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ANALOG Anno 2. n. 5. estate 1995 Direttore Responsabile: Daniele Brolli INDICE Complesso di colpa di Charles Sheffield Test di umanità di Charles Sheffield La doppia scala a chiocciola di Charles Sheffield Godspeed di Charles Sheffield Occhi profondi di Gregory Benford L'elefante maltese di Harry Turtledove Inerzia di Nancy Kress Le singolari abitudini... di Geoffrey A. Landis Il buco della serratura... di Stephen L. Burns L'ostaggio di Christopher Anvil EDITORIALE Cosa distingue la fantascienza classica da ogni altra forma di scrittura del fantastico? Di sicuro la sua ingenuità che non si arresta di fronte a nulla, che diventa presupposto per impegnarsi in ipotesi e avventure altrimenti giudicate impossibili. Da un punto di vista potrebbe essere giudicata negativamente, come incoscienza e leggerezza, ma la fantascienza classica ha sempre avuto un paracadute che le permette di sbilanciarsi nell'azzardo con la consapevolezza di fondo che si tratta solo di un gioco. Anche se a volte il gioco riesce e certe ipotesi scientifiche contenute nei più rozzi dei racconti classici si sono rivelate poi non lontane dalla realtà. Da Jules Verne in poi in questa forma letteraria non è cambiato nulla. Sono diversi i temi, sono più vicini all'epoca in cui le storie vengono scritte, sentono un vago influsso scenografico dell'ambiente sociale contemporaneo, ma la loro funzione e il rapporto che instaurano con i lettori e con la storia rimangono invariati. Ai lettori che ci hanno chiesto il perché di Analog, rispondiamo questo, anche perché crediamo che questa funzione di narrativa generosamente lanciata verso il futuro, che riserva i dubbi morali, il cinismo e le esigenze etiche a un altro tipo di fantascienza, conservi una sua funzione attiva, complementare alle altre manifestazioni dell'immaginario fantastico.
Il connubio tra scienza e narrativa in Analog nasce spesso da grandi scienziati che trovano nelle forme di scrittura della fantascienza un modo non pedestre per avventurarsi con risultati affascinanti in ipotesi e mondi inediti. Vorremmo far diventare questa pubblicazione una rivista vera e propria, inserendo dai prossimi numeri rubriche, lettere, e quanto altro. Fatevi sentire. Daniele Brolli NOTE Di Charles Sheffield, uno dei nostri autori più amati, il lettore di Analog sa già tutto, essendo questa la sua quarta apparizione (con relativa quarta nota biografica). Per chi si fosse sintonizzato soltanto adesso sulle nostre frequenze, ricordiamo telegraficamente che Sheffield è nato in Gran Bretagna sessant'anni or sono ma risiede negli USA, e spazia ampiamente entro e fuori il genere, dalla pubblicazione di saggi scientifici fino alla redazione di stravaganti horror come The Selkie, scritto nel 1982 con David F. Bischoff, che vede protagoniste delle foche mannare! Il suo campo d'intervento preferito rimane comunque la narrativa SF: nel 1994, con Georgia on My Mind (da noi pubblicato su Analog 2) ha vinto sia il Nebula che l'Hugo. Gregory Benford, americano dell'Alabama, cinquantaquattrenne, docente di Fisica, attivo nel campo della fantascienza sin dall'adolescenza (in veste di fanzinaro), è diventato uno dei nomi di punta della "hard SF" dopo l'apparizione in Again, Dangerous Visions, seguito della classica antologia della New Wave curata da Harlan Ellison. Da molti accostato a Poul Anderson, ha (come ricordato nella nota biografica in occasione della comparsa del suo Dello spazio-tempo e del fiume nel recente numero 15 dell'edizione italiana della IASFM) una curiosa caratteristica: la quantità di collaborazioni a quattro mani, a partire da quella col fratello James fino a David Brin, passando per Gordon Eklund, William Rostler e Martin Greenberg. Le sue opere sono pubblicate in Italia dalla Nord. Stephen L. Burns, assieme a Nordley l'autore emergente per eccellenza della consorella americana, con la quale collabora dal 1985, ha fatto la sua prima apparizione italiana nel numero d'esordio di Analog (estate 1994)
con Il salto. Con la proposizione del notevole racconto che potete leggere nelle pagine seguenti, chiaramente incentrato sulla figura di Stephen Hawking, accontentiamo le numerose richieste dei tanti lettori cui piace scoprire assieme a noi i nuovi talenti del panorama SF. Nancy Kress è un altro nome familiare ai lettori della IASFM italiana dove già sono apparsi (nei numeri 4, 7 e 15) tre suoi racconti. Affascinante autrice dal grande spessore etico, la Kress è nata a Buffalo (New York) nel 1948 ed è stata più volte proclamata vincitrice del Nebula. Ritroviamo Harry Turtledove, dopo la pubblicazione su Analog 2 dell'acclamato Laggiù nelle Terrefonde, premio Hugo 1993, una riconferma dell'interesse del pubblico italiano per un autore già amatissimo per il ciclo di SF-fantasy (pubblicato dalla Nord) con protagonista una legione romana proiettata nell'esoterico impero di Videssos. La sua specializzazione accademica in storia bizantina (che spiega l'agio con cui cita autori greci ed ellenistici anche nel racconto che vi presentiamo in questo numero) è stata messa a profitto in un altro suo ciclo di grande successo, le Storie di Basil Argyros, ambientate in un mondo alternativo che contempla anche Maometto nell'agiografia cristiana, e che vedono come protagonista un agente segreto medievale che involontariamente provoca e ispira innovazioni scientifiche. Geoffrey A. Landis è un fisico che studia la progettazione di celle fotovoltaiche e nel tempo libero si diletta nella narrativa breve. Il Nebula del 1989 per il racconto Increspature nel mare di Dirac (Urania) ha sancito la sua posizione di più talentuoso autore di racconti brevi delle nuove generazioni, confermata dall'Hugo assegnato al brevissimo, indimenticabile Nel mondo dei sensi, da noi pubblicato nel numero speciale sulla realtà virtuale della IASFM, del novembre 1994. Abbiamo già presentato Harry C. Crosby, in arte Christopher Anvil, nello scorso numero di Analog, dove ricordavamo anche come fosse nostro intendimento rilanciare un autore conosciutissimo e assai apprezzato durante l'epoca d'oro di Astounding, la rivista da cui è nata la nostra consorella americana, e poi caduto in un oblio assolutamente ingiustificato. Dobbiamo ammettere la nostra più totale ignoranza a proposito dei suoi anche più elementari dati anagrafici (emulata del resto da quella assai più sinto-
matica della Encyclopedia of Science Fiction di Clute e Nicholls, vera bibbia dell'appassionato, che mette un bel punto interrogativo sua data di nascita di Anvil e non cita il luogo natale). Ci risulta soltanto che abbia esordito sotto il suo vero nome nel 1952 su Imagination con il racconto Cinderella, Inc, legando poi nome e fortune a John W. Campbell Jr, leggendario editore di Astounding, cui aggradava molto l'antropocentrismo sfegatato e paradossale di Anvil, che portava costantemente l'umanità a prevalere contro gli alieni. ANALOG COMPLESSO DI COLPA di Charles Sheffield La follia assume molte forme. E così, forse, la Storia La follia assume molte forme. Forse una delle più insidiose è la convinzione che non sia niente di peggio di un'infermità, che possa essere alleviata, curata ed eliminata con la giusta miscela di farmaci, vaneggiamenti e incantesimi. O almeno era così che la pensavo i mercoledì in cui mi sentivo maggiormente cinico, quando io e Paul Silverman uscivano dal St. Elizabeth Hospital dopo averci passato una giornata di lavoro. La nostra prestazione era gratuita e la consideravamo un servizio pubblico, ma, se si esaminavano le motivazioni più profonde, ignorando ogni asserzione sulla "responsabilità sociale" e sul "pagare il nostro debito verso la società", si sarebbe scoperto che il nostro autentico impulso era il senso di colpa. Lavoravamo il mercoledì per alleviarci la coscienza. Ci sentivamo a disagio per il fatto di guadagnare centocinquanta dollari all'ora il resto della settimana. Gli altri giorni il problema psicologico di un paziente, in genere, era al massimo un desiderio di attenzione, un matrimonio infelice, un ambiente di lavoro stressante, e tornavamo a casa piacevolmente stanchi e pronti per un party o un concerto. Ma non il mercoledì. Il St. Elizabeth accettava i casi più ostinati e incurabili. Ogni mercoledì uscivamo dall'ospedale separatamente, fra le cinque e le sei, e ci vedevamo all'Anson's Bar. Il primo ad arrivare ordinava due birre e aspettava l'altro. Quel mercoledì sera in particolare mi ero trattenuto cinque minuti più del solito a rivedere la tomografia a emissione di positroni di una paziente
sottoposta a radioterapia per un tumore nel lobo parietale sinistro del cervello, dopodiché ero stato bloccato mentre uscivo da Johnnie Donovan che voleva la mia opinione su un nuovo protocollo terapeutico sul Deprenyl per la cura del morbo di Parkinson. Quando finalmente riuscii a svignarmela, beccando in pieno un tipico acquazzone dei primi di novembre, erano quasi le sei e dieci e agognavo più che mai qualcosa da bere. Mi feci una corsetta lungo il marciapiede col cappotto sulla testa fino alle porte di legno scuro dell'Anson's ed entrai nel bar illuminato a giorno. Dentro era tutto plastica, cromo e neon, a parte il lungo bancone, oltre nove metri di legno duro e nero che era sopravvissuto alla transizione da vecchio pub a luogo d'incontro per yuppy. Il resto della settimana io e Paul preferivamo uno stile più vetusto. Ma il mercoledì sceglievamo sempre l'Anson's, per il suo chiassoso ottimismo e l'atmosfera perennemente allegra. Paul aspettava, col bicchiere vuoto per tre quarti. Un martini doppio con ghiaccio. Medicina robusta. Io scivolai sullo sgabello accanto, annuii e afferrai il boccale di birra che mi aspettava. «Hai dedicato un po' di tempo a Jacob Lansdorf?» chiese subito Paul, prima che potessi bere il primo sorso. «Il nuovo paziente del quinto reparto.» Mi girai a guardarlo sorpreso. Per capire il perché di questa sorpresa bisognerebbe conoscere un po' meglio me e Paul. Fin dall'università avevamo capito che io ero un tipo sensibile e lui pratico. Il sangue mi nauseava, e spettacoli che lasciavano lui imperturbabile in sala operatoria a me facevano venire da vomitare (anche se in compenso dietro le parole di un paziente spesso avvertivo qualcosa che Paul non afferrava: dolore, senso di colpa o paura). A causa di questa sensibilità di solito il mercoledì sera ero conciato peggio di lui. Ma quasi tutte le settimane questo non faceva gran differenza. Bevevamo due o tre birre assieme, discutevamo del lavoro della giornata e tutto il peso del malessere e dell'infelicità che mi ero trascinato dietro dall'ospedale gradualmente si dissolveva. Alle sette e trenta mi sentivo benissimo e riuscivo ridere quanto lui di una barzelletta mentre ce ne tornavamo a casa per la cena. Come ho detto, andava così quasi tutte le settimane. Ma c'erano dei brutti mercoledì. Quelle sere la nube proveniente dal St. Elizabeth non si dissipava tanto facilmente. Certe volte alzavo il boccale sfaccettato e attraverso quello vedevo il mondo prismatico di distorsione e discontinuità dove si trovavano i
pazienti peggiori. In quei casi poggiavo le mani sul legno lucido del bancone e Paul mi stringeva una mano sulla spalla finché il mondo riacquistava l'equilibrio. E bene o male succedeva. Ma quelle sere dubitavo fortemente della mia salute mentale. Paul invece non ammetteva questi dubbi. Considerava il nostro lavoro un'estensione naturale della medicina. Non molto tempo prima che cominciassimo a esercitare, mi aveva esposto la sua filosofia: «È abbastanza semplice, Mark» aveva detto. «Il cervello è un'entità organica funzionante, come il rene o la milza, ma un tantino più complessa. Ricorda, un centinaio di anni fa i dottori pensavano che la tubercolosi fosse un problema emotivo. È questo che oggi sostengono certi idioti riguardo alla depressione o alla schizofrenia. Ma non è vero. Quando ne sapremo di più di biochimica e neurotrasmettitori, riusciremo a curare tutti i casi negli ospedali per malattie mentali.» Era sicuro di sé e convincente. Perciò fu doppiamente sconcertante per me quella sera sentirgli nella voce un'eco della stessa incertezza e ambivalenza che spesso ritrovavo nelle mie riflessioni. Posai il bicchiere senza aver bevuto un sorso. «Lansdorf? Sicuro. Gli ho fatto una visita.» «Gli hai parlato?» «Non più del necessario. Sono dovuto correre da Isobel Skinner, all'ottavo reparto. Sapevi che stava cercando di uccidersi?» «Che ne pensi delle sue condizioni?» Se Paul aveva sentito la mia domanda, non ne diede segno. Giocherellava col bicchiere, sfregando nervosamente gli anelli di condensa sul bancone. «Lansdorf? Sotto il profilo generale è in buona forma. Considera però che dovrebbe fare causa al suo dentista. Erano anni che non vedevo delle otturazioni e un ponte così schifosi.» Il mio tentativo di umorismo non funzionò. Paul si limitò ad annuire fra sé e a lucidare con l'indice il ripiano del bancone. «Cosa c'è che non va, Paul?» dissi dopo altri trenta secondi. Scosse la testa. «Non ne sono certo.» Si sporse in avanti, prese il bicchiere e lo vuotò fino ai cubetti di ghiaccio. «Peccato che tu abbia avuto da fare tutto il pomeriggio. Ti ho cercato verso le quattro, perché volevo che mi dessi un'opinione. Comunque...» Si chinò a prendere la borsa, poggiata ai suoi piedi contro il bancone, e se la posò sulle ginocchia. «Stamane, come prima cosa, ho passato un'ora e mezzo con Jacob Lansdorf» continuò. «È stato trasferito al St. Elizabeth dal Dipartimento di Po-
lizia di Washington cinque giorni fa. L'hanno raccolto al centro commerciale che se ne andava a zonzo da solo. Non aveva alcuna idea di dove si trovasse, e farneticava.» «Perché questo ospedale? È violento?» Volevo che Paul continuasse a parlare. Lo sguardo fisso che aveva sul volto era inquietante. «No.» Parve di nuovo sicuro di sé. «Sarei stupito se tentasse di fare del male a qualcuno, a parte forse se stesso. Ma a quelli che l'hanno trovato ha raccontato della roba veramente strana. Non riuscivano a cavare molto senso dalle sue parole, ma hanno agito con cautela.» «Ha detto loro delle cose strane... Ma a te cos'ha detto, invece?» Paul spinse il bicchiere sul bancone per farselo riempire e scosse la testa. Non rispose subito, poggiando invece la borsa coricata sul ripiano. La aprì e tirò fuori un fascio di carta giallognola per uso legale, ricoperta di una nitida scrittura a matita. «Quello che mi ha detto stamane era piuttosto incoerente. Molti paranoici danno una descrizione logica e completa, almeno in superficie. Ma Lansdorf ha vaneggiato a tutto spiano. Perciò prima di andarmene gli ho chiesto di mettere per iscritto quello che mi aveva raccontato con più dettagli che poteva. Deve averlo fatto tutto d'un fiato, perché quando l'ho rivisto alle tre aveva preparato questo...» Paul batté sui fogli giallognoli «...per me. Mi farai un grosso favore se lo leggi subito e vedi cosa dice.» Guardai dubbioso il blocco. Doveva essere almeno di venti fogli. «Prima di cominciare» dissi «mi dai un'idea di cosa c'è che non va in lui?» «Ti dirò come me l'hanno descritto. Illusioni di potenza, accoppiate con un mostruoso complesso di colpa.» «E la tua opinione? Dove lo collocheresti?» Paul non esitò. «Lo vedrai quando leggerai. Ma è un due... o peggio.» Era la nostra scala ufficiosa per descrivere la condizione umana. Su una scala da uno a dieci, chiunque avesse dieci di solito era felice. Un uno aveva mollato ogni speranza, «Allora ha toccato la disperazione» dissi. «Il che significa o che questo documento descrive la sua condizione interiore, non un insieme di esperienze, o che altrimenti quell'uomo ha infranto la tua regola preferita.» La Regola di Silverman, dimostrata dopo anni di osservazione: un essere umano può rendere infelice un altro essere umano, ma la felicità o la disperazione non possono essere indotte: vengono dall'interno. «Lo so, lo so.» Agitò la mano con impazienza. «Leggilo, Mark, poi ne parliamo.»
Presi un sorso di birra, pescai gli occhiali in una tasca interna, posizionai le carte in modo che potesse vederle anche Peter e alla fine iniziai a leggere. "Mi chiamo Jacob Lansdorf. Ho ventotto anni e sono nato nella città di Wolverhampton, Inghilterra. Dopo aver frequentato là la scuola secondaria, mi sono iscritto a Oxford laureandomi in storia, ed effettuando in seguito due anni di specializzazione. Il mio campo specifico erano le tendenze della politica nazionale nella prima metà di questo secolo." (Guardai Paul al di sopra degli occhiali. «Lo so. Continua a leggere» disse. «Gli ho suggerito io di aggiungere un quadro generale, per aiutarlo ad affrontare la cosa. Ma non ne aveva bisogno.») "Fu durante il primo anno di specializzazione che incontrai per la prima volta Jon Blackburn. Avevamo affittato tutti e due camere ammobiliate nello stesso alloggio, dove ci eravamo trasferiti nello stesso giorno. Presto iniziammo a pranzare assieme di tanto in tanto, non perché ritenessimo di avere granché in comune, ma perché né io né lui avevamo molto danaro, ed era più conveniente cucinare per due. Di rado parlavamo dei nostri studi. Lui aveva studiato fisica a Bristol e adesso preparava una tesi sui processi quantici. Tutti i suoi commenti in materia mi risultavano incomprensibili. "Dopo tre mesi, improvvisamente scoprimmo di avere molto più in comune di quanto sospettassimo. Per essere precisi, ai tempi dell'università ambedue eravamo stati iscritti al Movimento per la Patria." («Neanch'io ne so niente» disse Paul. «Ma si chiarisce dopo. Secondo Lansdorf, il Movimento per la Patria è un'organizzazione che cercava di creare una nazione per insediarvi gli ebrei.» «Ma c'è...» «Già. Va' avanti.») "Jon era stato molto più attivo di me, ed era ancora in contatto col Movimento. Alla fine del trimestre mi convinse ad andare in macchina con lui a Cambridge per incontrare alcuni della sua vecchia cellula di Bristol che adesso erano ricercatori là. Andammo sulla sua vecchia ArmstrongSanderson, che teneva in pessime condizioni. Il tempo era cattivo e la capote piena di buchi. Dopo Bedford la strada principale era allagata, perciò non arrivammo prima delle otto di sera. Jon si diresse verso una casa sulla strada per Grantchester. Arrivammo a riunione iniziata. Otto persone, ma il chiasso e il fumo di pipa facevano per venti.
"Fu un'esperienza nuova, per me. La cellula di Cambridge era piena di attivisti e i loro discorsi prendevano una brutta piega. Volevano entrare in azione subito. Per la prima ora mi limitai a guardare e ascoltare, quasi ignorato. Finché Jon Blackburn rivelò agli altri il mio campo di studi. Allora tutte le teste si volsero a guardarmi. "'Non ha ancora incontrato Simon?' chiese una donna dal viso magro che pareva dieci anni più vecchia degli altri. Si chiamava Barbara, e la riunione si teneva a casa sua. "Jon scosse la testa. 'Volevo prima far conoscere Jacob a tutti voi. Viene Simon stasera?' "'Tardi. Doveva finire qualcosa al laboratorio. Lo sai com'è fatto Simon.' "Io no, ma nella successiva mezz'ora seppi parecchio sul suo conto. Era il genio della cellula e il suo lavoro formava la base del Grande Piano. "Ora descriverò il Piano, ma non mi è possibile fornire una buona descrizione del lavoro di Simon Fischer; perfino Jon non ci riusciva, e aveva una preparazione scientifica. Tutto si basava su qualcosa definito ipotesi Moseley-Redpath, ma questo non serve a molto. Ho cercato il riferimento nella biblioteca dell'ospedale di qui. C'è Moseley, ma l'enciclopedia dice che è morto nel 1915. Non compare né un Redpath né l'ipotesi MoseleyRedpath. "Secondo Jon, l'unico modo di capire l'ipotesi è attraverso una descrizione in termini di teoria quantistica. A livello quantico la posizione di ogni particella non è nota con assoluta precisione. Invece viene descritta mediante una distribuzione di probabilità. Così una particella si estende in una regione dello spazio... in linea di principio, la particella può trovarsi da qualsiasi parte dell'intero universo, ma la probabilità diviene trascurabile in un piccolo volume. L'ipotesi Moseley-Redpath suggerisce che c'è un minuscolo ma incommensurabile accoppiamento fra le distribuzioni di probabilità delle particelle. "Un assistente del comitato di discussione della tesi di Simon Fischer ha esteso l'ipotesi nell'ambito del tempo. Dovrebbe esserci un accoppiamento fra lo stato delle particelle di ora e allora. "Questo accoppiamento potrebbe essere abbastanza grande da venire misurato. Simon ha cercato di misurarlo, nell'ambito del suo lavoro di ricerca, e c'è riuscito. L'effetto era vero. In linea di principio, un'azione compiuta nel presente potrebbe influire su una situazione del passato. "Fu difficile crederci anche solo in minima parte quando conobbi Simon Fischer. Era minuto e bruno, e non mi guardò negli occhi. Rispose alla
domanda di Jon con un infido sguardo in tralice a Barbara, e uno scatto della testa in avanti e all'indietro. 'Il dispositivo che ho costruito dovrebbe permettere di effettuare dei cambiamenti' disse. Tirò su col naso. 'Cambiamenti del passato, ma piccoli cambiamenti. Più la quantità di energia necessaria per farlo cresce rapidamente, in termini esponenziali, più si va indietro. Inoltre, i piccoli cambiamenti finiscono per essere ininfluenti man mano che si avanza verso il futuro'. "'Ma alcuni no?' domandò Jon, a mio beneficio, con aria sospetta. 'Ci sono delle cosettine del passato che potrebbero fare la differenza che ci interessa?' "'Esatto. Ci sono nodi critici, eventi spazio-temporali che causano una rilevante biforcazione nello spazio-tempo. Sono quelli che ci occorre individuare. E questo ovviamente esula dai confini della fisica. Se si vuole produrre un cambiamento sociale, c'è bisogno di un esperto di storia e politica.' "Gli altri si girarono tutti a guardarmi. Per la prima volta capii perché Jon avesse insistito per venire a Cambridge. Ero io l'esperto appena reclamizzato. Quello che voleva il gruppo sembrava abbastanza semplice, se visto per sommi capi. Il principale ostacolo per l'avanzata del Movimento per la Patria era un'influenza tedesca antisemita. E l'industria e la tecnologia tedesca erano forze potenti in tutto il mondo... la stessa attrezzatura di Simon era stata realizzata a Stoccarda. La cellula intendeva trovare qualcosa, un evento critico del passato, che potesse essere modificato e propagato in avanti per ridurre l'influenza tedesca nel mondo. "Dapprima ritenni ridicola l'intera faccenda. Ma la situazione offriva una curiosa sollecitazione al mio ego. Faceva una certa differenza scoprire di essere al centro dell'attenzione di un gruppo di persone... un gruppo di individui, sospettai ben presto, tutti di intelletto superiore al mio. "Promisi di studiare il problema. Tornammo a Oxford e mi misi al lavoro. Jon m'incalzava con frequenti domande su come procedevo, ma non era necessario che mi pungolasse. Il progetto era divenuto la mia ossessione, tanto da trascurare gli altri studi. La bolletta telefonica delle mie chiamate al laboratorio di Simon Fischer presto superò le cifre che spendevo per il cibo e l'affitto. "Trovai una risposta. Mi ci vollero quattro mesi, ma trovai quello che ci serviva. Dopo altre due settimane di verifica io e Jon tornammo di nuovo a Cambridge a far visita a quell'abitazione suburbana sulla strada per Grantchester. Vi si era riunita la cellula al completo. Con l'eccezione di Barbara
Ashworth, che insegnava francese e tedesco in una scuola di Grantchester, tutti gli altri erano fisici e matematici. Dovetti spiegare loro l'intero retroterra storico. "'Bisognerebbe leggere i dispacci del fronte per sapere cosa accadeva' dissi. 'Tutte le guerre sono molto più confuse mentre di svolgono di quanto non appaia prima o dopo. In precedenza, è tutto un fermento di piani e calcoli, poi, quando la guerra finisce, arrivano gli storici e si mettono a fare delle belle analisi dettagliate. Ma durante la battaglia vera e propria tutto tende a diventare confuso e affrettato. Ora, il Piano Schlieffen era stato immaginato molto tempo prima della guerra. Anzi, Schlieffen stesso morì nel 1913, l'anno che precedette l'inizio della guerra...' "'Ma è stato più di settant'anni fa!' La protesta veniva da Walter Jason, uno dei più impazienti del gruppo. 'Non dovrai certo risalire così indietro nel tempo?' "'Credo dovremo farlo, invece.' (Non me la presi per la sua domanda, perché oltre tutto rifletteva le mie stesse preoccupazioni. La mia conoscenza di eventi più recenti era certo inferiore a quella della prima metà del secolo, e le mie analisi potevano rifletterlo. Ma tale critica non fece altro che rafforzarmi nella difesa delle mie conclusioni.) 'Ricordate tutti, dovevo trovare un punto dove un piccolo cambiamento avrebbe potuto propagarsi anziché esaurirsi. E il 1914 è in assoluto il posto migliore per un punto critico. Vedete, il Piano Schlieffen funzionò, ma fu a un passo dal fallimento. L'idea era che la Germania avrebbe colto la Francia di sorpresa. I francesi erano preparati a un attacco tedesco attraverso l'Alsazia-Lorena. Se i tedeschi invece fossero passati dal Belgio, avrebbero aggirato le linee francesi di difesa, e a quel punto avrebbero potuto proseguire fino a conquistare Parigi. Dopodiché sarebbero stati nella posizione di dettare al resto dell'Europa forti imposizioni economiche e politiche. Ma era cruciale la scelta dei tempi. I francesi avevano un grosso potenziale militare nel 1914, ma non il tempo di schierarlo. Pertanto la guerra sarebbe finita ancor prima che si rendessero conto che era cominciata. "'Era questo il piano tedesco, e quello che si trova nei libri di storia. Ma fu a un pelo dal fallimento per una questione di poche ore. L'avanzata attraverso il Belgio andò da favola, e le forze tedesche al comando del generale von Kluck puntavano dritte su Parigi. Ma il comandante supremo tedesco, il generale von Moltke, si trovava nel quartier generale dell'Alto Comando Tedesco, e non era certo di cosa stesse accadendo. Finalmente ricevette un messaggio sulla situazione di von Kluck, e rispose con istru-
