Ian McEwan
Espiazione
Traduzione di Susanna Basso
Titolo originale: Atonement © 2002 Giulio Einaudi editore s.p.a., T...
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Ian McEwan
Espiazione
Traduzione di Susanna Basso
Titolo originale: Atonement © 2002 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Cara signorina Morland, pensate di che tremenda natura sono stati i sospetti che avete nutrito. E in base a quali elementi avete formulato il vostro giudizio? Ricordate in che paese e in che epoca viviamo. Ricordate che siamo inglesi, e che siamo cristiani. Fate appello alla vostra intelligenza, al vostro buonsenso, a ciò che potete osservare, ciò che accade intorno a noi. La nostra cultura ci può portare forse a queste atrocità? E le nostre leggi chiudono forse gli occhi su tali colpe? Potrebbero venir perpetrate all’insaputa di tutti, in un paese come questo, dove gli scambi sociali e culturali sono a un tale livello, dove ognuno è circondato da un intero vicinato di spie volonterose, e dove le vie di comunicazione e i giornali fanno sì che tutto avvenga alla luce del sole? Carissima signorina Morland, ma come vi sono venute certe idee? Avevano raggiunto la fine della galleria, e piangendo di vergogna ella corse nella sua stanza. JANE AUSTEN, L’abbazia di Northanger.
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Parte prima
Capitolo primo Lo spettacolo per il quale Briony aveva ideato locandine, programmi e biglietti, costruito il botteghino con un paravento sbilenco e foderato di carta rossa la cassetta dei soldi, era opera sua, frutto di due giornate di una creatività tanto burrascosa da farle saltare una colazione e un pranzo. Quando ebbe concluso i preparativi, non le restò altro da fare che contemplarne la stesura definitiva e aspettare di veder comparire i suoi cugini dal lontano nord. Ci sarebbe stato un solo giorno di tempo per le prove, prima dell’arrivo di suo fratello. A tratti pungente, spesso disperatamente triste, il dramma narrava una storia di cuore il cui messaggio, racchiuso nel prologo in rima, era che un amore non costruito su fondamenta di grande buonsenso ha il destino segnato. La sconsiderata passione dell’eroina per un malvagio conte straniero naufraga nella sventura allorché la protagonista, Arabella, contrae il colera durante una corsa precipitosa verso una cittadina di mare in compagnia del suo promesso. Abbandonata da lui come da quasi tutti gli altri, costretta a letto in una soffitta, la protagonista scopre in se stessa la forza dell’ironia. La sorte le offre una seconda occasione nella persona di un medico in ristrettezze economiche - in realtà, un principe sotto mentite spoglie che ha deciso di lavorare tra i bisognosi. L’uomo la guarisce e Arabella, che questa volta sceglie con giudizio, e ricompensata dalla riconciliazione con la sua famiglia e dalle nozze col principe-dottore in una «ventosa giornata di sole primaverile». La signora Tallis lesse le sette pagine delle Disavventure di Arabella in camera sua, seduta alla toletta, con un braccio dell’autrice sulla spalla per tutta la durata della lettura. Briony scrutava il viso della madre per non lasciarsi sfuggire il passaggio fugace di un’emozione, ed Emily Tallis stette al gioco producendosi in espressioni di allarme, risatine di gioia e, alla fine, in sorrisi riconoscenti e
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avveduti cenni di assenso. Prese tra le braccia la figlia, se la sedette in grembo ah, le tornava alla mente il bel corpicino caldo di quando era piccola, non ancora perduto, non del tutto - e definì la sua commedia «incantevole», acconsentendo subito, con un mormorio soffiato nella spirale stretta dell’orecchio della bambina, a che quell’aggettivo venisse utilizzato sulla locandina da esporre su un cavalletto in ingresso, accanto alla biglietteria. Briony non poteva saperlo allora, ma quello sarebbe stato l’attimo di maggior successo della sua iniziativa. Niente poté eguagliarne il senso di soddisfazione, tutto il resto si ridusse a una serie di sogni e di delusioni. C’erano momenti nelle notti estive in cui, spente le luci e rintanata nel buio accogliente del letto a baldacchino, Briony lasciava battere il proprio cuore al pensiero di fantasticherie luminose
e
ardenti,
di
per
sé
brevi
commediole
che
prevedevano
immancabilmente la presenza di Leon. In un caso, la sua faccia grande e cordiale era sconvolta dalla sofferenza di fronte alla solitudine disperata di Arabella. In un altro, eccolo in qualche ritrovo alla moda della capitale mentre, con il bicchiere del cocktail in mano, si vantava con un gruppo di amici dicendo: «Sì, la mia sorellina, Briony Tallis, ne avrete senz’altro sentito parlare». In un terzo, Leon levava in aria un pugno di giubilo mentre il sipario calava, anche se non c’era nessun sipario, era stato impossibile realizzarlo. Il dramma non era destinato ai cugini, bensì al fratello, di cui intendeva festeggiare il ritorno a casa e suscitare l’ammirazione per poi strapparlo alla sventata sequela di fidanzate e indirizzarlo verso una moglie appropriata, quella che lo avrebbe convinto a tornare in campagna, e avrebbe cortesemente richiesto a lei di farle da damigella d’onore. Briony era una di quelle bambine possedute dal desiderio che al mondo fosse tutto assolutamente perfetto. Mentre la camera della sorella maggiore era una baraonda di libri mai chiusi, vestiti mai ripiegati, un letto mai rifatto e posacenere mai svuotati, quella di Briony era il santuario del demone che la animava: nel modellino di fattoria disposto sul davanzale profondo della finestra figuravano gli animali consueti, ma tutti rivolti in un’unica direzione - quella della loro proprietaria -, quasi che fossero sul punto di levare un canto; perfino le galline erano sistemate rigorosamente in cerchio. In effetti quella di Briony era la sola camera ordinata al piano di sopra della casa. Le sue bambole, sedute erette nelle loro ville a più stanze, parevano obbedire al preciso ordine di non sfiorare mai le 4
pareti; le file composte e spaziate delle varie figure alte un dito sulla sua toletta cowboy, sommozzatori, topi umanoidi – davano l’impressione di un piccolo esercito sull’attenti. Il gusto per le miniature rappresentava un aspetto della sua indole metodica. Un altro era la passione per i segreti: un suo prezioso stipetto laccato disponeva di un assettino segreto che si apriva spingendo l’estremità di un ingegnoso incastro a coda di rondine; qui Briony custodiva un diario chiuso con un lucchetto e un taccuino scritto in un codice di sua invenzione. In una cassaforte giocattolo da aprire con una combinazione di sei numeri segreti conservava lettere e cartoline. Una vecchia scatola di latta stava nascosta da un’assicella del pavimento, sotto il suo letto. La scatola conteneva tesori che risalivano a quattro anni prima, al suo nono compleanno, quando aveva deciso di inaugurare la collezione: una doppia ghianda mutante, un campione di pirite, un incantesimo per la pioggia comprato a una fiera, e un teschio di scoiattolo leggero come una foglia. Ma cassetti segreti, diari provvisti di serratura e sistemi crittografici non potevano celare a Briony la semplice verità, e cioè che lei non aveva alcun segreto. Il suo desiderio di un mondo armonioso e ben organizzato le negava ogni possibilità di trasgressioni imprudenti. Confusione e violenza erano troppo caotiche per i suoi gusti, e la crudeltà non le si addiceva. La sua attuale condizione di figlia unica, e il relativo isolamento di villa Tallis, la tenevano lontana, almeno nel periodo delle vacanze estive, da complotti femminili con le amiche. Niente nella sua vita era sufficientemente interessante o scandaloso da meritare di essere tenuto segreto; nessuno era al corrente del teschio di scoiattolo sotto il letto, ma nessuno smaniava dalla voglia di scoprirlo. Nulla di tutto ciò le causava particolare sofferenza; o meglio, così le pareva solo a posteriori, dopo avere ormai trovato una soluzione. All’età di undici anni scrisse la sua prima storia - sciocca imitazione di una mezza dozzina di racconti popolari, a cui mancava, come più tardi comprese, l’essenziale conoscenza del mondo, necessaria per guadagnarsi il rispetto del lettore. Ma quel primo goffo tentativo le dimostrò come l’immaginazione sia di per se fonte di segreti: una volta iniziata una storia, non poteva raccontarla a nessuno. 5
La finzione delle parole era una pratica troppo incerta, vulnerabile, imbarazzante per metterne al corrente chiunque. Perfino mentre scriveva gli «ella disse», gli «e poi», le capitava di trasalire, e si sentiva sciocca a far finta di conoscere le emozioni di un essere immaginario. Esporsi in prima persona era inevitabile quando descriveva le debolezze di un personaggio: il lettore non avrebbe potuto fare a meno di pensare che stava descrivendo se stessa. Quali altri potevano essere i suoi riferimenti? Solo quando tutti i destini apparivano risolti e l’intera vicenda era sigillata da un inizio e una fine, e la storia veniva ad assomigliare, almeno sotto questo aspetto, a tutte le altre storie del mondo, soltanto allora poteva sentirsi immune, e pronta a perforare i margini delle pagine, legare i capitoli con un filo, dipingere o disegnare la copertina e mostrare il lavoro finito alla madre, o al padre, se era a casa. Le sue fatiche venivano incoraggiate. Anzi, accolte con entusiasmo da quando i Tallis incominciarono a rendersi conto che la piccola di famiglia possedeva un’intelligenza singolare e un dono per le parole. I lunghi pomeriggi trascorsi a curiosare tra le pagine di vocabolario e dizionario dei sinonimi producevano espressioni magari poco opportune, ma affascinanti: le monete che il cattivo della storia nascondeva in tasca erano definite «esoteriche», il malvivente sorpreso a rubare un’automobile frignava con «la spudoratezza del reo», l’eroina in groppa al suo stallone purosangue si lanciava in un viaggio «impetuoso» attraverso la notte, la fronte corrugata del re era il «geroglifico» del suo dispiacere. Briony leggeva quelle storie ad alta voce in biblioteca, e genitori e sorella maggiore si stupivano ascoltando la ragazzina timida che conoscevano recitare con tanta sicurezza, facendo ampi gesti, sollevando le sopracciglia, alterando la voce e distogliendo di quando in quando lo sguardo dalla pagina per parecchi secondi allo scopo di puntarlo negli occhi di uno o dell’altro, esigendo senza mezzi termini la totale attenzione dei familiari mentre lanciava il proprio incantesimo di narratrice. Ma anche senza lodi, attenzione e palese compiacimento, Briony non sarebbe stata distolta dalla scrittura. In ogni caso andava scoprendo, come già molti autori prima di lei, che non tutte le forme di riconoscimento sono d’aiuto. L’entusiasmo di Cecilia, per esempio, pareva un po’ sopra le righe, viziato da un pizzico di condiscendenza, oltre che invadente; la sorella maggiore pretese di catalogare ogni singola storia rilegata e di sistemarla in ordine alfabetico sugli 6
scaffali, tra Rabindranath Tagore e Quinto Tertulliano. Se voleva essere uno scherzo, Briony decise di non farci caso. Ormai era avviata, e aveva trovato soddisfazioni su altri livelli; scrivere storie non era solo una fonte di segretezza, le procurava anche il piacere della miniaturizzazione. Cinque pagine appena potevano contenere un mondo, oltretutto assai più gradevole di quello di un modellino di fattoria. Lo spazio di mezza pagina bastava a incorniciare l’infanzia viziata di un principe, una corsa sotto la luna attraverso villaggi addormentati diventava una frase ritmicamente enfatica, l’atto di innamorarsi poteva accadere nell’arco di una parola soltanto: uno sguardo. Le pagine di una storia appena finita parevano fremerle tra le mani per tutta la vita che vi palpitava. Anche la sua passione per l’ordine risultava soddisfatta, giacché un mondo caotico poteva essere trasformato in ordine perfetto. Una crisi nell’esistenza della protagonista poteva coincidere con grandinate, tuoni, tempeste di vento, mentre l’atmosfera nuziale era di solito benedetta da luce tersa e brezze leggere. L’amore per l’ordine informava anche i principi della giustizia: morti e matrimoni costituivano i motori essenziali della gestione domestica, le prime, tenute in serbo a uso esclusivo dei personaggi moralmente ambigui, i secondi, utilizzati come ricompensa da rimandare fino all’ultima pagina della vicenda. Il dramma che aveva scritto per il ritorno di Leon rappresentava la sua prima incursione nel mondo del teatro, un cambiamento di genere che Briony aveva trovato agevolissimo. Era stato un sollievo non dover scrivere tutti gli «ella disse», o le descrizioni del clima, o dell’inizio della primavera e del viso della protagonista; la bellezza, aveva scoperto, possedeva scarse variazioni di tono. La bruttezza, al contrario, ne aveva infinite. Un universo ridotto al dialogo era di per sé sinonimo di ordine, quasi fino a sfiorare l’evanescenza, e, per compensare, ogni frase doveva essere pronunciata enfatizzando al massimo l’emozione di volta in volta espressa, al servizio della quale si rendeva necessario l’uso del punto esclamativo. Le disavventure di Arabella potevano forse rientrare nel genere melodramma, ma la sua autrice ancora non si era imbattuta in quel termine. La pièce non intende va suscitare ilarità ma, nell’ordine, terrore, sollievo e consolazione, e l’ingenua intensità con la quale Briony si era dedicata al progetto - locandine, programmi, biglietteria - la rendeva particolarmente vulnerabile a un eventuale fallimento. 7
Avrebbe potuto benissimo dare il benvenuto al fratello con una delle sue storie, ma la notizia dell’arrivo dei cuginetti dal nord l’aveva incoraggiata a cimentarsi in quella nuova forma di scrittura. Il fatto che la quindicenne Lola e i due gemelli di nove anni Jackson e Pierrot fossero profughi di un’amara guerra civile tra le mura domestiche avrebbe dovuto impensierire
Briony
molto
di
più.
Aveva
udito
sua
madre
criticare
il
comportamento impulsivo della sorella minore Hermione, commiserarne i tre figli e biasimare l’inconcludente mitezza del cognato Cecil, che aveva cercato salvezza presso l’All Souls College di Oxford. Briony aveva sentito madre e sorella analizzare i più recenti risvolti della tragedia, lanciando accuse e contro-accuse, perciò sapeva che quella visita si sarebbe protratta a tempo indeterminato allungandosi forse oltre l’inizio della scuola. Aveva sentito dire che la casa poteva ospitare senza problemi altri tre ragazzi, e che i Quincey si sarebbero potuti trattenere quanto volevano a condizione che i genitori si impegnassero, in caso di visite simultanee, a tenere le loro beghe fuori dalle pareti di villa Tallis. Si era provveduto a pulire due stanze accanto a quella di Briony, ad appendervi tende nuove e ad arredarle con mobili trasferiti da altre camere. Di norma avrebbe partecipato anche lei ai preparativi, ma il caso volle che coincidessero con i suoi due giorni di creatività febbrile nonché con l’inizio dell’allestimento teatrale. Sapeva vagamente che un divorzio è causa di sofferenze, ma non lo considerava un tema adatto a lei e non vi dedicava i propri pensieri. Si trattava di una separazione banale di tipo irreversibile, e pertanto non aveva nulla da offrire a un narratore: apparteneva al regno del disordine. Il matrimonio si che funzionava, o meglio ancora, la cerimonia delle nozze, accompagnata dalla purezza formale della virtù ricompensata, dall’evento eccitante del corteo e del banchetto, e dalla promessa di un’unione indissolubile. Una buona cerimonia nuziale costituiva l’inconfessata rappresentazione della beatitudine sessuale, a lei ancora ignota. Nelle navate di chiesette di campagna o di solenni cattedrali cittadine, sotto gli occhi ammirati di schiere di amici e familiari, le sue eroine e i suoi eroi andavano innocenti incontro al momento culminante della vicenda senza bisogno di spingersi più in là. Se il divorzio le si fosse presentato come l’antitesi infame di tutto questo, non sarebbe stato difficile gettarlo sull’altro piatto della bilancia insieme a tradimento, 8
malattia, furto, aggressione e menzogna. Invece aveva mostrato il volto spento di complessità insensate e di liti inesauste. Non diversamente dalla corsa al riarmo, dalla questione abissina o dal giardinaggio, molto semplicemente non funzionava come soggetto, e quando, dopo una lunga attesa durata tutto il sabato mattina, Briony alla fine udì il rumore delle ruote sulla ghiaia sotto la finestra di camera sua e, afferrate le pagine del testo, si precipitò giù dalle scale, attraversò l’ingresso e si gettò nella luce accecante del mezzogiorno, non fu tanto l’insensibilità quanto piuttosto l’altissimo livello della sua ambizione d’artista a farle gridare agli intimiditi visitatori ammucchiati con i bagagli intorno al calesse: - Ho già le parti pronte, ho scritto tutto. Andiamo in scena domani! Le prove incominciano tra cinque minuti! Immediatamente, madre e sorella si intromisero imponendo una tabella di marcia più tranquilla. Gli ospiti - tutti e tre rossi di capelli e lentigginosi - vennero accompagnati alle loro stanze. Danny, il figlio di Hardman, si occupò di portare di sopra le loro valigie; c’era della limonata ad aspettarli sul tavolo della cucina, un breve giro della casa, un bagno in piscina, e pranzo in giardino, sotto il pergolato. Per tutto il tempo, Emily e Cecilia Tallis mantennero un tono di voce meccanico e cantilenante che di sicuro derubava i destinatari di quelle parole del conforto che avrebbero dovuto trarne. Briony sapeva che dopo un viaggio di trecento chilometri verso una casa sconosciuta, tutte quelle domande spigliate, i commenti scherzosi e il sentirsi ripetere cento volte che si era liberi di fare come si voleva l’avrebbero gettata nello sconforto. Quello che di solito la gente non capisce è che perlopiù i bambini amano essere lasciati in pace. Ciononostante, i Quincey ce la misero tutta per dare l’impressione di essere contenti e disinvolti, il che non poteva non risultare di buon auspicio per Le disavventure di Arabella: il trio in questione mostrava un vero talento nel presentarsi per quello che non era, anche se la scarsa somiglianza con i personaggi del dramma era scoraggiante. Prima di pranzo Briony sgattaiolò nella sala destinata alle prove - la nursery - e misurò avanti e indietro le assi dipinte del pavimento, analizzando le possibilità che le si offrivano nell’assegnazione dei ruoli. A giudicare dalle apparenze, Arabella, che aveva capelli scuri come quelli di Briony, ben difficilmente avrebbe potuto essere il frutto di genitori lentigginosi, o avere voglia di darsi alla fuga con un lentigginoso conte straniero, affittare una 9
soffitta da un albergatore lentigginoso, innamorarsi di un principe lentigginoso e sposarsi davanti a un lentigginoso curato circondata da una folla di fedeli lentigginosi. Così invece sarebbe andata a finire. I suoi cugini avevano un colore di capelli troppo acceso - per non dire fluorescente! - per riuscire a mascherarlo. La cosa migliore che si poteva sostenere era che l’assenza di lentiggini sulla pelle di Arabella costituiva il segno - il geroglifico, avrebbe potuto scrivere Briony della sua distinzione. La sua purezza di spirito non avrebbe mai lasciato spazio a dubbi, benché lei si muovesse in un mondo corrotto. C’era poi un ulteriore problema legato ai gemelli: erano indistinguibili agli occhi di qualsiasi estraneo. Poteva funzionare che il conte somigliasse in modo tanto disarmante al bel principe, o che entrambi dovessero essere identici al padre di Arabella, nonché al curato? E che a Lola venisse assegnata la parte del principe? Jackson e Pierrot davano l’idea di essere i tipici ragazzini entusiasti pronti a fare come gli si diceva. Ma la sorella avrebbe accettato la parte di un uomo? Aveva occhi verdi su un viso ossuto e guance incavate, e nella sua reticenza c’era un che di nervoso che suggeriva un carattere determinato e facile alla collera. Il semplice accenno alla possibilità di affidarle quel ruolo avrebbe potuto scatenare una crisi; del resto Briony era davvero disposta a darle la mano davanti all’altare, mentre Jackson recitava la formula solenne del rito anglicano? Fu solo alle cinque di quel pomeriggio che Briony riuscì a radunare nella nursery tutto il cast. Aveva sistemato tre sgabelli in fila, riservando a se stessa il privilegio di strizza re il sedere su un vecchio seggiolone - tocco bohémien che le assicurava un vantaggio da arbitro tennistico: I gemelli avevano acconsentito con riluttanza ad abbandonare la piscina dove sguazzavano ormai da tre ore. Erano scalzi, e indossavano una canottiera e calzoncini da bagno che gocciolavano sul pavimento. Un rivolo d’acqua scendeva loro sul collo dai capelli arruffati; tutti e due tremavano battendo le ginocchia per riscaldarsi. La prolungata immersione aveva raggrinzito e scolorito la loro pelle tanto che, nella luce relativamente bassa della nursery, le lentiggini parevano nere. Seduta tra loro, la sorella aveva accavallato le gambe e, per contrasto, pareva molto distinta: si era generosamente profumata e aveva indossato un abito in percallina a quadretti verdi che restituiva equilibrio alla violenza dei suoi colori. I sandali rivelavano una catenina intorno alla caviglia e unghie smaltate di rosso vermiglio. La vista di quelle unghie 10
procurò a Briony un senso di oppressione al petto, e la consapevolezza immediata che non avrebbe potuto chiedere a Lola di recitare nel ruolo del principe. Erano tutti pronti, e l’autrice era sul punto di iniziare un breve preambolo per riassumere la trama dell’opera e ricordare ai presenti l’emozione di recitare davanti a un pubblico di adulti la sera dell’indomani, in biblioteca. Ma fu Pierrot a parlare per primo. - Io li odio gli spettacoli e roba simile. - Io pure, e anche i travestimenti, - disse Jackson. A pranzo qualcuno aveva spiegato che per distinguere i gemelli bastava ricordare che a Pierrot mancava un triangolino di carne dal lobo sinistro, in seguito a un incidente con un cane che il bambino aveva tormentato all’età di tre anni. Lola distolse lo sguardo. Briony replicò paziente: - Come si fa a odiare gli spettacoli? - Perché è solo un mettersi in mostra -. Pierrot si strinse nelle spalle pronunciando questa verità inconfutabile. Briony non poté dargli torto. Era precisamente la stessa ragione per cui lei amava il teatro, il suo, perlomeno; tutti l’avrebbero adorata. Osservando i ragazzini, sotto i quali si andavano raccogliendo due pozze d’acqua pronte a filtrare tra le fessure del pavimento, Briony seppe che non avrebbero mai compreso le sue ambizioni. L’indulgenza le addolcì il tono di voce. - Secondo voi Shakespeare voleva solo mettersi in mostra? Pierrot scambiò un’occhiata con Jackson, al di là della sorella. Quel nome guerresco, Shakespeare, aveva qualcosa di vagamente familiare, un remoto sentore di scuola e di certezze da adulti, ma i gemelli riuscivano a infondersi reciprocamente coraggio. - Lo sanno tutti benissimo. - Esatto. Prendendo la parola, Lola si rivolse prima a Pierrot ma, a metà frase, ruotò su se stessa per finire rivolta a Jackson. Nella famiglia di Briony, non capitava che la signora Tallis dovesse comunicare qualcosa contemporaneamente a entrambe le figlie. Ora Briony si rendeva conto di come si procedesse in casi del genere. - Voi due adesso recitate, se no vi tocca una sberla, e poi lo dico a Mamma e 11
Papà. - Se tu ci dai una sberla, noi lo diciamo a Mamma e Papà. - Voi recitate, se no lo dico a Mamma e Papà. Il drastico ridimensionamento della minaccia originale non parve smorzarne affatto la forza. Pierrot si mordeva il labbro. - Ma perché siamo obbligati? - La domanda esprimeva una resa totale, e Lola cercò di scompigliare al fratello i capelli appiccicati alla fronte. - Vi ricordate cosa hanno detto Mamma e Papà? Che siamo ospiti in questa casa e perciò dobbiamo essere... com’è già che dobbiamo essere? Avanti. Come dobbiamo essere? - Disponibili, - replicarono in coro i gemelli affranti, incespicando appena su quella parola insolita. Lola si rivolse a Briony e sorrise. - Per favore, raccontaci del tuo spettacolo. Mamma e Papà. Qualunque potere istituzionale quel binomio contenesse, era sul punto di disgregarsi, se non l’aveva già fatto, ma non era ancora venuto il momento di riconoscerlo, perciò si pretendeva il massimo del coraggio anche dai più piccoli. All’improvviso Briony si vergognò di quanto aveva egoisticamente intrapreso, perché non le era nemmeno passato per la testa che i cugini potessero non aver voglia di recitare la propria parte nelle Disavventure di Arabella. Di fatto avevano già avuto le loro disavventure, la loro catastrofe personale e adesso, come ospiti in casa sua, si sentivano costretti a ubbidire. Come se non bastasse, Lola era stata chiara sul fatto che anche lei avrebbe recitato controvoglia. I vulnerabili Quincey stavano subendo una coercizione. Eppure (ma Briony faceva fatica ad afferrare la complessità del concetto), eppure, non era in atto anche una forma di manipolazione, Lola non stava forse usando i gemelli per far dire loro qualcosa in sua vece, qualcosa di ostile e di distruttivo? Briony sentì lo svantaggio di avere due anni in meno della cugina, due interi anni di esperienza che le pesavano addosso, facendo apparire la sua commedia imbarazzante e meschina. Evitando con cura di incrociare lo sguardo di Lola, delineò l’intreccio dell’opera, la cui stupidità aveva ormai cominciato a sopraffarla. Non aveva certo più cuore di spacciarla ai cugini come il grande evento della loro prima serata insieme. Non appena ebbe concluso, Pierrot disse: - Io voglio essere il conte. Voglio essere un cattivo. Jackson si limitò a ribattere: - Io sono un principe. Sono 12
sempre un principe, io. Aveva voglia di abbracciarseli e di baciare quei due faccini, ma disse solo: Benissimo, siamo d’accordo. Lola poggiò a terra la gamba che aveva accavallato, si lisciò il vestito e si alzò, come se stesse per andarsene. Quando parlò, lo fece dopo un sospiro di mesta rassegnazione. - Dal momento che sei l’autrice, immagino che tu farai Arabella... - Oh no, - disse Briony. - No. Niente affatto. Il suo no voleva dire sì. Ma certo che Arabella l’avrebbe fatta lei. L’obiezione le era uscita spontanea per quel «dal momento che». Non avrebbe fatto Arabella «dal momento che» era l’autrice, avrebbe recitato quel ruolo perché nessun’altra possibilità le aveva attraversato la mente, perché era così che Leon avrebbe dovuto vederla, perché lei era Arabella. Ma aveva detto di no, e ora Lola replicava melliflua: - In questo caso, ti spiace se la faccio io? Secondo me potrei farla benissimo. Anzi, tra noi due... Lasciò la frase in sospeso, e Briony la fissò, incapace di cancellare l’orrore dalla sua espressione, e incapace di proferire parola. La cosa le stava sfuggendo di mano, lo sapeva, ma non le veniva in mente nulla da dire per rimediare. Nel silenzio di Briony, Lola approfittò del vantaggio. - Sono stata molto malata, l’anno scorso, perciò dovrei riuscire a far bene anche quella parte. In che senso, anche? Briony non riusciva a starle dietro, Lola era più grande. L’angoscia dell’inevitabile le annebbiava i pensieri. Uno dei gemelli disse orgoglioso: - E noi abbiamo recitato nello spettacolo della scuola. Come avrebbe potuto spiegare che Arabella non aveva le lentiggini? Che era pallidissima e aveva i capelli scuri e gli stessi pensieri di Briony? Ma come avrebbe potuto deludere una cugina tanto lontana da casa e con la famiglia a pezzi? Lola doveva averle letto nella mente, perché a quel punto giocò la sua ultima carta, l’asso nella manica. - Ti prego, dimmi di sì. Sarebbe l’unica cosa bella che mi succede da mesi. Sì. Incapace di forzare la lingua a pronunciare quella parola, Briony poté solo annuire, e mentre lo faceva, percepì un tetro brivido di autoannientamento e condiscendenza diffondersi sulla sua pelle e sollevarsi lento da lei come un pallone che, palpitando, oscurasse la stanza. Voleva fuggire, buttarsi da sola sul 13
letto a faccia in giù e assaporare il dolore cocente di quel momento, e poi seguire con il pensiero il diramarsi di ogni possibile conseguenza fino al punto esatto che precedeva la devastazione. Aveva bisogno di contemplare a occhi chiusi la ricchezza di quello che aveva perso, di quello che aveva ceduto, e di prefigurarsi il nuovo stato delle cose. Non c’era solo Leon da considerare, ma che ne sarebbe stato dell’abito in raso color pesca e panna che sua madre stava cercando per lei, per le nozze di Arabella? L’avrebbe dato a Lola, adesso. Come avrebbe potuto sua madre rinnegare la figlia che l’aveva amata per tutti quegli anni? Immaginando il panneggio perfetto dell’abito intorno al corpo della cugina e prevedendo il sorriso spietato della madre, Briony seppe che l’unica scelta possibile per lei sarebbe stata la fuga, una vita all’addiaccio, a nutrirsi di bacche e a non parlare con nessuno, finché all’alba di una mattina d’inverno un boscaiolo barbuto l’avrebbe trovata rannicchiata ai piedi di un’enorme quercia, bellissima e morta, e scalza, o forse con ai piedi le scarpette da ballo, quelle coi lacci di fettuccia rosa... Il suo vittimismo esigeva la massima attenzione, e soltanto in solitudine sarebbe riuscita a respirare lo strazio di ogni dettaglio dell’esistenza, ma nell’istante del suo cenno di assenso - strano come l’oscillazione di un cranio possa cambiare un’intera vita! - Lola aveva afferrato da terra il fascio di fogli del suo manoscritto e i gemelli erano scivolati giù dalle sedie per seguire la sorella nello spazio centrale della nursery che Briony aveva sgombrato il giorno prima. Come poteva andarsene adesso? Lola misurava a passi la stanza, una mano alla fronte, bisbigliando rapidamente le prime righe del prologo. Annunciò che tanto valeva incominciare subito dal principio, e procedette ad affidare ai fratelli le parti dei genitori di Arabella e a ragguagliarli sull’inizio dell’opera, dando l’impressione di sapere tutto quel che c’era da sapere sulla scena in questione. L’avanzata del suo dominio era implacabile al punto da rendere irrilevante ogni forma di vittimismo. E se invece avesse accresciuto il piacere del suo annientamento? Briony infatti non era neppure stata scritturata come madre di Arabella, perciò quello era di sicuro il momento per allontanarsi furtivamente dalla stanza e buttarsi a faccia in giù nel buio del proprio letto. Ma a darle la forza di resistere fu la disinvoltura di Lola, la sua assoluta dimenticanza di tutto il resto, insieme alla certezza di Briony che i suoi sentimenti erano irrilevanti e, soprattutto, non avrebbero fatto sentire in colpa nessuno. 14
Avendo condotto fino a quel punto un’esistenza gradevole e ben protetta, non le era mai capitato di confrontarsi davvero con un altro. Ora però le toccava: era come tuffarsi in piscina all’inizio di giugno; dovevi semplicemente costringerti a farlo. Mentre si strizzava fuori dal seggiolone e raggiungeva la cugina, il cuore le batteva troppo forte e le mancava un po’ il respiro. Le prese il manoscritto e, con una voce più contratta e acuta del solito, disse: Se tu fai Arabella, allora io faccio il regista, grazie, e il prologo lo leggo io. Lola si portò la mano lentigginosa alla bocca: - Scuuusa! - esclamò. - Volevo solo provare a incominciare. Briony non sapeva bene come replicare, perciò si rivolse a Pierrot e disse: - Tu non mi sembri tanto la madre di Arabella. La revoca delle decisioni di Lola riguardo ai ruoli, e la risata che ne scaturì, resero possibile uno spostamento negli equilibri di potere. Lola ostentò eccessiva indifferenza in una scrollata delle sue spalle ossute e se ne andò a fissare fuori dalla finestra. Forse anche lei lottava con la tentazione di abbandonare la stanza. Benché i gemelli incominciassero ad azzuffarsi e la loro sorella temesse l’assalto di un’emicrania, in qualche modo le prove ebbero inizio. Briony lesse il prologo in un silenzio teso. Ecco la storia di Arabella, fanciulla d’animo sincero Che un brutto giorno se ne fuggì di casa con un forestiero. Affranti padre e madre videro la figliola Partire e andarsene per il mondo sola E svaporare diretta verso il mare Senza consenso ne promessa di tornare... Con la moglie al fianco, il padre di Arabella stava ai cancelli in ferro battuto della proprietà di famiglia, dapprima implorando la figlia di riconsiderare la propria decisione, e poi ordinandole disperato di non andare. Di fronte a lui, la mesta quanto ostinata eroina accanto al conte, mentre i loro cavalli, legati a una quercia vicina, nitrivano battendo gli zoccoli a terra, impazienti. L’affetto profondo e ferito del padre avrebbe dovuto fargli tremare la voce, mentre diceva: Tesoro mio, tu sei giovane e bella, Ma non conosci la vita, e se anche credi Di poter avere il mondo ai tuoi piedi Può sopraffarti, non te lo scordare. Briony sistemò sulla scena gli attori; si piazzò al braccio di Jackson, mentre Lola e Pierrot stavano un paio di metri più in là, mano nella mano. Non appena gli sguardi dei gemelli si incrociarono, i due bambini furono colti da una crisi di 15
ilarità che le ragazze tentarono di zittire. C’erano già stati abbastanza guai, e Briony incominciò a capire l’abisso che separa un’idea dalla sua realizzazione quando Jackson prese a leggere il foglio che aveva davanti con voce incerta e monotona, come se ogni parola fosse un nome di un elenco di caduti, e si dimostrò incapace di pronunciare il termine «sopraffarti», che pure gli venne ripetuto più e più volte, oltre a saltare piccole cose qua e là. Quanto a Lola, recitò la sua parte senza errori ma distrattamente, inserendo ogni tanto dei sorrisi del tutto fuori luogo, frutto di chissà quali pensieri suoi, decisa a dimostrare che la sua attenzione di persona ormai quasi adulta in effetti era altrove. E così proseguirono, i cugini venuti dal nord, per una buona mezz’ora, a fare sistematicamente a pezzi la creazione di Briony. Ecco perché l’arrivo della sua sorella maggiore, che veniva a prelevare i gemelli per il bagno, fu accolto come una liberazione.
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Capitolo secondo Forse perché era giovane e la giornata splendida, forse perché sentiva crescere il bisogno di una sigaretta, Cecilia Tallis procedette coi fiori in mano quasi di corsa lungo il sentiero che costeggiava il fiume, e la vecchia vasca dei tuffi col muro in mattoni coperto di muschio, prima di tagliare per il querceto. A metterle fretta era anche l’inattività accumulata nelle settimane estive dopo gli esami finali. Da quando era tornata a casa, la sua vita si era paralizzata, e una giornata splendida come quella la rendeva impaziente, quasi smaniosa. L’alta ombra fresca del bosco le fu di sollievo, l’intrico scultoreo dei tronchi le parve incantevole. Superato il cancelletto di ferro, e la siepe di rododendri, attraversò il prato aperto - venduto a un allevatore locale come terra da pascolo per risalire alle spalle della fontana con il suo muro di sostegno e la riproduzione in scala del Tritone del Bernini il cui originale era a Roma in piazza Barberini. La figura muscolosa, accomodata sulla conchiglia, riusciva a schizzare un getto alto pochi centimetri appena, la pressione era troppo bassa, e l’acqua ricadeva sulla testa della statua, colando sulla chioma di pietra e lungo il solco della possente spina dorsale su cui lasciava una lucida chiazza verde scuro. In questo ostile clima settentrionale, il Tritone era molto lontano da Roma, ma rimaneva bellissimo nella luce chiara del mattino, come del resto erano belli i quattro delfini che sostenevano la conca lambita dai flutti su cui riposava. Cecilia osservò le improbabili scaglie sul dorso dei delfini e sulle cosce del Tritone, prima di volgersi verso la casa. Il percorso più breve per rientrare in salone sarebbe stata la via del prato, la terrazza e l’ingresso dalle porte finestre. Ma Robbie Turner, suo amico d’infanzia e compagno di studi all’università, era in ginocchio, intento a diserbare una siepe di rose, e Cecilia non aveva voglia di fare conversazione con lui. O perlomeno, non ora. Da quando era rientrato, la sua ultima mania era l’architettura dei giardini. O meglio, la penultima, perché adesso si parlava anche di un’iscrizione a medicina che, dopo un diploma in letteratura, pareva assai poco plausibile. E pretenziosa, anche, dal momento che a pagargli gli studi sarebbe stato il padre di lei.
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Rinfrescò i fiori immergendoli nella vasca della fontana, che aveva le dimensioni dell’originale, era fredda e profonda, ed evitò Robbie facendo di corsa il giro intorno alla casa: una scusa, si disse, per stare fuori ancora qualche minuto. La luce del mattino, come qualsiasi altra luce, non poteva nascondere la bruttezza di villa Tallis, un tozzo edificio arancione di sì e no quarant’anni: mattoni vivi, vetri piombati, stile gotico baronale. Nikolaus Pevsner, o un altro critico a lui vicino, lo aveva liquidato definendolo in un articolo una tragedia di occasioni mancate, mentre un autore più giovane, portavoce della scuola moderna, lo descrisse come «totalmente privo di garbo». Al suo posto si ergeva un tempo una costruzione in stile Adam andata distrutta in un incendio alla fine del decennio 1880. Ne rimanevano soltanto il piccolo lago artificiale e l’isola con i due ponti di pietra su cui passava la strada e, ai margini dell’acqua, un fatiscente tempietto decorato a stucco. Il nonno di Cecilia, che era cresciuto sopra un negozio di ferramenta e aveva costruito la fortuna di famiglia grazie a una serie di brevetti per chiavistelli, cerniere, lucchetti e serrature, aveva imposto alla nuova casa la sua predilezione per tutto ciò che appariva solido, funzionale e sicuro. Eppure, se uno dava le spalle alla facciata e spingeva lo sguardo lungo il vialetto, ignorando le vacche frisone che ormai si radunavano all’ombra degli alberi radi, la vista era piuttosto gradevole e offriva quell’immagine di serenità immutabile e senza tempo che più d’ogni altra confermò Cecilia nell’idea di doversene andare al più presto di casa. Entrò, attraversò di fretta l’ingresso a piastrelle bianche e nere - com’era familiare il suono dei suoi passi, com’era irritante - e fece una sosta per prendere fiato sulla soglia del salone. Gocciolandole acqua fredda sui piedi calzati di sandali, il mazzo sparso di epilobi e iris le restituì uno stato d’animo un poco più allegro. Il vaso che stava cercando era su un tavolo in ciliegio accanto alla porta finestra socchiusa. A causa dell’esposizione a sud-est della stanza, alcuni parallelogrammi dorati di luce mattutina avanzavano sul tappeto blu polvere. Il respiro di Cecilia si fece più calmo mentre aumentava il suo desiderio di una sigaretta. Esitò un istante sulla porta, momentaneamente immobilizzata dalla perfezione della scena, e restò lì, accanto ai tre divani sbiaditi disposti intorno al camino gotico quasi nuovo con la sua riserva di falaschi invernali, vicino al clavicembalo stonato che nessuno suonava e agli inutili leggii in palissandro, ai 18
tendoni in velluto, morbidamente raccolti da un cordone intrecciato arancio e blu, a incorniciare un cielo vuoto di nuvole e la terrazza a chiazze gialle e grigie tra le cui lastre di pietra crescevano camomilla e partenio. Pochi gradini scendevano al prato dove Robbie era ancora al lavoro; una distesa d’erba che si estendeva fino alla fontana del Tritone quasi cinquanta metri più in là. Tutto questo: il fiume e i fiori, correre, cosa che faceva di rado in quei giorni, le raffinate venature sui tronchi di quercia, il soffitto altissimo della stanza, le geometrie di luce, le pulsazioni che andavano finalmente acquietandosi nelle sue orecchie, tutto questo le procurava il piacere di assistere alla metamorfosi del familiare in deliziosa estraneità. Ma si sentiva anche in colpa per la sensazione di noia legata all’essere a casa. Era tornata da Cambridge con l’idea vaga che alla famiglia spettasse la sua compagnia per un certo lasso di tempo ininterrotto. Ma il padre se ne restava lo stesso in città e la madre, quando non covava le sue emicranie, appariva lontana, poco disponibile. Quante volte Cecilia era salita in camera della madre - una camera non meno trascurata della sua - con il vassoio del tè, sperando che potessero nascere tra loro dei momenti di confidenza. Emily Tallis tuttavia la metteva a parte solo di alcune piccole seccature domestiche, quando non se ne restava abbandonata in penombra sui cuscini con espressione impenetrabile, sorseggiando in silenzio il suo tè. Briony era persa nelle sue fantasie letterarie - la scrittura che un tempo era sembrata un’infatuazione passeggera si era ormai trasformata in passione travolgente. Cecilia li aveva visti sulle scale quella mattina, sua sorella e i cuginetti, povere creature, arrivati da un giorno appena e già precettati nella nursery per le prove del dramma che Briony voleva a tutti i costi mettere in scena la sera stessa in occasione dell’atteso arrivo di Leon e del suo amico. C’era così poco tempo, e uno dei due gemelli era già finito in castigo nel retrocucina perché Betty lo aveva sorpreso a combinare chissà quale monelleria. Cecilia non aveva voglia di dare una mano, faceva troppo caldo; del resto, indipendentemente dalle sue intenzioni, il progetto era destinato a concludersi in un disastro, perché le aspettative di Briony erano altissime e perciò nessuno, meno che mai i cugini, sarebbero riusciti a tenere testa alla sua frenesia. Cecilia sapeva di non poter continuare a sprecare i suoi giorni tra le sabbie mobili di una camera mai riordinata, distesa a letto nell’eterna foschia del fumo, 19
con il mento appoggiato a una mano e il braccio che le formicolava nello sforzo di accompagnare la sua lenta traversata della Clarissa di Richardson. Aveva iniziato senza troppa convinzione la stesura di un albero genealogico, ma nel ramo paterno della famiglia, almeno fino a quando il suo bisnonno non aveva aperto l’umile bottega di ferramenta, tutti gli antenati risultavano irrimediabilmente sprofondati in una palude di fatiche rurali, soggetti a sospettabili quanto depistanti cambiamenti di cognome tra i membri maschili della famiglia, e a matrimoni civili non registrati negli archivi parrocchiali. In quella casa non poteva restare; sapeva che avrebbe dovuto fare dei progetti, ma non ci riusciva. Esistevano varie possibilità, tutte ugualmente prive di urgenza. Aveva un po’ di denaro su un conto, quanto bastava a vivere dignitosamente per un anno circa. Leon l’aveva più volte invitata a trascorrere qualche tempo da lui a Londra. Alcuni amici dell’università le offrivano aiuto nella ricerca di un impiego - lavoretti banali, s’intende, ma che le avrebbero garantito l’indipendenza economica. Tra le zie e gli zii materni c’erano persone interessanti, sempre felici di vederla, compresa la scatenata zia Hermione, madre di Lola e dei ragazzi, attualmente a Parigi in compagnia di un amante che lavorava alla radio. Nessuno imponeva a Cecilia di restare, a nessuno sarebbe importato molto che lei se ne andasse. A trattenerla non era la pigrizia, anzi, spesso era inquieta al limite dell’insofferenza. Semplicemente le piaceva immaginare un impedimento alla sua partenza, pensarsi necessaria, e di quando in quando si convinceva di rimanere per Briony, o per aiutare la madre, oppure perché quello sarebbe stato davvero il suo ultimo soggiorno prolungato in casa e perciò intendeva viverlo fino in fondo. La verità era che l’idea di fare la valigia e mettersi sul primo treno del mattino non le sorrideva. Andarsene per il gusto di farlo. Indugiare, invece, tra il tedio e la comodità rappresentava una sorta di castigo autoinflitto non privo di piacere, o della prospettiva di piaceri eventuali; in sua assenza poteva accadere qualcosa di brutto ma, peggio ancora, anche qualcosa di bello, qualcosa che non poteva senz’altro perdersi. C’era poi Robbie che la esasperava con quella sua ostentata freddezza e con i suoi progetti grandiosi di cui intendeva discutere solo con il padre di lei. Si conoscevano dall’età di sette anni, lei e Robbie, e la infastidiva constatare il loro disagio quando si parlavano. Pur ritenendo che fosse lui il maggiore responsabile della situazione - che l’essere risultato primo del 20
corso a Cambridge gli avesse dato alla testa? - sapeva di dover chiarire certe cose prima di poter pensare di andarsene. Dalle finestre aperte proveniva il vago lezzo ostinato di letame, sempre presente tranne nelle giornate freddissime, e ormai percepibile soltanto a chi se ne fosse tenuto lontano per qualche tempo. Robbie aveva riposto la paletta da giardiniere e si era alzato per rollarsi una sigaretta - un piccolo vezzo che risaliva al periodo di militanza nel Partito comunista, altra passione interrotta, insieme alle ambizioni in campo antropologico e al progetto di un viaggio a piedi da Calais a Istanbul. Comunque, le sigarette di Cecilia stavano a due rampe di scale da lì, in chissà quale delle varie tasche possibili. Avanzò nella sala e ficcò i fiori nel vaso. L’oggetto era appartenuto in passato allo zio Clem, la cui sepoltura postuma, alla fine del conflitto, le si era impressa indelebilmente nella memoria: il cannone trasportato fino al cimitero di campagna, la bara coperta dalla bandiera del reggimento, le spade levate, gli squilli di tromba e, cosa ancor più memorabile per una bambina di cinque anni, suo padre in lacrime. Clem era il suo solo fratello. In una delle ultime lettere a casa il giovane tenente aveva raccontato la storia di come fosse venuto in possesso del vaso. Era ufficiale di collegamento nel settore francese e aveva preso l’iniziativa di evacuare d’urgenza un piccolo centro a ovest di Verdun poco prima che venisse bombardato. In quel modo una cinquantina tra donne, vecchi e bambini furono salvati. In seguito, il sindaco e altre autorità locali ricondussero lo zio Clem in paese, fino all’edificio semidistrutto che ospitava il museo. Il vaso era stato recuperato da una teca di vetro infranto e consegnato allo zio in segno di gratitudine. Rifiutare era fuori discussione, per quanto poco agevole potesse apparire l’idea di combattere una guerra tenendosi un vaso di porcellana di Meissen stretto sotto il braccio. Un mese più tardi il vaso fu lasciato per sicurezza presso una fattoria, e il tenente Tallis guadò a nuoto un fiume in piena per recuperarlo, ripercorrendo poi lo stesso tragitto nottetempo per ricongiungersi alla propria unità. Durante gli ultimi giorni di guerra, Clem fu mandato in ricognizione e consegnò quindi il vaso a un amico perché ne avesse cura. Il dono trovò pian piano la via del ritorno fino al quartier generale da cui venne spedito alla famiglia Tallis qualche mese dopo il funerale dello zio Clem. 21
In realtà cercare di sistemare dei fiori di campo era una fatica inutile. Avevano assunto una disposizione stranamente simmetrica, ed era innegabile che l’eccessivo equilibrio tra epilobi e iris risultava stonato. Impiegò qualche minuto nel tentativo di ottenere attraverso vari aggiustamenti lo studiato effetto di un disordine naturale. Intanto, si domandava se fosse il caso di raggiungere Robbie in giardino. In questo modo si sarebbe risparmiata una corsa di sopra per le sigarette. Ma si sentiva accaldata, a disagio, e avrebbe prima voluto darsi un’occhiata nel vasto specchio dorato sopra il camino. Solo che, in caso lui si fosse girato - in quel momento fumava in piedi, dando le spalle alla casa -, avrebbe visto tutta la scena. Quando ebbe finito coi fiori, tornò ad allontanarsene un poco. Ecco, ora l’amico di suo fratello, Paul Marshall, avrebbe potuto credere che fossero finiti dentro quel vaso secondo lo stesso spirito distratto con il quale erano stati raccolti. Non aveva alcun senso, e lei lo sapeva, sistemare dei fiori prima di aver messo l’acqua nel recipiente, ma tant’è, non riusciva a resistere alla tentazione di spostarli; del resto non tutto quello che si fa deve per forza rispettare un preciso ordine logico, specie quando si è soli. Sua madre voleva che ci fossero dei fiori in camera dell’ospite e Cecilia era lieta di accontentarla. Per l’acqua ora si trattava di andare in cucina. Ma Betty stava preparando la cena di quella sera, ed era di umore spaventoso. A farsi piccolo per la paura non ci sarebbe stato soltanto il bambino, Pierrot o Jackson che fosse, ma anche la ragazza del paese venuta apposta a dare una mano. Già ora, perfino dalla sala da pranzo, era possibile sentire di quando in quando un urlo attutito e nervoso, o il clangore di un tegame appoggiato con innaturale malgarbo sulla mensola scaldavivande. Entrando in cucina, Cecilia si sarebbe vista costretta a mediare tra le istruzioni vaghe della madre e lo stato d’animo dell’energica Betty. Di sicuro aveva più senso uscire e riempire il vaso alla fontana. Qualche anno prima, quando Cecilia era adolescente, un amico del padre, che lavorava al Victoria & Albert Museum, era venuto a casa a esaminare il vaso e l’aveva trovato integro. Si trattava di autentica porcellana di Meissen, opera del grande Höroldt, che lo aveva dipinto nel 1726. Quasi certamente doveva essere stato di proprietà del re Augusto. Benché la perizia ne decretasse un valore superiore agli altri pezzi di villa Tallis, perlopiù paccottiglia collezionata dal nonno 22
di Cecilia, Jack Tallis pretese che il prezioso oggetto venisse sempre usato, in onore della memoria di suo fratello. Non doveva finire imprigionato dietro una teca di vetro. Se era sopravvissuto alla guerra, questo era il ragionamento, allora poteva resistere anche ai Tallis. La moglie non si oppose. A dirla franca, a dispetto del valore ingente e delle associazioni affettive, a Emily il vaso non piaceva granché. Quelle figurette cinesi così dignitosamente raccolte intorno a una tavola in giardino, circondate da arzigogoli di piante e improbabili uccelli, le parevano pesanti e opprimenti. Le cineserie in genere l’annoiavano. Cecilia dal canto suo non aveva nessuna opinione al riguardo, anche se qualche volta le era capitato di chiedersi a quanto sarebbe stato battuto da Sotheby’s. Il vaso era trattato con reverenziale rispetto non in virtù della maestria mostrata da Höroldt nella policromia degli smalti, o nel gioco di azzurri e d’oro utilizzato per l’intreccio di nastri e fogliame, ma in memoria dello zio Clem e delle vite che aveva salvato, del fiume che aveva attraversato a nuoto nel cuore della notte, e della sua morte ad appena una settimana dall’armistizio. I fiori perciò, specie quelli di campo, parevano un tributo adeguato. Cecilia afferrò la porcellana fredda con entrambe le mani, si tenne in equilibrio su una gamba, mentre con il piede libero spalancava la porta finestra. Uscendo alla luce accecante, l’accolse l’odore caldo che saliva dalle pietre come un abbraccio cordiale. Due rondini volteggiavano sulla fontana, mentre lo sciaguattio dell’acqua filtrava nell’aria dall’ombra sinuosa del gigantesco cedro del Libano. I fiori ondeggiavano nella brezza, solleticandole il viso mentre attraversava la terrazza e scendeva con attenzione i tre fatiscenti gradini fino al sentiero di ghiaia. Robbie si volse di scatto sentendola arrivare. - Ero sovrappensiero, - spiegò. - Ti dispiace rollarmi una delle tue sigarette da bolscevico? Robbie gettò via immediatamente la sua, prese la tabacchiera di latta che aveva appoggiato sopra la giacca sul prato e camminò con Cecilia fino alla fontana. Rimasero in silenzio per un po’. - Splendida giornata, - disse Cecilia alla fine, in un soffio. Lui la osservò con divertita diffidenza. C’era qualcosa in sospeso tra loro, e perfino Cecilia dovette ammettere in cuor suo che un banale commento sul tempo appariva provocatorio. 23
- Che mi dici di Clarissa? - Robbie teneva gli occhi sulle dita che intanto rollavano la sigaretta. - Una noia. - È vietato dirlo. - Non vedo l’ora che succeda qualcosa. - Succede. E da lì in poi, e meglio. Rallentarono il passo, poi si fermarono per lui di procedere al tocco finale sulla sigaretta. Cecilia aggiunse: - Preferirei leggere Fielding, comunque. Le parve di aver detto una cosa stupida. Robbie guardava lontano oltre il parco e le vacche e il boschetto di querce che segnava il confine con il fiume, e che Cecilia aveva attraversato di corsa poco prima. Magari Robbie pensava che lei gli stesse parlando in codice, comunicandogli per allusioni la propria predilezione per le esperienze forti e sensuali. Il che era un errore ovviamente, che la sconcertava senza peraltro suggerirle un’idea su come correggerlo. Le piacevano gli occhi di Robbie, minuscole chiazze non mescolate di arancio e di verde, che il sole diretto rendeva ancor più distinte. E le piaceva anche che lui fosse così alto. Le pareva una combinazione interessante in un uomo, l’intelligenza e la mera massa corporea. Cecilia aveva tra le dita la sigaretta e lui gliela stava accendendo. - So cosa intendi, - disse Robbie mentre percorrevano gli ultimi metri che li separavano dalla fontana. - C’è più vita in Fielding, che però può rivelarsi psicologicamente rozzo paragonato a Richardson. Cecilia depositò il vaso accanto ai gradini irregolari che portavano alla vasca di pietra. L’ultima cosa che avrebbe voluto era un dibattito colto sulla letteratura del diciottesimo secolo. A lei Fielding non pareva rozzo per niente, e nemmeno trovava Richardson un fine psicologo, ma non intendeva lasciarsi coinvolgere in difese d’ufficio, definizioni, accuse. Era stanca di situazioni del genere, e Robbie era un interlocutore ostinato. Perciò disse: - Oggi arriva Leon, lo sapevi? - Ho sentito, sì. Magnifico. - Porta anche un amico. Un certo Paul Marshall. - Il re del cioccolato. Oh no! E tu gli offri anche i fiori! 24
Cecilia sorrise. Fingeva di essere geloso per nascondere il consentire a fatto che lo era veramente? Non lo capiva più. Avevano perso i contatti a Cambridge. Si era rivelato troppo difficile continuare a frequentarsi. Cambiò argomento. - Il vecchio dice che vuoi diventare dottore. - Ci sto pensando. - Deve piacerti un mucchio la vita da studente. Robbie distolse di nuovo lo sguardo, ma questa volta per un paio di secondi soltanto, e quando tornò a guardarla Cecilia credette di scorgere sul viso di lui una leggera irritazione. Che il tono di voce avesse tradito della sufficienza? Guardò ancora i suoi occhi, quelle piccole chiazze di verde e di arancio, come dentro una biglia di vetro. Quando le rispose, Robbie era assolutamente sereno. - So bene che non ti e mai andata a genio l’idea, ma non c’è un altro modo per diventare dottore. - È proprio questo che dico. Altri sei anni. Perché? Non era offeso. Era lei quella che tendeva a sovrinterpretare e a farsi nervosa in presenza di lui, lei a irritarsi con se stessa. Robbie stava solo prendendo sul serio la sua domanda. - Chi vuoi che mi dia lavoro come architetto di giardini. Di insegnare, non ho voglia, e nemmeno di trovarmi un impiego statale. E poi, la medicina mi interessa... - Si interruppe, come se all’improvviso si fosse ricordato qualcosa. - Ascolta, sono d’accordo con tuo padre che gli restituirò tutto. Abbiamo stretto un patto. - Non è certo questo che avevo in mente. La sorprese che Robbie potesse attribuirle la volontà di sollevare la questione dei soldi. Le parve ingeneroso da parte sua. Suo padre lo manteneva agli studi da sempre. Gli risultava che qualcuno avesse mai fatto obiezioni? Aveva creduto di esserselo immaginato e invece aveva ragione: c’era qualcosa di provocatorio nei modi di Robbie negli ultimi tempi. Aveva preso l’abitudine di provare a spiazzarla ogni volta che poteva. Due giorni prima aveva suonato il campanello d’ingresso gesto di per sé bizzarro, dal momento che aveva da sempre libero accesso alla casa. Quando l’avevano chiamata di sotto, lo aveva trovato fuori sulla porta e si era sentita chiedere con voce stentorea e impersonale se poteva prendere un libro 25
in prestito. Per caso, Polly era inginocchiata a terra a lavare le piastrelle dell’atrio. Robbie si tolse ostentatamente le scarpe, che non erano affatto sporche, e poi, come se ci avesse ripensato, si sfilò anche i calzini e prese a zampettare in punta di piedi sul pavimento bagnato rendendosi ridicolo. Ogni suo gesto aveva lo scopo di prendere le distanze da lei. Stava mettendo in scena la parte del figlio della cameriera mandato a fare una commissione a casa dei padroni. Andarono insieme in biblioteca, e quando lui ebbe trovato il libro che cercava, Cecilia lo invitò a fermarsi per un caffè. Il suo incerto rifiuto era tutta una finzione: Robbie era una delle persone più sicure di sé che avesse mai conosciuto. La stava prendendo in giro, ne era certa. Indispettita, aveva lasciato la stanza ed era salita in camera per sdraiarsi con Clarissa, che aveva letto senza capire una sola parola e sentendo crescerle dentro irritazione e imbarazzo. Lui la stava punendo, oppure la scherniva, e non avrebbe saputo dire quale delle due ipotesi fosse peggiore. La puniva per aver frequentato un giro diverso a Cambridge, per non essere figlia di una donna delle pulizie; la prendeva in giro per i suoi esiti modesti agli esami finali. Del resto quelli delle donne non erano nemmeno diplomi a tutti gli effetti. Con fare impacciato, perché aveva ancora in mano la sigaretta, sollevò il vaso sul bordo della vasca. Sarebbe stato più logico togliere prima i fiori, ma era troppo nervosa per ragionare. Aveva le mani calde e asciutte e dovette stringere ancora più forte la porcellana. Robbie era silenzioso, ma dalla sua espressione - un sorriso teso e forzato che non bastava a schiudergli le labbra - Cecilia capì che era pentito di quanto aveva detto. Nemmeno questo riuscì a confortarla. Era quella la piega che avevano preso ultimamente le loro conversazioni; uno dei due si sentiva sempre in torto e tentava di rimangiarsi l’ultima cosa detta. Non c’era alcuna disinvoltura, alcuna stabilità nei loro discorsi, alcuna possibilità di rilassarsi. Al contrario, era un continuo gioco di colpi mandati a vuoto, di trappole e di recuperi impacciati che la portavano a detestare se stessa quasi quanto detestava lui, pur non dubitando che la colpa fosse quasi tutta di Robbie. Lei non era cambiata, ma di certo non si poteva dire altrettanto di lui. Stava prendendo le distanze dalla famiglia che lo aveva accolto a braccia aperte e che gli aveva dato tutto. Solo per questo - perché si aspettava un suo rifiuto e prevedeva la propria 26
delusione - non lo aveva invitato a cena per quella sera. Se era prendere le distanze che gli premeva, eccolo accontentato. Dei quattro delfini su cui poggiava la conchiglia di Tritone, quello più vicino a Cecilia aveva la gran bocca aperta otturata dal muschio e dalle alghe. Le sue sferiche orbite di pietra, grosse come mele, erano di un verde iridescente. L’intera statua era andata acquisendo sulle superfici esposte a settentrione una patina verde-bluastra, cosicché da determinate angolazioni, e nella penombra, il muscoloso Tritone sembrava davvero immerso a centinaia di leghe sotto il livello del mare. L’intenzione del Bernini doveva essere stata quella di creare una sottile musica d’acqua che goccia dopo goccia scendesse dai bordi ineguali della vasta conchiglia dentro la vasca sottostante. Ma la pressione era troppo debole, perciò l’acqua scivolava in silenzio lungo le pareti della conchiglia fino a raggiungere viscide piante parassite cresciute in punti strategici, come stalattiti in una grotta calcarea. La vasca stessa era profonda più o meno un metro, e pulita. Sul fondo di pietra pallida e pastosa, rettangoli bianchi di luce riflessa si separavano per tornare a sovrapporsi. L’idea di Cecilia era di sporgersi dal parapetto e di tenere da parte i fiori mentre inclinava il vaso per riempirlo, ma fu a quel punto che Robbie, nel tentativo di fare ammenda, cercò di rendersi utile. - Lascia fare a me, - disse, allungando una mano. - Ci penso io, tu tieni i fiori. - Ce la faccio, grazie -. Teneva già il vaso sospeso sopra la vasca. Ma lui insistette: - Aspetta, l’ho preso, - ed era così in effetti, lo stringeva tra indice e pollice. - Ti bagni la sigaretta. Prendi solo i fiori. Cercò di conferire un piglio di autorevolezza maschile all’ordine. L’effetto su Cecilia fu quello di farle stringere la presa. Non aveva tempo e certamente nessuna voglia di spiegare che tuffare vaso e fiori insieme nell’acqua avrebbe contribuito a garantire l’aspetto naturale della composizione. Senza mollare il vaso, voltò le spalle a Robbie, che però non si lasciò liquidare tanto facilmente. Con un suono simile a quello di un ramoscello secco che si spezza, un frammento dell’orlo del vaso gli rimase in mano per poi dividersi in due cocci triangolari, che caddero nella vasca affondando simultaneamente con un movimento a zig-zag. Eccoli là, a qualche centimetro di distanza l’uno dall’altro, tremolanti nel baluginio della luce. 27
Cecilia e Robbie rimasero paralizzati in quella posizione. I loro sguardi si incrociarono, e ciò che lei vide nella spruzzaglia vitrea di verde e arancio degli occhi di lui non fu sconcerto, ne senso di colpa, bensì una sorta di sfida, per non dire di trionfo. Ebbe la presenza di spirito di appoggiare il vaso rotto sul gradino della fontana, prima di ragionare sul significato dell’accaduto. La situazione era irresistibile, lo sapeva, perfino esaltante, perché maggiore il danno e peggio sarebbe stato per Robbie. C’erano di mezzo lo zio defunto, il fratello scomparso di suo padre, lo scempio della guerra, l’attraversamento rischioso del fiume, il valore dell’oggetto che ne trascendeva la preziosità, l’eroismo e l’onore, tutti gli anni racchiusi in quel vaso su su fino al genio di Höroldt e, prima di lui, alla sapienza degli arcanisti che avevano reinventato la porcellana. - Imbecille. Guarda cosa hai fatto. Lui guardò dentro l’acqua, poi di nuovo verso di lei, e si limitò a scuotere la testa mentre alzava una mano e si copriva la bocca. Attraverso quel gesto si stava assumendo la piena responsabilità dell’incidente, ma in quel momento Cecilia lo odiò per l’inadeguatezza della sua reazione. Robbie lanciò un’occhiata alla vasca e sospirò. Per un attimo credette che Cecilia stesse per fare un passo indietro andando a sbattere contro il vaso, perciò alzò la mano a indicarglielo, pur senza dire nulla. Incominciò invece a sbottonarsi la camicia. Cecilia comprese al volo le sue intenzioni. Intollerabile. Già era venuto a casa e si era tolto scarpe e calze benissimo, adesso gli avrebbe fatto vedere. Si sfilò i sandali con un calcio, sbottonò la camicetta e la tolse, sganciò la gonna e la lasciò cadere a terra; quindi si avvicinò alla fontana. Robbie rimase con le mani sui fianchi a fissarla e la vide scavalcare il bordo ed entrare nell’acqua seminuda. Lo puniva così, rifiutando il suo aiuto, impedendogli di rimediare al danno. L’acqua inaspettatamente gelida che le tolse il fiato era un altro modo per punirlo. Cecilia trattenne il respiro e affondò la testa lasciando il ventaglio di capelli a galleggiare in superficie, e quando riemerse pochi secondi più tardi con un pezzo di porcellana in ciascuna mano, Robbie ci pensò bene prima di offrirle un aiuto per uscire dalla vasca. La fragile candida ninfa dalle cui membra l’acqua grondava con un effetto di gran lunga più suggestivo di quello ottenuto dal corpulento Tritone, sistemò con cura i due frammenti vicino al vaso. Si rivestì in fretta, infilando a fatica le braccia bagnate nelle maniche di seta e ficcandosi la camicetta sbottonata dentro la 28
gonna. Raccolse i sandali e se li sistemò sotto il braccio, mise i due cocci nella tasca della gonna e prese il vaso. Si muoveva a scatti furiosi, senza mai incontrare lo sguardo di lui. Robbie non esisteva, lo aveva bandito, anche questo faceva parte del castigo inflitto. Lui rimase lì inerte a guardarla andar via, a piedi nudi sul prato; le osservò i capelli scuriti dall’acqua che le dondolavano sulle spalle, inzuppandole la camicetta. Guardò ancora nella vasca per accertarsi che non le fosse sfuggito un altro frammento. Non era facile vedere il fondo perché la superficie increspata non aveva ancora recuperato la naturale tranquillità, come se la turbolenza residua dipendesse dallo spirito della furia di lei che indugiava ancora nell’aria. Robbie poggiò una mano aperta sull’acqua, come a placarla. Cecilia, intanto, era scomparsa in casa.
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Capitolo terzo Secondo la locandina appesa nell’ingresso, la prima delle disavventure di Arabella sarebbe andata in scena appena un giorno dopo le prove. Tuttavia, non fu semplice per l’autrice-regista recuperare il tempo necessario a svolgere un lavoro produttivo. Come già era avvenuto il pomeriggio precedente, il problema consisteva nel riuscire a radunare il cast. Nella notte Jackson, il severo padre di Arabella, aveva bagnato il letto, come e normale che accada a un bambino turbato e perdipiù lontano da casa, e perciò fu costretto in base alla vigente teoria educativa a portare di sotto in lavanderia lenzuola e pigiama e a lavarseli personalmente, a mano, sotto lo sguardo vigile di Betty a cui era stato ordinato di mantenersi fredda e irremovibile. La cosa non venne presentata al ragazzo come un castigo; l’idea era piuttosto quella di educare il suo inconscio a ricordare che cedimenti futuri avrebbero comportato altro imbarazzo e fatica. Ma non era facile non sentirsi rimproverati standosene di fronte a un immenso acquaio di pietra che ti arriva fino al petto, con la saponata che ti sale sulle braccia nude e inzuppa le maniche arrotolate della camicia, mentre le lenzuola fradice si fanno pesanti come un cane morto e l’atmosfera di disastro cosmico che ti circonda paralizza la tua volontà. Briony scendeva a intervalli regolari per controllare l’andamento dei lavori. Le era stato proibito di aiutare Jackson, che ovviamente non aveva mai fatto un bucato in vita sua; i due successivi lavaggi, gli innumerevoli risciacqui e la vigorosa strizzatura a due mani con il mangano, insieme al tremebondo quarto d’ora passato dopo al tavolo di cucina davanti a pane e burro e un bicchier d’acqua, sottrassero alle prove un buon paio d’ore. Quando Hardman rientrò dalla calura del mattino per bersi la sua pinta di birra, Betty gli raccontò che le pareva già abbastanza dover preparare una cena a base di arrosto con quella temperatura, e che personalmente reputava eccessivo il trattamento riservato al ragazzo; lei avrebbe risolto la faccenda con quattro sonori sculaccioni, ma le lenzuola non gliele avrebbe fatte lavare. E questo avrebbe trovato perfettamente d’accordo anche Briony, che si vedeva sfuggire di mano la mattinata. Quando sua madre scese per controllare di persona che il compito
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fosse stato svolto, fu inevitabile che una sensazione di generale sollievo calasse su tutti i presenti, e che, nella mente della signora Tallis, si affacciasse anche un rimosso senso di colpa, così, quando Jackson domandò a mezza voce per favore il permesso di andare a nuotare in piscina con il fratello, il suo desiderio venne immediatamente esaudito e le obiezioni di Briony liquidate senza riserve, come se fosse stata lei a imporre faticosi tormenti a un piccolo individuo indifeso. Perciò andarono tutti a nuotare, e poi dovettero pranzare. Le prove erano proseguite anche senza Jackson, ma era insidioso non perfezionare la fondamentale scena d’avvio, quella del congedo di Arabella, e Pierrot si rivelò troppo nervoso per il destino del fratello, relegato laggiù nelle viscere della casa, per dare proprio il meglio di se nella parte di un vile conte forestiero; tutto ciò che succedeva a Jackson riguardava da vicino anche il futuro di Pierrot, che fece innumerevoli visite al bagno in fondo al corridoio. Quando Briony rientrò da una delle sue puntate in lavanderia, lui le chiese: Lo hanno picchiato? - Non ancora. Come suo fratello, Pierrot aveva un vero talento per sottrarre significato alle battute che doveva recitare. Più che altro intonava una sorta di appello, un elenco di parole: - Credi-forse-di-poter-sfuggire-alle-mie-grinfie -. Non mancava nulla, era tutto corretto. - È una domanda, - lo interruppe Briony. - Non lo capisci? La voce sale alla fine. In che senso? - Ecco. L’hai appena fatto. Si parte da giù e poi si sale. È una domanda. Il bambino trangugiò, prese fiato e fece un secondo tentativo, modulando ora il solito appello su una scala cromatica ascendente. - Alla fine. La voce sale alla fine. Ed ecco di nuovo l’elenco monotono di prima concluso da un mutamento di registro, una specie di jodeln, sulla sillaba finale. Quella mattina Lola si era presentata nella nursery nei panni dell’adulta che in cuor suo era convinta di essere. Indossava un paio di calzoni pieghettati in flanella che le si gonfiavano sui fianchi e svolazzavano intorno alle caviglie, e una maglia di cachemire a maniche corte. Tra gli altri emblemi di maturità si 31
registravano un girocollo in velluto e perline, le trecce rosse raccolte alla nuca con un fermaglio color smeraldo, tre braccialetti d’argento intorno al polso lentigginoso, e il fatto che a ogni suo movimento l’aria tutto intorno profumava di acqua di rose. Dominando completamente il proprio sussiego, lo rendeva ancor più efficace. Ostentava una fredda obbedienza ai suggerimenti di Briony, recitava le sue battute, che pareva aver mandato a memoria durante la notte, con cortese rassegnazione, e si mostrava dolcemente incoraggiante nei riguardi del fratellino senza per questo sostituirsi mai all’autorità del regista. Era come se Cecilia, per non dire la loro madre, avesse acconsentito a passare del tempo con i bambini accettando un ruolo nello spettacolo, decisa a non tradire mai la più piccola ombra di noia. Una sola cosa mancava: un po’ di concitato entusiasmo infantile. Quando Briony aveva mostrato ai cugini la biglietteria e la cassa dei soldi la sera prima, i gemelli avevano subito litigato per accaparrarsi le parti più prestigiose; Lola invece aveva incrociato le braccia ed espresso le proprie pacate congratulazioni da adulta, attraverso un mezzo sorriso dal quale non traspariva traccia di ironia. - Magnifico. Ma che trovata geniale, Briony. Hai davvero fatto tutto quanto da sola? Briony sospettava che dietro alle maniere ineccepibili della cugina si nascondesse un intento devastatore. Forse Lola contava sui gemelli per far naufragare lo spettacolo in modo innocente e le bastava perciò farsi da parte e stare a guardare. Tali sospetti non dimostrabili, uniti a Jackson relegato in lavanderia, Pierrot che recitava come un cane e il caldo atroce della mattina, avvilirono Briony. La innervosì anche notare che Danny Hardman li guardava dalla porta. Dovette chiedergli espressamente di andarsene. Non riuscì a penetrare l’indifferenza di Lola e nemmeno a ottenere da Pierrot la normale inflessione della lingua di tutti i giorni. Che sollievo, dunque, ritrovarsi all’improvviso sola nella nursery. Lola aveva annunciato di doversi rifare i capelli e suo fratello si era allontanato nel corridoio, diretto al bagno, o chissà dove. Briony sedette a terra con la schiena appoggiata a uno degli armadi a muro dei giocattoli e si fece aria con le pagine della commedia. Il silenzio in casa era assoluto: non una voce, un rumore di passi, uno sgocciolio dentro le tubazioni; 32
una mosca imprigionata tra i vetri di una finestra a ghigliottina aperta aveva abbandonato la propria battaglia, e fuori il liquido canto degli uccelli era evaporato nella calura. Allungò le gambe davanti a sé e si concentrò sulle pieghe del vestito di mussola bianca e sulle sue amate grinze di pelle intorno alle ginocchia. Doveva cambiarsi d’abito quella mattina. Pensò che avrebbe dovuto badare di più al proprio aspetto, come Lola. Non farlo era da bambini. Che fatica, però. Il silenzio le fischiava nelle orecchie e la vista le si alterò un poco: si vedeva le mani in grembo insolitamente grandi e al tempo stesso distanti, come se le guardasse da molto lontano. Alzò una mano flettendo le dita e si chiese, come già le era capitato di fare altre volte, come fosse entrata in possesso di quella cosa, quella specie di morsa, di ragno carnoso al suo completo servizio. Che avesse un barlume di vita propria? Piegò un dito e tornò a distenderlo. Il mistero era sigillato nell’attimo prima del movimento, l’istante che separava la quiete dal moto, quando l’intenzione raggiungeva il suo effetto. Era come il frangersi di un’onda. Se fosse riuscita a tenersi sulla cresta, pensava, non era escluso che avrebbe scoperto il proprio segreto, quella parte di se responsabile del fenomeno. Si portò l’indice vicino alla faccia e prese a fissarlo, ordinandogli di muoversi. Il dito restava fermo, perché lei stava solo fingendo, non faceva sul serio, e perché volerlo muovere, o essere sul punto di muoverlo, non era la stessa cosa che muoverlo per davvero. E quando alla fine lo piegò, il gesto parve partire dal dito stesso, non da un punto ignoto della sua mente. Quando sapeva di doversi muovere? Quand’era che lei lo muoveva? Era impossibile cogliersi di sorpresa. Esistevano soltanto il prima e il dopo. Non c’erano segni di cuciture, linee di giunzione, eppure sapeva che al di là del tessuto liscio che la foderava si trovava la vera se stessa - la sua anima forse? - alla quale spettava la decisione di smettere di fingere, per dare l’ordine definitivo. Quei pensieri le risultavano familiari e rassicuranti quanto la precisa configurazione delle sue ginocchia con la loro perfetta ma opposta, reversibile simmetria. Un secondo pensiero faceva immancabilmente seguito al primo, ogni mistero generava mistero; chissà se anche gli altri erano vivi quanto lo era lei. Per esempio, sua sorella era altrettanto importante per se stessa, si giudicava altrettanto preziosa? Essere Cecilia era un’esperienza forte quanto essere Briony? Anche sua sorella possedeva una vera se stessa nascosta sotto la cresta di 33
un’onda, e passava del tempo a pensarci, tenendosi un dito davanti alla faccia? Era così per tutti gli altri, compresi suo padre, Betty, Hardman? Se la risposta era sì, allora il mondo, la società doveva essere complicata in modo insostenibile, con i suoi due miliardi di voci, e coi pensieri di tutti allo stesso livello e le pretese di una vita altrettanto intensa da parte di tutti, e con l’unanime convinzione di essere unici, quando nessuno lo era. Uno poteva annegare in tanta irrilevanza. Ma se la risposta era no, allora Briony si ritrovava circondata da macchine, intelligenti e gradevoli a vedersi, ma prive del genio intimo che lei si sentiva dentro. L’idea era lugubre e malinconica, oltre che improbabile. Perché, sebbene la cosa offendesse il suo senso dell’ordine, doveva ammettere che c’erano enormi probabilità che anche tutti gli altri avessero pensieri simili ai suoi. Lo sapeva, ma solo in termini di sterile teoria; non lo sentiva davvero. Anche le prove offendevano il suo senso dell’ordine. Il mondo conchiuso che aveva disegnato con la chiarezza di parole perfette era stato snaturato dagli scarabocchi di altre menti, di altri bisogni; e perfino il tempo, così facile da segmentare sulla pagina in atti e in scene, nella realtà gocciolava via a poco a poco in modo incontrollabile. Forse non sarebbe riuscita a recuperare Jackson fin dopo pranzo. Leon e il suo amico arrivavano nel tardo pomeriggio, se non prima, e lo spettacolo era previsto per le sette. E tuttora non si erano fatte prove decenti, e i gemelli non sapevano recitare, e nemmeno parlare, e Lola le aveva rubato il ruolo che spettava a lei di diritto, e non c’era niente da fare, e faceva caldo, un caldo infernale. La ragazza si strinse nel proprio avvilimento e si alzò. La polvere accanto allo zoccolo le aveva sporcato le mani e il vestito. Senza pensarci, Briony si pulì nella gonna dell’abito, avviandosi verso la finestra. Il modo più semplice per fare colpo su Leon sarebbe stato quello di scrivergli un racconto e consegnarglielo personalmente, per poi restare a guardare mentre lui lo leggeva. Il titolo a grandi lettere, la copertina illustrata, le pagine rilegate - bastò quella parola a farle sentire il fascino della forma precisa e ben controllata a cui aveva deciso di rinunciare quando si era messa a scrivere un dramma. Un racconto era diretto e semplice, non ammetteva alcuna intrusione tra lei e il lettore - nessun intermediario con le proprie personali ambizioni e incompetenze, nessuna urgenza di tempo, nessun limite alle risorse disponibili. In un racconto bastava desiderare, e poi mettere per iscritto il desiderio, e potevi crearti un mondo; in un 34
dramma invece ti toccava fare con quello che avevi a disposizione: niente cavalli, niente strade di un villaggio, niente mare. Niente sipario. Sembrava talmente ovvio, adesso che era troppo tardi: il racconto era una sorta di telepatia. Attraverso la trascrizione di segni sulla pagina, lei era in grado di trasferire pensieri e sentimenti dalla sua mente a quella del lettore. Era un processo magico, tanto comune che nessuno si soffermava a rifletterci. Leggere una frase coincideva con il comprenderla; come nel caso del gesto di piegare un dito, tra il prima e il dopo non c’era nulla. Non esisteva intervallo che precedesse la comprensione dei segni. Vedevi la parola castello, ed eccolo là, in lontananza, circondato da frondosi boschi estivi, immerso nell’aria dolce e azzurrina tagliata dal filo di fumo che sale dalla bottega del fabbro, con una strada di ciottoli che sparisce serpeggiando nell’ombra verde. Era arrivata a una delle finestre spalancate della nursery e doveva aver osservato quanto le stava di fronte per qualche secondo prima di registrarlo. Lo scenario si sarebbe adattato perfettamente, almeno di lontano, a quello di un castello medievale. A qualche miglio dalla proprietà Tallis si innalzavano le Surrey Hills con il loro affollamento immobile di querce fitte, un verde cupo addolcito dalla lattiginosa foschia di calore. Più vicino, nel vasto parco della proprietà, quel giorno arido e incolto, bruciato come una savana, si ergevano piante isolate che disegnavano ombre corte e inospitali sull’erba alta inseguita dal giallo leonino dell’estate piena. Ancora più in qua, dentro i confini di cinta, si stendevano i vari roseti e infine, ecco la fontana del Tritone accanto alla cui vasca di pietra stavano sua sorella e, di fronte a lei, Robbie Turner. C’era un che di formale nella postura di lui, gambe divaricate, capo all’indietro. Una proposta di matrimonio. Briony non si sarebbe sorpresa. Lei stessa aveva scritto un racconto in cui un umile taglialegna salvava una principessa dall’annegamento e finiva poi per sposarsela. La vicenda che si presentava alla sua mente era più che plausibile. Robbie Turner, unico figlio di una modesta donna delle pulizie e di padre ignoto, Robbie che, mantenuto agli studi universitari dal padre di Briony, aveva scelto in un primo momento di diventare architetto di giardini, ma che adesso voleva intraprendere la carriera medica, aveva avuto la sfrontatezza ambiziosa di chiedere la mano di Cecilia. Non 35
faceva una grinza. Simili trasgressioni dei limiti erano la stoffa di cui sono fatti i romanzi di tutti i giorni. Meno comprensibile era invece la ragione per cui adesso Robbie alzava imperiosamente una mano, come a impartire un comando al quale Cecilia non osò disubbidire. Incredibile che non sapesse opporsi. Al suo ordine si stava infatti togliendo i vestiti, e con che velocità. Si era già sfilata la camicetta, ora lasciava cadere a terra la gonna e la scavalcava, mentre lui la osservava con impazienza, le mani sui fianchi. Che strano potere esercitava su di lei. Ricatti? Minacce? Briony si portò le mani al viso e si ritrasse un poco dalla finestra. Avrebbe dovuto chiudere gli occhi, pensò, e risparmiarsi lo spettacolo della vergogna di sua sorella. Ma fu impossibile, perché le sorprese non erano ancora finite. Cecilia, per fortuna con addosso ancora la biancheria intima, entrava nella vasca e restava lì con l’acqua che le arrivava alla vita; poi si tappò il naso e sparì. Rimanevano soltanto Robbie, i vestiti sopra la ghiaia e, più in là, il silenzio del parco e in lontananza le colline azzurre. La sequenza era illogica: la scena dell’annegamento, seguita dal salvataggio, avrebbe dovuto precedere la proposta di matrimonio. Questo fu l’ultimo pensiero che attraversò la mente di Briony, prima di ammettere che non capiva e doveva perciò limitarsi a guardare. Due piani più in alto, non vista e forte del vantaggio di una luce solare che non ammetteva dubbi, ebbe il privilegio di viaggiare avanti nel tempo verso il comportamento adulto, verso riti e convenzioni di cui era ancora del tutto all’oscuro. Evidentemente, erano situazioni di quel tipo che si verificavano. Nel preciso istante in cui la testa della sorella riaffiorò in superficie grazie a Dio! - Briony ebbe la prima vaga premonizione che per lei non ci sarebbero più stati castelli da favola ne principesse, ma solo l’imperscrutabilità del presente, di quanto passava tra due individui, tra due persone qualsiasi che lei conosceva, del grande potere che uno era in grado di esercitare sull’altro, e di quanto fosse facile fraintendere tutto, ogni cosa. Cecilia stava uscendo dalla fontana e si sistemava la gonna, infilandosi a fatica la camicetta sulla pelle ancora bagnata. Si voltò di scatto e raccolse dall’ombra scura della parete della vasca un vaso di fiori che Briony non aveva notato prima, poi si avviò spedita verso casa. Non una parola tra lei e Robbie, non uno sguardo 36
diretto a lui. Che intanto fissava l’acqua della fontana e infine si allontanava a sua volta, soddisfatto senz’altro, e svoltava dietro l’edificio. All’improvviso la scena rimase vuota; la pozza bagnata là dove Cecilia era uscita grondante dalla vasca era l’unica prova che qualcosa fosse successo davvero. Briony si appoggiò contro la parete e fissò imbambolata il pavimento della nursery. Era forte in lei la tentazione di sentirsi al centro di una magia, di un’azione drammatica, e di considerare la scena alla quale aveva assistito come se fosse stata allestita a suo beneficio esclusivo, con il doveroso messaggio morale avvolto dentro un mistero. Ma sapeva benissimo che se non si fosse trovata in quel luogo in quel momento, la scena sarebbe accaduta lo stesso, perché in realtà non la riguardava affatto. Soltanto il caso l’aveva portata a mettersi alla finestra. Quella non era una fiaba, era la vita vera, il mondo adulto, nel quale le rane non parlano alle principesse, e gli unici a scambiarsi messaggi sono gli esseri umani. Altra tentazione fu quella di precipitarsi in camera di Cecilia ed esigere una spiegazione. Ma Briony resistette, perché voleva inseguire in solitudine il brivido sottile della possibilità che aveva percepito prima, la fuggevole eccitazione nel riuscire a vedere con chiarezza una certa prospettiva, almeno sul piano emotivo. La chiarezza sarebbe cresciuta nel corso degli anni. Alla fine Briony sarebbe stata costretta ad ammettere di attribuire forse alla tredicenne di allora un’eccessiva consapevolezza. A quell’età magari non aveva ancora le parole esatte per dirlo; non era anzi escluso che tutto si risolvesse soltanto in una sorta di smania di rimettersi a scrivere. Mentre restava nella nursery in attesa che i cugini tornassero, sentiva che avrebbe potuto narrare una scena come quella della fontana inserendovi anche il personaggio dell’osservatore nascosto, vale a dire il suo. Riusciva a vedere se stessa nell’atto di precipitarsi subito in camera, davanti a un blocco intatto di carta a righe e con in mano la penna stilografica di bachelite marmorizzata. Riusciva a immaginare le frasi, l’accumularsi di segni telepatici che andavano srotolandosi all’estremità del pennino. Poteva riscrivere la stessa scena tre volte, da altrettanti punti di vista diversi; l’eccitazione le proveniva dalla prospettiva della libertà, dall’essere esonerata dal dover risolvere l’imbarazzante conflitto tra bene e male, tra eroi e antieroi. Nessuno dei tre personaggi era malvagio, e nemmeno particolarmente virtuoso. Non c’era bisogno di giudicarli. Non occorreva 37
che ci fosse una morale. Le era sufficiente mostrare menti diverse al lavoro, menti non meno vive della sua e in lotta con l’idea della presenza di altri cervelli pensanti. Soltanto una storia permetteva di entrare in più di una testa e dimostrare come ciascuna avesse eguale valore. Ecco l’unica morale di cui un racconto aveva bisogno. Sei decenni più tardi avrebbe spiegato di quando a tredici anni aveva trovato la propria strada attraversando l’intera storia della letteratura, partendo da fiabe che affondavano le proprie radici nel folklore popolare europeo, per passare all’azione drammatica dal semplice intento morale, e infine approdare a un imparziale realismo psicologico scoperto tutto da sola, in una mattina molto speciale durante l’ondata di caldo del 1935. Ben consapevole del grado di mitizzazione di se, pronunciò quel discorso in tono autoironico, o scherzosamente eroico. I suoi libri erano noti per la loro amoralità, e come ogni autore tormentato da una domanda insistente, si sentì in dovere di fornire una spiegazione narrativa del fenomeno, una trama del proprio sviluppo che contenesse il momento in cui era diventata se stessa una volta per tutte. Sapeva che non era corretto riferirsi ai propri drammi al plurale, che quel tono di scherno la separava dalla bambina seria e pensosa di un tempo e che l’oggetto della sua commemorazione non era tanto quella mattina remota quanto
le
successive
elaborazioni
dell’episodio.
Era
possibile
che
la
contemplazione di un dito piegato, l’idea intollerabile di altre menti pensanti e la superiorità dei racconti sui drammi fossero considerazioni fatte da lei in altri momenti. Sapeva inoltre che qualunque cosa fosse in effetti accaduta traeva significato dalla pubblicazione della sua opera, senza la quale sarebbe stata dimenticata. Comunque, non poteva ingannarsi del tutto; non c’era dubbio che una forma di rivelazione si fosse comunque verificata. Quando la ragazzina tornò alla finestra e guardò di sotto, la chiazza umida sulla ghiaia era evaporata. Non rimaneva più nulla della scena muta presso la fontana a parte il ricordo che sarebbe sopravvissuto nelle singole memorie, in tre ricordi sovrapposti e distinti. La verità era diventata non meno fantomatica di un’invenzione. Poteva iniziare subito, metterla giù come l’aveva vista, accogliendo la sfida di rifiutarsi di condannare la seminudità di sua sorella, in pieno giorno, e proprio davanti a casa. Poi la scena poteva essere riformulata, attraverso lo sguardo di Cecilia, e infine quello di Robbie. Ora però non era tempo di incominciare. 38
Il senso del dovere di Briony, unito alla sua passione per l’ordine, era potente; doveva concludere quanto aveva iniziato, erano in corso delle prove, Leon stava per arrivare, e tutta la famiglia si aspettava lo spettacolo per quella sera. Le toccava andare ancora una volta giù in lavanderia a controllare se i tormenti di Jackson avevano trovato fine. La scrittura avrebbe dovuto aspettare che lei fosse libera.
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Capitolo quarto Fu solo nel tardo pomeriggio che Cecilia giudicò riparato il vaso. L’aveva lasciato a cuocere per ore in biblioteca, su un tavolo davanti a una finestra esposta a meridione, e adesso tre sottilissime linee di sutura, convergenti come altrettanti fiumi su un atlante, erano tutto ciò che mostrava. Non l’avrebbe mai scoperto nessuno. Mentre attraversava la biblioteca stringendo il vaso con entrambe le mani, udì un rumore che le parve di piedi nudi sulle piastrelle del corridoio antistante la porta. Avendo trascorso parecchie ore sforzandosi di non pensare a Robbie Turner, le sembrò oltraggioso che lui osasse ripresentarsi in casa, di nuovo scalzo per giunta. Uscì dalla stanza, decisa a mortificare la sua insolenza, o il suo sarcasmo, e si ritrovò invece di fronte la sorella, chiaramente disperata. Aveva le palpebre gonfie e arrossate, e si torturava il labbro inferiore tra pollice e indice, antico segnale, nel caso di Briony, di un grosso pianto in arrivo. - Tesoro! Che c’è? Invece gli occhi rimasero asciutti e si abbassarono impercettibilmente per posarsi sul vaso, poi Briony procedette spedita verso il cavalletto che sosteneva la locandina con il titolo chiassoso e colorato, circondato da una scena del dramma dipinta ad acquerello alla Chagall - i genitori in lacrime che salutano con la mano la loro figliola, la costa sotto il chiarore lunare, l’eroina costretta a letto dalla malattia, il matrimonio. La ragazza si fermò, poi con un violento strattone diagonale strappò via più di metà locandina e la gettò a terra. Cecilia depose il vaso e si buttò in ginocchio a recuperare il brandello di carta prima che la sorella lo calpestasse. Non sarebbe stata la prima volta che interveniva a salvare Briony dal suo autolesionismo. - Sorellina. Sono stati i cugini? Voleva consolarla; Cecilia aveva sempre amato coccolare la piccola di famiglia. Quando era piccina e aveva gli incubi - che grida terribili nella notte -, Cecilia andava in camera sua e la svegliava. Torna indietro, le bisbigliava. È solo un brutto sogno. Torna da me. E poi se la portava nel letto. Avrebbe voluto metterle un braccio intorno alla spalla adesso, ma Briony non si tormentava più il labbro;
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si era spostata davanti alla porta d’ingresso e aveva una mano appoggiata sulla maniglia della gran testa di leone in ottone che la signora Turner aveva lucidato proprio quel pomeriggio. - I cugini sono degli stupidi. Ma non e solo quello. E che... - Si trascinò ancora di qualche passo, incerta se confidare o meno la sua recente rivelazione. Cecilia distese il triangolo spiegazzato di carta e pensò quanto stesse cambiando la sua sorellina. Avrebbe preferito che Briony fosse scoppiata in lacrime e si fosse lasciata consolare sull’ottomana di seta in salotto. Carezze e parole dolci avrebbero dato sollievo anche a Cecilia dopo quella giornata snervante con le sue correnti incrociate di emozioni contrastanti che era meglio non analizzare. Occuparsi dei problemi di Briony con affettuosità e tenerezza le avrebbe restituito una forma di autocontrollo. Ma l’infelicità della ragazzina conteneva un elemento nuovo di autonomia. Le aveva infatti voltato le spalle e ora stava spalancando la porta. - Allora, cos’è? - Cecilia percepì l’urgenza tradita dalla sua voce. Al di là della sorella, ben oltre il lago, il viottolo svoltava nel parco e si restringeva per convergere sopra un’altura fino al punto in cui una minuscola forma, resa indistinta dal tremolio della canicola, andava crescendo, ondeggiava e pareva svanire di nuovo. Doveva essere Hardman che, ritenendosi troppo vecchio per imparare a guidare l’automobile, portava gli ospiti a casa in calesse. Briony cambiò idea e si voltò verso la sorella. - È proprio la cosa in sé che non va. Ho fatto un errore di... - Emise un sospiro e distolse lo sguardo, segnale sicuro, intuì Cecilia, che un nuovo vocabolo fresco di dizionario stava per fare il proprio debutto nella conversazione. - Ho fatto un errore di genre! - Lo pronunciò secondo quella che ritenne potesse essere la corretta pronuncia francese, condensandolo in un monosillabo, senza riuscire tuttavia a prodursi in una buona erre di gola. - Di Jean? - le fece eco Cecilia. - Ma di che parli? Briony già si allontanava sulle morbide piante bianche dei piedi sfidando la ghiaia feroce. Cecilia andò in cucina a riempire il vaso, e lo portò in camera sua per recuperare i fiori dal lavamani. Quando li lasciò cadere nell’acqua ancora una volta si rifiutarono di disporsi nello studiato disordine di suo gradimento, per 41
andare invece a cercare un loro posto preciso, con tutti gli steli più alti equamente distribuiti intorno al bordo del vaso. Cecilia sollevò il mazzo intero e lo lasciò cadere di nuovo, solo per ottenere un’altra composizione ordinata. Del resto, che importanza aveva. Era difficile immaginare questo signor Marshall nell’atto di lamentarsi perché i fiori accanto al letto erano sistemati in modo eccessivamente simmetrico. Cecilia si trasferì al secondo piano, percorse il corridoio scricchiolante, e raggiunse la stanza nota come camera della zia Venus; qui depose il vaso sul cassettone accanto a un letto a baldacchino, portando così a termine il piccolo compito affidatole da sua madre quella mattina, otto ore prima. Ma non se ne andò subito, perché la stanza era piacevolmente sgombra da ogni genere di effetto personale; anzi, escludendo quella di Briony, era l’unica camera da letto ordinata di tutta la casa. E poi faceva fresco qui, ora che il sole era passato sull’altro lato della villa. Ogni cassetto era vuoto, ogni ripiano libero e intatto, senza neppure il segno di una ditata. Sotto il copriletto di chintz, le lenzuola dovevano essere inamidate e bianchissime. Cecilia ebbe l’impulso di infilare una mano tra le coperte, ma cambiò idea e si addentrò ancora un poco nella camera del signor Marshall. Ai piedi del baldacchino, il sedile del divano Chippendale era sistemato con tanta cura che l’atto di utilizzarlo sarebbe parso sacrilego. L’aria era invasa da un diffuso aroma di cera e, nella luce color miele, le superfici scintillanti dei mobili sembravano palpitare. Per effetto dell’alterazione di prospettiva prodotta dal suo avvicinarsi, le figurette di gente in festa sul coperchio di una cassapanca antica presero a dimenarsi a passo di danza. La signora Turner doveva essere stata li quel mattino. Cecilia distolse il pensiero dal ricordo di Robbie. La sua presenza in quel luogo era una forma di trasgressione, ora che il futuro ospite della stanza si trovava a poche centinaia di metri dalla casa. Dal punto in cui era arrivata accanto alla finestra vide che Briony aveva attraversato il ponte in direzione dell’isola e avanzava sulla sponda erbosa per poi sparire tra gli alberi sul la riva del lago intorno al tempietto. Più in là, Cecilia riusciva solo a distinguere le due figure con il cappello, sedute alle spalle di Hardman. Poi però scorse una terza figura che non aveva notato prima: avanzava sul viottolo verso il calesse. Di sicuro era Robbie Turner diretto a casa. Si fermò, e mentre i visitatori 42
si avvicinavano, il suo profilo parve sovrapporsi parzialmente al loro. Non era difficile immaginare la scena: virili pacche sulle spalle, qualche battuta forte. Le seccava pensare che suo fratello non sapesse che Robbie era caduto in disgrazia e se ne andò dalla finestra con un sospiro di esasperazione, dirigendosi in camera sua in cerca di una sigaretta. Gliene era rimasto soltanto un pacchetto, e solo dopo parecchi minuti di una rassegna frenetica in mezzo al caos, lo recuperò in una tasca della vestaglia di seta azzurra abbandonata sul pavimento del bagno. Accese la sigaretta mentre scendeva le scale diretta nell’atrio, sapendo che non avrebbe osato tanto se il padre fosse stato in casa. Aveva idee molto precise su dove e quando una donna potesse farsi vedere fumare: non in strada né in qualsiasi luogo pubblico, non entrando in una stanza, non in piedi, e solo accettando l’offerta di altri, mai attingendo a una scorta personale - regole indiscutibili dal suo punto di vista quanto le leggi della natura. Tre anni in compagnia dei tipi sofisticati del Girton College non avevano procurato a Cecilia il coraggio necessario a tenergli testa. In presenza di lui, la leggiadra ironia che avrebbe saputo sfoderare coi suoi amici l’abbandonava, e Cecilia sentiva la propria voce farsi sottile ogni volta che si lanciava in un docile tentativo di replica. A essere sinceri, trovarsi in disaccordo con il padre su qualsiasi cosa, compreso un insignificante dettaglio domestico, la metteva a disagio, e per quanto lo studio dei grandi classici della letteratura potesse aver modificato la sua sensibilità, non c’era lezione di dialettica applicata in grado di esonerarla dall’obbedienza. Fumare sulle scale mentre il padre se ne stava tranquillo nel proprio ufficio ministeriale di Whitehall era il massimo della protesta che la sua educazione le permettesse, e non senza fatica. Quando raggiunse il vasto pianerottolo che dominava l’atrio, Leon stava facendo accomodare in casa Paul Marshall attraverso l’uscio spalancato. Danny Hardman era dietro di loro con il bagaglio. Il vecchio Hardman era rimasto fuori e lo si scorgeva nell’atto di contemplare ammutolito il biglietto da cinque sterline che aveva in mano. La luce obliqua del pomeriggio, riflessa dal biancore della ghiaia e filtrata dalla lunetta sovrastante la porta, invadeva il salone d’ingresso con toni giallo-aranciati da stampa a inchiostro di seppia. Gli uomini si erano tolti il cappello e l’aspettavano sorridendo. Cecilia si domandò, come talora le capitava 43
incontrando qualcuno per la prima volta, se quello poteva essere l’uomo che avrebbe sposato, e se avrebbe quindi ricordato quel particolare momento per il resto della vita, magari con gratitudine, o con amaro rimpianto. - Sorellina, Cecilia! - esclamò Leon. Quando si abbracciarono, attraverso la stoffa della giacca di lui Cecilia sentì premerle contro lo sterno una grossa penna stilografica, e riconobbe tra le pieghe degli abiti un odore di fumo di pipa che le procurò un attimo di nostalgia per i pomeriggi passati a prendere il te nelle stanze dei giovanotti del college, occasioni piuttosto formali e all’insegna della prudenza in realtà, ma anche allegre, specie d’inverno. Paul Marshall le strinse la mano e accennò un breve inchino. C’era un che di comicamente meditabondo nella sua espressione. La battuta d’esordio fu di una scoraggiante convenzionalità. - Ho sentito parlare moltissimo di te. - E io di te -. Al momento ricordava solo una conversazione telefonica con il fratello qualche mese prima, nel corso della quale si erano chiesti se avessero o se avrebbero mai mangiato una tavoletta di cioccolato Amo. - Emily e a letto. Non ci sarebbe stato bisogno di dirlo. Fin da bambini, si vantavano di essere in grado di stabilire dal fondo del parco se la mamma aveva o no un attacco di emicrania dalla posizione degli scuri alle sue finestre. - E il vecchio e rimasto in città? - Può darsi che arrivi più tardi. Cecilia sapeva che Paul Marshall la stava fissando, ma prima di potersi voltare verso di lui doveva prepararsi qualcosa da dire. - I bambini stavano mettendo su uno spettacolo, ma sembra che sia andato tutto a monte. Marshall disse: - Sarà stata vostra sorella allora la ragazzina che ho visto vicino al lago. Stava dando una bella lezione alle ortiche. Leon si fece da parte per lasciar passare Danny, il figlio di Hardman, con le valigie. - Dove sistemiamo Paul? - Al secondo piano -. Cecilia aveva inclinato il capo rivolgendo quelle parole anche al giovane Hardman che, giunto ai piedi delle scale con una valigia di cuoio in ciascuna mano, si fermò voltandosi verso il trio raccolto al centro dello spazio a 44
piastrelle bicolori. La sua espressione comunicava serena ottusità. Ultimamente lo aveva notato ronzare intorno ai ragazzi. Forse era interessato a Lola. Aveva sedici anni e di certo non era più un bambino. Le guance paffute che gli ricordava si erano affilate, mentre la curva infantile delle labbra si era andata distendendo in una linea di ingenua crudeltà. La costellazione acneica sulla sua fronte dava l’impressione di essere cosa recente, e solo la luce color seppia riusciva ad attenuarne un poco la vistosità. Cecilia si rese conto che fin dal mattino si era sentita strana, e che guardava alle cose in modo insolito, come se tutto fosse già passato da un pezzo ed esaltato da un’ironia postuma che lei non era in grado di afferrare appieno. Gli disse in tono paziente: - La stanza grande, dopo la nursery. - La camera della zia Venus, - commentò Leon. La zia Venus era stata per quasi mezzo secolo un’attivissima infermiera su un’ampia fascia dei Northern Territories in Canada. Non era zia di nessuno in particolare, o meglio, era la zia di una defunta cugina in secondo grado del signor Tallis, ma quando interruppe l’attività, nessuno mise in discussione il suo diritto a occupare la stanza al secondo piano dove, per la maggior parte dell’infanzia di tutti loro, rimase. Dolcissima invalida costretta in un letto, a poco a poco si consumò e si spense quando Cecilia aveva dieci anni. Una settimana dopo nasceva Briony. Cecilia condusse i nuovi arrivati in salotto, e quindi fuori, passando dalle porte finestre, oltre il roseto, verso la piscina che stava dietro le scuderie, circondata sui quattro lati da un fitto canneto nel quale si apriva un piccolo tunnel di accesso. Vi si infilarono, piegando le teste per non sfiorare le canne più basse, e riemersero in una spianata di pietra bianchissima dalla quale il calore saliva in torride raffiche d’aria. Nascosto nell’ombra, lontano dal bordo della vasca, c’era un tavolino in metallo dipinto di bianco apparecchiato con una caraffa di punch ghiacciato protetta da un tovagliolo di mussolina. Leon aprì le basse sedie di tela che dispose in cerchio e tutti si accomodarono con i bicchieri in mano, rivolti verso la piscina. Dalla sua posizione tra Leon e Cecilia, Marshall assunse il controllo della conversazione lanciandosi in un monologo della durata di dieci minuti. Disse loro quanto fosse meraviglioso trovarsi lontano dalla città a godersi tranquilli l’aria di campagna; da 45
nove mesi a questa parte, non aveva passato un solo minuto, giorno dopo giorno, senza dannarsi l’anima a fare la spola tra la direzione, il consiglio di amministrazione e lo stabilimento. Aveva acquistato una grossa casa su Clapham Common e gli era mancato perfino il tempo di andarla a vedere. Il lancio del Rainbow Amo era stato un trionfo, ma ottenuto solo dopo una serie di catastrofi dovute ai distributori e per fortuna ormai risolte; la campagna pubblicitaria aveva offeso alcuni anziani vescovi, ed erano stati costretti perciò a idearne un’altra; dopodiché erano sorti i problemi legati al successo, all’incredibile mole di vendite, alle nuove quote di produzione, nonché le discussioni sui tempi di consegna, e la ricerca di un’area per la costruzione di un secondo stabilimento rispetto a cui i quattro rappresentanti sindacali si erano mostrati in genere assai poco disponibili, costringendo la direzione a lavorarseli e blandirli come bambini; e adesso che la fatica stava dando i suoi frutti, già si profilava la sfida più grande, quella dell’Army Amo, la tavoletta avvolta in carta grigio-verde con lo slogan Amo ti Amo!; l’idea di base era che investire sulle Forze Armate poteva rivelarsi vantaggioso, se il signor Hitler non abbassava la cresta; c’era perfino la possibilità che la tavoletta diventasse parte della razione alimentare dell’esercito; in quel caso, qualora si fosse andati alla chiamata alle armi, ci sarebbe stato bisogno di edificare altri cinque stabilimenti; alcuni membri del consiglio d’amministrazione erano persuasi che ci sarebbe stata, o che comunque si dovesse arrivare a una forma di accomodamento con la Germania, e che pertanto l’Army Amo si sarebbe risolto in un buco nell’acqua; uno di loro addirittura accusava Marshall definendolo un guerrafondaio; ma per quanto esausto, e vittima di calunnie, lui non avrebbe abbandonato il proprio scopo, il suo sogno. Concluse ribadendo che era meraviglioso trovarsi quaggiù, dove finalmente poteva tirare il fiato. Mentre lo osservava nei primi minuti della sua breve conferenza, Cecilia provò un
piacevole
trasalimento
contemplando
con
delizioso
autolesionismo
la
prospettiva di accasarsi con un uomo del genere: quasi bello, enormemente ricco e irrimediabilmente cretino. Le avrebbe dato una schiera di bei bambini pasciuti e chiassosi, ragazzini con la testa dura e una gran passione per i fucili, il calcio e gli aeroplani. Lo guardò di profilo mentre lui si voltava verso Leon. Un muscolo lungo gli tendeva la mandibola quando parlava. Alcuni peli neri più lunghi gli 46
crescevano ribelli dalle sopracciglia, e dalle orecchie spuntavano ciuffetti scuri comicamente ricci come peli del pube. Avrebbe dovuto parlarne con il suo barbiere. Con un impercettibile spostamento degli occhi inquadrò la faccia di Leon, che però era tutto impegnato a fissare educatamente il suo amico e pareva deciso a non
incrociare
il
suo
sguardo.
