su quei fogli bianchi, stesse per essere invaso da un intruso, anche se era un intruso caro come Bawu. «Comunque, qualcuno dovrà pur leggerlo prima o poi» si consolò Clay, e si trascinò verso la toilette. Mentre stava seduto sulla toilette chimica, poteva vedere la propria faccia nello specchio sopra il lavabo. Si guardò veramente, per la prima volta dopo molti mesi. Non si radeva da una settimana e il gin gli aveva lasciato sotto gli occhi molli borse color stucco. Gli occhi erano sofferenti, ossessionati da ricordi terribili, e la bocca era contratta come quella di un bambino che sta per scoppiare in lacrime. Si fece la barba e poi mise in funzione la doccia e sedette sotto il getto, crogiolandosi nella sensazione quasi dimenticata dell'acqua calda. Poi si pettinò i capelli bagnati tirandoli sulla faccia, li tagliò COn le forbici all'altezza delle sopracciglia e si spazzolò i denti fino a far sanguinare le gengive. Trovò una camicia azzurra pulita e scivolò lungo il corridoio, si issò sul ponte, calò la passerella e poi si mise al sole, con la schiena appoggiata all'esterno della cabina, per aspettare Bawu. Doveva essersi assopito perché il suono del motore di un'automobile lo svegliò di colpo: ma non era il sussurro della Bentley del vecchio, era il rombo caratteristico d'un maggiolino Volkswaven. Clay non riconobbe il veicolo verde-scuro e neppure il guidatore che lo parcheggiò sotto i manghi e si avviò a passo esitante verso lo yacht. Era una figura informe, di quell'età indeterminata che le donne bruttine assumono verso la trentina e continuano a dimostrare fino alla vecchiaia. Camminava senza orgoglio e stava curva come per nascondere il seno e il fatto che era una donna. La sottana era voluminosa, e le scarpe robuste a tacco basso sembravano fatte apposta per distogliere l'attenzione dalle linee bellissime dei polpacci e delle caviglie. Camminava con le braccia conserte sul petto come se avesse freddo, nonostante il sole caldo del mattino. Scrutava il sentiero attraverso gli occhiali da miope, e i capelli erano lunghi, lisci e opachi e le nascondevano il viso. Arrivò sotto la fiancata dello yacht e guardò Clay. La carnagione era brutta come quella di un'adolescente che segue una pessima dieta, e la faccia era paffuta, ma molle e d'un pallore malsano. Poi sollevò gli occhiali cerchiati d'osso. La montatura aveva lasciato minuscole depressioni rosse ai lati del naso: ma gli occhi, gli immensi occhi obliqui e felini dal taglio un po' strano, gli occhi d'un blu indaco così scuro da sembrare quasi neri... gli occhi erano inconfondibili. «Jan» mormorò Clay. «Oh, Dio, Jan, sei tu?» Lei fece un commovente gesto di vanità femminile... si scostò dal viso i capelli lisci e opachi, e abbassò gli occhi, ritta goffamente in punta di piedi.
La voce arrivò appena fino a lui. «Scusa se ti disturbo. So cosa devi pensare di me. Ma posso salire, per favore?» «Certo, Jan, certo.» Clay si trascinò al parapetto e tenne ferma la passerella. «Ciao.» Le sorrise timidamente quando Janine arrivò in coperta. «Ciao, Clay.» «Scusami. Vorrei alzarmi in piedi, ma dovrai abituarti a parlarmi dall'alto.» «Sì» disse Janine. «L'ho saputo.» «Scendiamo in saletta. Sto aspettando Bawu. Sarà come ai vecchi tempi.» Lei distolse gli occhi. «Hai fatto parecchio lavoro, Clay.» «E' quasi finito» disse lui, orgogliosamente. «E' bellissimo.» Janine scese sottocoperta, e Clay si calò dietro di lei. «Potremmo aspettare Bawu» disse Clay, e mise un nastro nel registratore. Evitò istintivamente Beethoven e scelse De bussy, più leggero e sereno. «Oppure potremmo bere qualcosa subito.» Sorrise per nascondere il disagio e l'inquietudine. «Francamente, io ne sento il bisogno.» Janine non toccò il bicchiere. Restò seduta a fissarlo. «Bawu mi ha detto che lavori ancora al museo.» Lei annuì, e Clay si sentì soffocare da un senso di pietà impotente. «Bawu verrà qui...» Clay stava cercando disperatamente qualcosa da dire. «Clay, sono venuta per dirtelo. Me l'hanno chiesto i tuoi parenti: volevano che fosse qualcuno che conosci a darti la notizia.» Janine alzò lo sguardo dal bicchiere. «Oggi Bawu non verrà. Non verrà mai più.» Dopo un lungo silenzio Clay chiese sottovoce: «Quando è successo?» «Stanotte, nel sonno. Il cuore.» «Sì» mormorò Clay. «Il suo cuore. Era spezzato... Io sapevo.» «Il funerale sarà domani a King's Linn, nel pomeriggio. Vogliono che venga anche tu. Potremmo andare insieme, se non ti dispiace.» *** Durante la notte il tempo cambiò, e il vento arrivò da sud-est portando una pioggerella fredda. Seppellirono il vecchio tra le mogli e i figli e i nipoti nel piccolo cimitero dietro le colline. La pioggia cadeva sulla terra rossastra ammucchiata accanto alla fossa e dava l'impressione che sanguinasse per una ferita mortale. Più tardi, Clay e Janine tornarono a Bulawayo con la Land Rover. «Abito nello stesso appartamento» disse Janine mentre attraversavano il parco. «Vuoi lasciarmi là, per favore?» «Se restassi solo adesso, prenderei una sbornia triste» disse Clay. «Non vuoi venire con me allo yacht, almeno un po'?» La sua voce, se ne rendeva conto, aveva un tono implorante. «Non sono più una gran compagnia, per la gente» disse lei. «Anch'io» disse Clay. «Ma noi non siamo la gente, vero?» Clay preparò il caffè e lo portò dal cucinino. Sedettero uno di fronte all'altra. Gli era molto difficile non fissarla. «Devo essere un orrore» disse all'improvviso Janine, e Clay non seppe cosa rispondere. «Sarai sempre la donna più bella che abbia conosciuto. «Clay, ti hanno detto che cosa mi è successo?» «sì, lo SO.» «Allora devi sapere che non sono più una donna. Non potrò mai più lasciare che un uomo mi tocchi.» «Posso capirlo.» «E' una delle ragioni per cui non ho cercato di rivederti.» «Quali sono le altre ragioni?» chiese Clay. «Immaginavo che non avresti voluto vedermi, né avere più a che fare con me.» «Questo non lo capisco.» Janine tacque di nuovo. Era rincantucciata sul divanetto e teneva le braccia conserte in quel suo gesto difensivo. «Roly la pensava così» disse. «Dopo che era successa quella cosa. Quando mi ha trovata, vicino al relitto, quando ha capito cosa mi avevano fatto, non è stato capace di toccarmi, neppure di parlarmi.» «Jan...» disse Clay, ma lei lo interruppe. «Non importa, Clay. Non l'ho detto perché tu lo smentissi. Te l'ho detto perché lo sapessi. Perché capissi che non mi resta più nulla da offrire a un uomo... in quel senso.» «Allora posso dirti che, come te, in quel senso non ho niente da offrire a una donna.» Un lampo di dolore le passò negli occhi.
