DOUGLAS PRESTON ERESIA (Blasphemy, 2007) A Priscilla, Penny, Ellen, Jim e Tim Capitolo 1 Luglio Ken Dolby, in piedi dava...
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DOUGLAS PRESTON ERESIA (Blasphemy, 2007) A Priscilla, Penny, Ellen, Jim e Tim Capitolo 1 Luglio Ken Dolby, in piedi davanti alla postazione di lavoro, accarezzava i comandi di Isabella con le dita delicate. Indugiò assaporando l'istante, poi aprì uno sportello sul quadro e abbassò una levetta rossa. Nessun ronzio, nessun rumore, niente che indicasse che l'apparecchiatura scientifica più costosa al mondo si era accesa, tranne il fatto che a più di trecento chilometri di distanza le luci di Las Vegas si affievolirono in modo pressoché impercettibile. Mentre Isabella si scaldava, Dolby iniziò a sentirne la lieve vibrazione sul pavimento. Per lui era femmina e, nei momenti in cui più si abbandonava alla fantasia, ne aveva persino ricostruito l'aspetto: alta e snella, la schiena muscolosa, nera come la notte del deserto, imperlata di sudore. Isabella. Non aveva rivelato a nessuno ciò che provava: perché coprirsi di ridicolo? Per gli altri scienziati che lavoravano al progetto, Isabella era una «cosa», una macchina priva di vita, realizzata per uno scopo preciso. Dolby invece nutriva un profondo affetto per ciò che creava, fin da quando aveva dieci anni e aveva montato la sua prima radio. Fred, così si chiamava. Quando pensava a Fred, vedeva un uomo grasso dai capelli color carota. Il primo computer che aveva costruito era stato Betty: nella sua mente aveva le sembianze di una segretaria dinamica ed efficiente. Non sapeva perché le sue macchine acquisissero una personalità specifica: succedeva e basta. E adesso lei, l'acceleratore di particelle più potente al mondo... Isabella. «Come andiamo?» domandò Hazelius, il responsabile del team, mentre si avvicinava e gli posava affettuosamente una mano sulla spalla. «Fa le fusa come una gatta» rispose Dolby. «Bene.» Hazelius si raddrizzò e si rivolse al resto della squadra. «Un attimo di attenzione, ho un annuncio da farvi.»
I membri del gruppo sollevarono la testa dalle postazioni e nella stanza calò il silenzio. Hazelius attraversò a lunghi passi la sala e si piazzò davanti allo schermo al plasma più grande. Piccolo, smilzo, elegante, irrequieto come un criceto in gabbia, passeggiò su e giù per qualche istante prima di girarsi verso di loro mostrando un sorriso smagliante. Dolby non smetteva mai di stupirsi del suo carisma. «Miei cari amici» esordì studiando il gruppo con gli occhi turchesi. «È il 1492. Siamo a prua della Santa Maria e stiamo scrutando l'orizzonte pochi attimi prima che appaia la costa del Nuovo Mondo. Oggi è il giorno in cui raggiungeremo quell'orizzonte sconosciuto e approderemo sul litorale del nostro Nuovo Mondo.» Si chinò per prendere qualcosa dall'inseparabile borsone a tracolla e ne estrasse una bottiglia di Veuve Clicquot. Con gli occhi che gli brillavano la sollevò a mo' di trofeo e la posò energico sul tavolo. «Questa è per dopo, quando metteremo piede sulla spiaggia. Perché stasera porteremo Isabella al cento per cento della potenza.» La notizia fu accolta dal mutismo. «Non avevamo deciso di effettuare prima tre prove al novantacinque per cento?» chiese dopo un po' Kate Mercer, il vicedirettore del progetto. Hazelius la guardò sorridendo. «Sono impaziente. Tu non lo sei?» La Mercer gettò all'indietro i lucidi capelli neri. «Che succede se ci imbattiamo in una risonanza sconosciuta o se generiamo un buco nero in miniatura?» «Dai tuoi calcoli risulta che esiste una probabilità su un quadrilione che si verifichi un inconveniente simile.» «Potrebbero essere sbagliati.» «I tuoi calcoli non sono mai sbagliati.» Hazelius sorrise ancora e si voltò verso Dolby. «Tu che cosa ne pensi? È pronta?» «Puoi starne maledettamente certo.» «Allora?» esclamò Hazelius allargando le mani. Si guardarono in faccia. Dovevano rischiare? All'improvviso Volkonskij, il programmatore russo, ruppe il ghiaccio. «Sì, facciamolo!» Diede un cinque allo sgomento Hazelius, poi tutti cominciarono a scambiarsi pacche sulle spalle, a stringersi la mano e ad abbracciarsi come una squadra di baseball prima di una partita. Cinque ore e altrettanti disgustosi caffè dopo, Dolby era in piedi davanti all'enorme schermo piatto ancora buio: i fasci protonici di materia-
antimateria non erano ancora a contatto. Occorreva molto tempo per portare a regime la macchina e raffreddare i magneti superconduttori in modo che trasportassero la quantità d'energia necessaria. Poi bisognava aumentare la luminosità dei fasci con incrementi del cinque per cento, farli convergere e collimare in un fascio uniforme, controllare i superconduttori e azionare svariati programmi di verifica prima di procedere con un ulteriore aumento del cinque per cento. «La potenza è al novantacinque per cento» affermò Dolby in tono cantilenante. «Dannazione!» esclamò Volkonskij alle sue spalle mentre sferrava un colpo alla macchinetta del caffè che tintinnò come l'Uomo di latta. «È già vuota.» Dolby soffocò una risatina. Nelle due settimane che avevano trascorso sulla mesa, Volkonskij si era rivelato un insopportabile «Signor so tutto io», oltre che un esempio di relitto umano in stile Vecchia Europa: rozzo, sciatto e insolente, i capelli lunghi e unti, le magliette logore e un groviglio di peli pubici al posto della barba. Sembrava un tossicodipendente più che un brillante ingegnere di software; lo stesso identikit, d'altronde, valeva per molti di loro. Si udì un altro ticchettio dell'orologio. «I fasci sono allineati» affermò Rae Chen. «Luminosità quattordici TeV.» «Isabella funziona bene» osservò Volkonskij. «I miei sistemi sono tutti okay» annunciò Cecchini, l'esperto di fisica delle particelle. «La situazione, signor Wardlaw?» Wardlaw, il responsabile della sicurezza, rispose dalla sua postazione. «Solo cactus e coyote, signore.» «Bene» disse Hazelius. «È ora.» Fece una pausa a effetto e aggiunse: «Ken, porta i fasci in collisione». Dolby sentì accelerare i battiti del cuore. Sfiorò gli strumenti con le dita sottili come zampe di ragno e li regolò con un delicato tocco da pianista. Un istante dopo batté una serie di comandi sulla tastiera. «Contatto.» Tutti gli enormi schermi piatti si attivarono all'istante e d'un tratto un sibilo si levò nell'aria: sembrava provenire dal nulla e nello stesso tempo da ogni direzione. «Che cos'è?» domandò la Mercer allarmata.
«Un trilione di particelle che viene rilevato dai detector» spiegò Dolby. «Crea una forte vibrazione.» «Gesù, sembra il monolito di 2001: Odissea nello spazio.» Volkonskij urlò come una scimmia, ma nessuno gli prestò attenzione. Sul monitor centrale, il Visualizzatore, apparve un'immagine. Dolby la fissò estasiato. Ricordava un gigantesco fiore: lampi tremolanti cromatici s'irradiavano da un singolo punto, si piegavano e si contorcevano come se volessero uscire dallo schermo. Dolby rimase a contemplarne, meravigliato e sgomento, la profonda bellezza. «Contatto riuscito» annunciò Rae Chen. «I fasci sono collimati. Dio, è un allineamento perfetto!» Si levarono grida d'esultanza e qualche applauso. «Signore e signori» disse Hazelius, «benvenuti sulla costa del Nuovo Mondo.» Indicando il Visualizzatore, aggiunse: «Avete davanti a voi una densità d'energia che non si era più prodotta nell'universo dopo il Big Bang». Si girò quindi verso Dolby. «Ken, procedi con incrementi di dieci fino al novantanove per cento della potenza.» Il sibilo etereo aumentò lievemente, mentre Dolby batteva sulla tastiera. «Novantasei» affermò. «Luminosità diciassette virgola quattro TeV» annunciò la Chen. «Novantasette... novantotto.» Un silenzio carico di tensione avvolse l'intera squadra. L'unico rumore adesso era il ronzio che permeava la sala sotterranea di controllo; sembrava quasi che le montagne intorno a loro cantassero. «I fasci sono sempre collimati» riferì la Chen. «Luminosità ventidue virgola cinque TeV.» «Novantanove.» Il sibilo di Isabella si era fatto ancora più acuto, più puro. «Aspettate un attimo!» esclamò Volkonskij chinandosi sulla postazione di lavoro del supercomputer. «Isabella è... lenta.» Dolby si girò di scatto. «Non c'è niente che non vada nell'hardware. Dev'essere un difetto del software.» «Il problema non è il software» replicò Volkonskij. «Forse dovremmo mantenerla a questo livello» osservò la Mercer. «Segnali di un buco nero in miniatura?» «No» rispose la Chen. «Neanche la minima traccia di radiazione di Hawking.» «Novantanove virgola cinque» annunciò Dolby.
«A ventidue virgola sette TeV ho un fascio di particelle cariche» disse la Chen. «Di che tipo?» domandò Hazelius. «Una risonanza sconosciuta. Guardate.» Ai lati del fiore, sullo schermo centrale, erano comparsi due lobi rossi tremolanti: parevano le orecchie impazzite di un clown. «Scattering» affermò Hazelius. «Forse si tratta di gluoni. Potrebbe indicare la presenza di un gravitone Kaluza-Klein.» «Assolutamente no» ribatté decisa la Chen. «Non a questa luminosità.» «Novantasei virgola sei.» «Gregory, credo dovremmo mantenere la potenza costante a questo livello» suggerì la Mercer. «Stanno accadendo troppe cose tutte insieme.» «È normale rilevare risonanze sconosciute» affermò Hazelius. La sua voce non era più alta, ma si distingueva in un certo qual modo dalle altre. «Ci troviamo in un territorio sconosciuto.» «Novantanove virgola sette» annunciò Dolby sempre con tono cantilenante. Aveva totale fiducia nella sua macchina. Avrebbe potuto portarla al cento per cento, se necessario anche oltre. Lo eccitava sapere che in quel momento stavano assorbendo quasi un quarto della corrente prodotta dalla diga Hoover. Per questo avevano dovuto effettuare i test nel cuore della notte, quando il consumo di energia era al minimo. «Novantanove virgola otto.» «C'è davvero una grande interazione sconosciuta!» esclamò la Mercer. «Che problema hai, figlio di puttana?» gridò Volkonskij al computer. «Ve l'ho detto, ci stiamo cacciando in uno spazio di Kaluza-Klein» disse la Chen. «È incredibile.» Sul grande schermo piatto con il fiore comparve un effetto neve. «Isabella si comporta in modo strano» fu il commento del programmatore russo. «Come può essere?» replicò Hazelius dalla sua postazione al centro del Ponte. «Maledetta!» Dolby alzò gli occhi al cielo. Volkonskij era un tale rompiscatole. «Sul mio quadro tutti i sistemi funzionano.» Batté furioso sulla tastiera, imprecò in russo e diede una pacca al monitor. «Gregory, non credi che dovremmo diminuire la potenza?» intervenne di nuovo la Mercer.
«Dalle ancora un minuto» rispose Hazelius. «Novantanove virgola nove» annunciò Dolby. Negli ultimi cinque minuti ogni sonnolenza era scomparsa: erano tutti svegli, gli occhi sgranati per lo stupore e i nervi tesi come corde di violino. Solo Dolby si sentiva rilassato. «Sono d'accordo con Kate» disse Volkonskij. «Non mi piace come sta procedendo Isabella. Iniziamo la sequenza per ridurre la potenza.» «Mi assumo la piena responsabilità» affermò Hazelius. «Tutto è ancora conforme alle specifiche. Il flusso di dati di dieci terabit le sta sul gozzo, questo è il punto.» «Gozzo? Che vuol dire "gozzo"?» «Vuol dire una potenza del cento per cento» rispose Dolby con una nota di compiacimento nella voce calma. «Luminosità dei fasci ventisette virgola otto due otto TeV» annunciò la Chen. I monitor dei computer erano puntinati per l'effetto neve. Il sibilo pervadeva l'intera stanza, simile a una voce proveniente dall'aldilà, mentre il fiore si contorceva e si ingrandiva sul Visualizzatore. Poi nel suo centro comparve un punto nero, simile a un buco. «Accidenti!» gridò la Chen. «Sto perdendo tutti i dati alla Coordinata Zero.» Il fiore tremolò, poi fu attraversato da strisce scure. «Roba da matti!» esclamò la Chen. «Non sto scherzando, i dati stanno scomparendo.» «Non è possibile» obiettò Volkonskij. «I dati non svaniscono. Le particelle sì.» «Smetti di punzecchiare. Le particelle non svaniscono affatto.» «E invece le particelle svaniscono.» «Problemi con il software?» intervenne Hazelius. «Nessuno» rispose a voce alta il programmatore russo. «È un problema dell'hardware.» «Va' a farti fottere» borbottò Dolby. «Gregory, forse Isabella sta rompendo la "brana"» osservò la Mercer. «Penso proprio che sia il caso di ridurre la potenza.» Il punto nero crebbe, si allargò e iniziò a ingoiare l'immagine sullo schermo. I suoi margini ondeggiavano frenetici, illuminati da colori vivi. «Questi numeri sono assurdi» annunciò la Chen. «Ho una curvatura estrema dello spazio-tempo a CZero. Sembra una specie di singolarità. Forse stiamo creando un buco nero.»
«Impossibile» replicò Alan Edelstein, il matematico dell'équipe che alzò gli occhi dalla postazione d'angolo su cui fino a quel momento era rimasto chino. «Non ci sono prove di una radiazione di Hawking.» «Giuro su Dio» disse ad alta voce la Chen, «che stiamo creando un buco nello spazio-tempo!» Sullo schermo che mostrava il codice del programma in tempo reale, simboli e numeri sfrecciavano come missili. Sull'ampio monitor al di sopra delle loro teste il fiore, che sino a un attimo prima si contorceva, era scomparso lasciando uno spazio nero. Poi in quel vuoto comparve un movimento spettrale, simile al battito d'ali di un pipistrello. Dolby lo fissò sorpreso. «Maledizione, Gregory, riduci la potenza!» gridò la Mercer. «Isabella non accetta input!» urlò Volkonskij. «Sto perdendo le core routine!» «State calmi finché non ci capiamo qualcosa» ordinò Hazelius. «È andata! Isabella è andata!» esclamò il russo sollevando le mani e appoggiandosi allo schienale con un'aria disgustata sul volto ossuto. «Qui sul quadro è ancora tutto a posto» osservò Dolby. «Quello a cui vi trovate di fronte è ovviamente un poderoso tilt del software.» Rivolse di nuovo l'attenzione al Visualizzatore. Nello spazio vuoto si stava formando un'immagine tanto strana e tanto bella che all'inizio non riuscì a comprenderla. Si guardò attorno ma nessun altro la stava osservando: erano tutti concentrati sulle rispettive console. «Ehi, scusate: qualcuno sa che sta succedendo lassù sullo schermo?» chiese Dolby. Nessuno rispose. Nessuno alzò lo sguardo. Erano tutti freneticamente occupati mentre la macchina continuava a emettere il suo strano canto. «Sono un semplice ingegnere» proseguì lui, «ma qualcuno di voi, geni teorici, ha idea di che cosa sia? Alan, è... normale?» Il matematico sollevò distratto lo sguardo dalla sua postazione. «Sono soltanto dati casuali» rispose, «Che intendi per casuali? Ha una forma!» «Il computer è in tilt. Non possono essere altro che dati casuali.» «Quello non mi sembra affatto casuale.» Dolby lo fissò. «Si muove. Là c'è qualcosa, te lo giuro: pare quasi vivo, è come se cercasse di uscire. Gregory, lo vedi?» Hazelius guardò il Visualizzatore e si bloccò. Dal suo volto cominciò a trasparire stupore. «Rae? Che sta succedendo sul Visualizzatore?» chiese girandosi.
«Non ne ho idea. Dai rilevatori ricevo una valanga costante di dati coerenti. Da qui non sembra proprio per niente che Isabella sia in tilt.» «Come interpreti quella cosa sullo schermo?» Rae Chen alzò gli occhi e li sgranò. «Diamine, proprio non saprei.» «Si muove» annunciò Dolby. «È come se emergesse.» I rilevatori suonavano e la stanza era pervasa dal loro gemito acuto. «Rae, sono dati errati» disse Edelstein. «Il computer è in tilt. Come potrebbero essere veri?» «Non sono tanto sicuro che siano errati» replicò Hazelius continuando a osservare lo schermo. «Michael, tu che ne pensi?» Il fisico delle particelle fissò stregato l'immagine. «Non ha alcun senso. Nessun colore e nessuna forma corrispondono a energie, cariche o classi di particelle. Non è nemmeno centrata radialmente su CZero: assomiglia a una strana nube di plasma di qualche tipo, tenuta insieme da forze magnetiche.» «Ve l'ho detto» ripeté Dolby, «si sta muovendo, sta uscendo. È come un... Gesù, che diavolo è quello?» Strizzò gli occhi per scacciare il malessere dello sfinimento. Forse aveva un'allucinazione. Li riaprì ma era ancora lì... e si stava espandendo. «Spegnetela! Spegnete Isabella. Subito!» gridò allarmata la Mercer. All'improvviso lo schermo si riempì di neve e un istante dopo divenne completamente nero. «Che diavolo?!?» urlò la Chen pestando sulla tastiera. «Ho perso tutti gli input!» A poco a poco una parola si formò nel centro dello schermo. La squadra ammutolì e restò a guardare. Non si udiva nemmeno più la voce di Volkonskij, acuta per l'eccitazione: sembrava quasi lo avessero spento. Nessuno si mosse. Poi questi scoppiò in una risata nervosa, stridula, isterica, disperata. Dolby provò d'un tratto rabbia. «Figlio di puttana, sei stato tu.» Volkonskij scosse la testa, facendo ondeggiare la massa di riccioli unti. «Lo trovi divertente?» chiese Dolby alzandosi dalla postazione con le mani strette a pugno. «Hai sabotato un esperimento da quaranta miliardi di dollari e lo trovi così divertente?» «Io non ho fatto niente» rispose lui pulendosi la bocca. «Sta' un po' zitto.» Dolby si voltò a guardare gli altri. «Chi è stato? Chi ha manomesso Isabella?» Si girò verso il Visualizzatore e lesse a voce alta la parola che vi
era apparsa. La sputò fuori, in preda alla collera. Salve. Si voltò di nuovo. «Ucciderò il bastardo che ha fatto questo.» Capitolo 2 Settembre Wyman Ford osservò l'ufficio del dottor Stanton Lockwood III, consigliere scientifico del presidente degli Stati Uniti, sulla 17a Strada. Dalla lunga esperienza acquisita a Washington sapeva che, nonostante fosse studiato per mostrare l'aspetto pubblico, esteriore, di un uomo, un ufficio celava sempre il segreto della sua vera natura. Si guardò dunque attorno, a caccia di quel segreto. L'ufficio era stato ristrutturato secondo lo stile che Ford chiamava ILW, Importante Lobbista di Washington. Le anticaglie erano tutte autentiche e di ottima qualità, dalla scrivania Secondo Impero, grossa e brutta come un Hummer, all'orologio a portico francese in bronzo dorato, al tappeto Sultanabad dai colori spenti che ornava il pavimento. Non c'era niente che non costasse una fortuna. E ovviamente non mancava la «parete dei cimeli» tutta tappezzata di diplomi, premi e fotografie in cornice che ritraevano il titolare dell'ufficio insieme a presidenti, ambasciatori e membri del governo. Stanton Lockwood voleva apparire agli occhi del mondo ricco e importante, potente e riservato. Quello che tuttavia Ford colse fu la risolutezza dei suoi propositi: aveva davanti un uomo deciso a essere ciò che non era. Lockwood attese che l'ospite si sedesse prima di accomodarsi nella poltrona posta dall'altra parte del tavolino. Accavallò le gambe e si passò una lunga mano bianca sulla piega dei pantaloni di gabardine. «Evitiamo le solite formalità di Washington» disse. «Mi chiamo Stan.» «Wyman.» Si appoggiò allo schienale e studiò Lockwood: piacente, sotto la sessantina, un taglio di capelli da cento dollari e un fisico da fitness club sul quale l'abito grigio scuro cadeva alla perfezione. Probabilmente giocava a squash. Persino la foto sulla scrivania, tre bambini splendidi dai capelli color stoppa ritratti insieme all'affascinante madre, ricordava le brochure delle società di servizi finanziari. «Bene» continuò Lockwood con il tono di chi annunciava l'inizio ufficiale della riunione, «i suoi ex colleghi di Langley mi hanno raccontato cose straordinarie sul suo conto, Wyman. Sono dispiaciuti che se ne sia anda-
to.» Ford annuì. «Quello che è accaduto a sua moglie è terribile, sono davvero molto dispiaciuto.» Lui cercò di non irrigidirsi. Non era mai riuscito a reagire in modo adeguato quando si accennava alla morte della moglie. «Mi hanno informato che ha passato alcuni anni in un monastero.» Ford attese. «La vita monastica non le piaceva?» «Per fare il monaco bisogna avere un'indole molto particolare.» «Perciò ha lasciato il monastero e aperto il suo studio.» «Un uomo deve pur guadagnarsi da vivere.» «Le sono capitati casi interessanti?» «Non mi è capitato proprio nessun caso. Ho appena iniziato. Lei è il mio primo cliente, se questo è il motivo per cui sono qui.» «Sì. Ho un incarico speciale da affidarle. Dovrà iniziare immediatamente. La impegnerà per dieci giorni, forse per due settimane.» Ford assentì. «C'è una piccola clausola che devo farle presente fin da subito. Una volta che le avrò illustrato l'incarico, non potrà rifiutarlo. È negli Stati Uniti, non comporta rischi e non è complicato da risolvere, almeno a mio parere. Che abbia successo o meno, non ne dovrà mai parlare, perciò mi spiace ma non potrà usare questo incarico per arricchire il suo curriculum.» «E il compenso?» «Centomila dollari in contanti sottobanco, più lo stipendio governativo ufficiale commisurato alla sua posizione di copertura.» Lockwood inarcò le sopracciglia. «È disposto a saperne di più?» Ford non ebbe esitazioni. «Vada avanti.» «Ottimo.» Lockwood prese una cartellina. «Vedo che ha una laurea in antropologia conseguita ad Harvard. Ci occorre un antropologo.» «Allora temo di non essere l'uomo che fa per voi. Quello è un semplice diploma di laurea. Ho frequentato il MIT dove ho conseguito un dottorato di cibernetica. Alla CIA mi occupavo perlopiù di criptologia e computer. Mi sono lasciato l'antropologia alle spalle da tempo.» Lockwood fece un gesto noncurante con la mano e il suo anello di Princeton brillò nella luce. «Questo non ha importanza. Conosce il, ehm... Progetto Isabella?» «È difficile non averne sentito parlare.»
«Allora mi perdonerà se ripeto cose che già sa. Isabella è stata ultimata più di due mesi fa per un costo di quaranta miliardi di dollari. È un acceleratore di particelle di seconda generazione, un supercollisore superconduttore. Ha lo scopo di studiare l'energia del Big Bang e valutare alcune teorie singolari per produrla. È il progetto più caldeggiato dal presidente: gli europei hanno appena ultimato il Large Hadron Collider al CERN e lui desidera che l'America mantenga una posizione leader nel campo della fisica delle particelle.» «Naturale.» «Riuscire a finanziare Isabella non è stata una passeggiata. La sinistra ha obiettato che la somma avrebbe dovuto essere impiegata a beneficio dei servizi sociali, la destra si è lamentata sostenendo che fosse l'ennesimo programma costoso di un governo che voleva mostrare i muscoli. Il presidente si è barcamenato tra Scilla e Cariddi, ha imposto Isabella al Congresso e portato a termine il progetto. Lo considera l'eredità che lascerà ai posteri ed è ansioso che vada tutto bene.» «Certo.» «Isabella è in sostanza un tunnel circolare, situato a novanta metri di profondità e dotato di una circonferenza di settantacinque chilometri, nel quale protoni e antiprotoni circolano in direzioni opposte quasi alla velocità della luce. Nel momento in cui le particelle vengono fatte collimare, generano livelli di energia che non si sono più prodotti da quando l'universo aveva l'età di un milionesimo di secondo.» «Impressionante.» «Abbiamo trovato una sede ideale per la macchina: Red Mesa, un tavolato di quasi milletrecento chilometri quadrati nella riserva indiana navajo, protetto da pareti rocciose di seicento metri e disseminato di miniere di carbone abbandonate, che abbiamo trasformato in bunker e gallerie sotterranei. Il governo statunitense paga sei milioni all'anno di affitto al governo tribale Navajo di Window Rock, in Arizona, in base a un accordo che ha soddisfatto ampiamente tutti gli interessati. «Red Mesa è completamente disabitata e c'è solo una strada sulla sommità. Alla base dell'altopiano ci sono alcuni insediamenti navajo. È un popolo che vive ancora in modo tradizionale: la maggior parte parla ancora nella lingua natia e si mantiene allevando bestiame, tessendo tappeti e fabbricando gioielli. Questo è il quadro.» Ford assentì. «E qual è il problema?» «Nelle ultime settimane un individuo autoproclamatosi sciamano sta
fomentando la popolazione perché si sollevi contro Isabella; diffonde falsità e informazioni errate. Sta facendo proseliti. Il suo compito è occuparsi della questione.» «Che cosa fa il governo Navajo al riguardo?» «Niente. Il governo Navajo è debole. L'ex capotribù è stato accusato di appropriazione indebita e quello attuale si è insediato da poco. Per quanto riguarda lo sciamano, dovrà sbrigarsela da solo.» «Mi racconti di lui.» «Si chiama Begay, Nelson Begay. Non si sa quanti anni abbia: non siamo riusciti a recuperare un certificato di nascita. Sostiene che il Progetto Isabella profani un antico luogo di sepoltura, che i nativi usavano ancora Red Mesa come pascolo per le pecore e via discorrendo. Sta organizzando una cavalcata di protesta.» Lockwood estrasse un volantino tutto sgualcito da una cartellina. «Questo è uno dei manifesti.» La fotocopia sfocata mostrava un uomo a cavallo con un cartello di protesta. ACCORRETE A RED MESA! FERMATE ISABELLA! 14 & 15 SETTEMBRE Difendete Diné Bikéyah, la Terra del Popolo! Red Mesa, Dzilth Chii, è dimora del sacro Dio del Polline, che porta i fiori e i semi. ISABELLA è una ferita mortale nel suo fianco: sparge radiazioni e avvelena la Madre Terra. Unitevi alla cavalcata a Red Mesa. L'incontro è fissato al Centro Blue Gap, il 14 settembre alle 9:00. Risaliremo la Dugway fino al vecchio emporio di Nakai Rock. Lì ci accamperemo, ci purificheremo nella Capanna del Sudore e celebreremo per una notte la Via sacra. Riprendiamoci la terra con la preghiera. «Ha il compito di unirsi alla squadra scientifica in qualità di antropologo e fare da collegamento con la comunità locale» spiegò Lockwood. «Ascolti le loro preoccupazioni, stringa amicizie, calmi le acque.» «E se non funziona?» «Neutralizzi Begay.»
«Come?» «Ripeschi qualche sordido fantasma dal suo passato, lo faccia ubriacare, lo fotografi a letto con un mulo... non m'importa come.» «La considererò come una battuta piuttosto infelice.» «Sì, sì, certamente. È lei l'antropologo. Lei sa come trattare con questa gente.» Lockwood aveva abbozzato un sorriso vago e affabile. Calò il silenzio. «Allora qual è il vero incarico?» domandò infine Ford. Lockwood incrociò le mani e si protese, sfoderando un sorriso ben più ampio. «Scopra che diavolo sta succedendo realmente laggiù.» Ford restò in attesa. «La missione da antropologo sarà la sua copertura. Il vero incarico deve restare segreto.» «Intesi.» «Isabella doveva essere calibrata e attivata otto settimane fa, invece ci stanno ancora armeggiando attorno. Dicono che non riescono a farla funzionare. Hanno tirato fuori tutte le scuse possibili: bachi del software, spire magnetiche difettose, infiltrazioni dal soffitto, cavi rotti, tilt informatici. Di tutto e di più. All'inizio ho creduto alle loro motivazioni, ma ora mi sono convinto che non dicano la verità. C'è qualcosa che non va e penso che mentano sulla natura del problema.» «Mi parli della squadra.» Lockwood si appoggiò allo schienale e inspirò. «Come sicuramente sa, Isabella è frutto dell'ingegno del fisico Gregory North Hazelius, che dirige un team scelto: i migliori e più brillanti esperti in circolazione. L'FBI li ha passati attentamente al vaglio: la loro lealtà è indubbia. Sono affiancati da un ufficiale superiore dell'intelligence assegnato dal Department of Energy e da uno psicologo.» «Il DOE? Perché è coinvolto?» «Uno degli obiettivi principali del Progetto Isabella è ricercare nuove e insolite forme di energia: fusioni, buchi neri in miniatura, materiaantimateria. Il DOE è formalmente responsabile del programma anche se, mi permetta la franchezza, al momento gestisco io la baracca.» «E lo psicologo? Che ruolo ha?» «Laggiù è in corso una sorta di Progetto Manhattan: vita isolata, livelli elevati di sicurezza, lunghe ore di lavoro, nessun incontro con famigliari. I membri dell'équipe sono sottoposti a continuo stress psicologico. Volevamo essere certi che nessuno impazzisse.» «Capisco.»
«La squadra è andata laggiù dieci settimane fa per avviare Isabella, il che avrebbe dovuto richiedere due settimane al massimo, invece ci stanno ancora lavorando.» Ford assentì. «Nel frattempo, stanno consumando un sacco di elettricità: alla potenza di picco Isabella divora una quantità di megawatt sufficiente a una città di medie dimensioni. Continuano ad attivare la macchina al cento per cento della potenza, sostenendo puntualmente che non funzioni. Quando sollecito Hazelius per avere maggiori particolari, ha una risposta pronta per tutto: ti incanta e lusinga fino a convincerti che il bianco è nero. C'è tuttavia qualcosa che non va e ce lo stanno nascondendo. Potrebbe essere un problema di attrezzature o software... o, Dio solo sa cosa, un problema umano. Ma non potevano trovare momento peggiore: siamo già a settembre. Tra due mesi ci saranno le elezioni. Sarebbe meglio evitare scandali di questa portata.» «Perché l'hanno chiamata Isabella?» «L'ha battezzata così l'ingegnere capo, Dolby, il responsabile della squadra di progettazione. Il nome le è, come dire, rimasto: suonava molto meglio di quello ufficiale, SSCII. Isabella potrebbe essere la sua ragazza o qualcosa del genere.» «Ha parlato di un ufficiale superiore dell'intelligence. Qual è il suo profilo?» «Si chiama Tony Wardlaw. Ex Forze speciali, si è distinto in Afghanistan prima di entrare nell'Ufficio dell'intelligence del DOE. È un elemento di spicco.» Ford rifletté per un istante prima di parlare. «Ancora non capisco, Stan, che cosa la induca a credere che le stiano nascondendo qualcosa. Forse hanno davvero i problemi che le hanno riferito.» «Wyman, possiedo il migliore rilevatore di stronzate della città e quello che sento laggiù in Arizona mi puzza proprio.» Protendendosi aggiunse: «I membri del Congresso di entrambi gli schieramenti stanno affilando i loro lunghi coltelli. La prima volta hanno perso e ora intravedono una seconda occasione di rivincita». «Tipico di Washington: costruisci una macchina da quaranta miliardi di dollari e poi tagli i fondi per farla funzionare.» «Ha afferrato bene l'idea, Wyman. L'unica costante di questa città è la sua aspirazione all'idiozia. Lei ha il compito di scoprire che cosa sta succedendo e riferire a me personalmente. Nient'altro. Non dovrà intraprende-
re azioni di sua iniziativa. Gestiremo l'operazione da qui.» Tornò alla scrivania, prese una pila di dossier da un cassetto e la sbatté sul ripiano accanto al telefono. «Ce n'è uno per ogni scienziato. Cartelle mediche, valutazioni psicologiche, credenze religiose, sono documentate persino le avventure extraconiugali.» Sorrise mesto. «Questi arrivano dalla National Security Agency e lei sa quanto siano accurati.» Ford scrutò il primo dossier e lo aprì. Graffettata sulla copertina c'era la fotografia di Gregory North Hazelius con uno sguardo divertito ed enigmatico negli occhi vispi di colore azzurro. «Hazelius... lo conosce di persona?» «Sì.» Lockwood abbassò la voce. «E desidero... metterla in guardia a questo proposito.» «In che senso?» «Hazelius ha la capacità di focalizzarsi sulle persone, di abbagliarle e farle sentire speciali. Ha una mente tanto fervida che pare quasi ammaliare gli altri. Persino il suo commento più banale assume un significato recondito. L'ho visto citare banalità, come un masso coperto di licheni, e descriverle in modo da farle apparire straordinarie, meravigliose. Ti ricopre di attenzioni, ti tratta come se fossi la persona più importante del mondo. L'effetto è irresistibile, ed è un fattore che sfugge ai dossier. Potrà sembrare strano ma è... è come un innamoramento: quell'uomo ti attrae ed eleva dalla prosaicità del mondo. Deve incontrarlo per capire. Uomo avvisato, mezzo salvato. Mantenga le distanze.» Tacque e guardò Ford. Nel silenzio si percepirono a poco a poco i rumori attutiti di pneumatici e clacson, e le voci provenienti dalla strada. Ford giunse le mani dietro la testa e guardò Lockwood. «Un'indagine del genere verrebbe normalmente condotta dall'FBI o dall'intelligence del DOE. Perché si è rivolto a me?» «Non è ovvio? Tra due mesi ci sono le elezioni. Il presidente vuole che la faccenda sia sistemata in fretta, senza far rumore, senza tracce burocratiche. Ha bisogno di un'azione rapida e di poter negare ogni coinvolgimento. Se lei fallirà, non la conosciamo. Ma anche se avrà successo, le cose non cambiano.» «Sì, ma ancora non comprendo perché proprio io? Ho una laurea in antropologia e basta.» «Ha il profilo giusto: studi antropologici, computer, un passato nella CIA.» Prendendo un dossier dalla pila disse: «E anche un altro pregio». A Ford non piacque il cambiamento improvviso del suo tono di voce.
«Cioè?» Lockwood gli avvicinò il plico sul tavolo. Lui l'aprì e fissò la fotografia graffettata all'interno della copertina: una donna sorridente con i lucidi capelli neri e gli occhi color mogano. La richiuse di scatto, la spinse verso Lockwood e si alzò, pronto ad andarsene. «Mi convoca qui di domenica mattina e mi fa uno scherzo del genere? Mi spiace, non mescolo lavoro e vita privata.» «È troppo tardi per tirarsi indietro.» Ford gli rivolse un freddo sorriso. «Ha intenzione di impedirmi di uscire?» «Era della CIA, Wyman. Sa cosa possiamo fare.» Lui fece un passo e lo guardò incombente. «Sto tremando come una foglia.» Il consigliere scientifico alzò lo sguardo tenendo le mani incrociate e sorrise mite. «Mi scusi, Wyman. Ho detto una cosa stupida, ma lei deve capire innanzitutto l'importanza del Progetto Isabella. Aprirà le porte della conoscenza dell'universo, a partire dalla sua creazione. Ci potrebbe permettere di trovare una fonte illimitata di energia che non si basi sul carbonio. Per la scienza americana sarebbe una tragedia enorme se buttassimo quest'investimento giù per il cesso. Accetti, la prego: se non per il presidente o per me, per il suo Paese. Isabella è - sarò molto schietto - la cosa migliore che l'amministrazione abbia fatto. Rappresenta l'eredità che lasceremo ai posteri. Quando si placheranno tutti gli strepiti e le proteste politiche, sarà Isabella che farà la differenza.» Porgendogli di nuovo la cartellina aggiunse: «È vicedirettore del Progetto Isabella. Adesso ha trentacinque anni, un dottorato conseguito a Stanford ed è un'illustre teorica delle stringhe. Quello che è successo tra voi risale a molto tempo fa. L'ho conosciuta. È una donna brillante, ovviamente, professionale, ancora single, ma non credo che questo sia un problema. È un'entratura, un'amica, qualcuno con cui parlare, nient'altro». «Qualcuno a cui mungere informazioni» vorrà dire. «È in gioco l'esperimento scientifico più importante della storia dell'uomo.» Tamburellando un dito sul dossier, alzò lo sguardo e chiese: «Allora?». Quando Ford ricambiò l'occhiata, notò che la mano sinistra dell'uomo stava accarezzando nervosamente un sasso posato sulla scrivania. Lockwood seguì il suo sguardo e sorrise imbarazzato, come se fosse stato colto in fallo. «Questo?»