Da
bambini
giocavano
a
tormentarsi
reciprocamente così, ai pranzi della domenica dove i genitori invitavano sempre qualche anziano parente. Si trattava di occasioni solenni, degne del servizio di argenteria antico; i venerabili prozii e nonni erano gentiluomini vittoriani del ramo materno della famiglia, gente inamidata e severa, una tribù del passato che pareva approdare in casa loro avvolta in mantelli neri dopo aver vagato con aria stizzita per due decenni in un secolo frivolo e alieno. Cecilia, che aveva al tempo dieci anni, e suo fratello di dodici, ne erano terrorizzati, e la crisi di ridarella nervosa era sempre in agguato. Quello dei due che si beccava «l’occhiata» non aveva speranza, chi la faceva, ne risultava immune. Il più delle volte l’aveva vinta Leon, nel cui sguardo aleggiava uno scherno solenne, ottenuto con gli angoli della bocca rivolti all’ingiù e un moto rotatorio degli occhi. A volte si rivolgeva a Cecilia e nel più innocente dei modi le chiedeva ad esempio di passargli il sale; lei distoglieva lo sguardo porgendogli quanto richiesto, girava la testa e inspirava profondamente, ma le bastava sapere che lui stava facendo «l’occhiata» per finire vittima di un’ora e mezza di tremebonda tortura. Intanto, Leon era salvo, e aveva solo bisogno di «rabboccarla» ogni tanto, appena gli pareva che potesse essersi ripresa dalla crisi. In rare occasioni era lei a batterlo assumendo un’espressione di imbronciata arroganza. Poiché i bambini venivano qualche volta messi a sedere in mezzo agli adulti, «l’occhiata» non era priva di rischi anche per chi la infliggeva: fare le smorfie a tavola poteva significare rimproveri e castighi come l’essere mandati a letto presto. Il trucco era procedere con un tentativo inserendolo, che so, tra una leccata di labbra e un ampio sorriso, catturando frattanto l’attenzione dell’altro. Una
volta
avevano
alzato
lo
sguardo
e
si
erano
fatti
«l’occhiata»
contemporaneamente: Leon aveva spruzzato minestra dal naso giusto sul polso di una prozia. Vennero relegati tutti e due nelle loro stanze per il resto della giornata. 47
Cecilia non vedeva l’ora di prendere il fratello da parte e dirgli che il signor Marshall aveva i peli del pube che gli spuntavano dalle orecchie. Lui intanto descriveva l’alterco avuto con il membro del consiglio d’amministrazione che gli aveva dato del guerrafondaio. Cecilia accennò ad alzare un braccio, come se intendesse risistemarsi i capelli. Automaticamente, il movimento attrasse l’attenzione di Leon, e in quell’istante preciso Cecilia gli scoccò «l’occhiata» che non vedeva da più di dieci anni. Leon contrasse le labbra e abbassò lo sguardo trovando qualcosa da esaminare a poca distanza dalle proprie scarpe. Mentre Marshall si voltava verso Cecilia, il fratello si portò una mano a coppa sul viso, ma non riuscì a nascondere alla sorella il tremito che gli scuoteva le spalle. Fortunatamente per lui, Marshall stava ormai concludendo. - ... dove uno può, finalmente, tirare il fiato. Leon scattò subito in piedi. Si avviò verso il bordo della piscina e contemplò un fradicio telo rosso abbandonato nei pressi del trampolino. Poi, ricomposto, tornò dagli altri due, con le mani in tasca. Disse a Cecilia: - Prova a dire chi abbiamo incontrato arrivando. - Robbie. - Gli ho detto di unirsi a noi questa sera. - Leon! Dimmi che non è vero! Ma lui aveva voglia di prenderla un po’ in giro. Vendetta, forse. Disse al suo amico: - Devi sapere che il figlio della nostra donna delle pulizie ha avuto una borsa di studio per il liceo, poi una borsa di studio per Cambridge ed è partito insieme a Cee, e sono tre anni che lei non gli rivolge più la parola. Non lascia nemmeno che si avvicini ai suoi raffinati compagni di scuola. - Avresti dovuto chiedermelo. Cecilia era sinceramente seccata, e rendendosene conto Marshall si inserì in tono conciliante: - A Oxford ne ho conosciuti di questi tipi da borsa di studio; certi erano proprio dei geni. Qualcuno però faceva pure il difficile, il che mi pareva eccessivo. Lei chiese: - Hai una sigaretta? Gliene offrì una da un astuccio d’argento, ne lanciò una a Leon e si servì a sua volta. Ora erano tutti e tre in piedi, e mentre Cecilia si chinava sull’accendino di Marshall, Leon disse: - Questo ha un cervello coi fiocchi, perciò non capisco che 48
diavolo si sia messo in mente di fare perdendo tempo con le aiuole fiorite. Cecilia andò a sedersi sul trampolino cercando di apparire rilassata, ma il tono di voce era teso. - Ora sta pensando a una laurea in medicina. Leon, preferirei che non lo avessi invitato. - E il vecchio gli ha detto di sì? Lei si strinse nelle spalle. - Senti, credo proprio che dovresti andare dai Turner adesso e chiedergli di non venire. Leon aveva raggiunto il lato meno profondo della vasca e le stava di fronte al di là del riquadro oleoso di acqua azzurra che dolcemente ondeggiava. - Come potrei fare una cosa simile? - Non me ne importa. Trova una scusa. - È successo qualcosa fra voi. - No, niente. - Ti sta dando fastidio? - Santo cielo, Leon! Cecilia si alzò spazientita e si diresse verso il piccolo padiglione della piscina, una struttura aperta sostenuta da tre pilastri scanalati. Si appoggiò a quello centrale e restò lì a fiutare osservando il fratello. Due minuti prima erano ancora alleati e adesso già litigavano; ecco l’infanzia che riaffiorava. Paul Marshall stava a metà strada fra loro due e voltava la testa di qua e di là a seconda di chi parlava, come se stesse assistendo a una partita di tennis. Aveva un’aria neutrale, vagamente interlocutoria, e non pareva affatto contrariato da quella disputa tra fratelli. Un punto a suo favore, Cecilia dovette ammetterlo. Suo fratello disse: - Sei convinta che non sia capace di tenere in mano forchetta e coltello. - Smettila, Leon. Non era affar tuo invitarlo a cena. - Quante scemenze! Il silenzio successivo fu in parte mitigato dal ronzio della pompa del depuratore. Non c’era più nulla che lei potesse fare, ne che potesse far fare a Leon, e all’improvviso si rese conto dell’inutilità di quel litigio. Si dondolò contro la pietra tiepida, godendosi l’ultima nota della sigaretta e contemplando la scena che aveva di fronte: la lastra d’acqua clorata in prospettiva, la camera d’aria nera del pneumatico di un trattore appoggiata a una sedia a sdraio, i due uomini in 49
completo di lino di sfumature impercettibilmente diverse della tinta panna, il fumo grigio-azzurro che saliva contro il verde chiaro del bambù. Pareva tutto scolpito, fisso, e Cecilia tornò a provare quella sensazione: era accaduto tanto tempo prima e tutte le conseguenze a ogni livello, dalla più insignificante alla più colossale, si erano già verificate. Qualunque osa fosse successa in futuro, per quanto superficialmente insolita o sconvolgente, avrebbe contenuto anche un che di noto e di familiare che le avrebbe fatto bisbigliare, ma solo tra se e sé: Ah già. Ma certo. Avrei dovuto saperlo. Con voce spensierata disse: - Sapete che cosa penso? - No, che cosa? - Che dovremmo rientrare, e che tu dovresti prepararci qualcosa di speciale da bere. Paul Marshall batté forte le mani e il suono riecheggiò tra le colonne e la parete di fondo del padiglione. - Ecco una cosa che so fare piuttosto bene, - esclamò. Mi servono ghiaccio tritato, rum e cioccolato fondente. La proposta produsse uno scambio di sguardi tra Cecilia e il fratello, e la loro discordia finì all’istante. Leon si stava già avviando, e mentre gli altri due lo seguivano convergendo verso il breve tunnel scavato in mezzo al canneto, Cecilia disse: - Io preferirei qualcosa di amaro. O magari di acidulo. Lui sorrise, e poiché aveva raggiunto la breccia per primo, si fece di lato per farla passare come se si fosse trattato della porta d’ingresso a un salotto. Passando, Cecilia si sentì sfiorare un braccio. Ma poteva anche essere stata una foglia.
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Capitolo quinto Ne i gemelli ne Lola sapevano esattamente che cosa avesse spinto Briony ad abbandonare le prove. Al momento non sapevano neppure che l’avesse fatto. Stavano recitando la scena dell’ammalata, quella in cui la povera Arabella, costretta a letto nella sua soffitta, per la prima volta riceve la visita del principe nei panni del buon dottore. Tutto procedeva abbastanza bene, o comunque non peggio del solito: i gemelli pronunciavano le loro battute in modo non meno convincente di prima. Quanto a Lola, non volendo sporcarsi il golfino di cachemire, invece di stendersi a terra si era arrangiata sopra una poltrona, e la regista non era riuscita a obiettare granché. La più grande delle due ragazze era entrata a tal punto nello spirito di una condiscendente superiorità da sentirsi al di sopra di qualunque rimprovero. L’attimo prima Briony stava fornendo a Jackson pazienti istruzioni, e l’attimo dopo si interruppe di scatto, aggrottò la fronte, come se volesse correggersi, e se ne andò. Non ci fu nessun momento di svolta cruciale sul piano creativo, nessuna scenata, nessun temporale. Briony si limitò a girare sui tacchi e a uscire, come se fosse diretta al bagno. Gli altri aspettarono, ignari che l’intero programma fosse andato a monte. I gemelli erano convinti di aver fatto del loro meglio, e Jackson in particolare, sentendosi ancora in disgrazia in casa Tallis, pensava che, compiacendo Briony, avrebbe potuto cominciare a riabilitarsi. Nell’attesa, i ragazzi giocarono a pallone con un cubetto di legno, e la sorella guardò dalla finestra, canticchiando a bassa voce tra se e se. Dopo un incalcolabile periodo di tempo, Lola uscì in corridoio e lo percorse fino alla fine, dove una porta aperta immetteva in una camera da letto non utilizzata. Da li scorgeva il viottolo e il lago dal quale emanava una scintillante fosforescenza, un calore latteo sollevato dalla canicola del tardo pomeriggio. Sullo sfondo di quella colonna di foschia riuscì appena a distinguere Briony al di là del tempietto sull’isola, accanto alla riva del lago. Anzi, poteva perfino essere in piedi nell’acqua; con quella luce era difficile dirlo. Non pareva intenzionata a rientrare. Uscendo dalla stanza, Lola notò accanto al letto una valigia d’aspetto virile, in cuoio tinta naturale, con solide cinghie e sbiadite etichette di viaggio. Le fece
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venire in mente suo padre, e si fermò a respirarne il vago aroma fuligginoso da carrozza ferroviaria. Appoggiò un pollice su una delle due serrature e la fece scattare. Il metallo lucido era freddo al tatto e le sue dita vi disegnavano sopra effimere chiazze di condensa. Lo scatto la fece trasalire con il suo secco clangore. La rimise a posto e lasciò di corsa la stanza. I cugini passarono un altro periodo di tempo vuoto e amorfo. Lola mandò i gemelli di sotto a verificare se la piscina era libera - la presenza di adulti li metteva a disagio. I bambini tornarono per riferire di aver visto Cecilia con due giovanotti, ma a quel punto Lola non era più nella nursery. Si era trasferita nella sua minuscola stanza ed era intenta a sistemarsi i capelli davanti a un piccolo specchio appoggiato sul davanzale della finestra. I gemelli si sdraiarono sul suo lettino e presero a farsi il solletico, lottando e facendo baccano. Lei non si prese la pena di spedirli in camera loro. Ora che le prove erano state interrotte e che la piscina era occupata, sentivano l’oppressione del tempo non organizzato. La nostalgia di casa calò su di loro quando Pierrot disse che aveva fame: mancavano ore alla cena, e scendere per chiedere qualcosa da mangiare non sarebbe stato educato. Inoltre, i bambini non avrebbero messo piede in cucina terrorizzati com’erano al pensiero di Betty: l’avevano vista sulle scale mentre portava delle traverse di gomma rossa nelle loro stanze con aria poco conciliante. Poco più tardi, i tre si ritrovarono un’altra volta nella nursery che, fatta eccezione per le rispettive camere da letto, era il solo locale al quale sentivano di avere libero accesso. Il cubetto di scolorito legno azzurro era ancora dove l’avevano lasciato, e tutto era come prima. Non sapevano che fare e Jackson disse: - Non mi piace qui. La semplicità del commento parve sconvolgere il fratello, che si diresse alla parete della stanza e, trovato chissà quale interesse nel battiscopa, si mise a tormentarlo con la punta della scarpa. Lola gli cinse la spalla con un braccio e disse: - Non te la prendere, presto saremo di nuovo a casa -. Il braccio di Lola era di gran lunga più leggero e sottile di quello della mamma e Pierrot scoppiò a piangere, ma in silenzio, senza dimenticarsi di essere estraneo in una casa nella quale la cortesia era tutto. Piangeva anche Jackson; lui però riusciva ancora a parlare: - Non è vero che 52
torniamo presto. Lo dici solo. A casa non ci possiamo tornare comunque... - Si interruppe per farsi coraggio e aggiunse: - Hanno divorziato! Pierrot e Lola si paralizzarono. Nessuno aveva mai utilizzato quell’espressione di fronte ai bambini, ne loro l’avevano mai pronunciata. La dolcezza delle consonanti suggeriva oscenità impensabili, l’inesorabilità di quel participio passato sanciva la vergogna della famiglia. Jackson stesso parve turbato dalla parola che gli era sfuggita di bocca, ma nessun desiderio sarebbe ormai valso a riportarla indietro, e qualunque cosa aggiungesse, il fatto di averla detta ad alta voce rappresentava una colpa di gravità pari all’atto stesso, qualunque esso fosse. Nessuno di loro, compresa Lola, lo sapeva per certo. La sorella gli si stava avvicinando stringendo gli occhi come una gatta: - Come osi dire una cosa simile. - È vero, - balbettò lui distogliendo lo sguardo. Sapeva di essersi messo nei guai, di meritarsi le conseguenze del gesto, ed era sul punto di darsi alla fuga quando lei lo afferrò per un orecchio e gli piazzò la faccia davanti alla sua. - Se mi picchi, - le disse concitato, - lo dico a Mamma e Papà -. Ma era stato lui stesso a vanificare l’efficacia di quell’invocazione, ad abbattere il totem di una perduta età dell’oro. - Non ti azzardare a dire mai più quella parola. Mi sono spiegata? Mortificato, Jackson annuì, e lei mollò la presa. Lo shock aveva distratto i bambini dal pianto e Pierrot, come sempre smanioso di mettere riparo a una situazione difficile, disse con voce squillante: - Ora che si fa? - Me lo chiedo sempre anch’io. Il signore alto in completo bianco in piedi accanto alla porta poteva essere li da parecchi minuti, quanto bastava per aver sentito Jackson pronunciare la famigerata parola, e fu questo pensiero, più ancora della sorpresa dovuta alla sua presenza, a impedire a Lola di trovare una risposta. Era al corrente delle condizioni della loro famiglia? Non potevano far altro che restare a guardare e scoprirlo. L’uomo si avvicinò tendendo la mano. - Paul Marshall. Pierrot, che era il più vicino dei tre, gliela strinse in silenzio, imitato dal fratello. Quando toccò alla ragazza, Lola disse: - Lola Quincey. E questi sono Jackson e Pierrot. - Che bellissimi nomi avete tutti quanti. Ma come farò a distinguervi, voi due? 53
- La gente di solito trova me più simpatico, - disse Pierrot. Era uno scherzo di famiglia, una battuta inventata dal padre che di solito faceva ridere gli estranei. Ma questo signore non accennò nemmeno un sorriso e aggiunse: - Dovete essere i cugini arrivati dal nord. Attesero con ansia di scoprire che altro sapesse di loro, e lo osservarono attraversare le assi nude della nursery per poi chinarsi a raccogliere il cubetto azzurro, lanciarlo in aria e riprenderlo al volo con uno schiocco del legno contro la pelle. - Io sto nella stanza in fondo al corridoio. - Lo so, - disse Lola. - La stanza della zia Venus. - Precisamente. La sua ex stanza. Paul Marshall si abbandonò nella poltrona utilizzata poco prima dalla povera Arabella inferma. Aveva una faccia davvero curiosa, con tutti i lineamenti come accartocciati intorno alle sopracciglia, e un gran mento vuoto da eroe dei fumetti. Era un viso crudele, ma i modi erano cortesi, e questo costituiva una combinazione gradevole, rifletté Lola. Si sistemò le pieghe dei calzoni, mentre il suo sguardo vagava da un Quincey all’altro. L’attenzione di Lola fu catturata dal cuoio bianco e nero delle sue scarpe sportive e, consapevole dell’ammirazione di lei, Marshall prese a far ondeggiare un piede con un ritmo che gli suonava nella testa. - Peccato per il vostro spettacolo. I gemelli si avvicinarono, come spinti a serrare i ranghi da una forza al di sotto della soglia di consapevolezza; l’idea era che se quel tizio la sapeva più lunga di loro riguardo alle prove, doveva essere al corrente di un mucchio di altre cose. Jackson diede voce al nocciolo della loro angoscia. - Tu conosci i nostri genitori? - I signori Quincey? - Si. - Ho letto di loro sui giornali. A quella risposta i ragazzi lo fissarono ammutoliti, perché sapevano che i giornali si occupavano di cose grosse: di terremoti e scontri ferroviari, degli affari quotidiani di nazioni e governi e della questione se fosse il caso di spendere altri soldi in fucili qualora Hitler avesse attaccato l’Inghilterra. Il fatto che il loro 54
disastro personale venisse considerato alla stregua di problemi di quella portata li riempì di timore reverenziale, senza peraltro stupirli del tutto. Lo presero più che altro come un campanello d’allarme a conferma della verità. Per darsi un contegno, Lola si portò le mani sui fianchi. Il cuore le batteva all’impazzata e non si fidava a parlare, ben sapendo che invece avrebbe dovuto farlo. C’era di mezzo un gioco che non capiva, pensò, ma era sicura di aver subito un’offesa, per non dire un insulto. Quando prese la parola, le mancò la voce, perciò fu costretta a schiarirsi la gola e a ricominciare da capo. - Che cosa ha letto sul loro conto? Lui sollevò le sopracciglia fitte e unite nel mezzo e si lasciò sfuggire dalle labbra un gorgoglio evasivo. - Oh, non saprei. Niente. Sciocchezze. - Allora le sarei grata se non ne parlasse davanti ai bambini. Era un’espressione che doveva aver sentito da qualcuno e la pronunciò con cieca fiducia, come un apprendista stregone alle prese con una formula magica. A quanto pare funzionava. Marshall strizzò gli occhi riconoscendo l’errore commesso, e ,si chinò sui gemelli. - Ora statemi bene a sentire, voi due. E chiaro a tutti che i vostri genitori sono persone meravigliose che vi amano moltissimo e che vi pensano sempre. Jackson e Pierrot annuirono solennemente. Sistemata la faccenda, Marshall si rilassò e tornò a rivolgere la propria attenzione a Lola. Dopo due poderosi cocktail a base di gin, consumati in salotto con Leon e sua sorella, Marshall era salito a cercare la sua stanza, disfare il bagaglio e cambiarsi d’abito per la cena. Senza sfilarsi le scarpe, si era sdraiato sull’enorme letto a baldacchino dove, cullato dal silenzio della campagna, dall’alcol e dalla calura preserale, era scivolato in un sonno leggero dove gli avevano fatto visita le sue quattro sorelle minori: gli stavano intorno cinguettando e palpandolo, nel tentativo di spogliarlo. Al risveglio si ritrovò accaldato, con la gola secca, eccitato in modo imbarazzante e, per pochi istanti, senza capire dov’era. Fu mentre stava seduto sul bordo del letto a sorseggiare dell’acqua che udì le voci infantili che dovevano aver stimolato quel sogno. Percorrendo il corridoio scricchiolante ed entrando nella nursery, aveva scoperto i tre ragazzini. Ora però si rendeva conto che la ragazza era quasi una giovane donna, posata e imperiosa, una specie di principessina preraffaellita con i 55
suoi bracciali e le trecce, le unghie dipinte e il girocollo in velluto. Le disse: - Hai proprio buon gusto nel vestire. Quei pantaloni ti stanno benissimo, trovo. Lola provò più piacere che disagio, e con le dita accarezzò appena la stoffa dove le pieghe si aprivano intorno ai suoi fianchi sottili. - Li abbiamo presi da Liberty una volta che mia madre mi aveva portata a Londra per uno spettacolo. - E che cosa avete visto? - L’Amleto -. In realtà avevano assistito alla matinée di una pantomima al London Palladium; Lola si era versata addosso una bibita alla fragola e il negozio di Liberty era proprio lì di fronte. - Tra le mie tragedie preferite, - disse Paul. Fu una fortuna per Lola che nemmeno lui avesse mai letto né visto il dramma, avendo studiato chimica. Ciononostante, Marshall non si trattenne dal dire pensoso: - Essere o non essere. - Questo è il problema, - concordò lei. - A me invece piacciono le tue scarpe. Paul inclinò il piede per contemplarne il complesso lavoro di artigianato. - Sì. Le ho prese da Ducker’s a Londra. Prima ti fanno un calco in legno del piede che poi si tengono su uno scaffale per sempre. Ne hanno migliaia nello scantinato, e la maggior parte di quelle persone è morta da un pezzo. - Dio, che orrore. - Io ho fame, - tornò alla carica Pierrot. - Ah, bene, - disse Marshall, battendosi su una tasca. - Ho una cosa per voi, se indovinate che mestiere faccio per guadagnarmi da vivere. - Sei un cantante, - disse Lola. - O almeno, hai una bella voce. - Carino da parte tua, ma sbagliato. Sai una cosa, tu mi ricordi la mia sorellina preferita... Jackson lo interruppe: - Hai una fabbrica di cioccolato. Prima che troppa gloria potesse riversarsi unicamente su suo fratello, Pierrot aggiunse: - Ti abbiamo sentito parlare quando eravate in piscina. - Allora non hai indovinato. Estrasse di tasca una tavoletta rettangolare avvolta in carta oleata, di circa dodici centimetri per tre. Se l’appoggiò sulle gambe e incominciò a scartarla con cura prima di sollevarla per un’attenta ispezione. Educatamente i ragazzi si 56
avvicinarono. Era ricoperta da un guscio uniforme di un verde spento contro il quale Marshall fece schioccare un’unghia. - Copertura di zucchero, visto? Dentro, cioccolato al latte. Perfetto in qualsiasi condizione, anche se dovesse sciogliersi. Alzò più in alto la mano e serrò la presa, e i ragazzini videro il tremito delle sue dita sottolineato da quello della barretta. - Ci sarà una di queste dentro lo zaino di ogni soldato del paese. Razione quotidiana. I gemelli si scambiarono un’occhiata. Per quanto ne sapevano loro, agli adulti i dolci non interessavano. Pierrot disse: - I soldati non mangiano la cioccolata. Suo fratello aggiunse: - Preferiscono le sigarette. - E poi, perché dovrebbero avere loro i dolci gratis al posto dei bambini? - Perché loro combatteranno per la patria. - Papà dice che la guerra non ci sarà. - Be’, allora si sbaglia. Marshall aveva assunto un tono piuttosto irritato, e Lola disse con voce rassicurante: - Forse ci sarà invece. Lui le rivolse un sorriso: - Lo chiameremo Army Amo. - Amo, amas, amat, - replicò lei. - Esatto. Jackson disse: - Io non capisco perché tutto quel che si compra deve finire per o. - Infatti, che noia, - gli fece eco Pierrot. - Come le Polo e il riso soffiato Aero. - E l’Oxo e il Brillo. - Secondo me, quello che stanno cercando di dirmi, - affermò Paul Marshall consegnando a Lola la tavoletta, - è che non ne vogliono un pezzo. Lei prese il cioccolato e rivolse ai gemelli uno sguardo che significava vi-stasolo-bene. I bambini sapevano che aveva ragione. Come avrebbero potuto chiederne un pezzo adesso? Osservarono la lingua della sorella diventare verde mentre si attorcigliava intorno alla copertura di zucchero. Paul Marshall si abbandonò sulla poltrona, osservandola attentamente con la faccia appoggiata nella coppa delle mani. Continuava ad accavallare le gambe. Poi trasse un lungo respiro. - Mordilo, - le 57
disse con dolcezza. - Lo devi mordere. La barretta produsse un suono secco cedendo ai suoi incisivi perfetti, e rivelò il guscio bianco di zucchero e il marrone scuro del cioccolato sottostante. Fu in quel momento che udirono una donna chiamare ripetutamente dal fondo delle scale, con sempre maggiore insistenza; dal corridoio adesso, e questa volta i gemelli riconobbero la voce e si scambiarono all’improvviso uno sguardo sgomento. Lola rideva con la bocca piena di Amo. - Ecco, c’è Betty che vi sta cercando. È ora del bagno! Su, avanti, sbrigatevi.
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Capitolo sesto Poco dopo pranzo, una volta certa che i figli di sua sorella e Briony avessero mangiato come si deve e che avrebbero mantenuto la promessa di stare alla larga dalla piscina per almeno due ore, Emily Tallis era sfuggita al bagliore accecante della calura pomeridiana ritirandosi nella fresca penombra della sua camera. Non sentiva dolore, non ancora, ma si cautelava prima di un’eventuale minaccia. Vedeva dei puntini luminosi davanti agli occhi, punture di spillo, come se la stoffa consunta del mondo visibile le venisse mostrata sullo sfondo di una luce molto più forte. Sentiva nell’angolo in alto a destra del cervello una specie di peso, il corpo acciambellato e inerte di un animale dormiente; ma se si portava una mano alla testa e premeva, quella presenza spariva dalle coordinate dello spazio reale. Attualmente si trovava in quell’angolo in alto a destra dei suoi pensieri, e con l’immaginazione riusciva ad alzarsi sulle dita dei piedi e a toccarsi nel punto esatto. La cosa essenziale, comunque, era non provocarlo; una volta che la pigra creatura si fosse spostata dalla zona periferica al centro, allora le stilettate di dolore avrebbero ottenebrato ogni forma di pensiero, e non ci sarebbe stato più verso di poter scendere a cena con Leon e il resto della famiglia quella sera. Non le voleva del male, la bestia, era indifferente alla sua sofferenza. Si spostava come una pantera in gabbia. Per il solo fatto di essere sveglia, per noia, per muoversi e basta, o per nessuna ragione, e senza alcuna consapevolezza. Emily si distese supina nel letto senza cuscino, il bicchiere dell’acqua a portata di mano e, accanto, un libro che sapeva di non poter leggere. Una lunga striscia sfocata di luce riflessa sul soffitto sopra la mantovana era il solo chiarore che interrompeva il buio circostante. Lei se ne stava li rigida e tesa, sotto continua minaccia, sapendo che la paura le avrebbe impedito di dormire e che la sua sola speranza risiedeva nella capacità di mantenersi immobile. Pensò all’immenso calore che si levava dalla villa e dal parco, aleggiando su tutta la regione come fumo a soffocare fattorie e paesi, e pensò alle rotaie bollenti sulle quali viaggiava Leon con il suo amico, e alla torrida carrozza dal tettuccio nero dove avrebbero preso posto accanto al finestrino aperto. Aveva ordinato l’arrosto per cena, ma la calura soffocante avrebbe impedito di
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consumarlo. Sentiva la casa scricchiolare espandendosi per il caldo. O erano invece le travi e gli stipiti di legno asciutto a contrarsi dentro la muratura? Tutto si contraeva, si ridimensionava. I progetti di Leon, ad esempio, si riducevano di anno in anno mentre lui rifiutava di accettare un aiuto dal padre, l’opportunità di trovare un impiego decente nello Stato, e preferiva invece avere un modestissimo incarico presso una banca privata e vivere in attesa del fine settimana e dei suoi allenamenti di canottaggio. Emily avrebbe potuto infuriarsi di più se lui non avesse avuto quel bel carattere sempre soddisfatto e non si fosse circondato di amici così distinti. Era troppo bello, troppo benvoluto, non conosceva lo stimolo dell’infelicità né dell’ambizione. Un giorno avrebbe potuto portare in casa un buon partito per Cecilia, ammesso che tre anni passati al Girton College non avessero fatto di lei un obiettivo impossibile, con tutte quelle pretese di stare da sola, e di fumare in camera, e la sua poco plausibile nostalgia per un tempo appena concluso e per quelle ragazze grasse e occhialute originarie della Nuova Zelanda con cui divideva i servizi di un cosiddetto «fàmulo» per le pulizie. Il gergo stretto che Cecilia aveva mutuato da Cambridge, insieme al narcisismo dell’ostentata bohème, fatta di mutande messe ad asciugare davanti alla stufa e della condivisione anche della spazzola per i capelli, mandavano Emily un po’ in collera, ma non le suscitavano la minima invidia. Lei era stata istruita in casa fino all’età di sedici anni, poi l’avevano spedita in Svizzera per due anni, in seguito ridotti a uno per ragioni economiche, e sapeva per certo che l’intera messinscena delle donne all’università era una faccenda infantile, tutt’al più uno scherzo innocente, come quello di una squadra femminile di canottaggio, una semplice posa solennemente travestita da progresso sociale. Alle ragazze non conferivano neanche vere e proprie lauree. Quando Cecilia era tornata a casa in luglio con gli esiti degli esami finali - che sfacciataggine da parte sua mostrarsi perfino delusa! - non aveva un mestiere e nemmeno una competenza, e ancora doveva trovarsi un marito e affrontare l’idea della maternità, e allora? Che cosa avrebbero avuto da dire al riguardo quelle intellettualoidi delle sue insegnanti dai soprannomi ridicoli e dalle «spaventose» reputazioni? Simili presuntuose si guadagnavano uno straccio di gloria locale in virtù delle più insignificanti e banali stravaganze, tipo portare a passeggio un gatto al guinzaglio, andarsene in giro su una bicicletta da uomo, farsi vedere a mangiare un panino per strada. In capo a 60
una generazione certe signore sciocche e ignoranti sarebbero state morte e sepolte e i posteri le avrebbero ancora onorate alla tavola alta del college parlando di loro a bassa voce. Sentendo la creatura nera e pelosa agitarsi, Emily abbandonò col pensiero la primogenita per allungare i viticci della sua indole ansiosa verso la più piccola. Povera cara Briony, tesoro dolcissimo, tutta impegnata a fare del proprio meglio per distrarre i cugini amareggiati e intrattabili con lo spettacolo che aveva scritto col cuore, di slancio. Amarla era una consolazione. Ma come proteggerla dal fallimento, da quella Lola, reincarnazione della sorella minore di Emily che a quell’età era stata a sua volta altrettanto precoce e intrigante, e che di recente si era costruita una via di fuga dal matrimonio pretendendo che tutti credessero alla versione dell’esaurimento nervoso? No, non poteva permettere a Hermione di infestarle i pensieri. Perciò, respirando piano nel buio, Emily misurò l’atmosfera di casa aguzzando le orecchie. Nelle sue condizioni, era il solo contributo che potesse dare. Appoggiò il palmo della mano sulla fronte, e udì l’ennesimo scricchiolio che segnalava una contrazione ulteriore dell’edificio. Da sotto provenne un clangore metallico, forse il coperchio di un tegame finito per terra; l’inutile cena calda doveva essere ai primi stadi di preparazione. Dal piano di sopra, veniva invece il tonfo attutito di passi sul pavimento di legno, e voci di bambini, almeno due o tre: salivano, si spegnevano, salivano ancora, forse per un dissenso, o per un concitato accordo. La nursery si trovava al piano superiore, soltanto una stanza più in là. Le disavventure di Arabella. Se non fosse stata tanto male, sarebbe andata di sopra subito per sovrintendere e dare una mano, perché l’impegno era troppo per loro, e lei lo sapeva. La malattia le aveva impedito di dare ai suoi figli tutto ciò che dovrebbe offrire una madre. Intuendolo, i ragazzi l’avevano sempre chiamata per nome. Avrebbe dovuto rendersi utile almeno Cecilia, ma lei era troppo concentrata su se stessa, troppo impegnata a fare l’intellettuale per occuparsi dei bambini... Emily riuscì a resistere alla tentazione di approfondire questa linea di pensiero, e parve scivolare, se non proprio nel sonno, almeno lontano, verso il suo vuoto di invalida; passarono parecchi minuti fino a quando non udì un suono di passi nel corridoio davanti alla porta della sua camera e poi sulle scale. Dal rumore felpato pensò che a produrlo dovessero essere dei piedi scalzi, e perciò quelli di Briony. Quando 61
faceva caldo, non c’era verso di convincerla a tenere le scarpe. Qualche minuto dopo, di nuovo dalla nursery, un tramestio sonoro e qualcosa di duro che rotolava sulle assi del pavimento. Le prove dovevano essere andate a monte, Briony se n’era andata offesissima, e ora i gemelli perdevano tempo, mentre Lola, se davvero assomigliava a sua madre quanto credeva Emily, doveva sentirsi appagata e trionfante. L’agitazione continua riguardo a figli, marito, sorella e domestiche, aveva scorticato la sua sensibilità; emicranie, amore materno e, nel corso degli anni, ore e ore passate sdraiata immobile a letto, avevano distillato in lei una sorta di sesto senso, una ricettività tentacolare che strisciava dalla penombra per insinuarsi in ogni anfratto della casa, inosservata e onnisciente. Indietro, tornava soltanto la verità, perché Emily non si lasciava ingannare. Un mormorio indistinto di voci orecchiato attraverso un pavimento foderato di moquette le giungeva più nitido di un dattiloscritto; una conversazione filtrata da una, o meglio ancora, da due pareti, arrivava spogliata di ogni inutile sfumatura o perifrasi. Quello che per altri sarebbe stato un rumore in sordina, rappresentava per i suoi sensi all’erta, sintonizzati alla perfezione come l’antenna di una vecchia radio, un’insopportabile amplificazione. Emily stava distesa nel buio e sapeva tutto. Meno cose era in grado di fare, e più ne sapeva. Ma sebbene talvolta l’assalisse il desiderio di alzarsi e di intervenire, specie quando pensava che Briony avesse bisogno di aiuto, la paura del dolore la teneva al suo posto. Nei casi peggiori, quando non riusciva a contenerlo, due lame affilate di coltelli da cucina affondavano dentro il suo nervo ottico, più e più volte, esercitando una pressione crescente che la sigillava dentro la sua solitudine. Perfino gemere peggiorava il tormento. E così rimase sdraiata mentre il pomeriggio scivolava via. La porta d’ingresso era stata aperta e richiusa. Briony doveva essere uscita con il suo pessimo umore, probabilmente per andarsene vicino all’acqua, quella della piscina, o del lago, o magari si era spinta fino alla riva del fiume. Emily udì un passo attento su per le scale: Cecilia che finalmente si era decisa a portare i fiori in camera dell’ospite, un semplice incarico che aveva dovuto chiederle più volte di svolgere nell’arco della giornata. Qualche tempo dopo, Betty aveva chiamato Danny, ed ecco il rumore del calesse sopra la ghiaia, e Cecilia che scendeva per andare incontro
ai
visitatori;
poi,
nell’oscurità, 62
giunse
il
debolissimo
schiocco
dell’accendino - quante volte aveva chiesto a Cecilia di non fumare sulle scale, ma si sa, ora avrebbe voluto a tutti i costi fare colpo sull’amico di Leon, cosa che, di per se, non era neanche un male. Un’eco di voci su per le scale, Danny che arrancava carico di valigie per poi ridiscendere, e infine, silenzio: Cecilia doveva aver portato Leon e il signor Marshall alla piscina a bere il punch che Emily stessa aveva preparato quella mattina. Udì lo scorrazzare di una creatura a quattro gambe che ruzzolava da basso: i gemelli senz’altro, smaniosi di ritornare in piscina e prossimi alla delusione di scoprirla ormai occupata. Emily precipitò in un torpore, dal quale giunse a svegliarla il ronzio di una voce di uomo proveniente dalla nursery, e risposte di voci infantili. Di certo non era Leon, che non si sarebbe separato dalla sorella, ora che si erano ritrovati. Doveva essere il signor Marshall, che aveva la stanza accanto alla nursery e che, a suo giudizio, stava parlando ai gemelli piuttosto che a Lola. Emily si chiese se si stessero dimostrando impertinenti, dal momento che ciascuno dei due si comportava come se gli obblighi sociali fossero per loro ridotti della metà. Adesso Betty saliva le scale chiamandoli con voce forse un po’ troppo severa, considerato il tormento di Jackson quella mattina. Ora del bagno, ora di cena, ora di andare a letto, i cardini della giornata: questi infantili sacramenti dell’acqua, del cibo e del sonno erano del tutto svaniti dalla sua routine quotidiana. La tardiva e inattesa comparsa di Briony li aveva tenuti in vita in casa Tallis ben oltre i quarant’anni di Emily, e quanto conforto, quanta serenità le avevano procurato. Il sapone alla lanolina, e il telo bianco di soffice spugna, il cinguettio puerile echeggiante tra i vapori
del
bagno;
il
gesto
di
avvolgere
la
bambina
nell’asciugamano
intrappolandole le braccia e approfittando per un momento di un’impotenza da neonato, cose delle quali non molto tempo prima Briony ancora godeva; ora invece bambina e rito del bagno erano spariti dietro una porta chiusa, e nemmeno troppo spesso, visto che la ragazza dava costantemente l’impressione di avere bisogno di una lavata e di un cambio d’abiti. Briony si era eclissata in un intatto mondo interiore di cui la scrittura non rappresentava altro che la superficie visibile, la crosta protettiva che perfino, o soprattutto, una madre amorevole non era in grado di penetrare. Sua figlia era sempre lontana, nascosta nei suoi pensieri, alle prese con qualche problema taciuto di sua invenzione, come se la stanca opacità del mondo potesse essere rinnovata da una bambina. 63
Inutile chiedere a Briony a che cosa stesse pensando. C’era stato un tempo in cui l’interlocutore avrebbe ottenuto una risposta vivace e intricata seguita a sua volta da domande sciocche o importanti alle quali Emily forniva le sue migliori risposte; e se non era ormai facile ricordare le ipotesi tentacolari che quelle conversazioni producevano, Emily sapeva però di non aver parlato mai tanto bene quanto era solita fare con la sua piccola undicenne. Nessun tavolo da pranzo, nessun margine ombroso di campo da tennis l’aveva mai udita prodursi in altrettanta facilità associativa e ricchezza di eloquio. Ora che il demone della consapevolezza e il talento avevano ammutolito la figlia (sebbene Briony non fosse meno affettuosa: a colazione le si era accostata di nascosto e le aveva preso la mano), Emily rimpiangeva l’era ormai trascorsa della loquacità. Con nessuno avrebbe mai più parlato in quel modo; era da questa certezza che nasceva il desiderio di un altro figlio. Di lì a poco Emily avrebbe compiuto quarantasette anni. Il rombo attutito dell’acqua nei tubi - di cui non aveva registrato l’inizio - cessò con un sussulto che scosse l’aria. Ora i bambini di Hermione dovevano essere nel bagno; i loro due corpicini ossuti ai lati opposti della vasca, mentre sulla sedia sbiadita di vimine azzurro era pronta una coppia di identici teli bianchi ben ripiegati, e a terra, la gran stuoia di sughero mordicchiata su un angolo da un cane già morto da un pezzo; nessun cinguettio però, anzi, un terrorizzato silenzio, e nessuna madre, ma solo Betty, del cui buon cuore nessuno si sarebbe mai reso conto. Come poteva Hermione preferire un esaurimento nervoso - espressione generalmente utilizzata per definire il suo amante che lavorava alla radio -, come poteva preferire il silenzio e la paura e il dolore per i suoi bambini? Emily pensò che forse sarebbe toccato a lei presenziare a quel bagno. Ma sapeva che sebbene i coltelli avessero evitato di affondare nel suo nervo ottico, lei si sarebbe occupata dei suoi nipoti solo per senso del dovere. Non erano i suoi bambini. Non occorreva dire
altro.
Per
giunta
erano
maschi,
e
perciò
fondamentalmente
poco
comunicativi, privi del dono della confidenza, e come se non bastasse, le rispettive identità risultavano confuse, visto che lei non aveva trovato il famoso triangolino di lobo mancante. Di quei bambini si poteva avere una conoscenza soltanto generica. Si appoggiò su un gomito e si portò il bicchiere d’acqua alle labbra. La presenza 64
dell’animale tormentatore incominciava a svanire, e le fu possibile sistemare due cuscini alla testiera per rizzarsi a sedere sul letto. L’operazione prevedeva una manovra lenta e impacciata perché ogni movimento brusco la spaventava; ne risultò un prolungato cigolio delle molle che coprì quasi il suono della voce maschile proveniente dall’altra stanza. Appoggiata su un fianco, Emily si bloccò con un angolo del cuscino stretto in pugno, e diresse la propria attenzione vivissima in ogni recesso della casa. Dapprima nulla, poi, come se qualcuno accendesse e spegnesse una lampada a intermittenza nel buio, le giunsero squittii di risa subito soffocate. Dunque era Lola, nella nursery insieme a Marshall. Emily riprese a sistemarsi, e infine si abbandonò all’indietro per sorseggiare un po’ d’acqua tiepida. Il giovane imprenditore facoltoso poteva non essere tanto male, se era disposto a passare il suo tempo intrattenendo dei bambini. Tra non molto, avrebbe potuto azzardarsi ad accendere l’abat-jour e, in capo a una ventina di minuti, sarebbe forse riuscita a unirsi al resto della famiglia per porre fine alle sue molteplici ansie. Più urgente di tutte si prospettava una puntata in cucina allo scopo di scoprire se non era troppo tardi per trasformare l’arrosto in un piatto di carni fredde da servire con delle insalate, poi doveva andare a salutare suo figlio e fare gli onori di casa all’ospite suo amico. Ciò sistemato, si sarebbe accertata che i gemelli fossero in buone mani e forse avrebbe concesso loro il conforto di qualche coccola. A quel punto sarebbe stato il momento di chiamare al telefono jack, il quale senz’altro si era scordato di dirle che non sarebbe tornato a casa per cena. Avrebbe superato lo scoglio della signorina laconica del centralino, come pure del segretario spocchioso, e avrebbe infine rassicurato il marito dicendogli che non occorreva affatto sentirsi in colpa. Avrebbe poi rintracciato Cecilia per assicurarsi che avesse sistemato i fiori come le era stato detto, e che cortesemente facesse lo sforzo per quella sera di assumersi le responsabilità di una buona padrona di casa mettendosi addosso qualcosa di grazioso ed evitando di fumare in ogni stanza. Infine, cosa più importante di tutte, si sarebbe messa in cerca di Briony, perché il disastro del suo spettacolo era stato senz’altro un colpo durissimo e la bambina avrebbe avuto bisogno di tutto il conforto che una madre poteva offrire. Trovarla comportava esporsi alla luce diretta del sole, e perfino la più mite radiosità della sera incipiente poteva procurarle un attacco. Occorreva perciò recuperare gli 65
occhiali da sole: questo, più ancora della visita in cucina, avrebbe avuto priorità assoluta, perché gli occhiali dovevano essere lì nella stanza, in un cassetto, tra le pagine di un libro o in una tasca, e tornare di sopra a cercarli sarebbe stata solo una seccatura. Doveva anche mettersi un paio di scarpe basse, nell’eventualità che Briony avesse deciso di spingersi fino al fiume... E così Emily si abbandonò sui cuscini ancora per qualche minuto, adesso che la creatura pelosa si era ritirata, e programmò con pazienza il da farsi, per poi ricontrollare ogni cosa e stabilire un preciso ordine operativo. Avrebbe svolto il ruolo di consolatrice di quella casa che, dalla malata penombra della sua camera da letto, le appariva come un continente inquieto e scarsamente popolato, dalla cui vastità elementi in conflitto tra loro avanzavano contrastanti pretese alla sua trepida sensibilità. Non si faceva nessuna illusione: i programmi del passato, ammesso che uno riuscisse a ricordarli, quelli che il tempo aveva superato, tendevano ad avere una visione degli eventi febbrile ed eccessivamente ottimista. Era in grado di spingere i suoi tentacoli in ogni angolo della villa, ma non poteva utilizzarli per raggiungere il futuro. Sapeva anche che ultimamente ciò che desiderava era soprattutto la propria pace mentale; la cosa migliore era non separare mai l’interesse personale dalla gentilezza. Con prudenza, si tirò su e portò a terra i piedi che poi infilò dentro le pantofole. Anziché rischiare di aprire le tende, preferì accendere solo la lampada da lettura e mettersi a brancolare in cerca degli occhiali scuri. Aveva già in mente il primo posto dove guardare.
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Capitolo settimo Il tempio sull’isola, costruito verso la fine del decennio 1780 in stile Nicholas Revett, doveva costituire un punto d’interesse, un elemento di attrazione visiva teso a sottolineare l’ideale pastorale del luogo e, naturalmente, non aveva alcuna funzione religiosa. Si ergeva piuttosto vicino alla riva dell’acqua, su una sponda alta e sporgente allo scopo di proiettare sul lago un riflesso suggestivo; da quasi ogni prospettiva la fila di colonne e il frontone sovrastante risultavano gradevolmente ombreggiati dalle fronde di olmi e querce cresciuti intorno. Da vicino, il tempio mostrava un aspetto più misero: salendo da una soletta danneggiata, l’umidità aveva causato il crollo di interi segmenti di stucco. Nel corso del diciannovesimo secolo si era provveduto a qualche maldestro restauro utilizzando intonaco non dipinto che si era poi annerito conferendo all’edificio un’aria chiazzata e malsana. Altrove, l’incannicciatura marcescente era affiorata come il costato di una bestia denutrita. La porta a doppio battente, che si apriva su un locale circolare dal tetto a cupola, era stata da un pezzo rimossa, e il pavimento di pietra appariva coperto da una fitta coltre di foglie, muffe e dagli escrementi di vari uccelli e animali che entravano e uscivano indisturbati. I vetri delle belle finestre georgiane non c’erano più; li aveva distrutti Leon con l’aiuto dei suoi amici verso la fine degli anni Venti. Le alte nicchie che un tempo ospitavano statue risultavano ormai deserte, fatta eccezione per i brandelli luridi delle ragnatele. L’unico arredo rimasto consisteva in una panca trasportata dal campo di cricket del paese, altra impresa del giovane Leon e dei suoi compagni di scuola. Le gambe, divelte, erano servite a distruggere le vetrate, e attualmente stavano fuori, impegnate in un lento processo di dissoluzione dentro la terra, in mezzo alle ortiche e alle incorruttibili schegge di vetro. Come il padiglione della piscina alle spalle delle scuderie conteneva richiami architettonici al tempio, così quest’ultimo avrebbe dovuto rifarsi alla struttura stilistica dell’antica costruzione in stile Adam, sebbene nessun membro di casa Tallis sapesse con certezza in che modo. Di quando in quando, ma più di frequente a Natale, quando l’umore si faceva esuberante, qualcuno a turno,
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passeggiando sui ponti del laghetto, si riprometteva di svolgere qualche ricerca, ma i propositi immancabilmente svanivano con gli impegni pressanti dell’anno nuovo. Ancor più del suo stato di abbandono, era proprio questo legame, questa memoria perduta di un passato grandioso in termini di rimandi architettonici, a conferire al piccolo edificio inutile quell’aria derelitta. Il tempio era orfano di una dama dell’alta società e adesso, senza nessuno che si occupasse di lui e nessun modello cui ispirarsi, il figlio aveva finito per invecchiare anzitempo, lasciandosi andare. Su uno dei muri esterni saliva stringendosi, ad altezza d’uomo, una macchia di fuliggine nel punto in cui, tempo prima, due vagabondi avevano osato accendere un fuoco per arrostirsi una carpa che non era nemmeno loro. Tra l’erba rasata a dovere dai conigli selvatici era rimasto a lungo uno stivale tutto accartocciato. Quel giorno però, guardandosi intorno, Briony non l’aveva più visto; era sparito, come alla fine sarebbe successo anche al resto. L’idea che il tempietto, indossando la fascia a lutto, ancora piangesse la perdita del palazzo bruciato, che anelasse al recupero di una grandiosa presenza invisibile, donava allo scenario un’atmosfera vagamente sacra. La tragedia aveva riscattato il tempio dal proprio destino di mero falso architettonico. È difficile sferzare a lungo le ortiche senza che si delinei una storia, e Briony ne fu presto assorbita e malignamente soddisfatta, sebbene agli occhi del mondo apparisse come una bambina in preda a una crisi di rabbia. Aveva trovato un ramo sottile di nocciolo e se l’era pulito per bene. C’era un bel po’ di lavoro da fare, e lei non si tirò indietro. Un’ortica alta dall’aria più vanitosa, con la cima vezzosamente piegata di lato e le foglie centrali aperte all’infuori come mani che si dichiarino innocenti: quella era Lola, e sebbene implorasse pietà, l’arco sibilante della frusta lunga quasi un metro la fece crollare in ginocchio per poi staccarle d’un colpo l’inutile torso. L’operazione si rivelò troppo gratificante per rinunciarvi, e perciò parecchie altre ortiche successive incarnarono Lola; questa ad esempio, china a mormorare qualcosa all’orecchio del suo vicino, venne abbattuta con la sua scandalosa bugia ancora sulle labbra; ma eccola di nuovo, separata da tutte le altre, la testa reclinata nell’atto di ordire un complotto letale; e ancora, laggiù, circondata da un manipolo di giovani ammiratori tra i quali diffondeva calunnie sul conto di Briony. Era increscioso, ma gli spasimanti dovettero morire con lei. Che invece risorse, nella sfrontatezza di tutte le sue colpe: orgoglio, ingordigia, 68
avarizia, mancanza di collaborazione - e per ciascuna di esse, pagò. Il suo ultimo gesto sprezzante fu di gettarsi ai piedi di Briony e di pungerle le dita. Quando Lola fu morta abbastanza, tre coppie di giovani ortiche vennero sacrificate per l’incompetenza dei gemelli: la giustizia era al di sopra delle parti e non riservava favori speciali ai bambini. Poi fu la volta della scrittura teatrale; anch’essa diventò un’ortica, anzi, più d’una: per l’insulsaggine, il tempo perso, per il disordine delle menti altrui, per l’inefficacia della finzione; nel giardino dell’arte, era solo una pianta infestante e doveva morire. Ormai non più drammaturga e per questa ragione riabilitata ai propri occhi, facendo attenzione a eventuali schegge di vetro, Briony si spinse più in là intorno al tempio, procedendo tra la striscia di erba rasata e il caos incolto che si stendeva sotto gli alberi. Fustigare le ortiche era diventato un atto di autopurificazione, e a quel punto incominciò a prendersela con l’infanzia, di cui non sentiva più alcun bisogno. Le si parò davanti il campione sottile di ogni interesse coltivato fino a quel momento. Ma non le bastava. Ficcando ben saldi i piedi nell’erba, fece piazza pulita della vecchia se stessa un anno dopo l’altro, in una successione di tredici colpi. Recise la dipendenza malata di tutta la prima infanzia, poi la scolara desiderosa di mettersi in mostra e di farsi lodare, lo stupido orgoglio dell’undicenne per i primi racconti e la fiducia accordata al giudizio positivo della madre. Volando sulla sua spalla sinistra, i rappresentanti di tutto ciò le si disposero ai piedi. La punta sottile della frusta fendeva l’aria producendo un suono a due toni. Non più!, le faceva dire, Basta! Prendete questo! Di lì a poco fu l’azione in se ad assorbirla, insieme all’articolo di cronaca che andò redigendo al ritmo dei colpi di frusta. Nessuno al mondo avrebbe fatto meglio di Briony Tallis, che l’anno venturo avrebbe rappresentato la sua nazione alle Olimpiadi di Berlino, sicura di vincere l’oro. La gente studiava con attenzione il caso e rimaneva stupefatta di fronte alla sua tecnica, quella scelta di stare a piedi
scalzi
per
migliorare
l’equilibrio
-
elemento
essenziale
in
questa
complicatissima disciplina - dove ogni singolo dito del piede svolgeva un ruolo preciso; il modo in cui conduceva il gesto di polso per assestare il colpo secco di mano soltanto alla fine; il modo in cui distribuiva il peso e utilizzava la torsione 69
sui fianchi per ottenere maggiore potenza, la grazia che distingueva le dita distese dalla mano libera: no, nessuno le stava alla pari. Autodidatta, ultimogenita di un alto funzionario di Stato. Notevole l’espressione concentratissima nell’atto di determinare l’angolazione precisa del colpo, mai un’esitazione, ogni ortica recisa con esattezza implacabile. Il raggiungimento di un simile livello di prestazioni richiedeva il lavoro di un’intera vita. E pensare che aveva rischiato di sprecare tutto questo per dedicarsi al teatro! All’improvviso si rese conto della presenza del calesse alle sue spalle; arrivava sferragliando sul primo ponte. Leon, finalmente. si sentì addosso lo sguardo di lui. Era questa davvero la sorellina che aveva visto l’ultima volta alla stazione di Waterloo
soltanto
tre
mesi
prima,
ormai
entrata
a
far
parte
dell’élite
internazionale? Con fare perverso, Briony non si concesse la debolezza di voltarsi ad accoglierlo: Leon doveva imparare che adesso lei non dipendeva più dal giudizio degli altri, nemmeno dal suo. Era una grande campionessa, compresa nelle raffinatezze della sua arte. Inoltre, il fratello avrebbe dovuto fermare il calesse e correrle incontro sulla sponda del lago, dove lei avrebbe accettato di buona grazia l’interruzione. Il fragore confuso di zoccoli e ruote in progressivo allontanamento sul secondo ponte le dimostrò che Leon conosceva il significato della distanza e del rispetto professionale. Ciononostante, un velo di tristezza andava calando su di lei che intanto non smetteva di menare colpi, procedendo nel giro dell’isola fino a perdere di vista la strada. Una linea irregolare di ortiche recise sull’erba segnava il cammino percorso, insieme al bruciore delle bollicine bianche che le infestavano piedi e caviglie. La punta dello scudiscio di nocciolo cantava disegnando archi nell’aria; foglie e steli d’erba volavano in ogni direzione, ma il plauso del pubblico era un’immagine più ardua da evocare. Sbiadiva il colore dalla sua fantasia, si attenuava il piacere egocentrico di movimento ed equilibrio, il braccio le faceva male. Si stava trasformando in una bambina solitaria che prende a sferzate le ortiche con un bastone, e alla fine si interruppe e gettò la frusta tra gli alberi, prima di guardarsi intorno. Il prezzo di quelle immemori fantasticherie era da sempre l’attimo del ritorno alla realtà, il ricongiungersi con il passato recente che adesso appariva perfino 70
più triste. Il sogno a occhi aperti, un istante prima ricco di dettagli plausibili, diventava una sciocchezza effimera al cospetto della solida massa del presente. Era difficile tornare indietro. Torna indietro!, le mormorava all’orecchio la sorella per svegliarla da un brutto sogno. Briony aveva perduto il potere divino della creazione, ma era solo nel momento del ritorno che quella perdita si faceva palese; parte del fascino di una fantasticheria risiedeva nell’illusione di essere disarmati di fronte alla sua assenza di logica: costretta dalla concorrenza internazionale a competere ai massimi livelli con i campioni del mondo e ad accettare le sfide continue a cui la condannava l’eccellenza assoluta nella sua disciplina specifica - la recisione a frustate di ortiche -, trascinata a spingersi oltre i propri limiti per compiacere folle in delirio, e a essere la migliore, anzi, soprattutto l’unica. Ma ovviamente aveva fatto tutto da sola, e adesso tornava nel mondo, in un mondo che non poteva fare con le sue mani, che però in compenso aveva fatto di lei quella che era, e si sentiva diventare piccola sotto il gran cielo di quella sera in arrivo. Era stanca di stare all’aperto, ma non aveva voglia di rientrare. Tutta qui, la scelta che offriva la vita, star dentro o star fuori? Possibile che la gente non potesse andare anche altrove? Volse le spalle al tempio e passeggiò sul tappeto erboso che i conigli avevano reso perfetto, in direzione del ponte. Davanti a lei, illuminata dal sole calante, si alzava una nube d’insetti, ciascuno dei quali si muoveva in scatti casuali e frenetici come se fosse attaccato a un invisibile elastico: una misteriosa danza di corteggiamento, forse, o una mera esuberanza vitale che la sfidava a escogitare un significato. Nello spirito di una resistenza ribelle, si inerpicò sulla sponda scoscesa del ponte, e quando fu sulla strada, decise di restare li fino a che non le succedesse qualcosa di rilevante. Ecco la sfida che lei lanciava alla vita: non si sarebbe più mossa, neppure per la cena, neppure se la madre la richiamava in casa. Avrebbe semplicemente aspettato sul ponte, con ostinata pazienza, fino a quando gli eventi, non più le sue fantasie, avessero accolto la provocazione dissipando il suo senso di futilità.
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Capitolo ottavo Al principio della sera, nuvole ad alta quota nella porzione occidentale del cielo si allinearono in una striscia sottile di giallo che si addensò col passare delle ore e infine si fece più spessa, mentre un diffuso bagliore aranciato calava sulle gigantesche creste degli alberi nel parco; le foglie assunsero un caldo color noce, i rami in mezzo alle fronde brillavano di un nero compatto, e l’erba inaridita prese le sfumature del cielo. Un fauve impegnato in una improbabile ricerca cromatica avrebbe potuto immaginare un paesaggio del genere, specie quando tra cielo e terra esplose una fioritura di rossi, e i tronchi gonfi delle vecchie querce si fecero talmente neri da sembrare blu. Sebbene il sole si indebolisse calando, la temperatura sembrò aumentare perché la brezza che aveva portato un vago sollievo durante il resto del giorno si spense in un’aria ormai ferma e pesante. Lo scenario, o quantomeno una minuscola porzione di esso, risultava visibile a Robbie Turner attraverso il lucernario chiuso, a patto però che avesse voglia di mettersi in piedi nel la vasca da bagno, piegare le ginocchia e torcere il collo. Per l’intera giornata la sua piccola camera da letto, il bagno e il cubicolo angusto incuneato fra i due che lui definiva studio si erano crogiolati sotto lo spiovente meridionale del tetto del cottage. Per più di un’ora dopo essere rincasato dal lavoro, Robbie rimase sdraiato in un bagno tiepido che il suo sangue, per non dire i suoi pensieri, parevano surriscaldare. Sopra di lui, il rettangolo incorniciato di cielo attraversava lentamente il modesto segmento di spettro cromatico, da giallo ad arancio, mentre lui passava in rassegna sensazioni ignote tornando sempre agli stessi ricordi. Che non sbiadivano. Di quando in quando, pochi centimetri sotto il pelo dell’acqua, i muscoli della pancia gli si irrigidivano involontariamente mentre il pensiero si soffermava su un altro dettaglio. Una goccia d’acqua sul braccio di lei. Bagnata. Un piccolo fiore ricamato, una semplice margherita, cucita in mezzo alle coppe del reggiseno. I seni piccoli e ben separati. Sulla schiena, un neo seminascosto da una spallina. Quando era uscita dalla vasca della fontana, la visione fugace del triangolo scuro che le mutande
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avrebbero dovuto celare. Bagnata. L’aveva vista e si costringeva a vederla di nuovo. Il modo in cui le ossa pelviche tendevano la stoffa allontanandola dalla pelle, la curva profonda dei fianchi, l’abbacinante biancore. Mentre lei si chinava a raccogliere la gonna, un piede alzato distrattamente aveva rivelato chiazze di terra sui cuscinetti carnosi sempre più piccoli delle sue dita. Un altro neo delle dimensioni di una monetina sulla coscia e una macchia violacea sul polpaccio. Una voglia di fragola, forse, una cicatrice. Non un difetto. Soltanto ornamenti. La conosceva da quando erano bambini, e non l’aveva mai guardata. A Cambridge era venuta una volta a trovarlo in camera insieme a un’occhialuta ragazza neozelandese e qualcun altro della sua scuola, quando da lui c’era già un amico di Downing in visita. Cercarono di far passare un’ora scambiando battute nervose e offrendosi sigarette. Di quando in quando si incrociavano per la strada e si sorridevano. Lei pareva sempre impacciata: «Quello è il figlio della nostra donna delle pulizie», bisbigliava magari alle amiche, mentre si allontanavano. A lui piaceva far sapere alla gente che non gliene importava: ecco la figlia della padrona di mia madre, disse una volta a un compagno. A proteggerlo aveva il suo credo politico, e la teoria scientifica sul sistema di classe, oltre alla personale sicurezza di sé che aveva deciso di imporsi. Sono quello che sono. Lei era come una sorella. Praticamente invisibile. Con quella faccia lunga e stretta, la bocca piccola; se mai si fosse soffermato a pensarla, avrebbe potuto descriverne i tratti come un po’ cavallini. Ora la trovava invece di una bellezza insolita: -c’era un che di scultoreo e fermo in quel viso, specie intorno ai piani inclinati degli zigomi, una forza selvaggia nelle narici, e la bocca era come un bocciolo di rosa brillante e carnoso. Aveva occhi scuri e pensosi. L’aspetto era nel complesso statuario, ma i gesti veloci e impazienti: a quest’ora il vaso poteva essere ancora intero, se non glielo avesse strappato di mano in quel modo. Era inquieta, senza dubbio, annoiata e oppressa tra le mura di villa Tallis, e di li a poco se ne sarebbe andata. Doveva parlarle al più presto. Alla fine si alzò dalla vasca da bagno, tremante; era certo che lo attendeva un drastico cambiamento. Attraversò nudo lo studio, diretto in camera. Il letto disfatto, il caos di vestiti ammucchiati, un asciugamano per terra, la temperatura equatoriale della stanza, tutti elementi di una spossante sensualità. Si distese a pancia in giù, affondando la faccia dentro il cuscino, e gemette. Che 73
delizia, quanta delicatezza nella sua amica d’infanzia, che ormai rischiava di diventare irraggiungibile. Spogliarsi così: già, il commovente sforzo di mostrarsi eccentrica, quel suo tentativo di audacia era stato eccessivo, sapeva di fatto in casa. Chissà come si stava tormentando ora al pensiero, senza nemmeno sapere cosa gli aveva fatto. Ma tutto poteva tornare a posto, essere ancora recuperabile, se lei non fosse stata tanto in collera con lui per quel vaso che gli si era rotto tra le mani. Tuttavia Robbie adorava perfino la sua furia. Si girò su un fianco, con gli occhi fissi nel vuoto, e si concesse una fantasia cinematografica: lei gli batteva le mani sul bavero della giacca prima di cedere con un sospiro al riparo avvolgente delle sue braccia e farsi baciare; non l’aveva perdonato, aveva solo smesso di resistergli. Robbie contemplò più volte la scena, prima di fare ritorno alla realtà: Cecilia era in collera con lui, e lo sarebbe stata anche di più venendo a sapere della sua presenza tra gli ospiti a cena. Là fuori, sotto la luce implacabile del sole, non era stato abbastanza pronto da declinare l’invito di Leon. Automaticamente gli era sfuggito il belato di un sì, e adesso gli toccava affrontare l’irritazione di lei. Gemette ancora, senza preoccuparsi se si sentiva dal piano di sotto, al ricordo di come si era spogliata davanti a lui: con quanta indifferenza! Come se lui fosse stato un bambino. Ma certo. Ora tutto era chiaro. L’idea era di umiliarlo. Si trattava di un fatto, innegabile. Umiliazione. Voleva infliggergliela. Non c’era solo dolcezza in lei, e Robbie non poteva permettersi il lusso di compiacerla, perché Cecilia era anche una forza, in grado di trascinarlo in acque profonde per poi tenergli la testa sotto. Forse però - a questo punto si era girato sulla schiena - non era il caso di credere troppo all’indignazione di lei. Non era stata forse un po’ troppo teatrale? Di sicuro aveva in mente di dirgli qualcosa di più, nonostante la rabbia. Nonostante la rabbia, Cecilia aveva voluto mostrargli quanto fosse bella, e sedurlo. Ma come fidarsi di un’interpretazione tanto interessata, frutto di desiderio e speranza? Doveva. Incrociò le gambe, si portò le mani dietro la testa, godendosi la pelle fresca e asciutta. Chissà che cosa avrebbe avuto da dire in proposito Freud? Ipotesi: lei mascherava il desiderio inconscio di esibirsi davanti a lui, usando la rabbia come espediente. Che speranza patetica! Si trattava di un atto di castrazione, di una 74
sentenza, mentre l’attuale tortura, ciò che provava ora, era il castigo inflitto per aver rotto il suo ridicolo vaso. Basta, non doveva vederla mai più. Ma l’avrebbe vista proprio quella sera. In ogni caso, non aveva scelta: doveva andare. Lei lo avrebbe disprezzato vedendolo lì. Avrebbe dovuto rifiutare l’invito di Leon, ma nell’attimo in cui gli era stato rivolto, Robbie aveva sentito un tuffo al cuore e quel sì piagnucoloso gli era sfuggito di bocca. La sera stessa si sarebbe trovato in una stanza con lei, con quel corpo che aveva visto, quei nei, il pallore, la voglia di fragola, tutto nascosto sotto i vestiti. Soltanto lui l’avrebbe saputo, lui e Cecilia, ovviamente. Ma soltanto lui non avrebbe fatto che pensarci. Inoltre, Cecilia non gli avrebbe rivolto la parola e nemmeno uno sguardo. Perfino questo tuttavia era meglio che starsene sdraiati qui a gemere. Anzi, no. Era peggio, ma lui voleva andarci lo stesso. Doveva farlo. Voleva che fosse peggio. Alla fine si alzò, si vestì parzialmente, andò nello studio e sedette alla macchina da scrivere, chiedendosi che genere di lettera le dovesse scrivere. Come il bagno e la camera da letto, anche lo studio era schiacciato sotto il tetto del cottage e formava poco più di un ripostiglio tra i due vani, nemmeno due metri per due. Anche qui si apriva un lucernario, incorniciato di pino grezzo. Ammucchiata in un angolo, la sua attrezzatura da montagna: scarponi, bastone, zaino di cuoio. Un tavolo da cucina tutto graffiato occupava quasi l’intero spazio. Dondolò indietro la sedia e prese a esaminare la scrivania come passando in rassegna la propria vita. Da una parte, impilati fino a sfiorare il soffitto spiovente stavano le cartelline e i quaderni usati negli ultimi mesi per la preparazione agli esami finali. Gli appunti non gli sarebbero serviti mai più, ma contenevano troppo lavoro, troppe soddisfazioni per gettarli via. Sparpagliate un po’ in mezzo, c’erano alcune carte che usava per le sue escursioni, il Galles settentrionale, l’Hampshire, il Surrey, oltre a quella del progettato viaggio fino a Istanbul. C’era anche una bussola dotata di oculare di puntamento che aveva utilizzato una volta per una camminata senza cartina a Lulworth Cove. Oltre la bussola stavano le sue copie delle poesie di Auden e Un ragazzo dello Shropshire di Housman. All’estremità opposta del tavolo, vari testi di storia, trattati teorici e manuali di architettura di giardini. Dieci liriche battute a macchina giacevano sotto una lettera prestampata di rifiuto speditagli dalla 75
redazione di «Criterion» e siglata con le iniziali del signor Eliot in persona. Vicino al lato dove Robbie sedeva c’erano invece i libri del suo più recente interesse. L’Anatomia del Gray, tenuta aperta da un taccuino di disegni. Si era imposto il compito di disegnare e memorizzare le ossa della mano. Cercò di distrarsi ripetendo a bassa voce alcuni nomi: capitato, uncinato, trapezoide, semilunare... Lo schizzo migliore, eseguito a inchiostro e matite colorate e raffigurante una sezione trasversale del tratto esofageo e delle vie respiratorie, era attaccato con delle puntine a un travetto sopra il tavolo. Un boccale di peltro privo di manico conteneva penne e matite. La macchina da scrivere era un modello abbastanza recente di Olympia, regalatagli per i ventun anni da Jack Tallis nel corso di un pranzo tenutosi in biblioteca. Leon e suo padre avevano fatto un discorso; era presente anche Cecilia, ovviamente. Ma Robbie non ricordava che si fossero scambiati una sola parola. Era forse per quella ragione che adesso era in collera, perché la ignorava da anni? Altra speranza patetica. Quasi al bordo opposto del tavolo, svariate fotografie: il cast della Notte dell’Epifania rappresentata sul prato del college; lui nei panni di Malvolio, con tanto di giarrettiere incrociate e calze gialle. Un ruolo molto appropriato. Un’altra foto di gruppo, lui insieme ai trenta ragazzi francesi dei quali era stato insegnante presso un collegio di Lille. Una cornice belle époque in metallo chiazzato di verderame che racchiudeva un’immagine dei suoi genitori, Ernest e Grace, tre giorni dopo le nozze. Alle loro spalle, appena visibile, la fiancata anteriore di un’auto, di certo non loro e, più lontano, un essiccatoio per il luppolo incombente su un muro in mattoni. Era stata una bella luna di miele, Grace lo ripeteva sempre, due settimane a raccogliere luppolo con i parenti del marito, e a dormire in roulotte come zingari, nei cortili delle fattorie. Suo padre indossava una camicia senza colletto. Il fazzoletto intorno alla gola e la corda legata alla cinta dei pantaloni in flanella potevano anche essere spiritosi tocchi zingareschi. Aveva testa e faccia rotonde, ma l’effetto non era gioviale, perché il suo sorriso da macchina fotografica non era abbastanza convinto da riuscire a schiudergli le labbra, e anziché tenere la mano della sua giovane sposa, Ernest aveva preferito incrociare le braccia al petto. Lei, al contrario, era china dalla sua parte, e gli appoggiava la testa su una spalla mentre, con gesto impacciato, gli teneva un lembo della camicia all’altezza del gomito con entrambe le mani. Grace, 76
sempre buona e decisa, stava sorridendo anche per lui. Ma quelle mani volonterose e lo spirito gentile non sarebbero bastati. Ernest dava l’impressione di essere già via con la mente, già trasportato sette estati più in là, quando di punto in bianco avrebbe abbandonato l’impiego di giardiniere in casa. Tallis, e il cottage, e senza bagagli, senza nemmeno il conforto di un biglietto di addio sul tavolo della cucina, avrebbe lasciato la moglie e il figlio di sei anni a interrogarsi sul suo conto per il resto della vita. Altrove, sparse in mezzo a fasci di appunti, articoli sul giardinaggio e testi di anatomia, stavano varie lettere e cartoline: rette da pagare, messaggi che ancora gli faceva piacere rileggere, dove tutori e amici si congratulavano con lui per i brillanti voti agli esami, e altri dove avanzavano cauti dubbi riguardo al suo annunciato progetto universitario. Il più recente, scarabocchiato in inchiostro marrone su carta intestata di Whitehall, era di jack Tallis, e gli accordava l’aiuto finanziario richiesto per sostenere le spese alla facoltà di medicina. C’erano moduli di iscrizione lunghi venti pagine, e spessi opuscoli di ammissione, a stampa fittissima, provenienti da Londra o Edimburgo, la cui prosa complessa e metodica pareva un assaggio di un diverso rigore accademico a venire. Oggi però, non gli suggerivano l’idea dell’avventura di un nuovo inizio, quanto piuttosto quella dell’esilio. Vedeva la scena in prospettiva: una squallida strada lontana da qui, fiancheggiata da villini a schiera, un bugigattolo tappezzato di carta a fiorami con armadio a muro e copriletto in ciniglia, nuovi amici cordiali, quasi tutti più giovani di lui, i flaconi di formaldeide, l’echeggiante aula magna: tutto questo, senza di lei. Sfilò dai volumi sull’architettura di giardini quello su Versailles preso in prestito dalla biblioteca di villa Tallis. Era stato il giorno in cui per la prima volta aveva notato il proprio imbarazzo in presenza di Cecilia. Mentre si chinava per togliersi le scarpe da lavoro, si era reso conto dello stato dei suoi calzini: bucati sull’alluce e sul tallone, e per quanto poteva immaginare anche maleodoranti. Così, sull’onda di un impulso, se li era sfilati. Che idiota si era poi sentito, seguendola con passo felpato nell’atrio ed entrando a piedi nudi in biblioteca. Il suo solo pensiero era stato quello di andarsene il più presto possibile. Era praticamente scappato dalla porta della cucina e aveva dovuto chiedere a Danny di fare il giro della villa per andargli a recuperare scarpe e calze. 77
Cecilia probabilmente non avrebbe avuto voglia di leggere quel trattato sugli impianti idraulici di Versailles, opera di un danese del diciottesimo secolo il quale, in latino, esaltava il genio di Le Nôtre. Con l’aiuto del dizionario, Robbie ne aveva portato a termine cinque pagine in una mattina, poi si era dato per vinto e si era fatto bastare le illustrazioni. Non doveva essere il genere di libro che avrebbe entusiasmato Cecilia, né tanti altri, del resto, ma era stata lei a passarglielo dalla scaletta della biblioteca, perciò in qualche punto della copertina di pelle dovevano esserci le sue impronte digitali. Pur non volendo farlo, Robbie si portò il libro alle narici e inspirò. Polvere, carta vecchia, il profumo di sapone delle sue mani; niente che sapesse di lei. Come diavolo si era insinuata in lui, quella forma avanzata di feticismo? Di certo Freud avrebbe avuto qualcosa da dire al riguardo, in uno dei suoi Tre saggi sulla teoria della sessualità. Come pure Keats, Shakespeare, Petrarca, e tutti gli altri, oltre a quanto se ne leggeva nel Roman de la Rose. Aveva trascorso tre anni a studiare sterilmente sintomi che gli erano parsi semplici convenzioni letterarie e adesso, solo come un cortigiano dall’elmo piumato e l’ampia gorgiera fermo al margine della foresta a contemplare il suo pegno d’amore, Robbie si ritrovava a venerare le tracce di lei - nemmeno un fazzoletto, le impronte digitali! -, ben sapendo di languire nel disprezzo assoluto della sua amata. Con tutto ciò, infilando il foglio di carta nel rullo della macchina da scrivere non dimenticò di inserire la carta carbone. Scrisse la data e l’intestazione e passò subito a una formula convenzionale di scuse per il suo «comportamento maldestro e sconsiderato». Poi si interruppe. Intendeva esporsi sul piano sentimentale e, in caso positivo, fino a che punto? «Ammesso che possa trattarsi di una giustificazione, ho constatato di recente che in tua presenza mi sento piuttosto svagato. Voglio dire, non sono mai entrato a piedi nudi in casa di nessuno prima d’ora. Dev’essere il caldo!» Come suonava inadeguata, la leggerezza di quel tono di autodifesa. Era come uno che, a uno stadio avanzato di tubercolosi, sostenga di avere un brutto raffreddore. Tirò per due volte la leva dell’a capo e riscrisse: «So bene che non si tratta di una giustificazione, ma di recente mi pare di essere tremendamente svagato se ci sei tu. Che ci facevo a piedi nudi in casa tua l’altro giorno? E quando mai mi è successo di spaccare il bordo di un vaso antico?» Appoggiò le 78
mani sulla tastiera e si sentì invaso dall’urgenza di scrivere un’altra volta il nome di lei. «Cee, non credo proprio di potermela prendere con il caldo!» Il tono scherzoso aveva lasciato posto al melodrammatico lamentoso. Quella domanda retorica suonava ipocrita; il punto esclamativo era il primo espediente di chi crede,
strillando, di poter essere più
chiaro. Perdonava
quell’uso
della
punteggiatura solo a sua madre, nelle cui lettere una batteria di cinque punti esclamativi stava a segnalare una battuta davvero buona. Fece ruotare il rullo e lo cancellò con una x. «Cecilia, non credo di potermela prendere con il caldo». Eliminato l’umorismo, sentì insinuarsi nel testo una nota di vittimismo. Bisognava rimettere il punto esclamativo. Evidentemente non era nato solo allo scopo di alzare il volume delle frasi. Armeggiò con la stesura del messaggio per un altro quarto d’ora, poi inserì due fogli puliti e batté una bella copia. La frase cruciale ora recitava così: «Avresti buone ragioni per credermi pazzo: vago per casa tua a piedi nudi, faccio a pezzi un vaso antico. La verità, Cee, è che, in tua presenza, mi sento alquanto svagato e imbecille, e non credo di potermela prendere con il caldo! Mi puoi perdonare? Robbie». Poi, dopo qualche ulteriore minuto passato a fantasticare dondolandosi sulla sedia, riandò con il pensiero alla pagina sulla quale il suo manuale di anatomia tendeva di questi tempi ad aprirsi; si tuffò in avanti e, prima di riuscire a fermarsi, scrisse di getto: «Nei miei sogni, bacio la tua fica, la tua dolce fica bagnata. Nei miei pensieri, faccio l’amore con te tutto il giorno». Ecco fatto, rovinata. La bella copia era rovinata. Sfilò il foglio dal rullo, lo mise da parte, e riscrisse il testo da capo a mano, convinto che il tocco personale sarebbe stato più adatto all’occasione. Guardando l’ora, si ricordò che prima di andare avrebbe dovuto pulirsi le scarpe. Si alzò dalla scrivania, attento a non sbattere la testa contro la trave. Robbie non conosceva imbarazzi di tipo sociale - in modo addirittura eccessivo, a detta di molti. Una volta nel corso di una cena a Cambridge, durante un silenzio improvviso, un commensale al quale Robbie non andava a genio gli aveva chiesto ad alta voce notizie dei suoi genitori. Senza abbassare lo sguardo, Robbie aveva risposto pacato che suo padre se n’era andato molto tempo prima e che sua madre era una domestica che arrotondava lo stipendio facendo la cartomante a 79
tempo perso. Il tono era di disinvolta indulgenza nei confronti dell’ignoranza del suo interlocutore. Robbie entrò nei dettagli della propria condizione, e concluse il discorso ricambiando cortesemente la richiesta di notizie sui genitori dell’altro. Qualcuno riteneva che tale candore, o ingenuità rispetto alle cose del mondo, lo proteggesse dal subirne le conseguenze sgradevoli, che lui fosse insomma una sorta di beato imbecille in grado di attraversare l’equivalente mondano di una distesa di carboni ardenti senza scottarsi i piedi. La verità, come Cecilia sapeva bene, era più semplice. Robbie aveva trascorso l’infanzia muovendosi libero tra il cottage e la villa. Jack Tallis era il suo mecenate, Leon e Cecilia i suoi migliori amici, almeno fino alle superiori. All’università, dove Robbie aveva scoperto di essere più intelligente di molte delle persone che incontrava, la sua liberazione si era fatta completa. Non era nemmeno più il caso di mostrarsi arrogante. Grace Turner era contenta di occuparsi del bucato del figlio: oltre alla preparazione di qualche pasto caldo, era il solo modo per dare sfogo a un po’ di amore materno, ora che il suo unico bambino aveva compiuto ventitré anni. Ma Robbie preferiva lucidarsi le scarpe personalmente. In canottiera bianca e calzoni del completo, scese scalzo la breve rampa di scale portando in mano le scarpe nere. Davanti al soggiorno si apriva un piccolo spazio, più un ripostiglio che un vero e proprio ingresso; in fondo, la porta a vetri smerigliati attraverso i quali una luce diffusa tra il rosso e l’arancio chiazzava la tappezzeria beige e verde oliva di mobili a rombi in rilievo. Robbie si fermò, la mano sul pomello della porta, sorpreso dalla trasformazione cromatica, e infine entrò. L’aria nella stanza era umida e calda, come vagamente salmastra. Doveva essersi appena conclusa una seduta. Sua madre era sul divano coi piedi sollevati e le ciabatte di stoffa che le penzolavano dalle dita. - È stata qui Molly, - disse, rizzandosi per darsi un contegno più socievole. - E sono lieta di comunicarti che andrà tutto bene per lei. Robbie prese la scatola dei lucidi da scarpe in cucina, sedette sulla poltrona accanto alla madre e allargò sulla moquette una copia del «Daily Sketch» vecchia di tre giorni. - Molto bene, - disse. - Ho sentito che eri occupata e sono salito a farmi un bagno. 80
Sapeva di dover uscire di li a poco, perciò avrebbe dovuto darsi da fare con quelle scarpe, invece si abbandonò sullo schienale della poltrona, si stirò per tutta la sua lunghezza e sbadigliò. - Strappare erbacce! Ma che razza di vita è questa? C’era più ironia che angoscia nella sua voce. Incrociò le braccia e fissò il soffitto mentre con l’alluce di un piede si massaggiava la pianta dell’altro. Sua madre fissava lui e lo spazio vuoto al di sopra della sua testa. - Avanti. È successo qualcosa. Che hai che non va? E non dirmi che non e niente. Grace Turner diventò la domestica di casa Tallis la settimana dopo che Ernest se ne fu andato. Jack Tallis non se la sentì di mettere alla porta una giovane donna con un bambi no. In paese, trovò un sostituto giardiniere e tuttofare che non avesse bisogno di alloggio. Al tempo si pensava che Grace sarebbe rimasta nel cottage per un anno o due, prima di traslocare o di risposarsi. Il suo buon carattere e la sua dote particolare nel far brillare l’argenteria - un tipo «superficiale», scherzavano in famiglia - la fecero apprezzare, ma la sua vera salvezza, e la fortuna di Robbie, fu l’autentica adorazione che suscitò in Cecilia e Leon, che al tempo avevano rispettivamente sei e otto anni. Durante le vacanze estive Grace poteva portare con sé anche il figlioletto di sei anni. Robbie crebbe tra le pareti della nursery e delle altre stanze dove avevano accesso i bambini di casa, oltre che nella tenuta. Il suo compagno di arrampicate sugli alberi fu Leon; Cecilia la sua sorellina minore, che lo prendeva fiduciosa per mano e lo faceva sentire immensamente saggio. Qualche anno dopo, quando Robbie vinse la sua prima borsa di studio per il ginnasio locale, Jack Tallis compì il primo gesto di una durevole pratica di mecenatismo, accollandosi le spese di libri e divisa scolastica. Quello fu l’anno in cui nacque Briony. A un parto difficile fece seguito la lunga malattia di Emily, e le premure efficaci di Grace ne consolidarono la posizione in famiglia: il giorno di Natale di quell’anno - era il 1922- Leon in cilindro e calzoni da cavallerizzo arrivò sfidando la neve fino al cottage per consegnare una busta verde da parte di suo padre. La lettera di un legale informava Grace di essere diventata la proprietaria del villino, indipendentemente dai suoi rapporti di lavoro con la famiglia Tallis. Lei tuttavia rimase a servizio, e tornò a fare le pulizie mentre i bambini crescevano, con mansioni di responsabilità rispetto alla lucidatura dell’argenteria. 81
La sua teoria sul conto di Ernest era che si fosse fatto spedire al fronte sotto falso nome e che non fosse mai più tornato. In caso contrario, la sua mancanza di curiosità nei confronti del figlio sarebbe stata disumana. Spesso, nei pochi minuti che aveva per se ogni giorno, mentre si spostava dal cottage alla villa, rifletteva sui casi fortunati della sua vita. Ernest le aveva sempre fatto un po’ paura. Forse non sarebbero stati poi tanto felici insieme, come a lei era invece toccato di essere vivendo da sola con il suo adorato figlio prodigio in una minuscola casa di proprietà. Se il signor Tallis fosse stato un uomo diverso... Alcune delle donne che per uno scellino venivano ad affacciarsi sul loro presunto futuro erano state abbandonate dai rispettivi mariti, e ancora più numerose erano quelle i cui uomini erano morti al fronte. Era una vita dura, quella delle donne, e la sua avrebbe potuto benissimo non essere da meno. - Niente, - disse Robbie in risposta alla sua domanda. - Non ho proprio niente che non va -. Prendendo in mano la spazzola e una scatoletta di lucido nero, aggiunse: - E così il futuro di Molly sembra radioso. - Si risposerà nel giro di cinque anni. E sarà molto felice. Lui arriverà dal nord, uno che ha anche studiato. - Non merita niente di meno. Rimasero seduti in un silenzio tranquillo mentre lei lo osservava sfregare energicamente le scarpe con un panno giallo. I muscoli intorno agli zigomi regolari gli si tendevano nello sforzo, mentre quelli dell’avambraccio disegnavano forme mobili appena sotto la pelle. Qualcosa di buono doveva esserci stato in Ernest se le aveva dato un figliolo così. - Allora vai fuori stasera. - Leon stava arrivando mentre tornavo a casa. Era con un amico, sai, l’industriale del cioccolato. Mi hanno convinto ad andare a cena da loro. - Oh, e io, poveretta, tutto il pomeriggio a lustrare l’argento e a preparargli la stanza. Robbie raccolse le scarpe e si alzò. - Ogni volta che mi specchierò dentro il cucchiaio, mi verrai in mente tu. - Su, va’. Hai le camicie appese in cucina. Richiuse la cassetta dei lucidi e la portò via; scelse la camicia di lino color panna tra le tre appese sullo stendibiancheria. Rientrò in soggiorno pronto per 82
salire, ma lei lo voleva trattenere ancora un momento. - Quei piccoli Quincey. Uno dei due ha bagnato il letto e... Poveri cuccioli. Robbie indugiò sulla soglia e si strinse nelle spalle. Aveva dato un’occhiata e li aveva visti intorno alla piscina, a strillare e ridere nella calura della tarda mattinata. Stavano per dare il giro alla sua carriola nell’acqua alta, se non li avesse fermati in tempo. C’era anche Danny Hardman; se ne stava li a lanciare occhiate alla sorella più grande quando avrebbe dovuto essere al lavoro. - Se la caveranno. Impaziente di uscire, fece le scale tre gradini alla volta. Tornato in camera da letto, finì di vestirsi in gran fretta, fischiettando stonato mentre si piegava per pettinarsi e impomatarsi i capelli davanti allo specchio interno dell’armadio. Non aveva il minimo orecchio musicale, e trovava impossibile stabilire se una nota era più alta o più bassa di un’altra. Ora che si preparava per la serata, si sentiva eccitato e, curiosamente, libero. La situazione non poteva peggiorare. Con metodo, e compiacendosi della propria efficienza, come se si preparasse per un viaggio avventuroso o per un’azione militare, compì piccoli gesti distratti: localizzò le chiavi di casa, trovò un biglietto da dieci scellini nel portafoglio, si lavò i denti, si annusò l’alito nella coppa della mano, raccolse la lettera dalla scrivania e la piegò in una busta, riempì il portasigarette e controllò il funzionamento dell’accendino. All’ultimo, si piazzò davanti allo specchio. Sfoderò le gengive, e si girò di profilo prima di darsi ancora uno sguardo al di sopra della spalla. Infine, si batté sulle tasche, e si precipitò giù dalle scale, di nuovo tre gradini alla volta, lanciò un saluto alla madre, e uscì sul viottolo di mattoni che si snodava in mezzo alle aiuole fino alla palizzata. Negli anni a venire avrebbe ripensato spesso a quel momento, al percorso lungo il sentiero che tagliava attraverso il querceto e si congiungeva alla strada dove questa curvava verso il lago e la villa. Non era in ritardo, ma faceva fatica a rallentare l’andatura. L’intensità di quei pochi minuti raccoglieva molteplici piaceri immediati e altri meno vicini: il cupo rossore dell’imbrunire, la dolcezza dell’aria immobile e calda, carica degli aromi di fieno e di terra cotta dal sole, l’abbandono del corpo dopo la giornata di lavoro nei giardini, la pelle resa liscia dal lungo bagno, il gusto di sentirsi addosso quella camicia e il completo buono, il 83
solo che avesse. La sensazione di terrore e trepidazione che provava all’idea di vederla gli procurava anche un soffuso piacere sensuale avvolto da un generale senso di ebbrezza: poteva fargli male, era una condizione tremendamente scomoda, non era detto che ne venisse qualcosa di buono, ma se non altro adesso sapeva che cosa significava essere innamorati, e la cosa lo emozionava. A incrementare la sua felicità contribuivano altre risorse: una certa soddisfazione ancora gli derivava dagli esiti degli esami (i migliori di quell’anno, gli avevano detto), la conferma della volontà di Jack Tallis di continuare ad aiutarlo economicamente, e la novità dell’avventura che lo aspettava, altro che esilio, all’improvviso ne fu certissimo, perché il suo progetto di studiare medicina era giusto e lodevole. Non avrebbe saputo spiegare in termini logici tanto ottimismo: era felice, e pertanto destinato al successo. Una parola conteneva tutto ciò che lo agitava interiormente, e chiariva la ragione per cui in seguito sarebbe tornato con insistenza su quel momento. Libertà. Nella vita e nel corpo. Molto tempo addietro, senza aver mai sentito parlare di scuole superiori, era finito a frequentarne una dopo aver superato un esame a cui qualcuno lo aveva iscritto. Per quanto a Cambridge si fosse anche divertito, quella di andarci era stata la scelta di un preside ambizioso. Perfino la materia di esame gli era stata imposta da un insegnante carismatico. Ora, finalmente, esercitando la volontà personale, aveva dato inizio alla sua vita di adulto. Era alle prese con un intreccio narrativo che lo vedeva nei panni dell’eroe, e già l’inizio aveva gettato lo scompiglio tra i suoi amici. L’architettura di giardini non era altro che una fantasia da bohémien, oltre che un’ambizione incompleta, perciò ne aveva analizzato i risvolti con l’aiuto di Freud: si trattava di un tentativo di sostituire o superare il padre assente. Anche l’insegnamento, la prospettiva, nel giro di quindici anni, di ritrovarsi Prof. R. Turner titolare di Letteratura Inglese, laureato a Cambridge, non era scritto nella storia, come pure la docenza a livello universitario. A dispetto dei suoi esami eccellenti, lo studio della letteratura gli pareva a posteriori solo un interessante gioco di società, come leggere libri e farsene un’opinione era l’auspicabile corollario di un’esistenza civile. Non certo il nocciolo della vita, qualsiasi cosa avesse da dire in proposito il professor Leavis. Non poteva rappresentare una vocazione irresistibile, e neppure l’intento cruciale di una mente avida di sapere, 84
ne il primo e ultimo baluardo contro un’orda barbarica, non più almeno dello studio di pittura o musica, storia o scienze naturali. Nel corso di svariate conversazioni durante l’ultimo anno di università Robbie aveva sentito uno psicanalista, un rappresentante sindacale comunista e uno studioso di fisica fare dichiarazioni in difesa del proprio campo d’interesse specifico, non meno convincenti di quelle del professor Leavis. Analoghe rivendicazioni valevano probabilmente anche in ambito medico, ma per Robbie la faccenda era molto più semplice e più personale: la sua indole pratica e le sue ambizioni scientifiche frustrate avrebbero trovato uno sbocco, le sue capacità avrebbero raggiunto un grado di complessità di gran lunga maggiore di quello garantito dallo studio della critica letteraria e, soprattutto, lui avrebbe fatto per una volta di testa sua. Si sarebbe trovato un alloggio in una città sconosciuta e avrebbe ricominciato da capo. Era ormai uscito dagli alberi e aveva raggiunto il punto in cui il sentiero sfociava sulla strada. La luce calante ingigantiva la cupa distesa del parco, e il pacato brillio giallo delle finestre oltre il lago conferiva una bellezza quasi solenne alla villa. Lei era là dentro, magari in camera sua, a prepararsi per la serata sul lato non visibile dell’edificio, al secondo piano. Sul versante della fontana. Robbie allontanò dalla mente il violento pensiero di lei nella luce del giorno, non volendo presentarsi a cena turbato. Le suole dure delle scarpe ticchettavano sulla strada inghiaiata come un enorme orologio, e lui si costrinse a pensare al tempo, all’enorme ricchezza di cui disponeva, al lusso di un’intera fortuna ancora da spendere. Non si era mai sentito così giovane, ne aveva provato una simile smania, quell’impazienza di dare inizio alla storia. C’erano uomini a Cambridge che si dimostravano agili sul piano intellettuale, che ancora se la cavavano discretamente su un campo da tennis, o su una canoa, pur avendo vent’anni più di lui. Almeno vent’anni dunque per dare corso alla storia più o meno a quello stesso livello di benessere fisico: quasi lo stesso tempo che aveva alle spalle. Vent’anni lo trasportavano innanzi al futuristico 1955. Di quali fatti significativi sarebbe stato al corrente allora, che gli erano ignoti adesso? Chissà se avrebbe potuto disporre di un’altra trentina d’anni ancora, da vivere a passo un po’ più tranquillo? Pensò a se stesso nel 1962, ormai cinquantenne, vecchio, ma non fino al punto di essere inutile. E immaginò il maturo e saggio dottore che sarebbe 85
diventato, con le sue storie segrete, tragedie e successi ammucchiati dietro le spalle. Come le pile di libri, migliaia, perché avrebbe avuto uno studio, tetro e vastissimo, stipato dei ricchi trofei di una vita di viaggi e pensieri: erbe rare dalla foresta pluviale, frecce avvelenate, invenzioni elettriche non portate a termine, statuette di steatite, teschi rimpiccioliti, arte aborigena. Sugli scaffali, manuali di medicina e filosofia, certo, ma anche i testi che attualmente occupavano l’angusto spazio nel sottotetto del villino: le liriche del diciottesimo secolo che l’avevano quasi convinto a diventare un architetto di giardini, la sua terza edizione di Jane Austen, il suo Eliot e Lawrence e Wilfred Owen, l’opera omnia di Conrad, l’inestimabile copia del Villaggio di Crabbe del 1783, l’Housman, la copia autografa della Danza della morte di Auden. Perché il punto era senz’altro questo: lui sarebbe stato un medico migliore per il fatto di aver letto tanta letteratura. La sua sensibilità elaborata gli avrebbe suggerito analisi profonde della sofferenza, della follia autolesionista o della mera sfortuna che conducono gli esseri umani alla malattia! Nascita, morte, e in mezzo un cammino di fragilità. Principio e fine, questi i fenomeni di cui si occupava un dottore, e altrettanto faceva la letteratura. Aveva in mente il romanzo del diciannovesimo secolo. Grande tolleranza e ampie vedute, un’umile generosità di sentimenti e l’imparzialità di giudizio; il suo modello di medico sarebbe stato aperto ai mostruosi disegni del fato, come alle vane e ridicole resistenze all’ineluttabile; avrebbe tastato polsi dal battito indebolito, ascoltato ultimi respiri, sentito mani febbricitanti farsi più fresche, e avrebbe riflettuto, come solo letteratura e religione possono insegnare a fare, sul coesistere di miseria e nobiltà nel genere umano... Nell’aria ferma della sera estiva il ritmo esaltante dei suoi pensieri gli accelerò il passo. Davanti a lui, un centinaio di metri più avanti, c’era il ponte e, su di esso, stagliata contro l’oscurità della strada, una sagoma bianca che in un primo tempo gli sembrò solo un segmento del pallido parapetto di pietra. Fissandola ne confuse i contorni, ma in capo a qualche altro passo, la sagoma aveva assunto i tratti di una forma vagamente umana. A quella distanza Robbie non era in grado di stabilire se la persona gli desse le spalle o fosse voltata verso di lui. Era ferma, il che lo portò a credere che lo stesse osservando. Per un paio di secondi cercò di trastullarsi con l’idea di un fantasma, ma non aveva alcuna predisposizione per il soprannaturale, ivi compreso l’essere dalle pretese modestissime che regnava 86
indiscusso nella chiesa normanna del paese. Ora vedeva bene, si trattava di una bambina, e perciò non poteva essere altri che Briony, con l’abito bianco che le aveva visto addosso già ore prima. Adesso la distingueva chiaramente, perciò alzò una mano e chiamandola per nome esclamò: - Sono io, Robbie, - ma lei non si mosse. Mentre si avvicinava gli venne in mente che forse era meglio farsi precedere dalla sua lettera. In caso contrario, poteva vedersi costretto a consegnarla a Cecilia in presenza d’altri, magari sotto lo sguardo della madre, che di recente si era mostrata piuttosto fredda con lui. O poteva anche succedere che non riuscisse a dargliela affatto, qualora Cecilia avesse deciso di mantenere le distanze. Se gliel’avesse portata Briony invece, avrebbe avuto il tempo di leggerla e di pensarci sopra in privato. Quei pochi minuti di vantaggio potevano forse addolcirla. - Mi stavo chiedendo se mi puoi fare un favore, - disse quando l’ebbe raggiunta. Briony annuì e rimase in attesa. - Potresti fare una corsa e consegnare questo biglietto a Cee? Parlando, le mise in mano la busta, che la bambina prese senza dire una parola. - Io arrivo tra qualche minuto, - incominciò a dire, ma lei già si era voltata e correva al di là del ponte. Robbie si appoggiò al parapetto e osservò la sua sagoma saltellante allontanarsi nel buio. Che età difficile per una ragazza, pensò. Quanti erano, dodici, o tredici anni? La perse di vista per qualche secondo, poi la rivide attraversare l’isola: spiccava contro la massa più scura degli alberi. La perse di nuovo, e fu soltanto quando lei ricomparve, al fondo del secondo ponte, pronta ad abbandonare la strada per tagliare attraverso il prato, che Robbie si irrigidì all’improvviso, in preda a un orrore misto a certezza assoluta. Gli sfuggì un grido senza parole mentre si incamminava di furia lungo la strada, inciampava, si metteva a correre e infine si fermava, consapevole dell’inutilità di un inseguimento. Non la vedeva già più, quando si portò le mani a coppa intorno alle labbra e tuonò il suo nome. Altro gesto inutile. Rimase lì fermo, aguzzando la vista nello sforzo di metterla a fuoco - come se fosse d’aiuto -, e anche la memoria, nella vana speranza di potersi sbagliare. Ma non si sbagliava. La lettera scritta a mano l’aveva appoggiata sulla copia 87
aperta del Gray, «Sezione di Splancnologia», pagina 1546, la vagina. Il foglio dattiloscritto, abbandonato accanto alla macchina, era quello che aveva preso e piegato dentro la busta. Nessun bisogno di chissà quali intuizioni freudiane, la spiegazione era tanto semplice quanto meccanica: la lettera innocente se ne stava distesa sulla figura n. 1236, nella sfrontata precisione scientifica meticolosa fino all’ultimo pelo pubico, mentre la versione oscena era sul tavolo a portata di mano. Urlò un’altra volta il nome di Briony, pur sapendo che ormai doveva essere arrivata a destinazione. Infatti, in capo a pochi secondi, il rombo di luce ocra contenente il profilo di lei si allargò, ristette, e infine andò riducendosi a nulla mentre la ragazzina faceva il proprio ingresso nella villa e la porta veniva richiusa dopo di lei.