zioni di proseguire e avanzare verso Parigi. "'Ora, immaginate se non l'avesse fatto? Von Kluck avrebbe inseguito le forze inglesi nella ritirata, e sarebbe stato indotto ad aggirare Parigi. Così i francesi avrebbero avuto il tempo di approntare la seconda ondata, e organizzare un contrattacco migliore. Se questo fosse accaduto, la guerra sarebbe stata modificata. I francesi e gli inglesi avevano altrettante truppe dei tedeschi. Senza il fattore sorpresa, non si sarebbe verificata una facile avanzata tedesca. E l'influenza tedesca sull'Europa si sarebbe enormemente indebolita.' "Avevo iniziato a esporre la mia analisi con un pizzico di esitazione. Ma man mano che ero andato avanti mi ero ritrovato con un entusiasmo crescente. Era solo una teoria, ma era la mia. Volevo tanto che il gruppo credesse a quello che dicevo. "Invece no. Non subito. Il principale scettico era lo stesso Simon Fischer. 'Settant'anni!' disse. 'Non ti rendi conto che l'energia necessaria per indurre l'accoppiamento è esponenziale nel tempo? Posso intercettare una linea da un megawatt, ma ti ci vuole molto di più.' "'Non credo.' Mi rivolsi a Jon. 'Non mi hai detto anche che l'energia necessaria dipende dallo spostamento di massa? Bene, propongo un cambiamento. Non mi serve altro che una piccola scarica energetica, quel che basta a dissolvere una goccia d'inchiostro dalla penna di Moltke, e impedirne la firma. Era tarda notte quando firmò, e stava andando a una cena dello Stato Maggiore. Era incerto se inviare quel messaggio a von Kluck a quell'ora. E ricordate, non ho bisogno di altro che di un giorno di ritardo.' "Seguì un'accesa discussione. Con riluttanza, Simon convenne che l'energia necessaria a produrre il cambiamento che descrivevo si poteva ricavare dal suo laboratorio. Poteva calcolare la coordinate necessarie e indirizzare il getto energetico. D'accordo lui, gli altri si allinearono. "È strano, ma fino a quel punto avevo visto l'intera faccenda come un esercizio interessante ed eccitante, ma non come un'esperienza reale. La cellula di cui avevo fatto parte a Oxford era più la propaggine di un salotto letterario. Parlavamo parecchio della Patria, e degli effetti oppressivi dell'influenza tedesca. Ma non facevamo mai niente. Mi ero convinto che il gruppo di Cambridge fosse uguale. "Mi sbagliavo. Quella stessa notte la cellula votò per l'entrata in azione. Io dovevo fornire a Simon informazioni quanto più dettagliate possibili sul tempo e sul luogo, e lui l'avrebbe messa a punto da lì. Io e Jon tornammo in macchina a Oxford. La mattina successiva telefonai a Simon e gli dissi
tutto quello che potevo sulla firma di Moltke. Feci delle copie di rapporti di testimoni oculari allo Stato Maggiore del generale e gliele spedii per posta al Cavendish Laboratory. "Dopodiché? Anticlimax. Non accadde niente. Per tre settimane, la vita andò avanti come al solito. Io e Jon studiavamo durante il giorno e di sera ci domandavamo cosa stesse succedendo a Cambridge. Jon telefonava a Barbara e ogni volta riceveva lo stesso messaggio: 'Simon ci sta lavorando'. I nostri viaggi cominciarono a sembrare irreali, parti di una fantasticheria da adulti in cui l'intera cellula era stata portata via. "Cinque giorni fa stavo seduto nella cucina del nostro alloggio, rovesciando col cucchiaio delle uova strapazzate su due fette di pane tostato. Un attimo dopo mi trovavo in una strada affollata, e vedevo sfilarmi davanti automobili dalla linea sconosciuta e futuristica. I passanti erano vestiti in maniera singolare. Metà di loro erano negri. C'era un rumore terribile. In alto passava un aeroplano incredibile. Guardai gli edifici intorno a me. Non era Oxford, ora o in qualunque altra epoca. La successiva pagina giallognola era arricciata e la scrittura su di essa era stranamente aggrovigliata. Sfogliai velocemente i fogli restanti e stimai che forse ne restava da leggere una dozzina. Paul mi guardava con attenzione. «Allora?» disse. Scossi la testa. «Classiche allucinazioni. L'uomo che può cambiare il mondo. Nota in che modo chiarisce che è colpa sua, ma che lui non ha la competenza necessaria a costruire la macchina... quella che proverebbe che non sta inventandosi tutto. Qualche precedente di malattia mentale?» «Nessuno. È figlio unico, ambedue i genitori morti. Arrivarono adolescenti nel 1937 dalla Germania, perciò non abbiamo dati sulla loro prima infanzia. Dopodiché, tutto normale.» «Hai controllato qualcuno di questi fatti?» Picchiai sul manoscritto. «Sui fatti del 1914, voglio dire.» «Ho dato un'occhiata veloce nella biblioteca dell'ospedale dopo aver letto tutto questo nel pomeriggio. I fatti generali sono esatti, von Kluck avrebbe potuto conquistare Parigi, ma Moltke non glielo ordinò per tempo, e lui deviò verso sud. Se avesse preso Parigi, la Prima Guerra Mondiale sarebbe finita nel 1914 anziché nel 1918.» «Allora si tratta di illusioni di grandezza su larga scala. Se non fosse stato per lui, non ci sarebbe stato nessun grosso conflitto mondiale. Niente
sanguinosa battaglia della Somme, niente guerra di trincea, niente milioni di morti. Nessuna meraviglia che Lansdorf abbia un complesso di colpa, se si ritiene colpevole di tutto questo.» «Un grosso complesso di colpa.» «Be', dopotutto è ebreo. Perciò ha fatto continuare la guerra a lungo. È proprio come tutti noi. Mostrami un bravo ragazzo ebreo che non si senta colpevole?» Stavo per concludere «E io ti mostrerò un bugiardo» ma Paul scuoteva la testa e aveva l'aria di parlare sul serio. «Niente affatto come tutti noi. Va' avanti, Mark, finisci di leggere. Lansdorf butta fuori punto per punto la sua versione della storia. Nel suo mondo la Prima Guerra Mondiale era finita in fretta. Aveva vinto la Germania... avevano conquistato Parigi, poi si erano ritirati volontariamente verso il loro confine, naturalmente strappando delle concessioni ai francesi e agli inglesi. E tutto era finito lì.» «Così lui ha fatto continuare la guerra e la cosa è costata milioni di vite.» «Molto peggio. Nel suo mondo, la Germania aveva vinto. Perciò niente più guerra sanguinosa. E niente Trattato di Versailles alla fine, "a spremere l'economia tedesca fino a sentirne gli scricchiolii". Niente collasso dell'economia tedesca negli anni Venti... niente ascesa di Hitler... niente Seconda Guerra Mondiale.» Sospirò. «Niente olocausto.» Mostrami un bravo ragazzo ebreo... Ci guardammo a lungo l'un l'altro. «Vado a trovarlo» dissi alla fine. «Fisserò un appuntamento e lo farò per prima cosa, domattina.» Ma non lo feci. Durante la notte Jacob Lansdorf sopraffece due inservienti, ciascuno il doppio di lui e addestrato a occuparsi di pazienti violenti. Dopodiché si gettò dal settimo piano del St. Elizabeth Hospital. Corsero delle voci sulla trascuratezza da parte della direzione dell'ospedale, ma dato che Lansdorf non aveva parenti in vita l'inchiesta ufficiale finì lì. Curiosamente, la cosa parve finire anche per Paul. In qualche modo, aveva scaricato su di me tutte le sue preoccupazioni. Ora non potevo evitare di mettere assieme fatterelli e congetture a proposito di Jacob Lansdorf... ...una strana fotografia che aveva nel portafoglio. Lo ritraeva abbracciato a una ragazza, sul Lungotamigi, a Londra. Si vede il Parlamento e sembra lo stesso di sempre. Ma altri edifici non coincidono con la Londra che conosco... o qualsiasi cosa possa trovare su foto
del passato. E l'automobile vicino a Lansdorf ha un aspetto antiquato. Automobili "futuristiche" e un "incredibile" aeroplano a Washington? Certamente. La guerra dà un grande impulso alla tecnologia. Senza la Prima Guerra Mondiale, o la Seconda, come sarebbero sembrate le auto e gli aerei dei nostri giorni? ...l'ipotesi Moseley-Redpath. Moseley c'è nell'enciclopedia... Ucciso in azione a Gallipoli, nell'agosto del 1915, all'età di ventisette anni. Era una delle menti brillanti della sua generazione. E Redpath? Chissà. Un'intera generazione di giovani europei fu spazzata via sui campi di battaglia della Francia settentrionale. ...la singolare abilità di Lansdorf con le arti marziali, attestata dai due inservienti dell'ospedale che aveva sopraffatto e messo fuori combattimento. ...la natura strana e primitiva delle sue otturazioni dentali. Posso immaginare che si fosse preso la briga di truccare una fotografia, anche sobbarcandosi un grosso lavoro. Ma un uomo che si fosse trapanato i denti per sostenere la propria allucinazione? Dopodiché la logica riasserisce se stessa. Gli inservienti dell'ospedale cercavano di giustificare l'incompetenza dimostrata. Il lavoro dentale era stato fatto da qualche dentista incompetente in un paese del Terzo Mondo. Se Jacob Lansdorf e Simon Fischer avevano modificato il passato, questo presente sarebbe stato quello di Lansdorf. Le sue memorie sarebbero state di questo mondo e solo di questo mondo. Non ci sarebbe stato modo per lui di trascinarsi dietro frammenti della sua esistenza alternativa, fotografie, otturazioni e ricordi. Tutto qui? Non credo. E molti dubbi latenti sulla mia salute mentale ora sono si sono attenuati. Credo che mi manchi quella certezza che di solito accompagna la follia. Ma non sono sicuro neanche di questo, perché la follia assume molte forme. E così, forse, la storia. Titolo originale: Guilt Trip Analog Science Fiction and Fact August 1987
TEST DI UMANITÀ di Charles Sheffield Chi può spiegare il mistero degli scimpanzé di Schimmerhann? «Negli ultimi giorni abbiamo sentito un gran parlare delle origini degli Shimmy. È stato stabilito, più di una volta, che le azioni di Jakob Schimmerhann erano del tutto illegali, che sappiamo tutti come il caso attuale rientri tra esse e che lui meriti ampiamente la condanna. «Benissimo. Supponiamo di ammetterlo. Le sue azioni erano sicuramente illegali. L'uso di DNA umano in esperimenti genetici era ed è rigorosamente proibito. Di sicuro non è inappropriato un certo grado di pena. «Ma a questo punto andiamo oltre, fino ad ammettere che l'origine degli Shimmy non ha alcuna relazione con quanto accertato da questa corte! Che gli stessi Shimmy esistano o meno è quasi del tutto irrilevante. Sta di fatto che esistono! Quando chiediamo quali diritti abbia un bambino, chiediamo forse chi siano i genitori o come sia venuto al mondo? Ovviamente no. Una volta che un bambino è nato, insistiamo su un trattamento equo e umano. Le origini e i diritti hanno ben poco a che vedere tra di loro. «Provi che gli Shimmy sono umani, dice l'avvocato della difesa. Ma nessuno ha inventato un test di umanità a prova di errore. Geneticamente parlando, ci si dice, uno Shimmy è più simile a uno scimpanzé che a un umano, dato che Jakob Schimmerhann ha usato meno del dieci per cento di sequenze di DNA umano nel creare la specie Shimmy. La difesa dunque asserisce che uno Shimmy è umano solo in una millesima parte. Ma si tralascia che noi, umani e scimpanzé, abbiamo in comune il 99% delle sequenze di DNA! Umani e scimpanzé sono cugini stretti. Gli Shimmy ci sono ancora più prossimi. Perciò quando l'Attarian Corporation dichiara, nell'utilizzo di Shimmy come manovali schiavi...» «Obiezione. Vostro Onore, il termine "manovali schiavi" è inappropriato per descrivere animali che lavorano, quali a nostro avviso sono gli scimpanzé di Schimmerhann.» «Obiezione accolta.» «Ritiro il termine. Dirò allora che le differenze fra umani e Shimmy sono principalmente quelle superficiali dell'aspetto, ma in realtà da tutti i punti di vista siamo sorprendentemente simili. «Tuttavia, potete anche respingere tutte le argomentazioni concernenti il
DNA, se volete, e affermare che è solo incomprensibile gergo scientifico. Guardate invece ai fatti nudi e crudi, e il nostro caso regge benissimo. Come ha fatto rilevare il professor Miraband all'inizio della settimana, uno Shimmy adulto è in grado di parlare, e meglio di un piccolo umano di tre anni. Che differenza fa se la comunicazione deve avvenire mediante linguaggio gestuale? La mia onorevole collega si sentirebbe di sostenere che una persona umana priva di laringe, anch'essa costretta a comunicare col linguaggio gestuale, per questo motivo dovrebbe essere privata dei propri diritti di uomo? O che un piccolo umano di tre anni, che per caso si ammala, dovrebbe essere soppresso per convenienza? È egualmente sbagliato assassinare uno Shimmy...» «Obiezione. Il termine "assassinare" non è appropriato per descrivere la morte di un animale.» «Obiezione accolta. Avvocato, la prego di impiegare una terminologia dalla minore carica semantica. Sono sicuro che lei è in grado di farlo.» «Sì, Vostro Onore. Ripeto, un piccolo umano ammalato o un umano impossibilitato a comunicare con le parole sarebbero maltrattati o uccisi? No di certo. La sola allusione è ridicola. «E quanto ad abilità manuali, o alla capacità di seguire delle istruzioni, o, siamo espliciti, la capacità di pensare, il nostro ultimo testimone è stato chiarissimo: uno Shimmy adulto supera un piccolo umano medio di quattro anni! Approvereste il fatto che un bambino di quattro anni non abbia alcun diritto umano? Se accadesse che vi fosse un'eccedenza di bambini di quattro anni, come reagireste all'idea di ridurne il numero? Eppure è esattamente questo che potrebbe succedere a tutti gli Shimmy, finché i loro diritti non saranno riconosciuti e protetti. «In conclusione dico che chiediamo i pieni diritti. Ma non parliamo di diritti degli animali, parliamo dei diritti delle persone. Perché si tratta di persone. Ho concluso.» Leon Karst sorrideva mentre chinava il capo verso il trio della corte, una donna e due uomini, e tornava al suo posto. Ma Sally Polk vedeva chiaramente che sudava. Karst aveva detto a Sally che la prima settimana era cruciale: «Baseremo la nostra linea d'azione sulle testimonianze dirette, non su controinterrogatori. Entro la fine della settimana dovremo aver persuaso la corte ed essere sicuri che la controparte è in difficoltà.» Se aveva ragione, e raramente Sally aveva scoperto che si sbagliava, a quel punto la causa sarebbe stata vinta o persa. Sally si volse attorno a guardare l'aula stracolma, poi appuntò lo sguardo sui membri della corte,
poggiati all'indietro sugli scanni dopo trenta ore di testimonianze. Come nuova assistente, per lei era la prima volta in tribunale. Cercò di decifrare le loro espressioni. Il decano Williams, il giudice in pensione, era imperscrutabile. Aveva un'espressione cortese, distaccata, come se la sua mente fosse altrove. Ma la precisione delle sue domande dimostrava che questo si era ben lungi dalla verità. Era soltanto che il suo viso non tradiva il minimo indizio. L'uomo e la donna che lo affiancava forse erano più facili da interpretare. Richard Kanter era un avvocato del Midwest, scaltro, bruno di capelli e fuori forma, e annuiva lentamente, approvando chiaramente l'arringa di Leon Karst a favore dei ricorrenti. Laurel Garver, la più giovane dei tre, seduta alla destra del giudice Williams, si era sporta verso quest'ultimo e gli parlava all'orecchio con l'aria assorta. Per tutto l'arco della settimana era parsa favorevole alla causa che Karst stava intentando da parte degli Shimmy. Il giudice Williams ascoltò attentamente Laurel Garver, annuì, e si poggiò alla sedia. «Dobbiamo deciderlo dopo» disse. Quindi, a Leon Karst e alla sua controparte dal lato opposto: «A meno che non dobbiate sistemare delle questioni procedurali, la corte si aggiorna a lunedì mattina, alle nove. Avete impegni?» Sally guardò gli avvocati della controparte. Fino a lunedì mattina non erano stati altro che nomi e reputazioni. Adesso lei provava una forte comprensione per tutti loro. Deirdre Walsh, la famosa Deirdre Walsh, capofila del collegio di difesa, scuoteva la testa in risposta alla domanda del giudice Williams. Stando al suo curriculum e ai commenti di Leon Karst, doveva essere dura, abile e spietata. Non dava alcun segno di essere disposta ad arrendersi in quella causa, ma Sally non si sarebbe mai accorta della sua tenacia dal suo comportamento in aula. Deirdre Walsh era vestita in modo tradizionale con un impeccabile tailleur grigio azzurro, esaltato da un piccolo nastro di merletto alla gola e da un ramoscello di lavanda fresca sul risvolto. Pareva amichevole e tranquilla nel parlare. («Ma aspetta un po'» aveva detto Leon Karst a Sally un paio di sere prima. «La prossima settimana mostrerà i denti.» Sembrava lieto per quella prospettiva. Lo spazio sui giornali avrebbe toccato il picco durante la seconda settimana delle udienze.) «C'è solo un piccolo dettaglio» stava dicendo Karst al giudice Williams. «Ci occorre conoscere i nomi dei testimoni di lunedì.» Questo era un momento importante. La corte non si riuniva nel fine settimana, ma nessuno fingeva che fosse un periodo di riposo. I tre membri
della corte avrebbero riesaminato le prove presentate nel corso della settimana, quindi si sarebbero incontrati all'ora dei pasti per discutere le loro opinioni sulla causa. Deirdre Walsh e i suoi assistenti avrebbero setacciato le trascrizioni delle testimonianze della settimana precedente in cerca di materiale che potesse favorire la loro difesa; e Leon Karst, con l'aiuto di Sally, avrebbe deciso la linea del controinterrogatorio per i primi testimoni prodotti dall'imputato. Ogni pomeriggio, al termine della seduta, la parte sottoposta al procedimento forniva in via conclusiva i nomi dei testimoni del giorno successivo. E ogni sera la controparte preparava disperatamente i materiali del controinterrogatorio. «Avremo un solo testimone, lunedì.» Il tono di Deirdre Walsh era disinvolto. «Si tratta del capitano Russell Grenville.» L'aula fu percorsa da un mormorio. Leon Karst fece un grugnito di sorpresa, mentre Sally si domandava cosa stesse succedendo. Conosceva il nome di Grenville, come tutti, ma non era mai stato fatto prima, durante tutta la preparazione del processo a favore dei diritti degli Shimmy. Significava che non poteva essere proposto come testimone? Karst era di nuovo in piedi, e parlava ad alta voce per superare il baccano. «Vostro onore, nessuno ha proposto in precedenza il capitano Grenville come potenziale testimone. Pertanto è privo dei requisiti necessari.» «Silenzio, prego.» Il giudice Williams chinò la testa verso Deirdre Walsh. «Avvocato?» «In circostanze ordinarie sì» disse lei. «Ma mi permetta di ricordare al mio onorevole collega dei ricorrenti il precedente legale stabilito in seguito alla causa Rost contro Watkins. "Nel caso che un potenziale testimone non si trovi sulla Terra, e il tempo di ritorno di tale testimone non possa essere garantito in anticipo, lo stesso testimone può apparire senza precedente notifica, e il relativo interrogatorio con contraddittorio essere posposto su richiesta dell'avvocato di ulteriori ventiquattro ore." Il che si applica esattamente al capitano Grenville.» «Si trova sulla Terra, ora?» domandò Laurel Garver. «Perché sia applicabile il codice al quale si riferisce...» «No. Ma sta arrivando. Posso garantire che sarà qui, in quest'aula, lunedì mattina.» «Allora il testimone è approvato. C'è altro da discutere?» Il giudice Williams si guardò attorno nell'aula, sorridendo per la prima volta in una settimana. «Molto bene. La corte si aggiorna.»
Il database col sistema di rimandi fornì valanghe di informazioni sul capitano Russell Grenville. Troppe informazioni. Sally Polk dovette condensarlo in termini riassuntivi e utilizzabili. Comandante della Sunskimmer, e primo umano a guidare un gruppo di atterraggio sulla superficie di Mercurio. Vincitore della medaglia Tsiolkovskij. Il primo umano a condurre una nave attraverso gli anelli di Saturno. Vincitore di una medaglia del congresso. Il primo umano a guidare un gruppo sopravvissuto all'incontro con l'Oggetto di Karkov. Premio per il coraggio del Club degli Esploratori. Primo umano a riportare campioni vulcanici da Io. Premio Daedalus... La lista proseguiva per pagine e pagine. Ma non c'era nessun appiglio. La reputazione di Grenville come comandante e leader era oro puro. Richiamò sulla tastiera i dati personali. Non sposato, ma apparentemente eterosessuale. Nessuna relazione di lunga durata. Lo sottolineò mentalmente, per possibili riferimenti futuri. Religioso, membro dell'alta chiesa episcopaliana, ma nessuna prova di vedute estremistiche. Proveniente da una famiglia moderatamente ricca, due fratelli, uno generale dell'esercito, l'altro uomo d'affari di successo. Nessun indizio di problemi finanziari, anche solo di un rilevante interesse economico. Politicamente conservatore, in linea col retroterra familiare (secondo l'esperienza di Sally, solo le famiglie molto ricche erano progressiste, quelle moderatamente ricche erano conservatrici). Smise di gingillarsi col cursore di controllo e si appoggiò all'indietro sulla sedia. Erano quasi le dieci, e ancora non aveva niente di utile per Leon. I dati personali di Russell Grenville combaciavano con la sua immagine pubblica. Tutto nel suo curriculum politico, religioso e finanziari, rivelava una solida visione conservatrice della vita, il profilo di un uomo retto, dalla rigida morale con una forte venatura calvinista, e un testimone difficile. Non sarebbe stato sorprendente se avesse preferito considerare gli Shimmy animali anziché umani. Ma ci doveva essere dell'altro. C'erano miliardi di uomini sulla Terra che condividevano quell'opinione. Perché Deirdre Walsh avrebbe trascinato quaggiù Russell Grenville da dovunque si fosse trovato, a un costo da capogiro, da qualche posto sperduto nel bel mezzo del nulla a milioni di miglia dalla Terra, a meno che non ci fosse dell'altro? Sally sospirò e tornò alle ricerche. Da dove l'aveva ripescato l'avvocato della difesa? Lo Sciame Egizio. Tredici mesi prima era partito con una spedizione per la regione dello Sciame Egizio, per catalogarne e analizzarne gli elementi
periferici. Sally richiamò un rimando. Aveva avuto ragione, era davvero nel bel mezzo del nulla. Lo Sciame era uno strano gruppo di asteroidi, con orbite differenti da tutto il resto del sistema solare. "Il piano comune delle loro orbite è a sessanta gradi dall'eclittica..." Cos'era l'eclittica? La risposta richiese altri dieci minuti, ma non aveva scelta. Leon Karst aveva una regola: "Mai fare una domanda a un testimone se non sai qual è la risposta. E mai portarmi un fatto che non sei in grado di spiegare, perché io potrei doverlo spiegare a un giudice e a una giuria". Un anno con lui le aveva insegnato che non scherzava. Continuò a leggere. Visitare lo Sciame Egizio richiedeva del tempo ed era molto dispendioso quanto a consumo di carburante. L'unica colonia considerevole era un avamposto minerario su Horus. Grenville aveva avuto intenzione di visitare lo stesso Horus? Da qualche parte nei database generali doveva esserci il suo piano di volo completo. Si fece strada a forza di contorsioni fra le banche di riferimenti incrociati, saltando da un indice all'altro. Dopo un'altra mezz'oretta trovò il profilo della missione. Era partita con l'intenzione di esaminare il piano di volo, ma prima di farlo diede un'occhiata alla nota di carico. Quello che vi trovò la fece scattare in piedi di corsa in cerca di Leon Karst. «È solo metà della storia.» Leon Karst attraversava un punto morto di vitalità fra le otto e le nove di sera, ma una volta superatolo era pronto a lavorare fino all'alba. Ora aveva ripreso fiato. «Così Grenville aveva una mezza dozzina di scimpanzé di Schimmerhann sulla sua nave come parte dell'equipaggio. E si opponeva alla loro presenza.» «Sto facendo cercare a Richard una copia di quell'opposizione.» «Va benissimo, dobbiamo farlo per completezza. Ma non abbiamo grosse speranze. Sarà un atto formale. Diamine, indipendentemente da quello che dice degli Shimmy, non giustificherebbe il fatto di riportare quaggiù Grenville con un'orbita iperbolica, e non preoccuparti di cercarlo, so che significa: che bisogna spendere del denaro, a palate, per andare da qui a lì.» Guardava con disappunto lo schermo di proiezione, dov'erano elencati l'equipaggio e la nota di carico della nave di Grenville. «Sai che ti dico? Deirdre Walsh ha qualcos'altro nella manica. Qualcosa che ha a che fare con Grenville e gli Shimmy della sua missione.» Leon Karst era sposato, con tre figli. Sally l'aveva sentito parlare della famiglia dozzine di volte, ma non aveva mai pronunciato il nome della
moglie con l'intensità che aveva messo nel dire: «Deirdre Walsh». «Se non ha qualcosa di speciale» proseguì «ormai si sarebbe già fatta viva, proponendo un incontro di fine settimana e magari un accomodamento extragiudiziale. Ho osservato il giudice e il resto della corte, e li abbiamo conquistati alla nostra causa. In effetti lo abbiamo fatto la settimana scorsa. E anche Deirdre, come me, vede da che parte soffia il vento. Dovrebbe strisciare sul ventre. Ma dato che non lo fa...» «Che facciamo?» «Ci piacerebbe scoprire cos'è successo sulla nave di Grenville. Ho già fatto una chiamata a Phil Saxby, all'USF, ma c'è una coltre di silenzio su tutto ciò che ha a che fare con quella missione. Sappiamo dove sono andati e chi è andato, ma questo è tutto. Non ho entrature al livello giusto. Sapevi che il fratello di Deirdre Walsh lavora per l'USF, quasi al vertice? Neanche da domandarsi da dove vengono le sue informazioni. L'unica cosa che ho accertato è che Grenville arriva sulla Terra non prima di domenica notte. Non abbiamo nessuna possibilità di farlo intercettare da qualcuno prima della testimonianza.» «Insomma, non riesci a scoprire cosa sta succedendo?» «Lo scoprirò senz'altro. Lo scoprirò quando il capitano Russell Grenville, accidenti alle sue brache della Marina, si alzerà in piedi nell'aula lunedì mattina e lo dirà a me e al resto dell'universo.» Karst guardò torvo Sally. «Pensavi di aver visto dei giornalisti ficcanaso oggi? Aspetta lunedì mattina, Sal. Tappezzeremo i muri di lasciapassare per la stampa.» All'inizio Sally credette fosse un accesso di rabbia. Solo in seguito, piombando a letto alle 4 del mattino, riconobbe cos'era stata l'espressione di Leon Karst. Era in preda a un immenso, viscerale entusiasmo. Domenica pomeriggio perfino Leon Karst era disposto ad ammettere che avevano fatto tutto quello che potevano in termini preparatori. Cedendo alle insistenze di Sally, lui si convinse a farsi portare nella vecchia tenuta della Virginia, trenta chilometri a est della città, al quartier generale della Lega per i Diritti degli Animali. Per lui era la seconda visita, per lei la venticinquesima. A Sally quell'area boschiva di cento acri pareva più una prigione che la sede principale di un'organizzazione senza fini di lucro. C'era una recinzione a rete alta e robusta, sormontata da un filo elettrificato, e l'ingresso era difeso da pesanti cancelli di metallo. Gli uomini e le donne di servizio erano dotati di dispositivi elettronici di comunicazione e pistole stordenti.