Ford colse d'un tratto circospezione nei suoi occhi. «Che cos'è?» chiese. «Il mio sasso portafortuna.» «Posso vederlo?» Lockwood glielo porse con riluttanza. Ford lo girò e vide il fossile di un piccolo trilobite impresso di lato. «Interessante. Ha un significato particolare?» Lockwood parve esitare. «Il mio fratello gemello lo trovò l'estate in cui compimmo nove anni e me lo regalò. Quel fossile mi ha indirizzato sulla via della scienza. Lui... annegò poche settimane dopo.» Ford tastò il sasso, levigato da anni di manipolazioni. Aveva scoperto la vera natura di quell'uomo e inaspettatamente gli piaceva. «Ho davvero bisogno che accetti l'incarico, Wyman.» Anch'io, pensò. Ford posò con delicatezza la pietra sul tavolo. «D'accordo. Accetto ma lavorerò a modo mio.» «Mi sembra abbastanza giusto ma non scordi: niente azioni di sua iniziativa.» Si alzò, prese una valigetta dalla scrivania e vi infilò dentro i dossier, la chiuse e predispose la combinazione. «Qui dentro troverà un telefono satellitare, un portatile, un po' di materiale orientativo, un portafoglio, denaro e il suo incarico ufficiale di copertura. C'è un elicottero che l'aspetta. La guardia davanti al mio ufficio la accompagnerà. Vestiario e altri oggetti le verranno inviati separatamente.» Attivò la combinazione per bloccare la valigetta e girò la rotellina. «La combinazione è composta dalle cifre settedieci del pi greco.» Sorrise per l'astuzia. «E se non ci mettessimo d'accordo sul significato di "niente azioni di mia iniziativa"?» Lockwood gli avvicinò la valigetta sul tavolo. «Se lo ricordi» disse. «Noi non ci siamo mai incontrati.» Capitolo 3 Booker Crawley si appoggiò allo schienale della poltrona da amministratore delegato e studiò i cinque uomini che si stavano accomodando intorno al tavolo da riunioni di legno bubinga. Nella sua lunga e prospera carriera di lobbista aveva imparato che si poteva tranquillamente giudicare un libro dalla copertina, almeno nella maggior parte dei casi. Guardò l'uomo dal nome impossibile, Delbert Yazzie, che gli sedeva di fronte, ne osservò gli occhi liquidi e il volto triste, l'abito ordinario, la fibbia della cin-
tura d'argento e turchese, pesante un paio d'etti e, per finire, gli stivali da cowboy che parevano esser stati risuolati più volte. In poche parole, Yazzie sembrava un tipo arrendevole. Era un indiano rozzo e zoticone, che giocava a fare il cowboy e si era, non si sa bene come, ritrovato a rivestire il ruolo di neoeletto presidente della cosiddetta nazione Navajo. Precedente occupazione: bidello. Crawley gli avrebbe dovuto spiegare che a Washington le persone chiedevano un appuntamento, non si presentavano a sorpresa, soprattutto la domenica mattina. Gli uomini seduti a destra e sinistra di Yazzie formavano quello che denominavano il Consiglio dei Navajo. Uno sembrava un vero pellerossa: fascia con le perline in testa, capelli lunghi e raccolti in una coda, camicia indiana di velluto con bottoni d'argento e collana turchese. Due indossavano abiti comprati in un qualsiasi centro commerciale. Il quinto, inquietantemente bianco, esibiva un completo Armani di buon taglio. Quello era l'uomo a cui stare attenti. «Bene!» esclamò Crawley. «Sono davvero felice di conoscere il nuovo capo della nazione Navajo. Non sapevo fosse in città! Congratulazioni per la vittoria e a tutti voi, membri del Consiglio dei Navajo: benvenuti!» «Siamo contenti di essere qui, signor Crawley» rispose Yazzie con voce bassa e neutra. «Mi chiami Booker, la prego!» Yazzie chinò il capo ma non lo invitò a chiamarlo per nome. Be', non c'è da stupirsi, pensò Crawley, con un nome come Delbert. «Posso offrirvi qualcosa da bere? Un caffè? Un tè? Acqua?» Optarono tutti per il caffè. Crawley premette un tasto dell'interfono, ordinò e pochi minuti dopo il suo assistente entrò spingendo un carrello con caffettiera d'argento, lattiera, zuccheriera e tazze. Crawley trasalì vedendo cucchiaini e cucchiaini di cristalli di zucchero sparire nel caffè nero di Yazzie: cinque in tutto. «Per me è stato un vero piacere lavorare con la nazione Navajo» proseguì Crawley. «Con Isabella quasi terminata e pronta a essere azionata, abbiamo tutti una bella occasione per festeggiare. Teniamo in grande considerazione il popolo Navajo e vorremmo che la nostra collaborazione duri ancora a lungo.» Si appoggiò alla poltrona con un sorriso cordiale e attese la loro replica. «La nazione Navajo la ringrazia, signor Crawley.» Tra i presenti ci furono cenni d'intesa e mormorii di approvazione. «Le siamo grati per tutto quello che ha fatto» continuò Yazzie. «La na-
zione Navajo prova grande soddisfazione all'idea di aver dato un importante contributo alla scienza americana.» Parlava in modo lento, ponderato, come se si fosse preparato le parole, e Crawley avvertì una fugace sensazione di gelo. Forse gli avrebbero chiesto di rivedere il compenso. Be', che ci provassero pure: non sapevano con chi avevano a che fare. Che branco di poveri imbecilli. «Ha fatto un ottimo lavoro installando Isabella sulla nostra terra e negoziando condizioni eque con il governo» disse ancora Yazzie sollevando lo sguardo sonnolento verso Crawley senza tuttavia fissarlo. «Ha fatto quello che aveva detto, il che rappresenta una novità nei nostri rapporti con Washington. Ha mantenuto la promessa.» Quello era l'unico motivo della visita? «Grazie, signor presidente, è molto gentile. Sono felicissimo che la pensi così. Certo che manteniamo le promesse! Le dirò con franchezza che il progetto ha richiesto un duro lavoro. Mi perdonerà se mi lodo un po', ma è stato uno dei progetti più impegnativi in cui sia stato coinvolto. Però ci siamo riusciti, vero?» Crawley era raggiante. «Sì. Ci auguriamo che il compenso che ha ricevuto sia commisurato all'impegno.» «A dire il vero, per noi il progetto si è rivelato molto più costoso del previsto. Il mio contabile è di pessimo umore da settimane! Ma non capita tutti i giorni di poter aiutare la scienza americana e di offrire nel contempo occupazione e opportunità alla nazione Navajo.» «Il che ci porta al motivo della nostra visita.» Crawley sorseggiò il caffè. «Bene, parli pure.» «Terminato ormai il lavoro e messa in funzione Isabella, non vediamo più la necessità di avvalerci dei suoi servizi. Quando a fine ottobre scadrà il nostro contratto con Crawley e Stratham, non lo rinnoveremo.» Yazzie aveva parlato senza mezzi termini, tanto che Crawley impiegò qualche istante a digerire il colpo. Riuscì tuttavia a conservare il sorriso. «Be'» disse, «mi spiace molto. È per qualcosa che abbiamo fatto o fatto male?» «No, è come le ho detto: il progetto è concluso. Quali pressioni deve esercitare ancora?» Crawley fece un profondo respiro e posò la tazza. «Non posso biasimarvi: dopotutto, Window Rock è molto lontana da Washington.» Protendendosi, abbassò la voce in un sussurro: «Lasci che le spieghi una cosa, signor presidente. In questa città niente è mai concluso. Isabella in verità non è
ancora operativa e c'è un vecchio detto in voga a K Street: "Tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare". I nostri nemici, i vostri nemici, non hanno mai mollato. Molti membri del Congresso smaniano tuttora per stroncare il progetto. Così funzionano le cose a Washington: niente si dimentica e niente si perdona. Domani potrebbero proporre una legge per tagliare i fondi a Isabella. Potrebbero cercare di rinegoziare i costi dell'affitto. Vi serve un amico a Washington, signor Yazzie, e quell'amico sono io. Sono l'uomo che ha mantenuto la promessa. Se aspettate che la cattiva notizia arrivi a Window Rock, sarà troppo tardi». Li scrutò in volto, ma non riuscì a cogliere alcuna reazione. «Vi suggerisco caldamente di rinnovare il contratto almeno per sei mesi, a mo' di garanzia.» Quel Delbert Yazzie era imperscrutabile come un maledetto cinese. Crawley avrebbe preferito collaborare con l'ex presidente, un uomo a cui piacevano le bistecche al sangue, il martini dry e le donne con tanto rossetto. Se solo non l'avessero colto con le mani nella marmellata dell'intera tribù. Alla fine Yazzie parlò. «Abbiamo necessità urgenti, signor Crawley: scuole, posti di lavoro, ambulatori, centri ricreativi per i nostri giovani. Solo il sei per cento delle nostre strade è asfaltato.» Crawley continuò a sorridere come davanti a una telecamera. Che ingrati figli di puttana!, pensò. Da quel momento fino al giorno del giudizio avrebbero incassato sei milioni l'anno e a lui non sarebbero arrivate neanche le briciole. Non aveva tuttavia mentito: il compito di intermediazione si era rivelato una brutta gatta da pelare dall'inizio alla fine. «Se vedessimo che in effetti "tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare"» proseguì Yazzie con il suo fare lento, assonnato, «ci rivolgeremmo di nuovo a lei per avere il suo aiuto.» «Signor Yazzie, siamo un'associazione esclusiva di lobbisti. Solo io e il mio collega. Prendiamo pochi clienti e abbiamo una lunga lista d'attesa. Se vi ritirate, il vostro posto verrà subito occupato da qualcun altro. A quel punto, se accadesse un incidente spiacevole e aveste di nuovo bisogno dei nostri servizi, be'...» «Correremo il rischio» rispose Yazzie con una freddezza che lo mandò su tutte le furie. «Mi permetto di suggerire, anzi raccomando caldamente, di prolungare il contratto per altri sei mesi. Potremmo anche ipotizzare di rinnovarlo dimezzando il compenso. In quel modo vi riservereste almeno un posto a ta-
vola.» Il capotribù lo guardò fisso. «Ha ricevuto un lauto compenso. Quindici milioni di dollari sono un bel gruzzolo. Se considerassimo le ore che avete fatturato e le spese, verrebbe da porsi qualche domanda, ma allo stato attuale la cosa non ci interessa: lei è riuscito nell'impresa e noi le siamo grati. Lasciamo tutto come sta.» Yazzie si alzò, seguito dagli altri. «La invito a pranzo, signor Yazzie! Offro io, naturalmente. C'è un nuovo ristorante francese poco lontano da K Street, Le Zinc, gestito da un vecchio amico dei tempi dell'università. Preparano un martini dry eccezionale e un tris di bistecche al pepe.» Non aveva mai visto un indiano rifiutare un drink. «Grazie ma abbiamo molto da fare qui a Washington e non riusciremmo a trovare il tempo.» Yazzie gli tese la mano. Crawley stentava a crederci. Se ne andavano così. Si alzò e li salutò stringendo loro mollemente la mano. Quando furono usciti, si accasciò contro la bella porta di palissandro, roso dalla rabbia. Nessun avvertimento, nessuna lettera, nessuna telefonata, nemmeno un appuntamento. Erano entrati, lo avevano liquidato e se n'erano andati: in poche parole, lo avevano mandato a farsi fottere. E, come se non bastasse, avevano anche insinuato che li avesse imbrogliati! Dopo quattro anni e quindici milioni di dollari di lobbismo, aveva regalato loro la gallina dalle uova d'oro e quelli che avevano fatto? Lo avevano scotennato e dato in pasto agli avvoltoi. Non era così che funzionavano le cose a K Street. No, signore. Lì ci si preoccupava degli amici. Crawley si raddrizzò. Booker Hamlin Crawley non finiva mai al tappeto al primo pugno. Avrebbe reagito e gli stava già balenando in mente una contromossa. Entrò nell'ufficio interno, chiuse a chiave la porta e prese un telefono dal cassetto inferiore della scrivania. Era una linea fissa intestata a un'anziana bislacca della casa di riposo dietro l'angolo, le cui bollette venivano pagate con una carta di credito che la donna non sapeva nemmeno di possedere. Crawley la usava di rado. Premette il primo tasto, poi si bloccò, frenato da una vaga reminescenza, dal ricordo di come e perché da giovane fosse arrivato a Washington, pieno di idee e speranze. Avvertì allora una sensazione di malessere ma subito dopo la rabbia riemerse. Non avrebbe ceduto all'unico peccato mortale della città: la debolezza. Digitò il resto del numero. «Posso parlare con il reverendo Don T. Spa-
tes, per favore?» La conversazione fu breve e gradevole, il tempismo perfetto. Premette il tasto OFF ed ebbe un moto di esultanza per la sua genialità. Nel giro di un mese quei selvaggi abituati a cavalcare senza sella sarebbero tornati nel suo ufficio e lo avrebbero supplicato di lavorare ancora per loro, al doppio del compenso. Le sue labbra umide, carnose, si piegarono in una smorfia di gioia e attesa. Capitolo 4 Wyman Ford guardò dal finestrino del Cessna Citation, mentre si inclinava per virare sui monti Lukachukai e puntare verso Red Mesa. Il paesaggio era straordinario: un'isola nel cielo circondata da dirupi, segnata da strati di arenaria gialla, rossa e cioccolato. In quel momento la luce del sole penetrò in uno squarcio tra le nubi e illuminò la mesa, incendiandola. Sembrava un mondo davvero perduto. Via via che si avvicinavano, i dettagli divennero più nitidi. Ford distinse le piste di atterraggio, con accanto una serie di hangar e un eliporto. Tre robuste linee dell'alta tensione, sorrette da tralicci alti una trentina di piani, provenivano da nord e da ovest per convergere ai confini della mesa, dove sorgeva una zona protetta da due recinti. Un paio di chilometri più in là, annidato in una valle di pioppi neri, sorgeva un insediamento di case fiancheggiato da campi verdi e da un edificio di legno: l'antico emporio di Nakai Rock. Una strada asfaltata nuova di zecca tagliava in due il tavolato da ovest a est. Lo sguardo di Ford si spostò sui pendii. Un centinaio di metri più in basso, in un fianco della mesa, era stato scavato un accesso imponente, chiuso da una porta metallica rientrata. Mentre l'aereo continuava a inclinarsi, vide l'unica strada che conduceva al tavolato: risaliva tortuosa la parete, come un serpente un tronco. La Dugway. Il Cessna si preparò all'atterraggio. La superficie di Red Mesa si rivelò segnata da numerose spaccature e fenditure: letti di fiumi secchi, avvallamenti e distese di massi. Rade macchie di ginepri si alternavano a piñons, grigi e scheletrici, a chiazze d'erba e artemisia, e a lastroni rocciosi che spuntavano da distese sabbiose. Il Cessna atterrò sulla pista e rullò fino al terminal, costituito da una grossa baracca tondeggiante di lamiera ondulata, dietro la quale scintilla-
vano nella luce vari hangar. Il pilota spalancò il portellone e Ford, che aveva con sé soltanto la valigetta che gli aveva consegnato Lockwood, mise piede sull'asfalto caldo. Non c'era nessuno ad attenderlo. Con un gesto di saluto il pilota risalì a bordo e, un istante dopo, il piccolo aereo era di nuovo in volo, un lucente puntino d'alluminio sempre più distante e minuscolo nel cielo turchese. Ford lo guardò scomparire e si avviò quindi lentamente verso il terminal. Sulla porta era appesa un'insegna di legno, dipinta a mano con caratteri in stile far west. VIETATO L'ACCESSO SPAREREMO AI TRASGRESSORI CIOÈ A TE, AMICO! Sceriffo G. Hazelius Spinse la porta con un dito e l'ascoltò cigolare in avanti e all'indietro. Accanto, fissata a pali metallici conficcati nel calcestruzzo, un'insegna governativa di un azzurro intenso esprimeva pressoché lo stesso concetto in un linguaggio più freddo e burocratico. Il vento soffiava a folate sulla pista creando vortici di sabbia sull'asfalto. Provò la porta del terminal. Era chiusa a chiave. Indietreggiò e si guardò attorno. Gli sembrava d'essere stato catapultato nella sequenza iniziale del film western Il buono, il brutto e il cattivo. Il cigolare dell'insegna e il gemito del vento gli riportarono d'un tratto alla mente il ricordo di quando arrivava a casa dopo scuola, prendeva la chiave che teneva al collo, apriva la porta della residenza di famiglia a Washington e restava solo in quell'ampia villa piena di echi. Sua madre era sempre a qualche ricevimento o raccolta di fondi e il padre assente per missioni governative. Il rombo di un veicolo lo ricondusse al presente. Una jeep Wrangler superò un dosso, scomparve dietro il terminal e riapparve sull'asfalto, che percorse a gran velocità. Si inclinò stridendo quando curvò e inchiodò davanti a lui. Ne scese un uomo con un ampio sorriso sul volto e la mano tesa in segno di saluto. Gregory North Hazelius. Era identico alla fotografia del dossier: sprizzava energia da tutti i pori. «Yà'àt'ééh shi éí, Gregory!» disse Hazelius, stringendogli la mano. «Yà'àt'ééh» rispose un po' stupito Ford. «Non mi dica che parla navajo?» «Solo poche parole che mi ha insegnato un ex studente. Benvenuto.»
Dalla scorsa veloce che aveva dato al suo fascicolo, aveva appreso che Hazelius conosceva dodici lingue, tra cui il farsi, due dialetti cinesi e lo swahili. Non si faceva però menzione del navajo. Dal suo metro e novantatré, Ford era in genere costretto ad abbassare lo sguardo per guardare negli occhi la persona che aveva di fronte. Quella volta dovette farlo più del solito: Hazelius misurava poco più di un metro e sessantacinque. Possedeva un'eleganza naturale e indossava un vestito cachi stirato con cura, una camicia di seta color crema e un paio di mocassini indiani. Aveva due occhi di un azzurro tanto intenso che parevano due schegge di vetro illuminate da una luce interiore, un naso aquilino, una fronte alta e liscia incorniciata da capelli castani ondulati ben pettinati. Una botte piccola piena di un vino straordinario. «Non mi aspettavo il grande capo in persona.» Hazelius scoppiò a ridere. «Facciamo tutti i doppi turni. Sono l'autista locale. Prego, salga.» Ford si piegò per infilarsi sul sedile del passeggero mentre Hazelius balzò al volante con la grazia di un uccellino. «Durante l'installazione di Isabella, non volevo troppo personale ausiliario attorno. Inoltre, - Hazelius si girò a guardarlo con un sorriso smagliante - volevo conoscerla di persona. Lei è il nostro iettatore.» «Iettatore?» «Eravamo in dodici, ora siamo in tredici. A causa sua saremo forse costretti a buttare a mare qualcuno» osservò sogghignando. «È un tipo superstizioso.» Lui rise. «Se sapesse! Non vado mai da nessuna parte senza la mia zampa di coniglio» affermò estraendo dalla tasca un vecchio arto amputato, ripugnante e ormai quasi privo di pelo. «Mio padre me lo diede quando avevo sei anni.» «Carino.» Hazelius premette l'acceleratore e la jeep balzò in avanti schiacciando Ford contro lo schienale. La vettura volò sulla pista e imboccò stridendo una strada da poco asfaltata che si inoltrava serpeggiando tra i ginepri. «È come in campeggio, Wyman. Ci occupiamo di tutto: cuciniamo, puliamo, guidiamo e chi più ne ha più ne metta. Abbiamo un teorico delle stringhe che prepara un fantastico filetto alla griglia, uno psicologo esperto di vini che ci ha fornito di una cantina eccezionale e numerose altre persone dotate di vari talenti.» Ford si aggrappò alla maniglia mentre la jeep affrontava una curva con
un gran stridio di gomme, «Nervoso?» «Mi svegli quando saremo arrivati.» Hazelius scoppiò a ridere. «Non so resistere alle strade deserte: niente polizia e una visuale illimitata. E lei, Wyman, che talenti ha?» «Sono un eccellente lavapiatti.» «Ottimo!» «So spaccare la legna.» «Perfetto!» Hazelius guidava come un pazzo: sceglieva una direzione e la seguiva con l'acceleratore a tavoletta, ignorando del tutto la riga di mezzeria. «Mi scuso per non essere venuto a prenderla all'arrivo. Stavamo finendo un test su Isabella. Le va di fare un rapido giro nei dintorni?» «Sarebbe magnifico.» La jeep superò una gobba ad alta velocità e per un istante Ford si sentì privo di peso. «Nakai Rock» affermò Hazelius indicando la guglia che Ford aveva notato dall'aereo. «Il vecchio emporio prende il nome da quella roccia. Abbiamo chiamato così anche il nostro villaggio. Nakai: che cosa vorrà dire? Ho sempre desiderato saperlo.» «È il termine navajo che sta per "messicano".» «Grazie. Sono incredibilmente contento che sia riuscito a partire con un preavviso così breve. Purtroppo, abbiamo preso la popolazione locale dal verso sbagliato. Lockwood parla molto bene di lei.» La strada scendeva curvando verso una valle riparata, fitta di pioppi neri e circondata da promontori a picco di arenaria rossa. Sul lato esterno della curva sorgeva più o meno una decina di case di finti mattoni, tutte collocate ad arte in mezzo agli alberi, con prati e steccati da cartolina. Nella parte interna il campo sportivo color smeraldo creava un netto contrasto con le rocce. In fondo alla valle, a mo' di giudice, si ergeva l'alta e sinistra cima. «Col tempo costruiremo quasi duecento unità abitative. Sarà una cittadina composta da scienziati ospiti, dalle loro famiglie e dal personale ausiliario.» La jeep superò le abitazioni e fece un'ampia curva. «Il campo da tennis» spiegò Hazelius indicando a sinistra. «La stalla con tre cavalli.» Giunsero a una pittoresca costruzione di tronchi con qualche inserto di mattoni, ombreggiata da imponenti pioppi neri. «Il vecchio emporio, trasformato in sala da pranzo, cucina e sala ricreativa. Abbiamo un tavolo da
biliardo, uno da ping-pong, un calcetto balilla, numerosi DVD, la biblioteca e la mensa.» «A che cosa serviva un emporio quassù?» «Prima che la società carbonifera li scacciasse, i navajo allevavano pecore a Red Mesa. Qui barattavano i tappeti di lana con cibo e provviste. I tappeti di Nakai Rock sono meno noti di quelli di Two Grey Hills ma non per questo meno belli, anzi. Dove ha condotto le sue ricerche sul campo?» «A Ramah, nel Nuovo Messico.» Ford ovviamente non aggiunse: È durato solo per un'estate e non ero ancora diplomato. «Ramah. È dove l'antropologo Clyde Kluckhohn ha svolto ricerche per il famoso libro, Navajo Witchcraft?» Ford si stupì della profonda conoscenza che Hazelius aveva dell'argomento. «Esatto.» «Parla fluentemente navajo?» gli domandò. «Abbastanza da cacciarmi nei guai. Il navajo è forse la lingua più difficile al mondo.» «Per questo mi ha sempre tanto incuriosito conoscerla... e ci ha aiutato anche a vincere la Seconda guerra mondiale.» La jeep si fermò stridendo davanti a una casita piccola e linda, costruita su un pezzo di terra recintato in cui si scorgevano un prato di un verde artificiale, un patio, un tavolo da picnic e un barbecue. «La residenza Ford» annunciò Hazelius. «Graziosa.» In realtà, non lo era affatto. Quel piccolo quartiere, rimesso a nuovo in stile pueblo, aveva un aspetto spaventosamente cittadino. L'ambiente circostante però era davvero splendido. «Gli alloggi governativi sono uguali dappertutto» proseguì Hazelius, «ma li troverà confortevoli.» «Dove sono tutti quanti?» «Giù nel Bunker. Così chiamiamo il complesso sotterraneo in cui si trova Isabella. A proposito, dove sono i suoi bagagli?» «Arrivano domani.» «Avevano proprio una gran fretta di spedirla qui.» «Non mi hanno nemmeno lasciato prendere spazzolino e dentifricio.» Hazelius diede gas e percorse l'ultimo tratto della curva sgommando. Si fermò, inserì le quattro ruote motrici e, abbandonando con cautela l'asfalto, imboccò due solchi irregolari che attraversavano la boscaglia. «Dove andiamo?» «Ora lo vedrà da sé.»
Percorsero gole e passarono sobbalzando accanto a grossi massi mentre la jeep risaliva la strana, contorta foresta di ginepri e piños. Proseguirono tra scossoni per alcuni chilometri. Davanti a loro si stagliava un lungo e ripido lastrone di arenaria rossa. La jeep si fermò e Hazelius scese con un balzo. «Manca poco, è lassù.» Sempre più incuriosito, Ford lo seguì lungo il pendio fino alla cima dello strano promontorio d'arenaria. Giunto alla sommità, ebbe un'incredibile sorpresa: si ritrovò inaspettatamente sul bordo di Red Mesa, con una parete che scendeva a picco per seicento metri. Niente gli aveva preannunciato la vicinanza all'orlo, non aveva avuto alcun sentore del precipizio che si apriva davanti a lui. «Bello, eh?» osservò Hazelius. «Incredibilmente mozzafiato. Rischi di cadere senza neanche accorgertene.» «In effetti c'è una leggenda su un navajo che ha inseguito a cavallo un vitello non marchiato fin qui ed è precipitato nel vuoto. Dicono che il suo chindii, il suo spirito, voli ancora nel vuoto durante certe notti scure e tempestose.» Il panorama era meraviglioso. Davanti a loro si estendeva una terra antica, percorsa da avvallamenti e pilastri di roccia color sangue, spazzata dal vento e scolpita in strane forme. Dietro si scorgeva una serie infinita di tavolati di roccia dai pendii ripidi. Sarebbe tranquillamente potuta essere la fine del creato, la zona in cui Dio aveva rinunciato per disperazione a mettere ordine in una terra ribelle. «Quella grande mesa a forma di isola in lontananza» disse Hazelius, «è la No Man's Mesa, lunga quindici chilometri e larga uno e mezzo. Dicono ci sia un sentiero segreto che conduca alla cima che nessun bianco ha mai trovato. A sinistra c'è la Piute Mesa, quella davanti è la Shonto Mesa. Più indietro ci sono i Gooseneck del fiume San Juan, la Cedar Mesa, le Bear Ears e i monti di Manti-La Sal.» Una coppia di corvi salì in cielo seguendo una corrente, poi si buttò in picchiata e sprofondò negli abissi scuri. Le loro grida echeggiarono nei canyon. «Red Mesa è accessibile solo in due punti: dalla Dugway alle nostre spalle e da una pista che inizia laggiù, a circa tre chilometri. I navajo la soprannominano "pista di mezzanotte". Termina a Blackhorse, il piccolo insediamento laggiù.» Mentre si voltavano per ripartire, Ford scorse una serie di segni sulla su-
perficie di un grosso masso che aveva spaccato il piano di stratificazione. Hazelius seguì il suo sguardo. «Ha notato qualcosa?» Ford si avvicinò e posò la mano su quella superficie irregolare. «Impronte fossili di gocce di pioggia. E... la traccia fossilizzata di un insetto.» «Bene bene» osservò a voce bassa lo scienziato. «Tutti sono venuti quassù ad ammirare il panorama ma lei è il primo che se n'è accorto, oltre a me, si intende. Impronte fossili di gocce di pioggia cadute nell'era dei dinosauri. E poi, dopo la pioggia, un coleottero è passato sulla sabbia bagnata. Per qualche motivo, questo breve istante della storia si è fossilizzato.» Hazelius toccò con fare riverente la pietra. «Niente di quello che noi esseri umani abbiamo fatto su questa terra, nessuno dei nostri grandi capolavori, nemmeno la Monna Lisa o la cattedrale di Chartres né le piramidi egiziane, dureranno quanto la prova del passaggio di quel coleottero nella sabbia.» Ford si sentì stranamente commosso all'idea. Hazelius seguì con il dito la traccia dell'insetto errante e quindi si raddrizzò. «Bene!» esclamò, afferrando Ford per la spalla e scuotendolo con fare cordiale. «Credo che ci intenderemo alla perfezione.» A quel punto Ford si ricordò però dell'avvertimento di Lockwood. Hazelius si girò verso sud e indicò la sommità della mesa. «Nel Paleozoico tutto questo era un'immensa palude che ci ha regalato alcuni dei filoni carboniferi più ricchi d'America. Gli scavi risalgono agli anni Cinquanta. Quei vecchi tunnel erano perfetti come sede per installare Isabella.» Il sole gli illuminò il volto quasi privo di rughe quando si voltò verso Ford e gli sorrise. «Non avremmo potuto trovare luogo migliore, Wyman: isolato, tranquillo, disabitato. Ma per me ciò che più conta è la bellezza del paesaggio, perché bellezza e mistero detengono un posto fondamentale nella fisica. Come ha detto Einstein, l'emozione più bella che possiamo provare è il senso del mistero, che è fonte di tutta la vera scienza.» Ford osservò il sole scomparire a poco a poco nei profondi canyon a occidente, una scaglia d'oro che si fondeva nel rame. «Pronto a scendere sottoterra?» domandò Hazelius. Capitolo 5 La jeep recuperò, sobbalzando, la strada asfaltata. Ford si aggrappò alla maniglia, cercando di assumere un'aria rilassata mentre Hazelius accelerava violentemente superando la pista dell'aeroporto e toccando i centotrenta
lungo il rettilineo. «Vede poliziotti in giro?» gli chiese sogghignando. Un paio di chilometri più avanti la strada era sbarrata da due cancelli. Ciascuno era inserito in un recinto metallico con filo spinato militare sulla sommità, che circondava una zona parallela al bordo della mesa. Hazelius frenò all'ultimo momento con un gran stridore di freni. «Tutto quello che sta lì dentro è zona protetta» spiegò. Digitò un codice su una tastiera fissata su un palo, poco dopo si udì il forte suono di un clacson e il cancello prese a scorrere. Hazelius entrò e parcheggio la jeep accanto ad altre automobili. L'Ascensore, disse indicando con un cenno una torre alta appollaiata sul bordo della parete, irta di antenne e parabole satellitari. Si avvicinarono e Hazelius infilò una carta magnetica nella scanalatura accanto alla porta metallica, poi posò la mano sull'apposito lettore. «Buongiorno, tesoro. Chi è il tipo al tuo fianco?» esclamò, dopo qualche istante, una roca voce femminile. «Wyman Ford.» «Mi serve la tua pelle, Wyman.» Hazelius sorrise. «Quello che intende è che deve mettere il palmo sul lettore.» Ford posò la mano sul vetro caldo, poi una barra di luce si spostò sotto. «Aspetta, devo chiedere all'amico.» Hazelius ridacchiò. «Le piace la nostra interfaccia per la security?» «Singolare, direi.» «È Isabella. Le voci dei computer sono in genere troppo anonime per i miei gusti.» Imitando una tipica voce addestrata aggiunse: «Per favore, ascoltate attentamente perché gli item del nostro menu sono stati modificati. Isabella invece ha una voce vera. L'ha programmata il nostro ingegnere, Ken Dolby. Credo abbia convinto qualche cantante rap a prestargli la voce». «Chi è la vera Isabella?» «Non lo so. Ken è piuttosto enigmatico a riguardo.» La voce continuò suadente: «L'amico dice okay. Adesso sei nel sistema, perciò attento a non cacciarti nei guai». Le porte metalliche si aprirono con un sibilo e apparve la gabbia di un ascensore collocato sul fianco della montagna. Mentre scendevano, da un piccolo oblò potevano vedere l'esterno. Quando l'Ascensore si fermò, Isabella li avvertì di fare attenzione al gradino. Uscirono su un'ampia piattaforma all'aperto ricavata nella parete, di
fronte all'enorme porta di titanio che Ford aveva visto dall'aereo. Era suppergiù larga sei metri e alta almeno dodici, dedusse Wyman. «L'area di stazionamento. Un'altra splendida vista, che ne dice?» «Lei dovrebbe costruire condomini.» «Questo era l'accesso al grande sistema di miniere di carbone Wepo. Soltanto da questo hanno estratto cinquanta milioni di tonnellate di carbone, lasciandoci in eredità enormi caverne. Per noi, il luogo ideale. Era indispensabile installare Isabella in profondità, per proteggere le persone dalle radiazioni quando avesse funzionato a potenza elevata.» Hazelius si avvicinò al portone di titanio. «Chiamiamo questa fortezza il Bunker.» «Mi serve il tuo numero, tesoro» affermò Isabella. Gregory Hazelius digitò una serie di numeri su una piccola tastiera. «Entrate, ragazzi» disse un attimo dopo la voce. La porta cominciò a sollevarsi. «Perché un sistema di sicurezza tanto rigoroso?» domandò Ford. «Dobbiamo proteggere un investimento di quaranta miliardi di dollari, e buona parte dell'hardware e del software è coperta da segreto.» Gli si parò davanti una caverna gigantesca, piena di echi, scavata nella roccia. Odorava di terra e fumo; c'era anche un sentore di muffa che a Ford ricordò la cantina della nonna. Dopo la calura del deserto, quel luogo era fresco e piacevole. La porta si abbassò rimbombando e Ford batté le palpebre per adattare gli occhi alle lampade al sodio. La grotta era davvero enorme, profonda quasi duecento metri e larga una quindicina. Proprio di fronte a lui, in fondo, Ford scorse una porta ovale ricavata nel fianco di una galleria disseminata di tubi d'acciaio inossidabile, condutture e fasci di cavi. Dall'apertura penetrava la nebbiolina dei prodotti di condensazione, che si diffondeva sul terreno formando piccoli tentacoli che poco dopo svanivano. A sinistra un altro varco nella roccia era stato murato con blocchi di scorie, nei quali spiccava una porta metallica con la scritta IL PONTE. Dall'altro lato c'erano pile di cassoni d'acciaio, putrelle e altri materiali edili avanzati, macchinari vari e cinque o sei veicoli da golf. Hazelius lo prese per un braccio. «Proprio davanti a lei c'è la porta ovale che conduce da Isabella. Quella nebbiolina è la condensa formata dai magneti superconduttori. Perché possano mantenere la superconduttività, devono essere raffreddati con elio liquido a una temperatura vicina allo zero assoluto. Quel tunnel porta alla mesa e forma un toro di ventiquattro chi-
lometri di diametro, nel quale facciamo circolare i due fasci di particelle. La flotta di veicoli da golf laggiù ci serve per spostarci. Adesso andiamo a incontrare la banda.» Mentre attraversavano la caverna e i loro passi riecheggiavano in quello spazio immenso, da cattedrale, Ford chiese con noncuranza: «Come vanno le cose?». «Abbiamo problemi» rispose Hazelius. «Una maledetta rogna dietro l'altra.» «Di che tipo?» «Stavolta è il software.» Si avvicinarono alla porta con la scritta IL PONTE. Hazelius l'aprì. Dietro, si estendeva un corridoio di blocchi di scorie dipinto di un verde lime e rischiarato da tubi fluorescenti fissati al soffitto. «La seconda porta a destra e ci siamo. Le faccio strada.» Ford entrò in una stanza circolare illuminata da luci intense. Aveva le pareti tappezzate di schermi piatti giganteschi tanto che ricordava il ponte di un'astronave, con i finestrini che si affacciavano sullo spazio profondo. I monitor non erano operativi e lo screen saver in tema, attivato simultaneamente su tutti, creava ancor più l'illusione di una nave al centro di un campo stellare. Al di sotto correvano imponenti banchi con pannelli di controllo, console e postazioni di lavoro. La sala era più profonda al centro, nel quale si trovava una sedia girevole dall'aspetto retrò futuristico. Gli scienziati avevano abbandonato ciò di cui si stavano occupando e ora scrutavano Ford, incuriositi. Lui, dal canto suo, restò colpito dall'aria smunta, dai volti pallidi da creature sotterranee e dai vestiti spiegazzati che indossavano. Sembravano più malconci di un gruppo di specializzandi in procinto di terminare gli esami finali. Cercò istintivamente con lo sguardo Kate Mercer e si rimproverò all'istante per averlo fatto. «Ha un aspetto familiare?» chiese Hazelius, ammiccando divertito. Ford si guardò attorno sorpreso. Sì, gli era familiare... e all'improvviso capì perché. «Per andare là dove nessuno è mai giunto prima» disse. Hazelius rise deliziato. «Esatto! È la copia del ponte della nave originale Enterprise di Star Trek. Guarda caso, era ideale per la sala di controllo di un acceleratore di particelle.» L'illusione che si trattasse del ponte della U.S.S. Enterprise era in parte guastata dal cesto di rifiuti debordante di lattine di bibite e cartoni di pizza congelata. Carte e involucri di dolciumi giacevano sparsi sul pavimento; una bottiglia ancora chiusa di Veuve Clicquot era appoggiata contro la pa-
rete ricurva. «Ci scusi il disordine: stiamo terminando una prova. Qui c'è solo metà della squadra, gli altri avrà modo di conoscerli a cena.» Voltandosi verso il gruppo disse: «Signore e signori, lasciate che vi presenti l'ultimo membro dell'équipe, Wyman Ford. È l'antropologo che ho richiesto come addetto al collegamento con le comunità locali». Qualche cenno, qualche mormorio di saluto, un paio di rapidi sorrisi: per loro rappresentava poco più di una fugace distrazione. Il che a Ford andava più che bene. «Passeremo in sala e ve lo presenterò brevemente. Per il resto, approfondirete durante la cena,» Il gruppo attese con aria stanca. «Questo è Tony Wardlaw, responsabile della sicurezza. È qui per tenerci lontani dai guai.» Si fece avanti un uomo massiccio come un ceppo da macellaio. «Lieto di conoscerla, signore.» Aveva un taglio di capelli da marine, la nuca e le tempie quasi rasati a zero, una postura da militare, l'aria di estrema efficienza e il colorito grigio di un uomo sfinito. Come prevedeva, per poco non gli stritolò la mano, perciò lui ricambiò la stretta con altrettanto vigore. «Questo è George Innes, lo psicologo del team. Coordina gli incontri settimanali e ci mantiene sani di mente. Non so come faremmo senza la sua preziosa presenza.» Dagli sguardi e dagli occhi alzati al cielo, Ford dedusse come avrebbero fatto. La stretta dell'uomo fu fredda e professionale, della pressione e della durata giuste. Con i pantaloni cachi perfettamente stirati e la camicia a quadri dava l'impressione di amare l'aria aperta. In forma, ben curato, sembrava presumere che tutti tranne lui avessero qualche problema. «Piacere di conoscerla, Wyman» disse, scrutandolo al di sopra della montatura di tartaruga degli occhiali. «Immagino si senta come un nuovo studente che arriva in classe a metà semestre.» «È così.» «Se avesse voglia di parlare, sono qui.» «Grazie.» Hazelius proseguì nelle presentazioni, accompagnandolo di fronte a un giovane piuttosto malridotto di poco più di trent'anni. Era magro come un'acciuga e aveva una chioma bionda lunga e unta. «Questo è Peter Volkonskij, l'ingegnere del software. Peter arriva da Ekaterinburg, in Russia.»
Volkonskij si staccò con riluttanza dalla console su cui era chino. Studiò Ford con lo sguardo irrequieto, allucinato. Non gli porse la mano, si limitò a fargli un vago cenno di saluto e a pronunciare un brusco «salve». «Piacere di conoscerla, Peter.» Volkonskij tornò alla tastiera e ricominciò a battere. Le scapole sottili sporgevano come quelle di un bambino sotto la maglietta sbrindellata. «Questo è Ken Dolby, ingegnere capo nonché progettista di Isabella. Un giorno allo Smithsonian ci sarà la sua statua.» Lui si avvicinò a grandi passi: grosso, alto, cordiale, afroamericano, trentanove anni circa, aria tranquilla da surfista californiano. A Ford piacque immediatamente. Era un tipo tutto d'un pezzo. Anche lui sembrava esausto e aveva gli occhi arrossati. Gli offrì la mano. «Benvenuto» disse. «Spero che non si offenda se non ci trova nel migliore degli stati. Alcuni di noi sono in piedi da trentasei ore.» Proseguirono il giro. «E questo è Alan Edelstein» affermò Hazelius, «il nostro matematico.» Un uomo che Ford non aveva quasi notato, seduto lontano dagli altri, alzò gli occhi dal libro che stava leggendo: Finnegans Wake di Joyce. Sollevò un dito in segno di saluto e tenne lo sguardo penetrante fisso su di lui. Dall'occhiata maliziosa si capiva che guardava il mondo con sprezzante ironia. «Com'è il libro?» domandò Ford. «Molto avvincente.» «Alan è un uomo di poche parole» spiegò Hazelius, «ma parla il linguaggio della matematica con grande eloquenza, e non bisogna scordarsi delle sue doti di incantatore di serpenti.» Edelstein accolse il complimento con un cenno del capo. «Incantatore di serpenti?» «Alan ha un hobby piuttosto discutibile.» «Tiene alcuni serpenti a sonagli come animali da compagnia» spiegò Innes. «A quanto pare, ha con loro un feeling particolare.» Lo disse in tono scherzoso, ma a Ford parve di cogliere una punta d'acredine. Senza sollevare lo sguardo dal libro, Edelstein osservò: «I serpenti sono utili e interessanti. Mangiano i ratti, e da queste parti ne abbiamo parecchi». Poi lanciò un'occhiata pungente a Innes. «Alan ci rende un duplice servizio» aggiunse Hazelius. «Le trappole che vedrà nel Bunker e un po' dappertutto nella struttura ci liberano dai ratti e dagli Hantavirus. Lui li dà in pasto ai serpenti.»