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Capitolo nono Per due volte nel giro di mezz’ora, Cecilia uscì dalla stanza, colse la propria immagine riflessa dallo specchio nella cornice dorata in cima alle scale e, immediatamente
insoddisfatta,
fece
ritorno
al
suo
guardaroba
per
un
ripensamento. La prima scelta era caduta su un abito in crepe de Chine nero il cui taglio elegante, stando al giudizio dello specchio da tavolo, le conferiva una certa severità di linee. Il suo tocco di invulnerabilità veniva esaltato dalla scura profondità degli occhi di lei. Anziché tentare di bilanciarne l’effetto con un filo di perle, in un attimo di ispirazione Cecilia vi abbinò una collana di ambra nera. L’arco disegnato dal rossetto non richiese ritocchi. Varie inclinazioni del capo per cogliere prospettive diverse nel trittico di specchi la rassicurarono sul fatto che il suo viso non era eccessivamente lungo, o almeno non quella sera. Era attesa in cucina a svolgere le veci di sua madre, e Leon di sicuro l’aspettava in salotto. Ciononostante, già sul punto di uscire, si concesse il tempo necessario per tornare alla toletta e mettersi qualche goccia di profumo sui gomiti, un gesto scherzoso che ben si accordava al suo stato d’animo nell’attimo in cui si chiuse la porta alle spalle. Ma lo sguardo pubblico dello specchio sulla scala mentre lo superava a passo spedito le rivelò l’immagine di una donna diretta a un funerale, una donna austera e senza allegria, il cui nero carapace le faceva venire in mente certi insetti chiusi in scatole di fiammiferi. Tipo un cervo volante. Quella era lei coniugata al futuro, ottantacinquenne, in gramaglie vedovili. Non si fermò neppure, girò sui tacchi, neri anche quelli, e ritornò in camera. Era scettica, perché sapeva che scherzi ti può giocare il cervello. I suoi pensieri si concentravano contemporaneamente sul luogo dove avrebbe trascorso la serata e sul fatto che doveva assolutamente sentirsi a proprio agio con se stessa. Scavalcò il vestito di crépe de Chine senza raccoglierlo da terra, e rimase in tacchi alti e biancheria intima, a controllare le possibilità offerte dal suo guardaroba, senza scordarsi che intanto i minuti passavano. Detestava l’idea di apparire austera. L’impressione che ci teneva a dare era quella di una persona rilassata;
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rilassata e composta allo stesso tempo. Ma soprattutto voleva avere l’aria di chi non ha sprecato nemmeno un istante pensando a come vestirsi e, per quello, ci voleva tempo. Al piano di sotto, in cucina, il nodo di impazienza doveva farsi sempre più stretto, mentre i minuti che aveva programmato di trascorrere sola con il fratello si andavano riducendo. Di li a poco sarebbe arrivata la madre per discutere l’assegnazione dei posti a tavola, Paul Marshall sarebbe sceso dalla sua camera e qualcuno avrebbe dovuto tenergli compagnia, e infine Robbie si sarebbe presentato alla porta. Come faceva a pensare, in simili condizioni? Passò la mano lungo il percorso della sua storia personale, la breve cronaca dei suoi cambiamenti di gusto. Ecco le stravaganze degli anni dell’adolescenza, vestiti che ormai le parevano ridicoli e asessuati ma, sebbene uno fosse ancora macchiato di vino e un altro mostrasse il foro della bruciatura della sua prima sigaretta, non si decideva a eliminarli. Ed ecco l’abito con il primo timido accenno di spalline imbottite a cui facevano seguito altri da determinata sorella maggiore che, rinnegando il periodo mascolino, riscoprivano le linee del girovita e le curve, e abbassavano gli orli, ignorando con sufficienza le speranze maschili. Il suo ultimo e miglior articolo, acquistato per festeggiare la fine degli esami, prima di scoprire di aver ottenuto il misero minimo dei voti, era l’abito da sera verde scuro cucito di sbieco, che le lasciava schiena e spalle nude. Troppo elegante per indossarlo in casa la prima volta. Tornò indietro con la mano e tirò fuori un vestito in seta marezzata con il bustino plissé e l’orlo smerlato: una scelta sicura essendo di un rosa abbastanza spento da potersi portare di sera. La pensava così anche lo specchio triplo. Si cambiò le scarpe, e la collana di ambra con le perle, ritoccò il trucco, sistemò i capelli, applicò un po’ di profumo nell’incavo della gola, più esposta di prima, e fu di ritorno in corridoio in meno di quindici minuti. Qualche ora prima aveva visto il vecchio Hardman girare per casa con una cesta di vimini, intento a sostituire lampadine bruciate. Forse la luce in cima alle scale era più forte, perché non aveva mai avuto problemi simili con quello specchio. Mentre ancora si avvicinava da una distanza di una decina di metri, capì che non l’avrebbe passata liscia; il rosa risultava in effetti di un pallore troppo infantile; troppo alta la linea della vita, pareva una bambina di otto anni con addosso il vestitino della festa. Tanto valeva aggiungerci i bottoni a forma di 90
coniglietto. Avvicinandosi ancora, un’irregolarità nella superficie del vetro antico rimpicciolì la sua immagine, mettendo Cecilia a confronto con la bambina di quindici anni prima. Si fermò e, giusto per provare, si portò le mani ai capelli che divise in due codini. Quello stesso specchio doveva averla vista scendere le scale vestita così in decine di occasioni, diretta all’ennesima festicciola per il compleanno di una compagna. Non avrebbe giovato al suo stato d’animo presentarsi da basso assomigliando o credendo di assomigliare a Shirley Temple. In preda più a un senso di rassegnazione che a panico o sdegno, Cecilia ritornò in camera. Aveva le idee molto chiare: quelle impressioni tanto vivide quanto inaffidabili, l’eccesso di insicurezza, il fastidioso nitore visivo e l’arcana estraneità che aveva
avvolto
ogni aspetto
del familiare non
erano
altro
che
un
proseguimento, variazioni di come si era vista e sentita per tutto il giorno. Sensazioni che aveva preferito non trasformare in pensieri. Inoltre, sapeva benissimo che cosa doveva fare, l’aveva saputo sin dal principio. Aveva un solo vestito che le piacesse davvero, ed era quello che avrebbe dovuto indossare. Lasciò cadere l’abito rosa sulla pozza di quello nero, scavalcò con disprezzo il mucchio sul pavimento, e prese il vestito da sera, l’abito verde da mettere dopo gli esami. Mentre se lo infilava si godette la carezza morbida del tessuto tagliato di sbieco sulla seta della sottoveste, e si sentì liscia e inespugnabile, scivolosa e sicura; fu una sirena quella che incontrò il suo sguardo nello specchio ad altezza completa. Lasciò al loro posto le perle, tornò a infilarsi i tacchi neri, ancora una volta si ritoccò trucco e capelli, rinunciò a un’ulteriore passata di profumo e, mentre apriva la porta, diede in un grido di orrore. A pochi centimetri da lei stavano una faccia e un pugno levato. La sua percezione immediata e vertiginosa fu quella di un ritratto di estremo gusto cubista in cui lacrime, occhi gonfi e cerchiati, labbra umide e rosse, e naso colante, si mescolavano in un umidore scarlatto di pianto. Cecilia si riprese, posò le mani gentili sulle piccole spalle ossute e voltò con dolcezza il corpo del bambino in modo da riuscire a vedergli l’orecchio sinistro. Era Jackson, sul punto di bussare alla sua porta. Nell’altra mano, teneva una calza grigia. Facendo un passo indietro, Cecilia notò che il piccolo indossava pantaloncini grigi stirati di fresco e camicia bianca, ma era a piedi nudi. - Piccolino! Che ti succede? 91
Per il momento non era in grado di parlare. Quindi si limitò a sollevare il calzino e a usarlo per indicare il fondo del corridoio. Cecilia si sporse e vide Pierrot un po’ più in giù, scalzo a sua volta, e con un identico calzino in mano. - Avete una calza per uno, direi. Il bambino annuì trangugiando, e finalmente fu in grado di dire: - La signorina Betty dice che ce le prendiamo se non scendiamo subito a mangiare, ma noi abbiamo solo un paio di calze. - E litigate per chi se le deve mettere. Jackson
assentì
vigorosamente.
Mentre
procedeva
nel
corridoio
per
riaccompagnare i gemelli in camera, prima uno e poi l’altro la presero per mano e Cecilia fu stupita di quanto quel gesto la gratificasse. Non poteva fare a meno di pensare al suo vestito. - Non potevate chiedere aiuto a vostra sorella? - Ma lei adesso non ci parla. - E perché mai? - Perché ci odia. La loro stanza era una penosa baraonda di vestiti, asciugamani bagnati, bucce d’arancia, pagine strappate da un giornalino e incollate su fogli di carta, sedie rovesciate con le coperte buttate sopra, letti disfatti. Sul tappeto in mezzo ai due lettini c’era una grossa chiazza bagnata al centro della quale stavano un pezzo di sapone e mucchi di carta igienica umida. Una delle tende pendeva storta sotto la mantovana, e sebbene le finestre fossero aperte, l’atmosfera era pesante, come se non ci fosse riciclo d’aria. Il comò aveva tutti i cassetti aperti e svuotati. L’impressione era quella di una noia claustrofobica intervallata da un susseguirsi di gare e di iniziative: saltare da un letto all’altro, costruire una tenda, inventare un gioco da tavolo poi interrotto a metà. Nessun membro di casa Tallis si stava occupando dei gemelli Quincey, e per mascherare il senso di colpa, Cecilia disse con voce allegra: - Non troveremo mai niente in una stanza ridotta così. Incominciò a mettere ordine, rifacendo i letti, sfilandosi con un calcio le scarpe coi tacchi per montare su una sedia e sistemare la tenda, e assegnando ai bambini piccoli compiti alla loro portata. I ragazzi si mostrarono obbedienti alla lettera, ma silenziosi e avviliti, interpretando il comportamento di lei più come un castigo che come una liberazione, come un rimprovero e non una gentilezza. Si 92
vergognavano della loro camera. Ritta su quella sedia nel suo abito verde scuro aderente, mentre osservava le testoline rosse spostarsi di qua e di là intente alle loro faccende, la mente di Cecilia fu attraversata dalla banale considerazione di quanto dovesse essere triste e terrificante per loro ritrovarsi senza affetto, costretti a mettere insieme un’esistenza dal nulla, in una casa piena di estranei. Con difficoltà, perché non le era possibile piegare granché le ginocchia, ridiscese, sedette sul bordo di un letto e li invitò a mettersi accanto a lei, battendo con le mani sui due posti al suo fianco. Ma i bambini restarono in piedi a guardarla, in attesa. Cecilia adottò l’espressione vagamente cantilenante di una maestra d’asilo che aveva tanto ammirato. - Non e il caso di piangere per un paio di calze, giusto? Pierrot rispose: - Solo che a noi piacerebbe tornare a casa. Avvilita, Cecilia recuperò i toni di una conversazione da adulta. - Questo al momento non si può fare. La vostra mamma e a Parigi con... per una breve vacanza, e il vostro papà è occupato al college, perciò dovrete restare qui per un poco. Mi dispiace che siate stati trascurati. In piscina, però, vi siete divertiti... Jackson disse: - Noi volevamo recitare nello spettacolo, ma poi Briony se n’e andata via e non è ancora tornata. - Siete sicuri? - Qualcun altro di cui preoccuparsi. Briony doveva essere a casa da un pezzo ormai. Il che le ricordò quanta gente la stesse aspettando di sotto: sua madre, la cuoca, Leon, l’ospite, Robbie. Perfino la tiepida aria serale che, dalle finestre aperte alle sue spalle, invadeva la stanza imponeva determinate responsabilità; quella era il tipo di serata estiva che uno sogna per tutto l’anno. Eccola dunque, con il suo corredo di intensi profumi, piaceri spossanti, mentre Cecilia era troppo distratta da pretese altrui e faccende insignificanti per farle onore. Eppure doveva. Sarebbe stato ingiusto non farlo. Che paradiso, uscire in terrazza a sorseggiare un gin tonic con Leon. Dopotutto non era colpa sua se la zia Hermione era scappata con quell’essere odioso che ogni settimana alla radio pronunciava un discorso grondante retorica dei sentimenti. Basta con questa tristezza. Cecilia si alzò, battendo le mani. - Eh già, peccato per lo spettacolo, ma ormai non possiamo farci più niente. Allora, troviamo un paio di calze e muoviamoci. Dalle indagini svolte si scoprì che le calze con cui i gemelli erano arrivati erano 93
state messe a lavare e che, in preda alla sua incontenibile passione, la zia Hermione ne aveva infilato in valigia soltanto un altro paio. Cecilia raggiunse la stanza di Briony e frugò in un cassetto alla ricerca dell’articolo meno femminile che si potesse trovare: calzini bianchi alla caviglia con un disegno di fragole rosse e verdi intorno all’elastico. Immaginò che a quel punto si sarebbe scatenata una lite per accaparrarsi le calze grigie, ma fu vero il contrario, e per evitare ulteriori sgradevolezze, si vide costretta a tornare in camera di Briony e prenderne un altro paio. Questa volta si fermò a sbirciare nel crepuscolo fuori dalla finestra chiedendosi dove potesse essere la sorella. Annegata nel lago, rapita dagli zingari, pensò come in un rituale che affondava le proprie radici nel sano principio che le cose non sono mai come uno le immagina ed era perciò possibile scongiurare in tal modo il peggio. Di ritorno dai gemelli, sistemò i capelli di Jackson con un pettine intinto nell’acqua di un vaso da fiori, tenendogli il mento fermo tra pollice e indice mentre gli disegnava una scriminatura sottile e precisa sul cuoio capelluto. Pierrot attese paziente il suo turno, poi, senza dire una parola, i due bambini corsero insieme da basso ad affrontare le ire di Betty. Cecilia li seguì senza fretta, superando lo specchio malevolo con uno sguardo che la soddisfece pienamente. O meglio, ormai le importava di meno, perché il suo stato d’animo era cambiato dopo essere stata con i due ragazzi, e tra i suoi pensieri si era insinuata una vaga determinazione che prese forma senza contenuti specifici ne piani precisi: semplicemente doveva andarsene di casa. L’idea era tranquillizzante e piacevole, tutt’altro che angosciosa. Raggiunse il pianerottolo della prima rampa di scale e si fermò. Di sotto, la madre, piena di sensi di colpa per aver trascurato i propri doveri familiari, stava di certo profondendo ansia e confusione in chi le stava intorno. A tale miscela occorreva aggiungere la notizia, qualora ce ne fosse stata conferma, della scomparsa di Briony. Le ricerche avrebbero avuto l’effetto di espandere il tempo e la preoccupazione. Intanto sarebbe arrivata la telefonata dal ministero in cui il signor Tallis annunciava che, dovendo lavorare fino a tardi, sarebbe rimasto in città. Leon, che aveva un dono speciale per non assumersi mai le proprie responsabilità, non avrebbe di certo preso il posto del padre. Questo, in linea teorica, sarebbe quindi passato alla signora Tallis; di fatto però 94
il successo della serata sarebbe finito nelle mani di Cecilia. Tutto era chiaro e non valeva la pena di tentare di contrastarlo: non avrebbe potuto abbandonarsi ai languori della notte estiva, niente lunghe chiacchierate con Leon, nessuna passeggiata a piedi nudi sul prato illuminato dalle stelle. Sentì sotto le dita il legno di pino lucido e chiazzato di nero del corrimano, un richiamo allo stile neogotico tanto solido quanto falso. Sulla sua testa, appeso a tre catene, pendeva un lampadario di ferro battuto che non aveva mai visto acceso in tutta la sua vita. Si preferiva invece fare ricorso a un paio di lampade a muro riparate dalla breve curva di paralumi in finta pergamena. Al loro chiarore giallo e brodoso Cecilia procedette senza fare rumore sul pianerottolo per lanciare un’occhiata verso la stanza della madre. La porta semiaperta, la colonna di luce sulla moquette del corridoio, confermarono che Emily Tallis si era alzata dal letto. Cecilia tornò alla scala, e indugiò ancora, riluttante all’idea di scendere. Ma non aveva più scelta. Non c’era nulla di nuovo nella gestione della vita domestica e Cecilia non se ne lasciò affliggere. Due anni prima il padre si era rintanato nei preparativi dei documenti di un fantomatico studio per il ministero degli Interni. Sua madre era sempre vissuta nella zona d’ombra della sua invalidità, Briony da sempre aveva preteso premure materne dalla sorella maggiore, e Leon se l’era sempre svignata da uomo libero, ragione per cui lei lo amava tanto. Non avrebbe mai creduto che potesse essere tanto facile scivolare nei vecchi ruoli. Cambridge l’aveva cambiata radicalmente e credeva di essersi costruita una forma di immunità. Nessun membro della famiglia, tuttavia, notò la trasformazione verificatasi in lei, e Cecilia non fu in grado di resistere alla forza delle loro aspettative abituali. Non riteneva nessuno responsabile del fenomeno, ma aveva passato l’estate a ciondolare per casa, incoraggiata dal vago progetto di ristabilire un legame importante con la famiglia. Si accorse però che quel legame non si era mai interrotto, e che comunque entrambi i genitori erano assenti, sebbene in modo diverso, che Briony era persa nelle sue fantasticherie e che Leon se ne stava in città. Era venuto il momento di proseguire, di andare oltre. Sentiva il bisogno di un’avventura. Una coppia di zii l’aveva invitata ad accompagnarli a New York. La zia Hermione si trovava a Parigi. Poteva andare a Londra e trovarsi un lavoro: era quello che il padre si aspettava da lei. Quel che provava non era inquietudine, ma 95
euforia, e non avrebbe permesso a quella serata di abbatterla. Ci sarebbero state altre serate belle così, e, per godersele, doveva assicurarsi di essere altrove. Corroborata da questa nuova certezza - la scelta dell’abito adatto aveva di certo contribuito -, attraversò l’atrio, spinse la porta foderata di panno verde, e procedette lungo il corridoio a piastrelle bianche e nere, diretta in cucina. Si introdusse in una nuvola dove teste disincarnate fluttuavano ad altezze diverse, come studi sul taccuino di schizzi di un artista; ma gli occhi di tutti erano rivolti a qualcosa di esposto sul tavolo che l’ampia schiena di Betty nascondeva alla vista di Cecilia. Il diffuso bagliore rossastro a pochi centimetri da terra proveniva dal fuoco a carbone della doppia stufa, il cui sportello venne a quel punto chiuso con gran rumore e con un’esclamazione irritata. Il vapore saliva denso da una marmitta d’acqua alla quale nessuno badava. L’aiuto-cuoca, Doll, una smunta ragazzetta del paese con i capelli raccolti in una crocchia severa, si trovava all’acquaio intenta a sfregare coperchi di pentole con rumoroso malgarbo, tuttavia anche lei era mezza girata per vedere quello che Betty aveva posato sul tavolo. Una delle facce apparteneva a Emily Tallis, un’altra al vecchio Hardman e una terza a Danny, suo figlio. Sospese su tutte le altre e comprese in un’espressione solenne, stavano quelle di Jackson e Pierrot, che forse erano in piedi su due sgabelli.- Cecilia sentì addosso lo sguardo del giovane Hardman. Lo ricambiò con ferocia e fu contenta di constatare di averlo costretto a distoglierlo per primo. La fatica in cucina era stata lunga e penosa, in quel caldo, e se ne scorgevano i segni dovunque. Il pavimento di pietra era lucido per gli schizzi di grasso di carne e ingombro di bucce; strofinacci fradici, tributi di eroiche fatiche già dimenticate, pendevano sulla stufa come vessilli militari in una chiesa; sfiorava il polpaccio di Cecilia un cesto stracolmo di avanzi di verdura che Betty intendeva portarsi a casa per darlo in pasto al suo maiale pezzato all’ingrasso fino a dicembre. La cuoca diede un’occhiata oltre la spalla per controllare chi fosse entrato, e prima che tornasse a voltarsi, ci fu tempo di intravedere la furia dentro ai suoi occhi che le guance grasse riducevano a due strette fessure gelatinose. - Levatelo subito! - urlava. Senza ombra di dubbio l’irritazione era rivolta alla signora Tallis. Doll schizzò dall’acquaio alla stufa, rischiò di scivolare a terra, e afferrò due stracci per trascinare il calderone via dal calore. Dalla foschia emerse Polly, la cameriera che tutti definivano buona ma limitata e che si fermava 96
sempre fino a tardi se c’era da fare. Anche i suoi grandi occhi ingenui erano fissi sul tavolo della cucina. Cecilia fece il giro dietro Betty per vedere ciò che tutti gli altri stavano osservando: un enorme vassoio annerito appena estratto dal forno e pieno di patate arrosto che continuavano a sfrigolare. Dovevano essere un centinaio, distribuite in file irregolari color oro pallido, e Betty manovrava la spatola per scrostarle dal fondo e rigirarle. La parte sottostante brillava di un giallo più carico e appiccicoso, qua e là bordato di un marrone madreperlaceo, mentre intorno alle zone dove il calore aveva fatto esplodere la buccia si apriva a fiore la filigrana di un merletto bruno. Erano, o sarebbero state, perfette. Rigirata anche l’ultima fila, Betty disse: - Vorrebbe fare un’insalata di patate con queste, signora? - Esatto. Tagliate via le parti bruciate, asciugate il grasso, mettetele nell’insalatiera toscana, quella grossa, cospargete di abbondante olio d’oliva e poi... - con un gesto vago, Emily indicò la fruttiera accanto alla porta della dispensa dove poteva forse trovarsi un limone. Betty parlò rivolta al soffitto: - Per caso vuole anche un’insalata di cavolini di Bruxelles? - Betty, ti prego. - E perché non un’insalata di cavolfiore al gratin. Condita con salsa di rafano? - Stai facendo un mucchio di storie per niente. - Ma si, e un’insalata di sformato di pane, magari. Uno dei gemelli scoppiò a ridere. Nell’attimo stesso in cui Cecilia immaginò che cosa sarebbe successo a quel punto, la cosa si verificò. Betty si volse verso di lei, l’afferrò per un braccio, e pronunciò la sua supplica: - Signorina, ci e stato ordinato un arrosto e noialtre siamo state qui a sfacchinare tutto il santo giorno con una temperatura da far bollire il sangue. La scena era inedita, gli spettatori rappresentavano un elemento insolito, ma il dilemma era piuttosto familiare: come riuscire a recuperare la pace domestica senza umiliare la mamma. Inoltre, Cecilia non dimenticava di voler uscire in terrazza col fratello; era perciò importante schierarsi con la fazione vincente e giungere al più presto a una conclusione. Prese da parte la madre, e Betty, 97
sapendo abbastanza bene come comportarsi, ordinò a tutti i presenti di tornare al proprio lavoro. Emily e Cecilia Tallis si appartarono accanto alla porta affacciata sul cortile. - È in corso un’ondata di caldo, perciò non intendo rinunciare a servire ai miei ospiti un’insalata. - Emily, lo so che fa un caldo terribile, ma Leon non vede assolutamente l’ora di riassaggiare uno dei celebri arrosti di Betty. Non fa che dirlo. L’ho appena sentito parlarne in toni entusiastici con il signor Marshall. - Oh, mio Dio, - commentò Emily. - Io sono d’accordo con te. Non ho voglia di arrosto. La cosa migliore è offrire a ciascuno una scelta. Manda Polly a raccogliere un po’ di lattuga. Abbiamo delle barbabietole in dispensa. Betty può lessare qualche altra patata e lasciarla intiepidire. - Tesoro, hai ragione. Sai, mi dispiacerebbe moltissimo deludere il nostro piccolo Leon. Così si decise e l’arrosto fu salvo. Con sapiente bel garbo, Betty mise Doll al lavoro su un mucchio di patate da sbucciare, e Polly andò nell’orto con un coltello. Mentre uscivano dalla cucina, Emily mise gli occhiali da sole e disse: - Meno male che questa è sistemata, perché il mio cruccio più grosso in realtà e Briony. Deve essere sconvolta, lo so. È fuori a smaltire il cattivo umore e adesso voglio andare a recuperarla. - Ottima idea. Ero in pensiero per lei anch’io, - disse Cecilia. Non aveva alcuna intenzione di dissuadere la madre dal tenersi alla larga dalla terrazza. Il salone che quella mattina le aveva trafitto la vista con i suoi parallelogrammi di luce accecante, si trovava adesso in una penombra appena rischiarata da una lampada accesa accanto al camino. La porta finestra aperta incorniciava un cielo verdastro sullo sfondo del quale si stagliava il profilo ben noto di suo fratello. Attraversando la stanza, udì il tintinnio dei cubetti di ghiaccio dentro un bicchiere, e uscendo fu accolta dal profumo di camomilla, mentuccia e partenio pestati, reso ancora più intenso dall’aria della sera. Nessuno ricordava il nome e nemmeno l’aspetto del giardiniere che qualche anno prima si era messo in mente di seminare i ritagli di 98
terra in mezzo alle pietre. Al tempo, nessuno aveva capito che cosa gli passasse per la testa. E forse per quella ragione era stato licenziato. - Sorellina, e più di mezz’ora che sono qua fuori a cuocere. - Scusami, dov’è il mio bicchiere? Su un tavolino basso di legno accostato al muro della villa stava una lampada a olio, intorno a cui era stato allestito un piccolo bar rudimentale. Alla fine Cecilia ebbe in mano il suo gin tonic. Si accese una sigaretta usando quella di Leon e fecero battere appena i bicchieri. - Bel vestitino. - Riesci a vederlo? - Girati. Stupendo. Non mi ricordavo del neo. - Com’è la banca? - Noiosa, una meraviglia. Viviamo in attesa della sera e dei fine settimana. Quando pensi di raggiungerci? Si allontanarono dalla terrazza incamminandosi sul sentiero di ghiaia in mezzo al roseto. Davanti a loro si ergeva la fontana del Tritone, una massa color dell’inchiostro i cui complicati contorni si stagliavano contro un cielo sempre più verde a mano a mano che calava la luce. Udivano lo sgocciolio, e a Cecilia parve di poterne sentire anche l’odore metallico e penetrante. O forse proveniva dal bicchiere che aveva in mano. Dopo un breve silenzio disse: - Sto un po’ impazzendo qui a casa. - Sei tornata a fare da madre a tutti, giusto? Sai che ora le ragazze trovano un mucchio di impieghi? Danno perfino gli esami per entrare nella pubblica amministrazione. Pensa come sarebbe contento il vecchio. - Non mi accetterebbero mai, con il minimo dei voti. - Una volta che entri nel giro ti accorgi che quelle cose non significano niente. Raggiunsero la fontana e si voltarono verso la villa, senza parlare per un po’, appoggiati
al
parapetto
sul
luogo
della
vergogna
di
lei.
Che
ridicola
sconsideratezza, ma soprattutto, che imbarazzo. Il tempo soltanto, un pudibondo velo di ore, impediva al fratello di vederla per come era stata. Ma con Robbie non avrebbe potuto godere di un’analoga protezione. Lui l’aveva vista, e sarebbe stato in grado di rivederla in ogni momento, anche quando il ricordo si fosse ridotto a un semplice aneddoto da pub con gli amici. Cecilia era ancora seccata con suo 99
fratello per quell’invito, ma aveva bisogno di lui, voleva partecipare alla sua libertà. Perciò lo incoraggiò premurosa a metterla al corrente delle novità. Nella vita di Leon, o meglio nel racconto che Leon ne faceva, non esisteva nessun malintenzionato, nessun bugiardo, ne traditori ne imbroglioni. A tutti spettava una forma di elogio, come se fosse motivo di meraviglia l’esistenza stessa di ognuno. Leon ricordava le migliori battute di tutti gli amici. I suoi aneddoti avevano sull’interlocutore l’effetto di intenerirlo nei riguardi del genere umano e dei suoi difetti. Ogni individuo era, come minimo, «un pezzo di pane» o «una persona per bene», e non si prendeva nemmeno in considerazione l’ipotesi di una discrepanza tra motivazioni interiori e condotta pubblica. Notando un mistero o una contraddizione in un amico, Leon adottava uno sguardo lungimirante che gli consentiva di trovare una spiegazione benevola del fenomeno. Letteratura e politica, scienza e religione non lo annoiavano, semplicemente non avevano posto dentro il suo mondo, come pure nessuno dei tanti problemi su cui la gente si trovava in disaccordo. Si era preso una laurea in legge ed era ben lieto di aver scordato l’intera esperienza. Era difficile immaginarlo triste, annoiato o depresso; dotato di una serenità d’animo senza fondo, come di una totale mancanza di ambizioni, presumeva che gli altri fossero come lui. Ciononostante, la sua indolenza risultava tollerabile, per non dire confortante. All’inizio parlò del club di canottaggio. Di recente era stato eletto primo rematore della sua squadra, ma sebbene fossero stati tutti molto gentili, lui preferiva prendere il ritmo da un altro. Analogamente, alla banca si era parlato di una promozione, ma quando poi non se n’era fatto più nulla, lui aveva provato sollievo. Poi le ragazze: Mary l’attrice, insuperabile interprete della commedia Vite private, si era trasferita all’improvviso a Glasgow e nessuno sapeva perché. Leon sospettava che fosse andata a occuparsi di un parente malato. Francine, che parlava un francese perfetto e aveva scandalizzato tutti quanti usando il monocolo, era stata con lui la settimana prima a uno spettacolo di Gilbert e Sullivan e, nell’intervallo, avevano visto il re che per un attimo pareva addirittura aver rivolto lo sguardo nella loro direzione. La dolcissima, affidabile e «ben introdotta» Barbara, che secondo jack ed Emily sarebbe stata una moglie perfetta per lui, l’aveva invitato a passare una settimana nelle Highlands a casa dei suoi. 100
Leon pensava che sarebbe stato scortese non accettare. Ogni volta che pareva sul punto di smettere, Cecilia lo incoraggiava con un’ulteriore domanda. Inspiegabilmente il suo affitto all’Albany era diminuito. Un vecchio amico aveva messo incinta una ragazza con un difetto di pronuncia, l’aveva sposata e adesso era assolutamente felice. Un altro aveva deciso di comprarsi una motocicletta. Il padre di un conoscente aveva acquistato una fabbrica di aspirapolvere e diceva che era come possedere una zecca. La nonna di qualcuno veniva definita eroina d’altri tempi per aver camminato per circa un chilometro su una gamba rotta. Dolci come l’aria della sera, quelle chiacchiere l’avvolgevano e la penetravano, evocando l’immagine di un mondo fatto di buone intenzioni e di lieti fini. Spalla a spalla, ora seduti, ora in piedi, i due fratelli guardavano la casa della loro infanzia i cui rimandi medievali architettonicamente confusi apparivano ormai come spensierati capricci; l’emicrania della mamma era l’interludio comico di un’operetta, la tristezza dei gemelli una stravaganza sentimentale, l’incidente in cucina nient’altro che un’allegra baruffa tra spiriti vivaci. Quando venne il suo turno di raccontare quel che le era accaduto negli ultimi mesi, le fu impossibile non lasciarsi influenzare dal tono di Leon, anche se, nella sua versione, finì purtroppo per suonare ironico. Cecilia prese in giro il proprio tentativo di redigere un albero genealogico; quello della famiglia Tallis era brullo e spoglio, oltre che senza radici. Il nonno Harry era figlio di un bracciante agricolo che per qualche ignota ragione aveva scelto di non chiamarsi più Cartwright, ma di lui non esistevano ne l’atto di nascita ne il certificato di matrimonio. Quanto a Clarissa e a tutte le ore passate raggomitolata su un letto a farsi venire formiche e spilli nel braccio, l’esperienza si era rivelata opposta a quella della lettura del Paradiso perduto: l’eroina diventava sempre più odiosa a mano a mano che ne veniva alla luce la fatale vocazione virtuosa. Leon assentiva con aria assorta; non faceva finta di sapere di che cosa sua sorella stesse parlando, e neppure la interrompeva. Cecilia descrisse con toni farseschi le sue settimane di noia e di solitudine, raccontando di come fosse tornata per stare con la famiglia, e per fare ammenda della sua lunga assenza, per poi trovare genitori e sorella a loro volta assenti in modi diversi; incoraggiata dalla generosa reazione di ilarità del fratello, azzardò un 101
resoconto comico del suo crescente bisogno quotidiano di sigarette, di Briony nell’atto di strappare la locandina dello spettacolo, dei gemelli fuori dalla loro camera ciascuno con un calzino in mano, e del desiderio della madre che si verificasse per il banchetto di quella sera il miracolo di una trasformazione di patate arrosto in un’insalata. Leon non colse il riferimento biblico. Tutto ciò che Cecilia diceva era carico di disperazione, mascherava un vuoto profondo, o qualcosa di innominato e rimosso che la faceva parlare più in fretta, o esagerare, sempre meno convinta. La gradevole insulsaggine della vita di Leon costituiva un raffinato artificio di ingannevole disinvoltura; i confini angusti della sua esistenza erano stati raggiunti grazie a una meticolosa fatica invisibile unita a una serie di doni personali con cui Cecilia non aveva speranza di rivaleggiare. Lo prese sottobraccio, stringendolo affettuosamente. Ecco un’altra caratteristica di Leon: malleabile e incantevole in compagnia, ma sotto il tessuto della giacca il suo braccio aveva la consistenza di un legno duro tropicale. Lei invece si sentiva cedevole a tutti i livelli, e trasparente. Leon la stava guardando con tenerezza. - Che hai, Cee? - Niente. Davvero. - Dovresti proprio venire a stare da me e guardarti un po’ intorno. C’era qualcuno in terrazza e in salone si erano accese le luci. Briony chiamò per nome fratello e sorella. Leon rispose: - Siamo quaggiù. - Sarà meglio che rientriamo, - disse Cecilia, e senza lasciare il suo braccio si avviò verso casa. Mentre passavano tra le rose, si chiese se avesse in effetti voglia di dirgli qualcosa. Confessargli il comportamento della mattina non era certo pensabile. - Mi piacerebbe tanto venire in città -. Già mentre lo diceva si immaginò nell’atto di rientrare alla base, incapace di fare il bagaglio o di montare su un treno. Forse non voleva davvero andarsene, ma ripeté a se stessa con voce un po’ più animata: - Mi piacerebbe. Briony aspettava in terrazza, impaziente di salutare il fratello. Qualcuno le disse qualcosa da dentro e lei rispose girando appena la testa. Mentre si avvicinavano, Cecilia e Leon udirono ancora la voce: era la madre che si sforzava 102
di assumere un tono severo. - Non voglio ripeterlo più. Ora vai di sopra, ti lavi e ti cambi. Indugiando con lo sguardo nella loro direzione, Briony si incamminò verso le porte finestre. Aveva qualcosa in mano. Leon stava dicendo: - Potremmo trovarti una sistemazione in pochissimo tempo. Quando entrarono nel salone, alla luce di molte lampade accese, Briony era ancora lì, ancora scalza e con indosso il lurido vestito bianco, mentre la madre la guardava con un sorriso indulgente dal fondo della stanza. Leon tese le braccia e sfoderò la parlata buffa che riservava soltanto a lei. - Ma tu guarda un po’ chi si vede. La mia sorellina! Passandole accanto di corsa, Briony infilò in mano a Cecilia un pezzo di carta piegato in due, poi squittì il nome del fratello e gli saltò tra le braccia. Sentendosi addosso lo sguardo di Emily, Cecilia adottò un’espressione di divertita curiosità mentre apriva il messaggio. E la mantenne lodevolmente anche scorrendo i minuscoli caratteri del dattiloscritto di cui colse il senso alla prima occhiata: un’unità di significato la cui forza e il cui tono erano concentrati in una sola parola ripetuta. A un passo da lei, Briony stava raccontando a Leon tutto quanto sullo spettacolo che aveva scritto apposta per lui, e si lamentava dell’impossibilità di metterlo in scena. Le disavventure di Arabella, continuava a ripetere. Le disavventure di Arabella. Non era mai stata tanto euforica, così stranamente eccitata. Gli teneva ancora le braccia al collo e stava in punta di piedi per sfregare una guancia contro la sua. In un primo tempo, un’unica frase girò a vuoto nei pensieri di Cecilia. Certo, ma certo. Come aveva fatto a non accorgersene? Adesso era tutto chiaro. L’intera giornata, le settimane che l’avevano preceduta, la sua infanzia. Una vita. Ora capiva. Perché mai, altrimenti, metterci tanto a scegliere un vestito, o litigare per un vaso, o vedere ogni cosa in modo tanto diverso, o non riuscire a trovare la forza di andarsene? Come aveva potuto essere tanto cieca, tanto ottusa? Erano trascorsi parecchi secondi, e non era più plausibile continuare a fissare un foglio di carta. Il gesto di ripiegarlo le fece comprendere qualcosa di ovvio: quel messaggio non poteva non essere stato inviato in busta chiusa. Si girò verso la 103
sorella. Leon le stava dicendo: - Senti questa. Io sono bravissimo a fare le voci, e tu sei perfino più in gamba. Possiamo leggerla insieme. Cecilia si spostò per andare a piazzarsi nel campo visivo di Briony. - Briony? Briony, hai letto questo? Ma Briony, impegnata a rispondere con un trillo alla proposta del fratello, gli si contorse fra le braccia e, allontanando il viso dallo sguardo della sorella, si nascose quasi del tutto nella giacca di Leon. Dal fondo della sala, Emily disse pacata: - Su, calmati, ora. Ancora una volta Cecilia cambiò posizione spostandosi sull’altro lato del fratello. - Dov’è la busta? Briony distolse di nuovo la testa e rise forte per qualcosa che Leon le stava dicendo. A quel punto Cecilia si rese conto con la coda dell’occhio di un’altra figura che si muoveva dietro di lei e, voltandosi, si ritrovò di fronte Paul Marshall. In una mano reggeva un vassoio d’argento con sopra cinque bicchieri da cocktail, pieni di un denso liquido marrone. Ne sollevò uno e glielo offrì dicendo: - Dovete assaggiarlo. Insisto.
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Capitolo decimo La complessità stessa dei suoi sentimenti consolidò in Briony la certezza di trovarsi sulla soglia di un teatro di emozioni adulte e di segreti dai quali la sua scrittura non poteva che trarre vantaggio. Quale racconto fiabesco avrebbe mai potuto contenere altrettanto in termini di contraddizioni? Una curiosità sfrenata e selvaggia l’aveva spinta a strappare la lettera dalla busta - la lesse nell’atrio appena Polly l’ebbe fatta entrare -, e sebbene la violenza del messaggio la scagionasse completamente, ciò non le impedì di sentirsi in colpa. Era sbagliato aprire la corrispondenza d’altri; in compenso era giusto, anzi fondamentale, che lei sapesse ogni cosa. Rivedere suo fratello era stata una gioia, ma non poteva negare di aver esagerato con l’entusiasmo per evitare di rispondere alla domanda inquisitoria della sorella. E subito dopo aveva solo finto quello zelo nell’obbedire al comando di sua madre che la mandava in camera; oltre che sottrarsi a Cecilia, le occorreva anche rimanere sola per riflettere su Robbie alla luce dei fatti, e per formulare il paragrafo iniziale di un racconto pervaso di vita vera. Basta con le principesse! La scena presso la fontana, l’atmosfera greve di minaccia e, alla fine, quando i due giovani se ne erano andati ognuno per la propria strada, la luminosa assenza che aleggiava sulla chiazza bagnata della ghiaia, tutto questo andava ripensato. La lettera, poi, aveva introdotto nella storia un elemento essenziale, forse perfino delittuoso, un principio di tenebra, e nonostante l’euforia per le possibilità che le si offrivano, Briony non dubitava che la sorella dovesse trovarsi in qualche modo in pericolo e avesse bisogno del suo aiuto. Quella parola: cercò di impedirle di riecheggiare dentro i suoi pensieri, ma continuava a danzarvi oscenamente, come un demone tipografico, estraendo dal cilindro di un fantomatico prestigiatore assonanze e anagrammi - un sinonimo di vecchissima; un’erba odiosa e pungente; una persona preziosa come un tesoro; la parte molle del pane; o, per associazione sillabica, un frutto dolcissimo; il modo infantile di dire paura; un ordine di soldati. Naturalmente non l’aveva mai sentita pronunciare, né l’aveva mai vista stampata, nemmeno tra virgolette. Nessuno in sua presenza aveva mai fatto menzione dell’esistenza di una parola simile, ma soprattutto
nessuno,
compresa
sua
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madre,
aveva
mai
fatto
menzione
dell’esistenza della parte del suo corpo alla quale - Briony ne era sicurissima - la parola si riferiva. Non aveva alcun dubbio che fosse proprio quella cosa li. Il contesto aiutava senz’altro, e oltretutto la parola aderiva perfettamente al proprio significato, era quasi onomatopeica. Le forme lunghe e avvolgenti delle prime tre lettere risultavano chiare come disegni su un manuale di anatomia. Tre figure raccolte intorno all’apertura dell’ultima vocale. Il fatto poi che la parola fosse stata scritta da un uomo che, ammettendone la presenza costante nei propri pensieri, confessava un’ossessione solitaria, la disgustava nel profondo. Aveva letto il messaggio sfacciatamente, ferma in mezzo all’atrio, non mancando di percepire all’istante il pericolo presente in tanta volgarità. Qualcosa di irriducibilmente umano, di maschile anzi, minacciava l’ordine della famiglia, e Briony sapeva che, se non avesse aiutato la sorella, ne avrebbero sofferto tutti. Era altrettanto chiaro però che doveva trattarsi di un aiuto discreto, delicato. Altrimenti, come Briony aveva imparato per esperienza diretta, Cecilia se la sarebbe presa con lei. Erano questi i pensieri che l’assillavano mentre si lavava mani e faccia e procedeva alla scelta di un vestito. Le calze che voleva mettersi non si trovavano, ma non perse tempo in futili ricerche. Ne infilò un altro paio, si allacciò le scarpe e sedette alla scrivania. Di sotto stavano bevendo l’aperitivo, perciò le restavano ancora una ventina di minuti. I capelli poteva spazzolarseli uscendo. Dalla finestra aperta proveniva il verso di un grillo. Una risma di carta dell’ufficio di suo padre le stava di fronte, la lampada accesa disegnava un rassicurante cerchio giallo sul legno, la penna stilografica era stretta nella sua mano. Lo spiegamento ordinato di animali della fattoria sul davanzale e le rigide bambole piazzate in varie stanze della loro villa scoperchiata attendevano fiduciosi il gioiello della sua prima frase. In quel momento, l’urgenza di scrivere era più forte di qualunque idea narrativa. Quello che voleva era smarrirsi tra le pieghe di un’idea irresistibile, osservare il filo nero che si srotolava dalla punta del suo pennino d’argento avvolgendosi in parole. Ma come rendere giustizia ai cambiamenti che avevano fatto finalmente di lei una vera scrittrice, allo sciame caotico delle sue impressioni, e al disgusto misto a incanto che provava? Occorreva imporre un ordine. Doveva incominciare, come aveva stabilito in precedenza, dal semplice racconto di ciò che aveva visto 106
vicino alla fontana. Ma l’episodio verificatosi alla luce del sole non era interessante quanto il crepuscolo, quei minuti passati a vagare fantasticando sul ponte, e la comparsa di Robbie che la chiamava per nome nella semioscurità, tenendo in mano il piccolo quadrato bianco nel quale era contenuta la lettera che conteneva a sua volta la parola. E che cosa conteneva la parola? Scrisse: «C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: Raccontami una storia. La storia incominciò: C’era una volta un re, seduto...» Sicuramente non era troppo infantile affermare che un intreccio occorreva comunque; e quella era la storia di un uomo ben voluto da tutti, ma sul quale la protagonista nutriva da sempre dei dubbi, riuscendo alla fine a dimostrare che si trattava dell’incarnazione stessa del male. Un momento però, non ci si aspettava ormai che lei, vale a dire Briony, l’autrice, fosse diventata così esperta delle cose del mondo da rivelarsi al di sopra di ingenuità fiabesche come la distinzione tra bene e male? Doveva esistere un luogo nobile, un tribunale divino dove la gente era giudicata tutta allo stesso modo, non spinta a farsi la guerra in una specie di eterna partita di hockey, bensì a scambiarsi chiassose battute in tutta la sua imperfezione. Se un posto del genere esisteva, lei non ne era degna. Perché non avrebbe mai potuto perdonare a Robbie i suoi ripugnanti pensieri. Intrappolata tra l’urgenza di scrivere una semplice cronaca dei fatti della giornata, e l’ambizione di trarne qualcosa di più importante, un racconto ordinato, formalmente composto e ricco di mistero, Briony rimase parecchi minuti a fissare pensosa il foglio di carta con la sua citazione infantile, incapace di aggiungere una parola. Le azioni, pensava, era in grado di descriverle abbastanza bene, e per i dialoghi aveva talento. Non aveva problemi a tratteggiare una foresta d’inverno, o il muro tetro di un vecchio castello. Ma come procedere coi sentimenti? Tutto bene finché si trattava di dire che la protagonista si sentiva triste, oppure di raccontare ciò che una persona triste può fare, ma come si affronta la tristezza in quanto tale, come la si comunica in modo che il lettore possa sentirne tutta la deprimente immediatezza? Ancor peggio erano la paura, o la confusione generata da sentimenti contraddittori. Penna alla mano, Briony fissava in fondo alla stanza l’espressione poco incoraggiante delle sue bambole, remote compagne di un’infanzia che riteneva ormai conclusa. Non era entusiasmante, crescere. Non si sarebbe mai più seduta in braccio a Emily o a 107
Cecilia, nemmeno per scherzo. Due estati prima, quando aveva compiuto undici anni, i genitori, il fratello, la sorella e una quinta persona che non ricordava chi fosse, l’avevano portata fuori sul prato e l’avevano lanciata in aria, da una coperta tesa, undici volte, più una di buon augurio. Avrebbe mai potuto adesso abbandonarsi alla libertà di quel volo, alla cieca fiducia della stretta affettuosa di tante mani adulte, sapendo che la quinta persona poteva benissimo essere Robbie? Il rumore di una voce femminile nell’atto di schiarirsi la gola la fece trasalire, e sollevò lo sguardo. Era Lola. Si sporgeva con aria di scuse dentro la stanza, e non appena i loro occhi si incontrarono, batté sulla porta con le nocche. - Posso entrare? Lo fece comunque, avanzando con passi un po’ impacciati dall’aderentissimo abito di raso azzurro che indossava. Aveva i capelli sciolti e i piedi scalzi. Mentre si avvicinava, Briony depose la penna e coprì la frase già scritta con l’angolo di un libro. Lola sedette sul bordo del letto ed emise uno sbruffo teatrale. Pareva quasi che fossero abituate a chiudere le giornate con qualche confidenza. - Ho passato una serata tremenda. Quando Briony si vide costretta dallo sguardo implacabile della cugina a sollevare almeno un sopracciglio, Lola proseguì: - I gemelli mi hanno torturato. Briony considerò l’espressione un semplice modo di dire fino al momento in cui la cugina non torse la spalla per mostrarle, sulla parte alta del braccio, un lungo graffio. - Ma e orribile! Lola tese in avanti i polsi. Su entrambi erano evidenti i cerchi congestionati di una stretta. - Ti hanno fatto gli spilli! - Esatto. - Ti prendo un po’ di disinfettante per il braccio. - Ho già fatto da sola. Era vero, l’aroma dolciastro del profumo di Lola non bastava a nascondere un vago odore di antisettico. Il meno che Briony potesse fare era alzarsi dalla scrivania e andarsi a sedere accanto alla cugina. - Poveretta! 108
La compassione di Briony riempì di lacrime gli occhi di Lola, e la sua voce si velò di pianto: - Pensano tutti che siano due angioletti solo perché sono uguali, e invece sono due piccoli bruti. Trattenne un singhiozzo, cercando di eliminare con un morso il tremito della mandibola, poi inspirò più volte spalancando le narici. Briony le prese la mano e credette di capire come fosse possibile volerle bene. Poi si diresse alla cassettiera a prendere un fazzoletto, l’apri e glielo diede. Lola stava per adoperarlo, ma la vista dei disegni vivaci stampati sulla tela, che raffiguravano bambine cowboy e spirali di lazos, le fece emettere un suono acuto, di quelli che fanno i ragazzi per imitare i fantasmi. Dal piano di sotto si udì il campanello alla porta, e qualche secondo più tardi, il rapido ticchettio di tacchi alti sulle piastrelle dell’ingresso. Doveva essere Robbie, e Cecilia andava personalmente ad aprirgli. Preoccupata al pensiero che il pianto di Lola potesse sentirsi da basso, Briony si rialzò e andò a chiudere la porta della stanza. La disperazione della cugina le aveva messo addosso una specie di irrequietezza, un’euforia prossima alla gioia. Tornò al letto e cinse con un braccio Lola, che si portò le mani sul viso e scoppiò a piangere. Il fatto che una ragazza tanto energica e prepotente potesse lasciarsi ridurre così da un paio di ragazzini di nove anni lasciava Briony stupefatta, e la faceva sentire molto più forte. Ecco da cosa nasceva quella sua sensazione prossima alla felicità. Forse non era poi così debole come aveva sempre creduto; dopotutto, ci si misura rapportandosi agli altri, non esiste alternativa. Di quando in quando, in modo assolutamente involontario, arriva qualcuno e ti insegna qualcosa sul tuo conto. Incapace di trovare parole, massaggiò con tenerezza una spalla della cugina e pensò che Jackson e Pierrot non potevano essere gli unici responsabili di tanto dolore; si ricordò che c’era altra sofferenza nella vita di Lola. Casa loro era su nel nord; Briony immaginò fabbriche annerite dal fumo, e brutta gente che si trascina al lavoro con un pasto squallido dentro pietanziere metalliche. Casa Quincey era stata chiusa e forse non avrebbe riaperto mai più. Lola si stava riprendendo. Briony le chiese dolcemente: - Che cosa è successo? La ragazza più grande si soffiò il naso e ci pensò su un momento. - Mi stavo 109
preparando per fare il bagno. Loro due sono entrati come furie e mi si sono buttati addosso. Sono finita per terra... - Al ricordo si interruppe per trangugiare un altro singhiozzo. - Ma perché devono comportarsi così? Lola trasse un lungo respiro e si ricompose. Fissò un punto nel vuoto in fondo alla stanza. - Vogliono tornare a casa. E io ho detto loro che non si può. Così si sono messi in testa che sono io a trattenerli qua. I gemelli dunque sfogavano senza ragione il loro senso di impotenza sulla sorella: tutto ciò risultava plausibile agli occhi di Briony. Ma quello che la tormentava al momento era il pensiero che di li a poco li avrebbero chiamati di sotto e la cugina avrebbe perciò dovuto calmarsi. - È solo che non capiscono, - disse la saggia Briony mentre si dirigeva al lavamani e lo riempiva d’acqua calda. - Sono solo due bambini che hanno subito una brutta batosta. Piena di tristezza, Lola abbassò il capo e annuì in modo tale che Briony si sentì invadere da un moto di affetto nei suoi confronti. Accompagnò la cugina al catino e le mise in mano una pezzuola per lavarsi. Poi, per una serie di ragioni che andavano dal bisogno pratico di cambiare argomento al desiderio di condividere un segreto e di mostrare a una ragazza più adulta come anche lei avesse esperienza del mondo, ma soprattutto perché Lola le stava a cuore e voleva diventarle più amica, Briony le raccontò del proprio incontro con Robbie sul ponte, e della lettera e del fatto che l’aveva aperta e di cosa c’era scritto. Per non pronunciare ad alta voce quella parola, cosa impensabile, decise di riferirgliela lettera per lettera, all’incontrario. L’effetto su Lola fu quello sperato. Sollevò dal catino la faccia grondante e restò a bocca aperta. Briony le passò un asciugamano. Trascorsero alcuni secondi durante i quali Lola sembrò cercare qualcosa da dire. La stava facendo un po’ lunga, ma pazienza. Emise un sussurro arrochito: - Dice che ci pensa sempre? Briony annuì e distolse lo sguardo, come per affrontare una tragedia. Poteva imparare a essere un po’ più espressiva da sua cugina; adesso era venuto il suo turno di mettere una mano consolatoria sulla spalla di Briony. 110
- Che cosa tremenda per te. Quell’uomo è un maniaco. Un maniaco. Il termine aveva una sua eleganza, e l’autorevolezza di una diagnosi medica. Lo conosceva da tutti quegli anni e adesso scopriva con chi aveva avuto a che fare. Quando era piccola lui se la metteva in spalle e fingeva di essere un cavallo. Erano stati insieme da soli un mucchio di volte e un’estate in piscina lui le aveva insegnato a tenersi a galla e a nuotare a rana. Ora che il problema di Robbie aveva un nome, Briony provò un certo sollievo, anche se a quel punto l’episodio della fontana assumeva contorni sempre più misteriosi. Aveva già deciso in cuor suo di non raccontare quel pezzo di storia, sospettando che potesse esserci una spiegazione dei fatti semplicissima e che fosse meglio non mettere in piazza la sua ignoranza. - Che cosa farà tua sorella? - Non ne ho idea -. Di nuovo, non fece parola del suo terrore al pensiero del successivo incontro con Cecilia. - Sai una cosa? Appena arrivati, ieri pomeriggio, ho pensato che fosse un mostro per come si era messo a gridare contro i gemelli in piscina. Briony si sforzò di ricordare episodi analoghi che evidenziassero sintomi maniacali. Disse: - Ha sempre fatto finta di essere una brava persona. Ci ha ingannati per anni. L’idea di cambiare argomento aveva funzionato alla perfezione, infatti il contorno arrossato degli occhi di Lola era di nuovo pallido e lentigginoso e lei era tornata quella di prima. Prese la mano di Briony fra le sue. - Secondo me, bisognerebbe dirlo alla polizia. L’agente in paese era un uomo gentile dai baffoni impomatati; la moglie teneva le galline e vendeva uova fresche che consegnava a domicilio in bicicletta. Raccontare a lui la storia della lettera e dirgli la parola, anche se all’incontrario, era inconcepibile. Briony fece per tirare via la mano, ma Lola gliela strinse più forte e parve leggere nel pensiero della ragazza più giovane. - Basta che gli mostri la lettera. - Ma lei potrebbe non essere d’accordo. - Scommetto che lo e invece. Un maniaco può aggredire chiunque. All’improvviso Lola si fece pensosa e parve sul punto di comunicare alla cugina una novità. Poi cambiò idea e scattando in piedi afferrò la spazzola di Briony e si 111
mise di fronte allo specchio a sistemarsi vigorosamente i capelli. Aveva appena incominciato quando udirono la signora Tallis che le chiamava di sotto per la cena. Lola prese immediatamente a frignare, e Briony pensò che quei repentini cambiamenti d’umore fossero frutto del recente sconvolgimento della sua vita. - È inutile. Non sono pronta per niente, - disse, sull’orlo del pianto. - Guarda che faccia, non ho neppure incominciato a occuparmene. - Io scendo adesso, - le disse Briony tranquillizzante. - Dico che tu ci metterai ancora un attimo -. Lola però era già uscita diretta in camera sua e sembrava non avere neppure sentito. Dopo che si fu a sua volta ravviata i capelli, Briony rimase davanti allo specchio a scrutare la propria faccia e a chiedersi come sarebbe stato quando avesse anche lei «incominciato a occuparsene». Sapeva che avrebbe presto dovuto farlo. Un’altra pretesa avanzata dal tempo. Almeno lei non aveva efelidi da nascondere o schiarire, il che di sicuro le avrebbe risparmiato un bel po’ di fatica. Molto tempo prima, quando aveva dieci anni, aveva deciso che il rossetto le dava un’aria da pagliaccio. Era venuto il momento di procedere a un’ulteriore verifica. Non ora però; aveva troppi pensieri. Era accanto alla scrivania e, senza pensare, rimise il cappuccio alla stilografica. Scrivere un racconto era un’impresa insensata e meschina quando simili forze del caos le vorticavano intorno, e quando il susseguirsi di avvenimenti nell’arco della giornata aveva assorbito tutto il suo passato, modificandolo. «C’era una volta un re, seduto sul sofà...» Si chiese se avesse commesso un errore madornale fidandosi della cugina: Cecilia non avrebbe gradito di certo se quella lunatica di Lola si fosse messa a spifferare ai quattro venti quel che sapeva sulla lettera di Robbie. E poi, come poteva ora scendere e sedersi a tavola con un maniaco? In caso la polizia avesse proceduto a un arresto, lei, Briony, poteva essere chiamata a deporre in tribunale dove avrebbe dovuto pronunciare ad alta voce la parola. Uscì a malincuore dalla stanza e percorse il buio corridoio rivestito di pannelli in legno fino in cima alle scale, dove si fermò e rimase in ascolto. Le voci provenivano ancora dal sa lotto - udì quelle di sua madre e del signor Marshall, poi, una dopo l’altra, quelle dei gemelli che parlavano tra loro. Cecilia non c’era dunque, e nemmeno il maniaco. Briony si sentì battere forte il cuore mentre incominciava, suo malgrado, a scendere. La vita aveva cessato di essere semplice 112
per lei. Solo tre giorni prima stava finendo Le disavventure di Arabella e aspettava l’arrivo dei cugini. Aveva sperato che fosse tutto diverso, ma la verità era che le cose andavano male, e stavano per andare anche peggio. Si fermò di nuovo per consolidare il proprio piano; si sarebbe tenuta rigorosamente alla larga da quella imprevedibile della cugina, non ne avrebbe neppure incrociato lo sguardo; non poteva di certo lasciarsi coinvolgere in un complotto e neppure intendeva incoraggiare una scenata disastrosa da parte sua. Quanto a Cecilia, che avrebbe dovuto proteggere, non aveva il coraggio di avvicinarla. Robbie, ovviamente, doveva evitarlo per ragioni di sicurezza. Sua madre, sempre ansiosa comunque, non le sarebbe stata di alcun aiuto. Impossibile essere pratici in sua presenza. Era sui gemelli che avrebbe dovuto contare: sarebbero stati loro la sua ancora di salvezza. Non li avrebbe lasciati un momento, come se volesse occuparsene. Le cene estive incominciavano sempre così tardi - erano già le dieci passate - e i bambini dovevano essere stanchi. Per il resto, intendeva mostrarsi socievole con il signor Marshall e chiedergli informazioni sui dolciumi: chi li inventava, come erano confezionati. Era un piano da codardi, ma non riusciva a farsene venire in mente un altro. Con la cena quasi pronta in tavola, non era certo il momento di convocare l’agente Vockins dal paese. Procedette giù per le scale. Avrebbe dovuto consigliare a Lola di cambiarsi per nascondere il graffio sul braccio. Se qualcuno gliene avesse chiesto la ragione, poteva scoppiare a piangere di nuovo. Del resto, era probabilmente impossibile convincerla a rinunciare a un abito che le rendeva il passo tanto impacciato. Il raggiungimento dell’età adulta aveva parecchio a che fare con la disponibilità incondizionata ad accettare simili impedimenti fisici. Lei stessa se ne stava già facendo carico. In fondo, il graffio non era suo, eppure Briony se ne sentiva responsabile, di quello come di tutto ciò che stava per accadere. Quando il padre era in casa, l’intera famiglia si organizzava intorno a un fulcro. Non che lui organizzasse alcunché; non girava per le stanze preoccupandosi di quel che facevano gli altri, e raramente impartiva istruzioni o consigli, anzi, perlopiù se ne stava seduto in biblioteca. Ma la sua presenza imponeva un ordine e garantiva libertà. Sollevava il carico dei doveri. Quando c’era lui, non aveva più importanza se la madre si ritirava in camera; bastava sapere che il signor Tallis era di sotto con un libro in mano. Quando prendeva posto a tavola, con i suoi modi pacati, 113
affabili e perfettamente sicuri, ogni crisi in cucina si trasformava in una scenetta comica; in sua assenza, diventava un dramma straziante. Lui sapeva quasi tutto ciò che era importante sapere, e in caso contrario aveva sempre una buona idea su quale autorità consultare in materia, e portava anche Briony con se in biblioteca per farsi aiutare nelle ricerche. Se il padre non fosse stato, per dirla con parole sue, uno schiavo del ministero e della stesura del Piano di Emergenza, se fosse stato in casa, a occuparsi di mandare Hardman in cantina per il vino, di gestire la conversazione, di stabilire senza farsi notare quando era ora di concludere la serata, lei non si sarebbe trovata ad attraversare l’ingresso con un peso sul cuore. Furono quei pensieri sul suo conto a farle rallentare il passo davanti alla porta della biblioteca, insolitamente chiusa. Si mise in ascolto. Dalla cucina proveniva il tintinnio del me tallo contro la porcellana; dal salotto, la voce sommessa della madre e, da più vicino, quella acuta e cristallina di uno dei gemelli che diceva: Ci vuole la «g», sono sicuro, - e dell’altro che ribatteva: - Non me ne importa. Mettilo nella busta -. Poi, da dietro la porta della biblioteca, un fruscio seguito da un colpo sordo e da un mormorio che poteva essere di uomo come di donna. Nel ricordo - e Briony ripensò spesso a quel frangente - le pareva di non aver avuto alcun sospetto quando aveva appoggiato la mano sulla maniglia di ottone e l’aveva poi abbassata. Ma aveva letto la lettera di Robbie, si era assunta il ruolo di protettrice della sorella, e aveva ricevuto istruzioni dalla cugina; ciò che vide pertanto doveva avere in parte i contorni di quello che già sapeva, o credeva di sapere. In un primo momento, dopo aver spinto la porta ed essere entrata, non vide assolutamente nulla. L’unica luce accesa era quella di una lampada da tavolo di vetro verde che illuminava poco più della superficie in cuoio decorato su cui poggiava. Fatti alcuni passi, intravide delle sagome scure nell’angolo in fondo. Benché
fossero
immobili,
Briony
comprese
subito
di
aver
interrotto
un’aggressione, un corpo a corpo. La scena era una realizzazione talmente perfetta delle sue peggiori paure da farle credere che la sua immaginazione esaltata avesse potuto allucinare quelle figure schiacciate contro la moltitudine dei libri. Ma l’illusione, o la speranza che di questo potesse trattarsi, svanì non appena i suoi occhi si abituarono al buio. 114
Nessuno si mosse. Oltre la spalla di Robbie, Briony incontrò lo sguardo terrorizzato della sorella. Lui intanto si era voltato per vedere chi fosse l’intruso, senza tuttavia mollare la presa su Cecilia. Premeva il corpo contro quello di lei, tenendole il vestito alzato sopra il ginocchio e intrappolandola nell’angolo delle due pareti di libri. Con la mano sinistra le cingeva il collo, stringendola per i capelli, e con la destra le immobilizzava il braccio destro levato in gesto di protesta o di autodifesa. Sembrava così grosso e furioso, mentre Cecilia, con le spalle nude e le braccia sottili, appariva così fragile che Briony, avvicinandosi, non aveva la minima idea di cosa sarebbe riuscita a fare. Voleva urlare, ma non poteva nemmeno tirare il fiato, e si sentiva la lingua impastata e pesante. Robbie si spostò coprendole del tutto la vista della sorella. Poi Cecilia si divincolò, e lui la lasciò andare. Briony si fermò e pronunciò il nome della sorella. Quest’ultima la spinse di lato per superarla, ma sul suo viso non c’era traccia di sollievo ne di gratitudine. Aveva un’espressione vacua, quasi composta, e fissava dritto la porta dalla quale sarebbe uscita. Poi sparì, e Briony rimase sola con lui. Anche Robbie evitò il suo sguardo. Continuò a guardare verso l’angolo, aggiustandosi la giacca e sistemandosi la cravatta. Con cautela, Briony si allontanò, ma lui non diede segno di volerla aggredire e non alzò neppure gli occhi. Lei si precipitò fuori dalla stanza per andare a cercare la sorella. Ma l’ingresso era deserto, e non era chiaro da che parte si fosse diretta Cecilia.
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Capitolo undicesimo A dispetto delle foglie di mentuccia tritate all’ultimo momento nella mistura di cioccolato fuso, tuorlo d’uovo, latte di cocco, rum, gin, banana schiacciata e zucchero a velo, il cocktail non risultò molto rinfrescante. Gli appetiti già compromessi dalla calura della serata ne furono ulteriormente ridotti. Al loro ingresso nella soffocante sala da pranzo quasi tutti gli adulti si sentivano nauseati al pensiero di una cena calda, addirittura di roast-beef e insalata, e sarebbero stati ben più soddisfatti di un semplice bicchiere d’acqua fresca. L’acqua tuttavia era disponibile solo per i più piccoli, mentre agli altri sarebbe toccato rianimarsi con un vino da dessert servito a temperatura ambiente. Ce n’erano già tre bottiglie stappate sulla tavola - in assenza di Jack Tallis di solito Betty tirava a indovinare con ispirata fantasia. Nessuna delle tre alte finestre si apriva perché gli infissi si erano imbarcati molto tempo prima, perciò gli ospiti trovarono ad accoglierli un aroma di polvere surriscaldata che saliva dal tappeto persiano. Fu un conforto scoprire che il furgone del pescivendolo che avrebbe dovuto consegnare la prima portata a base di insalata di granchio aveva avuto un guasto. L’effetto di soffocamento era accresciuto dalla pannellatura in legno scuro che foderava pareti e soffitto, e dall’unico dipinto della sala, un’ampia tela appesa sopra il camino inutilizzato dai tempi dell’edificazione della villa: per un difetto nella progettazione, non erano stati previsti ne una canna fumaria ne un comignolo. Il ritratto, in stile Gainsborough, raffigurava una famiglia aristocratica - genitori, due ragazze adolescenti e un fanciullo -, tutti dotati di labbra sottili, e tutti pallidi come necrofagi, in posa davanti a un paesaggio toscaneggiante. Nessuno sapeva chi fossero quelle persone, ma era probabile che, nelle intenzioni di Harry Tallis, il loro compito fosse quello di imprestare alla famiglia un’immagine di solidità. Emily stava in piedi a capotavola e assegnava i posti ai commensali a mano a mano che entravano. Sistemò Leon alla sua destra, e Paul Marshall a sinistra. Alla destra di Leon sedevano Briony e i gemelli, mentre Marshall aveva Cecilia sulla sinistra, seguita da Robbie, e da Lola. Robbie si aggrappava in cerca di
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sostegno allo schienale della propria sedia, stupefatto che nessuno desse l’impressione di sentire il suo cuore che batteva ancora all’impazzata. Si era risparmiato il cocktail, ma anche lui non aveva il minimo appetito. Si volse appena per non vedere Cecilia, e mentre gli altri prendevano posto, notò con sollievo di essere sistemato in mezzo ai bambini. Incoraggiato da un cenno del capo della madre, Leon bofonchiò una breve preghiera di ringraziamento che lasciò in sospeso: - Per il cibo che stiamo per ricevere... - Lo strisciare di sedie sul pavimento sostituì il previsto amen. Il silenzio che accompagnò il loro prendere posto a sedere e allargarsi i tovaglioli in grembo avrebbe potuto benissimo essere risolto da jack Tallis con la proposta di un argomento di conversazione di moderato interesse, mentre Betty faceva il giro del tavolo servendo l’arrosto. Invece, i commensali non poterono fare altro che guardarla e ascoltarla mentre si chinava su di loro mormorando qualche parola e raschiando con le posate da portata sul fondo del piatto d’argento. Come distrarsi del resto, quando l’unico altro fenomeno in sala era il loro stesso mutismo? Emily Tallis non aveva mai avuto talento naturale per le chiacchiere e non le importava di coltivarlo. Leon, perfettamente in linea con il proprio personaggio, si era accasciato sulla sedia, esaminando l’etichetta della bottiglia di vino che teneva in mano. Cecilia, con la mente persa negli eventi di dieci minuti prima, non sarebbe riuscita a formulare nemmeno una semplice frase. Robbie era di casa e avrebbe anche saputo rompere il ghiaccio, se non fosse stato a sua volta sottosopra. Era già molto che riuscisse a fingere di ignorare il braccio nudo di Cecilia al suo fianco - ne sentiva perfino il calore -, e lo sguardo ostile di Briony che gli sedeva di fronte in diagonale. Quanto ai bambini, se anche si fosse ritenuto appropriato che proponessero loro un argomento, non ne sarebbero stati capaci: Briony poteva solo pensare a quello che aveva visto, Lola era sopraffatta sia dal turbamento dell’aggressione subita sia da una vasta gamma di emozioni contraddittorie, e i gemelli erano tutti presi da un piano. Fu Paul Marshall a interrompere più di tre minuti di silenzio opprimente. Si appoggiò allo schienale per rivolgersi a Robbie al di là della testa di Cecilia. - Scusa, sei sempre dei nostri per il tennis, domani? Robbie notò che, dall’angolo dell’occhio di Marshall, partiva un graffio lungo 117
più o meno cinque centimetri che, correndo parallelo alla linea del naso, esaltava la concentrazione dei suoi tratti nella parte alta del viso. Qualche frazione di centimetro appena lo salvava dal rischio di una bellezza crudele. Così com’era il suo viso risultava assurdo: una fronte pensosa e sovrappopolata faceva da contraltare alla distesa vuota del mento. Per educazione, anche Robbie si sporse indietro per ascoltare la domanda che gli veniva rivolta, ma nonostante lo stato d’animo alterato, non poté fare a meno di disapprovare. Era infatti sconveniente che al principio di una cena Marshall trascurasse la padrona di casa per dare inizio a una conversazione privata. Robbie rispose sbrigativo: - Immagino di si, - ma subito, come a voler fare ammenda per il suo interlocutore, aggiunse rivolto a tutti: - Ricordate un caldo simile in Inghilterra? Allontanandosi dal tepore emanato da Cecilia, e distogliendo lo sguardo da quello di Briony, si ritrovò a indirizzare la coda della sua domanda agli occhi spaventati di Pierrot che gli stava di fronte in diagonale a sinistra. Il bambino annaspò confuso come in un’aula scolastica durante un’interrogazione di storia. O era geografia? O scienze? Briony si chinò su Jackson per toccare la spalla di Pierrot, senza mai abbandonare Robbie con lo sguardo. - Per favore, lascialo in pace, - disse in un sussurro teso; poi, rivolta al bambino, con dolcezza: - Non e necessario che tu gli risponda. Emily prese la parola dal fondo del tavolo. - Briony, era solo un commento senza importanza sul tempo. Chiedi scusa subito, se non vuoi andartene in camera tua. Ogni volta che la signora Tallis esercitava la propria autorità in assenza del marito, i figli si sentivano in dovere di proteggerla dalla sua stessa inefficacia. Briony, che in ogni caso non intendeva lasciare la sorella priva di protezione, abbassò la testa e disse alla tovaglia: - Mi spiace tanto. Non lo dirò più. Le verdure servite su vassoi coperti e piatti da portata in sbiadita porcellana Spode stavano facendo il giro del tavolo, ed era tale la distrazione degli ospiti o il loro cortese desiderio di mascherare la mancanza di appetito che quasi tutti finirono per ritrovarsi piatti stracolmi di patate arrosto e in insalata, cavolini di Bruxelles, barbabietole e foglie di lattuga a mollo nel sugo di carne. 118
- Il vecchio non sarà entusiasta, - disse Leon alzandosi in piedi. - È un Barsac del ’31, ma ormai è stappato -. Riempì il bicchiere della madre, poi quelli di sua sorella e di Marshall e, quando fu accanto a Robbie, disse: - Un sorso non farà male neanche al nostro buon dottore. Voglio sapere tutto di questo nuovo progetto. Ma non attese la risposta. E mentre tornava al proprio posto disse: - Adoro l’Inghilterra durante le ondate di caldo. È un altro paese. Cambiano tutte le regole. Emily Tallis prese in mano coltello e forchetta, imitata da tutti gli altri commensali. Paul Marshall disse: - Figuriamoci. Citami una sola regola cambiata. - D’accordo. Al club c’è un solo posto dove e concesso togliersi la giacca: la sala del biliardo. Ma, se la temperatura supera i ventisette gradi prima delle tre del pomeriggio, allora e possibile togliersi la giacca anche al bar del piano di sopra, il giorno dopo. - Il giorno dopo! Un paese diverso, non c’è che dire. - Sapete cosa intendo. La gente si lascia andare di più: un paio di giorni di sole e diventiamo tutti italiani. La settimana scorsa si pranzava sui tavoli all’aperto in Charlotte Street. - I miei genitori l’hanno sempre pensata così, - intervenne Emily. - Secondo loro il clima caldo incoraggiava un rilassamento dei costumi tra i giovani. Diminuzione degli strati di abbigliamento, moltiplicazione dei possibili luoghi di incontro. All’aria aperta, senza controllo. La vostra nonna in particolare si sentiva a disagio in estate. Inventava mille scuse per tenere le mie sorelle e me chiuse in casa. - Ma guarda, - disse Leon. - Tu che ne pensi, Cee? Ti sei comportata peggio del solito oggi? Gli occhi di tutti si concentrarono su di lei, e il fratello procedette inesorabile nella canzonatura. - Buon Dio, ma tu arrossisci. La risposta deve essere si, dunque. Sentendosi in dovere di intervenire in sua difesa Robbie prese a dire: - In realtà... Ma Cecilia lo interruppe. - Ho un caldo tremendo. Ecco tutto. E la risposta e si. 119
Mi sono comportata malissimo. Ho convinto Emily contro la sua volontà a farci servire un arrosto in tuo onore, senza badare alla temperatura. E adesso tu sei l’unico che prende solo insalata mentre il resto di noi soffre per colpa tua. Perciò, passagli le verdure, Briony, così magari la smette di berciare. A Robbie parve di cogliere un tremito nella sua voce. - Ecco la nostra Cee. In splendida forma, vedo. E Marshall: - Ti ha rimesso a posto, a quanto pare. - Ho l’impressione che farei meglio a prendermela con qualcuno di più piccolo . Leon sorrise a Briony che gli stava a fianco. - E tu, hai fatto qualcosa di male oggi, per colpa di questo caldo tremendo? Hai infranto le regole? Ti prego, dicci di si -. Le prese la mano fingendo scherzosamente di supplicarla, ma lei la sottrasse. Era ancora una bambina, pensò Robbie, poteva confessare o lasciarsi sfuggire di aver letto il suo messaggio, cosa che, a sua volta, poteva portarla a riferire la scena di cui era stata testimone. La osservò attentamente mentre prendeva tempo, tormentando il tovagliolo e picchiettandosi le labbra, ma non provò alcun timore particolare. Se doveva accadere, che accadesse. Per quanto terrificante, la cena non sarebbe durata in eterno, e lui avrebbe scovato il modo di ritrovarsi con Cecilia quella sera, per riprendere insieme a lei a riflettere sui fatti nuovi e straordinari che si erano verificati nelle loro esistenze, nelle loro vite ormai cambiate per sempre. Al pensiero, sentì un tuffo al cuore. Fino a quel momento, ogni cosa gli era parsa scialba e irrilevante e nulla gli aveva fatto paura. Bevve un bel sorso di vino tiepido e sciropposo e rimase in attesa. Briony disse: - Lo so che sono noiosa, ma io non ho fatto niente di male, oggi. L’aveva sottovalutata. L’enfasi non poteva essere rivolta ad altri che à lui e alla sorella. Prese la parola Jackson accanto a lei: - E invece si. Non hai voluto più fare lo spettacolo. Noi volevamo recitare -. Il bambino si guardò intorno, con un lampo di tristezza negli occhi verdi. Suo fratello annuiva. - Infatti. Prima ci volevi nel tuo spettacolo -. Nessuno poteva immaginare la portata della loro delusione. - Visto? - disse Leon. - Briony ha preso una decisione «a caldo». In una giornata più fresca, a quest’ora saremmo tutti quanti in biblioteca a divertirci. 120
Queste innocue stupidaggini, di gran lunga preferibili al silenzio, permisero a Robbie di ritirarsi dietro una maschera di attenzione divertita. Cecilia teneva la mano sinistra a coppa sulla guancia, probabilmente per escludere l’immagine di lui dal suo campo visivo. Fingendo di ascoltare Leon, che al momento era impegnato nel racconto del proprio fugacissimo incontro con Sua Maestà in un teatro del West End, Robbie fu in grado di contemplare il braccio nudo e la spalla di Cecilia, e di pensare che lei intanto doveva sentire sulla pelle il suo respiro, un’idea che lo turbava parecchio. In cima alla sua spalla c’era una lieve protuberanza, infilata in un osso, o sospesa tra due, e ombreggiata da una peluria sottile. La sua lingua ne avrebbe di li a poco seguito la linea ovale per poi spingersi nella fossetta sottostante. La sua eccitazione raggiungeva livelli quasi dolorosi ed era esaltata dall’urgenza delle contraddizioni: Cecilia gli era nota come sorella, ma sconosciuta come amante; la conosceva da sempre, ma non sapeva nulla di lei; era una ragazza qualsiasi, ma era anche bellissima; era in gamba - con quanta disinvoltura si era difesa dal fratello -, ma venti minuti prima aveva pianto; la sua stupida lettera l’aveva disgustata, ma anche sbloccata. Lui provava rimorso, e al tempo stesso esultava del proprio errore. Presto sarebbero stati di nuovo insieme, immersi in altre contraddizioni: voglia di ridere e sensualità, desiderio e paura della loro imprudenza, soggezione e fretta di incominciare. In una stanza inutilizzata del secondo piano, oppure lontani dalla villa, sotto gli alberi vicino al fiume. Chissà? La madre della signora Tallis non era certo una sciocca. All’aria aperta. Si sarebbero fatti avvolgere dalla seta del buio estivo e avrebbero ricominciato dove si erano interrotti. Non si trattava di fantasticare, era la realtà, il prossimo futuro, tanto desiderato quanto ineluttabile. Ma non era proprio questo il pensiero del povero Malvolio nei panni del quale lui aveva recitato sul prato del college? Nulla che si frapponga tra me e il compimento delle mie speranze. Solo mezz’ora prima le sue speranze erano nulle. Dopo che Briony era scomparsa in casa con la lettera, aveva continuato a camminare domandandosi angosciato se tornare in dietro o no. Perfino davanti alla porta non aveva ancora deciso e indugiò parecchi minuti sotto la luce del portico assediata dalla solita 121
fedelissima falena, nel tentativo di scegliere la meno disastrosa delle alternative. I casi erano due: entrare subito, affrontare l’ira e il disgusto di Cecilia, offrire una spiegazione che non sarebbe stata accettata e con ogni probabilità essere messo fuori: umiliazione insopportabile; oppure tornarsene a casa senza dire una parola, dando l’impressione che la lettera contenesse le sue reali intenzioni, tormentarsi per tutta la notte e i giorni seguenti in pensieri sterili, senza sapere nulla della reazione di lei: ancora più intollerabile. E vigliacco. Provò a ripensarci un’altra volta e giunse alla stessa conclusione. Non c’era via d’uscita: doveva parlarle. Appoggiò la mano sul campanello. Certo che l’idea di fare dietrofront lo tentava. Avrebbe potuto scriverle un biglietto di scuse al sicuro nel suo studio. Codardo! Sentiva il freddo della porcellana sotto la punta dell’indice e, prima di tornare a rimuginare, si costrinse a premere. Si ritrasse dalla porta come uno che abbia appena ingoiato una pasticca di veleno: non gli restava altro da fare che aspettare. Dall’interno udì dei passi, nitidi passi di piedi femminili sul pavimento dell’ingresso. Quando Cecilia gli aprì, Robbie vide che teneva in mano il biglietto ripiegato. Continuarono a fissarsi per parecchi secondi senza che nessuno dei due proferisse parola. A dispetto di tutte le sue esitazioni, non si era preparato niente da dire. Il suo unico pensiero fu che lei era ancora più bella di come l’avesse fantasticata. Il vestito di seta che indossava pareva un inno a ogni singola curva e piega del suo corpo sottile, ma la piccola bocca sensuale era tesa in un rimprovero, o forse perfino in un moto di avversione. Le luci in casa erano troppo forti e gli impedivano di interpretare con sicurezza l’espressione di lei. Alla fine Robbie disse: - Cee, c’è stato un errore. - Un errore? Attraverso la porta aperta del salotto, gli giunse il suono di alcune voci. Distinse quella di Leon seguita da quella di Marshall. Forse fu la paura che qualcuno potesse interromperli a farla indietreggiare aprendo di più l’uscio. Lui la segui fino alla biblioteca, e attese sulla porta mentre lei cercava l’interruttore della lampada da tavolo. Quando si accese, Robbie si chiuse la porta alle spalle. Immaginava che in capo a pochi minuti si sarebbe ritrovato a percorrere il parco 122
diretto al cottage. - Quella non era la versione che intendevo spedire. - No. - Ho messo nella busta quella sbagliata. - Si. Non riusciva a dedurre nulla da quelle risposte lapidarie e non l’aveva ancora vista chiaramente in faccia. Lei si spostò dalla luce, verso gli scaffali. Robbie avanzò di qualche passo nella stanza, senza seguirla da vicino, ma non volendo neppure lasciarla allontanare troppo. Avrebbe potuto mandarlo al diavolo già dalla porta di casa e adesso non era impensabile riuscire a fornire una spiegazione prima di andarsene. Lei disse: - Briony l’ha letta. - Oh Dio, mi dispiace. Era stato sul punto di confidarle un momento di intima esuberanza, di passeggera insofferenza per le convenzioni, il ricordo della lettura dell’Amante di Lady Chatterley
nell’edizione Orioli, comprato
sotto
banco a
Soho. Ma
quell’elemento nuovo della bambina innocente collocava il suo sbaglio al di là di ogni possibile indulgenza. Insistere sarebbe stato segno di superficialità. Poté soltanto ripetere, e questa volta in un sussurro: - Mi dispiace. Lei si stava allontanando, procedendo verso l’angolo, dove l’ombra era più intensa. Pur pensando che retrocedesse inorridita da lui, Robbie avanzò di un altro paio di passi nella sua direzione. - E stata una stupidaggine. Non avresti mai dovuto leggerla. Né tu ne nessun altro. Cecilia indietreggiava ancora. Con un gomito appoggiato agli scaffali, dava l’impressione di scivolare lungo la parete, come se intendesse sparire in mezzo ai libri. Robbie udì uno schiocco umido e sommesso, di quelli che si fanno quando si intende parlare e si stacca la lingua dal palato. Ma Cecilia non disse nulla. Fu solo allora che incominciò a considerare la possibilità che lei non si stesse allontanando da lui, ma che al contrario lo attirasse verso il buio più intenso. Dal momento in cui aveva suonato il campanello, non aveva più niente da perdere. Perciò procedette piano verso di lei che intanto scivolava all’indietro fino a 123
ritrovarsi nell’angolo dove si fermò per guardarlo avanzare. Si bloccò anche lui, a meno di un metro e mezzo di distanza. Adesso si, era sufficientemente vicino e la luce bastava a fargli scorgere che Cecilia stava piangendo mentre cercava di parlare. Lei volse la testa di lato portandosi una mano su naso e bocca mentre con due dita si premeva gli angoli degli occhi. Si ricompose e disse: - È così da settimane... - Le si chiuse la gola e dovette interrompersi. Robbie istantaneamente credette di capire che cosa intendeva, ma non volle fidarsi. Lei trasse un sospiro lungo e riprese a dire in tono più pacato: - Forse da mesi. Non so. Ma oggi... oggi e stata una giornata strana fin dal principio. Voglio dire che ho incominciato a vedere le cose in modo strano, come per la prima volta. Mi pareva tutto diverso: troppo nitido, troppo vero. Perfino le mie mani mi parevano diverse. Altre volte mi e capitato di osservare gli avvenimenti come se fossero successi molto tempo prima. E poi e tutto il giorno che sono arrabbiatissima con te - e con me stessa. Ho pensato che sarei stata molto felice di non vederti e di non parlarti mai più in vita mia. Ho pensato che tu saresti partito per andare a fare medicina all’università e che io sarei stata contenta. Ero talmente furiosa. Immagino che sia stato un espediente per non pensarci. Piuttosto efficace, direi... Diede in una breve risata tesa. Lui disse: - Non pensare a che cosa? Fino a quel punto, Cecilia non aveva sollevato lo sguardo. Quando riprese a parlare, i suoi occhi guardavano dritti in quelli di lui, che ne colse appena il luccichio bianchissimo. - Tu l’hai saputo prima di me. È successo qualcosa, non è vero? E tu l’hai capito prima. È come essere di fronte a una cosa talmente grande che non riesci a vederla. Ancora adesso non sono sicura di riuscirci. Ma almeno so che c’è. Abbassò lo sguardo e lui attese. - E so che c’è perché mi ha fatto comportare in modo ridicolo. Anche te, ovviamente... Ma, prendi questa mattina, non avevo mai fatto niente di simile. Dopo ero così arrabbiata. Anche durante. Mi ripetevo che ti avevo offerto un’arma da usare contro di me. Poi, questa sera, quando ho incominciato a capire, be’, ma come ho potuto essere tanto cieca su me stessa? E tanto stupida, oltretutto? Trasalì, come colpita da un’idea sgradevole. - Lo sai vero di che cosa parlo? 124
Dimmi che lo sai -. Temeva che lui non lo sapesse affatto, che tutte le sue deduzioni potessero essere sbagliate e che le sue parole non facessero altro che isolarla ancora di più dando a Robbie l’impressione di avere di fronte un’idiota. Lui si fece più vicino. - Certo. Lo so perfettamente. Ma perché piangi? C’è qualcos’altro? Pensò che lei fosse sul punto di dar voce a un ostacolo impossibile e, naturalmente, la sua domanda si riferiva a qualcun altro, ma lei non capì. Non sapeva come replicare e lo fissava, sconcertata. Perché piangeva? Ma come poteva rispondergli sopraffatta com’era da tanta emozione, da tante emozioni? Lui dal canto suo pensò che la domanda fosse mal posta, sbagliata, e si sforzò di escogitare il modo giusto per riformularla. Si fissarono confusi, incapaci di parlare, sentendo di poter perdere il filo delicatissimo che avevano appena tessuto. Il fatto che fossero vecchi amici con un’infanzia trascorsa insieme si trasformava ora in una barriera: erano a disagio di fronte al loro passato. La loro amicizia si era fatta tesa negli ultimi tempi, ma restava un’abitudine consolidata, e interromperla adesso per diventare estranei disposti all’intimità richiedeva una chiarezza d’intenti che non c’èra più. Al momento le parole non parevano offrire via d’uscita. Robbie le appoggiò le mani sulle spalle, e sentì la pelle di lei fresca al tatto. Mentre i loro visi si avvicinavano, era ancora abbastanza insicuro da riuscire a immaginare che Cecilia potesse ritrarsi di scatto, o colpirlo, come nella scena di un film, con uno schiaffo. La sua bocca sapeva di sale e di rossetto. Si allontanarono per un istante, lui la cinse con le braccia e si baciarono ancora, con maggior disinvoltura questa volta. Con audacia si sfiorarono la punta della lingua e fu allora che lei emise il gemito sommesso che segnò la trasformazione, ma Robbie lo seppe solo in seguito. Fino a quell’istante, c’era stato qualcosa di comico nel ritrovarsi una faccia nota tanto vicina alla propria. Si sentivano sotto gli sguardi divertiti di loro stessi bambini. Ma il contatto delle lingue, muscoli frementi e vivi, carne contro carne umida, e il suono inconsueto che il contatto aveva prodotto in lei, cambiarono ogni cosa. Quel suono parve penetrarlo, trapassargli il corpo in tutta la sua lunghezza dandogli la possibilità di uscire da se stesso e baciarla liberamente. Il gesto che era stato consapevole e impacciato si fece impersonale, quasi astratto. Il sospiro che lei aveva emesso era carico di 125
desiderio e l’aveva contagiato. La spinse con forza nell’angolo, tra i libri. Mentre si baciavano, Cecilia gli tirava i vestiti, tentando senza successo di aprirgli la camicia, di slacciargli la cintura. Le teste si rovesciavano girandosi da un lato all’altro mentre i loro baci diventavano violenti come morsi. Lei gli affondò i denti nella guancia, non proprio scherzosamente. Lui si ritrasse, per poi tornare a farsi mordere forte il labbro inferiore. Le baciò la gola, bloccandole la testa contro lo scaffale; lei lo afferrò per i capelli e gli premette il capo sul seno. Per un attimo lui annaspò maldestro, finché non le trovò il capezzolo, piccolo e duro, che circondò con le labbra. La schiena di lei si irrigidì, percorsa da un lungo brivido. Per un momento Robbie pensò che fosse svenuta. Gli cingeva il capo con le braccia molli, e quando serrò la presa lui sollevò la testa per prendere fiato, si drizzò e l’abbracciò avvicinandosi la testa di lei al petto. Lei. lo morse di nuovo, tirando fra i denti la camicia. Quando udirono un bottone cadere a terra tintinnando, entrambi dovettero trattenere un sorriso e distogliere lo sguardo. Il senso del comico li avrebbe distrutti. Cecilia gli intrappolò il capezzolo fra i denti. La
sensazione
era
intollerabile.
Lui
le
rovesciò
il
capo
all’indietro
e,
immobilizzandola, le baciò gli occhi e le schiuse le labbra con la lingua. L’impotenza le fece emettere ancora quel suono come di un sospiro contrariato. Finalmente erano due estranei, il passato si era dissolto. Estranei anche a loro stessi, avevano scordato chi e dove fossero. La porta della biblioteca era massiccia e nessuno dei rumori consueti che avrebbero potuto trattenerli, richiamarli alla realtà, poteva raggiungerli. Robbie e Cecilia si trovavano al di là del presente, fuori dal tempo, privi di ricordi e di futuro. Restava soltanto il brivido crescente della dimenticanza, e il suono di stoffa contro stoffa, e pelle contro stoffa, mentre le loro membra si cercavano nell’inquietudine sensuale di quella lotta. Lui aveva scarsa esperienza in materia e sapeva solo per sentito dire che sdraiarsi non era necessario. Quanto a lei, se si escludono tutti i film che aveva visto e i romanzi e le poesie che aveva letto, non aveva esperienza alcuna. A dispetto di tante limitazioni, non li sorprese scoprire la chiarezza con la quale riconoscevano i propri bisogni. Si stavano baciando di nuovo e le braccia di lei gli serravano la testa. Gli leccava un orecchio, gliene mordeva il lobo. A lungo andare quei morsi lo eccitarono di rabbia, lo incitarono. Le cercò le natiche sotto il vestito e strinse 126
forte, prima di girarsi a metà con l’intenzione di assestarle una sculacciata vendicativa, solo per scoprire che mancava lo spazio necessario per farlo. Tenendo gli occhi fissi in quelli di lui, Cecilia si abbassò per sfilarsi le scarpe. Armeggiarono ancora goffamente con bottoni e spostamenti di gambe e di braccia. Lei non aveva la minima esperienza. Senza parlare, Robbie le sistemò un piede sul ripiano più basso dello scaffale. Erano impacciati, ma troppo dimentichi di se per provare imbarazzo. Quando tornò a sollevarle il morbido vestito di seta, nello sguardo di lei Robbie credette di vedere riflessa la propria stessa incertezza. Ma esisteva una sola fine inevitabile, ormai, e non restava altro da fare che andarle incontro. Con il peso di lui che la sosteneva contro l’angolo, Cecilia tornò a cingergli il collo, appoggiandogli i gomiti sulle spalle senza smettere di baciarlo. L’attimo cruciale fu semplice. Trattennero il fiato prima che la membrana cedesse, e quando accadde, lei volse la testa in un gesto veloce, ma non emise nemmeno un suono: se ne fece un punto d’orgoglio. Avvicinarono i corpi, intimamente uniti; poi, per alcuni secondi di seguito, ogni cosa si fermò. Anziché un’estasi dei sensi, quello che si verificò fu un’immobilità. A paralizzarli non fu la consapevolezza sbalorditiva del compimento dell’atto, ma la sensazione solenne di un ritorno: faccia a faccia nel buio, lo sguardo fisso dentro il dettaglio d’occhi dell’altro che ciascuno riusciva a mettere a fuoco, ciò di cui si liberarono fu la condizione di impersonalità. Ovvio, non c’era nulla di astratto in una faccia. Il figlio di Grace e di Ernest Turner, la figlia di Emily e di Jack Tallis, amici d’infanzia, compagni di università, contemplarono, in uno stato di felicità distesa e tranquilla, l’enorme cambiamento avvenuto nelle loro vite. La vicinanza di un volto noto non era affatto comica, ma stupefacente. Robbie guardava la donna, la ragazza che conosceva da sempre, e pensava che il cambiamento riguardasse soltanto lui, e che avesse la medesima portata biologica della nascita. Non gli era mai accaduto niente di altrettanto singolare e importante da quando era al mondo. Cecilia ricambiava lo sguardo, sconvolta dalla propria trasformazione, e sopraffatta dalla bellezza di un viso che l’abitudine di sempre le aveva insegnato a ignorare. Mormorò il nome di lui con la determinazione di un bambino alle prese con i primi vocalizzi. Quando Robbie rispose chiamandola a sua volta per nome, le parve di udire una parola nuova: le sillabe restavano le stesse, il significato 127
cambiava. E finalmente lui pronunciò le due semplicissime parole che nemmeno una montagna di arte e ideali scadenti potrà mai screditare del tutto. Cecilia le ripeté, esattamente con l’identica lieve enfasi sulla vocale del verbo, come se fosse stata lei a pronunciarle per prima. Robbie non era credente, ma era impossibile non pensare a una presenza arcana, a un testimone in quella stanza, e non convincersi che quelle parole espresse ad alta voce fossero come firme su un contratto invisibile. Rimasero immobili forse per l’eternità di mezzo minuto. Resistere oltre avrebbe richiesto la formidabile padronanza di qualche arte orientale. Incominciarono a fare l’amore contro gli scaffali della libreria che scricchiolava al ritmo dei loro movimenti. Non e inconsueto in circostanze analoghe immaginarsi in vetta a luoghi altissimi e remoti. Robbie fantasticò di vagare sulla cima agevole di una montagna liscia, sospesa tra due picchi più scoscesi. Lo stato d’animo era quello di una ricognizione senza fretta, con tutto il tempo necessario per spingersi fino al versante roccioso e contemplare la falda detritica pressoché verticale dalla quale di li a poco avrebbe dovuto gettarsi. La tentazione era di lanciarsi nel vuoto subito, ma Robbie era un uomo di mondo e sapeva trattenersi, e aspettare. Facile non era, perché una forza lo trascinava indietro, perciò dovette resistere. Finché non pensava al precipizio, e non vi si avvicinava, ce l’avrebbe fatta. Si costrinse a pensare alle cose più noiose che gli venivano in mente: lucido da scarpe, moduli di iscrizione, un asciugamano bagnato sul pavimento di camera sua. Oppure il coperchio rovesciato di una pattumiera con dentro un paio di centimetri d’acqua piovana, e il cerchio incompleto lasciato da una tazza di te sulla copertina delle sue liriche di Housman. Questo prezioso inventario fu interrotto dal suono della voce di lei. Lo chiamava per nome, gli bisbigliava esortazioni all’orecchio. Così, proprio così. Si sarebbero gettati insieme. Adesso era con lei, a guardare nell’abisso, e insieme videro che la pietraia si tuffava in una distesa di nuvole. Mano nella mano, si sarebbero lanciati all’indietro. Cecilia si ripeté, mormorando qualcosa al suo orecchio, ma questa volta lui la udì distintamente. - È entrato qualcuno. 128
Robbie aprì gli occhi. Vide una libreria, in una casa, immersa nel silenzio assoluto. Lui indossava il suo completo buono. Si, gli tornò tutto in mente con relativa facilità. Si sforzò di guardare oltre la propria spalla, ma scorse soltanto una scrivania fievolmente illuminata, ancora là come prima, come recuperata da un sogno. Dall’angolo in cui si trovavano era impossibile vedere la porta. Ma non si sentiva il minimo rumore, niente. Lei si sbagliava, Robbie desiderava con tutto se stesso che si sbagliasse ed era così, infatti. Si volse indietro ed era sul punto di comunicarglielo, quando Cecilia serrò la presa sul suo braccio e guardò di nuovo in fondo alla stanza. Briony si mosse lenta fino a entrare nel loro campo visivo, si fermò alla scrivania e li vide. Rimase li come imbambolata a fissarli, le braccia abbandonate lungo i fianchi, come un pistolero in un duello. In quell’attimo atroce, Robbie si rese conto di non aver mai odiato nessuno fino ad allora. Era un sentimento puro come l’amore, solo privo di passionalità e gelidamente lucido. Non vi era nulla di personale, perché avrebbe odiato chiunque fosse entrato. In salotto e in terrazza stavano servendo l’aperitivo ed era li che Briony avrebbe dovuto essere: con la madre, e il fratello che adorava, e i cuginetti. Non c’era una sola buona ragione al mondo per cui si trovasse invece in biblioteca, tranne che per scovarlo e impedirgli di avere ciò che era suo. Ora vedeva chiaro nella storia, nel succedersi degli eventi: la bambina aveva aperto la busta sigillata, aveva letto il suo messaggio, ne era stata disgustata, e per qualche misterioso motivo si era sentita tradita. Era venuta a cercare la sorella, senza dubbio con l’assurdo proposito di proteggerla, o di metterla in guardia, e aveva sentito un rumore provenire da dietro la porta chiusa della biblioteca. Spinta dagli abissi della sua ignoranza, da un’immaginazione smodata e da una rettitudine infantile, era intervenuta per intimare il proprio alt. Non ce ne fu bisogno: di comune accordo, si erano già separati e cercavano di ricomporsi discretamente. Era tutto finito. I piatti della carne erano già stati ritirati da un pezzo e Betty tornava a servire lo sformato dolce di pane. Era frutto della sua immaginazione, si chiedeva Robbie, o della volontà malevola della cuoca se le porzioni degli adulti davano l’impressione di essere il doppio di quelle dei bambini? Leon mesceva vino dalla terza bottiglia di Barsac. Si era tolto la giacca, consentendo in tal modo agli ospiti di fare altrettanto. Vari insetti notturni si lanciavano contro le finestre illuminate, producendo minuscoli tonfi sulla superficie dei vetri. La signora Tallis si forbì le 129
labbra con un tovagliolo e rivolse uno sguardo intenerito ai gemelli. - Niente segreti a tavola, bambini. Vorremmo sentire anche noi, se non vi dispiace. Jackson, portavoce in carica, trangugiò a fatica. Suo fratello teneva gli occhi bassi. - Scusa zia Emily, possiamo andare al gabinetto? - Certo che potete. Ma non era necessario specificare. I gemelli scivolarono giù dalle sedie. Mentre raggiungevano la porta, Briony diede in uno squittio indicandoli: - Le mie calze! Si sono messi le mie calze con le fragole! I bambini si bloccarono e, voltatisi, andarono con lo sguardo carico di vergogna dalle loro caviglie alla zia. Briony si era quasi alzata in piedi. Robbie pensò che le forti emozioni della ragazzina stessero per trovare uno sfogo. - Siete entrati in camera mia e le avete prese nel mio cassetto. Cecilia parlò per la prima volta da quando si erano seduti a tavola. Anche lei dava voce a sentimenti ben più profondi. - Sta’ zitta, santo cielo! Siamo stanchi delle tue scenate da prima donna in erba. I ragazzi non avevano calze pulite e gliene ho dato un paio delle tue. Briony la fissava stupefatta. Aggredita, tradita, proprio dalla persona che desiderava proteggere. Jackson e Pierrot stavano ancora guardando la zia che ora li congedò con un gesto interrogativo del capo e un lieve cenno di assenso. Si chiusero la porta alle spalle con un’attenzione esagerata, forse perfino ironica, e nel momento in cui staccarono la mano dalla maniglia, Emily riprese il cucchiaino, seguita dal resto dei commensali. Poi disse in tono pacato: - Potresti essere un po’ meno esplicita con tua sorella. Mentre Cecilia si voltava verso la madre, Robbie colse un soffio di sudore proveniente dalle ascelle di lei che gli fece venire in mente erba appena tagliata. Di lì a non molto sarebbero stati fuori. Per un attimo chiuse gli occhi. Si trovò accanto una ciotola con un litro di crema inglese e si domandò se avrebbe avuto la forza di sollevarla. - Scusa, Emily. Ma e tutto il giorno che esagera. Briony replicò con una calma da adulta: - Niente male, detto da te. - In che senso? 130
Quella, Robbie lo sapeva, era la domanda da non fare. In quel momento della vita, Briony abitava uno spazio transitorio che estendeva i propri confini imprecisi dalla nursery al mondo degli adulti e nel quale lei si muoveva in modo del tutto imprevedibile. Data la situazione attuale, sarebbe stata meno pericolosa nei panni della bambina offesa. In realtà, la stessa Briony non aveva un’idea precisa di che cosa intendesse dire, ma Robbie non poteva saperlo, e intervenne prontamente per cambiare argomento. Si volse verso Lola che sedeva alla sua sinistra, e disse con un tono che voleva rendere partecipe l’intera tavolata: - Due bravi bambini, i tuoi fratelli. - Ah! - esclamò Briony selvaggia, senza lasciare tempo alla cugina di rispondere. - Come si vede che non li conosci. Emily posò il cucchiaino. - Tesoro, se continui così, dovrò chiederti di alzarti da tavola. - Ma guarda che cosa le hanno fatto. L’hanno graffiata in faccia, e le hanno anche fatto gli spilli. Lola si sentì addosso gli occhi di tutti. La pelle si imporporò sotto le efelidi, rendendo meno evidente il graffio. Robbie disse: - Non si vede così tanto. Briony lo fulminò con un’occhiata. Sua madre disse: - Sono comunque unghie di bambini. Ci dovremmo mettere un po’ di disinfettante. Lola si mostrò eroica. - L’ho già messo, grazie. Adesso mi fa molto meno male. Paul Marshall si schiarì la voce. Assunse un tono cortese e grave al tempo stesso. - Ho assistito alla scena. Ho dovuto intervenire per staccarglieli di dosso. Devo ammettere che mi hanno stupito. Due bimbetti così piccoli. Le si sono avventati contro... Emily si era alzata da tavola. Si avvicinò a Lola e le sollevò le braccia. - Ma guarda qua! Altro che arrossamenti. Sei piena di lividi fino ai gomiti. Come diavolo hanno fatto, me lo spieghi? - Non lo so, zia Emily. Marshall si sporse di nuovo indietro sulla sedia. Parlò alle spalle di Cecilia e di Robbie, rivolgendosi alla ragazzina che lo fissava con gli occhi pieni di lacrime. Non devi vergognarti, sai? Sei stata molto coraggiosa, ma ti hanno picchiata forte. Lola si sforzava di non piangere. Emily si avvicinò la testa della ragazza alla 131
vita e gliela accarezzò. Marshall disse a Robbie: - Hai ragione, sono due bravi bambini. Ma credo che ne abbiano passate tante ultimamente. Robbie avrebbe voluto chiedere come mai Marshall non aveva fatto parola dell’accaduto, se Lola aveva davvero subito danni tanto seri, ma l’intera tavolata ormai era in subbuglio. Leon chiese a sua madre: - Vuoi che chiami un dottore? - Cecilia si stava alzando. Robbie le sfiorò un braccio e lei si volse, e per la prima volta da quando erano usciti dalla biblioteca, i loro sguardi si incrociarono. Non ci fu tempo per registrare altro che l’incontro fugace, poi lei si precipitò dall’altra parte del tavolo dove intanto la madre stava impartendo ordini per l’applicazione di un impacco freddo. Emily sussurrava parole di conforto sulla testa della nipote. Marshall restò seduto al proprio posto e si versò altro vino. Si alzò anche Briony che, così facendo, diede in un altro dei suoi strilli fanciulleschi. Prese una busta dalla sedia di Jackson e la mostrò tenendola in alto. - C’è una lettera! Stava per aprirla. Robbie non poté trattenersi dal domandare: - A chi e diretta? - C’è scritto: «Per tutti». Lola si liberò dall’abbraccio della zia e si asciugò la faccia con il tovagliolo. Emily rivelò una sorprendente autorevolezza affermando: - Tu non aprirla. Fa’ come ti dico e portamela qui. Briony colse il tono inconsueto nella voce di sua madre e senza discutere fece il giro del tavolo con la busta in mano. Emily si allontanò di un passo da Lola estraendo il foglio di carta a righe. Mentre leggeva, Robbie e Cecilia furono in grado di seguire a loro volta con lo sguardo. Voliamo scappare perché Lola e Betty sono cattivissime e noi voliamo andare a casa. Scusate abbiamo preso un po’ di frutta. Perché non c’è stato lo spettacolo? Avevano firmato tutti e due con tanto di svolazzo in fondo al nome. Ci fu un silenzio quando Emily ebbe finito di leggere ad alta voce. Lola si alzò e procedette verso la finestra, poi cambiò idea e fece ritorno al tavolo. Guardava di qua e di là con aria distratta e ripeteva in un sussurro: - Maledizione, maledizione... 132
Marshall le si accostò e le mise una mano sul braccio. - Andrà tutto bene. Adesso organizziamo le ricerche e li troviamo subito, vedrai. - Sicuro, - concordò Leon. - Sono fuori da pochissimi minuti. Lola però non li stava a sentire e pareva aver già preso la propria decisione. Avvicinandosi alla porta disse: - Mamma mi uccide. Leon cercò di trattenerla per le spalle, ma lei si divincolò, e si infilò nella porta. La sentirono attraversare l’atrio di corsa. Leon si rivolse alla sorella: - Cee, tu e io andiamo insieme. Marshall disse: - Non c’è la luna. È buio pesto là fuori. Il gruppo si muoveva ormai verso l’uscita ed Emily diceva: - Bisogna che qualcuno rimanga. Tanto vale che lo faccia io. Cecilia disse: - Ci sono delle torce dietro la porta della cantina. Leon si rivolse alla madre: - Credo che faresti meglio ad avvisare la polizia. Robbie fu l’ultimo a lasciare la sala da pranzo e anche l’ultimo, gli parve, ad adeguarsi alla novità degli eventi. La sua prima sensazione, che non si attenuò nemmeno quando emerse nella relativa frescura dell’atrio, fu quella di essere stato imbrogliato. Non poteva credere che i gemelli fossero veramente in pericolo. Le vacche li avrebbero spaventati e messi in fuga. La vastità della notte intorno alla villa, gli alberi bui, la benedizione dell’oscurità, l’erba fresca appena tagliata: tutto questo era già stato prenotato, se l’era immaginato appannaggio esclusivo suo e di Cecilia. Li aspettava, per essere usato e rivendicato. Domani, o qualsiasi altro momento che non fosse quello, non sarebbe stato più lo stesso. Ma, all’improvviso, la casa aveva rovesciato il proprio contenuto umano nella notte che ora era diventata lo scenario di una crisi domestica pressoché farsesca. Sarebbero rimasti fuori per ore, a sgolarsi e agitare le torce, poi avrebbero trovato i gemelli stanchi e sporchi, Lola si sarebbe calmata, e dopo alcuni convenevoli e qualche bicchierino della staffa, la serata si sarebbe conclusa. In capo a pochi giorni, per non dire ore, ne sarebbe rimasto solo il ricordo divertente da sfoderare alle successive riunioni di famiglia in un aneddoto dal titolo: la notte in cui i gemelli scapparono di casa. Quando lui raggiunse la porta d’ingresso, gli altri si stavano avviando. Cecilia aveva preso il fratello sottobraccio e mentre si incamminavano si volse indietro e lo vide fermo nel riquadro di luce. Gli lanciò un’occhiata, si strinse nelle spalle, 133
come a dire: «Per ora, non ci possiamo fare niente». Senza lasciargli il tempo di ricambiare con un gesto di innamorata rassegnazione, tornò a voltarsi e procedette al braccio di Leon, chiamando forte i nomi dei ragazzi. Marshall era già più avanti, sul viottolo principale, ormai visibile solo grazie alla torcia che teneva in mano. Lola non si vedeva. Briony stava facendo il giro della villa. Ovviamente non aveva voglia di restare in compagnia di Robbie, il che gli fu di sollievo, perché aveva già deciso: se non poteva stare con Cecilia, se non poteva averla tutta per se, allora anche lui, come Briony, si sarebbe dedicato alle ricerche da solo. Quella decisione, come più volte in seguito ebbe occasione di ripetersi, avrebbe sconvolto la sua vita.