Forse non una prigione, pensò Sally mentre superavano l'ispezione e venivano fatti entrare dalla guardia in uniforme. Più che altro una fortezza assediata. Quasi subito videro i primi Shimmy, che gironzolavano liberi per i boschi sotto il sole tiepido di ottobre. Leon aprì il finestrino dell'auto e sporse la testa per osservarne un gruppo di cinque che camminavano lungo il bordo erboso. «Somigliano proprio a degli scimpanzé, vero?» disse. «So che sono un po' più alti e robusti, ma non si distinguono.» «Questo è un aspetto del problema» disse Sally. «Se non conosci gli Shimmy e non hai interagito con loro, non puoi evitare di ritenerli veri e propri scimpanzé. In effetti, per quel che ne so, quello è un gruppo di scimpanzé. È difficile per noi dire qual è la differenza. E questo mette la gente a disagio.» «Puoi scommetterci. Appena faremo ottenere agli Shimmy i diritti umani, e lo faremo, indipendentemente da quello che dice Russell Grenville, avremo un nuovo problema. Come farà un individuo medio a sapere se ha a che fare con uno Shimmy o con un normale scimpanzé? E lo sai dove ci porterà questo. Esattamente dove vuole farci arrivare la Lega per i Diritti degli Animali.» «Secondo loro anche i normali scimpanzé sono abbastanza intelligenti da meritare i pieni diritti. Sai che sulla costa occidentale ci sono degli scimpanzé con un vocabolario operativo di quattrocento parole?» «Già. E gorilla.» L'auto si fermò, ma Leon restò seduto al suo posto. «E oranghi. Prima che entriamo ti dirò una cosa, Sally. Faremo del nostro meglio per vincere questa causa, ma il problema di tutte le cause del genere è che non finiscono mai. C'è sempre un inizio. Otterremo i pieni diritti per gli Shimmy, poi ci saranno i diritti umani per gli scimpanzé, poi i diritti dei babbuini, poi i diritti dei cani e dei gatti. Questa gente non si fermerà mai. E se pensi che me ne starò in aula a perorare i diritti delle ostriche...» Potresti, Leon... se la tua controparte fosse Deirdre. Ma Sally non disse nulla. All'interno dell'edificio principale si sentiva uno strano odore, come un incrocio fra un ospedale e uno zoo. Leon Karst storse il naso. Era venuto per assecondare Sally, ma non finse di trovarsi a proprio agio. «L'impegno intellettuale verso un cliente è giusto, Sally» aveva detto, quando era iniziata la causa. «Anzi, è assolutamente essenziale, anche se si tratta di un caso pro bono e non veniamo pagati. Ma il coinvolgimento
emotivo nella causa dei clienti è la cosa peggiore che possiamo fare per loro. Obnubila il giudizio. Per questo non credo sia una buona idea passare troppo tempo con gli Shimmy.» Ma non aveva obiettato quando Sally aveva preso a fare visite regolari a questa struttura. Lei era convinta di dover comprendere di persona quanto potesse essere intelligente uno Shimmy. Le ci volle un po' per rendersi conto di una verità fondamentale: gli Shimmy erano di intelligenza variabile proprio come gli umani. In una popolazione di seicento esemplari al quartier generale della Lega per i Diritti degli Animali, Sally aveva incontrato Shimmy che sapevano chiedere a segni cibo e acqua e poco di più. Ma c'era anche Skeeter, uno Shimmy femmina che sapeva il nome di tutti gli umani del quartier generale, che amava fare battute e giochi di parole in Ameslan, il linguaggio gestuale dei sordomuti, e che sembrava afferrare in fretta le idee come tutti gli umani. E Skeeter era ancora immatura, in fase di sviluppo. C'era proprio lei ad attenderli dentro, vicino alla porta. Sally la riconobbe, anche senza la cintura identificatrice col codice a colori. Per gli Shimmy non aveva senso portare dei vestiti, ma a molti di loro tornava comodo tenere un borsello appeso alla vita. «Ben tornata» disse Skeeter a gesti, lentamente, conoscendo i limiti di Sally nella padronanza del linguaggio Ameslan. «Saluta il signor Karst da parte mia. Come va la causa?» Skeeter era in tutto e per tutto uno scimpanzé, a parte l'espressione degli occhi bruni. Quell'espressione, per Sally, la rendeva del tutto umana. «La scorsa settimana è andata bene.» Parlava molto lentamente e chiaramente, anche se nel caso di Skeeter non era proprio necessario. «Ma domani la controparte inizia a presentare i propri argomenti. Non sappiamo cosa diranno.» «Magari io li.» Fece un segno per indicare una battuta. «Essere testimone.» Sally le ricambiò il sorriso e si rivolse a Leon Karst. «Skeeter dice che vorrebbe poter comparire in aula, e testimoniare a nostro favore.» «Certo. Dille...» Leon si interruppe e scosse la testa. Sorrise allo Shimmy. «Scusa, Skeeter. Dimentico che tu capisci. Anch'io vorrei che tu potessi testimoniare. È una pecca del nostro sistema legale. A meno che tu non abbia diritti umani, non puoi essere utilizzata come testimone, anche se la tua testimonianza è proprio quel che ci serve per assicurarti quei diritti.»
«Di' lui che capisco» gesticolò Skeeter a Sally. «Signor Karst non a proprio agio qui, vero? Di' lui noi tutti ringraziamo per suo lavoro. Sappiamo lui vince per noi. Porta lui via ora, tieni suoi pensieri allegri per domani.» E se questa non è sensibilità umana (o sovrumana), pensò Sally, non so cos'è. «Prima dobbiamo salire di sopra, Skeeter, e parlare con l'avvocato generale...» «Chi "avvocato generale"?» Skeeter pronunciò a voce le parole, sillaba per sillaba. «L'avvocato generale è il massimo legale della Lega per i Diritti degli Animali. Vorrà sapere cosa attendersi per domani.» «Anch'io. Buona fortuna.» «Grazie.» Sally ricambiò il gesto che stava per "buona fortuna", uno delle poche dozzine che riusciva a fare con facilità, e guidò Leon all'ascensore. E dato che non sappiamo cosa attenderci per domani, pensò, ci occorre tutta la fortuna possibile. Leon Karst ci aveva azzeccato in quasi tutte le sue previsioni. Né Sally né alcun altro nell'ufficio era riuscito a saperne di più sulla missione di Russell Grenville nello Sciame Egizio e sui risultati. Un controllo allo spazioporto di Wallops Island alla domenica sera rivelò solo che Grenville vi era atteso per mezzanotte, e sarebbe stato condotto in tribunale in tempo per l'udienza di lunedì. Deirdre Walsh non chiamò neanche una volta durante il fine settimana, per proporre negoziati di accomodamento o per qualsiasi altro motivo. Ma su due punti Leon Karst aveva torto marcio. Il primo era che il capitano Russell Grenville non si alzò in piedi nell'aula lunedì mattina. Non poteva. La sala delle udienze era stipata al massimo dalle 8.30. Il giudice Williams e gli altri due membri del tribunale erano ai loro posti alle 8.55. Alle 8.59 si aprirono le porte delle stanze occupate dall'Attarian Corporation e dal loro rappresentante legale. Entrarono due uomini. Trasportavano una tavola piatta e imbottita, sulla quale se ne stava ritto il capitano Russell Grenville. Era privo di braccia e di gambe. La testa grossa e la barba erano inequivocabili. Ma le spalle larghe non sostenevano più braccia muscolose, e le gambe lunghe e forti erano state asportate fino alle anche. E, contrariamente alla predizione di Leon Karst, Russell Grenville non
iniziò a testimoniare alle nove. Ci vollero quindici minuti per sedare gli strilli, le urla e il caos generale che scoppiò all'ingresso di Grenville. Una donna e un uomo svennero e dovettero essere trasportati fuori, un altro fu espulso con la forza, mentre gridava slogan incomprensibili. Sally non riuscì a capire a favore di quale delle due parti. Nel bel mezzo della confusione, Leon Karst si chinò verso di lei. «È così che si fa, se sei Deirdre Walsh.» Parlava a bassa voce, ma avrebbe potuto urlare senza per questo attirare l'attenzione. «Vedi, adesso non importa cosa dice Grenville. Ha la simpatia di tutti i presenti in aula, anche i membri della corte. Cercheranno di essere obiettivi, ma sono umani. Di colpo la nostra causa va a puttane.» Aveva gli occhi lucidi, per l'ammirazione, non per l'emozione. (Sally si ricordò quello che le avevano detto quando era stata assunta: «Leon lascia le emozioni fuori dall'aula. Lì ha un principio guida: "Ciò che conta nella pratica legale sono l'onestà, il decoro e la sincerità. Appena impari a fingerli, il gioco è fatto"».) «Che possiamo fare, Leon?» Lui alzò le spalle. «Stare giù. Ascoltare, osservare, pensare. Ma potremmo finire a fondo. A meno che non salti fuori qualcosa di nuovo, non sono così stupido da controinterrogare Grenville.» Sally si rese conto di come sarebbero state gestite accuratamente l'apparizione e la testimonianza di Grenville quando venne ristabilito l'ordine e al teste toccò giurare. Deirdre Walsh si rivolse al giudice e disse semplicemente: «Vostro Onore, il capitano Grenville non ha mai detto altro che la verità. Spero questo sia sufficiente». Lasciò al pubblico (e alla corte) il compito di capire che in questo caso era improponibile la pratica consueta da parte del testimone di alzare la mano destra nel giuramento. Russell Grenville si erse col busto sulle imbottiture. Era impossibile capire dal suo volto se quello che gli era accaduto avesse influito sulla sua mente. «Capitano Grenville» cominciò tranquilla Deirdre Walsh, parlando così piano che l'aula tacque per ascoltarla. «Mi permetta di chiederle innanzi tutto di confermare alcuni dettagli della sua storia personale.» La donna iniziò con la lista di tutto quello che lui aveva realizzato, le stesse cose che aveva letto Sally due notti prima. Ci vollero parecchi minuti. Russell Grenville si limitò a dire: «Esatto» o «È così» quando gli veniva chiesta conferma di un fatto o di un premio. Ma alla fine l'aula stava col
fiato sospeso. «Benissimo» disse Deirdre Walsh. «Ora vorrei porle certe domande sulla sua spedizione più recente. Capitano Grenville, concorderebbe nell'affermare che questa non sarebbe dovuta essere una missione particolarmente pericolosa? Che forse i partecipanti a tale missione erano più preoccupati per la possibile noia che per una catastrofe?» «Nell'esplorazione del sistema solare c'è sempre un elemento di pericolo.» La voce di Grenville era calma e razionale, eppure quella sua voce che proveniva dal profondo del petto in qualche modo rendeva ancora più evidente per l'ascoltatore il corpo tronco che la circondava. «Comunque, concorderei sul fatto che non ritenevo il pericolo l'elemento principale della missione.» «E per questa ragione ha permesso che nell'equipaggio della sua nave fosse incluso un gruppo di scimpanzé di Schimmerhann?» «Infatti.» «Ma sarebbe corretto o no affermare che lei si opponeva alla loro presenza?» («Lo sta portando dove vuole lei!» bisbigliò Sally. «Sicuro» replicò Leon Karst, altrettanto a bassa voce. «Ma a volte si fa obiezione, altre no. Per il momento stiamo a sentire.») «Mi sono opposto parecchio. Oralmente e per iscritto.» Per la prima volta nella voce di Grenville apparve una connotazione emotiva. «Le spiacerebbe spiegare alla corte le basi delle sue obiezioni?» «Non mi spiacerebbe affatto. La nave che comandavo, la Poseidon della serie Ecuba, richiede un equipaggio di otto membri e un computer di comando centrale. Questo è più che abbastanza per una guida efficiente del vascello. C'è spazio in abbondanza, ma in linea di principio dovrebbe essere riservato al carico. Mi è stato richiesto di aggiungere al solito effettivo di equipaggio sei scimpanzé di Schimmerhann, e valutarne il possibile impiego nell'ambiente spaziale. Dichiarai verbalmente che era mio compito intraprendere una missione seria, con obiettivi seri. Non avevo alcun interesse a dirigere uno zoo spaziale, di Shimmy o altra roba.» Mentre l'aula risuonava del brusio eccitato provocato dalla risposta, Leon Karst si rivolse a Sally scuotendo la testa: «Potremmo obiettare all'implicazione che gli Shimmy siano animali da zoo. Ma non è il momento». «E lei ha permesso che i voleri dei suoi superiori la spuntassero sul suo buon senso?» continuò Deirdre Walsh, mentre il brusio si spegneva. «Sono un membro della Marina Spaziale. Come tale credo sia meglio
per tutti obbedire agli ordini, piuttosto che seguire un capriccio individuale. Tutti gli ufficiali della Marina che la pensino diversamente dovrebbero dare le dimissioni.» In altre parole, si disse Sally, l'ho fatto perché era mio dovere, non perché pensavo fosse una buona idea. Nell'aula zeppa si era fatto di nuovo un silenzio di tomba. «Ora, se vuole, ci parli del suo viaggio nello Sciame Egizio. I sei scimpanzé di Schimmerhann sono stati con lei per più di un anno. Ha imparato a lavorare con loro in quel lasso di tempo?» Grenville esitò per un momento. «Sì. Io personalmente e diversi componenti del mio equipaggio. Ma non nel modo che ci aspettavamo prima dell'inizio del viaggio. L'equipaggio si rifiutava di accettare l'idea di imparare il linguaggio gestuale degli Shimmy. E io non ritenevo fosse mio dovere insistere perché lo facessero. Gli Shimmy comprendevano gli ordini verbali...» «Semplici ordini verbali?» «Semplici ordini verbali, esattamente.» (Giusto, Grenville, disse Leon Karst, così ad alta voce da farsi sentire da Sally. Come da copione.) «Quel che bastava a eseguire semplici compiti di bordo. E uno dei componenti del mio equipaggio escogitò un sistema che utilizzava una videocamera e il computer principale della nave, e che consentiva ai segni del linguaggio gestuale di essere tradotti sotto forma sonora.» Il giudice Williams si sporse in avanti. «Mi scusi, capitano.» La sua voce era amichevole, quasi deferente. «Intende dire che ogni qualvolta uno Shimmy faceva un cenno nella telecamera, nel computer era immagazzinato una sorta di dizionario di gesti che veniva utilizzato per produrre equivalenti nel linguaggio parlato?» «Esattamente, Vostro Onore. Dovrei sottolineare che questo richiese considerevoli cambiamenti nel linguaggio gestuale standard degli Shimmy, per dar modo al computer di effettuare la traduzione. Dopo nove mesi trascorsi nello spazio, il sistema aveva raggiunto una formula soddisfacente. Potevo usarlo io stesso, anche se non ero l'esperto dell'equipaggio.» «E a quell'epoca cosa facevate?» «Avevamo raggiunto gli elementi periferici dello Sciame Egizio ed eravamo presi dal lavoro di analisi. Un certo numero di corpi più piccoli contiene depositi di prima qualità di minerali preziosi, ma non sono mai stati inventariati. Siamo stati impegnati in quel lavoro per i successivi due mesi.»
«E gli scimpanzé di Schimmerhann» come sempre l'avvocato dell'Attarian Corporation sottolineava quel termine, non li citava mai come Shimmy «vennero impiegati nel lavoro di analisi?» «Neanche per sogno. È un lavoro che richiede preparazione scientifica. L'avrei affidato solo al mio equipaggio.» Grenville esitò, quindi aggiunse: «Comunque, occasionalmente, uno o due scimpanzé di Schimmerhann accompagnavano dei componenti dell'equipaggio sulla scialuppa. Cioè il piccolo modulo di esplorazione con libertà di volo ospitato dalla nave principale...» «Ma gli scimpanzé di Schimmerhann non dovevano ricoprire alcun ruolo attivo, vero?» interruppe Deirdre Walsh. Sally aveva la sensazione che Grenville per un attimo si fosse mosso su un terreno non concordato. Ne prese nota per discuterne in seguito con Leon Karst. «Non nella guida della scialuppa. Erano a bordo, se vuole, come sovraccarico.» «Benissimo. Ora, capitano Grenville.» Deirdre Walsh abbassò la voce di una tonalità. «Ora purtroppo dobbiamo occuparci di qualcosa che le risulterà di dolorosa memoria. La prego di descrivere a questa corte le terribili ore finali a bordo della sua nave, come le ricorda.» «Benissimo.» Grenville si schiarì la gola. Quando riprese aveva la voce perfettamente ferma, ma nonostante questo l'aula fu percorsa da un fremito d'impazienza. «Avevamo esaminato un minuscolo frammento che orbitava assieme a Bast, uno dei più grossi elementi dello Sciame, dal diametro medio di undici chilometri. Eravamo pronti a fare rotta su Atmu, e lungo la strada avrei proposto una visita su Horus, per scaricare forniture mediche nella colonia mineraria laggiù. Era l'inizio della nostra giornata lavorativa. Io e tre membri dell'equipaggio ci trovavamo nella parte anteriore della nave. Il resto dell'equipaggio dormiva nelle cuccette a poppa. Gli scimpanzé erano tutti a mezzanave, in un compartimento di carico modificato. Io stavo iniziando la sequenza di controllo per una variazione di assetto di volo per dirigerci a bassa spinta su una traiettoria di approccio a Horus, e mentre ero chino sul pannello di controllo ricevetti un violento colpo alla testa da dietro.» Grenville alzò il viso verso l'alto e roteò il capo da un lato e dall'altro. Sally Polk intuì che in realtà Grenville voleva sfregarsi la nuca con una mano inesistente. «Feci per voltarmi, ma prima di aver compiuto un mezzo giro, fui colpi-
to di nuovo, anche più forte. Così persi i sensi.» «Cos'altro ricorda di quel che accadde sulla nave?» «Sulla nave? Non ricordo niente. Soltanto di essermi svegliato nella postazione medica di emergenza di Horus. Con me c'erano due membri dell'equipaggio. Eravamo tutti... in queste condizioni.» Grenville girò la testa, per guardare le maniche vuote della giacca. «Dove sono adesso quei membri dell'equipaggio?» «Sono ancora tutti su Horus. A tempo debito dovrebbero essere portati sulla Terra. Dovremmo essere tutti dotati di protesi. Ho sentito che al giorno d'oggi fanno cose fantastiche con le protesi.» «Si prevede che gli altri due sopravviveranno?» «Oh sì, sopravviveremo tutti, sfortunatamente.» L'impatto fu nelle sue parole, non nel tono posato. Sally si sentì male. Due settimane prima Russell Grenville era stato un uomo completo, sano e forte. Ora... «Che è successo agli altri membri dell'equipaggio?» chiese gentilmente Deirdre Walsh. «E agli scimpanzé di Schimmerhann?» «Non ne sono sicuro. Potrebbe essere solo una congettura.» Grenville annuì a Leon Karst, anticipando tutte le possibili obiezioni. «Ma è una congettura, signora, basata su un'ottima evidenza. Innanzi tutto, siamo giunti su Horus con la nostra piccola scialuppa, non con la nave. È un miracolo che ce l'abbiamo fatta, perché ormai non avevamo che le ultime briciole di energia. La stessa nave principale non è stata ritrovata, anche se è in corso una ricerca in tutto lo Sciame Egizio.» «Allora forse gli altri membri dell'equipaggio potrebbero ancora essere vivi su quella nave?» «Assolutamente no. Ognuno di noi portava dispositivi di trasmissione dei segnali vitali, che trasmettevano su frequenze selezionate e con segnali di identificazione in codice. Continuano a funzionare finché chi li ha addosso è vivo, e hanno energia sufficiente a restare attivi per anni. Gli altri membri dell'equipaggio sono morti.» «E gli scimpanzé di Schimmerhann. Anche loro avevano dispositivi di segnalazione?» «Non lo si riteneva necessario. O appropriato.» «Allora gli scimpanzé di Schimmerhann potrebbero essere ancora vivi?» Deirdre Walsh guardò Leon Karst di traverso. «Prima che il mio collega obietti che la domanda è capziosa o ipotetica, mi si permetta di chiedere al capitano Grenville di commentarla secondo il suo modo di vedere le cose.»
«Grazie, avvocato» disse il giudice Williams. Ma il tono di biasimo nella sua voce era lieve. «Certo che potrebbero essere vivi» disse Grenville. «Ma sono propenso a credere siano morti. Di certo uno lo è. Abbiamo avuto alcuni problemi disciplinari con tutti loro per una settimana o due. Non gradivano alcuni dei loro incarichi e li svolgevano sempre peggio. Credo si siano arrabbiati per le punizioni e siano passati all'attacco senza preavviso. Sono certo che abbiano sopraffatto l'equipaggio e preso il controllo della nave. Hanno ucciso qualcuno e fatto... quello che hanno fatto...» Fece un lungo respiro, per contenersi. «...al resto di noi. Poi ci hanno messo nella scialuppa e ci hanno spediti fuori a morire. Ma anche loro erano nei guai, perché pilotare la nave andava oltre le loro possibilità. A questo punto potrebbero essere lì che farfugliano lanciati verso Sirio, senza avere idea di come spegnere la propulsione.» «E cosa direbbe, capitano Grenville, se le chiedessero di nuovo di comandare una nave con degli scimpanzé di Schimmerhann come parte dell'equipaggio?» Grenville sorrise stanco e si prese tutto il tempo di guardarsi attorno nell'aula. «Non crede sia una richiesta piuttosto improbabile, date le mie attuali condizioni, avvocato? Ma le risponderò. Direi di no. Direi no, decisamente no. Direi mai, direi neanche sotto pena di una corte marziale o qualsiasi altra pena le venga in mente. Non mi permetterò mai più di trovarmi in una situazione in cui uno scimpanzé di Schimmerhann sia in condizione di farmi del male». Deirdre Walsh gli si mise giusto di fronte. «Perciò, sulla base della sua esperienza, direbbe che gli scimpanzé di Schimmerhann non sono altro che animali, e per giunta animali feroci e inaffidabili?» Dopodiché, prima che Leon Karst potesse far sentire la sua obiezione: «Ritiro la domanda. Grazie, capitano Grenville. Lei è un vero eroe. Non ho altre domande, Vostro Onore». «Grazie, avvocato.» Il giudice Williams consultò l'orologio. «Capitano Grenville, abbiamo ancora molte ore a disposizione oggi. Ma so che è appena giunto sulla Terra, e questa rievocazione dei fatti dev'essere stata una prova spaventosa per lei. Voglio esprimere l'apprezzamento di questa corte per la sua testimonianza. E voglio chiederle se ha bisogno di riposo, prima che acconsentiamo il controinterrogatorio. Devo aggiungere che, date le insolite circostanze della sua apparizione in questa sede, l'avvocato della parte ricorrente ha il diritto di rimandare a domani il controinterrogatorio.»
«Preferirei continuare adesso» disse Grenville. «Se l'avvocato dei ricorrenti è disponibile.» Tutte le teste dell'aula si voltarono verso Karst. Lui diede una rapida occhiata in tralice a Sally Polk (Fregato, dannato se lo sono e dannato se non lo sono) e si alzò in piedi. «Grazie, capitano. Ho solo poche domande. E grazie, Vostro Onore, per aver sottolineato il diritto dei ricorrenti di aggiornare a domani parte del controinterrogatorio.» Si spostò di fronte a Grenville, bloccando al capitano la vista di Deirdre Walsh. «Capitano, c'è un punto della sua testimonianza che non mi convince. Se la cito correttamente, lei ha dichiarato a proposito dello stato di morte degli Shimmy a bordo della sua nave: "Di certo uno lo è". E ha accennato a questo in relazione a problemi disciplinari a bordo. Devo dedurre che uno Shimmy è stato messo a morte sulla nave?» «Certamente no» replicò Grenville senza esitazione. «Non ho messo a morte nessuno Shimmy. Comunque, dichiarerei senz'altro il mio diritto di farlo per salvare un membro dell'equipaggio.» «Allora su che basi poggia il suo commento?» «Uno degli scimpanzé di Schimmerhann era sulla scialuppa giunta su Horus. In quel momento nessun membro sopravvissuto era in sé, ma i minatori videro cosa ci era stato fatto. Trassero le proprie conclusioni su cosa fosse accaduto sulla nave. Così processarono e giustiziarono quello scimpanzé di Schimmerhann a poche ore dal nostro arrivo.» L'aula fu attraversata da un sussulto e da un fremito, ma Leon Karst stava già proseguendo: «"Processo ed esecuzione"... Sta dicendo, capitano, che i minatori riconobbero l'umanità dello Shimmy?» «Ho usato il termine sbagliato. Hanno abbattuto lo Shimmy.» «Allora mi permetta di farle un'altra domanda. Lei ha vissuto a stretto contatto con un gruppo di Shimmy per più di un anno. Ha avuto la possibilità di osservarli. Ha notato grosse variazioni nell'intelligenza degli Shimmy?» «Vostro Onore.» Deirdre Walsh andò a frapporsi tra Karst e la corte. «Spero questo sia rilevante. Abbiamo avuto testimonianze ad nauseam sull'intelligenza, o la sua assenza, degli scimpanzé di Schimmerhann. Non vedo cosa si possa aggiungere a questo punto.» Il giudice Williams annuì e disse: «Il suo commento è agli atti. Capitano Grenville, la prego, risponda alla domanda».
Ma Grenville esitava: «Variazioni nell'intelligenza. Intende fra uno Shimmy e l'altro, signor Karst?» «Intendo esattamente questo.» «Allora sì. Tre di loro, l'equipaggio li chiamava Pip, Wilfred e Squeak, erano molto stupidi. Capaci di seguire solo le direttive più semplici. Ma uno degli altri, Skip, era... be'...» «Era più intelligente degli altri?» «A quanto pareva era più vigile. Non userei la parola intelligente. Più... spero di non essere frainteso se dico che l'equipaggio trovava che comprendesse meglio le istruzioni. Di certo era più reattivo, a mio avviso, di un qualunque cane pastore ben addestrato.» «Benissimo. Ci potrebbe dire con qualche dettaglio in più quali erano le funzioni degli Shimmy sulla sua nave?» «Varie. Tutti gli scimpanzé di Schimmerhann si occupavano delle pulizie e della manutenzione generale. Due di essi avevano dei compiti semplici nella cambusa. Uno aveva l'incarico di assistente del medico di bordo. Un altro dava una mano alla preparazione di campioni per l'analisi minerale.» Grenville tornò a guardare i membri della corte. «Voglio chiarire che in tutti i casi le funzioni degli Shimmy erano controllate e verificate da membri umani dell'equipaggio. Ho insistito su questo.» «Anche se non era necessario?» «A mio avviso, era sempre necessario.» «Molto bene. Capitano Grenville, lei era privo di sensi quando la scialuppa giunse su Horus. Sa per caso quale degli Shimmy si trovasse a bordo?» «Ritengo di sì. Ho visto la sua fascia di identificazione, dopo che venne spaziato.» «Spaziato?» «Gettato fuori da un portello a tenuta d'aria dai minatori. A meno che per qualche ragione due Shimmy non si siano scambiati i documenti d'identità, quello giunto su Horus a bordo della scialuppa era Skip.» «Lo Shimmy più intelligente?» «Obiezione. Vostro Onore, il capitano Grenville ha espressamente dichiarato che la parola "intelligente" è inappropriata.» «Ritiro la domanda. La sostituirò con questa. Lei ha affermato che, quando la scialuppa è giunta su Horus, "è un miracolo che ce l'abbiamo fatta, perché ormai non avevamo che le ultime briciole di energia". Ora, non è possibile che il miracolo sia avvenuto perché Skip, il più vigile e
reattivo degli Shimmy, abbia dato una mano nel guidare l'avanzata della scialuppa verso Horus?» Grenville scosse la testa. «Signor Karst, quasi tutto è possibile. Avrebbe dovuto chiedermi se è probabile. In tal caso, posso assicurarle che è estremamente improbabile che Skip abbia dato alcuna mano nell'arrivo della scialuppa su Horus.» «Ma non è impossibile. Capitano, un'ultima domanda. La mutilazione e le ferite da lei subite sono tremende, davvero terrificanti. È difficile immaginare esseri così depravati da infliggerle. Ha mai sentito accennare, da qualsiasi parte, che gli Shimmy potessero essere dei tali demoni?» «No, signore.» Grenville scosse leggermente le spalle. «Ma io sono qui. E due componenti del mio equipaggio sono conciati come me. Un demone si rivela per quel che è solo quando si comporta da tale.» «Ma noi non diamo un simile giudizio senza una prova diretta. Grazie, capitano.» Leon Karst annuì a Grenville, si girò e si rivolse alla corte. «Vostro onore, fino a venerdì pomeriggio non avevamo la minima idea di chi sarebbe stato il testimone odierno. Il capitano Grenville è giunto sulla Terra solo la notte scorsa. Non abbiamo una documentazione relativa alla sua testimonianza, né alcuna informazione circa l'esistenza stessa di tale documentazione. Con il suo permesso, mi piacerebbe chiedere alla difesa di rendermi disponibili le suddette informazioni per poterle esaminare. E vorrei posporre l'ulteriore controinterrogatorio alle nove di domattina.» Sally Polk non riusciva a capire cosa stesse accadendo. Con la causa che sfuggiva al loro controllo e Russell Grenville che dominava l'aula, quella notte l'atmosfera negli uffici di Leon Karst avrebbe dovuto essere di tristezza e sconforto. Invece Karst scoppiettava di energia ed entusiasmo. Sedeva di fronte a Sally, dietro un mucchio di trascrizioni, nastri e fotografie, con un sigaro spento in bocca. Deirdre Walsh, prevedendo la richiesta di informazioni da parte di Karst, aveva inviato una montagna di dati alle cinque, entro il tempo massimo previsto dalla corte, e ora ci stavano dando una prima ripassata. «Dobbiamo rivedere tutta questa roba pezzo per pezzo prima di domattina» disse allegramente Karst. «E lo faremo. Ma dall'indice di quello che ci hanno dato manca almeno una cosa che potrebbe servirmi. Quanto ci mette un messaggio ad arrivare alla colonia mineraria di Horus?» «Non ne ho idea.» «Neanch'io. Scoprilo. Se è meno di poche ore, invia un messaggio a Ho-
rus con richiesta di trasmettere attraverso un canale video tutto il materiale che hanno che mostri il processo e l'esecuzione dello Shimmy. Suoni e immagini. Pagheremo tutti i costi. Notificherò alla corte e alla difesa che stiamo effettuando la richiesta, e chiederemo alla corte di usare come prova tutto quello che otterremo.» «Che cosa ne farai?» «Cercherò di ottenere un po' di simpatia per gli Shimmy da parte dell'aula. Sulla nota di carico sono identificati solo per numero, ma l'equipaggio di Grenville ci ha aiutato un bel po' dandogli dei nomi. Se siamo fortunati, la corte potrà essere testimone della morte del povero, indifeso Skip, non di una scimmia anonima. E l'altra cosa che dobbiamo fare è mettere in dubbio la versione di Grenville dell'accaduto. È troppo maledettamente carismatico.» Sally si alzò. «Leon, non mi hai detto che la prima regola del controinterrogatorio è di fare domande che permettano al testimone di rispondere solo sì o no?» «Certo.» «Ma oggi hai fatto al capitano Grenville domande che gli hanno permesso di affermare ogni genere di roba.» «Sicuro. Le circostanze alterano le cause. Accidenti se hanno alterato questa causa. Venerdì pomeriggio avevamo vinto. Oggi a mezzogiorno abbiamo perso.» Ma Leon Karst non aveva lo sguardo di un uomo che avesse appena perso una grossa causa. «Allora ho dovuto imbarcarmi in una grossa spedizione di pesca» continuò. «Ti ho detto che le cause si vincono con testimonianze dirette, non con controinterrogatori. Ma l'entrata in scena di Grenville ha cambiato le regole, per tutti noi. Non credo che per Deirdre questa sia una notte di tutto riposo. Sta sgobbando per passare al setaccio questo materiale, tanto quanto noi. Buona parte sarà arrivata domenica assieme a Grenville, e lei non ne sa più di me su cosa contiene. È come una partita a poker. Quando uno dei giocatori tira fuori un asso dalla manica, tutti incominciano a mordersi le unghie.» Andando avanti col lavoro, Sally si rese conto di qualcosa che avrebbe dovuto esserle evidente da un bel pezzo. A Leon Karst non importava niente degli Shimmy. L'unica cosa di cui gli importava era la causa. Avrebbe lavorato altrettanto duramente per la parte sotto accusa, se questa avesse interpellato il suo studio legale.