«Come fa a tenere in mano un serpente a sonagli?» chiese Ford. «Con attenzione» rispose Innes al posto di Edelstein, scoppiando in una risata nervosa e sistemandosi gli occhiali sul naso. Di nuovo gli occhi scuri del matematico fissarono quelli di Ford. «Se ne trova uno, me lo faccia sapere e glielo mostrerò.» «Non vedo l'ora.» «Ottimo!» esclamò con tono frettoloso Hazelius. «Ora lasci che le presenti Rae Chen, l'ingegnere informatico.» Una donna asiatica dall'aria tanto giovane da sembrare minorenne balzò in piedi e gli tese la mano. I capelli neri le ondeggiarono, lunghi fino alla vita. Era vestita come una tipica studentessa di Berkeley: maglietta sporca con il simbolo della pace sulla parte anteriore e jeans rattoppati con pezzi della bandiera britannica. «Ehi, piacere di conoscerla, Wyman.» Dal suo sguardo traspariva un'intelligenza insolita e qualcosa di molto vicino alla diffidenza. O forse era semplicemente che, come gli altri, era sfinita. «Piacere mio.» «Be', torniamo al lavoro» disse con finto brio indicando con un cenno il computer. «Ci siamo quasi» affermò Hazelius. «Ma dov'è finita Kate? Pensavo fosse occupata a calcolare la radiazione di Hawking.» «È andata via presto» spiegò Innes. «Ha detto che voleva cominciare a preparare la cena.» Hazelius tornò alla sua sedia, a cui diede una pacca affettuosa. «Quando Isabella è in funzione, è come se avessimo davanti il momento stesso della Creazione» dichiarò ridacchiando. «Ho un brivido quando mi siedo nella poltrona del capitano Kirk e ci osservo andare là dove nessuno è mai giunto prima.» Lo sguardo di Ford lo seguì mentre si accomodava e sollevava i piedi con un sorriso compiaciuto. Sembrava proprio l'unico in questa stanza a non apparire follemente preoccupato, pensò. Capitolo 6 Domenica sera il reverendo Don T. Spates piazzò la sua mole sulla sedia da make-up, avendo cura di non spiegazzare i pantaloni e la camicia italiana di cotone cucita a mano. Accomodatosi, si assestò dimenando il grosso sedere tra gli scricchiolii e i cigolii della pelle. Poi posò delicatamente il
capo sul poggiatesta. Wanda era in piedi di lato e teneva in mano una mantellina da barbiere. «Fammi bello, Wanda» le disse, chiudendo gli occhi e sbuffando. «È una domenica importante. Una domenica davvero importante.» «Sarà splendido, reverendo» rispose lei e stese rapida la mantellina legandogliela attorno al collo. Poi, tra il tintinnare rilassante di flaconi, pettini e spazzole, si mise all'opera, concentrandosi sulle macchie della vecchiaia e sulle ragnatele di capillari sul naso e sulle guance. Era brava nel suo mestiere e lo sapeva. Al di là di quello che dicevano gli altri, trovava il reverendo di bell'aspetto e piuttosto affascinante. Le lunghe mani bianche si muovevano in modo misurato ed esperto, rapido e preciso. Le orecchie del reverendo, tuttavia, restavano sempre un'ardua sfida: erano un po' troppo sporgenti, più chiare e rosse della pelle vicina. Talvolta, mentre camminava sul palco, i riflettori da sfondo le illuminavano trasformandole in una sorta di appendici rosee e trasparenti, costellate di chiazze. Per ottenere un colore adeguato, Wanda vi applicava una base coprente di tre tonalità più scura di quella del viso e terminava il trucco con una cipria che le rendeva praticamente opache. Mentre stendeva, picchiettava, spennellava e tamponava, controllava il risultato su un monitor cromaticamente bilanciato che mostrava l'immagine di una telecamera puntata sul volto del reverendo. Le era indispensabile verificare come sarebbe apparso il suo lavoro sullo schermo: ciò che a occhio nudo sembrava perfetto, sul monitor sarebbe potuto risultare disastrosamente bicromatico. Lo truccava così due volte alla settimana: per il sermone televisivo la domenica e per il talk show del venerdì sul Christian Cable Service. Sì, il reverendo era decisamente un bell'uomo. Il reverendo Don T. Spates si sentiva confortato e coccolato da tutte quelle premure professionali. Era stato un brutto anno. I nemici non gli davano tregua: distorcevano ogni sua parola e lo attaccavano senza pietà. Ogni sermone sembrava incitare gli atei rimasti al vilipendio. Era triste quando un uomo di Dio veniva osteggiato per il semplice fatto di dire la verità. Certo, c'era stato lo sgradevole episodio del motel con le due prostitute. Per gli empi bugiardi era stato un vero tripudio. Ma la carne è debole, come afferma più volte la Bibbia. Agli occhi di Gesù siamo tutti peccatori senza speranza, che ricadono sempre nel vizio. Spates aveva chiesto e ri-
cevuto il perdono di Dio, ma il mondo ipocrita e malvagio era tardo a perdonare, se mai lo faceva. «È ora di pensare ai denti, reverendo.» Spates aprì la bocca e sentì le mani esperte della donna applicare lo smalto color avorio: sotto le luci intense della telecamera i suoi denti sarebbero apparsi di un bianco perlaceo, come le porte del paradiso. Dopodiché Wanda gli sistemò i capelli pettinando l'ispido caschetto dalle sfumature arancione fino a domarlo. Spruzzò quindi da lontano un po' di lacca e li spolverò con un po' di cipria per renderli di un color fulvo più che accettabile. «Le mani, reverendo?» L'uomo estrasse le mani lentigginose dalla mantellina e le posò sul tavolino per manicure. Wanda si mise subito all'opera applicando una base per make-up per ridurre al minimo le rughe e le discromie. Le mani dovevano essere identiche al viso. A dire il vero, Spates teneva in particolar modo a che fossero perfette perché rappresentavano l'estensione della sua voce. Un trucco malfatto avrebbe potuto rovinare l'impatto del messaggio: i primi piani delle mani, quando le imponeva, rivelavano difetti che sfuggivano all'occhio. Il lavoro richiese quindici minuti. Wanda tolse la sporcizia dalle unghie, applicò uno smalto trasparente, nascose i piccoli graffi, limò le unghie, pulì e tagliò la pelle in eccesso e infine le coprì con una base per trucco del colore adeguato. Un ultimo controllo al monitor, qualche ritocco e Wanda infine si scostò. «Abbiamo finito, reverendo» disse, girando il monitor verso di lui. Spates si esaminò: faccia, occhi, orecchie, labbra, denti e mani. «Quella macchia sul collo, Wanda? Ti è sfuggita di nuovo.» Una rapida passata con la spugnetta, un ritocco con il pennello e la macchia svanì, al che Spates grugnì molto soddisfatto. Wanda tolse la mantellina e si fece da parte. L'assistente del reverendo, Charles, spuntò dalle quinte portandogli di corsa la giacca del vestito. Il reverendo si alzò dalla sedia e allargò le braccia mentre Charles gliela infilava per poi sistemare qua e là la stoffa, spazzolarla, adattarne le spalle, lisciare e tendere il colletto e raddrizzare infine la cravatta. «Come sono le scarpe, Charles?» L'assistente le passò subito con un panno da lucidatura. «Che ora è?»
«Mancano sei minuti alle otto, reverendo.» Anni prima gli era venuta l'idea di tenere il sermone domenicale in prima serata per evitare la ressa mattutina dei tele-evangelisti. L'aveva chiamato La prima serata di Dio. Tutti avevano pronosticato un flop, visto che faceva concorrenza ad alcuni dei programmi più seguiti della settimana, invece si era rivelato un colpo di genio. Spates si avviò verso le quinte, seguito da Charles. Mentre si avvicinava, udiva il mormorio e il fruscio dei fedeli che prendevano posto a migliaia nella Silver Cathedral, da dove ogni domenica veniva trasmessa La prima serata di Dio. «Tre minuti» gli sussurrò Charles all'orecchio. Spates inspirò profondamente nell'ombra delle quinte. La folla si ammutolì quando gli avvisi d'inizio spettacolo presero a scorrere sugli schermi e l'ora prestabilita si fece più vicina. Il reverendo sentì la gloria di Dio rinvigorirlo mediante lo Spirito Santo. Adorava il momento che precedeva il sermone: non era paragonabile a nulla al mondo, era un misto di fervore, esultanza, gioia e pregustazione. «Quanti spettatori ci sono?» bisbigliò, rivolgendosi a Charles. «Siamo al sessanta per cento circa.» Fu una doccia fredda per il suo entusiasmo. Sessanta per cento! La settimana precedente avevano raggiunto il settanta per cento di presenze. Mesi prima, domenica dopo domenica, la gente faceva la coda per i biglietti e molti venivano mandati via. Dopo l'episodio del motel, tuttavia, le donazioni effettuate durante la trasmissione si erano dimezzate e gli indici di ascolto erano diminuiti del quaranta per cento. Quei bastardi del Christian Cable Service avevano intenzione di cancellare Roundtable America, il suo talk show. La Missione della prima serata di Dio stava precipitando verso il suo momento più buio da quando lo aveva fondato, trent'anni prima, in un centro commerciale vuoto. Tornò con il pensiero all'incontro con il lobbista Brooker Crawley, avvenuto qualche ora prima quel giorno. La sua proposta era davvero un segno della grazia divina. Se gestita nel modo giusto, si sarebbe potuta rivelare come lo strumento che cercava per dare nuova vita alla missione e rinvigorire le finanze. Il dibattito su evoluzione e creazionismo era ormai trito e difficilmente faceva presa, soprattutto con la notevole concorrenza degli altri tele-evangelisti. La questione di Crawley invece era fresca, nuova, un frutto pronto per essere raccolto. E accidenti a lui se non lo avesse raccolto subito.
«È ora, reverendo.» La voce bassa di Charles gli giunse alle spalle. Le luci si accesero e dalla folla si levò un boato mentre il reverendo Spates appariva sul palcoscenico con la testa china, le mani sollevate e giunte che si muovevano ritmicamente. «La prima serata di Dio!» esclamò con la sua voce profonda che modulava con cura per ottenere un effetto vibrato. «La prima serata di Dio! La prima serata della gloria di Dio è vicina!» Giunto nel centro del palco, si fermò di colpo, alzò la testa e tese le braccia verso la sala come per supplicarla. Le punte delle dita gli tremavano e le sue parole si srotolarono sul pubblico. «Salute a tutti voi nel nome adorato del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo!» Un altro boato si levò dalla gigantesca Silver Cathedral. Lui alzò le mani con i palmi in alto e il boato continuò, alimentato dalla claque. Abbassò quindi le braccia e subito tornò il silenzio, come dopo un tuono. Spates chinò la testa in preghiera, poi con voce sommessa, umile disse: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro». Alzò lentamente il capo stando di profilo rispetto al pubblico e parlò con voce più profonda possibile. Sollevò un braccio a poco a poco ed enfatizzò al massimo le parole. «In principio» disse con un levare del tono, «Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso.» Tacque per un istante e inspirò con fare teatrale. «E lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.» Le sue parole rimbombarono d'un tratto nella Silver Cathedral come le note di un organo. «Dio disse: Sia la luce!». Dopo un'altra pausa enfatica, proseguì sussurrando quasi impercettibilmente. «E la luce fu.» Si avvicinò al bordo del palcoscenico e sfoderò un sorriso affabile ai fedeli. «Conosciamo tutti i versetti iniziali della Genesi. Sono tra i più incisivi che siano mai stati scritti. Non contengono ambiguità. Sono le parole stesse di Dio, amici miei. Dio ci spiega con parole Sue come ha creato l'universo.» Si incamminò con andatura disinvolta sul palco. «Amici miei, vi sorprenderà sapere che il governo sta spendendo i dollari che voi contribuenti tanto duramente guadagnate nel tentativo di smentire Dio.» Si girò a osservare il pubblico muto.
«Non mi credete?» Dalla marea di volti si levò un mormorio. Spates prese un pezzo di carta dalla tasca della giacca e lo agitò in aria. La sua voce si era fatta all'improvviso tonante. «È proprio qui. L'ho scaricato da Internet meno di un'ora fa.» Seguì un altro brontolio. «Che cosa mai sono venuto a sapere? Che il nostro governo ha speso quaranta miliardi di dollari per smentire la Genesi: quaranta miliardi di dollari dei vostri soldi per attaccare la più sacra delle Scritture dell'Antico Testamento. Sì, amici miei, fa tutto parte della guerra, sponsorizzata dal governo, che i laici umanisti conducono contro la religione cristiana e tutto questo è ignobile.» Camminò su e giù, scuotendo il pezzo di carta nel pugno e producendo un gran fruscio. «Proprio qui c'è scritto che nel deserto dell'Arizona hanno costruito una macchina chiamata Isabella. Molti ne avranno sentito parlare.» Ci fu un forte mormorio di assenso. «Anch'io ne ho sentito parlare. Pensavo fosse soltanto l'ennesimo inutile progetto del governo. Solo di recente ho capito il suo scopo.» Si fermò di colpo e si voltò lentamente a guardare il pubblico. «Il suo scopo, amici miei, è studiare la cosiddetta teoria del Big Bang. Esatto, avete sentito bene, di nuovo questa parola: "teoria".» La sua voce era venata di sprezzo. «La teoria del Big Bang sommariamente sostiene che tredici miliardi di anni fa un puntino minuscolo nello spazio è esploso e ha creato l'intero universo senza l'aiuto di Dio. Avete sentito bene: la Creazione senza Dio. Una Creazione atea.» Attese mentre il silenzio incredulo del pubblico si protraeva e sventolò di nuovo il pezzo di carta. «Questo è quello che afferma, amici! C'è un intero sito web, con centinaia di pagine in cui si spiega la Creazione dell'Universo senza fare un solo accenno a Dio!» Spates lanciò un'altra occhiata furiosa alla sala. «La teoria del Big Bang non è diversa da quella secondo cui i nostri antenati erano scimmie o che la complessità della vita sarebbe nata da una riorganizzazione casuale delle molecole in una pozza di fango. Questa teoria del Big Bang non è che l'ennesima formulata dagli umanisti laici contro la religione cristiana, contro la fede. Non è per nulla diversa da quella evoluzionistica, tranne per il fatto che è peggio. Molto, molto peggio!»
Il reverendo si girò di scatto, guardò e riprese a camminare a grandi passi. «Perché questa teoria attacca l'idea stessa che Dio abbia creato l'universo. Non lasciatevi ingannare: Isabella è un attacco diretto alla fede cristiana. La teoria del Big Bang sostiene che questo universo splendido, meraviglioso, regalatoci da Dio, si sia formato da sé, per puro caso, tredici miliardi di anni fa. E come se questa teoria anticristiana non bastasse, ora vogliono spendere quaranta miliardi dei nostri soldi per dimostrarlo!» Squadrò inferocito il pubblico. «E se chiedessimo ai sapienti di Washington pari opportunità? Se domandassimo loro quaranta miliardi di dollari per dimostrare la Verità della Genesi? Che ne dite? I liberali di Washington, che odiano Gesù per professione, digrignerebbero i denti e si farebbero venire la schiuma alla bocca! Tirerebbero fuori la vecchia questione sulla separazione tra Stato e Chiesa! Queste sono le persone che hanno scacciato Gesù dalle aule scolastiche, che hanno cancellato i Dieci comandamenti dai tribunali, che hanno bandito alberi di Natale e presepi, che hanno deriso e sputato sulle nostre credenze... e questi stessi laici Umanisti non esitano a spendere i nostri soldi per smentire la Bibbia, per divulgare menzogne sulla nostra fede cristiana!» Il baccano aumentò. Alcune persone si alzarono, seguite da altre ancora, poi l'intera congregazione si mise in piedi. Sì sollevò come uno tsunami e le singole voci si fusero in un unico boato di disapprovazione. La claque fu messa in disparte, ormai inutile. «Questa è una guerra contro la religione cristiana, amici miei! Una guerra da combattere fino in fondo e loro ci stanno accusando di esserne i responsabili! Lasceremo che sputino su Cristo e ci incolpino per l'onore di averlo fatto?» Il reverendo Don T. Spates si bloccò affannato nel centro esatto del palcoscenico e osservò il pubblico in fermento nella cattedrale di Virginia Beach, sbalordito dall'effetto delle sue parole. Li sentiva, li vedeva, li percepiva: l'ondata di frenesia, il montare di una giusta rabbia, l'aria stessa crepitante di energia, tanto profondo era il risentimento della folla. Non riusciva quasi a crederci. Per tutta la vita non aveva fatto che tirare sassi e ora all'improvviso aveva lanciato una granata. Quello era l'argomento per cui aveva pregato, che aveva sperato di trovare, che aveva a lungo cercato. «Che Dio e Gesù siano lodati!» gridò, levando le braccia al cielo e alzando gli occhi al soffitto scintillante. Cadde quindi in ginocchio e, con
voce tremula, prese a recitare una preghiera: «Signore Gesù, con il Tuo aiuto impediremo questo oltraggio a Tuo Padre. Distruggeremo quella macchina infernale laggiù, nell'arido deserto. Porremo fine all'eresia chiamata Isabella!». Capitolo 7 Alle otto meno un quarto Wyman Ford uscì dalla casita e si fermò in fondo al vialetto d'accesso a respirare l'aria profumata della sera. Le finestre della sala da pranzo erano rettangoli gialli sospesi nel buio. Oltre il sibilo degli irrigatori sul campo sportivo, udiva un flebile boogie-woogie suonato al piano e un mormorio di voci. Non riusciva a immaginare Kate diversa dalla specializzanda irriverente e polemica, amante degli spinelli, che aveva conosciuto. Però doveva essere cambiata, e anche parecchio, per essere diventata vicedirettore del progetto dell'esperimento scientifico più importante della storia della fisica. Riaffiorarono allora spontanei i ricordi di lei e del tempo trascorso insieme, ricordi che avevano la sventurata tendenza a diventare scottanti. Ford li ricacciò nell'oscurità del suo inconscio da cui erano scaturiti. Quello non era affatto, si rimproverò, il modo adatto per iniziare un'indagine. Schivò gli irrigatori, raggiunse l'ingresso principale del vecchio emporio e lo varcò. Dalla sala ricreativa alla sua destra provenivano luce e musica. Ford entrò. Alcuni scienziati stavano giocando a carte o a scacchi, altri leggevano o lavoravano al computer. Lontani dal Ponte, sembravano quasi rilassati. Hazelius stesso era seduto al pianoforte. Mosse ancora le dita sottili sui tasti per suonare qualche nota, dopodiché si alzò. «Wyman, benvenuto! La cena è pronta.» Gli andò incontro a metà stanza, lo prese sottobraccio e lo accompagnò verso la sala da pranzo. Gli altri si alzarono via via e li seguirono. Nella stanza troneggiava un tavolo massiccio di pino apparecchiato con candele, argenteria e fiori selvatici freschi. Il fuoco ardeva nel caminetto di pietra. Vari tappeti Navajo ornavano le pareti. Stile Nakai Rock, suppose Ford, notandone i disegni geometrici. C'erano diverse bottiglie di vino aperte e dalla cucina proveniva un profumo di bistecche alla griglia. Hazelius recitò la parte dell'allegro padrone di casa e, tra risate e battute, fece accomodare tutti a tavola. Condusse Ford a una sedia al centro, accanto a una bionda alta e sottile.
«Melissa? Questo è Wyman Ford, il nostro nuovo antropologo. Melissa Corcoran, cosmologa.» Si strinsero la mano. La folta massa di capelli le ondeggiò sulle spalle e i suoi occhi verde chiaro, color acquamarina, si posarono curiosi su di lui. Aveva il naso con la punta all'insù cosparso di lentiggini, un gilet indiano con le perline, elegante ma nello stesso tempo semplice, che metteva in risalto i pantaloni e la camicia. Anche lei tuttavia aveva gli occhi lievemente irritati e arrossati. La sedia dall'altra parte era libera. «Prima che ti butti su Wyman» le disse Hazelius, «vorrei finire di presentarlo a quelli che non lo hanno ancora conosciuto.» «Fa' pure.» «Questa è Julie Thibodeaux, esperta di elettrodinamica quantistica.» La donna seduta di fronte a lui lo salutò sbrigativamente per riprendere subito il querulo monologo rivolto all'uomo canuto, con un'aria da folletto, che le era accanto. La Thibodeaux era la tipica scienziata: sciatta, in sovrappeso, camice sporco, capelli corti unti e appiccicosi. La serie di penne contenute in un astuccio di plastica completava il quadro. Il dossier indicava che soffriva di un «disturbo borderline di personalità». Ford era curioso di vedere come questo si manifestasse. «Il signore che sta parlando con Julie è Harlan St. Vincent, il nostro ingegnere elettrico. Quando Isabella è in funzione alla massima potenza, Harlan fa sì che i novecento megawatt di elettricità necessari si riversino qui come le cascate del Niagara.» St. Vincent si alzò e gli tese la mano oltre il tavolo. «Lieto di conoscerla, Wyman.» Poi si risedette e la Thibodeaux riprese la disquisizione che pareva riguardare una cosa chiamata condensato di Bose-Einstein. «Michael Cecchini, esperto di fisica delle particelle del Modello standard, è il signore in fondo.» Un uomo piccolo e scuro si alzò e allungò la mano. Ford gliela strinse, colpito dai suoi occhi di un grigio opaco, stranamente indifferenti. Sembrava morto dentro e la stretta di mano non offriva un'impressione tanto diversa: appiccicosa e priva di vita. Eppure, quasi volesse sfidare il nichilismo al cuore della sua esistenza, dimostrava un'attenzione meticolosa per il vestiario: la camicia era di un bianco tanto candido da infastidire gli occhi, i pantaloni larghi avevano una piega impeccabile, i capelli divisi da una riga con precisione militare e pettinati con la massima cura. Persino le mani erano perfette: morbide e pulite come pasta di pane, con le unghie
limate e lucidate. Ford percepì il vago profumo di un dopobarba costoso. Niente tuttavia riusciva a mascherare del tutto il sentore di disperazione esistenziale che quell'uomo emanava da ogni poro. Hazelius terminò le presentazioni e scomparve in cucina e il livello di rumore aumentò. Ford non aveva ancora incontrato Kate e si chiese se fosse una coincidenza. «Non credo di aver mai conosciuto un antropologo» esclamò Melissa Corcoran. Ford si voltò verso di lei. «E io non ho mai conosciuto una cosmologa.» «Resterebbe sorpreso se sapesse quante persone credono faccia la parrucchiera e la manicure.» Abbozzò un sorriso che sembrò un invito. «Di cosa si occuperà esattamente qui?» «Il mio compito è creare un contatto con la popolazione locale, spiegare loro cosa sta succedendo.» «Ah, ma lei è in grado di capire quello che sta succedendo qui?» Nella sua voce era comparsa una nota di derisione. «Magari mi aiuterà lei.» Sorridendo, la Corcoran si allungò sul tavolo e afferrò una bottiglia. «Un po' di vino?» «Grazie.» La donna studiò l'etichetta. «Villa di Capezzana, Carmignano, 2000. Non ho idea di che cosa sia, ma è buono. George Innes è il nostro esperto di vini. George, raccontaci di questo.» Innes interruppe una conversazione all'altro capo del tavolo e un sorriso di gioia gli illuminò il volto mentre alzava il bicchiere. «Sono stato fortunato a mettere le mani su quella cassa. Stasera volevo offrire qualcosa di speciale. Il Capezzana è uno dei miei preferiti, proviene da un'antica proprietà sulle colline a ovest di Firenze. È stato il primo DOC ad autorizzare l'uso del cabernet sauvignon nella miscela. Presenta un bel colore intenso, un profumo di ribes nero e rosso misto a ciliegia, e un sentore nettamente fruttato.» La cosmologa si girò verso Ford con un sorrisetto furbo. «George è un terribile enosnob» commentò, versandogli una dose generosa di vino per poi servirsi nuovamente. «Benvenuto a Red Mesa, un posto orribile!» esclamò, alzando il bicchiere in un brindisi. «Perché?» «Avevo portato con me la mia gatta: non sopportavo l'idea di separar-
mene. Due giorni dopo il nostro arrivo ho sentito un ululato e visto un coyote scappare via con lei tra le sue fauci.» «È spaventoso.» «Sono dappertutto, quelle bestie subdole e rognose. Poi ci sono tarantole, scorpioni, orsi, linci rosse, istrici, puzzole, serpenti a sonagli e vedove nere.» Sembrò provare compiacimento nel recitare quell'elenco di animali selvatici. «Odio questo posto» concluse soddisfatta. Ford sorrise assumendo quella che si augurava fosse un'aria imbarazzata e pose la domanda più idiota che gli fosse venuta in mente. Non era il caso di dimostrarsi troppo svegli. «Allora, cosa fa Isabella? Sono un semplice antropologo.» «In teoria è molto semplice. Fa entrare in collisione le particelle subatomiche a una velocità quasi pari a quella della luce per ricreare le condizioni energetiche del Big Bang. Si ha una specie di derby della demolizione: due diversi fasci di particelle accelerano in direzioni opposte in un enorme tubo circolare di settantacinque chilometri di circonferenza. Le particelle girano sempre più veloci fino a raggiungere il 99,99 per cento della velocità della luce in direzioni opposte. Lo spasso comincia quando le facciamo collidere frontalmente: in questo modo riproduciamo l'impeto del Big Bang.» «Che genere di particelle fate collidere?» «Materia e antimateria: protoni e antiprotoni. Quando si scontrano... boom! E = mc2. L'esplosione improvvisa di energia crea un getto di ogni sorta di particelle, che viene rilevato dagli strumenti: possiamo di conseguenza individuare le singole particelle e capire come si siano formate.» «Dove vi procurate l'antimateria?» «La ordiniamo per posta a Washington.» Ford sorrise. «E io che pensavo avessero solo buchi neri.» «Sul serio, la produciamo sul posto bombardando una lamina d'oro con particelle alfa. Raccogliamo gli antiprotoni in un anello secondario e li immettiamo in quello principale in base alle necessità.» «E qual è il ruolo del cosmologo in questo processo?» domandò Ford. «Io sono qui per studiare le cose oscure!» Alzando gli occhi al cielo con fare drammatico aggiunse: «La materia e l'energia oscure». Poi sorseggiò un altro po' di vino. «Mi fa quasi paura.» Lei scoppiò a ridere. Ford osservò i suoi occhi verdi che lo studiavano schietti, indagatori, e si chiese quanti anni avesse. Trentatré? Trentaquat-
tro? «Una trentina di anni fa gli astronomi hanno capito che la materia presente nell'universo non è in genere composta da ciò che vediamo e tocchiamo. L'hanno definita materia oscura: a quanto sembra, ci circonda, ci compenetra in modo impercettibile come una specie di universo ombra. Le galassie si trovano nel centro di enormi zone di materia oscura. Non sappiamo che cosa sia, perché esista o da dove provenga. Dato che potrebbe essersi formata insieme alla materia "normale" durante il Big Bang, spero di riuscire a utilizzare Isabella per produrne un po'.» «E l'energia oscura?» «È qualcosa di splendido, da brivido. Nel 1999 i cosmologi sono giunti alla conclusione che un campo energetico sconosciuto induce l'universo a espandersi a una velocità sempre maggiore: lo gonfia come se fosse un gigantesco pallone. L'hanno battezzato energia oscura. Nessuno ha la più pallida idea di cosa sia composta o da dove venga. Pare sia malvagia.» Dall'altra parte del tavolo Volkonskij sbuffò e osservò con voce acuta: «Malvagia? L'universo è indifferente. Non gliene frega un cazzo di noi». «Il punto è» ribatté la Corcoran, «che l'energia oscura finirà per distruggere l'universo nel Big Rip.» «Big Rip?» Fino a quel momento Ford si era finto ignorante, ma il Big Rip gli era davvero nuovo. «È la teoria più recente sul destino ultimo dell'universo. Ben presto la sua espansione sarà tanto veloce che le galassie si separeranno, poi toccherà alle stelle, ai pianeti, a lei e a me, fino agli atomi stessi. Puf, scomparirà tutto! L'esistenza finirà. Ho scritto un articolo sull'argomento per Wikipedia. Lo legga.» Sorseggiò un altro po' di vino e Ford notò che non era la sola ad apprezzarlo. Il tono delle altre conversazioni era aumentato e c'erano già cinque o sei bottiglie vuote. «Ha detto "ben presto"?» «Non prima di venti, venticinque miliardi di anni a partire da ora.» «L'idea di "presto" dipende dall'ottica che adotti» precisò Volkonskij con un'aspra risata. «Noi cosmologi guardiamo molto lontano.» «Noi scienziati informatici invece molto vicino. Ci piacciono i millisecondi.» «Millisecondi?» osservò sprezzante la Thibodeaux. «Nel campo dell'elettrodinamica quantistica si ragiona in termini di femtosecondi.»
Hazelius spuntò dalla cucina con un piatto carico di filetti di carne alla griglia. Lo posò in mezzo a un coro di approvazioni che si era levato dal tavolo. Alle sue spalle apparve Kate Mercer con una terrina di patatine fritte. Senza guardare nella direzione di Ford, la posò e sparì di nuovo in cucina. Niente di quanto aveva immaginato lo aveva preparato a rivederla dopo tutto quel tempo. A trentacinque anni era ancor più bella che a ventitré; l'unica differenza era la chioma di capelli neri, un tempo lunga e ribelle, ora corta e tagliata alla moda. La studentessa sciatta amante dei jeans e delle camicie da uomo era cresciuta. Erano passati dodici anni dall'ultima volta che l'aveva vista, eppure sembravano soltanto pochi giorni. Sentì un colpetto di gomito nelle costole e si voltò: la Corcoran gli stava porgendo il piatto da portata. «Spero non sia vegetariano, Wyman.» «Nient'affatto.» Ford scelse un blocco di carne sanguinolenta e passò il piatto al vicino cercando di apparire rilassato. L'arrivo di Kate lo aveva messo in agitazione. «Non si illuda che mangiamo così tutte le sere» osservò la cosmologa. «Il suo arrivo è un'occasione speciale.» Un cucchiaio tintinnò su un bicchiere, un istante dopo Hazelius si alzò sollevando il calice di vino. Tutte le conversazioni cessarono. «Ho pensato a un piccolo brindisi di benvenuto...» Si guardò attorno. «Ora, dov'è il nostro vicedirettore del progetto?» La porta della cucina si spalancò e Kate entrò in fretta. Si sedette alla svelta vicino a Ford tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, sul tavolo. «Stavo giusto dicendo che volevo fare un brindisi di benvenuto all'ultimo membro della nostra squadra: Wyman Ford.» Questi tenne gli occhi puntati su Hazelius mentre a poco a poco prendeva coscienza della figura sottile di Kate seduta accanto, del calore del suo corpo, del suo delicato profumo. «Come la maggior parte di voi sa, Wyman è antropologo e il suo ambito di studio è la natura umana, argomento ben più complesso di quanto ci stiamo occupando.» Alzò in alto il bicchiere. «Non vedo l'ora di fare la sua conoscenza, Wyman. Un calorosissimo benvenuto da tutti noi.» Seguì uno scroscio d'applausi. «E ora, prima che mi sieda, volevo dire due parole a proposito della delusione di ieri sera...» Hazelius tacque per qualche attimo. «Stiamo conducendo una lotta iniziata il giorno in cui l'essere umano ha sollevato per la prima volta lo sguardo alle stelle e si è chiesto che cosa fossero. La ricerca
della verità è l'impresa più ardua che l'uomo possa compiere. Dalla scoperta del fuoco alla scoperta del quark, è l'essenza stessa della nostra natura. Noi, le tredici persone qui presenti, siamo i veri eredi di Prometeo, che ha rubato il fuoco degli dèi e lo ha donato all'umanità.» Hazelius fece una pausa enfatica. «Sapete ciò che è successo a Prometeo. Per punizione, gli dèi lo hanno incatenato a una roccia per l'eternità. Ogni giorno un'aquila si abbassa in picchiata, gli lacera il fianco e gli divora il fegato, ma dal momento che è immortale non può morire e deve sopportare la tortura all'infinito.» Nella sala il silenzio si era fatto assoluto, tanto che Ford udiva lo scoppiettìo del fuoco nel caminetto. «Come stiamo constatando, la ricerca della verità è un'impresa molto, molto ardua.» Alzando il bicchiere, aggiunse: «Agli eredi di Prometeo». Bevvero tutti con solennità. «Il prossimo test inizierà mercoledì a mezzogiorno. Da questo momento voglio che ciascuno concentri ogni fibra del suo essere su quest'obiettivo.» Hazelius si sedette. Tutti presero coltelli e forchette e la conversazione gradualmente riprese. Quando le voci furono abbastanza alte da coprire la sua, Ford disse calmo: «Ciao, Kate». «Ciao, Wyman.» La Mercer aveva uno sguardo circospetto. «È stata a dir poco una beltà sorpresa.» «Ti trovo bene.» «Grazie.» «Vicedirettore del progetto: è una grande conquista.» Si era sentito un voyeur a leggere il suo dossier, ma non era riuscito a fermarsi: ne era rimasto affascinato. Dopo che si erano lasciati, Kate aveva avuto diversi alti e bassi nella vita. «E tu... che fine ha fatto la carriera nella CIA?» «L'ho mollata.» «E adesso fai l'antropologo?» «Sì.» Nessuno dei due aggiunse altro. Il suono della voce, la cadenza ritmata, musicale e la quasi impercettibile blesità di Kate, ebbero un impatto ancora più forte dell'aspetto fisico. Ford si ritrovò ben presto travolto dai ricordi. Era una reazione assurda. Sì erano lasciati tanto tempo prima e da allora lui aveva avuto cinque o sei relazioni e si era anche sposato. Non si erano nemmeno lasciati bene, non di certo in un clima da «restiamo amici», anzi:
si erano rinfacciati cose imperdonabili. Kate si era girata e aveva iniziato a parlare con qualcun altro. Ford bevve un sorso di vino, perso nei suoi pensieri. Tornò con la mente alla prima volta che l'aveva vista al MIT, il Massachusetts Institute of Tecnology. Un pomeriggio, dopo pranzo, stava cercando un angolo tranquillo per leggere, in fondo alla Biblioteca Barker di ingegneria, quando aveva notato una donna addormentata sotto a un tavolo, il che di per sé non era così bizzarro. Aveva la guancia destra appoggiata sulla mano; l'altro braccio posato sulla maglietta. I capelli neri e lucidi erano stesi sulla moquette. Era sottile, splendida e aveva i tratti delicati tipici delle persone di origine mista, asiatica e caucasica. Sembrava una gazzella addormentata. L'incavo chiaro alla base del collo piegato, gli sembrò la cosa più erotica che avesse mai visto. Si soffermò a guardarla, assimilando senza pudore ogni particolare sensuale del suo corpo dormiente. Non pareva più in grado di muoversi, riusciva solo a restare lì a fissarla. Poi una mosca le sfiorò la guancia. Mosse la testa e i suoi occhi color mogano si spalancarono, puntando dritti su di lui. A quel punto Ford si sentì colto con le mani nel sacco. Lei arrossì e uscì goffamente da sotto il tavolo. «Che problema hai?» Lui borbottò qualcosa, spiegando che aveva voluto accertarsi che stesse bene. Allora lei si addolcì, imbarazzata. «Dovevo avere un'aria strana, stesa lì per terra. Di solito a quest'ora del giorno non c'è nessuno in giro. Riesco a dormire per una decina di minuti e a svegliarmi ricaricata.» Il suo unico interesse, la rassicurò di nuovo Ford, era per la sua salute. Lei fece un commento disinvolto sulla necessità di bersi un doppio espresso prima di rimettersi sui libri. Lui rispose che avrebbe fatto lo stesso e quello fu il loro primo appuntamento. Erano così diversi, e proprio in questo stava l'origine dell'attrazione. Lei proveniva dalla classe operaia di una piccola città, lui apparteneva all'élite di una grande metropoli. Lei amava i Blondie, lui Bach. Lei a volte fumava erba, cosa che lui trovava vagamente scandalosa. Lui era cattolico, lei atea convinta. Lui era calmo e padrone di sé, lei imprevedibile, spontanea, persino selvaggia. Al secondo appuntamento fu Kate a fare la prima mossa. Inoltre, era brillante negli studi, forse addirittura un genio. Era tanto intelligente che Ford si sentiva intimorito e nello stesso tempo eccitato da lei. Al di fuori dell'ambito della fisica, era una conoscitrice istintiva, quasi ossessiva, della natura umana. Era fieramente di parte e si indignava per le
ingiustizie del mondo: firmava petizioni, partecipava a marce, scriveva lettere ai direttori dei giornali. Ford ricordava le discussioni fino a tarda notte su politica e religione, e lo stupore che provava per la sua capacità di cogliere la psicologia umana, malgrado possedesse una visione della vita alquanto rozza sotto il profilo emozionale. La sua decisione di entrare nella CIA aveva posto fine alla relazione. Per lei o eri buono o non lo eri. La CIA rientrava decisamente nella seconda categoria. La chiamava «Agenzia che Induce alla Catastrofe»... quello, quando voleva essere educata. «Allora, Wyman» disse Kate, «perché hai mollato?» «Cosa?» Ford tornò di colpo al presente. «La carriera alla CIA. Cos'è successo?» Ford avrebbe voluto risponderle: Perché hanno messo una bomba nell'auto di mia moglie mentre lavoravamo sotto copertura. «Non è andata bene» rispose, invece, in modo ben poco convincente. «Capisco. È... è troppo sperare che tu abbia cambiato idea?» Lo è sperare che tu abbia cambiato le tue?, pensò di ribattere Ford ma lasciò perdere. Era tipico suo: andare subito dritto al sodo, a qualsiasi costo. Amava e odiava quell'aspetto del suo carattere. «La cena è davvero deliziosa» disse cercando di alleggerire il tono. «Da quello che ricordo eri la regina del microonde.» «Il fast-food mi stava facendo ingrassare.» Seguì un altro silenzio. Ford sentì una lieve gomitata nelle costole, dall'altra parte. Melissa Corcoran teneva in mano una bottiglia, pronta a riempirgli il bicchiere. Aveva il volto arrossato. «La bistecca è perfetta» disse. «Ottimo lavoro, Kate.» «Grazie.» «Al sangue, proprio come piace a me. Ma, ehi» esclamò indicando il piatto di Ford. «Non ha neanche toccato la sua!» Ford mandò giù un boccone, ma aveva ormai perso l'appetito. «Scommetto che Kate le sta raccontando della teoria delle stringhe. Roba molto interessante, anche se si tratta di pure congetture.» «A differenza dell'energia oscura» ribatté lei con una punta di acredine nella voce. Ford percepì subito che tra le due doveva essere successo qualcosa. «L'energia oscura» osservò fredda la Corcoran, «è stata scoperta sperimentalmente, mediante l'osservazione. Il problema della teoria delle strin-
ghe è esattamente l'opposto: esiste solo sotto forma di un mucchio di equazioni che non forniscono previsioni che si possano provare. Non è propriamente scienza.» Volkonskij si protese sul tavolo e a Ford giunse una zaffata di fumo di sigaretta. «Energia oscura, stringhe, pfft! A chi importa? Io voglio sapere cosa fa un antropologo.» Wyman fu lieto del diversivo. «Andiamo a vivere con qualche tribù sperduta e facciamo un sacco di domande idiote.» «Ah-ah!» esclamò Volkonskij. «Forse lo sa, i pellerossa stanno venendo qui a Red Mesa. Spero non abbiano intenzione di scotennarci tutti!» Cacciò un grido di guerra indiano e si guardò attorno in cerca di approvazione, «Non è divertente» replicò acida la cosmologa. «Non essere così pesante, Melissa» ribatté secco lui, sollevando il mento. Il pizzetto prese a tremargli per una rabbia improvvisa. «Non fare la politicamente corretta con me.» La Corcoran si voltò verso Ford. «Non riesce a evitarlo. Ha un dottorato in coglionaggine.» Anche qui è successo qualcosa, pensò Ford. Avrebbe dovuto stare attento a non finire sotto il tiro incrociato finché non avesse capito che tipo di rapporti correvano tra i membri del team. «Credo che a Melissa sia piaciuto un po' troppo il vino stasera. Come sempre.» «Sì, cooome no» rispose lei strascicando le parole e imitando sarcasticamente l'accento di Volkonskij. «Sarà meglio che mi spari qualche vodka come fai tu, a tarda notte!» Sollevando il bicchiere aggiunse: «Za vas!», e tracannò il vino restante. «Se posso interrompere per un attimo» esordì Innes con voce armoniosa, professionale, «se è utile esternare i propri sentimenti, suggerirei di...» Hazelius gli fece cenno di tacere e fissò prima Volkonskij e poi la Corcoran. La forza del suo sguardo li indusse subito al silenzio. Il primo si appoggiò alla sedia con l'angolo della bocca che gli tremava, la seconda incrociò le braccia. Hazelius lasciò che l'imbarazzo crescesse prima di parlare. «Siamo tutti un po' stanchi e demoralizzati.» Aveva una voce bassa e mite. Nel silenzio il fuoco scoppiettava. «Giusto, Peter?» Volkonskij non aprì bocca. «Melissa?» La Corcoran era paonazza. Gli fece un brusco cenno del capo.