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Capitolo dodicesimo Per quanto elegante fosse stato il vecchio edificio in stile Adam, per quanto maestosamente avesse un tempo dominato la tenuta, i suoi muri non potevano di certo competere per solidità con quelli della struttura baronale che l’aveva sostituito, e nelle sue stanze non doveva aver mai aleggiato l’ostinato silenzio che di quando in quando calava su villa Tallis. Emily ne percepì la presenza greve mentre richiudeva la porta d’ingresso dopo l’uscita dei soccorritori e si voltava per attraversare l’atrio. Pensò che Betty e i suoi aiutanti stessero ancora mangiando il dolce in cucina e che perciò fossero all’oscuro del fatto che la sala da pranzo era ormai deserta. Non un rumore. Le pareti, le pannellature, la diffusa pesantezza degli infissi quasi nuovi, i mastodontici alari, i giganteschi camini in pietra chiara di recente costruzione volevano evocare i castelli isolati alle propaggini di quiete foreste dei tempi antichi. L’intenzione di suo suocero, secondo Emily, doveva essere stata quella di creare un’atmosfera di solida tradizione familiare. A un uomo che aveva passato la vita a inventare catenacci e lucchetti non doveva essere sfuggito il valore della privacy. Ogni rumore esterno non aveva accesso alla villa, e perfino i suoni domestici dell’interno risultavano attutiti, talvolta addirittura soffocati. Emily sospirò, ma non riuscendo a udire distintamente se stessa, sospirò un’altra volta. Era vicina al telefono che stava poggiato su una mensola semicircolare in ferro battuto accanto alla porta della biblioteca; teneva una mano sul
ricevitore.
Per
parlare
con
l’agente
Vockins,
avrebbe
prima
dovuto
intrattenersi con la moglie, una garrula signora che adorava ciarlare di uova e argomenti annessi: il prezzo del mangime per i polli, le volpi, l’inconsistenza dei moderni sacchetti di carta. Suo marito si rifiutava di esibire il contegno che ci si sarebbe aspettati da un poliziotto. Aveva modi spontanei abbinati a una banalità intellettuale che si sforzava di spacciare per faticosa saggezza; dal suo torace costretto nell’uniforme abbottonata fino al collo uscivano motti del tipo: piove sempre sul bagnato, l’ozio e il padre dei vizi, basta una mela marcia a guastarne una cesta. In paese correva voce che prima di arruolarsi in polizia fosse stato un sindacalista. Qualcuno l’aveva visto, ai tempi del grande sciopero generale,
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distribuire volantini su un treno. E poi, che cosa poteva chiedere al poliziotto? Prima che avesse finito di predicare che i ragazzi son sempre ragazzi e avesse convocato una squadra locale di una mezza dozzina di uomini tirandoli giù dal letto, sarebbe passata un’ora e i gemelli sarebbero già tornati spontaneamente, terrorizzati dall’immensità del mondo di notte. Per essere sinceri, a occuparle la mente non erano quei due bambini, ma la loro madre, sua sorella, o meglio l’incarnazione di lei intravista nella cornice inquieta di Lola. Alzandosi da tavola per andare a consolare la ragazza, Emily si era sorpresa a provare un certo rancore. Più lo sentiva e più si dava da fare ad accarezzare Lola per nasconderlo. Il graffio sul braccio era innegabile, i lividi senz’altro notevoli, considerato il fatto che a produrli erano stati due ragazzini. Ma ad affliggere Emily era un conflitto antico. Era Hermione che stava confortando: Hermione, la regina dei commedianti, la piccola ladra di palcoscenico, era lei quella che Emily si premeva sul petto. Come in passato, quanto maggiore era il suo turbamento, tanto più Emily si faceva sollecita. E quando la povera Briony aveva trovato la lettera dei bambini, a scatenare la brusca reazione di Emily era stato un rigurgito del vecchio antagonismo. Che ingiustizia! Il fatto e che la prospettiva di sua figlia, di qualsiasi ragazza più giovane di lei, che apriva la busta e, aumentando la tensione degli astanti con l’espediente di una eccessiva lentezza, incominciava a leggere a voce alta mettendosi al centro dell’attenzione generale, aveva evocato vecchi ricordi e pensieri ingenerosi. Hermione aveva riempito la loro infanzia di moine, salti e giravolte, cogliendo ogni occasione per mettersi spensieratamente in mostra; così la pensava la sua silenziosa e accigliata sorella maggiore. Per quanto ridicola e grottesca potesse apparire, c’era sempre un adulto disposto a incoraggiare quegli infaticabili esibizionismi. E quando, notoriamente, una Emily undicenne aveva sconvolto una sala piena di ospiti scaraventandosi contro una porta finestra e tagliandosi la mano tanto da far schizzare uno zampillo di sangue sull’abito in mussolina bianca di una bambina che stava lì accanto, era stata la piccola Hermione di nove anni a guadagnarsi il ruolo di protagonista facendosi prendere da un attacco di grida isteriche. Mentre Emily giaceva dimenticata sul pavimento, dietro un divano, con uno zio medico che senza esitazioni le applicava un laccio emostatico, 136
una dozzina di parenti si dava da fare a tranquillizzare la sorella. Che adesso se ne stava a Parigi a spassarsela con quel tizio della radio, mentre Emily si prendeva cura dei suoi figli. Plus ça change, avrebbe potuto commentare l’agente Vockins. Anche Lola, come la madre, non accettava di farsi da parte. Appena conclusa la lettura del messaggio, si era impadronita dell’attenzione del pubblico con quella sua teatrale uscita di scena. La Mamma mi ucciderà di sicuro. Ma se era proprio lo spirito della Mamma che stava resuscitando. Quando i gemelli fossero stati di ritorno, si sarebbe dovuto andare in cerca di Lola, ci si poteva scommettere. Costretta da un ferreo imperativo di amor proprio, sarebbe rimasta fuori nel buio più a lungo degli altri, crogiolandosi in qualche fantasiosa disgrazia in modo da aumentare l’intensità del sollievo prodotto dal suo ritrovamento, e da accaparrarsi la scena. Quel pomeriggio, immobile a letto, Emily aveva immaginato che Lola stesse boicottando lo spettacolo di Briony, un sospetto che aveva trovato conferma nella locandina strappata sul cavalletto. Mentre Briony, secondo copione, era fuori da qualche parte, offesissima e introvabile. Come somigliava a Hermione, Lola, eterna innocente, mentre gli altri si rovinavano per compiacerla. Emily esitò in mezzo all’atrio; non aveva voglia di entrare in nessuna stanza. Tese le orecchie per cogliere eventuali voci da fuori e - a voler essere onesta con se stessa - fu sollevata non udendo nulla. Era un dramma costruito sul niente, quello dei due bambini; era la vita di Hermione che veniva a imporsi sulla sua. Non c’era ragione di preoccuparsi per i gemelli. Improbabile che si avvicinassero al fiume. Di certo una volta stanchi sarebbero rientrati a casa. Emily era circondata dalle vaste mura di un silenzio che le fischiava nelle orecchie in un andirivieni acustico modulato su una musica tutta sua. Tolse la mano dal ricevitore e si massaggiò la fronte - nessuna traccia della bestia dell’emicrania, grazie a Dio. Poi si diresse in salotto. Un’altra ragione per non chiamare l’agente era che presto jack avrebbe telefonato per scusarsi. La chiamata sarebbe passata attraverso il centralino del ministero, poi si sarebbe sentito il nitrito nasale del giovane assistente, e infine la voce stentorea del marito seduto alla sua scrivania nell’enorme ufficio dal soffitto a cassettoni. Del fatto che lavorasse fino a tardi lei non dubitava, ma sapeva che non dormiva al club, e lui sapeva che lei lo sapeva. Comunque, non c’era niente da dire. O meglio, ci sarebbe stato anche troppo. In 137
fondo si assomigliavano nel loro terrore di affrontare un conflitto, e la regolarità di quelle telefonate serali, per quanto Emily non le considerasse sincere, rappresentava un conforto per entrambi. Se la finzione era solo frutto di un’ipocrisia convenzionale, doveva ammettere che funzionava. La vita le offriva motivi di soddisfazione: la villa, il parco, i figli soprattutto - ed Emily intendeva conservarli evitando di provocare Jack. Del resto la presenza di lui non le mancava tanto quanto la sua voce al telefono. Pur non assomigliando all’amore, le continue menzogne erano comunque un segno di attenzione durevole; Jack doveva volerle bene per costringersi a inventare scuse tanto elaborate e da così tanto tempo. Il suo inganno era una forma di tributo all’importanza del loro matrimonio. Trattata ingiustamente come bambina, trattata ingiustamente come moglie. Ma non era poi tanto infelice. Si fermò sulla soglia del salotto e notò che i bicchieri da cocktail sporchi di cioccolato non erano ancora stati ritirati, e che la porta finestra sul giardino era rimasta aperta. In quel momento una bava di brezza fece frusciare i falaschi sistemati davanti al caminetto. Due o tre grosse falene volavano in cerchio intorno alla lampada appoggiata sul clavicembalo. Chissà se qualcuno l’avrebbe mai più suonato. Il fatto che gli insetti notturni fossero attratti dalla luce là dove altri insetti notturni li avrebbero solo divorati con più agio, costituiva uno di quei piccoli misteri che le procuravano piacere. Preferiva non cercare spiegazioni. Una volta a un pranzo formale un professore di qualche disciplina scientifica in vena di chiacchiere aveva indicato ai commensali alcuni insetti in volo sopra i lampadari. Poi le aveva detto che ad attirarli era l’impressione ottica di un’oscurità ancor più fitta al di là della luce. Anche a rischio di essere mangiati, essi dovevano obbedire all’istinto che li portava a cercare i luoghi più bui, al fondo della scia di luce, un’illusione, nel caso specifico. A lei era parso un sofisma, o quantomeno una spiegazione trovata a tutti i costi. Come si poteva presumere di conoscere il mondo dal punto di vista di un insetto? Non esisteva un principio che spiegasse ogni singolo fenomeno, e fingere il contrario rappresentava un’intrusione futile nei meccanismi del mondo, che poteva perfino avere conseguenze dolorose. Certe cose erano così e basta. Emily non desiderava sapere perché jack trascorresse tante notti di seguito a Londra. O meglio, non desiderava che glielo dicesse. E neppure desiderava 138
saperne di più sul lavo ro che lo tratteneva fino a tardi al ministero. Mesi prima, non molto dopo Natale, era entrata in biblioteca per svegliarlo dal sonno pomeridiano e aveva visto un dossier aperto sulla sua scrivania. Era stata solo una forma di moderata curiosità coniugale a spingerla a dare un’occhiata, visto che gli affari di stato la interessavano ben poco. Su una pagina, scorse un elenco di titoli: controllo dei tassi di cambio, razionamento, evacuazione di grandi città, arruolamento della classe operaia. Il frontespizio era scritto a mano. Una serie di calcoli aritmetici intervallata da parti di testo. Nel suo bel corsivo diritto in inchiostro marrone, jack le suggeriva di procedere al calcolo moltiplicando per cinquanta. A ogni tonnellata di esplosivo sganciato, corrispondevano cinquanta perdite umane. Prevedendo centomila tonnellate di bombe sganciate nell’arco di due settimane, si otteneva il risultato di cinque milioni di vittime. Emily non lo aveva ancora svegliato e il respiro pesante di lui si mescolava al canto di un uccello invernale tra gli alberi al di là del prato. La luce acquorea del sole tremolava sul dorso dei libri e l’odore di polvere aleggiava ovunque. Emily raggiunse la finestra e rimase a fissare fuori, cercando di individuare l’uccello tra i rami spogli di una quercia, neri contro un cielo pezzato di grigio e celeste pallidissimo. Sapeva bene che occorreva procedere a simili ipotesi teoriche. E certo, i politici dovevano cautelarsi contro qualsiasi tipo di emergenza. Ma l’assurdità di quelle cifre non poteva non essere un’esaltazione del proprio prestigio, avventata fino ai limiti dell’incoscienza. Da jack, il nume tutelare della casa, il garante della sua tranquillità, ci si aspettava una visione lungimirante. Tutte sciocchezze. Quando lo svegliò, lui diede in un breve grugnito prima di chinarsi con gesto improvviso e chiudere il dossier; poi, senza alzarsi, portò la mano di lei sulle labbra asciutte e gliela baciò. Decise di non chiudere le porte finestre, e sedette a un’estremità del divano. Non avrebbe potuto dire di sentirsi esattamente in attesa. Nessuno di sua conoscenza la eguagliava nella capacità di restare immobile, senza nemmeno un libro in grembo, per poi spostarsi con dolcezza tra i pensieri come si potrebbe procedere all’esplorazione di un giardino sconosciuto. Aveva imparato l’esercizio della pazienza in anni passati a scongiurare emicranie. Ansia, concentrazione, lettura, osservazione, desiderio: tutte cose da evitare in favore di una lenta deriva di associazioni mentali, mentre i minuti si accumulavano come mucchi di neve e 139
il silenzio cresceva intorno a lei. Seduta qui ora sentiva l’aria della sera sfiorarle l’orlo del vestito sugli stinchi. La sua infanzia era tangibile come la seta cangiante dell’abito: un sapore, un suono, un odore, ognuno di questi elementi si mescolava agli altri per dare corpo a qualcosa che era ben più di uno stato d’animo. C’era una presenza nella stanza, Emily a dieci anni, una bambina perfino più introversa di Briony, triste e trascurata, che passava ore a interrogarsi sull’enorme vacuità del tempo, e a meravigliarsi del fatto che il diciannovesimo secolo stesse per finire. Era proprio da lei restarsene seduta in disparte, anziché unirsi agli altri. Lo spettro infantile era stato evocato non da Lola che imitava Hermione, né dall’imperscrutabile serietà dei gemelli ora ingoiati dalla notte. Si trattava piuttosto di un lento ritiro, un rifugiarsi dentro un mondo autonomo che andava di pari passo con la fine imminente dell’infanzia di Briony. Il fantasma era tornato a tormentarla. Briony era la sua ultima figlia, e non ci sarebbe stato più nulla tra il presente e la tomba di altrettanto essenziale e felice quanto l’occuparsi di un bambino. Sciocca non era. Sapeva benissimo che era solo vittimismo abbandonarsi alla contemplazione della propria apparente rovina: Briony avrebbe senz’altro imitato la sorella, andando al Girton College, mentre lei, Emily, si sarebbe fatta ogni giorno più anchilosata e insignificante; l’età e la stanchezza le avrebbero restituito jack, senza che nessuno sentisse il bisogno di chiarire. Ed ecco che lo spettro dell’infanzia, aleggiando nello spazio della sala, veniva a ricordarle l’esiguità dell’arco di una vita. Come finisce tutto in fretta. Altro che immensa vacuità del tempo, era una corsa a perdifiato. Inesorabile. Tali ordinarie considerazioni non la avvilirono molto. Emily
fluttuava
su
di
esse
riservando
loro
uno
sguardo
neutrale
e
intrecciandole distrattamente a pensieri di ordine diverso. Aveva intenzione di piantare una siepe di ceanothus lungo il viottolo d’accesso alla piscina. Robbie stava cercando di convincerla a erigere una pergola per poi farci crescere intorno un glicine di cui amava il fiore e il profumo. Ma lei e jack sarebbero stati morti e sepolti prima che si fosse ottenuto l’effetto desiderato. A quel punto la storia sarebbe finita da un pezzo. Ripensò a Robbie durante la cena: gli aveva notato un bagliore maniacale negli occhi. Che avesse preso a fumare le sigarette alla marijuana di cui aveva letto su una rivista, sigarette che conducevano i giovani di 140
indole bohémien alle soglie della follia? Robbie le piaceva abbastanza ed era lieta per Grace Turner che si fosse dimostrato un ragazzo così brillante. Ma in realtà si trattava più di un capriccio di jack, la prova vivente di chissà quale principio di uguaglianza che suo marito perseguiva da anni. Quando parlava di Robbie, cosa che non accadeva spesso, lo faceva con un tono di compiaciuta rivendicazione. Era stato sancito qualcosa che Emily interpretava come una critica rivolta a lei. Al tempo in cui jack aveva deciso di accollarsi le spese per l’istruzione del ragazzo, lei si era opposta, trovando l’iniziativa invadente e ingiusta nei riguardi di Leon e delle ragazze. E non riteneva sufficiente a dimostrare che si era sbagliata il semplice fatto che Robbie fosse uscito da Cambridge con il massimo dei voti. Anzi, per Cecilia era stato molto più difficile accettare le sue votazioni scadenti, anche se sarebbe stato assurdo da parte sua fingere di aver provato una delusione. Elevare Robbie. Non ne sarebbe venuto niente di buono, ecco l’espressione che usava spesso in proposito, alla quale jack reagiva replicando soddisfatto che ne era già venuto parecchio, di buono. Ciononostante, era stato decisamente imperdonabile da parte di Briony rivolgersi a Robbie in quel modo a cena. Se nutriva dei rancori personali, Emily poteva comprenderla. C’era da aspettarselo. Ma esprimerli non era dignitoso. A proposito della cena: com’era stato abile il signor Marshall a far sentire tutti a proprio agio. Un partito adatto? Peccato per il suo aspetto fisico, con quella metà faccia che sembrava una camera troppo stipata di mobili. Forse col tempo avrebbe assunto un aspetto un po’ più irsuto, quel gran mento a fetta di formaggio. O di cioccolato. Se davvero avesse rifornito l’intero Esercito Britannico di tavolette di cioccolato sarebbe potuto diventare immensamente ricco. Per Cecilia tuttavia, che aveva appreso a Cambridge i canoni dello snobismo moderno, un uomo con una laurea in chimica rappresentava un essere umano incompleto. Parole sue. Aveva ciondolato al Girton College per tre anni dedicandosi agli stessi identici libri che avrebbe potuto leggere a casa - Jane Austen, Dickens, Conrad, in biblioteca c’erano tutti, le opere complete. Com’era possibile che un’occupazione come quella, che altri consideravano uno svago, le avesse messo in testa di essere superiore a tutti quanti? Anche un chimico aveva la sua utilità. Questo in particolare aveva scoperto il modo di fare la cioccolata con zucchero, sostanze sintetiche, coloranti e oli vegetali. E senza burro di cacao. 141
Produrne una tonnellata, aveva spiegato mentre sorbivano il suo cocktail sconcertante, non costava praticamente nulla. Poteva sbaragliare la concorrenza e aumentare i margini di profitto. In parole povere, quanto benessere, quanti anni sereni potevano sgorgare da quelle marmitte piene di porcherie chimiche. Per più di mezz’ora brandelli di ricordi, giudizi, vaghe decisioni, interrogativi, si srotolarono lentamente davanti a lei, che intanto quasi non cambiò posizione e non udì l’orologio battere il quarto d’ora. Registrò un alito di brezza più forte che chiuse di colpo una porta finestra, prima di tornare a placarsi. In seguito fu disturbata da Betty e dai suoi aiutanti impegnati a riordinare la sala da pranzo, poi anche quei rumori cessarono ed Emily si ritrovò ancora una volta sulle strade tentacolari delle sue fantasie, trasportata dalla catena delle associazioni e allenata da migliaia di emicranie a non concedersi alcun movimento brusco o improvviso. Quando alla fine il telefono squillò, si alzò subito, senza nemmeno trasalire, tornò nell’atrio e, sollevato il ricevitore, esclamò come sempre nel tono ascendente di una domanda: - Casa Tallis? Riconobbe i rumori del centralino, la voce nasale dell’assistente, una pausa e la scarica tipica della chiamata interurbana, infine il tono pacato di Jack. - Mia cara. È più tardi del solito. Mi dispiace enormemente. Erano le undici e mezza. Ma a Emily non importava, perché jack sarebbe stato a casa quel fine settimana, e un giorno sarebbe tornato per sempre senza che una sola parola scortese fosse stata mai pronunciata. Disse: - Figurati, nessun problema. - Ho dovuto rivedere la Relazione del Piano per la Difesa. Occorre prepararne una ristampa. Poi, tra una cosa e l’altra... - Il riarmo, vero? - chiese lei conciliante. - Temo proprio di si. - Lo sai che sono tutti contrari. Jack ridacchiò. - Non certo in questo ufficio. - Lo sono anch’io. - Ebbene, mia cara. Un giorno o l’altro spero di riuscire a convincerti del contrario. - Anch’io. 142
Lo scambio di battute conteneva un tono affettuoso, e una familiarità rassicurante. Come d’abitudine, lui le chiese un resoconto della giornata. Lei gli parlò del gran caldo, dello spettacolo di Briony andato a monte e dell’arrivo di Leon con l’amico, del quale disse: - Sta dalla tua parte. Ma vuole più soldati in modo da poter vendere al governo la sua cioccolata. - Già. Il magnate della carta stagnola. Emily gli descrisse la cena, e lo sguardo poco rassicurante di Robbie. - È proprio necessario che lo manteniamo anche a medicina? - Altroché. Ha fatto una scelta coraggiosa. È tipico di lui. Se la caverà bene. Poi Emily raccontò di come la cena si fosse conclusa con il messaggio dei gemelli e con i soccorritori sparpagliati per il parco. - Ah, quei piccoli scavezzacollo. E alla fine dov’erano? - Non lo so. Sto ancora aspettando di sentire. Ci fu un silenzio all’altro capo del filo, rotto soltanto da qualche cigolio meccanico in lontananza. Quando alla fine l’autorevole Funzionario di Stato parlò, aveva già preso la sua decisione. L’uso inconsueto del suo nome le comunicò la serietà delle parole del marito. - Adesso metto giù, Emily, perché voglio chiamare la polizia. - Pensi che sia proprio necessario? Prima che arrivino... - Se hai notizie, mi avverti immediatamente. - Aspetta... Un rumore improvviso l’aveva fatta voltare. Leon stava entrando in casa. Poco dietro di lui veniva Cecilia in preda a un muto sbigottimento. Poi entrò Briony con un braccio intorno alle spalle della cugina. La faccia di Lola era talmente pallida e tesa, simile a una maschera di creta, che Emily, incapace di leggervi una qualsiasi espressione significativa, pensò subito al peggio. Dov’erano i gemelli? Leon attraversò l’atrio diretto verso di lei, con una mano già pronta ad afferrare il ricevitore. C’era una macchia di terra bagnata che dal risvolto dei calzoni gli saliva fino al ginocchio. Fango, con un clima così secco. Aveva il respiro affannoso per la fatica, e una ciocca di capelli unti gli ciondolava in faccia mentre le strappava la cornetta e le voltava le spalle. - Sei tu, Papà? Si. Ascolta, credo che faresti meglio a venire qui. No, non ancora, e c’è di peggio. No, no, non posso parlare adesso. Se puoi, già questa 143
sera. Dovremo chiamarli comunque. È meglio che lo faccia tu. Emily si portò una mano sul cuore e si avvicinò di un paio di passi a Cecilia e alle ragazze che stavano a guardare. Leon aveva abbassato la voce e bisbigliava qualcosa nel telefono riparandosi con la mano a coppa. Emily non udì una parola di quello che disse, e non intendeva ascoltare. Avrebbe preferito ritirarsi di sopra in camera sua, ma Leon concluse la telefonata sbattendo rumorosamente la cornetta di bachelite, per poi rivolgersi a lei. Aveva negli occhi uno sguardo tesissimo, e sua madre si chiese se era rabbia quella che vedeva. Leon intanto cercava di fare respiri più lunghi, poi distese le labbra intorno ai denti in un sorriso strano. Disse: - Andiamo in salotto, così possiamo sederci. Emily colse perfettamente il senso delle sue parole. Non intendeva dirglielo adesso, non voleva vederla crollare a terra e spaccarsi la testa. Lo fissò, ma lui non si mosse. - Su, vieni, Emily, - disse. La mano del figlio era calda e pesante quando le si posò sulla spalla e lei ne sentì il sudore attraverso la seta. Incapace di reagire, si lasciò guidare in salotto, mentre tutto il suo terrore si concentrava sul semplice fatto che Leon voleva vederla seduta prima di comunicarle la notizia.
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Capitolo tredicesimo In capo a mezz’ora, Briony avrebbe commesso il suo crimine. Consapevole del fatto che stava dividendo lo spazio notturno con un maniaco, dapprima si tenne vicina ai muri bui della villa, abbassando bene la testa sotto i davanzali ogni volta che passava davanti a una finestra illuminata. Sapeva che lui si sarebbe incamminato per il viottolo principale, perché era quella la strada che avevano preso Cecilia e Leon. Non appena ritenne che tra loro si fosse frapposta una distanza di sicurezza, Briony lasciò coraggiosamente le vicinanze dell’edificio, compiendo un ampio giro che, dalle scuderie, la portò fino alla piscina. Era sicuramente sensato controllare se i gemelli erano li a fare gli stupidi con le pompe, o magari a galleggiare sull’acqua a faccia in giù, resi indistinguibili, una volta per tutte, dalla morte. Briony pensò a come avrebbe potuto descrivere il loro dondolio sulla superficie appena mossa dell’acqua, con i capelli fluttuanti come tentacoli e i loro corpi vestiti che entravano in lenta collisione per poi tornare a separarsi. L’aria secca della notte si insinuava tra la stoffa del vestito e la pelle, facendola sentire agile e libera nell’oscurità. Non c’era nulla che non fosse in grado di descrivere: l’avanzare cauto di un maniaco che si manteneva sul ciglio erboso della strada per attutire il rumore dei propri passi. Ma con Cecilia c’era suo fratello, che sollievo. Avrebbe saputo descrivere anche quell’aria deliziosa, con l’erba che sfogava il profumo dolce delle vacche, e la terra incendiata in cui ancora ardeva la calura del giorno esalando l’odore minerale dell’argilla, e la debole brezza che portava dal lago un aroma di verde e d’argento. Briony ruppe in una corsa sfrenata nell’erba e pensò che avrebbe potuto non smettere per tutta la notte di tagliare col corpo la seta dell’aria, con le ruvide spire della terra dura sotto i piedi che la facevano rimbalzare in avanti e con il buio che raddoppiava l’impressione della velocità. A volte sognava di correre così, poi di piegarsi appena, distendere le braccia e, abbandonandosi con fiducia - questo sì che era difficile, ma non nel sonno -, di staccarsi da terra con un semplice passo, e volteggiare a bassa quota su siepi e cancellate e tetti, per poi spiccare il volo più in alto e librarsi sotto il manto di nubi, sopra i campi, prima di ridiscendere in picchiata. Aveva la sensazione di poter fare altrettanto in virtù del solo desiderio;
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il mondo su cui correva le voleva bene e le avrebbe dato ciò che lei chiedeva permettendo che il fenomeno accadesse. Poi, dopo averlo vissuto, lo avrebbe descritto. Scrivere, in fondo, non era come librarsi in cielo, sperimentare una forma possibile di volo, di fantasia, di immaginazione? Ma c’era un maniaco a spasso nella notte con le sue voglie oscure e inappagate - lei lo aveva già disturbato una volta -, e avrebbe dovuto restare con i piedi per terra per descrivere anche lui. Prima di tutto doveva proteggere la sorella, e poi trovare il modo di trasferirlo nel rifugio sicuro della pagina. Briony rallentò, pensando a quanto lui dovesse odiarla per averlo interrotto in biblioteca. E benché la cosa la terrorizzasse, rappresentava anche un’altra novità, una sorta di nascita, una prima volta: essere odiata da un adulto. I bambini odiavano senza economie, capricciosamente. In modo del tutto irrilevante. Ma essere l’oggetto dell’odio di un adulto costituiva l’iniziazione solenne a un mondo nuovo. Una promozione. Forse Robbie era tornato indietro e la stava aspettando con intenzioni omicide dietro le scuderie. Ma lei stava cercando di non farsi spaventare. Aveva sostenuto il suo sguardo in biblioteca mentre la sorella le scivolava accanto, senza rivolgerle nemmeno una parola dopo che lei l’aveva salvata. Non le importavano i ringraziamenti, non si trattava di ricompense. Quando c’è di mezzo l’amore disinteressato, non occorre dirsi nulla, perciò lei avrebbe continuato a proteggere la sorella anche se Cecilia si rifiutava di riconoscere il suo debito di gratitudine. Comunque, Briony non poteva avere paura di Robbie adesso; meglio, molto meglio lasciarlo diventare oggetto di avversione e disprezzo. A lui la famiglia Tallis aveva sempre riservato piacevolezze di ogni tipo: la casa stessa nella quale era cresciuto, innumerevoli viaggi in Francia, l’uniforme della scuola e i libri, e Cambridge - e in cambio lui aveva scritto quella parola terribile contro sua sorella, e abusando in modo incredibile dell’ospitalità, aveva anche fatto uso della forza fisica, prima di sedersi con insolenza alla loro tavola fingendo che fosse tutto come prima. Quanta falsità, oh, come non vedeva l’ora di dirlo. La vita vera, la sua vita appena incominciata le presentava un malvagio nei panni di un vecchio amico di famiglia dal corpo forte e impacciato e il volto irsuto e cordiale, lo stesso che una volta se la caricava sulle spalle, e nuotava nel fiume insieme a lei, tenendola stretta perché la corrente non se la portasse via. Le pareva abbastanza giusto: la 146
verità era strana e ingannevole, occorreva lottare per scoprirla, resistendo al flusso dell’ordinaria quotidianità. Questo era esattamente ciò che nessuno si sarebbe mai aspettato, ed era ovvio: i malvagi non si fanno annunciare da sibili sinistri e soliloqui, non si presentano avvolti in un mantello nero, esibendo un ghigno malefico. Sul lato opposto della villa, Leon e Cecilia si stavano allontanando. Forse lei gli stava raccontando dell’aggressione subita. In questo caso, lui doveva averle messo il braccio intorno alle spalle. Insieme, i ragazzi di casa Tallis si sarebbero liberati di quel bruto, lo avrebbero spedito in un luogo sicuro lontano dalle loro esistenze. Avrebbero dovuto affrontare e convincere il padre, e poi confortarne la rabbia e la delusione. Il suo protetto si era rivelato nientemeno che un maniaco. Il termine utilizzato da Lola sollevava un polverone di parole annesse - uomo adulto, folle, aggressione, accusa - confermando la diagnosi. Procedette intorno alle scuderie e si fermò sotto l’entrata ad arco, ai piedi della torre dell’orologio. Chiamò forte i nomi dei gemelli, e per tutta risposta udì soltanto uno scalpiccio di zoccoli, e lo sbattere di un corpo pesante contro il box. Era contenta di non essersi mai innamorata di un cavallo o di un pony, perché li avrebbe di certo trascurati in questa fase della vita. Infatti non si avvicinò agli animali, sebbene avessero percepito la sua presenza. Secondo il loro modo di sentire, un genio notturno, una divinità si aggirava alla periferia del mondo, e perciò si sforzavano di attirarne l’attenzione. Ma Briony si voltò e proseguì verso la piscina. Si chiese se avere la responsabilità completa di un’altra creatura, compreso un cane o un cavallo, rappresentasse in qualche misura l’opposto del viaggio intimo e libero della scrittura. La protezione ansiosa, la partecipazione ai pensieri di un altro, l’assumersi un ruolo dominante mentre si conduce per mano il destino di qualcuno, non assomigliavano certo alla libertà mentale. Forse sarebbe diventata una di quelle donne - compatite o invidiate - che decidevano di non avere figli. Procedette sul sentiero in mattoni che girava intorno alle scuderie. Come dalla terra, anche dai mattoni polverosi saliva il caldo intrappolato durante il giorno. Briony se lo sentì sulla faccia e sui polpacci nudi. Inciampò mentre affrettava il passo nel buio della galleria di canne, e riemerse nella rassicurante geometria del lastricato. 147
Le luci subacquee installate nella primavera erano ancora una novità. Il loro chiarore azzurrino rivolto verso l’alto conferiva a tutto ciò che circondava la piscina un aspetto incolore e lunare da fotografia in bianco e nero. Una caraffa di vetro, due bicchieri da bibita e un telo erano rimasti sul vecchio tavolino di ferro. Un terzo bicchiere con dentro pezzi di frutta molle stava invece al fondo del trampolino. Non c’erano corpi nella vasca, non si sentiva nessuno ridacchiare nell’oscurità del padiglione, nessun fruscio provenire dalle ombre dense del canneto. Briony fece un giro lento intorno alla piscina, non più con lo scopo di cercare, ma attratta dal bagliore e dalla vitrea immobilità dell’acqua. A dispetto del pericolo che quel maniaco rappresentava per la sorella, era bellissimo trovarsi fuori così tardi, con tanto di permesso. Non credeva che i gemelli fossero nei guai. Anche se avessero visto la cartina della zona incorniciata in biblioteca e fossero stati abbastanza svegli da riuscire a leggerla, e si fossero messi in mente di lasciare la tenuta e marciare tutta la notte puntando verso nord, avrebbero dovuto seguire la strada nei boschi che costeggiava la ferrovia. In quel periodo dell’anno, con le fronde degli alberi fitte sulla strada, il cammino sarebbe stato nel buio più completo. L’unica altra via d’uscita era quella del cancelletto, giù al fiume. Ma anche lì non ci sarebbe stata luce, ed era impossibile mantenersi sul sentiero evitando di sbattere nei rami bassi e di finire in mezzo alle ortiche che crescevano fitte su entrambi i lati del viottolo. I gemelli non avrebbero avuto il fegato di affrontare un pericolo simile. Loro due erano quindi al sicuro, Cecilia era insieme a Leon e lei, Briony, era libera di vagare nel buio ripensando alla giornata straordinaria. Mentre si allontanava dalla piscina decise che la sua infanzia era finita nell’attimo in cui aveva strappato la locandina. Le fiabe appartenevano ormai al passato e, nel giro di poche ore, era stata testimone di misteri, aveva letto una parola irripetibile, interrotto un’aggressione brutale e, suscitando l’odio di un adulto del quale tutti avevano fiducia, aveva assunto un ruolo nel dramma della vita. Tutto ciò che le restava da fare era scoprire le storie, non solo i temi, ma anche un modo per svilupparli, storie che avrebbero reso giustizia al suo nuovo sapere. O era forse più corretto dire alla comprensione più saggia della sua ignoranza? Fissare l’acqua per alcuni minuti di seguito le aveva fatto venire in mente il lago. Forse i gemelli si nascondevano nel tempietto sull’isola. Il luogo era buio, ma 148
non troppo distante dalla villa, un posticino accogliente con il vantaggio dell’acqua e di non troppe ombre. Gli altri potevano aver superato il ponte senza nemmeno guardare laggiù. Decise di Procedere fino al lago facendo il giro dietro la casa. Due minuti più tardi stava attraversando il roseto e il viottolo in ghiaia di fronte alla fontana del Tritone, palcoscenico di un altro mistero che ovviamente preludeva alle brutalità successive. Superandolo, a Briony parve di udire un grido soffocato, e di vedere con la coda dell’occhio un punto di luce accendersi e spegnersi. Si fermò, e si mise in ascolto sforzandosi di cancellare lo sgocciolio della fontana. Il grido e la luce provenivano dal bosco accanto al fiume, a poche centinaia di metri da lì. Avanzò in quella direzione per mezzo minuto, prima di sostare di nuovo in ascolto. Ma non c’era nulla, nient’altro che la massa scura degli alberi appena visibile contro il blu quasi grigio del cielo a ponente. Dopo aver aspettato un momento decise di ritornare. Per ritrovare il sentiero marciò dritta in direzione della villa, verso la terrazza dove il globo di una lampada a olio brillava in mezzo a bicchieri, bottiglie e un secchiello da ghiaccio. Le porte finestre del salotto erano ancora spalancate sulla notte. Briony vedeva benissimo l’interno. E, alla luce di un’unica lampada, parzialmente nascosta da un lembo del tendone di velluto, riuscì a scorgere un’estremità del divano dove stava appoggiato di sghembo un oggetto cilindrico che dava l’impressione di essere sospeso. Solo dopo aver coperto un’altra cinquantina di metri capì che stava guardando una gamba isolata dal resto del corpo. Avvicinatasi ulteriormente, afferrò il gioco di prospettive: la gamba era di sua madre, senz’altro, seduta in attesa del ritorno dei gemelli. La sua figura era quasi del tutto nascosta dall’ombra delle tende, e la gamba visibile era sostenuta dal ginocchio dell’altra, ragione per cui appariva obliqua e sollevata dal divano. Accostandosi alla casa, Briony si spostò verso una finestra alla sua sinistra in modo che Emily non la potesse vedere. Si ritrovò alle spalle della madre a una distanza che non le consentiva di scorgerne gli occhi. Riusciva a distinguere solo la curva sotto lo zigomo e l’orbita. Briony era comunque sicura che avesse gli occhi chiusi. La testa era buttata all’indietro, e le mani mollemente in grembo. La sua spalla destra saliva e scendeva appena seguendo il ritmo del respiro. Briony non vedeva la bocca, tuttavia ne conosceva la piega all’ingiù nella quale molti 149
leggevano il segno - il geroglifico - di un rimprovero. Ma non era così, perché sua madre era infinitamente buona, dolce e gentile. Guardarla così, seduta da sola nel cuore della notte, era triste, ma di una tristezza piacevole. Briony si concesse lo spirito di un addio sbirciando dalla finestra. Sua madre aveva quarantasei anni, in fondo, era disperatamente vecchia. Un giorno sarebbe morta. Al funerale in paese, la dignitosa compostezza di Briony avrebbe lasciato intendere l’immensità del suo dolore. Avvicinandosi per mormorarle qualche parola di condoglianze, gli amici sarebbero stati scossi dalla portata della sua tragedia. Briony si vedeva sola in una grande arena all’interno di un imponente colosseo, osservata non solo da tutte le persone che conosceva, ma anche da tutte quelle che avrebbe conosciuto, il cast della sua vita al completo, radunatosi per amarla nel momento della perdita. Al cimitero poi, in quello che chiamavano l’angolo dei nonni, lei e Leon e Cecilia si sarebbero stretti in un interminabile abbraccio nell’erba alta accanto alla nuova lapide, sempre sotto lo sguardo degli astanti. Una scena indimenticabile. Fu la pietà di tutti quegli amici a farle rizzare le orecchie. Avrebbe potuto andare dalla madre subito, rannicchiarsi vicino a lei e mettersi a raccontarle la cronaca della giornata trascorsa. Se l’avesse fatto, non avrebbe mai commesso il suo crimine. Così tante cose non sarebbero accadute, non sarebbe successo nulla, e la carezzevole mano del tempo avrebbe reso la giornata a malapena degna di memoria: la notte in cui i gemelli scapparono di casa. Cos’era già, il trentaquattro, il trentacinque, o il trentasei? Per nessuna ragione particolare invece, se si esclude il vago imperativo di proseguire le ricerche e il piacere di trovarsi fuori così tardi, venne via, e mentre si allontanava, sbatté con la spalla contro una porta finestra chiudendola di colpo. Il rumore fu secco - pino stagionato contro legno duro - e risuonò come un rimprovero. Se restava, avrebbe dovuto giustificarsi, quindi sgattaiolò nel buio, saltellando in punta di piedi sulle lastre di pietra e le erbe profumate che vi crescevano in mezzo. Poi raggiunse il prato tra le rose dove era possibile correre senza fare rumore. Fece il giro sul lato della villa e vi giunse davanti, sulla spianata di ghiaia che aveva attraversato scalza quel pomeriggio. Qui rallentò voltandosi verso il ponte in fondo al vialetto. Era tornata al punto di partenza e pensò che avrebbe senz’altro visto gli altri, o udito le loro voci. Ma 150
non c’era nessuno. Le sagome scure degli alberi radi all’estremità del parco la fecero esitare. Qualcuno la odiava, occorreva non dimenticarsene, un uomo imprevedibile e violento, oltretutto. Leon, Cecilia e il signor Marshall chissà dov’erano ormai. Gli alberi più vicini, o almeno i loro tronchi, avevano forme umane. O potevano nasconderne. Perfino un uomo in piedi davanti a uno di essi non sarebbe stato visibile. Per la prima volta, Briony notò la brezza che spazzava le fronde delle piante, e quel fruscio familiare la turbò. Milioni di ansie precise e separate le bombardarono i sensi. Quando il vento all’improvviso soffiò più forte e si spense, il rumore si allontanò da lei viaggiando sul parco immerso nel buio come una creatura viva. Briony si fermò e si chiese se avrebbe avuto il coraggio di raggiungere il ponte, attraversarlo e poi abbandonarlo per scendere dalla riva scoscesa fino al tempio. Soprattutto dal momento che non era in gioco granché; solo il sospetto da parte sua che i gemelli potessero essersi spinti fin lì. A differenza degli adulti, Briony non aveva una torcia. Nessuno si aspettava nulla da lei, in fondo era ancora una bambina ai loro occhi. I gemelli non erano in pericolo. Rimase sulla ghiaia per un paio di minuti, non abbastanza spaventata da fare dietrofront, ma nemmeno abbastanza sicura da procedere. Poteva tornare dalla madre e tenerle compagnia in salotto dove stava aspettando. Poteva percorrere una strada più sicura, lungo il vialetto principale prima che questo si inoltrasse nel bosco, pur continuando a dare l’impressione di una ricerca seria. Poi, proprio perché la giornata le aveva dimostrato che non era più una bambina, e che ormai era entrata in una storia più intensa di cui doveva dimostrarsi all’altezza, si costrinse a proseguire e ad attraversare il ponte. Da sotto di lei, amplificato dall’arco di pietra, giunse il sibilo della brezza tra i falaschi, e un improvviso frullo d’ali sull’acqua che subito si spense. Rumori familiari ingigantiti dal buio. Un buio che non era nulla, non aveva sostanza, non era una presenza, nient’altro che un’assenza di luce. Il ponte conduceva solo a un isolotto artificiale su un lago artificiale. Era li da quasi duecento anni, un elemento separato dal terreno della villa che apparteneva a Briony più che a chiunque altro. Lei era l’unica a venirci ogni tanto. Per gli altri non rappresentava che un passaggio per andare e venire da casa, un ponticello qualunque, un ornamento ormai tanto noto da diventare 151
invisibile. Hardman ci veniva due volte l’anno con il figlio per falciare l’erba intorno al tempio. Di lì erano passati i vagabondi. Qualche anatra migratoria ne aveva occasionalmente onorato le sponde erbose. Per il resto, era il regno solitario di conigli, uccelli acquatici e topi d’acqua. Perciò non doveva essere così difficile scendere sulla riva e raggiungere il tempio. Eppure Briony ebbe un altro momento di esitazione e si limitò a guardarsi intorno, senza nemmeno chiamare i gemelli. L’indistinto pallore dell’edificio luccicava nel buio. Se lo guardava fisso, si dissolveva. Si trovava a un centinaio di metri di distanza, mentre più vicino, al centro della distesa d’erba, c’era un cespuglio che non ricordava. O meglio, le pareva che fosse sempre stato più vicino alla riva. Anche gli alberi avevano qualcosa di insolito, almeno per quanto riusciva a scorgerne. La quercia era troppo gibbosa, l’olmo troppo rado, e in quella loro stranezza parevano alleati. Quando Briony appoggiò la mano sul parapetto del ponte, un’anatra la fece trasalire con il suo verso chiassoso e sgradevole, quasi umano con quella sua nota calante e roca. Era la ripidezza della sponda, ovviamente, a trattenerla, e l’idea della discesa, e il fatto che l’impresa non avesse molto senso. Ma ormai aveva deciso. Procedette all’indietro, aggrappandosi ai ciuffi d’erba, e giunta al fondo si fermò solo per pulirsi le mani nel vestito. Avanzò diretta al tempio; aveva fatto sette otto passi ed era sul punto di chiamare forte i gemelli quando il cespuglio che stava dritto sulla sua strada quello che secondo lei doveva essere più vicino all’acqua - incominciò ad aprirsi davanti a lei, o a dividersi, a guizzare e infine a biforcarsi. Cambiava forma in modo complicato, assottigliandosi alla base mentre ne fuoriusciva una colonna verticale
alta
più
di
un
metro
e
mezzo.
Briony
si
sarebbe
bloccata
immediatamente se non fosse stata ancora convintissima che si trattava solo di un cespuglio, e che ciò che vedeva era un semplice scherzo del buio e della prospettiva. Un altro paio di secondi, ancora qualche passo, e si rese conto che le cose non stavano così. A quel punto si fermò. La massa verticale era una figura umana, una persona che si allontanava da lei di spalle sparendo a poco a poco sullo sfondo più scuro degli alberi. Anche la macchia nera rimasta a terra era la sagoma di una persona che a sua volta cambiò forma mettendosi a sedere e pronunciando il suo nome. 152
- Briony? Briony colse l’impotenza nella voce di Lola - lo stesso suono che poco prima aveva scambiato per il verso di un’anatra - e in un attimo capì. Fu colta da un senso di nausea prodotto dal disgusto e dal terrore. Frattanto la figura più grande era ricomparsa: stava facendo il giro della radura erbosa e si dirigeva alla sponda dalla quale era appena scesa lei. Sapeva che avrebbe dovuto occuparsi di Lola, ma non poté fare a meno di guardare l’uomo arrampicarsi rapidamente e senza sforzi per poi sparire sulla strada. Udì il calpestio dei suoi passi diretti alla villa. Non aveva alcun dubbio. Avrebbe potuto descriverlo. Non c’era cosa al mondo che non sapesse descrivere. Si inginocchiò accanto alla cugina. - Lola. Ti senti bene? Briony le sfiorò la spalla, e brancolò inutilmente in cerca della sua mano. Lola sedeva china in avanti, le braccia strette intorno al petto, e dondolava lentamente. La voce uscì flebile e alterata, come impedita da un grumo di muco in gola. Avrebbe dovuto schiarirsela. Disse confusa: - Mi dispiace, io non... mi dispiace... Briony le mormorò: - Chi era? - e prima di ottenere risposta, aggiunse, con tutta la calma di cui era capace: - L’ho visto. Io l’ho visto. Lola replicò docilmente: - Si. Per la seconda volta quella sera, Briony sentì sbocciarle dentro un moto di tenerezza per la cugina. Insieme affrontavano paure reali. Lei e la cugina erano vicinissime. Briony stava in ginocchio, e cercava di cingere Lola con le braccia per portarsela al petto, ma il corpo della ragazza era ossuto e rigido, chiuso in se stesso come una conchiglia. Una chiocciola di mare. Lola si teneva stretta e dondolava. Briony disse: - È stato lui, vero? Più ancora che vederla, sentì la cugina annuirle lentamente sul torace. Forse era troppo stanca. Dopo parecchi secondi, Lola disse con la stessa voce sommessa e inconsistente di prima: - Si. È stato lui. All’improvviso, Briony avrebbe voluto sentirle pronunciare il nome. Confermare il crimine, sigillarlo nell’accusa della vittima, sancirne il destino con la formula magica di un nome. 153
- Lola, - sussurrò, senza potersi negare di essere stranamente esaltata, - Lola. Chi è stato? Il dondolio si interruppe. L’isola divenne molto ferma. Senza cambiare posizione, Lola parve volersi sottrarre, muovere le spalle, stringerle, liberarle dall’abbraccio affettuoso di Briony. Distolse il capo e puntò lo sguardo lontano in direzione del lago. Poteva essere sul punto di parlare, di imbarcarsi in una lunga confessione nel corso della quale avrebbe scoperto, formulandoli, i suoi stessi sentimenti per uscire infine da quell’intontimento e raggiungere uno stato d’animo che assomigliava al terrore come alla gioia. Il suo voltarsi poteva non significare una volontà di distacco, bensì un gesto di intimità, un modo per raccogliersi in se stessa prima di incominciare a dar voce alle emozioni con l’unica persona che, tanto lontano da casa, poteva considerare fidata. Forse aveva già perfino preso fiato e dischiuso le labbra. Ma non ebbe importanza perché Briony stava per interromperla e l’occasione sarebbe sfumata. Erano passati così tanti secondi - trenta? quarantacinque? - e la ragazza più giovane non ce la faceva più a trattenersi. Tutto coincideva. Era stata lei a scoprire l’avvenimento. Era sua la storia, quella che si andava ormai scrivendo intorno a lei. - È stato Robbie, non è vero? Il maniaco. Avrebbe voluto ripetere la parola. Lola non disse nulla e non si mosse. Briony lo ridisse, questa volta però senza usare il tono interrogativo. Si trattava di una affermazione. - È stato Robbie. Benché non si fosse voltata, ne mossa affatto, era chiaro che qualcosa stava cambiando in Lola, un calore che emanava dalla sua persona e lo schiocco asciutto del tentativo di ingoiare la saliva che si risolse in un rumoroso e protratto sussulto di gola. Briony lo disse ancora. Semplicemente. - Robbie. Di lontano, sul lago, venne il tonfo grasso e sonoro di un pesce che saltava sull’acqua; un suono netto, isolato, perché la brezza era ormai calata del tutto. Nessun fruscio spaventoso tra le fronde degli alberi e i falaschi. Alla fine Lola girò lentamente la testa per guardare Briony in faccia. Disse: - L’hai visto. - Come ha potuto? - gemette Briony. - Come ha osato? Lola si portò la mano sul braccio nudo e lo strinse. Le sue parole sommesse 154
uscirono ben separate. - Tu l’hai visto. Briony si fece ancor più vicina e coprì con la sua la mano di Lola. - E tu non sai che cosa e successo in biblioteca, prima di cena, subito dopo che ci eravamo parlate. Stava aggredendo mia sorella. Se non fossi entrata, non so cosa le avrebbe fatto... Per quanto fossero vicinissime non era possibile decifrare le espressioni dell’altra. Il disco scuro del viso di Lola non rivelava nulla, ma Briony sentì che la cugina non le prestava ascolto del tutto, e l’impressione trovò conferma quando Lola la interruppe per ripetere: - Ma tu l’hai visto. L’hai proprio visto. - Certo. Come se fosse giorno. Era lui. A dispetto del tepore notturno, Lola incominciò a tremare e Briony avrebbe voluto potersi togliere qualcosa per metterglielo addosso. Lola disse: - Mi ha presa alle spalle, capisci. Mi ha buttata a terra... e poi... mi ha spinto la testa all’indietro e mi ha messo la mano sugli occhi. Non ho potuto, non sono riuscita a... - Oh, Lola, - Briony distese una mano per cercare la faccia della cugina e trovò la sua guancia. Era ancora asciutta, ma sapeva che non sarebbe rimasta così per molto. - Ascoltami. Non posso essermi sbagliata. Lo conosco da sempre. L’ho visto. - Perché io non saprei dire con sicurezza. Cioè, ho pensato che potesse essere lui dalla voce. - Che cosa diceva? - Niente. Cioè, era solo il suono della sua voce; respirava, faceva dei versi. Non potrei dire con sicurezza. - Io invece si. E lo farò. E così le loro rispettive posizioni, che avrebbero trovato pubblica espressione nelle settimane e nei mesi a venire e che, come demoni, sarebbero state rivisitate in privato per molti anni ancora, si formalizzarono in quei pochi momenti nei pressi del lago, con la certezza di Briony che aumentava quanto più la cugina dichiarava di dubitare di sé. In seguito a Lola fu chiesto ben poco, anche perché lei riuscì a ritirarsi dietro un atteggiamento di confusione ferita, e assumendo il ruolo di preziosa paziente, vittima convalescente e bambina smarrita, si lasciò 155
circondare dall’ansia e dal senso di colpa di tutti gli adulti della sua vita. Come abbiamo potuto permettere che accadesse una cosa simile a una bambina? Lola non fu in grado di rendersi utile, ma non ne ebbe bisogno. Briony le offrì un’opportunità e lei istintivamente la colse; anzi, nemmeno, si limitò a permettere che le calasse addosso. Ebbe poco altro da fare che rimanersene in silenzio protetta dallo zelo della cugina. Lola non ebbe bisogno di mentire, di guardare negli occhi il suo presunto aggressore e trovare il coraggio di accusarlo, perché spontaneamente e candidamente fu la ragazzina più giovane ad accollarsi tutto il lavoro per lei. A Lola fu chiesto soltanto di tacere la verità, di bandirla dalla memoria e dimenticarla del tutto e di convincersi non tanto di una storia diversa, quanto delle proprie incertezze. Non era riuscita a vedere, aveva sugli occhi la mano di lui, era terrorizzata, non poteva affermare con sicurezza. Briony fu lì ad aiutarla in ogni stadio della vicenda. Per conto suo, tutto quadrava: l’atroce presente coronava il recente passato. Eventi dei quali era stata testimone diretta lasciavano presagire la disgrazia della cugina. Se solo lei, Briony, fosse stata meno innocente, un po’ meno stupida. Ora invece la questione era troppo perfettamente consequenziale, troppo simmetrica per poterle sembrare diversa da come l’aveva descritta. Si rimproverò la convinzione infantile che Robbie avrebbe riversato le proprie attenzioni solo su Cecilia. Ma che cosa aveva in testa? Era un maniaco, dopotutto. Gli andava bene chiunque. Ovvio che se la prendesse con la più vulnerabile: una ragazza magrolina che procedeva inciampando nel buio di un luogo a lei sconosciuto, per cercare coraggiosamente i fratellini intorno all’isolotto del tempio. Proprio come stava per fare Briony. Il fatto che la vittima avrebbe potuto benissimo essere lei non fece che accrescere la furia e il fervore di Briony. Se la sua povera cugina non era in grado di esercitare un controllo sulla verità, se ne sarebbe assunta l’incarico lei. Io invece sì. E lo farò. A partire dalla settimana successiva, la superficie lucida e compatta della convinzione aveva incominciato a rivelare macchie e incrinature. Ogni volta che se ne rendeva conto, vale a dire non spesso, Briony si sentiva trasportare all’indietro,
con
un
leggero
un’interpretazione diversa
mancamento
dei fatti: ciò
alla
bocca
che lei sapeva
dello
stomaco,
a
non si fondava
letteralmente, o interamente, su ciò che aveva visto. Non erano stati soltanto i 156
suoi occhi a dirle la verità. Era troppo buio. Perfino la faccia di Lola a mezzo metro di distanza non era altro che un ovale vuoto, e la figura dell’uomo era parecchi metri più in là, e le dava le spalle mentre si allontanava sulla radura. Del resto non era neppure invisibile, e la sua stazza come l’andatura le erano risultati familiari. I suoi occhi insomma avevano confermato tutto ciò che lei sapeva e a cui aveva di recente assistito. La verità era contenuta nella simmetria, in altre parole, si radicava nel buonsenso. Era stata la verità a guidare lo sguardo. Perciò quando Briony ripeté, più e più volte, «Io l’ho visto», non mentiva, era anzi assolutamente onesta e convinta. Quello che intendeva era solo più complesso di ciò che tutti gli altri erano tanto pronti a capire, e i suoi momenti di disagio si verificavano quando sentiva di non poter dar voce a certe sfumature. Non ci provò nemmeno in modo serio. Non ne ebbe l’opportunità, il tempo, il permesso. In capo a un paio di giorni, nemmeno, nel giro di poche ore, la macchina si era messa in moto, rapida e ben al di là del suo controllo. Le sue parole evocarono forze tremende nella piccola cittadina familiare e pittoresca. Era come se terrificanti autorità, agenti in borghese, fossero stati in agguato dietro le facciate di graziose villette in attesa di un disastro annunciato. Era tutta gente che sapeva il fatto suo, consapevole di ciò che voleva e di come ottenerlo. Le fecero le stesse domande innumerevoli volte, e mentre lei ripeteva le risposte, sentiva premerle addosso il peso della coerenza. Se aveva detto una cosa, doveva confermarla. Deviazioni anche minime le guadagnavano vaghi rannuvolamenti di fronti molto sagge, o un certo grado di freddezza e il ritiro di ogni simpatia. Briony diventò ansiosa di compiacere e imparò presto che l’aggiunta di qualsiasi marginale specificazione avrebbe mandato a monte il processo da lei stessa innescato. Era
come
una
futura
sposa
che
incominci
a
registrare
fastidiose
preoccupazioni a mano a mano che la data del matrimonio si avvicina, ma che non osi dare voce ai propri pensieri perché sono già in corso troppi preparativi per lei. Avrebbe rischiato di mettere a repentaglio la gioia e la serenità di tante brave persone. Si trattava di brevi momenti di intima inquietudine, superabili solo abbandonandosi all’euforia e alla soddisfazione di chi le stava intorno. Tante persone per bene non potevano sbagliarsi e poi, come le dicevano tutti, dubbi come i suoi erano assolutamente normali. Briony non desiderava compromettere 157
ogni cosa. Non credeva che avrebbe avuto il coraggio, dopo tanta iniziale sicurezza e due o tre giorni di interrogatori pazienti e rispettosi, di ritirare la testimonianza. Tuttavia, avrebbe preferito precisare, dettagliare meglio il proprio uso dell’espressione «Io l’ho visto». Era stata più questione di sapere che di vedere. Poi avrebbe potuto lasciare che fossero gli agenti a stabilire se procedere comunque sulla base di quel genere di testimonianza oculare. Ma loro si mostrarono impassibili ogni volta che lei esitò, e la riportarono con fermezza alle sue dichiarazioni originali. Quello che i loro modi implicitamente dicevano era: non sarai per caso una ragazzina sciocca che vuol fare perdere del tempo a tutti? E assumevano un punto di vista molto severo in fatto di fenomeni visivi. Stabilirono che il chiarore proveniente dal cielo stellato e dalle nuvole basse che riflettevano le luci stradali del vicino centro abitato era sufficiente. Perciò i casi erano due: o aveva visto o non aveva visto. Niente vie di mezzo: non lo dissero mai apertamente, ma le loro maniere brusche lo sottintendevano. Era in quei momenti, quando percepiva la loro freddezza, che Briony tornava a ravvivare il primo ardore della sua deposizione, e confermava. L’ho visto. Sì che era lui. E la confortava constatare che stava ribadendo ciò che gli altri già sapevano. In seguito non sarebbe mai riuscita a consolarsi raccontandosi di essere stata costretta a parlare. Non fu così. Briony si intrappolò da sola, marciò dritta dentro un labirinto da lei stessa allestito, e si scoprì troppo giovane, troppo in soggezione, troppo desiderosa di mostrarsi compiacente per imporsi di tornare sui propri passi. Non aveva il dono di un’indole tanto indipendente, oppure non aveva ancora avuto il tempo di costruirsela. Un’imponente congregazione si era radunata intorno alle sue prime certezze e adesso era in attesa; lei non poteva deluderli alle soglie dell’altare. I suoi dubbi potevano essere neutralizzati solo tuffandocisi dentro più a fondo. Aggrappandosi forte a ciò che credeva di sapere, limitando il raggio delle sue riflessioni, reiterando la testimonianza, solo così era in grado di bandire dai propri pensieri il danno di cui vagamente sentiva di potersi rendere responsabile. Quando la faccenda fu chiusa, la sentenza emessa e l’assemblea si disperse, uno spietato oblio giovanile unito alla volontà di cancellare la protessero per quasi tutta l’adolescenza. Io invece sì. E lo farò. Rimasero per un poco sedute senza parlare, e il tremito di Lola incominciò a 158
placarsi. Briony immaginava di dover accompagnare in casa la cugina, ma non aveva voglia di interrompere quella intimità: aveva messo il braccio intorno alle spalle della ragazza più grande che adesso sembrava disposta ad abbandonarsi. Ben oltre il lago vedevano saltellare un punto di luce. Una torcia accesa in mano a qualcuno sulla strada - ma non commentarono. Quando alla fine Lola parlò, lo fece con tono pacato, come se stesse dando voce a un flusso di sottili controargomentazioni. - Ma non ha senso. Lui è così amico della vostra famiglia. Potrebbe non essere stato lui. Briony mormorò: - Non diresti così, se fossi stata con me in biblioteca. Lola sospirò e scosse il capo lentamente, come se cercasse di riconciliarsi con la verità inaccettabile. Tacquero ancora, e sarebbero rimaste così molto più a lungo se non fosse stato per l’umidità - non ancora rugiada - che stava incominciando a depositarsi sull’erba ora che le nuvole si dissolvevano e la temperatura scendeva. Quando Briony sussurrò alla cugina: - Credi di poter camminare? - Lola annuì coraggiosamente. Briony l’aiutò ad alzarsi e, dapprima prendendola sottobraccio, poi facendole appoggiare il peso su una spalla, ripercorse insieme a lei la radura fino al ponte. Raggiunsero il fondo della scarpata e fu li che Lola scoppiò finalmente a piangere. - Non ce la faccio ad andare lassù, - dovette fare molti tentativi prima di riuscire a dirlo. - Sono troppo debole -. La cosa migliore, decise Briony, sarebbe stata che lei corresse in casa a chiedere aiuto; stava perciò per spiegarlo a Lola e farla intanto sdraiare a terra, quando udirono delle voci dalla strada e, poco dopo, ebbero negli occhi la luce delle torce. A Briony parve un miracolo sentire la voce del fratello. Dall’autentico eroe che era, scese dalla scarpata in pochi agili salti, e senza nemmeno chiedere quale fosse il problema, prese Lola in braccio e la portò su come se fosse una bambina piccola. Cecilia intanto li chiamava con una voce roca carica di apprensione. Nessuno le rispose. Leon si stava già dirigendo su per la sponda a un passo tale che si faceva fatica a tenergli dietro. Ciononostante, prima che raggiungesse la strada, prima che avesse modo di rimettere Lola a terra, Briony già stava 159
incominciando a raccontargli l’accaduto, esattamente per come l’aveva visto.
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Capitolo quattordicesimo I
suoi
ricordi
degli
interrogatori,
delle
dichiarazioni
firmate
e
della
testimonianza, come pure della soggezione provata fuori dall’aula del tribunale alla quale la sua giovane età le impedì di accedere, non la tormentarono nel corso degli anni quanto la memoria frammentaria di quella notte e della successiva alba estiva. Quanto il modo in cui la colpa aveva escogitato sistemi sottili di tortura, infilando le perle di ogni dettaglio in un’eterna collana, un rosario da sgranare per il resto della vita. Dopo il loro ritorno a casa ebbe inizio un tempo onirico costellato di arrivi solenni, lacrime, voci sommesse e passi affrettati nell’atrio, oltre che dell’abietta eccitazione che tenne a bada la sua sonnolenza. Naturalmente Briony era abbastanza grande da sapere che l’attenzione del momento spettava tutta alla cugina, ma di lì a poco Lola fu condotta in camera sua da premurose mani femminili, in attesa del medico che doveva procedere alla visita. Dal fondo della scala, Briony la guardò salire tra i singhiozzi, sorretta da Emily e Betty, e seguita da Polly che portava un catino e alcuni asciugamani. L’allontanamento della cugina fece di Briony la protagonista indiscussa della scena - di Robbie infatti ancora non c’era traccia -, e la deferenza con cui tutti l’ascoltavano e la incoraggiavano
dolcemente
pareva
una
conferma
della
maturità
da
lei
recentemente acquisita. Dovette essere più o meno a quel punto che una Humber si fermò fuori della villa e due ispettori di polizia fecero il loro ingresso in casa, accompagnati da una coppia di agenti. Briony era la loro unica fonte di informazioni, e perciò si costrinse ad assumere un tono pacato. Il suo ruolo cruciale nella vicenda alimentò le certezze. Quello fu il tempo informale che precedette gli interrogatori veri e propri, quando si trovò nell’atrio faccia a faccia con gli agenti, con Leon da un lato ed Emily dall’altro. Ma come aveva fatto la madre a materializzarsi tanto in fretta dal capezzale di Lola? L’ispettore più anziano aveva un volto massiccio, ricco di cicatrici, come scolpito tra stratificazioni di roccia granitica. Briony era spaventata mentre raccontava la sua storia a quella maschera cauta e impassibile; eppure si sentiva liberata da un peso, mentre una sensazione di
161
benessere e calore le si diffondeva attraverso il corpo. Assomigliava all’amore, un amore improvviso per quell’uomo attento che senza ombra di dubbio stava dalla parte del bene, pronto in ogni momento a battersi in nome della giustizia e sostenuto da tutta la forza e la saggezza umanamente possibili. Sotto il suo sguardo fermo, Briony sentiva la gola stringersi e la voce affievolirsi. Avrebbe voluto che l’ispettore la abbracciasse, la consolasse, le concedesse il suo perdono, anche se non aveva alcuna colpa. Ma lui si limitava a guardarla e ad ascoltare. Era lui. Io l’ho visto. Le sue lacrime costituivano un’ulteriore conferma della verità che sapeva e andava formulando; quando la mano della madre le carezzò la nuca, lei ruppe in singhiozzi e fu portata in salotto. Ma se era rimasta a farsi confortare dalla madre sul divano, come era possibile che ricordasse l’arrivo del dottor McLaren in panciotto nero e camicia a collo alto secondo la moda di un tempo, con la vecchia borsa Gladstone, fedele testimone di tre nascite e di tutte le malattie infantili di casa Tallis? Leon conferì con il medico, chinandosi su di lui per fornirgli un bisbigliato e virile sommario degli eventi. Dov’era finita la spensierata leggerezza di Leon? Quel consulto a bassa voce fu tipico delle ore che seguirono. Ogni nuovo arrivato veniva messo al corrente dei fatti in modo analogo; la gente - poliziotti, dottore, parenti, domestici - si radunava in gruppi che andavano formandosi e sciogliendosi di continuo negli angoli delle varie stanze, nell’atrio, in terrazza fuori dalle porte finestre. Nulla fu reso pubblico, o formulato davanti a tutti. Ciascuno dei presenti conosceva i fatti tremendi riguardanti un atto di violenza, ma l’informazione restava il segreto di ognuno, condiviso a mormorii tra i membri di gruppi sparuti di persone che subito dopo si separavano per tornare con fare solenne alle loro faccende. Ancora più grave, in teoria, sarebbe stata la questione dei bambini scomparsi. Ma l’opinione generale, ripetuta senza sosta a mo’ di formula magica, era che i gemelli stessero dormendo al sicuro in qualche angolo del parco. In tal modo l’attenzione rimaneva fissa sulle condizioni della ragazza al piano di sopra. Paul Marshall rientrò dalle ricerche e apprese la notizia dagli ispettori. Vagò avanti e indietro in terrazza in mezzo ai due uomini a cui offrì sigarette da un astuccio d’oro. Quando la conversazione ebbe fine, batté una mano sulla spalla del più anziano con un gesto che parve di congedo. Poi rientrò in casa per parlare con Emily Tallis. Leon condusse il dottore di sopra e questi ridiscese qualche 162
tempo dopo nobilitato dall’incontro professionale con la depositaria delle apprensioni di tutti. Anche lui sostò a lungo con i due agenti in borghese, poi con Leon, e infine con Leon e la signora Tallis. Poco prima di andarsene, il dottore si avvicinò a Briony e le appoggiò sulla fronte la nota mano piccola e asciutta, le prese il polso e assunse un’espressione soddisfatta. Poi recuperò la borsa, ma prima di uscire ebbe un ultimo sommesso colloquio alla porta di casa. Dov’era Cecilia? Vagava ai margini della scena, senza parlare con nessuno; fumava ininterrottamente, portandosi la sigaretta alle labbra con gesti rapidi e famelici per poi allontanarla con frenetico disgusto. Oppure tormentava tra le mani un fazzoletto misurando l’atrio a grandi passi. Di norma avrebbe assunto il controllo della situazione, destinando qualcuno a prendersi cura di Lola, rassicurando la madre, ascoltando i suggerimenti del medico, consultandosi con Leon. Briony era nei pressi quando il fratello si avvicinò per parlare a Cecilia, che si volse altrove, incapace di aiutare e perfino di rispondergli. Quanto alla madre, inaspettatamente affrontò la crisi, libera da emicranie come dal bisogno di restare sola. Di fatto Emily cresceva in autorità, mentre sua figlia rimpiccioliva nella propria segreta sofferenza. In certi momenti, quando veniva convocata per ripetere la testimonianza, o ribadirne alcuni dettagli, Briony vedeva la sorella, avvicinarsi e osservare tutto con uno sguardo ardente e impenetrabile. Poiché la sua presenza la innervosiva, Briony restò il più possibile accanto alla madre. Cecilia aveva gli occhi iniettati di sangue. Mentre gli altri se ne stavano in gruppo a mormorare, lei passeggiava inquieta per la stanza, o da una stanza all’altra, oppure, come accadde in almeno due occasioni, andava a mettersi fuori sulla porta. Freneticamente, trasferiva il fazzoletto dall’una all’altra mano, se lo attorcigliava fra le dita, lo srotolava, ne faceva una palla, accendeva l’ennesima sigaretta. Quando Betty e Polly servirono il te, lei non volle saperne. Giunse da sopra la notizia che Lola, grazie al sedativo somministratole dal dottore, aveva finalmente preso sonno, il che generò un provvisorio sollievo. A differenza di quanto accadeva di solito, gli ospiti si erano radunati tutti in salotto dove bevvero il te in un silenzio estenuato. Nessuno lo disse, ma stavano aspettando il ritorno di Robbie. Inoltre, l’arrivo del signor Tallis da Londra era atteso da un momento all’altro. Leon e Marshall erano chini su una mappa del parco, che stavano disegnando per aiutare nelle ricerche l’ispettore. Questi la 163
prese, la esaminò, per poi consegnarla al suo assistente. I due agenti erano già stati mandati fuori con l’ordine di unirsi a chi continuava a cercare Jackson e Pierrot, mentre altri poliziotti in arrivo avrebbero dovuto recarsi al cottage nel caso Robbie avesse deciso di dirigersi li. Cecilia, come Marshall, si era isolata sedendosi sullo sgabello del clavicembalo. Dopo un momento si alzò per chiedere al fratello di accenderle la sigaretta, ma intervenne solerte l’ispettore capo con il suo accendino. Briony era seduta sul divano accanto alla madre, mentre Betty e Polly facevano il giro dei presenti con il vassoio del te. In seguito non avrebbe ricordato che cosa all’improvviso l’avesse spinta a fare ciò che fece. Un’idea chiarissima e molto convincente le apparve dal nulla, e non ci fu nemmeno bisogno di dichiarare le proprie intenzioni, ne di chiedere il permesso alla sorella. Si trattava di una prova inequivocabile, oltre che del tutto indipendente dalla sua versione dei fatti. Di una conferma. Per non dire di un altro delitto, addirittura. Briony fece trasalire tutti quanti dando in un sussulto di sonora inspirazione e per poco, alzandosi di scatto, non fece finire a terra la tazza della madre. I presenti la osservarono precipitarsi fuori dalla stanza, ma nessuno le chiese nulla, tale era la generale condizione di spossatezza. Lei, al contrario, salì le scale due gradini alla volta, rinvigorita dalla sensazione di compiere un atto di giustizia, di essere sul punto di fornire un elemento sorprendente che non poteva non guadagnarle la generale approvazione. Un po’ come quel sentimento di appagante amore per se stessi che capita a volte di provare la mattina di Natale, quando si sta per consegnare un dono in grado di produrre gioia sicura in chi lo riceve. Attraversò di corsa il corridoio al secondo piano, fino alla stanza di Cecilia. In che squallore caotico viveva la sorella! Le porte di entrambi gli armadi erano spalancate. C’erano parecchi vestiti messi di traverso o mezzi ciondolanti dalle grucce. Ammucchiati sul pavimento, due abiti costosi, uno nero e uno rosa, di seta, con accanto un paio di scarpe sfilate senza garbo e lasciate a terra di sghembo. Briony scavalcò la baraonda di oggetti abbandonati per raggiungere la toletta. Quale poteva essere l’impulso che impediva a Cecilia di rimettere coperchi e tappi su cosmetici e profumi? Perché non svuotava mai il posacenere puzzolente? E nemmeno si rifaceva il letto o apriva una finestra per cambiare l’aria... Il primo cassetto che provò ad aprire cedette solo di qualche centimetro: era bloccato, straripante di boccette e scatole di cartone. Cecilia poteva anche 164
avere dieci anni in più, ma c’era davvero un lato irrecuperabile in lei. Sebbene Briony temesse lo sguardo furioso che la sorella aveva mostrato di sotto, era giusto, pensò, che lei fosse lì per aiutarla, per riordinare i pensieri in vece sua. Cinque minuti più tardi, quando rientrò trionfante in salotto, nessuno le fece caso; era rimasto tutto come prima: un gruppo di adulti avviliti ed esausti che fumavano e bevevano tè in silenzio. Nell’emozione del momento Briony non aveva deciso a chi dovesse consegnare la lettera: per uno scherzo dell’immaginazione aveva creduto possibile che la leggessero tutti insieme. Stabilì che doveva averla Leon. Si diresse verso il fratello, ma quando ebbe di fronte i tre uomini, cambiò idea e mise il foglio ripiegato tra le mani del poliziotto con la faccia di granito. Ammesso che avesse un’espressione, questi non la cambiò né quando prese la lettera, ne quando la lesse, cosa che fece rapidissimamente, quasi a un solo sguardo. I suoi occhi incontrarono quelli di Briony, per poi abbracciare anche la figura di Cecilia che dava loro le spalle. Con un gesto appena percettibile del polso fece intendere all’altro poliziotto di prendere la lettera. Quando anche l’assistente ebbe finito, il foglio fu passato a Leon, il quale lo lesse per riconsegnarlo ripiegato all’ispettore capo. Briony fu molto colpita dalla prudenza della loro reazione: quanta esperienza delle cose del mondo mostravano di avere tutti e tre. Fu solo a quel punto che Emily Tallis si rese conto dell’oggetto del loro interesse. In risposta alla sua domanda priva di enfasi Leon disse: - È solo una lettera. - La voglio leggere. Per la seconda volta in quella sera, Emily dovette ribadire il proprio diritto sui messaggi scritti che circolavano in casa sua. Avendo l’impressione di aver esaurito il proprio compito, Briony andò a sedere sul divano e osservò dalla prospettiva della madre il cavalleresco disagio che andava da Leon all’ispettore. - La voglio leggere. Fu inquietante constatare che il tono di voce non era variato. Leon si strinse nelle spalle e si stampò in faccia un sorriso forzato - quale obiezione avrebbe potuto sollevare? - mentre lo sguardo mite di Emily si posava sui due ispettori. La donna apparteneva alla generazione che trattava i poliziotti come sottoposti, indipendentemente dal loro grado. Obbedendo al cenno del superiore, il più giovane dei due attraversò la stanza e 165
le consegnò la lettera. Finalmente Cecilia, che nel frattempo doveva essersi smarrita lontano nei propri pensieri, stava recuperando interesse per ciò che succedeva. Poi la lettera giacque in grembo alla madre e Cecilia fu in piedi, e si mosse verso gli altri dallo sgabello del clavicembalo. - Come osate? Come osate tutti quanti? Si alzò anche Leon e le rivolse un gesto delle mani per invitarla a calmarsi. - Cee... Il suo rapido affondo, teso a strappare la lettera alla madre, fu ostacolato non solo dal fratello, ma anche dai due poliziotti. Era in piedi perfino Marshall, che però non intervenne. - È mia, - gridò lei. - Voi non avete alcun diritto! Emily non alzò neppure lo sguardo dal foglio e si prese tutto il tempo necessario a leggere più volte la lettera fino in fondo. Quando ebbe finito, affrontò la furia della figlia proponendo la sua versione più fredda della vicenda. - Se tu avessi fatto la cosa giusta, signorina intellettuale, e fossi venuta da me con questa, forse saremmo arrivati in tempo e avremmo potuto risparmiare a tua cugina questo incubo. Per un attimo Cecilia si trovò sola al centro della stanza ad agitare le dita della mano destra e a guardare a turno ciascuno dei presenti, senza capacitarsi di poter avere qualcosa in comune con gente simile, e incapace di cominciare a dire quello che sapeva. E sebbene Briony si sentisse vendicata dalla reazione degli adulti e invasa dalla dolcezza di un’estasi interiore, non mancò di apprezzare il fatto di essere seduta sul divano con la madre, mentre i tre uomini in piedi la proteggevano parzialmente dagli occhi di fuoco carichi di disprezzo della sorella. Cecilia tenne tutti sotto tiro con lo sguardo per parecchi secondi prima di voltarsi e uscire dalla stanza. Attraversando l’atrio diede in un grido di autentica disperazione che risultò amplificato dall’acustica forte del nudo pavimento di piastrelle. In soggiorno ci fu un senso di sollievo, quasi di rilassamento, sentendola salire al piano di sopra. Quando Briony tornò a preoccuparsene, notò che la lettera si trovava ora tra le mani di Marshall che la stava riconsegnando all’ispettore. Questi la ripose senza piegarla in una cartellina che il giovane assistente teneva aperta davanti a lui. Le ore della notte volarono via senza che Briony registrasse la stanchezza. A 166
nessuno venne in mente di mandarla a dormire. Trascorso un tempo incommensurabile da quando Cecilia si era ritirata in camera sua, Briony andò con la madre in biblioteca per il primo interrogatorio ufficiale con la polizia. La signora Tallis rimase in piedi, mentre la ragazza sedeva su un lato dello scrittoio di fronte ai due ispettori. Quello con la faccia di roccia antica, vale a dire quello che si incaricò di interrogarla, si rivelò un uomo infinitamente gentile: pronunciava le domande senza fretta, con una voce roca venata di dolcezza e di malinconia. Dal momento che lei si disse in grado di mostrare loro il luogo esatto dell’aggressione di Robbie a Cecilia, si spostarono tutti in quell’angolo della biblioteca per controllare meglio. Briony si infilò tra gli scaffali, dando le spalle ai libri per mostrare la posizione della sorella, e scorse le prime strisce azzurrine dell’alba sui vetri delle finestre altissime. Fece un passo avanti e si voltò per documentare anche la collocazione dell’aggressore e infine indicare dove si trovava lei in quel momento. Emily esclamò: - Ma perché non me l’hai detto? Il poliziotto guardò Briony e attese. Era una buona domanda, ma non le sarebbe mai venuto in mente di disturbare la madre. Non ci avrebbe ricavato altro che un’emicrania: - Ci hanno chiamati per cena, e poi sono scappati i gemelli. Spiegò come era venuta in possesso della lettera, all’imbrunire, sul ponte. Che cosa l’aveva spinta ad aprirla? Era difficile descrivere l’impulso del momento, come non aveva voluto pensare alle conseguenze del proprio gesto, o spiegare come la scrittrice che solo quel giorno era diventata dovesse sapere ogni cosa, comprendere tutto ciò che le accadeva intorno. Disse: - Non saprei. Mi stavo comportando da tremenda ficcanaso. Mi detestavo. Fu più o meno a quel punto che un agente infilò la testa nella porta per riferire la notizia che pareva una conferma della catastrofe di quella nottata. L’autista del signor Tallis aveva chiamato da una cabina telefonica nei pressi dell’aeroporto di Croydon. L’auto cortesemente messa a disposizione dal ministro nonostante il brevissimo preavviso aveva avuto un guasto in periferia. Jack Tallis dormiva con un plaid sul sedile posteriore e probabilmente avrebbe dovuto proseguire in treno il mattino successivo. Una volta appresi e commentati questi fatti, si chiese con 167
gentilezza a Briony di tornare al racconto interrotto, e agli avvenimenti occorsi sull’isola. In questa prima fase, l’ispettore fu attento a non affaticare la ragazza con domande troppo insistenti, e nello spazio prudentemente allestito per lei, Briony fu in grado di costruire il proprio racconto con parole sue, stabilendone via via gli elementi essenziali: c’era luce appena sufficiente per distinguere una faccia nota; quando l’uomo si era allontanato sulla distesa d’erba, lei ne aveva anche riconosciuto l’altezza e l’andatura. - Dunque l’hai visto. - So che era lui. - Lascia perdere quello che sai. Stai dicendo che l’hai visto. - Sì, l’ho visto. - Come adesso vedi me. - Sì. - L’hai visto coi tuoi occhi. - Si. L’ho visto. L’ho visto. E così si concluse il suo primo interrogatorio ufficiale. Mentre lei restava seduta in salotto, e finalmente si rendeva conto di essere stanca ma di non aver voglia di andare a letto, furono interrogati la madre, poi Leon e poi Marshall. Allo stesso scopo vennero convocati anche il vecchio Hardman e suo figlio Danny. Briony udì Betty dichiarare che Danny era rimasto in casa tutta la sera con il padre, il quale fu in grado di garantire per lui. Arrivarono parecchi agenti che erano stati fuori a cercare i gemelli e li si fece passare tutti in cucina. Nelle ore confuse e farraginose dell’alba, Briony apprese che Cecilia si rifiutava di uscire dalla propria stanza per essere interrogata. Nei giorni successivi non le venne concessa
alternativa,
e
quando
alla
fine
acconsentì
a
rilasciare
una
testimonianza, la sua versione dei fatti accaduti in biblioteca - in un certo senso ben più sconvolgente di quella di Briony, per quanto l’atto fosse stato consensuale - non fece che confermare l’opinione generale che si era andata formando: il signor Turner era un uomo pericoloso. Il ripetuto suggerimento di Cecilia secondo cui era con Danny Hardman che avrebbero dovuto parlare, fu ascoltato in silenzio. Era comprensibile, anche se meschino, che la giovane donna cercasse di proteggere il suo amico gettando i sospetti su un ragazzo innocente. 168
A una certa ora dopo le cinque, quando si incominciò a parlare di preparare una colazione, almeno per gli agenti, dal momento che nessun altro aveva fame, in casa corse voce che una figura che poteva essere quella di Robbie si stesse avvicinando alla villa dal parco. Forse qualcuno era rimasto di guardia a una finestra del piano di sopra. Briony non ricordava da chi fosse partita l’idea di uscire tutti quanti ad aspettarlo. All’improvviso si ritrovarono tutti li, familiari, Paul Marshall, Betty e i suoi aiutanti, i poliziotti, un vero comitato di accoglienza radunato intorno all’ingresso principale. Al piano di sopra restavano soltanto Lola nel suo sonno drogato e Cecilia con la sua furia. Forse la signora Tallis non voleva permettere a quella presenza contaminante di mettere piede in casa sua. Forse l’ispettore temeva reazioni violente e giudicò che sarebbero state gestite più agevolmente all’aperto dove c’era più spazio per procedere all’arresto. La magia dell’alba era completamente sparita, ormai, per lasciare posto a un mattino grigio, caratterizzato solo dalla foschia estiva che il caldo avrebbe ben presto prosciugato. Da principio non videro nulla, anche se Briony credette di riuscire a sentire il calpestio delle scarpe sulla strada. Dopo un po’ lo udirono tutti, e ci fu un mormorio
collettivo
accompagnato
da
un’irrequietezza
fisica
mentre
si
incominciava a scorgere una sagoma indefinibile, poco più di una massa grigiastra contro il bianco, più o meno a un centinaio di metri di distanza. Mentre la figura andava assumendo dei contorni, il gruppo degli astanti ammutolì di nuovo. Nessuno riusciva a credere a ciò che a poco a poco compariva. Doveva trattarsi senz’altro di uno scherzo della luce e della nebbia. Chi, nell’era del telefono e delle automobili, avrebbe infatti potuto credere all’esistenza di giganti alti due metri e mezzo nell’affollata contea del Surrey? Eppure eccola li, un’apparizione tanto inumana quanto risoluta nel passo. La figura era al tempo stesso incredibile e innegabile, e marciava nella loro direzione. Betty, che come tutti sapevano era cattolica, si fece il segno della croce mentre il resto del gruppo si serrava più stretto intorno alla porta. Soltanto l’ispettore capo azzardò due passi avanti e in quel frattempo tutto divenne chiaro. La chiave decisiva per la soluzione del mistero fu una seconda figuretta che saltellava accanto alla prima. A quel punto fu ovvio: si trattava di Robbie, con uno dei bambini sulle spalle e l’altro che si faceva trascinare per mano. Quando si trovò a una trentina di metri 169
circa di distanza, Robbie si fermò, e parve sul punto di parlare, ma decise invece di attendere che l’ispettore e gli agenti gli si avvicinassero. Il bambino che aveva sulle spalle sembrava addormentato. L’altro lasciò ciondolare la testa contro il fianco di Robbie e si portò al petto la mano dell’uomo in cerca di protezione o di calore. La sensazione immediata di Briony fu una specie di sollievo per il fatto che i gemelli erano salvi. Ma mentre osservava Robbie aspettare con calma, fu colta da un lampo di fu ria. Credeva forse di poter nascondere la propria colpa dietro l’apparente gentilezza, dietro questa sceneggiata da buon pastore? Che cinismo, cercare di guadagnarsi il perdono per l’imperdonabile crimine commesso. Questo confermò in lei la convinzione che il male fosse un fenomeno ingannevole e complesso. All’improvviso, le mani della madre la stringevano forte sulle spalle e la dirigevano verso la villa, affidandola alle cure di Betty. Emily voleva che la figlia si tenesse ben alla larga da Robbie Turner. Alla fine era venuta l’ora di andare a dormire. Betty la prese saldamente per mano e si preparò a condurla in casa, mentre la madre e il fratello andavano a prendere i gemelli. L’ultima occhiata che Briony riuscì a dare all’indietro le mostrò Robbie nell’atto di alzare le mani come in un gesto di resa. Si sollevò il bambino oltre la testa e lo appoggiò a terra con delicatezza. Un’ora più tardi Briony era sdraiata sul letto a baldacchino con addosso la camicia pulita di cotone bianco che Betty aveva trovato per lei. Le tende erano tirate, ma il bagliore della luce del sole intorno ai bordi era violento, e a dispetto della vertigine di stanchezza che sentiva, Briony non riusciva a prendere sonno. Voci e figure si disponevano alla rinfusa al suo capezzale; presenze invadenti, concitate, inquiete e intermittenti che resistevano a ogni suo sforzo di allinearle secondo un ordine. Potevano davvero essere tutte legate insieme in un solo giorno, un unico tempo di veglia ininterrotta che andava dalle innocenti prove di uno spettacolo fino alla comparsa del gigante dalla nebbia? Tutto ciò che stava nel mezzo era troppo clamoroso, troppo fluido per rendersi afferrabile, anche se Briony aveva la sensazione di avercela fatta, di aver trionfato. Si liberò con un calcio del lenzuolo e girò il cuscino in cerca di un po’ di frescura su cui appoggiare le guance. Dato lo stordimento in cui si trovava, non avrebbe saputo dire in che cosa consistesse il suo trionfo; se si trattava della nuova maturità 170
acquisita, doveva riconoscere che la sentiva appena, ora che la mancanza di sonno l’aveva ridotta così inerme, per non dire infantile, al punto da poter scoppiare a piangere. Se era stato un atto coraggioso da parte sua identificare una persona così innegabilmente malvagia, allora non era giusto che lui si fosse presentato in quel modo coi gemelli, e Briony si sentiva ingannata. Chi poteva crederle ora che Robbie recitava la parte dell’eroico salvatore di bambini sperduti? Tutto il suo lavoro, il suo coraggio e la sua lucidità, tutto quello che aveva fatto per riportare a casa Lola, e per che cosa? Le avrebbero voltato le spalle tutti quanti, la madre, i poliziotti, il fratello, avrebbero fatto cerchio intorno a Robbie Turner per ordire chissà quale congiura fra adulti. Lei voleva sua madre, voleva metterle le braccia intorno al collo e stringere il suo bel viso accanto al proprio, ma la madre adesso non sarebbe venuta, nessuno sarebbe più venuto da Briony, nessuno le avrebbe più rivolto la parola. Voltò la faccia verso il cuscino e lasciò che le lacrime lo inondassero, sentendosi ancora più derelitta dal momento che il suo dolore non aveva testimoni. Era sdraiata nella semioscurità ad assaporare la tristezza da una mezz’ora circa quando udì il rumore dell’auto della polizia parcheggiata sotto la sua finestra. La macchina si avviò sul viottolo di ghiaia, e si fermò. Ci furono delle voci accompagnate da uno scalpiccio. Briony si alzò e aprì le tende. La foschia non si era ancora dileguata, ma era più brillante, come se l’accendesse una luce dall’interno, una luce che la costrinse a chiudere gli occhi finché non li ebbe abituati a quel bagliore. Tutt’e quattro le portiere della Humber erano spalancate, e tre agenti aspettavano accanto alla vettura. Le voci provenivano da un gruppo di persone vicino alla porta di casa, esattamente sotto di lei e perciò invisibili dal suo punto di osservazione. Poi ci fu un altro rumore di passi, e finalmente comparvero i due ispettori con Robbie in mezzo a loro. Ammanettato! Notò che era costretto a tenere le braccia davanti al corpo e, guardando dall’alto, poté scorgere il luccichio dell’acciaio sotto i polsini della camicia. Tanta vergogna le fece orrore. Non faceva che confermare la sua colpa, e il principio del castigo. Dava l’impressione della dannazione eterna. Raggiunsero l’auto e si fermarono. Robbie si voltò appena, ma lei non poté interpretarne l’espressione. Aveva la schiena dritta, sovrastando di parecchi centimetri l’ispettore, e teneva la testa ben alta. Forse era fiero di quel che aveva 171
fatto. Uno degli agenti montò al posto di guida. L’ispettore più giovane stava facendo il giro verso la portiera posteriore, pronto a far salire Robbie in macchina. Ci fu un improvviso trambusto sotto la finestra di Briony, poi la voce di Emily Tallis che gridava, e subito dopo una figura che si precipitava verso l’auto con tutta la velocità consentita dall’abito aderente. Avvicinandosi, Cecilia rallentò. Robbie
si
volse,
accennò
a
muovere
un
passo
in
direzione
di
lei
e
sorprendentemente l’ispettore si fece indietro. Le manette si vedevano benissimo ora, ma Robbie non pareva vergognarsene e neppure farci caso mentre si rivolgeva a Cecilia e ascoltava serio quello che lei aveva da dirgli. I poliziotti osservavano la scena impassibili. Se Cecilia stava pronunciando l’amaro atto d’accusa che lui meritava, la faccia di Robbie non lo diede a vedere. Benché la sorella fosse rivolta nella direzione opposta alla sua, Briony ebbe la sensazione che parlasse in modo assai poco esaltato. Mormorare le proprie accuse le avrebbe rese più potenti. Si fecero ancora più vicini e Robbie parlò brevemente, sollevò un poco le mani incatenate e le lasciò ricadere. Cecilia le sfiorò con le sue, gli appoggiò un dito sul bavero della giacca che poi scosse con dolcezza. Le parve un gesto gentile e Briony fu commossa dalla capacità di perdono mostrata dalla sorella, ammesso che di questo si trattasse. Perdono. Quella parola non aveva mai significato nulla prima d’allora, anche se Briony l’aveva sentita esclamare in migliaia di occasioni a scuola come in chiesa. E da sempre, la sorella doveva aver compreso. Ovviamente, erano tante le cose di Cecilia che lei ancora non sapeva. Ma avrebbe avuto tutto il tempo per scoprirle, perché quella tragedia le avrebbe rese più vicine. L’ispettore cortese con la faccia di granito dovette pensare di aver già avuto anche troppa pazienza, perché si fece avanti per allontanare la mano di Cecilia e frapporsi tra i due. Robbie le disse qualcosa in fretta oltre la spalla del poliziotto, e si volse verso l’auto. Premurosamente, l’ispettore aiutò Robbie a infilare la testa in macchina, facendo in modo che non andasse a sbattere contro il tettuccio, poi prese posto anche lui dietro. Le portiere si chiusero sbattendo, e l’unico agente rimasto fuori si toccò l’elmetto in gesto di saluto mentre la macchina si avviava. Cecilia restò dov’era, rivolta verso il fondo della strada a guardare tranquilla l’auto che si allontanava, ma il tremito lungo la linea delle spalle tradiva il suo pianto, e Briony sentì di non aver mai amato tanto la sorella. 172
Avrebbe dovuto concludersi così, quel giorno interminabile che era andato avvolgendosi intorno a una notte estiva, avrebbe dovuto chiudersi con la Humber che svaniva in lontananza sul vialetto. Ma restava ancora un ultimo confronto. L’auto non aveva percorso più di venti metri quando incominciò a rallentare. Una figura che Briony non aveva notato prima avanzava al centro della carreggiata e non pareva affatto intenzionata a farsi di lato. Era una donna, piuttosto bassa, dall’andatura ondeggiante; indossava un vestito stampato a fiori e brandiva quello che a tutta prima parve un bastone, ma che si rivelò essere un ombrello da uomo con il manico a forma di testa d’anatra. L’auto si fermò, si udì il clacson suonare, mentre la donna procedeva fino a bloccarsi esattamente davanti alla griglia del radiatore. Era Grace Turner, la madre di Robbie. Teneva in alto l’ombrello e gridava. Il poliziotto alla guida della vettura scese a parlarle e la prese per un gomito. L’altro agente, quello che aveva fatto il saluto militare, stava accorrendo. La signora Turner liberò il braccio, levò ancora in alto l’ombrello, questa volta con due mani e, in un frastuono da colpo di pistola, lo scaraventò giù dalla parte del manico sul cofano lucente della Humber. Mentre gli agenti un po’ la spingevano e un po’ la trascinavano al bordo della strada, la donna prese a urlare una parola, sempre la stessa, talmente forte che Briony poté sentirla dalla sua stanza. - Bugiardi! Bugiardi! Bugiardi! - tuonava la signora Turner. Con la portiera anteriore spalancata, l’auto la superò lentamente prima di fermarsi per permettere a uno degli agenti di salire dietro. Rimasto solo, il collega faceva fatica a trattenere la donna, che riuscì a sferrare un altro colpo mancando tuttavia il tettuccio della macchina. L’agente le strappò di mano l’ombrello e lo gettò lontano nell’erba. - Bugiardi! Bugiardi! - gridò ancora Grace Turner disperata, avanzando di qualche passo verso la macchina in corsa; poi si fermò, le mani sui fianchi, a guardarla superare il primo ponte, attraversare l’isola e il secondo ponte e sparire alla fine nella luce bianca.