Eppure gli Shimmy erano intelligenti! Sally ne era convinta nel modo più assoluto dopo averli incontrati tante volte. Meritavano protezione e diritti. Allora, che intendeva in realtà Leon quando diceva di non volere troppi contatti con gli Shimmy? Che non voleva che la giustizia, la vera giustizia, interferisse con la sua lotta per vincere la causa! E per Deirdre Walsh quasi certamente era lo stesso. Ambedue erano ossessionati dalla battaglia legale e incuranti delle questioni in gioco e dell'etica. E quello era un comportamento "davvero umano"? Sally si chiese fino a che punto voleva essere socia di uno studio legale di punta. Impossibile non notare il cambiamento in meno di ventiquattr'ore. Il giorno prima i membri della corte avevano accolto calorosamente Leon Karst e la sua squadra, ostentando al contrario un certa freddezza nei confronti di Deirdre Walsh. Oggi, il giudice Williams era imperscrutabile come sempre, ma Laurel Garver, seduta come al solito alla destra del giudice, evitava perfino di guardare dalla parte di Sally e Leon Karst. Invece sorrideva a Russell Grenville e Deirdre Walsh. E, dato che i membri della corte avevano cenato insieme la sera prima, pensò Sally, l'atteggiamento della Garver rifletteva sicuramente il tenore delle discussioni a tavola. Il pubblico non cercava neppure di mascherare il proprio punto di vista. Leon fu fischiato quando si alzò per proseguire il controinterrogatorio. L'ordine fu ristabilito ben presto dal giudice Williams, ma tutti i volti dimostravano una soverchiante simpatia per Russell Grenville. Lo stesso capitano appariva diverso, pallido e stanco. Aveva la testa china, col mento poggiato su un busto che adesso sembrava rattrappito e patetico sull'imbottitura di supporto. «Buon giorno, capitano.» Grenville rispose con un breve cenno al saluto di Karst, ma guardò a stento l'avvocato sorridente. Come Sally, Leon Karst aveva dormito meno di due ore. Al contrario di Sally, pareva gli fossero più che bastate. Aveva i capelli pettinati, la camicia bianca stirata, il modesto fermacravatta di madreperla perfettamente centrato. A colazione aveva rivelato la sua strategia a Sally. Dato che quanto era noto sulla mutilazione di Grenville era così dannoso per la loro causa, era il momento di fare un salto alla cieca. La regola di Karst: lo spirito conservatore è giusto solo quando si vince. «Capitano Grenville» cominciò «vorrei tornare a qualcosa che lei ha det-
to ieri. Un componente del suo equipaggio aveva sviluppato un metodo per trasformare il linguaggio gestuale degli Shimmy in suoni. È esatto?» «Sì, è esatto.» «E quei suoni potevano essere interpretati?» «Da chi li conosceva. Non da tutti. I suoni sono una specie di stenografia fonetica.» «E lei li conosceva?» «In una certa misura. Meno di altri due membri del mio equipaggio, che ora sono morti.» Leon recuperò un dischetto di registrazione dal tavolo davanti a lui e lo mostrò al giudice. «Vostro Onore, faccio richiesta che questo sia ammesso nel procedimento come reperto n. 27. Consiste nella copia di un disco di registrazione trovato sulla scialuppa che trasportava il capitano Grenville e i membri del suo equipaggio quando sono giunti su Horus.» Sally vide Deirdre Walsh che si scambiava una rapida occhiata con i due assistenti. Erano riusciti a riesaminare il disco la notte prima con Grenville? Leon scommetteva di no, dato che il capitano era stato portato via per essere sottoposto a esami medici. «Capitano, riconosce questo disco?» «Tutti i dischi dei dati della Poseidon erano identici, a prima vista. Ma di sicuro riconosco che questo è del tipo di quelli che si trovavano a bordo.» «Ma lei non ha ascoltato questo disco?» «Come posso dirlo senza conoscerne il contenuto?» «Capitano, neanche noi siamo certi del contenuto di questo disco. Vorremmo farglielo ascoltare mediante auricolari. Potrà attivare il pulsante di accensione semplicemente muovendo la testa all'indietro. Le spiace ascoltare e interpretare il contenuto?» «Certo, potrei provare.» Deirdre Walsh si alzò a metà, lanciò un'occhiata al giudice e desistette. È fatta; si disse Sally. Spero di aver ragione, ma se mi sbaglio, mi sbaglio! Va tutto all'aria. La notte prima aveva sudato per cinque ore su quel disco, cercando di convertire una strana dorma di stenografia orale in qualcosa di pienamente articolato. Alla fine era riuscita a convincere Leon, ma era convinta lei stessa? «Dovrei spiegarvi» stava dicendo Leon Karst al pubblico e alla corte «che su questo disco ci sono l'ora e la data dell'ultima registrazione. L'ora naturalmente sarà confermata da fonti indipendenti, ma posso dirvi che la
registrazione fu effettuata tre giorni e mezzo prima dell'arrivo della scialuppa della Poseidon su Horus, ed esattamente tre ore dopo l'ultima trasmissione di routine dalla nave del capitano Grenville.» Aveva un tono pratico, ma Sally non riusciva a distogliere gli occhi dall'espressione di Russell Grenville. Leon stava per riportare quell'uomo a un frangente terribile, forse proprio quello in cui si era verificata la mutilazione. Eppure Grenville appariva del tutto stoico. Un supereroe. Quando una persona aveva già subito nella vita esperienze così devastanti, forse niente poteva farla crollare. E forse nessuno poteva screditarla. Gli auricolari erano stati sistemati, col testimone che se ne stava a occhi chiusi. I suoni che sentiva sul disco erano trasmessi a basso volume nell'aula: una serie di monosillabi lenti e aspri. Sally era stata costretta a trascriverli, uno per uno, quindi a collegarli per dargli un senso. Ma lui aveva un anno di pratica, e avrebbe potuto farlo al volo. «Petto male» si sentì dire dopo qualche istante. «Petto brutto.» (Allora lei aveva ragione, almeno sul primo punto! Sally si sentì pervadere da un'ondata di sollievo così intensa che quasi si perse la frase successiva.) La testa di Grenville scattò all'indietro per interrompere la registrazione. Aprì gli occhi di scatto. Rivolse a Deirdre Walsh uno sguardo allarmato, poi mosse la testa in avanti, spinto da un impulso irresistibile. «Nave morire... rompere» si sentì dire. «Cinque uomo morire, tre Shimmy morire. Tre uomo sonno, tre Shimmy svegli. Nave morendo, rompendo.» Di nuovo la testa barbuta scattò all'indietro. Grenville fissò Leon Karst: «Tutto ciò è autentico... una registrazione trovata davvero sulla scialuppa?» Aveva la voce rauca. «Secondo l'avvocato della parte imputata lo è. Sono stati loro a consegnarcelo.» Leon Karst annuì rivolto a Deirdre Walsh e le sorrise. Ma tu non l'hai ascoltato, vero, tesoro? E il capitano lo sta ascoltando per la prima volta. Grenville non riuscì a resistere. Mosse la testa in avanti e chiuse gli occhi concentrandosi mentre ripartivano quei suoni confusi. «Piccola nave. Piccola nave volare. Un uomo sì, due uomo sì, tre uomo no. Ma servire Shimmy. Tre uomo sonno, tre uomo piccolo, due Shimmy morire, uno Shimmy volare. Triste, dispiacere. Unica risposta.» I suoni del disco continuarono, ma Grenville stava aprendo gli occhi. «Prosegue, ma il messaggio si ripete.»
«E lo capisce, capitano?» «Capisco le parole, non il significato. È inintelligibile.» «Allora mi permette di offrirle un'interpretazione e vedere se lei è d'accordo?» Ma Deirdre Walsh si era alzata. «Vostro Onore, dobbiamo sprecare il tempo di questa corte per una sequela di suoni giustamente definiti inintelligibili? Il capitano Grenville ha sostenuto di non capirli, e lui è l'esperto. A che scopo ascoltare l'immaginazione dell'avvocato dei ricorrenti?» «Signor Karst?» Il giudice Williams fissava Leon con le sopracciglia sollevate. «Uno scopo molto importante, Vostro Onore. Se mi concede cinque minuti, non di più, credo che getteremo una nuova luce sull'arrivo del capitano Grenville su Horus.» «Allora proceda.» Il giudice alzò la mano aperta. «Cinque minuti.» «Grazie, Vostro Onore. Capitano Grenville, mi permetta di rivolgerle una domanda preliminare. Il fatto basilare più importante insegnato a tutti gli Shimmy è che la vita di un normale umano è sacra, molto più di quella stessa degli Shimmy. L'ha mai sentito?» «Molte volte. Ma questo non significa sia vero.» «Vedremo. Mi permetta di proporre una sequenza di eventi a bordo della sua nave. Lei viaggiava verso Horus quando si è verificata una catastrofe di gravi proporzioni. Forse un guasto interno della nave, forse l'impatto con un altro corpo. Lei perse i sensi. È possibile?» Grenville alzò le spalle con l'aria di voler tagliare corto. «Ero fuori combattimento, può supporre qualsiasi cosa.» «Lei e altri due membri dell'equipaggio, a prua della nave, perdeste i sensi. Il resto dell'equipaggio perse la vita in blocco. Anche tre Shimmy persero la vita, mentre gli altri tre, incluso Skip, erano incolumi. Ma la nave stava disintegrandosi, perdeva aria. «Petto male» come ci ha rivelato uno Shimmy «Nave morire... rompere. Cinque uomo morire, tre Shimmy morire. Tre uomo sonno, tre Shimmy svegli. Nave morendo, rompendo.» Questo è un quadro chiaro della situazione. Per tre Shimmy, intelligenti o meno, adesso non è il caso di discutere su questo punto, si trattava di salvare se stessi e tre umani privi di sensi. «Skip e gli altri devono averci provato, ma sfortunatamente era impossibile. La nave era condannata, e anche se la scialuppa era intatta - Piccola nave, piccola nave volare, come ci ha detto Skip - non aveva propellente ed energia sufficiente. Non per tre uomini e tre Shimmy. Poteva trasporta-
re solo la massa di due uomini e nessuno Shimmy, o un uomo e uno Shimmy, e arrivare alla men peggio su Horus. Ma niente di più. Gli Shimmy avrebbero potuto insaccare due umani sulla scialuppa e restare a bordo della nave, ma questo non avrebbe risolto niente, perché gli uomini erano privi di sensi e non avrebbero potuto pilotarla. Ed ecco di nuovo Skip che ci dice tutto: "Un uomo sì, due uomo sì, tre uomo no. Ma servire Shimmy. Tre uomo sonno, tre uomo piccolo, due Shimmy morire, uno Shimmy volare. Triste, dispiacere. Unica risposta." «In altre parole, la scialuppa poteva trasportare uno Shimmy per pilotarla, e tre uomini, ma tre uomini piccoli, tre uomini privi di sensi la cui massa era stata ridotta chirurgicamente al minimo possibile, fino a quella approssimativa di un uomo. "Triste, dispiacere. Unica risposta." ha detto Skip. Non una bella risposta, ma per i tre Shimmy, l'unica risposta. Non potevano sopportare il pensiero di uccidere un umano, di lasciar morire un umano che in qualche modo poteva essere salvato. Così hanno eseguito quella spaventosa chirurgia, sul capitano Grenville e gli altri due membri dell'equipaggio. Poi due Shimmy sono rimasti a morire sulla nave. L'altro Shimmy, Skip, il più abile di loro, ha pilotato la scialuppa e ce la fatta a stento ad arrivare su Horus, per citare il capitano, con "le ultime briciole di energia.". I tre passeggeri umani sono sopravvissuti.» Leon Karst si concesse una lenta occhiata all'aula, silenziosa ma irrequieta. «Questa, amici, è la vera storia della fine della nave, della mutilazione dell'equipaggio e dell'improbabile sopravvivenza del capitano Grenville. Gli Shimmy non si sono comportati da assassini. Sono stati dei salvatori, che hanno immolato le proprie vite perché i tre umani...» «Obiezione.» Deirdre Walsh era scattata in piedi e parlava in un'aula di colpo turbolenta. «Vostro Onore, è durata fin troppo. Questa non è una prova. Non conosciamo l'origine di questi messaggi o chi li ha creati. Abbiamo ascoltato qualcosa che è meno di una diceria! È pura invenzione. Faccio richiesta che l'ultimo intervento dell'avvocato dei ricorrenti sia escluso dagli atti.» Il giudice Williams annuì verso di lei, ma la sua attenzione era rivolta a Grenville: «Capitano» disse tra il baccano, senza cercare di smorzarlo «se la sua nave avesse subito un incidente, come ha suggerito il signor Karst, che possibilità c'è che venga recuperata?» «Nello Sciame Egizio? Molto piccola. Trascurabile.» «Accetta la ricostruzione degli eventi da parte dell'avvocato dei ricorrenti?»
«Io... credo di no.» Dopo l'analisi di Karst, Russell Grenville si era fatto esitante. Batteva rapidamente le palpebre. «Potrebbero esserci altri scenari che rientrano in un messaggio del genere.» I modi sobri di Grenville ispiravano una grande autorità morale. Il giudice annuì: «Signor Karst, sulla base dei commenti del capitano, sono costretto a convenire con l'avvocato della difesa. Per quanto ingegnose le sue speculazioni...» «Vostro Onore.» Leon Karst stava infrangendo una delle prime regole della pratica legale: mai interrompere un giudice. «Prima che lei prenda una decisione, la prego di considerare un altro elemento di prova. Ci vorrà solo un istante.» «È stato introdotto come reperto in questo procedimento?» «Non ancora. Non era possibile. È arrivato da Horus solo stamattina presto. Non abbiamo avuto tempo di renderlo disponibile per la difesa, anche se naturalmente ne riceverà una copia.» «Ne descriva la natura.» «È una ripresa effettuata da uno dei minatori, dell'esecuzione di Skip...» «Obiezione!» «...della morte dello Shimmy, Skip, su Horus.» Il giudice Williams si scambiò un'occhiata con gli altri due membri della corte, ma era una formalità. Gli si era accesa la curiosità. «Se è breve, può procedere.» «Se si può ridurre il livello d'illuminazione...» Leon Karst annuì a Sally, che aveva preparato il riproduttore per proiettare la ripresa su una parete dell'aula. Lo accese con un brivido. Leon rischiava tutto nei successivi sessanta secondi, che Sally aveva vagliato in oltre un'ora di ripresa ricevuta da Horus. L'aveva avvertito che per lei il linguaggio gestuale usato sulla nave di Grenville era inintelligibile, ma Leon doveva essere convinto che questa era la sua ultima possibilità di salvare la causa. Le immagini erano state riprese da un dilettante e trasmesse su un canale a bassa larghezza di banda. Granulose e piene di rumori di fondo, mostravano un gruppo di uomini agitati con le tute strette dei minatori. Fluttuavano nell'ambiente a bassa gravità della camera esterna di un asteroide. Avevano volti rabbiosi e spietati. Al centro c'era uno Shimmy, con la pelliccia bruna attraversata da tagli e macchie di sangue, e una gamba piegata in una strana angolazione. Lo trattavano malamente, spingendolo verso un portello a tenuta d'aria.
«Scimmia assassina» gridò una voce dal gruppo. «Esci da lì e vattene dritta all'inferno.» «Capitano Grenville.» Leon Karst parlò ad alta voce per superare il rumore della registrazione e il crescente tumulto dell'aula. «Qualcuno dei minatori di Horus capiva il linguaggio gestuale degli Shimmy?» «Ne dubito. Perché dovrebbero?» Grenville parlò a bassa voce, nervoso. «Allora può dirci cosa sta dicendo Skip?» Perché lo Shimmy, pestato e sanguinante, stava gesticolando freneticamente verso quegli uomini mentre veniva trascinato e spinto verso l'ingresso del portello stagno. Loro non si curavano dei suoi segnali frenetici, interrompendoli con pugni e ceffoni. «Credo di sì» disse Grenville. «Se posso guardare meglio... Ehm, credo... Non... uccidere. Mai... uccidere... uomo. Salvare... uomo. Salvare uomo. Skip salvare uomo.» Dopodiché lo Shimmy fu trattato così duramente da non poter più fare alcun gesto. Venne spinto con violenza nella camera stagna da una dozzina di minatori, e rimbalzò sulla parete esterna di metallo, dove rimase da solo a coprirsi la testa con le mani. Dopo pochi secondi volse il viso ai suoi boia. Nella camera nuda ed essenziale, a pochi istanti dal vuoto assoluto, la sua espressione cambiò. Divenne calma e rassegnata, quasi pacifica. Mentre la porta si chiudeva fece un'altra serie di gesti, più volte. «Capitano Grenville?» disse Leon Karst. Il capitano fissava lo schermo, pallido in volto e silenzioso. «Signore? Può interpretarli?» Ma Grenville aveva chinato il capo. Sulle gote gli scorrevano delle lacrime e sembrò parlare solo a se stesso. L'aula si immobilizzò. E mentre sentiva quelle parole sussurrate, Sally comprese che la causa era vinta. «Skip... perdonare voi» diceva Russell Grenville. «Voi non sapere... cosa fare. Skip perdonare. Skip perdonare. Skip perdonare.» Alzò il viso e guardò al di là della corte, al di là dell'aula. «Buon Dio del cielo. Skip, puoi perdonarci tutti?» Titolo originale: Humanity Test Analog Science Fiction and Fact March 1989 LA DOPPIA SCALA A CHIOCCIOLA
di Charles Sheffield ...E dalla cellula il messaggio per volare nello spazio Ventuno gradi. Il primo febbraio, a Washington. Non aveva nessun diritto di fare così caldo e bel tempo. Ma chi si lamentava? Non certo Jake Jacobsen. Un'insalata Waldorf, una passera di mare spedita di fresco quella mattina dai pescherecci a Maine Avenue, un. bistecca media, un paio di drink, be', diciamo tre o quattro, quel che bastava ad andare un po' su di giri senza mostrarlo, e dopo una piacevole passeggiatina al centro commerciale per tornare a Indipendence Avenue: era questo che oggi esigeva quel bel cielo azzurro. Mentre camminava, evitando gli striscioni e il chiassoso fervore di un gruppo di attivisti per i diritti degli animali, pensò alle vecchie tradizioni della Marina, a mari infuriati, carne di maiale salata e gallette avariate, acqua puzzolente, naufragi, inedia e scorbuto. Le cose erano piuttosto migliorate in duecento anni. Infatti, ora gli mancava soltanto un sigaro, un buon Avana Corona. Si ripromise di porvi rimedio, appena tornato in ufficio. Il fumo era illegale negli uffici governativi, ma per lui il divieto era morto e sepolto. Di giorno non portava l'uniforme, non c'era motivo di rivoltare il coltello nella piaga al vecchio personale irritato per il cambiamento, ma le guardie all'ingresso gli fecero ugualmente il saluto. Come dovuto. Adesso facevano tutti parte della Marina. Rispose ai saluti automaticamente, e andò agli ascensori che l'avrebbero portato al settimo e ultimo piano, dove si trovava il suo ufficio d'angolo affacciato a nord, sulla verde distesa davanti al centro commerciale. Questo sì che era un contrasto. Per cinque anni se n'era rimasto rinchiuso nelle viscere del Pentagono a progettare il piano decisivo, preparando la coreografia del sostegno da parte dell'industria, dell'OMB e del Congresso. E alla fine il colpo, non c'era altra parola, calcolato al momento giusto, che aveva portato l'agenzia sotto il controllo della Marina e a lui la terza stella di ammiraglio e la carica di amministratore della NASA. In effetti, pensò uscendo dall'ascensore, il pranzo di oggi si sarebbe potuto considerare un piccolo festeggiamento. Il decreto era in vigore da sei mesi, e due da quando le udienze lo avevano confermato all'attuale incarico. Certo, la guerra non era finita, la maledetta Aeronautica non avrebbe mai smesso di cercare di avere il ruolo di punta nello spazio, lo sapeva. Si
preparavano tempi duri, ma intanto aveva vinto le prime due battaglie. L'ammiraglio Jacob Jacobsen aprì la porta del suo ufficio, andò alla scrivania senza guardarsi attorno e si sedette. E a quel punto tutta l'euforia dell'ora di pranzo svaporò. C'era già qualcuno, sulla sedia dei Visitatori Importanti. Questo nonostante i suoi ordini severissimi che a nessuno, neanche a sua moglie (diavolo, soprattutto sua moglie!) fosse consentito l'ingresso in ufficio senza il suo permesso. E non avrebbe certo consentito l'ingresso allo squallido elemento che gli sedeva di fronte. Doveva essere stato di nuovo quello stupido deficiente di Trustrum, il peggior esemplare di assistente mai toccato a un individuo, che ignorava gli ordini espliciti e faceva passare la gente basandosi sul proprio metro di giudizio, purtroppo inadeguato. Per un attimo Jacobsen ripensò malinconico alla vecchia Marina. Non tutto era migliorato. Duecento anni prima, per una disobbedienza agli ordini così smaccata, avrebbe fatto frustare Trustrum. Oggi, con l'insistenza della NASA a mantenere qualche elemento di mansione civile, tutto quel che poteva fare si riduceva più o meno a inserire nella pratica personale di Trustrum una nota sfavorevole, e in termini forti. Mentre avrebbe voluto fargli infliggere la punizione del giro di chiglia e appenderlo all'estremità di un pennone. Ma la moglie di Trustrum era la cugina del vice-presidente, e anche una semplice nota sarebbe stata eliminata prima di finire agli atti. Cristo. Chiunque era il cugino di qualcuno, o lo zio, o l'amante, o il migliore compagno d'università. A volte gli pareva che tutta Washington fosse appiccicata in un unico immenso, incestuoso e inefficiente grumo di moccio. Diede un'occhiata all'estraneo afflosciato nella sedia di fronte. Quell'uomo portava abiti troppo pesanti per quel clima tiepido: pantaloni di lana spessi e sformati e una pesante giacca di tweed con le toppe di pelle ai gomiti. Inoltre era basso, curvo e magro, quasi emaciato, di un pallore malaticcio e con gli zigomi sporgenti. I miseri resti dei suoi capelli erano pettinati in avanti nel tentativo infruttuoso di nascondere un'avanzante alopecia, e gli occhi marroni sporgevano come quelli di una rana dispeptica. Per di più, se il naso non giocava qualche scherzo a Jacobsen, quell'uomo emanava un certo tanfo. No, non emanava un certo tanfo, puzzava sul serio. Di qualcosa di peggio dell'odore corporeo. Jacobsen afferrò un sigaro dall'umidificatore, si affrettò ad accenderlo, e frappose una cortina di fumo difensiva. Si poggiò all'indietro sulla sedia.