«Lasciate perdere... la calma aiuta... ci vogliono indulgenza ed equilibrio... questo, a beneficio di tutto il nostro lavoro.» Parlava con un tono pacato, rasserenante, con una cadenza ritmica, ipnotica, come un addestratore intento a placare un cavallo imbizzarrito. A differenza di Innes, in lui non c'era traccia di condiscendenza. «Esatto» convenne lo psicologo e la sua voce infranse quella calma straordinaria che Hazelius era riuscito a ottenere. «È proprio così. È stato un sano scambio di vedute. Possiamo riprendere alcuni di questi discorsi al prossimo incontro di gruppo. Come ho detto, è positivo esternare i problemi.» Volkonskij si alzò tanto bruscamente che ribaltò la sedia. Appallottolò il tovagliolo e lo buttò sul tavolo. «'Fanculo agli incontri di gruppo. Ho di meglio da fare, io!» Quando uscì, sbatté la porta. Nessuno proferì parola. L'unico rumore fu il fruscio della carta quando Edelstein, terminato di cenare, girò un'altra pagina di Finnegans Wake. Capitolo 8 Il pastore Russell Eddy uscì dalla roulotte, si gettò un asciugamano sulla spalla ossuta e si fermò in cortile. Alla missione la giornata di lunedì si annunciava incredibilmente bella: il sole nascente illuminava di luce dorata la valle sabbiosa, sfiorando i rami del pioppo morto accanto alla piccola roulotte. Dietro, Red Mesa si stagliava gigantesca all'orizzonte, un pilastro di fuoco nel primo sole del mattino. Eddy alzò lo sguardo al cielo, giunse le mani, si inchinò, quindi con voce forte e chiara disse: «Grazie, Signore, per questo giorno». Dopo un attimo di silenzio si trascinò fino alla pompa dell'acqua nel cortile anteriore e buttò l'asciugamano su un vecchio palo per legare i cavalli. Azionò energicamente il manico cigolante per una decina di volte e un getto d'acqua fredda sgorgò nella tinozza zincata sottostante. Russell si sciacquò il viso, immerse un pezzo di sapone nell'acqua, producendo della schiuma. Poi sì rasò e si lavò i denti. Si lavò le braccia, si spruzzò altra acqua sul viso e sul petto incavato, prese l'asciugamano e si asciugò vigorosamente. Alla fine si esaminò allo specchio appeso con un chiodo arrugginito a un paletto dello steccato. Aveva il volto piccolo e radi ciuffi di capelli che gli stavano tutti sparati in testa. Odiava il suo corpo. Aveva l'aspetto di un uccellino implume. Molti anni addietro il dottore aveva detto a
sua madre che il problema era dovuto a un «mancato sviluppo» e l'implicazione che il difetto fisico fosse in un certo qual modo colpa sua, una sorta di fallimento personale, gli faceva ancora male. Si pettinò con cura i capelli nei punti in cui si erano diradati, fece una smorfia e osservò i denti storti che non era mai riuscito a curarsi. Per qualche ragione gli venne in mente il figlio, Luke - aveva undici anni ormai - e la sensazione d'angoscia aumentò. Non lo vedeva da sei anni, oppresso dall'onere di un mantenimento a cui non poteva far fronte. Rievocò d'un tratto un'immagine del ragazzo: il modo in cui correva, tutto pelle e ossa, attraverso il getto di un irrigatore in una calda giornata d'estate... Il ricordo fu come una coltellata alla gola, uguale a quella che aveva visto dare da una Navajo a un agnellino che si dimenava e belava, ancora vivo eppure già morto. Rabbrividì al pensiero delle ingiustizie subite nella vita: i problemi finanziari, l'infedeltà della moglie, il divorzio. Era stato ripetutamente vittima. Era arrivato nella riserva armato soltanto della fede e di due scatoloni di libri. Dio lo stava mettendo alla prova, offrendogli solo un'esistenza di stenti e affliggendolo con una costante penuria di soldi. Eddy detestava avere debiti con tutti, soprattutto con gli indiani, ma il Signore sapeva per forza ciò che faceva e lui stava a poco a poco creando la sua congregazione, anche se la gente sembrava più interessata agli abiti che distribuiva che ai sermoni. Nessuno metteva più di qualche dollaro nel cestino delle offerte: alcune settimane vi trovava solo venti dollari. Molti andavano a messa alla missione cattolica per fare incetta di medicinali o di occhiali gratuiti o alla chiesa mormone di Rough Rock, per via della distribuzione di cibo. Quello era il problema con i Navajo: non distinguevano la voce di mammona da quella di Dio. Eddy si fermò per un istante a cercare con lo sguardo Lorenzo, ma l'aiutante indiano non si era ancora fatto vivo. Al pensiero di Lorenzo divenne rosso in volto. Il denaro delle offerte era svanito per la terza volta e ora non aveva più dubbi che fosse lui il colpevole. Erano soltanto cinquantuno dollari, ma erano cinquantuno dollari di cui la missione aveva un gran bisogno e, peggio ancora, era un furto perpetrato al Signore. Lorenzo aveva messo in pericolo la sua anima per cinquanta sporchi dollari. Eddy ne aveva più che abbastanza. La settimana precedente aveva deciso di licenziarlo, ma per farlo aveva bisogno di prove e in breve sarebbe riuscito a raccoglierle. Il giorno prima, nell'intervallo tra la raccolta delle offerte e la fine della funzione, aveva contrassegnato le banconote sul piat-
to con un evidenziatore giallo e aveva chiesto al commerciante di Blue Gab di prestare attenzione a chi le spendesse. Si infilò la maglietta, si stirò le braccia ossute e guardò la sua umile missione con un misto di affetto e disgusto. La roulotte in cui viveva stava cadendo a pezzi. Accanto sorgeva il fienile in pannelli di legno che aveva comprato da un allevatore di Shiprock, smontato, trasportato e rimontato per dare una sede alla sua chiesa. Una fatica immane. Al posto delle panche c'erano sedie di plastica di dimensioni, forme e colori assortiti. La «chiesa» era aperta su tre dei quattro lati; durante il sermone del giorno prima si era alzato il vento che aveva investito di sabbia la congregazione. L'unico oggetto di valore che possedeva era all'interno della roulotte: un iMac Intel Core Duo con schermo da venti pollici, speditogli in dono da un turista cristiano che, quando aveva attraversato la terra Navajo, era rimasto colpito dalla sua missione. Quel computer era una manna, l'ancora di salvezza che lo manteneva collegato al mondo al di là della riserva. Eddy vi passava molte ore al giorno, visitava le chat room e i newsgroup cristiani, mandava e riceveva e-mail e organizzava donazioni di vestiario. Entrò nella chiesa e iniziò a ordinare le sedie, sistemandole in file parallele e ripulendole dalla sabbia con una piccola spazzola. Mentre lavorava, pensò a Lorenzo e si infuriò ancora di più, tanto che cominciò a sbatterle sul pavimento e a spingerle brutalmente di qua e di là per rimetterle a posto. Quello era un compito che spettava al suo aiutante. Dopodiché il pastore portò uno scopettone sulla pedana di legno dalla quale predicava e si mise a spazzare le sabbia dalla parte in fondo. Allora vide comparire Lorenzo in cortile. Era ora. Il Navajo percorreva sempre a piedi i tre chilometri che separavano la missione da Blue Gap e aveva la tendenza ad arrivare inatteso, senza far rumore, come un fantasma. Eddy si raddrizzò e si appoggiò al manico dello scopettone, mentre il giovane indiano entrava nell'ombra della chiesa. «Ciao, Lorenzo» disse cercando di mantenere un tono calmo. «Che il Signore ti benedica e ti guidi oggi.» Lorenzo gettò indietro le lunghe trecce. «Ciao.» Eddy ne scrutò il volto scontroso in cerca di segni di abuso d'alcol o stupefacenti, ma Lorenzo distolse lo sguardo quando gli prese lo scopettone dalle mani e cominciò a spazzare. Era difficile leggere i pensieri dei Navajo, ma Lorenzo era ancora più complicato degli altri: solitario, taciturno, teneva tutto per sé. Era arduo capire se avesse qualcosa in testa, oltre al desiderio spasmodico di drogarsi e bere. Eddy non ricordava che avesse mai
pronunciato una frase completa. Era incredibile pensare che avesse frequentato la Columbia University, pur senza laurearsi. Eddy indietreggiò e lo guardò spazzare. Si muoveva in modo lento e inefficace, lasciando strisce di sabbia per terra. Si trattenne dal parlargli subito delle offerte. Non aveva quasi cibo sufficiente per sé, e doveva chiedere di nuovo soldi in prestito per la benzina, e lui rubava il denaro di Dio, senza dubbio per comprarsi droga o liquori. Al pensiero di affrontarlo, si innervosì. Doveva prima aspettare di avere notizie dal commerciante perché gli servivano prove. Se lo avesse accusato e lui avesse negato - da gran bugiardo qual era, lo avrebbe fatto - come avrebbe potuto reagire senza prove in mano? «Quando avrai finito qui, Lorenzo, puoi per piacere controllare i vestiti che sono appena arrivati?» disse, indicando varie scatole giunte venerdì da una chiesa dell'Arkansas. Il grugnito in risposta significava che il ragazzo aveva capito. Eddy lo osservò spazzare goffamente ancora per qualche istante. Lorenzo era strafatto, su quello non c'erano dubbi, e aveva rubato le offerte per comprarsi la droga. Ora Eddy non sarebbe riuscito a terminare la settimana senza chiedere in prestito dei soldi per il cibo e la benzina. Fremette di rabbia ma non disse nulla, si girò e tornò nella roulotte per consumare la sua magra colazione. Capitolo 9 Ford si fermò sulla soglia della stalla. Quel lunedì mattina il sole vi entrava obliquo illuminando un turbine di granelli di polvere. Udiva il rumore dei cavalli che si muovevano nei box e ruminavano il fieno. Si azzardò a entrare e percorse il corridoio centrale fermandosi a osservare l'animale nel primo box. Un cavallo pinto, intento a divorare avena, accortosi della sua presenza, si voltò. «Come ti chiami, amico?» Il cavallo nitrì, poi abbassò la testa per riprendere a mangiare. Un secchio sferragliò dall'altra parte della stalla. Ford si girò e vide una testa spuntare dal box in fondo: Kate Mercer. Si fissarono a vicenda. «Buongiorno» esclamò lui, sfoderando quello che sperava apparisse un sorriso disinvolto. «Buongiorno.»
«Vicedirettore del progetto, teorica delle stringhe, cuoca e... stalliere? Sei una donna dai molteplici talenti.» Ford si sforzò di mantenere un tono leggero. Kate possedeva altri talenti che aveva a fatica cancellato dai suoi pensieri. «Puoi ben dirlo.» Si premette la mano protetta dal guanto sulla fronte, poi si avvicinò con un secchio di granaglie. Aveva un filo di paglia impigliato nei capelli lucidi. Portava un paio di jeans aderenti, un logoro giubbotto di denim e una camicia bianca da uomo. Era aperta all'altezza del colletto e lui scorse la morbida curva del seno. Deglutì, incapace di dire alcunché se non un banale: «Ti sei tagliata i capelli». «Sì, in effetti i capelli hanno la tendenza a crescere.» Non avrebbe abboccato all'amo. «Stai bene» osservò affabile. «È, per così dire, la mia versione di un taglio tradizionale giapponese.» I capelli di Kate erano sempre stati un argomento rischioso. La madre, giapponese, non voleva che la figlia lo fosse in alcun modo: non permetteva che in casa si parlasse la sua lingua e insisteva affinché Kate portasse i capelli lunghi e sciolti, come una tipica ragazza americana. Kate aveva ceduto sui capelli, ma quando la madre aveva cominciato a insinuare che Ford sarebbe stato il marito americano ideale, si era messa a cercare con il massimo impegno tutti i possibili difetti. Ford capì che cosa significasse quel taglio. «Tua madre?» «È morta quattro anni fa.» «Mi spiace.» Ci fu un attimo di silenzio. «Vai a fare una cavalcata?» gli chiese. «Ci stavo pensando.» «Non sapevo ne fossi capace.» «Quando avevo dieci anni, ho passato un'estate in un ranch per turisti.» «In tal caso non ti consiglio Snort» disse, indicando con un cenno il pinto. «Dove hai intenzione di andare?» Con un fruscio Ford estrasse una cartina dalla tasca e l'aprì. «Volevo fare un salto a Blackhorse per incontrare lo sciamano. In macchina sembra una traversata di una trentina di chilometri su strade dissestate. A cavallo sono solo dieci chilometri se si prende la pista in fondo alla mesa.» Kate afferrò la mappa e la studiò. «È la Pista di mezzanotte. Non è adatta a cavallerizzi inesperti.»
«Mi farebbe risparmiare ore.» «Se fossi in te, prenderei lo stesso la jeep.» «Non voglio arrivare con una macchina piena di simboli governativi.» «Mmm. Capisco.» Calò di nuovo il silenzio. «D'accordo» disse Kate. «Il cavallo che cerchi è Ballew.» Tolse una cavezza da un gancio, entrò in un box e condusse fuori un animale color terra con un collo arcuato, una coda da topo e un ventre gonfio di fieno. «Sembra sia stato scartato da una ditta di mangimi per cani.» «Non giudicare un cavallo dall'aspetto. Il vecchio Ballew è a prova di bomba ed è tanto in gamba da restare calmo quando percorre la Pista di mezzanotte. Prendi sella e sottosella da quella rastrelliera e bardiamolo.» Lo spazzolarono e lo sellarono, gli sistemarono le redini e lo portarono all'esterno. «Sai montare?» domandò Kate. Ford la guardò. «Metti un piede nella staffa, sali... è giusto?» Lei gli porse le redini. Ford armeggiò per qualche istante, ne passò una sul collo dell'animale, tenne ferma la staffa e vi infilò il piede. «Aspetta, devi...» Lui però si stava già sollevando. La sella scivolò di lato e Ford precipitò, atterrando sul sedere. Ballew rimase immobile, indifferente, con la sella che gli penzolava lungo il fianco. «Stavo per dirti: devi controllare lo straccale.» Kate sembrò soffocare una risata. Ford si alzò e si scosse la terra di dosso. «È così che mettete alla prova i turisti qui?» «Ho cercato di avvertirti.» «Be', sarà meglio che vada.» Lei scosse la testa. «Tra tutti i posti al mondo, non posso credere che tu sia proprio qui.» «Non sembri contenta.» «È così.» Ford si trattenne dal rispondere per le rime. Aveva un lavoro da svolgere. «Mi sono buttato tutto alle spalle molto tempo fa. Spero che ci riesca anche tu.» «Oh, non ti preoccupare per quello: anch'io me lo sono più che buttato alle spalle. È solo che in questo momento non ho bisogno di complicazioni
del genere.» «Di quali complicazioni parli?» chiese Ford. «Lascia perdere.» Lui tacque. Non si sarebbe fatto coinvolgere in questioni personali con Kate. Concentrati solo sulla missione, pensò «Oggi torni nel Bunker?» chiese dopo un istante con tono sommesso. «Purtroppo sì.» «Altri problemi?» Kate distolse lo sguardo... Con aria circospetta, notò Ford. «Forse.» «Di che tipo?» Lei alzò gli occhi, fissò altrove e rispose: «Difetti dell'hardware». «Hazelius mi ha detto che si trattava del software.» «Anche.» Di nuovo il suo sguardo si posò altrove. «C'è qualcosa che posso fare per dare una mano?» Lei lo guardò dritto in viso. I suoi occhi color mogano si erano fatti misteriosi, inquieti: «No». «È qualcosa di... serio?» Kate esitò. «Wyman? Tu fai il tuo lavoro e lascia che noi facciamo il nostro, d'accordo?» Si voltò di scatto e si diresse verso la stalla. Ford restò a guardarla finché scomparve nel buio dell'interno. Capitolo 10 In groppa a Ballew, Ford a poco a poco si rilassò e cercò di distogliere la mente da Kate, sulla quale si era soffermato fin troppo per i suoi gusti. Era una di quelle splendide giornate di fine estate venate di malinconia, che gli rammentavano che ben presto la bella stagione sarebbe finita. Le serpentarie fiorite brillavano dorate in mezzo all'erba secca. I fichi d'India si stavano coprendo di spine e i fiori delle fallugie lasciavano già il posto ai soffici pennacchi bianchi e rossi che annunciavano l'arrivo del mite autunno. Quando il sentiero tracciato giunse al termine, Ford continuò attraverso il tavolato orientandosi con la bussola. I vecchi ginepri ritorti e le formazioni rocciose hoodoo conferivano alla sommità della mesa un aspetto preistorico. Superò le tracce di un orso impresse nella sabbia: le impronte delle zampe sembravano quasi umane. Gli venne all'improvviso in mente shush, la parola navajo da tempo dimenticata che significava «orso». Quaranta minuti più tardi, Ford raggiunse il bordo della mesa. La parete
scendeva a perpendicolo per varie decine di metri prima di formare dei gradoni di arenaria che digradavano verso Blackhorse, situato seicento metri più in basso. L'insediamento sembrava un ammasso di segni geometrici nel deserto, a circa mezzo chilometro dalla base della mesa. Ford scese di sella e scrutò l'orlo del precipizio finché trovò la spaccatura in cui passava la Pista di mezzanotte. Sulla carta era indicata come una vecchia strada per le attività di prospezione dell'uranio, ma la caduta di massi, le frane e l'erosione prodotta dall'acqua l'avevano interrotta qua e là. Scendeva dritta per poi stringersi in uno stretto tornante lungo la parete, attraversare un fianco della mesa e procedere di nuovo a tornanti fino ai piedi della mesa. Il solo fatto di percorrere la pista, in alcuni punti larga anche meno di un metro, gli procurò le vertigini. Forse avrebbe dovuto prendere la jeep. Per nulla al mondo però sarebbe tornato indietro. Condusse Ballew fino al bordo e cominciò a scendere tirandolo dietro di sé. Imperturbabile, il cavallo abbassò la testa, inspirò rumorosamente e lo seguì. Ford provò un moto di ammirazione, persino di affetto per il vecchio ronzino. Mezz'ora dopo sbucarono ai piedi della mesa. Ford montò e cavalcò per l'ultimo breve tratto di pista seguendo un canyon poco profondo, ombreggiato da tamerici, fino a Blackhorse. Recinti per le mucche, qualche stalla per cavalli, un mulino a vento, un serbatoio per l'acqua e una decina di roulotte fatiscenti: l'abitato era tutto lì. Dietro a una casa sorgevano alcune capanne di cedro spaccato con i tetti in fango. Nel centro del villaggio cinque o sei bambini in età prescolare giocavano rumorosamente su altalene decrepite. Le loro voci risuonavano acute nel vuoto del deserto. Alcuni pickup erano parcheggiati accanto alle roulotte. Ford spronò Ballew con i talloni e il vecchio cavallo avanzò lento sul pianoro che costituiva la periferia del villaggio. Soffiava un vento costante. I ragazzini smisero di giocare e rimasero immobili a fissarlo, come statue in miniatura. Poi, quasi avessero obbedito a un segnale, scapparono via strillando. Ford fermò Ballew a una quindicina di metri dalla casa più vicina e attese. Sapeva, dall'esperienza a Ramah, che lo spazio personale di un navajo iniziava molto prima dell'ingresso principale. Un attimo dopo una porta sbatté e un uomo snello con un cappello da cowboy e le gambe storte uscì zoppicando da un'abitazione. Sollevando la mano nella sua direzione, gridò per sovrastare il vento. «Leghi il cavallo laggiù.» Ford smontò, legò Ballew e allentò lo straccale sul fianco. L'uomo si av-
vicinò, schermandosi con la mano gli occhi dal sole intenso. «Chi è lei?» Ford tese la mano. «Yá'ái 'ééh shi éí Wyman Ford yinishyé.» «Oh no, un altro Bilagáana che cerca di parlare navajo!» esclamò allegro l'indiano, poi aggiunse: «Almeno il suo accento è migliore della media». «Grazie.» «Che posso fare per lei?» «Sto cercando Nelson Begay.» «L'ha trovato.» «Ha un attimo?» Begay lo guardò con sospetto, studiandolo con più attenzione. «Arriva dalla mesa?» «Sì.» «Oh.» Pausa. «È un accidenti di pista.» «Non se porti a mano il cavallo.» «È un uomo sveglio.» Ci fu un altro strano silenzio. «Allora è... è del governo?» «Sì.» Begay lo scrutò di nuovo circospetto, sbuffò, si girò e tornò zoppicando alla roulotte. Un attimo dopo la porta sbatté. Il villaggio di Blackhorse ripiombò nel silenzio, tranne per il vento che sollevava la sabbia gialla tutt'intorno a Ford, avvolgendolo a mo' di coperta. E adesso? Ford rimase in mezzo al turbine di sabbia e si sentì un idiota. Se avesse bussato alla porta, Begay non avrebbe risposto e quello che avrebbe ottenuto era qualificarsi come l'ennesimo Bilagáana insistente. D'altronde, era venuto fin lì per parlare con lui e lo avrebbe fatto. 'Fanculo, quell'uomo non può restare in casa per sempre. Perciò Ford decise di sedersi e attendere. I minuti si susseguirono lenti. Il vento soffiava e la sabbia vorticava. Passarono dieci minuti. Uno scarabeo avanzò deciso nella coltre di sabbia, intenzionato a portare a termine la sua misteriosa missione. Via via che si allontanava si trasformò in un puntino sempre più piccolo fino a scomparire. La mente di Ford prese a vagare e pensò a Rate, alla loro relazione, al lungo percorso che la sua esistenza aveva intrapreso da allora. Inevitabilmente il pensiero cadde su sua moglie. La sua morte aveva scardinato qualsiasi senso di sicurezza avesse avuto nella vita. Prima, non ave-
va idea di quanto potesse essere arbitraria. Le tragedie capitavano agli altri. D'accordo, lezione appresa. Potevano capitare anche lui. Va' avanti. Scorse il lieve movimento di una tenda dietro a una finestra. Begay lo stava osservando. Si chiese quanto ci sarebbe voluto prima che cogliesse il messaggio che non era intenzionato ad andarsene. Sperava non molto: la sabbia cominciava a infilarsi nei pantaloni, a farsi strada negli stivali, a filtrare nei calzini. La porta sbatté di nuovo e Begay uscì zoppicando sulla veranda di legno. Aveva le braccia conserte e un'aria fortemente seccata. Guardò Ford di traverso, poi scese dinoccolato i pericolanti gradini di legno e si avvicinò. Gli tese la mano e lo aiutò ad alzarsi. «Lei è l'uomo bianco maledettamente più paziente che abbia mai incontrato. Immagino sia il caso di farla entrare. Si scuota bene i vestiti prima di rovinarmi il divano nuovo.» Ford si scrollò la sabbia di dosso e lo seguì in soggiorno, dove si accomodarono. «Un caffè?» «Grazie.» Begay tornò con due tazzoni di liquido acquoso come tè. Ford si ricordò anche di quello: per risparmiare, i Navajo riutilizzavano più volte i fondi del caffè. «Latte? Zucchero?» «No, grazie.» Begay abbondò con lo zucchero, poi da un cartone si versò una dose generosa di panna liquida. Ford osservò con attenzione la stanza. Il divano marrone di velluto stropicciato su cui era seduto non aveva affatto l'aria di essere appena stato acquistato. Begay sprofondò in una vecchia poltrona. In un angolo spiccava un costoso televisore a schermo gigante, a quanto pareva l'unico oggetto di valore della casa. Dietro, la parete era tappezzata di fotografie di famiglia, molte mostravano uomini in uniforme militare. Ford spostò incuriosito lo sguardo su Begay. Lo sciamano non corrispondeva per nulla alle aspettative: non era un giovane e irruento attivista né un anziano saggio e rugoso. Era alto e dinoccolato, con i capelli ben tagliati e sembrava aver superato da poco la quarantina. Al posto degli stivali da cowboy usati da gran parte dei Navajo di Ramah, portava un paio di scarpe da tennis alte fino alla caviglia, logore e sbiadite, con la punta di
gomma che si stava staccando. L'unica concessione alle origini native era una collana di perline turchesi. «Bene, cosa vuole da me?» Parlò con un timbro di voce dolce e acuto, simile a quello di un flauto, e con quel tipico accento navajo che sembrava dar peso a ogni singola parola. Ford indicò la parete con un cenno. «La sua famiglia?» «I nipoti.» «Sono militari?» «Nell'esercito. Uno è di stanza in Corea del Sud, l'altro, Lorenzo, ha terminato una missione in Iraq e adesso è...» Esitò. «Tornato a casa.» «Sarà fiero di loro.» «Sì.» Ci fu un altro silenzio. «Ho saputo che guida la protesta contro il Progetto Isabella.» Non ricevette alcuna risposta. «Be', sono qui proprio per questo: per ascoltare i vostri timori.» Begay incrociò le braccia al petto. «È troppo tardi per ascoltare.» «Mi metta alla prova.» Il navajo si protese in avanti. «Nessuno ha chiesto alla gente di qui se volessimo Isabella. L'intero accordo è stato stretto giù a Window Rock. Loro prendono i soldi e a noi non viene in tasca niente. Ci hanno detto che ci sarebbero stati nuovi posti di lavoro, poi la vostra gente ha chiamato gli operai edili da fuori. Hanno detto che avrebbe portato sviluppo economico, ma la vostra gente ha portato cibo e rifornimenti da Flagstaff. Neanche una volta siete venuti a fare acquisti nei nostri negozi a Blue Gap o a Rough Rock. Avete costruito gli alloggi in una valle Anasazi, profanando le tombe e sottraendoci pascoli che usavamo ancora senza offrirci un compenso in cambio. E adesso sentiamo parlare di atomi frantumati e di radiazioni.» Posò le grosse mani sulle ginocchia e guardò torvo Ford. «La sto ascoltando» disse lui annuendo. «Mi fa proprio piacere che non sia sordo. Siete così maledettamente ignoranti della nostra cultura che scommetto non sapete nemmeno che ora sia.» Inarcando beffardo le sopracciglia aggiunse: «Forza, mi dica, secondo lei che ora è?». Ford era consapevole di finire comunque in un trabocchetto, ma stette al gioco. «Le nove.» «Sbagliato!» esclamò trionfante Begay. «Sono le dieci.» «Le dieci?»
«Esatto. Qui nella Big Rez per metà dell'anno ci troviamo in una zona temporale diversa dal resto dell'Arizona e per l'altra metà nella stessa. In estate, quando entri nella riserva, sei un'ora avanti rispetto al resto dello Stato. Ore e minuti sono a ogni modo un'invenzione dei Bilagáana, ma il punto è che voi geni lassù sapete così poco di noi che non avete nemmeno regolato correttamente gli orologi.» Ford lo fissò calmo. «Signor Begay, se è disposto a collaborare con me per cambiare qualcosa a livello pratico, le prometto di fare tutto quello che è in mio potere. Le sue rimostranze sono legittime.» «Chi è lei, uno scienziato?» «Sono un antropologo.» Ci fu un improvviso silenzio, poi Begay si appoggiò allo schienale scosso da una secca risata. «Un antropologo. Come se fossimo una sorta di tribù primitiva. Oh, questa sì che è bella.» Smise di ridere e aggiunse: «Be', sono americano proprio come lei. Ho parenti che combattono per il mio Paese. Non mi piace che veniate qui, nella mia mesa, che costruiate una macchina che spaventa a morte tutti e facciate un sacco di promesse che non mantenete. E adesso ci inviano un antropologo come se fossimo dei selvaggi con un osso infilato nel naso». «Hanno scelto me perché ho passato un po' di tempo a Ramah. Quello che vorrei fare è invitarla a visitare Isabella, a incontrare Gregory Hazelius per vedere quello che stiamo facendo, per conoscere la squadra che lavora al progetto.» Begay scosse la testa. «Il tempo delle visite è finito.» Tacque, poi quasi con riluttanza chiese: «Che genere di ricerche state conducendo lassù? Ho sentito un mucchio di strane storie». «Stiamo studiando il Big Bang.» «Che cos'è?» «La teoria secondo cui l'universo sarebbe nato tredici miliardi di anni fa in seguito a un'esplosione e da allora si stia espandendo.» «In altre parole, state ficcando il naso nell'operato del Creatore,» «Il Creatore non ci ha dato niente.» «Quindi non credete che un Creatore abbia dato vita all'universo.» «Sono cattolico, signor Begay. A mio parere il Big Bang è esattamente il modo in cui Dio lo ha fatto.» Begay sospirò. «Come ho detto: basta parlare. Venerdì cavalchiamo fino alla mesa. Questo è il messaggio che può portare alla sua squadra. Ora, se non le spiace, ho altro da fare.»
Ford condusse Ballew fino al punto in cui la pista cominciava a scendere. Alzò lo sguardo verso i massi, i dirupi e le pareti. Ora che sapeva che il cavallo era in grado di superare i tornanti e i punti impervi, andare a piedi non avrebbe avuto alcun senso. Avrebbe cavalcato il vecchio ronzino. Quando, un'ora dopo, uscirono dalla spaccatura e sbucarono sulla sommità della mesa, Ballew partì al trotto, desideroso di tornare alla stalla. Ford si aggrappò al pomo della sella in preda al panico, lieto che attorno non ci fosse nessuno a vederlo fare la figura dell'idiota. Verso l'una si profilò, incombente, la roccia di Nakai Rock, poi comparvero i bassi promontori a picco della valle. Mentre attraversava i boschi di pioppi, udì un'aspra risata e vide una figura percorrere furiosa il sentiero che conduceva da Isabella agli alloggi. Era Volkonskij, il programmatore informatico, con i lunghi capelli unti scarmigliati. Sembrava stravolto e arrabbiato, ma nello stesso tempo aveva stampato sul volto un ghigno folle. Ford indusse Ballew a rallentare l'andatura, smontò rapido e usò il cavallo per bloccare il sentiero. «Buongiorno.» «Mi scusi» rispose Volkonskij cercando di schivarlo. «Bella giornata, non crede?» Lo scienziato si fermò e lo fissò in preda a un'allegria sfrenata. «Lei mi chiede: è una bella giornata? E io le rispondo: non poteva essere migliore!» «Davvero?» chiese Ford. «Da quando in qua sarebbero affari suoi, signor antropologo?» Inclinò il capo e fece una smorfia di finta ilarità, svelando una fila di denti marroni. Ford gli si avvicinò tanto che avrebbe potuto toccarlo. «Dall'aspetto che ha, direi che ha avuto una giornata tutt'altro che piacevole.» Volkonskij gli posò una mano sulla spalla con esagerata cordialità e si protese. Ford fu investito da una zaffata del suo alito pregno d'alcol e tabacco. «Prima mi preoccupavo. Adesso sto bene!» Reclinò la testa e scoppiò in una risata fragorosa, stridula. Sul collo coperto di peluria il suo pomo di Adamo si mosse su e giù, a scatti. Alle sue spalle si udì un rumore di passi e Volkonskij si raddrizzò all'improvviso. «Ah, Peter» disse Wardlaw avvicinandosi sul sentiero. «E Wyman Ford. Salve.» La voce, amabile e stranamente ironica, enfatizzò l'ultimo termine.
Volkonskij trasalì udendo il saluto. «Arriva dal Bunker, Peter?» Le parole di Wardlaw sembravano racchiudere una vaga minaccia. Volkonskij mantenne il suo ghigno folle, ma Ford scorse disagio nei suoi occhi... o era paura? «Dal registro di sicurezza risulta che è stato lì tutta la notte» proseguì Wardlaw. «Sono preoccupato per lei. Mi auguro riesca a dormire a sufficienza, Peter.» Volkonskij lo superò senza replicare e si incamminò rigido lungo il sentiero. Wardlaw si voltò allora verso Ford come se non fosse successo niente di insolito. «Bella giornata per farsi una cavalcata.» «Stavamo proprio chiacchierando di questo» rispose lui sarcastico. «Dov'è andato?» «A Blackhorse, a incontrare lo sciamano.» «Eh?» «Ci siamo incontrati.» Wardlaw scosse la testa. «Quel Volkonskij... è sempre esagitato per qualche motivo.» Fece un passo sul sentiero, poi si bloccò. «Non le ha detto niente di... strano, vero?» «Come per esempio...?» domandò Ford. Wardlaw scrollò le spalle. «Chi lo sa? Quell'uomo è un po' instabile.» Ford lo guardò allontanarsi a passo lento con le mani carnose infilate in tasca: una persona come le altre della squadra, prossima al punto di rottura, solo più abile a nasconderlo. Capitolo 11 Il pastore Eddy era davanti alla roulotte con un bicchiere d'acqua fresca in mano, intento a osservare il sole scomparire dietro il lontano orizzonte. Di Lorenzo non c'era traccia: se n'era andato verso mezzogiorno, silenzioso com'era arrivato, senza aver portato a termine le sue mansioni. Sul tavolo giaceva un mucchio d'abiti ancora da controllare e la sabbia nella chiesa non era stata spazzata. Eddy fissò il panorama che si stendeva di fronte a lui in preda a un profondo risentimento. Non avrebbe mai dovuto accettare di prendere Lorenzo. Il giovane era stato in carcere per omicidio colposo e aveva patteggiato per evitare l'accusa di omicidio di secondo grado: in una rissa tra ubriachi a Gallup aveva accoltellato un uomo. Aveva scontato so-
lo diciotto mesi. Eddy aveva acconsentito ad assumerlo su richiesta di una famiglia locale, per aiutarlo a ottenere la libertà condizionale. Un grosso errore. Bevve un sorso d'acqua, cercando di spegnere il fuoco del rancore e della rabbia che gli ardeva nel petto. Non aveva ancora avuto notizie dal commerciante di Blue Gap, ma era certo che non avrebbe dovuto attendere molto. A quel punto avrebbe avuto la prova necessaria per sbarazzarsi una volta per sempre di Lorenzo, per rimandarlo in prigione, al luogo a cui apparteneva. Diciotto mesi per un omicidio: non c'era da stupirsi che il tasso di criminalità della riserva fosse così elevato. Bevve un altro sorso e si stupì quando scorse una vaga sagoma umana avanzare sulla strada che conduceva alla missione, una figura ben delineata contro il sole al tramonto. La fissò socchiudendo gli occhi. Lorenzo. Persino a distanza, capì dall'andatura incerta che era ubriaco. Incrociò le braccia al petto e attese mentre il battito del cuore gli accelerava all'idea del confronto imminente. Non avrebbe lasciato correre, non più. Lorenzo arrivò al cancello, si appoggiò per un istante al palo ed entrò. «Lorenzo?» Il navajo voltò lentamente la testa. Aveva gli occhi iniettati di sangue, le stupide trecce mezze sfatte, la bandana di traverso e un aspetto terribile. Stava completamente chino, come se tutto il peso del mondo gli gravasse sulle spalle. «Vieni qui, per piacere. Voglio scambiare due parole con te.» Lui si limitò a guardarlo. «Lorenzo, mi hai sentito?» Il ragazzo si girò e avanzò barcollando verso il mucchio di vestiti. Eddy si mosse rapido e gli si parò davanti, bloccandogli il cammino. Il navajo si fermò e sollevò lentamente la testa per guardarlo. Eddy fu investito da una zaffata acre di bourbon. «Lorenzo, sai molto bene che bere alcolici è una violazione della libertà condizionale.» L'altro si limitò a fissarlo. «Inoltre, te ne sei andato senza finire il compito che ti avevo assegnato. Io devo attestare di fronte all'agente di controllo che tu qui lavori come si deve e non ho intenzione di mentirgli! Ti mando via.» Lorenzo abbassò il capo. Per un istante Eddy pensò fosse un gesto di contrizione, poi udì una sorta di raschio. Lorenzo tirò su un po' di muco, lo
fece scivolare tra le labbra e cadere sulla sabbia ai piedi di Eddy. Il pastore della missione sentì il cuore martellargli forte nel petto. Era in preda a una rabbia furiosa. «Non sputare quando ti parlo, amico» disse con voce stridula. Lorenzo cercò di fare un passo di lato per aggirarlo, ma Eddy gli si parò di nuovo davanti. «Mi stai ascoltando o sei troppo ubriaco?» Il navajo rimase immobile. «Dove hai trovato i soldi per andare a bere?» Lorenzo sollevò la mano e la lasciò cadere subito pesantemente. «Ti ho fatto una domanda.» «Me li doveva un tizio» rispose con voce rauca. «Davvero? Quale tizio?» «Non so il suo nome.» «Non sai il suo nome!» ripeté Eddy. Lorenzo fece un altro fiacco tentativo di aggirarlo, che Eddy bloccò. Sentì le mani tremargli. «Guarda caso so da dove vengono quei soldi. Li hai rubati. Dal piatto delle offerte.» «Assolutamente no.» «Assolutamente sì. Li hai rubati. Erano più di cinquanta dollari.» «Stronzate.» «Non imprecare contro di me, Lorenzo. Ti ho visto prenderli.» La bugia gli scappò prima ancora che si rendesse conto di averla detta. Però non importava. Poteva anche averlo visto: gli si leggeva in faccia che era certamente colpevole. Lorenzo non disse nulla. «Erano cinquanta dollari di cui questa missione aveva disperato bisogno, ma non li hai rubati solo alla missione, non li hai rubati solo a me. Li hai rubati al Signore!» Nessuna risposta. «Come pensi reagirà il Signore davanti a tutto questo? Che hai pensato quando li hai presi, Lorenzo? Se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te; conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che venga gettato tutto il tuo corpo nella Geenna.» Lorenzo si voltò di scatto e si incamminò nell'altra direzione, verso il villaggio. Eddy spiccò un balzo e lo afferrò per la camicia all'altezza della spalla. Lui si liberò con uno scrollone e continuò ad avanzare. All'improvviso tuttavia deviò e puntò verso la roulotte. «Dove vai?» gridò Eddy. «Non entrare là dentro!»
Lorenzo scomparve all'interno ed Eddy gli corse dietro, fermandosi sulla porta. «Esci di lì!» Esitò a entrare, nel timore che lo assalisse. «Sei un ladro!» gridò. «Questo è quello che sei. Un volgare ladro. Esci subito da casa mia! Chiamo la polizia!» Dalla cucina provenne uno schianto e il cassetto delle posate volò attraverso la stanza. «Pagherai i danni! Fino all'ultimo centesimo!» Ci fu un altro schianto e volarono altre posate. Eddy voleva disperatamente entrare ma aveva paura. Almeno il navajo ubriaco era in cucina e non nella stanza da letto sul retro, dove si trovava il computer. «Esci di lì, ubriacone! Rifiuto umano! Sei spazzatura agli occhi di Gesù! Riferirò tutto quello che è successo all'agente di controllo e tornerai in prigione! Te lo garantisco!» Lorenzo apparve all'improvviso sulla soglia con un lungo coltello da pane in mano. Eddy indietreggiò e scese dal portico. «Lorenzo. No.» Il ragazzo rimase titubante, agitando il coltello e battendo le palpebre nella luce del sole al tramonto. Non si mosse. «Butta il coltello, Lorenzo. Buttalo!» Lorenzo abbassò la mano. «Buttalo, ora.» Eddy vide la mano, bianca per la tensione con cui stringeva l'impugnatura, rilassarsi. «Buttalo, altrimenti Gesù ti punirà.» Dalla gola di Lorenzo provenne un improvviso gorgoglio di rabbia. «Il tuo Gesù me lo caccio su per il culo, così!» Fece il gesto di pugnalare qualcuno con tale violenza che per poco non perse l'equilibrio. Eddy arretrò barcollando. L'impatto di quelle parole fu come un pugno alla bocca dello stomaco. «Come... osi... bestemmiare? Sei un pervertito, un malvagio! Brucerai all'inferno, Satana! Tu..!» La voce acuta di Eddy morì, strozzata dall'isteria. Dalla gola di Lorenzo si levò una risata rauca, catarrosa. Agitò il coltello con un ghigno sul volto, come se godesse nel vedere l'orrore di Eddy. «Precisamente, su per il culo.» «Brucerai all'inferno!» gridò il pastore in un impeto di coraggio. «Chiederai a Gesù di inumidirti le labbra riarse ma Lui non ti ascolterà perché sei feccia. Hai capito? Sei feccia umana!» Lorenzo sputò di nuovo. «Esatto.» «Dio ti colpirà, ricorda le mie parole. Ti castigherà e ti maledirà, bestemmiatore! Hai rubato a Lui, sporco ladro di un navajo!»