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Parte seconda
Non che mancassero gli orrori, ma a sconcertarlo in modo irrimediabile fu il dettaglio inatteso. Quando raggiunsero il passaggio a livello, dopo una marcia di tre ore su una strada stretta, vide il sentiero che stava cercando snodarsi in lontananza, scollinare sulla destra, e infine rispuntare in prossimità del bosco ceduo che copriva un colle in direzione nord-ovest. Si fermarono per permettergli di consultare la carta. Che tuttavia non era dove pensava lui. Ne in tasca né infilata nella cinta dei calzoni. Che gli fosse caduta, che l’avesse dimenticata alla sosta precedente? Lasciò scivolare a terra la palandrana ed era già pronto a controllare nella giubba quando si rese conto di avere la carta nella mano sinistra, dove doveva essere da più di un’ora. Lanciò un’occhiata agli altri due, ma in quel momento gli davano le spalle, fumando in silenzio un po’ più in là. Ce l’aveva ancora in mano. L’aveva presa dalle dita di un capitano dei West Kents che giaceva in un fosso, vicino a... vicino a dove? Le mappe della zona erano rare. Al capitano morto aveva sottratto anche la rivoltella. Non stava cercando di spacciarsi per un ufficiale. Aveva perso il suo fucile e intendeva semplicemente sopravvivere. Il sentiero che gli interessava partiva costeggiando una casa bombardata, relativamente recente, forse l’abitazione di un casellante ricostruita dopo l’ultima guerra. C’erano impronte di animali sul fango intorno a una pozzanghera formatasi nel solco dei pneumatici. Capre, probabilmente. Sparpagliati intorno, brandelli di tessuto a righe dai bordi anneriti, avanzi di tende o indumenti e l’intelaiatura di una finestra rotta ciondolante su un cespuglio; ovunque, odore di fuliggine umida. Quello era il loro sentiero, la scorciatoia. Ripiegò la mappa e, mentre si rizzava dopo aver raccolto la palandrana che si gettò sulle spalle, la vide. Gli altri, registrando il movimento, si voltarono e seguirono il suo sguardo. Era una gamba su un albero. Un platano adulto che aveva da poco messo le foglie. La gamba stava a circa sei metri di altezza, infilata 174
nella prima biforcazione del tronco, nuda, mozzata di netto sopra il ginocchio. Dal loro punto di osservazione non si vedeva traccia di sangue ne di carni straziate. La gamba era perfetta, pallida, liscia, abbastanza piccola da appartenere a un bambino. Per come era ficcata tra i due rami, pareva messa in mostra a loro beneficio o insegnamento, come a dire: questa e una gamba. I due caporali la liquidarono con un verso di disgusto e raccolsero la loro roba. Non intendevano lasciarsi coinvolgere. Avevano visto già abbastanza negli ultimi giorni. Nettle, l’autiere, estrasse una sigaretta e disse: - Allora, capo, da che parte? Lo chiamavano così per risolvere la questione spinosa dei gradi. Lui si incamminò in fretta lungo il sentiero, quasi a passo di corsa. Voleva precederli, allontanarsi dalla loro vista per poter vomitare, o cagare, non aveva ancora deciso. Dietro un fienile, accanto a un mucchio di tegole di ardesia rotte, il suo corpo scelse per lui la prima opzione. Aveva così sete da non potersi permettere di perdere altri liquidi. Bevve alla borraccia e fece il giro del fienile. Sfruttò quel momento di solitudine per controllarsi la ferita. Era sul fianco destro, appena sotto la gabbia toracica, più o meno delle dimensioni di una moneta. Non era tanto brutta dopo che l’aveva ripulita dal sangue rappreso, il giorno prima. Benché la pelle tutto intorno fosse arrossata, il gonfiore era modesto. Però c’era qualcosa dentro. Lo sentiva muovere mentre marciava. Una scheggia di granata, forse. Quando i caporali lo raggiunsero si era già rimesso a posto la camicia e fingeva di studiare la carta. In loro presenza quella mappa rappresentava l’unica intimità possibile. - Come mai tanta fretta? - Avrà visto una pupa. - È la carta. Gli sono venuti i soliti cazzo di dubbi. - Nessun dubbio, signori. È il nostro sentiero. Estrasse una sigaretta e il caporale Mace gliela accese. Poi, per nascondere il tremito alle mani, Robbie Turner prosegui, e gli altri due lo seguirono, come facevano ormai da due giorni. O erano tre? Turner era un loro inferiore di grado, ma lo seguivano lo stesso e accoglievano ogni suo suggerimento, solo che, per 175
conservare la propria dignità, lo prendevano in giro. Se marciando su una strada o tagliando per i campi, stava zitto troppo a lungo, Mace diceva: - Di nuovo lì a pensare alla tua pupa, capo? - E Nettle, immancabilmente: - Eccome, se ci pensa. Eccome, cazzo -. Erano due cittadini di quelli che detestano la campagna e ci si perdono. I
punti
cardinali
non
significavano
niente
per
loro.
Quella
parte
dell’addestramento base l’avevano saltata. Avevano stabilito che, per raggiungere la costa, avevano bisogno di lui. Non era facile da mandar giù. Turner si comportava come un ufficiale, ma non aveva nemmeno uno straccio di baffo sulla manica. La prima notte, quando si erano rifugiati nella rimessa per le biciclette di una scuola bruciata, il caporale Nettle disse: - Come mai sei un soldato- semplice e parli che sembri un damerino? Non era tenuto a dar loro spiegazioni. Intendeva sopravvivere, aveva una buona ragione per farlo e non gli importava se quelli si aggregavano o no. Nessuno dei due aveva mollato il fucile, comunque. Era già qualcosa; e poi Mace era grande e grosso, forte di spalle e con delle mani da coprirci un’ottava e mezza sul pianoforte che diceva di saper suonare. Turner, del resto, non faceva caso alle battute. In quel momento, mentre lasciavano la strada per incamminarsi sul sentiero, avrebbe solo voluto dimenticarsi della gamba. Il sentiero si congiungeva a un viottolo tra due muri di pietra e scendeva verso una piana non visibile dalla strada. A fondovalle scorreva un torrente marrone; lo guadarono camminando su sassi affondati su un tappeto verdissimo di crescione. Emergendo dal basso, il viottolo piegava a ovest, mantenendosi tra i muretti antichi. Davanti a loro, il cielo incominciava a schiarire un poco e a splendere come una promessa. Intorno era tutto grigio. Mentre si avvicinavano alla cima passando attraverso un bosco di castagni, il sole calante precipitò al di sotto della coltre di nubi e dominò lo scenario, abbagliando i tre soldati che intanto ne raggiungevano la luce. Come sarebbe stato bello concludere un’escursione nella campagna francese, camminando in direzione del tramonto. Un’occupazione piena di speranza. Uscendo dal boschetto, udirono i bombardieri, perciò tornarono al riparo e fumarono, aspettando sotto gli alberi. Dal punto in cui si trovavano non riuscivano a vedere gli aerei, ma il panorama era bello. Potevano dirsi a malapena 176
colline quelle che si stendevano in lontananza davanti a loro. Increspature del paesaggio, piuttosto, echi attutiti di più vasti sollevamenti geologici. Ogni successivo crinale era più pallido del precedente. Turner vide una pennellata acquosa di grigio e di azzurro svanire nella foschia in direzione del sole morente, come un dettaglio su un piatto orientale. Mezz’ora dopo affrontavano la traversata di un pendio più scosceso che puntava a nord e che infine li condusse a un’altra valle, a un altro più modesto corso d’acqua. Quest’ultimo, tuttavia, scorreva più impetuoso e lo attraversarono su un ponte di pietra incrostato di letame. I caporali, meno stanchi di lui, si divertirono a fingere di esserne disgustati. Uno dei due gli tirò sulla schiena una zolla di letame secco. Turner nemmeno si voltò. I brandelli di tessuto, stava incominciando a pensare, potevano essere di un pigiama da bambino. Un maschio. I bombardieri in picchiata a volte arrivavano poco dopo l’alba. Cercò di scacciare il pensiero, ma quello non mollava. Un bambino francese che dorme nel suo letto. Turner voleva mettere altra strada tra se e la casa bombardata. A perseguitarlo non erano solo l’esercito tedesco e l’aviazione. Se ci fosse stata la luna avrebbe marciato volentieri tutta la notte. I caporali non avrebbero apprezzato. Forse era ora di liberarsene. Più a valle del ponte si ergeva un filare di pioppi le cui cime ondeggiavano brillanti nell’ultima luce. I soldati si volsero nell’altra direzione e di li a poco il viottolo tornò a farsi sentiero scostandosi dal corso d’acqua. Si fecero largo tra cespugli carichi di foglie lucide e grasse. C’erano anche delle roverelle, inverdite da poco. La vegetazione del sottobosco odorava di umido e dolciastro, e Turner pensò che dovesse esserci qualcosa di strano da quelle parti, per farne un posto tanto diverso da quanto avevano visto fino a quel momento. Davanti a loro, un ronzio meccanico. Che si fece più forte, più irritato, e suggerì il ruotare rapidissimo di un volano o di turbine elettriche azionate a velocità impressionante. Stavano penetrando una vasta galleria di suono e di energia. - Api! - esclamò. Dovette voltarsi e ripeterlo per farsi sentire. L’aria era già più buia. Sapeva bene come si comportavano. Se una ti restava impigliata nei capelli e ti pungeva, emetteva un messaggio chimico morendo, e tutte le compagne che lo ricevevano erano costrette a imitarla, pungendoti e morendo a loro volta. 177
Coscrizione obbligatoria! Dopo tanti pericoli, sarebbe stato una specie di insulto. Sollevarono le palandrane sulla testa e attraversarono di corsa lo sciame. Ancora circondati dalle api, raggiunsero un fossato di melma maleodorante che scavalcarono su un’asse malferma. Procedettero fin dietro un fienile dove d’un colpo tutto si fece calmo. Poco oltre si apriva il cortile di una fattoria. Non appena ci arrivarono, i cani presero a latrare e una vecchia venne loro incontro agitando le braccia come se fossero stati galline da spaventare urlando. I caporali dipendevano da Turner per la lingua. Questi avanzò e attese che la donna lo raggiungesse. Circolavano storie di civili pronti a vendere una bottiglia d’acqua a dieci franchi, ma lui non ne aveva mai incontrato nessuno. I francesi che aveva conosciuto erano gente generosa, o alla peggio concentrata sulla propria disperazione. La vecchia era gracile ma piena di energia. Aveva una faccia rugosa e stralunata, lo sguardo folle. La voce era aspra. - C’est impossible, M’sieu. Vous ne pouvez pas rester ici. - Ci sistemiamo nel fienile. Ci servono acqua, vino, pane, formaggio, tutto quello che potete darci. - Impossible! Turner le disse dolcemente: - Stiamo combattendo per la Francia. - Qui non ci potete stare. - Ce ne andiamo entro l’alba. I tedeschi sono ancora... - I tedeschi non c’entrano, M’sieu. E per i miei figli. Sono bestie, quelli. E tra poco tornano. Turner oltrepassò la donna e si recò alla pompa in fondo al cortile, fuori della cucina. Nettle e Mace lo seguirono. Mentre beveva, una bambina sui dieci anni e il fratellino piccolo lo guardavano dalla soglia tenendosi per mano. Dopo aver finito anche di riempire la borraccia, rivolse loro un sorriso e quelli fuggirono. I caporali si misero sotto la pompa insieme e bevvero simultaneamente. All’improvviso, la donna gli fu alle spalle e lo afferrò per un gomito. Senza lasciarle il tempo di riprendere a parlare, disse: - Per favore, ci dia quello che le ho chiesto, altrimenti entriamo a prendercelo da soli. - I miei figli sono dei bruti. Vi ammazzeranno. Avrebbe preferito rispondere, Che ci provino, e invece disse allontanandosi: - Ci 178
parlo io. - E loro, M’sieu, vi ammazzeranno subito dopo. Vi faranno a pezzi. Il caporale Mace era cuoco nella stessa unità Rasc del caporale Nettle. Prima di arruolarsi era stato magazziniere da Heal’s in Tottenham Court Road. Diceva di intendersene di vita comoda e, una volta nel fienile, si diede da fare a sistemare gli alloggiamenti. Turner si sarebbe buttato sulla paglia e basta. Mace trovò un mucchio di sacchi e, con l’aiuto di Nettle, li riempì per ricavarne tre materassi. Per i cuscini, usò delle balle di fieno che sollevava con una mano sola. Con una porta appoggiata a due pile di mattoni costruì un tavolo. Estrasse di tasca un avanzo di candela. - Tanto vale mettersi comodi, - ripeteva a mezza voce. Era la prima volta che abbandonavano il livello dell’allusione sessuale. I tre uomini si sdraiarono sui letti improvvisati, a fumare e aspettare. Ora che si eran tolti la sete, pensavano al cibo che stava per arrivare, e sentendo le loro pance gorgogliare e lamentarsi nella semioscurità, si misero a ridere. Turner riferì loro la conversazione con la donna e quello che aveva detto riguardo ai figli. - Saranno collaborazionisti, - disse Nettle. Pareva piccolo solo quando stava accanto al suo amico, ma aveva i tratti affilati di un uomo minuto e un’espressione cordiale, da roditore, sottolineata dall’abitudine di tenere gli incisivi appoggiati sul labbro inferiore. - O nazisti francesi. Simpatizzanti. Come Sir Mosley da noi, - disse Mace. Tacquero per un po’, e Mace aggiunse: - O magari saranno come tutti i contadini, rintronati perché si sposano tra parenti. - Comunque sia, - disse Turner, - credo che fareste meglio a controllare adesso le armi e a tenerle a portata di mano. Fecero come aveva detto. Mace accese la candela, e procedettero alle pratiche di routine. Turner controllò la pistola e se la mise accanto. Quando ebbero finito, i caporali appoggiarono i loro Lee-Enfield a una gabbia di legno e tornarono a coricarsi. Poco dopo arrivò la bambina con una cesta. La posò sulla porta del fienile e corse via. Nettle andò a prenderla e ne disposero sul tavolo il contenuto. Una pagnotta tonda di pane nero, un pezzetto di formaggio molle, una cipolla e una bottiglia di vino. Il pane era duro da tagliare 179
e sapeva di muffa. Il formaggio era buono, e se ne andò nel giro di pochi secondi. Si fecero passare la bottiglia e anche quella fu presto finita. Perciò ripresero a masticare il pane gommoso e mangiarono la cipolla. Nettle disse: - Non darei questa roba al mio cane, porca puttana. - Io torno dentro, - ribatté Turner, - e prendo qualcosa di meglio. - Veniamo anche noi. Ma per un po’ se ne rimasero sdraiati in silenzio. Nessuno dei tre aveva voglia di affrontare la vecchia, per ora. Poi, a un rumore di passi, si voltarono e videro due uomini fermi sulla porta. Ciascuno dei due aveva in mano qualcosa, una mazza forse, o una doppietta. Impossibile stabilirlo, in quella penombra. Non si distinguevano nemmeno le facce dei fratelli francesi. La voce era quieta. - Bonsoir, Messieurs. - Bonsoir. Alzandosi dal pagliericcio, Turner prese il revolver. I caporali afferrarono i fucili. - Tranquilli, - bisbigliò lui. - Anglais? Belges? - Anglais. - Vi abbiamo portato un po’ di roba. - Che genere di roba? - Che sta dicendo? - chiese uno dei caporali. - Dice che hanno della roba per noi. - Mondoboia. Gli uomini si avvicinarono di un paio di passi e sollevarono ciò che tenevano in mano. Doppiette, di certo. Turner levò la sicura all’arma. Udì Nettle e Mace fare altrettanto. - Tranquilli, - mormorò. - Ritirate i fucili, Messieurs. - Ritirateli voi. - Aspettate un attimo. La figura che stava parlando infilò una mano in tasca. Ne estrasse una torcia e l’accese non per illuminare i soldati, ma suo fratello, quello che teneva in una mano. Un bastone di pane. E nell’altra, un sacco di tela. Dopodiché mostrò loro 180
quello che aveva lui: due baguette. - Abbiamo portato anche olive, formaggio, pàté, pomodori e prosciutto. E vino, ovviamente. Vive l’Angleterre. - Ehm, vive la France. Sedettero al tavolo di Mace, con cui i due francesi, Henri e Jean-Marie Bonnet, si complimentarono educatamente anche per i materassi. Erano uomini bassi e massicci, sulla cinquantina. Henri portava gli occhiali che, a detta di Nettle, facevano una strana impressione addosso a un contadino. Turner evitò di tradurre. Oltre al vino, avevano portato i bicchieri. I cinque uomini li alzarono in un brindisi agli eserciti inglese e francese, e alla sconfitta della Germania. I fratelli guardarono i soldati mangiare. Attraverso Turner, Mace fece sapere che non aveva mai assaggiato prima il paté di fegato d’oca ma che, d’ora in avanti, non avrebbe mangiato altro. I francesi sorrisero, ma avevano modi riservati e; chiaramente, nessuna voglia di ubriacarsi. Dissero di essere appena tornati da un paesino nei pressi di Arras dove erano andati con il camion a cercare una loro giovane cugina e i suoi figli. C’era stata una grossa battaglia per conquistare la città, ma non avevano idea di chi la stesse attaccando, chi la difendesse e chi stesse prevalendo. Per evitare il caos dei rifugiati, avevano scelto strade secondarie. Avevano visto fattorie che bruciavano e si erano anche imbattuti in una dozzina di soldati inglesi morti sulla strada. Avevano dovuto scendere e trascinare via i cadaveri per non passarci sopra. Un paio di corpi erano comunque già quasi tagliati in due. Doveva esserci stato un violento attacco aereo, un’imboscata forse. Una volta risaliti sul camion, Henri aveva vomitato a bordo e Jean-Marie, che stava alla guida, si era fatto prendere dal panico ed era finito in un fosso. Tornati a piedi in paese, si erano fatti prestare due cavalli da un contadino e avevano liberato il Renault. C’erano volute due ore. Durante il tragitto, avevano visto carri armati distrutti dalle fiamme e mezzi blindati, tedeschi, come pure britannici e francesi. Ma nessun soldato. La battaglia si era già spostata più avanti. Prima che raggiungessero il centro abitato, si era fatto tardo pomeriggio. Il posto era stato completamente raso al suolo; le abitazioni abbandonate. La casa della loro cugina aveva tutte le pareti sforacchiate dai proiettili, ma il tetto reggeva ancora. Avevano fatto il giro di tutte le stanze, ma per fortuna non avevano 181
trovato nessuno. Doveva aver preso i bambini e aver raggiunto le migliaia di persone che si erano riversate nelle strade. Avendo paura di fare ritorno col buio, avevano parcheggiato in un bosco e cercato di dormire nella cabina del camion. Per tutta la notte avevano sentito i colpi dell’artiglieria su Arras. Pareva impossibile che qualcuno, o qualcosa, ne uscisse vivo. Per evitare di rivedere i soldati morti, erano rientrati facendo un percorso diverso, molto più lungo. Adesso, spiegò Henri, lui e suo fratello erano stanchissimi. Ogni volta che chiudevano gli occhi, vedevano quei cadaveri mutilati. Jean-Marie tornò a riempire i bicchieri. Il racconto, compresa la traduzione, era durato quasi un’ora. Avevano mangiato tutto. Turner pensò di riferire a sua volta di quell’unico particolare che lo ossessionava. Ma non volle aggiungere orrore all’orrore, e poi non aveva voglia di ridare vita all’immagine, essendo riuscito a tenerla a bada grazie al vino e alla compagnia. Raccontò invece di come si fosse trovato separato dalla propria unità all’inizio della ritirata, durante un attacco di Stuka. Della ferita non fece parola, perché non voleva che i caporali ne fossero al corrente. Spiegò tuttavia che intendeva raggiungere Dunkerque attraversando l’aperta campagna per evitare le incursioni aeree sulle grosse strade. Jean-Marie esclamò: - Allora e vero quel che si dice. Vene state andando. - Torneremo -. Lo disse, ma non ci credeva. Il vino stava avendo la meglio sul caporale Nettle. Prese a tessere un farneticante elogio di quelle che definì «le pollastre parigine»: generose, disponibili, affascinanti. Tutte fantasie. I fratelli guardarono Turner. - Dice che le donne francesi sono le più belle del mondo. Annuirono solennemente e alzarono i bicchieri. Tacquero tutti per un po’. La sera si stava concludendo. Ascoltarono i rumori notturni ai quali erano abituati: il rombo
dell’artiglieria,
qualche
colpo
isolato,
una
violenta
esplosione
in
lontananza, probabilmente genieri che, ritirandosi, facevano saltare un ponte. - Chiedigli un po’ della loro madre, - suggerì il caporale Mace. - Vediamo di chiarirla, la faccenda. - Eravamo tre fratelli, - spiegò Henri. - Il maggiore, Paul, il suo primogenito, e morto vicino a Verdun nel 1915. Colpito in pieno da una granata. Non ci e arrivato altro che l’elmetto da seppellire. Noi due siamo stati fortunati. Ne siamo usciti senza un graffio. Da allora ha sempre odiato i soldati. 182
Ora però ha ottantatré anni e non ci sta più con la testa: e diventata un’ossessione. Francesi, inglesi, belgi, tedeschi. Non fa distinzione. Siete tutti uguali per lei. Quando arriveranno i tedeschi, abbiamo paura che li accolga con un forcone e si faccia sparare. Con gesti stanchi, i fratelli si alzarono. I soldati fecero altrettanto. Jean-Marie disse: - Vi avremmo offerto ospitalità in cucina, però per farlo avremmo dovuto chiuderla a chiave in camera. - Ma questo e stato un banchetto coi fiocchi. Nettle stava bisbigliando qualcosa all’orecchio di Mace, che annuiva. Estrasse dallo zaino due stecche di sigarette. Certo, era la cosa giusta. I francesi fecero l’atto di rifiutare cortesemente, ma Nettle girò intorno al tavolo e mise loro il dono in mano. Volle che Turner traducesse: - Avreste dovuto vedere quando è arrivato l’ordine di distruggere i depositi. Montagne di sigarette. Ci siamo presi tutto quello che volevamo. Un intero esercito fuggiva in direzione della costa, armato di tabacco per tenere a bada la fame. I francesi si profusero in ringraziamenti, si congratularono con Turner per la lingua e poi si chinarono sul tavolo per radunare nel sacco di tela le bottiglie vuote e i bicchieri. Nessuno finse che si sarebbero rivisti. - Ce ne andiamo appena fa chiaro, - disse Turner, - perciò è meglio salutarci adesso. Si strinsero la mano. Henri Bonnet disse: - Dopo tutta la guerra che ci siamo fatti anni fa, tutti quei morti, ci ritroviamo di nuovo coi tedeschi in casa. Nel giro di due giorni saranno qui e si porte ranno via tutto quello che abbiamo. Chi l’avrebbe mai detto? Per la prima volta, Turner sentì fino in fondo l’infamia di quella ritirata e si vergognò. Ancor meno convinto di prima disse: - Torneremo per cacciarli via, ve lo prometto. I fratelli annuirono e, tra gli ultimi sorrisi di addio, uscirono dal chiarore vago della candela per arrivare alla porta aperta del fienile, con i bicchieri che tintinnavano contro le bottiglie a ogni passo. Rimase a lungo sdraiato a fumare, fissando l’oscurità cavernosa del soffitto. Il 183
russare dei caporali saliva e scendeva in una sorta di contrappunto. Era esausto ma non aveva sonno. La ferita pulsava fastidiosamente con battiti precisi e tesi. Qualsiasi cosa ci fosse là dentro doveva essere tagliente e vicino alla superficie, e gli veniva voglia di sfiorarla con un dito. La stanchezza lo rese vulnerabile ai pensieri
meno
desiderabili.
Gli
tornava
in
mente
il
bambino
francese
addormentato nel suo letto, e l’indifferenza con la quale gli uomini potevano sganciare bombe su un paesaggio o svuotare il loro carico su una fattoria addormentata nei pressi della ferrovia, senza neanche preoccuparsi di sapere chi ci fosse dentro. Era un processo industriale. Aveva visto al lavoro le unità della Royal Airforce, gruppi compatti, attivi a tutte le ore, orgogliosi della velocità con la quale erano in grado di allinearsi in volo, e fieri della disciplina, delle esercitazioni, dell’addestramento, del lavoro di squadra. Non occorreva che vedessero il risultato finale di tutto ciò: un bambino svanito. Svanito. Mentre formulava mentalmente la parola gli prese sonno, ma fu questione di pochi secondi e si ritrovò sveglio, sul letto, a fissare il buio della cella. Gli pareva di essere di nuovo là. Sentiva l’odore del pavimento di cemento e del piscio dentro al bugliolo e dello smalto sulle pareti, e udiva il russare degli uomini in quel braccio del penitenziario. Tre anni e mezzo di notti così, insonni, a pensare a un altro ragazzo svanito, a un’altra vita interrotta che un tempo era stata sua, e ad aspettare l’alba solo per trascinarsi nell’ennesimo giorno inutile. Non sapeva come avesse potuto sopravvivere alla stupidità e alla claustrofobia. A quella mano che gli serrava la gola. Essere qui, al riparo dentro un fienile, con un esercito allo sbando, qui, dove la gamba di un bambino appesa a un albero era un dettaglio che la gente poteva permettersi di ignorare, dove un paese intero, un’intera civiltà erano sul punto di crollare, era comunque meglio che trovarsi là, su una branda stretta, sotto la fioca luce elettrica, in attesa di nulla. Qui c’erano valli piene di boschi, torrenti, il sole sui pioppi, tutte cose che nessuno avrebbe potuto portargli via, a meno di ucciderlo. E poi c’era la speranza. Ti aspetterò. Torna da me. La possibilità, una possibilità di ritornare, c’era. Teneva la sua ultima lettera in tasca con il nuovo indirizzo. Era per questo che doveva sopravvivere e usare la testa per tenersi lontano dalle strade sopra le quali i bombardieri in picchiata si aggiravano come rapaci. Più tardi si alzò da sotto la palandrana, si infilò gli scarponi e a tentoni uscì per 184
andare a pisciare. Era stordito dalla fatica, ma non poteva comunque dormire. Senza badare ai cani che ringhiavano, si incamminò su un sentiero fino a un’altura erbosa, per osservare i lampi nel cielo meridionale. Erano i mezzi blindati tedeschi in minaccioso avvicinamento. Si sfiorò la tasca alta della giubba dove, ripiegata dentro la lettera, stava la poesia che lei gli aveva spedito. Nell’incubo delle tenebre /Latrano tutti i cani d’Europa. Il resto delle sue lettere lo teneva al sicuro nella tasca interna della palandrana. Salendo sulla ruota di un rimorchio abbandonato fu in grado di scorgere altre porzioni di cielo. Gli scoppi erano dappertutto tranne che al nord. L’esercito sconfitto fuggiva lungo un corridoio destinato a restringersi e, ben presto, a finire. Non c’era via di scampo per gli sbandati. Nella migliore delle ipotesi, l’aspettava di nuovo l’internamento. Un campo di prigionia. Questa volta non avrebbe retto. Con la caduta della Francia, sarebbe sfumato il miraggio della fine della guerra. Niente più lettere, e nessun modo per tornare indietro. Nessuna possibilità di patteggiare una scarcerazione anticipata in cambio di un arruolamento in fanteria. Ecco ancora la mano alla gola. La prospettiva sarebbe stata di un migliaio, o diverse migliaia di notti in galera, a rigirarsi nel letto pensando al passato, in attesa che la vita riprendesse, e a chiedersi se mai sarebbe successo. Forse avrebbe avuto senso andarsene ora, prima che fosse tardi, e continuare a marciare per tutta la notte, fino alle spiagge della Manica. Svignarsela, abbandonare i caporali al loro destino. Si voltò e riprese la strada giù per il dosso; ci aveva ripensato. Riusciva a malapena a vedere dove metteva i piedi. Non avrebbe fatto progressi nel buio; in compenso poteva facilmente rompersi una gamba. D’altra parte, i caporali forse non erano completamente balordi: Mace con i suoi materassi di paglia, e Nettle con il regalo per i fratelli Bonnet. Guidato dal loro russare, trascinò i piedi fino al giaciglio. Ma il sonno continuava a non arrivare, oppure a invaderlo a ondate brevi dalle quali emergeva in preda a pensieri che non era in grado di scegliere ne di dominare. Lo ossessionavano i temi di sempre. Ecco ad esempio, immancabile, l’unico incontro con lei. Sei giorni dopo la scarcerazione, uno solo prima di prendere servizio nei pressi di Aldershot. Quando si accordarono di incontrarsi per un te da Joe Lyons sullo Strand era il 1939: non si vedevano ormai da tre anni e mezzo. Lui arrivò presto all’appuntamento e andò a sedersi a un tavolo dal quale fosse visibile 185
l’ingresso. Essere libero rappresentava ancora una novità. Il chiasso, i colori di giacche, cappotti, abiti femminili; le conversazioni rumorose e vivaci dei bottegai del West End, la cordialità della ragazza che lo servì, la vasta assenza di minaccia personale: Robbie si rilassò per godersi l’abbraccio accogliente della quotidianità. Possedeva una bellezza che lui solo sapeva apprezzare. Per tutto il periodo trascorso in carcere, l’unica visita femminile che gli era stata concessa era quella della madre. Per evitare che si eccitasse, dicevano. Cecilia gli scriveva ogni settimana. Innamorato e deciso a mantenersi sano di mente per lei, adorava certo anche le sue parole. Rispondendole, fingeva di essere ancora quello di prima; mentiva per non impazzire. Per paura dello psichiatra che era anche il loro censore, non potevano permettersi alcuna sensualità, nessun trasporto emotivo. Il suo era considerato un penitenziario moderno e democratico, a dispetto del gelo vittoriano che vi regnava. La diagnosi prodotta sul suo conto, clinicamente precisa, parlava di eccessiva esuberanza sessuale, una patologia per la quale occorrevano cure e correzione. Era necessario evitare ogni stimolo. Alcune lettere, sue come di Cecilia, furono confiscate in virtù di timide espressioni affettuose. Perciò, presero a scriversi di letteratura, adottando i nomi di personaggi a mo’ di codice segreto. Quanti libri, quante coppie felici e infelici delle quali non avevano mai trovato il tempo di discutere! Tristano e Isotta, il duca Orsino e Olivia (ma anche Malvolio), Troilo e Criseide, il signor Knightley ed Emma, Venere e Adone. Turner e Tallis. Una volta, in preda alla disperazione, si paragonò a Prometeo, incatenato a una roccia, con il fegato costantemente martoriato da un avvoltoio. Di quando in quando, lei diventava la paziente Griselde. Il rimando a «un angolo tranquillo in biblioteca» era allusione in codice all’estasi dei sensi. Si riferirono anche le rispettive routine quotidiane in tediosi e inteneriti dettagli. Lui descrisse ogni aspetto di una giornata in galera, senza mai far parola della stupidità. Gli sembrava abbastanza scontata. E neppure le disse che temeva di non farcela a tenersi a galla. Anche quello era ovvio. Lei non gli scrisse mai che lo amava, ma lo avrebbe fatto se solo avesse pensato di poter evitare la censura. Lui lo sapeva comunque. Gli raccontò di aver troncato i rapporti con la famiglia. Non avrebbe mai più rivolto la parola ai genitori, ne a fratello e sorella. Robbie seguì passo passo ogni stadio del suo percorso verso il diploma di infermiera. Quando gli scrisse: «Oggi 186
sono stata in biblioteca a prendere il libro di anatomia di cui ti dicevo. Mi sono trovata un posticino tranquillo e ho fatto finta di leggere», Robbie sapeva che attingeva anche lei agli stessi ricordi che ogni notte lo consumavano sotto le coperte della prigione. Quando entrò nel locale con la mantellina da infermiera, riscuotendolo da una sognante fantasticheria, Robbie si alzò troppo di scatto e rovesciò sul tavolo la tazza del te. Si vergognava del completo fuori misura che sua madre gli aveva tenuto da parte. La giacca pareva non sfiorarlo in nessun punto del corpo. Sedettero, si guardarono, sorrisero, e distolsero lo sguardo. Robbie e Cecilia facevano l’amore insieme da anni - per corrispondenza. Nei loro scambi cifrati erano diventati intimi, ma quanto sembrava artificiosa la loro confidenza mentre si imbarcavano in un tentativo di chiacchiera, in un patetico catechismo fatto di domande e risposte beneducate. Mentre tra loro si spalancava la distanza, si resero conto di quanta strada avessero già fatto per iscritto. Quel momento era stato atteso e desiderato troppo per risultare all’altezza delle aspettative. Robbie era vissuto fuori dal mondo, perciò gli mancava la sicurezza necessaria a compiere un passo indietro e recuperare l’idea originale: Ti amo, e tu mi hai salvato la vita. Le chiese invece dove abitava. Lei glielo disse. - E vai d’accordo con la padrona di casa? Non riuscì a escogitare niente di meglio e temette il probabile silenzio, e l’imbarazzo che poteva concludersi con Cecilia che gli diceva quanto sarebbe stato piacevole vedersi ancora. Ora però doveva proprio tornare al lavoro. Tutto ciò che avevano, poggiava su pochi minuti trascorsi insieme in una biblioteca anni prima. Che fosse troppo poco? Cecilia poteva benissimo riscivolare nel ruolo di una specie di sorella. L’aveva delusa? Era smagrito. Si era ridimensionato in tutti i sensi. Il carcere gli aveva insegnato a trascurarsi, mentre Cecilia era ancora adorabile come la ricordava, specie con quella divisa da infermiera. Tesissima anche lei, comunque, e incapace di andare oltre il livello verbale della banalità. Si sforzava, anzi, di mostrarsi spensierata parlando del caratteraccio della padrona di casa. Dopo qualche altra battuta di questo tenore, prese davvero a guardare il piccolo orologio che teneva appuntato sul seno sinistro, e gli disse che tra non molto si 187
sarebbe conclusa la sua pausa per il pranzo. Erano insieme da mezz’ora. Robbie l’accompagnò a piedi a Whitehall, alla fermata dell’autobus. Negli ultimi preziosi minuti insieme, le diede il suo indirizzo, una lugubre sequenza di sigle e di
numeri.
Le
spiegò
che
non
avrebbe
avuto
licenze
fino
al
termine
dell’addestramento base. Poi gli spettavano due settimane. Cecilia lo stava guardando e scuoteva la testa un po’ esasperata, quando finalmente Robbie si decise a prenderle la mano e a stringerla forte. Quel gesto doveva trasmettere tutto ciò che non si erano detti, e lei gli rispose aumentando la pressione sulla mano. Arrivò l’autobus, ma lei non salì. Erano uno di fronte all’altra. Robbie la baciò, a fior di labbra in un primo momento, ma subito si fecero più vicini, e quando le lingue si sfiorarono, una parte disincarnata del corpo di Robbie provò una gratitudine disperata, sapendo di aver acquisito un ricordo al quale avrebbe attinto per mesi a venire. Lo stava facendo ora ad esempio, in un fienile francese, nel cuore della notte. Si strinsero forte e continuarono a baciarsi mentre la gente in coda li superava scansandoli. Un burlone gli urlò qualcosa nelle orecchie. Cecilia piangeva sulla sua guancia, e il dolore le faceva protendere le labbra sulle sue. Arrivò un altro autobus. Lei si ritrasse, gli strinse il polso e salì a bordo senza aggiungere una parola e senza voltarsi indietro. Robbie la osservò mentre cercava posto a sedere e, non appena il veicolo si mosse, si rese conto che avrebbe dovuto seguirla, accompagnarla fino all’ospedale. Aveva sprecato dei minuti da trascorrere con lei. Doveva reimparare a pensare prima di agire. Si mise a correre lungo Whitehall, sperando di raggiungerla entro la fermata successiva. Ma l’autobus era molto più avanti, e di li a poco sarebbe sparito, in direzione di Parliament Square. Si erano scritti durante tutto il suo addestramento. Finalmente liberi dalla censura e dal bisogno di escogitare espedienti, rimasero cauti. Stanchi di una vita vissuta sulla carta, consapevoli delle difficoltà a cui andavano incontro, badarono a non andare oltre lo sfiorarsi delle loro mani e quell’unico bacio alla fermata dell’autobus. Si dissero che si amavano, si chiamarono «tesoro» e «mia cara», sapendo che il futuro li avrebbe visti insieme, ma evitarono intimità più audaci. Ciò che avevano a cuore adesso era di rimanere in contatto fino a quelle due settimane. Tramite un’amica di Girton, Cecilia trovò un cottage nel Wiltshire, e sebbene non pensassero ad altro nei momenti liberi, si sforzarono di non 188
consumare il loro sogno per iscritto. Si raccontarono invece le loro giornate. Lei lavorava al reparto maternità e ogni giorno portava con sé miracoli di ordinaria amministrazione, come pure momenti drammatici, e buffi. Non mancavano le tragedie del resto, in confronto alle quali i loro problemi si riducevano a nulla: aborti spontanei, madri che morivano, giovani padri in lacrime nelle corsie, sgomente ragazze madri ripudiate dalla famiglia, deformità infantili che suscitavano un misto imbarazzante di tenerezza e vergogna. Quando descriveva l’esito felice di un parto, quel momento in cui la lotta cessa e una madre esausta prende per la prima volta tra le braccia il bambino e rivolge lo sguardo estatico su una faccia nuova, l’allusione tacita era al proprio stesso futuro, quello che avrebbe condiviso con lui e che conferiva alla scrittura una semplice forza anche se, a voler essere sinceri, i pensieri di Robbie indugiavano meno sulla nascita e più sul concepimento. Dal canto suo, lui descriveva la piazza d’armi, il poligono di tiro, le esercitazioni,
le
assurde
corvée,
i
baraccamenti.
Non
era
ammesso
all’addestramento ufficiali, il che era un bene perché prima o poi, alla mensa ufficiali, avrebbe incontrato qualcuno al corrente del suo passato. Nei ranghi della truppa invece era anonimo; anzi, risultò che essere stato in carcere gli conferiva un certo prestigio. Scoprì ad esempio di essere già abituato a un regime da caserma, al terrore delle ispezioni e della ripiegatura a cubo delle coperte, con le etichette rivolte all’insù. A differenza dei compagni, non trovava affatto male il cibo. Benché faticose, le giornate gli parevano molto varie. Le marce di addestramento gli procuravano un piacere che non osava confessare alle reclute. Metteva su peso e recuperava energie. L’istruzione e l’età lo screditavano agli occhi degli altri, ma rimediava grazie al passato scabroso, e nessuno gli creava problemi. Anzi, lo consideravano tutti uno che «la sapeva lunga in fatto di donne», oltre che un tipo utile quando era ora di compilare un modulo. Anche lui, come Cecilia, si limitava nelle lettere a raccontare la routine quotidiana, interrotta di quando in quando da qualche aneddoto comico oppure allarmante: la recluta che si era presentata all’appello senza uno scarpone, la pecora impazzita che si era messa a correre nelle baracche e non c’era stato più verso di cacciarla fuori, il sergente istruttore che per un pelo non era stato colpito al poligono di tiro. C’era tuttavia uno sviluppo esterno, un’ombra che era impossibile non 189
nominare. In seguito alla conferenza di Monaco l’anno prima, anche lui, come tutti, era certo che ci sarebbe stata una guerra. Gli addestramenti si erano fatti più intensi e accelerati, era stato allestito un campo nuovo per ospitare altre reclute. Le sue apprensioni non riguardavano eventuali combattimenti futuri, bensì la possibilità di veder compromesso il loro sogno nel Wiltshire. Cecilia replicava
descrivendo
a
sua
volta
procedure
di
emergenza
all’interno
dell’ospedale: un maggior numero di letti, corsi speciali, allarmi antiaerei. Ma per entrambi la questione aveva anche un che di fantastico, remoto e probabile insieme. Non può capitare di nuovo, e impossibile, ecco quello che si ripetevano in tanti. E così ciascuno restava aggrappato alle proprie speranze. C’era un altro problema che lo turbava invece più da vicino. Cecilia non rivolgeva più la parola ai genitori, né a fratello e sorella dal novembre del 1935, da quando lui era stato condannato. Non scriveva a nessuno e non voleva che scoprissero dove abitava. Riceveva notizie dalla madre di Robbie che aveva venduto il cottage e si era trasferita in un altro villaggio. Fu tramite Grace Turner che Cecilia fece sapere ai familiari che stava bene e che non desiderava avere contatti con loro. Una volta Leon era andato a cercarla all’ospedale, ma lei non aveva voluto incontrarlo. Era rimasto fuori dal cancello tutto il pomeriggio. Quando lo aveva visto, lei si era rifugiata dentro finché lui non era andato via. Il mattino seguente se lo ritrovò fuori dal dormitorio delle infermiere. Gli passò accanto senza rivolgergli neppure uno sguardo. Leon la prese per un braccio, ma lei si divincolò e proseguì, apparentemente insensibile alle sue suppliche. Robbie sapeva meglio di chiunque altro quanto Cecilia amasse il fratello, quanto fosse legata alla famiglia e quanto significassero per lei la villa e il parco. Lui non sarebbe mai potuto tornare indietro, ma lo turbava il pensiero che lei stesse distruggendo una parte di sé per amore suo. A un mese dall’inizio dell’addestramento le espose le proprie preoccupazioni. Non era la prima volta che affrontavano l’argomento, ma la questione nel frattempo si era fatta più chiara. Lei gli scrisse in risposta: «Ti si sono rivoltati contro, tutti quanti, perfino mio padre. Devastando la tua vita, hanno distrutto anche la mia. Hanno scelto di credere alla testimonianza di una stupida ragazzina isterica. Anzi, l’hanno incoraggiata, non lasciandole spazio per un eventuale ripensamento. Aveva 190
soltanto tredici anni, lo so, ma non intendo parlarle mai più. Quanto agli altri, non li posso perdonare per quello che hanno fatto. Adesso che mi sono allontanata, incomincio a capire quanto snobismo nascondesse la loro stupidità. Mia madre non ti ha mai perdonato gli ottimi risultati universitari. Mio padre ha preferito seppellirsi nel lavoro. Leon si è rivelato un idiota smidollato, incapace di assumere una posizione. Quando Hardman ha deciso di garantire per Danny, nessuno della mia famiglia ha voluto che la polizia gli rivolgesse alcune domande ovvie. I poliziotti dal canto loro avevano già te da accusare, e non volevano veder compromesse le indagini. Ti sembrerò amara, tesoro, ma non vorrei esserlo. Sono onestamente felice della mia nuova vita e delle amicizie che ho costruito. Finalmente posso respirare. E soprattutto, posso vivere per te. Siamo realistici, occorreva fare una scelta: o te o loro. Come poteva andare diversamente? Non ho mai avuto un solo istante di esitazione. Ti amo. Mi fido ciecamente di te. Tu sei il mio amore, la mia ragione per vivere. Cee». Robbie conosceva a memoria quelle ultime righe e se le ripeteva ora a bassa voce nel buio. La mia ragione per vivere. Non «di vita», ma «per vivere». Era quello il tocco di stile. Anche Cecilia era la sua ragione per vivere, e per sopravvivere. Si sdraiò su un fianco, fissando il punto dove riteneva ci fosse la porta del fienile, in attesa del primo chiarore. Ormai era troppo inquieto per riprendere sonno. Aveva solo voglia di mettersi in marcia verso la costa. Non ci fu nessun cottage nel Wiltshire per loro. Tre settimane prima della fine del suo addestramento fu dichiarata la guerra. La reazione in ambito militare risultò automatica, come i riflessi di un mollusco. Furono revocate tutte le licenze. Poco dopo, l’ordine venne riformulato e si parlò di rimandarle. Poi, con un preavviso di appena ventiquattro ore, furono distribuite le tessere ferroviarie. I soldati avevano quattro giorni di tempo per ripresentarsi al comando presso il loro nuovo reggimento. Correva voce che sarebbero partiti subito. Cecilia aveva tentato di spostare la data del suo congedo per ferie, e in parte ci era riuscita. Quando ci riprovò tuttavia non fu in grado di trovare una sistemazione. Quando ebbe la cartolina in cui Robbie annunciava il suo arrivo, lei stava partendo per Liverpool dove avrebbe seguito un corso di assistente per grandi traumatizzati presso l’ospedale di Alder Hey. Il giorno dopo aver raggiunto Londra, Robbie decise di seguirla al nord, ma i treni erano di una lentezza impossibile. Precedenza 191
assoluta era riservata ai convogli militari diretti a sud. Alla stazione di Birmingham New Street perse una coincidenza e il treno successivo fu annullato. Avrebbe dovuto aspettare fino al mattino seguente. Andò avanti e indietro sul marciapiede per una mezz’ora, tormentandosi sul da farsi. Alla fine, decise di tornare indietro. Presentarsi in ritardo al comando non era cosa da poco. Quando Cecilia rientrò da Liverpool, Robbie stava già sbarcando a Cherbourg e lo aspettava l’inverno più greve della sua vita. La disperazione ovviamente riguardava entrambi, ma Cecilia ritenne proprio dovere mostrarsi ottimista e rassicurante. «Io non me ne vado. Ti aspetterò. Torna da me». Stava citando se stessa. Sapeva che lui avrebbe ricordato. Da quel momento, ogni sua lettera a Robbie in Francia si sarebbe conclusa così, fino all’ultima che gli arrivò poco prima dell’ordine di ripiegare su Dunkerque. Fu un inverno lungo e difficile per la British Expeditionary Force di stanza nel nord della Francia. Non accadde quasi nulla. Si scavavano trincee, si difendevano le vie di comunicazione per gli approvvigionamenti e si procedeva a esercitazioni notturne che risultavano farsesche agli occhi delle truppe, dal momento che non ne veniva mai reso noto lo scopo, e perdipiù mancavano le armi. Fuori servizio, ogni soldato diventava un generale. Perfino l’ultima delle reclute aveva stabilito che la guerra non si sarebbe più combattuta in trincea. Ma le attese armi anticarro non arrivavano mai. Anzi, l’artiglieria pesante scarseggiava ovunque. Fu un tempo pieno di noia e di partite di calcio tra diverse unità, e di marce forzate che duravano giorni, su strade di campagna, con nient’altro da fare per ore di seguito che tenere il passo e sognare a occhi aperti al ritmo degli scarponi sull’asfalto.
Robbie
si
perdeva
in
pensieri
che
riguardavano
Cecilia,
e
programmava la lettera successiva, ne rifiniva le frasi sforzandosi di trovare il lato comico in tanta monotonia. Forse furono i primi accenni di verde lungo i viottoli della campagna francese, e il viola dei giacinti intravisto nei boschi a fargli sentire il bisogno di una riconciliazione, di un nuovo inizio. Decise che avrebbe tentato ancora di persuaderla a mettersi in contatto con i suoi. Non occorreva che li perdonasse o che tornassero sulle vecchie questioni. Bastava che scrivesse una lettera, semplice e breve, per dire loro dove e come stava. Chi poteva sapere quali cambiamenti avrebbero riservato gli anni futuri? Robbie era convinto che se non 192
si fosse rappacificata con i genitori prima della morte di uno dei due, il suo rimorso non sarebbe cessato mai. E lui non si sarebbe mai perdonato di non averla incoraggiata. Così le scrisse in aprile e la risposta gli giunse soltanto alla metà di maggio, quando si stavano già ritirando dal fronte, poco prima che arrivasse l’ordine di raggiungere direttamente la Manica. Non si erano verificati scontri a fuoco con il nemico. La lettera di lei era nella tasca alta della giubba. Fu l’ultima che ebbe prima che la consegna della corrispondenza fosse interrotta. ... Non volevo parlarti di questo adesso. Non so ancora che cosa pensare e volevo aspettare che fossimo insieme. Ma ora che ho la tua lettera non ha alcun senso non dirtelo. La prima sorpresa riguarda il fatto che Briony non e a Cambridge. Non si è presentata l’autunno scorso. Non ha preso il suo posto. Ne sono rimasta stupita perché avevo saputo dal Dr Hall che l’aspettavano. L’altra sorpresa e che sta seguendo il corso per infermiere al mio vecchio ospedale. Te la immagini Briony con una padella in mano? Del resto suppongo che abbiano detto tutti la stessa cosa di me. E poi, lei è talmente in gamba come improvvisatrice: lo sappiamo a nostre spese. Compiango il paziente che si farà fare un’iniezione da lei. Mi ha scritto una lettera confusa che mi ha lasciata confusa a mia volta. Vuole incontrarmi. Sta incominciando a cogliere appieno il senso e le conseguenze di quello che ha fatto. È chiaro che il non presentarsi a Cambridge ha a che fare con questo. Dice che intende rendersi utile sul piano pratico. Ma io ho l’impressione che abbia scelto di fare l’infermiera per infliggersi una specie di castigo. Vuole venire a trovarmi e parlare. Forse mi sbaglio, ed e per questo che avevo deciso di dirtelo solo di persona, ma penso che voglia ritrattare. Credo che voglia modificare la testimonianza e che intenda farlo per via ufficiale o legale. Può anche darsi che non sia possibile, visto che la tua richiesta d’appello non è stata accolta. Dobbiamo informarci meglio. Forse dovrei rivolgermi a un avvocato. Non voglio che incominciamo a sperare per niente. È anche possibile che lei non abbia in mente quello che penso io, o che non sia disposta ad andare fino in fondo. Non dimentichiamo che razza di fervida immaginazione ha Briony. Non farò niente finché non avrò tue notizie. Non ti avrei parlato di tutto questo, ma quando mi hai scritto ripetendomi di riallacciare i rapporti con i miei (ammiro 193
la tua generosità d’animo), ho dovuto farti sapere, perché la situazione potrebbe cambiare. Se non sarà legalmente possibile che Briony si presenti davanti a un giudice e gli dica che ci ha ripensato, se non altro potrà sempre dirlo ai nostri genitori. A quel punto loro potranno decidere che cosa intendono fare. Se si convinceranno a scriverti una lettera di scuse adeguata, allora, forse, potremmo considerare l’ipotesi di un nuovo inizio. Non faccio che pensare a lei. Iscriversi al corso per infermiere, tagliarsi fuori da tutto il suo mondo, rappresenta per Briony un passo di gran lunga più drastico di quanto non sia mai stato per me. Io se non altro i miei tre anni a Cambridge li ho avuti, e avevo anche un motivo ovvio per ripudiare la mia famiglia. Avrà avuto le sue ragioni anche lei. Non posso negare che sono curiosa di scoprirle. Ma aspetto che tu mi dica come la pensi, tesoro. A proposito, mi ha anche detto che Cyril Connolly le ha respinto un pezzo che aveva mandato a «Horizon». A quanto pare qualcuno incomincia a vedere più chiaro nelle sue fantasie malate. Ti ricordi i gemelli prematuri di cui ti avevo parlato? Il più piccolo e morto. E successo ieri notte, quando ero di turno. La madre l’ha presa malissimo. Avevamo saputo che il padre era un manovale e immagino che ci aspettassimo un tipo massiccio e tarchiato con la sigaretta incollata al labbro. Era sulla costa in East Anglia a costruire fortificazioni antisbarco al seguito di imprese assoldate dall’esercito; per questo era arrivato così tardi in ospedale. Risultò essere un ragazzo bellissimo, di appena diciannove anni, alto più di un metro e ottanta, con i capelli biondi che gli ricadevano sulla fronte. Aveva il piede equino, come Byron, ed è per questa ragione che non si e arruolato. Jenny ha detto che sembrava un dio greco. È stato così dolce e gentile e paziente nel consolare la giovane moglie. Ci ha commossi tutti. La parte più triste è stata che quando quasi ce l’aveva fatta a calmarla, e scaduto l’orario di visita e la caposala e venuta a farlo uscire come tutti gli altri. Così siamo rimaste noi a raccogliere i cocci. Povera ragazza. Ma erano le quattro, e il regolamento e il regolamento. Voglio correre più con questa all’ufficio smistamento corrispondenza dì Balham nella speranza che possa varcare la Manica prima del fine settimana. Ma non mi va di chiudere su una battuta triste. In realtà, sono molto emozionata da questa notizia di mia sorella e da quello che potrebbe significare per noi. Mi sono divertita con la tua storia sulle latrine dei sergenti. L’ho letta alle ragazze e hanno 194
riso come matte. Sono felicissima che l’ufficiale di collegamento abbia scoperto che sai il francese e ti abbia affidato un incarico che ti permette di sfruttarlo. Come mai ci ha messo tanto ad accorgersene? Ti tieni in disparte? Hai ragione sul pane francese: dieci minuti dopo che l’hai mangiato, hai fame di nuovo. Tutta aria e niente sostanza. Balham non e poi così male come ti avevo detto, ma te ne parlerò la prossima volta. Ti mando una poesia di Auden sulla morte di Yeats che ho ritagliato da un vecchio «London Mercury» dell’anno scorso. Sabato vado da Grace e li vedrò se riesco a trovare l’Housman in una delle tue scatole. Devo scappare. Sei nei miei pensieri in ogni istante. Ti amo. Ti aspetterò. Torna da me. Cee. Fu svegliato da uno scarpone che gli batteva sulle reni. - Avanti, capo. Il mattino ha l’oro in bocca. Si rizzò a sedere e guardò l’orologio. L’entrata del fienile era un rettangolo nerobluastro. Aveva dormito, calcolò, per meno di tre quarti d’ora. Mace svuotò diligentemente i sacchi di paglia e smontò il tavolo. Sedettero in silenzio tra le balle di fieno fumando la prima sigaretta della giornata. Uscendo, trovarono una marmitta di terra cotta con un pesante coperchio di legno. Dentro, avvolte in un telo, c’erano una pagnotta e una fetta di formaggio. Turner divise subito le provviste con un coltello a serramanico. - Nel caso dovessimo separarci, - mormorò. C’era già una luce accesa alla fattoria e i cani abbaiarono frenetici mentre loro si allontanavano. Scavalcarono un cancello e presero per un campo puntando a nord. Dopo un’ora si fermarono in un boschetto a bere dalle borracce e fumare. Turner studiò la mappa. I primi bombardieri volavano già alti, una formazione di circa cinquanta Heinkel, tutti diretti alla costa. Giornata perfetta per la Luftwaffe. Marciarono in silenzio per un’altra mezz’ora. Non c’era sentiero, perciò Turner stabiliva il percorso usando la bussola, tra pascoli pieni di vacche e di pecore, rape e frumento giovane. Non erano poi così al sicuro come pensava, lontano dalla strada. Uno dei prati mostrava una dozzina di crateri da granata, e frammenti di carne, ossa e pelle sbrindellata erano schizzati tutto intorno per un raggio di cento metri. Ma i tre uomini erano troppo presi dai propri pensieri e nessuno parlò. Turner era in ansia per via della mappa. Secondo lui dovevano 195
essere a quaranta chilometri da Dunkerque. Più si avvicinavano e più sarebbe stato difficile tenersi fuori dalle strade. Tutto convergeva. C’erano fiumi e canali da attraversare. Dovendo dirigersi ai ponti, avrebbero solo perso tempo se avessero tagliato di nuovo per la campagna. Poco dopo le dieci fecero un’altra sosta. Avevano scavalcato una siepe e raggiunto un viottolo sterrato, che però Turner non riuscì a individuare sulla cartina. La direzione comunque era giusta, e il terreno da percorrere piatto e quasi del tutto erboso. Marciavano da un’altra mezz’ora quando udirono il fuoco dell’antiaerea a tre chilometri circa più avanti, dove riuscivano a intravedere la guglia di un campanile. Turner si fermò per controllare di nuovo la mappa. Il caporale Nettle disse: - Mica ci trova la sua pupa disegnata su quella carta. - Ssh. È di nuovo indeciso. Turner appoggiò il peso del corpo contro un palo della staccionata. Il fianco gli doleva ogni volta che metteva a terra il piede destro. La cosa appuntita sembrava sporgere fin quasi a sfiorargli la camicia. Impossibile resistere alla tentazione di tastarla con un dito. Ma sentì solo carne molle e dilaniata. Dopo la notte appena trascorsa, non era più in vena di tollerare le battute dei caporali. Stanchezza e dolore lo stavano rendendo irritabile, ma non disse nulla e si sforzò di concentrarsi. Trovò il paese sulla cartina, ma non la pista che invece vi arrivava sicuramente. Proprio come aveva pensato. Avrebbero raggiunto la strada e sarebbero stati costretti a rimanerci per tutto il tragitto fino alla linea di difesa sul canale Bergues-Furnes. Non c’era altra via. I caporali continuavano a prenderlo in giro. Ripiegò la carta e si avviò. - Qual e il piano, capo? Non rispose. - Oh, oh. Devi averlo offeso. Oltre le risa sguaiate, sentì il fuoco dell’artiglieria, la loro, un po’ più avanti a ovest. A mano a mano che si avvicinavano al villaggio udivano il rumore di lenti autocarri. Poi li videro, una lunga colonna diretta a nord che procedeva a passo d’uomo. Sarebbe stata una tentazione chiedere un passaggio, ma sapeva per esperienza che bersaglio facile avrebbero rappresentato dall’aria. A piedi riuscivi a vedere e a sentire tutto quello che arrivava. La loro pista si immetteva sulla strada nel punto in cui questa si piegava ad 196
angolo retto uscendo dal paese. Riposarono i piedi per dieci minuti, seduti sul bordo di un abbeveratoio di pietra. Automezzi da tre e da dieci tonnellate, semicingolati e ambulanze mordevano il terreno attorno alla curva stretta a meno di due chilometri all’ora, per poi uscire dal paese su un rettilineo lungo, fiancheggiato sulla sinistra da un filare di platani. La strada puntava diritta a nord verso una nuvola nera di fumo che sovrastava l’orizzonte e segnalava la posizione di Dunkerque. Ormai la bussola era inutile. Qua e là lungo la strada si trovavano veicoli militari distrutti. Non si doveva lasciare nulla che il nemico potesse utilizzare. Dal retro di un camion in marcia, i feriti che non avevano perso i sensi fissavano fuori con sguardi vuoti. C’erano anche mezzi corazzati, vetture per gli ufficiali di stato maggiore, piccole autoblindo e motociclette. In mezzo a tutto ciò, carichi dentro e fuori di masserizie e valigie, viaggiavano auto di civili, autobus, trattori e carri spinti da uomini e donne o trainati da cavalli. L’aria era grigia del fumo dei diesel e in quella puzza, procedendo per il momento più speditamente del traffico, avanzavano centinaia di soldati sbandati, perlopiù con fucile e palandrana: un gran peso nel calore crescente del mattino. Marciavano insieme a loro intere famiglie che trascinavano valigie, fagotti, neonati, o tenevano per mano bambini già in grado di camminare. L’unico suono umano che Turner udiva, l’unico che riusciva a sovrastare il baccano dei motori, era il pianto dei neonati. I vecchi procedevano da soli. Uno di loro, in completo di batista, papillon e pantofole di panno, avanzava con l’aiuto di due bastoni ed era così lento che perfino il traffico lo superava. Ansimava forte. Dovunque fosse diretto, di sicuro non ce l’avrebbe fatta. In fondo alla strada, proprio sull’angolo, un negozio di scarpe era aperto alla vendita. Turner vide una donna con una bambina parlare con una commessa che le mostrava una scarpa diversa in ciascuna mano. Nessuna delle tre prestava alcuna attenzione al corteo che si snodava alle loro spalle. In direzione opposta al flusso, nei pressi della stessa curva, giungeva una colonna di mezzi blindati nuovi di zecca, diretti a sud verso l’avanzata tedesca. Tutto ciò che potevano sperare contro i Panzer, era di guadagnare un paio d’ore per aiutare i soldati in ritirata. Turner si alzò, bevve alla borraccia e si inserì nel corteo dietro un paio di uomini della Highland Light Infantry. I caporali lo seguirono. Non si sentiva più responsabile per loro adesso che avevano raggiunto il grosso della ritirata. La 197
mancanza di sonno lo esacerbava rendendolo più ostile. Oggi le loro battute lo infastidivano anche perché tradivano il cameratismo della sera prima. A dire il vero, la sua ostilità coinvolgeva chiunque gli stesse accanto. I pensieri gli si erano ridotti fino ad addensarsi attorno a un unico punto cruciale che riguardava la sua sopravvivenza. Desiderando liberarsi dei caporali, affrettò il passo, superò gli scozzesi e si fece largo oltre un gruppo di monache che guidavano il gregge di una dozzina di bambini in casacca azzurra. Parevano i superstiti di un collegio, come quello dove aveva insegnato lui nei pressi di Lille, l’estate prima di entrare a Cambridge. Quella vita ormai gli sembrava appartenere a un altro uomo. Una civiltà sepolta. Prima era andata in pezzi la sua esistenza, poi quella di tutti gli altri. Avanzava con passo rabbioso, sapendo che non avrebbe potuto mantenere a lungo quel ritmo. Si era già trovato a far parte di una colonna del genere, il primo giorno, e gli era chiaro cosa stava cercando. Subito alla sua destra c’era un fossato, ma era troppo basso ed esposto. Il filare degli alberi stava sull’altro lato. Sgattaiolò da quella parte tagliando la strada a una berlina Renault. Il guidatore pigiò sul clacson. Il chiasso acuto e improvviso spaventò Turner, facendolo infuriare. Ora basta! Balzò indietro fino alla portiera dell’auto e la spalancò. A bordo c’era un ometto azzimato in completo grigio e cappello di feltro, con le valigie di cuoio ammucchiate accanto e la famiglia stipata sul sedile posteriore. Turner afferrò l’uomo per la cravatta e si preparava a stampare la mano destra su quella faccia da idiota, quando un’altra mano, ben salda, lo bloccò all’altezza del polso. - Quello non e il nemico, capo. Senza allentare la presa, il caporale Mace lo trascinò via. Nettle, che stava subito dietro, chiuse la portiera della Renault con un calcio di tale ferocia da staccare lo specchietto esterno. I bambini in casacca azzurra facevano il tifo battendo le mani. I tre uomini attraversarono e presero a marciare sotto i platani. Il sole era alto ormai e faceva caldo; l’ombra non aveva ancora raggiunto la strada. Alcuni veicoli rovesciati nel fosso mostravano i segni degli attacchi aerei subiti. Intorno agli automezzi abbandonati, sfollati in cerca di cibo, acqua e carburante avevano disseminato masserizie varie. Turner e i caporali calpestarono nastri per macchina da scrivere che uscivano srotolandosi dalle bobine, libri paga, scrivanie 198
metalliche e sedie girevoli, utensili da cucina e pezzi di motori, selle, staffe e finimenti, macchine da cucire, coppe di tornei di calcio, sedie pieghevoli, un proiettore e un generatore, entrambi distrutti con un palanchino che ancora giaceva al loro fianco. Superarono un’ambulanza, per metà nel fosso e senza una ruota. Una targa in bronzo sulla portiera diceva: «Questa ambulanza e dono dei cittadini britannici residenti in Brasile». Turner scoprì che era possibile addormentarsi marciando. Il rombo degli automezzi all’improvviso spariva, i muscoli del collo si rilassavano, la testa ciondolava in avanti; a quel punto si svegliava di soprassalto e raddrizzava il passo. Nettle e Mace erano del parere di farsi dare un passaggio. Ma il giorno precedente Turner aveva già raccontato ciò che aveva visto in quella prima autocolonna: venti uomini nel cassone di un camion da tre tonnellate uccisi da un’unica bomba. Lui nel frattempo si era riparato in un fosso con la testa ficcata dentro una fogna e la scheggia l’aveva comunque raggiunto al fianco. - Andate pure, - disse. - Io resto. La questione fu liquidata così. Senza di lui non sarebbero andati: Turner era il loro portafortuna. Si trovarono a seguire altri fanti degli Highlands. Uno di loro suonava la cornamusa, fatto che scatenò nei caporali la voglia di schernirlo mettendosi a nitrire un’imitazione nasale del suono dello strumento. Turner fece l’atto di attraversare la strada. - Se scatenate una rissa io non sto con voi. Un paio di scozzesi si erano già voltati e bofonchiavano tra loro. - Guarda che notte di luna, stanotte, - esclamò Nettle ostentando la parlata londinese. Sarebbe potuto nascerne qualcosa di imbarazzante se non avessero sentito un colpo di pistola più avanti. Mentre si avvicinavano, la cornamusa tacque. In un grande campo si era radunata in forza la cavalleria francese; gli uomini, tutti a piedi, formavano una lunga fila in cima alla quale stava un ufficiale che sopprimeva sistematicamente gli animali con un colpo alla testa. Gli uomini stavano sull’attenti al fianco della cavalcatura, stringendo solennemente al petto il cappello. I cavalli attendevano pazienti il proprio turno. Quella rappresentazione di sconfitta depresse ulteriormente gli animi. Ai 199
caporali venne meno la voglia di accapigliarsi con gli scozzesi i quali, peraltro, già li ignoravano. Qualche minuto dopo passarono accanto a cinque cadaveri dentro un fosso, tre donne e due bambini. Le loro valigie erano sparpagliate intorno. Una delle donne calzava pantofole di panno, come l’uomo in completo di batista. Turner distolse lo sguardo, deciso a non lasciarsi coinvolgere. Se voleva sopravvivere, doveva tenere gli occhi puntati verso il cielo. Era talmente stanco, però, che continuava a dimenticarsene. E poi adesso faceva caldo. Alcuni uomini abbandonavano a terra le palandrane. Giornata splendida. In altri tempi la si sarebbe definita così. La strada seguiva un lungo pendio in salita, quanto bastava per appesantire le gambe e aumentare il dolore al fianco. Ogni passo diventava una scelta deliberata. Gli stava anche crescendo, sul tallone sinistro, una vescica che lo costringeva a camminare sul lato esterno dello scarpone. Senza fermarsi, prese dallo zaino il pane e il formaggio, ma aveva troppa sete per riuscire a masticare. Si accese un’altra sigaretta per ingannare la fame e cercò di ridurre al minimo il compito che lo aspettava: si trattava di procedere per la campagna fino a raggiungere il mare. Che cosa poteva esserci di più semplice, una volta eliminato l’elemento umano? Era l’unico uomo sul pianeta, e il suo scopo era chiaro. Camminava sulla terra, fino a giungere al mare. Di elemento umano, la realtà ne prevedeva anche troppo, lo sapeva bene; c’erano altri uomini che lo incalzavano, ma lui trovò conforto nel fingersi solo e nel ritmo che aveva ottenuto almeno per i suoi piedi. Marciava sulla terra / finché non giunse al mar. Un esametro. Una sequenza di giambi e anapesti, ecco il tempo sul quale marciava adesso. Altri venti minuti e la strada cominciava a livellarsi. Lanciandosi un’occhiata alle spalle vide il convoglio dispiegarsi sul fianco del colle per un chilometro e mezzo circa. Davanti, non riusciva a scorgerne la fine. Attraversarono una linea ferroviaria. Stando alla cartina, mancavano venticinque chilometri al mare. Nel tratto che stavano percorrendo le masserizie abbandonate e distrutte erano pressoché continue. Una
mezza
dozzina
di pezzi da
venticinque erano
ammucchiati oltre il fosso, come se ce li avesse ammassati un bulldozer. Più in là, dove il terreno cominciava a digradare e la strada formava un incrocio con un viottolo secondario, c’era del trambusto. Si udivano i soldati sghignazzare e qualcuno che alzava la voce dal bordo della via. Avvicinandosi, Turner vide un 200
maggiore dei Buffs, un tipo roseo, sulla quarantina, della vecchia scuola, che urlava indicando un boschetto a un paio di chilometri di distanza, oltre due campi coltivati. Stava cercando di convincere gli uomini a uscire dalla colonna. Perlopiù lo ignoravano e procedevano indifferenti, alcuni lo deridevano, ma qualche isolato, intimidito dal grado, si fermava, benché l’ufficiale mancasse del tutto di autorità. I pochi disciplinati si radunarono intorno a lui con i fucili e lo sguardo incerto. - Tu. Si, tu. Puoi andare. La mano del maggiore si era posata sulla spalla di Turner che si fermò e fece il saluto senza nemmeno rendersene conto. I caporali erano dietro di lui. Il maggiore aveva dei baffetti ispidi come setole su labbra sottili e tese da cui le parole uscivano a raffica. - Abbiamo, bloccato i crucchi, laggiù nel bosco. Dev’essere una squadra in ricognizione. Ma sono ben piazzati e hanno un paio di mitragliatrici. Adesso andiamo lì e li staniamo come topi. Turner rabbrividì per l’orrore, e gli mancarono le gambe. Mostrò al maggiore le mani vuote. - Con cosa, signore? - Con l’intelligenza e un po’ di lavoro di squadra. Come rispondere a un idiota del genere? Turner era troppo stanco per pensare anche se sapeva che lui non ci sarebbe andato. - Allora, abbiamo i residui di due plotoni già a metà strada... Era «residui» la parola chiave, quella che incoraggiò Mace ad armarsi di tutta la scaltrezza da caserma di cui era capace e a interrompere. - Mi scusi, signore. Chiedo il permesso di parlare. - Permesso negato, caporale. - Grazie, signore. L’ordine arriva direttamente dal quartier generale. Avanzare speditamente, velocemente, rapidamente e senza indugi, digressioni e divagazioni verso Dunkerque allo scopo di procedere a un’evacuazione immediata dovuta al fatto di essere stati orrendamente e pesantemente sopraffatti da ogni possibile direzione. Signore. Il maggiore si volse e puntò il dito indice sul petto di Mace. - Ora stammi a sentire. Questa e la nostra ultima occasione per dimostrare...
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Il caporale Nettle disse sognante: - E stato Lord Gort a emanare quell’ordine, signore, e a inviarlo personalmente. A Turner pareva straordinario parlare così a un ufficiale. Straordinario e rischioso, anche. Il maggiore non aveva capito che lo stavano prendendo in giro. Sembrava credere che a interromperlo fosse stato Turner, perché il breve discorso che seguì era rivolto a lui. - La ritirata e una maledetta carneficina. Santo Iddio, soldato. Questa e la nostra ultima buona occasione per fargli vedere di che cosa siamo capaci quando diventiamo attivi e determinati. Inoltre... Proseguì per un pezzo, ma a Turner parve che un silenzio ovattato fosse disceso sullo scenario luminoso della tarda mattinata. Questa volta non stava dormendo. Guardava oltre la spalla del maggiore verso la testa della colonna. Appesa laggiù in lontananza, a una decina di metri dalla strada e avvolta dalla calura crescente, c’era una specie di asse di legno con una protuberanza centrale, sospesa orizzontalmente. Le parole del maggiore non gli arrivavano più, e nemmeno il filo logico dei suoi pensieri. L’apparizione si librò nel cielo senza aumentare di dimensioni, e benché Turner stesse incominciando a coglierne il senso, gli era impossibile reagire o muovere un passo, come in un sogno. Il suo unico movimento fu quello di aprire la bocca, ma non riuscì a emettere alcun suono; del resto, anche potendo, non avrebbe saputo cosa dire. Poi, esattamente nel momento in cui l’audio riprese a funzionare, Turner riuscì a gridare: - Via! - Si mise a correre direttamente verso il riparo più vicino. Il suo era stato un suggerimento generico e ben poco marziale, ma sentì che i caporali lo seguivano a ruota. Onirica fu anche la sensazione di non poter muovere le gambe abbastanza in fretta. Non era dolore quello che sentiva sotto il costato, ma qualcosa che raspava contro le ossa. Lasciò cadere la palandrana. Una cinquantina di metri più avanti c’era un camion da tre tonnellate riverso su un fianco. Quel telaio nero di grasso con la massa del differenziale erano la sua sola meta. Non gli mancava molto per arrivarci. Un caccia mitragliava a volo radente la colonna in tutta la sua lunghezza. L’ampia raffica di colpi avanzava sulla strada a trecento chilometri all’ora, una gragnola assordante di proiettili di cannoncini su vetri e metallo. Nessuno all’interno dei veicoli pressoché fermi aveva cominciato a reagire. I guidatori stavano ancora registrando il fenomeno dal 202
parabrezza. Si trovavano dove era stato lui pochi secondi prima. Gli uomini nei cassoni del camion non ne sapevano nulla. Un sergente si piazzò in mezzo alla strada e alzò in aria il fucile. Una donna gridò, e subito dopo ebbero il fuoco addosso, esattamente nell’attimo in cui Turner si lanciava dietro l’automezzo rovesciato. La struttura d’acciaio tremò, colpita dai proiettili alla velocità folle di un rullo di tamburo. Poi la raffica di colpi avanzò, precipitandosi lungo la colonna, seguita dal frastuono del caccia e dal movimento rapido della sua ombra. Turner si rannicchiò nel buio del telaio, in corrispondenza della ruota anteriore. Mai l’odore della coppa dell’olio gli era sembrato tanto buono. In attesa di un altro aereo, si raggomitolò in posizione fetale, con le braccia raccolte intorno alla testa e gli occhi chiusi stretti, pensando unicamente a sopravvivere. Ma non arrivò più nulla. Soltanto l’alacre ronzio degli insetti occupati nelle loro faccende di tarda primavera, e il canto degli uccelli che riprendeva dopo una rispettosa pausa. Poi, come se avessero preso il la dagli uccelli, i feriti cominciarono a gemere e a chiedere aiuto, e i bambini terrorizzati si misero a piangere. Qualcuno, come al solito, se la prese con la RAF. Turner si alzò e si stava un po’ ripulendo quando vide riemergere Nettle e Mace che si diressero verso il maggiore seduto a terra. Aveva perso tutto il colore in faccia e si stringeva una mano. - Un proiettile l’ha presa in pieno, - disse quando lo raggiunsero. - Mi è andata bene, direi. Lo aiutarono a mettersi in piedi e gli proposero di portarlo a un’ambulanza dove un ufficiale medico e due aiutanti si stavano già occupando dei feriti. Ma lui scosse il capo e rifiutò l’aiuto. Lo shock lo aveva reso più socievole e gli aveva addolcito la voce. - Meglio. Dev’essere stata una mitragliatrice. Un colpo di cannoncino mi avrebbe fatto saltare la mano, boia d’un mondo. Calibro venti. Dev’essersi allontanato dal resto del la squadriglia. Ci ha individuati mentre faceva ritorno e non ha resistito. Posso capirlo. Ma questo vuol dire che presto ne arriveranno degli altri. Il pugno di uomini che aveva radunato prima si era nel frattempo rialzato e, raccolti i fucili dal fosso, se ne stava andando. Vedendoli, il maggiore tornò in sé. - D’accordo, ragazzi, in riga. 203
Sembravano incapaci di resistergli e si allinearono. Tremando un poco questa volta, si rivolse a Turner. - Anche voi tre. Scattare. - A dire il vero, amico, preferiremmo di no. - Oh, capisco -. Lanciò un’occhiata furtiva alla spalla di Turner e diede l’impressione di riconoscervi dei gradi superiori al suo. Scattò in un saluto esibito con la mano sinistra. - In tal caso, signore, se non ha niente in contrario, noi ci avviamo. Ci auguri buona fortuna. - Buona fortuna, maggiore. Lo osservarono allontanarsi con la sua squadra di uomini riluttanti in direzione dei boschi dove li aspettavano le mitragliatrici. La colonna non si mosse per una mezz’ora. Turner si mise a disposizione dell’ufficiale medico e aiutò i barellieri a trasportare i feriti. Trovò loro dei posti sui camion. Dei caporali non c’era traccia. Fece avanti e indietro portando materiale da un’ambulanza. Osservando il capitano al lavoro, impegnato a cucire una ferita alla testa, Turner si sentì invadere dalla vecchia ambizione. La quantità di sangue, tuttavia, cancellò i dettagli dei suoi ricordi di studio. Lungo quel tratto di strada c’erano cinque feriti e sorprendentemente nessun morto, anche se il sergente con il fucile era stato colpito in faccia e aveva poche speranze di sopravvivere. Tre automezzi dei quali era andata distrutta la parte anteriore, furono spinti via dalla strada. Per misura di sicurezza, se ne svuotarono i serbatoi e si forarono le gomme a colpi di pistola. Quando tutto ciò fu concluso nel loro tratto di corteo, la testa della colonna continuava a non muoversi. Turner recuperò la palandrana e proseguì. Aveva troppa sete per aspettare. Una vecchia di origine belga, ferita a un ginocchio, gli aveva finito l’acqua della borraccia. Si sentiva la lingua spessa e non riusciva a pensare ad altro che a procurarsi da bere. A quello, e a tenere d’occhio il cielo. Oltrepassò sezioni simili alla sua dove si procedeva a rendere inutilizzabili i veicoli e a trasferire i feriti sui camion. Marciava da dieci minuti, quando vide la testa di Mace sull’erba accanto a un mucchio di terra. Era a una ventina di metri, nell’ombra verde cupo di un pioppeto. Vi si diresse, pur sospettando che sarebbe stato meglio per il suo stato mentale 204
non fermarsi. Trovò Mace e Nettle in piedi dentro una fossa. Stavano finendo di scavare una tomba. Sdraiato riverso oltre il mucchio di terra c’era un ragazzo di più o meno quindici anni. Una chiazza rossa macchiava il dorso della camicia dal collo alla vita. Mace, appoggiato alla vanga, si produsse in una discreta imitazione. Preferiremmo di no. E bravo il nostro capo. Questa me la devo ricordare per la prossima volta. - Anche «divagazione» non era male. Dove l’hai scovata? - Una volta mi piacevano le parole crociate. - E «orrendamente e pesantemente sopraffatti»? - Quella l’avevo sentita a un concerto che avevano dato alla mensa sottufficiali il Natale scorso. Senza uscire dalla fossa, Mace e Nettle accennarono una canzone stonata per Turner: Twas ostensibly ominous in the overview To be ‘orribly and onerously overrun. Alle loro spalle la colonna aveva ripreso a muoversi. - Sarà meglio che lo sistemiamo dentro, - disse il caporale Mace. I tre uomini calarono il corpo del ragazzo e lo adagiarono sulla schiena. Aveva nel taschino una fila di penne stilografiche. I caporali non fecero alcuna pausa per solennizzare la cerimonia. Incominciarono a spalare terra e in breve il ragazzo sparì. Nettle disse: - Un bel figliolo. I caporali avevano legato con una corda due paletti di una tenda per farne una croce. Nettle la piantò nella terra con il dorso della vanga. Subito dopo, tornarono sulla strada. Mace disse: - Era con i suoi nonni. Non volevano che lo si lasciasse nel fosso. Pensavo che venissero a salutarlo, ma sono in condizioni terribili. Meglio che gli diciamo dove l’abbiamo messo. I nonni del ragazzo però non si trovavano. Mentre procedevano, Turner estrasse la carta e disse: - Voi continuate a tener d’occhio il cielo -. Il maggiore aveva ragione: dopo il passaggio casuale di quel Messerschmitt, sarebbero 205
ritornati. Avrebbero già dovuto essere di ritorno, anzi. Il canale Bergues-Furnes era segnato con una spessa linea azzurra sulla carta. L’impazienza di raggiungerlo, per Turner, era ormai indissolubilmente legata alla sete. Voleva affondare la faccia dentro quell’azzurro e bere a volontà. Il pensiero gli riportò alla memoria certe febbri infantili, la loro logica folle e spaventosa, la ricerca della parte fresca del cuscino, e la mano di sua madre sulla fronte. Cara Grace. Si sfiorò adesso la fronte e la sentì secca come carta. Gli pareva che l’infiammazione stesse crescendo e che la pelle diventasse più tesa e più dura mentre qualcosa, che non era sangue, gli colava sulla camicia. Avrebbe voluto verificare, senza farsi vedere ma, date le circostanze, era impensabile. Il convoglio aveva ripreso a muoversi al passo inesorabile di prima. La strada correva dritta al mare: non ci sarebbero state altre scorciatoie, d’ora in poi. A mano a mano che si avvicinavano, la nuvola nera, che di certo proveniva da una raffineria in fiamme a Dunkerque, incominciava a dominare il cielo settentrionale. Non c’era altro da fare che marciarle incontro. Perciò ancora una volta si incamminò a testa bassa in silenzio. La strada non godeva più della protezione dei platani. Vulnerabile agli attacchi e priva d’ombra, si snodava sulla terra in lunghe esse ondulate. Turner aveva perso tempo prezioso in chiacchiere inutili. La stanchezza lo aveva reso superficiale e disponibile. Ora tuttavia tornò a concentrarsi sul ritmo degli scarponi: «Marciava sulla terra finché non giunse al mar». Tutto ciò che lo trascinava avanti doveva superare, foss’anche di una frazione di grammo, il peso di ciò che lo avrebbe invogliato a fermarsi. Su un piatto della bilancia, la ferita, la sete, la vescica al piede, la stanchezza, il calore, il dolore alle gambe, gli Stuka, la distanza, la Manica; sull’altro, la frase Ti aspetterò, e il ricordo di quando era stata pronunciata, che Turner aveva preso a frequentare come un luogo sacro. Inoltre, il terrore della cattura. I suoi ricordi più sensuali - i pochi minuti in biblioteca, il bacio a Whitehall - si erano ormai scoloriti per l’uso. Conosceva a memoria certi passaggi delle sue lettere, aveva rivisitato la loro lite a causa del vaso presso la fontana, risentiva il calore del braccio di lei alla cena durante la quale erano scomparsi i gemelli. Quei ricordi lo sostenevano, ma non senza sofferenza. Troppo spesso gli 206
richiamavano alla memoria il luogo dove si trovava l’ultima volta che li aveva evocati. Giacevano al fondo di un vasto spartiacque nel tempo, non meno significativo di un avanti e un dopo Cristo. Prima del carcere, prima della guerra, prima che la vista di un cadavere diventasse ordinaria amministrazione. Ma simili eresie morivano quando leggeva l’ultima lettera di Cecilia. Si sfiorò la tasca alta della giubba. Era una specie di genuflessione. C’era ancora. Ecco un elemento nuovo da aggiungere sul piatto della bilancia. Il fatto di poter essere dichiarato innocente portava con se tutta la semplicità dell’amore. Gli bastava assaporare quella possibilità per ripensare a quanto di lui si fosse ridotto fino a spegnersi. Il suo gusto per la vita, nientemeno, tutte le vecchie ambizioni, i piaceri. La prospettiva era quella di una rinascita, di un ritorno trionfale. Poteva ridiventare l’uomo che una volta, al tramonto, aveva attraversato un parco nel Surrey con addosso il vestito buono, spavaldo e soddisfatto delle promesse dell’esistenza; l’uomo che era entrato nella villa e, con la purezza della passione, aveva fatto l’amore con Cecilia - anzi, perché non nobilitare per una volta la parola strappandola ai caporali? Lui e Cecilia avevano «scopato», mentre gli altri sorseggiavano l’aperitivo in terrazza. La storia poteva ricominciare, la stessa storia che era andato progettando nel corso della passeggiata di quella sera. Non avrebbero più dovuto vivere come due isolati. Il loro amore avrebbe avuto spazio per esprimersi e un mondo nel quale crescere. Non sarebbe andato in giro con il cappello in mano a raccogliere scuse da tutti gli amici che lo avevano scaricato. E nemmeno se ne sarebbe rimasto in disparte, fiero e feroce, deciso a evitarli a sua volta. Sapeva esattamente come si sarebbe comportato. Una volta ripulita la fedina penale, poteva, a guerra finita, rifare domanda alla facoltà di medicina o persino ambire a un incarico da ufficiale medico. Se Cecilia avesse fatto la pace con i suoi, lui si sarebbe mantenuto a distanza, senza mostrare amarezza. Recuperare il rapporto con Emily e Jack era impensabile. Lei aveva seguito il processo con una strana ferocia, mentre jack gli aveva voltato le spalle, sparendo nel suo ufficio al ministero nel momento del bisogno. Più nulla aveva importanza. Da questo momento gli sembrava tutto facile. Stavano superando altri corpi sulla strada, nei fossi, sui marciapiedi, a dozzine, militari e civili. Il feto re era atroce e si insinuava tra le pieghe degli abiti. Il convoglio era entrato in un villaggio bombardato, o forse nella periferia di una 207
cittadina: il posto era ormai un unico cumulo di macerie, perciò risultava impossibile stabilirlo. Chi ci faceva caso, comunque? Chi avrebbe mai potuto descrivere questo caos ricordando i nomi dei singoli paesi e le date da consegnare ai libri di storia? Per poi assumere un punto di vista razionale sulla vicenda, e incominciare a distribuire le colpe? Nessuno avrebbe mai saputo cosa significava essere stati qui. In assenza dei dettagli, veniva meno anche il quadro generale. Provviste abbandonate, masserizie e veicoli formavano un viale di rottami che invadeva il loro percorso. Tra quello e i cadaveri, gli sfollati erano costretti a marciare al centro della strada. Il che non aveva importanza perché tanto ormai il convoglio era fermo. I soldati smontavano dai camion e procedevano a piedi, scavalcando tegole e mattoni. I feriti venivano lasciati in attesa sugli automezzi. Aumentava la pressione dei corpi mentre diminuiva lo spazio; cresceva l’irritazione. Turner teneva la testa bassa e seguiva l’uomo davanti a se, facendosi proteggere dai propri pensieri. Lo avrebbero dichiarato innocente. Per come la vedeva da qui, dove uno non faceva neppure lo sforzo di alzare un piede per scavalcare il braccio di una donna morta, non gli pare va che avrebbe avuto bisogno di scuse e di tributi. Essere dichiarato innocente gli sarebbe bastato. Sognava la circostanza come avrebbe sognato un’amante, con semplice desiderio. La sognava come altri soldati sognavano la casa, l’orto, il lavoro che facevano da civili. Se l’innocenza gli appariva essenziale qui, non c’era ragione per cui non dovesse esserlo anche in Inghilterra. Prima di tutto: che si dichiarasse innocente il suo nome, e poi fossero gli altri ad adattarsi alla novità. Lui ci aveva messo il tempo, ora anche loro dovevano metterci un po’ di fatica. Il suo progetto era semplicissimo. Trovare Cecilia e amarla, sposarla e vivere senza vergogna. In tutto ciò c’era solo una questione su cui non riusciva a soffermare il pensiero, una forma indistinta che nemmeno la rovina a pochi chilometri da Dunkerque era in grado di ridimensionare. Briony. Pensando a lei, gli capitava di sporgersi sul margine esterno di ciò che Cecilia definiva il suo animo generoso. E della sua razionalità. Se Cecilia si fosse riconciliata con la famiglia, se le sorelle si fossero riavvicinate, non ci sarebbe stato modo di evitarla. Ma avrebbe potuto accettarla? Ritrovarsi insieme nella stessa stanza? In fondo era lei a offrirgli la possibilità di essere assolto. Ma non lo faceva per lui. Lui non 208
aveva fatto niente di male. Lo faceva per se, per una colpa che la sua coscienza non riusciva più a tollerare. Avrebbe forse dovuto esserle riconoscente? Ma sì, certo. Briony era una bambina nel trentacinque. Se l’era detto, se l’erano ripetuto lui e Cecilia migliaia di volte. Si, era solo una bambina. Ma non tutti i bambini spediscono un uomo in galera con una bugia. Non tutti i bambini sono tanto determinati e malevoli, tanto coerenti, senza un attimo di esitazione, senza un solo dubbio. Sarà stata anche solo una bambina, ma questo non gli aveva impedito, in cella, di fantasticare sulla sua umiliazione, oltre che su una dozzina di modi per vendicarsi. Una volta, in Francia, durante la settimana più rigida di quell’inverno, reso violento da una sbronza di cognac, aveva perfino pensato di trapassarla con la baionetta. Lei e Danny Hardman. Non era ne ragionevole né giusto odiare Briony, ma aiutava. Da dove partire per comprendere la mente di questa bambina? Era una sola la teoria che reggeva. C’era stata nel 1932 una stupenda giornata di giugno, ancora più bella per il fatto di essersi presentata all’improvviso dopo una lunga serie di giorni ventosi e di pioggia. Una di quelle rare mattine che, con un vanitoso eccesso di calore e di luce e di foglie nuove, si qualificano come il vero inizio, il portale solenne dell’estate. Lui e Briony passeggiavano immersi in tutto questo, oltre la fontana del Tritone, il fosso di cinta e i rododendri, oltre il cancelletto del parco, verso il sentiero tortuoso del bosco. Briony era eccitata e ciarliera. Doveva avere una decina d’anni; aveva appena incominciato a scrivere storie. Come tutti gli altri, anche lui aveva ricevuto il suo racconto d’amore, avversità superate, riconciliazioni e nozze, rilegato e illustrato dall’autrice. Erano diretti al fiume per la lezione di nuoto che le aveva promesso. Mentre si lasciavano la villa alle spalle è probabile che lei gli stesse raccontando di una storia appena finita o di un libro che stava leggendo. Intanto doveva tenerlo per mano. Era una bambina silenziosa e profonda, un po’ introversa, a modo suo, perciò tanta loquacità risultava insolita. Robbie era contento di starla a sentire. Attraversava un periodo emozionante anche lui. Aveva diciannove anni, gli esami erano quasi finiti e gli pareva di aver fatto un buon lavoro. Presto avrebbe smesso di essere un liceale. I colloqui di ammissione a Cambridge erano andati bene e, in capo a due settimane, sarebbe partito per la Francia dove avrebbe insegnato inglese presso un istituto religioso. C’era una maestosità in quella giornata, negli enormi faggi e 209
nelle querce appena mosse dall’aria, e nel sole che andava a formare coni di luce come gemme tra le foglie secche dell’anno precedente. Con presunzione giovanile, sentiva che quella maestosità rifletteva il suo momento di grazia. Briony continuava a cinguettare, e lui le prestava un ascolto spensierato. Il sentiero emerse dalla vegetazione sulle ampie sponde erbose del fiume. Lo risalirono per circa un chilometro e rientrarono nel bosco. In quel punto, in un’ansa del corso d’acqua, sotto la volta degli alberi, si trovava una gora, scavata ai tempi del nonno di Briony. Una chiusa di pietra rallentava la corrente facendo di quel tratto un luogo molto adatto ai salti e ai tuffi. Ma non ideale per dei principianti. Dalla chiusa, o saltando da riva, si sprofondava subito in quasi tre metri d’acqua. Robbie si tuffò e restò a galleggiare, aspettandola. Avevano incominciato le lezioni l’anno prima, verso la fine dell’estate, quando il fiume era basso e la corrente pigra. Ora invece, perfino nella pozza si notava un perenne moto rotatorio dell’acqua. Briony si fermò solo un istante prima di saltare da riva tra le sue braccia con un grido. Si esercitò a galleggiare finché la corrente non la portava contro la chiusa; allora lui la trainava di nuovo in mezzo alla gora dove poteva ricominciare. Quando provò la bracciata a rana dopo un inverno di riposo, Robbie la sostenne, operazione non facile dovendo tenersi a galla a sua volta. Se le sfilava la mano da sotto, riusciva a fare solo due o tre bracciate prima di andare giù. La divertiva il fatto che, nuotando controcorrente, le pareva di darsi tanto da fare per rimanere ferma. Ma ferma non rimaneva. Ogni volta invece veniva risospinta verso la chiusa, dove si aggrappava a un anello di ferro arrugginito e lo aspettava, con la faccia bianca che spiccava in mezzo alle sponde verdissime di muschio e al cemento verdastro. Nuotare in salita, così lo definì. Voleva farlo ancora, ma l’acqua era fredda e dopo un quarto d’ora lui ne aveva avuto abbastanza. La tirò a riva e, ignorando le sue proteste, l’aiutò a uscire. Prese i vestiti dalla cesta e si allontanò un poco nel bosco per andare a cambiarsi. Al suo ritorno, Briony era sulla sponda, esattamente dove l’aveva lasciata, e guardava l’acqua con l’asciugamano sulle spalle. Disse: - Se cadessi nel fiume verresti a salvarmi? - Certo. Mentre le rispondeva si era chinato sulla cesta, perciò la sentì, non la vide, saltare dentro. L’asciugamano era ammucchiato a riva. A parte le piccole onde 210
concentriche su tutta la gora, non c’era più traccia di lei. Ma subito spuntò fuori, prese fiato e ripiombò sotto. Disperato, Robbie pensò di correre alla chiusa per ripescarla da lì, ma l’acqua era diventata di un verde fangoso. L’avrebbe trovata sott’acqua solo al tatto. Non aveva scelta: entrò nel fiume con tanto di scarpe, giacca e tutto il resto. Trovò quasi subito il braccio, le infilò una mano sotto la spalla e la tirò fuori. Notò con sorpresa che stava trattenendo il fiato. E un attimo dopo rideva contenta e gli si aggrappava al collo. La spinse a riva e, con grande difficoltà dati gli abiti fradici, si trascinò fuori a sua volta. - Grazie, - ripeteva lei. - Grazie, grazie. - Hai fatto proprio una gran cretinata. - Volevo che tu mi salvassi. - Ma lo sai che potevi benissimo annegare? - Tu mi hai salvata. Tensione e sollievo si mescolavano alla sua rabbia. Era sul punto di urlare. Che razza di stupida ragazzina. Potevi ammazzarci tutt’e due. Briony tacque. Lui era seduto sull’erba, impegnato a svuotarsi le scarpe dall’acqua. - Sei andata sotto. Non ti vedevo. I vestiti mi tiravano giù. Potevamo annegare tutt’e due. Ti pare uno scherzo divertente? Eh, rispondi? Non c’era altro da dire e si incamminarono lungo il sentiero, Briony avanti e lui dietro facendo cic-ciac a ogni passo. Non vedeva l’ora ‘di arrivare al sole del parco. Poi affrontò il lungo tragitto fino al cottage per cambiarsi i vestiti. Non aveva ancora consumato tutta la collera. Non era poi così piccola, pensava, da non poter mettere insieme qualche parola di scusa. Briony procedeva in silenzio, a testa bassa, probabilmente imbronciata, anche se non la vedeva. Quando uscirono dal bosco ed ebbero attraversato il cancelletto, lei si fermò per voltarsi. Il tono di voce fu deciso, quasi insolente. Non era affatto mortificata, anzi, lo affrontava con aria di sfida. - Ma tu lo sai perché volevo che mi salvassi? - No. - Non è ovvio? - No, per niente. - Perché ti amo. 211
Lo disse coraggiosamente, a testa alta, sbattendo più volte le ciglia, come confusa dalla verità solenne appena rivelata. Robbie trattenne l’impulso di ridere. Era l’oggetto di una passione infantile. - Che cosa diavolo intendi? - Quello che intendono tutti quelli che lo dicono. Ti amo. Questa volta le parole contenevano una nota patetica e acuta. Si rese conto di dover resistere alla tentazione di scherzarci sopra. Ma era difficile. Disse: - Mi ami e perciò ti sei buttata nel fiume. - Volevo sapere se mi avresti salvata. - E adesso lo sai. Rischierei la vita per salvare la tua. Ma questo non vuol dire che ti amo. Lei si raddrizzò un poco. - Voglio ringraziarti per avermi salvato. Te ne sarò eternamente grata. Parole rubate di certo a uno dei suoi libri, magari letto recentemente, oppure appena finito di scrivere. Lui disse: - Non c’è di che. Ma non farlo più, né con me, ne con nessun altro. Promesso? Briony annuì e, congedandosi, aggiunse: - Ti amo. Adesso lo sai. Si allontanò verso la villa. Rabbrividendo nel sole, lui la guardò sparire e poi si avviò verso casa. Non la rivide più da sola prima di andare in Francia, e quando tornò, a settembre, lei era già partita per il collegio. Di lì a poco Robbie si trasferì a Cambridge e, a Natale, rimase da alcuni amici. Perciò non la incontrò fino all’aprile successivo e a quel punto la vicenda era stata dimenticata. O no? A Robbie non era certo mancato il tempo per rifletterci in solitudine. Non riusciva a ricordare altre conversazioni insolite con lei, nessun atteggiamento bizzarro, ne sguardi significativi o scontrosità che suggerissero il perdurare della passione da scolaretta, dopo quel giorno di giugno. Era tornato nel Surrey quasi per ogni vacanza e lei, se avesse voluto, avrebbe avuto svariate occasioni per andarlo a cercare nel cottage, o fargli avere un messaggio scritto. Al tempo Robbie era impegnato nella sua nuova vita, attratto dalle novità del mondo universitario e anche deciso a prendere un po’ le distanze dalla famiglia Tallis. Ma dovevano esserci stati segnali che lui non aveva colto. In quei tre anni Briony doveva aver 212
coltivato un sentimento, tenendolo segreto, nutrendolo di fantasticherie o nobilitandolo nelle sue storie. Era il tipo di ragazza che vive persa nei propri pensieri. La scena al fiume poteva essere bastata ad alimentare la sua immaginazione per tutto quel tempo. Questa teoria, o convinzione, si fondava sul ricordo di un unico successivo incontro casuale: quello al tramonto sul ponte. Per anni aveva ripensato alla sua passeggiata nel parco. Lei doveva sapere che era stato invitato a cena. Ed eccola lì, scalza, col vestitino bianco tutto sporco. Il che era già abbastanza strano. Doveva averlo aspettato, magari preparandosi un breve discorso, forse provandolo addirittura a voce alta, seduta sul parapetto di pietra. Ma quando lui era arrivato, le si era bloccata la lingua. Una conferma, in un certo senso. Anche allora, aveva trovato curioso che non gli parlasse. Le diede la lettera e lei corse via. Qualche minuto dopo, la stava aprendo. Era rimasta sconvolta, non solo da una parola. Nella sua mente, Robbie aveva tradito il suo amore preferendole la sorella. Poi, in biblioteca, aveva avuto la riprova del peggio, e a quel punto il sogno si era infranto del tutto. Dapprima, disappunto e disperazione, poi il livore crescente. Infine, nel buio, durante la ricerca dei gemelli, quella straordinaria occasione di vendicarsi. Fece il suo nome e nessuno, tranne la sorella e la madre, dubitò che mentisse. L’impulso, il lampo di malizia, la cattiveria infantile, poteva capirli. A sorprenderlo fu la tenacia del risentimento, la determinazione nel montare una storia che lo aveva portato fino al carcere di Wandsworth. Adesso poteva essere dichiarato innocente, e la cosa lo rendeva felice. Riconosceva il coraggio di cui avrebbe avuto bisogno per tornare davanti a un giudice e ritrattare la testimonianza rilasciata sotto giuramento. Ma non credeva che sarebbe mai riuscito a superare il rancore nei suoi confronti. Sì, al tempo Briony era una bambina, e lui non la perdonava lo stesso. Non l’avrebbe mai perdonata. Era quello il danno irreparabile. C’era di nuovo trambusto più avanti, altre grida. Incredibilmente, un convoglio di mezzi blindati cercava di farsi strada premendo contro la colonna composta di militari e sfolla ti. La folla cedeva il passo con riluttanza. La gente si pigiava negli interstizi in mezzo a veicoli abbandonati o contro muri in rovina e porte distrutte. Era un convoglio francese, poco più che un distaccamento: tre automezzi 213
blindati, due camionette e due veicoli per il trasporto delle truppe. Non il minimo segno di una causa comune. Tra i soldati inglesi, si era insinuata la convinzione che i francesi li avessero abbandonati. Che non avessero alcuna volontà di combattere per il proprio paese. Irritati per essere stati spinti da parte, gli inglesi imprecarono provocando gli alleati al grido di «Maginot!» Dal canto loro, i Poilus dovevano aver sentito parlare di una evacuazione ed eccoli qua, spediti a coprire la retroguardia. «Vigliacchi! Alle barche! Andate a cagare!» Poi erano passati, e la folla si richiuse sotto la nube di fumo dei diesel e riprese a marciare. Si stavano avvicinando alle ultime case del paese. In un campo, Turner vide un uomo con il suo cane pastore camminare dietro l’aratro trainato da un cavallo. Come le donne al negozio di scarpe, il contadino pareva non accorgersi della colonna. I due tipi di vita coesistevano: la guerra era un passatempo per fanatici, anche se questo non ne faceva una questione meno seria. Era anzi implacabile, come un inseguimento di caccia per una muta di cani, mentre nei pressi della siepe successiva una donna, seduta sul sedile posteriore di un’auto, era assorta nel proprio lavoro a maglia, e nel giardino spoglio di una villetta nuova, un uomo insegnava al figlio a giocare a calcio. Già, bisognava continuare ad arare perché ci sarebbe stato il raccolto, e qualcuno doveva mietere il grano e poi macinarlo, e qualcuno mangiarlo e non tutti sarebbero morti... Turner stava pensando a questo quando Nettle lo afferrò per un braccio e gli fece segno col dito. Lo scompiglio generato dal passaggio della colonna francese aveva coperto il rumore, ma non era difficile vederli. Almeno quindici, a diecimila piedi d’altezza, appena dei puntini nell’azzurro, in volo sopra la strada. Turner e i caporali si fermarono a guardare e, come loro, li videro tutti quelli che avevano intorno. Una voce esausta mormorò al suo orecchio: - Porca puttana. E la RAF dov’è? Un’altra voce disse col tono di chi la sa lunga: - Andranno a cercare i francesi. Come spronata a una smentita, una delle macchioline del cielo virò e diede inizio alla propria picchiata pressoché verticale, direttamente sopra le loro teste. Per alcuni secondi il rombo non li raggiunse. Il silenzio aumentava come una pressione crescente alle orecchie. Non lo interruppero nemmeno le grida accorate che si levavano dalla strada. Al riparo! Disperdetevi! Disperdetevi! Scattare! Non era facile muoversi. Turner riusciva a procedere a passo regolare e poteva 214
fermarsi, ma registrare il comando anomalo e allontanarsi dalla strada di corsa rappresentava un enorme sforzo mentale. Si erano fermati all’ultima casa del paese oltre la quale c’era un fienile e, a costeggiare entrambi, il campo sul quale il contadino era impegnato ad arare. Ora stava sotto un albero con il suo cane, come se dovesse ripararsi da un acquazzone. Il cavallo, ancora imbrigliato, pascolava nella striscia di campo non lavorata. Militari e civili schizzavano dalla strada in tutte le direzioni. Una donna gli passò accanto con in braccio un bambino urlante, poi cambiò idea e rimase in mezzo alla via a guardare indecisa da una parte e dall’altra. Dove andare? Meglio il cortile o il campo La sua paralisi riuscì a risolvere quella di Turner. Mentre la spingeva per una spalla verso il cancello, l’urlo crescente ebbe inizio. L’incubo era diventato una scienza. Qualcuno, un semplice essere umano, si era preso la briga di inventare quell’ululato satanico. E con quale successo! Ne era uscito il rumore stesso del panico, un suono che montava fino a raggiungere l’estinzione a cui ciascuno individualmente si sapeva destinato. Era un suono che non si poteva non prendere in modo personale. Turner guidò la donna attraverso il cancello. Voleva che corresse con lui fino al centro del campo. L’aveva toccata, aveva preso una decisione al suo posto, perciò ora sentiva di non poterla abbandonare. Ma il bambino doveva avere almeno sei anni: era pesante, e insieme non procedevano affatto. Glielo strappò dalle braccia. - Avanti! - gridò. Ogni Stuka trasportava una sola bomba da mille libbre. L’idea a terra era quella di allontanarsi il più possibile da edifici, veicoli e altre persone. Nessun pilota avrebbe sprecato il proprio carico prezioso su una figura isolata in un campo. Quando poi fosse tornato indietro per mitragliare a volo radente, allora sì, le cose sarebbero state diverse. Turner li aveva visti dare la caccia al singolo uomo in fuga, solo per il gusto di farlo. Con la mano libera, tirava la donna per il braccio. Il bambino stava bagnando i calzoni e urlava dentro l’orecchio di Turner. La madre pareva incapace di correre. Tendeva le braccia e gridava. Rivoleva suo figlio. Il bambino si dimenava verso di lei, sporgendosi dalla sua spalla. A quel punto arrivò il sibilo acuto della bomba che
precipitava.