«Non ho idea di chi possa essere, amico, o perché si trovi qui, ma se non altro può rispondere a una domanda. Come ha fatto, in nome di Nelson, a convincere quell'impiastro di Trustrum a farla entrare nel mio ufficio personale? E dopo che mi avrà risposto, può andarsene al diavolo.» L'estraneo non batté ciglio. Alzò la mano e mostrò l'anello di un corso dell'Accademia Navale. «Ho fatto vedere a Trustrum la tua foto, Porky. La foto con me e te accanto... nell'annuario. È bastata quella.» «Porky! Nessuno mi chiamava così da...» Jacobsen si sporse in avanti, scrutando con maggiore attenzione gli occhi sporgenti dell'altro. «Gesù Cristo. L'annuario. Buggsie. "Occhi di Bacarozzo" Bates? Ma sei proprio tu. Per l'amor di Dio, che ti è successo? Hai un'aria da fare schifo.» L'altro corrugò la fronte. «La stessa cosa che è successa a te, vecchio mio. Siamo diventati vecchi. Guardati allo specchio, neanche tu sei in gran forma. Scommetto che la pressione ti è arrivata al doppio del quoziente intellettivo. E il tuo vestito non è imbottito di polistirolo, ma di chili di grasso. Ma non concluderemo un granché se ce ne stiamo qui a scambiarci insulti da saputelli, come ai vecchi tempi. Non hai la compiacenza di offrire un sigaro a un compagno di scuola, che avrebbe potuto diventare anche lui marinaio, se non fosse stato per quello che gli hai fatto, Porky? Te lo ricordi?» Buggsie Bates si chinò a prendere un sigaro mentre parlava. Non lo accese, limitandosi a starsene seduto con un sorriso imperscrutabile. Jacobsen si schiarì la gola. «Ehi, Buggsie, è passato tanto tempo. Eravamo giovani e sfrontati. Nessuno voleva farti del male. Almeno, io sono maledettamente sicuro che non volevo.» «Può darsi. Ma facesti partire di brutto quella tipa e me la infilasti nel letto. Dopodiché tu proseguisti la carriera fino a beccarti le tre stelle e io ci rimasi fregato.» Bates fece col sigaro un movimento circolare nell'aria. «Tranquillo, Porky. Non c'è bisogno di cercare il pulsante d'allarme, non sono venuto per regolare questioni trentennali, dell'epoca dell'Accademia. Anzi, ti farò avere più stelle di quante tu ne abbia mai sognate. L'essere sbattuto a calci in culo fuori dalla Marina si è rivelato la cosa migliore che potesse capitarmi. Sarei stato un pessimo guardiamarina.» «Già si vedeva che eri una frana.» Ora Jacobsen era incuriosito. «Buggsie, che cos'hai fatto? So che hai mollato la Marina, ma dove sei finito? All'epoca sei scomparso. Voglio dire, se sei sul lastrico, sarò lieto di fare tutto il possibile per... sai, puzzi come, Dio, non saprei. Senza offesa, puzzi
come se ti fossi rivoltato in un mucchio di merda di scimmia.» «Non sei troppo lontano dal vero. Aggiungici merda d'orso e ci sei quasi.» L'insulto non l'aveva colpito, a giudicare dal sorriso sul volto di Bates. In meno di cinque minuti, i due uomini erano già tornati ai rapporti stretti di trent'anni prima. «Grazie per l'offerta di aiuto, Porky, ma non ne ho bisogno. Anzi, sono io che mi trovo qui per farti un favore. Grosso.» Jake Jacobsen scrutò Bates al di sotto dei suoi tratti più prominenti: le folte sopracciglia che, assieme al naso da maialino e l'ampio ventre, erano la delizia dei caricaturisti politici. «Già, sicuro. Buggsie, l'ultima persona che mi ha detto di essere venuta a farmi un grosso favore sta scontando cinque anni a Leavenworth. Se lavori per un lobbista, è meglio che te ne vada. Puoi tenerti il sigaro in nome dei vecchi tempi.» «Nessun lobbista, Porky. In realtà non lavoro per nessuno, almeno nessuno che tu conosca. Hai fatto strada nel mondo, ma anch'io. Dopo essere stato sbattuto fuori, feci quello che avrei dovuto fare comunque. Andai all'università, un istituto scientifico serio, non roba da soldatini di latta, e presi il dottorato di ricerca, quindi mi trasferii all'Ovest per la carriera universitaria. Divenni un pezzo grosso del campus. Attualmente ho una cattedra e sono di ruolo alla statale di Simi Valley.» «Però puzzi.» «C'è un grosso laboratorio per gli esperimenti con gli animali, e ci passo del tempo. Si sa, la merda puzza.» Si accese il sigaro e annuì soddisfatto per l'aroma. Jacobsen afferrò il calendario sulla scrivania e vi puntò contro un grosso dito. «Non ho molto tempo per le ciarle, Buggsie.» La sua voce aveva un tono di scusa. «Ho una riunione di sotto fra quindici minuti. Perché sei venuto qui?» Bates guardava senza scomporsi il calendario da cima a fondo. «RIE. Devi parlare della Ricerca dell'Intelligenza Extraterrestre?» «Più o meno. È due giorni che questa riunione va avanti al quinto piano. Ci sono tutti i grossi nomi e li ho conosciuti. Sono un branco di coglioni. Perciò oggi gli scarico addosso il grande botto: gli dico che i fondi sono partiti per sempre.» «Li tagli fuori?» «Li riduco a zero. Non è che mi limito a ridimensionarli. Qui il gioco è cambiato, Buggsie. Da quando questo posto è passato alla Marina, eliminiamo tutte le frattaglie e facciamo nello spazio quello che avremmo dovuto da trentacinque anni. Consolidiamo la posizione. Costruiamo infrastrut-
ture spaziali e porti permanenti di rifornimento. Realizziamo una politica e un autentico programma spaziale. Sai, darei metà della pensione per un sistema economico di trasporto spaziale, ma per anni abbiamo scialato miliardi in programmi di addestramento nel Terzo Mondo, in telescopi spaziali e ad ascoltare messaggi di omini verdi. E cos'abbiamo come risultato? Dimmelo. Bene, quando ho avuto il posto tutto questo è finito. Ehi» Jacobsen lanciò improvvisamente a Bates un'occhiata sospettosa «non è che sei anche tu uno di loro, vero? Quelli della RIE?» «Non più. Per un po' la cosa mi interessava, e immagino di essere un po' in debito con loro, perché sono riusciti ad attirare la mia attenzione nel trovare e decifrare messaggi nascosti.» Bates aveva preso a frugarsi nella tasca della giacca di tweed. «Ma non è certo per questo che sono qui. Non sapevo niente della tua riunione, ma ti renderò molto facile dirgli le novità. A questo punto, la RIE diviene irrilevante. Da' un'occhiata a questo.» Reggeva un piccolo cilindro affusolato di plastica bianca, grande quanto un pacchetto di sigarette. La sommità ricurva era priva di caratteristiche, tranne un perno che poteva scivolare lungo cinque posizioni su una scala a scorrimento, e al centro un quadrante rotondo, come quello di un orologino da polso. Bates si sporse in avanti e poggiò l'unità sulla scrivania di fronte a Jacobsen. Poi ci mise su la mano aperta. «Pronto?» Spostò il perno sulla prima posizione, poi tolse la mano. Il cilindro si sollevò a livello dell'occhio e rimase lì, circa settanta centimetri al di sopra della scrivania. «Posizione uno. Modo statico, lo definisco. È regolato per annullarsi e tornare alla posizione zero, cioè spenta, dopo trenta secondi, ma è programmabile. Se vuoi, può restare sospeso per un periodo indefinito a qualsiasi altezza.» Gli occhi di Jake Jacobsen sporgevano più di quanto fosse mai accaduto a quelli di Bates. «Oppure, può fare questo» disse Bates. «Posizione due. Velocità costante.» Allungò una mano verso l'unità e spostò il perno ancora di una tacca lungo la scala. L'oggettino di plastica s'innalzò alla velocità regolare di trenta centimetri al secondo verso il soffitto insonorizzato e rimase lassù, premendo delicatamente verso l'alto. Jacobsen alzò gli occhi a guardarlo, con la bocca spalancata. «È abbastanza intelligente da capire che c'è un ostacolo» continuò Bates «così se ne sta lì senza esercitare alcuna forza verso l'alto. Se non ci fosse stato di mezzo il soffitto, avrebbe continuato a salire alla stessa velocità fi-
no al momento di spegnersi. Dopo, a seconda della programmazione, o resta dov'è oppure torna immediatamente al punto di partenza.» Appena finì di parlare, la scatoletta smussata scivolò verso il basso fino a posarsi sul ripiano della scrivania. Jacobsen allungò una delle sue mani grassocce e toccò con cautela un lato del cilindro, come se temesse che fosse incandescente. «Non c'è qualche trucco? Voglio dire, ha fatto davvero quel che gli ho visto fare.» «Non sono un ipnotizzatore o un mago, se è questo che intendi. Dovresti conoscermi meglio per pensare a qualcosa del genere. E non è un trucco. Fa davvero quello che hai visto.» «Allora...» Jacobsen prese il piccolo cilindro appiattito e se lo mise sul palmo della mano, soppesandolo. «Allora è... è... Cristo? Hai davvero inventato questa cosa?» «Non proprio. Diciamo piuttosto che l'ho scoperta. E, s'intende, questo è solo un modello dimostrativo. Per essere davvero utile, il cilindro dovrebbe avere le dimensioni di questa stanza, e in tal caso potrebbe trasportare della gente. Non ho i mezzi per farlo nel laboratorio meccanico dell'università, e comunque non è il mio settore. È il tuo. Volevo solo essere sicuro che funzionasse.» «È anti-gravità?» Jacobsen scrutò il bottoncino rosso sulla superficie liscia. «Quando l'hai premuto nella seconda posizione, è andato subito su.» «Esatto. Ma è più di anti-gravità, perché può andare a velocità costante in qualsiasi direzione scelgo. E fa perfino altro. Vedi le altre tre regolazioni? La prima mette il cilindro in stato di accelerazione costante, per il periodo regolato dal timer. L'ho provato fuori, ed è andato su, sempre più veloce, per venti secondi. Se non l'avessi programmato per spegnersi e tornare al punto di partenza, credo che avrebbe proseguito per sempre. Ho collaudato le altre tarature solo in laboratorio, di modo che ci potessero essere un paio di sorprese. La quarta posizione, a quanto pare, è un tasso costante di crescita dell'accelerazione. Ci si dovrebbe andare cauti in una versione passeggeri. Anche solo con un incremento di un decimo di gravità al secondo, e può fare molto di più, in un minuto si arriverebbe a sei G, quanto basta a schiacciare chiunque a bordo. A quel punto si andrebbe a quasi due chilometri al secondo. Abbastanza da fare una bella tacca in qualsiasi cosa si colpisca. A proposito, non toccare quella posizione, non ho un timer nel programma.» Jacobsen ripose il cilindro sulla scrivania e tolse la mano come se la plastica fosse diventata improvvisamente radioattiva.
«Comunque, la quinta posizione» Bates recuperò con noncuranza l'oggetto «quella sì che è il vero nocciolo della faccenda. Per un attimo l'unità pare che sparisca, dopodiché riappare a una certa distanza prefissata. Non sono ancora riuscito a operare su separazioni abbastanza grandi da misurare la velocità di spostamento, ma so che è molto rapida. Forse istantanea.» Il volto dell'altro era passato attraverso una sequenza di espressioni man mano che Bates descriveva le funzioni del cilindro schiacciato, dallo stupore e l'incredulità al nervosismo, per finire a uno sguardo furtivo di scaltrezza. Quando Bates terminò di parlare, l'ammiraglio se ne stette seduto in silenzio per un po' di secondi, picchiettando con le dita grassocce sul ripiano della scrivania. «Qual è la fonte d'energia? Un colossale generatore nascosto da qualche parte?» «No. È tutto qui. Non ne ha alcuna. Non sono un fisico, ma da quel che ho letto deve trarre l'energia dalle fluttuazioni del vuoto. Non c'è alcun limite pratico.» «Hai detto che non l'hai inventato tu?» «L'ho scoperto. In un certo senso, ci sono inciampato.» «Allora dov'è quello che l'ha inventato? Perché non è qui?» «Non c'è nessun altro.» Bates alzò una mano scarna. «Vedi, so che quello che sto per dirti sembra una panzana, ma l'importante è questo.» Sollevò il cilindro. «Non devi per forza fidarti di me. Ogni volta che quello che devo dirti ti sembra strano fissa gli occhi su questo. È un congegno che esiste sul serio. L'hai visto funzionare. Tienilo in mente.» Bates girò il quadrante sulla sommità del cilindro e spostò il perno nella prima posizione. L'unità si sollevò nell'aria appena al di sopra del livello degli occhi, fra i due uomini. «Cominciamo sul facile» continuò Bates. «Mentre te ne stavi qui alla NASA avrai ricevuto domande sui dischi volanti e i visitatori spaziali.» Jacobsen sbuffò. «Fin troppe, maledizione. Ogni giorno una richiesta di informazioni. Ho detto al personale cosa rispondere, che c'è stata una dozzina di inchieste e hanno dimostrato tutte che si tratta di un mucchio di fesserie. Ma non è servito granché: il giorno dopo c'è un altro caso clinico in linea. Spero che non te starai lì seduto a raccontarmi che un omino in un disco volante è capitato da te e ti ha dato quel gingillo?» «Non proprio. Ma ci sei vicino. La migliore spiegazione che sono riuscito a trovare è che effettivamente qualcuno proveniente da molto lontano ha visitato la Terra, proprio come insistono a dire i tuoi fanatici di dischi. Ma
è successo tanto tempo fa. Non so esattamente quando, ma è stato più di venti milioni di anni fa. E prima che tu mi domandi qualcos'altro, devo dirti che non ho idea delle loro sembianze o del motivo principale che li ha spinti a venire. Sia come sia, decisero di lasciare un regalo prima di andarsene. Eccolo qui: il segreto di un facile accesso allo spazio. Probabilmente anche del viaggio interstellare, con quella quinta posizione.» «Un momento.» Jacobsen tirava boccate furiose dal sigaro, torvo al di sotto di quelle feroci sopracciglia. «Prima mi racconti che non l'hai affatto inventato. Adesso dici che l'hanno addirittura lasciato, chiunque accidenti siano. Però hai anche detto di averlo costruito tu.» «L'ho costruito io, infatti. Quello che hanno lasciato sono le istruzioni per come realizzarlo. Sono riuscito a seguire le indicazioni, ma ancora non so perché funziona.» «Istruzioni?» Le guance paffute di Jacobsen stavano imporporandosi. Ormai da tempo a rischio d'infarto, sembrava aver deciso che era giunto il momento. «Istruzioni! Scritte in inglese, suppongo. Buggsie, ne ho abbastanza. Non hai mai capito fino a che punto deve arrivare uno scherzo. Se credi sia nato ieri...» «Guarda questo congegno, Porky. Lo vedi sospeso qui? Abbi fede. Non istruzioni in inglese, è ovvio. Non in qualsiasi linguaggio umano. Le istruzioni sono giunte sotto forma di sequenze in codice cifrato, ed è stato necessario decifrarle. I tuoi amici della RIE che aspettano giù al quinto piano sono da un pezzo alle prese con lo stesso problema: se si riceve un segnale dallo spazio di origine artificiale come si fa a interpretare il messaggio?» Bates si era finalmente acceso il sigaro e ora ne fissava pensoso la punta ardente. «Sai, anch'io ero un entusiasta della RIE, ma a vedere la cosa sotto il profilo logico, spedire fin quaggiù messaggi radio dallo spazio è un modo terribile di comunicare con qualcuno. Se non si sta in ascolto proprio al momento giusto con l'antenna puntata nella giusta direzione, il segnale è bell'e andato appena si volta testa. È peggio che mettere un foglietto in una bottiglia e buttarla nell'oceano. Meglio fare così: lasciare un messaggio qui, dove rimarrà in giro finché qualcuno non diventa così intelligente da cercarlo.» Alzò gli occhi su Jacobsen. «Dov'ero rimasto? Ho fatto un volo rintontente dalla costa occidentale per venire sin qui e mi sento un po' sfasato. Comunque, dopo un po' mi sono convinto che quello che avevo trovato era davvero un messaggio, ma ci ho messo un'eternità a decifrarlo. Il segnale cifrato era una sfilza di numeri binari, lunga decine di milioni di bit. Sape-
vo che non era a casaccio, ma non riuscivo a leggerla. Finalmente ho scoperto che la chiave era convertire quella sfilza interminabile del segnale numerico in un insieme a due dimensioni, disponendo su ciascuna fila mille e ventiquattro cifre, dopodiché osservare il risultato sotto forma di immagini. Ciononostante, dovevo ancora indovinare cosa significassero quelle immagini. Vedi, finché non ho realizzato un modello operativo, non ero neppure certo di cosa stessi costruendo. Per un po' mi sono chiesto se non fosse un gingillo che avrebbe fatto saltare in aria il mondo intero, una specie di dispositivo auto-sterilizzante, lasciato sulla Terra per sbarazzarsi di ogni specie divenuta abbastanza intelligente da espandersi al di fuori del pianeta.» Fece un sorriso sgradevole. «Poi ho deciso, che diavolo, l'avrei costruito comunque. Ormai ne so abbastanza sugli animali. Solo gli umani potrebbero essere così subdoli e orrendi, ma nessun altro.» Il rosso acceso si era ritirato dal volto di Jacobsen, ma adesso lui si agitava inquieto sulla sedia. «A quante persone l'hai detto, Buggsie? Il messaggio e tutto il resto?» «A stento qualcuno. Solo un paio di colleghi di laboratorio, e non penso mi abbiano creduto. E appena ho finito il modello operativo, sono venuto dritto qui.» «Nessun discorso pubblico? Nessun documento scritto?» «Nessuno. Prima di avere un modello operativo c'era un problema di, diciamo, credibilità. Questo genere di roba non è la mia specialità accademica, e l'elettronica è solo un hobby. Mi avrebbero deriso finché non avessi avuto una prova. Poi quando mi sono ritrovato con questo che funzionava, ho deciso che era troppo importante per seguire il solito iter delle pubblicazioni. Pensavo a una grossa conferenza stampa.» «Certo.» Jacobsen prese il telefono interno e disse: «Trustrum? Rimandi la riunione col gruppo RIE. Lo so, lo so. Vadano a farsi fottere. E mandi quassù nel mio ufficio un agente della sicurezza. Ripensandoci, meglio due agenti della sicurezza, va bene?» Si rivolse a Bates. «Buggsie, nell'ultimo anno dell'Accademia ho votato contro il tuo ingresso nella Jacks-off Five Society perché dicevo che eri tutto cervello e niente buonsenso. Ti chiedo scusa per questo. Mi sbagliavo. Hai fatto esattamente la cosa giusta venendo qui senza dirlo a nessuno. Ti rendi conto dell'importanza di quello che hai qui?» «È ovvio.» Bates gli lanciò un'occhiataccia. «Perché pensi sia venuto alla NASA? Ci dà le stelle... ed era stato progettato proprio per questo.» «Al diavolo le stelle.» Jacobsen andò alla porta per assicurarsi che fosse
chiusa. «In questo lavoro, mi sono sorbito un mucchio di stronzate su stelle, buchi neri e galassie. Quella è roba per quei pazzi della RIE e i loro compari in riunione al quinto piano. Quello che ci serve al momento sono i pianeti. E tanto per cominciare, significa un sistema a basso costo per partire dalla Terra. Io e la Marina abbiamo preso il controllo della NASA con una missione: rimetterne assieme il programma. Il gioco dello spazio oggi si chiama facile accesso. Non è che i russi possano vantarsi di chissà cosa, ma partono col piede giusto quando dicono che lo strato superiore dell'atmosfera è la riva dell'universo. La prima vera nazione a viaggiare nello spazio controllerà il sistema solare, come la Spagna, il Portogallo e l'Inghilterra hanno fatto con i mari. E saremo noi, non un branco di russi, giapponesi, cinesi e francesi.» Guardò Bates. L'altro scuoteva la testa e aveva un sorriso tirato sul volto. «Possiamo farcela, Buggsie. Ce lo garantisce quello che hai in mano.» «Questo dà all'umanità facile accesso allo spazio. Non solo all'America.» «Oh, certo. Cominceranno ad andarci anche degli altri... sfrutteranno il nostro lavoro. Ma all'Accademia io e te abbiamo avuto le stesse lezioni di Storia, e sai come va il mondo. Controlla i porti e controlli tutto il resto. Il commercio segue la bandiera. La nostra bandiera.» Bates sospirò. «Porky, speravo di meglio da te. Ho letto tutte quelle nobili cose che dichiaravi alle udienze per diventare capo della NASA. "Ritengo mio sacro dovere edificare una scala, che permetterà all'umanità intera di ascendere verso le stelle." E sono stato così stupido da credere che parlassi sul serio. Io ti porto la scala, ma tu vuoi limitarne l'uso. Be', non è che importi molto quello che vuoi e non vuoi fare. Questa scala non può essere tenuta segreta.» «Questo è da vedersi.» Il telefono interno ronzò e Jacobsen si tirò su dalla sedia e andò ad aprire la porta. Fuori c'erano due pesi massimi sull'attenti. Jacobsen fece un cenno della testa verso di loro. «Voglio che restiate di guardia per tutta la durata di questa riunione. Da questo momento, fino a nuovo ordine, siamo a livello top secret.» Chiuse la porta e tornò alla scrivania. «Buggsie, hai passato troppo tempo in quella torre d'avorio. Non è ovvio che quello che mi hai mostrato fa di tutto ciò anche una questione di sicurezza nazionale? È in gioco il futuro del Paese, e se quello» indicò il cilindro, sempre sospeso al di sopra della scrivania «finisce nelle mani straniere sbagliate, i nostri sistemi di difesa non varrebbero un fico secco. Venendo da me sei partito col piede giusto. Adesso
non toppare. Lavora con la Marina, e avrai le mani in pasta... Mi assicurerò che tu abbia tutte le autorizzazioni, e se hai bisogno di soldi uno dei miei fornitori può firmarti un lauto subappalto. Ma piantala con queste stronzate sul fatto che questo è "troppo importante per essere tenuto segreto". Lasciatelo dire, tutto può essere tenuto segreto, se le bocche sono cucite. E in questo caso si deve farlo.» Bates posò il sigaro spento nel portacenere sulla scrivania. Era da due minuti che si era dimenticato di fumarlo. «Ancora non capisci, Porky. Ho detto che questo non si può tenere segreto, indipendentemente dalla mia e dalla tua volontà. Ti ho detto che ho trovato un messaggio. Dove credi l'abbia trovato, scritto su un muro da qualche parte?» Jacobsen lo guardò in cagnesco. «Che io sia dannato se lo so. Ma era da qualche parte di questo Paese, no?» «Sì. Non vado all'estero da oltre dieci anni.» «Allora voglio dirti una cosa, Buggsie, vecchio mio. Ho passato anni al Servizio Segreto della Marina, e ti posso garantire che riusciremo a far passare sotto silenzio quel posto, qualsiasi posto degli Stati Uniti d'America, da dove è venuto il messaggio, ci metteremo su un tappo così stretto che neanche Harry Houdini saprebbe farci passare il ditino. E possiamo assicurarci che non trapeli niente alla stampa e non venga pubblicato nulla. Il tuo sistema di trasporto spaziale sarà prodotto in un ambiente di massima sicurezza che al confronto fa apparire le normali installazioni top secret del Dipartimento della Difesa piene di buchi più di un colabrodo. Se questo non è tenere segreta la cosa, non so cos'altro lo sia.» «Non funzionerà.» Bates accennò al cilindro sospeso. «Tu dici che mi ritenevi privo di buonsenso. Allora usa il tuo, Porky, se te n'è rimasto un po' dopo vent'anni di rincoglionimento militare. Supponi di essere un alieno, in visita sulla Terra venti milioni di anni fa, e di voler lasciare un messaggio che possa essere letto oggi. Che faresti?» Jacobsen gonfiò al massimo le gote. «Lo scolpirei da qualche parte indelebile, sulla roccia, su una lastra d'acciaio. No, meglio oro o vetro. Ma venti milioni di anni...» «Ci sei quasi.» Bates aveva un sorriso irritante sul volto. «Riflettici con calma. Venti milioni, non duecento, o duecentomila. Nessun manufatto sulla Terra è così antico. Qualsiasi messaggio sarebbe stato consunto dal tempo in meno di un milione di anni, così come qualsiasi cosa lasciata in superficie sarebbe stata erosa o seppellita a centinaia di metri di profondità. Pensaci, Porky, venti milioni.»