Lorenzo si gettò su di lui ma il predicatore era piccolo e svelto: quando il coltello lo sfiorò, si spostò rapido di lato e afferrò l'avambraccio del giovane con entrambe le mani. Il navajo lottò cercando di volgere il coltello verso di lui, ma Eddy tenne la presa a due mani, torcendo e piegando il braccio, cercando di far cadere a terra l'arma. Lorenzo grugnì affaticato: ebbro com'era, non aveva la forza necessaria. Il braccio divenne all'improvviso flaccido mentre Eddy lo stringeva. «Butta il coltello!» Lorenzo rimase lì, incerto. Intravedendo un'opportunità, Eddy gli assestò una spallata per farlo ruotare e afferrò il coltello. Perso l'equilibrio, il pastore cadde all'indietro e Lorenzo gli fu addosso in un attimo. Proprio mentre il giovane navajo cadeva, Eddy riuscì ad afferrare il coltello per il manico. Lorenzo ci piombò sopra e la lama infilzò longitudinalmente il suo cuore. Eddy sentì il sangue caldo sgorgargli a fiotti sulle mani. Con un grido lasciò andare la lama e si liberò dal corpo del navajo. L'arma era conficcata nel petto di Lorenzo. «Nooo!» Questi riuscì incredibilmente a rialzarsi con il coltello che gli spuntava all'altezza del cuore. Indietreggiò vacillando e, con un ultimo sforzo, strinse il manico con entrambe le mani. Rimase lì per un istante, con le mani aggrappate all'impugnatura nel tentativo di estrarlo, ma le forze ormai gli stavano venendo meno. Aveva un'espressione assente e lo sguardo vitreo. Cadde in avanti e atterrò pesante nella sabbia. In seguito all'impatto, la punta del coltello gli fuoriuscì dalla schiena. Eddy rimase a fissarlo con labbra tremanti. Sotto il corpo vide la pozza di sangue allargarsi nella sabbia e venire assorbita dal terreno assetato, sul quale rimase solo qualche intensa macchia rossa. Il primo pensiero fu: Non sarò di nuovo una vittima. Il sole era già tramontato e l'aria era diventata fredda quando Eddy terminò di scavare la buca. La sabbia era cedevole, asciutta, e lui aveva scavato in profondità, molto in profondità. Si fermò, fradicio di sudore e nello stesso tempo scosso dai brividi. Uscì dalla fossa, issò la scala a pioli, avvicinò il piede al corpo e lo spinse dentro. Questo atterrò con un tonfo umido. Lavorando con gran cura, gettò tutta la sabbia insanguinata nella buca. Scavò senza lasciarsi sfuggire un solo granello. Poi si tolse i vestiti e li gettò nella buca. Infine, fu il turno del secchio d'acqua sporco di sangue in cui
si era lavato le mani. Buttò tutto dentro, secchio e acqua, anche l'asciugamano con cui si era asciugato. Rimase ai piedi della fossa scura completamente nudo, tutto tremante. Doveva dire una preghiera? Il bestemmiatore non se la meritava. A che cosa sarebbe servita una preghiera per qualcuno che già si dibatteva e si contorceva nel fuoco dell'inferno? Eddy aveva detto che Dio lo avrebbe colpito e non più di quindici secondi dopo era successo. Dio aveva rivolto la mano del bestemmiatore contro quest'ultimo. Eddy era stato testimone: aveva visto il miracolo. Sempre nudo, riempì la fossa palata dopo palata, lavorando sodo per scaldarsi. A mezzanotte era tutto finito. Con un rastrello cancellò le prove del suo operato, ripose gli attrezzi ed entrò in casa, Quando quella sera, steso a letto, pregò con un'intensità che non aveva mai dimostrato in vita sua, sentì alzarsi il vento notturno. Gemeva, scuoteva e sbatacchiava la vecchia roulotte, mentre la sabbia sibilava contro le finestre. Domani mattina, pensò Eddy, il cortile sarà stato ben spazzato dal vento e sarà una distesa liscia di sabbia vergine. Tutte le prove verranno cancellate. Il Signore sta lavando il terreno per me, così come mi perdona e lava la mia anima dal peccato. Il predicatore rimase disteso al buio, scosso dai tremiti ma trionfante. Capitolo 12 Quella sera Booker Crawley seguì il maître in una delle sale di una steak house dalle luci soffuse a McLean, in Virginia, dove trovò il reverendo Don T. Spates già seduto a un tavolo, intento a studiare il menu rilegato in cuoio pesante almeno un paio di chili. «Reverendo Spates, che piacere rivederla.» Strinse la mano che l'uomo gli aveva teso. «Piacere mio, signor Crawley.» Questi si accomodò e srotolò il quadrato di lino elegantemente ripiegato che era il suo tovagliolo, per sistemarselo quindi sulle ginocchia. Il cameriere addetto ai drink si avvicinò silenzioso. «Signori, posso portarvi qualcosa da bere?» «Un 77» ordinò il reverendo. Crawley rabbrividì, lieto di aver scelto un ristorante in cui nessuno lo avrebbe riconosciuto. Il reverendo puzzava di dopobarba e aveva le basette
di un centimetro troppo lunghe. Di persona, sembrava vent'anni più vecchio che in televisione. Aveva la faccia costellata di macchie e la carnagione ruvida e rossastra tipica dei bevitori. I capelli arancione brillavano: come poteva un gran conoscitore di media come lui trascurare così i propri capelli? «E lei signore?» «Un Bombay Sapphire martini molto secco, senza ghiaccio, con una scorza di limone.» «Arrivano subito, signori.» Crawley sfoderò un ampio sorriso. «Bene, reverendo, ho visto il suo spettacolo ieri sera. È stato... grande.» Spates annuì, tamburellando una mano grassa, ben curata, sulla tovaglia. «Il Signore era con me.» «Mi chiedevo se avesse avuto qualche feedback.» «Certo. Nelle ultime ventiquattr'ore il mio ufficio ha registrato più di ottantamila mail.» Silenzio. «Ottomila?» «No, signore. Ottanta-mila.» Crawley era rimasto senza parole. «Scritte da chi?» chiese infine. «Dagli spettatori, naturalmente.» «Ha ragione di presumere che si tratti di una reazione insolita?» «Esatto. Il sermone ha davvero toccato un punto sensibile. Quando il governo spende il denaro dei contribuenti per smentire la parola di Dio... be', i cristiani insorgono dappertutto.» «Sì, certo.» Crawley si sforzò di sorridere per dimostrargli che era d'accordo. «Ottantamila. Qualsiasi membro del Congresso se la farebbe sotto.» Tacque quando il cameriere portò loro i drink. Il reverendo strinse il bicchiere gelido, mandò giù una lunga sorsata e lo posò. «Ora, c'è quest'impegno che ha preso nei confronti della Missione della prima serata di Dio.» «Sicuro.» Crawley si toccò la giacca poco al di sopra del taschino interno. «Tutto al momento giusto.» Spates bevve un altro sorso. «Qual è stata la reazione a Washington?» I contatti di Crawley avevano appreso che un numero significativo di mail era arrivato anche a vari membri del Congresso, accompagnato da una valanga di telefonate, ma non era il caso di aumentare le aspettative di Spates. «Una questione del genere va spinta un po' se vogliamo che superi
le barriere di Washington.» «Non mi risulta che sia così. Molte di quelle mail sono state spedite in copia a Washington.» «Certo, certo» aggiunse in fretta Crawley. Il cameriere tornò e prese l'ordine. «Ora se non le spiace» disse Spates, «vorrei ricevere la donazione prima di cominciare a mangiare. Non vorrei si sporcasse d'unto.» «No, no, certamente.» Crawley estrasse la busta dal taschino interno e la posò con discrezione sul tavolo. Gli venne male quando Spates la prese, sbandierandola senza problemi. La manica della giacca gli scivolò all'indietro rivelando un polso ricoperto di una fitta peluria arancione. Allora, il colore arancione era naturale. Com'era possibile che l'unica cosa che sembrava spudoratamente finta di Spates fosse in realtà autentica? C'era qualcos'altro, qualcosa di ben più vitale, che gli sfuggiva di quell'uomo? Crawley soffocò l'irritazione. Spates girò la busta e l'aprì con un'unghia laccata. Estrasse l'assegno, lo portò alla luce e lo esaminò con molta attenzione. «Diecimila dollari» lesse lentamente. Crawley si guardò attorno, lieto che fossero soli in quella sala del ristorante. Quell'uomo non aveva la minima classe. Spates continuò a studiare l'assegno. «Diecimila dollari» ripeté. «Le giuro che è tutto regolare.» Il reverendo infilò l'assegno nella busta e se lo cacciò nella giacca. «Sa quanto mi costa gestire la Missione? Cinquemila al giorno. Trentacinquemila la settimana, quasi due milioni l'anno.» «È davvero tanto.» «Ho dedicato l'intero sermone al suo problema. Spero di poter riprendere l'argomento questo venerdì a Roundtable America. Guarderà la trasmissione?» «Non ne perdo una puntata.» Crawley sapeva che il Christian Cable Service trasmetteva il talk show di Spates ogni settimana, ma non lo aveva mai visto. «Ho intenzione di dare spazio alla vicenda finché non avrò suscitato il giusto rancore nei cristiani di questo Paese.» «Le sono molto grato, reverendo.» «Per questo, diecimila dollari non sono che una goccia nel mare.» Maledetto prete, pensò Crawley. Quanto odiava trattare con persone del genere. «Reverendo, mi perdoni, ma credevo avrebbe sposato la causa in
cambio di un'unica donazione.» «Così è: una donazione, un sermone. Ora sto parlando di un rapporto.» Spates portò il bicchiere alle labbra umide, si scolò il drink rimasto prosciugandolo attraverso la colonna di cubetti di ghiaccio, posò il bicchiere sul tavolo e si asciugò la bocca. «Le ho fornito uno spunto eccezionale. A giudicare dalla reazione, sembra il caso di cavalcarlo indipendentemente dagli... aspetti pecuniari.» «Amico mio, là fuori è in corso una guerra contro la fede. Stiamo combattendo i laici su più fronti. Posso modificare gli schieramenti di battaglia in qualsiasi momento. Se vuole che continui a combattere tra le sue fila, dovrà contribuire.» Il cameriere servì loro i filetti di manzo. Spates aveva chiesto il suo al sangue. Il taglio di carne da trentanove dollari aveva dimensioni, forma e colore di un disco da hockey. Spates giunse le mani e chinò la testa sul piatto. Crawley impiegò qualche istante a capire che stava benedicendo il cibo e non annusandolo. «Posso portarvi qualcos'altro?» domandò il cameriere. Il reverendo alzò la testa e sollevò il bicchiere. «Un altro.» Mentre questi si allontanava, ne studiò sospettoso la sagoma. «Credo che quell'uomo sia omosessuale.» Crawley fece un respiro, lungo e uniforme. «Allora che tipo di rapporto ha in mente, reverendo?» «Do ut des. Voi grattate la schiena a me e io la gratto a voi.» Crawley attese. «Diciamo cinquemila dollari la settimana con la garanzia che parlerò del Progetto Isabella in ogni sermone e lo riprenderò in almeno una trasmissione via cavo.» Dunque stavano così le cose. «Diecimila al mese» trattò impassibile Crawley, «con la garanzia che almeno dieci minuti di ogni sermone saranno dedicati all'argomento. Per quanto riguarda lo spettacolo via cavo, mi aspetto che il primo sia dedicato completamente a Isabella e che i successivi lo riprendano sempre. La donazione verrà effettuata a fine mese, dopo la trasmissione. Ogni pagamento verrà debitamente registrato come beneficenza con una lettera d'accompagnamento che lo attesti. Questa è la mia prima, ultima e unica offerta.» Il reverendo Don T. Spates lo guardò pensieroso, poi sul suo volto comparve un gigantesco sorriso. Una mano lentigginosa si allungò sul tavolo mettendo di nuovo in mostra la fitta peluria arancione.
«Il Signore le renderà merito del denaro che spende, amico mio.» Capitolo 13 Martedì mattina, ancor prima di colazione, Wyman Ford era seduto al tavolo di cucina nella sua casita e fissava la pila di dossier. Un QI elevato non proteggeva necessariamente dalle vicissitudini della vita, ma quei membri del Progetto Isabella sembravano avere più della consueta dose di problemi: infanzie difficili, genitori disfunzionali, disturbi dell'identità sessuale, crisi personali, qualcuno aveva alle spalle persino un fallimento finanziario. La Thibodeaux era in terapia dall'età di vent'anni, dopo che le era stato diagnosticato il disturbo borderline della personalità di cui aveva letto in precedenza. Da adolescente Cecchini si era invischiato in una setta religiosa. Edelstein aveva manifestato episodi di depressione, St. Vincent era stato alcolista. Wardlaw aveva sofferto di un disturbo post-traumatico da stress dopo aver visto il capo della sua squadra saltare in aria in una grotta a Tora Bora. A trentaquattro anni la Corcoran si era sposata e aveva divorziato, due volte. Innes era stato richiamato perché dormiva con le sue pazienti. Solo Rae Chen non sembrava nascondere nulla di deplorevole nel suo passato: era una cinese-americana di prima generazione. La sua famiglia possedeva un ristorante. Anche Dolby sembrava relativamente normale, tranne per il fatto che era cresciuto in uno dei peggiori quartieri di Watts e che il fratello era rimasto paralizzato dopo essere stato colpito da un proiettile vagante durante una sparatoria tra bande. Il dossier di Kate era il più indicativo di tutti. Lo lesse mosso da una sorta di attrazione morbosa, sporca. Il padre si era suicidato poco dopo che lei se n'era andata di casa: si era sparato in seguito alla bancarotta. Da quel momento la madre subì un lungo declino fisico e a settant'anni era finita in una casa di cura, ormai incapace di riconoscere la figlia. Alla morte della donna erano seguiti due anni di vuoto: Kate aveva pagato l'affitto del suo appartamento in Texas anche se non vi abitava più, per tornarvi appunto due anni dopo. Ford era rimasto fortemente colpito dal fatto che né l'FBI né la CIA fossero riusciti a scoprire dove fosse andata o che cosa avesse fatto in quel lasso di tempo. Lei si era rifiutata di rispondere alle loro domande, rischiando persino di non ricevere il nullaosta sotto il profilo della security di cui aveva bisogno per diventare vicedirettore del Progetto Isabella. Era tuttavia intervenuto Hazelius e non era difficile capire perché: in
quel periodo avevano una relazione. Sembrava essere stata un'amicizia più che un legame passionale ed era terminata in modo amichevole. Ford mise da parte i file, disgustato dalla violazione della privacy, dalla rozza intrusione del governo nella vita delle persone rappresentata dai dossier che aveva sotto gli occhi. Si chiese come avesse potuto sopportare tutti quegli anni nella CIA. Il monastero lo aveva cambiato più di quanto non se ne fosse reso conto. Prese il dossier di Hazelius e lo aprì. Lo aveva scorso rapidamente e ora si mise a leggerlo con più attenzione. Era in ordine cronologico e Ford lo seguì, figurandosi il percorso esistenziale dell'uomo. Hazelius proveniva da un contesto incredibilmente comune, figlio unico di una solida famiglia del ceto medio di origini scandinave del Minnesota: il padre era magazziniere, la madre casalinga. Erano persone serie, scialbe, cattoliche praticanti. Difficile che da un simile ambiente nascesse un genio straordinario. Eppure, Hazelius si era rivelato un ragazzo prodigio: si era diplomato con lode a diciassette anni, aveva terminato il dottorato alla Caltech a venti, era diventato professore ordinario alla Columbia University a ventisei e vinto il premio Nobel a trenta. Fatta eccezione per la genialità, era tuttavia un uomo difficile da inquadrare. Non rispondeva affatto al tipico accademico dalla mentalità ristretta. Gli studenti alla Columbia lo idolatravano per l'umorismo caustico, il temperamento gioviale e l'incredibile vena mistica. Suonava il boogie-woogie e lo stride piano in un gruppo chiamato Quarksters in un seminterrato sulla 110a che si riempiva di studenti adoranti. Portava gli allievi nei locali di strip-tease. Aveva sviluppato la teoria dello «strano attrattore» riguardante il mercato finanziario e aveva fatto milioni di dollari prima di vendere il sistema a un fondo speculativo. Dopo aver ricevuto il Nobel per le ricerche sulla correlazione quantistica, si era calato senza problemi nel ruolo di erede del re della fisica, Richard Feynman. Aveva pubblicato almeno trenta studi teorici sull'incompletezza della teoria quantistica, scuotendo le basi stesse della disciplina. Aveva vinto la medaglia Fields in matematica per essere riuscito a dimostrare la terza ipotesi di Laplace. Era l'unico uomo ad aver vinto sia un Nobel sia una Fields. All'elenco di premi aveva aggiunto un Pulitzer per una raccolta di poesie di una bellezza insolita, in cui mescolava linguaggio espressivo, equazioni matematiche e teoremi scientifici. Aveva avviato un progetto umanitario in India, per fornire assistenza medica alle ragazze malate nelle regioni in cui era usanza lasciarle morire.
Il progetto comprendeva anche un programma educativo mirato a modificare in modo sottile ma profondo la considerazione sociale delle giovani donne. Aveva donato milioni a una campagna volta a sradicare la mutilazione genitale femminile in Africa. Aveva brevettato - quello, Ford lo trovava esilarante - una trappola per topi migliore della sua antenata: più umana ma comunque davvero molto efficace. Era apparso spesso in sesta pagina nel «Post» in compagnia di ricchi e famosi, con indosso i suoi caratteristici abiti anni Settanta con i risvolti ampi e le cravatte larghe. Si vantava di comprarli all'Esercito della salvezza e di non averli mai pagati più di cinque dollari. Era stato ospite regolare del Letterman Show, dove faceva puntualmente dichiarazioni offensive, politicamente molto scorrette - «verità sgradite» amava definirle - e si profondeva in dettagli sui suoi programmi utopistici. All'età di trentadue anni aveva stupito tutti sposando Astrid Gund, supermodella ed ex coniglietta di «Playboy», di dieci anni più giovane, leggendaria per la sua spensierata frivolezza. Lo seguiva dappertutto, anche nei talk show televisivi, dove lui la guardava adorante mentre esprimeva serena le sue incoerenti eppur appassionate idee politiche. In un dibattito sull'11 settembre aveva notoriamente esclamato: «Diamine, perché mai le persone non possono andare d'accordo?». Il suo matrimonio era stato accolto come uno scandalo. In quel periodo, come se ciò non bastasse, Hazelius aveva detto una cosa tanto scomoda per lo spirito del tempo da passare alla storia, proprio come era accaduto ai Beatles quando avevano sostenuto d'essere più popolari di Gesù. Un reporter gli aveva chiesto perché avesse sposato una donna «intellettualmente così inferiore» e lui si era molto risentito. «Secondo lei chi avrei dovuto sposare?» aveva urlato al giornalista. «Tutti sono intellettualmente inferiori a me! Almeno Astrid sa amare, il che è più di quanto possa dire di voi, esseri imbecilli.» L'uomo più intelligente della Terra aveva dato a tutti degli imbecilli. Lo scompiglio era stato enorme. Com'era nel suo stile, il «Post» aveva titolato: HAZELIUS AL MONDO: SIETE TUTTI IMBECILLI! Gli speaker delle radio e i loro accoliti si erano lasciati prendere da una furia ipocrita. Hazelius era stato condannato da ogni pulpito e palco d'A-
merica, messo alla gogna in quanto antiamericano, antipatriottico, miscredente, misantropo e appartenente alla specie più spregevole: gli snob dell'establishment politico e industriale, sofisticati e chiusi nella loro torre d'avorio. Ford mise da parte i fascicoli e si versò una tazza di caffè. Fino ad allora il dossier non descriveva l'Hazelius che aveva iniziato a conoscere, un uomo attento a soppesare ogni parola e a fare da paciere, il diplomatico e il leader del gruppo. Dalla sua bocca doveva ancora sentire un solo accenno alla situazione politica. In passato aveva subito una grave tragedia: forse era stata quella a cambiarlo. Ford sfogliò il dossier finché non la trovò. Dieci anni prima, quando aveva trentasei anni, Astrid era morta all'improvviso in seguito a un'emorragia cerebrale. La sua scomparsa lo aveva distrutto. Hazelius era scomparso a lungo dalle scene, chiudendosi in un isolamento alla Howard Hughes. Poi, inaspettatamente, si era rifatto vivo con il Progetto Isabella. Era indubbiamente un uomo diverso: niente più talk show, affermazioni offensive, programmi utopistici e cause perse. Si era liberato dei vecchi contatti sociali e aveva buttato via i suoi brutti vestiti. Gregory North Hazelius era cresciuto. Con abilità, pazienza e talento straordinari aveva promosso il Progetto Isabella trovando alleati nella comunità scientifica, cercando l'appoggio delle grandi fondazioni e corteggiando i potenti. Non perdeva occasione di ricordare agli americani che gli Stati Uniti erano rimasti pericolosamente indietro rispetto agli europei nella ricerca sulla fisica nucleare. Sosteneva che Isabella avrebbe potuto trovare soluzioni economiche al fabbisogno energetico del mondo, lasciando tuttavia brevetti e know-how in mano americana. Con quella strategia aveva realizzato l'impossibile: aveva ottenuto quaranta miliardi di dollari dal Congresso in un periodo di deficit di bilancio. Isabella era il frutto del suo ingegno, la sua creatura. Aveva costituito la squadra viaggiando in lungo e in largo nel Paese per scegliere i migliori fisici, ingegneri e programmatori in circolazione. Tutto era andato liscio, sino a quel momento. Ford chiuse il dossier e rifletté. Gli restava ancora la sensazione di non essere arrivato allo strato interno, oltre il quale si trovava il cuore della persona. Genio, uomo di spettacolo, musicista, sognatore utopista, marito devoto, snob arrogante, fisico brillante, lobbista paziente. Qual era il vero Hazelius? O dietro a tutto c'era un essere ambiguo che giocava a indossare
diverse maschere? Per alcuni aspetti la vita di Hazelius non era molto diversa dalla sua. Entrambi avevano perso la donna che amava in circostanze terribili. Quando la moglie di Ford era morta, il mondo gli era crollato addosso e lui si era ritrovato a vagare tra le rovine. Hazelius tuttavia aveva reagito nel modo contrario: la morte della moglie sembrava avergli conferito una certa stabilità. Ford aveva perso il senso della vita, lui lo aveva trovato. Si chiese che impressione facesse il suo dossier. Era certo che esistesse e che Lockwood lo avesse letto, proprio come lui stava passando in rassegna quelli dell'équipe. Che cosa lasciava capire? Ragazzino privilegiato, Croate, Harvard, MIT, CIA, matrimonio. E poi: la bomba. Dopo la bomba, cosa c'era? Il monastero e infine la Advanced Security and Intelligence, Inc., così si chiamava la sua società di investigazioni. D'un tratto quel nome gli sembrò pretenzioso. Chi voleva prendere in giro? Aveva iniziato l'attività quattro mesi prima e ricevuto un solo incarico. Doveva ammetterlo, era un lavoro allettante, ma d'altra parte avevano scelto lui per ragioni particolari; inoltre, non poteva farne menzione nel curriculum. Guardò l'orologio: era in ritardo per la colazione e stava perdendo tempo ad autocommiserarsi. Cacciò i dossier nella valigetta, la chiuse con la combinazione e uscì, diretto al refettorio. Il sole si era appena alzato sopra i promontori rossi e la sua luce filtrava intensa tra le foglie dei pioppi neri, facendole risplendere quasi fossero schegge di vetro giallo e verde. In sala da pranzo aleggiava un profumo di panini alla cannella e pancetta affumicata. Hazelius sedeva al solito posto a capotavola ed era profondamente assorto in una conversazione con Innes. Kate aveva preso posto sul lato opposto, accanto a Wardlaw, e si stava versando una tazza di caffè. Quando la vide, Ford sentì una fitta allo stomaco. Scelse una sedia libera vicino ad Hazelius e si servì, optando per uova strapazzate con bacon. «Buongiorno» esordì Hazelius. «Ha dormito bene?» «Mai dormito meglio» rispose Wyman. Erano tutti presenti tranne Volkonskij. «Dov'è Peter?» azzardò Ford. «Non ho visto la sua macchina nel vialetto.» La conversazione scemò quasi subito cedendo infine il posto al silenzio. «A quanto sembra, il dottor Volkonskij ci ha abbandonato» rispose il re-
sponsabile della sicurezza. «Abbandonato? Perché?» All'inizio nessuno parlò, poi con voce tanto alta da risultare innaturale Innes disse: «In qualità di psicologo della squadra, posso fare un po' di luce sulla questione. Senza violare alcun segreto professionale, credo di poter affermare con il beneplacito di tutti che Peter non sia mai stato sereno qui. È difficile adattarsi all'isolamento e agli orari lavorativi snervanti. Gli mancavano la moglie e il figlio, che abitano a Brookhaven. Non stupisce che abbia deciso di andarsene». «Perché ha detto a quanto sembra?» «La macchina è scomparsa, mancano la sua valigia e gran parte dei vestiti: abbiamo ipotizzato che sia tornato a casa» rispose pacato Hazelius. «Non ha detto niente a nessuno?» «Sembra allarmato, Wyman» osservò Hazelius, scrutandolo in modo piuttosto interessato. Ford si contenne. Stava insistendo troppo e, a un osservatore attento come Hazelius, la cosa non sarebbe certo sfuggita. «Non allarmato» precisò. «Soltanto sorpreso.» «Purtroppo, da un po' di tempo me lo aspettavo» proseguì lui. «Peter non era adatto a questo genere di vita. Sono certo che avremo sue notizie quando arriverà a casa. Ora Wyman, ci dica com'è andato ieri il suo incontro con Begay.» Si girarono tutti verso di lui. «Lo sciamano è infuriato. Ha espresso tutta una serie di rimostranze nei confronti del Progetto Isabella.» «Cioè?» «Diciamo solo che sono state fatte molte promesse che non sono state mantenute.» «Non abbiamo fatto promesse proprio a nessuno» disse Hazelius. «A quanto pare, il Department of Energy ha garantito nuovi posti di lavoro e vantaggi economici.» Hazelius scosse il capo disgustato. «Io non controllo il DOE. È almeno riuscito a dissuaderlo dal condurre la marcia di protesta?» «No.» Lui si accigliò. «Spero comunque riesca a fare qualcosa per bloccarla.» «Forse è meglio non intervenire.» «Wyman, al minimo sentore di guai potrebbe conseguire una risonanza a livello nazionale» obiettò Hazelius. «Non ci possiamo permettere una cat-
tiva pubblicità.» Ford lo fissò. «Vi siete rintanati qui sulla mesa per svolgere un programma governativo segreto e avete evitato qualsiasi contatto con la popolazione indigena: era naturale che questo sarebbe stato il risultato. Che diamine vi aspettavate?» Suonò più brusco di quanto non intendesse. Lo guardarono tutti come se avesse appena imprecato contro un capo religioso, ma si rilassarono quando Hazelius a poco a poco si calmò. «D'accordo, direi che mi merito il rimprovero. È giusto. Forse non abbiamo gestito la relazione con i navajo come avremmo dovuto. Perciò... qual è la prossima mossa?» «Andrò a fare una visita informale al presidente della comunità navajo di Blue Gap e vedrò se riesco a organizzare una sorta di consiglio cittadino con la popolazione, al quale lei parteciperà.» «Se riuscirò a trovare il tempo.» «Temo dovrà trovarlo.» Hazelius gesticolò con disinvoltura. «Ci penseremo quando sarà il momento.» «Anche oggi vorrei portare con me uno scienziato.» «Qualcuno in particolare?» «Kate Mercer.» Hazelius si guardò attorno. «Kate? Oggi non hai niente da fare, giusto?» Lei arrossì. «Sono occupata.» «Se Kate non può, ci andrò io» esclamò Melissa Corcoran gettando indietro i capelli con un sorriso. «Sarei felice di tagliare la corda per qualche ora da questa mesa dimenticata da Dio.» Ford guardò Kate e poi lei. Era restio a dir loro che avrebbe preferito non farsi vedere a Blue Gap insieme a uno schianto di bionda di un metro e ottanta con gli occhi azzurri. Kate, almeno, con i capelli neri e i tratti in parte asiatici, sembrava quasi indiana. «Hai davvero tanto da fare, Kate?» chiese Hazelius. «Hai detto che avevi quasi terminato i nuovi calcoli sul buco nero. Questa cosa è importante... e in fondo sei il vicedirettore del progetto.» Kate guardò la Corcoran con aria imperscrutabile e lei ricambiò fredda l'occhiata. «Finirò più tardi il lavoro sul buco nero» affermò un attimo dopo. «Ottimo!» esclamò Ford. «Passo a prenderti a casa con la jeep tra un'ora.» Si diresse quindi verso la porta sentendosi stranamente euforico. Quando superò la cosmologa, questa gli fece un sorrisetto sghembo.
«Sarà per la prossima volta» disse. Tornato nella casita, Ford chiuse a chiave la porta, portò la valigetta in camera da letto, tirò le tende, prese il satellitare e compose il numero di Lockwood. «Buongiorno, Wyman. Ha novità?» «Conosce lo scienziato Peter Volkonskij, l'ingegnere del software?» «Sì.» «È scomparso ieri sera. La sua macchina è sparita e dicono abbia portato via i vestiti. Può verificare se si sia fatto vedere da qualche parte o abbia contattato qualcuno?» «Ci proverò.» «Devo saperlo il più in fretta possibile.» «La richiamerò immediatamente.» «Altre due cose.» «Dica.» «Michael Cecchini: dal dossier risulta che da adolescente era entrato a far parte di una setta religiosa. Vorrei saperne di più.» «D'accordo. C'è altro?» «Rae Chen. Sembra... come posso spiegarmi? Troppo normale.» «Non è molto su cui lavorare.» «Scavi nel suo passato, veda se c'è qualcosa di strano.» Dieci minuti dopo si accese la spia della chiamata. Ford premette il tasto RICEVI e udì la voce di Lockwood, notevolmente più tesa. «Per quanto riguarda Volkonskij, abbiamo chiamato la moglie e i colleghi a Brookhaven: nessuno ha sue notizie. Ha detto che se n'è andato ieri sera? A che ora?» «Suppongo verso le nove.» «Faremo emettere una segnalazione sulla macchina e la targa. Da lì allo Stato di New York ci vogliono quaranta ore. Se sta viaggiando in quella direzione, lo troveremo. È successo qualcosa?» «Ieri mi sono imbattuto in lui. Aveva passato tutta la notte con Isabella e aveva bevuto. Parlava con un tono forzatamente ilare e mi ha detto: Prima, mi preoccupavo. Adesso sto bene. Ma non aveva affatto l'aria di stare bene.» «Ha idea di cosa intendesse dire?» «No.» «Voglio che perquisisca il suo alloggio.»
Ford esitò. «Lo farò stanotte.» Strinse a sé il ricevitore e guardò i pioppi neri oltre la finestra. Mentire, spiare, ingannare, ora anche scassinare e intrufolarsi in case di sconosciuti. Un bel modo per inaugurare il primo anno fuori dal monastero. Capitolo 14 A Wyman Ford bastò un'occhiata per farsi un'idea generale di Blue Gap, in Arizona. Il villaggio sorgeva in una conca polverosa circondata da pareti rocciose e dagli scheletri grigi di piños morti. Era poco più di un incrocio di due strade sterminate, asfaltate solo per un centinaio di metri dal punto d'intersezione. C'era una stazione di servizio costruita con blocchi di scorie dipinti con i colori dei mattoni adobe e un piccolo emporio con una finestra rotta. Impigliati nel perimetro di filo spinato dietro la stazione di servizio, i sacchetti di plastica sventolavano come striscioni. Accanto all'emporio c'era una piccola scuola media circondata da un recinto metallico. A est e a nord si estendevano due insediamenti di case governative disposte in modo rigorosamente simmetrico sul terreno rosso. A breve distanza, la sagoma purpurea di Red Mesa faceva da sfondo con la sua mole incombente. «Allora» disse Kate quando la jeep raggiunse l'asfalto, «qual è il piano?» «Fare benzina.» «Benzina? Il serbatoio è mezzo pieno e da Isabella abbiamo tutta la benzina che vogliamo gratis.» «Stai al gioco, d'accordo?» Ford entrò nella stazione di servizio, scese e fece il pieno. Poi batté sul finestrino del passeggero. «Hai soldi?» domandò. Lei lo guardò allarmata. «Non ho portato la borsa.» «Bene.» Entrarono. Alla cassa c'era un donnone navajo. Alcuni clienti, tutti navajo, stavano curiosando qua e là nel negozio. Wyman prese una confezione di chewing-gum, una Coca-Cola, un sacchetto di patatine e il «Navajo Times». Si avvicinò flemmatico alla cassa e posò il tutto sul banco. La donna conteggiò la merce insieme alla benzina. Lui si cacciò le mani in tasca e mutò all'istante espressione, facendo gran mostra di frugare dappertutto. «Maledizione! Ho dimenticato il portafoglio.» Si rivolse allora alla Mercer: «Tu hai soldi?».
Lei lo guardò torva. «Sai che non ne ho.» Ford allargò le mani e sorrise imbarazzato alla signora alla cassa. «Ho dimenticato il portafoglio.» Lei ricambiò impassibile lo sguardo. «Deve pagare, almeno la benzina.» «Quant'è?» «Diciotto e cinquanta.» Di nuovo fece gran mostra di frugare nelle tasche. Gli altri clienti si erano messi in ascolto. «Ci crede? Non ho neanche un centesimo. Sono davvero spiacente.» Seguì un silenzio greve. «Sono obbligata a incassare» disse la donna. «Mi spiace, sul serio. Senta, vado a casa a prendere il portafoglio e torno subito qui. Glielo prometto. Dio, mi sento un tale idiota.» «Non posso lasciarla andare se non incasso» replicò la donna. «È il mio lavoro.» Un uomo piccolo e ossuto dallo sguardo inquieto con un cappello sbiadito da cowboy in testa, un paio di stivali da motociclista e i capelli corvini lunghi fino alle spalle avanzò e dalla tasca dei jeans estrasse un portafoglio logoro appeso a una catena. «Doris? Ci penso io.» Parlò con tono solenne e le porse un biglietto da venti. Ford si girò verso di lui. «È così gentile da parte sua. La ricompenserò. Non ne dubiti.» «Certo, non si preoccupi. La prossima volta che passerà di qui, lasci i soldi a Doris. Un giorno mi ricambierà il favore, d'accordo?» Sollevò la mano, ammiccò e puntò un dito verso Ford. «Ci può scommettere.» Lui gli tese la mano. «Wyman Ford.» «Willy Becenti» si presentò, stringendogli la mano. «È un uomo davvero gentile, Willy.» «Su questo ha stramaledettamente ragione! Non è vero, Doris? Sono l'uomo più buono di Blue Gap.» Lei alzò gli occhi al cielo. «Questa è Kate Mercer» disse Ford. «Ehi, Kate, come va?» Becenti le afferrò la mano, si chinò e gliela baciò come un vero galantuomo. «Stiamo cercando la casa della comunità» spiegò Ford. «Vorremmo incontrare il presidente. È qui?» «Vorrà dire "la presidentessa", Maria Atcitty. Diavolo, sì. La comunità è in quella strada laggiù. Prendete l'ultima a destra prima che diventi sterrata. È un vecchio edificio di legno con il tetto di lamiera accanto alla torre
dell'acqua. Portatele i miei saluti.» «Nella riserva il trucco funziona sempre. I navajo sono le persone più generose del mondo» osservò Ford mentre lasciavano la stazione di servizio. «In manipolazione cinica ti meriti dieci e lode.» «È per una buona causa.» «Be', anche lui aveva un po' l'aria del truffatore. Quanto pensi voglia d'interesse?» Entrarono nel parcheggio della comunità e si fermarono accanto a una fila di pick-up impolverati. Sulla porta d'ingresso qualcuno aveva appiccicato un volantino della cavalcata di protesta di Begay. Un altro svolazzava su un palo telefonico lì accanto. Chiesero della presidentessa della comunità e un istante dopo apparve una donna robusta e ben fatta, con una camicetta turchese e un paio di pantaloni marrone. Si strinsero la mano e si presentarono. «Willy Becenti mi ha detto di salutarla.» «Conosce Willy?» Parve sorpresa... e contenta. «In un certo senso.» Ford rise imbarazzato. «Mi ha prestato venti dollari.» La Atcitty scosse la testa. «Il buon vecchio Willy. Darebbe i suoi ultimi venti dollari a un vagabondo e poi rapinerebbe un negozio per rifarsi. Venite, prendete una tazza di caffè.» Da una caffettiera elettrica sistemata su un bancone presero una tazza di caffè navajo acquoso e seguirono la Atcitty in un piccolo ufficio sommerso di carte. «Allora, cosa posso fare per voi?» domandò con un ampio sorriso. «Be', detesto doverlo ammettere ma siamo membri del Progetto Isabella.» Il sorriso le svanì di colpo dal volto. «Capisco.» «Kate è vicedirettore del progetto e io sono appena arrivato con l'incarico di mantenere i contatti con la comunità locale.» La Atcitty non disse nulla. «Signora Atcitty, so che la gente si chiede che diavolo stia succedendo lassù.» «Ha afferrato perfettamente l'idea.» «Mi serve il suo aiuto. Se potesse riunire gli abitanti qui, nella casa della comunità, ipotizziamo una sera di questa settimana, porterò Gregory North
Hazelius in persona di modo che possa rispondere alle vostre domande e spiegare quello che fa.» Seguì un lungo silenzio. «Questa settimana è troppo presto. Facciamo la prossima. Mercoledì» disse dopo un po'. «Ottimo. Le cose cambieranno. Da questo momento in poi faremo i nostri acquisti qui e a Rough Rock. Ci riforniremo della vostra benzina, compreremo da voi prodotti e provviste.» «Wyman, io non credo proprio...» esordì la Mercer, ma lui la bloccò, posandole con gentilezza una mano sulla spalla. «Questo aiuterebbe» affermò la Atcitty. Si alzarono e si diedero la mano. Quando la jeep si lasciò alle spalle Blue Gap in una nube di polvere, la Mercer si girò verso di lui. «Mercoledì della prossima settimana sarà troppo tardi per fermare la cavalcata.» «Non ho intenzione di fermarla.» «Se pensi che andremo a fare rifornimento in quel negozio e mangeremo tacos, montone e fagioli in scatola per cena, sei completamente fuori di testa. E la benzina laggiù costa una fortuna.» «Qui non siamo a New York o a Washington» replicò lui. «Siamo nell'Arizona rurale e queste persone sono i vostri vicini. Dovete uscire e dimostrare loro che non siete un mucchio di scienziati pazzi pronti a distruggere il mondo. E che possono trarre dei vantaggi dal progetto.» Lei scosse la testa. «Kate» osservò lui, «dove sono finite le tue idee progressiste? La tua solidarietà per i poveri e gli oppressi?» «Non farmi prediche.» «Mi spiace» ribatté, «ma ne hai bisogno. Sei diventata parte del bieco establishment e non te ne sei nemmeno accorta.» Terminò con una risatina, cercando tuttavia di mantenere un tono leggero, ma capì troppo tardi di averla punta sul vivo. Lei lo fissò con le labbra bianche di rabbia, poi si girò verso il finestrino. Risalirono la Dugway in silenzio e percorsero la lunga strada asfaltata diretti da Isabella. A metà mesa, Ford rallentò e guardò dal parabrezza socchiudendo gli occhi. «Ora che c'è?» «Un vero e proprio stormo di poiane.» «E allora?»
Ford fermò l'auto e indicò. «Guarda. Tracce recenti di pneumatici che si allontanano dalla strada verso ovest, proprio in direzione degli avvoltoi.» Kate non gli avrebbe mai dato retta. «Vado a controllare.» «Splendido! Già così dovrò rimanere sveglia a far calcoli per metà della notte...» Parcheggiò all'ombra di un ginepro e seguì le tracce mentre il terreno gli scricchiolava sotto i piedi. Faceva ancora spaventosamente caldo e il suolo rilasciava il calore assorbito durante il giorno. In lontananza un coyote sgattaiolò via con qualcosa tra le fauci. Dopo dieci minuti Ford arrivò sul bordo di un ruscello stretto e profondo e guardò giù. Sul fondo giaceva una macchina capovolta. Gli avvoltoi erano appollaiati su un piños morto, in attesa. Un altro coyote si era infilato di testa nel parabrezza rotto: stava tirando e strappando qualcosa. Quando vide Ford, mollò la presa e fuggì con la lingua penzolante tutta insanguinata. Lui si calò lungo i massi di arenaria per avvicinarsi alla vettura, tenendo la camicia sul naso per attenuare il lezzo della morte mescolato a un forte odore di benzina. Le poiane spiccarono il volo compattandosi in una massa sgraziata, svolazzante. Wyman si accovacciò e sbirciò nell'abitacolo devastato. Un corpo era incastrato di lato sul sedile. Occhi e labbra non c'erano più. Un braccio, steso verso il finestrino rotto, era stato privato della carne ed era senza mano. Nonostante le menomazioni, il corpo era riconoscibile. Volkonskij. Ford rimase immobile e registrò ogni particolare. Indietreggiò facendo attenzione a non alterare nulla, si arrampicò sull'altro lato del ruscello. Respirò lentamente e profondamente per inalare aria fresca, poi tornò di corsa alla macchina. In lontananza, ridotti a due figure che si stagliavano contro un rilievo del terreno, vide i due coyote che si contendevano un pezzo di carne. Raggiunse l'auto e si chinò nel finestrino aperto. Dal volto di Kate traspariva risentimento. «È Volkonskij» disse. «Mi spiace, Kate... è morto.» Lei batté le palpebre. Era rimasta senza fiato. «O mio Dio... ne sei sicuro?» Lui annuì. Il labbro prese a tremarle. Poi con voce rauca chiese: «Un incidente?». «No.»