«Oh, Clay, mio povero Clay... non immaginavo... pensavo che fosse soltanto la gamba...» «D'altra parte, posso offrire amicizia e premure, e quasi tutto il resto.» Clay sorrise. «Posso offrire anche un bicchierino di gin.» «Credevo,che non volessi ubriacarti.» Janine ricambiò il sorriso, con gentilezza. «Ho detto che non volevo prendere una sbornia triste, ma dovremmo onorare Bawu con una piccola veglia funebre. Lui l'avrebbe apprezzato.» Restarono seduti uno di fronte all'altra, a parlare: entrambi incominciavano a rilassarsi, riscaldati dal gin, e a poco a poco ritrovarono la familiarità perduta da tanto tempo. Janine spiegò perché non aveva accettato di andare a vivere a Queen's Linn con Douglas e Valerie. «Mi guardano con tanta pietà, e io comincio a rivivere tutto. Sarebbe come restare in lutto perpetuo.» Clay le parlò del Saint Giles' e delle ragioni che l'avevano spinto a nascondersi. «Dicono che non sono le mie gambe ma la mia mente, a impedirmi di camminare. O sono pazzi loro o sono pazzo io... preferisco pensare che siano loro.» C'erano due bistecche nel frigorifero. Clay le cucinò alla griglia sul gas e Janine condì l'insalata, e mentre lavoravano le spiegò tutte le modifiche che aveva apportato allo yacht. «Con il roller boom, potrei alzare o ammainare le vele senza lasciare il pozzetto» disse. «Scommetto che ce la farei a governarlo da solo. Peccato che non potrò mai averne la possibilità.» «Cosa vorresti dire?» Janine si fermò con una cipolla in una mano e un coltello nell'altra. «Il mio tesoro non sentirà mai il bacio dell'acqua salata», spiegò Clay. «L'hanno bloccato.» «Clay, non capisco.» «Ho presentato'domanda alle autorità per avere il permesso di spedirlo sulla costa. Sai come sono, no?» «Ho sentito dire che sono carogne» rispose lei. «Carogne? E' come dire che Attila era scortese. Se cerchi di lasciare il paese, anche come emigrante con tutti i crismi della legalità, ti permettono di portar via soltanto un valore di mille dollari, in merci o in contanti. Hanno mandato un ispettore, e ha valutato lo yacht duecentocinquantamila dollari. Se voglio portarlo all'estero, devo fare un deposito in contanti d'un quarto di milione di dollari, un quarto di milione! Io possiedo poco più di diecimila dollari, e quindi non potrò muovermi fino a che non avrò trovato gli altri duecentoquarantamila.» «Clay, è una mascalzonata. Non puoi fare ricorso? Voglio dire, data la tua particolare situazione?» Janine s'interruppe quando lo vide corrugare la fronte. Clay accantonò l'allusione alla sua invalidità. «Immagino che potrai intuire il loro punto di vista. Tutti i bianchi del paese vogliono andarsene prima che quei mascalzoni di negri prendano il potere. Se quelli non ci mettessero un freno, lasceremmo il paese completamente spogliato.» «Ma, Clay che cosa farai?» «Resterò qui, immagino. Non ho alternativa. Starò qui seduto a leggere La navigazione a vela di Hiscock e Il manuale della navigazione di Mellor.» «Vorrei poter fare qualcosa per aiutarti.» «C'è una cosa che puoi fare. Puoi apparecchiare la tavola e tirar fuori una bottiglia di vino.» Janine lasciò sul piatto più di metà della bistecca e bevve poco vino, poi si aggirò per la saletta per esaminare la collezione di nastri. «I Capricci di Paganini» mormorò. «Ora sono sicura che sei masochista.» Poi la sua attenzione fu attratta dal mucchio ordinato del dattiloscritto sullo scaffale accanto ai nastri. «Questo cos'è?» Girò i primi fogli, e li guardò. I bellissimi occhi blu nel viso un tempo meraviglioso, ora gonfio e deformato dal grasso e macchiato dai foruncoli rossi sul mento, diedero una stretta al cuore di Clay. «Che cos'è?» E poi, nel vedere la sua espressione, Janine disse: «Oh, scusa. Non mi riguarda.» «No!» esclamò Clay, prontamente. «No, non si tratta di questo. E' che non so esattamente che cosa sia...» Non poteva dire che era un libro, e sarebbe stato presuntuoso dire che era un romanzo. «E' solo qualcosa che ho pasticciato.» Janine fece scorrere gli orli dei fogli. Era un mucchio alto una trentina di centimetri. «Non sembra pasticciato» disse tidendo. Era la prima volta che Clay la sentiva ridere da quando s'erano rivisti. «A me sembra una cosa fatta molto sul serio» aggiunse subito dopo la donna.