«È impossibile. Niente può durare tanto.» «Giusto. È questa la conclusione cui volevo farti arrivare. Niente di quello che potremmo costruire sarebbe riconoscibile fra venti milioni di anni.» «Sulla Terra no. Ma forse hai dimenticato la Luna, dove non ci sono le intemperie a erodere...» «Ehi, ottimo tentativo. Non me l'aspettavo. Ma in quel caso dovresti sempre tener conto dell'impatto delle meteore. C'è un modo migliore, proprio qui, sulla Terra. Un modo che permette ai messaggi di resistere per centinaia di milioni di anni, col minimo pencolo di andare perduti. Ed è un sistema di registrazione che siamo quasi sul punto di realizzare noi stessi, se vogliamo.» Jacobsen grugnì infastidito. «Lo so che pensi di essere un maledetto sapientone, Buggsie, è sempre stato così. Sembra impossibile, ma se hai intenzione di dirmelo, va' avanti. E dato che ci sei, potresti anche dirmi perché l'hai trovato solo tu e nessun altro.» «Perché io puzzo di merda di scimmia e di orso. Ti ho detto che non ero un fisico, ma non ti ho detto cosa sono. Sono un biologo, un biologo molecolare. E oggi uno dei punti più caldi della biologia molecolare è ordinare la sequenza del DNA. Ne sai qualcosa?» «Mai sentito niente del genere, e non so se m'interessa.» «Invece devi farlo, se segui i finanziamenti governativi per la ricerca. Il DNA è la molecola che trasporta l'informazione genetica. Inoltre il DNA si duplica, restando identico salvo in casi rarissimi di mutazione, ogni volta che si divide una cellula. Il Dipartimento dell'Energia e gli Istituti Nazionali della Sanità hanno ricevuto uno stanziamento di un miliardo di dollari a testa per tracciare la mappa del DNA degli esseri umani.» «Un miliardo?» Finalmente Jacobsen aveva a che fare con qualcosa che capiva. «Non sono mica caramelle.» «Neanche per gli standard del Dipartimento della Difesa.» «Mi puzza tanto del solito spreco per la ricerca e lo sviluppo. Ce n'è fin troppo alla NASA.» «No. Questa è roba importante. Vedi, il DNA di un organismo decide esattamente cos'è quell'organismo. Se stabilisco il tuo DNA, al completo, stabilisco come sarai. Potrebbe anche sembrare una bazzecola farlo, perché sebbene una molecola di DNA abbia la forma di una doppia elica, di un paio di spirali intrecciate, la si può ritenere un'unica lunga stringa, senza precisi limiti o riunita in un circolo, composta solo da quattro differenti so-
stanze chimiche dette basi nucleotidi. Queste componenti sono la timina, l'adenina, la guanina e la citosina...» «In inglese, testa d'uovo. Stai mettendoti a blaterare.» «Scusa, Porky. Dimenticavo che sei una testa di rapa. Basta che pensi alle basi con le loro iniziali, T, A, G e C, e immagina di avere un mucchio di perline, ciascuna con una di queste lettere sopra. Ora, con le perline puoi farci una collana, senza limiti circa la loro posizione su di essa. Una sequenza completa del DNA, detta genoma, non è altro che la lista dell'ordine delle perline lungo la collana a spirale. Quanto basta a descrivere completamente l'organismo. La differenza tra me e te e un cavolo o una mosca o una gallina sta nella lunghezza della sequenza del DNA, e nell'ordine delle quattro sostanze lungo di essa. Il guaio è che parliamo di miliardi di perline per ogni tipo di organismo complesso. Tracciare la mappa del genoma è un lavoro mostruoso.» «E maledettamente inutile, come dicevo. A che serve?» «A cose di ogni genere. Se conoscessimo la mappa esatta del DNA potremmo contrastare tutti i tipi di malattie ereditarie. Lo si sa da una trentina d'anni. Ma le tecniche per tracciare la mappa della sequenza del DNA e per trovare l'ordine esatto delle perline T, A, G e C sulla collana genetica sono molto più recenti, risalgono a dieci anni fa o anche meno. Operiamo mediante microscopi elettronici, cristallografie e altre sostanze chimiche dette enzimi di restrizione. È questo il mio lavoro. E sono bravo. Il Dipartimento dell'Energia mi ha assegnato uno stanziamento di un milione di dollari per esaminare una questione particolare nell'ambito della sequenza del DNA, quello che si potrebbe definire il problema del DNA "spazzatura" che in apparenza non svolge alcun compito utile. «Vedi, il DNA in ogni cellula le dice come operare, specialmente come produrre proteine. Perciò si potrebbe pensare che ogni frammento di DNA venga impiegato così. Invece no. Appena il 10% del DNA è utilizzato per controllare i processi produttivi della cellula. Allora a che serve il resto? Nessuno lo sa. Eppure gli introni, quelle sequenze interposte che non governano la produzione di materiali cellulari, compongono i nove decimi del totale del DNA. Il mio stanziamento serve per esaminare gli introni, e vedere se riesco a scoprire a cosa servono.» Bates se ne stava del tutto immobile sulla sedia. Con la spiegazione che volgeva al termine, sembrava esausto. Adesso invece si mosse, riprese il sigaro e lo puntò sul cilindro sospeso: «Ed eccoci finalmente alla parte più eccitante. Io l'ho scoperto, Porky. O almeno, ho scoperto una parte della ri-
sposta. È proprio qui sospesa davanti a te. Qualcuno ha inserito un messaggio, ripetendolo a più riprese, negli introni, nelle sequenze del DNA che a prima vista sembrano una specie di spazzatura. Non ho fatto altro che scoprirlo e decodificarlo». Jacobsen si rimirava divertito il palmo della mano carnosa. «Stai dicendo che è lì che si trova il progetto del tuo sistema di trasporto spaziale? Nascosto in una maledetta sequenza del DNA, come un messaggio in codice? Si trova perfino dentro di me?» «Sicuro che c'è. Ce l'hai proprio in mano, nascosto nella parte della sequenza del DNA che non è espressa nella produzione di proteine. Si ripete molte volte, nel caso una parte della sequenza in un punto sia distrutta da una mutazione. E non ti colpisce la bellezza dell'idea? Se c'è qualcosa che il DNA fa meravigliosamente bene è questa: fa delle copie di se stesso, da una generazione all'altra, col minimo margine di errore. Forse dopo qualche centinaio di milioni di anni, la mutazione del DNA arriverebbe al punto di rendere inaffidabile il messaggio, ma non solo dopo venti milioni. È quanto di più prossimo si possa immaginare a una forma di messaggio eterno. I nostri amici che son venuti sulla Terra e hanno lasciato il progetto di questa scala per le stelle non dovevano preoccuparsi che fosse distrutto dalle intemperie o dagli accidenti. Sarebbe rimasto finché qualcuno non fosse divenuto abbastanza intelligente da scoprirlo. E un'altra gran bella cosa è che il messaggio non si può leggere finché non si è pronti a utilizzarlo. L'analisi della sequenza del DNA richiede tecnologia, elettricità, computer, adeguati algoritmi e microscopi che esaminano in profondità, per poter essere realizzata.» «Ma la sequenza si trova in tutte le cellule? Un messaggio lungo decine di milioni di cifre?» «In tutte le cellule di tutti gli esseri umani di tutti i paesi.» Bates stava ritrovando l'energia e parlava più in fretta. «L'informazione nel DNA è compressa. Può definire un intero essere umano in pochi trilionesimi di grammo di materiale. Al confronto, i dettagli di una propulsione spaziale sono niente. Ma adesso capisci perché dico che non la si può tenere segreta? Sono in contatto con altri ricercatori del mio campo in tutto il mondo, e so di almeno cinquanta persone che stanno battendo la mia stessa pista. Puoi mettertici come vuoi a nascondergli il mio lavoro, ma non durerà più di un paio di anni. Ce ne saranno degli altri a vedere le stesse anomalie nella sequenza, e le decodificheranno indipendentemente. A quel punto, anche loro otterranno la stessa "scala per le stelle" che hai dichiarato al
Congresso di voler realizzare.» Jacobsen si poggiò all'indietro sulla sedia, respirando rumorosamente: «Maledizione, Buggsie». Le parole gli vennero fuori ringhiando. «Vieni qui e dici di volermi dare qualcosa. Me la fai vedere e te la riprendi immediatamente. Se qualsiasi nazione di serie zeta venuta dal nulla può andare nello spazio, il mio lavoro diventa più duro, non più facile.» «Dipende da quale credi sia il tuo lavoro. Se credi di essere stato messo qui per startene seduto su quel grosso culo a vietare lo spazio a chiunque tranne la Marina, allora hai ragione. Non è che un lavoro del genere adesso sarebbe duro, sarebbe impossibile. E mi va bene. Non sono certo venuto per quello. Ma se vedi il tuo lavoro al mio stesso modo, che una volta era anche il tuo, e cioè come costruire un sistema che dia a chiunque sulla Terra una quota nello sviluppo dello spazio, e la possibilità di andarci, allora ti ho servito a dovere. O meglio, ti hanno servito a dovere quegli esseri che hanno lasciato il progetto. La mia parte è stata solo quella del fattorino.» Prese il cilindro sospeso, lo spense e lo ripose sulla scrivania. «Pensa in termini positivi, Porky. Abbiamo i pianeti e forse anche le stelle, inoltre ti sto dando un paio di anni di anticipo sulla concorrenza. Prima di allora, con un po' di fortuna, andrai tu stesso nello spazio.» Jacobsen allungava irresistibilmente la mano verso l'unità di plastica bianca. Si fermò. «Io?» «Tu. Chi altro?» Bates osservò il cambiamento di espressione sul viso dell'altro. «Ah, finalmente ci sei. Era quasi ora. Ti sarai anche illuso di voler essere il capo della NASA perché era un buon avanzamento di carriera. Ma io ricordo un Porky Jacobsen diverso. Tu eri quello che ci faceva drizzare le orecchie all'Accademia, che ci diceva che noi umani eravamo destinati allo spazio, e che niente ci avrebbe fermati. Che niente ti avrebbe fermato. E tutto quello che hai saputo dirmi pochi minuti fa è occhio, la chiave è il facile accesso. Be', ora lo abbiamo. Puoi andarci, Porky, di persona. Sei troppo vecchio per lo Shuttle, ma non abbastanza per questo. Mi hai sentito? Puoi andarci.» «È vero.» Jacobsen abbassò gli occhi sul cilindro, che ora teneva in mano con una stretta possessiva. «Sì, perdio, è possibile e lo farò. Sai, l'idea stessa di incontrarli mi terrorizza, ci aspettano da venti milioni di anni. Mi chiedo come procederemo. Ma hai ragione, se c'è un modo al mondo di farmi salire su quel prototipo di astronave, ci sarò. Niente mi fermerà.» Spostò il perno sul cilindro nella seconda posizione e lo guardò innalzarsi pigramente verso il soffitto. «Ma c'è qualcosa di ancora più terribile, in
un certo senso, di questo stesso gingillo. Il fatto che sapessero, fin da allora, che saremmo stati noi umani a realizzarlo. Sapevano che avremmo trovato una via, da percorrere fino in fondo, fino a raggiungere l'intelligenza. E dire che a quell'epoca non c'erano umani in giro, vero?» «Neanche uno. Solo scimmie primitive.» Bates adesso aveva un sorriso sognante sul volto. «Ma non devi dare per scontato che quando hanno lasciato il messaggio sapessero chi sarebbe venuto poi a incontrarli lassù. Ho detto che l'hanno lasciato almeno venti milioni di anni fa. Come pensi che lo sappia?» Jacobsen scosse la testa. Il cilindro bianco gli ridiscese tranquillamente in mano. «Perché non eravamo gli unici candidati» proseguì Bates. «Te l'ho detto, io lavoro con gli animali, oltre che con gli esseri umani. Ho trovato lo stesso messaggio nella sequenza del DNA di animali separatisi dalla linea genetica umana venti milioni di anni fa. Noi, gli scimpanzé, i gorilla, gli oranghi e i gibboni ci siamo separati da una linea genetica comune in tempi diversi, ma abbiamo tutti gli stessi introni codificati. È possibile che il messaggio sia stato inserito una volta soltanto, forse come virus in un antenato comune a tutti noi, e questo significa venti milioni di anni fa. Quel messaggio lo abbiamo avuto tutti. Ma nessuno l'ha veramente ricevuto finché non si è riusciti davvero a leggerlo.» L'altro alzò gli occhi carichi di cupidigia dal cilindro che teneva stretto in mano. «Tu sei quello che l'ha letto davvero, Buggsie. Solo tu. Tu eri l'unico così intelligente da riuscirci. Io voglio andarci, ma mi pare che se c'è qualcuno che se lo merita sul serio, quello sei tu. E sono certo di poter sistemare la cosa.» «Non c'è fretta. Aspetterò il mio turno, non devo essere a bordo di quella prima nave.» Jacobsen scosse la testa. «Non commettere il mio stesso errore, Buggsie. Non rinunciarci finché non scopri di essere troppo vecchio, grasso e malandato, ed è troppo tardi per andarci.» «Oh, non credo che succederà.» Bates esitò. «Per la verità, sono quasi certo di no.» Si frugò nella tasca della giacca e ne estrasse una struttura bianca simile a un ragno, con parecchi connettori lucenti. «Vedi, Porky, quella non era l'unica cosa che si trovava in codice fra gli introni. Non sono sicuro al cento per cento di quest'altra, e devo fare delle verifiche con gli esperti. Ma non dovrebbe essere difficile, l'Istituto Nazionale della Terza Età si trova
solo a un paio di isolati da qui, vero?» Titolo originale: The Double Spiral Staircase Analog Science Fiction and Fact January 1990 GODSPEED di Charles Sheffield In gara con gli alieni per la conquista dello spazio Vennero i Genizee. Due settimane dopo, i Genizee se ne andarono. Gli alieni sono i salvatori dell'umanità più nobili e altruisti che ci si possa immaginare, o al contrario la specie più subdola e malefica della galassia, che persegue un piano diabolico, insondabile per gli umani. Quale? Marcus Aurelius Jackson, milionario, folle, geniale, mio compagno di lunga data in fatto di scienza e di breve data in fatto di criminalità, sostiene che i Genizee sono cattivi. Tutti gli altri, sulla Terra, dicono che sono degli eroi. Quanto a me, proprio non lo so. Non ancora. Ma, grazie a Marcus, lo saprò, eccome. Presto. Nel peggiore dei casi, potrebbe essere per una frazione di secondo, prima della fine. Sembra una follia dirlo ma, anche se mi ritengo equilibrato e razionale mentre Marcus è un pazzoide che potrebbe provocare la mia morte e quella di tutti gli abitanti della Terra, sotto certi aspetti sono della sua stessa risma, perché non vedo l'ora di sapere la risposta. Quella domanda, quale?, me la sono arrovellata in testa per quattro mesi interminabili, come un prurito interno ed eterno che non va via anche se ti gratti. Adesso me ne sto seduto in attesa che ricompaiano le telecamere della TV o che finisca il mondo, e voglio sapere. Nel mio caso è più di una questione teorica. Ero al centro del problema molto prima dell'arrivo dei Genizee, prima che si sospettasse perfino della loro esistenza. Ancora di più: stando agli alieni, io e Marcus Aurelius Jackson siamo la ragione per cui sono giunti nel sistema solare... giunti appena in tempo per distruggere il sogno. Nel mio caso era davvero un sogno. In quello di Marcus si trattava di un'ossessione. Arguisco che tra le due cose vi sia una differenza fonda-
mentale, anche se forse nessun altro sarebbe d'accordo. Voglio riandare al periodo AG, Avanti Genizee. Prima che gli alieni saltassero fuori dal nulla, quasi tutti erano convinti che il programma spaziale terrestre andasse a meraviglia. La base statunitense sul lato nascosto della Luna era prossima all'autosufficienza, con un 99% di riciclaggio completo di cibo, acqua e scorte. Solo le attrezzature più complesse erano fabbricate sulla Terra e spedite lassù. I sovietici erano finalmente riusciti a installare una colonia permanente su Marte, dopo tre tentativi abortiti e la perdita di 147 persone. Il consorzio C-J aveva varato una spedizione mista cino-giapponese che vagava nella fascia degli asteroidi e un'altra che stava avvicinandosi alle lune di Giove. L'ESA aveva un apparecchio privo di equipaggio che si accingeva a compiere un secondo Grand Tour con sonde intelligenti nelle atmosfere dei pianeti esterni. Questa è proprio l'età dell'oro dell'esplorazione spaziale, dicevano i media. Bella roba. Non vi sorprendete se vi dico che, nonostante il mio stipendio derivasse dai fondi spaziali, non dedicavo più di un minuto alla settimana del mio orario lavorativo agli sviluppi che ho citato. Io e Marcus trasecolavamo per i discorsi autogratificanti dei politici di tutti i paesi, e versavamo calde lacrime sentendo i media internazionali che vantavano a tutto spiano le "grandi realizzazioni" spaziali. Non si accorgono, nessuno si accorge, che anche quando esploreremo e colonizzeremo la Luna e gli altri pianeti, non faremo altro che giocare nel cortile di casa? Se gli umani avessero fatto sul serio nel campo dell'esplorazione spaziale, il sistema solare non sarebbe bastato. Dovevamo andare sulle stelle, e trovare un modo per arrivarci in un tempo ragionevole. La nave più veloce esistente, la Sonda Planetaria a Propulsione Elettrica Continua del Laboratorio di Propulsione Missilistica Caltech/NASA (Starseed, in breve) era diretta verso il bordo interno della Nube di Oort, ma non vi sarebbe giunta che fra dieci anni. Il che, rispetto alla durata della mia vita, non era certamente un tempo ragionevole. E, una volta arrivata là, a tremila unità astronomiche dal sole, avrebbe ancora viaggiato solo all'uno per cento della velocità della luce, e si sarebbe trovata solo a un centesimo della distanza dalla stella più vicina. Per raggiungere Tau Ceti, il massimo quanto a stella vicina fornita di pianeti utili, la sonda del Laboratorio Missilistico avrebbe dovuto intraprendere un viaggio millenario. Nonostante il nome, la Starse-
ed e simili non erano e non sarebbero mai stati la risposta. Non avrebbero messo le stelle alla portata dell'umanità. Una propulsione più veloce della luce: era quello il modo. L'unico modo. Sfortunatamente, non si poteva neanche parlare di ipervelocità con le Fondazioni Scientifiche che ci finanziavano. Marcus ci aveva provato, ed era stato ridicolizzato per tutte le pene che si era dato. Il consiglio dirigente era alquanto risoluto. Niente poteva andare più veloce della luce, lo "dimostrava" la teoria della relatività, perciò non si poteva spendere neanche un centesimo per provarci. Dovevamo invece impiegare il denaro delle Fondazioni in qualcosa di utile, tipo la pulsione ionica, buona solo per arrancare, o la fissione a impulso, che ti scuoteva fin nelle ossa. «Scemi!» disse Marcus, quando tornò al laboratorio. «Stupidi idioti.» Aveva detto più o meno lo stesso al consiglio, e ciò non era tornato a favore della sua causa. «Lo so» lo commiserai. «Sono una massa di idioti. Maledizione a tutti quanti.» In quel periodo imprecavo parecchio, e se non fosse stato per Marcus non avrei potuto fare altro. Con lui invece avevo come socio un fisico di prim'ordine che aveva studiato i principi basilari della teoria quantistica e della relatività, anziché accettarlo come vangelo. E lo aveva fatto con un unico scopo in mente: cercarvi le incongruenze. Naturalmente ce n'erano. Da Einstein in poi, tutti avevano fatto rilevare che i due campi si contraddicevano. E, finanche nell'ambito di quelle contraddizioni, la struttura dello spazio-tempo a livello subnucleare doveva essere un mare di singolarità, che si formavano e si dissolvevano di continuo. La nozione stessa di "viaggio" era priva di significato in un medium così discontinuo dal flusso costante, diceva Marcus. Semmai erano gli eruditi consiglieri delle nostre fonti finanziarie che avrebbero fatto meglio ad andarsene a fare "qualcosa di utile". Sapevo che era più intelligente di me e di tutti quelli che avevo conosciuto. Perciò quando disse che intravedeva un raggio di speranza, gli credetti. Il suo fallimento col consiglio e il fatto che l'avessero messo in ridicolo non intaccò la mia fede in lui. «Dobbiamo insistere» dissi. «Dobbiamo dimostrargli che si sbagliano.» Scosse tristemente la testa, ma ben presto si rimise al lavoro con più lena che mai. Il rifiuto non faceva altro che spingerlo a impegnarsi maggiormente. Dopo qualche mese sviluppò ulteriormente la teoria, che pareva funzionare (per lui, voglio dire, perché devo ammettere che io non l'affer-
ravo). Comunque i passi successivi toccavano a me. Nella squadra ero quello che sistemava tutto, perché Marcus era una frana nei dettagli pratici, ed era proprio negato per le diverse tecniche di lubrificazione dell'ego che oggigiorno sono catalogate sotto la voce "relazioni umane". Perciò "sistemai la cosa". Modestia a parte, con la mia solita efficienza. (Alle volte penso che la sola cosa nella vita che mi riesce davvero irresistibile è cavarmela in quello che a tutti gli altri risulta impossibile.) Il denaro non era un problema. Marcus ne aveva ereditato a palate, senza spenderne quasi niente, ma l'attrezzatura che ci serviva non era in vendita. La si poteva ottenere solo tramite programmi governativi. Così la costruzione del prototipo e i primi test su piccola scala dovemmo effettuarli in segreto, utilizzando materiali sottratti sottobanco a progetti ufficialmente approvati. Se la cosa vi sembra facile, tenete presente che tutte le singole fasi di costruzione si dovevano svolgere nello spazio. Senza l'aiuto del Controllo Inventario, che mi doveva parecchi di favori, non se ne sarebbe fatto niente. E anche così, non era una faccenda del tutto invisibile. Un giorno un revisore contabile entusiasta avrebbe scoperto che le ordinazioni di componenti e il loro impiego con corrispondevano, e la partita si sarebbe chiusa. Tanto, mi aspettavo di finire molto prima all'inferno o su Alpha Centauri. Ci vollero cinque anni e mezzo, dal giorno in cui Marcus intravide il punto centrale della teoria fino al primo test spaziale. Quel giorno io e lui, stipati in una piccola capsula da trasporto progettata unicamente per contenere della roba in caduta libera, ci fermammo, con un'occhiata al piccolo carico e un'altra fra di noi. «Be'?» disse lui. Annuii. Emise un lungo sospiro, alzò le spalle e armeggiò col pulsante di accensione. Il carico svanì senza un rumore. Il test di passaggio - Marcus insisteva nel non definirlo test di volo, dato che il carico non avrebbe "viaggiato" nello spazio normale - era stato programmato per portare un assortimento di sensori a un'ottantina di milioni di chilometri da Marte, fare un po' di foto da quelle parti e tornare nella capsula da carico. Sarebbe dovuto restare lontano per quasi venti minuti, la maggior parte dei quali passati in prossimità di Marte. Venti minuti? Mi parvero più lunghi di mesi. Quando il minuscolo carico ricomparve, restammo senza fiato. E quando
esaminammo i dati raccolti, almeno io ottenni più di quanto mi aspettassi. Il carico non aveva effettuato il viaggio verso Marte in un'unica tirata. Marcus l'aveva programmato per tornare a intervalli regolari nello spazio normale, fare un rilevamento istantaneo della rotta e utilizzarlo per orientarsi nel passaggio successivo. La sequenza di immagini che ne risultava era stupefacente. I rilevamenti erano stati effettuati ogni centesimo di secondo, a duecentomila chilometri l'uno dall'altro. Visti in tempo reale, fornivano la serie di fotogrammi che sarebbe stata ottenuta da una nave che avesse viaggiato a venti milioni di chilometri al secondo, quasi settanta volte la velocità della luce. Una velocità divina. Nelle successive ventiquattr'ore guardai quelle riprese un centinaio di volte, ebbro di euforia e della convinzione che io e Marcus saremmo stati a nostra volta ricordati come dei. Eravamo i nuovi Prometei, gli uomini che donavano all'umanità l'universo. (Come molta gente che scherza col fuoco, avevo dimenticato cos'era successo a Prometeo.) Volevo rendere immediatamente pubblici i nostri risultati. Come avevo detto a Marcus, avevamo ormai prove a sufficienza per giustificare i finanziamenti di una serie completa di test operativi. A quel punto però lui sì impuntò e non ci fu verso di smuoverlo. Quelli che tiravano le fila non si erano limitati a dire educatamente "No, grazie" a questa teoria. Avevano deriso le sue idee, insinuando che fosse un eccentrico, se non peggio. Ora voleva effettuare un volo pilotato, spingersi di persona più in là di dove fosse mai arrivato prima qualcosa, e scattare lui stesso delle immagini. Dopodiché sarebbe tornato indietro, si sarebbe recato dagli scettici che gli avevano dato del ciarlatano e avrebbe mostrato loro i risultati, invitandoli a ficcarseli nel posteriore. Prima che questo avvenisse, desiderava il massimo di segretezza. Vedete, non gli bastavano la fama e la fortuna. Voleva la vendetta. Avrei dovuto rifiutarmi di assecondarlo, ma finiva sempre per riscaldarsi più di me. Discutemmo per ore, finché cedetti. Mi disse cosa voleva per il suo Grande Test: arrivare a mille unità astronomiche, così Marcus avrebbe potuto riprendere la Starseed con il sole rimpicciolito sullo sfondo e i pianeti visibili a stento. Se trovare le risorse per il piccolo test era stato difficile, quello nuovo nave pilotata, apparati di supporto vitale e sistemi completi di controllo e navigazione - mi fece strappare quel poco che mi restava dei capelli. Per essere onesto, fu anche un periodo eccezionale, passato a fregare in una sola volta tre dozzine di persone e organismi vari. Ma dovettero passare altri
sei mesi prima di poter entrare nel suo ufficio e dirgli: «Allora, Marcus, detto e fatto. Ci siamo dentro. Questo disperato test di pilotaggio del Progetto Godspeed è fissato tra una settimana». «Davvero hai ottenuto i permessi di volo, Wilmer?» Che sarei poi io. «Come ci sei riuscito? Avrei scommesso che sarebbe stato impossibile.» Era stata una delle nostre principali preoccupazioni. Sottrarre le attrezzature era divenuta una banale routine, ed eravamo perfino riusciti a sviare l'attenzione dalle nostre vere attività descrivendo la stessa Godspeed durante la costruzione della navicella come un "modello presperimentale e postprogettuale a fissiofusione", che era sufficiente a tenere tutti alla larga. Il test precedente era stato su scala abbastanza ridotta da poter restare nascosto. Ma quello successivo non si poteva celare, dato che, anche se il passaggio iperveloce non avrebbe dovuto produrre alcun segnale rilevabile, secondo Marcus i macroscopici eventi quantici nei quali sarebbe culminato avrebbero fatto brillare e rifulgere tutta la parte esterna della Godspeed come una pietra preziosa in pieno sole. «Era impossibile, lo sapevo» dissi. «Ci ho investito tutti i miei quattrini. Non mi sorprenderebbe se ci beccassero.» «Che importa?» disse lui. «Quando torneremo da questo viaggio...» E in quel preciso momento, quando ormai si avvicinava il giorno della gloria, nel mio ufficio entrò senza bussare Sally Brown delle Operazioni di Superficie, accese il piccolo televisore appollaiato in un angolo della scrivania e disse trafelata: «Messaggi e immagini. Dallo spazio. In tutto il mondo, su centinaia di diverse lunghezze d'onda. Di origine extraterrestre. Arrivano dalle stelle». Non so cosa provocarono in Marcus quelle parole di Sally Brown, ma in me scatenarono un tale conflitto emotivo che mi venne da vomitare. Da un canto l'avvento di alieni e della loro tecnologia superiore avrebbe reso il nostro lavoro degli ultimi anni obsoleto come il cavallo da tiro, dall'altro avrei avuto quel che volevo da un pezzo: l'accesso alle stelle. Restammo immobili dinanzi allo schermo televisivo in attesa di vedere per la prima volta i Genizee. Invece vedemmo le loro navi, dentro e fuori, e le loro attrezzature tecniche. Nessuna immagine degli alieni, o almeno non ancora. In seguito scoprimmo che non erano sicuri che i terrestri fossero pronti alla vista di cilindri di poco meno di un metro di gelatina nera tremolante, con in cima una massa agitata di spaghetti gialli. Invece, ricevemmo immagini della loro tecnologia. Per quanto strano, a me e Marcus, unici fra i terrestri, risultò più difficile
accettare la vista delle navi. I segnali video erano stati inviati sulla Terra poche ore prima, da poco oltre l'orbita di Saturno, assieme a una serie di messaggi radio, nelle sette lingue principali, che proclamavano intenzioni pacifiche e davano come tempo previsto di arrivo in orbita equatoriale terrestre meno di una settimana. Potevamo anche accettare quei messaggi radio. Ma le navi... Marcus ci arrivò per primo. «Dov'è?» disse, quasi con un filo di voce. «Wilmer, dov'è la propulsione?» Nessun altro avrebbe capito quella domanda. Ma io sì. La forma di certe tecnologie è dettata interamente dalle leggi della chimica e della fisica. Questo include tutte le tecnologie di propulsione. Per esempio, un missile è un missile, non importa se il propellente è costituito da gas neutro in combustione, particelle ionizzate o radiazione. E c'è poca differenza se l'energia deriva da processi chimici o nucleari. Allo stesso modo, un laser è un laser, indipendentemente dalla lunghezza d'onda o dal livello energetico. E la propulsione iperveloce concepita da Marcus, e alla quale avevamo dedicato tanto duro lavoro, aveva una propria fisica e un'impronta caratteristiche. Le navi dei Genizee non mostravano alcun segno di quell'impronta. O avevano viaggiato nel vuoto interstellare utilizzando un metodo così avanzato che non riuscivamo a riconoscerlo, oppure - molto più probabilmente, secondo il punto di vista paranoico di Marcus - stavano deliberatamente occultando tutte le informazioni sulla loro propulsione iperveloce. Né io né Marcus riuscivamo a immaginare una terza possibilità. Quando fu proposta una terza opzione, Marcus non ci credette. Non ci ha mai creduto finora. A ripensarci, gli alieni ci si rivelarono poco alla volta e con molta cautela. Dapprima portarono le loro tre navi in orbita attorno alla Terra, a 800 chilometri di altezza, dove se ne rimasero tranquillamente per una settimana e mezzo, senza fare altro che chiacchierare via radio e accertarsi di essersi impadroniti alla perfezione delle lingue terrestri. In quel periodo ci rivelarono parecchie cose sul loro conto, e in cambio non chiesero altro che le nostre frasi idiomatiche. Il primo giorno scoprimmo che venivano dal sistema di Tau Ceti. (Io e Marcus avevamo fatto centro, anche se era ben poco consolante, a pensarci.) Il secondo giorno ci diedero una descrizione della loro civiltà, con cinque pianeti popolati, lune e legami con altre
intelligenze ancor più lontane. Queste ultime, secondo i Genizee, erano tutte pacifiche, ben intenzionate e solidali come loro. Il quinto giorno avemmo una prima visione dei Genizee. A quel punto, ci avevano addolcito tanto che la reazione di quasi tutti quando videro l'immagine di uno Genizee fu di comprensione: un essere così razionale era costretto a convivere con un così brutto aspetto. La comprensione si affievolì un po' quando i Genizee ci rivelarono che vivevano in media ventisettemila anni terrestri. Alla richiesta di mettere a disposizione degli umani la formula della longevità, replicarono, scusandosi con una scrollatina, che non c'era alcuna formula. I Genizee erano da sempre così longevi. Ci credettero quasi tutti, tranne Marcus. Lui covava già un sacco di brutte congetture. La notizia sconvolgente annunziata dai Genizee alla fine della seconda e ultima settimana confermò in pieno i suoi sospetti. Durante una trasmissione televisiva (il mondo stava incollato alla tv dal loro arrivo) fu loro chiesto del viaggio interstellare. Al che diedero una risposta impossibile. Non avevano utilizzato affatto l'ipervelocità, dissero, ma un'efficiente propulsione inferiore alla velocità della luce che gli aveva permesso di raggiungere la metà di quest'ultima. Avevano impiegato venticinque anni ad arrivare da Tau Ceti. Compivano tutti i viaggi interstellari a frazioni della velocità della luce. L'accolita prestigiosa di illustri scienziati radunati per interagire con gli alieni fu, si può ben credere, lieta di quella risposta. Confermava, dissero, le loro convinzioni che il viaggio a una velocità superiore a quella della luce era un'impossibilità fisica. Niente si sarebbe mai potuto muovere da un punto all'altro: l'ipervelocità avrebbe annullato la distanza. Be', dissero i Genizee con una scrollatina di scuse, non è del tutto esatto. In realtà, il motivo per cui ci siamo imbarcati in questo lungo viaggio per venire di persona sulla Terra, anziché inviarvi dei messaggi ai quali avreste potuto non credere, o ignorare, era proprio questa. Alcuni vostri scienziati stanno conducendo esperimenti sull'ipervelocità... Nessuno si era rivolto a me o a Marcus Aurelius Jackson per aiuto e consiglio quando erano giunti i Genizee. Perché mai? Eravamo giovani e poco importanti, senza una reputazione e meriti riconosciuti, e Marcus aveva già il marchio dell'eccentrico. Anche se avessimo offerto i nostri servigi, nessuno li avrebbe accettati, o anche solo ascoltato quel che avevamo da dire. Tutto questo cambiò nel giro di dieci minuti... I dieci minuti in cui i Ge-
nizee spiegarono che l'ipervelocità non era impossibile, che implicava un enorme pericolo e la possibile distruzione totale di tutte le specie che avessero tentato di realizzarla, per motivi che sarebbero stati lieti di spiegarci; che inoltre tali tentativi erano in corso sulla Terra in quel preciso momento, e che i Genizee erano giunti con due scopi principali: localizzare l'area degli esperimenti e avvertire gli abitanti della Terra, invitandoli a desistere. La mia reazione immediata fu di totale incredulità, con buona ragione. Se i Genizee avevano viaggiato per venticinque anni, dovevano essere partiti venticinque anni prima che sviluppassimo anche solo la teoria della propulsione iperveloce. Perciò non potevano essersi diretti verso Sol solo perché avevano raccolto le prove di quello che stavamo facendo io e Marcus. Fu Marcus stesso, non certo un fan dei Genizee, che si affrettò a correggermi su quel punto. Sapeva da un pezzo che un'eventuale propulsione iperveloce avrebbe generato potenziali sia avanzati che ritardati, simili a quelli della teoria elettromagnetica convenzionale. Ambedue i potenziali si propagavano nello spazio-tempo e si esaurivano in magnitudine... Ma il potenziale avanzato si muoveva a ritroso nel tempo. Quegli esperimenti che ritenevamo tanto segreti sarebbero potuti essere rilevati dai Genizee prima ancora che li eseguissimo. Loro stessi confermarono il suo commento in seguito, nel corso della stessa trasmissione. Potevano rilevare il segnale da lontano, dissero, perfino da Tau Ceti. Ma solo quando si fossero avvicinati di parecchio alla Terra la loro attrezzatura sarebbe stata in grado di fornire un'esatta localizzazione. E ormai l'avevano fatto. Sarebbero stati lieti di fornirla alle autorità terrestri. Lo fecero, aggiungendo per qualche minuto severi avvertimenti contro le propulsioni iperveloci. Bastava usarle una mezza dozzina di volte per provocare "gravi ripercussioni" in quella regione dello spazio. Detto ciò, fra lo stupore generale, misero in moto le loro navi e si allontanarono dalla Terra. Era negativo per una civiltà emergente, spiegò il loro messaggio di saluto mentre le tre navi si allontanavano pesantemente verso Saturno, stare troppo a contatto con una più antica e più sviluppata. Ora che avevano lanciato l'avvertimento, l'unica cosa responsabile da fare per loro era andarsene, e lasciare che noi umani ce la cavassimo da soli. Addio e buona fortuna, popolo della Terra. Immagino che scienziati e politici fossero scioccati. Speravano di becca-
re tecnologia gratis dai Genizee, e non ne avevano cavato altro che chiacchiere. Io e Marcus non ci facemmo molto caso all'epoca, perché avevamo i nostri grattacapi. Nel giro di qualche ora dopo la trasmissione dei Genizee, il nostro laboratorio era stato chiuso e sorvegliato da tanti di quei militari da poter combattere una guerra di vasta portata. Fummo accusati di furto di attrezzature governative, uso indebito dei finanziamenti e voli spaziali senza le necessarie autorizzazioni. Non dovevano essere crimini tali da farci finire al fresco. E invece lo furono. Dopo quello che avevano detto i Genizee, nessuno voleva lasciarci liberi, non per quello che secondo loro avevamo fatto, ma per quello che a detta degli alieni potevamo fare. Calma, ci dicemmo io e Marcus. Non ci terranno dentro per più di un giorno. O no? Anime innocenti! Altro che un giorno. Per la prima volta in vita mia, scoprii che cosa s'intendeva per caccia alle streghe. Dubito che una persona su un milione avesse capito la spiegazione dei Genizee sui pericoli della propulsione iperveloce, ma non importava niente. Gli stessi Genizee ci avevano additato, dunque eravamo colpevoli. Fummo tenuti sotto stretta sorveglianza, senza processo, a meno che non fossero tornati i Genizee a dire che ci si doveva rilasciare. Io stesso non avevo capito a cosa alludesse l'avvertimento dei Genizee quando l'avevo sentito, ma il mio compagno di cella era Marcus Aurelius Jackson. Lui sapeva cosa stavano dicendo al mondo intero... e non credeva a una parola. Marcus non si limitò a esporre le sue ragioni a me. Le disse alle guardie, alle nostre rispettive famiglie e alla fine, dopo due mesi di lavoro da parte mia, si riuscì a convincere tre esponenti della stampa, che vennero a intervistarci nella nostra prigione di massima sicurezza nel deserto del Nevada. «Per una propulsione iperveloce occorre una quantità spaventosa di energia» disse ai tre reporter. Eravamo tutti seduti in una stanza, senza sbarre tra di noi, perché mi ero lavorato a dovere le guardie, e alla fine le avevo convinte che magari eravamo pazzi ma sicuramente innocui. La stanza aveva perfino una finestra dalle sbarre sottili, con solo quattro guardie all'interno e due fuori dalla porta. «Un'enorme quantità di energia» proseguì Marcus. «L'unico modo pratico, e anche teorico, per ottenere tanta energia è dallo stesso vuoto assoluto. Bisogna attingervi.»