Soffocando un senso di nausea, Ford estrasse il cellulare dalla tasca posteriore e compose il 911. Capitolo 15 Lockwood entrò nello Studio Ovale. I suoi passi erano silenziosi sulla spessa moquette. Come sempre, provò un brivido all'idea di trovarsi così vicino al centro del potere attorno a cui ruotava il mondo intero. Alzatosi dalla scrivania, il presidente degli Stati Uniti gli andò incontro con la mano tesa e gli diede il benvenuto come si addice a un vero politico. «Stanton! Che piacere rivederla. Come stanno Betsy e i bambini?» «Benissimo, grazie, signor presidente.» Continuando a stringergli la mano, il presidente lo condusse alla sedia più vicina al tavolo. Lockwood si accomodò e posò il file sulle ginocchia. Dalle finestre rivolte a est vedeva il Giardino delle rose ammantarsi delle calde tonalità di un crepuscolo di tarda estate. Il capo di gabinetto, Roger Morton, entrò e si sistemò su un'altra sedia mentre Jean, la segretaria, era seduta comoda su una terza, pronta a prendere appunti all'antica, con un blocco per stenografia. Un uomo pesante con un vestito blu scuro fece il suo ingresso e si piazzò sulla sedia più vicina, senza essere invitato. Era Gordon Galdone, responsabile della campagna di rielezione del presidente. Lockwood non lo poteva sopportare. In quel periodo lo si trovava dappertutto, a ogni riunione: era onnipresente, nel vero senso della parola. Niente veniva deciso e niente succedeva senza il suo beneplacito. Il presidente tornò alla scrivania. «Bene, Stan, cominci pure il suo rapporto.» «Sì, signor presidente.» Lockwood prese una cartellina. «Conosce un tele-evangelista chiamato Don T. Spates? È a capo di una congregazione di Virginia Beach, la Missione della prima serata di Dio.» «Intende quello che hanno sorpreso a metterlo nel culo alle due prostitute?» Nella stanza serpeggiò una risatina signorile. Il presidente, un ex principe del foro del Sud, era famoso per il vocabolario colorito. «Sì, signore, proprio lui. Nel sermone della domenica sul Christian Cable Service ha portato il discorso sul Progetto Isabella e ha sollevato un vero polverone. Sostiene che il governo abbia speso quaranta miliardi dei contribuenti per cercare di smentire la Genesi.»
«Il Progetto Isabella non ha niente a che fare con la Genesi.» «Certo. Il problema è che sembra aver toccato un punto sensibile dell'opinione pubblica. A quanto mi risulta, numerosi senatori e membri del Congresso stanno ricevendo valanghe di e-mail e telefonate. Adesso arrivano anche nel nostro ufficio. È una faccenda piuttosto scottante e potrebbe richiedere una reazione di qualche tipo.» Il presidente si voltò verso il capo di gabinetto. «Lei ha captato qualcosa, Roger?» «Finora sono arrivate ventimila e-mail, il novantasei per cento contrarie.» «Ventimila?!?» «Sì, signore.» Lockwood guardò Galdone. Dalla faccia larga dell'uomo non trapelò la minima espressione. Il suo gioco era aspettare e parlare per ultimo. Lockwood detestava quel genere di persone. «È il caso di ricordare» precisò Lockwood, «che il cinquantadue per cento degli americani non crede nell'evoluzione; tra quelli che si qualificano come repubblicani arriviamo al sessantotto per cento. L'attacco a Isabella ne è una diretta conseguenza. Potrebbe generare faziosità e diventare molto spiacevole.» «Dove ha preso queste cifre?» «Da un sondaggio a Gallup.» Il presidente scosse la testa. «Continueremo sulla nostra linea. Il Progetto Isabella è determinante se vogliamo che la scienza e la tecnologia americane restino competitive a livello mondiale. Dopo anni di ritardo, abbiamo superato europei e giapponesi. Isabella è utile per l'economia, per la ricerca e lo sviluppo, e per gli affari. Potrebbe risolvere il problema del fabbisogno energetico, liberarci dalla dipendenza del petrolio mediorientale. Stan, prepari un comunicato stampa in tal senso, organizzi una conferenza, faccia un po' di clamore. Continui sulla stessa linea.» «Sì, signor presidente.» Era arrivato il turno di Galdone. L'uomo spostò la sua mole sulla sedia e disse: «Se dal Progetto Isabella arrivassero buone notizie, non saremmo tanto vulnerabili». Girandosi verso Lockwood, aggiunse: «Ci sa dire, dottor Lockwood, quando verranno risolti i problemi laggiù?». «In una settimana o anche meno» rispose lui. «Ne abbiamo individuato con certezza la natura.» «Una settimana è molto» osservò Galdone, «quando c'è un personaggio
come Spates che suona i tamburi di guerra e olia i fucili.» Lockwood trasalì di fronte alla strana commistione di metafore. «Signor Galdone, le garantisco che stiamo facendo tutto il possibile.» Il suo grasso volto si mosse quando parlò. «Una settimana» ripeté con tono pregno di disapprovazione. Lockwood udì una voce sulla porta dello Studio Ovale e per poco il cuore non smise di battergli quando vide entrare la sua assistente. Per interrompere una riunione con il presidente, doveva trattarsi di qualcosa di urgente. La donna avanzò china dimostrando un'ossequiosità quasi farsesca, consegnò un biglietto a Lockwood e uscì in fretta. Allarmato, il consigliere scientifico del presidente lo aprì. Cercò di deglutire, ma non ci riuscì. Per un istante pensò di non dire nulla, poi cambiò idea. Meglio prima che poi. «Signor presidente, mi hanno informato proprio ora che uno dei membri del Progetto Isabella è appena stato trovato morto in una gola a Red Mesa. Hanno contattato l'FBI una trentina di minuti fa. Gli agenti stanno andando sulla scena del crimine.» «Morto? Come?» «Gli hanno sparato, alla testa.» Il presidente lo fissò senza aprir bocca. Lockwood non lo aveva mai visto assumere un colorito tanto paonazzo e si spaventò. Capitolo 16 Quando la polizia navajo arrivò, Ford aveva ormai visto il sole scomparire in un turbine di nubi color bourbon. Quattro autopattuglie e un furgone si avvicinarono, rombando sull'asfalto luccicante con le sirene lampeggianti e si fermarono, ognuna con uno stridio di gomme. Un detective navajo con il torace a botte scese dall'auto in testa. Era magro, sulla sessantina, i capelli brizzolati molto corti, accompagnato da una squadra di poliziotti della nazione Navajo. L'uomo, con il suo paio di stivali da cowboy impolverati e le gambe storte, seguì le tracce di pneumatici fino al bordo del ruscello, tallonato dagli altri agenti. Lì cominciarono a delimitare il perimetro della scena del crimine e a tendere il nastro. Hazelius e Wardlaw arrivarono a bordo di una jeep, si fermarono sul ciglio della strada e scesero. Rimasero a osservare la polizia che lavorava in silenzio, poi Wardlaw si girò verso Ford. «Ha detto che gli hanno sparato?» «A bruciapelo alla tempia sinistra.»
«Come fa a saperlo?» «Presenta un alone scuro di polvere da sparo.» Wardlaw lo fissò con sguardo duro e sospettoso. «Non si perde neanche un episodio di C.S.I. in televisione, signor Ford, o le indagini medicolegali sono il suo hobby?» Dopo aver delimitato la zona, il detective navajo si avviò verso di loro tra gli scricchiolii del terreno con un registratore in mano. Camminava con molta lentezza, come se ogni movimento gli procurasse dolore. Sulla targhetta si leggeva il nome BIA, e aveva il grado di tenente. Portava un paio di occhiali fascianti a specchio che gli conferivano un'aria idiota. Ford tuttavia intuì che fosse tutt'altro che uno stupido. «Chi ha trovato la vittima?» chiese Bia. «Io.» Gli occhiali si mossero nella sua direzione. «Come si chiama?» «Wyman Ford.» Percepì circospezione nel suo tono di voce, come se la sfilza di bugie fosse già iniziata. «Come ha fatto a trovarlo?» Ford spiegò le circostanze. «Quindi ha visto le poiane, notato le tracce, deciso di scendere dall'auto e percorrere quattrocento metri nel deserto a una temperatura di quasi quaranta gradi per andare a controllare... È così?» Ford annuì. «Mmm.» Bia annotò qualche parola, increspando le labbra. Poi gli occhiali si girarono verso Hazelius. «E lei è...?» «Gregory North Hazelius, direttore del Progetto Isabella, e questo è Wardlaw, il responsabile della sicurezza. Sarà lei a capo delle indagini?» «Solo in rappresentanza della nazione Navajo. Se ne occuperà direttamente l'FBI.» «L'FBI? Quando arriveranno?» Bia indicò il cielo con un cenno. «Sono già qui.» Un elicottero si materializzò a sud-ovest e il frastuono dei rotori si fece via via più intenso. Si fermò ad alcune centinaia di metri di altitudine, sollevando una tempesta di sabbia, poi atterrò. Due uomini discesero, entrambi con occhiali da sole, una camicia a maniche corte e il colletto aperto, e un berrettino da baseball con la scritta FBI ricamata sulla parte anteriore. Nonostante la differenza di altezza e colore di pelle, sarebbero potuti essere gemelli.
Si avvicinarono a passo di marcia e quello più alto estrasse il distintivo. «Agente speciale in comando Dan Greer» disse. «Ufficio di Flagstaff. Agente speciale Franklin Alvarez.» Infilò di nuovo il distintivo in tasca e salutò Bia con un cenno, il quale contraccambiò. Hazelius si fece avanti. «E io sono Gregory North Hazelius, direttore del Progetto Isabella» affermò stringendo la mano di Green «La vittima è uno scienziato della mia squadra. Voglio sapere che cosa è successo e subito.» «Lo saprà, non appena l'indagine sarà terminata.» Voltandosi verso Bia, chiese: «La scena è stata delimitata?». «Sì.» «Bene. Adesso ascoltatemi: chiedo cortesemente a tutti i membri del Progetto Isabella di rientrare alla base. Dottor Hazelius, vorrei radunasse tutti in un luogo alle...» Guardò il cielo, poi l'orologio. «Sette. Vi raggiungerò per raccogliere le vostre deposizioni.» «Mi spiace doverle rispondere che non è proprio possibile» disse Hazelius. «Non possiamo fare a meno di tutti nello stesso momento. Dovrà raccogliere le deposizioni in due turni.» Greer si tolse gli occhiali e lo fissò con durezza. «Mi aspetto di trovare tutti nello stesso luogo alle sette, intesi?» Parlò scandendo ogni singola parola. Hazelius ricambiò lo sguardo con aria mite, per nulla intimidatoria. «Signor Greer. Sono responsabile di una macchina da quaranta miliardi di dollari che sta all'interno della montagna e ci troviamo nel bel mezzo di un esperimento scientifico cruciale. Sono certo che non vorrà che qualcosa vada storto, soprattutto se dovessi informare gli investigatori del DOE che Isabella è rimasta incustodita dietro sua insistenza. Tre membri della squadra devono restare nel Bunker stanotte. Saranno disponibili per l'interrogatorio domani mattina.» Seguì un lungo silenzio, poi Greer annuì bruscamente. «D'accordo.» «Alle sette saremo all'emporio» aggiunse Hazelius. «È il vecchio edificio di tronchi, non può sbagliare.» Ford tornò alla jeep e salì a bordo, seguito da Kate. Girò la chiave e riguadagnarono la strada. «Non ci posso credere» disse lei con voce tremante, pallida in volto. Frugò nella borsa, prese un fazzoletto e si asciugò le lacrime. «È terribile» disse. «Io... non ci posso credere.» Mentre la jeep avanzava rombando lungo la strada, Ford scorse per l'ultima volta i due coyote che, terminato il pasto, si tenevano in disparte, fuo-
ri portata, sperando di poterne ricavare ancora qualcosa. Malgrado la sua bellezza, pensò Wyman, Red Mesa era un luogo crudele. Alle sette precise il tenente Joseph Bia seguì Greer e Alvarez nell'ex emporio di Nakai Rock. Se lo ricordava dall'infanzia, quand'era gestito dal vecchio Weindorfer, e provò una fitta di nostalgia. Vedeva ancora l'antico negozio: il bidone di farina, i mucchi di tubi da stufa, le cavezze e i lazo, i barattoli con i dolciumi. Nel retro c'erano le pile di tappeti che Weindorfer accettava come merce di scambio. La siccità del 1954-'55 aveva ucciso metà delle pecore sulla mesa, non prima tuttavia che avessero brucato tutta l'erba. Questo accadeva quando la Peabody Coal estraeva ventimila tonnellate di carbone al giorno. Con i soldi della società carbonifera, il Consiglio dei Navajo aveva pagato quanti vivevano sulla mesa e li aveva trasferiti negli alloggi governativi di Blue Gap, Piñon e Rough Rock. I suoi genitori erano stati tra quelli che avevano abbandonato l'altopiano. Era la prima volta che Bia ci tornava dopo cinquant'anni. Quel luogo aveva un aspetto completamente diverso, ma sentiva ancora l'odore di fumo di legna, polvere e lana di pecora. Gli scienziati si erano radunati: erano in nove, tutti nervosi e in attesa. Avevano un'aria stravolta e Bia ebbe la sensazione che, oltre alla morte di Volkonskij, ci fosse qualcos'altro che non andasse. Da parecchio tempo. In quel momento avrebbe voluto che Greer non avesse assunto il caso. Greer era stato in gamba finché non gli era successo ciò che succede a tutti i bravi agenti: lo avevano promosso agente speciale in comando e si era rovinato, costretto a fare perlopiù da passacarte. «Buonasera, signori» esordì Greer, togliendosi gli occhiali scuri e lanciando un'occhiata di monito a Bia per invitarlo a fare lo stesso. Lui non se li tolse. Non gli piacevano le persone che gli dicevano quello che doveva fare. Era sempre stato così: era una caratteristica di famiglia. Persino il suo nome, Bia, era nato in quel modo: il nonno si era rifiutato di dire il cognome quando lo avevano portato a forza in collegio. Perciò al suo posto avevano scritto BIA, cioè Bureau of Indian Affairs. Molti altri navajo avevano fatto lo stesso, tanto che Bia era un cognome molto diffuso nella riserva. Lui era fiero di quel nome. Pur non essendo imparentati, i Bia avevano tutti qualcosa in comune: non volevano essere spadroneggiati. «Procederemo il più rapidamente possibile» continuò Greer. «Uno alla volta in ordine alfabetico.»
«Progressi?» domandò Hazelius. «Qualcuno» rispose lui. «Il dottor Volkonskij è stato assassinato?» Bia attese la risposta, che tuttavia non arrivò. Avevano considerato il problema fin dall'inizio, ma era necessario attendere i risultati dei reperti medico-legali. Avrebbero dovuto aspettare il verbale del coroner e tutto veniva gestito a Flagstaff. Bia non pensava avrebbe ricevuto più di un riassunto: era stato coinvolto solo perché un burocrate dell'FBI aveva bisogno di un nome per riempire uno spazio vuoto sul modulo, a riprova che era stato «mantenuto il collegamento» con la polizia navajo. Bia si disse che, a ogni modo, non era interessato al caso. Non era la sua gente. «Melissa Corcoran?» Una bionda dal fisico atletico si alzò, più simile a una tennista professionista che a una scienziata. Bia li seguì in biblioteca, dove Alvarez sistemò alcune sedie intorno a un tavolo e predispose un registratore digitale. I due agenti dell'FBI conducevano l'interrogatorio, Bia ascoltava e prendeva appunti. La procedura fu spedita: li sentirono tutti uno dopo l'altro. Non impiegarono molto a cogliere il tema di fondo: erano tutti sotto pressione, le cose non andavano bene, Volkonskij era un tipo eccitabile e l'aveva presa particolarmente male, aveva cominciato a bere e sospettavano assumesse anche droghe pesanti. La Corcoran dichiarò che una notte, ubriaco, si era messo a battere alla sua porta perché voleva dormire con lei. Innes, lo psicologo della squadra, accennò al problema dell'isolamento e spiegò che Volkonskij era depresso, in una fase di negazione. Wardlaw, il responsabile della sicurezza, disse che il programmatore russo si comportava in modo strano e trascurava di attenersi alle regole. Tutte queste dichiarazioni trovavano conferma nella perquisizione del suo alloggio: bottiglie vuote di vodka, tracce di metilanfetamine in polvere in un mortaio, posaceneri debordanti di mozziconi, pile di DVD porno, tutto in una casetta ridotta a un tugurio. Le testimonianze erano coerenti e credibili, con qualche piccola contraddizione soltanto che ne dimostrava l'autenticità. Nel suo lavoro all'interno della riserva Bia aveva visto molti suicidi e quel caso sembrava piuttosto chiaro, fatta eccezione per alcuni elementi. Non era facile spararsi e nello stesso tempo gettare la propria auto in una gola. D'altronde, se fosse stato un omicidio, l'assassino avrebbe dato alle fiamme la macchina. Que-
sto, a meno che non fosse un tipo in gamba e gran parte degli assassini non lo era. Bia scosse la testa. Stava pensando, invece di ascoltare. Era il suo peggior difetto. Alle otto e trenta Greer aveva finito. Hazelius lo accompagnò alla porta dove Bia, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, si fermò. Si tolse gli occhiali e vi tamburellò sopra con l'unghia del pollice. «Una domanda, dottor Hazelius.» «Sì?» «Ha detto che Volkonskij e tutti voi siete sottoposti a un forte stress. Per quale motivo esattamente?» Hazelius rispose con tono pacato. «Perché abbiamo costruito una macchina che costa quaranta miliardi di dollari e non riusciamo a farla funzionare, la maledetta!» Con un sorriso aggiunse: «Questo risponde alla sua domanda, tenente?». «Grazie. Oh... e un'altra cosa, se non le spiace.» «Tenente» osservò Greer, «non crede che abbiamo analizzato a sufficienza la situazione?» Bia proseguì come se non lo avesse sentito. «Impiegherà una nuova persona per coprire la mansione svolta dal signor Volkonskij?» Ci fu un attimo di silenzio, poi arrivò la risposta. «No, ce ne occuperemo Rae Chen e io». Bia inforcò di nuovo gli occhiali e si voltò per andarsene. C'era qualcosa di quel caso che non gli piaceva, ma accidenti a lui, non riusciva a capire cosa. Capitolo 17 Le tre del mattino. Ford aprì piano la porta sul retro della casita e sgusciò fuori nell'ombra con uno zaino in spalla. Il cielo era tempestato di stelle. Un coro di guaiti di coyote si levò in lontananza per poi quietarsi. La luna era quasi piena e l'aria del deserto ad alta quota era tanto pura che la luce colorava d'argento ogni dettaglio del paesaggio. Era una serata meravigliosa, pensò Ford. Peccato che non aveva il tempo di apprezzarla. Scrutò l'intero insediamento. Le altre casita erano buie, tranne l'ultima in fondo alla curva: quella di Hazelius, dove un bagliore giallo filtrava dalle tende della finestra della camera da letto. L'abitazione di Volkonskij si trovava a quattrocento metri di distanza,
sul lato opposto. Wyman schizzò attraverso il cortile illuminato dalla luna e guadagnò l'ombra gettata dai pioppi neri. Avanzò lento evitando le chiazze di luce fino a raggiungere la casa del russo. Ispezionò la zona, ma non vide né udì nulla. Si portò dietro la costruzione e si appiattì nell'oscurità accanto all'ingresso posteriore. Era sigillato con il nastro della scena del crimine. Pescò nello zaino da cui estrasse un paio di guanti di capretto e un coltello. Provò la maniglia: era chiusa, ovviamente. Valutò alla svelta la possibilità di rompere il sigillo e le dirette conseguenze, quindi decise che valeva la pena correre il rischio. Tagliò il nastro, prese un asciugamano dallo zaino, lo avvolse attorno a un sasso e premette con forza la finestra finché il vetro vibrò e cedette. Dopo aver rimosso le varie schegge, allungò la mano all'interno, aprì la porta e sgattaiolò dentro. Fu subito investito dall'odore della disperazione di Volkonskij: fumo stantio di sigaretta e marijuana, liquori scadenti, cipolle bollite e olio rancido da cucina. Estrasse una torcia LED dallo zaino e l'accese tenendo basso il fascio di luce. La cucina era un disastro. Muffe grigie e verdi avevano ricoperto un piatto di carta contenente cavolo cotto e minuscoli peperoni, probabilmente lì da giorni. Bottiglie di birra e mignon di vodka erano cadute per terra dal bidone del riciclaggio del vetro, ormai strapieno. Alcune si erano rotte sul pavimento e i cocci erano stati raccolti in un angolo. Passò al soggiorno, dove il tappeto era sporco di terriccio e il divano ricoperto di macchie. Le pareti erano completamente spoglie, tranne per un paio di disegni di bambino appiccicati a una porta: uno raffigurava una nave spaziale, l'altro il fungo di una bomba atomica. Non c'erano fotografie della moglie o dei figli. Nessun'altra traccia affettiva. Perché Volkonskij non aveva preso i disegni? Probabilmente non era granché come padre. Ford stentava già a immaginarlo in quella veste. La porta della camera da letto era aperta, ma nella stanza aleggiava ugualmente un odore di chiuso. Il letto aveva l'aria di non essere mai stato rifatto. La biancheria sporca penzolava dal cesto. Nell'armadio, pieno a metà di abiti, Ford trovò un completo. Tastò la stoffa, lana fine, e passò in rassegna tutta la fila. Volkonskij aveva portato con sé molti abiti in quella terra selvaggia, alcuni eleganti nella misura in cui poteva esserlo un rifiuto umano di stampo europeo. Non aveva probabilmente capito che cosa lo aspettasse, almeno sul piano sociale. Ma perché non li aveva presi quando
se n'era andato? Ford avanzò nel corridoio verso la seconda stanza da letto, che era stata trasformata in ufficio. Il computer era sparito ma erano rimasti i cavi scollegati USB e FireWire, una stampante, un modem ad alta velocità e una stazione wi-fi. Sparpagliati tutt'intorno c'erano vari CD informatici. Sembrava che qualcuno li avesse esaminati in fretta, gettando via quelli indesiderati, Ford aprì il cassetto del tavolo e anche lì regnava il caos: penne che perdevano l'inchiostro, matite masticate, pacchi di fogli stampati con codici di linguaggio assembly, proprio il genere di cose che avrebbero richiesto anni per poter essere analizzate. Nel secondo cassetto c'era una pila disordinata di cartelline. Frugò all'interno: altri frammenti di codici stampati, appunti in russo, diagrammi di flusso del software. Sollevò la pila e scorse una busta, chiusa e affrancata, priva di indirizzo, strappata a metà. Prese i due pezzi, li aprì e trovò non una lettera ma una pagina di un codice informatico esadecimale scritto a mano. La data corrispondeva a lunedì, il giorno in cui Volkonskij se n'era andato. Non c'era altro. Si sentì allora travolgere da una valanga di domande. Perché Volkonskij lo aveva scritto e poi strappato a metà? Perché aveva affrancato la busta ma non aveva scritto l'indirizzo? Perché l'aveva lasciata lì? Che cosa significava quel codice? E, soprattutto, perché lo aveva scritto a mano? Nessuno scriveva i codici informatici a mano: era una procedura lunga e assurdamente soggetta a errori. Gli venne un lampo: in un ambiente informatizzato ad alta sicurezza come il Progetto Isabella non potevi copiare, stampare, trasmettere o spedire dati via e-mail senza che l'operazione venisse registrata. Il computer tuttavia non si sarebbe accorto se qualcuno avesse copiato qualcosa a mano. Si cacciò i pezzi di carta in tasca. Qualsiasi cosa fossero, erano importanti. Dal portico posteriore provenne uno scricchiolio di terriccio calpestato. Wyman spense la torcia e rimase immobile. Silenzio. Poi si udì un flebile cric di qualcosa che veniva schiacciato tra una suola di scarpa e il pavimento della cucina. Non poteva uscire da nessuna delle due porte, senza essere visto. Un altro scricchiolio di passi, più vicino. L'intruso sapeva che era lì e stava venendo da lui; si muoveva con estrema lentezza, sicuramente per tendergli un'imboscata.
Senza far rumore, Ford si spostò sulla moquette verso la finestra sul fondo e allungò la mano. Girò il chiavistello e afferrò la parte superiore spingendola lievemente verso l'alto, ma questa si bloccò. Non aveva quasi più tempo. Spinse con violenza e la parte mobile cedette. Una frazione di secondo dopo l'intruso sferrò l'attacco. Ford si buttò di testa, lacerando la zanzariera di plastica proprio mentre due proiettili sparati in rapida sequenza da una pistola di piccolo calibro dotata di silenziatore mandarono in frantumi la finestra sopra di lui. Cadde rotolando sul terreno mentre gli arrivava addosso una pioggia fitta di schegge. In un batter d'occhio fu in piedi e prese a correre zigzagando nell'ombra dei pioppi. Giunto in fondo al boschetto, attraversò fulmineo il tratto allo scoperto e risalì la valle. La luce della luna era tanto intensa che vedeva la sua ombra corrergli a fianco. Gli giunse alle orecchie il fischio attutito di alcuni colpi a bassa velocità iniziale. Doveva trattarsi di Wardlaw: nessun altro aveva un silenziatore e sparava in quel modo. Ford si precipitò verso la sagoma scura di Nakai Rock, piegò a sinistra e risalì di corsa il sentiero che conduceva alla sommità dei bassi promontori. Alla sua sinistra udì il ronzare sordo, da insetto, di un altro proiettile che sfrecciava. Si allontanò rapido dal sentiero e si arrampicò in mezzo ai massi caduti verso il bordo, tenendosi al riparo. Pochi attimi dopo giunse in cima con le gambe che gli bruciavano per lo sforzo e si fermò a guardare alle sue spalle. Duecento metri più sotto scorse una sagoma scura che saliva veloce tra le rocce. Ford si buttò verso una cresta di pietre lisce: era priva di vegetazione e non offriva protezione, ma almeno non avrebbe lasciato impronte. Davanti a sé scorse varie piccole gole che correvano verso il precipizio lontano della mesa. In un lampo raggiunse la prima. Saltò e corse sul fondo secco del torrente fin dove piegava quasi ad angolo retto e si avvicinava al limite del tavolato. Si appiattì contro una roccia e guardò dietro di sé. L'inseguitore si era fermato e stava esaminando il terreno sabbioso con la torcia. Era sicuramente Wardlaw. Il responsabile della sicurezza si alzò e diresse il fascio di luce verso il ruscello, lo fece scorrere in basso e si mosse nella sua direzione con la pistola in pugno. Ford si arrampicò sul lato nascosto, tenendosi lontano dalla sua visuale. Quando giunse in cima alla gola e per un istante fu allo scoperto, partirono
altri due colpi in rapida successione. Uno sollevò una piccola nube di schegge da un sasso vicino. Ford attraversò di corsa un tratto sabbioso, sperando di giungere in fondo prima che Wardlaw arrivasse sulla sommità del canyon. Corse sulla distesa sabbiosa con tanta foga che ebbe la sensazione d'avere un coltello conficcato nei polmoni. Arrivato quasi al termine, curvò verso un'area spoglia, formata da roccia madre nuda, scavata dalle intemperie. Si trovava assurdamente allo scoperto ma oltre a essa sorgeva un folle groviglio di pinnacoli che gli avrebbero fornito riparo e una possibile via di fuga. Superò l'ultima duna e si precipitò sul terreno brullo. All'improvviso intravide un'occasione e cambiò idea. A metà del tratto spoglio la roccia formava una cavità con una chiazza d'ombra sufficientemente ampia da nasconderlo. Si voltò, si calò al suo interno e si rannicchiò. Non era un gran nascondiglio: tutto quello che Wardlaw doveva fare era puntare la torcia nella giusta direzione. Però non lo avrebbe fatto, perché avrebbe immaginato che Ford avesse preferito rifugiarsi tra i pinnacoli. Passarono alcuni minuti, poi udì un tonfo di passi sordi che correvano e il suono aspro del suo respiro passargli accanto. Contò fino a sessanta e sbirciò cauto oltre la chiazza d'ombra. Più in là, in mezzo ai pinnacoli, vedeva danzare di qua e di là la luce della torcia di Wardlaw che si addentrava sempre più nel labirinto di rocce. Allora balzò su e corse verso Nakai Valley. Tornò indietro seguendo un itinerario tortuoso e si avvicinò circospetto alla sua casita. Vi girò attorno per accertarsi che Wardlaw non fosse appostato da qualche parte, poi scivolò all'interno dalla porta sul retro. La luna era tramontata e l'alba stava da poco rischiarando il cielo a oriente. Il grido lontano di un puma riecheggiò sulla mesa. Entrò in camera sperando di godersi almeno pochi istanti di sonno prima della colazione, ma si bloccò quando vide il letto. Sul cuscino c'era una busta. La prese ed estrasse il biglietto. MI SPIACE, NON TI HO TROVATO, c'era scritto con una grafia ampia, sinuosa. Era firmato MELISSA. Ford lo gettò di nuovo sul cuscino e pensò amaramente che tutti i rischi di quell'incarico stavano apparendo solo ora nella loro vera luce. Capitolo 18
Un'ora dopo Wyman Ford arrivò in refettorio, accolto dal profumo rivitalizzante di caffè, pancetta affumicata e frittelle. Si fermò sulla soglia. Il gruppo era ridotto: alcuni membri dell'équipe si trovavano nel Bunker, altri stavano rilasciando le loro deposizioni all'FBI nella sala ricreativa. Hazelius sedeva al solito posto, a capotavola. Fece un profondo respiro ed entrò. Se prima gli scienziati avevano un'aria stravolta, ora sembravano zombie: mangiavano in silenzio e fissavano il vuoto con gli occhi iniettati di sangue. Hazelius in particolare sembrava particolarmente stravolto. Ford si versò una tazza di caffè. Quando, pochi minuti dopo, arrivò Wardlaw, lo studiò con la coda dell'occhio. Diversamente dagli altri, sembrava riposato, calmo e insolitamente cordiale. Salutò tutti con un cenno del capo mentre si dirigeva al suo posto. Kate andava e veniva dalla cucina portando piatti pieni di cibo. Ford cercò di guardare da tutt'altra parte. Attorno a lui la conversazione era discontinua, incentrata su banalità. Nessuno voleva parlare di Volkonskij. Di tutto, ma non di lui. La Corcoran gli si sedette accanto. Ford si sentiva i suoi occhi addosso e si voltò, notando il sorriso d'intesa sulle labbra di lei. Melissa si protese e parlò sottovoce: «Dov'eri la notte scorsa?». «A fare due passi.» «Sì, come no.» Dopodiché sorrise in modo furbo e spostò lo sguardo direttamente su Kate. Crede che divida il letto con Kate, dedusse Wyman. La Corcoran si girò verso il gruppo e disse: «Stamattina siamo su tutti i giornali. Avete letto?». Smisero tutti all'istante di mangiare. «Nessuno sa niente?» La cosmologa si guardò attorno trionfante. «Non è come pensate. La stampa non si è occupata del caso di Peter Volkonskij, almeno non ancora.» Scrutò di nuovo il gruppo assaporando l'attenzione di cui godeva. «Si tratta di altro, di qualcosa di strano. Conoscete quel tele-evangelista, Spates, che gestisce una megachiesa giù in Virginia? Stamattina sul "Times" online c'era una notizia che riguardava lui e noi.» «Spates?» Innes si protese dall'altra parte del tavolo. «Il predicatore che è stato beccato con le prostitute? Cosa potrà mai avere a che fare con noi?» Il sorriso di lei si allargò. «Tutto il suo sermone di domenica scorsa riguardava noi.»
«Non riesco a immaginare come» osservò Innes. «Ha detto che siamo un branco di scienziati miscredenti e che vogliamo smentire il libro della Genesi. L'intero sermone è disponibile in podcast sul suo sito web. "Ah vi saluto in nome del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo"» intonò imitando quasi alla perfezione la parlata del Sud del reverendo e dimostrandosi ancora una volta molto abile in tale arte. «Stai scherzando!» esclamò Innes. La Corcoran diede un colpetto a Ford con il piede sotto il tavolo. «Tu non lo sapevi?» «No.» «Chi ha tempo di leggere le notizie?» commentò la Thibodeaux con voce acuta e irritata. «Da come stanno le cose, non riesco nemmeno a fare il mio lavoro.» «Non capisco» intervenne Dolby. «In che modo smentiremmo il libro della Genesi?» «Studiamo il Big Bang: la teoria dei laici secondo cui l'universo sarebbe stato creato senza l'intervento divino. Apparteniamo a quanti fanno guerra alla fede. Odiamo Cristo.» Dolby scosse la testa disgustato. «Secondo il "Times", il sermone ha causato un gran clamore. Numerosi membri del Congresso del Sud chiedono un'indagine e minacciano di tagliarci i fondi.» Innes si voltò verso Hazelius. «Tu lo sapevi, Gregory?» Lui annuì stancamente. «Cosa si fa?» Hazelius posò la tazza di caffè e si strofinò gli occhi. «La scala d'intelligenza Stanford-Binet indica che il settanta per cento degli esseri umani rientra nella media oppure ne è al di sotto. In altre parole, più di due terzi degli esseri umani rientrano nella media, ossia sono piuttosto stupidi, oppure sono patologicamente stupidi.» «Non riesco a seguirti» osservò Innes. «Quello che intendo è che così va il mondo, George. Rassegnati.» «Ma dovremmo fare una dichiarazione pubblica per respingere l'accusa» osservò lui. «A mio parere, la teoria del Big Bang è del tutto compatibile con la credenza in Dio. L'una non esclude l'altra.» Edelstein alzò lo sguardo dal libro con un lampo di divertimento negli occhi. «Se è quello che pensi veramente, George, allora non hai capito né Dio né il Big Bang.»
«Aspetta un attimo, Alan» lo interruppe Ken Dolby. «Puoi avere una teoria di natura fisica, come quella del Big Bang, e credere nello stesso tempo che dietro a essa ci sia Dio.» Gli occhi scuri di Edelstein lo fissarono. «Se la teoria è esplicativa in tutti i suoi aspetti, come qualsiasi valida teoria dev'essere, Dio è superfluo, un semplice spettatore. Altrimenti, che razza di Dio sarebbe?» «Alan, perché non ci dici quello che pensi veramente?» domandò sarcastico Dolby. Innes parlò a voce alta, con tono professionale. «Il mondo è abbastanza grande perché Dio e la scienza possano coesistere.» La Corcoran alzò gli occhi al cielo. «Sono contrario a fare qualsiasi dichiarazione riguardante Dio in nome del Progetto Isabella» affermò deciso Edelstein. «Basta discutere» tagliò corto Hazelius. «Non ci sarà nessuna dichiarazione. Lasceremo che di questa faccenda se ne occupino i politici.» La porta della sala ricreativa si aprì e ne uscirono tre scienziati, seguiti dagli agenti speciali Greer e Alvarez e dal tenente Bia. Nel locale calò il silenzio. «Desidero ringraziarvi per la collaborazione» disse rigido Greer con un portablocco in mano rivolgendosi all'intero gruppo. «Avete il mio biglietto da visita. Se vi servisse qualcosa o vi venisse in mente un dettaglio che potrebbe rivelarsi utile, vi prego di contattarmi.» «Quando avremo delle risposte?» domandò Hazelius. «Tra due o tre giorni.» Ci fu silenzio. Dopo qualche istante Hazelius parlò. «Posso farle un paio di domande?» Greer restò in attesa. «Hanno trovato l'arma nella macchina?» Greer esitò, poi disse: «Sì». «Dove?» «Sul fondo, dal lato del guidatore.» «Da quello che ho saputo, il dottor Volkonskij è stato ucciso con un colpo alla tempia destra sparato a bruciapelo mentre era seduto al volante. Giusto?» «Giusto.» «C'era un finestrino dell'auto aperto?» «Erano tutti chiusi.» «E il condizionatore era acceso?»