«E' una storia che ho cercato di scrivere.» «Posso leggerla?» chiese Janine, e Clay si sentì assalire dal panico. «Oh, non ti interesserebbe.» «Come fai a saperlo?» Janine portò sul tavolo il voluminoso manoscritto. «Posso leggerlo?» Lui alzò le spalle, rassegnato. «Non credo che andrai avanti per molto, ma se vuoi tentare...» Janine sedette e lesse la prima pagina. «E' ancora molto grezzo, devi tenerne conto» disse lui. «Clay, non hai ancora imparato a stare zitto quando devi, vero?» disse Janine senza sollevare la testa. Girò il foglio. Clay portò i piatti e i bicchieri nel cucinino e li lavò, poi preparò il caffè e lo portò in saletta. Janine non alzò gli occhi. Le versò una tazza, e lei non staccò gli occhi dal foglio. Dopo un po' Clay la lasciò e raggiunse la sua cabina. Si stese sulla cuccetta e prese dal comodino il libro che stava leggendo. Era La navigazione astronomica di Crawford. Cominciò a lottare distrattamente con le distanze zenitali e gli azimut. Si svegliò nel sentire la mano di Janine sulla guancia. Lei ritirò le dita di scatto quando Clay si sollevò a sedere. «Che ora è?» le chiese, intontito. «E' mattina. Devo andare. Non ho dormito tutta la notte. Non so come farò a lavorare oggi.» «Tornerai?» chiese Clay svegliandosi completamente. «Devo tornare. Devo finire di leggere. Mi porterei via il manoscritto; ma avrei bisogno di un cammello, è troppo voluminoso.» Janine rimase accanto alla cuccetta a guardarlo con una strana espressione interrogativa negli occhi blu. «E' difficile credere che sia stato scritto da qualcuno che pensavo di conoscere» mormorò. «Mi rendo conto che in realtà sapevo ben poco di te.» Diede un'occhiata all'orologio. «Oh, mio Dio, devo scappare!» *** Janine parcheggiò la Volkswagen sotto i manghi accanto allo yacht poco dopo le cinque di quella sera. «Ho portato le bistecche» gridò. «E il vino.» Salì sulla passerella ed entrò nella saletta. «Ma dovrai cuocerle tu. Non ne ho il tempo.» Quando Clay scese dal pozzetto, la trovò già seduta, assorta nella lettura del voluminoso dattiloscritto. Era ormai mezzanotte passata quando Janine girò l'ultima pagina. Poi rimase in silenzio con le mani intrecciate sulle ginocchia, a fissare la pila dei fogli. E quando finalmente lo guardò, aveva gli occhi lucidi di lacrime. «E' magnifico» disse a voce bassa. «Mi ci vorrà un po' prima che riesca a parlarne in modo razionale, e allora vorrò rileggerlo.» La sera dopo Janine portò un pollo enorme. «E' ruspante» disse. «Se continuassi a mangiare bistecche ti spunterebbero le corna.» Janine preparò il coq au vin. Mentre mangiavano, chiese spiegaZiOni SUi personaggi del manoscritto. «Rhodes era davvero un omosessuale?» «Sembra che non ci siano altre spiegazioni» rispose Clay in tono difensivo. «Molti grandi uomini sono spinti alla grandezza dalle loro imperfezioni.» «E Lobengula? E' vero che il suo primo amore fu una prigioniera bianca? Si suicidò davvero? E Robyn Ballantyne... parlami di lei... è vero che si spacciò per un uomo, per iscriversi alla facoltà di medicina? Quanto c'è di vero in quello che hai raccontato?» «Che importanza ha?» Clay rise. «E' soltanto una storia. Un modo in cui potevano essere andate le cose. Stavo solo cercando di dare un quadro di un'epoca e del suo clima.» «Oh, ha importanza» disse Janine, seria. «Per me ne ha molta. Tu hai fatto in modo che ne avesse. E' come se ne facessi parte... Hai fatto in modo che io fossi parte di tutto questo.» Quella notte, quando si fece tardi, Clay disse semplicemente: «Ho preparato la cuccetta nella cabina
di prua. Mi sembra assurdo che tu debba andare fino a casa.» Janine rimase e la sera dopo portò una valigia, e sistemò la sua roba nella cabina di prua, e a poco a poco stabilirono una routine. Janine usava per prima la doccia e il bagno al mattino, mentre Clay preparava la colazione. Lui faceva le pulizie e rassettava le cuccette mentre Janine provvedeva alla spesa e gli sbrigava le altre commissioni durante l'intervallo del pranzo. La sera, quando tornava allo yacht, indossava jeans e maglietta e lo aiutava a lavorare. Era abilissima a carteggiare e verniciare e aveva più pazienza e destrezza di Clay. Dopo la prima settimana Clay propose: «Risparmieresti parecchio se lasciassi il tuo appartamento.» «Ti pagherò l'afitto» disse lei, e quando Clay protestò, soggiunse: «Sta bene, allora provvederò ai viveri e ai liquori... d'accordo?» Quella notte, dopo che ebbe spento la lampada a gas nella sua cabina, Janine lo chiamò attraverso la saletta buia. «Clay, sai una cosa? E la prima volta che mi sento al sicuro dopo...» Non finì la frase. «So che cosa provi» le assicurò lui. «Buonanotte, skipper.» Ma dopo poche notti Clay fu svegliato dalle sue grida. Erano così angosciate e tormentate e strazianti che per qualche secondo non riuscì a muoversi. Poi si buttò dalla cuccetta e cadde, per la smania di raggiungerla. A tentoni trovò l'interruttore della lampada e si trascinò lungo il corridoio. Nella luce riflessa dalla saletta la vide rannicchiata in un angolo della cabina. Le lenzuola pendevano dalla cuccetta in festoni disordinati, la camicia da notte era sollevata intorno alle cosce nude, le dita formavano una gabbia davanti al viso