Dicevano
che
se
sentivi 215
il
suono
interrompersi
prima
dell’esplosione, era la tua ora. Mentre crollava sull’erba, trascinò giù anche la donna e le tenne bassa la testa. Stava mezzo sdraiato sopra il bambino, quando la terra fu scossa da un boato incredibile. L’onda d’urto li sbalzò lontano. Si coprirono la faccia per proteggersi dagli schizzi violenti di terra sollevata. Udirono lo Stuka risalire dalla picchiata nell’attimo stesso in cui giungeva loro il gemente annuncio di morte dell’attacco successivo. La bomba aveva colpito la strada a meno di ottanta metri. Turner teneva il bambino sotto il braccio e stava cercando di rimettere in piedi la donna. - Dobbiamo correre ancora. Siamo troppo vicini alla strada. La donna rispose, ma lui non capì. Stavano barcollando insieme nel campo un’altra volta. Sentiva la fitta nel fianco attraversarlo come un lampo di luce colorata. Aveva il bambino in braccio, e la donna pareva di nuovo opporre resistenza, mentre cercava di riprendersi suo figlio. Erano centinaia le persone nel campo adesso, tutte dirette al bosco che lo delimitava. Al guaito acuto della bomba si gettarono tutti a terra. Ma la donna non aveva difese istintive contro il pericolo e Turner dovette tirarla giù. Questa volta premettero la faccia contro il terreno appena arato. Mentre lo strillo aumentava di volume, la donna declamava qualcosa che poteva essere una preghiera. A quel punto Turner capì che non parlava francese. L’esplosione avvenne sul lato opposto della strada, più o meno a centocinquanta metri da loro. Frattanto però il primo aereo stava virando sul villaggio e si preparava per l’attacco a bassa quota. Il bambino era ammutolito per lo shock. Sua madre non voleva saperne di alzarsi. Turner le indicò lo Stuka in arrivo sopra i tetti. Puntava dritto verso di loro e non c’era tempo di discutere. La donna non si mosse. Turner si gettò nel fossato. I ripetuti colpi del fuoco di mitragliatrice sulla terra smossa e il boato del motore li superarono alla velocità del fulmine. Un soldato ferito gridava. Turner si era rimesso in piedi, ma la donna non intendeva prendergli la mano. Seduta a terra, abbracciava stretto il figlio. Gli parlava in fiammingo, lo consolava, di certo gli stava dicendo che andava tutto bene. Che se ne sarebbe occupata la Mamma. Turner non conosceva una sola parola di quella lingua. E comunque, non avrebbe fatto differenza. Lei non gli dava ascolto. Il bambino lo fissava con sguardo vacuo dalla spalla della madre. Turner fece un passo indietro. Poi si mise a correre. Mentre arrancava tra i 216
fossi, l’attacco stava per ricominciare. La terra grassa gli si appiccicava agli scarponi. Solo negli incubi i piedi diventano tanto pesanti. Una bomba precipitò sulla strada, lontano, in mezzo al paese, dove stavano i camion. Ma ormai un urlo copriva l’altro, e ci fu un’esplosione sul campo, prima che Turner facesse in tempo a buttarsi. Lo scoppio lo sollevò di parecchio, scaraventandolo a faccia in giù. Quando si riprese, aveva bocca naso e orecchie piene di terra. Cercò di pulirsi la bocca, ma non gli era rimasta una goccia di saliva. Provò a usare un dito, ma peggiorò solo la situazione. Se prima era la terra a soffocarlo, adesso era il suo dito sporco. Soffiò il terriccio dal naso. Venne giù fango misto a muco che gli coprì anche la bocca. Ma i boschi ormai erano vicini, e lì ci sarebbero stati ruscelli, cascate, laghi. Immaginò un paradiso. Quando l’urlo crescente dello Stuka riprese, si sforzò di interpretarne il suono. Che fosse il cessato allarme? Gli si erano intasati anche i pensieri. Non riusciva ne a sputare né a deglutire, non gli era facile respirare e non era in grado di riflettere. Poi, alla vista del contadino con il cane che ancora aspettava paziente sotto l’albero, tutto gli tornò chiaro, ricordò ogni cosa e si voltò indietro a guardare. Al posto della donna con il bambino c’era un cratere. Mentre lo vedeva, si rese conto di averlo sempre saputo. Per questo, aveva dovuto lasciarli. Era suo dovere sopravvivere, anche se aveva scordato perché. Proseguì verso i boschi. Avanzò di qualche passo tra gli alberi, e sedette sull’erba nuova con la schiena appoggiata a una betulla giovane. Riusciva a pensare soltanto all’acqua. C’erano più di duecento persone al riparo nel bosco, compresi alcuni feriti che si erano trascinati fin lì. C’era un uomo, un civile, poco lontano, che piangeva e urlava di dolore. Turner si alzò per allontanarsi un poco. Tutto quel verde nuovo gli ricordava acqua e nient’altro. L’incursione aerea proseguiva sulla strada e il paese. Spostò delle foglie marce e usò l’elmetto per scavare. Il terreno era umido, ma nel buco non colava una goccia, nemmeno a quaranta centimetri di profondità. Perciò rimase seduto a pensare all’acqua, cercando di pulirsi la lingua contro una manica. Quando uno Stuka scendeva in picchiata, era impossibile non irrigidirsi e contrarsi, anche se ogni volta gli pareva che gliene sarebbe mancata la forza. Verso la fine, provarono anche a mitragliare sul bosco, ma senza risultati. Solo qualche foglia e qualche rametto che precipitava dalle 217
fronde degli alberi. Poi gli aerei se ne andarono e nell’immenso silenzio che incombeva sui campi, sul bosco e sul villaggio, non si sentiva neppure un uccello cantare. Dopo un po’ dalla strada giunsero a ripetizione le sirene del cessato pericolo. Ma nessuno si mosse. Se lo ricordava dalle volte precedenti. Erano troppo storditi, troppo sconvolti dal susseguirsi di episodi terrorizzanti. Ogni picchiata costringeva tutti a ritrovarsi con le spalle al muro, tremando di fronte alla propria esecuzione capitale. Se questa non si verificava, toccava rivivere da capo l’intero processo senza che la paura diminuisse. Per i vivi, la fine di un’incursione aerea portava con se una paralisi da shock, da ripetuti shock. Sergenti e sottufficiali potevano vedersi costretti a incitare a grida e calci i loro uomini per farli rialzare. Ma anche dopo, restavano svuotati e, per un bel pezzo, inutilizzabili dal punto di vista militare. Perciò Turner rimase inebetito come tutti gli altri, come gli era accaduto la prima volta, fuori dal villaggio di cui non ricordava il nome. Uno di quei paesi francesi dal nome belga. In quella occasione si era trovato separato dalla propria unità e, cosa anche più grave per un fante, dal suo fucile. Quanti giorni erano passati? Non c’era modo di saperlo. Esaminò la pistola intasata di terra. Ne estrasse le munizioni e lanciò l’arma fra i cespugli. Dopo un po’, udì un rumore dietro di lui e una mano gli si appoggiò sulla spalla. - Ecco qua. Per gentile concessione dei Green Howards. Il caporale Mace gli stava porgendo la borraccia di un soldato morto. Dal momento che era quasi piena, Turner usò la prima sorsata per sciacquarsi la bocca, ma ripensandoci lo considerò uno spreco. Si bevve la terra insieme al resto. - Mace, sei un angelo. Il caporale gli tese una mano per aiutarlo ad alzarsi. - Meglio muoversi. Sembra che i belgi abbiano capitolato, mondoboia. Potremmo finire tagliati fuori da est. Ci rimangono parecchi chilometri da fare -. Mentre riattraversavano il campo, Nettle li raggiunse. Aveva una bottiglia di vino e una tavoletta di cioccolata Amo che si fecero passare. - Un bouquet mica male, - commentò Turner dopo aver bevuto a volontà. - Parigino Stecchito. Il contadino era tornato all’aratro con il suo cane. I tre soldati si avviarono al 218
cratere, dal quale proveniva un acre odore di cordite. La fossa formava un cono rovesciato perfetta mente simmetrico dalle pareti lisce, come se qualcuno ne avesse setacciato e rastrellato la terra. Non il minimo resto umano, né un brandello di stoffa, né un frammento di cuoio da scarpe. Madre e figlio erano svaporati. Turner si fermò per registrare questo fatto, ma i caporali andavano di fretta e lo spinsero a proseguire non appena si unirono agli sbandati sulla strada. Era più facile adesso. Non ci sarebbe stato più altro traffico fino all’arrivo degli artieri con i bulldozer. Più avanti, la nube di olio bruciato incombeva sul paesaggio come la collera di un padre. I bombardieri ronzavano ad alta quota, in un costante andirivieni dal bersaglio. Turner pensò che forse stavano marciando verso una carneficina. Ma andavano tutti da quella parte, e non gli venne in mente nessuna alternativa. Il loro percorso li portava direttamente a destra della nube, a est di Dunkerque, verso il confine belga. - Bray-Dune, - disse, ricordandone il nome sulla cartina. Nettle replicò: - Non vedo l’ora di esserci. Superarono uomini che riuscivano a malapena a marciare a causa delle vesciche ai piedi. Alcuni procedevano scalzi. Un soldato sanguinante, ferito al petto, si era sistemato su una vecchia carrozzina che i compagni spingevano. Un sergente invece conduceva un cavallo da tiro, sulla cui groppa stava riverso un ufficiale, svenuto o morto, con polsi e piedi legati da corde. C’erano militari in bicicletta, ma il grosso della truppa marciava in fila per due o per tre. Un portaordini della Highland Light Infantry arrivò a bordo di una Harley-Davidson. Le gambe gli penzolavano inerti ai lati della motocicletta, mentre il passeggero, che aveva le braccia tutte fasciate, azionava i pedali, seduto sul sellino posteriore. L’intero percorso era disseminato di palandrane che gli uomini avevano abbandonato per strada a causa del caldo eccessivo. Turner aveva faticato per convincere i caporali a non fare altrettanto. Procedevano da un’ora, quando udirono un battito sordo e incalzante alle loro spalle, come il ticchettio di un gigantesco orologio. Si voltarono per controllare. A prima vista pareva che un’enorme porta orizzontale stesse correndo sulla strada nella loro direzione. Era un plotone di Welsh Guards in ordine serrato, fucili in spalla, guidati da un sottotenente. Avanzavano a passo di marcia, lo sguardo fisso davanti, facendo oscillare a ritmo le braccia in alto. Gli sbandati si fecero da 219
parte per lasciarli passare. I tempi erano cinici, ma nessuno se la sentì di azzardare un fischio di scherno. Lo spettacolo della disciplina e della coesione incuteva vergogna. Fu un sollievo quando i Guards si allontanarono con il loro passo marziale, e gli altri uomini poterono riprendere il proprio assorto trascinarsi. Lo scenario era noto, l’inventario lo stesso, ma ora c’era maggior quantità di ogni cosa: veicoli, crateri scavati dalle bombe, macerie. C’erano anche più cadaveri. Turner marciava sulla terra finché... non gli giunse l’odore del mare che una brezza rinfrescante trasportava sulle distese piatte e paludose dei campi. Quel flusso a senso unico di gente sospinta da uno scopo comune, la prepotenza dell’incessante traffico aereo, la nuvola bizzarra che segnalava a tutti la destinazione, evocarono alla sua mente esausta ma iperattiva certe occasioni infantili dimenticate da tempo, come un carnevale, o un evento sportivo verso il quale ora stessero tutti convergendo. C’era un ricordo che non gli riusciva di collocare con precisione: stava sulle spalle di suo padre e procedevano in salita su per un colle verso una grande attrazione, verso la fonte di un’immensa euforia. Come gli sarebbero piaciute adesso quelle spalle. Il suo genitore assente gli aveva lasciato ben pochi ricordi. Un fazzoletto legato al collo, un odore particolare, il contorno vaghissimo di un’espressione sempre accigliata, irritabile. Chissà se era riuscito a evitare l’arruolamento nella Grande Guerra, o se era morto da quelle parti, sotto un altro nome... Forse era sopravvissuto. Grace era convinta che fosse troppo vigliacco e infido per arruolarsi, ma lei aveva le sue ragioni personali per portargli rancore. Quasi ogni uomo qui aveva un padre che ricordava la Francia settentrionale o che vi era stato sepolto. Avrebbe tanto voluto un padre così, vivo o morto. Molto tempo fa, prima della guerra, prima di Wandsworth, si era goduto la libertà di decidere della propria vita, di programmare il futuro, solo con il sostegno indiretto di jack Tallis. Ora capiva quanto fosse stata ingannevole quell’illusione. Era un uomo senza radici, e perciò inutile. Desiderava avere un padre e, per la stessa ragione, desiderava essere padre. Non era affatto strano, volere un figlio in mezzo a tanta morte. Anzi, era comunissimo, molto umano, e perciò ancora più desiderabile ai suoi occhi. Tra le urla dei feriti, capitava di sognare una casetta con qualcuno in un posto particolare, una vita come tante, una discendenza, dei 220
legami. Tutto intorno, altri uomini marciavano in silenzio, assorti nei propri pensieri. Attraverso i pensieri ridisegnavano le proprie esistenze, prendevano decisioni... Se riesco a tirarmi fuori da qui... Nessuno li ha mai contati, i figli sognati, concepiti mentalmente durante la ritirata a Dunkerque, e in seguito messi al mondo in carne e ossa. Avrebbe trovato Cecilia. L’indirizzo ce l’aveva in tasca, sulla lettera, accanto alla poesia. Nel deserto del cuore /Possa sgorgare il balsamo di una fonte. Avrebbe trovato anche suo padre. Si diceva che fossero in gamba quelli dell’Esercito della Salvezza, a ritrovare persone scomparse. Definizione perfetta quella di Esercito della Salvezza. Gli avrebbero rintracciato un padre vivo, oppure la storia di un padre morto; in un modo o nell’altro, sarebbe ridiventato suo figlio, finalmente. Marciarono tutto il pomeriggio finché, a distanza di poco più di un chilometro, là dove una colonna di fumo grigio e giallo si alzava dai campi tutto intorno, videro il ponte sul canale Bergues-Furnes. Per l’intero tragitto ormai, non una fattoria, non un solo fienile restava in piedi. Oltre al fumo, spirava nella loro direzione un miasma di carne marcescente - altri cavalli soppressi, centinaia di animali ammucchiati in un campo. Poco lontano, una montagna di uniformi e coperte finiva di ardere. Un massiccio soldato scelto, armato di mazza, fracassava macchine da scrivere e ciclostili. Due ambulanze erano parcheggiate sul bordo della strada con i portelloni posteriori aperti. Ne provenivano i gemiti rochi e le grida dei feriti. Uno di questi non faceva che urlare, più in tono rabbioso che sofferente: - Acqua! Voglio dell’acqua! - Come tutti gli altri, Turner proseguì. La gente si stava ammassando di nuovo. Davanti al ponte sul canale si apriva un incrocio, e dalla direzione di Dunkerque, sulla strada che costeggiava il canale, giungeva un convoglio di autocarri da tre tonnellate che la polizia militare cercava di dirigere verso un campo oltre a quello dove si trovavano i cavalli. Le truppe che affollavano la strada però costrinsero il convoglio a fermarsi. Gli autisti pigiarono sui clacson urlando imprecazioni. La massa umana premeva. Uomini stanchi di aspettare si precipitarono giù dai mezzi. Qualcuno gridò «Al riparo!» e, prima che chiunque facesse in tempo a guardarsi intorno, la montagna di uniformi saltava in aria. Presero a fioccare brandelli di serge verde scuro. Più vicino, una squadra di artiglieri demoliva a martellate gli otturatori e i mirini delle armi. Turner notò che uno di loro piangeva, mentre procedeva alla distruzione del 221
proprio obice. Al principio dello stesso campo, un cappellano militare e il suo chierico annaffiavano di carburante casse di bibbie e breviari. Gli uomini attraversavano il campo diretti a un deposito militare NAAFI, a caccia di sigarette e di alcolici. Quando si levò l’urlo che ne annunciava il ritrovamento, altre dozzine di persone sciamarono dalla strada per unirsi ai primi. Alcuni sedevano presso il cancello di una fattoria, intenti a provarsi scarpe nuove. Un soldato dalle guance gonfie di cibo passò accanto a Turner con una scatola di marshmallows bianchi e rosa. A un centinaio di metri da li, stavano bruciando un mucchio di scarponi, maschere antigas e mantelle, dai quali si levava una cappa di fumo acre che andava ad avvolgere una fila di uomini già in marcia sul ponte. Finalmente gli autocarri si mossero svoltando nel campo più grande, direttamente a sud del canale. La polizia militare dirigeva le manovre di parcheggio, facendo allineare i mezzi, come commissari di gara a una fiera campestre. I camion andavano a raggiungere camionette e motocicli, autoblindo e cucine da campo. I sistemi per rendere i veicoli inutilizzabili erano semplici, come sempre: un proiettile nel radiatore, e il motore lasciato a girare finché non grippava. Il ponte era pattugliato dai Coldstream Guards. Ne difendevano l’accesso due mitragliatrici protette da sacchi di sabbia. Gli uomini erano ben rasati e, con sguardi di pietra, osservavano in un silenzio sprezzante la lurida massa umana che avanzava arrancando. Sul lato opposto del canale, a distanza regolare uno dall’altro, dei sassi dipinti a calce segnalavano un sentiero che conduceva a una baracca trasformata in fureria. Sulla sponda lontana, a est come a ovest, i Guards erano ben trincerati lungo la loro sezione. Le abitazioni che costeggiavano il canale erano state requisite, le tegole dei tetti divelte e le finestre munite di sacchetti di sabbia in mezzo ai quali si aprivano le fessure per le mitragliatrici. Un feroce sergente manteneva l’ordine sul ponte. Stava rimandando indietro un ufficiale in motocicletta. Assolutamente vietato il trasporto di qualunque mezzo o di equipaggiamento. Non fu accettato nemmeno un uomo con un pappagallo dentro una gabbia. Il sergente inoltre chiamava fuori dal corteo alcuni uomini ai quali intendeva assegnare incarichi di difesa del perimetro, ed eseguiva la precettazione in modo di gran lunga più autoritario del povero maggiore. Una squadra sempre più numerosa e avvilita attendeva ordini nei pressi della fureria. Turner si accorse di quel che stava accadendo insieme ai caporali, quando 222
erano ancora parecchio indietro. - Porca puttana, quello ti chiama, amico, - disse Mace a Turner. - Sei solo uno sfigatissimo fante. Se ti preme di tornare a casa dalla tua pupa, piazzati in mezzo e incomincia a zoppicare. Nonostante la vergogna del disonore, Turner era determinato a superare l’ostacolo, perciò sistemò le braccia intorno alle spalle dei caporali e procedettero tutti e tre barcollando. - È la sinistra, capo, ricordati, - disse Nettle. - Vuoi che ti ficchi la baionetta in un piede? - Grazie tante. Penso di farcela anche così. Mentre passavano il ponte, Turner abbandonò la testa in avanti in modo da non vedere lo sguardo feroce del sergente, pur registrandone la vampata di calore sul collo. Udì il co mando abbaiato: - Qui, tu! - Qualche sfortunato appena dietro di lui era stato reclutato per contribuire a ritardare la carneficina che di sicuro si sarebbe verificata in capo a due o tre giorni, mentre gli ultimi uomini della British Expeditionary Force si ammassavano sulle barche. Quello che vide, tenendo la testa bassa, fu una lunga chiatta scura che scivolava sotto il ponte in direzione di Furnes in Belgio. Il barcaiolo sedeva alla barra del timone fumando la pipa, con lo sguardo perso nel vuoto. Alle sue spalle, a una quindicina di chilometri, Dunkerque bruciava. A prua della chiatta, due ragazzi stavano chini su una bicicletta capovolta; forse aggiustavano una gomma forata. Una fila di panni, tra i quali
articoli
di
biancheria
femminile,
era
stesa
fuori
ad
asciugare.
Dall’imbarcazione saliva odore di cibo: aglio e cipolla. Turner e i caporali attraversarono il ponte e superarono i sassi dipinti di bianco, che richiamavano alla memoria il campo di addestramento e l’assurdità di certe corvée. Dentro la fureria stava squillando un telefono. Mace mormorò: - Farai meglio a zoppicare fin quando non siamo ben lontani dalla vista, chiaro? Ma il terreno era piatto per chilometri ormai, e non c’era modo di stabilire da che parte potesse guardare il sergente; loro del resto non avevano nessuna voglia di voltarsi a controllare. Dopo una mezz’ora sedettero su una seminatrice arrugginita e osservarono l’avanzata dell’esercito sconfitto. L’idea era quella di infilarsi in mezzo a un gruppo completamente diverso in modo che l’improvvisa 223
guarigione di Turner non attirasse l’attenzione di un ufficiale. Molti degli uomini erano irritati di non trovare la spiaggia subito dopo il canale. Pareva che ne ritenessero responsabile la cattiva organizzazione. Turner sapeva dalla cartina che mancavano ancora dieci chilometri circa e che, una volta ripartiti, quelli sarebbero stati i più duri, i più faticosi di tutta la giornata. La sconfinata distesa del territorio impediva di calcolare la distanza percorsa. Benché il sole pomeridiano stesse scivolando dietro i contorni confusi della nube di fumo oleoso, faceva più caldo che mai. Vedevano gli aerei sorvolare il ponte ad alta quota sganciando bombe. Ma c’era di peggio: le incursioni degli Stuka si concentravano sulla spiaggia verso cui loro erano diretti. Passarono accanto ai feriti che non ce la facevano più a proseguire. Sedevano come mendicanti sul bordo della strada, implorando aiuto o una sorsata d’acqua. Altri giacevano nei fossi, incoscienti, o storditi dalla disperazione. Dovevano pur esserci delle ambulanze in arrivo dal perimetro di difesa; avrebbero fatto la spola fino alla spiaggia. Se c’era stato il tempo per pitturare di bianco dei sassi, doveva essercene anche per organizzare i trasporti. Non avevano più acqua. Avevano finito il vino, con il risultato di aumentare solo la sete. Medicinali non ne avevano. Che cosa ci si aspettava che facessero? Che si gettassero in spalla una dozzina di uomini quando a stento riuscivano a tenersi in piedi? Colto da un’improvvisa crisi di rabbia infantile, Nettle sedette a terra, si tolse gli scarponi e li lanciò in un campo. Disse che li detestava, cazzo, li odiava più di tutti i tedeschi messi insieme. E poi, le vesciche gli facevano così male che tanto valeva mandare tutto affanculo. - È lunga arrivare scalzi fino in Inghilterra, - gli disse Turner. Gli girava stranamente la testa mentre si dirigeva nel campo per andarli a cercare. Il primo scarpone fu facile da trovare, ma per il secondo ci volle un po’. Alla fine lo vide nell’erba accanto a una sagoma nera e pelosa che, a mano a mano che si avvicinava, gli parve muoversi o pulsare. All’improvviso, uno sciame di tafani si levò in aria con un ronzio acuto e rabbioso, rivelando un cadavere putrescente. Turner trattenne il respiro. Afferrò lo scarpone e, mentre si precipitava a tornare sulla strada, udì i mosconi riprendere la postazione; poi fu di nuovo silenzio. A furia di insistere, riuscì a convincere Nettle a riprendersi gli scarponi, legarli insieme e portarseli appesi al collo. 224
Ma acconsentiva, ci tenne a dire, solo per fare un favore a Turner. Erano i momenti di lucidità a tormentarlo. Non la ferita, benché dolesse a ogni passo; e nemmeno i bombardieri che sorvolavano la spiaggia alcuni chilometri a nord. Ma la sua testa. Di quando in quando, gli sfuggiva qualcosa. Il quotidiano principio di continuità, quell’elemento di monotonia che lo teneva al passo con lo sviluppo della sua stessa storia, sbiadiva, abbandonandolo a un susseguirsi di sogni a occhi aperti popolati da pensieri, ma non dalla coscienza di chi li stesse elaborando. Nessuna responsabilità, nessun ricordo delle ore trascorse, nessuna idea riguardo a meta, intenzioni, progetti futuri. E nessuna curiosità in proposito. A quel punto, si ritrovava stretto nella morsa di alcune certezze illogiche. Era questo il suo stato mentale quando raggiunsero l’estremità est della località di villeggiatura dopo tre ore di marcia. Percorsero una strada ingombra di vetri e tegole rotte nella quale i bambini giocavano guardando passare i soldati. Nettle si era rimesso gli scarponi, ma li aveva lasciati aperti, con i lacci che strisciavano a terra. All’improvviso, come una marionetta in un teatrino, un tenente dei Dorsets sbucò dalla cantina di un edificio municipale requisito e adibito a quartier generale. Quando si fermò davanti a loro, gli fecero il saluto. Scandalizzato, ordinò al caporale di allacciarsi immediatamente gli scarponi, se non voleva essere passato per le armi. Mentre il caporale si inginocchiava per obbedirgli, il tenente - un tipo ossuto, curvo di spalle, con l’aria da impiegato e un paio di irti baffetti rossi - disse: - Fai schifo, soldato, vergognati. In preda alla lucida libertà della sua condizione onirica, Turner ebbe l’impulso di sparare in pieno petto all’ufficiale. Sarebbe stato meglio per tutti. Non valeva neppure la pena di discutere. Fece l’atto di prendere l’arma, ma non la trovò - chissà dov’era, si chiese -, e il tenente si stava già allontanando. Dopo alcuni minuti di rumoroso procedere sui vetri rotti, sotto gli scarponi si fece silenzio improvvisamente, là dove la strada si trasformava in una distesa di sabbia fine. Mentre salivano su un avvallamento tra le dune, udirono il mare e ne sentirono in bocca il gusto salmastro, prima di vederlo. Il gusto delle vacanze. Lasciarono il sentiero e si allontanarono tra l’erba delle dune fino a un punto dal quale si dominava il paesaggio; qui, sostarono in 225
silenzio per parecchi minuti. La brezza fresca e umida della Manica aveva restituito a Turner la chiarezza mentale. Forse era stato solo un effetto dei ripetuti accessi febbrili. Aveva creduto di non aspettarsi più nulla, finché non vide la spiaggia. Si era convinto che avrebbe prevalso lo spirito militare, quello che si ostinava a pitturare i sassi in mezzo alla totale rovina. Cercò di imporre un ordine al movimento caotico che aveva davanti agli occhi e quasi ci riuscì: centri di smistamento, sergenti maggiori seduti dietro a scrivanie di fortuna, timbri e registri, zone di mare circoscritte da corde verso le imbarcazioni in attesa; sottufficiali prepotenti, code interminabili intorno alle cucine da campo. Per farla breve, la fine di qualsiasi iniziativa privata. Senza saperlo, era quella la spiaggia verso la quale viaggiava da giorni. Ma la spiaggia reale, quella su cui Turner e i caporali posavano adesso lo sguardo, non era altro che una variante di tutto ciò che era andato verificandosi prima: c’era stata una disfatta, e quello era il capolinea. La questione risultava abbastanza ovvia, ora che la vedevano: questo era ciò che accadeva nel momento in cui un esercito allo sbando si trovava nell’impossibilità di proseguire la ritirata. Ci volle solo un momento per registrare il fenomeno. Turner vedeva migliaia di uomini, dieci, ventimila, forse di più, sparsi sulla vasta distesa della spiaggia. Da lontano parevano granelli di sabbia nera. Ma non c’erano imbarcazioni, fatta eccezione per una baleniera rovesciata che oscillava in lontananza sulle onde. Con la bassa marea, la battigia si dispiegava per più di un chilometro. Nemmeno una barca ormeggiata al molo lunghissimo. Turner batté le ciglia e osservò meglio. Quel molo era fatto di uomini, una lunga fila di sette otto uomini con l’acqua alta fino alle caviglie, ai ginocchi, alla vita, alle spalle; una fila che si allungava per cinquecento metri nel mare. Aspettavano, ma in vista non c’era nulla, a meno di non voler considerare le chiazze all’orizzonte: imbarcazioni in fiamme in seguito a un’incursione aerea. Non c’era nulla che potesse raggiungere la spiaggia nel giro di ore. Eppure i soldati restavano a scrutare l’orizzonte, con i loro copricapi di latta e i fucili tenuti in alto sopra le onde. Da lontano parevano placidi come bestiame. E quegli uomini non rappresentavano che una minima parte della totalità. Il grosso stava sulla spiaggia, a vagare senza meta. Si erano formati piccoli drappelli 226
intorno ai feriti dell’ultimo attacco degli Stuka. Errabondi non meno degli uomini, una mezza dozzina di cavalli dell’artiglieria galoppava in branco sul bagnasciuga. Alcuni soldati tentavano di rigirare la baleniera capovolta. Altri si erano spogliati per nuotare. In fondo, a est, era in corso una partita di calcio e, dalla stessa direzione, giungevano fievoli le note di un inno cantato all’unisono, che presto si spense. Oltre l’improvvisato campo di calcio si scorgevano i segni dell’unica attività ufficiale. Sulla spiaggia, si stava procedendo ad allineare dei camion allacciati insieme, allo scopo di costruire una sorta di molo. C’erano altri automezzi in arrivo. Più vicino, lungo la costa, alcuni isolati scavavano sabbia utilizzando gli elmetti per costruirsi dei ripari. Tra le dune, non lontano da dove si trovavano Turner e i caporali, gli uomini si erano già sistemati in tane da cui sbirciavano fuori con l’aria di chi ha preso possesso della zona. Come tante marmotte, pensò. Ma il grosso dell’esercito vagava sulla sabbia senza scopo, come abitanti di una città italiana all’ora del passeggio. Non vedevano alcuna ragione per unirsi alle interminabili code, e non se la sentivano di abbandonare la spiaggia, in caso fosse comparsa all’improvviso una nave. Sulla sinistra si ergeva Bray-Dune, amena località di villeggiatura, con la sua catena di caffè e di negozietti che, in una stagione normale, avrebbero noleggiato sedie a sdraio e biciclette. In un parco circolare dal prato ben rasato c’erano un palco d’orchestra e una giostra dipinta di bianco, rosso e blu. Su questo scenario si ammassava ora una folla anche più spensierata del solito. I soldati si erano aperti i caffè e si ubriacavano seduti ai tavolini dei dehors, tra grida e risa sguaiate. Alcuni scorrazzavano a bordo delle biciclette su un marciapiede lordo di vomito. Una colonia di sbronzi si era stravaccata sull’erba intorno al palco dell’orchestra per smaltire la sbornia nel sonno. Un solitario fanatico di bagni di sole se ne stava in mutande, a faccia sotto su un asciugamano, con chiazze ineguali di scottature su spalle e gambe: bianco e rosa come un gelato fragolavaniglia. Non fu difficile scegliere tra questi gironi della sofferenza: la spiaggia, il mare, la costa. I caporali si erano già incamminati. La sete aveva deciso per loro. Trovarono
un
sentiero
sul
versante
interno
delle
dune
e
subito
dopo
attraversarono un prato sabbioso coperto di bottiglie rotte. Mentre si facevano strada tra il chiasso dei tavoli, Turner vide una squadra di marinai avanzare sulla 227
passeggiata, e si fermò a osservarli. Erano in cinque, due ufficiali e tre membri dell’equipaggio, smaglianti nelle loro uniformi pulite bianche, blu e oro. Altro che tute mimetiche. Eretti e austeri, le rivoltelle allacciate alla cinta, marciavano con serena autorità in mezzo alla massa indistinta di uniformi da campo e di facce sporche, come se stessero procedendo a un conteggio. Uno degli ufficiali prendeva appunti su un blocco rigido a molla. Si diressero verso la spiaggia. Con un sentimento di infantile abbandono, Turner li osservò finché non scomparvero alla vista. Seguì Mace e Nettle nel baccano e nel vapore fetido del primo bar sul lungomare. Due valigie aperte sul bancone erano piene dì sigarette, ma da bere non c’era più nulla. Gli scaffali allineati contro lo specchio erano vuoti. Quando Nettle si tuffò di testa dietro il bancone per mettersi a frugare, qualcuno lo schernì. Tutti quelli che entravano, facevano la stessa cosa. Ma i bevitori incalliti là fuori si erano già finiti tutto da un pezzo. Turner si fece largo tra la folla, fino a una piccola cucina sul retro. Il locale era un disastro, i rubinetti asciutti. Fuori c’erano un orinatoio, e casse impilate di bottiglie vuote. Un cane cercava di ficcare la lingua dentro una scatola di sardine, che faceva rotolare su uno slargo in cemento. Turner si volse e rientrò nel locale e nel suo frastuono di voci. Non c’era corrente elettrica, la sola luce era quella naturale, a chiazze marroni, come se a produrla fosse la birra assente. Niente da bere, eppure il bar restava affollato. Gli uomini entravano, rimanevano delusi ma non se ne andavano lo stesso, trattenuti dalle sigarette gratuite e dal ricordo recente di alcolici. I distributori di bevande ciondolavano inutilmente alla parete, dove le bottiglie capovolte erano state strappate a forza. L’odore dolciastro di liquore saliva dal pavimento appiccicoso in battuto di cemento. Rumore e calca e aroma di tabacco fresco appagavano la nostalgia di chi sognava un sabato sera al pub. Era un po’ come stare tra Mile End Road e Sauchiehall Street. Turner indugiò nel baccano, incerto sul da farsi. Aprirsi un varco tra quella folla avrebbe richiesto uno sforzo enorme. Da un frammento di conversazione scoprì che erano arrivate delle navi il giorno prima, e forse ce ne sarebbero state l’indomani. In punta di piedi accanto alla porta della cucina, si strinse nelle spalle in un gesto rivolto ai caporali che significava «niente nemmeno qui». Nettle piegò la testa in direzione dell’uscita verso la quale incominciarono a convergere. Un 228
buon bicchiere non sarebbe stato niente male, ma il vero oggetto delle loro ricerche in quel momento era l’acqua. Avanzare in mezzo alla massa compatta dei corpi era faticosissimo: il tragitto era infatti bloccato da un muro di schiene raccolte intorno a un unico uomo. Doveva essere basso - meno di un metro e settanta - e Turner non riusciva a vedere di lui altro che un pezzo di nuca. Qualcuno disse: - Allora, ti decidi a rispondere a questa domanda, coglione? - SI, rispondi. - Allora, stronzetto impomatato. Dove cazzo eravate? Una goccia di sputo schizzò sulla testa dell’uomo e gli colò dietro all’orecchio. Turner fece il giro per guardare meglio. Prima di tutto vide il grigio-azzurro di una giubba, e subito dopo l’apprensione muta sulla faccia dell’uomo. Era un tipetto nervoso con occhiali dalle lenti luride e spesse che ingigantivano il suo sguardo terrorizzato. Lo si sarebbe detto un archivista o un telefonista, magari di un distretto ormai smantellato da tempo. Ma era nella RAF e i soldati avevano deciso di prendersela con lui. Si voltò lentamente, osservando a uno a uno i suoi inquisitori disposti in cerchio. Non aveva risposte alle loro domande, e non cercava nemmeno di negare le sue responsabilità per l’assenza di Spitfire e Hurricane sulla spiaggia. Nella mano destra stringeva la bustina con tanta forza da farsi tremare le dita. Un artigliere accanto alla porta gli assestò uno spintone che lo fece barcollare fino al petto di un soldato e questi lo rispedì indietro con un pugno svogliato alla testa. Ci fu un mormorio di approvazione. Avevano sofferto tutti, e adesso qualcuno doveva pagare. - Allora, dov’era la RAF? Si alzò una mano e gli rifilò una sberla in piena faccia, scaraventando a terra gli occhiali. Il rumore fu secco come un colpo di frusta. Era il segnale di uno stadio successivo, un nuovo livello di coinvolgimento. Gli occhi nudi dell’uomo si ridussero a due piccole macchie inquiete, mentre lui si gettava a cercare, tentoni, per terra. Fu un errore. Il calcio di uno scarpone chiodato lo raggiunse su un lato della schiena, sollevandolo di parecchi centimetri. Dalla folla si levarono numerosi sghignazzi. La sensazione che stesse per accadere qualcosa di eccitante si diffuse in tutto il locale, richiamando un numero crescente di soldati. Mentre la folla intorno al cerchio aumentava, veniva meno ogni senso di responsabilità 229
individuale. Prendeva piede al suo posto una spietatezza arrogante. Un grido entusiasta si levò quando qualcuno spense la sigaretta sul capo dell’uomo. Risero tutti del suo guaito comico. Lo odiavano e ritenevano che meritasse tutto ciò che gli stava toccando. Era imputabile a lui la libertà con la quale la Luftwaffe scorrazzava nei cieli, come pure ogni singola incursione degli Stuka, ogni compagno morto. La sua gracile struttura fisica era in grado di contenere le cause della sconfitta di un intero esercito. Turner pensò che non poteva fare nulla per aiutare quell’uomo senza rischiare a sua volta il linciaggio. Ma anche far nulla sarebbe stato impossibile. Meglio unirsi agli altri, a quel punto. Sgradevolmente eccitato, si fece avanti a fatica. A proporre la domanda questa volta fu una voce dall’accento gallese. - Dove sta la RAF? Era un mistero il fatto che l’uomo non avesse gridato aiuto, implorato pietà, o dichiarato la propria innocenza. Il suo silenzio sembrava agire in collisione con il destino che lo attendeva. Era tanto ottuso da non capire che avrebbe potuto morire? In un gesto pieno di buonsenso, aveva ripiegato gli occhiali e li aveva ritirati in tasca. In loro assenza, la sua faccia sembrava vuota. Come una talpa in piena luce sbirciava i propri tormentatori, le labbra socchiuse più in segno di incredulità che nello sforzo di formulare una parola. Non potendo vederlo arrivare, prese il colpo successivo in piena faccia. Un pugno, questa volta. Mentre la testa gli andava all’indietro un altro scarpone affondava dentro il suo stinco accompagnato da un tifo modesto e da qualche applauso isolato, come sarebbe successo su un campo di provincia per un tiro appena decente. Era follia farsi avanti a difesa dell’uomo, ed era vergogna non farlo. Al tempo stesso, Turner capì l’esaltazione dei tormentatori e il modo insidioso in cui avrebbe potuto coinvolgerlo. Perché non commettere a sua volta un gesto violento con il coltello a serramanico e guadagnarsi l’affetto di un centinaio di uomini? Per allontanare il pensiero, si costrinse a contare i due o tre soldati del gruppo che gli parevano più grandi e più forti di lui. Anche se il vero pericolo era rappresentato dalla folla in se, dalla prepotenza del suo stato d’animo: non avrebbe permesso di farsi sottrarre uno svago. La situazione aveva raggiunto uno stadio in cui chiunque avesse sferrato il colpo successivo si sarebbe guadagnato la generale approvazione solo a patto di 230
mostrarsi ingegnoso o divertente. L’aria fremeva di un desiderio che andava appagato con gesti creativi. Nessuno voleva intonare una nota falsa. Per qualche secondo tale condizione impose la paralisi. Turner sapeva, dai giorni trascorsi a Wandsworth, che a quel punto il singolo colpo si sarebbe trascinato appresso tutti gli altri. Da quel momento non ci sarebbe più stato modo di tornare indietro e l’uomo della RAF avrebbe dovuto affrontare la sua fine. Sullo zigomo destro, appena sotto l’occhio, gli si era formato un bozzo di colore rosa. Aveva raccolto i pugni sotto il mento, senza mollare la bustina, e teneva le spalle curve. Poteva trattarsi di una postura di difesa, ma era anche un atteggiamento di debolezza e sottomissione destinato a provocare ulteriore violenza. Magari dicendo qualcosa, qualsiasi cosa, i soldati intorno a lui avrebbero potuto ricordare che era un uomo e non un coniglio pronto a farsi scuoiare. Il gallese che aveva parlato era un tipo basso e massiccio dei genieri. Si sfilò una cintura di tela e la mostrò agli altri. - Voi che ne dite, ragazzi? La sua dizione perfetta e allusiva suggerì orrori che Turner nemmeno fu in grado di afferrare immediatamente. Quella era l’ultima occasione per agire. Mentre si guardava intorno in cerca dei caporali, udì un verso roco, come il muggito di un toro trafitto. La folla ondeggiò barcollando mentre Mace faceva irruzione nel cerchio. Dando in un grido selvaggio simile al richiamo del Tarzan di Johnny Weissmuller, sollevò l’uomo alle spalle in un abbraccio da orso e, tenendolo sospeso a una quarantina di centimetri da terra, scosse la creatura atterrita di qua e di là. Ci furono acclamazioni e fischi di giubilo, piedi pestati e urla da vecchio Far West. - Lo so io che cosa ci voglio fare con questo, - tuonava Mace. - Voglio annegarlo in mare, mondoboia. Gli rispose un’altra raffica di grida e baccano fatto coi piedi. All’improvviso, Nettle si trovò al fianco di Turner e i due si scambiarono un’occhiata. Immaginarono le intenzioni di Mace e incominciarono a muoversi verso la porta, sapendo
di
dover
agire
in
fretta.
Non
tutti
erano
favorevoli
all’idea
dell’annegamento. Nonostante la frenesia del momento, qualcuno riusciva a ricordare che la bassa marea aveva ritirato l’acqua di più di un chilometro e mezzo. Il gallese, in particolare, si sentiva imbrogliato. Levava in alto la cinta e gridava. Ci furono fischi e urla di disapprovazione miste a quelle di incitamento. 231
Sempre reggendo la vittima per le braccia, Mace si precipitò verso la porta. Turner e Nettle lo precedevano aprendogli un varco in mezzo alla folla. Quando raggiunsero la porta, che per fortuna era a un solo battente, lasciarono passare Mace e subito bloccarono l’uscita senza darlo a vedere; continuavano a gridare e dimenare i pugni come tutti gli altri. Alle loro spalle percepivano l’enorme massa umana sovreccitata alla quale sarebbero riusciti a resistere solo per una manciata di secondi. Il tempo sufficiente a Mace per fuggire di corsa, non verso il mare, ma subito a sinistra, poi a sinistra di nuovo su per un vicolo che svoltava dietro i negozi e i bar allontanandosi dalla passeggiata. La folla esaltata esplose dal bar come champagne, scaraventando di lato Turner e Nettle. Qualcuno credette di vedere Mace giù alla spiaggia e, immediatamente, tutti si incamminarono da quella parte. Quando si resero conto dell’errore e cominciarono a tornare, di Mace e dell’uomo non c’era più traccia. Anche Turner e Nettle si erano dileguati. La vastità della spiaggia con migliaia di uomini in attesa e il mare deserto di navi restituirono i soldati alla realtà. Riemersero da un sogno. A est, in lontananza, dove stava sorgendo la notte, la linea del perimetro di difesa era sotto il
pesante
fuoco
dell’artiglieria.
Il
nemico
incalzava
e
l’Inghilterra
era
lontanissima. Nella luce morente restava ben poco tempo per rimediare un posto dove coricarsi. Si era alzato un vento freddo dal mare, e le palandrane erano rimaste sparse sulle strade dell’interno. La folla cominciò a disperdersi. L’uomo della RAF fu dimenticato. A Turner parve di essersi messo in cerca di Mace con Nettle e di averlo a un certo punto scordato. Per un po’ dovettero vagare per le strade, desiderosi di congratularsi con lui per il modo ingegnoso in cui aveva escogitato il salvataggio. Turner comunque non sapeva come lui e Nettle fossero finiti in quel vicolo. Non ricordava il tempo necessario a raggiungerlo, ne il male ai piedi, eppure eccolo qui, nell’atto di rivolgersi molto cortesemente a una vecchia che stava sulla porta di una modesta villetta a schiera. Quando nominò l’acqua, la donna si fece sospettosa, quasi sapesse che lui mirava a ben altro. Era piuttosto bella di lineamenti, scura di pelle, con lo sguardo fiero, un lungo naso diritto e un foulard a fiori legato sui capelli grigio-argento. Turner capì subito che si trattava di una zingara e che il suo francese non lo aveva ingannato neppure per un attimo. La 232
donna lo scrutava dentro, vedeva le sue colpe, sapeva che lui era stato in prigione. Poi rivolse a Nettle un’occhiata sprezzante e alla fine indicò sulla strada il punto in cui una scrofa fiutava tutto attorno in un rigagnolo di scolo. - Riportamela, - disse, - e vedrò che cosa posso darvi. - Che si fotta, - disse Nettle quando Turner ebbe tradotto. - Le abbiamo solo chiesto un po’ d’acqua, porca puttana. Possiamo entrare a prendercela. Turner però, sentendosi invadere da un ben noto straniamento, non riusciva a levarsi di testa l’idea che la donna disponesse di poteri soprannaturali. Nella luce fioca, vedeva lo spazio intorno al capo della vecchia pulsare al ritmo del suo stesso battito cardiaco. Si appoggiò per un attimo alla spalla di Nettle. La vecchia lo stava mettendo alla prova e lui era troppo cauto ed esperto per rifiutare. Era un veterano in questo genere di cose. Tanto vicino a casa, non intendeva certo cadere in trappola. Meglio mostrarsi prudenti. - Recuperiamole la scrofa, - disse a Nettle. - Ci metteremo un minuto. Nettle era abituato da un pezzo ormai a ubbidire ai suggerimenti di Turner, e li aveva sempre trovati sensati; ora però, mentre avanzavano nel vicolo, il caporale bofonchiava: - Tu hai qualcosa che non mi convince, capo. Le vesciche ai piedi li facevano procedere con lentezza. La scrofa al contrario era giovane, lesta e affezionata alla libertà. Nettle aveva paura. Quando riuscirono a bloccarla nel vano d’ingresso di una bottega, la bestia gli corse incontro facendolo scartare di lato e dare in un grido che non era soltanto scherzoso. Turner tornò dalla vecchia per farsi prestare un pezzo di corda, ma nessuno rispose e lui non era nemmeno sicuro che quella fosse la casa giusta; in compenso, adesso era certo che, se non avessero catturato la scrofa, non sarebbero mai tornati a casa. Aveva di nuovo la febbre, lo sapeva, ma l’intuizione era giusta lo stesso. La scrofa rappresentava la salvezza. Una volta, da bambino, aveva cercato di convincersi che il fatto di impedire la morte improvvisa di sua madre non calpestando le righe del marciapiede fuori dal cortile della scuola, era solo una sciocchezza. Ma aveva continuato a non calpestarle, e sua madre non era morta. Mentre proseguivano nel vicolo, la scrofa si manteneva appena fuori dalla loro portata. - Fanculo, - disse Nettle. - Ma che cazzo stiamo facendo? 233
Non avevano scelta, però. Turner recise un pezzo di cavo da un palo del telegrafo caduto e ne fece un cappio. Adesso inseguivano la scrofa su un viottolo, ai margini della località di villeggiatura fatta di villette con i loro fazzoletti di giardino cintati. Aprirono i cancelletti su entrambi i lati della strada. Poi deviarono in una traversa per accerchiare la scrofa e costringerla a ripercorrere il tragitto inverso. Come speravano, la bestia entrò subito in un giardino e vi si mise a grufolare. Turner chiuse il cancelletto e, appoggiandosi allo steccato, fece calare il cappio sulla testa della scrofa. Ci volle tutta la forza che ancora avevano in corpo per riportare la bestia urlante fino a casa. Fortunatamente, Nettle seppe ritrovare l’indirizzo. Quando alla fine la risistemarono al sicuro nella minuscola porcilaia sul retro dell’abitazione, la vecchia portò fuori due boccali d’acqua. Sotto i suoi occhi i due militari beati sostarono nel cortile davanti alla porta della cucina, a bere. Anche quando ebbero la pancia piena fin quasi a scoppiare, la bocca ne chiedeva ancora e continuarono a bere. Poi la donna portò loro del sapone, due pezze di tela e catini smaltati per lavarsi. La faccia caldissima di Turner tinse l’acqua di un color ruggine. Grumi di sangue rappreso incrostati sul labbro superiore si staccarono via facilmente. Quando ebbe finito, sentì nell’aria che lo circondava una meravigliosa leggerezza che gli carezzava la pelle e gli penetrava nelle narici. Versarono l’acqua sporca sulla terra di un ciuffo di bocche di leone che, disse Nettle, gli metteva nostalgia del giardino di casa dei suoi. La zingara riempì loro le borracce, portò un litro di vino rosso a ciascuno in bottiglie già stappate e un salame che infilarono nello zaino. Quando furono sul punto di congedarsi, le venne in mente qualcos’altro e rientrò in casa. Tornò con due sacchetti di carta, con dentro una mezza dozzina di mandorle caramellate. Si strinsero solennemente la mano. - Ricorderemo la sua gentilezza per tutta la vita, - disse Turner. La vecchia annuì e a lui parve di sentirle dire: - La scrofa mi farà sempre ripensare a voi -. La severità della sua espressione non si era modificata, e non ci fu modo di stabilire se quel commento contenesse un insulto, uno scherzo o un messaggio nascosto. Che li pensasse indegni della sua gentilezza? Turner indietreggiò imbarazzato e si incamminarono per il vicolo mentre lui traduceva 234
quelle parole a Nettle. Il caporale non ebbe dubbi. - Vive da sola e si e affezionata alla scrofa. Mi pare giusto. Ci e molto riconoscente -. Poi aggiunse, sospettoso: - Ti senti bene, capo? - Benissimo, grazie. Tormentati dalle vesciche, zoppicarono in direzione della spiaggia con l’idea di trovare Mace e dividere con lui cibo e vino. Ma avendo catturato la scrofa, secondo Nettle era giusto stappare subito una bottiglia. Aveva recuperato fiducia nel buonsenso di Turner. Si passarono il vino mentre marciavano. Anche nel tardo crepuscolo, era possibile distinguere la nube scura sopra Dunkerque. Nella direzione opposta, videro lampi di spari. Non c’era tregua lungo il perimetro di difesa. - Poveri cristi, - disse Nettle. Turner sapeva che si riferiva agli uomini fuori dalla fureria. Disse: - Il fronte non può reggere ancora per molto. - Ci beccheranno. - Perciò sarà meglio montare su una barca entro domani. Ora che non avevano più sete, il pensiero era diventato mangiare. Turner aveva in mente una stanza tranquilla, un tavolo quadrato coperto da una tovaglia a quadretti verdi e sovrastato da una di quelle lampade a olio in ceramica francese appese a un filo estensibile. E poi pane, vino, formaggio e salame sistemati sopra un tagliere di legno. Disse: - Mi stavo chiedendo se la spiaggia e proprio il posto migliore per andare a mangiare. - Potrebbero portarci via tutto, - assentì Nettle. - Credo di sapere cosa ci servirebbe. Erano tornati nella strada alle spalle del bar. Sbirciando nel vicolo dal quale erano fuggiti, scorsero delle sagome muoversi nella penombra sullo sfondo degli ultimi bagliori del mare e, ben più in là, da una parte, una massa più scura: potevano essere soldati ammucchiati sulla sabbia, ciuffi d’erba o anche le dune stesse. Trovare Mace sarebbe già stata un’impresa alla luce del giorno, ma adesso era decisamente impossibile. Perciò, continuarono a vagare, in cerca di un posto adatto. La zona che stavano attraversando pullulava di militari, alcuni 235
raggruppati in chiassose bande alla deriva nelle strade, tra canti e schiamazzi. Nettle infilò la bottiglia nello zaino. Si sentivano più vulnerabili, senza Mace. Passarono davanti a un hotel che era stato bombardato. Turner si chiese se quella che aveva in mente fosse una stanza d’albergo. Nettle si mise in testa di recuperare due materassi. Entrando da un buco nel muro, si incamminarono nel buio, tra macerie e travi cadute, fino a trovare una scala. Peccato che altre dozzine di uomini avessero avuto la stessa idea. C’era anzi una vera e propria coda in fondo alle scale, ostacolata dai soldati che cercavano di scendere portando pesanti pagliericci di crine. Sul pianerottolo dell’ammezzato - Turner e Nettle riuscivano soltanto a scorgere un nervoso andirivieni di scarponi e polpacci - stava scoppiando una rissa, tra grugniti di lotta e schiocchi di manate sulla carne. In seguito a un grido improvviso, parecchi uomini precipitarono all’indietro cadendo su quelli in attesa al piano di sotto. Si udirono risa e bestemmie, mentre la gente si rimetteva in piedi, tastandosi le parti dolenti. Un uomo non si rialzò, rimase sdraiato in una posizione innaturale di traverso sulla scala, con le gambe più in alto rispetto alla testa: gridava con voce fioca, quasi impercettibile, come in preda a un sogno pauroso. Qualcuno gli illuminò la faccia con un accendino e si vide che digrignava i denti e che aveva fiocchi di bava bianca agli angoli della bocca. Si era rotto la schiena, disse qualcuno, ma non ci si poteva fare niente, perciò gli uomini presero a scavalcarlo con le loro coperte e i cuscini, mentre altri spintonavano per farsi strada. Si allontanarono dall’albergo e ripresero le vie dell’interno, dove abitava la vecchia con la sua scrofa. Da Dunkerque dovevano aver interrotto la fornitura di corrente elettrica, ma dai bordi dei tendoni pesanti che oscuravano le finestre si intravedeva il bagliore giallo carico di candele e lampade a olio. Sul lato opposto della via, alcuni soldati battevano alle porte, ma ormai non apriva più nessuno. Fu quello il momento che Turner scelse per descrivere a Nettle il posto che aveva in mente per la loro cena. Per farsi intendere meglio, lo impreziosì, aggiungendovi porte finestre spalancate su un balcone dalla ringhiera in ferro battuto intorno alla quale cresceva un glicine, e poi un grammofono poggiato su un tavolo rotondo con la tovaglia in ciniglia verde, e uno scialle gettato su una chaise longue. Più la descriveva e più si convinceva che quella stanza non era lontana. Le sue parole la stavano materializzando. 236
Nettle, i denti appoggiati sul labbro inferiore in un’espressione di perplessità da roditore, lo lasciò concludere e disse: - Lo sapevo. Mondoboia, lo sapevo. Si trovavano fuori da una casa bombardata la cui cantina, ormai per metà a cielo aperto, si spalancava come una grotta gigantesca. Afferrandolo per la giubba, Nettle lo trascinò lungo mucchi di macerie. Con cautela, gli fece strada nel buio sul pavimento della cantina. Turner sapeva che il posto non era quello, ma non riusciva a opporsi all’insolita determinazione di Nettle. Davanti a loro, comparve un punto di luce, poi un altro e un altro ancora. Le sigarette di uomini che avevano già trovato riparo lì. Una voce disse: - Cristo. Levatevi dai piedi. Siamo al completo. Nettle accese un fiammifero e lo tenne alto. Tutto intorno alle pareti c’erano uomini seduti; perlopiù, dormivano. Alcuni stavano sdraiati in mezzo al locale, ma c’era ancora posto, e quando il fiammifero si spense, Nettle premette Turner su una spalla per farlo sedere. Mentre scostava i detriti da sotto le natiche, Turner si sentì la camicia bagnata. Poteva essere sangue, o qualche altro liquido, ma per il momento non gli faceva male. Nettle gli sistemò la palandrana sulle spalle. Adesso che non poggiava più il peso sui piedi, un’estasi di sollievo gli si diffuse fino alle ginocchia, e lui seppe che per quella notte non si sarebbe più mosso, a costo di deludere il caporale Nettle. Il moto ondulatorio della marcia durata il giorno intero si trasferì al pavimento. Turner lo sentiva beccheggiare sotto di lui, nell’oscurità totale. Attualmente, il problema era riuscire a mangiare senza essere aggrediti. La sopravvivenza coincideva con l’egoismo. Ma per il momento non fece nulla, e la testa gli si svuotò. Dopo qualche minuto, Nettle lo svegliò con una gomitata mettendogli tra le mani la bottiglia di vino. Qualcuno lo udì trangugiare. - Che cos’hai lì? - Latte di pecora, - rispose Nettle. - Ancora caldo. Ne vuoi un po’? Qualcuno sghignazzò, e qualcosa di tiepido e gelatinoso si posò sul dorso della mano di Turner. - Mi fate schifo, mi fate. Un’altra voce, più minacciosa, disse: - Silenzio. Sto cercando di dormire. Senza far rumore, Nettle frugò nello zaino in cerca del salame, lo tagliò in tre pezzi e ne passò uno a Turner, insieme a un tocco di pane. Turner si distese sul cemento, si tirò sulla testa la palandrana per contenere l’odore della carne e il 237
rumore della masticazione e, nell’olezzo del suo stesso fiato, tra mattoni e detriti che gli pungevano le guance, consumò il miglior pasto della sua vita. Sulla faccia aveva profumo di sapone. Affondò i denti nel pane che odorava di tela militare, e strappò succhiando il salame. Quando il cibo gli raggiunse lo stomaco, gli sbocciò in petto e nella gola un calore squisito. Marciava su quelle strade, pensò, da sempre. Se chiudeva gli occhi, vedeva asfalto in movimento e l’andirivieni degli scarponi dal suo campo visivo. Perfino masticando, si sentiva sprofondare nel sonno per qualche secondo. Era entrato in un altro tempo e adesso, adagiata sulla lingua, teneva una mandorla caramellata la cui dolcezza apparteneva a un altro mondo. Udì gli uomini lamentarsi del freddo della cantina e fu contento di poter rimboccare i lembi del cappotto intorno al corpo, e provò anche un moto di orgoglio paterno al ricordo di aver impedito ai caporali di disfarsi delle palandrane. Un gruppo di soldati entrò a cercare riparo accendendo fiammiferi, come avevano fatto lui e Nettle. si sentì ostile nei loro riguardi e irritato dal loro accento gallese. Come tutti gli altri rifugiati nella cantina, voleva che se ne andassero. Quelli invece si trovarono un posto ai suoi piedi. Turner colse una zaffata di brandy e li detestò anche di più. Fecero rumore mentre si organizzavano per dormire, e quando una voce proveniente dalla parete urlò: - Bifolchi del cazzo, uno dei nuovi arrivati si lanciò barcollando in quella direzione e per un momento parve potesse nascerne una zuffa. Ma il buio e le stanche proteste degli altri garantirono la pace. Ben presto si udirono solo respiri regolari e qualcuno che russava. Sotto di lui, il pavimento sembrava ondeggiare ancora, poi adeguarsi a un ritmo costante di marcia, e Turner si scoprì un’altra volta sopraffatto dalle emozioni, troppo febbricitante e troppo stanco per dormire. Attraverso la stoffa della giubba, tastò il gonfiore delle lettere di lei. Ti aspetterò. Torna da me. Non che quelle parole avessero perso significato, ma non lo toccavano più. Il concetto era chiarissimo: una persona in attesa di un’altra era come una somma aritmetica, e altrettanto priva di calore. L’attesa. Semplicemente una persona inerte nel tempo, e un’altra in progressivo avvicinamento. Attesa era una parola forte. La sentiva premere sulla palandrana, schiacciandolo. In quella cantina, sulla spiaggia, tutti aspettavano. Cecilia lo aspettava, d’accordo, e poi? Si sforzò di far pronunciare a 238
lei quelle parole, ma era sua la voce che sentiva appena sotto il battito del cuore. Di lei, non ricordava nemmeno più la faccia. Si costrinse a pensare alla nuova situazione, quella che in teoria avrebbe dovuto renderlo felice. Non ne coglieva più la complessità, gli pareva svanita ogni urgenza. Briony avrebbe modificato la testimonianza, riscritto il passato di modo che i colpevoli diventassero innocenti. Ma che cosa significava essere colpevoli di questi tempi? Il concetto si era svalutato. Erano tutti colpevoli, e non lo era nessuno. Chi poteva sperare di essere redento da una testimonianza modificata quando non sarebbe bastata la gente, ne la carta o le penne, ne la pazienza o la pace per raccogliere tutte le testimonianze? Abbiamo passato il giorno intero ad assistere a crimini altrui. Non hai ammazzato nessuno oggi? Ma quanti uomini hai lasciato morire? Qui, nella nostra cantina, terremo la bocca chiusa in proposito. Ci dormiremo sopra, Briony. La mandorla caramellata aveva il sapore di quel nome, che adesso gli pareva di una tale improbabile stravaganza da fargli domandare se lo ricordava correttamente. Anche quello di Cecilia. Come poteva aver dato sempre per scontata la bizzarria di quei nomi? Perfino su quella domanda era difficile soffermarsi a lungo. Aveva talmente tante cose da fare qui in Francia, che gli pareva sensato ritardare la partenza per l’Inghilterra, anche se il bagaglio era già pronto, il suo insolito, pesantissimo bagaglio. Se l’avesse lasciato qui e fosse tornato indietro, nessuno se ne sarebbe accorto. Un bagaglio invisibile. Doveva tornare indietro e tirare giù dall’albero il bambino. L’aveva già fatto in passato. Era tornato dove non c’era nessuno, aveva trovato i bambini sotto un albero e si era portato Pierrot sulle spalle e Jackson in braccio per tutto il parco. Che fatica! Era innamorato allora, di Cecilia, dei gemelli, del successo e dell’alba avvolta in quella strana foschia radiosa. E che comitato di accoglienza! Ormai aveva fatto il callo a situazioni simili, le considerava incidenti di percorso, ma al tempo, prima dell’irruvidimento e dello stordimento generale, quando ogni cosa era ancora una novità, ne era stato profondamente colpito. Gli piaceva il ricordo di quando lei era corsa fuori sulla ghiaia e gli aveva parlato accanto alla portiera aperta dell’auto della polizia. Oh, quando ti amavo, allora ero puro e coraggioso. Perciò sarebbe tornato sui propri passi, ripercorrendo a ritroso tutto il terreno guadagnato, attraverso le tetre paludi asciutte, oltre il feroce sergente sopra il ponte, per le strade del villaggio bombardato, e lungo il nastro di strada che si snodava su 239
chilometri di campi ondulati, in cerca del viottolo, sulla sinistra, al limitare del paese, di fronte alla bottega di scarpe e, tre chilometri dopo, oltre lo steccato di filo spinato e i boschi, e i campi, fino alla sosta notturna alla fattoria dei fratelli, e il giorno dopo, nella luce gialla del mattino, guidato dall’oscillazione di un ago della bussola, si sarebbe precipitato in mezzo alla gloria di quella campagna di piccole vallate e corsi d’acqua e sciami d’api, e avrebbe risalito il sentiero fino al villino triste accanto alla ferrovia. E all’albero. Dal fango avrebbe raccolto i brandelli di stoffa bruciacchiata, gli avanzi del pigiama, e infine lo avrebbe tirato giù, quel povero bambino esangue, per dargli una degna sepoltura. Era un bel bambino. Che i colpevoli seppellissero gli innocenti, dunque, e che nessuno modificasse la propria testimonianza. Ma dov’era Mace, per farsi aiutare a scavare la fossa? Quell’orso coraggioso del caporale Mace. Anche lui rientrava nel novero delle questioni in sospeso e rappresentava un motivo in più per non andare via. Doveva trovarlo. Prima però, toccava tornare indietro, fino al campo dove il contadino col suo cane continuava a marciare dietro all’aratro, e poi chiedere alla donna fiamminga e al suo bambino se lo consideravano responsabile della loro morte. Perché certe volte uno può anche farsi troppe idee, se si lascia prendere dai sensi di colpa. Magari lei gli avrebbe detto di no. La parola fiamminga per dire di no. Tu hai cercato di aiutarci. Non potevi portarci in braccio. Non per tutto il campo. Hai portato i gemelli, ma non noi, no. Non sentirti colpevole, no. Ci fu un sussurro, e Turner si sentì un fiato sulla faccia bollente. - Fai troppo baccano, capo. Dietro la testa del caporale Nettle si stendeva un’ampia striscia di cielo azzurro carico e, sul suo sfondo, il nero contorno ineguale del soffitto crollato della cantina. - Baccano? Che stavo facendo? - Gridavi «no» e svegliavi tutti quanti. Alcuni di questi ragazzi incominciavano a incazzarsi. Turner provò ad alzare la testa e scoprì che non ce la faceva. Il caporale accese un fiammifero. - Cristo. Che brutta faccia che hai. Dai, su, bevi. Gli sollevò il capo e gli tenne la borraccia alle labbra. L’acqua aveva un sapore 240
metallico. Quando ebbe finito, un’ondata lunghissima di stanchezza oceanica incominciò a tirarlo sotto. Marciava sulla terra finché non cadde in mar. Per non spaventare Nettle si sforzò di mostrarsi più ragionevole di quanto in realtà non si sentisse. - Senti, ho deciso di restare. Devo ancora fare delle cose. Con una mano sporca, Nettle gli asciugava la fronte. Turner non capiva perché il caporale dovesse ritenere necessario piazzargli la faccia, quella sua faccia da topo preoccupato, tanto vicina alla sua. Nettle. disse: - Capo, mi senti? Mi ascolti? Più o meno un’ora fa, sono uscito a pisciare. Prova a dire che cosa ho visto. C’erano dei marinai in strada che recuperavano gli ufficiali. Si stanno organizzando giù alla spiaggia. Sono arrivate le barche. Si torna a casa, amico. C’è un tenente dei Buffs che ci scorterà al mare alle sette. Perciò, vedi di dormire un poco e smettila di strillare, mondoboia. Stava crollando adesso, e il sonno ea l’unica cosa che voleva, mille ore di sonno. Era più facile. L’acqua era uno schifo, ma aiutava, come pure la notizia, e il sussurro consolante di Nettle. Si sarebbero allineati fuori in strada, per marciare verso la spiaggia. Tutti in riga, serrare sulla destra. L’ordine avrebbe avuto il sopravvento. Nessuno a Cambridge considerava i vantaggi di un buon ordine di marcia. Veneravano gli spiriti liberi, indomiti, da quelle parti. I poeti. Ma che ne sapevano della sopravvivenza, i poeti? Della sopravvivenza di un corpo compatto di uomini. Nessuno che rompesse le righe, niente corse alle barche, niente chi tardi arriva male alloggia, niente ognuno per sé e Dio per tutti. Nessuno scalpiccio di scarponi, mentre marciavano sulla sabbia, diretti alla battigia. Tra il rotolare dell’onda, solo mani solerti, pronte a tenere ferme le barche, mentre i compagni salivano. Il mare comunque era calmo, e ora che si era tranquillizzato anche lui, si rendeva conto di quanto fosse bello il fatto che Cecilia lo stesse aspettando. Altro che aritmetica, maledizione. Ti aspetterò era una frase semplicissima e fondamentale. La ragione per cui era sopravvissuto. Era un modo comune per dire che avrebbe rifiutato tutti gli altri. Solo te. Torna da me. Ricordava la sensazione della ghiaia sotto le scarpe eleganti, la sentiva come se fosse adesso, insieme al tocco gelido delle manette intorno ai polsi. Lui e il commissario, fermi accanto alla macchina, si erano voltati al rumore dei passi di lei. Come dimenticare quel vestito verde, il modo in cui 241
aderiva alle curve dei fianchi e le impacciava la corsa e rivelava la bellezza delle spalle? Più bianche della nebbia. Non lo sorprendeva che i poliziotti li avessero lasciati parlare. Non ci aveva nemmeno pensato. Lui e Cecilia si erano comportati come se fossero stati soli. Lei si era trattenuta dal piangere, dicendogli che gli credeva, che si fidava di lui, che lo amava. Robbie le aveva risposto semplicemente che non se ne sarebbe scordato, con il che intendeva esprimerle tutta la riconoscenza, specie in quel momento, soprattutto adesso. Poi Cecilia aveva appoggiato un dito alle manette dicendo che non si vergognava, che non c’era niente di cui vergognarsi. Prendendogli un bavero della giacca, lo aveva scosso un poco e fu a quel punto che disse: - Ti aspetterò. Torna da me -. Diceva sul serio. Il tempo lo avrebbe dimostrato. Poi lo avevano spinto nell’auto e Cecilia si era affrettata a dire ancora qualcosa, prima che arrivasse il pianto e lei non lo potesse trattenere più; gli assicurò che quanto era successo apparteneva a loro e a nessun altro. Si riferiva alla biblioteca, naturalmente. Apparteneva a loro. Nessuno glielo avrebbe mai portato via. - È il nostro segreto, - esclamò lei, di fronte a tutti, l’attimo prima che la porta dell’auto si chiudesse. - Non dirò una parola, - sentenziò Turner, benché la testa di Nettle fosse scomparsa da un pezzo. - Svegliami per le sette. Te lo prometto, non mi sentirai più dire una parola.
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Parte terza
Il disagio non era circoscritto all’ospedale. Pareva salire di livello insieme al turbolento fiume marrone gonfiato dalle piogge di aprile, e la sera si stendeva sulla città oscurata come una notte mentale registrabile in tutta la nazione, un silenzioso e malevolo rabbuiamento, inseparabile dal fresco della tarda primavera e ben nascosto tra le pieghe del suo generoso diffondersi. Qualcosa stava arrivando alla fine. Il personale anziano si radunava a confabulare nei corridoi con fare solenne, custodendo un segreto. I dottori giovani marciavano più eretti, più aggressivi; durante il giro di visite il primario appariva distratto, e una mattina in particolare, lo si vide fermo alla finestra per alcuni minuti a guardare il fiume mentre alle sue spalle le infermiere aspettavano sull’attenti accanto ai letti. Gli inservienti più anziani avevano un’aria avvilita spingendo i pazienti avanti e indietro nei vari reparti; parevano aver dimenticato le battute rubate ai programmi radiofonici, al punto che Briony avrebbe trovato consolante perfino quel loro ritornello che detestava tanto: - Animo, amor mio, potrebbe anche non succedere mai. Stava per succedere, invece. L’ospedale si era andato svuotando poco alla volta, impercettibilmente, giorno dopo giorno. Parve un caso al principio, un’epidemia di salute che le meno intelligenti tra le tirocinanti erano tentate di attribuire alla migliore qualità dei loro servizi. Solo col tempo si incominciò a comprendere il disegno recondito. I letti vuoti si diffusero nel reparto, nelle varie corsie, come decessi improvvisi nella notte. A Briony pareva che i passi frettolosi nei vasti corridoi lustri avessero un suono felpato, quasi di scusa, mentre all’inizio li aveva sentiti secchi e determinati. Gli operai che venivano a installare le nuove tubazioni per le manichette antincendio sui pianerottoli accanto agli ascensori, e a sistemare altri sacchi di sabbia, lavoravano tutto il giorno, senza interruzioni, e non parlavano mai con nessuno, nemmeno con gli inservienti. In reparto solo otto letti erano occupati, e sebbene il lavoro fosse diventato anche più duro, una sorta di inquietudine, un terrore quasi superstizioso impediva alle infermiere di 243
lamentarsi quando si trovavano sole per la pausa del tè. Erano tutte più tranquille, più disponibili. Non si mostravano più le mani per confrontare i geloni. Come se non bastasse, c’era nelle tirocinanti l’eterna ansia di sbagliare. Vivevano tutte nel terrore della caposala Marjorie Drummond, del suo minaccioso sorriso stento e di quell’addolcimento dei modi che sempre precedeva la sua furia. Briony sapeva di avere accumulato di recente una serie di errori. Quattro giorni prima, nonostante istruzioni precise, un paziente affidato alle sue cure si era tracannato la soluzione per gargarismi - a detta dell’inserviente che aveva assistito alla scena, l’aveva buttata giù d’un fiato, come una pinta di birra - per poi vomitarsi addosso tra le coperte. Briony sapeva anche di essere stata notata dalla caposala Drummond per aver portato solo tre padelle alla volta, quando ormai ci si aspettava che riuscisse a percorrere tutta la corsia con una pila di sei, come un cameriere esperto al ristorante La Coupole. E chissà quanti altri errori che, nella stanchezza, poteva aver dimenticato, o neanche saputo di aver commesso. Andava soggetta a difetti nella postura: nei momenti di distrazione, ad esempio, tendeva a poggiare il peso del corpo su un piede solo in un modo che irritava particolarmente la sua superiore. Sbagli e mancanze potevano accumularsi inosservati per parecchi giorni: una ramazza non ritirata, una coperta ripiegata con l’etichetta in vista, un colletto inamidato appena un po’ in disordine, le ruote orientabili dei letti non allineate e rivolte in dentro, un passaggio in corsia a mani vuote. Veniva tutto registrato in silenzio, fino a quando non si raggiungeva il colmo e a quel punto, se non eri stata in grado di riconoscere i segnali, la collera ti si abbatteva addosso come un temporale. Magari proprio quando credevi di aver fatto tutto bene. Di recente, però, la caposala non dispensava il proprio sorriso senza gioia alle tirocinanti, ne si rivolgeva loro con quella voce sommessa che le faceva rabbrividire di terrore. A malapena si occupava di assegnare gli incarichi. Era in ansia, e spesso stava nel vano quadrangolare antistante la chirurgia maschile, a confabulare con l’altra caposala, quando addirittura non spariva per due giorni di seguito. In un altro contesto, una diversa professione, la sua rotondità sarebbe sembrata materna, sensuale addirittura, perché aveva labbra di un bel rosso naturale, piene e ben disegnate, e guance paffute con pomelli rosa da bambola, 244
che suggerivano l’idea di un’indole tenera. Ma l’impressione venne presto fugata quando una tirocinante del corso di Briony, una ragazzona gentile, dai gesti lenti e lo sguardo bovino, dovette affrontare la forza dirompente della caposala in preda a un accesso di furia. L’infermiera Langland era stata assegnata al reparto di chirurgia maschile e le fu ordinato di aiutare a preparare un giovane soldato da sottoporre ad appendicectomia. Rimasta sola con lui per qualche minuto, la ragazza prese a chiacchierare con il paziente e a rassicurarlo sugli esiti dell’intervento. Lui dovette rivolgerle la più ovvia delle domande e fu a quel punto che la ragazza infranse una delle regole sacre. Era specificata a chiare lettere sul manuale, anche se nessuno aveva immaginato quanto potesse essere ritenuta importante. Ore più tardi, il soldato si svegliò dall’anestesia e farfugliò il nome dell’infermiera, mentre la caposala si trovava nei pressi. L’infermiera fu rispedita al suo reparto. Le compagne furono convocate affinché prendessero nota attentamente. Se la povera Susan Langland avesse, per distrazione o crudeltà, ucciso due dozzine di pazienti, non si sarebbe messa in guai peggiori. Quando la caposala Drummond ebbe finito di dirle che aveva coperto di infamia la nobile tradizione di servizio ispirata a Miss Nightingale, e che poteva considerarsi fortunata se le avessero concesso di trascorrere tutto il mese successivo a occuparsi di biancheria sporca, non solo Langland, ma la metà delle ragazze presenti era in lacrime. Briony non fu tra quelle, ma nella notte, ancora un po’ scossa, si ripassò il manuale, per controllare che non ci fossero altre regole di comportamento che potesse aver trasgredito. Rilesse comunque e mandò a memoria il comandamento: in nessuna circostanza è consentito a un’infermiera rivelare ai pazienti il proprio nome di battesimo. Le corsie si svuotarono, ma il lavoro aumentava. Ogni mattina, i letti venivano spinti al centro della sala in modo che le tirocinanti potessero lustrare il pavimento con la galera di piombo, tanto pesante che una ragazza da sola riusciva a malapena a spostarla. Bisognava spazzare tre volte al giorno. Gli armadietti liberi vennero puliti, i materassi disinfettati a vapore, ganci appendiabiti, maniglie e serrature lucidati. Gli arredi in legno - dalle porte ai battiscopa - furono lavati con acqua e ammoniaca, come pure i letti, strutture in ferro e molle comprese. Le corsiste fregarono, sciacquarono e asciugarono padelle e pappagalli fino a farli brillare come piatti da portata. Autocarri dell’esercito da 245
tre tonnellate arrivavano con i cassoni posteriori carichi di altri letti, vecchi rottami luridi che occorreva fregare più e più volte, prima di trasferirli in reparto, sistemarli tra le corsie, disinfettarli. Tra un lavoro e l’altro, una dozzina di volte al giorno, le tirocinanti passavano le mani screpolate e sanguinanti di geloni sotto il getto d’acqua gelida. La guerra contro i germi non conosceva tregua. Le tirocinanti venivano addestrate al culto dell’igiene. Imparavano che non c’era niente di più insidioso di un batuffolo di lana sotto un letto, perché vi si sarebbe annidato un battaglione, un intero esercito di batteri. La pratica quotidiana di bollire, sfregare, lustrare e lucidare divenne l’emblema dell’orgoglio professionale, in virtù del quale ogni comodità del singolo andava sacrificata. Gli inservienti portarono su dagli automezzi una grande quantità di nuovo materiale sanitario che dovette essere disimballato, inventariato e riposto nei magazzini: garze, arcelle, siringhe, tre nuove autoclavi e molti pacchi, denominati «Bunyan Bags», dei quali nessuno aveva ancora spiegato l’utilizzo. Si procedette a installare e rifornire un nuovo armadio di medicinali, non prima di averlo ripulito a fondo per tre volte. Venne chiuso, e la chiave rimase alla caposala Drummond, anche se un mattino Briony vi intravide file e file di flaconi di morfina. Quando la mandavano a sbrigare qualche incarico presso altri reparti, vedeva che in tutti fervevano gli stessi preparativi. Uno era già completamente vuoto di degenti e scintillava nel suo spazioso silenzio, in attesa. Ma fare domande non era previsto. L’anno precedente, poco dopo la dichiarazione di guerra, i reparti dei piani superiori erano stati chiusi del tutto a scopo preventivo, contro i bombardamenti. Le sale operatorie si trovavano adesso nel seminterrato. Le finestre del piano terra erano protette da sacchi di sabbia e i lucernari erano stati tutti murati. Un generale dell’esercito venne a fare un giro d’ispezione dell’ospedale, accompagnato da una mezza dozzina di primari. In quella occasione, non ci fu cerimonia di sorta, nemmeno un rispettoso silenzio. Di solito, durante visite tanto importanti, si diceva che perfino il naso dei pazienti dovesse essere allineato con la piega centrale del lenzuolo. Ma quella volta non si perse tempo in formalità. Generale e personale medico attraversarono il reparto tra mormorii e cenni d’assenso, poi sparirono. Il disagio aumentava, ma se ne parlava sempre meno, anche perché era 246
proibito farlo. Quando non erano di turno, le tirocinanti seguivano lezioni, conferenze o dimostrazioni pratiche, oppure studiavano da sole. Pasti e orari di lavoro erano controllati come quelli di tante scolarette. Quando Fiona, la ragazza che dormiva nel letto accanto a Briony, allontanò il piatto annunciando, a nessuno in particolare, di essere «clinicamente incapace» di ingerire delle verdure bollite in acqua e dado Oxo, la caposala di turno le rimase accanto finché non ebbe ingoiato anche l’ultimo boccone. Fiona era, per definizione, l’amica di Briony; al dormitorio, la prima notte di addestramento preliminare, le aveva chiesto di tagliarle le unghie della mano destra, spiegandole che con la sinistra non riusciva a usare le forbici e che perciò ci aveva pensato sempre sua madre. Era
rossa
di
capelli
e
lentigginosa,
dettaglio
che
aveva
messo
Briony
automaticamente in allarme. Ma, a differenza di Lola, Fiona era chiassosa e allegra, con il dorso delle mani pieno di fossette e un petto enorme che, a detta delle altre ragazze, un giorno avrebbe fatto di lei una caposala. La sua famiglia abitava a Chelsea. Una sera, dal letto, bisbigliò a Briony che il padre aspettava di essere convocato da Churchill al ministero della Guerra. Ma quando vennero comunicati i nominativi dei membri, il suo non c’era: nessuno disse niente, e Briony ritenne fosse meglio non indagare. In quei primi mesi, al termine dell’addestramento preliminare, Fiona e Briony ebbero ben poche occasioni per scoprire se si piacevano davvero. Convenne a entrambe supporre di sì. Erano fra le poche a non avere alcuna preparazione in campo medico. La maggior parte delle ragazze aveva già seguito lezioni di pronto soccorso; alcune erano anche state ausiliarie ed erano perciò avvezze al sangue e ai cadaveri, o perlomeno dicevano di esserlo. Le amicizie comunque non erano facili da coltivare. Le tirocinanti svolgevano il proprio turno in reparto, studiavano tre ore al giorno nel tempo libero, e dormivano. Unico loro lusso era la pausa del te, dalle quattro alle cinque, quando ciascuna prendeva dai ripiani di legno una teiera marrone con il nome indicato sopra e sedeva con le altre nel piccolo refettorio del reparto. La conversazione era impacciata. La caposala doveva essere presente per garantire il decoro. Per giunta, appena si sedevano, la stanchezza prendeva il sopravvento, pesante come una tripla coperta. Una ragazza era arrivata al punto di addormentarsi con tazza e piattino in mano, scottandosi la coscia: ottima opportunità, commentò la caposala Drummond, quando venne a vedere perché 247
qualcuno urlasse, per sperimentare la terapia delle ustioni. Inoltre, Briony stessa erigeva barriere di fronte a eventuali amicizie. In quei primi mesi, le capitava spesso di pensare come la sua unica relazione fosse quella con la caposala Drummond. Era onnipresente, ora al fondo di un corridoio in minaccioso e terribile avvicinamento e, l’attimo dopo, dietro la sua spalla a sussurrarle all’orecchio che al corso preliminare non doveva aver seguito con la dovuta attenzione le indicazioni sulla corretta procedura delle abluzioni a letto ai pazienti maschi: soltanto dopo il secondo cambio d’acqua era concesso offrire al paziente la pezzuola insaponata affinché potesse «ultimare il compito da solo». Lo stato d’animo di Briony dipendeva in larga misura dall’opinione che la caposala manifestava sul suo conto di ora in ora. Ogni volta che lo sguardo della Drummond si posava su di lei, si sentiva raggelare lo stomaco. Era impossibile sapere se si era fatto tutto bene. Briony era terrorizzata dalla possibilità di un suo eventuale giudizio negativo. L’elogio non era contemplato. Il meglio cui si potesse aspirare era l’indifferenza. Nei momenti che aveva per se, solitamente nel buio, qualche minuto prima di addormentarsi, Briony fantasticava su una vita parallela nella quale sarebbe stata a Cambridge a leggere Milton. Poteva trovarsi nello stesso college della sorella, anziché nello stesso ospedale. Briony aveva creduto di voler contribuire allo sforzo bellico. In realtà aveva ridotto la propria esistenza al rapporto con una donna di quindici anni più grande di lei, che la soggiogava più di quanto una madre domini un infante. Questo ridimensionamento, che si manifestava soprattutto nella rinuncia alla propria identità, ebbe inizio settimane prima che lei avesse anche solo sentito parlare della caposala Drummond. Il primo giorno dei due mesi di corso preliminare, l’umiliazione di Briony di fronte a tutta la classe le era servita da monito per il futuro. Così sarebbero andate le cose. Si era infatti avvicinata alla caposala per comunicarle gentilmente che era stato commesso un errore sulla sua targhetta di riconoscimento. Lei era infatti B. Tallis e non, come risultava sulla piccola spilla rettangolare, I. Tallis. La risposta fu pacata. - Lei è e resta quello che indica la sua targhetta. Il suo nome di battesimo non ci interessa affatto. Ora, cortesemente, sieda, Infermiera Tallis. 248
Le altre ragazze avrebbero riso se avessero osato, giacché avevano tutte la stessa iniziale, ma il buonsenso disse loro che non avevano ricevuto il permesso. Quello fu il periodo delle lezioni di igiene, nonché di pratica di abluzioni su manichini a grandezza naturale: la signora Mackintosh, Lady Chase, e il piccolo George, i cui attributi fisici approssimativi gli consentivano di essere utilizzato anche come femminuccia. Fu il tempo di un adeguamento a un’obbedienza acritica, il tempo per imparare a trasportare padelle una sull’altra ricordando sempre la regola fondamentale: non si attraversa mai una corsia a mani vuote. I disagi fisici aiutarono Briony a limitare i propri orizzonti mentali: il colletto alto e inamidato le torturava il collo. Lavarsi le mani con il sapone di soda sotto aghi di acqua gelida le procurò i primi geloni. Le scarpe che dovette acquistare di tasca sua le stringevano dolorosamente le dita. La divisa, come ogni altra divisa, tendeva ad annullare l’identità del singolo, mentre l’attenzione richiesta quotidianamente - pieghe stirate, copricapi fermissimi tra i capelli, cuciture allineate, scarpe ben lucide, soprattutto intorno ai tacchi - mise in moto un processo che a poco a poco escluse ogni altro pensiero. Quando le ragazze erano pronte a iniziare il corso da tirocinanti, e il lavoro in reparto (l’espressione «al reparto» era severamente proibita) sotto la guida della caposala Drummond, e a sottoporsi alla routine giornaliera «dalle padelle del mattino al brodo della sera», le loro vite precedenti avevano assunto contorni sfocati. Con la testa ormai semivuota e le difese abbassate, non era difficile convincerle dell’autorità assoluta della caposala. Quest’ultima doveva procedere a indottrinarle senza incontrare resistenza. Nessuno lo diceva, ma il modello implicito al quale il sistema si ispirava era quello militare. Miss Nightingale, alla quale era vietato fare riferimento chiamandola Florence, era stata in Crimea quanto bastava per constatare i vantaggi della disciplina, di forti linee di comando abbinate a truppe ben addestrate. Perciò, sdraiata nel buio ad ascoltare Fiona che incominciava a russare (andava avanti tutta la notte perché dormiva supina), Briony già sentiva che la sua vita parallela, quella che le era stato facile immaginare da bambina quando andava a Cambridge a trovare Leon e Cecilia, avrebbe incominciato presto a sfumare. Ormai era questa la sua vita da studentessa, questi quattro anni di regime severo che non le lasciavano né la libertà né la voglia di 249
andarsene.
Si
stava
abbandonando
a
un’esistenza
fatta
di
limitazioni,
obbedienza, regole, lavoro e costante terrore del biasimo. Era solo una corsista come tante - ne arrivava un gruppo nuovo ogni due o tre mesi - e non aveva altra identità se non quella denunciata dalla sua targhetta di riconoscimento. Qui non c’erano colloqui a tu per tu con il docente; nessuno perdeva il sonno per escogitare il percorso più idoneo al tuo sviluppo intellettuale. Briony svuotava padelle e le risciacquava, scopava e lustrava pavimenti, preparava cioccolato e brodo in tazza, andava avanti e indietro sentendosi esentata dalla necessità di interrogarsi. Dai discorsi delle studentesse di second’anno sapeva che a un certo punto nel suo futuro avrebbe incominciato a provare il piacere della competenza acquisita. Ne aveva avuto un assaggio recentemente, quando le era stato permesso, anche se controllata, di misurare polso e temperatura di un paziente e di registrarne i dati sulla cartella. Quanto a terapia medica, aveva già curato un esantema con impacchi di violetta di genziana, applicato mercurocromo su una ferita, e spennellato un ematoma di lozione al litargirio. Perlopiù, era come una specie di cameriera, una sguattera e, nelle ore libere, un assimilatore mnemonico di semplici nozioni. Era contenta di avere poco tempo per pensare. Ma quando la sera, in camicia da notte, sostava a guardare oltre il fiume verso la città oscurata, le tornava in mente l’inquietudine che aveva invaso strade e corsie d’ospedale e che assomigliava al buio stesso. Da quello, niente e nessuno, nemmeno la caposala Drummond, poteva proteggerla. Nella mezz’ora prima che si spegnessero le luci, dopo la tazza di cioccolato, le ragazze visitavano le amiche nelle loro stanze, o sedevano sul letto a scrivere lettere a casa o ai fidanzati. Alcune ancora piangevano un po’ per la nostalgia, e perciò si assisteva in quei momenti a un’intensa attività consolatoria, fatta di braccia intorno alle spalle e di parole dolci. A Briony pareva esagerato e ridicolo lo spettacolo di quelle giovani donne in lacrime al pensiero delle madri o, come aveva detto tra i singhiozzi una delle studentesse, al ricordo dell’aroma del tabacco da pipa di papà. Coloro che si accollavano il ruolo di consolatrici del resto parevano amarlo anche troppo. In questa atmosfera stucchevole, Briony redigeva qualche volta le sue concise missive dirette a casa, nelle quali comunicava in pratica che non era malata né infelice, che non aveva bisogno di aiuti finanziari e 250
che non intendeva cambiare idea come aveva profetizzato la madre. Altre ragazze descrivevano orgogliosamente le loro faticose giornate di lavoro e di studio allo scopo di stupire genitori amorevoli. Briony confidava queste cose soltanto al diario, senza scendere comunque nel dettaglio. Non desiderava che la madre sapesse dei lavori umili che svolgeva. Una parte della ragione per cui era diventata infermiera era stata quella di voler costruire la propria indipendenza. Era importante per lei che i genitori, soprattutto la madre, sapessero il meno possibile della sua vita. A parte una serie di domande ripetute che rimanevano senza risposta, le lettere di Emily parlavano perlopiù degli sfollati. Tre madri con sette bambini, tutte provenienti dal la stessa zona di Londra, erano state alloggiate d’ufficio a villa Tallis. Una delle donne si era coperta di vergogna nel pub del paese e ne era stata allontanata. Un’altra invece era una fervente cattolica che si faceva sei chilometri a piedi con i suoi tre bambini ogni domenica per andare a messa. Ma Betty, cattolica pure lei, non si mostrò sensibile a questo genere di differenze. Detestava incondizionatamente tutte le madri e tutti i figli. Il primo giorno le avevano detto che la sua cucina non era buona. Sosteneva di aver visto coi propri occhi la baciapile sputare sul pavimento dell’ingresso. Il più vecchio dei figli, un ragazzo di tredici anni che non ne dimostrava più di otto, si era immerso nella fontana e, arrampicatosi sulla statua, aveva staccato il corno e un braccio del Tritone, fino al gomito. Jack disse che lo si poteva aggiustare facilmente. Ma ora il pezzo, trasferito in villa e abbandonato nelle scuderie, non si trovava più. Su informazione di Hardman, Betty accusò il ragazzo di averlo gettato nel lago. Lui disse di non saperne nulla. Si parlò di prosciugare il lago, ma impensierivano le sorti della coppia di cigni che vi dimorava. La madre difese il figlio a spada tratta, sostenendo che era pericoloso avere una fontana quando in casa c’erano dei bambini, e che si sarebbe rivolta al parlamentare della zona. Ma Sir Arthur Ridley era il padrino di Briony. Comunque, Emily riteneva che dovessero considerarsi fortunati di dover ospitare degli sfollati, perché a un certo punto pareva che l’esercito volesse requisire tutta la casa. I militari presero invece alloggio presso la villa dei Van Vliet, perché aveva la sala da biliardo. L’altra notizia era che sua sorella Hermione era ancora a Parigi, ma stava pensando di trasferirsi a Nizza, e che le vacche 251
erano state spostate in tre pascoli a nord di modo che il parco potesse essere seminato a granturco. Circa tre chilometri di cancellata di ferro battuto risalente al 1750 erano stati divelti e fusi per farne Spitfire. Perfino gli operai addetti alla rimozione sostenevano che si trattava di un metallo inadatto. Giù al fiume avevano costruito una casamatta in cemento e mattoni proprio nei pressi di un’ansa, tra i falaschi, distruggendo così i nidi dell’alzavola e delle cutrettole grigie. Intanto, ne stavano erigendo un’altra nel punto in cui lo stradone entrava in paese. Loro ritiravano tutti gli oggetti fragili in cantina, compreso il clavicembalo. La povera Betty aveva fatto cadere il vaso dello zio Clem, mentre lo portava di sotto: era andato in pezzi sulle scale. Secondo lei i cocci le erano rimasti direttamente in mano, ma non era facile crederle. Danny Hardman si era arruolato in marina, ma tutti gli altri ragazzi del posto erano stati presi negli East Surreys. Jack lavorava decisamente troppo. Aveva partecipato a una riunione speciale e ne era tornato stanco e smagrito, ma non gli era permesso dire dove si fosse svolta. L’incidente del vaso l’aveva fatto infuriare al punto da prendersela con Betty, lui che non alzava mai la voce. Come se non bastasse, la disgraziata aveva anche perso delle tessere alimentari condannando l’intera famiglia a fare a meno dello zucchero per due settimane. La madre allontanata dal Red Lion era arrivata senza maschera antigas e non c’era stato verso di trovarne una. Il responsabile della protezione antiaerea, fratello dell’agente Vockins, si era presentato in casa per la terza ispezione delle misure di oscuramento. Si era rivelato un piccolo dittatore. Stava antipatico a tutti. Leggendo queste lettere alla fine di una giornata estenuante, Briony provava una sognante nostalgia, il desiderio vago di una vita perduta da tempo. Non poteva certo compiangersi. Era stata lei a tagliare i ponti con casa sua. Durante la settimana di vacanza dopo il corso preliminare e prima di incominciare l’anno da tirocinante, era andata a stare dagli zii a Primrose Hill, resistendo alle insistenze telefoniche della madre. Perché Briony non andava a trovarli? Anche solo in giornata; morivano tutti dalla voglia di vederla e di sentirle raccontare della sua nuova vita. E come mai scriveva così poco? Difficile dare la risposta giusta. Perché per il momento era necessario prendere le distanze. Nel cassetto del suo comodino da notte teneva un quaderno formato protocollo con la copertina in cartoncino marmorizzato. Attaccata alla costa, pendeva una 252
corda all’estremità della quale era legata una matita. Non era permesso usare penne e inchiostro a letto. Briony iniziò il diario la prima sera del corso preliminare, riuscendo poi a trovare almeno dieci minuti al giorno, prima che si spegnessero le luci. Le pagine del quaderno contenevano manifesti artistici, banali lamentele, descrizioni di personaggi, e la semplice cronaca della sua giornata che andò tuttavia sfumando sempre di più nel fantastico. Raramente rileggeva quello che aveva scritto, ma le dava soddisfazione scorrere le pagine completate. Qui, dietro targhetta di riconoscimento e divisa, si nascondeva la vera Briony, in silenzioso accumulo di parole. Non aveva mai perso del tutto il piacere infantile di vedere pagine e pagine coperte della sua grafia. Quasi non importava il contenuto. Dal momento che il cassetto non si chiudeva a chiave, fu attenta a mascherare le descrizioni della caposala Drummond. Modificò anche il nome dei pazienti. E dopo aver cambiato i nomi, divenne più facile trasformare le circostanze e inventare. Le piaceva scrivere il flusso immaginario dei loro pensieri. Non sentiva alcun obbligo nei riguardi della verità, non aveva promesso fedeli cronache a nessuno. Quello era l’unico posto nel quale le fosse concesso di essere libera. Costruiva brevi storie - non molto convincenti per la verità, un po’ artificiose - intorno alle persone incontrate in reparto. Per qualche tempo si considerò una specie di Chaucer della medicina, le cui corsie pullulavano di tipi pittoreschi, bizzarri: ubriaconi, rompiscatole o brava gente con un losco segreto da raccontare. Anni dopo le dispiacque di non essersi attenuta di più ai fatti, rifornendosi di materiale grezzo da sfruttare in seguito. Sarebbe stato utile sapere cosa era successo, come era la situazione, chi era presente, cosa si diceva. Al tempo, il diario le serviva a conservare la propria dignità: poteva anche apparire e comportarsi e vivere come un’infermiera tirocinante, ma in realtà era una grande scrittrice in incognito. E in un periodo in cui era tagliata fuori da tutto ciò che conosceva - famiglia, casa, amici - la scrittura rappresentava il filo della continuità. Quello che Briony faceva da sempre. Erano rari i momenti della giornata in cui la sua mente poteva vagare libera. Qualche volta le veniva assegnato un incarico al dispensario ed era costretta ad aspettare che arrivasse il farmacista. In quei casi percorreva il corridoio fino a una scala accanto alla quale una finestra si affacciava sul fiume. A sua insaputa, 253
il peso del corpo le si appoggiava al piede destro mentre lei puntava lo sguardo sul Parlamento senza neanche vederlo, e andava col pensiero non al suo diario, ma al racconto lungo che aveva scritto e inviato a una rivista. Durante il suo soggiorno a Primrose Hill aveva preso in prestito la macchina da scrivere dello zio e, occupata la sala da pranzo, aveva battuto con due sole dita la stesura definitiva del racconto. Ci aveva passato sopra l’intera settimana, per più di otto ore al giorno, fino a farsi venire male al collo, fino a quando la vista non le si era riempita di riccioli tipografici in continuo movimento. Eppure, quasi non ricordava un piacere più grande di quello provato alla fine, quando sistemò con le mani la pila di pagine - ben centotré - e sentì sulla punta delle dita indolenzite tutto il peso della creazione. Interamente sua. Nessun altro avrebbe potuto scrivere quelle parole. Si tenne una copia a carbone, avvolse il racconto (che termine inadeguato a definirlo) in carta da pacchi marrone, prese l’autobus per Bloomsbury, raggiunse a piedi l’indirizzo sulla Lansdowne Terrace, sede della nuova rivista «Horizon», e consegnò il pacco alla cortese signorina che venne alla porta. Quello che la emozionava dell’opera era soprattutto la struttura, la precisione geometrica utilizzata per descrivere l’incertezza della moderna sensibilità. A suo giudizio l’epoca delle risposte chiare era finita. E così pure quella di personaggi e intrecci. A dispetto dei tipi pittoreschi abbozzati nel suo diario, nei personaggi Briony non credeva più. Il concetto stesso si fondava su errori che la moderna psicologia aveva sottolineato. Anche le trame del resto costituivano una sorta di macchinario arrugginito dagli ingranaggi inceppati. Un romanziere moderno non avrebbe potuto utilizzare trame e personaggi più di quanto un musicista potesse comporre una sinfonia mozartiana. Erano il pensiero, la percezione, i sensi a interessarla, la coscienza come fiume nel tempo, e poi il modo per rappresentarne il fluire, e i corsi d’acqua che andavano a ingrossarlo, e gli ostacoli che ne deviavano il cammino. Se solo fosse riuscita a riprodurre la purezza della luce di una mattina estiva, le sensazioni di una bambina affacciata alla finestra, la curva del volo radente di una rondine su uno specchio d’acqua. Il romanzo del futuro non doveva assomigliare in nulla a quelli del passato. Briony aveva letto Le onde di Virginia Woolf tre volte pensando che perfino la natura umana stesse subendo una grande trasformazione e che 254
soltanto l’arte, un nuovo modo di concepire la letteratura, sarebbe stata in grado di cogliere il senso di quel cambiamento. Penetrare all’interno di una mente e mostrarne il lavoro e il lavorio interiore e inserire tutto questo in una struttura geometrica: ecco un autentico trionfo artistico. Su questo rifletteva l’infermiera Tallis sostando nei pressi del dispensario, in attesa che tornasse il farmacista, con lo sguardo perso oltre il Tamigi, dimentica del pericolo di essere scoperta dalla caposala Drummond in quella postura sconveniente, su un piede solo. Erano passati tre mesi, e Briony non aveva sentito nulla da «Horizon». Anche un altro suo scritto era rimasto senza risposta. All’ufficio amministrativo si era fatta dare l’indirizzo di Cecilia. Al principio di maggio, le aveva scritto una lettera. Ora incominciava a pensare che la risposta di sua sorella fosse quel silenzio. Negli ultimi giorni di maggio aumentarono le consegne di materiale sanitario. Altri pazienti non gravi vennero dimessi dall’ospedale. Molti reparti sarebbero stati deserti non fosse stato per l’arrivo di una quarantina di marinai: una strana forma di itterizia si era abbattuta sulla Royal Navy. Briony non aveva più tempo di farci caso. Incominciarono nuovi corsi di assistenza ospedaliera e anatomia generale. Le studentesse del primo anno si precipitavano dai turni alle lezioni, dalla mensa alla sala studio. Dopo tre pagine di lettura era difficile rimanere svegli. I tocchi del Big Ben scandivano le attività quotidiane, e certe volte bastava la solennità della nota singola del quarto a suscitare gemiti di panico represso nelle ragazze che si rendevano conto di dover già essere altrove. Il riposo assoluto era considerato di per se una terapia. Alla maggior parte dei pazienti, qualunque fosse il loro stato clinico, era proibito percorrere a piedi i pochi passi fino ai servizi. Le giornate incominciavano perciò con le padelle. La caposala Drummond non apprezzava che le si portasse in giro per le corsie «come racchette da tennis». Dovevano essere portate «in gloria di Dio» e poi svuotate, sciacquate, pulite e ritirate entro le sette e mezza, ora in cui si procedeva a distribuire la colazione. Per tutto il giorno, padelle, abluzioni, pulizia. Tutte le ragazze si lamentavano del mal di schiena a furia di rifare letti, e di fitte acute ai piedi per le ore interminabili passate senza potersi mai sedere. Un ulteriore compito affidato alle infermiere era quello di oscurare gli enormi finestroni del reparto. Verso fine giornata poi, altre padelle, lo svuotamento delle 255
sputacchiere, la preparazione del cioccolato in tazza. C’era appena il tempo, tra la fine di un turno e l’inizio di una lezione, per passare in dormitorio a prendere libri e quaderni. Ben due volte in un giorno, Briony aveva colto lo sguardo di disapprovazione della caposala che l’aveva vista correre nel corridoio, e in entrambi i casi, il rimprovero le era stato rivolto silenziosamente. Soltanto emorragie e incendi costituivano ragioni accettabili per le quali un’infermiera potesse correre. Ma il vero e proprio regno delle tirocinanti era rappresentato dal localelavaggio. Si era parlato dell’ipotetica installazione di una macchina per la pulizia automatica di pappagalli e padelle, ma si trattava solo di voci da una terra promessa. Per il momento, toccava fare come si era fatto da sempre. Il giorno in cui era stata rimproverata due volte per aver corso, Briony si ritrovò spedita al locale-lavaggio per un turno extra. Si tirò la porta alle spalle e si legò in vita il grembiulone di gomma. Il trucco per svuotare le padelle, in realtà il solo modo in cui riuscisse a procedere, era chiudere gli occhi, tenere il fiato e girare la testa. Dopodiché veniva la risciacquatura, in una soluzione di acido fenico. Se dimenticava di controllare che fossero puliti e asciutti anche i manici cavi delle padelle, allora i guai con la caposala Drummond sarebbero diventati seri. Appena terminato quel lavoro, andò direttamente a riordinare il reparto quasi vuoto sul finire della giornata; si trattava di sistemare gli armadietti, svuotare i posacenere, raccogliere i quotidiani. Automaticamente lo sguardo le cadde su una pagina ripiegata del «Sunday Graphic». Le erano giunti solo brandelli di notizie. Non c’era mai tempo per sedersi a leggere un giornale come si deve. Sapeva dello sfondamento della linea Maginot, del bombardamento di Rotterdam, della resa dell’esercito olandese, e alcune ragazze la sera prima avevano anche parlato dell’imminente crollo del Belgio. La guerra andava male, ma ci sarebbe stata una ripresa. Fu la prudenza di una frase ad attirare la sua attenzione; non tanto per ciò che diceva, ma per ciò che cautamente
si
sforzava
di
nascondere.