«Sì.» «Le portiere erano bloccate con la sicura?» «Esatto.» «La chiave nel cruscotto?» «Sì.» «La mano destra del dottor Volkonskij è positiva al test per i residui di polvere?» Silenzio. «Non abbiamo ancora i risultati» rispose l'agente speciale in comando. «Grazie.» Ford colse il senso di quelle domande ed era chiaro che anche Greer lo aveva fatto. Mentre gli agenti uscivano in fila dalla stanza, ripresero a mangiare in un silenzio carico di tensione. La parola «suicidio» che nessuno osava pronunciare, sembrava aleggiare nell'aria. Terminata la colazione, Hazelius si alzò. «Volevo dirvi due parole.» Guardò con occhi stanchi i presenti. «So che siete tutti molto scossi, come del resto lo sono io.» Gli scienziati si dimenarono sulle sedie, a disagio. Ford osservò Kate. Sembrava più che scossa: aveva un'aria veramente distrutta. «I problemi di Isabella sono ricaduti soprattutto su Peter per le ragioni che tutti conosciamo. Lui ha fatto uno sforzo sovrumano per sistemare i difetti del software. Immagino che alla fine vi abbia rinunciato. Vorrei recitare alcuni versi in sua memoria: sono di una poesia di Keats e riguardano lo straordinario momento che ha a che fare con la scoperta.» Li recitò a memoria: Then felt I like some watcher of the skies When a new planet swims into his ken; Or like stout Cortez, when with eagle eyes He star'd at the Pacific - and all his men Look'd at each other with a wild surmise Silent, upon a peak in Darien. Hazelius tacque, poi alzò lo sguardo. «L'ho già detto in precedenza: nessuna scoperta importante per l'umanità è facile. Tutte le grandi esplorazioni delle realtà sconosciute sono pericolose, da un punto di vista fisico e psicologico. Pensate al viaggio di Magellano attorno al mondo o alla scoperta dell'Antartide del capitano Cook. Pensate al Programma Apollo o al-
lo space shuttle. Ieri abbiamo perso un uomo per le difficoltà insite nella nostra esplorazione. Al di là dell'esito delle indagini - e credo che la maggior parte di noi già lo conosca - lo considererò sempre un eroe.» Tacque, sopraffatto dall'emozione. Dopo un istante si schiarì la gola e aggiunse: «Il prossimo test di Isabella inizierà domani a mezzogiorno. Sapete tutti quello che dovete fare. Quanti non saranno già all'interno della montagna si raduneranno qui, nella sala ricreativa, alle undici e trenta e raggiungeranno il posto in gruppo. Le porte del Bunker verranno chiuse alle undici e quarantacinque. Stavolta, signore e signori, ve lo prometto: saremo come l'intrepido Cortez che scruta il Pacifico». Nella sua voce c'era un fervore che colpì Ford: il fervore di chi credeva davvero in ciò che faceva. Capitolo 19 Quella stessa mattina il reverendo Don T. Spates si sistemò sulla sedia del suo ufficio, premette la leva per regolare il sostegno lombare e armeggiò con altre levette per adattarla alle sue esigenze. Si sentiva proprio bene. Il Progetto Isabella si era rivelato un tema scottante e lui se ne era impossessato: ormai era suo. I soldi arrivavano a fiumi e il centralino era intasato. Il problema era come svilupparlo venerdì sera al talk show cristiano Roundtable America. In un sermone potevi giocare sulle emozioni, accendere gli animi, ma Roundtable America aveva un taglio più intellettuale. Era una trasmissione che faceva audience, pertanto gli servivano fatti concreti e, oltre a quanto avrebbe potuto racimolare dal sito web del Progetto Isabella, aveva in mano ben poco. Aveva già disdetto l'invito agli ospiti scelti settimane prima e ne aveva trovato uno nuovo, un fisico in grado di discutere di Isabella. Ma aveva bisogno di qualcosa di più: aveva bisogno di creare un effetto sorpresa. Charles, il suo assistente, entrò con le cartelline del mattino. «Le e-mail che ha richiesto, reverendo. I messaggi e il programma.» Le posò l'una accanto all'altra, con pacata efficienza. «Dov'è il mio caffè?» Arrivò la segretaria. «Buongiorno, reverendo!» esclamò allegra. I suoi capelli vaporosi, coperti di lacca, ondeggiarono e luccicarono nel sole mattutino. Gli posò davanti un vassoio: caffettiera d'argento, tazza, zucchero, lattiera, un biscotto alle noci, una copia intonsa del «Virginia Beach Daily Press»,
«Chiudi la porta quando esci.» Nel silenzio rilassante che seguì, Spates si versò una tazza di caffè, si appoggiò allo schienale, portò la tazza alle labbra e si godette il primo sorso amaro, delizioso. Assaporò il caldo liquido tenendolo per qualche istante in bocca, deglutì, espirò e posò la tazza per prendere quindi la cartellina con le e-mail. Ogni giorno Charles e tre aiutanti passavano al vaglio le migliaia di messaggi che arrivavano, selezionando quelli di chi aveva dato o pareva disposto a elargire cifre nell'ordine di «1000 benedizioni» e quelli di politici o uomini d'affari che andavano invece coltivati. Quello era il risultato: a tutti bisognava rispondere personalmente, di solito ringraziando per la donazione o chiedendo offerte. Spates prese la prima e-mail dalla pila, la scorse, scribacchiò una risposta e la mise da parte per passare alla successiva. Procedette in quel modo con l'intero fascio di carte. Dopo quindici minuti si imbatté in un messaggio che Charles aveva segnalato con un post-it giallo: SI ANNUNCIA INTERESSANTE. Mordicchiò il biscotto e lesse. Egregio reverendo Spates, la saluto nel nome di Cristo. Sono il pastore Russell Eddy e le scrivo dalla Missione riuniti nel tuo nome di Blue Gap, in Arizona. Porto la buona novella nella riserva navajo dal 1999, anno in cui ho fondato la missione. È un'organizzazione davvero esigua: in realtà, ci sono solo io. Il suo sermone sul Progetto Isabella ha davvero fatto centro, reverendo, e le dirò perché. Isabella è la nostra vicina di casa: sta proprio lassù, a Red Mesa, la vedo dalla finestra mentre scrivo questa mail. Ho sentito molto parlare di lei dal mio gregge. Corrono un sacco di voci preoccupanti e sottolineo «preoccupanti». La gente ha paura: temono quello che accade lassù. Non le ruberò altro tempo, reverendo: volevo solo ringraziarla perché combatte per una giusta causa e mette in guardia i cristiani di tutto il mondo dal pericolo di questa empia macchina situata in mezzo al deserto. Continui così. Cordialmente, Pastore Russell Eddy Missione riuniti nel tuo nome
Blue Gap, Arizona Spates lesse l'e-mail, poi la rilesse. Finì il caffè, posò la tazza sul vassoio, con il pollice raccolse l'ultima briciola molle del biscotto alle noci e la leccò. Si appoggiò allo schienale e rifletté. In Arizona erano le sette e quindici. I pastori di campagna si alzavano presto, giusto? Afferrò il ricevitore e digitò il numero scritto in fondo alla mail. Il telefono squillò parecchie volte prima che rispondesse una voce acuta. «Pastore Russell.» «Ah, pastore Russell! Sono il reverendo Don T. Spates della Missione della prima serata di Dio di Virginia Beach. Come sta, pastore?» «Bene, grazie.» La voce sembrava esitante, persino sospettosa. «Chi ha detto di essere?» «Il reverendo Don T. Spates! La prima serata di Dio!» «Oh! Il reverendo Spates! Che sorpresa! Avrà ricevuto la mia mail.» «Sicuro. È molto interessante.» «Grazie, reverendo.» «La prego, mi chiami Don. Penso che la sua vicinanza alla macchina e la possibilità di seguire direttamente l'esperimento siano un dono di Dio.» «In che senso?» «Ho bisogno di una fonte interna che mi informi su quanto sta succedendo laggiù, di qualcuno sul posto. Forse Dio vuole che sia lei quella fonte. Non l'ha indotta a scrivere quella mail per niente, Russell, dico bene?» «Sì, signore. Voglio dire no, non mi ha indotto a scriverla per niente. Ascolto il suo sermone ogni domenica. Qui non riceviamo il segnale della televisione, ma ho un collegamento Internet satellitare ad alta velocità e ascolto sempre il webcast.» «Mi fa davvero piacere, Russell. È bello sapere che il nostro nuovo webcast arrivi tanto lontano. Nella sua mail, lei ha parlato di voci. Che genere di voci ha sentito?» «Di tutti i generi. Esperimenti sulle radiazioni, esplosioni, abusi su bambini. Dicono che lassù stiano creando dei mostri, che il governo stia testando una nuova arma per distruggere il mondo.» Spates provò una violenta fitta di delusione. Quel pastore sembrava uno squilibrato. Non c'era da stupirsi, in fondo viveva in mezzo al deserto con gli indiani. «Niente di più... di più concreto?» «Ieri è morto uno degli scienziati. È stato trovato con un proiettile in te-
sta.» «Sul serio?» Quello andava già meglio, grazie a Dio. «Come lo sa?» «Be', in una zona rurale come questa le voci corrono rapide. La mesa brulicava di agenti dell'FBI.» «Li ha visti?» «Altroché! L'FBI viene nella riserva solo quando c'è un omicidio. Quasi tutti gli altri crimini vengono seguiti dalla polizia navajo.» Spates sentì un formicolio lungo la schiena. «Uno dei fedeli ha un fratello nella polizia locale. Secondo le ultime notizie trapelate, si sarebbe trattato in realtà di un suicidio. Il tutto è tenuto segreto.» «Il nome dello scienziato morto?» «Non lo so.» «È certo che fosse uno degli scienziati, Russell, e non un'altra persona?» «Mi creda, se si fosse trattato di un navajo, l'avrei saputo. È una comunità molto unita.» «Ha incontrato qualche scienziato della squadra?» «No. Se ne stanno sempre per i fatti loro.» «Può entrare in contatto con loro?» «Be', sì. Immagino che potrei andare lassù e presentarmi come il pastore locale. In modo molto cordiale e amichevole.» «Ottima idea, Russell! Mi interesserebbe molto scoprire qualcosa di più sull'uomo che gestisce Isabella, un certo Hazelius. Ne ha sentito parlare?» «Il nome mi è familiare.» «Ha dichiarato di essere l'uomo più intelligente del mondo e che tutti gli altri gli sono inferiori. Ci ha definiti una razza di imbecilli. Se lo ricorda?» «Penso di sì.» «È piuttosto pesante come affermazione, non trova? E a maggior ragione se esce dalla bocca di un uomo che non crede in Dio.» «Non mi sorprende, reverendo. Viviamo in un mondo che adora il male.» «Sì, figliolo. Ora: posso contare su di lei?» «Sì, reverendo. Può contarci.» «Una cosa importante: le informazioni mi servono tra due giorni, per diffonderle nel Roundtable America di venerdì. Ascolta mai la mia trasmissione?» «Da quando esiste via web non me la perdo mai.» «Questo venerdì ho invitato un fisico, un uomo che ha una visione cri-
stiana della vita, per poter approfondire il discorso sul Progetto Isabella. Mi servono assolutamente più informazioni, non le solite cose da pubbliche relazioni. Parlo di fatti scabrosi. Come questa morte: che cos'è successo con precisione? Parli con il poliziotto navajo di cui mi ha accennato. Ha capito, Russell?» «Sì, perfettamente, reverendo.» Spates posò il ricevitore e fissò pensieroso fuori dalla finestra. Ogni tassello del puzzle stava andando al suo posto. Il potere di Dio non conosceva limiti. Capitolo 20 Dopo la colazione servita nel refettorio, Wyman Ford stava per rientrare nella sua casita quando Wardlaw spuntò da un lato dell'edificio e gli bloccò la strada. Si aspettava una mossa del genere. «Le spiace se facciamo due chiacchiere?» chiese il responsabile della sicurezza con tono fintamente cordiale. Masticava un chewing-gum e i muscoli della faccia al di sopra delle orecchie si contraevano. Ford attese. Non era il momento di intraprendere prove di forza ma se era quello che voleva, ne avrebbe subito le conseguenze. «Non so quale sia il suo gioco, Ford, né chi sia veramente. Presumo stia operando in veste semiufficiale. L'ho capito dal giorno in cui è arrivato.» Lui restò impassibile. Wardlaw gli si avvicinò tanto che sentì l'odore del suo dopobarba. «Il mio compito è difendere Isabella, anche da lei. Immagino sia qui sotto copertura perché qualche burocrate a Washington ha bisogno di pararsi il culo. Questo non le dà molte garanzie in termini di protezione, giusto?» Ford continuò a tacere. Che dicesse pure tutto quello che aveva da dire. «Non rivelerò a nessuno della ragazzata di ieri notte. Ovviamente dovrà riferire ai suoi capi. Se la questione saltasse fuori, sa già quale sarà la mia linea di difesa: lei era un intruso e le mie regole d'ingaggio prevedono che spari per uccidere. Oh, e se teme che il vetro e la zanzariera rotti mettano in folle agitazione Greer, sappia che sono stati riparati. L'intera faccenda resterà tra noi.» Ford era rimasto colpito. Wardlaw aveva pensato proprio a tutto. Era contento che il responsabile della sicurezza non fosse un completo idiota. Aveva sempre trovato più facile affrontare un avversario intelligente: gli
stupidi erano imprevedibili. «Ha finito il suo discorsetto?» chiese. La carotide pulsava a un ritmo rapidissimo sul collo robusto dell'uomo. «Si guardi le spalle, sbirro.» Dopodiché si scostò, ma solo quel tanto da permettergli di passare. Ford fece un passo e poi si fermò. Era tanto vicino che avrebbe potuto sferrargli un calcio all'inguine e metterlo in ginocchio. Guardò l'uomo che si trovava a pochi centimetri dal suo viso e disse con tono affabile: «Sa che c'è? Non ho la più pallida idea di cosa stia parlando». Mentre proseguiva, sul volto di Wardlaw comparve una fugace ombra di dubbio. Ford entrò in casa e sbatté la porta. Wardlaw non era sicuro al cento per cento che fosse lui l'uomo che aveva inseguito e l'incertezza lo avrebbe indotto alla prudenza. La sua copertura era compromessa, non saltata. Quando fu certo che il responsabile della sicurezza se n'era andato, si gettò sul divano in preda all'irritazione e allo scoraggiamento. Si trovava sulla mesa da quattro giorni ma non aveva scoperto molto di più rispetto al giorno in cui era uscito dall'ufficio di Lockwood. Si chiese perché mai avesse creduto che si trattasse di un incarico semplice. Era giunto il momento di passare alla mossa successiva, quella che aveva sempre sperato di evitare da quando Lockwood gli aveva mostrato il dossier di Kate. Un'ora dopo Ford trovò Kate nella stalla, intenta a occuparsi dei cavalli. Rimase sulla soglia e la seguì con lo sguardo mentre riempiva i secchi di avena, apriva una balla di erba medica e ne gettava un po' in ogni box. Osservò il suo corpo sottile e flessuoso, il modo in cui si muoveva con grazia e sicurezza, nonostante fosse palesemente sfinita. Era come dodici anni prima, quando l'aveva spiata mentre dormiva sotto il tavolo della biblioteca. Dall'interno proveniva una musica rock a volume piuttosto basso. Kate gettò l'ultima manciata d'erba, si voltò e si accorse della sua presenza. «Vai a farti un altro giro a cavallo?» domandò con voce sommessa. Lui entrò nell'ombra fresca. «Come stai, Kate?» Lei appoggiò le mani inguantate sui fianchi. «Non molto bene.» «Mi dispiace tanto per Peter.» «Sì.» «Posso darti una mano?»
«Ho finito.» La musica continuava a suonare, bassa, in sottofondo. Ora la riconobbe. «I Blondie?» «Ascolto spesso la musica quando sono nella stalla. Ai cavalli piace.» «Ti ricordi?» disse. «Sì» tagliò corto lei. Si guardarono in silenzio. Al MIT Kate era solita iniziare la giornata nel laboratorio LEES (Laboratory for Electromagnetic and Electronic Systems) di elettronica con gli Atomic al massimo volume, tanto che li si sentiva in tutto Killian Court. Quando lui arrivava, la sorprendeva di solito a ballare con le cuffie in testa e una tazza di caffè in mano mentre dava spettacolo di sé. Adorava dare spettacolo, come la volta in cui aveva versato mezzo litro di benzina nella Murphy Memorial Fountain e vi aveva dato fuoco. Al ricordo, al pensiero del tempo andato, sentì un'improvvisa fitta di dolore. Quante ingenue speranze nutriva allora, com'era sicura che la vita sarebbe sempre stata un gioco. Alla fine invece la vita colpiva duramente tutti e lei, più di altri, lo aveva imparato. Ford scacciò dalla mente il passato e si concentrò sulla missione. Con Kate i modi diretti erano sempre stati i migliori: odiava le persone che ci giravano troppo intorno. Lo avrebbe mai perdonato per quello che stava per fare? Fece la domanda a bruciapelo. «D'accordo, che cosa nascondete tutti quanti?» Lei lo fissò senza fingersi sorpresa, senza protestare, senza lasciargli credere di non sapere. «Non sono affari che ti riguardano.» «Invece sì. Faccio parte della squadra.» «Allora chiedi a Gregory.» «So che tu sarai franca con me. Hazelius... non riesco a inquadrarlo.» Il suo viso si addolcì. «Credimi, Wyman: preferiresti non saperlo.» «Voglio saperlo. Devo saperlo. È il mio lavoro. Non è da te, Kate, avere segreti.» «Da che cosa deduci che abbiamo dei segreti?» «Dal primo giorno ho la sensazione che stiate nascondendo qualcosa. Volkonskij ha fatto qualche allusione e anche tu. C'è qualche problema grave con Isabella?» Kate scosse la testa. «Dio, Wyman, non cambi mai: sempre quella maledetta curiosità.» Si guardò la camicia e si tolse accigliata un pezzetto di
paglia dalla spalla. Seguì un altro lungo silenzio, poi lo fissò con i suoi vivi occhi castani e Ford capì che aveva preso una decisione. «Sì. C'è qualcosa che non va con Isabella ma non è quello che immagini. Non è niente di particolare. È un piccolo problema. Non ha niente a che fare con te o con il tuo lavoro qui. Non voglio che tu lo sappia perché... be', potrebbe metterti nei guai.» Ford non disse nulla e attese. Kate scoppiò in una breve e amara risata. «D'accordo. Te la sei cercata. Ma non aspettarti grandi rivelazioni.» Lui provò uno spaventoso senso di colpa e lo soffocò: a quello, avrebbe pensato dopo. «Quando lo saprai, capirai perché lo abbiamo tenuto segreto.» Kate lo guardò dritto negli occhi. «Isabella è stata sabotata. Un hacker si sta prendendo gioco di noi.» «Com'è possibile?» «Qualcuno ha inserito un malware nel computer centrale. A quanto sembra, è una specie di bomba logica che si attiva solo quando Isabella sta per raggiungere il cento per cento della potenza. Prima produce un'immagine bizzarra sul Visualizzatore, poi spegne il computer centrale e invia un messaggio stupido. È incredibilmente frustrante... e molto rischioso. A un livello così elevato di energia, se i fasci si attorcigliassero o uscissero dal tracciato, potremmo saltare tutti in aria. Peggio ancora, una fluttuazione improvvisa di energia potrebbe generare particelle pericolose o buchi neri in miniatura. È il capolavoro degli attacchi hacker, una vera opera d'arte, partorita da un programmatore estremamente abile. Non riusciamo a individuarlo.» «Qual è il messaggio?» «SALVE o CIAO o C'È NESSUNO?, cose del genere.» «Un po' come il vecchio motto della programmazione AI: CIAO MONDO.» «Esatto. È uno scherzo tra addetti ai lavori.» «E poi che fa?» «Niente.» «Non dice altro?» «Non ha tempo di dire altro. Con il computer in tilt siamo costretti a iniziare lo spegnimento d'emergenza del sistema.» «Non avete conversato un po'? Non lo avete indotto a parlare?» «Stai scherzando? Con una macchina da quaranta miliardi di dollari che
potrebbe esplodere? E comunque non servirebbe: sputerebbe solo altre stronzate. Inoltre, con il computer centrale in tilt, far funzionare Isabella sarebbe come guidare di notte su una strada bagnata a centocinquanta all'ora con i fari spenti. Saremmo dei pazzi se ce ne stessimo lì seduti a chiacchierare.» «E l'immagine?» «È molto strana. È difficile descriverla: davvero spettacolare, misteriosa, luccica come uno spettro. Chiunque l'abbia creata è, a suo modo, un artista.» «Non riuscite a individuare il malware?» «No, è diabolico. Sembra spostarsi nel sistema e cancellare così bene le sue tracce da rendere impossibile la sua identificazione.» «Perché non comunicarlo a Washington e non contattare una squadra specializzata che risolva il problema?» Kate rimase in silenzio per qualche istante. «È troppo tardi. Se saltasse fuori che siamo stati raggirati da un hacker, un terribile scandalo sarebbe inevitabile. Il Progetto Isabella ce l'ha fatta a stento al Congresso... sarebbe la fine.» «Perché non ne avete parlato subito? Perché nascondete questo fatto?» «Volevamo farlo!» esclamò Kate scostandosi i capelli. «Poi però abbiamo deciso che sarebbe stato meglio se prima avessimo cancellato il malware, in modo da poter dichiarare di aver già risolto il problema. È passato un giorno, ne sono passati due, tre e non siamo riusciti a individuarlo. Sono passati una settimana, dieci giorni... e alla fine ci siamo accorti che era troppo tardi. A quel punto se avessimo segnalato il guaio, ci avrebbero accusato di aver tentato di insabbiare il tutto.» «Avete commesso un errore madornale.» «Non me lo dire. Non so proprio come sia potuto accadere... Eravamo fuori di noi, sotto stress, e ci vogliono almeno quarantotto ore per completare un solo ciclo di prova...» Kate scosse la testa. «Hai qualche idea di chi ci sia dietro tutto questo?» «Gregory pensa si tratti di un gruppo di hacker molto abili, che hanno voluto compiere deliberatamente un sabotaggio. Ma c'è sempre il tacito timore... che l'hacker sia uno di noi.» Tacque e fece un brusco respiro. «Ora capisci in che situazione ci troviamo, Wyman.» Un cavallo nitrì debolmente nell'ombra. «Per questo Hazelius sembra convinto che la morte di Volkonskij non sia stata un suicidio» commentò Ford.
«È stato sicuramente un suicidio. In qualità di ingegnere del software, l'umiliazione di essere vittima di un hacker gli pesava sulle spalle come una tonnellata di mattoni. Povero Peter, era così fragile, era come un dodicenne emotivo. Un ragazzino insicuro, iperattivo, che portava magliette troppo larghe per la sua taglia.» Scosse di nuovo il capo. «Non è riuscito a reggere alla pressione. Non dormiva mai. Era lì davanti ai computer giorno e notte, ma non è riuscito a trovare lo slag code e si è ridotto a pezzi. Ha iniziato a bere e non mi stupirei se fosse passato anche a roba più forte.» «E Innes? Non dovrebbe essere lo psicologo della vostra squadra?» «Innes» ripeté lei, aggrottando la fronte. «È animato da buone intenzioni ma intellettualmente è un caso disperato. Voglio dire, queste sedute settimanali di "sfogo" questa puttanata di esternare tutto, possono forse funzionare con persone normali ma non con noi. È così facile capire i suoi trucchi, le sue domande trabocchetto, le sue piccole strategie. Peter lo detestava.» Con il dorso della mano si asciugò una lacrima. «Gli volevamo tutti molto bene.» «Tranne Wardlaw» precisò Ford. «E la Corcoran.» «Wardlaw... be', a dire il vero nessuno di noi gli va a genio, fatta eccezione per Hazelius. Ma devi capire che è sottoposto a una tensione ancora maggiore. È il responsabile della sicurezza. Se questa faccenda venisse fuori, finirebbe in prigione.» Non c'è da stupirsi che abbia i nervi a fior di pelle, concluse tra sé Wyman. «Per quanto riguarda Melissa, ha litigato con parecchi di noi, non solo con Volkonskij. Io... starei attenta a lei.» Ford si ricordò del biglietto, ma non raccontò nulla. Kate si tolse i guanti e li gettò in un secchio appeso al muro. «Soddisfatto?» gli domandò con una punta di acredine nella voce. Mentre tornava alla casita, Ford si ripeté quella domanda: Soddisfatto? Capitolo 21 Il pastore Russell Eddy era salito a bordo del suo vecchio pick-up della Ford e stava fissando l'indicatore della benzina per calcolare se ne avesse abbastanza per andare e tornare dalla mesa, quando all'orizzonte scorse il caratteristico turbine di polvere che preannunciava l'avvicinamento di un veicolo. Scese dal pick-up e si appoggiò alla portiera, in attesa. Pochi istanti dopo un'auto della polizia navajo si fermò davanti alla rou-
lotte mentre il vento disperdeva la sabbia che si era sollevata. La portiera si aprì e comparve uno stivale da cowboy impolverato. Un uomo alto si allungò e si stirò. «Buongiorno, pastore» disse, toccandosi il cappello in segno di saluto. «Buongiorno, tenente Bia» rispose Eddy, cercando di mantenere un tono calmo e disinvolto, «È diretto da qualche parte?» «Oh no, stavo solo controllando il livello della benzina» spiegò lui. «In realtà, avevo pensato di andare alla mesa e di presentarmi agli scienziati. Sono preoccupato per quello che sta succedendo lassù.» Bia si guardò attorno. In qualsiasi direzione si girasse, gli occhiali a specchio riflettevano l'orizzonte infinito. «Lorenzo di recente non si è fatto vedere da queste parti?» «No» affermò Eddy. «Non lo vedo da lunedì mattina.» Bia si tirò su i pantaloni e tutta l'attrezzatura che vi aveva appeso tintinnò come un enorme bracciale carico di ciondoli. «La cosa strana è che ha chiesto un passaggio per Blue Gap verso le quattro di lunedì dicendo che sarebbe venuto qui a terminare il lavoro. Lo hanno visto percorrere a piedi la strada della missione e poi a quanto pare è scomparso.» Eddy lasciò passare un secondo. «Be', qui non è mai arrivato. L'ho visto il mattino ma se ne è andato verso mezzogiorno o forse anche prima e da allora non l'ho più rivisto. Doveva lavorare ma...» «Oggi fa un bel caldo qui, eh?» Bia si girò e gli sorrise, poi lanciò un'occhiata alla roulotte. «Posso chiederle una tazza di caffè?» gli domandò. «Certo.» Bia seguì Eddy in cucina e si sedette al tavolo. Il pastore riempì il recipiente della caffettiera d'acqua fresca e l'accese. I navajo riutilizzavano d'abitudine i fondi, perciò immaginò che Bia non si sarebbe offeso. Questi posò il cappello sul tavolo. Aveva i capelli tutti schiacciati sulla testa, tanto che formavano una sorta di cerchio bagnato. «Be', a essere sincero non sono qui per Lorenzo. Personalmente credo che abbia di nuovo preso il largo. La gente a Blue Gap dice che era piuttosto ubriaco quand'è passato, lunedì.» Eddy annuì. «Mi ero accorto che aveva ricominciato a bere.» Bia scosse la testa. «Che brutto vizio. A quel ragazzo le cose stavano andando bene. Se non si farà vivo presto, gli toglieranno la libertà condizionale e lo rispediranno ad Alameda.»
Eddy assentì di nuovo. «Un vero peccato.» Il caffè cominciò a filtrare. Eddy approfittò per darsi da fare con tazze, zucchero e latte. Mise tutto sul tavolo, riempì due tazze e si risedette. «Sono qui per un altro motivo. Ieri ho parlato con il commerciante di Blue Gap e mi ha detto del... problema con le offerte.» «Sì.» Eddy bevve il caffè bruciandosi la lingua. «Mi ha raccontato che ha segnato parte del denaro e gli ha chiesto di verificare chi se ne sarebbe servito per pagare il conto.» Eddy attese. «Be', ieri sono comparse alcune di quelle banconote.» «Capisco.» Eddy deglutì. Ieri? «È una situazione un po' imbarazzante» osservò Bia, «per questo il commerciante si è rivolto a me prima di telefonarle. Spero capirà quello che le sto per dire. Non voglio farne un caso di Stato.» «Certo.» «Conosce senz'altro l'anziana signora Benally? Elizabeth Benally.» «Sicuro, frequenta la mia chiesa.» «Tutte le estati era solita portare al pascolo le pecore sulla mesa, aveva una vecchia capanna lassù, nei paraggi di Piute Springs. Non era terra di sua proprietà, non aveva alcun diritto su di essa, ma l'aveva usata per quasi tutta la vita. Quando il governo Navajo si è impossessato della mesa per il Progetto Isabella, ha perso i pascoli ed è stata costretta a vendere le pecore.» «Tutto questo mi addolora.» «Per lei non è stato propriamente un male. Ha una settantina d'anni e l'hanno sistemata in una bella casa governativa giù a Blue Gap. Il problema è che, con una casa come quella, ti ritrovi d'un tratto le bollette dell'elettricità e dell'acqua da pagare... capisce cosa intendo? In vita sua non aveva mai dovuto pagare una bolletta. E adesso il suo reddito è ridotto al sussidio che le passa il governo, perché non possiede più pecore.» Eddy disse che comprendeva. «Be', questa settimana sua nipote compie dieci anni e ieri la vecchia signora Benally le ha comprato un Game Boy all'emporio, se lo è fatto incartare e tutto il resto.» Tacque guardando fisso Eddy. «Lo ha pagato con le banconote che aveva segnato.» Eddy rimase lì seduto a guardarlo. «Lo so, è piuttosto triste.» Bia tolse il portafoglio dalla tasca posteriore. Con la sua manona scura estrasse un pezzo da cinquanta e glielo avvicinò
sul tavolo. «Non ha senso farne un caso di Stato.» Eddy non riuscì a muoversi. Bia si alzò e mise via il portafoglio. «Se si ripetesse, me lo faccia sapere: penserò personalmente a restituire l'ammanco. Come ho detto, credo non sia necessario appellarsi alla legge. E comunque, non sono sicuro sia del tutto sana di mente.» Prese il cappello e se lo calcò in testa, in corrispondenza dell'alone di sudore. «Grazie per la sua comprensione, pastore.» Si voltò per andarsene, ma poi si fermò. «Se vede Lorenzo, mi faccia un fischio, d'accordo?» «Certo, tenente.» Il pastore Russell Eddy rimase a guardare mentre il tenente Bia usciva dalla porta e scompariva, per ricomparire un istante dopo nella finestra e attraversare a grandi passi il cortile anteriore, proprio nella zona in cui era sepolto il corpo di Lorenzo, sollevando sbuffi di sabbia con gli stivali da cowboy. Lo sguardo gli cadde sulla banconota segnata da cinquanta dollari e si sentì male. Subito dopo però provò rabbia, una profonda rabbia. Capitolo 22 Wyman Ford entrò in soggiorno e rimase accanto alla finestra a osservare la sagoma contorta di Nakai Rock che si stagliava al di sopra dei pioppi neri. Aveva portato a termine l'incarico e adesso era costretto a prendere una decisione: avrebbe dovuto riferirlo a Lockwood? Si gettò sfinito su una sedia e si prese la testa tra le mani. Kate aveva ragione: se la notizia si fosse diffusa, avrebbe inevitabilmente danneggiato il progetto. Avrebbe stroncato la carriera a tutti, lei compresa. Nel mondo scientifico bastava il sentore di un insabbiamento o di una menzogna a distruggere una carriera. Soddisfatto?, si chiese di nuovo. Si alzò e, infuriato, prese a camminare su e giù nella stanza. Lockwood sapeva fin dall'inizio che avrebbe trovato la risposta parlando con Kate. Lo avevano assunto non perché era un brillante ex agente della CIA diventato investigatore privato, ma perché per caso dodici anni prima aveva avuto una relazione con una certa donna. Però quell'incarico lo aveva allettato, lusingato. E a dire il vero, si era sentito troppo attratto dall'idea di rivedere Kate.
Per un istante ebbe nostalgia della vita nel monastero, di quei trenta mesi in cui l'esistenza gli era sembrata così semplice, così pulita. Lì dentro si era quasi scordato dello spaventoso grigiore del mondo e delle assurde scelte morali che ti imponeva. Tuttavia, non sarebbe mai diventato monaco. Era entrato nel monastero nella speranza di ritrovare la fede, invece gli era successo il contrario. Chinò il capo e cercò di pregare, ma erano solo parole. Parole rivolte al silenzio. Forse il bene e il male non esistevano più, la gente faceva quello che faceva e basta. Ford prese la decisione: non avrebbe mai fatto niente che rovinasse la carriera di Kate. Aveva già subito troppi brutti colpi nella vita. Avrebbe concesso loro due giorni per identificare il malware e li avrebbe aiutati. Nutriva il forte sospetto che il sabotatore fosse un membro della squadra: nessun altro aveva accesso alla macchina o la conoscenza adeguata. Ford uscì dalla porta principale e, fingendo di voler prendere una boccata d'aria, fece un giro attorno alla casita per accertarsi che Wardlaw non fosse nei paraggi. Quindi andò in camera da letto, aprì un mobile a cassetti e recuperò la valigetta. Inserì il codice per aprirla e digitò il numero. Lockwood rispose tanto in fretta che Ford pensò fosse rimasto in attesa accanto al telefono. «Novità?» gli chiese senza fiato. «Non molte.» Lockwood emise un brusco sospiro di esasperazione. «Ha avuto quattro giorni, Wyman.» «Semplicemente non riescono a far funzionare Isabella. Comincio a credere che si stia sbagliando, Stan. Non nascondono nulla. È vero ciò che affermano: non riescono a far funzionare bene la macchina.» «Maledizione, Ford, non me la bevo!» Sentiva il suo respiro affannoso al telefono. Anche per Lockwood avrebbe significato la fine della carriera, ma il punto era che a Ford non gliene fregava niente di quell'uomo. Che andasse pure a fondo. Kate era l'unica cosa che contava. Se avesse potuto guadagnare qualche giorno in più per aiutarli a trovare il malware, non c'era ragione che Lockwood venisse a sapere qualcosa. «Ha sentito di quel predicatore, Spates, e del suo sermone?» proseguì il consulente scientifico del presidente degli Stati Uniti. «Sì.»
«Questo abbrevia i tempi. Ha due, tre giorni al massimo, poi staccheremo la spina. Wyman, scopra cosa stanno nascondendo: mi ha sentito? Lo scopra!» «Intesi.» «Ha perquisito la casa di Volkonskij?» «Sì.» «Ha trovato qualcosa?» «Niente di particolare.» Seguì un attimo di silenzio, poi Lockwood aggiunse: «Ho appena ricevuto i dati medico-legali preliminari su Volkonskij. Sembra sempre più che si sia trattato davvero di suicidio». «Capisco.» Ford udì un fruscio di carte. «Ho anche cercato parte delle informazioni che mi ha richiesto. Per quanto riguarda Cecchini... il culto si chiamava Heaven's Gate. Probabilmente se lo ricorderà, nel '97 i seguaci della setta si sono suicidati in massa nella convinzione che le loro anime sarebbero salite a bordo di una navicella spaziale aliena che si stava avvicinando alla Terra dietro la cometa di Hale-Bopp. Cecchini ne è entrato a far parte nel '95, vi è rimasto meno di un anno e se n'è andato prima del suicidio di massa.» «Ci sono prove che ci creda ancora? Quell'uomo mi sembra un mezzo automa.» «La setta non esiste più e non ci sono prove che confermino la sua adesione alla teoria di quella setta. Da allora conduce una vita normale, anche se un po' solitaria. Non beve e non fuma, nessuna fidanzata in particolare e quasi nessun amico. Ha puntato tutto sulla carriera. È un fisico brillante, totalmente dedito al lavoro.» «E la Chen?» «Il dossier dice che il padre era un bracciante analfabeta, morto prima che lei e la madre lasciassero la Cina. Non è così: era fisico nel laboratorio di Lop Nur dove testavano le armi nucleari ed è ancora vivo e vegeto in Cina.» «Com'è possibile che nel dossier siano finite delle false informazioni?» «A causa del file dell'immigrazione e delle notizie fornite dalla stessa Chen durante il colloquio.» «Perciò mente.» «Forse no. La madre l'ha portata via dalla Cina quando aveva due anni. Forse è stata lei a mentirle. Potrebbe però esserci una spiegazione molto
semplice: la donna non avrebbe ottenuto il visto per l'America se avesse detto la verità. La Chen potrebbe addirittura non sapere che il padre è ancora vivo. Non ci sono prove che stia trasmettendo informazioni.» «Mmm.» «Non abbiamo quasi più tempo, Wyman. Lei continui con la missione. So che nascondono qualcosa di grosso: lo so e basta.» Dopodiché terminò la comunicazione. Ford tornò alla finestra e fissò di nuovo Nakai Rock. Adesso era uno di loro: nascondeva un segreto. Ma a differenza loro, ne nascondeva più di uno. Capitolo 23 Alle undici e venti il pastore Russell Eddy sfrecciò con il suo pick-up F150 del 1989 tutto scassato sulla nuovissima strada asfaltata che attraversava la sommità di Red Mesa, Il vento che entrava dai finestrini aperti scompigliava le pagine della Bibbia di Re Giacomo sul sedile accanto a lui. Sentiva il sangue ribollirgli per la confusione, la rabbia e l'ansia. Quindi, dopotutto, non era stato Lorenzo. Però si era ubriacato e comportato in modo insolente... e aveva offeso il Signore nel modo più nefando. Eddy non aveva nulla a che fare con la sua morte: si era ucciso con le sue mani. In fondo quello era stato il piano di Dio, e Dio sapeva ciò che faceva. Dio opera in modi misteriosi. Se lo ripeté, più e più volte. Per tutta la vita aveva aspettato che lo chiamasse, che gli rivelasse il progetto che aveva su di lui. Era stato un viaggio lungo e difficile. Dio lo aveva messo dolorosamente alla prova come Giobbe: gli aveva tolto la moglie e il figlio con il divorzio, si era preso la sua carriera, i suoi soldi, la sua autostima. E adesso la faccenda di Lorenzo. Il ragazzo aveva bestemmiato il nome di Dio e Gesù con le parole più abbiette, più raccapriccianti, ma non era lui il ladro: Eddy lo aveva accusato ingiustamente. Questo che cosa significava? Dov'era la volontà di Dio in tutto ciò? Qual era il piano di Dio? Dio opera in modi misteriosi. Il pick-up scoppiettava e sferragliava sull'asfalto lucido. Fece un'ampia curva, passò tra due promontori di arenaria e, lì sotto, ecco comparire una serie di case in mattoni adobe tra i pioppi neri: A destra, a circa un paio di chilometri, si trovavano le due nuove piste d'atterraggio e una serie di hangar. Più in là, al confine della mesa, sorgeva il complesso di Isabella, cir-
condato da due recinti metallici. L'edificio era situato perlopiù sottoterra. L'ingresso doveva essere all'interno della zona recintata. Adorato Padre celeste, ti prego guidami Tu, supplicò. Eddy scese nella piccola valle erbosa. In fondo c'era una costruzione di tronchi che doveva essere il vecchio emporio di Nakai Rock. Due uomini e una donna vi si stavano dirigendo. Altri gironzolavano accanto alla porta. Dio li aveva riuniti lì per lui. Il pastore fece un profondo respiro, rallentò e parcheggio davanti all'ingresso. Un'insegna dipinta a mano sopra la porta annunciava: EMPORIO DI NAKAI ROCK, 1888. Oltre la zanzariera contò otto persone. Bussò sul telaio di legno, ma non ebbe risposta. Bussò più forte. L'uomo nella stanza anteriore si voltò e Russell fu colpito dai suoi occhi: erano tanto azzurri che a fissarli sentivi quasi una scossa. Hazelius. Doveva essere per forza lui. Russell sussurrò una rapida preghiera ed entrò. «Che cosa posso fare per lei?» chiese l'uomo. «Mi chiamo Russell Eddy. Sono il pastore della Missione riuniti nel tuo nome giù, a Blue Gap.» Le parole gli vennero di getto e si sentì stupido, imbarazzato. Con un sorriso cordiale l'uomo si alzò dalla poltrona in cui era seduto e gli si avvicinò. «Gregory North Hazelius» si presentò, dandogli una vigorosa stretta di mano. «Piacere di conoscerla, Russell.» «Grazie, signore.» «Posso esserle utile in qualche modo?» Eddy sentì aumentare il panico. Dov'era il discorso che aveva provato mentre risaliva la Dugway? Dopo un istante la lingua lo recuperò. «Ho sentito parlare del Progetto Isabella e ho deciso di venire qui a parlarvi della mia Missione e a offrirvi i benefici di un'assistenza spirituale. Noi ci incontriamo ogni domenica alle dieci, giù a Blue Gap, circa tre chilometri a ovest della torre dell'acqua.» «Grazie mille, Russell» rispose Hazelius con tono affabile e sincero. «Verremo a trovarla presto e forse uno di questi giorni potrebbe farle piacere visitare Isabella. Purtroppo in questo momento abbiamo una riunione piuttosto importante. Le spiacerebbe tornare la prossima settimana?» Russell si sentì arrossire a poco a poco. «Be', signore, no, non penso.» Deglutì, poi aggiunse: «Vede, il mio gregge e io siamo preoccupati per
quello che sta succedendo quassù. Sono venuto per ricevere qualche risposta». «Capisco perfettamente, Russell, sul serio.» Hazelius lanciò un'occhiata a un uomo in piedi al suo fianco: alto, spigoloso, alquanto brutto. «Pastore, lasci che le presenti Wyman Ford, il nostro addetto ai contatti con la comunità locale.» L'uomo avanzò con la mano tesa. «Lieto di conoscerla, pastore.» Hazelius stava già indietreggiando. «Sono venuto a parlare con lui, non con lei» osservò il pastore Eddy e la sua voce acuta, che tanto detestava, si incrinò per lo sforzo. Hazelius si voltò. «Mi scusi, pastore, non volevo mancarle di rispetto. In questo momento siamo un po' indaffarati... Possiamo vederci domani alla stessa ora?» «No, signore.» «Posso chiederle gentilmente perché sia tanto importante parlarne ora?» «Perché so che c'è stato un... un lutto improvviso e credo che l'incidente vada in qualche modo affrontato.» Hazelius lo fissò. «Si riferisce alla morte di Peter Volkonskij?» Il suo tono si era fatto sommesso. «Se è la persona che si è tolta la vita, sì.» Wyman Ford si fece di nuovo avanti. «Pastore, sarei lieto di discutere del problema con lei. Il punto è che in questo momento il dottor Hazelius sta per coordinare un altro test di Isabella e non ha tempo da dedicarle. Io invece sì.» Russell non si sarebbe lasciato liquidare da un lacchè qualsiasi addetto alle Public Relations. «Come ho detto, desidero parlare con lui, non con lei. Non è lei l'uomo che ha sostenuto d'essere il più intelligente del mondo? Quello che ha detto che tutti noi siamo imbecilli? Quello che ha costruito questa macchina per sfidare la parola di Dio?» Ci fu un breve silenzio. «Il Progetto Isabella non ha niente a che vedere con la religione» osservò il PR. «È un esperimento rigorosamente scientifico.» Il pastore sentì montare la rabbia: una rabbia violenta, giusta, nei confronti di Lorenzo, della sua ex moglie, della corte che aveva emesso la sentenza di divorzio, di tutte le ingiustizie del mondo. Così doveva essersi sentito Gesù nel Tempio, quando aveva scacciato i cambiavalute. Puntò un dito tremante contro Hazelius. «Dio la punirà di nuovo.» «Direi che può bastare...» osservò il PR con tono pungente, ma Hazelius
lo interruppe. «Che cosa intende con "di nuovo"?» «Mi sono documentato su di lei. So di sua moglie, che esibiva il suo corpo nudo su "Playboy", che si pavoneggiava e viveva nel lusso come la prostituta di Babilonia. Dio l'ha punita prendendosela. Eppure, non si è pentito.» Nella stanza era calato un silenzio di tomba. «Signor Wardlaw, per cortesia accompagni il signor Eddy all'uscita» intervenne Ford dopo un attimo. «No» replicò Hazelius. «Non ancora.» Si voltò verso Eddy con un sorriso terribile che gli raggelò il sangue nelle vene. «Mi dica, Russell. Lei è il pastore di una missione nei dintorni?» «Esatto.» «A quale confessione appartenete?» «Siamo indipendenti. Evangelici.» «Ma siete... cosa? Protestanti? Cattolici? Mormoni?» «Niente di ciò. Siamo rinati, cristiani fondamentalisti.» «Cosa significa?» «Che abbiamo accettato Gesù Cristo nel nostro cuore come Signore e Salvatore e siamo rinati attraverso l'acqua dello Spirito, l'unico modo per giungere alla salvezza. Crediamo che ogni parola delle Sacre Scritture sia la parola esatta, divina del Signore.» «Perciò pensate che protestanti e cattolici non siano veri cristiani e che Dio li manderà all'inferno, dico bene?» Eddy si sentì a disagio di fronte alla divagazione sul dogma dei fondamentalisti. Ma se di quello voleva parlare l'uomo più intelligente del mondo, a lui stava bene. «Se non sono rinati... allora sì.» «E gli ebrei? I musulmani? I buddisti? Gli indù? Chi esita, chi cerca la verità, è perduto? Sono tutti dannati?» «Sì.» «Perciò la maggior parte delle persone che sta qui, su questa piccola palla di fango nel braccio esterno di una galassia di secondaria importanza, finirà all'inferno... tranne lei e un gruppetto di eletti che la pensano nello stesso modo?» «Deve capire che...» «Per questo le sto facendo domande, Russell: per capire. Ripeto: crede che Dio manderà all'inferno la maggior parte delle persone che vive sulla
Terra?» «Sì.» «Lo sa con certezza?» «Sì. Le Sacre Scritture lo confermano in più passaggi: "Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato".» Hazelius si girò verso il gruppo. «Signore e signori: vi presento un insetto, no anzi, un batterio, che presume di conoscere la mente di Dio.» Eddy divenne paonazzo. Il cervello per poco non prese a fumargli per lo sforzo di trovare una risposta. Il PR brutto di nome Ford si rivolse ad Hazelius. «Gregory, la prego, non vada in cerca di guai.» «Faccio solo qualche domanda, Wyman.» «Quello che fa è creare un problema.» L'uomo si voltò verso il responsabile della sicurezza. «Signor Wardlaw? Le chiedo di nuovo di accompagnare per cortesia il pastore Eddy all'uscita.» «Qui comanda il dottor Hazelius e io prendo ordini da lui» rispose questi pacato. «Signore?» si rivolse quindi a Russell Eddy. Hazelius non aprì bocca. Eddy non aveva terminato il discorso che si era preparato durante il viaggio. Era riuscito a tenere sotto controllo la rabbia e parlò con tono sicuro, glaciale, fissando dritto quegli occhi azzurri. «Lei crede di essere l'uomo più intelligente della Terra, ma quanto lo è in realtà? Tanto da credere che il mondo sia iniziato per caso da un'esplosione, da un Big Bang, e che tutti gli atomi si siano aggregati in modo accidentale generando la vita senza l'intervento divino? Quanto è intelligente tutto questo? Glielo dico io: tanto da spedirla diretto all'inferno. Lei fa parte di coloro che combattono la fede, lei e le sue empie teorie. Voi volete rinunciare al Paese cristiano creato dai nostri padri fondatori e trasformarlo nel tempio dell'umanismo laico ed edonista, in cui tutto è permesso: l'omosessualità, l'aborto, la droga, il sesso prematrimoniale, la pornografia. Adesso però sta raccogliendo quello che ha seminato. C'è già stato un suicidio. Ecco dove vi hanno condotti l'eresia e l'odio nei confronti di Dio. Al suicidio. E Dio vi colpirà ancora con la sua collera, Hazelius. "A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore".» Eddy si interruppe ansimando. Lo scienziato lo fissò con aria strana. Gli occhi gli brillavano gelidi, come due pezzi di ghiaccio. «È ora che se ne vada» affermò con voce stranamente strozzata. Eddy non replicò nulla.