stravolto e atterrito. Clay tese le braccia. «Jan, è tutto a posto, sono qui!» La strinse per cercare di placare le grida spaventose. Immediatamente, Janine si trasformò in un animale furioso e si avventò su di lui. Gli affondò le unghie nella fronte; e se Clay non si fosse affrettato a scostarsi, avrebbe perso l'occhio. Le sanguinanti ferite parallele finivano all'arcata sopracciliare, e il sangue denso gli colava nell'occhio, accecandolo. Janine aveva una forza incredibile: non riusciva a tenerla, e più si sforzava di farlo e più lei si scatenava. Gli affondò i denti nell'avambraccio, lasciando nella carne il segno profondo del morso. Clay rotolò via, e immediatamente Janine strisciò di nuovo nell'angolo e si accucciò, gemendo e farfugliando tra sé, e lo fissò con gli occhi lucidi e ciechi. Clay si sentì accapponare la pelle per la paura e l'orrore. Ancora una volta cercò di tendere la mano, ma Janine snudò i denti come un cane idrofobo e ringhiò. Clay si trascinò fuori della cabina, nel salone. Cercò freneticamente tra i nastri e trovò la Pastorale di Beethoven. L'inserì nel registratore, alzò al massimo il volume e la splendida musica inondò lo yacht. A poco a poco i suoni che provenivano dalla cabina si smorzarono. Poi Janine apparve, esitante, sulla soglia della saletta. Teneva le braccia incrociate sul petto ma la luce di follia era sparita dai suoi occhi. «Ho fatto un sogno» mormorò, sedendo al tavolo. «Preparo il caffè» disse Clay. Nel cucinino, si lavò i graffi e i morsi con l'acqua fredda, poi portò il caffè a Janine. «La musica...» cominciò a dire lei, e poi gli vide la faccia lacerata. «Sono stata io?» «Non importa» disse Clay. «Scusami» mormorò Janine. «Ma non devi cercare di toccarmi. Vedi, anch'io sono un po' pazza. Non devi cercare di toccarmi.» *** Il compagno Tungata Zebiwe, ministro del Commercio, del Turismo e delle Informazioni del nuovo governo dello Zimbabwe, si avviò a passo energico lungo uno dei vialetti di ghiaia che serpeggiavano nei giardini lussureggianti del Palazzo del Governo. Le quattro guardie del corpo lo
seguivano a rispettosa distanza. Tutti e quattro avevano fatto parte della sua vecchia unità dello ZIPRA, ed erano veterani di provata fedeltà. Ma adesso avevano abbandonato le tute mimetiche della guerriglia per gli abiti scuri e gli occhiali da sole, l'uniforme dei nuovi padroni. Il pellegrinaggio quotidiano che Tungata stava compiendo era diventato un rito per lui e il suo seguito. Nella sua qualità di ministro aveva diritto a un sontuoso alloggio in una delle dépendance del Palazzo. Era una piacevole passeggiata attraverso i giardini, davanti all'edificio, fino all'albero dell'indaba. Il Palazzo del Governo era un grande edificio dai muri bianchi e dai tetti a timpano, nella tradizione delle grandi case del Capo di Buona Speranza. Era stato costruito secondo le direttive dell'arcimperialista Cecil John Rhodes. Il suo gusto per la grandiosità barbara si rivelava nello stile, il suo senso della storia nella scelta dell'ubicazione. Il Palazzo sorgeva nel luogo dove un tempo stava il kraal di Lobengula, prima che venisse distrutto dai predoni di Rhodes, venuti a prendere possesso di quella terra. Al di là dell'enorme casa, a meno di duecento passi dalle verande c'era un albero, un vecchio nodoso susino selvatico, recintato da una palizzata di ferro. L'albero era la meta del pellegrinaggio di Tungata. Si fermò davanti al recinto e le guardie del corpo rimasero un po' indietro per non disturbare. Tungata si piazzò con i piedi larghi, le mani strette dietro la schiena. Indossava un abito blu gessato, uno dei dodici che Hawkes e Greves di Savile Row gli avevano confezionato su misura durante la sua ultima visita a Londra. Si attagliava alla perfezione alle spalle larghe e metteva in risalto la vita sottile e le gambe lunghe. La camicia era candida, la cravatta marrone con il minuscolo stemma di Gucci in azzurro. Le scarpe erano della stessa marca italiana, e Tungata portava quel lussuoso abbigliamento occidentale con la stessa baldanza con cui i suoi antenati avevano portato le penne dell'airone azzurro e le regali pelli di leopardo. Si tolse gli occhiali Polaroid dalla montatura d'oro e, ripetendo il rito personale, lesse l'iscrizione sulla targa FIssata al recinto. SOTTO QUESTO ALBERO LOBENGULA, ULTIMO RE DEI MATABELE, TENEVA CORTE E PRONUNCIAVA I GIUDIZI. Poi Tungata alzò gli occhi verso i rami come se cercasse lo spirito del suo antenato. L'albero stava morendo di vecchiaia; alcuni dei rami centrali erano anneriti e secchi, ma dalla ricca terra rossa alla sua base spuntavano nuovi germogli vibranti di vita. Tungata pensò di comprenderne il significato e mormorò tra sé: «Cresceranno forti com'era un tempo il grande albero... e anch'io sono un germoglio del vecchio ceppo reale.» Un passo leggero risuonò sulla ghiaia. Tungata aggrottò la fronte nel voltarsi, ma si rasserenò quando vide chi era. «Compagna Leila» disse alla donna bianca dalla faccia pallida e intensa. «E' un grande onore che tu mi chiami così, compagno ministro.» Leila gli andò incontro e gli tese la mano. «Tu e la tua famiglia siete sempre stati veri amici del mio popolo» disse lui prendendole la mano. «Sotto