«Vuol dire ottenere energia dal nulla?» chiese il giornalista più giovane. Aveva un viso aperto, ingenuo. Gli altri due, un uomo e una donna, non sembravano neanche vagamente interessati, e pensai che per loro tutto quel viaggio doveva essere un incarico dal quale non erano riusciti a scappottarsela. «Non dal nulla. Dal vuoto!» Era quello uno dei problemi di Marcus, perché anche se era chiaro dalle espressioni dei loro volti che questa sottile distinzione andava al di là delle capacità di comprensione dei reporter, riprese subito: «Ora, l'energia disponibile nel vuoto è così grande che si tende a considerarla illimitata. Ma i Genizee insistono sul fatto che attingere l'energia al punto zero provoca una tensione locale nello spazio, che alla fin fine dev'essere eliminata. Se si sottrae energia in una zona oltre un certo punto critico, dicono, si verificherà un salto a uno stato fondamentale di più basso livello energetico. L'unico stato più stabile è un buco nero. L'intera regione si mette ad assorbire dal resto dell'universo». «In altre parole» dissi io «il resto dell'universo si sbarazza della regione sottoposta a tensione facendola svanire.» Vidi le bocche aperte e mi chiesi se non stessi diventando oscuro come Marcus. Ma me l'aveva ripetuto tante di quelle volte che alla fine mi era entrata in testa della roba con un po' di senso. Forse il mio era un quadro troppo semplificato, ma ai reporter dovette risultare più digeribile. «Immaginate che l'universo sia un ammasso di elastici» continuai. «Qualcuno comincia a tenderne uno, da qualche parte. È questo che abbiamo fatto quando abbiamo collaudato la propulsione. Lo si può tendere un bel po', e non succede niente. Tutti gli altri elastici cedono un pochino e tutto torna a posto. Ma se si continua a tendere, arriva un punto in cui qualcosa deve cedere. L'elastico si rompe. E quando questo succede, niente può tornare come prima. Con l'elastico spezzato, si viene catapultati fuori da questo universo.» «Ed è contro questo che ci stanno mettendo in guardia i Genizee?» disse il giovane reporter. «Sì, ma non è affatto vero» disse Marcus con trasporto. «Quando ho sentito quello che dicevano, mi sono rifatto tutti i calcoli dall'inizio. Non c'è nessun effetto di rinculo. Lo spazio-tempo effettua un piccolo e tranquillo aggiustamento. Magari la curvatura locale decresce da una parte su dieci alla ventesima. La propulsione iperveloce è del tutto sicura.» «Ma questo significa che i Genizee ci hanno mentito» disse la donna, in tono irritato. «Vorrebbe sostenere che non hanno fatto tutto il viaggio su
quelle navi? O che non ci hanno messo un quarto di secolo ad arrivare?» «Entrambe le cose!» disse Marcus ad alta voce. Le guardie entrarono in agitazione, assicurandosi di avere le armi a portata di mano. «Mentivano in ambedue i casi. Non hanno fatto tutto il viaggio su quelle navi e non ci hanno messo un quarto di secolo ad arrivare sin qui. Sono venuti da Tau Ceti, se ne sono davvero originari e se non mentono anche su quello, su una nave grossa e rapida, a propulsione iperveloce. Hanno parcheggiato l'astronave madre oltre Saturno, dove non potevamo vederla. Dopodiché si sono trasferiti su quelle navicelle lente, e si sono fatti pian pianino il resto del viaggio fino alla Terra.» Marcus stava per perdere ogni possibile briciolo di credibilità, perché il giovane reporter si affrettò a fare l'ovvia domanda: «Ma perché ci avrebbero mentito? Cosa ne speravano di ricavare?» «Non vogliono che usiamo l'ipervelocità. Ci vogliono imbottigliare qui, nel sistema solare. Non ci vogliono affatto, noi umani, lassù tra le stelle. Credo abbiamo paura di noi, perché siamo più intelligenti di loro.» Sembrava un atteggiamento paranoico, perfino a me. Stava sprecando fiato. Anche se i reporter gli avessero creduto, e mi sembrava chiaro che non era quello il caso, non avrebbero mai trovato un direttore disposto fargli pubblicare il pezzo. I Genizee, all'inizio di aspetto repellente, non erano rimasti tanto da far capire agli umani i loro possibili difetti. Il loro modo di esprimersi lento e pasticciato e l'apparente confusione, che Marcus riteneva fossero la prova della superiorità mentale degli umani, erano per la maggior parte della gente una componente del loro fascino. I Genizee erano diventati gli alieni preferiti di tutti, e non c'era verso di parlarne male. I grandi magazzini traboccavano di cilindri gelatinosi piccoli e graziosi sormontati da un ciuffo, anche se per ragioni estetiche quei giocattoli non avevano lo strato di melma che consentiva di stare fuori dall'acqua ai Genizee, anfibi. In un'eventuale disputa tra Marcus Aurelius Jackson e i Genizee, M.A.J. non aveva una sola possibilità di spuntarla. Dopotutto, gli altruistici Genizee non avevano dedicato tanti anni delle proprie vite solo per venire sulla Terra ad avvertirci? E ora non stavano tornando faticosamente indietro lungo gli anni luce nelle loro navicelle strette e scomode, con venticinque anni di viaggio davanti a sé? Quanta altra gente sulla Terra avrebbe fatto qualcosa del genere, anche solo per salvare dei parenti stretti? Specialmente per salvare dei parenti stretti. Così, anche se Marcus continuava a parlare, sapeva di sprecare del tem-
po. Sapeva che non avrebbe avuto una riga di stampato o un secondo di trasmissione per le sue opinioni impopolari. Mi sbagliavo, visti i risultati. "L'INCORREGGIBILE SCIENZIATO PAZZO!" proclamava l'unico titolone dedicatogli. E sotto: "Chiesta la pena di morte per gli inventori psicopatici". Marcus è un caso interessante per gli psicologi. Quando la sua idea di una propulsione iperveloce era stata messa in ridicolo, aveva raddoppiato i suoi sforzi. E quando le sue opinioni altrettanto eretiche sui Genizee furono derise, immediatamente volse tutte le sue energie dalle congetture ai possibili metodi per provarle. «Ci dev'essere un modo per dimostrare che ho ragione» disse. «Wilmer, permettimi di riepilogare i fatti.» Non replicai. Quando si vive assieme in una cella, è difficile evitare una discussione. «Punto primo» continuò Marcus. «Secondo me il potenziale avanzato del nostro test si deve esaurire rapidamente, man mano che va indietro nel tempo. I Genizee dicono di averlo rilevato un quarto di secolo fa, io invece sostengo che si esaurisce a livello ambientale e diviene non rilevabile nel giro di un anno o anche meno. Se ho ragione, e ce l'ho, non possono aver raccolto prove del nostro test più di un anno prima di venire qui.» «Punto secondo. Dicono di venire da Tau Ceti, e la loro traiettoria di partenza va a sostegno di quest'idea. Anche in caso contrario, comunque, sono venuti certamente da oltre il sistema solare. La stella più vicina è a oltre quattro anni luce. Quattro anni luce, o di più, in un anno o meno significa che sono venuti per forza usando una nave a ipervelocità. «Punto terzo. Se ne sono andati due settimane fa. Se intendevano davvero rifarsi tutta la strada per Tau Ceti, o un'altra destinazione interstellare, in quelle navi subfotoniche, sono ancora nella fase di accelerazione iniziale del viaggio. Anche col più efficiente sistema propulsivo che mi venga in mente, gli ci vorrebbe quasi un anno per arrivare a metà della velocità della luce.» Mi fissò: «Capisci che significa?» «Significa che sono ancora a un bel pezzo di strada da casa. Sono altruisti proprio come credono tutti.» «No.» Se quelli della stampa avessero visto Marcus ora, avrebbero ritenuto pienamente giustificato il loro titolo L'INCORREGGIBILE SCIENZIATO PAZZO. «Wilmer, significa che se dicevano la verità su come so-
no venuti qui e come tornano indietro, e dove vanno, in tal caso chiunque viaggiasse con una nave a ipervelocità potrebbe partire per raggiungerli. Se loro non sono dove dovrebbero trovarsi, allora mentono, o sul fatto di venire da Tau Ceti o sulla propulsione. Basta una bugia a screditare tutto quello che ci hanno raccontato. Se proprio vuoi saperlo, secondo me sono già a casa, dovunque si trovi, e scommetto che non è Tau Ceti, a sganasciarsi di risate su quanto sono creduloni i terrestri.» Lo guardai, poi lasciai vagare lo sguardo sui muri bigi e spogli della stanza. «Ora permettimi tu di riepilogare i fatti, Marcus. Punto primo. C'è solo una propulsione iperveloce nel sistema solare ed è sotto sequestro, in orbita e custodita con misure di massima sicurezza, perché tutti sulla Terra e nello spazio ne hanno terrore. Se non avessero paura anche solo di sfiorarla, l'avrebbero distrutta da un pezzo. «Punto secondo. Ci sono solo due esseri umani in grado di far volare quella nave. Nessun altro si avvicinerà alla Godspeed. «Punto terzo. Quei due umani sono rinchiusi in una stanza sotterranea di un edificio nel bel mezzo del deserto del Nevada. Non hanno attrezzi, amici, soldi, non una maniera per andare nello spazio, e tanto meno per arrivare alla Godspeed. Scordatelo, Marcus, non ce la faresti mai, neanche in mille anni.» «So che io non ce la farei» disse, continuando a fissarmi. Sentii un fremito allo stomaco, come se la colazione precedente fosse diventata una massa di vermi vivi. «So che io non ce la farei» ripeté. «Non è il mio genere. Ma tu, Wilmer, se tu...» «È impossibile.» «Ne sono certo.» «Del tutto impossibile.» «Già.» Si alzò e andò a stendersi sul letto senza aggiungere una sola parola. Dopo qualche istante anch'io andai a sdraiarmi sul letto, e chiusi gli occhi. Decisi che non ero stato del tutto onesto parlando con Marcus. Avevo ancora degli amici fuori, e qualche credito con loro per dei passati favori. Avevo anche coltivato le nostre guardie, attingendo un po' al capitale di Marcus, a un punto tale che normalmente ci avrebbero abbandonato a noi stessi, ma mi avrebbero fatto qualsiasi favore strapagato, sempre che ovviamente non costituisse una minaccia per loro e per altri. Per quanto riguardava le misure di sicurezza che circondavano la Godspeed, probabil-
mente avevo esagerato. Nessuno se ne preoccupava granché, almeno finché io e Marcus eravamo rinchiusi lì... Rabbrividii, interrompendo il corso dei miei pensieri in quel punto. Cosa stava cercando di farmi fare Marcus? Aiutarlo a distruggere noi stessi, insieme all'intera razza umana? Però lui aveva toccato quel punto oscuro e nascosto in cui si trova l'ego. Ormai i vermi mi si erano insinuati dallo stomaco alla gola, e di là al cervello, appiccandogli fuoco. Se fossimo scappati dalla prigione, sarebbe scattato subito l'allarme. Si sarebbero messi alla nostra ricerca. Non ce l'avremmo mai fatta ad arrivare troppo lontano dalle mura della prigione, per non dire nello spazio, e le guardie attorno alla Godspeed sarebbero state triplicate di numero e poste in stato di massimo allarme. Ma bastava una persona a far volare la Godspeed. E ci sarebbe voluto un autentico gioco di prestigio qui, in prigione, per nascondere il fatto che era scappato un prigioniero. Dunque, Marcus a pilotare la nave e progettare i programmi che avrebbero permesso quella specie di sequenza a scatti effettuata dal carico automatico verso Marte, in cerca della nave dei Genizee a ogni passaggio. Io qui a sistemare le cose... Come, per amor di Dio? Non ne avevo idea... e anche di come far sì che nessuno si accorgesse che Marcus era scappato finché non fosse giunto alla Godspeed. Aprii gli occhi. Marcus era seduto sul letto e mi guardava pieno di aspettative. «Allora?» domandò. «Va' al diavolo.» Chiusi di nuovo gli occhi. Per chi mi aveva preso? Me ne ero stato lì per non più di tre minuti. Qualche volta le cose straordinarie si possono fare alla svelta. Per i miracoli ci vuole un po' di più. Un "po' di più" in questo caso furono sei settimane. Tutto dovette essere orchestrato meglio di un aggancio in orbita fra cinque navi. Suddivisi il problema in una serie di tronconi, per ognuno dei quali occorreva una soluzione se l'intera faccenda doveva andare in porto. Marcus sarebbe dovuto scappare da qui di nascosto. Quindi dovevo occultare le prove della sua assenza per almeno cinque giorni. Marcus avrebbe avuto bisogno di tutto quel tempo per arrivare dal Nevada alla Godspeed. Dopo gii sarebbero servite delle credenziali per salire a bordo della nave e restarci indisturbato. A quel punto toccava a lui. Ero pronto a un tentativo che avrebbe richiesto un anno, con una buona
probabilità di fallimento alla fine. Il fatto curioso è che il mio successo fu possibile in sei settimane solo perché ero stato messo in prigione. Avendo abbastanza denaro, e io e Marcus ne avevamo a palate, un uomo può ottenere in galera tutto quello si può ottenere fuori... più un bel po' di altra roba. Le prigioni, come imparai alla svelta, sono i naturali punti focali di tutte le attività immaginabili, legali e illegali. Volete che Marcus Aurelius Jackson prenda parte agli esperimenti di deprivazione sensoriale condotti al momento in questa stessa prigione? Il gruppo universitario esterno responsabile degli esperimenti sarà lieto di averlo. Per loro, un prigioniero benestante è come un altro, tutto quello di cui hanno bisogno sono le segnalazioni delle guardie. Portare qualcuno di fuori in galera, per entrare nel contenitore di deprivazione sensoriale al posto di Marcus, costa qualche migliaio di dollari. Far uscire Marcus con i vestiti di quell'individuo è più costoso, ma non molto più difficile. Non c'è nulla che sia a buon mercato. Vi piacerebbe una serie di credenziali false, secondo le quali siete un uomo d'affari del Nevada in viaggio nello spazio con esigenze di segreto commerciale? Non c'è problema, a parte i soldi, e parecchi. Molti dei migliori falsari del mondo sono già rinchiusi in galera, pronti a servirvi. L'unico pezzo del rompicapo che non riuscivo a capire come risolvere sarebbe stato a bordo della stessa Godspeed. Marcus non voleva compagnia per il suo viaggio, perciò qualcuno doveva fare in modo che restasse da solo sulla nave, abbastanza da poter effettuare il primo passaggio all'ipervelocità. Mentre ci stavo ancora pensando su, Marcus aveva per la mente tutt'altro problema. «Spero che l'impianto di alimentazione della nave sia stato lasciato acceso» disse, mentre trasferivamo parte del suo denaro su un conto bancario anonimo. «Sarebbe un guaio dover rimettere in funzione tutti i sistemi.» Lo fissai: «Grazie, Marcus. Ne avevo proprio bisogno». Secondo le sue false credenziali, nuove di zecca, era uno specialista di sicurezza industriale, in volo verso la Godspeed per disattivare le pericolose componenti nucleari della nave, in modo che non potessero esplodere. Con quelle alla mano e qualche parola buttata lì a caso mentre saliva a bordo, sarebbe stato difficile che restasse qualcuno nel raggio di mille chilometri. L'ultima mattina ci stringemmo la mano, per la prima volta da quando eravamo amici. La porta venne aperta dall'esterno. Marcus uscì dalla cella,
e al suo posto apparve un individuo sui vent'anni, con lo sguardo perplesso e una brutta acne. Vennero a prenderlo nel giro di un'ora. Per un attimo mi domandai se avesse mai saputo cosa fossero gli esperimenti di deprivazione sensoriale. Dal suo sguardo, non sarebbe stato un grosso cambiamento rispetto alla condizione attuale. Mi diedi una calmata, per valutare i movimenti di Marcus. Adesso doveva essere arrivato all'aeroporto, scendeva dall'auto preparata per lui fuori dalla prigione e ritirava il biglietto. Adesso doveva essere alla base spaziale, che subiva i controlli fisici di routine, compresa un'identificazione col DNA. Avrebbe dovuto superarla facilmente: avevo assunto il miglior hacker disponibile sul mercato, per inserire un profilo d'identificazione di Marcus nella giusta banca dati computerizzata. Otto ore dopo sarebbe dovuto salire in orbita, e dopo altre quattro ore sarebbe stato a bordo del velivolo di trasferimento orbitale, diretto alla Godspeed. Tenni accesa la tv ventiquattro ore al giorno. Niente nuove, buone nuove, ovvio, finché Marcus non fosse arrivato alla Godspeed compiendo il passo finale. Avevo tutto il tempo di chiedermi se la mia fede in Marcus non fosse eccessiva. Si trattava di un uomo contro il mondo, della sua autorità contro la parola dei Genizee. Stamane, come previsto, la tv si è fatta viva. Su tutti i canali c'era la notizia dell'inspiegabile scomparsa della Godspeed. Era ovvio che non avevano la minima idea di cosa stesse accadendo, dato che i commentatori erano preoccupati per il destino dell'"ispettore di sicurezza" che si trovava a bordo al momento del fatto. Nel giro di un'ora sono venuti a interrogarmi. Mi sono visto in televisione e ho appreso con mio sollievo che Marcus Aurelius Jackson era "in prigione ma non disponibile per un commento". Ho detto di non poter rivelare loro niente di utile. Penso di essere apparso preoccupato. Ero preoccupato. E adesso, nel tardo pomeriggio, in attesa di un'altra intervista televisiva, osservo le mie guardie e il sole pomeridiano che scende fra le sbarre della minuscola finestra, e sono ancora preoccupato. Anche se Marcus e la Godspeed sono partiti solo da dieci ore, sarebbero dovuti tornare da un pezzo. Per seguire il presunto percorso dei Genizee ci sarebbero voluti solo pochi secondi, anche con le brevi pause tra i passaggi per tornare nello spazio normale in cerca delle navi dei Genizee. Marcus poteva essere arrivato a mezzo anno luce, ben oltre il punto raggiunto dalle
loro navi lente, ed essere tornato da ore. Mi sono passati per la testa strani pensieri. Supponiamo che Marcus abbia trovato le navi dei Genizee e loro lo abbiano distrutto per impedirgli di tornare a raccontarlo? Non gli avevamo chiesto se a bordo delle navi trasportavano armi. Ma mi accorgo che il mio pensiero è del tutto illogico. Marcus poteva trovare i Genizee solo se ci avevano detto la verità, e stavano arrancando sulle loro navi lumaca. In quel caso non avrebbero avuto niente da nasconderci. Ma forse Marcus, non essendo riuscito a trovare alcuna traccia dei Genizee diretti a Tau Ceti, aveva deciso che ci stavano nascondendo il loro vero punto di origine. Sarebbe stato facile per lui far compiere un secondo viaggio alla Godspeed verso un altro probabile bersaglio tra le stelle. E se questo non avesse dato alcun risultato, sarebbe potuto ripartire. Quanti altri viaggi avrebbe potuto compiere, prima di ottenere prove sufficienti a dimostrare a tutti i terrestri che i Genizee avevano mentito? Conosco molto bene Marcus. Fa parte della sua natura essere assolutamente sicuro delle cose. Non rischierà di farsi irridere nuovamente. Io mi sarei accontentato di un solo viaggio e l'avrei conclusa lì. Lui era capace di farne una dozzina. Il che mi porta da tutt'altra parte. Secondo i Genizee, basterebbe impiegare una mezza dozzina di volte la propulsione iperveloce per provocare "gravi ripercussioni" in una regione dello spazio. Una regione grande quanto? I Genizee parlavano del collasso in un buco nero che era parte dello spaziotempo, con la conseguente separazione di quella regione dal resto dell'universo. Parliamo del collasso di qualcosa delle dimensioni di una nave... di un pianeta... o del sistema solare? Il collasso avverrebbe con violenza, con calma o con discrezione? E la Godspeed si troverebbe all'interno di questa regione o ne sarebbe esclusa? E se Marcus e la sua nave ne restassero fuori, non potrebbero diventare l'unica prova nell'universo dell'esistenza degli umani? Questo è il tipo di domande alle quali non so rispondere. Vorrei che Marcus fosse qui ad assicurarmi che i Genizee certamente mentivano, che sto dicendo delle sciocchezze, che non c'è niente di cui preoccuparsi. Il sole al tramonto di mi dà un po' di sollievo, con i raggi che attraversano come sempre la piccola finestra con le sbarre. Ma vorrei che arrivasse subito l'oscurità. Voglio vedere le stelle. Titolo originale: Godspeed
Analog Science Fiction and Fact July 1990 OCCHI PROFONDI di Gregory Benford Seguiteci nella caccia all'ultima mantide ultratecnologica 1: Il vuoto della Mantide Lui e Quath scoprirono la macchina aliena nelle fauci dell'oscurità. Quath inviò un segnale emag, una puntura di spillo di un arancione vivido nel sensorio di Toby - poi il silenzio. Toby attese. Quath si spostò in silenzio verso destra, racchiuso in un buio così profondo che non riusciva a scorgersi la mano senza far ricorso al sensorio. La Mantide era lassù da qualche parte. Sensi che non poteva nemmeno nominare gli rivelarono che altre creature si stavano muovendo anche qui. Avevano poco emag, se non nulla del tutto, però seguivano una pista, le scie chimiche lasciate dagli altri, odori che filtravano dalle ghiandole profonde, sbuffi e sentori liberati per caso o di proposito. Tutto, qui, aveva padroneggiato questi canali chimici. I sensi biologici di Toby non li percepivano. Gli umani si aberravano a rumori e vista, i punti forti dei primati. Qui i piccoli rumori di scavo e scalpiccio gli dicevano che c'erano altri teatri, altri spettacoli, e lui non sarebbe mai stato tra il pubblico prescelto. Eppure con Quath era stato in quel teatro, e ne era uscito diplomato per questo curioso mondo d'ombra fatto di profumi elettromagnetici e di squassanti morti voltaiche. Un rivolo di domande gli si fece strada nel sensorio. Lì: Quath. Assieme si spostarono tra cespugli irregolari. Si concessero il tempo di superare gli intralci. Persino una lacrima avrebbe allarmato la Mantide e poi ci poteva anche essere una trappola. Quath fu scossa da un fremito d'impazienza. Ruscelli argentei d'eccitazione magnetica arrivarono a Toby, sparsi e a corto raggio, effusioni involontarie. Il mormorio della vita chimica cessò. Silenzio. Toby non riusciva a vedere nulla, né attraverso gli occhi né attraverso le dotazioni sensoriali. Quath si avvicinò, una presenza che sentì come un cuneo d'aria, adesso alla
sua sinistra. Poi la colse. La Mantide era un lastrone di vuoto alla sua destra. Non sarebbe riuscito a sentirlo se non fosse rimasto assolutamente fermo e all'erta. La sensazione non venne da ampi scrosci del suo apparato ricognitivo, che sgorgavano attraverso nervi e ossa. Quelli rimasero quiescenti. La Mantide riusciva ancora ad apparire come un vuoto, un'assenza. Si mosse a una distanza indefinita, ma Toby riuscì in qualche modo a fiutarla; I vecchi sensi raccolsero un puzzo d'acido e di fredda putrefazione. Non osò muoversi, ma l'odore che aleggiava su una brezza gelida gli disse abbastanza. La Mantide si stava spostando veloce, e la distesa vuota si restrinse. Adesso il vuoto fu bordato di grigio. Sembrava normale, ma sapeva che era il vuoto, l'assenza della Mantide. Da essa poteva scattare in qualsiasi frazione di secondo un aculeo biforcuto. Morte o ferite, o ali emag. Poi fu soltanto un puntolino. Sempre in movimento. Toby sussurrò a Quath nella trasmittente a corto raggio: — Raccolte le sue tracce? — Quanto? — Ne sei sicura? — Anche noi. — Anche tu sei mezzo macchina, amica. Toby aveva soltanto una vaga idea di quel che intendeva dire Quath, ma non era una cosa nuova. Lei era un incrocio di varie razze organiche insettiformi - il suo "substrato", come le definiva -, con degli inserti meccanici. Nella sua struttura era inclusa la possibilità cibernetica di comunicare con gli umani. Il percorso inverso, cioè la possibilità che le persone potessero parlare con i Miriapodi in quella loro gragnola di suoni digitali, non aveva trovato sbocchi. Gli umani non possedevano tali capacità o capacitazioni. — Siamo anche noti per essere duri da far fuori. — Un Bishop scorge la Mantide, noi la inseguiamo. Sarebbe "animosità", questa? — Uhm, direi di sì. E proprio in questo momento la carne esige riposo.