L’esercito
britannico
in
Francia
settentrionale stava «procedendo a un ripiegamento strategico in direzione di località precedentemente approntate». Perfino lei, che non sapeva niente di strategia militare né di linguaggio giornalistico, intuì che l’eufemistico giro di parole stava per «ritirata». Doveva essere l’ultima persona dell’ospedale a capire 256
cosa stava succedendo. I reparti svuotati, l’arrivo massiccio di forniture sanitarie: aveva interpretato tutto questo come normali preparativi per far fronte al periodo bellico. Era troppo assorta nelle sue meschine preoccupazioni. Soltanto adesso afferrava il collegamento tra elementi separati di notizie, e comprendeva ciò che tutti gli altri dovevano già sapere e per cui l’amministrazione dell’ospedale si stava tenendo pronta. I tedeschi avevano raggiunto la Manica, l’esercito britannico era in difficoltà. In Francia era andato tutto malissimo, anche se nessuno immaginava le proporzioni del disastro. Era questo presagio, questo terrore muto che Briony percepiva intorno a se. Più o meno in quei giorni, mentre gli ultimi pazienti venivano dimessi dal reparto, le arrivò una lettera dal padre. Dopo qualche frettolosa formula di saluto e alcune domande sull’andamento del corso e sul suo stato di salute, Jack passava a informarla della notizia avuta da un collega e in seguito confermata dalla famiglia; Paul Marshall e Lola Quincey si sarebbero sposati il sabato successivo presso la Church of the Holy Trinity, Clapham Common. Non spiegava cosa gli facesse credere che Briony avrebbe voluto saperlo, e non formulava commenti personali. Si limitava a firmare con uno scarabocchio a fondo pagina: «Con l’affetto di sempre». Per tutta la mattina, mentre svolgeva il suo dovere, Briony rifletté sulla notizia. Non vedeva Lola da quell’estate, perciò la figura che immaginò all’altare apparteneva a una ragazzina esile di quindici anni. Briony aiutò una paziente dimessa, un’anziana signora di Lambeth, a farsi la valigia, e si sforzò di prestare ascolto alle sue proteste. Si era fratturata un dito del piede e le erano stati promessi dodici giorni di riposo a letto, ma ne erano passati appena sette. La donna fu fatta accomodare su una poltrona a rotelle e un inserviente l’accompagnò fuori. Durante il turno nel locale-lavaggio, Briony si mise a fare i conti: Lola aveva vent’anni, perciò Marshall doveva averne ventinove. L’annuncio non l’aveva sorpresa, lo shock semmai nasceva dalla conferma. Briony era più che coinvolta in questa unione. Era stata lei a renderla possibile. Per tutto il giorno, su e giù per il reparto, tra le corsie, sentì la vecchia colpa tormentarla con rinnovato vigore. Sfregò gli armadietti vuoti, aiutò a lavare le armature metalliche dei letti con l’ammoniaca, spazzò e lustrò i pavimenti, si recò al dispensario e dal magazziniere 257
a velocità doppia, ma senza correre, fu mandata con un’altra tirocinante in medicina generale maschile per aiutare a medicare un ascesso, e sostituì Fiona che aveva appuntamento dal dentista. In quella prima giornata veramente bella di maggio, Briony sudò sotto la divisa inamidata. Tutto ciò che voleva era lavorare, fare un bagno e dormire, finché non fosse stata ora di lavorare di nuovo. Ma era inutile, lo sapeva bene. Per quanto sgobbasse, per quanto umile fosse il lavoro che svolgeva, e per quanto zelo e fatica ci mettesse, per quanto avesse rinunciato a chissà quali illuminazioni intellettuali, a chissà quali insuperabili momenti sul prato di un college, non sarebbe mai riuscita a rimediare al danno. Lei era imperdonabile. Per la prima volta dopo anni, pensò che avrebbe voluto parlare con il padre. Aveva sempre dato per scontata la sua lontananza e non si era aspettata nulla da lui. Si domandò se, mandandole la lettera con quella particolare informazione, jack avesse inteso dirle che sapeva la verità. Dopo il tè, ma concedendosi un margine di tempo troppo limitato, si recò alla cabina telefonica fuori dell’ospedale, accanto al Westminster Bridge, e cercò di chiamare il padre in ufficio. La cortese voce nasale del centralinista la mise in attesa, poi cadde la linea e fu costretta a ricominciare da capo. Avvenne la stessa cosa e, al terzo tentativo, la comunicazione si interruppe non appena la voce ebbe detto: - Sto cercando di passarle l’interno, attenda. A quel punto Briony aveva finito le monete, e comunque doveva rientrare in reparto. Si fermò un attimo fuori della cabina a contemplare un’immensa massa di nuvole ammucchiate nel cielo pallido. Il fiume gonfio d’acque primaverili correva verso il mare riflettendo il celeste dell’aria attraversato da qualche lampo verde e grigio. Il Big Ben pareva sempre sul punto di crollare contro quel cielo inquieto. Nonostante i fumi di scarico, c’era un profumo di vegetazione nuova tutto intorno, d’erba appena tagliata; forse proveniva dai giardini dell’ospedale, forse dagli alberi giovani che costeggiavano il fiume. La luce del sole era forte, ma faceva deliziosamente fresco. Erano giorni, per non dire settimane, che non sentiva niente di così gradevole. Stava troppe ore al chiuso, a respirare disinfettante. Mentre si allontanava, due giovani ufficiali medici dell’ospedale militare in Millbank le rivolsero un sorriso cordiale, passandole accanto. Automaticamente Briony abbassò gli occhi per poi subito pentirsi di non aver 258
almeno incrociato il loro sguardo. I due proseguirono attraversando il ponte, immemori di tutto a parte la conversazione nella quale erano impegnati. Uno di loro fece il gesto di arrampicarsi in alto, come se volesse afferrare qualcosa da uno scaffale, e il suo compagno rise. A metà del ponte si fermarono per ammirare una cannoniera che vi scivolava sotto. Briony rifletté su quanto apparissero liberi e vivaci gli ufficiali medici, e le spiacque di non averne ricambiato il sorriso. C’erano parti della sua persona che aveva completamente dimenticato. Era in ritardo e aveva buone ragioni per correre, nonostante le scarpe che le strizzavano le dita. Qui fuori, su questo marciapiede sporco e non disinfettato, i comandamenti della caposala Drummond non avevano valore. Niente emorragie, niente incendi, ma quella corsa a perdifiato fino all’ingresso dell’ospedale, per quanto le permettesse il camice inamidato, le procurò la sorpresa di un piacere fisico, il gusto di una breve libertà. Sull’ospedale calò un’atmosfera fiacca di attesa. Erano rimasti solo i marinai con l’itterizia. Tra le infermiere giravano commenti stupefatti e divertiti sul loro conto. Quei rudi uomini di mare si rammendavano i calzini seduti sui letti, e insistevano di volersi lavare le mutande che poi mettevano ad asciugare su stenditoi improvvisati, tesi tra i caloriferi. Quelli che erano ancora costretti a letto si sottoponevano a pene dell’inferno, pur di non chiedere l’orinale. Si diceva addirittura che i marinai in via di guarigione volessero a tutti i costi tenere il reparto in ordine personalmente e si fossero perciò accollati il compito di spazzare e di passare la galera. Tanta domestica efficienza tra gli uomini era sconosciuta alle ragazze, e Fiona sentenziò che non avrebbe mai sposato un uomo che non avesse prestato servizio in marina. Senza ragione apparente, le tirocinanti ebbero una mezza giornata di riposo, libere anche dagli impegni di studio, sebbene l’ordine fosse di non indossare abiti civili. Dopo pranzo Briony e Fiona attraversarono il fiume oltre il Parlamento e si spinsero fino al St James’s Park. Passeggiarono intorno al lago, presero un te al chiosco e affittarono due sedie a sdraio per ascoltare un gruppo di anziani musicisti dell’Esercito della Salvezza suonare un brano di Elgar adattato per ottoni. In quella giornata di maggio, prima che la gente comprendesse a fondo quanto era accaduto in Francia, prima dei bombardamenti di settembre sulla 259
città, Londra mostrava i segni esteriori della guerra ma non ne aveva ancora acquisito la mentalità. Uniformi, cartelli che mettevano in guardia contro i collaborazionisti, due grandi rifugi antiaerei scavati nei parchi, e, dovunque, burocrazia prepotente. Mentre le due ragazze sedevano tranquille sulle sdraio, un uomo in bustina e fascia militare si avvicinò e chiese a Fiona di mostrargli la sua maschera antigas, parzialmente nascosta dalla mantellina. A parte episodi come questo però, si respirava ancora aria di innocenza. Le ansie riguardo alla situazione in Francia si erano per il momento dissolte come neve al sole del pomeriggio. I morti ancora non c’erano; gli assenti venivano dati per vivi. La scena aveva un che di surreale nella sua normalità. Le carrozzine scivolavano lungo i sentieri del parco con le capottine abbassate e, in piena luce, neonati dalla testa ancora molle si stupivano del mondo per la prima volta. Bambini a quanto pare scampati agli sfollamenti correvano sull’erba tra risa e schiamazzi, mentre la banda lottava su una musica di gran lunga superiore alle sue forze e le sedie a sdraio costavano ancora due penny soltanto. Era difficile immaginare che a poco più di trecento chilometri da li si stesse consumando una disfatta militare. I pensieri di Briony restavano concentrati sui soliti temi. Forse Londra sarebbe stata sopraffatta da una nube di gas tossici, oppure occupata dai paracadutisti tedeschi aiutati a terra dai collaborazionisti, prima che le nozze di Lola potessero aver luogo. Aveva sentito un inserviente, di quelli che la sanno lunga, affermare con apparente soddisfazione che ormai nulla avrebbe più fermato l’avanzata dell’esercito tedesco. Loro conoscevano nuove strategie, e noi no, loro avevano aggiornato gli armamenti, e noialtri no. I generali avrebbero fatto bene a leggersi il libro di Liddell Hart, oppure a passare un attimo in guardiola all’ospedale durante la pausa del te, e stare a sentire attentamente. Accanto a lei, Fiona parlava del suo adorato fratellino e della battuta geniale che aveva fatto a cena, mentre Briony fingeva di ascoltare e intanto pensava a Robbie. Se era stato a combattere in Francia, potevano averlo già fatto prigioniero. O peggio. Come sarebbe sopravvissuta a una notizia simile, Cecilia? Mentre la musica, ravvivata da dissonanze non contemplate dallo spartito, montava in un crescendo rauco, Briony strinse tra le mani le aste laterali della sedia a sdraio e chiuse gli occhi. Se fosse accaduto qualche cosa a Robbie, se lui e 260
Cecilia non si fossero potuti ritrovare... Il suo tormento segreto e il pubblico sconvolgimento causato dalla guerra le erano sempre parsi due mondi separati; ora però si rendeva conto di come la guerra potesse aggravare la sua colpa. L’unica soluzione concepibile sarebbe stata che la storia non fosse mai esistita. Se Robbie non fosse tornato... Briony avrebbe voluto il passato di un’altra persona, essere qualcun altro, la placida Fiona magari, con la sua vita immacolata che l’aspettava: una famiglia affettuosa e tentacolare nella quale cani e gatti avevano nomi latini, e una casa che era celebre punto di incontro per gli artisti di Chelsea. Tutto quello che Fiona doveva fare era vivere, seguire la strada che aveva davanti e scoprire il proprio futuro. A Briony invece pareva che la sua vita si sarebbe svolta tutta in una stanza, priva di porta. - Briony, ti senti bene? - Eh? Si, certo. Sto bene, grazie. - Non ti credo, vuoi che ti porti un po’ d’acqua? Mentre l’applauso cresceva - nessuno pareva far caso alle pessime prestazioni della banda -, Briony osservò Fiona attraversare il prato, superare i musicisti e l’uomo in giacca marrone che noleggiava le sedie e raggiungere il piccolo chiosco tra gli alberi. La banda stava attaccando Bye Bye Blackbird, un pezzo decisamente più alla sua portata. La gente sulle sedie a sdraio si univa alla musica, qualcuno batteva il tempo con le mani. I cori improvvisati avevano una strana tendenza coercitiva - il modo in cui perfetti estranei si scambiavano occhiate nel crescendo delle loro voci - che Briony era decisa a contrastare. Ciononostante, il suo umore ci guadagnò, e quando Fiona fu di ritorno con una tazzina d’acqua e la banda si lanciò in una selezione di vecchie glorie del passato, tipo It’s a Long Way to Tipperary, le due ragazze si misero a parlare di lavoro. Fiona trascinò Briony nel pettegolezzo: le tirocinanti che le erano simpatiche, quelle che la innervosivano, la caposala Drummond, di cui Fiona sapeva imitare la voce, e la direttrice, quasi austera e irraggiungibile come un primario. Ricordarono le stravaganze dei vari pazienti, e si lamentarono dei torti subiti Fiona ad esempio non si capacitava di non poter tenere le sue cose sul davanzale della finestra, mentre Briony detestava di dover spegnere la luce alle undici in punto -, tuttavia lo fecero con una sorta di timido piacere che sfociò in un crescendo di risatine, cosicché alcune teste incominciarono a girarsi nella loro 261
direzione e la gente prese a portarsi un dito alla bocca in un teatrale invito al silenzio. Ma si trattava di gesti perlopiù scherzosi, e la maggior parte delle persone sedute nel parco sorrideva con indulgenza perché c’era qualcosa in due giovani infermiere - infermiere in tempo di guerra - con la loro casacca bianca e viola, la mantellina blu e il cappellino candido, che le rendeva irreprensibili come monache. Percependo l’immunità di cui godevano, le ragazze risero anche più forte, per divertimento e per scherno. Fiona si rivelò una discreta imitatrice, e a dispetto di tutta la spensierata allegria, il suo umorismo conteneva una nota di crudeltà che Briony apprezzò. La ragazza si produsse nella sua personale versione dell’accento di Lambeth e, con spietata esagerazione, sottolineò l’ignoranza di certi pazienti con le loro voci nasali e lamentose. Colpa del cuore, sa, infermiera. Ce l’ho sempre avuto dalla parte sbagliata. Mia madre anche, ce l’aveva uguale. Ma è vero che i bambini nascono dal sedere, infermiera? Io non so proprio come me la caverò, dato che faccio già tanta fatica ad andare di corpo. Ce n’avevo sei io di ragazzi, ma non vado a scordarmene uno sul pullman, sull’ottantotto da Brixton? Devo averlo lasciato li. Mai più visto, infermiera. Ci ho patito! Ho pianto da lasciarci gli occhi. Mentre tornavano verso Parliament Square, Briony si sentiva stordita e barcollante per il gran ridere. Si meravigliò di se stessa, della rapidità con la quale poteva cambiare d’umore. Non che le sue ansie fossero scomparse, ma si erano fatte indietro. Come se avessero temporaneamente esaurito il loro impatto emotivo. Sottobraccio, le ragazze attraversarono il Westminster Bridge. C’era bassa marea, e la luce violenta gettava uno splendore violaceo sulle sponde fangose tra migliaia di minuscole ombre prodotte dalle gallerie dei lombrichi. Svoltando su Lambeth Palace Road, Briony e Fiona videro una fila di autocarri militari fermi di fronte all’ingresso dell’ospedale. Le ragazze diedero in un sospiro ironico alla prospettiva di altro materiale da disimballare e inventariare. Poi però scorsero le ambulanze in mezzo ai camion e, avvicinandosi, le barelle, a decine, sistemate a terra alla meglio tra una distesa di luride uniformi grigioverdi e di bende macchiate. C’erano anche gruppi di soldati in piedi, immobili e intontiti, non meno avvolti in bende e garze sporche di quelli stesi a terra. Un ufficiale medico raccoglieva fucili dal cassone posteriore di un automezzo. Una 262
decina tra inservienti, medici e infermiere si muoveva tra la folla. Cinque o sei carrelli erano stati portati all’entrata dell’edificio, ma era chiaro che non sarebbero bastati. Per un momento Briony e Fiona si bloccarono a guardare, poi, contemporaneamente, si misero a correre. Meno di un minuto dopo erano in mezzo agli uomini. La fresca aria di primavera non riusciva a coprire il fetore di grasso da motore e ferite in suppurazione. Facce e mani dei soldati erano nere, mentre barbe lunghe e capelli sporchi, insieme alle targhette applicate sulle divise nei vari centri di prima accoglienza, li facevano sembrare tutti identici, una razza selvaggia di uomini provenienti da un mondo infernale. Quelli in piedi pareva che dormissero. Intanto altri medici e infermiere uscivano a fiotti dall’ospedale. Un primario si occupava della destinazione dei feriti e si stava tentando di organizzare un sistema di smistamento in base alla gravità dei singoli casi. I più urgenti vennero sistemati sui carrelli. Per la prima volta dall’inizio del corso, Briony si sentì rivolgere la parola da un dottore, un assistente che non aveva mai visto. - Lei, si metta dall’altra parte della barella. Il medico stesso ne sollevò l’estremità opposta. Briony non aveva mai portato una barella e rimase sconvolta dal suo peso. Superarono l’ingresso, e dopo una decina di metri di corridoio, lei già sapeva che il polso sinistro non le avrebbe retto. Stava dalla parte dei piedi. Il soldato aveva i gradi da sergente. Era senza scarponi e le sue dita bluastre puzzavano. La testa era avvolta in un bendaggio zuppo di sangue rosso scuro e nero. La stoffa della divisa era strappata da una ferita all’altezza della coscia. A Briony parve di intravedere la protuberanza bianca di un osso. Ogni passo che facevano gli procurava dolore. Teneva gli occhi serrati, ma apriva e chiudeva la bocca in un’espressione di muta sofferenza. Se la mano sinistra di Briony avesse ceduto, la barella si sarebbe certamente rovesciata. Sentiva le dita allentare la presa, e quando raggiunsero l’ascensore vi entrarono e posarono a terra il carico. Mentre salivano piano, il dottore prese il polso al ferito ed emise un rumoroso respiro dal naso. Si era scordato della presenza di Briony. Superando il secondo piano, lei riusciva a pensare solo ai trenta metri di corridoio che li separavano dal reparto, chiedendosi se ce l’avrebbe fatta. Sarebbe stato suo dovere dire al medico che non se la sentiva. Ma lui le dava le spalle mentre spalancava le porte dell’ascensore e 263
le ordinava di sollevare dalla sua parte. Briony pregò di poter avere più forza nel braccio sinistro e sperò che il dottore procedesse più in fretta. Non avrebbe sopportato la vergogna di un fallimento. L’uomo dalla faccia nera apriva e chiudeva la bocca in una specie di movimento masticatorio. Aveva la lingua coperta di chiazze bianche. Un pomo d’A-damo nero gli andava su e giù per la gola e Briony si costrinse a fissarlo. Svoltarono nel reparto e, per sua fortuna, c’era un lettino d’emergenza pronto accanto alla porta. Le dita stavano ormai scivolando. Una caposala e un’infermiera diplomata erano in attesa. Durante la manovra per sistemare la barella in posizione accanto al letto, la mano di Briony cedette, e avendone perso il controllo, lei sollevò il ginocchio sinistro per sostenere il peso. Il manico di legno le batté sulla gamba. La barella vacillò e fu la caposala a chinarsi per raddrizzarla. Il sergente ferito emise una specie di sibilo incredulo, come se non avesse mai immaginato che un dolore potesse raggiungere tali livelli. - Diamine, ragazza, stia attenta, - bofonchiò il dottore. Adagiarono il paziente sul letto. Briony aspettava di sapere se c’era ancora bisogno di lei. Ma ormai gli altri tre erano impegnati e la ignorarono. L’infermiera stava rimuovendo il bendaggio dalla testa dell’uomo, mentre la caposala gli tagliava i calzoni. L’assistente si spostò alla luce per esaminare i dati scarabocchiati sulla targhetta che aveva staccato dalla camicia del soldato. Briony si schiarì timidamente la voce; la caposala si guardò intorno e fu seccata di trovarla ancora li. - Be’? Non se ne stia lì imbambolata, infermiera Tallis. Vada di sotto a rendersi utile. Briony si allontanò umiliata, provando un senso di vuoto allo stomaco. L’attimo stesso in cui la guerra aveva sfiorato la sua vita, al primo accenno di tensione, lei aveva fallito. Se le avessero fatto trasportare un’altra barella, non sarebbe arrivata nemmeno fino all’ascensore. In compenso, di fronte a un ordine, non avrebbe trovato il coraggio di rifiutare. In caso l’avesse lasciata scivolare a terra, si sarebbe limitata ad andarsene: avrebbe raccolto le sue cose in una valigia e sarebbe partita per la Scozia come ausiliaria agricola. Meglio così, per tutti. Mentre si affrettava lungo il corridoio del piano terra, incontrò Fiona che procedeva in direzione opposta reggendo l’estremità anteriore di una barella. Era 264
più
robusta
lei,
di
Briony.
La
faccia
dell’uomo
trasportato
risultava
completamente nascosta dalle bende, a parte il foro ovale della bocca. Gli sguardi delle ragazze si incrociarono scambiandosi un messaggio che comunicava l’orrore, o la vergogna di aver riso nel parco, mentre succedeva tutto questo. Briony uscì e vide con sollievo che le ultime barelle venivano trasferite su carrelli dei quali poi si occupavano gli inservienti. Una dozzina di infermiere diplomate aspettavano da un lato con le valigie. Ne riconobbe alcune del suo reparto. Non c’era tempo di chiedere dove le stessero mandando. Altrove, a quanto pare, stava succedendo anche di peggio. Attualmente la priorità si era spostata sui feriti in grado di camminare. Ce n’erano ancora più di duecento. Una caposala gliene affidò quindici da accompagnare al reparto Beatrice. La seguirono in fila indiana lungo il corridoio, come scolaretti. Alcuni avevano un braccio appeso al collo, altri erano feriti al petto o alla testa. Tre di loro camminavano con le stampelle. Nessuno fiatava. Si era creato un ingorgo intorno agli ascensori, tra i carrelli in attesa di raggiungere le sale operatorie del seminterrato e quelli che ancora dovevano arrivare ai reparti. Briony trovò un sedile a muro e vi fece accomodare gli uomini con le grucce; disse loro di non muoversi e scortò gli altri su per le scale. - Ci siamo quasi, - continuava a dire, ma quelli parevano non darle retta. Una volta raggiunto il reparto, il regolamento le imponeva di recarsi a rapporto dalla caposala. Non la trovò nel suo ufficio. Si voltò verso la fila di uomini che si erano intanto ammassati alle sue spalle. Non la guardavano. Puntavano lo sguardo nel vuoto, nella grandiosa vastità vittoriana del reparto, con le sue colonne altissime, le palme dentro i vasi, i letti a distanza regolare con i candidi lenzuoli ripiegati. - Aspettate qui, - disse. - La caposala vi assegnerà un letto. Si diresse spedita al fondo del locale dove caposala e due infermiere si stavano occupando di un paziente. Briony udì un rumore di passi trascinati: i soldati la stavano seguendo. Terrorizzata, prese a dimenare le braccia, dicendo: - Tornate indietro, per favore, tornate indietro e aspettate. Ma ormai si stavano sparpagliando dappertutto. Ciascuno di quegli uomini aveva individuato il proprio letto, senza che nessuno glielo assegnasse, e senza 265
togliersi gli scarponi, senza lavarsi ne farsi spidocchiare, senza indossare il pigiama dell’ospedale, si infilarono tutti sotto le lenzuola. Capelli sporchi e facce nere poggiavano sui cuscini. La caposala giunse con passo deciso dal fondo del reparto, facendo risuonare i tacchi nello spazio solenne. Briony si avvicinò a un letto e afferrò per la manica un soldato che giaceva supino tenendosi il braccio che gli si era sfilato dalla benda appesa al collo. L’uomo buttò avanti le gambe e, così facendo, macchiò di grasso la sopracoperta. Tutta colpa mia, pensò Briony. - Deve alzarsi, - disse, mentre la caposala le arrivava accanto. Poi aggiunse sottovoce: - Si deve seguire la procedura. - Questi uomini hanno bisogno di sonno. Ci occuperemo più tardi della procedura -. La voce era irlandese. La caposala poggiò una mano sulla spalla di Briony e la voltò in modo da poter leggere la targhetta di riconoscimento. - Adesso torni al suo reparto, infermiera Tallis. Avranno senz’altro bisogno di lei. Con una dolcissima spinta, Briony venne spedita altrove. Quel reparto poteva fare a meno di fanatiche della disciplina. Gli uomini stavano già dormendo, e lei si sentiva di nuovo un’idiota. Ma certo che avevano bisogno di sonno. Aveva solo cercato di fare quello che credeva il suo dovere. Non le aveva stabilite lei quelle regole, in fondo. Negli ultimi mesi, non avevano fatto altro che ripetergliele, ribadire i mille dettagli da tenere presenti durante l’ammissione di ogni nuovo paziente. Come faceva a sapere che in realtà non valevano nulla? Questi pensieri sconcertanti continuarono ad affliggerla finché non ebbe quasi raggiunto il reparto: a quel punto ricordò gli uomini con le stampelle che aveva lasciato di sotto, in attesa di essere accompagnati ai piani in ascensore. Si precipitò giù per le scale. Il sedile a muro era vuoto e non c’era traccia degli uomini nei corridoi. Briony non aveva voglia di confessare la propria inettitudine facendo domande a infermiere o inservienti. Qualcuno doveva essersi occupato dei feriti. Nei giorni successivi non li rivide più. Il suo reparto era stato designato ad accogliere i pazienti di chirurgia in eccesso, ma in un primo tempo le definizioni non significavano nulla. Avrebbe potuto trattarsi di un ospedale di smistamento vicino al fronte. Si era proceduto a reclutare caposala e infermiere anziane, mentre sei medici si occupavano dei casi più urgenti. C’erano due cappellani militari, uno seduto a parlare a un uomo sdraiato sul fianco, e l’altro intento a pregare accanto a una salma coperta con un 266
lenzuolo. Tutte le infermiere indossavano la mascherina e, come i medici, si erano rimboccate le maniche del camice. Le caposala si muovevano rapide tra i letti praticando iniezioni - probabilmente di morfina - o inserendo aghi per trasfusione da collegare alle sacche rosse del sangue o a quelle gialle del plasma che pendevano come frutti esotici dall’alto dei treppiedi. Le tirocinanti andavano avanti e indietro portando borse d’acqua calda. L’eco pacata di voci, quelle dei dottori, si diffondeva in tutto il reparto, interrotta di quando in quando dai gemiti e dalle grida di dolore. I posti erano tutti occupati, e i nuovi arrivi dovevano restare sulle barelle sistemate tra un letto e l’altro per poter utilizzare i treppiedi delle trasfusioni. Due aiutanti si stavano preparando a trasportare fuori il cadavere. Accanto a molti letti c’erano infermiere impegnate a rimuovere vecchie fasciature. La decisione da prendere era sempre la stessa: procedere piano, con delicatezza, oppure rapidi e risoluti, per risolvere tutto con un attimo solo di dolore. Quel reparto in particolare propendeva per la seconda soluzione, non senza causare qualche urlo straziante. Su tutto aleggiava un miscuglio di odori: quello acre e dolciastro del sangue fresco, quello di abiti sporchi, e poi, sudore, grasso, disinfettante, alcol denaturato e, soprattutto, il lezzo della cancrena. Si seppe in seguito che due dei pazienti mandati in sala operatoria avevano subìto un’amputazione. Ora che le infermiere anziane venivano destinate ai centri di pronto soccorso più vicini alla costa e nuovi casi continuavano ad arrivare, le infermiere diplomate impartivano ordini liberamente e alle tirocinanti della classe di Briony vennero assegnati compiti di maggiore responsabilità. Una diplomata incaricò Briony di rimuovere le bende e pulire la ferita alla gamba di un caporale sdraiato su una barella accanto alla porta. Non doveva medicarlo prima che lo vedesse un medico. Il caporale giaceva a faccia in giù, e quando lei si avvicinò per parlargli all’orecchio, accennò la smorfia di un sorriso. - Non faccia caso se urlo, mormorò. - Me la pulisca, infermiera. Non mi va di perderla. La gamba del calzone era già stata tagliata. Il bendaggio esterno sembrava relativamente recente. Briony incominciò a srotolarlo; poi, quando diventò impossibile passare la mano sotto l’arto, usò le forbici per recidere la benda. - Mi hanno medicato a Dover, al porto. Ormai restava solo la compressa di garza, che, nera di sangue rappreso, 267
aderiva a tutta la ferita, dal ginocchio alla caviglia. La gamba era glabra e nera. Briony temette il peggio e prese a respirare dalla bocca. - Come diavolo ha fatto a conciarsi così? - Si sforzò di assumere un tono disinvolto. - Una bomba mi ha spedito dritto su una staccionata di lamiera. - Che sfortuna. Be’, lo sa vero che dovremo togliere la garza adesso? Ne sollevò un lembo con delicatezza e il caporale strizzò gli occhi. Disse: - Conti fino a tre e faccia in fretta. Il caporale serrò i pugni. Briony afferrò il lembo che aveva liberato, lo strinse bene tra pollice e indice e diede uno strattone improvviso. Le tornò in mente un ricordo di infanzia, di quando da bambina, a una festa di compleanno, aveva assistito al celebre trucco della tovaglia sfilata dal tavolo apparecchiato. La garza venne via completa, facendo un rumore secco e colloso. Il caporale disse: - Mi viene da vomitare. C’era un’arcella a portata di mano. L’uomo ebbe un conato ma non rigettò nulla. Le pieghe della pelle sotto la nuca si imperlarono di sudore. La ferita era lunga una quarantina di centimetri, forse anche di più, e curvava dietro al ginocchio. I punti di sutura erano irregolari e maldestri. Qua e là, un lembo di pelle si sovrapponeva all’altro, rivelando il proprio strato di grasso sottocutaneo e piccole escrescenze come minuscoli grappoli di uva rossa premuti contro il taglio. Briony disse: - Stia fermo. Adesso gliela pulisco tutto intorno, ma senza toccare la ferita -. Non voleva ancora toccarla. La gamba era nera e molle, come una banana troppo matura. Briony inzuppò del cotone nell’alcol. Temendo che la pelle venisse via, procedette a una prima passata leggera sul polpaccio, a circa cinque centimetri dalla ferita. Poi ripassò, premendo un po’ di più. La pelle era soda, perciò sfregò forte con il cotone, fino a che il soldato non ebbe un fremito di dolore. Briony tolse la mano e vide la chiazza di pelle bianca dove aveva pulito. Il cotone era nero. Niente cancrena. Non poté trattenere un sospiro di sollievo. si sentì perfino un groppo in gola. L’uomo disse: - Che c’è, infermiera? Me lo può dire -. Si tirò su cercando di guardare da dietro la spalla. Aveva la voce spaventata. Briony deglutì e disse pacatamente: - Mi sembra che stia guarendo bene. Prese altro cotone. Lo sporco era olio per macchine, o grasso misto a sabbia, e 268
non veniva via facilmente. Ne ripulì una zona di una decina di centimetri, procedendo tutto intorno alla ferita. Era al lavoro da qualche minuto quando una mano si posò sulla sua spalla e una voce di donna le disse all’orecchio: - Bene così, infermiera Tallis, ma deve cercare di fare un po’ più in fretta. Briony era in ginocchio, china sulla barella schiacciata contro un letto, e non le era facile voltarsi. Quando ci riuscì, vide solo la nota sagoma che si allontanava. Incominciò a pulire intorno ai punti, ma il caporale si era ormai addormentato. Ebbe qualche fremito e sussulto, ma non si svegliò mai del tutto. Lo sfinimento funzionava da anestetico. Quando alla fine Briony si rialzò e raccolse la bacinella piena di cotone sporco, arrivò un dottore e lei fu congedata. Si lavò le mani e le fu assegnato un nuovo compito. Ora che aveva risolto un piccolo problema, tutto le pareva diverso. La incaricarono di portare acqua ai soldati crollati per stanchezza; era importante che non si disidratassero. Coraggio, su, soldato Carter. Beva questo e poi potrà tornare a dormire. Si tiri su... Teneva una piccola teiera di smalto bianco in mano e li faceva succhiare dal beccuccio, sostenendo le loro teste luride contro il petto, come fossero dei giganteschi neonati. Tornò a lavarsi le mani, e fece un giro con le padelle. Quel lavoro non le era mai pesato così poco. Le dissero di occuparsi di un soldato ferito all’addome, ma che aveva anche perso una parte di naso. Attraverso la cartilagine sanguinante era in grado di vedergli l’interno della bocca, fino al dorso della lingua lacerata. Il suo compito era quello di pulirgli la faccia. Anche questa volta, grasso e sabbia gli erano esplosi addosso infilandosi sotto la pelle. L’uomo era sveglio, le parve, anche se teneva gli occhi chiusi. La morfina lo aveva placato e adesso ondeggiava piano in qua e in là, quasi seguisse una musica che aveva nella testa. Mentre dalla maschera di sporco incominciavano ad affiorare i suoi tratti, a Briony vennero in mente quei libri che aveva da bambina, dove sfregando la pagina vuota con una matita senza punta compariva un’immagine. Pensò anche che uno di quegli uomini poteva essere Robbie, e immaginò di medicargli le ferite senza averlo riconosciuto, di passargli il cotone con delicatezza sulla faccia fino a far emergere i lineamenti familiari; lui le si sarebbe rivolto con gratitudine, avrebbe capito chi era, le avrebbe preso la mano e, stringendogliela senza dire una parola, l’avrebbe 269
perdonata. Poi le avrebbe permesso di somministrargli qualcosa che lo facesse dormire. Le responsabilità di Briony aumentavano. Venne mandata nel reparto accanto con pinza chirurgica e arcella, al capezzale di un aviere con una gamba piena di schegge di granata. Lui la osservò diffidente mentre posava i ferri. - Se devo farmele levare, preferisco un’operazione. A Briony tremavano le mani. Ma si sorprese della facilità con la quale le venne spontaneo assumere la voce calma e autorevole da infermiera. Tirò il paravento intorno al letto. - Non sia sciocco. Ci metteremo un attimo. Come è successo? Mentre le spiegava che il suo compito era quello di costruire piste di decollo e atterraggio nella campagna della Francia settentrionale, l’uomo non staccava gli occhi dalle pinze d’acciaio che Briony aveva preso dallo sterilizzatore. Sgocciolavano nella vaschetta dai bordi di smalto blu. - Stavamo facendo il nostro lavoro, quando arrivano i crucchi e ci scaricano le bombe addosso. Noi ci ritiriamo e ricominciamo tutto da capo, ma quelli tornano, e la scena si ripete. Finché non siamo arrivati al mare. Briony sorrise e tirò indietro le coperte. - Diamo un’occhiata, vuole? Grasso e ghiaia erano già stati ripuliti, rivelando appena sotto la coscia una zona piena di schegge piantate nella carne. L’uomo si chinò in avanti, osservando Briony con apprensione. Lei disse: - Stia giù, voglio dare un’occhiata. - Non mi danno nessun fastidio. - Stia giù. Le schegge erano parecchie, sparse su una superficie di una ventina di centimetri. Ogni lacerazione cutanea era circondata da gonfiore e da una leggera infiammazione. - Non mi dispiacciono, infermiera. Preferirei lasciarle dove sono -. Rise poco convinto e aggiunse: - Almeno avrò qualcosa da mostrare ai nipotini. - Si stanno infettando, - replicò Briony. - E potrebbero penetrare più a fondo. - Penetrare? - SI, nella carne. Oppure in una vena, e finire al cuore. O al cervello. Parve convinto. Si sdraiò e diede in un sospiro rassegnato rivolto al soffitto 270
altissimo. - Porco di un mondo, cioè, mi scusi, infermiera. Oggi non credo proprio di farcela, però. - D’accordo, contiamole solo, le va? Così fecero, a voce alta. Otto. Briony lo spinse indietro con delicatezza. - Devono saltar fuori. Si sdrai, adesso. Farò più presto che posso. Se l’aiuta, si afferri alla sbarra del letto sopra la sua testa. La gamba dell’uomo era tesa e tremante, quando Briony prese in mano le pinze. - Non trattenga il fiato. Cerchi di rilassarsi. Le rispose con un risucchio ironico del naso. - Rilassarsi. Briony teneva ferma la mano destra con la sinistra. Le sarebbe stato più agevole sedersi sul bordo del letto, ma si trattava di un gesto poco professionale e rigorosamente proibito. Le bastò appoggiare la mano sinistra su una zona della gamba non ferita, per farlo sussultare. Scelse la scheggia più piccola e marginale di tutte. La punta che sporgeva era triangolare e sistemata in posizione obliqua. L’afferrò, rimase ferma un istante, e tirò via decisa, pur senza dare strattoni. - Cazzo! La parola sfuggita rimbalzò in tutto il salone e parve ripetersi parecchie volte. C’era silenzio al di là del paravento, o quantomeno il rumore era diminuito. La scheggia poteva misurare circa due centimetri e si restringeva verso l’estremità, Si avvicinavano intanto dei passi decisi. Briony lasciò cadere la scheggia nella bacinella nell’attimo in cui la caposala Drummond spostava il paravento. Era perfettamente calma quando guardò al fondo del letto per registrare il nome dell’uomo e puntargli addosso lo sguardo. - Come osa, - disse la caposala pacata. E poi di nuovo: - Come osa esprimersi in questo modo di fronte a una delle mie infermiere. - Le chiedo scusa, infermiera. Mi e scappato. La caposala Drummond esaminò con disprezzo il contenuto dell’arcella. - In confronto a certi casi che abbiamo ricoverato nelle ultime ore, aviere Young, la sua è una ferita superficiale. Perciò la prego di ritenersi fortunato. E di mostrare un coraggio degno dell’uniforme che indossa. Proceda, infermiera Tallis. Nel silenzio che seguì il suo allontanarsi, Briony esclamò in tono vivace: Allora continuiamo, che ne dice? Ne restano sette. Quando sarà tutto finito, le 271
porterò un bicchierino di brandy. L’uomo sudava, scosso in tutto il corpo, e le nocche delle dita gli si fecero bianche tanto stringeva la sbarra in ferro del letto, ma non gli uscì più di bocca una parola, mentre Briony procedeva a estrarre gli altri pezzi. - Può gridare, sa, se vuole. Ma al soldato non andava l’idea di ricevere una seconda visita della caposala Drummond, e lei poteva capirlo. Si stava lasciando la più grossa per ultima. Non venne via al primo colpo. L’uomo si inarcò sul letto ed emise un sibilo tra i denti serrati. Al secondo tentativo, la scheggia fuoriuscì di cinque centimetri dalla carne. La estrasse al terzo colpo, e gliela mostrò: una specie di stiletto metallico irregolare e insanguinato lungo una buona decina di centimetri. Lui lo fissò sbalordito. - Lo metta sotto il rubinetto, infermiera. Voglio portarmelo a casa -. Poi si abbandonò sul cuscino e prese a singhiozzare. Forse per effetto della paro la casa, insieme al dolore fisico. Briony si allontanò per andare a prendergli il brandy, e si fermò nel locale-lavaggio a vomitare. Per molto tempo continuò a sbendare, pulire e medicare le ferite più superficiali. Poi venne l’ordine che temeva da un pezzo. - Voglio che vada a medicare la faccia del soldato Latimer. Aveva già provato prima a imboccarlo con un cucchiaino, per evitargli l’umiliazione di sbrodolarsi. Ma lui aveva respinto la sua mano. Deglutire gli procurava sofferenze atroci. Gli era saltata via metà della faccia. Quello che spaventava Briony, ancor più dell’idea di rimuovere la medicazione, era lo sguardo di rimprovero dei suoi grandi occhi scuri. Che cosa mi avete fatto? La sua unica forma di comunicazione si riduceva a un debole «aah» proveniente dal fondo della gola, come un lieve gemito di disapprovazione. - Presto la rimetteremo a posto, - aveva continuato a ripetere Briony, senza riuscire a farsi venire in mente nulla di meglio. Adesso, mentre si avvicinava al suo letto con il necessario, disse incoraggiante: - Salve, soldato Latimer. Sono di nuovo io. Lui la guardò senza riconoscerla. E lei, mentre sfilava la spilla che gli assicurava la fasciatura sulla testa: - Andrà tutto bene. Uscirà di qui sulle sue gambe nel giro di un paio di settimane, vedrà. Il che è più di quanto possiamo 272
dire a un mucchio di altri pazienti. Era già qualcosa. C’era sempre qualcuno che stava peggio. Una mezz’ora prima avevano eseguito un intervento di amputazione multipla su un capitano degli East Surreys - il reggimento di quasi tutti i ragazzi del villaggio di Briony. Senza contare i moribondi. Utilizzando un paio di pinze chirurgiche, Briony incominciò con estrema cautela a tirare via dalla cavità sul lato della faccia i metri di garza inzuppata di sangue coagulato. Quando ebbe finito, la somiglianza con il modello a grandezza naturale che adoperavano durante le lezioni di anatomia era molto vaga. Quello che aveva davanti era tutto lacero, dilaniato e rosso di sangue. Attraverso il buco lasciato dalla guancia, Briony gli vedeva i molari inferiori e superiori, e la lingua luccicante, sproporzionatamente lunga. Più su, dove non osava neppure guardare, i muscoli intorno all’orbita erano scoperti. Parti assolutamente intime, che nessuno avrebbe dovuto mai vedere. Il soldato Latimer era diventato un mostro, e doveva averlo già capito. C’era una ragazza che lo amava, prima? Avrebbe potuto continuare a farlo? - Vedrà che presto la rimetteremo a posto, - ripeté ancora. Si mise a sistemare il bendaggio sopra una compressa di garza pulita imbevuta nel disinfettante. Mentre assicurava le spille l’uomo emise il suo gemito triste. - Vuole che le porti il pappagallo? Lui scosse la testa e gemette ancora. - Non è comodo? No. - Acqua? Un cenno di assenso. Gli restava solo un brandello di labbra. Briony vi inserì il beccuccio e inclinò la teiera. Ogni sorso gli faceva serrare gli occhi, movimento che, a sua volta, gli procurava un dolore lancinante a causa dei muscoli scoperti sul viso. Non era in grado di rizzarsi a sedere, ma non appena si vide sottrarre l’acqua, sollevò una mano verso il polso di lei. Doveva averne ancora. Meglio il dolore della sete. E il tormento proseguì per parecchi minuti: un male insopportabile, un bisogno assoluto d’acqua. Briony sarebbe anche rimasta con lui, ma c’era sempre un altro lavoro, sempre 273
un’altra caposala a richiedere il suo aiuto, o un soldato a chiamarla dal letto. Riuscì a fare una pausa solo quando, svegliandosi dall’anestesia, un uomo le vomitò addosso e lei dovette andare a cercarsi un camice pulito. Si sorprese notando da una finestra del corridoio che fuori si era fatto buio. Erano già trascorse cinque ore dal loro ritorno dal parco. Si trovava nel locale adibito a magazzino per la biancheria quando la raggiunse la caposala Drummond. Difficile dire che cosa fosse cambiato: i suoi modi rimanevano freddi; gli ordini indiscutibili. Forse però, sotto la corazza dell’autodisciplina, l’avversità la incoraggiava a stabilire vaghi contatti umani. - Infermiera, deve dare una mano ad applicare i Bunyan Bags su braccia e gambe del caporale MacIntyre. Il resto del corpo deve essere medicato con acido tannico. Se dovessero sorgere difficoltà, venga subito a chiamarmi. Si volse altrove per dare istruzioni a un’altra infermiera. Briony aveva assistito all’arrivo del caporale. Faceva parte di un gruppo di uomini finiti nel petrolio in fiamme di un traghetto affondato al largo di Dunkerque. Lo aveva ripescato dall’acqua un cacciatorpediniere. Il petrolio vischioso aveva aderito alla pelle e cauterizzato i tessuti. Quello che sollevarono sul letto era l’avanzo di un corpo umano bruciato. Briony pensò che non ce l’avrebbe mai fatta a sopravvivere. Non fu facile trovargli una vena per iniettargli della morfina. A un certo punto nel corso delle due ore precedenti le era capitato di aiutare altre due infermiere ad alzarlo per sistemarlo sulla padella, e al solo sfiorarlo lui aveva urlato. I Bunyan Bags erano grossi contenitori di cellophane. L’arto ferito vi galleggiava dentro, protetto da una soluzione salina che doveva mantenersi sempre a una determinata temperatura. Non era tollerata neppure la variazione termica di un solo grado. Mentre Briony si avvicinava, una tirocinante già preparava su un carrello altra soluzione fresca. I contenitori dovevano essere cambiati spesso. Il caporale MacIntyre giaceva supino sotto una struttura alzacoperte perché non avrebbe tollerato il lenzuolo sulla pelle. Gemeva pietosamente chiedendo acqua. Ai casi di ustioni si accompagnava sempre una grave disidratazione. Le labbra dell’uomo erano troppo gonfie e malridotte; la lingua troppo coperta di vesciche per potergli somministrare dei liquidi per bocca. La flebo di soluzione salina gli era uscita dalla vena danneggiata che non riusciva a trattenere l’ago. 274
Un’infermiera diplomata che Briony non aveva mai visto stava sistemando un sacchetto nuovo al sostegno. Briony preparò l’acido tannico in una bacinella e si fornì di un rotolo di cotone idrofilo. Pensò di partire dalle gambe del caporale per non intralciare il lavoro della collega che intanto gli cercava una vena sul braccio annerito. Ma l’infermiera disse: - Chi ti ha mandata? - La caposala Drummond. L’altra replicò con voce sicura, senza distogliere lo sguardo da quanto stava facendo. - Quest’uomo soffre troppo. Non voglio che sia medicato finché non sarò riuscita a reidratarlo. Cercati qualcos’altro da fare. Briony obbedì. Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato - forse fu a tarda notte, mentre andava a prendere degli asciugamani puliti: vide l’infermiera ferma accanto alla porta del locale-servizi. Piangeva sommessamente. Il caporale MacIntyre era morto. Il suo letto era già stato occupato da un altro paziente. Tirocinanti e studentesse del secondo anno lavorarono dodici ore senza interruzione. Le altre tirocinanti e le infermiere qualificate non si fermarono, e nessuno ricordava da quanto tempo fossero impegnate nei reparti. In seguito Briony pensò che tutto l’addestramento ricevuto le era stato utile sul piano della preparazione, soprattutto in termini di abitudine all’obbedienza, ma solo quella notte aveva capito che cosa significava essere un’infermiera. Non aveva mai visto piangere un uomo in vita sua. Dapprima la cosa l’aveva sconvolta, ma nel giro di poche ore non ci badava nemmeno più. D’altra parte lo stoicismo di alcuni soldati la sorprese fino a lasciarla stupefatta. Gli uomini che tornavano in reparto dopo l’amputazione di un arto, parevano sentirsi in dovere di fare battute atroci. E adesso con che cosa la prendo a calci mia moglie? Ogni segreto del corpo veniva reso pubblico: ossa sporgenti dalla carne, brandelli di viscere fuoriusciti, nervi ottici scoperti. Da quella prospettiva tanto inedita quanto indiscreta, Briony imparò una cosa ovvia e semplicissima che aveva sempre saputo, come tutti: ogni persona è, tra le altre cose, un oggetto facile da rompere e difficile da riparare. Quell’esperienza l’avvicinò quanto più le sarebbe mai stato possibile al campo di battaglia, perché ogni caso al quale prestò aiuto ne conteneva alcuni elementi essenziali: sangue, grasso, sabbia, fango, acqua di mare, proiettili, schegge di 275
granate, olio per macchine, o l’odore di cordite e quello umido e dolciastro delle uniformi intrise di sudore nelle cui tasche si trovavano avanzi di cibo rancido e pezzetti fradici di cioccolata Amo. Spesso, quando per l’ennesima volta tornava al lavandino dove l’aspettavano i rubinetti alti e il sapone di soda, era sabbia di mare quella che si sfregava via dalle dita. Lei e le altre tirocinanti registravano la presenza delle compagne ormai solo come infermiere, non come amiche; a malapena si rese conto che una delle ragazze che l’avevano aiutata a sistemare il caporale MacIntyre sulla padella era Fiona. Certe volte, quando uno dei soldati di cui si stava occupando soffriva particolarmente, si sorprendeva della tenerezza impersonale che l’aiutava a mantenere la distanza dalla sofferenza consentendole di lavorare in modo efficace, senza mostrare orrore. Fu allora che comprese il significato del suo lavoro, e avrebbe tanto desiderato essere già diplomata, disporre di maggiore professionalità. Immaginò che avrebbe potuto rinunciare a ogni ambizione di scrittrice e sacrificare l’intera esistenza, in cambio di quei momenti d’amore assoluto. Verso le tre e mezza del mattino, le dissero di andare dalla caposala Drummond. La trovò sola, intenta a rifare un letto. Poco prima, Briony l’aveva vista nel locale-lavaggio. Sembrava fosse dovunque, impegnata in lavori di qualsiasi livello. Automaticamente, si mise ad aiutarla. La caposala disse: - Mi pare di ricordare che lei se la cava col francese. - L’ho solo studiato a scuola. La donna annuì, indicando il fondo del reparto. - Vede quel soldato seduto, laggiù, in fondo alla fila? Ha subìto un grande intervento, ma non occorre che indossi la mascherina. Si trovi una sedia, gli si sieda accanto, e gli parli. Briony non poté fare a meno di sentirsi offesa. - Ma non sono stanca. Le assicuro. - Faccia come le dico. - Si. Sembrava un ragazzo di quindici anni, ma dalla cartella clinica Briony seppe che era più vecchio di lei, aveva più di diciotto anni. Stava seduto, grazie al sostegno di parecchi cuscini, e osservava il trambusto che lo circondava con una sorta di svagato stupore infantile. Si faticava a pensarlo come soldato. Aveva un bel viso dai tratti delicati: sopracciglia scure, occhi verde carico, labbra morbide e piene. Il volto bianco mostrava una lucentezza insolita, e gli occhi erano 276
eccessivamente lucidi. Aveva la testa tutta fasciata. Quando Briony accostò la sedia al letto e si sedette, lui sorrise come se la stesse aspettando, e non parve sorpreso vedendola prendergli la mano. - Te voilà enfin -. Le vocali francesi contenevano una musicalità metallica, ma Briony riusciva a stento a capirlo. La mano del ragazzo era fredda e unta. Briony disse: - La sorella mi ha detto di venire a chiacchierare un po’ con te -. Non conoscendo il termine caposala in francese, usò la traduzione letterale dell’inglese «sister». - Tua sorella e molto gentile, - fece lui; poi piegò la testa un po’ di lato e aggiunse. - Ma lo e sempre stata. A proposito, come le vanno le cose? Che fa ultimamente? C’era una tale cortese affabilità negli occhi del ragazzo, tanto infantile desiderio di coinvolgerla, che Briony non poté fare altro che assecondarlo. - Fa l’infermiera anche lei. - Ah, già. Me l’avevi detto prima. È sempre felice? Si e poi sposata con quel tale che amava tanto? Sai che non mi ricordo più come si chiamava? Mi scusi, vero? Da quando sono stato ferito, la memoria mi dà dei problemi. Ma dicono che mi tornerà. Come si chiamava? - Robbie. Ma... - E adesso sono sposati? Sono felici? - Be’, spero che lo siano presto. - Sono proprio contento. - Non mi hai detto come ti chiami tu, però. - Luc. Luc Cornet. E tu? Briony ebbe un attimo di esitazione. - Tallis. - Tallis. Molto carino -. In effetti lo era, pronunciato da lui. Il ragazzo distolse lo sguardo dal viso di lei e osservò il reparto, voltando il capo lentamente, nel suo stupore pacato. Poi chiuse gli occhi e incominciò a delirare piano, sottovoce. Il vocabolario di Briony non era abbastanza vasto da consentirle di seguire con facilità. Riuscì ad afferrare: - Basta contare adagio, sulle dita di una mano... il foulard di mia madre... ti scegli un colore e poi devi fartelo andar bene. Tacque per qualche minuto. La sua mano serrò la presa intorno a quella di 277
Briony. Quando ricominciò a parlare, aveva ancora gli occhi chiusi. - Vuoi sapere una cosa strana? È la prima volta che vengo a Parigi. - Luc, sei a Londra. Presto però tornerai a casa. - Dicevano che avremmo trovato gente fredda e sgarbata, ma non e affatto vero. Sono tutti gentili. Tu poi, sei stata gentilissima, a tornare a trovarmi. Per un poco, Briony pensò che si fosse addormentato. Seduta per la prima volta da ore, anche lei sentì la stanchezza accumularsi dietro le palpebre. Poi lo vide guardarsi intorno di nuovo con quel gesto lento del capo; la mise a fuoco e disse: - Ma certo, tu sei la ragazza con l’accento inglese. Briony ribatté: - Dimmi, che cosa facevi prima della guerra? Dove abitavi? Te lo ricordi? - Ti ricordi quell’anno a Pasqua, quando sei venuta a Millau? - Parlando le faceva ondeggiare la mano, e come se volesse rinfrescarle la memoria, i suoi cupi occhi verdi scrutavano il viso di lei in attesa di un riscontro. Briony pensò che non fosse giusto ingannarlo. - Non sono mai stata a Millau... - Ti ricordi la prima volta che sei venuta nel nostro negozio? Briony accostò ulteriormente la sedia al letto. La faccia lucida e pallida del ragazzo le andava su e giù davanti agli occhi. - Luc, voglio che tu mi ascolti Credo che sia stata mia madre a servirti. O forse una delle mie sorelle. Io lavoravo al forno con mio padre, nel retro. Ho sentito il tuo accento e sono venuto a vedere com’eri... - Voglio dirti dove ti trovi. Non sei a Parigi... - Poi sei tornata il giorno dopo, e quella volta c’ero io e tu hai detto... - Tra poco riuscirai a dormire. Io torno a trovarti domani, te lo prometto. Luc si portò una mano sulla testa e aggrottò la fronte. Abbassando la voce disse: - Devo chiederti un piccolo favore, Tallis. - Ma certo. - Queste bende sono così strette. Me le allenti un po’? Briony si alzò e diede un’occhiata alla testa del ragazzo. Le estremità della benda erano legate per facilitare la medicazione. Mentre Briony le allentava leggermente, Luc disse: - Ti ricordi Anne, la mia sorellina più piccola? La ragazza più carina di tutta Millau. Ha passato l’esame di diploma con un brano di Debussy, un pezzo pieno di brio. Almeno a detta di Anne. Continua a girarmi per 278
la testa. Magari lo conosci. Canticchiò qualche nota. Briony stava rimuovendo il primo strato di garza. - Nessuno sa da chi abbia ereditato il talento per la musica. In famiglia siamo tutti negati. Quando suona tiene la schiena così dritta. E non sorride mai finché non è arrivata alla fine. Credo sia stata Anne a servirti la prima volta che sei venuta al negozio. Briony non aveva affatto intenzione di togliere la fasciatura, ma allentandola fece scivolare il tampone che si sfilò insieme a un lembo di garza insanguinata. A Luc mancava un lato della testa. I capelli gli erano stati rasati su tutta la zona intorno alla porzione assente di cranio. Al di sotto della linea irregolare dell’osso si trovava la poltiglia rossa del cervello, una chiazza lunga svariati centimetri che, partendo dalla scatola cranica, arrivava fino alla punta dell’orecchio. Briony afferrò il tampone della medicazione prima che toccasse terra e lo tenne in mano, in attesa che le passasse la nausea. Soltanto a quel punto si rese conto di quanto si fosse dimostrata stupida e incompetente facendo quel che aveva fatto. Luc restò seduto tranquillo, ad aspettare. Briony lanciò un’occhiata nel reparto. Non stava guardando nessuno. Risistemò la medicazione, riavvolse la benda e ne legò le estremità. Quando tornò a sedersi, trovò la mano di lui, e cercò di ricomporsi a contatto con la sua stretta fredda e umidiccia. Luc delirava di nuovo: - Io non fumo. Ho promesso la mia razione a Jeannot... Guarda, ce n’e su tutto il tavolo... sotto i fiori... il coniglio non ti può sentire, stupido... - In seguito le parole giunsero a fiotti, e Briony non riuscì a stargli dietro. Poco dopo afferrò un accenno a un maestro di scuola troppo severo, ma forse si trattava invece di un ufficiale. Alla fine, si placò. Gli asciugò il viso sudato con un panno e attese. - Che ne pensavi delle nostre baguette? e dei filoncini? - Straordinarie. - Per questo venivi tutti i giorni. - Infatti. Il ragazzo si fermò a riflettere: Poi disse cauto, come se affrontasse un argomento delicato: - E dei nostri croissant? - I migliori di Millau. Sorrise. Quando parlava, gli usciva di gola uno stridore rauco, che entrambi si 279
sforzavano di ignorare. - E una ricetta speciale di mio padre. Dipende tutto dalla quantità di burro. La stava fissando trasognato. Poggiò la mano libera sulle sue. Disse: - Lo sai che piaci molto a mia madre? - Davvero? - Parla sempre di te. Secondo lei dovremmo sposarci entro l’estate. Briony sostenne il suo sguardo. Ora sapeva perché era stata mandata. Il soldato aveva difficoltà a deglutire, e gocce di sudore gli si andavano formando sulla fronte, lungo il bordo della fasciatura e sul labbro superiore. Gliele asciugò ancora, e stava per prendergli altra acqua, quando lui disse: - Mi ami? Ebbe un attimo di esitazione. - Sì -. Nessun’altra risposta sarebbe stata possibile. Inoltre, in quel momento, era vero. Luc era un bravo ragazzo lontano dalla famiglia, e stava per morire. Gli diede un po’ d’acqua. Mentre gli asciugava di nuovo il viso, lui disse: - Sei mai stata nel Causse de Larzac? - No, non ci sono mai stata. Ma lui non si offrì di accompagnarla. Volse invece la testa sul cuscino, e poco dopo aveva già ripreso a bisbigliare le sue mezze frasi incomprensibili. La stretta della mano rimaneva forte, come se fosse consapevole della presenza di lei. Quando tornò lucido, si voltò e le disse: - Non andartene ancora. - Certo che no. Rimango con te. - Tallis... Senza smettere di sorridere, socchiuse gli occhi. All’improvviso, si drizzò di scatto, come percorso da una scossa elettrica partita dalle gambe. La fissava sorpreso, le labbra semiaperte. Poi si tuffò in avanti come se volesse scagliarsi addosso a lei. Briony balzò dalla sedia per impedirgli di finire a terra. Lui le teneva ancora la mano, e il suo braccio libero le cingeva il collo. Briony temette che le compresse di garza potessero scivolargli dalla testa. Pensò che non avrebbe retto il peso del ragazzo e nemmeno la vista della sua ferita un’altra volta. Aveva nelle orecchie quel rantolo proveniente dal fondo della gola. Barcollando, lo adagiò sul letto sistemandolo come prima sui cuscini. - Mi chiamo Briony, - disse, in modo che solo lui potesse sentirla. 280
Gli occhi del ragazzo erano spalancati dallo stupore e la sua pelle cerea luccicava sotto la luce elettrica. Lei si avvicinò e gli appoggiò le labbra su un orecchio. Dietro di lei c’era qualcuno; poi, una mano le si posò sulla spalla. - Non mi chiamo Tallis. Sono Briony, - sussurrò, mentre la mano si distese fino a raggiungere le sue e a sfilarle dalle dita del ragazzo. - Si può alzare adesso, infermiera Tallis. La caposala Drummond la prese per un gomito e l’aiutò a mettersi in piedi. Le gote della donna erano accese, e lungo lo zigomo la sua pelle passava bruscamente dal colorito roseo al bianco. Sul lato opposto del letto, un’infermiera tirò il lenzuolo sul viso di Luc Cornet. Contraendo le labbra, la caposala raddrizzò il colletto di Briony. - Brava, ragazza mia. Ora vada a lavarsi il sangue dalla faccia. Non vogliamo certo scombussolare gli altri pazienti. Briony obbedì e si recò nei bagni a lavarsi la faccia con l’acqua fredda; qualche minuto dopo già tornava al lavoro in reparto. Alle quattro e mezza le tirocinanti furono mandate in dormitorio a riposare, con l’ordine di ripresentarsi alle undici. Briony si allontanò con Fiona. Nessuna delle due aprì bocca, e quando si presero sottobraccio, pareva che, dopo l’esperienza di un’intera vita, intendessero terminare la loro passeggiata sul Westminster Bridge. Non sarebbero riuscite a descrivere il tempo trascorso nei reparti ne come le avesse cambiate. Era già abbastanza essere in grado di procedere lungo i corridoi vuoti dietro altre ragazze. Dopo che si furono augurate la buonanotte e furono entrate nelle rispettive stanzette, Briony trovò una lettera sul pavimento. La grafia sulla busta non le era familiare. Una delle ragazze doveva averla presa giù in guardiola e avergliela infilata sotto la porta. Anziché aprirla subito, Briony si spogliò e si preparò per coricarsi. Sedette sul letto in camicia da notte con la lettera in grembo, e pensò al ragazzo. L’angolo di cielo visibile dalla sua finestra era già chiaro. Le pareva di sentire ancora la sua voce, il modo in cui l’aveva chiamata Tallis, trasformando il suo cognome in un nome da ragazza. Fantasticò su quell’impossibile futuro: la boulangerie in una stradina ombrosa affollata di gatti randagi, la musica del pianoforte che arrivava da una finestra del primo piano, sua cognata che ridendo la prendeva in giro per l’accento straniero, e Luc Cornet che l’amava nel suo 281
modo impetuoso. Avrebbe voluto piangere per lui, e per la sua famiglia a Millau, in attesa di avere notizie. Ma non sentiva assolutamente nulla. Era svuotata. Restò seduta per quasi mezz’ora, come intontita, e alla fine, esausta senza avere sonno, si legò i capelli con un nastro come faceva sempre, si mise a letto e aprì la lettera. Gentile signorina Tallis, grazie di averci inviato Due figure vicino a una fontana, e la prego di accettare le nostre scuse per il ritardo con il quale le rispondiamo. Come certamente saprà, sarebbe inconsueto da parte nostra pubblicare il racconto lungo completo di un autore sconosciuto, come del resto di uno affermato. Tuttavia, abbiamo considerato l’ipotesi di utilizzarne un brano. Sfortunatamente non siamo in grado di farlo. Le restituisco pertanto il dattiloscritto in un pacco a parte. Detto questo, ci siamo trovati (inizialmente a dispetto di ogni buonsenso, dal momento che in questo ufficio c’è molto da fare) a leggere il suo racconto con grande interesse. Pur non potendo offrirci di pubblicarlo nemmeno in parte, abbiamo ritenuto importante farle sapere che in redazione siamo in parecchi a voler seguire con interesse i prossimi sviluppi del suo lavoro. Non siamo soddisfatti dell’età media dei nostri collaboratori e saremmo lieti di pubblicare giovani autori promettenti. Ci farebbe piacere leggere la sua produzione, specie se dovesse cimentarsi nel racconto breve. Abbiamo trovato Due figure vicino a una fontana abbastanza avvincente da farsi leggere con assorta attenzione. Non lo dico con leggerezza. Scartiamo moltissimo materiale, in parte anche di scrittori noti. Ci sono immagini felici - personalmente ho apprezzato «l’erba alta inseguita dal giallo leonino dell’estate piena» -; lei riesce inoltre a catturare i flussi di pensiero, rappresentandoli in modi sottilmente diversi al fine di tentare una caratterizzazione dei vari personaggi. Il suo scritto riesce a cogliere qualcosa di enigmatico e di unico. Tuttavia, ci siamo domandati se il debito con le tecniche della signora Woolf non fosse eccessivo. La cristallina purezza del momento presente è senz’altro un tema degno di per sé, specialmente in ambito poetico; consente all’autore di mettere in luce il proprio talento, di sondare i misteri della percezione, di presentare una versione stilizzata dei processi mentali, di esplorare le stravaganze e l’imprevedibilità dell’io e così via. 282
Chi può mettere in dubbio il valore di tale sperimentazione? Ciononostante, questo modo della scrittura può rivelarsi affettato laddove il lettore non avverta la sensazione di un procedere. Rovesciando i termini della questione, un’implicita quanto semplice tensione narrativa avrebbe saputo tener viva la nostra attenzione in modo più efficace. Uno sviluppo e irrinunciabile. Facciamo l’esempio della ragazzina alla finestra, di cui in prima battuta seguiamo
il
racconto
della
vicenda:
la
sua
fondamentale incapacità
di
comprendere la situazione è ben delineata. Come pure la conseguente decisione, e il suo senso di iniziazione ai misteri del mondo adulto. Ci ritroviamo testimoni del nascere della personalità di questa giovinetta. Siamo incuriositi dalla sua volontà di abbandonare fiabe, leggende e drammi fatti in casa (come sarebbe stato bello però, poterne gustare un esempio), ma nella foga di disfarsi per così dire dell’acqua sporca del racconto popolare, sembra che l’autrice possa aver distrattamente gettato via anche il bambino, inteso come tecnica narrativa. A dispetto di un buon ritmo di scrittura e di certe felici osservazioni, non accade granché, dopo un inizio tanto promettente. Due giovani, un uomo e una donna con parecchie questioni in sospeso sul piano sentimentale, si incontrano accanto a una fontana, si contendono un vaso Ming e lo rompono. (Più di uno tra noi ritiene peraltro i vasi Ming davvero troppo inestimabili per essere portati disinvoltamente
all’aperto.
Non
sarebbe
forse
bastato
un
Sevres
o
un
Nymphemburg?) La donna entra completamente vestita nella fontana allo scopo di recuperare i cocci. Non sarebbe d’aiuto se la ragazzina non si rendesse conto, osservando la scena, che il vaso in effetti si e rotto? Risulterebbe ancora più misteriosa ai suoi occhi la decisione da parte della donna di tuffarsi sott’acqua. Sono talmente numerosi i possibili sviluppi della sua vicenda, ma lei dedica decine di pagine alla qualità della luce e dell’ombra, oltre che a impressioni casuali. Poi abbiamo il resoconto dei fatti dai punti di vista rispettivamente dell’uomo e della donna, scoprendo tuttavia ben poco che non sapessimo già. Ci toccano invece altre descrizioni tattili e visive degli oggetti, e qualche ricordo irrilevante. L’uomo e la donna si separano, lasciano sul terreno una chiazza bagnata che ben presto evapora: e siamo arrivati alla fine. La qualità statica del racconto non rende merito al suo indiscutibile talento. Se la ragazzina ha frainteso in modo così netto, ovvero e rimasta tanto 283
sconcertata, dal breve episodio insolito verificatosi davanti ai suoi occhi, come può influire tutto ciò sulle vite di due adulti? Potrebbe forse la giovinetta frapporsi tra i due in maniera disastrosa? O magari avvicinarli di più, vuoi per calcolo, vuoi per caso? Non potrebbe magari smascherarli di fronte ai genitori della giovane donna? I quali di certo non approverebbero un rapporto tra la loro primogenita e il figlio della domestica. O forse invece la giovane coppia non potrebbe usare la ragazza come messaggera? In altre parole, anziché indugiare tanto a lungo sulle sensazioni dei tre personaggi, non sarebbe possibile presentarceli in forma più stringata, pur mantenendo certi passaggi intensi su luce, pietre e acqua con i quali lei si trova tanto a suo agio - per poi tuttavia procedere verso una tensione, un po’ di luci e ombre all’interno del racconto stesso? I suoi lettori più sofisticati potranno anche essere aggiornatissimi sugli sviluppi delle teorie bergsoniane in materia di coscienza, ma sono certo che conservano un inalterato desiderio infantile di sentirsi raccontare una storia, di provare un senso di attesa, di scoprire che cosa accade dopo. Per inciso, dalla sua descrizione, il Bernini al quale fa riferimento il suo testo e quello in piazza Barberini e non in piazza Navona. A dirla in parole semplici, le occorre la spina dorsale di una storia. Potrà interessarla sapere che una delle sue avide lettrici e stata la signora Elizabeth Bowen. Si e presa il plico del suo dattiloscritto passando per caso dall’ufficio mentre andava a colazione; le è stato chiesto di leggerlo, e l’ha divorato quel pomeriggio stesso. In un primo tempo ha trovato la sua prosa «troppo ricca, troppo stucchevole», ma con qualche tocco nello stile di Risposte nella polvere in grado di riscattarla (devo ammettere che io non ci sarei mai arrivato). Ha poi avuto una fase di «innamoramento», e infine ci ha consegnato alcuni appunti, in pratica condensati in quanto sopra. Lei potrà ritenersi perfettamente soddisfatta delle sue pagine così come sono, oppure le nostre riserve potranno riempirle l’animo di una collera inestinguibile, o di un’angoscia che le toglierà la voglia di riprendere mai più in mano lo scritto. In tutta sincerità speriamo di no. Il nostro desiderio e che lei possa interpretare questi commenti - offerti nello spirito di un autentico entusiasmo - come lo spunto per un’altra stesura del racconto. La sua lettera di accompagnamento era ammirevolmente laconica, ma non mancava in essa un accenno al fatto che ora come ora dispone di pochissimo 284
tempo libero. Qualora la situazione si modificasse, e le capitasse di passare da queste parti, saremmo più che lieti di incontrarla per discutere ulteriormente la questione, magari davanti a un bicchiere di vino. Speriamo di non averla scoraggiata. Potrà confortarla sapere che di norma le nostre lettere di rifiuto non contano più di tre righe. Lei si scusa, en passant, di non aver scritto sul tema della guerra. Le invieremo una copia dell’ultimo numero della nostra rivista, contenente un importante edito riale. Come vedrà, non crediamo che un artista abbia l’obbligo di assumere una posizione nei confronti del conflitto. Anzi, ci pare saggio e corretto ignorare l’argomento per dedicarsi ad altri temi. Poiché gli artisti sono soggetti impotenti sul piano politico, essi devono sfruttare questo periodo per crescere in termini di emotività più profonde. Il suo compito, il suo dovere militante, consiste nel coltivare il suo talento seguendo la direzione da esso indicata. La guerra, come abbiamo affermato, è il nemico giurato della creatività. Il suo indirizzo suggerisce che lei possa essere un medico o soffrire di una lunga malattia. Nella seconda ipotesi, tutti noi le auguriamo una rapida e completa guarigione. Infine, uno dei nostri collaboratori si domanda se lei abbia per caso una sorella maggiore, studentessa al Girton College sei o sette anni fa. Cordiali saluti, CC Nei giorni successivi, il ritorno a un rigoroso sistema di turni annullò il senso di sospensione temporale provocato da quelle prime ventiquattro ore. Briony considerò una fortuna che le fosse stato assegnato il turno dalle sette alle venti, con pause di mezz’ora per i pasti. Quando suonava la sveglia, alle cinque e quarantacinque, emergeva da un pozzo di soffice sfinimento, e nei parecchi secondi di nebbia che seguivano, tra il sonno e la veglia completa, a poco a poco si rendeva conto di aspettarsi qualcosa di emozionante, una gioia, o un cambiamento significativo. Era così svegliarsi da bambina il giorno di Natale: il brivido assonnato, poi il ricordo di ciò che lo aveva prodotto. Con gli occhi ancora chiusi per difenderli dall’abbagliante luce estiva nella stanza, cercava a tentoni il 285
pulsante dell’orologio e risprofondava nel cuscino. A quel punto le tornava in mente ogni cosa. L’opposto puro di una mattina di Natale, in effetti. L’opposto puro di tutto. L’invasione tedesca era ormai prossima. Lo dicevano tutti, dagli inservienti
che
stavano
allestendo
una
loro
specifica
unità
ospedaliera
denominata Volontari per la Difesa Nazionale, allo stesso Churchill, che dipingeva il pericolo di un paese completamente soggiogato e alla fame, con la sola Royal Navy ancora libera. Briony sapeva che sarebbe stato tremendo, che nelle strade ci sarebbero stati combattimenti corpo a corpo e pubbliche impiccagioni, una discesa agli inferi fatta di schiavitù e distruzione di ogni convivenza civile. Eppure, seduta sul bordo del letto sfatto e ancora tiepido, mentre si tirava su le calze, non poteva impedirsi di provare un’ebbrezza inconfessabile. Come tutti continuavano a ripetere, ormai la nazione era rimasta sola, ed era molto meglio così. Le cose avevano già assunto un aspetto diverso: il motivo a fiordalisi sul sacchetto della biancheria, la cornice in gesso sbrecciato dello specchio, la sua faccia che vi si rifletteva quando si spazzolava i capelli, sembrava tutto più nitido, più a fuoco. Il pomello girevole della porta risultava fastidiosamente freddo e duro al tatto. Uscire in corridoio e udire uno scalpiccio in lontananza, le faceva venire in mente il passo pesante degli stivali tedeschi al pensiero dei quali le sue viscere si contraevano. Prima di colazione aveva un paio di minuti per se che trascorreva sul vialetto lungo il fiume. Anche a quell’ora, sotto il cielo sereno, l’acqua fresca della marea scintillava di un luccichio feroce scivolando oltre l’ospedale. Era davvero possibile che i tedeschi si impadronissero del Tamigi? Il nitore visivo e tattile di ogni oggetto circostante, la chiarezza dei suoni, non erano certo dovuti al rinnovamento stagionale ne al rigoglio di quella prima estate; era piuttosto la consapevolezza acuta di una conclusione ormai prossima, di fatti convergenti verso un punto finale. Briony sentiva di vivere giorni estremi che si sarebbero impressi indelebilmente nella sua memoria. Quella luce vivissima, quel susseguirsi di giornate di bel tempo, rappresentavano l’ultimo guizzo della storia prima dell’inizio di una nuova era. Non bastavano i primi lavori del mattino - il locale-lavaggio, la consegna del te, il giro delle medicazioni -, ne il rinnovato contatto con i danni irreparabili della guerra, ad appannare la trasparenza
di
quella
sensazione.