questo albero tua nonna, Robyn Ballantyne, s'incontrava spesso con Lobengula, il mio antenato. Veniva per suo invito a dargli consigli.» «Ora io sono venuta al tuo invito e, devi credermi, sarò sempre ai tuoi ordini.» Tungata le lasciò la mano e tornò a voltarsi verso l'albero. La sua voce aveva un tono pensieroso. «Tu eri con me quando l'Umlimo, la medium degli spiriti del nostro popolo, fece la sua ultima predizione. Penso sia giusto che tu sia presente quando la predizione si avvera.» «I falchi di pietra sono tornati» disse sottovoce Leila St John. «Ma la profezia dell'Umlimo non si esaurisce qui. Ha previsto che l'uomo che avesse riportato i falchi a Zimbabwe avrebbe regnato su questa terra come un tempo regnavano i mambo e i monomotapa, come regnavano i tuoi antenati, Lobengula e il grande Mzilikazi.» Tungata si voltò lentamente verso di lei. «Questo è un segreto che abbiamo in comune io e te, compagna Leila.» «Rimarrà il nostro segreto, compagno Tungata: ma sappiamo che durante gli anni difficili del futuro ci sarà bisogno di
un uomo forte quanto era forte Mzilikazi.» Tungata non rispose. Guardò tra i rami dell'antico albero e mosse le labbra in un'implorazione silenziosa. Poi rimise gli occhiali d'oro e si girò di nuovo verso Leila. «La macchina sta aspettando» disse. Era una Mercedes 500 nera e blindata. C'erano quattro staffette in motocicletta e una seconda Mercedes, un po' più piccola, per i suoi gorilla. Il piccolo corteo partì velocissimo, con le sirene spiegate e la bandierina ministeriale che sventolava sul cofano della Mercedes di Tungata. Percorsero il viale, lungo tre chilometri e fiancheggiato dalle jacaranda, che Cecil Rhodes aveva progettato come accesso al suo Palazzo del Governo, e attraversarono il quartiere commerciale di Bulawayo, sfrecciando oltre i semafori rossi agli incroci della griglia geometrica delle strade, oltre la piazza dove i carri avevano formato il laager durante la ribellione quando gli impi di Bazo avevano minacciato la città, lungo l'ampio viale che tagliava in due i prati curatissimi del giardino pubblico; e finalmente svoltò e si fermò davanti al moderno museo a tre piani. C'era una passatoia rossa sulla gradinata del museo. e una piccola folla di dignitari, capeggiata dal sindaco di Bulawayo, il primo matabele che avesse detenuto quella carica, e dal curatore del museo, lo attendeva. «Benvenuto, compagno ministro, in questa storica occasione.» Lo scortarono per il lungo corridoio fino alla sala pubblica. Tutti i posti erano già occupati; e quando Tungata entrò, tutti si alzarono per applaudirlo; e i bianchi presenti si affannarono per superare i matabele nella manifestazione di entusiasmo. Tungata fu presentato agli altri dignitari sul podio. «Questo è il dottor Van der Walt, curatore del Museo Sudafricano.» Era un uomo alto e quasi calvo dal forte accento sudafricano. Tungata gli strinse in fretta la mano senza sorridere. Quell'uomo rappresentava una nazione che s'era opposta attivamente alla gloriosa marcia dell'esercito della repubblica popolare. Tungata si girò verso la persona che gli stava accanto. Era una giovane donna bianca, e Tungata pensò che gli era familiare. La fissò con attenzione, senza riuscire a identificarla. Era diventata pallidissima, e i suoi occhi erano scuri e terrorizzati come quelli di un animale braccato. La mano era inerte e fredda e tremava... e Tungata non riusciva assolutamente a ricordare dove l'avesse già vista. «La dottoressa Carpenter è curatore della Sezione Entomologica.» Il nome non significava niente per Tungata. Le voltò le spalle, irritato di non riuscire a individuarla. Andò a sedersi al centro del podio, e il curatore del Museo Sudafricano si alzò per parlare ai presenti. «Tutto il merito del successo dei negoziati per lo scambio tra le nostre due istituzioni va al ministro che oggi ci onora con la sua presenza.» Stava leggendo un foglio dattiloscritto, anSlOSO di sbrigarsi in fretta e di tornare a sedersi. «E' stato per iniziativa del ministro Tungata Zebiwe che le discussioni sono iniziate; e le ha tenute vive durante il difficile periodo in cui sembrava che non si facessero progressi. Il nostro problema consisteva nell'assegnare un valore relativo ai due oggetti di scambio. Da una parte c'era una delle più complete collezioni d'insetti tropicali del mondo, che rappresenta molti decenni di raccolta e di classificazione, dall'altra queste opere uniche di una civiltà sconosciuta.» Van der Walt sembrò animarsi abbastanza per sollevare gli occhi dal testo del discorso. «Tuttavia alla fine ha vinto la decisione del ministro, che aspirava a riguadagnare per la nuova nazione una parte inestimabile del la sua eredità, ed è per merito suo se oggi siamo qui riuniti.» Quando Van der Walt tornò a sedere vi fu un applauso educato; poi venne un silenzio d'attesa mentre Tungata Zebiwe si alzava. Il ministro aveva una presenza carismatica. Prima ancora di pronunciare una parola, inchiodò tutti con lo sguardo deciso. «La mia gente ha un detto, tramandato dai saggi della tribù» esordì con voce tonante. «Eccolo: l'aquila bianca è calata sui falchi di pietra e li ha gettati a terra. Ora l'aquila tornerà a erigerli ed essi voleranno lontano.