2: Inseguimento difficile «Sei sicuro che non vi abbiano sentito?» chiese il padre. «Sissignore.» «Quath?» Gli occhi di Killeen si spostarono per studiare la testona della millepiedi. Toby non era mai riuscito a capire perché si prendesse la briga di farlo. Abitudine, forse. La faccia dell'alieno era una distesa irta di sensori in cui Toby non era mai riuscito a decifrare un'espressione. «Maledizione» fece Killeen. «Non volevo che mi impartissi una lezioncina.» «Livello di sicurezza?» <Approssimativamente settanta.> Killeen annuì. «Non c'è male. Andiamo.» «Adesso?» Toby avrebbe preferito riprendere fiato. «Non serve a niente stare ad aspettare.» Con irruenza Cerino si fece strada lungo il calanco, arrivando ansimante fino alla sporgenza su cui erano seduti gli altri. «Non ricevo nulla dai fonorilevatori esterni.» Il suo faccione si corrugò per l'apprensione, ma non aggiunse altro. L'uomo corpulento si sistemò sulla sporgenza e si mise a guadare verso l'orizzonte. Una luce perlacea si stendeva sulle lontane cime calcaree. Era come un'alba soffocata in un mondo ripiegato su se stesso. Sopra di loro si stagliava il paesaggio di un lontano deserto bronzeo. La distesa, a parecchie centinaia di klick, ma ancora visibile attraverso la foschia ovattata, era solcata da letti di fiumi in secca. Quelle vallate fluviali sembravano antiche e Toby sapeva che le potevano raggiungere con circa una settimana di marcia forzata, attraverso scarpate e macerie. Forse la Mantide li avrebbe portati là. Il sentiero era tortuoso e "accidentato, lo spazio tempo s'avvolgeva su se stesso in nodi non immaginabili fin quando non li avevi affrontati. «Dirigiamoci là, allora» disse Killeen alzandosi. Mentre si avviavano Toby sentì una vampata d'entusiasmo che durò fin quando non rintracciarono la scia della Mantide. All'inizio pensava di essere più forte di Killeen e Cermo, spazientendosi per il loro procedere posato mentre setacciavano l'area in cerca di tracce. Killeen si fermava ogni ora
per riposare, vecchia disciplina della famiglia Bishop che però, proprio all'inizio di un inseguimento, bastava a irritare Toby. — Poco ma sicuro che posso avanzare più veloce di così — comunicò a Quath nel loro circuito privato. Quath, che avanzava su propulsori interni potentissimi, li poteva staccare tutti facilmente. — Forse dovresti andare avanti tu. — Quali sarebbero? — Toby era sinceramente interessato. Le capacità dei Miriapodi ridicolizzavano quelle degli umani. — Uhm, tutto qui? Dopodiché Quath non disse più nulla. Toby ci rifletté su un po' ma a quel punto aveva cominciato a spazientirsi mentre Killeen e Cermo stavano sempre avanzando con il loro ritmo continuo. Si concedevano le medesime brevi pause esattamente ogni ora poi ripartivano. Anche Quath stava affrettando il passo. O almeno così sembrava, anche se attraverso gli occhi che pizzicavano per il sudore adesso la terra gli si stava aprendo davanti più velocemente e lui vi si tuffava con un'energia rinnovata, generata dalla fatica stessa. Arrivarono al primo dei loci della Mantide, in una scarpata di cronopietra scintillante. Cermo individuò il piccolo esagono lucente, e disse, assestandogli un calcio: «La Mantide sta cascando a pezzi». esclamò Quath. Lo fece. Il volto consunto di Killeen si contrasse. «Perché? Cosa sta facendo?» <Sospetto che si stia liberando delle porzioni indesiderate. Sottocoscienze di cui non ha bisogno.> Toby domandò: «Che senso ha?» «Alleggerirsi» rispose Cermo. Toby soppesò il frammento sul palmo della mano. «Questa roba non possiede massa.» «Probabilmente ha scaricato un intero settore e questo è solo un frammento» aggiunse Cermo. Aveva cacciato macchine di tutti i generi e specie e le disprezzava con distacco nonostante avessero abbattuto molti suoi amici.
«Buon segno» fece Killeen con voce piatta, poi proseguirono. Il terreno cominciò a muoversi sotto di loro. L'aspetto peggiore di quel fenomeno stava nella confusione viscerale che generava, nella nausea e nei sobbalzi che ribaltavano lo stomaco. Gli occhi di Toby non gli rimandavano quello che sentivano i piedi e il corpo. Si ricordava che una volta Quath gli aveva detto, a proposito della cronopietra: Il tratto che meglio la definisce è la sua mancanza di definizione, e allora aveva pensato che fosse un gioco di parole. Non più. La pietra si apriva e dallo spiraglio scaturiva ribollente un vapore perlaceo. Cortine di esty turbinavano all'esterno in veli trasparenti, dissolvendosi nel momento stesso in cui s'innalzavano. Salì uno spruzzo che lo racchiuse in un alone di se stesso, catturato e momentaneamente riflesso nella foschia degli eventi, come se fosse nel medesimo tempo lì e nei dintorni, a unirsi sfarfallante al resto di quanto lo circondava. L'altro sé si staccava volteggiando attorno alle cime dei rilievi, diventando una ghirlanda nel vento sferzante, sfilacciata nel vapore rifratto. «Qui si fa dura» fu tutto quel che riuscì a dire Killeen. Proseguirono nella terra sconvolta. Poi Toby capì che avrebbe fatto meglio a restarsene là dopo che con Quath aveva individuato la Mantide. Adesso era un Bishop cresciuto, ma in questa ricerca l'esperienza era cruciale e lui ne aveva ben poca. La Mantide e Killeen si combattevano sin da quando lui riusciva a ricordarsene. Toby aveva voluto partecipare, ma sapeva di essere d'intralcio agli altri, anche se naturalmente loro non lo esprimevano a chiare lettere. Cermo lo rivelava con lo sguardo, fermo e scuro. Non c'era più niente da fare, l'inseguimento era in corso. E quel terreno era troppo pericoloso perché Toby potesse tornare indietro da solo. La Mantide non era la sola macchina ad alta tecnologia da quelle parti. Erano rimasti a guardare da lontano mentre le escavatrici e i sarchiatori scavavano e rovistavano in cerca di detriti meccanici. Perciò si rassegnò. Proseguì senza dire una parola, per un lungo tratto, con ostinazione. Intorno a loro era tutto un rigoglio di strane vegetazioni, rocce aggrovigliate e aria grumosa, dove l'energia dell'esty si esprimeva in ricca schiuma. A Toby sembrava che qualche dio demente stesse modellando incessantemente la terra al di là di un plausibile utilizzo. La distesa verde sembrava beota, insensata. Comprese soltanto in modo vago che l'irritazione era frutto della fatica. Per quella non c'era niente da fare, e lo lesse nel volto del padre. Dietro le lunghe falcate dei loro passi non faceva
che inciampare, perciò fu ben lieto quando si fermarono di colpo. Per reggersi in piedi mentre gli altri studiavano qualcosa sul terreno dovette appoggiarsi a una roccia, temendo di essere tanto stremato da non riuscire più a rimanere diritto. Era una bobina di una sostanza traslucida eppure micacea. disse Quath. In un incavo c'erano delle componenti locomotrici impolverate, un intero gruppo di trazione, cingoli, tutto scaricato. Toby le guardò con attenzione notando che erano modulari. Quath si tamburellò sui fianchi. Cermo e Killeen ispezionarono il terreno. Lo facevano da quando avevano cominciato l'inseguimento, parlandosi continuamente. Toby osservò le depressioni rotondeggianti e le impronte angolari appiattite, notando i ramoscelli spezzati dove era passata la cosa. I peduncoli dei ramoscelli non erano ancora secchi e Cermo li palpò. L'erbaccia era calpestata ma non ancora ingiallita come sarebbe stata entro breve. «Se la cava bene per un terreno accidentato» disse Cermo. Killeen replicò serio: «Si farà dura». Toby intervenne. «Se me ne sono accorto io di lei, forse i suoi sistemi sono tanto malridotti...» «Hai detto che non l'hai vista» protestò Cermo. «Soltanto sentita.» «Sissignore.» Cermo scosse lentamente il capo mentre guardava l'erba calpestata. «Se la raggiungiamo, non sarà quel sentire a cui siamo abituati.» Naturalmente aveva ragione. La Mantide era invisibile al sensorio umano. Poteva distogliere l'attenzione, deviare gli indizi, dispiegare migliaia di trucchi tecnologici. Toby strascicò i piedi su una pietra senza replicare. disse Quath. «Abbastanza da non poterci tendere un'imboscata?» Killeen guardò scettico la massa cangiante di Quath. «Oppure ce lo vuol far credere» replicò Killeen. Sorrise per attenuare la secchezza della risposta. Toby si domandò se Quath avesse capito il significato del lampeggiare dei denti gialli in quella faccia rugosa, da gheriglio di noce.
3: La raffica della confusione Man mano che col passare delle ore il ritmo si faceva più sostenuto, Toby si sentiva più confuso. A quel punto il vero nemico era la sua mente svagata, annebbiata. Continuava a camminare a grandi falcate dietro gli altri, ineluttabilmente, cercando di attraversare la nebbia che lo indeboliva. Inseguirono la Mantide basandosi sulle tracce delle scalfitture dei cingoli sul terreno roccioso. Cermo e Killeen si allargavano continuamente ai lati nel caso la Mantide lasciasse una falsa pista procedendo all'indietro. Continuavano anche a guardarsi alle spalle per assicurarsi che Toby fosse sempre in vista. Il lato più umiliante era che l'avevano già fatto uguale anni prima, quando Toby era un bambino, mentre adesso non lo era più. Uomini e donne continuavano a crescere per tutta la vita perciò gli adulti potevano distanziare i figli fino a che non venivano colpiti dagli acciacchi della tarda età. Toby sapeva che c'era stato un tempo in cui un ragazzo, raggiunta la maturità, era forte come chiunque altro, ma quel tempo era finito a causa della competizione con i mech, che si potevano sempre potenziare a un livello ulteriore. Gli umani avevano mutato la propria biologia e biochimica in modo da competere con le macchine, e in tal modo si erano estraniati dal loro stesso passato. La cronopietra rifluì. Attraverso il paesaggio scabro filtrarono bagliori trasparenti. Qui i giorni e le notti non avevano ritmi costanti perché l'illuminazione proveniva dalla luce intrappolata nella curvatura stessa dello spazio-tempo. La rifrazione e gli sfasamenti temporali conferivano alla radiazione una natura vacua, come se fosse stata passata attraverso un filtro per liberarla dalle punte più aguzze. Quando si fermarono per accamparsi, Toby cadde addormentato contro un masso. Se ne accorse quando si abbatté al suolo e gli altri scoppiarono a ridere, non Quath, naturalmente. Si costrinse a svolgere il suo materassino, dove s'addormentò appena vi si fu disteso, svegliandosi soltanto quando suo padre gli sfilò gli stivali per controllare se avesse delle vesciche ai piedi. «Stai andando bene» disse Killeen sottovoce nell'oscurità. Il naso di Toby captò l'odore inebriante di vegetali freddi ma cucinati, scoprendosene un piatto accanto alla testa. Li mangiò senza dire una parola, e suo padre gli portò dal fuoco del tè caldo e speziato. Non era una fiamma, naturalmente, ma un carbobruciatore, perché i mech non li potessero individuare dal fumo o dalla luce. «Stai tenendo. Piedi a posto.»
«Ho bisogno soltanto di dormire» disse Toby. «Tu e Quath eravate alzati per scovarli mentre noi stavamo dormendo. È normale che tu sia un po' in riserva.» «Domani farò il setacciamento.» «Non esagerare. Prendi degli altri fagioli.» «Non ho tanta fame.» Prima che il padre spegnesse il bruciatore Toby era già nel mondo dei sogni, e non sentì nulla mentre il buio s'addensava. Pensò alla Mantide, o forse sognò soltanto di averlo fatto. Il giorno dopo si ricordò con nostalgia del sonno, dopo un po' che marciava. A quel punto stava proprio male. Aveva cominciato pimpante, però s'era ammosciato presto, e adesso stava sudando come mai gli era capitato in vita sua. Quath gli si rivolgeva ogni tanto un po' preoccupata, ma Toby non parlava molto. Portava uno zaino grande quanto quello degli altri, però loro avevano anche il bruciatore e le cibarie extra, così anche da quel punto di vista era avvantaggiato. Cermo non sorrideva e non sprecava energia a parlare, e Toby si ricordava ancora il fervore dell'uomo sulle pianure della sua fanciullezza. Era stato quando l'umanità aveva cominciato a opporsi ai mech ad armi pari, e la battaglia era stata acerrima. Cermo indicava ogni traccia della Mantide, interpretandola con sicurezza. Stava segnalando un'impronta quando la raffica della confusione li raggiunse. Api rosse. Sembrava che lo stessero pungendo mentre sciamavano nei sistemi interni. Toby s'abbassò di scatto, ma il raggio a ventaglio lo beccò, e non riuscì a vedere più nulla. Rotolò a valle, arrestandosi contro una roccia, che gli si conficcò nel fianco, poi le scivolò a lato, riprendendo a scendere lungo il pendio. Era il modo più sicuro di sfuggire allo sciame di turbolenza emag. Sopra di lui ronzava un groviglio di campi magnetici e di scariche al plasma arancioni. Energie che si biforcavano. Le protezioni che si chiudevano provocavano rumori metallici nel sensorio di Toby. Sbatté contro un albero contorto, e finalmente riuscì a vederci di nuovo. Rimase lì sdraiato guardando in su verso gli altri. Condividevano la medesima stupefazione. Due pulsazioni cardiache, tre. La raffica passò senza saette ritardatarie. La Mantide se ne serviva per ammorbidire i bersagli. Non attaccare era insensato. Risalì la collina Quath lo salutò con un: «Ottimo, perché altrimenti saremmo morti.» Un sorriso malizioso tagliò in due il viso di Cermo. «Vuol dire che è disperata.» «Ferita» disse Killeen mentre raccoglieva lo zaino dove l'aveva lasciato cadere al primo segnale di grane. Allora si spostarono ancor più veloci, e per Toby fu peggio. La raffica della confusione l'aveva privato di ogni spinta, e l'aria secca gli drenava il sudore. La Mantide era una macchina sofisticata, e perciò un eterno nemico. La primissima vita intelligente nella galassia, che aveva prodotto i primi mech, conosceva i pericoli insiti nel conflitto tra le due forme. I mech pian piano avevano deciso che i Naturali non erano più antenati semidivini. Erano diventati dei concorrenti, che utilizzavano le stesse risorse grezze di massa ed energia. Quei conflitti erano inevitabili. A lungo andare, nessuna forma vivente era più giunta a meritare rispetto. Contro questa certezza, le primissime razze organiche si crearono l'asso nella manica. Il Primo Comando. Nelle viscere dei codici strutturali interni delle prime macchine seppellirono un Primo Comando che non poteva essere individuato, nemmeno in teoria. Attivato, innescava un piacere delizioso... poi, una specie di morte interiore nell'estasi. Se veniva attivato dall'esterno un altro codice scatenante - il Secondo Comando - il mech provava l'impulso di trasferire tale gioia sublime agli altri. Allora il piacere diventava un morbo. Gli umani avevano fatto ciò ai mech nell'esty, quando si accorsero che il conflitto tra umanità e macchine sarebbe stato interminabile. Tranne che per i Codici Scatenanti. I Naturali e i mech si erano scontrati nell'esty, un labirinto di sentieri fatto di spazio-tempo ripiegato. Nessuno sapeva chi l'avesse realizzato. Era stato trovato a orbitare attorno al gigantesco buco nero al centro della galassia, e perciò era diventato una tappa. Toby non riusciva ad afferrare completamente la distesa di tempo e perciò di ferite e angoscia, di rimorso e rabbia e sorda tristezza che aveva spazzato le stelle rosse, aveva avvolto la galassia in un conflitto squassante che, lo sapeva, non poteva mai finire del tutto. Da questo dolore primordiale procedeva nel suo proprio tempo un'eredità di conflitto incessante che aveva plasmato la sua vita e creato la cultura della famiglia Bishop che
lui tanto riveriva e per la quale avrebbe dato la vita. In Killeen, Cermo e in tutti i Bishop covava un fuoco che non si sarebbe mai estinto fino alla morte della Mantide per opera dei Comandi. Tutti i Naturali, anche le forme semimeccanizzate come Quath, condividevano tale odio. La Mantide era l'ultima della sua specie, e i Bishop la cacciavano ormai da anni. Toby era stato fortunato a trovarla, dopo che i rapporti da quell'area erano sembrati sfociare nel nulla. «Quel che è certo è che sta male» gridò Killeen mentre si muovevano. «Ci stiamo avvicinando» gli rispose Cermo. <Sta cercando di medicarsi> disse Quath. «Come fai a saperlo?» chiese Cermo, ruotando il capo per la sorpresa. «Quella bobina?» domandò Toby. «E anche l'esagono?» «Sperava che ci sfuggissero» disse Killeen, con le labbra contratte per lo stupore. «Ha fatto cadere gli altri ingranaggi per farci pensare che si stesse liberando della massa. Proprio così, Quath.» Cermo chiese: «Perché non scaricare tutte le sottomenti?» Rispose Killeen: «Non avrebbe più difese nei nostri confronti». <Si sente cacciata dentro e fuori.> Toby intervenne, con voce rotta: «Si spera che crolli», però quella che sembrava una battuta apparve come un appello disperato. Il padre si ritrasse, studiandolo in volto. «Potrebbe tirare avanti ancora per qualche ora» fu tutto quel che disse. «Faccio un'esplorazione» disse Toby all'improvviso. Killeen guardò Cermo, che annuì. «Occhio» disse, poi ritornò a setacciare il settore destro. L'escavatrice li aggredì mentre scendevano lungo una sponda stretta. Era un posto ideale per un'imboscata e se la Mantide avesse operato direttamente sarebbero morti in molti, o almeno ne sarebbero usciti con le ossa peste. L'escavatrice era un piccolo mech che sembrava fosse stato assemblato al volo dalla Mantide. Almeno così sembrava. Toby la notò un attimo prima che cominciasse a sparare, con i suoi grandi dischi sporgenti. La vampata di emag gli ustionò il fianco sinistro. I
servomeccanismi si bloccarono, e con essi le gambe, clank e clank e poi più nulla. Cascò come un peso morto. Il raggio s'indirizzò anche verso Cermo, che però era stato più veloce aprendo un buco nel mech. Ciò li salvò dal finire carbonizzati. Killeen era allo scoperto e se la prese comoda. Colpì l'escavatrice in pieno, facendo svuotare i serbatoi di emag in un unico lungo grido. Poi il mech era morto. Si riposarono fin quando Toby non riuscì a rimettere in sesto i servomeccanismi. Non si scambiarono molte frasi, ma il padre almeno gli diede una mano a sistemare le prese imbarcate, commentando con fare disinvolto: «Quelle escavatrici non sono tanto lente come pensano tutti». Toby capì il senso pieno di quella frase e ripensandoci comprese che la macchina era stata piuttosto lenta. Lui, vagando nella sua nebbia privata, s'era fatto scappare la sagoma mentre gli appariva nel sensorio. Era stupido ignorare degli indizi, a quel punto. «Mi dispiace» fu tutto quel che riuscì a dire. Toby diede un calcio all'escavatrice per l'esasperazione, poi si piegò sopra il cofano per fare saltare qualche saldatura e cominciò a frugare, estraendo due oggetti lisci di ceramica dalla forma di uova sbilenche. «Trappole magnetiche» disse Cerino. «Ottimo.» Killeen ne maneggiò una con attenzione. Aveva le solite prese da mech, e a Toby sembrava normale. «Le possiamo usare?» «Fammi provare» rispose Killeen. «Scusa» ripeté Toby. Killeen incastrò un uovo in un servomeccanismo che aveva all'anca. Si sistemò con un click. «Ottima scoperta.» Era il modo di rispondere di Killeen. «Mangiamo.» 4: Ultramorti I suoi ingranaggi fecero buon uso delle trappole posizionali, che erano nuove e leggere e contenevano molta energia in una taschina magnetica. Le nuvole posizionali roteavano nei loro pozzi magnetici e quando i suoi motori o servomeccanismi necessitavano di positroni energetici potevano strisciare dal loro alloggiamento, trovare gli elettroni e morire. In qualche modo i potenziali gli scorrevano in corpo, sebbene Toby non si chiedesse mai come potesse funzionare. Le trappole magnetiche dell'escavatrice scaricavano entro se stesse, mietendo gran parte delle riserve. L'energia sot-
tratta ai mech possedeva sempre una scossa speciale. Killeen gli diede una pacca sulla schiena. «Dimostra soltanto quanto sia disperata la Mantide» nitrì in tono di derisione. «Ha messo insieme quell'escavatrice alla svelta e distrattamente. Non ha nemmeno piazzato una difesa nelle trappole magnetiche.» Toby si sentì meglio fino a quando si svegliò nella notte. La cronopietra stava covando una mezza luce di un opaco color rubino, e loro avevano disteso le stuoie per approfittare della notte momentanea. Toby, stanco morto, aveva accolto con gratitudine la sosta, non un favore del padre ma semplicemente del tempo. Ma si risvegliò in preda al nervosismo, e non riuscì a riaddormentarsi, pensando che ciò avesse a che fare con l'energia posizionale. Si alzò per andare a pisciare anche se non aveva un grande stimolo, e fu allora che la vide. La struttura metallica era immobile sullo sfondo delle colline lontane e rossastre, non era però un edificio. Riusciva a proiettare nel suo sensorio un'ombra, che adesso non era più una sensazione di vuoto. Cercò la ragnatela di loci e motivatori e sottomenti, che erano debolmente luminosi e delineavano la selva di tubi e montanti. Poi si mosse, e Toby la sentì finalmente come una cosa concreta. Non una mancanza ma una presenza. Conosceva di fama la maniera impensabile che aveva di muoversi. Mentre lui rimaneva assolutamente immobile a guardare, la matrice si allontanò strascicandosi dinoccolata. Senza fretta, senza dare a vedere che si fosse accorta che lui era lì. Era a due klick di distanza, facile. A tiro, ma Toby non stava pensando a quello. La seguì per restare in vista della mente principale, fosforescente e cangiante, esposta nell'intrico sghembo di tubi e nel ruotare di discoidi. Allora gli fu addosso senza nemmeno un lampo di avvertimento sensoriale. La vampata entrò in lui ancora prima che i suoi meccanismi la potessero parare. Barcollò e cadde. Sbatté forte per terra, a braccia inerti. La pulsazione gli saettò attraverso, bruciante, poi sparì. Restò disteso senza muoversi. Tattica Bishop. La guardò allontanarsi attraverso il proprio sensorio annebbiato. Energie angolari, indirizzate verso una sagoma che si rimpiccioliva. Poi più nulla. Lasciò che i meccanismi interni esaurissero la diagnostica di controllo, che fece risultare dei sovraccarichi banali, facilmente correggibili con una riinizializzazione. Si alzò con prudenza. Incrocchiato, con le gambe che gli tremavano, ma tutto intero.
Non riusciva a spiegare cosa fosse successo. Sapeva che ci doveva pensare, ma non adesso. C'era troppa roba dentro di lui. Una pressione che gli ribolliva nei sistemi interni. Paura, e anche una voglia sorda. Qualcosa che gli ricordava il modo in cui lo eccitavano le donne, ma non era neanche quello. Mentre tornava al materassino, decise di non svegliare gli altri. Quath si agitò elettromagneticamente mentre le passava accanto. fece lei e lui rispose con un — . — che segnalò alla sua sottomente che era soltanto Toby. Le invidiava il modo in cui riusciva a delegare alle menti parziali per addormentarsi immediatamente quando le pareva. Era abbastanza sorprendente che un'intelligenza del genere avesse bisogno di latenza per processare i ricordi e ristrutturarsi, cosa che gli umani realizzavano facendo lavorare i livelli inconsci della mente durante il sonno. Furono i sogni a dirglielo. Vide la lunga processione di Bishop nella loro Cittadella, poi sulle pianure, in battaglia, e in pace. Molti lampeggiamenti istantanei della loro esperienza registrata appartenevano ai loro ultimi istanti. Dovevano essere frammenti salvati da esistenze di Bishop condannati. Con gli occhi spalancati per la stupefazione, o stretti per il dolore. Boccheggianti, o con le labbra serrate per quello che vedevano arrivare. Ma c'era altro oltre a questi dettagli esteriori. Sentiva quei momenti, ci viveva attraverso in una maniera impossibile da realizzare tramite una semplice immagine. Queste erano le registrazioni degli ultramorti. Menti dei Bishop depredate dai mech, dalla Mantide, in conflitti secolari. Come se fossero volumetti conservati su uno scaffale, che prendi e cominci a sfogliare. O a leggere con attenzione se ti interessa. La Mantide gli aveva spedito dentro questi frammenti degli ultramorti. Li stava scartando? Irradiava i dati mentre faceva fuori le sue stesse sottomenti? Si agitò sudato nel sonno e si risvegliò pesto e con gli occhi cisposi A colazione Killeen disse: «Sulla schermata di stamattina ho delle diagnostiche che segnalavano la presenza di un mech stanotte». «Anch'io» aggiunse Cermo. Toby non disse nulla, senza sapere perché. Tanto la Mantide sarebbe morta comunque, probabilmente. I due lo guardarono, ma ancora lui non diceva niente. «Proprio adesso raccolgo dei piccoli echi in quella direzione...» Cermo indicò con il pollice verso monte. «... ma non si spostano.» Toby non riusciva a captare niente nel suo sensorio. Quando partirono,
lui si piazzò in retroguardia. Persero la pista della Mantide in un posto dove le tracce sovrapposte di alcune macchine esalavano nel sensorio di Toby, codificate come puzze. Percepì un odore di foglie marce, un sentore pungente, qualcosa di umidiccio e ammuffito. «Che buffo odore» fu tutto quel che disse Cermo. Seguirono quegli odori, quasi tutti soltanto tracce elettroniche, ma non per questo meno eccitanti. Ne scoprirono la causa in una forra accidentata. I mech erano morti negli spasmi. Erano stati sovrastati dai programmi della malattia, ed erano morti in un'agonia di piacere, con i condensatori lampeggianti, le trappole magnetiche che emettevano scintille mentre quelli bruciavano in una fine grigia e opaca. Era questo che rendeva così efficaci i Codici Scatenanti. Comportavano un'estasi intensa, e il desiderio di condividerla con gli altri, perciò i mech la propagavano su ali elettromagnetiche fra di loro, in un delirio compiaciuto. Toby sapeva che doveva essere un modo piacevole di morire, però le membra contratte e le epidermidi al carbonio squarciate erano orrende, terribili. «La Mantide è stata da queste parti» disse Cermo. «La sento» aggiunse Killeen, e poi lo captò anche Toby, un debole odore penetrante che sì aggirava tra i corpi dei mech. Erano macchine di un livello molto più basso della Mantide, e ingombravano la gola stretta. La Mantide era passata accanto ai caduti, poi aveva proseguito il cammino. «Forse per rendere i sensi del suo cordoglio» disse Toby. Gli altri risero, anche se non intendeva essere divertente. Toby toccò una delle carcasse distrutte. «Credete che i mech abbiano delle, be', famiglie?» Cermo scosse vigorosamente il capo. Killeen disse: «Non che si possa sapere». Quath era rimasta silenziosa sin dall'attacco dell'escavatrice, ma adesso intervenne: <Sembra che abbiano delle relazioni complicate, anche se non basate sul rapporto genetico>. «Se non è una famiglia, allora cos'è?» chiese Killeen. Killeen si fece serio. «Modelli?»
«Non si tratta di famiglie, affatto» concluse amaramente Killeen. 5: A caccia «Perché non vola?» domandò Killeen durante una breve pausa. Se lo stava chiedendo anche Toby. La Mantide poteva decollare, mentre gli uomini non avevano apparecchiature di volo. Non potevano generare la spinta che venisse a capo delle forze gravitazionali e rimanere ancora in grado di camminare. «Forse che non ne è più capace?» Cermo ingoiò altra acqua e la risputò, un vecchio rituale per togliersi il sapore di sabbia dalla bocca. Poi fissò intensamente il lontano tetto smeraldino, i terrazzamenti a strati lassù in alto. «Potrebbe aver scaricato sin dall'inizio i propulsori. Solo che non li abbiamo trovati.» Quath mormorò: «Perché?» chiese Killeen, con voce tesa. «Vendetta.» «Con noi? Mi pare il contrario» fece amareggiato Killeen. La voce di Toby era rotta. «Quale modello?» «Ci voleva vedere mentre la mettevamo in mostra?» Adesso Killeen era più tranquillo. Stava inginocchiato e con le mani massaggiava inutilmente la spalla di Cermo.