Condizionava 286
ogni
gesto,
rimanendo
immancabilmente sullo sfondo. E conferiva un’urgenza speciale al suo progetto. Briony sentiva di avere poco tempo a disposizione. I tedeschi, pensava, potevano arrivare da un momento all’altro, e allora non avrebbe più avuto un’altra opportunità. Giungevano pazienti nuovi ogni giorno, anche se non più in massa. Il sistema incominciava a funzionare e c’era un letto vuoto per ognuno. I casi da sottoporre a intervento veni vano preparati per le sale chirurgiche situate nel seminterrato. La maggior parte dei degenti veniva smistata su ospedali periferici per un periodo di convalescenza. I decessi erano numerosi e non rappresentavano più un dramma per le tirocinanti, solo l’ordinaria amministrazione: si tirava il paravento intorno al mormorio del cappellano militare, si copriva il volto col lenzuolo, arrivavano gli inservienti, si sfaceva il letto e lo si preparava per il paziente successivo. I morti sbiadivano l’uno nell’altro a tale velocità che la faccia del sergente Mooney diventava quella del soldato Lowell, ed entrambi scambiavano le loro ferite mortali con quelle di altri uomini di cui nemmeno si ricordava il nome. Ora che la Francia era caduta, ci si aspettava che sarebbero presto incominciati i bombardamenti su Londra, le strategie di indebolimento. Nessuno che non ne avesse autentica necessità voleva trattenersi in città. Si procedette ad aumentare i sacchi di sabbia alle finestre dei piani bassi degli edifici, mentre gli impresari civili salivano sui tetti per controllare la robustezza dei comignoli e dei lucernari murati. Si fecero svariate prove di evacuazione dei reparti, con fischietti e comandi urlati. Non mancarono le esercitazioni antincendio, e le prove di adunata, nonché le applicazioni di maschere antigas a pazienti disabili o incoscienti. Venne ricordato alle infermiere l’obbligo di indossare loro stesse la maschera per prime. Non vivevano più nel terrore della Drummond. Dopo la violenta iniziazione, la caposala aveva smesso di trattarle come scolarette. Il tono, quando impartiva istruzioni, era freddo, ma di una compostezza professionale che le lusingava. In questa nuova atmosfera fu relativamente facile per Briony accordarsi per uno scambio di giorno libero con Fiona, che rinunciò generosamente al suo sabato in cambio di un lunedì. A causa di certi pasticci burocratici, alcuni soldati rimasero a trascorrere la convalescenza in ospedale. Una volta smaltita la stanchezza, ripresa l’abitudine a consumare pasti regolari e recuperato un po’ di peso, il loro umore si faceva acido 287
e scontroso, anche tra chi non si era guadagnato invalidità permanenti. Si trattava perlopiù di uomini della fanteria. Stavano sdraiati sul letto a fumare, fissando in silenzio il soffitto, assorti nei loro ricordi recenti. Oppure si radunavano a parlare in piccoli gruppi sediziosi. Erano disgustati di se stessi. Alcuni raccontarono a Briony di non aver mai sparato un colpo. Ma soprattutto ce l’avevano con i pezzi grossi e con gli ufficiali che li avevano abbandonati durante la ritirata, e con i francesi per aver capitolato senza combattere. Erano amari con la stampa che celebrava il miracolo dell’evacuazione e l’eroismo delle piccole imbarcazioni private. - È stata una carneficina, porca troia, - li udiva mormorare. – ’Sti stronzi della RAF. Certi uomini erano decisamente sgarbati e si rifiutavano di collaborare con le terapie, essendo riusciti a confondere i contorni che distinguevano i generali dalle infermiere. Ai loro occhi, entrambe le categorie manifestavano un autoritarismo scriteriato. Per rimetterli in riga occorreva una visita della caposala Drummond. Quel sabato mattina Briony lasciò l’ospedale alle otto senza colazione e si incamminò in direzione opposta alla corrente, con il fiume che l’accompagnava sulla destra. Mentre superava i cancelli di Lambeth Palace, vide passare tre autobus. Le targhe che ne indicavano la destinazione erano state ormai tutte abolite. Tattica per confondere il nemico. A lei non importava perché aveva comunque deciso di percorrerla a piedi. Il fatto che avesse memorizzato il nome di certe strade non le fu di alcun aiuto. I cartelli erano stati tutti eliminati o coperti. L’idea vaga era quella di procedere per circa tre chilometri lungo il fiume e di piegare poi a sinistra, vale a dire a sud. Carte e piante della città erano state quasi tutte confiscate. Alla fine era riuscita a procurarsi in prestito una vecchia cartina degli autobus del 1926. Era strappata lungo le linee delle piegature, una delle quali attraversava proprio la strada che intendeva prendere. Aprirla significava correre il rischio di mandarla in pezzi. Inoltre, Briony era in ansia per l’impressione che avrebbe potuto dare. Sui giornali si leggevano storie di paracadutisti tedeschi travestiti da infermiere e da monache che vagavano per la città, infiltrandosi tra la popolazione. Per identificarli si faceva caso alle carte che di quando in quando si fermavano a consultare, alle domande che rivolgevano ai passanti in un inglese troppo impeccabile e alla loro ignoranza delle più comuni 288
filastrocche. Una volta messasi in testa quell’idea, Briony non poté più smettere di pensare che doveva apparire estremamente sospetta. Aveva creduto che la divisa la proteggesse mentre si avventurava in territorio sconosciuto. Ed ecco che invece le dava un’aria da spia. Camminando in direzione opposta al traffico mattutino, Briony passò in rassegna le filastrocche che ricordava. Erano pochissime quelle che avrebbe saputo recitare fino in fondo. Davanti a lei, un lattaio era smontato dal carro per stringere le cinghie al cavallo. Quando gli si avvicinò lo udì mormorare qualcosa all’animale. Per un attimo, mentre sostava dietro di lui e si schiariva educatamente la voce, le tornò in mente il ricordo del vecchio Hardman e del suo calesse. Chiunque avesse ora più o meno settant’anni, avrebbe avuto la sua età nel 1888. Ancora l’epoca dei cavalli, perlomeno sulle strade, e i vecchi non si rassegnavano a considerarla finita. Quando gli chiese indicazioni, il lattaio si mostrò abbastanza cortese e, con un lungo giro di parole poco chiaro, le indicò il percorso. Era un uomo massiccio, con la barba bianca macchiata dal tabacco. Soffriva di un problema di adenoidi a causa del quale le parole gli uscivano lente dalle narici in un mormorio ininterrotto. Le indicò con la mano un bivio sulla sinistra, sotto un ponte della ferrovia. A Briony pareva troppo presto per svoltare abbandonando il lungofiume, ma si incamminò con la sensazione che lui la stesse seguendo con lo sguardo e pensò che sarebbe stato scortese ignorare i suoi suggerimenti. Forse quel bivio era una scorciatoia. La sorprese constatare la propria goffa insicurezza, dopo tutto quello che aveva imparato e visto coi suoi occhi. Si sentiva un’inetta; trovarsi fuori da sola, anziché come parte di un gruppo, la metteva in ansia. Da mesi conduceva un’esistenza chiusa, scandita da un orario preciso. Conosceva il proprio ruolo modesto all’interno del reparto. A mano a mano che la sua professionalità aumentava, le diventava anche più facile prendere ordini e seguire procedure, rinunciando a pensare di testa sua. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che aveva fatto qualcosa da sola. Non accadeva dalla settimana a Primrose Hill, trascorsa a battere a macchina il racconto: e quanto appariva sciocca ormai quell’emozione. Mentre attraversava il sottopassaggio, transitò un treno. Il ritmico frastuono 289
rimbombante le penetrò nelle ossa. Acciaio in chiassosa corsa su acciaio, ampie lastre di metallo bullonato nel buio sopra la sua testa, il varco misterioso di una porta scavata nella galleria di mattoni, possenti tubazioni assicurate a staffe arrugginite, per portare chissà cosa, chissà dove: invenzioni di tanta brutalità appartenevano a una razza di superuomini. Lei nel frattempo sfregava pavimenti e assicurava fasciature. Aveva davvero la forza di intraprendere quel viaggio? Quando Briony emerse dal ponte, entrando in un cono di polverosa luce del mattino, il treno stava rallentando in un innocuo sferragliare da stazione periferica. Quello che le occorreva, si ripeté per l’ennesima volta, era spina dorsale. Superò un piccolo parco municipale dotato di campo da tennis sul quale due uomini in completo sportivo palleggiavano con pigra sicurezza, riscaldandosi per una partita. Due ragazze in calzoncini kaki sedevano su una panca li vicino leggendo una lettera. Briony ripensò alla propria, a quel messaggio di rifiuto addolcito da una spolverata di zucchero. Se l’era tenuta in tasca durante il turno di lavoro e la seconda pagina ci aveva guadagnato una macchia granchiforme di acido fenico. Leggendola, era arrivata a capire come, al di là delle intenzioni, la lettera contenesse un’importante accusa rivolta alla sua persona. Potrebbe forse la giovinetta frapporsi tra i due in maniera disastrosa? Certamente sì. E, dopo averlo fatto, era possibile che cercasse di nascondere la propria colpa ideando un intreccio vago e nemmeno troppo brillante e che lo inviasse a una rivista per soddisfare la sua vanità? Le interminabili pagine su luce, acqua e sassi, la narrazione suddivisa in tre diversi punti di vista, l’incombente immobilità dove non sembrava dover succedere mai granché: nulla di tutto questo poteva mascherare la sua vigliaccheria. Aveva davvero pensato di potersi nascondere dietro a qualche teoria letteraria di seconda mano, e di poter annegare la propria colpa in un flusso - anzi, in tre flussi! - di coscienza? Le scappatoie adottate nel suo breve romanzo erano esattamente le stesse che aveva applicato nella vita. Tutto ciò che non aveva voluto affrontare nella realtà risultava altrettanto assente nel racconto, a cui invece sarebbe stato necessario. Che poteva fare a questo punto? Non era la spina dorsale di una storia a farle difetto. Era la spina dorsale e basta. Si lasciò alle spalle il piccolo parco, e costeggiò un modesto stabilimento i cui 290
rombanti macchinari facevano vibrare il marciapiede. Impossibile stabilire cosa si potesse produrre dietro a quei finestroni luridi, o come mai dall’unica snella ciminiera di alluminio fuoriuscisse un denso fumo giallo e nero. Di fronte, in posizione diagonale rispetto all’angolo della via, le doppie porte spalancate di un pub suggerivano l’idea di un fondale di scena. All’interno, dove un bel ragazzo dallo sguardo pensoso stava svuotando i posacenere in un secchio, aleggiava ancora l’aria azzurrina della sera precedente. Due uomini in grembiule di cuoio facevano rotolare giù per una rampa dei barili di birra, dopo averli scaricati da un barroccio. Briony non aveva mai visto tanti cavalli per strada. L’esercito doveva aver requisito tutti gli automezzi. Qualcuno stava aprendo la botola della cantina dall’interno. Gli uomini battevano sul marciapiede sollevando nuvole di polvere; uno di loro, un tale con la chierica le cui gambe stavano sotto il livello della strada, si interruppe per voltarsi a guardarla. Le parve una specie di gigantesco pezzo degli scacchi. Anche i carrettieri la guardavano, e uno le rivolse un fischio di apprezzamento. - Tutto bene, tesoro? Non che le desse fastidio il gesto, ma non aveva idea di come rispondere. Si, grazie, e voi? Si limitò a sorridere, lieta di potersi avvolgere tra le pieghe della mantellina. Tutti, rifletté, pensavano all’invasione, ma non c’era altro da fare che continuare a vivere. Anche se fossero arrivati i tedeschi, la gente avrebbe comunque continuato a giocare a tennis, a spettegolare, e a bere birra. Forse sarebbero cessati i fischi di apprezzamento. La strada svoltava restringendosi e il traffico intenso che la percorreva si faceva più rumoroso, mentre il fumo caldo degli scarichi le arrivava in faccia. Una schiera di case vittoriane in mattone rosso vivo si affacciava direttamente sul marciapiede. Una donna con addosso un grembiule in tessuto fantasia ramazzava con assurdo vigore lo spiazzo davanti alla porta di casa da cui proveniva l’odore di fritto della colazione. Si fece indietro per lasciar passare Briony, giacché in quel punto la via era stretta, ma liquidò il suo buongiorno con un’occhiata brusca. In direzione opposta veniva ora una donna con quattro bambini dalle orecchie a sventola carichi di valigie e zaini. I ragazzini facevano chiasso e prendevano a calci una vecchia scarpa. Ignorarono lo stanco imperativo della madre e Briony fu costretta a farsi di lato 291
cedendo loro il passo. - Piantatela, voialtri! Fate passare l’infermiera. Quando li superò, la donna le rivolse un sorriso sbilenco di dolenti scuse. Le mancavano due incisivi. Si era messa un profumo penetrante e teneva tra le dita una sigaretta spenta. - Sono tanto contenti di andare in campagna, sa? Mai stati prima, ci crede? Briony replicò: - Buona fortuna. Spero che capitiate in una brava famiglia. La donna, che aveva a sua volta orecchie sporgenti anche se parzialmente nascoste dal caschetto dei capelli, diede in uno scoppio allegro di risa. - Quelli manco lo sanno a cosa vanno incontro! Infine, Briony giunse alla confluenza di alcune strade malconce che, secondo il frammento del suo stradario, dovevano annunciare Stockwell. Dominava la via una casamatta pattugliata da un manipolo di Home Guards con un solo fucile tra tutti. Un uomo anziano in cappello floscio, tuta e fascia intorno al braccio, con guance cascanti come quelle di un bulldog, si staccò dal gruppo e le chiese di mostrargli un documento. Poi, in modo autoritario, le fece segno di proseguire. Briony pensò bene di non chiedergli indicazioni. A suo giudizio, avrebbe dovuto procedere dritta su Clapham Road per circa tre chilometri. Ora i passanti erano diminuiti e il traffico andava diradando, mentre la via era più ampia della precedente. Si udiva solo lo sferragliare di un tram in partenza. Nei pressi di un elegante condominio edoardiano adeguatamente ritirato rispetto alla strada, Briony si concesse un paio di minuti di sosta su un parapetto, all’ombra di un platano, e si tolse la scarpa per controllare la vescica che aveva sul tallone. Un convoglio di autocarri da tre tonnellate transitò diretto a sud, fuori città. Automaticamente, Briony lanciò uno sguardo ai cassoni posteriori quasi aspettandosi di intravedere dei feriti. Ma c’erano solo casse di legno. Quaranta minuti più tardi raggiunse la stazione di Clapham Common. Una tozza chiesa in pietra grezza risultò chiusa. Briony estrasse la lettera del padre e tornò a leggerla. La commessa di un negozio di scarpe la indirizzò verso il parco rionale. Ma anche dopo aver attraversato la strada e aver tagliato per il prato, in un primo tempo Briony non vide la chiesa che cercava. Era seminascosta dalle chiome degli alberi, e poi appariva diversa da come se l’era aspettata. Aveva 292
immaginato la scena di un delitto, una cattedrale gotica, le cui volte imponenti sarebbero state inondate dalla densa luce rossa e violetta filtrata da vetrate spettrali. Mentre quella che apparve tra le fronde fresche degli alberi pareva un elegante edificio in mattoni, simile a un tempio greco, con tetto in tegole nere, finestre in normale vetro trasparente, e un portico basso sostenuto da colonne bianche sotto una torre campanaria di gradevoli proporzioni architettoniche. Parcheggiata fuori, di fronte al portico, stava una lucida Rolls Royce nera. La portiera del guidatore era socchiusa, ma non si vedeva nessun autista. Superando l’auto, Briony sentì il caldo del radiatore, intimo come il calore di un corpo, e udì un clic metallico. Salì gli scalini e spinse il pesante portone borchiato. L’aroma dolciastro di legno incerato, il profumo umido della pietra, erano quelli di una chiesa qualunque. Già mentre si voltava per accostare piano la porta, Briony si era resa conto che la navata era quasi vuota. Le parole del celebrante risuonavano in contrappunto alla loro eco. Briony si fermò sulla porta, parzialmente nascosta dal fonte battesimale, in attesa di adattare occhi e orecchie al nuovo ambiente. Poi avanzò verso l’ultimo banco e scivolò fino in fondo, in un posto da cui ancora riusciva a scorgere l’altare. Era stata presente a parecchi matrimoni di famiglia, anche se era ancora troppo piccola al tempo delle grandiose nozze di zio Cecil e zia Hermione presso la cattedrale di Liverpool. Della zia riusciva ora a distinguere in prima fila la sagoma e l’elaborata foggia del cappello. Accanto a lei stavano Pierrot e Jackson, cresciuti in altezza di una dozzina di centimetri, e stretti in mezzo ai profili dei genitori separati. Sull’altro lato della navata stavano invece tre membri della famiglia Marshall. L’assemblea non contava altri fedeli. Una cerimonia privata. Nessun giornalista mondano. La presenza di Briony non era prevista. Le parole del rito le erano abbastanza note da permetterle di sapere che non si era persa il momento cruciale. - In secondo luogo, a rimedio di tutti i peccati e al fine di evitare la fornicazione, il Signore concede a coloro che non posseggono il dono della castità di unirsi in matrimonio e di conservarsi membri immacolati del corpo eucaristico di Cristo. Rivolta verso l’altare e incorniciata dalla solenne figura in paramenti bianchi del sacerdote, stava la coppia di sposi. 293
Lei era in bianco, nel rispetto assoluto della tradizione, e per quanto Briony riusciva a indovinare da dietro, indossava un lungo velo. Portava i capelli raccolti in un’unica treccia infantile che le poggiava sull’intera lunghezza della colonna vertebrale, appena visibile sotto la massa spumeggiante di tulle e di organza. Marshall stava eretto, e le spalle imbottite del tight disegnavano un profilo geometrico contro la cotta del celebrante: - In terzo luogo, a sostegno della loro vita in comune, e stabilito che ciascuno sia per l’altro di aiuto e di conforto, che ciascuno abbia nell’altro... Briony si sentì assalire dai ricordi, dettagli dolorosi come aghi, come un improvviso sfogo cutaneo, come sabbia sotto le unghie: ecco Lola che entrava in lacrime in camera sua, i polsi lividi ed escoriati, i graffi sulla sua spalla e sulla faccia di Marshall; il silenzio di Lola nel buio sulla riva del lago, quando aveva permesso alla cugina, una bimbetta zelante, ridicola e sa il cielo quanto smorfiosa, che non distingueva la vita vera dalle storie di sua invenzione, di regalare l’impunità all’aggressore. Povera sciocca e fragile Lola con il suo girocollo di perle e il profumo all’acqua di rose; non vedeva l’ora di gettarsi alle spalle gli ultimi avanzi d’infanzia, e per salvare se stessa dall’umiliazione, decise di innamorarsi, o si persuase a farlo, e non poteva capacitarsi della buona sorte che le era toccata quando Briony insistette di voler essere lei a parlare e a lanciare accuse. E che fortuna per Lola - violata e presa ancora quasi bambina -, che fortuna potersi sposare con il suo stupratore. - ... Pertanto, se qualcuno di voi può addurre un valido motivo per cui non possano essere uniti legalmente in matrimonio, parli adesso, o taccia per sempre. Stava davvero accadendo? Era davvero sul punto di alzarsi, uscire dal banco e, con gambe malferme, viscere in subbuglio e cuore in gola, procedere fino al centro della navata per poi esporre le proprie ragioni, articolare la sua giusta causa con voce stentorea e ferma, avanzando in mantellina e copricapo da infermiera, come una sposa di Cristo, verso l’altare, verso il sacerdote stupefatto a cui, nella sua lunga carriera, non era mai capitato di essere interrotto, e verso l’assemblea dei fedeli col capo rivolto all’indietro e la pallida coppia di sposi girati a guardarla? Non l’aveva programmato, ma quella domanda presente nel rito e di cui si era del tutto scordata, aveva agito come una provocazione. E di quali impedimenti si parlava poi con esattezza? Ecco l’occasione per 294
affermare in pubblico tutta la sua intima angoscia, e per espiare il male che aveva commesso. Davanti all’altare di quella razionalissima chiesa. Ma lividi e graffi erano ormai guariti da un pezzo, mentre ogni sua dichiarazione passata sosteneva una tesi contraria. Del resto, la sposa non mostrava affatto un’aria da vittima, e godeva del consenso dei genitori. Molto più di un consenso, anzi: un industriale del cioccolato, nientemeno che l’inventore della barretta Amo. La zia Hermione si stava probabilmente fregando le mani. Che Paul Marshall, Lola Quincey e lei, Briony Tallis, avessero cospirato con i loro silenzi e le false testimonianze finendo per spedire in carcere un innocente? No, le parole che lo avevano condannato erano state soltanto di Briony, lette a voce alta in suo nome nel Tribunale della Contea. La condanna era ormai stata scontata. Il debito saldato. Il verdetto restava valido. Seduta al suo posto, con il polso accelerato e le mani sudate, Briony chinò umilmente il capo. - Io vi chiedo e vi ingiungo, qui in presenza di Dio, poiché ne risponderete nel giorno del giudizio, quando i segreti di ogni cuore saranno rivelati, di confessare se l’uno o l’altra di voi conosce qualche motivo per cui non possiate essere uniti in matrimonio legalmente e in conformità alla parola di Dio. In base a qualunque stima, il giorno del giudizio risultava comunque parecchio lontano e, fino a quel momento, la verità che soltanto Marshall e la sua sposa conoscevano sarebbe rimasta saldamente murata nel mausoleo del loro matrimonio. Sepolta al sicuro nel buio, ben dopo la morte di tutte le persone anche lontanamente coinvolte nella vicenda. Ogni nuova parola nel rito aggiungeva una pietra alla costruzione del solenne edificio. - Chi concede questa donna in sposa a quest’uomo? Un gracile zio Cecil avanzò deciso, senza dubbio ansioso di compiere il proprio dovere per poi precipitarsi di nuovo al santuario sicuro di AH Souls a Oxford. Volendo cogliere ogni eventuale incertezza nelle loro voci, Briony ascoltò Marshall e Lola ripetere le parole del celebrante. Marshall le fece esplodere senza espressione, mentre Lola le formulò con pacata dolcezza. Quanta palese sensualità si irradiò dall’altare quando pronunciò la formula: - Con il mio corpo, io ti onoro. 295
- Preghiamo. A quel punto il profilo delle sei teste allineate nei primi banchi si abbassò e il sacerdote si tolse gli occhiali cerchiati di tartaruga, sollevò il mento e a occhi chiusi si rivolse alle potenze celesti con la sua dolente e sfinita cantilena. - Eterno Dio, creatore di ogni vita e dispensatore di ogni gioia, autore di vita eterna, concedi la tua benedizione a questi tuoi servi, quest’uomo e questa donna... Poggiata anche l’ultima pietra, il celebrante rimise gli occhiali, dichiarò gli sposi marito e moglie e invocò su di loro la benedizione della Trinità che dava nome alla sua chiesa. Seguirono altre orazioni, un salmo, il Padre nostro e un’ultima lunga preghiera i cui toni conclusivi si raccolsero in parole di malinconico commiato. - ... Possa il Signore concedervi il dono della sua grazia, benedirvi e santificarvi, affinché possiate onorarlo nella carne e nello spirito, e vivere uniti nell’amore finché morte non vi separi. Subito piovve dall’organo uno scroscio dolce di note mentre il parroco si apprestava a condurre la coppia lungo la navata centrale, e i sei membri delle rispettive famiglie si accodavano agli sposi. Briony, che si era inginocchiata fingendosi assorta in preghiera, si alzò rivolta al breve corteo. Il sacerdote, animato da una certa fretta, era già parecchio più avanti. Volgendo un’occhiata a sinistra e notando l’infermiera, il suo sguardo cortese e l’inclinazione del capo espressero al tempo stesso un gesto di benvenuto e un moto di curiosità. Poi proseguì, per andare ad aprire una delle pesanti porte. Una lingua obliqua di luce si infilò nella chiesa fino a raggiungere Briony e illuminarne il viso e l’acconciatura. Farsi vedere era nelle sue intenzioni, ma non in modo tanto violento. Ora nessuno avrebbe potuto non notarla. Lola, che procedeva sul lato di Briony, alzò gli occhi e i loro sguardi si incrociarono. Il velo era già sollevato. A parte la scomparsa delle efelidi, non era cambiata molto. Forse era solo un poco più alta e graziosa; il viso le si era addolcito acquisendo maggiore rotondità, e le sopracciglia erano state parecchio sfoltite. Briony si limitò a fissarla. Le bastava che Lola sapesse della sua presenza e se ne domandasse la ragione. Il sole negli occhi le impediva di vedere bene ma, per la frazione di un secondo, le parve di registrare un lieve moto di dispiacere sul volto della sposa. Poi Lola contrasse le 296
labbra, puntò avanti lo sguardo e si allontanò. Anche Paul Marshall l’aveva vista, ma non l’aveva riconosciuta, come pure zia Hermione e zio Cecil, che non la incontravano da anni. I gemelli invece, che chiudevano il corteo in un’uniforme scolastica dai calzoni troppo corti, furono felicissimi di vederla e si esibirono in smorfie di finto orrore per la divisa che indossava, e in sbadigli farseschi con tanto di mani battute sulle labbra. Poi, Briony rimase sola nella chiesa insieme all’organista invisibile che continuava a suonare per il proprio piacere. Era finito tutto troppo in fretta, e non era accaduto nulla di significativo. Rimase ferma al suo posto, incominciando a sentirsi un po’ sciocca, senza aver voglia di uscire. La luce del giorno e la banalità delle chiacchiere tra parenti avrebbero annullato ogni eventuale impatto emotivo causato dalla sua luminosa apparizione in veste di spettro. Inoltre, le mancava il coraggio per un confronto diretto. Del resto, come avrebbe potuto spiegare la propria presenza di ospite inatteso, a sua zia e a suo zio? Avrebbero potuto offendersi o, peggio ancora, avrebbero potuto non farlo e trascinarla al tormento di un rinfresco in albergo, presenti i neosposi signor e signora Marshall, grondanti odio, e la zia Hermione incapace di mascherare il proprio disprezzo per lo zio Cecil. Briony si attardò ancora un paio di minuti, come se a trattenerla fosse la musica, poi, irritata dalla sua vigliaccheria, si precipitò fuori nel portico. Il parroco era già cento metri lontano. Procedeva a passo deciso sul prato facendo ondeggiare le braccia. Gli sposi novelli erano a bordo della Rolls-Royce, con Marshall alla guida intento a fare manovra. Briony fu certa che l’avessero vista. Uno stridore metallico accompagnò il cambio di marcia: buon segno, forse. L’auto partì, e da un finestrino laterale Briony scorse la sagoma bianca di Lola stringersi al braccio del guidatore. Quanto al resto dei convenuti, si erano già dileguati tutti fra gli alberi. Dalla cartina sapeva che Balham stava all’estremità opposta del parco, nella direzione verso cui si era incamminato il parroco. Non era molto distante, e questo fatto da solo bastava a levarle la voglia di proseguire. Sarebbe arrivata troppo presto. Non aveva mangiato nulla, aveva sete e le doleva un tallone che si era incollato alla scarpa. Adesso faceva caldo, e si sarebbe trovata ad attraversare una vasta distesa di prato senz’ombra, interrotta solo da dritti sentieri asfaltati e 297
da rifugi antiaerei. In lontananza, intorno a un palco d’orchestra, vagavano uomini in uniforme blu scuro. Le venne in mente Fiona, a cui aveva sottratto il giorno libero, e ripensò al loro pomeriggio trascorso al St James’s Park. Le pareva un tempo remoto, un’età dell’innocenza, eppure erano passati appena dieci giorni. A quell’ora Fiona doveva essere al suo secondo giro di padelle. Briony rimase all’ombra del portico e rifletté sul piccolo dono che avrebbe portato all’amica: qualcosa di buono da mangiare, che so, una banana, delle arance, un po’ di cioccolato svizzero. Gli inservienti sapevano come procurarsi cose del genere. Li aveva sentiti dire che nulla era introvabile, bastava avere i soldi. Osservò la processione del traffico intorno al parco, lungo il suo tragitto, e pensò a cose da mangiare. Fette di prosciutto, uova in camicia, una coscia di pollo arrosto, un denso stufato irlandese, una torta al limone. Una tazza di tè. Si rese conto dell’irritante musica inquieta alle sue spalle nell’attimo in cui questa cessò, e nel silenzio improvviso che parve offrire una nuova occasione di libertà, decise che avrebbe fatto colazione. Non c’erano negozi in vista nella direzione che avrebbe dovuto prendere, solo una teoria monotona di case in mattoni arancione carico. Trascorsero alcuni minuti e l’organista uscì stringendo il cappello in una mano e un grosso mazzo di chiavi nell’altra. Avrebbe voluto chiedergli indicazioni per raggiungere il caffè più vicino, ma l’uomo le parve un tipo nervoso come la musica che suonava, e determinato a ignorarla mentre sbatteva la porta della chiesa e si chinava per chiuderla a chiave. Si ficcò in testa il cappello e si avviò frettolosamente. Forse quello fu il primo passo verso la rinuncia a portare a termine il suo progetto; fatto sta che già si incamminava sulla via del ritorno, in direzione di Clapham High Street. Doveva fare colazione, e ripensarci su. Nei pressi della stazione della metropolitana, superò un abbeveratoio di pietra nel quale avrebbe volentieri affondato la faccia. Si trovò un posticino anonimo dalle finestre sporche e il pavimento coperto di mozziconi di sigarette; in ogni caso il cibo non poteva essere peggiore di quello a cui era abituata. Ordinò del te e tre fette di pane tostato con margarina, e una marmellata di fragole di un rosa assai tenue. Ammucchiò zucchero dentro la tazza del tè, per far fronte a un attacco di ipoglicemia. 298
La dolcezza della bevanda non copriva del tutto un vago sapore di disinfettante. Ne bevve una seconda tazza, lieta che fosse tiepido per poterlo buttare giù a lunghi sorsi, poi utilizzò il gabinetto alla turca maleodorante in fondo al cortile di acciottolato dietro il caffè. Non c’era comunque fetore che potesse impressionare un’infermiera tirocinante. Si sistemò della carta igienica nella scarpa. Le avrebbe permesso di camminare per un altro paio di chilometri. Incassato nel muro in mattoni, c’era un lavabo a un solo rubinetto. Vide anche un pezzo di sapone venato di grigio che preferì non toccare. Appena aprì l’acqua, lo scarico le piovve dritto sui piedi. Si asciugò alla meglio con le maniche, si diede una pettinata, cercando di immaginare la propria faccia. Ma senza specchio non era in grado di rimettersi il rossetto. Si inumidì il viso con un fazzoletto e si pizzicò le guance per darsi un po’ di colore. Era stata presa una decisione - senza consultarla, a quanto pareva. Un colloquio di lavoro a cui da tempo si preparava, l’incarico dell’amata sorella minore. Uscì dal caffè e, mentre attraversava il parco, sentì crescere in lei la distanza da un’altra se stessa, non meno vera, che intanto faceva ritorno in ospedale. Forse era la Briony diretta a Balham il personaggio immaginario, lo spettro. La sensazione straniante si acuì quando, una mezz’ora più tardi, si ritrovò in un’altra High Street più o meno identica a quella che si era da poco lasciata alle spalle. Ecco cos’era Londra appena fuori dal centro, un susseguirsi monotono di piccole città. Briony decise in cuor suo che non avrebbe mai abitato in un posto simile. La via che cercava era la terza traversa dopo la stazione della metropolitana, a sua volta una replica delle precedenti. Squallide villette a schiera edoardiane, con le immancabili tendine di pizzo, si susseguivano per circa un chilometro. Il numero 43 di Dudley Villas era più o meno a metà, e nulla lo distingueva dal resto degli edifici fatta eccezione per una vecchia Ford, priva di ruote e appoggiata su pile di mattoni, che occupava quasi tutto il giardino. Se non ci fosse stato nessuno, avrebbe potuto andarsene, dicendo a se stessa che almeno ci aveva provato. Il campanello non funzionava. Lasciò cadere due volte il battiporta e si ritrasse. Udì la voce collerica di una donna, poi lo sbattere di una porta e un rumore sordo di passi. Briony indietreggiò. Era ancora in tempo a fare marcia indietro. Qualcuno armeggiò con il chiavistello e diede in un sospiro seccato; poi 299
l’uscio fu aperto da una donna sulla trentina, alta e spigolosa, che aveva l’affanno come se avesse fatto chissà quale sforzo. Pareva una furia. Era stata interrotta durante una lite, e non riuscì a ricomporre l’espressione - bocca aperta, labbro superiore leggermente arricciato - mentre il suo sguardo inquadrava la sagoma di Briony. - Che cosa vuole? - Sto cercando una certa Cecilia Tallis. La donna curvò le spalle e tirò indietro la testa come se il nome l’avesse offesa. Squadrò Briony da capo a piedi. - Lei le somiglia. Stupefatta, Briony si limitò a fissarla. L’altra emise un secondo sospiro che parve feroce come uno sputo, e si incamminò nell’ingresso fino al fondo di una scala. - Tallis! - gridò. - Alla porta! Ripercorse il corridoio fino all’entrata del salotto, lanciò a Briony un’occhiata sprezzante e scomparve, tirandosi violentemente dietro la porta. La casa era immersa nel silenzio. Dalla sua posizione accanto alla soglia Briony riusciva a scorgere una striscia di linoleum a fiori e i primi setto o otto gradini di una scala foderata di moquette rosso carico. La sbarretta d’ottone del terzo scalino mancava. Più o meno a metà dell’ingresso c’era un tavolo semicircolare accostato alla parete, con sopra una specie di rastrelliera in legno che doveva servire per infilarci la posta. Era vuota. Il linoleum proseguiva oltre la scala, verso una porta a vetri smerigliati che probabilmente si apriva sulla cucina affacciata sul retro. La carta da parati aveva a sua volta una fantasia floreale: mazzolini di tre rose ciascuno alternati a un motivo a fiocco di neve. Dalla porta alla scala Briony contò quindici rose, e sedici fiocchi di neve. Non le parve di buon auspicio. Finalmente, udì aprirsi una porta al piano di sopra, forse quella che aveva sentito sbattere quando aveva bussato. Poi, lo scricchiolio sui gradini, la comparsa di piedi coperti da calzettoni pesanti, una breve striscia di pelle, e una vestaglia di seta azzurra che riconobbe. Infine, Cecilia chinata in avanti che piegava la testa di lato per vedere chi fosse e risparmiarsi la fatica di scendere ancora, non essendo vestita in modo presentabile. Le ci volle un po’ per riconoscere la sorella. Con grande lentezza, scese di altri tre scalini. 300
- Oh mio Dio. Si sedette e incrociò le braccia. Briony non si mosse; aveva un piede ancora sul sentiero del prato e l’altro sul gradino della porta. Dal salotto della padrona di casa giunse il suono di una radio accesa: la risata di un pubblico che aumentò di volume a mano a mano che si riscaldavano le valvole. Seguì il monologo ipocrita di un comico che si concluse con un applauso e un attacco chiassoso di musica. Briony azzardò un passo avanti. Disse sottovoce: - Ti devo parlare. Cecilia era sul punto di alzarsi, ma cambiò idea. - Perché non mi hai fatto sapere che venivi? - Non hai risposto alla mia lettera, per questo sono venuta di persona. Cecilia si avvolse la vestaglia intorno alla vita, e batté una mano sulla tasca, probabilmente sperando di trovarvi una sigaretta. Aveva la carnagione molto più scura, anche le mani. Non aveva trovato quel che cercava, ma per il momento non accennò ad alzarsi. Per prendere tempo più ancora che per cambiare argomento disse: - Sei una tirocinante. - Si. - Chi dirige il reparto? - La caposala Drummond. Non c’era modo di stabilire se Cecilia conoscesse quel nome, o se le dispiacesse pensare alla sorella impegnata in un corso per infermiere nel suo stesso ospedale. C’era poi un’altra differenza palese: Cecilia le aveva sempre parlato in modo materno, indulgente. La sorellina! Ma non era più tempo di atteggiamenti del genere. Il suo tono di voce conteneva una durezza che dissuase Briony dal fare domande sul conto di Robbie. Fece un altro passo avanti, consapevole di essersi lasciata la porta aperta alle spalle. - E tu dove sei? - Vicino a Morden. È un EMS. Un ospedale attrezzato per le emergenze, locali requisiti, quasi di sicuro uno di quei posti nei quali ci si occupava dei casi peggiori, degli esiti più violenti della ritirata. Erano troppe le cose che non si potevano dire, le domande che non si potevano fare. Le due sorelle si scambiarono uno sguardo. 301
Benché Cecilia avesse l’aspetto scarmigliato di chi si e appena alzato dal letto, Briony la trovò più bella di quanto la ricordasse. Il suo viso lungo era sempre parso un po’ anomalo, imperfetto, equino, dicevano tutti, anche nei suoi momenti migliori. Ora invece sembrava di una sfacciata sensualità, con labbra violacee dall’arco accentuato. Gli occhi erano scuri e gonfi, forse per la fatica. O il dolore. Il lungo naso affilato, il taglio elegante delle narici; c’era qualcosa di scultoreo nei suoi tratti, di molto fermo. E di imperscrutabile. L’aspetto della sorella accentuò in Briony il senso di disagio, e la fece sentire impacciata. A malapena avrebbe potuto dire di conoscere questa donna che non vedeva da cinque anni. Non poteva dare niente per scontato. Stava cercando un altro possibile argomento di conversazione, ma non c’era nulla che non riportasse a temi delicati - quei temi con cui avrebbe dovuto fare i conti comunque -, e fu perché non era più in grado di tollerare il silenzio e quel loro scrutarsi che infine chiese: - Hai più avuto notizie del vecchio? - No, nessuna. Il tono calante della risposta lasciava intendere che non aveva voluto averne, che non le importava di riceverne e che non avrebbe in ogni caso risposto. Cecilia disse: - E tu? - Ho ricevuto due righe una decina di giorni fa. - Bene. Niente da aggiungere dunque sull’argomento. Dopo un’altra pausa, Briony ritentò. - E da casa? - No, non sono in contatto. - Lei mi scrive ogni tanto. - E che dice, Briony? - E tu? Sia la domanda sia l’uso del suo nome erano sarcastici. Sforzandosi di ricordare, ebbe la sensazione che la si stesse accusando di averli traditi passando dalla parte della sorella. - Hanno preso in casa degli sfollati e Betty non li può soffrire. Il parco è diventato un campo di granturco -. Le morì la voce. Era inutile starsene lì a elencare dettagli del genere. 302
Ma Cecilia disse impassibile: - E poi? Che altro? - Be’, quasi tutti i ragazzi del posto si sono arruolati negli East Surreys, tranne... - Tranne Danny Hardman. Sì, lo sapevo -. Si aprì in un luminoso sorriso falso, in attesa che Briony proseguisse. - Hanno costruito una casamatta accanto all’ufficio postale, e hanno divelto e sequestrato tutta la vecchia cancellata. Che altro? Zia Hermione abita a Nizza ha rotto il vaso dello zio Clem. Solo a quel punto Cecilia si scosse, portò una mano sul viso. - Rotto? - L’ha fatto cadere su un gradino. - Rotto nel senso che e andato in pezzi? - Si. Cecilia ci pensò su. Infine disse: - È terribile. - Si, - replicò Briony. - Povero zio Clem -. Se non altro sua sorella aveva smesso di fare la sprezzante. L’interrogatorio proseguì. - Hanno tenuto i cocci? - Non saprei. Emily mi ha scritto che il vecchio ha urlato con Betty. In quel momento la porta si aprì di colpo e la padrona di casa si piazzò di fronte a Briony, talmente vicina da farle sentire l’odore di menta che aveva nell’alito. Indicò la porta d’ingresso. - Questa non e una stazione. O dentro o fuori, signorina. Cecilia si stava alzando senza fretta, e si riallacciava il cordone di seta della vestaglia. Disse con voce fiacca: - Questa è mia sorella Briony, signora Jarvis. Si ricordi le buone maniere, quando parla con lei. - Sono a casa mia e parlo come mi pare, - ribatté la signora Jarvis. Poi, rivolgendosi di nuovo a Briony: - Se ha deciso di restare, resti, altrimenti quella è la porta. Briony guardò la sorella, immaginando ormai poco probabile che l’avrebbe lasciata andar via. La signora Jarvis si era rivelata un’alleata inconsapevole. Cecilia parlò come se fossero sole. - Non fare caso alla padrona di casa. Me ne vado alla fine di questa settimana. Chiudi la porta e vieni su. Sotto lo sguardo della signora Jarvis, Briony si apprestò a seguire la sorella su 303
per le scale. - Quanto a te, cara la mia contessina, - gridò la padrona di casa. Ma Cecilia si voltò e la interruppe bruscamente: - Basta così, signora Jarvis. Adesso può bastare. Briony riconobbe il tono. In puro stile Nightingale, da utilizzare con pazienti difficili e tirocinanti piagnucolose. Ci volevano anni per metterlo a punto. Di sicuro Cecilia era già stata promossa caposala. Sul pianerottolo del primo piano, mentre stava per entrare in camera, lanciò a Briony un’occhiata fredda, per farle intendere che non era cambiato nulla, non c’era stato nessun ammorbidimento. Dal bagno di fronte, la cui porta era socchiusa, giungeva odore di umido, e uno sgocciolio d’acqua. Probabilmente Cecilia stava per fare il bagno. Introdusse Briony nel suo appartamento. Alcune delle infermiere più ordinate tenevano le stanze come bordelli, e non l’avrebbe quindi sorpresa ritrovarsi di fronte a una nuova versione del solito caos di Cecilia. Ma l’impressione che ebbe fu solo quella di una vita semplice e solitaria. Un locale di medie dimensioni era stato diviso in due per ricavarne un bugigattolo stretto da adibire a cucina e, presumibilmente, una camera da letto. Le pareti erano tappezzate con carta a smorte righe verticali, tipo pigiama maschile, il che aumentava il senso di reclusione. Il linoleum del pavimento era fatto di ritagli irregolari come quello del piano di sotto e qua e là mostrava chiazze grigie di legno scoperto. Sotto l’unica finestra a ghigliottina era sistemato un acquaio con un rubinetto singolo e un gas con un solo fornello. Tra la parete e il tavolo coperto con una tovaglia a quadretti gialli restava appena lo spazio per muoversi. Sul tavolo c’era un barattolo vuoto di marmellata con dentro dei fiori celesti, giacinti forse, un posacenere sporco e una pila di libri. Al fondo del mucchio, il manuale di anatomia del Gray e una raccolta di testi shakespeariani; mentre in cima, sulle coste di volumi più snelli, sbiadivano i nomi di autori stampati in oro e argento: riuscì a leggere Housman e Crabbe. Accanto ai libri, due bottiglie di birra scura. Nell’angolo più lontano dalla finestra si apriva la porta della camera da letto su cui era attaccata una carta dell’Europa settentrionale. Cecilia sfilò dal pacchetto una sigaretta, poi, ricordandosi che sua sorella non era più una bambina, ne offrì una anche a lei. C’erano due sedie vicino al tavolo, 304
ma Cecilia, appoggiata contro il lavandino, non invitò Briony a sedersi. Le due donne fumavano aspettando, almeno così parve a Briony, che l’aria si purificasse dalla presenza della padrona di casa. Poi Cecilia disse con voce pacata: - Quando ho ricevuto la tua lettera, sono stata da un avvocato. Non e affatto semplice, a meno che non si trovino nuove prove schiaccianti. Il fatto che tu abbia cambiato idea non sarà sufficiente. Lola continuerà a dire che non sa nulla. La nostra unica speranza era il vecchio Hardman, ma adesso è morto. - Hardman? - Quegli elementi contrastanti, la morte dell’uomo, il suo coinvolgimento nella vicenda, lasciarono Briony confusa a lottare con i ricordi. C’era anche Hardman quella notte, fuori a cercare i gemelli? Che avesse visto qualcosa? Che in tribunale qualcuno avesse rilasciato una testimonianza di cui lei era all’oscuro? - Non sapevi che era morto? - No. Ma... - Incredibile. Il tentativo di Cecilia di assumere un tono neutro e distaccato stava mostrando la corda. Era nervosa quando si allontanò dal fornello e raggiunse l’altro lato della stanza fermandosi accanto alla porta. La voce era affannata nello sforzo di controllare la collera. - Strano che Emily non abbia ricordato anche questo insieme alle notizie sul granturco e sugli sfollati. Aveva un tumore. Chissà, magari negli ultimi giorni, spaventato dal giudizio di Dio, si era messo a dire qualcosa che nessuno aveva più voglia di stare a sentire. - Ma Cee... La interruppe di scatto: - Non chiamarmi così! - Poi addolcì la voce e ripeté: Per favore, non mi chiamare così -. Aveva le dita sulla maniglia della porta e pareva sul punto di voler concludere quel colloquio. Stava per dileguarsi. Ostentando una pacatezza poco credibile, riassunse per Briony la situazione. - Ho speso due ghinee per scoprire questo: che non ci sarà nessun appello soltanto perché cinque anni dopo tu hai deciso di dire la verità. - Non capisco che cosa intendi... - Briony voleva tornare sull’argomento 305
Hardman, ma Cecilia sentiva il bisogno di dirle ciò che negli ultimi tempi doveva esserle passato in mente più e più volte. - Eppure non e difficile. Dal momento che hai mentito allora, perché dovrebbero crederti adesso? Non e emerso niente di nuovo, e tu resti un testimone inaffidabile. Briony si avviò al lavandino con la sigaretta a metà. Le era venuta la nausea. Prese dallo scolapiatti un sottocoppa da usare come posacenere. Era tremendo ascoltare la conferma della sua colpa da parte della sorella. Ma quella prospettiva le giungeva nuova. Fragile, stupida, confusa, vigliacca, evasiva: si era detestata per ogni suo difetto, ma non aveva mai pensato a se stessa come a una bugiarda. Che strano, e quanto doveva invece essere parso chiaro a Cecilia. Era ovvio, innegabile. Eppure, per un istante, pensò addirittura alla possibilità di difendersi da quella accusa. Non era stata sua intenzione ingannare nessuno, non aveva agito in malafede. Ma chi le avrebbe creduto? Aveva preso il posto occupato poco prima da Cecilia, la schiena all’acquaio, e non fu in grado di sostenere lo sguardo della sorella mentre le diceva: - Quello che ho fatto è terribile. E non mi aspetto che tu mi perdoni. - Non ti preoccupare, - rispose rassicurante Cecilia, e nel paio di secondi che impiegò a tirare una lunga boccata di fumo, Briony trasalì scossa da improvvise, assurde speranze. - Non preoccuparti, - riprese a dire sua sorella. - Non ti perdonerò mai. - Magari non potrò tornare in tribunale, ma questo non mi impedirà di dire a tutti quello che ho fatto. Mentre la sorella scoppiava in una breve risata feroce, Briony si rese conto di quanta paura le facesse Cecilia. Il suo scherno era anche più duro da sopportare della collera. Quel la stanzetta a righe come sbarre di una cella conteneva la storia di un sentimento che nessuno poteva immaginare. Briony incalzò. Dopotutto, era questa la conversazione per la quale si era preparata. - Andrò nel Surrey e parlerò con Emily e col vecchio. Dirò tutto. - Già. Così mi hai scritto nella lettera. Che cosa ti trattiene? Hai avuto cinque anni di tempo. Come mai non ci sei ancora andata? 306
- Volevo prima vedere te. Cecilia si allontanò dalla porta della camera da letto e raggiunse il tavolo. Lasciò cadere il mozzicone nel collo di una delle bottiglie di birra. Si udì un breve sibilo e un filo di fumo uscì dal vetro scuro. Il gesto della sorella risvegliò la nausea di Briony. Aveva creduto che le bottiglie fossero piene. Si chiese se qualcosa che aveva mangiato a colazione potesse averla disturbata. Cecilia disse: - Io lo so perché non ci sei andata. Perché la pensi esattamente come me. Loro non vogliono più sentir parlare di questa storia. Tutte sgradevolezze passate, grazie tante. Quel che e fatto è fatto. Perché andare a rimestare nel torbido adesso? E sai anche bene che hanno creduto alla storia di Hardman. Briony si allontanò dal lavandino per fermarsi al tavolo, di fronte alla sorella. Non era facile guardare negli occhi la sua bella maschera. Disse con grande determinazione: - Non capisco di cosa parli. Lui che c’entra in tutto questo? Mi dispiace che sia morto, mi dispiace di non averlo saputo... Ci fu un rumore che la fece trasalire. La porta della camera da letto si stava aprendo e Robbie comparve davanti a loro. Indossava pantaloni militari, camicia, stivali lucidi, e teneva le bretelle appese in vita. Non si era fatto ancora la barba, era spettinato, e non aveva occhi che per Cecilia. Lei si era voltata dalla sua parte, ma non gli andò incontro. Nei successivi secondi si scambiarono un lungo sguardo in silenzio, e Briony, in parte nascosta dalla sorella, si fece piccola dentro l’uniforme. Robbie parlò in tono sommesso a Cecilia, come se fossero soli: - Ho sentito delle voci e ho pensato che fosse successo qualcosa in ospedale. - Va tutto bene. Lui guardò l’ora. - Sarà meglio che mi prepari. Mentre attraversava la stanza, appena prima di uscire sul pianerottolo, rivolse a Briony un cenno del capo. - Chiedo scusa. Udirono la porta del bagno chiudersi. Nel silenzio, come se non ci fosse stato nulla tra lei e la sorella, Cecilia disse: - Dorme così bene. Non volevo svegliarlo -. Poi aggiunse: - Credevo che fosse meglio non farvi incontrare. In effetti a Briony tremavano le ginocchia. Sostenendosi al tavolo con una 307
mano, si allontanò dal vano cucina in modo che Cecilia potesse riempire d’acqua il bollitore. Briony si sarebbe seduta volentieri. Ma non l’avrebbe mai fatto senza il suo invito, né glielo avrebbe mai chiesto. Perciò rimase accanto al muro, fingendo di non appoggiarsi, e osservò la sorella. Il lato sorprendente della situazione era la rapidità con cui il sollievo per la scoperta che Robbie era ancora vivo fosse stato rimpiazzato dal terrore di confrontarsi con lui. Ora che l’aveva visto attraversare la stanza, l’altra possibilità, vale a dire quella che fosse rimasto ucciso, le pareva surreale, contraria a ogni logica. Non avrebbe avuto alcun senso. Stava fissando la schiena della sorella che intanto trafficava nella minuscola cucina. Briony avrebbe voluto dirle quanto era meraviglioso il fatto che Robbie fosse tornato a casa sano e salvo. Che liberazione. Ma sarebbe stata una tale banalità da dire. Temeva la reazione della sorella, il suo disprezzo. Ancora nauseata e anche accaldata adesso, Briony premette la guancia contro il muro. Non era più fresco della sua faccia. Desiderava un bicchiere d’acqua, ma non voleva domandare niente. Cecilia si dava da fare: mescolò acqua, latte e uova in polvere, e mise sul tavolo un vaso di marmellata e tazze e piatti per tre. Briony registrò il gesto, ma non ne ricavò alcun conforto. Anzi, non fece che aumentare la sua angoscia al pensiero dell’incontro imminente. Davvero Cecilia poteva credere che in simili circostanze si sarebbero seduti a tavola insieme mantenendo l’appetito necessario per consumare una colazione a base di uova strapazzate? O stava solo cercando di calmarsi facendo qualcosa? Briony tendeva le orecchie per cogliere il rumore dei passi sul pianerottolo, e fu per distrarsi che tentò di assumere un tono disinvolto. Aveva visto la mantellina appesa dietro la porta. - Cecilia, sei diventata una caposala? - Si. Lo aveva detto in tono conclusivo, come a voler chiudere l’argomento. La professione comune non avrebbe costituito un legame tra loro. Quello, come tutto il resto, e non c’era perciò nulla da dire, finché non fosse tornato Robbie. Infine, si udì lo scatto della serratura alla porta del bagno. Robbie fischiettava attraversando il pianerottolo. Briony si spostò, allontanandosi verso il fondo più buio della stanza. Ma gli stava proprio di fronte quando lui entrò. Aveva quasi sollevato la mano per stringere la sua, mentre con la sinistra stava per chiudersi la porta alle spalle. Non c’era nulla di teatrale nel suo gesto. Non appena i loro 308
sguardi si incrociarono, le mani gli ricaddero lungo i fianchi e Robbie emise un sospiro strozzato senza abbassare gli occhi. Per quanto intimidita, neanche lei riuscì a distogliere i suoi. Sentì nel naso il vago profumo della sua schiuma da barba. Lo shock fu prodotto dalla constatazione di quanto fosse invecchiato, specie intorno agli occhi. Ma perché ogni cosa doveva essere colpa sua?, si chiese stupidamente. Non poteva aver contribuito anche la guerra? - Ah, eri tu, allora, - disse lui alla fine. Con un calcio, si chiuse la porta alle spalle. Cecilia gli si era messa accanto e lui la guardò. Gli riferì tutto con precisione ma, anche volendo, non sarebbe riuscita a trattenere il tono sarcastico. - Briony ha intenzione di dire a tutti la verità. Ma prima voleva vedermi. Lui si rivolse a Briony. - Hai pensato che potevo essere qui? La sua prima preoccupazione fu di non piangere. In quel momento, non riusciva a pensare a niente di più umiliante. Sollievo, vergogna, vittimismo, non sapeva con esattezza per ché, ma sentiva il pianto in arrivo. L’onda lunga crebbe chiudendole la gola, impedendole di parlare; poi, quando serrando le labbra riuscì a trattenersi, la sentì sgonfiarsi, e fu salva. Neanche una lacrima, ma la voce le uscì in un pietoso sussurro. - Non sapevo se eri vivo. Cecilia disse: - Se abbiamo intenzione di parlare sarà meglio che ci sediamo. - Non sono sicuro di farcela -. Si scostò spazientito in direzione del muro adiacente, a una distanza di un paio di metri, e vi si appoggiò incrociando le braccia e andando con lo sguardo da Briony a Cecilia. Ma quasi subito si spostò di nuovo e raggiunse la porta della camera da letto in fondo alla stanza, per poi voltarsi, cambiare idea e restare li fermo con le mani in tasca. Era un uomo imponente, e la stanza pareva essersi rimpicciolita. Nello spazio angusto che lo circondava, i suoi movimenti apparivano impacciati, come oppressi dalla mancanza d’aria. Trasse di tasca le mani e si lisciò i capelli sulla nuca. Poi le appoggiò sui fianchi. Poi le abbandonò lungo il corpo. Briony ebbe bisogno di tutto quel tempo, di tutti quei gesti per rendersi conto che Robbie era in collera, molto in collera, e nel momento in cui lo capì, lui disse: - Che ci fai tu qui? Non mi parlare del Surrey. Nessuno ti ha mai impedito di andarci. Perché sei venuta qui? 309
Lei rispose: - Dovevo parlare con Cecilia. - Ah, si? E di che? - Della cosa tremenda che ho fatto. Cecilia si stava muovendo verso di lui. - Robbie, - sussurrò. - Tesoro -. Gli posò una mano sul braccio, ma lui si sottrasse. - Non capisco perché l’hai fatta entrare -. Poi, a Briony: - Voglio essere onesto con te. Sono indeciso se spaccarti quella stupida faccia e portarti fuori di peso, o sbatterti giù dalle scale. Non fosse stato per le sue recenti esperienze, quelle parole l’avrebbero terrorizzata. Qualche volta, in reparto, sentiva i soldati imprecare contro le loro invalidità. Nel momento dell’ira, era sciocco tentare di ragionare o di confortarli. Avevano bisogno di uno sfogo, e l’atteggiamento migliore era farsi da parte e starli a sentire. Briony sapeva che, anche offrendosi di andare via adesso, sarebbe potuta apparire provocatoria. Decise perciò di affrontare Robbie e di prendersi il resto, quello che le toccava. Ma non lo temeva, non fisicamente. Lui non alzò la voce, che pure era carica di disprezzo. - Hai una vaga idea di che cosa significa stare in galera? Briony immaginava finestrelle impiccate su muri di mattone nudo e pensò che forse un’idea ce l’aveva, come ciascuno ne ha dei diversi tormenti infernali. Scosse debolmente il capo. Per mantenere la calma cercava di concentrarsi sui dettagli della trasformazione verificatasi in Robbie. L’impressione di maggiore altezza era dovuta alla postura militaresca. Nessuno studente di Cambridge sarebbe mai stato tanto eretto. Nonostante la tensione del momento, teneva le spalle all’indietro e il mento alto, come un pugile d’altri tempi. - No, naturalmente. E sapermi in galera, ti dava soddisfazione? - No. - Ma non hai mai fatto nulla. Aveva pensato spesso a quella conversazione, come un bambino che si aspetti di essere picchiato. Ora stava avvenendo, ed era come se in realtà lei fosse altrove. Osservava la scena da lontano e ne era ammutolita. Sapeva però che le parole di lui l’avrebbero ferita, in seguito. Cecilia si era fatta indietro. A quel punto, rimise la mano sul braccio di Robbie. Benché avesse un aspetto più forte, era dimagrito e mostrava una ferocia agile e 310
nervosa. Si voltò appena verso Cecilia. - Ricordati, - prese a dire lei, ma Robbie la interruppe. - Tu credi che io abbia aggredito tua cugina? - No. - Lo credevi allora? Briony annaspò in cerca delle parole. - Sì, si e no. Non ne ero certa. - E cosa ti rende tanto sicura adesso? Lei esitò, sapendo che la sua risposta avrebbe contenuto una sorta di giustificazione, una ragione effettiva, e che avrebbe potuto farlo infuriare ancora di più. - Sto crescendo. Lui la fissava a labbra socchiuse. Era davvero cambiato in quei cinque anni. Era nuova la durezza nel suo sguardo, e aveva occhi più piccoli e stretti, segnati dai solchi inequivocabili delle rughe. Il viso era più sottile di come lo ricordava, le guance smunte, da guerriero indiano. Si era fatto crescere ispidi baffetti in stile militare. Nel complesso era sorprendentemente bello, e le tornò alla memoria l’infatuazione di tanto tempo prima quando, intorno ai dieci undici anni, si era presa per lui un’autentica cotta durata qualche giorno. Gliel’aveva anche confessata una mattina in giardino, prima di dimenticarsene completamente. Aveva fatto bene a mantenersi cauta. Robbie era in preda al tipo di collera che si consuma nello stupore. - Sta crescendo! - le fece eco. Alzò la voce e lei trasalì. - Cristo di un Dio! Ma hai diciotto anni. Quanto vuoi ancora crescere? Ci sono soldati che muoiono in guerra a di ciotto anni. Abbastanza cresciuti per schiattare da soli sul bordo di una strada. Lo sapevi questo? - Sì. Le era di patetico conforto sapere che lui non poteva essere al corrente di quanto le fosse toccato vedere. Strano che, nonostante tutti i suoi sensi di colpa, dovesse sentire il bisogno di opporgli resistenza. O così, o lasciarsi annientare. Si limitò a un breve cenno di assenso. Non osava parlare. Al nominare la morte, Robbie si era sentito invadere da un’emozione soffocante che aveva trasformato la sua collera in uno sbalordimento e un disgusto estremi. 311
Aveva il respiro irregolare e affannoso, apriva e serrava il pugno destro a vuoto. E continuava a fissarla, dritto negli occhi, con una furia severa. Aveva lo sguardo acceso, e deglutì a fatica parecchie volte. I muscoli della gola gli si tendevano come corde. Stava combattendo anche lui contro un’emozione che non voleva mostrare. Briony aveva imparato il poco che sapeva, quei pochi brandelli insignificanti di vita, a un corso per tirocinanti infermiere, al sicuro tra i letti di un reparto d’ospedale. Quanto bastava comunque per riconoscere che i ricordi gli si stavano affollando in testa, senza che lui potesse porvi rimedio. Non lo avrebbero lasciato parlare. Ciò che mai avrebbe potuto conoscere erano le scene che gli stavano scatenando dentro quel tumulto. Robbie fece un passo verso di lei e Briony si ritrasse, non più tanto sicura che fosse innocuo; non riuscendo a parlare, avrebbe potuto agire. Ancora un passo e, volendo, l’avrebbe raggiunta col braccio. Ma Cecilia si inserì in mezzo a loro. Dando la schiena a Briony, si piazzò di fronte a Robbie e gli cinse le spalle. Lui distolse lo sguardo. - Guardami, - mormorò Cecilia. - Robbie. Guardami. Briony non riuscì a intendere la risposta. Colse il suo dissenso, il rifiuto. Forse si era trattato di un’oscenità. Mentre Cecilia lo stringeva più forte, Robbie torceva il corpo intero per divincolarsi, e quando lei gli prese la testa per voltargliela dalla sua parte, parvero due lottatori, mala faccia di Robbie era piegata all’indietro e le labbra tese scoprivano i denti nella smorfia di un sorriso diabolico. Ora lei gli serrava le guance con tutte e due le mani, e con fatica riuscì a girargli la faccia verso la sua. Finalmente la stava guardando negli occhi, ma Cecilia non si fidò ancora a mollare la presa. Se lo tirò più vicino, senza abbassare lo sguardo, finché le due facce non si sfiorarono e lei lo baciò con dolcezza, indugiando sulle sue labbra. Con una tenerezza che Briony ricordava dai tempi lontani, Cecilia disse: - Torna indietro... Robbie, torna da me. Lui annuì debolmente, e trasse un lungo respiro che esalò piano mentre lei poteva infine rilassarsi e levargli le mani dalla faccia. Nel silenzio, la stanza parve restringersi ancora di più. Lui le cinse il collo, abbassò la testa e la baciò: un bacio lungo, profondo e intimo. Briony si allontanò senza fare rumore e raggiunse la finestra in fondo alla stanza. Bevve un bicchiere d’acqua del rubinetto, e il bacio intanto durava, isolando la coppia in un legame indissolubile. Si sentì dimenticata, bandita da quella camera, e ne provò sollievo. 312
Diede loro le spalle e prese a osservare le quiete villette a schiera inondate di sole lungo il tragitto che aveva percorso venendo dalla High Street. La sorprese scoprire che non aveva nessuna fretta di andarsene, nonostante il disagio di quel lungo bacio e il timore di ciò che ancora doveva succedere. Vide una vecchia in cappotto pesante a dispetto del caldo. Stava in fondo al marciapiede e portava al guinzaglio un bassotto malato dall’andatura malferma. Cecilia e Robbie parlavano a bassa voce adesso, e Briony decise che per rispettare la loro intimità non si sarebbe girata dalla finestra finché non le avessero rivolto la parola. Le fu di conforto osservare la vecchia aprire il cancello di casa, richiuderlo con cura meticolosa e poi, a metà strada verso la porta, chinarsi a fatica a strappare un’erbaccia dalla modesta striscia di fiori che costeggiava il vialetto. Intanto il cane le si era avvicinato ballonzolante e le leccava il polso. La donna e il cane entrarono in casa, e la strada fu vuota di nuovo. Un merlo cercò di posarsi sopra una siepe ma, non trovando un appoggio sicuro, tornò a spiccare il volo. L’ombra di una nuvola in corsa sbiadì per un istante la luce, e passò. Sembrava un sabato pomeriggio qualunque. Quasi non c’erano tracce di guerra in questa strada di periferia. Giusto gli scuri di una finestra di fronte, e la Ford senza ruote in giardino. Briony udì la sorella pronunciare il suo nome e si voltò. - Non c’è molto tempo. Robbie rientra in servizio alle sei questa sera e deve prendere il treno. Perciò siediti. Vogliamo che tu faccia delle cose per noi. Ecco il tono da caposala. Nemmeno autoritario. Irrevocabile, semplicemente. Briony prese la sedia più vicina, Robbie accostò uno sgabello e Cecilia sedette in mezzo. La colazione che aveva preparato venne dimenticata. Le tre tazze vuote rimasero al centro del tavolo. Robbie posò a terra il mucchio di libri. Mentre Cecilia scostava il vaso con i giacinti per non rovesciarlo, lei e Robbie si scambiarono un’occhiata. Lui fissò i fiori mentre si schiariva la gola. Quando parlò, la sua voce era priva di emozione. Come se leggesse una serie di cifre. Ora la osservava; lo sguardo era fermo, la situazione sotto controllo. Ma c’erano gocce di sudore sulla sua fronte, sulle sopracciglia. - Riguardo alla questione più importante siamo già d’accordo. Tu andrai dai tuoi appena possibile e dirai loro tutto quello che devono sapere per convincersi 313
che la tua testimonianza era falsa. Qual e il tuo giorno di riposo? - Domenica prossima. - Bene, ci andrai allora. Prenderai i nostri indirizzi e dirai a jack ed Emily che Cecilia aspetta loro notizie. La seconda cosa invece la farai domani. Cecilia mi ha detto che avete un’ora di pausa. Andrai da un avvocato e rilascerai una dichiarazione firmata in presenza di testimoni. In questa dichiarazione affermerai di avere sbagliato, e di voler ritirare ogni accusa. Poi ce ne farai avere una copia a testa. È chiaro? - Si. - Poi scriverai una lettera molto più dettagliata a me. Ci metterai dentro tutto quello che ti sembrerà significativo. Tutto quello che ti ha portata allora a dichiarare di avermi visto in riva al lago. E perché, pur non essendo sicura, hai voluto confermare la versione che mi ha trascinato in tribunale. Se hai subito pressioni, dalla polizia o dai tuoi genitori, lo voglio sapere. Hai capito? Voglio che sia una lettera lunga. - Sì. Robbie incrociò lo sguardo di Cecilia e assentì. - Se poi riesci a ricordare qualcosa su Danny Hardman, dove si trovava, che cosa stava facendo, a che ora, chi altri può averlo visto, qualunque cosa possa mettere in discussione il suo alibi insomma, voglio sapere anche quello. Cecilia stava scrivendo i loro indirizzi su un foglio. Briony scosse la testa e fece l’atto di voler parlare, ma Robbie la ignorò e proseguì. Si era alzato e guardava l’orologio. - Abbiamo pochissimo tempo. Ti accompagniamo alla metropolitana. Io e Cecilia vogliamo stare insieme almeno un’ora prima che me ne debba andare. E tu passerai il resto della giornata a scrivere la tua dichiarazione, e a far sapere ai tuoi che li andrai a trovare. Intanto puoi incominciare anche a pensare alla lettera che scriverai a me. Terminato l’elenco preciso degli obblighi di Briony, Robbie si allontanò dal tavolo per avviarsi verso la camera da letto. Briony si alzò in piedi e disse: - È probabile che il vecchio Hardman abbia detto la verità. Danny è sempre stato con lui quella sera. 314
Cecilia era sul punto di passarle il foglio ripiegato. Robbie si era bloccato sulla porta della stanza. Cecilia chiese: - Che cosa intendi dire? Che stai dicendo? - È stato Paul Marshall. Nel silenzio che seguì, Briony cercò di immaginare come ciascuno si sarebbe adeguato alla rivelazione. Dopo anni in cui avevano guardato alla vicenda in un certo modo. Eppure, per quanto sconvolgente, si trattava solo di un dettaglio. Che non avrebbe modificato nulla di essenziale. Nulla che riguardasse il suo ruolo. Robbie tornò al tavolo. - Marshall? - Si. - Tu l’hai visto? - Ho visto un uomo della sua statura. - Che è anche la mia. - Sì. Cecilia intanto si era alzata e si guardava intorno - stava per mettersi a caccia delle sigarette. Le trovò Robbie, che lanciò il pacchetto dal lato opposto della stanza. Cecilia ne accese una e, buttando fuori il fumo, disse: - Faccio fatica a crederci. Che sia un cretino lo so, ma... - Un cretino smanioso, - disse Robbie. - Ma non riesco a immaginarlo insieme a Lola Quincey nemmeno per i cinque minuti necessari a... Dato tutto quello che era accaduto e le terribili conseguenze dei fatti, Briony sapeva bene quanto fosse frivolo, ma non poté fare a meno di provare soddisfazione nel dare l’annuncio della notizia recente. - Arrivo adesso dal loro matrimonio. Ecco di nuovo lo sbalordimento, l’incredula ripetizione delle sue parole. Matrimonio? Questa mattina? Clapham? Un silenzio pensoso, interrotto da commenti isolati. - Voglio trovarlo. - Tu non farai niente del genere. - Lo voglio ammazzare. E subito dopo: - È meglio muoversi, adesso. Erano talmente tante le cose ancora da dire. Ma Robbie e Cecilia sembravano 315
sfiniti,
dalla
sua
presenza,
o
dall’argomento
trattato.
O
forse
avevano
semplicemente voglia di restare soli. In ogni caso, fu chiaro che consideravano quell’incontro giunto alla fine. Ogni curiosità si era spenta. Il resto poteva essere rimandato a quando Briony avesse scritto la lettera. Robbie andò in camera a prendersi giubba e berretto. Briony notò i gradi da caporale. Cecilia gli stava dicendo: - La farà franca. Lei lo coprirà sempre. Perse qualche minuto nella ricerca delle tessere alimentari. Alla fine ci rinunciò e disse a Robbie: - Sono sicura di averle lasciate nel Wiltshire, al cottage. Stavano ormai uscendo quando Robbie, tenendo la porta aperta per le due sorelle, disse: - Credo che dovremmo delle scuse al marinaio scelto Hardman. Di sotto, la signora Jarvis non si fece vedere quando passarono davanti alla porta del salotto. Udirono una musica di clarinetti alla radio. Una volta fuori, a Briony parve di fare il proprio ingresso in una giornata diversa. Spirava una brezza tesa, e la strada appariva nettamente cambiata, più luminosa, meno chiazzata di ombre. Il marciapiede era troppo stretto per procedere tutti e tre insieme. Robbie e Cecilia rimasero indietro tenendosi per mano. Nonostante la vescica al tallone sfregasse contro la scarpa, Briony era decisa a non farsi vedere zoppicare. Aveva l’impressione che la scortassero fuori dall’edificio. A un certo punto si volse e disse loro che poteva benissimo arrivare da sola fino alla stazione della metropolitana. Ma gli altri insistettero. Dovevano fare alcuni acquisti per il viaggio di Robbie. Proseguirono in silenzio. Chiacchierare era fuori discussione. Sapeva di non avere il diritto di chiedere alla sorella il suo nuovo indirizzo, ne a Robbie dove lo avrebbe portato il treno, e nemmeno del cottage nel Wiltshire. Arrivavano da li quei giacinti? Dovevano averci trascorso una specie di luna di miele. E non poteva neanche domandare quando si sarebbero riviste. Lei, sua sorella e Robbie avevano in comune un solo argomento, che ormai era bloccato dentro un passato immutabile. Si fermarono fuori della stazione di Balham, destinata, in capo a tre mesi, ad assurgere ai tremendi onori della cronaca, nel corso dei bombardamenti di Londra. Intorno a loro, l’andirivieni delle massaie in giro per le compere del sabato li obbligava, contro la loro volontà, a farsi più vicini. Si scambiarono un freddo saluto di commiato. Robbie le ricordò di prendere con sé del denaro 316
quando fosse andata dal legale per la dichiarazione sotto giuramento. Cecilia le disse invece di non scordarsi i loro recapiti da portare nel Surrey. Poi fu tutto finito. Rimasero a fissarla, in attesa che andasse via. Ma c’era ancora una cosa che Briony non aveva detto. Parlò lentamente. - Mi dispiace tantissimo. Vi ho procurato angosce terribili -. Robbie e Cecilia non abbassarono lo sguardo e lei ripeté: - Mi dispiace tanto. Replicò Robbie, a bassa voce: - Fa’ solo quello che ti abbiamo chiesto. Il tono era quasi conciliante; quasi, però, non del tutto. - Certamente, - ribatté Briony, poi si voltò e andò via, sapendosi osservata mentre entrava e percorreva l’atrio della biglietteria. Pagò la tratta per Waterloo. Giunta alla sbarra d’ingresso, si volse indietro ma loro non c’erano più. Esibì il biglietto e proseguì verso la sporca luce giallastra, fino in cima alla sferragliante scala mobile; quella prese a portarla giù, verso il vento innaturale che saliva dal buio, il respiro di un milione di londinesi che le rinfrescava la faccia e le tirava la mantellina. Briony restò immobile a farsi trasportare, grata di riuscire a procedere senza sfregare il tallone. La sorprese la serenità che provava, appena venata di una leggera tristezza. Era forse delusa? Di certo non si aspettava di poter essere perdonata. No, il suo sentimento assomigliava piuttosto alla nostalgia di una casa che non c’era più. La rattristava dire addio alla sorella. Era lei a mancarle, o più precisamente lei insieme a Robbie. Il loro amore. A distruggerlo non erano bastati ne Briony né la guerra. E questo la consolò, mentre scendeva ancora più in basso, sotto la grande città. Il modo in cui Cecilia era riuscita a trascinarlo a se con lo sguardo. La tenerezza nella sua voce quando, chiamandolo, lo aveva allontanato dai ricordi, da Dunkerque e dalle strade percorse per giungervi. Qualche volta in passato aveva parlato così anche a lei; allora Cecilia aveva sedici anni e Briony era una bambina di sei a cui pareva che ogni cosa andasse storta. Oppure la notte, quando Cecilia veniva a salvarla da un incubo e la portava a dormire nel letto con se. Usava proprio le stesse parole. Torna indietro. È stato solo un brutto sogno. Briony, torna da me. Con quanta facilità era svanita la naturalezza di quell’amore fraterno. Scivolava sempre più giù, nella densa luce marrone, era quasi in fondo. Non si scorgevano altri passeggeri, e l’aria si fece immobile all’improvviso. Briony era tranquilla, mentre rifletteva su ciò che doveva fare. Il messaggio per i 317
genitori e la dichiarazione formale le avrebbero richiesto ben poco tempo. Poi, sarebbe stata libera per il resto della giornata. Sapeva che cosa ci si aspettava da lei. Non soltanto una lettera, ma una seconda stesura, un’espiazione. Ed era pronta a incominciare. BT, Londra 1999.
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Londra 1999 Che giorni strani questi. Oggi, la
mattina
del mio
settantasettesimo
compleanno, ho deciso di recarmi un’ultima volta alla biblioteca dell’Imperial War Museum di Lambeth. Una visita adeguata al mio particolare stato d’animo. La sala di lettura, collocata proprio sotto la cupola dell’edificio, ospitava in passato la cappella del Royal Bethlehem Hospital, l’ex manicomio. Dove un tempo venivano gli alienati a offrire le loro preghiere, si radunano adesso gli studiosi per indagare sulla follia collettiva della guerra. L’auto che i miei familiari avrebbero mandato a prendermi non sarebbe arrivata che dopo pranzo, perciò ho pensato di distrarmi, controllando gli ultimi dettagli e congedandomi dal responsabile degli archivi e dai cordiali inservienti che mi hanno accompagnata su e giù per gli ascensori in queste settimane d’inverno. Era inoltre mia intenzione donare al museo le dodici lunghe lettere del signor Nettle. Mi sono fatta un regalo di compleanno, credo, trascorrendo un paio d’ore quasi a fingermi indaffarata, occupandomi delle piccole questioni marginali che chiudono ogni lavoro e che fanno parte della riluttanza a considerarlo finito. Ero dello stesso umore ieri pomeriggio, lavorando nel mio studio. ora le bozze sono datate e in ordine, le fotocopie classificate, i libri presi in prestito pronti per essere restituiti, e tutto quanto il materiale e al suo posto nei rispettivi schedari. Mi è sempre piaciuto curare le rifiniture. Faceva un freddo troppo umido, e io ero troppo scossa per spostarmi con i mezzi pubblici. Ho preso un taxi a Regent’s Park, e nel faticoso tragitto attraverso il centro di Londra, ho pensato ai poveri ricoverati del manicomio che una volta erano fonte di divertimento generale, e ho vittimisticamente riflettuto sul fatto che presto avrei raggiunto le loro schiere. I risultati delle mie analisi sono arrivati, perciò ieri mattina sono stata dal dottore per avere la diagnosi. Le notizie non erano buone. così si è espresso appena mi sono seduta. Mi ha indicato certe chiazze grumose su una radiografia. Ho notato il tremolio della matita che aveva in mano e mi sono chiesta se anche lui soffrisse di qualche disturbo neurologico. Il mio stato d’animo ostile nei confronti del messaggero mi ha portata a sperare che fosse così. Secondo lui, sto subendo una serie di minuscoli ictus, pressoché impercettibili. Il processo sarà lento, ma l’attività del
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mio cervello, della mia mente, è destinata a interrompersi. I brevi vuoti di memoria che ci perseguitano tutti da una certa età in poi diventeranno sempre più notevoli, più invalidanti, fino al momento in cui smetterò di accorgermene perché avrò perso la capacità di comprendere qualsiasi cosa. I giorni della settimana, gli avvenimenti della mattinata, e perfino di dieci minuti prima, sprofonderanno al di là della mia portata. Spariranno il mio numero di telefono, il mio indirizzo, il mio nome e quello che ho fatto della mia vita. Nel giro di due, tre o quattro anni non sarò in grado di riconoscere i pochi vecchi amici rimasti e, svegliandomi al mattino, non saprò di trovarmi nella mia stanza. Di lì a poco, comunque, non potrò più restarci, perché avrò bisogno di cure continue. Sono affetta da demenza arteriosclerotica multinfartuale, mi ha detto il medico, e posso in parte consolarmi di questa diagnosi. Ad esempio, come mi ha ricordato una dozzina di volte, per la lentezza con la quale procede la malattia. Inoltre non è grave come il morbo di Alzheimer, con i suoi sbalzi di umore e gli atteggiamenti aggressivi. Se sarò fortunata, potrà anche trattarsi di una forma abbastanza benigna. Potrei non essere infelice: giusto una vecchia svanita seduta su una sedia, dimentica di tutto, priva di ogni aspettativa. Gliel’avevo chiesto io di essere sincero, perciò non ho potuto lamentarmi. Alla fine ha cercato di liberarsi in fretta di me. C’erano dodici persone in sala d’attesa e avevano diritto al loro turno. Mentre mi aiutava a infilarmi il soprabito, ha riassunto per me il percorso futuro: perdita della memoria, a breve e lungo termine, scomparsa di singole parole - i primi a sparire potrebbero essere i sostantivi di uso comune - seguita dalla perdita totale del linguaggio, unita a quella dell’equilibrio e, poco dopo, di ogni controllo motorio e, infine, dell’autonomia del sistema nervoso. Bon voyage! Non mi sono sentita angosciata, almeno non subito. Al contrario, ho provato una sorta di ebbrezza e l’urgenza di dirlo immediatamente ai miei amici più cari. Ho passato un’ora al telefono a diffondere la notizia. Che stessi già perdendo il controllo? Mi pareva una cosa così importante. Ho continuato per tutto il pomeriggio, nel mio studio, a tenermi impegnata in lavoretti domestici, e una volta finito, c’erano sei schedari nuovi sugli scaffali. Stella e John sono venuti a trovarmi la sera e abbiamo ordinato cinese. Loro si sono bevuti due bottiglie di Morgon. Io ho pasteggiato a tè verde. I miei affettuosi amici sono rimasti sconvolti dalla descrizione del mio futuro. Hanno tutti e due una sessantina d’anni, quanti 320
bastano per incominciare a raccontarsi la fesseria che a settantasette si è ancora giovani. Oggi, sul taxi, mentre attraversavo Londra a passo d’uomo sotto una pioggia gelida, riuscivo a pensare a ben poco altro. Sto diventando matta, mi ripetevo. Fa’ che non sia vero. Ma non ci credevo sul serio. Forse non sono altro che una vittima della moderna diagnostica; in altri secoli mi avrebbero semplicemente detto che ero vecchia e che perciò avrei perso la ragione. Che cosa mi aspettavo di diverso? Dunque sto solo morendo, mi avvio a dissolvermi nell’inconsapevolezza. Il mio taxi ha tagliato per le vie laterali di Bloomsbury, superando la casa dove mio padre ha abitato dopo il suo secondo matrimonio, e l’appartamento seminterrato in cui io ho lavorato e vissuto per tutti gli anni Cinquanta. Da una certa età in poi, attraversare in macchina la propria città diventa fonte di riflessioni penose. Si accumulano gli indirizzi dei morti. Siamo passati nella piazza dove Leon ha eroicamente curato la moglie e ha poi cresciuto i suoi figli turbolenti con una devozione che ha lasciato tutti meravigliati. Un giorno anch’io susciterò un momento di riflessione nel passeggero a bordo di un taxi in corsa. Quella dell’Inner Circle di Regent’s Park è una scorciatoia molto frequentata. Abbiamo attraversato il fiume al Waterloo Bridge. Mi sono sporta in avanti dal sedile posteriore per godermi il mio panorama preferito della città, e mentre giravo il collo, verso la cattedrale di St Paul da una parte e il Big Ben dall’altra, con nel mezzo l’intera cartolina della Londra turistica, mi sono sentita bene fisicamente e mentalmente in forma, lasciando perdere i mal di testa e un po’ di stanchezza. Benché appassita, mi pare di essere ancora la stessa di sempre. È difficile spiegarlo ai giovani. Possiamo anche assumere l’aspetto di rettili, ma non siamo una razza a parte. In capo a un paio d’anni, però, andrò perdendo il diritto di ribadire la mia banale protesta. I malati gravi, i folli, sono un’altra razza davvero, una razza inferiore. Nessuno mi convincerà del contrario. Il mio tassista stava imprecando. A causa di certi lavori stradali sul fiume siamo stati costretti a una deviazione verso il vecchio County Hall. Mentre ci inserivamo nella rotonda in direzione di Lambeth, ho intravisto uno scorcio dell’ospedale St Thomas. Il fabbricato e stato distrutto nel bombardamento di Londra - io grazie a Dio non c’ero -, e gli edifici che l’hanno rimpiazzato rappresentano una vergogna nazionale. Durante la guerra ho lavorato in tre 321
diversi ospedali - l’Alder Hey e il Royal East Sussex, oltre al St Thomas - ma li ho riuniti nella mia descrizione per concentrare tutte le esperienze in un unico luogo. Una trasformazione efficace, e la meno grave tra le mie offese alla verità. Pioveva meno forte quando il tassista ha deciso di fare un’audace inversione a U in mezzo alla strada per potersi fermare direttamente davanti ai cancelli del museo. Impegnata com’ero a prendere la borsa, cercare un biglietto da venti sterline e aprire l’ombrello, non mi sono accorta dell’auto parcheggiata proprio davanti alla nostra, finché il mio taxi non e ripartito. Una Rolls nera. Per un attimo ho creduto che fosse vuota. In realtà, lo chauffeur era un ometto minuto praticamente sprofondato dietro al volante. Non sono sicura che quanto sto per descrivere possa considerarsi davvero una coincidenza improbabile. Mi capita ogni tanto di pensare ai Marshall, ogni volta che vedo una Rolls parcheggiata senza guidatore. Negli anni, è diventata una specie di abitudine. Mi attraversano spesso la mente, di solito senza suscitare sentimenti particolari. Il pensiero di loro due non mi sorprende più. Compaiono ancora sui giornali di quando in quando, in riferimento alla loro Fondazione e a tutto il prezioso lavoro da essa svolto nel campo della ricerca medica, o alla collezione privata che hanno donato alla Tate Gallery, o ai generosi fondi devoluti a progetti agricoli nell’Africa sub-sahariana. Ci sono poi i loro ricevimenti, e le accese cause per diffamazione contro la stampa nazionale. Perciò non sorprende che Lord e Lady Marshall fossero nei miei pensieri mentre mi avvicinavo ai massicci cannoni gemelli di guardia davanti al museo, ma e stato uno shock vedermeli venire incontro sulla scalinata. Un drappello di autorità - ho riconosciuto tra gli altri il direttore del museo - e un unico fotografo costituivano il comitato d’addio. Due giovanotti reggevano l’ombrello sulle teste dei coniugi Marshall che intanto scendevano i gradini accanto al colonnato. Mi sono attardata, rallentando il passo anziché fermarmi del tutto, per non attirare l’attenzione. C’è stato un giro di strette di mano, e un coro di risa gioviali in seguito a una battuta di Lord Marshall. Lui si appoggiava al solito bastone da passeggio in legno laccato, che e ormai diventato una sorta di marchio della sua persona. Insieme alla moglie e al direttore, ha posato per il fotografo; poi i Marshall si sono allontanati in compagnia dei due giovani in completo scuro con gli ombrelli. I dirigenti del museo sono rimasti sulla scalinata. La mia preoccupazione era capire da che parte si sarebbero diretti i coniugi per 322
evitare l’incontro faccia a faccia. Infine hanno scelto di tagliare a sinistra dei cannoni, e io ho fatto altrettanto. Nascosta in parte dalle canne rivolte in alto e dalle strutture in cemento che le reggevano, in parte dall’ombrello inclinato, ho potuto guardare senza essere notata. Mi sono passati accanto in silenzio. Lui era come l’avevo visto in tante foto. Nonostante le macchie sulla pelle e le borse violacee sotto gli occhi, ha finalmente assunto la crudele avvenenza del plutocrate, anche se un po’ sotto tono. L’età gli ha asciugato la faccia conferendogli alla fine l’aspetto da sempre mancato per un soffio. La mandibola forte aveva perennemente tradito origini più modeste, ma l’osteoporosi e stata generosa con lui. Mi e parso un po’ barcollante e malfermo, ma se la cava bene per essere un uomo di ottantotto anni. Si diventa giudici attenti di queste cose. Una mano tuttavia era saldamente, stretta al braccio di lei, e il bastone non era solo di figura. E stato spesso sottolineato quanto si sia prodigato per gli altri. Forse ha passato la vita a fare ammenda. O forse si e limitato a proseguire il proprio cammino senza un pensiero al mondo, riprendendo un’esistenza che era da sempre sua. Quanto a Lola, la mia mondana cugina fumatrice incallita, eccola ancora sottile e agile come un levriero, e ancora moglie fedele. Chi se lo sarebbe mai sognato? Una volta si sarebbe detto che a lei era toccata la parte imburrata della fetta di pane. Potrà sembrare acido da parte mia, ma e questo il pensiero che mi ha attraversato la mente vedendola. Indossava un soprabito nero e un cappello rosso a tesa larga. Audace, più che volgare. Ormai alla soglia degli ottanta non ha ancora rinunciato ai tacchi alti. Il loro ticchettio sul marciapiede aveva la sveltezza del passo di una donna più giovane. Non c’era traccia di sigaretta. Anzi, pareva uscita da una clinica della salute ed esibiva un’abbronzatura artificiale. Era più alta del marito, e la sua forma fisica non lasciava dubbi. Ma c’era anche qualcosa di comico in lei, oppure ero io a non voler rinunciare a un’estrema speranza? Aveva esagerato con il trucco, un po’ troppo sgargiante il contorno labbra e caricata la dose di crema antirughe e di cipria. Sono sempre stata un po’ bacchettona su questo fronte, perciò non posso considerarmi un testimone attendibile. Mi e parso di intravedere in lei il tocco da cattivo del cinema: la figura scarna, quel mantello nero, la bocca vistosa. Le mancava il bocchino e il cane da salotto sotto l’ascella per assomigliare a Crudelia De Mon. 323
Ci siamo passati accanto nel giro di una manciata di secondi. Io ho proseguito su per le scale, poi mi sono fermata sotto il frontone dell’edificio, al riparo dalla pioggia, per osservarli mentre raggiungevano l’auto. Il primo a montare in macchina e stato lui; lo hanno dovuto aiutare e mi sono resa conto di quanto fosse fragile. Non riusciva a chinarsi e nemmeno a reggersi su un piede solo. Hanno dovuto metterlo sul sedile a braccia. Un giovane ha tenuto aperta l’altra portiera per Lady Lola, che si è infilata a bordo con un’agilità spaventosa. Vederli mi ha scaricato un peso sul cuore, e ho cercato di non pensarci, di non soffrire. Per oggi ho già avuto quanto basta. Ma non sono riuscita a levarmi dalla testa l’evidente buona salute di Lola, mentre consegnavo la borsa all’ingresso e scambiavo saluti cordiali con gli inservienti. Qui il regolamento vuole che ci si faccia accompagnare in sala lettura su un ascensore il cui spazio angusto impone ai presenti, o a me quantomeno, la chiacchiera. Mentre ci provavo - tempaccio orrendo, ma si parlava di miglioramenti entro il fine settimana - non potevo fare a meno di ripensare al recente incontro essenzialmente in termini di condizioni fisiche: e possibile che io sopravviva a Paul Marshall, ma di sicuro sarà Lola a sopravvivere a me. Le conseguenze di questo fatto sono ineluttabili. La questione tra noi si trascina da anni. Come mi disse una volta il mio editore, la pubblicazione coinciderebbe con una causa. Che in questo momento non sarei in grado di affrontare. Sono già tante le cose di cui non ho voglia di preoccuparmi. Sono venuta qui per tenermi la mente occupata. Sono stata un po’ a chiacchierare con il responsabile degli archivi. Gli ho consegnato il fascio di lettere che il signor Nettle mi scrisse su Dunkerque e lui se ne e mostrato molto riconoscente. Saranno conservate insieme a tutte le altre che ho già donato. Il responsabile aveva trovato per me un cortesissimo colonnello dei Buffs, a sua volta una specie di storico dilettante, disposto a leggere le pagine del mio dattiloscritto relative alla vicenda e a spedirmi via fax eventuali suggerimenti. Mi sono ritrovata fra le mani i suoi appunti: parole irascibili, utili. Ne sono stata completamente assorbita, grazie a Dio. «Assolutamente nessun (sottolineato due volte) soldato in servizio presso l’esercito britannico userebbe mai l’espressione "Di corsa". Soltanto un americano potrebbe impartire un ordine simile. La forma corretta è "Scattare"». Mi piacciono queste piccole cose, l’approccio da puntinista alla verosimiglianza, 324
la correzione del dettaglio che accumulandosi offre un’immagine soddisfacente. «A nessuno verrebbe mai in mente di dire "pezzi d’artiglieria da 25 libbre". Il termine era "pezzi da 25". Il suo modo di utilizzare l’espressione suonerebbe decisamente falso a qualsiasi militare, anche non in servizio presso il corpo d’artiglieria». Come agenti di polizia durante una perquisizione, procediamo carponi scavandoci un varco verso la verità. «Il suo uomo della RAF indossa un basco. Non credo proprio. Fatta eccezione per i carristi, nessuno portava il basco nel ‘40. Direi che farebbe meglio a dotarlo di regolare bustina». Per finire, il colonnello che aveva iniziato la lettera chiamandomi «Signorina Tallis», ha tradito un velo di impazienza nei confronti del mio sesso. Che cosa spingeva comunque una donna a immischiarsi in faccende del genere? «Signora (sottolineato tre volte), uno Stuka non trasporta una singola bomba da mille tonnellate. Si rende conto che stiamo parlando grosso modo del peso di una fregata milita re? Le suggerisco di svolgere indagini più accurate in proposito». Un semplice errore di stampa. Intendevo mille libbre. Mi sono appuntata le correzioni, e ho scritto un biglietto di ringraziamento al colonnello. Poi ho fatto, a pagamento, le fotocopie di certi documenti che mi sono sistemata in pile ordinate per il mio archivio privato. Ho restituito i libri che avevo utilizzato e ho gettato via diverse cartacce. Il tavolo di lettura non recava ormai nessuna traccia del mio passaggio. Congedandomi dal responsabile degli archivi, ho scoperto che la Fondazione Marshall stava per fare una donazione al museo. Dopo un giro di strette di mano con gli altri bibliotecari, e la mia promessa di citare nei ringraziamenti tutti coloro che mi avevano aiutata, è arrivato un inserviente per accompagnarmi di sotto. Molto cortesemente, la ragazza al guardaroba mi ha chiamato un taxi, mentre un giovane in servizio all’ingresso del museo mi ha portato la borsa fino al marciapiede. Durante il tragitto di ritorno, ho ripensato alla lettera del colonnello, o meglio, al piacere che mi procuravano quei piccoli cambiamenti. Se mi importava davvero tanto dei fatti, avrei dovuto scrivere un libro diverso. Ma ormai il lavoro era finito. Non ci sarebbero state ulteriori stesure. Erano questi i pensieri che mi passavano per la testa mentre ci inoltravamo nel vecchio tunnel dei tram sotto l’Aldwych, 325
poco prima che mi addormentassi. Quando il tassista mi ha svegliato, l’auto era ferma di fronte al mio appartamento di Regent’s Park. Ho ritirato le carte che avevo portato dalla biblioteca, mi sono fatta un tramezzino e ho preparato il bagaglio per una notte. Spostandomi con disinvoltura per casa, da una stanza all’altra, ero consapevole del fatto che gli anni della mia indipendenza potevano essere agli sgoccioli. Sulla scrivania c’era un ritratto in cornice di mio marito Thierry; la foto è stata scattata a Marsiglia due anni prima della sua morte. Un giorno o l’altro mi ritroverò a chiedere di chi sia. Mi sono consolata perdendo tempo nella scelta di un abito da indossare per la mia festa di compleanno. L’attività si e in effetti rivelata un balsamo di giovinezza. Sono più magra di un anno fa. Mentre scorrevo con le dita i vestiti appesi sono riuscita a scordarmi la diagnosi per parecchi minuti di seguito. Mi sono poi decisa per uno chemisier in cachemire grigio tortora. Gli accessori sono venuti di conseguenza: sciarpa in raso bianco fermata dal cammeo di Emily, scarpe di vernice, rigorosamente basse, e scialle dévore nero. Ho chiuso la valigia e l’ho portata in ingresso, sorprendendomi di quanto fosse leggera. Domani passerà la segretaria, prima del mio ritorno. Le ho lasciato un appunto, ricordandole cosa desideravo che facesse, poi ho preso un libro e una tazza di tè e mi sono seduta in poltrona davanti alla finestra che si affaccia sul parco. Sono sempre stata in gamba a non pensare alle cose che mi tormentano sul serio. Ma non ce l’ho fatta a leggere. Ero troppo emozionata. Un viaggio in campagna, la cena in mio onore, il rinnovarsi di certi legami familiari. Avrei dovuto sentirmi depressa. Possibile, per dirla in termini moderni, che avessi deciso di «rimuovere il problema»? Questo pensiero non ha spostato nulla. La macchina avrebbe tardato ancora mezz’ora e io ero inquieta. Mi sono alzata e ho fatto qualche volta su e giù per la stanza. Le ginocchia mi fanno male se sto seduta troppo a lungo. Mi ossessionava il pensiero di Lola, la severità di quella vecchia faccia smunta e dipinta, il piglio sicuro del passo nonostante il pericolo dei tacchi alti, la vitalità con cui si era infilata nella Rolls-Royce. Che mi mettessi in competizione con lei mentre misuravo nervosa la moquette tra il camino e il divano? Ho sempre pensato che la vita mondana e il fumo l’avrebbero tradita. Lo pensavo già quando avevamo una cinquantina d’anni. E invece eccola a ottanta, e ancora brillante, vorace. È sempre stata lei la più grande, la superiore, 326
quella che mi precedeva di un passo. Ora però, nella circostanza cruciale ed estrema, le sarò avanti io, mentre Lola vivrà fino a cent’anni. Non sarò in grado di vedere pubblicato il mio libro. La Rolls doveva avermi dato alla testa, perché un quarto d’ora dopo, quando e arrivata la macchina, ho provato una delusione. Cose del genere non mi toccano solitamente. Era un minitaxi polveroso, con il sedile posteriore foderato di finta pelliccia zebrata. In compenso Michael, l’autista, era un gioviale immigrato delle Indie Occidentali che mi ha subito preso di mano la valigia e si e dato da fare a tirare avanti il sedile sul lato del passeggero per farmi più posto. Una volta chiarito che non avrei tollerato a nessun volume la musica martellante che proveniva dalle casse dietro la mia testa, e superato il momento di malumore da parte sua, siamo andati molto d’accordo e ci siamo messi a parlare delle nostre famiglie. Mi ha detto di non aver mai conosciuto suo padre, e che sua madre era medico presso il Middlesex Hospital. Quanto a lui, si è laureato in giurisprudenza all’università di Leicester, e attualmente sta scrivendo una tesi di dottorato sui rapporti tra il diritto e la povertà nei paesi del terzo mondo. Mentre uscivamo da Londra, nello squallore della tangenziale diretta a ovest, mi ha fornito una sintesi della sua teoria: assenza di leggi che regolino il diritto di proprietà uguale assenza di capitali, uguale assenza di benessere sociale. - Questo si chiama parlare da avvocato, - ho commenta- to io. - Un modo sicuro per reclutare clienti. Ha riso educatamente, anche se deve avermi giudicata molto cretina. È del tutto impossibile di questi tempi farsi un’idea del livello culturale delle persone basandosi su come parlano, come si vestono o sui loro gusti in fatto di musica. La cosa più saggia e trattare chiunque si incontri come un raffinato intellettuale. Dopo una ventina di minuti avevamo conversato abbastanza, e mentre l’auto si immetteva in autostrada e il motore si stabilizzava su un ronzio costante, mi sono addormentata un’altra volta per svegliarmi ormai su una strada di campagna, con un fastidioso cerchio alla testa. Ho preso tre aspirine dalla borsa e le ho buttate giù masticandole disgustata. Chissà quale porzione di cervello, di memoria, se n’era andata in un micro ictus mentre dormivo. Non l’avrei mai saputo. È stato allora, nel retro di quella piccola macchina, che per la prima volta 327
ho provato qualcosa di simile alla disperazione. Panico sarebbe una parola troppo grossa. C’era di mezzo un senso di claustrofobia, il confino coatto all’interno di un processo di decadimento, e la sensazione di rimpicciolire. Ho battuto sulla spalla di Michael e gli ho chiesto di accendere la musica. Lui deve aver pensato che volessi accontentarlo dal momento che eravamo ormai quasi a destinazione, e ha detto di no. Ma io ho insistito, e così, sul ritmo vibrato del basso, la voce di un baritono leggero ha intonato in patois caraibico una sorta di filastrocca, un ritornello buono per saltarci la corda in cortile. Mi ha fatto bene. Mi sono distratta. Era talmente infantile, anche se sospettavo potesse esprimere sentimenti terribili. Mi sono ben guardata dal chiederne la traduzione. La musica stava ancora suonando, quando abbiamo svoltato nel viale del Tilney’s Hotel. Erano passati più di venticinque anni dall’ultima volta che ho percorso questa strada, in occasione del funerale di Emily. La prima cosa che mi ha colpito e stata l’assenza di alberi nel parco, gli olmi giganteschi morti di malattia immagino, e le restanti querce abbattute per fare spazio al campo da golf. Proprio in quel momento ad esempio rallentavamo per lasciar passare alcuni giocatori con i loro caddie. Non ho potuto fare a meno di considerarli degli abusivi. Il boschetto che circondava il cottage di Grace Turner c’era ancora, e mentre l’auto superava un ultimo filare di faggi, e comparsa la villa. Nessuna nostalgia inutile: il posto è sempre stato brutto. Da lontano però l’edificio aveva un’aria nuda e indifesa. L’edera che un tempo addolciva l’impatto di quella facciata rosso carico era stata eliminata, forse per conservare meglio i mattoni. Di li a poco raggiungevamo il primo ponte, e già mi rendevo conto che non c’era più il lago. Una volta in cima, ci ritrovammo sospesi su una perfetta distesa erbosa come se ne vedono in certi vecchi fossati. Non era sgradevole di per sé, a patto di non sapere che cosa c’era in passato: i falaschi, le oche, e la carpa gigantesca che due vagabondi avevano arrostito e mangiato nei pressi del tempio sull’isola. Il quale a sua volta non c’era più. Al suo posto restavano una panchina di legno e un cestino per l’immondizia. L’isola, che ovviamente non era più tale, era diventata un lungo terrapieno d’erba, come un immenso tumulo antico, su cui crescevano rododendri e arbusti infestanti. Un sentiero di ghiaia faceva il giro tutto intorno, con altre panchine qua e là e globi luminosi da giardino. Non ho avuto il tempo di individuare il punto in cui mi ero seduta a consolare la giovane 328
Lady Lola Marshall, perché stavamo già attraversando il secondo ponte per poi rallentare e immetterci nel parcheggio asfaltato che si stendeva di fronte alla villa. Michael mi ha portato la valigia alla reception, nel vecchio atrio. Strano che si fossero presi la briga di far ricoprire con una moquette le piastrelle bianche e nere. Immagino che l’acustica della sala sia sempre stata infelice, anche se a me non ha mai dato fastidio. Una stagione di Vivaldi gorgogliava da speaker nascosti. Su un discreto tavolo in ciliegio stavano lo schermo del computer e un vaso di fiori; ai lati della scrivania, montavano la guardia due armature; appese sopra i pannelli di legno alle pareti, due alabarde incrociate e in mezzo un blasone; più in alto, il ritratto che un tempo stava in sala da pranzo, quello che mio nonno aveva messo in casa per regalare alla famiglia l’idea di un lignaggio. Ho dato la mancia a Michael augurandogli di tutto cuore di fare fortuna con le sue teorie sul diritto di proprietà e la miseria. Stavo cercando di farmi perdonare la battuta idiota che avevo fatto sugli avvocati. Mi ha augurato buon compleanno e mi ha dato la mano - che stretta soffice e inconsistente la sua -, poi se ne è andato. Da dietro la scrivania una serissima ragazza in tailleur mi ha consegnato la chiave ricordandomi che l’ex biblioteca era prenotata a uso esclusivo del nostro ricevimento. I pochi ospiti già arrivati erano usciti a fare una passeggiata. Secondo il programma, ci saremmo incontrati alle sei per un aperitivo. Un facchino
si
sarebbe
occupato
della
mia
valigia.
Io
potevo
approfittare
dell’ascensore. Nessuno era venuto a salutarmi dunque, ma ne ho provato sollievo. Preferivo trovarmi da sola ad affrontare la novità di tutti quei cambiamenti, prima che le circostanze mi costringessero a trasformarmi in ospite d’onore. Ho preso l’ascensore fino al secondo piano, ho superato le porte a vetro antincendio e ho percorso il pavimento di legno del corridoio che scricchiolava ancora come ricordavo. Che strano vedere le camere numerate e chiuse a chiave. Ovviamente il numero che mi avevano dato - il sette - non mi diceva nulla, ma forse già immaginavo dove mi sarebbe toccato dormire. Non nella mia vecchia stanza, ma in quella della zia Venus, considerata da sempre la più panoramica per la sua vista sul lago, il vialetto, i boschi e le colline in lontananza. Charles, nipote di Pierrot nonché spirito organizzatore della serata, doveva averla prenotata per me. Entrarci mi ha procurato una piacevole sorpresa. Le due camere adiacenti 329
erano state incorporate allo scopo di ricavare una suite grandiosa. Su un tavolino basso di vetro si apriva a ventaglio un gran mazzo di fiori di serra. L’enorme letto alto che la zia Venus aveva occupato per tanto tempo senza lamentarsi, non c’era più, come pure il cassettone intarsiato e il divano di seta verde. Di quei pezzi si era appropriato il primogenito nato dal secondo matrimonio di Leon, che doveva averli installati in un castello da qualche parte nelle Highlands scozzesi. Ma l’arredamento nuovo era raffinato, e la mia camera mi piaceva. È arrivata la mia valigia; ho ordinato del tè e ho appeso il vestito. Ho passato in rassegna il salotto che vantava una scrivania e una buona lampada a stelo, e sono rimasta impressionata dall’ampiezza del bagno con il suo pot-pourri e i soffici asciugamani impilati su uno stenditoio riscaldato. È stata una gioia riuscire a non vedere ogni cosa in termini di sconsiderato cattivo gusto; con gli anni si tende a fare così. Sono rimasta un po’ alla finestra ad ammirare la luce che cadeva obliqua sul campo da golf e bruniva gli alberi spogli sulle colline lontane. Non riuscivo ancora ad accettare l’assenza del lago, ma forse un giorno avrebbero potuto recuperarlo, e d’altro canto l’edificio conteneva di certo più felicità adesso in veste di hotel di quanta ne avesse ospitata quando l’avevo abitato io. Charles mi ha chiamata un’ora più tardi, proprio quando stavo pensando di incominciare a vestirmi. Ha proposto di passare a prendermi alle sei e un quarto, quando ormai tutti si fossero riuniti, e di accompagnarmi di sotto in modo che potessi fare il mio ingresso solenne. Ed e stato così che sono entrata nell’immenso salone a L: al suo braccio, nel mio chemisier in cachemire, tra gli applausi e i bicchieri levati di una cinquantina di parenti. La prima impressione arrivando e stata quella di non riconoscere nessuno. Non un solo viso noto! Mi sono chiesta se fosse un assaggio dell’evanescenza che mi era stata promessa. Poi però, a poco a poco, ho incominciato a mettere a fuoco le persone. Bisogna essere indulgenti con l’età e ricordare la rapidità con cui dei neonati in braccio alla madre possono trasformarsi in ragazzini chiassosi di dieci anni. Impossibile non riconoscere mio fratello, ingobbito e storto sulla sua sedia a rotelle, con un tovagliolo intorno al collo per raccogliere le gocce dello champagne che qualcuno gli stava reggendo alle labbra. Mentre mi chinavo a baciarlo, Leon è riuscito a farmi un sorriso con la metà della faccia tuttora sotto il suo controllo. Un altro che ho impiegato poco a individuare è l’allampanato Pierrot, molto avvizzito e con la pelata lucida sulla 330
quale mi e venuta voglia di appoggiare una mano, ma ancora ammiccante come sempre e molto compreso nel ruolo del pater familias. L’accordo tra noi è di non nominare mai sua sorella. Ho fatto un giro della sala, con Charles al mio fianco che mi suggeriva i nomi. Che piacere essere il cuore di una riunione animata da tanto affetto. Ho ritrovato i figli, i nipoti e i pronipoti di Jackson, morto quindici anni orsono. In effetti i gemelli da soli bastavano a popolare la stanza. Anche Leon d’altra parte non se la cava male, con i suoi quattro matrimoni e la sua vocazione alla paternità. L’età dei presenti andava da un minimo di tre mesi a un massimo di ottantanove anni. E che baccano di voci, dalla più burbera alla più stridula, mentre i camerieri passavano servendo champagne e limonata. I figli adulti di miei lontani cugini mi salutavano come vecchi amici. Una persona su due si sentiva in dovere di farmi i complimenti per i miei libri. Un gruppo di adolescenti incantevoli mi ha raccontato che li studiano perfino a scuola. Ho promesso a qualcuno di leggere il romanzo dattiloscritto del figlio assente. Mi hanno dato messaggi e biglietti vari. Ammucchiati sul tavolo in un angolo c’erano i regali che, come più di un bambino mi ha ripetuto, avrei dovuto aprire prima e non dopo che loro andassero a letto. Ho elargito promesse, strette di mano, baci, ho ammirato e coccolato neonati, e proprio quando incominciavo a pensare che avrei tanto voluto sedermi da qualche parte, mi sono accorta che tutte le sedie erano rivolte nella stessa direzione. Poi Charles ha battuto le mani, e alzando la voce per sovrastare il chiasso che faticava a smorzarsi, ha annunciato che prima di cena ci sarebbe stato un intrattenimento in mio onore. E ci ha invitati tutti a prendere posto. Io sono stata accompagnata a una poltrona in prima fila. Accanto a me c’era il vecchio Pierrot, impegnato in una conversazione con un cugino alla sua sinistra. Un silenzio eccitato ha invaso la sala. Da un angolo provenivano i mormorii euforici dei bambini, che ho creduto opportuno ignorare. Nell’attesa, nei pochi secondi tranquilli che ho avuto, mi sono guardata intorno e solo allora mi sono accorta che dalla biblioteca erano scomparsi tutti i libri, con tanto di scaffali. Ecco perché il locale mi era sembrato di gran lunga più spazioso di come lo ricordavo. L’unico materiale di lettura erano le riviste sul vivere in campagna sistemate accanto al camino. Qualcuno ci ha invitati al silenzio, una sedia ha scricchiolato sul pavimento, e ci e comparso di fronte un ragazzo con 331
una mantella nera sulle spalle. Era pallido, lentigginoso e rosso di capelli: senza dubbio un rampollo di casa Quincey. Mi e parso potesse avere tra i nove e i dieci anni. Il corpo era gracile, perciò la testa sembrava grande e gli conferiva un aspetto etereo. Ma guardandosi intorno, in attesa che il pubblico tacesse, appariva sicuro di sé. Infine, ha sollevato il mento da elfo, ha riempito i polmoni e si è messo a recitare con voce ferma e acuta. Mi aspettavo qualcosa di magico, ma le parole che ho udito avevano un suono decisamente irreale. Ecco la storia di Arabella, fanciulla d’animo sincero Che un brutto giorno se ne fuggì di casa con un forestiero. Affranti padre e madre videro la figliola Partire e andarsene per il mondo sola E svaporare diretta verso il mare Senza consenso ne promessa di tornare Verso un destino di malattia e di povertà Verso la fame e l’infelicità. All’improvviso, me la sono rivista davanti, quella ragazzina indaffarata, seria, superba, e l’ho riscoperta ben viva dentro di me, perché quando i presenti hanno accolto con risolini ammirati il verbo «svaporare», il mio cuore sciocco - che ridicola vanità - ha esultato. Il ragazzo recitava con emozionante chiarezza e con un tocco stonato di quello che la mia generazione avrebbe definito accento cockney, anche se ormai non so che significato si attribuisca a certe imprecisioni fonetiche. Sapevo che quelle parole erano mie, ma le ricordavo appena, ed era difficile concentrarsi con la mente affollata da tante domande, tante sensazioni. Dove avevano scovato la copia del mio scritto, e quella sicurezza ultraterrena era forse il sintomo di un’era nuova? Ho lanciato un’occhiata al mio vicino, Pierrot. Aveva il fazzoletto in mano e si asciugava gli occhi, non credo solo per orgoglio di nonno. Ho anche sospettato che l’idea fosse partita proprio da lui. Il prologo intanto giungeva ai suoi più alti livelli di saggezza. Per la fanciulla giunse l’alba del giorno fortunato In cui andò sposa al suo principe adorato. 332
Ma a sue spese Arabella dovette imparare Che anche in amore occorre meditare! C’è stato un applauso chiassoso. Perfino qualche fischio poco elegante. Il dizionario,
il
mio
Oxford
Concise.
Chissà
dov’era
finito.
Nella
Scozia
nordoccidentale, forse? Lo rivolevo. Il ragazzino fece un inchino e si ritirò di un paio di metri, dove lo raggiunsero altri quattro bambini che aspettavano inosservati tra le immaginarie quinte della sala. E così ha avuto inizio la rappresentazione delle Disavventure di Arabella, con la scena d’addio tra la ragazza e i genitori affranti e preoccupati. Ho subito riconosciuto nella protagonista Chloe, la pronipote di Leon. Che bella bambina, con la sua aria solenne, la voce profonda e il temperamento spagnolo della madre. Ricordo di aver partecipato alla festa del suo primo compleanno, e mi pare che siano passati appena pochi mesi da allora. L’ho osservata sprofondare in modo convincente nella miseria e nella disperazione, dopo l’abbandono del malvagio conte, vale a dire del ragazzo in mantello nero che aveva recitato il prologo. Nel giro di neanche dieci minuti era tutto finito. Nel ricordo, alterato dal senso del tempo di una bambina, mi era sempre parsa lunga come un dramma shakespeariano. Avevo completamente dimenticato che, dopo la cerimonia nuziale, Arabella e il principe-dottore si prendono sottobraccio e, parlando all’unisono, avanzano verso il pubblico recitando il distico finale. Ecco, inizia l’amore, il dolore svanisce. Addio, dolci amici, il sole muore e il giorno finisce! Non i miei versi migliori, ho pensato. Ma il pubblico al completo, fatta eccezione per Leon, Pierrot e la sottoscritta, si e alzato in piedi ad applaudire. Che bravi questi ragazzi, precisi fino al momento del sipario. Tenendosi per mano, si sono schierati tutti in fila e, seguendo le indicazioni mute di Chloe, hanno fatto due passi indietro, sono tornati avanti e si sono inchinati ancora. Nell’emozione, nessuno ha notato che il povero Pierrot era scoppiato in lacrime con il viso tra le mani. Che stesse rivivendo il momento triste e terribile, dopo il divorzio dei suoi genitori? Avevano desiderato così tanto, i gemelli, partecipare allo spettacolo, 333
quella sera in biblioteca, e adesso eccolo qua finalmente, sessantaquattro anni più tardi, quando ormai uno dei due era morto da tanto tempo. Mi hanno aiutata ad alzarmi dalla poltrona e ho detto qualche parola di ringraziamento. Cercando di avere la meglio sul neonato urlante al fondo della sala, ho rievocato la calda estate del 1935, l’anno in cui i miei cugini erano venuti a stare a casa nostra dal nord. Mi sono rivolta agli attori e ho detto che la nostra rappresentazione non avrebbe potuto competere con la loro. Pierrot annuiva con enfasi. Ho spiegato che era stata tutta colpa mia se le prove dello spettacolo erano state interrotte, perché, a metà del lavoro, avevo deciso di diventare un romanziere. Qualcuno ha riso, indulgente, qualcuno ha applaudito, poi Charles ha annunciato che era ora di mangiare. E la piacevole serata è proseguita: la cena rumorosa nel corso della quale ho perfino bevuto un po’ di vino, i regali, l’ora di andare a letto per i più piccini, mentre i fratelli e le sorelle maggiori si spostavano davanti al televisore. Qualche discorso mentre si prendeva il caffè, tanti bei sorrisi, e verso le dieci incominciavo a pensare alla splendida camera che mi aspettava di sopra, non perché fossi stanca, ma perché mi affaticava stare in compagnia ed essere l’oggetto di tanta attenzione, per quanto premurosa. Un’altra mezz’ora se ne e andata nello scambio di saluti e auguri di buonanotte, prima che Charles e sua moglie Annie mi accompagnassero in camera. Ora sono le cinque di mattina e sono ancora seduta alla scrivania, a ripensare a questi due giorni strani. E vero che i vecchi non hanno bisogno di dormire, non di notte, almeno. Ho ancora così tante cose su cui riflettere e presto, nel giro di un anno forse, mi resterà così poco cervello per farlo. Ho pensato al mio ultimo romanzo, quello che avrebbe dovuto essere il primo. La prima versione e del gennaio 1940, l’ultima del marzo 1999, e nel frattempo ho prodotto una mezza dozzina di stesure diverse. La seconda nel giugno del 1947, la terza... ma che importanza ha? Il mio compito durato cinquantanove anni è finito. C’è stato il nostro crimine - di Lola, di Marshall e mio -, il crimine che, a partire dalla seconda versione, ho cercato di descrivere. Ho ritenuto mio dovere non nascondere nulla - i nomi, i luoghi, le circostanze esatte -, ho riferito tutto come se si trattasse di un archivio storico. In termini legali, tuttavia, così mi è stato detto da vari editori nel corso degli anni, le mie memorie non potranno mai essere pubblicate mentre sono ancora vivi i complici del mio crimine. Si e liberi solo di 334
diffamare se stessi e i morti. Dalla fine degli anni Quaranta, i coniugi Marshall si sono dati un gran da fare a difendere in tribunale il loro buon nome con una ferocia che non badava a spese. Non avrebbero difficoltà a mandare in rovina una casa editrice data la loro disponibilità finanziaria. Viene quasi da pensare che abbiano qualcosa da nascondere. E pensarlo si può. Ma non scriverlo. Mi è stato rivolto il più ovvio dei suggerimenti: sposta, cambia, trasforma! Fai scendere sulla vicenda la nebbia dell’immaginazione! Non e a questo che servono i romanzi? Spingiti solo fin dove e necessario, pianta le tende pochi centimetri più in là, fuori dalla portata della legge. Solo che nessuno conosce le distanze precise prima che sia stata emessa una sentenza. Per stare al sicuro, occorrerebbe mantenersi nel vago. So che non potrò pubblicare finché non saranno morti. E da questa mattina, accetto anche che avvenga dopo che lo sia io. Non basta che se ne vada uno dei due. Anche quando il muso rattrappito di Lord Marshall comparirà finalmente tra le pagine dei necrologi, la mia cugina venuta dal nord non potrà tollerare un’accusa di cospirazione criminale. C’è stato un crimine. Ma ci sono stati anche gli amanti. Gli amanti e l’esito felice della loro storia sono stati nei miei pensieri per tutta la notte. Il sole muore e il giorno finisce! Un verso modesto, in effetti. Mi viene in mente adesso che in fondo non sono andata tanto lontano, da quando scrissi la mia commediola. O meglio, mi sono concessa una lunga digressione, per poi tornare al punto di partenza. È soltanto questa mia ultima versione ad avere un esito felice, con gli amanti in piedi uno accanto all’altra su un marciapiede londinese, mentre io mi allontano. Tutte le precedenti stesure sono state impietose. Ora però non mi è più chiaro quale sarebbe lo scopo se cercassi ad esempio di convincere il lettore, con mezzi impliciti o espliciti, del fatto che Robbie Turner e morto di setticemia a Bray-Dune il 1° giugno 1940, o che Cecilia è rimasta uccisa nel settembre dello stesso anno dalla bomba che distrusse la stazione della metropolitana di Balham. Che non li ho mai visti in quel periodo. Che la mia passeggiata per Londra si è conclusa nel parco di Clapham, e che una Briony vigliacca se ne è tornata zoppicando all’ospedale, incapace di affrontare lo strazio recente di una sorella in lutto. Che le lettere d’amore di Robbie e Cecilia si trovano negli archivi del War Museum. 335
Che razza di fine sarebbe? Quale logica, speranza o soddisfazione potrebbero trarne i lettori? Chi avrebbe voglia di credere che non si sono mai più incontrati, che non hanno portato a compimento il loro amore? Chi vorrebbe crederlo, se non per rispetto del realismo più deprimente? Non posso fare a chi legge un torto simile. Sono troppo vecchia, troppo spaventata, troppo innamorata del brandello di vita che mi resta. Mi aspetta l’onda incombente della smemoratezza, e infine dell’oblio. Non ho più il coraggio del mio pessimismo. Quando sarò morta, e lo saranno anche i Marshall, e il libro sarà pubblicato, esisteremo soltanto come mie invenzioni. Briony non sarà meno immaginaria dei due amanti che divisero un letto nel quartiere di Balham facendo infuriare la padrona di casa. A nessuno importerà quali individui siano stati modificati per costruire un romanzo. Lo so, c’è sempre un certo tipo di lettore che si sentirà in dovere di chiedere: Ma che cosa è successo veramente? La risposta è semplice: gli amanti sopravvivono, felici. Finché resterà anche una sola copia, un unico dattiloscritto della mia stesura finale, la mia Arabella dall’animo sincero e il suo principe-dottore sopravvivranno per amarsi. Il problema in questi cinquantanove anni è stato un altro: come può una scrittrice espiare le proprie colpe quando il suo potere assoluto di decidere dei destini altrui la rende simile a Dio? Non esiste nessuno, nessuna entità superiore a cui possa fare appello, per riconciliarsi, per ottenere il perdono. Non c’è nulla al di fuori di lei. È la sua fantasia a sancire i limiti e i termini della storia. Non c’è espiazione per Dio, né per il romanziere, nemmeno se fossero atei. È sempre stato un compito impossibile, ed è proprio questo il punto. Si risolve tutto nel tentativo. Sono da un po’ accanto alla finestra, sopraffatta da ondate di stanchezza che si abbattono sulle povere forze del mio corpo. Mi sembra che il pavimento stia ondeggiando sotto i miei piedi. Ho osservato il primo chiarore grigio rivelare i contorni del parco e dei ponti sul lago che non c’è più. E del viale lungo e stretto sul quale portarono via Robbie, nella luce bianca. Mi piace pensare che non sia debolezza né desiderio di fuga, ma un ultimo gesto di cortesia, una presa di posizione contro la dimenticanza e l’angoscia, permettere ai miei amanti di sopravvivere e vederli riuniti alla fine. Ho regalato loro la felicità, ma non sono stata tanto opportunista da consentire che mi perdonassero, non proprio, non ancora. E se avessi il potere di evocare la loro presenza alla mia festa di 336
compleanno... Robbie e Cecilia, ancora vivi, ancora innamorati, seduti accanto in biblioteca, a sorridere delle Disavventure di Arabella? Non è escluso. Ora basta però, devo dormire.
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Ringraziamenti
Sono in debito verso il personale dell’Archivio dell’Imperial War Museum che mi ha permesso di visionare lettere inedite, diari e ricordi di soldati e infermiere di servizio nel 1940. Sono anche in debito verso gli autori e i libri seguenti: Gregory Blaxland, Destination Dunkirk; Walter Lord, The Miracle of Dunkirk; Lucilla Andrews, No Time for Romance. Sono grato a Claire Tomalin, Craig Raine e Tim Garton-Ash per i loro commenti utili e incisivi, e soprattutto a mia moglie, Annalena McAfee, per il suo incoraggiamento e la sua lettura eccezionalmente attenta. I. M.
Ho cinquantadue anni e mi dedico seriamente alla scrittura da quando ne avevo ventuno. Spesso mi capita di domandarmi se scrivere stia diventando più facile. Temo che la risposta sia no. A quanto pare scrivere non è un’attività che si semplifica con l’andare del tempo; non è possibile «buttare giù» un romanzo solo perché fai questo mestiere da qualche decennio. Certe volte mi pare che la questione si riduca a un problema di forma fisica: scrivere richiede un’enorme quantità di energia. Invecchiare non aiuta. È fondamentale convincersi di avere tra le mani qualcosa di nuovo, di fresco, qualcosa che sia decisamente diverso da tutto ciò che l’ha preceduto, anche se può trattarsi solo di un’illusione. Poi naturalmente occorrerà scavare più a fondo ogni volta e compiere ricerche accurate per arrivare a un materiale che non assomigli a quello già utilizzato. Con il passare degli anni sai sempre qualcosa di più sulle tue abitudini mentali, sulla struttura dei tuoi pensieri. Diventi molto scettico e vuoi evitare il più possibile di ripeterti. Continuo a credere che tra un romanzo e l’altro sia necessario inserire un pezzo di vita; mi pare che ogni romanzo debba essere scritto da una persona leggermente diversa. Ian McEwan, Bbc Radio 3, novembre 2000.
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SOMMARIO
Parte prima Capitolo primo ..................................................................................................................................... 3 Capitolo secondo ................................................................................................................................ 17 Capitolo terzo ..................................................................................................................................... 30 Capitolo quarto................................................................................................................................... 40 Capitolo quinto ................................................................................................................................... 51 Capitolo sesto ..................................................................................................................................... 59 Capitolo settimo ................................................................................................................................. 67 Capitolo ottavo ................................................................................................................................... 72 Capitolo nono ..................................................................................................................................... 89 Capitolo decimo ............................................................................................................................... 105 Capitolo undicesimo ........................................................................................................................ 116 Capitolo dodicesimo ........................................................................................................................ 135 Capitolo tredicesimo ........................................................................................................................ 145 Capitolo quattordicesimo ................................................................................................................. 161 Parte seconda............................................................................................................................. 174 Parte terza ................................................................................................................................... 243
Londra 1999 .................................................................................................................................... 319
Ringraziamenti ................................................................................................................................. 338
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