Non ci sarà pace nel regno dei mambo e dei monomotapa finché essi non torneranno. Perché l'aquila bianca farà guerra al toro nero finché i falchi di pietra non torneranno a posarsi.» Tungata s'interruppe per un momento, lasciando che le sue parole aleggiassero, cariche di significato. Poi continuò: «Sono sicuro che tutti voi sapete che le statue dei falchi di Zimbabwe furono rubate dai saccheggiatori di Rhodes, e che nonostante gli sforzi compiuti dai miei antenati per impedirlo furono portate al sud, al di la del fiume Limpopo.» Tungata si avviò verso la tenda che chiudeva la parte posteriore del podi.» «Amici, compagni!» E si voltò di nuovo verso il pubblico. «I falchi di pietra sono tornati a posarsi!» disse, e aprì la tenda. Vi fu un lungo silenzio. I presenti guardavano avidamente la fila delle statue di steatite. Erano sei, le sei che Ralph Ballantyne aveva portato via dall'antico tempio di pietra. Quella che suo padre aveva preso durante la prima visita a Zimbabwe, trent'anni prima, era bruciata nel rogo di Groote Schuur. Le sei statue erano le sole rimaste. La steatite era verdastra e lucida come il raso. Ognuno dei falchi era posato su un plinto ornato da un fregio di triangoli interconnessi come i denti di uno squalo. Le sculture non erano identiche; alcune delle colonne sostenevano coccodrilli e lucertole che salivano verso l'immagine dei falchi. Alcune delle statue erano gravemente danneggiate, scalfite e corrose, ma quella al centro era quasi perfetta. Era un rapace stilizzato, con le lunghe ali falcate incrociate sul dorso. La testa era fiera ed eretta, il rostro adunco e crudele, gli occhi ciechi implacabili e altezzosi. Era una magnifica, suggestiva opera d'arte primitiva, e i presenti si alzarono all'unisono in un applauso spontaneo. Tungata Zebiwe tese la mano e toccò la testa del falco centrale. Voltava le spalle agli spettatori che non potevano vedere il movimento delle sue labbra, e l'applauso sommergeva il suo mormorio. «Bentornato» bisbigliava. «Bentornato a Zimbabwe, falco del mio destino.» *** «E adesso non vuoi andare!» Janine tremava d'indignazione. «Dopo che mi sono data tanto da fare per combinarti l'incontro, adesso non vuoi andare!» «Jan, è tempo perso.» «Tante grazie!» Janine si avvicinò, a faccia a faccia. «Tante grazie. Ti rendi conto di quello che mi costerebbe trovarmi ancora di fronte a quel mostro? Ma ero disposta a farlo per te, e adesso mi dici che è tempo perso.» «Jan, ti prego...» «Accidenti a te, Clay Mellow! Sei tu, il tempo perso, tu e la tua infinita vigliaccheria.» Clay soffocò un'esclamazione e si scostò. «Vigliaccheria» ripeté Janine, decisa. «Dico sul serio. Eri troppo depresso per mandare quel tuo maledetto libro a un editore. Ho dovuto strappartelo letteralmente dalle mani per spedirlo.» S'interruppe, ansimando di collera, e cercò parole abbastanza taglienti per esprimere la sua furia. «Tu hai paura di affrontare la vita, hai paura di lasciare questa grotta che ti sei costruito, hai paura di correre il rischio che qualcuno rifiuti il tuo libro, hai paura di fare uno sforzo per riuscire a far navigare ciò che hai costruito.» Janine indicò lo yacht con un ampio gesto. «Adesso capisco: non vuoi affatto arrivare all'oceano, preferisci nasconderti qui, rimpinzarti di gin e coprirti di sogni. Non vuoi camminare, preferisci trascinarti con il sedere a terra... è il tuo pretesto, il tuo grande pretesto per sfuggire alla vita.» Janine dovette interrompersi di nuovo per riprendere fiato, poi continuò. «Sicuro, assumi pure quell'aria da ragazzino, sgrana quegli occhioni tristi. Funziona sempre, vero? Ma questa volta no, amico, questa volta no! Mi hanno offerto il posto di curatore del Museo Sudafricano. Dovrò assicurarmi che la collezzione venga installata sana e salva nella nuova sede. E accetterò. Mi hai sentito, Clay Mellow? Ti lascerò a trascinarti sul pavimento perché hai troppa paura di alzarti!» Janine uscì precipitosamente dalla saletta ed entrò nella cabina di prua. Cominciò a togliere gli indumenti dall'armadietto e a buttarli sulla cuccetta. «Jan» disse Clay, dietro di lei. «Cosa c'è?» Janine non si voltò. «Se dobbiamo essere là per le tre, è meglio che andiamo subito» disse Clay. «Puoi guidare tu» disse Janine passandogli accanto e salì nel pozzetto, lasciando che Clay la seguisse come meglio poteva.
Rimasero in silenzio fino a quando arrivarono all'entrata del lungo viale di jacaranda. In fondo al viale c'era il cancello bianco del Palazzo del Governo, e Janine lo guardava fisso. «Scusami, Clay. Ho detto molte cose che è stato difficile dire; e ascoltarle deve essere stato ancora più difficile. La verità è che anch'io ho paura come te. Devo affrontare l'uomo che mi ha annientata. Se ci riuscirò, forse riuscirò a recuperare qualcosa di me stessa dalle macerie. Ho mentito, quando ho detto che lo facevo per te. Lo faccio per entrambi.» Il poliziotto si accostò alla Land Rover. Senza una parola, Clay gli porse il biglietto dell'appuntamento. L'agente andò a controllare sul registro, e poi disse a Clay di scrivere nome, indirizzo e motivo della visita. Clay scrisse: «Visita al compagno ministro Tungata Zebivve» e il poliziotto riprese il registro e salutò impeccabilmente. Il cancello di ferro battuto si spalancò e Clay passò oltre. Svoltarono a sinistra, verso la dépendance del ministro. I timpani bianchi e il tetto d'ardesia azzurra della residenza principale s'intravedevano appena fra gli alberi. Clay parcheggiò la Land Rover e si trasferì sulla sedia a rotelle. Janine gli camminò al fianco fino ai gradini che salivano alla veranda della dépendance; e vi fu un momento d'impaccio mentre Clay li superava con la sola forza delle braccia. Poi proseguirono lungo la veranda, sotto i glicini azzurri e le bougainvillee violacee, fino alla porta dell'anticamera. Uno dei gorilla del ministro frugò nella borsetta di Janine, perquisì rapidamente Clay, poi si scostò per lasciarli entrare nella stanza chiara e ariosa. Sulle pareti c'erano riquadri più chiari, dove erano stati rimossi i ritratti degli amministratori bianchi. L'unica decorazione era costituita da due bandiere drappeggiate ai lati della porta interna, la bandiera dello ZIPRA e quella dello Zimbabwe. Clay e Janine attesero per quasi un'ora. Poi la porta si aprì e comparve un altro gorilla in doppiopetto. «Il compagno ministro vi aspetta.» Clay si spinse con la sedia a rotelle nello studio. Sulla parete di fronte c'erano i ritratti dei nuovi padroni, Robert Mugabe e Josiah Inkunzi. Al centro della moquette c'era un'enorme scrivania stile Luigi Quattordicesimo. Tungata Zebiwe era seduto là dietro, e riusciva a dominarla con la sua mole. Involontariamente, Clay si fermò di colpo. «Sam?» mormorò. «Samson Kumalo? Non sapevo... mi dispiace...» Il ministro si alzò bruscamente. La sua faccia rispecchiava il turbamento di Clay. «Clay» mormorò. «Che cosa ti è successo?» «La guerra» rispose Clay. «Ero dall'altra parte, Sam.» Tungata si riprese immediatamente e tornò a sedere. «lE' meglio dimenticare quel nome» disse a voce bassa. «Com'è meglio dimenticare quelli che erano i nostri rapporti. Hai preso un appuntamento per il tramite della dottoressa Carpenter per vedermi. Di cosa volevi parlare?» Tungata ascoltò attentamente mentre Clay parlava, poi si appoggiò alla spalliera della poltrona. «A quanto mi hai detto, hai già presentato domanda alle autorità competenti per il permesso di esportare la tua imbarcazione. Il permesso è stato rifiutato?» «Appunto, compagno ministro.» Clay annuì. «Cosa ti ha fatto pensare che volessi o potessi annullare questa decisione?» chiese Tungata. «Per la verità, non lo pensavo affatto» ammise Clay. «Compagno ministro» Janine parlò per la prima volta, «io ho chiesto l'appuntamento perché in questo caso ci sono circostanze particolari. Il signor Mellow è invalido per sempre, e l'imbarcazione è l'unica cosa che possiede.» «E' fortunato, dottoressa Carpenter. Le foreste e le praterie di questa terra sono piene delle tombe senza nome di giovani che hanno dato più del signor Mellow per la libertà. Dovrebbe avere una ragione più valida.» «Credo di averla» disse Janine senza alzare la voce. «Compagno ministro, noi due ci siamo già incontrati.» «La sua faccia non mi è nuova» ammise Tungata. «Ma non ricordo...» «E' stato di notte, nella foresta, accanto al relitto di un aereo...» Janine vide il lampo negli occhi torvi e come annebbiati. Sembravano scrutarle l'anima. Il terrore la riassalì a ondate soflocanti. Sentì tremare il suolo sotto di lei, e quella faccia riempì
completamente la sua visuale. Dovette attingere a tutte le forze e a tutto il coraggio che le restavano per riprendere a parlare. «Vi siete impadroniti di una terra. E nel farlo avete rinunciato per sempre all'umanità?» Janine vide il cambiamento negli scuri occhi ipnotici, il fremito quasi impercettibile della bocca. Poi Tungata Zebiwe abbassò lo sguardo sulle proprie mani posate sul piano della scrivania. «E' un avvocato convincente, dottoressa Carpenter» disse a voce bassa. Prese la penna d'oro dal portapenne e scrisse poche righe su un foglio di carta intestata. Poi staccò il foglio dal blocco e si alzò. Girò intorno alla scrivania e si avvicinò a Janine. «In guerra anche gli uomini perbene commettono atrocità» disse. «La guerra ci trasforma tutti in mostri. Grazie di avermi ricordato la mia umanità.» Le porse il foglio. «Lo porti al direttore dell'ufficio cambi» disse. «Avrà il permesso.» «Grazie, Sam.» Clay lo guardò, e Tungata si chinò ad abbracciarlo di slancio. «Va' in pace, vecchio amico» disse in sindebele, e si raddrizzò. «Lo porti via, dottoressa Carpenter, prima che mi commuova eccessivamente» ordinò in tono aspro, avviandosi verso le grandi finestre. Rimase a guardare i prati verdi fino a quando sentì la porta chiudersi dietro di sé, poi sospirò e tornò alla scrivania. *** «E' strano pensare che è la stessa veduta dell'Africa che ebbero nel 1860 Robyn e Zouga Ballantyne quando arrivarono con la nave negriera Huron.» Clay additò, a poppa, il grande massiccio della Table Mountain che montava la guardia all'estrema punta meridionale del continente; era inghirlandata dalle nubi argentee traboccanti dal ciglio tormentato di roccia nuda. Ai piedi della montagna, come una collana, erano sgranati gli edifici bianchi, con le finestre che brillavano nel primo sole come diecimila fari. «Fu qui che incominciò la grande avventura africana della mia famiglia, ed è qui che tutto finisce.» «E' una fine» riconobbe Janine a voce bassa. «Ma è anche un nuovo inizio.» Era in piedi a poppa, e si teneva aggrappata con una mano per non perdere l'equilibrio. Janine portava una maglietta leggera e un paio di blue jeans tagliati corti che lasciavano scoperte le lunghe gambe abbronzate. Durante i mesi degli ultimi lavori sullo yacht nel bacino del Royal Cape Yacht Club, s'era messa rigorosamente a dieta: niente vino, niente gin, niente cibi grassi. La vita era ridiventata snella e i glutei che spuntavano dall'orlo sfrangiato dei calzoni erano tondi e sodi come un tempo. S'era tagliata i capelli corti come quelli d'un ragazzo, e l'aria salmastra li aveva arricciati. Il sole le aveva scurito la pelle e mimetizzato le macchie dei foruncoli intorno alla bocca e sul mento. Ora Janine girò lentamente su se stessa per scrutare l'immenso orizzonte dischiuso davanti a loro. «E' così sconfinato, Clay» disse. «Non hai paura?» «Una paura d'inferno» rispose Clay con un sorriso. «Non so se il nostro prossimo scalo sarà in Sud America o in India. Ma e anche emozionante.» «Vado a preparare un paio di tazze di cioccolata» disse Janine. «Detesto questo periodo di regime secco.» «Sei stato tu a decidere di non portare liquori a bordo... dovrai aspettare finché arriveremo in Sud America o in India o chissà dove.» Janine scese sottocoperta. Ma prima che avesse raggiunto la cambusa la radio sul tavolo da carteggio si fece sentire. «Zulu Romeo Foxtrot. Qui radio marittima di Città del Capo. Rispondete, prego.» «Jan, siamo noi. Rispondi» gridò Clay. «Probabilmente è qualcuno dello Yacht Club che vuole salutarci.» «Radio marittima di Città del Capo, qui Zulu Romeo Foxtrot. Procediamo sul Canale 10.» «E' lo yacht Bawu?» La voce dell'operatore era nitida: erano ancora in vista dell'antenna sopra il porto. «Affermativo. E' il Bawu.» «Abbiamo un radiogramma per voi. Pronti a trascriverlo?» «Procedete, Città del Capo.» «Il messaggio dice: "Per Clay Mellow oggetto suo manoscritto Quando vola il falco stop intendiamo pubblicarlo e offriamo acconto 5000 sterline su diritti d'autore 12,50% stop prego rispondere al più presto congratulazioni Pick presidente William Heinemann Editori Londra".» «Clay» gridò Janine. «Hai sentito? Hai sentito?» Clay non poteva rispondere.
Aveva le mani incollate sulla ruota del timone e fissava oltre la prua del Bawu che si sollevava e si riabbassava dolcemente, in direzione del lontano orizzonte azzurro dell'Oceano Atlantico. *** Dopo due giorni arrivò senza preavviso una burrasca da sud-est. Investì il Bawu di botto: una montagna compatta d'acqua verde superò il parapetto e trascinò via Janine dal pozzetto. Solo la cima di sicurezza la salvò, e Clay dovette lottare dieci minuti per riportarla a bordo, mentre lo yacht s'impennava pazzamente nel vento e il fiocco si lacerava con uno schianto simile a una cannonata. La tempesta durò per cinque giorni e cinque notti, durante i quali sembrò che non esistesse più una linea divisoria tra il vento folle e le acque furiose. Vissero in una cacofonia assordante mèntre la bufera suonava sull'attrezzatura del Bawu come un violinista demente, e le onde atlantiche crestate di grigio marciavano su di loro in maestosa successione. Vissero con il freddo nelle ossa, infradiciati fino alla pelle, con le mani bianche e corrugate come quelle d'un annegato, l'epidermide lacerata dal le taglienti scotte di nailon e dalle vele rigide. Ogni tanto trangugiavano una galletta o una cucchiaiata di fagioli freddi e rappresi, la mandavano giù con un sorso d'acqua, e si trascinavano di nuovo sul ponte. Dormivano a turno, per pochi minuti alla volta, sopra i mucchi di vele bagnate che venivano ripiegate in saletta. Erano entrati nella tempesta come novellini; e quando il vento cadde con la stessa subitaneità con cui li aveva aggrediti erano diventati marinai... esausti e scavati dal terrore ma con un orgoglio nuovo per se stessi e la loro imbarcazione. Clay aveva appena l'energia sufficiente per mettere alla cappa lo yacht e lasciare che cavalcasse da solo le onde lunghissime, calme ma ancora alte come montagne. Poi si trascinò fino alla cuccetta, gettò via gli indumenti fradici e puzzolenti, si abbandonò nudo sulla coperta ruvida e dormì per diciotto ore filate. Si svegliò in preda a un nuovo tumulto di emozioni, senza sapere che cosa fosse fantasia e che cosa fosse realtà. Prima non aveva mai provato la minima sensazione, ma adesso la metà inferiore del suo corpo era attanagliata da uno spasimo tormentoso. Percepiva ogni singolo muscolo: parevano lottare l'uno contro l'altro fino al punto di lacerarsi o di scoppiare. Dalla pianta del piede alla bocca dello stomaco le terminazioni dei nervi sembravano messe allo scoperto. Gridò per la sofferenza che minacciava di annientarlo; e poi in quella sofferenza trovò l'inizio di un piacere squisito e quasi insopportabile. Gridò di nuovo e sentì il suo grido echeggiare sopra di sé. Aprì gli occhi. Il viso di Janine era a pochi centimetri dal suo, il corpo nudo di Janine era premuto contro il suo dal petto alle cosce. Tentò di parlare, ma lei gli chiuse la bocca con le labbra, e gemette. All'improvviso Clay si accorse d'essere affondato nel tepore e nella serica elasticità di lei, si accorse che entrambi venivano sollevati da un'ondata di trionfo più alta e possente di tutte quelle che l'Atlantico aveva scagliato contro di loro durante la tempesta. L'ondata li lasciò aggrappati l'uno all'altra, ammutoliti e a malapena capaci di respirare. Janine gli portò una tazza di caffè quando Clay ebbe rimesso in rotta il Bawu, e sedette sul bordo del pozetto tenendogli una mano sulla spalla. «Voglio mostrarti una cosa» disse Clay. Indicò la gamba nuda, allungata sullo strapuntino, e mentre Janine la guardava mosse le dita del piede, avanti e indietro, e poi da destra a sinistra. «Oh, tesoro» mormorò lei, «è la cosa più straordinaria che abbia mai visto fare da qualcuno.» «Come mi hai chiamato?» chiese Clay. «Vuoi sapere una cosa?» Janine non rispose immediatamente alla domanda. «Credo che io e te andremo molto d'accordo...» Soltanto allora gli appoggiò il volto sulla guancia e gli sussurrò all'orecchio: «Ti ho chiamato tesoro. Va bene?» «Per me va benissimo, tesoro» rispose Clay, e bloccò la ruota del timone per avere entrambe le braccia libere e stringerla a sé. FINE