«Mi segua» disse avanzando il nerboruto addetto alla sicurezza. «Non è necessario, Tony. Russell, qui, ha tenuto il suo piccolo sermone e sa che ormai è tempo di andarsene.» Wardlaw fece un altro passo verso di lui. «Non si preoccupi» si affrettò a dire Eddy. «Non vedo l'ora di uscire da questo luogo empio.» Quando la zanzariera si chiuse alle sue spalle, Eddy sentì una voce calma affermare: «Il batterio allunga il suo flagello per andarsene». Il pastore si girò improvvisamente, premette il viso contro la rete e gridò: «"Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi." Giovanni 8, 32». Si voltò di scatto e si avviò rigido verso il pick-up, con il lato sinistro del volto in preda a un tic per l'umiliazione e la rabbia folle, incontenibile. Capitolo 24 Ford guardò la sagoma ossuta del pastore attraversare a grandi passi il parcheggio in direzione di un vecchio e malridotto pick-up. Un uomo come quello, se avesse avuto abbastanza seguito, avrebbe potuto danneggiare il Progetto Isabella. Lo infastidiva molto che Hazelius lo avesse provocato e aveva la sensazione che non sarebbe affatto finita lì. Quando si voltò, lo scienziato stava guardando l'ora come se non fosse successo niente. «Siamo in ritardo» affermò brusco, prendendo il camice bianco da un gancio. «Andiamo» disse, guardandosi attorno, poi il suo sguardo si fermò su Ford. «Mi spiace, ma potrà restare solo per le prossime dodici ore.» «A dire il vero» replicò lui, «mi piacerebbe assistere a una prova.» Hazelius si infilò il camice e prese la valigetta. «Sono davvero spiacente, Wyman, ma non è possibile. Quando siamo giù nel Bunker per un test, ognuno ha il suo ruolo e tutto si deve svolgere in modo corretto. Non possiamo avere attorno persone nuove. Spero capisca.» «Anch'io sono davvero spiacente, Gregory, perché ritengo che per poter fare il mio lavoro debba assistere a una prova.» «Va bene allora, ma temo non a questa. Abbiamo parecchie difficoltà, siamo tutti sotto pressione e finché non risolveremo i problemi tecnici non possiamo avere estranei sul Ponte.» «Temo invece di dover insistere» replicò calmo Ford. Hazelius tacque e nella stanza calò subito un silenzio imbarazzato. «Perché deve assistere a un test per fare il suo lavoro?»
«Mi hanno assunto perché garantisca alla popolazione locale che Isabella è sicura. Non ho intenzione di fare niente finché non avrò verificato la situazione di persona.» «Sospetta sul serio che Isabella non sia sicura?» «Non mi baserò solo sulle testimonianze altrui.» Hazelius scosse lentamente la testa. «Devo poter dire ai navajo che partecipo a ogni parte del progetto, che niente mi viene tenuto nascosto.» «In qualità di responsabile della sicurezza» intervenne all'improvviso Wardlaw, «desidero informare il signor Ford che per ragioni di sicurezza non avrà accesso al Bunker. Fine del discorso.» Ford si girò verso di lui. «Non credo voglia che imbocchiamo questa strada, signor Wardlaw.» Hazelius scosse di nuovo il capo. «Wyman, la capisco perfettamente, davvero. Il problema è...» Kate Mercer lo interruppe. «Se hai paura che scopra il malware del sistema, non temere: sa già che c'è.» La fissarono tutti in un silenzio sgomento. «Gli ho raccontato tutto» proseguì la Mercer. «Ho ritenuto che dovesse sapere.» «Oh, fantastico!» esclamò la Corcoran, alzando gli occhi al cielo. «È un membro della squadra. Ha diritto di sapere. Garantisco io per lui al cento per cento. Non rivelerà il nostro segreto» replicò Kate voltandosi verso di lei. La Corcoran arrossì. «Credo che possiamo tutti leggere tra le righe del tuo discorsetto.» «Non è quello che pensi» ribatté fredda la Mercer. «E cosa sarebbe quello che penso?» disse lei con un sorrisetto. Hazelius si schiarì la gola. «Be', be'.» Girandosi verso Ford, gli posò senza astio una mano sulla spalla. «Quindi Kate le ha spiegato tutto.» «Sì.» Lui annuì. «D'accordo...» Sembrava intento a riflettere. Poi si voltò e sorrise a Kate. «Rispetto la tua opinione. Mi fiderò di te.» Poi, rivolto a Ford, disse: «So che è un uomo d'onore. Benvenuto nel gruppo, stavolta per davvero. Adesso conosce il nostro piccolo segreto». I suoi occhi azzurri erano inquietantemente penetranti. Ford cercò di controllare il rossore crescente. Lanciò un'occhiata a Kate e sussultò vedendo la sua espressione... di che cosa? Speranza? Attesa?
Non sembrava infuriata per il suo atteggiamento insistente. «Ne parleremo più tardi, Wyman.» Hazelius allontanò la mano dalla sua spalla e si girò verso Wardlaw. «Tony, sembra che il signor Ford assisterà al prossimo test.» Il responsabile della sicurezza non rispose. Rimase perfettamente impassibile, inespressivo, con lo sguardo fisso davanti a sé. «Tony?» «Sì, signore» rispose con voce tesa. «Capisco, signore.» Ford s'impose di guardarlo mentre passava. L'uomo ricambiò con uno sguardo freddo e vuoto. Capitolo 25 Ken Dolby osservò la grande porta di titanio del Bunker abbassarsi e chiudersi con un cupo tonfo. Sentì un alito d'aria umida sul viso: sapeva di grotta, roccia bagnata, componenti elettroniche surriscaldate, olio per macchine e polvere di carbone. La inalò. Era un odore inebriante, intenso: l'odore di Isabella. Gli scienziati si incamminarono in fila verso il Ponte. Dolby intercettò Hazelius mentre passava. «Si è accesa la spia del magnete 140» gli comunicò. «Niente di serio. Verifico subito.» «Quanto credi ci vorrà?» domandò Hazelius. «Meno di un'ora.» Il direttore del progetto gli diede una pacca affettuosa sulla schiena. «Fallo, Ken, e riferiscimi. Non accenderò Isabella finché non avremo tue notizie.» Dolby annuì. Restò nell'ampia caverna mentre gli altri scomparivano sul Ponte. La porta si chiuse con un rumore metallico che riecheggiò nello spazio immenso come un hangar. A poco a poco tornò il silenzio. Dolby inspirò ancora una volta quell'aria intensa. Aveva coordinato la squadra di progettazione di Isabella dirigendo una decina di ingegneri qualificati e quasi un centinaio di progettisti che lavoravano in appalto, incaricati di realizzare i sottosistemi e il computer centrale. Nonostante il numero elevato di persone, si era dimostrato saldo al comando e aveva preso parte a ogni operazione. Conosceva ogni centimetro quadrato di Isabella, ogni ghiribizzo e punto debole, ogni curva e ogni cavità. Isabella era la sua creatura, la sua macchina.
L'apertura ovale del tunnel, simile a una ciambella in sezione, riluceva di un tenue bagliore azzurro. Il fumo di condensa usciva serpeggiando e formava tentacoli che si allungavano ora di qua ora di là prima di evaporare. Poco oltre l'apertura, Dolby vedeva il grosso muro grigio-blu della schermatura di uranio impoverito, dietro il quale c'era CZero, il cuore pulsante di Isabella. CZero. La Coordinata Zero. In quel luogo minuscolo, non più grande di una capocchia di spillo, i fasci di materia e antimateria venivano fatti collidere alla velocità della luce per produrre un'esplosione di pura energia. Quando Isabella funzionava al cento per cento della potenza, era il luogo più caldo e luminoso dell'intero universo: un trilione di gradi. A meno che, pensò Dolby sorridendo, là fuori non ci fosse una razza di esseri intelligenti con un acceleratore di particelle più grande del suo. Supponeva non fosse possibile. La maggior parte dell'energia prodotta dall'esplosione di materiaantimateria a CZero veniva riconvertita istantaneamente in massa in base alla nota formula di Einstein E = mc2, e si trasformava in un getto stupefacente di singolari particelle subatomiche. Alcune di queste non vedevano la luce dalla creazione stessa dell'universo, avvenuta con il Big Bang, ossia da 13,7 miliardi di anni. Dolby chiuse gli occhi e immaginò d'essere uno dei protoni che circolavano nell'anello, più e più volte, accelerato dai supermagneti fino al 99,999 per cento della velocità della luce. Percorreva il circuito di settantacinque chilometri quattromila volte al secondo, più e più volte. Si vide precipitare nel tunnel curvo a una velocità inconcepibile, incrementata da ogni magnete (più di tre milioni di incrementi al secondo!). Immaginare tutto ciò lo elettrizzava. A poco più di un centimetro da lui, nel tubo, correva il fascio di antiprotoni che circolava nella direzione opposta e gli sfrecciava accanto alla stessa velocità. Immaginò il momento del contatto. Il suo fascio veniva costretto a collidere con quello opposto in uno scontro frontale a CZero. La materia colpiva l'antimateria alla velocità della luce. Mentre la particella arrivava a CZero, percepiva la collisione: l'annichilazione pura, assoluta, eccitante. Viveva la propria rinascita sotto forma di particelle nuove, singolari, che si spargevano in ogni direzione e impattavano nei numerosi strati di rilevatori che le catalogavano, contavano ed esaminavano. Dieci trilioni di particelle al secondo.
Dolby aprì gli occhi e smise di fantasticare, sentendosi vagamente un idiota. Controllò le tasche in cerca di monete o altri oggetti ferromagnetici e attraversò la zona di stazionamento diretto alla fila di veicoli elettrici da golf. I magneti superconduttori di Isabella erano migliaia di volte più potenti di quelli usati dalle apparecchiature per la risonanza magnetica: potevano conficcarti una monetina da cinque centesimi nel corpo o sventrarti con la fibbia dei pantaloni. Isabella era davvero molto pericolosa e richiedeva la massima prudenza. Si mise al volante. Premette un tasto, pigiò la frizione e inserì la prima. Lo aveva progettato lui stesso ed era un veicolo proprio grazioso. Faceva solo quaranta chilometri all'ora ed era costato quasi come una Ferrari Testarossa, dato che era costituito soltanto di materiali non magnetici: plastica, ceramica, metalli debolmente diamagnetici. Era dotato di un sistema di comunicazione, computer, sensori radar e dispositivi di controllo anteriori, laterali e posteriori, sensori di radiazioni, allarmi ferromagnetici e di un particolare vano antivibrazioni per il trasporto di delicati strumenti scientifici. Dolby accelerò sul pavimento di calcestruzzo ed entrò nell'apertura ovale del tunnel di Isabella. La svolta era stretta e si arrestò del tutto. «Ciao, Isabella.» Avanzò nel tunnel, procedendo accanto al fascio curvo di tubi, quindi aumentò la velocità mantenendo le ruote al loro interno. Tutto era inondato da una luce blu-verdastra che proveniva da due file di tubi fluorescenti appesi al soffitto. Mentre guidava spedito, guardò il tubo più grosso, una struttura lucente di lega di alluminio 7000, munito di flange e imbullonato ogni due metri. Dentro, c'era un vuoto più spinto di quello presente sulla superficie lunare. Doveva essere ermetico: un solo atomo vagante a CZero sarebbe stato come un cavallo imbizzarrito all'ippodromo di Daytona. Avrebbe causato una vera e propria catastrofe. Accelerò al massimo. Le ruote di gomma sibilavano nei solchi della pavimentazione. Ogni trenta metri incontrava un magnete, fissato al tubo a mo' di grossa ciambella. Super-raffreddati fino a quattro gradi e mezzo dallo zero assoluto, emanavano ciascuno una nube di fumo di condensa. Dolby sfrecciava attraverso la nebbiolina, lasciandosi dietro una serie di vortici. I tubi correvano via veloci. Superò diverse porte metalliche, disposte a distanze regolari sul lato sinistro, che davano accesso ai vecchi cunicoli della miniera. Uscite di emergenza, in caso di incidenti. Ma non si sarebbe verificato alcun inciden-
te. Quella era Isabella. Il magnete 140 si trovava a tredici chilometri di distanza: ci sarebbero voluti venti minuti. Non era niente di serio. Dolby era quasi contento del problema: gli piaceva stare solo con la sua macchina. «Non male» disse ad alta voce, «per il figlio di un meccanico di Watts, eh, Isabella?» Pensò al padre, capace di riprodurre qualsiasi motore d'auto sulla Terra. Non era mai riuscito a guadagnare più del necessario per sopravvivere ed era quasi un delitto che un meccanico come lui non avesse mai avuto alcuna possibilità. Dolby aveva voluto pareggiare i conti e l'aveva fatto. All'età di sette anni il padre gli aveva regalato un kit per costruire una radio. Gli era sembrato un miracolo: avvitare e saldare insieme pezzi qualsiasi di plastica o metallo, da cui poi era fuoriuscita una voce. A dieci anni aveva assemblato il primo computer; dopo, si era dedicato a un telescopio, che aveva dotato di un paio di chip CCD, fissato al computer e così aveva cominciato a seguire gli asteroidi. Con un vecchio cannone elettronico di un televisore aveva fabbricato un acceleratore da tavolo. Aveva così realizzato il sogno di qualsiasi alchimista, cosa che nemmeno a Isaac Newton era riuscita: aveva bombardato una lamina di piombo con elettroni trasformando alcune centinaia di atomi in oro. Suo padre, pace all'anima sua, spendeva tutti i dollari che gli restavano per comprargli kit, attrezzature e pezzi. Ken Dolby sognava di costruire la macchina più grande, luccicante e costosa mai concepita. E ora l'aveva costruita. La sua macchina era perfetta, anche se un bastardo aveva manomesso il software del computer. Comparve alla vista il magnete 140 e l'ingegnere frenò bruscamente fino a fermarsi. Prese un laptop speciale dal vano degli strumenti e lo inserì in un pannello a lato del magnete. Si accovacciò e iniziò a lavorare al computer parlando tra sé. Svitò una piastra metallica di fianco all'alloggiamento del magnete, e inserì un apparecchio con due fili, uno rosso e uno nero, nei terminali. Controllò il computer e si rabbuiò. «Be', che succede, qui?» La pompa criogenica che faceva parte del sistema isolante si stava guastando. «Sono contento d'averti scoperto in tempo.» Mise silenziosamente a posto gli strumenti, inserì il laptop nella valigetta di neoprene e si rimise al volante. Sganciò la radio dal cruscotto e pre-
mette un pulsante. «Dolby chiama Ponte.» «Qui Wardlaw» rispose una voce metallica proveniente dall'altoparlante. «Mi faccia parlare con Gregory.» Dopo un istante udì Hazelius in linea. «Potete avviare Isabella.» «L'allarme della temperatura elevata è ancora acceso sul quadro.» Silenzio. «Sai che non metterei mai a rischio la mia macchina, Gregory.» «Bene. Ora l'avvio.» «Dovremo installare un'altra pompa criogenica ma abbiamo tempo. Durerà ancora per altri due test.» Dolby interruppe la comunicazione, mise le mani dietro la testa e si rilassò sollevando i piedi sul cruscotto. In quello che all'inizio percepì come un silenzio assoluto cominciò a distinguere deboli rumori: il mormorio del sistema di aria forzata, il ronzio delle pompe criogeniche, il sibilo dell'azoto liquido che scorreva nei rivestimenti esterni, i flebili crepitii del motore del veicolo da golf che continuava a raffreddarsi, gli scricchiolii e i borbottii della montagna stessa. Dolby chiuse gli occhi e attese, poi si aggiunse un altro rumore. Era simile a un canto molto, molto sommesso, a uh brusio cupo e intenso. Isabella era stata accesa. Provò un ineffabile brivido di meraviglia, di riverente stupore all'idea di aver progettato una macchina capace di osservare il momento della Creazione. Una macchina che in effetti ri-creava il momento della Creazione. Una macchina-Dio. Isabella. Capitolo 26 Wyman Ford scolò gli ultimi fondi amari di caffè è guardò l'orologio: era quasi mezzanotte. Il test era stato lungo e noioso: una serie infinita di rettifiche e tentativi di riparazione, che si era protratta per ore e ore. Il sabotatore era uno di loro?, si chiese mentre li osservava lavorare. Hazelius gli si avvicinò. «Stiamo per far collidere i due fasci. Tenga d'occhio il Visualizzatore: lo schermo davanti a lei.» Lo scienziato sussurrò un comando e, dopo un istante, nel centro del monitor apparve un intenso punto luminoso, seguito da un tremolio di co-
lori che si irradiò verso l'esterno. Ford indicò il monitor con un cenno. «Che cosa rappresentano tutti quei colori?» «Il computer traduce la collisione delle particelle a CZero in immagini. Ogni colore rappresenta un tipo di particella, le bande indicano i livelli di energia, le forme che si irradiano le traiettorie delle particelle quando escono da CZero. È un modo che ci consente di osservare quello che succede senza dover manipolare numeri.» «Molto intelligente.» «È stata un'idea di Volkonskij.» Hazelius scosse afflitto la testa. «Potenza novantanove per cento» annunciò Ken Dolby con tono lento e ritmico. Hazelius sollevò la tazza vuota. «Ne vuole un altro?» Ford trasalì. «Perché non vi fate installare una macchina per il caffè espresso decente qua dentro?» Hazelius scoppiò in una risatina sommessa. Nella stanza erano tutti silenziosi, concentrati sui rispettivi compiti, tranne Innes che passeggiava su e giù senza niente da fare ed Edelstein, seduto in un angolo a leggere Finnegans Wake. I cartoni delle pizze surgelate che avevano mangiato a pranzo debordavano dal cestino dei rifiuti accanto alla porta. I segni delle tazze di caffè spiccavano sulle scrivanie e sulle superfici bianche; la bottiglia di Veuve Clicquot si trovava ancora accanto al muro. Erano state dodici lunghe ore: noia ottenebrante, interrotta da brevi momenti di attività frenetica, poi seguiti da altra noia. «Fascio continuo, collimato, luminosità quattordici virgola nove TeV» annunciò Rae Chen china sulla tastiera, con i capelli neri lucidi che ricadevano come una coltre sui tasti. Ford si mise a passeggiare sulla parte sopraelevata del Ponte. Mentre superava Wardlaw seduto alla sua postazione di controllo, colse un'occhiata vagamente ostile e rispose con un sorriso altrettanto gelido. L'uomo osservava e aspettava. Poi udì la voce calma di Hazelius. «Portala a novantacinque, Rae.» Nel silenzio della sala si avvertì il debole ticchettio di una tastiera. «Il fascio è sempre continuo» riferì la Chen. «Harlan? Com'è l'energia?» Spuntò il volto da folletto di St. Vincent. «Arriva come un'onda di marea: forte e uniforme.» «Michael?»
«Finora tutto a posto. Nessuna anomalia.» La serie mormorata di domande proseguì: Hazelius chiedeva a ciascuno di fare rapporto, poi ripeteva la procedura. Andavano avanti così da ore, ma ora Ford sentiva che finalmente l'attenzione stava crescendo. «Novantacinque per cento» annunciò Dolby. «Fascio continuo, collimato.» «Luminosità diciassette TeV.» «D'accordo, ragazzi, stiamo per entrare in territorio sconosciuto» affermò la Chen con le mani formicolanti su una serie di comandi. «Potremmo imbatterci in qualche mostro» disse lentamente Hazelius. Lo schermo era inondato di colore, sembrava un fiore che sbocciava all'infinito. Ford lo trovava ipnotico. Guardò Kate. Lavorava silenziosa in disparte su un Power Mac connesso alla rete, utilizzando un programma che riconobbe essere il Wolfram Mathematica. Il monitor mostrava un oggetto di forma piuttosto complessa, ripiegato internamente. Si avvicinò e lo guardò attentamente al di sopra della sua spalla. «Ti ho interrotto?» Lei sospirò e si girò. «Non del tutto. Avevo comunque intenzione di chiuderlo e assistere alla fase finale.» «Che cos'è quello?» chiese, indicando con un cenno lo schermo. «Uno spazio di Kaluza-Klein a undici dimensioni. Sto effettuando alcuni calcoli sui buchi neri in miniatura.» «Ho sentito che Isabella potrebbe avere la potenzialità di creare energia utilizzando buchi neri in miniatura.» «Sì. È uno dei nostri progetti, se mai riusciremo a farla funzionare.» «Come potrebbe fare?» Ford la vide lanciare un'occhiata nervosa ad Hazelius. I loro occhi si incrociarono per un solo istante. «Be', pare che Isabella sia abbastanza potente da creare buchi neri in miniatura. Stephen Hawking ha dimostrato che dopo alcuni trilionesimi di secondo questi evaporano liberando energia.» «Vorrai dire, esplodono.» «Sì. L'idea è che forse se ne potrebbe sfruttare in qualche modo l'energia.» «Quindi c'è la possibilità che Isabella crei un buco nero e che poi questo esploda?» Kate fece un gesto con la mano. «Non esattamente. I buchi neri che potrebbe creare, se mai ne sarà in grado, sarebbero troppo piccoli per poter
evaporare in un trilionesimo di secondo e libererebbero un'esigua quantità di energia, diciamo, sufficiente a far scoppiare una bolla di sapone.» «Ma l'esplosione potrebbe essere più intensa?» «È molto improbabile. Immagino sia possibile che il buco nero, in caso permanga, ipotizziamo, alcuni secondi, acquisti una massa maggiore e... poi esploda.» «Quanto grande sarebbe l'esplosione?» «Difficile a dirsi. Probabilmente pari a una piccola bomba nucleare.» La Corcoran si spostò furtiva, avvicinandosi a Ford. «Ma questo non è nemmeno lo scenario più preoccupante» disse. «Melissa.» La cosmologa guardò Kate inarcando le sopracciglia e assumendo un'aria innocente. «Credevo non nascondessimo niente a Wyman» osservò voltandosi verso di lui. «La possibilità davvero inquietante è che Isabella crei un buco nero in miniatura perfettamente stabile, nel qual caso si sposterebbe verso il centro della Terra e lì rimarrebbe ingoiando sempre più materia finché... krrrrch! Addio bel pianetino.» «Potrebbe accadere?» domandò Ford. «No» rispose irritata Kate. «Melissa ti sta solo prendendo in giro.» «Novantasette per cento» annunciò Dolby. «Luminosità diciassette virgola nove TeV.» Ford abbassò la voce. «Kate... Non pensi che anche la minima eventualità che possa verificarsi sia un rischio eccessivo? Stiamo parlando della distruzione della Terra.» «Non si possono tarpare le ali alla scienza in nome di qualche remota anche se plausibile eventualità.» «Ma non t'importa?» Lei si accalorò. «Maledizione, Wyman, certo che m'importa. Anch'io vivo su questo pianeta. Pensi che correrei un rischio del genere?» «Se la probabilità non è esattamente zero, stai già correndo il rischio.» «La probabilità è zero.» Kate si girò sulla sedia, dandogli bruscamente le spalle, Ford si raddrizzò e notò che Hazelius lo stava ancora guardando. Lo scienziato si alzò e gli si avvicinò con un sorriso sereno. «Wyman? Lasci che la rassicuri spiegandole un piccolo particolare: se i buchi neri in miniatura fossero stabili, li vedremmo dappertutto in qualità di residui del Big Bang. Anzi, ce ne sarebbero così tanti che avrebbero già inghiottito tutto. Pertanto, il fatto che esistiamo è la dimostrazione che i
buchi neri in miniatura sono instabili.» La Corcoran abbozzò un sorrisetto, contenta dell'effetto ottenuto dalla sua intromissione. «Non credo mi abbia convinto appieno.» Hazelius gli mise una mano sulla spalla con fare confortante. «È impossibile che Isabella crei un buco nero in grado di distruggere la Terra. Semplicemente non può accadere.» «L'energia è costante!» esclamò St. Vicent. «Fascio collimato. Luminosità diciotto virgola due TeV.» Il mormorio nella stanza era aumentato. Ford udì un nuovo rumore: un canto debole, lontano. «Lo sente?» domandò Hazelius. «È il suono di trilioni di particelle che corrono all'interno di Isabella. Non sappiamo con certezza perché lo emetta: i fasci si trovano in una condizione di vuoto. Generano una vibrazione riflessa, che viene trasmessa dai campi magnetici.» Sul Ponte l'atmosfera era sempre più tesa. «Ken, portala a novantanove e mantienila in questa condizione» disse Hazelius. «D'accordo.» «Rae?» «Luminosità poco più di diciannove TeV, in aumento costante.» «Harlan?» «Continua e regolare.» «Michael?» «Nessuna anomalia.» Wardlaw parlò dalla sua postazione, dal lato opposto della sala. La sua voce suonò molto forte in quel clima sommesso. «C'è un intruso.» «Cosa?» Hazelius si raddrizzò, stupefatto. «Dove?» «Accanto al recinto perimetrale a nord, vicino all'Ascensore. Ora controllo meglio.» Hazelius gli si avvicinò e anche Ford lo raggiunse in fretta. Su un monitor si materializzò l'immagine della base del recinto, ripresa da una telecamera fissata a un montante al di sopra dell'Ascensore. Mostrava un uomo che camminava irrequieto lungo il recinto. «Riesci a inquadrarlo più da vicino?» Wardlaw azionò un interruttore e comparve una nuova immagine, ripresa da una telecamera alla stessa altezza del recinto. «È quel predicatore!» esclamò Hazelius.
Russell Eddy, sparuto come uno spaventapasseri, si fermò e si aggrappò alla rete metallica, sbirciando all'interno con aria accigliata e sospettosa. Alle sue spalle la luna gettava una luce verdastra sulla brulla mesa. «Me ne occupo io» disse Wardlaw alzandosi. «Lei non farà niente» replicò Hazelius. «Sta per scavalcare.» «Lo lasci perdere. È innocuo. Se cercherà di superare il recinto, gli parlerà attraverso gli altoparlanti e gli dirà di levarsi di torno.» «Sì, signore.» Hazelius si voltò. «Ken?» «La mantengo costante a novantanove.» «Come va con il computer centrale, Rae?» «Finora è tutto a posto. Tiene il passo con il flusso di particelle.» «Ken, aumentala di un decimo.» Il fiore sullo schermo brillò, tremolò e si ingrandì assumendo tutti i colori dell'arcobaleno. Ford fissò incantato il monitor. «Comincio a notare una lievissima traccia di quella risonanza» annunciò Michael Cecchini. «È potente.» «Aumentala di un altro decimo» disse Hazelius. Il fiore che si contorceva sullo schermo assunse una tonalità più intensa e due vaghi lobi lucenti comparvero a lato del centro per allungarsi rapidi verso l'esterno come due mani tese. «Tutta la rete elettrica funziona» disse St. Vincent. «Aumenta di un decimo» ordinò Hazelius. La Chen batté sulla tastiera. «Inizio a vederla: una curvatura estrema dello spazio-tempo a CZero.» «Aumenta di un decimo.» Il tono di Hazelius era calmo e deciso. «Eccolo!» esclamò la Chen e la sua voce riecheggiò sul Ponte. «Lo vedi?» chiese Kate a Ford. «Quel puntino nero proprio a CZero. È come se il getto di particelle uscisse per un istante e poi rientrasse nel nostro universo.» «Ventidue virgola cinque TeV» Persino la serafica Chen sembrava agitata. «Novantanove virgola quattro, costante.» «Aumenta di un decimo.» Il fiore si contorse, si piegò, emettendo spruzzi e aloni colorati. Il buco nero al centro si ingrandì e i suoi bordi presero a ondeggiare in modo irregolare. La risonanza balzò d'un tratto in avanti, oltre i lati dello schermo.
Ford scorse una goccia di sudore colare sulla guancia di Hazelius. «Quella è la fonte del getto di particelle cariche a ventidue virgola sette TeV» disse Kate Mercer. «A quanto sembra in quel punto distruggiamo la brana.» «Aumenta di un decimo.» Il buco crebbe pulsando in modo strano come un cuore che batte. Nel centro era nero come la notte. Ford lo fissò, quasi ipnotizzato. «Curvatura infinita a CZero» disse la Chen. Il buco era diventato tanto grande da inghiottire gran parte del centro del monitor. Ford vide d'un tratto alcuni lampi nell'abisso: sembrava un banco di pesci che sfreccia veloce in acque profonde. «Come reagisce il computer?» chiese brusco Hazelius. «Comincia l'effetto neve» rispose la Chen. «Aumenta di un decimo» disse lui con voce bassa. Le neve si infittì. Nella strana melodia di sottofondo, che era aumentata d'intensità costantemente, era comparso ora un suono armonico sibilante, simile al soffio di un serpente. «Il computer è strano» annunciò tesa la Chen. «Come può essere?» «Guardate.» Si erano radunati tutti davanti al grande schermo. Tutti tranne Edelstein che continuava a leggere. Qualcosa si stava materializzando nel buco centrale: minuscole scaglie e lampi di colore sciamavano sempre più veloci, sgorgavano luccicanti da profondità infinite e prendevano forma. Era una visione tanto bizzarra che Ford ebbe la sensazione che il suo cervello non la interpretasse nel modo corretto. Hazelius avvicinò a sé la tastiera e batté un comando. «Isabella ha problemi a gestire il bitstream. Rae, interrompi le routine di checksum... questo dovrebbe liberare la componente principale del computer.» «Aspetta!» esclamò Dolby. «È il nostro primo sistema d'allarme.» «È un backup di un backup. Rae? Fallo.» La Chen batté vigorosamente il comando sulla sua tastiera. «Il computer è sempre strano, Gregory.» «La penso come Ken: credo debba ripristinare le routine di checksum» osservò Kate. «Non ancora. Aumenta di un decimo, Ken.» Ci fu un attimo di esitazione. «Aumenta di un decimo!»
«Va bene» rispose titubante Dolby. «Harlan?» «L'energia è intensa, forte, regolare.» «Rae?» La voce della Chen era acuta. «Sta succedendo di nuovo. Il computer sta facendo scherzi, proprio com'era successo con Volkonskij.» Il luccichio aumentò. «I fasci sono ancora collimati. Luminosità ventiquattro virgola nove. Sono concentrati, a posto.» «Novantanove virgola otto» disse la Chen. «Aumenta di un decimo.» «Gregory, sei sicuro...?» Dolby, in genere laconico, apparve insolitamente teso. «Aumenta di un decimo!» «Sto perdendo il computer!» esclamò la Chen. «Lo sto perdendo. Sta succedendo di nuovo.» «Non è possibile. Aumenta di un decimo!» «Ci avviciniamo a novantanove virgola nove» annunciò Rae con un lieve tremito nella voce. Il fischio si era fatto più acuto. «Portala al novantanove virgola cinque.» «È andato! Non accetta più input!» La Chen gettò indietro la testa e i capelli le ricaddero sulle spalle come una nube scura e minacciosa. Ford rimase con gli altri, proprio alle spalle di Hazelius, Cecchini, Chen e St. Vincent, che erano incollati alle rispettive tastiere. L'immagine, la cosa al centro del Visualizzatore aveva assunto una dimensione solida e brillava a ritmo sempre più intenso: lingue di porpora e rosso intenso si allungavano per poi ritrarsi. Era tutto un vortice di colori tridimensionali. Sembrava quasi viva. «Mio Dio» ansimò senza volere Ford. «E quello cosa sarebbe?» «Slag code» rispose secco Edelstein senza nemmeno alzare lo sguardo dal libro. Il Visualizzatore divenne nero. «Oh no, Dio no» gemette Hazelius. Nel centro dello schermo comparve una parola: Salve. Hazelius diede uno strattone alla tastiera. «Figlio di puttana!» «Il computer è bloccato» annunciò la Chen. Dolby si girò verso di lei. «Abbassa immediatamente la potenza, Rae.» «No!» Hazelius si voltò verso di lui. «Aumenta al cento per cento!»
«Sei impazzito?» urlò Dolby. Hazelius si calmò immediatamente. «Ken, dobbiamo individuare il malware. Sembra un programma bot: si muove! Non è nel computer centrale. Perciò dov'è? I rilevatori sono dotati di microprocessori: si sposta al loro interno e questo significa che possiamo trovarlo. Possiamo isolare l'output di ciascun rilevatore e individuarlo. Ho ragione, Rae?» «È un'idea geniale.» «Per amor di Dio» esclamò Dolby con il volto madido di sudore, «stiamo procedendo alla cieca. Se i fasci perdessero la collimazione, potrebbero penetrare fin qui e farci saltare tutti in aria, per non parlare del fatto che finirebbero in fumo duecentocinquanta milioni di dollari di rilevatori.» «Kate?» «Sono con te, Gregory.» «Portala a cento, Rae» ordinò impassibile Hazelius. «D'accordo.» Dolby si buttò verso la tastiera ma l'altro gli si parò davanti bloccandolo. «Ken» affermò questi, «ascoltami. Se il computer doveva andare in tilt, sarebbe già successo. Il software di controllo funziona ancora. È solo che non riusciamo a vederlo. Dammi dieci minuti per fare questa verifica.» «Assolutamente no.» «Cinque minuti, allora. Ti prego. Non è una decisione arbitraria. Il vicedirettore del progetto è d'accordo con me. Siamo noi i responsabili.» «Nessuno è responsabile della macchina tranne il sottoscritto.» Dolby lo fissò respirando affannosamente, poi guardò la Mercer e si girò con le mani chiuse a pugno sui fianchi. «Kate? Proveremo a fare quello di cui abbiamo parlato: digita una domanda, una qualsiasi. Vediamo se riusciamo a indurlo a parlare» aggiunse Hazelius. «Che accidenti di senso ha fare domande?» esclamò Dolby. «È un programma bot.» «Forse possiamo risalire alla fonte tramite l'output. Risalire alla bomba logica.» Dolby lo fissò. «Rae» affermò Hazelius, «se emette output, passa in rassegna i rilevatori in cerca del segnale.» «Intesi.» La Chen balzò in piedi per raggiungere un'altra postazione, dove iniziò a digitare su una tastiera. Gli altri rimasero quasi paralizzati, come sotto shock. Ford notò che E-
delstein aveva finalmente posato il libro e stava a guardare con un'aria di distaccato interesse dipinta sul volto. Hazelius e Dolby continuarono imperterriti la loro disputa. Il primo bloccò l'accesso ai comandi di regolazione della potenza. Salve a te, scrisse Kate. Lo schermo sopra la console tremolò e si oscurò, poi apparve una risposta: Sono contento di parlarti. «Risponde!» gridò Kate. «L'hai rintracciato, Rae?» urlò Hazelius. «Sì» rispose lei eccitata. «Ho una segnalazione sullo stream di output. Avevi ragione, viene da un rilevatore! Eccolo! Ce l'abbiamo! Continua!» Anch'io sono contenta di parlarti, digitò Kate. Che accidenti devo dire? «Chiedigli chi è» rispose Hazelius. Chi sei?, scrisse lei. In mancanza di un termine migliore, sono Dio. Hazelius sbuffò con aria di scettico scherno. «Questi coglioni di hacker!» Se sei davvero Dio, batté Kate, dimostralo. Non abbiamo molto tempo per le dimostrazioni. Sto pensando a un numero tra uno e dieci. Qual è? Stai pensando al numero trascendente e. Kate allontanò le dita dalla tastiera e si appoggiò alla sedia. «Come sta procedendo, Rae?» le gridò Hazelius. «Lo sto rintracciando! Continua a scrivere!» Kate raddrizzò le spalle e si protese per scrivere nuovamente. Adesso sto pensando a un numero tra zero e uno. È il numero di Chaitin: omega. A quel punto la Mercer si alzò di scatto e indietreggiò dalla tastiera con la mano sulla bocca. «Che c'è?» domandò Ford. «Continua a scrivere!» gridò la Chen dalla sua posizione china. Rate scosse la testa, pallida in volto, e sempre tenendo la mano sulla bocca si allontanò dalla macchina. «Perché diavolo qualcuno non immette input!» urlò la Chen. Hazelius si girò verso Ford. «Prenda lei il posto di Kate.» Ford si avvicinò alla tastiera. Se sei Dio, allora... che cosa poteva chiedere? Scrisse in fretta: Qual è lo scopo dell'esistenza? Non conosco il fine ultimo.
«Lo sto rintracciando!» gridò Rae. «Eccolo! Continuate in questo mondo!» Interessante, scrisse a Ford, un Dio che non conosce lo scopo dell'esistenza. Se lo conoscessi, l'esistenza sarebbe priva di senso. Perché? Se la fine dell'universo fosse presente nel suo inizio, se ci trovassimo semplicemente al centro di un divenire deterministico di una serie di condizioni iniziali, allora l'universo sarebbe un'opera priva di senso. «D'accordo» disse Dolby con tono basso e minaccioso. «Tempo scaduto. Rivoglio indietro Isabella.» «Ken, ci serve più tempo» affermò Hazelius. Dolby cercò di superarlo, ma lo scienziato lo fermò. «Non ancora.» «Ci siamo quasi!» gridò la Chen. «Santo cielo, dammi ancora un minuto soltanto!» «No!» replicò Dolby, «adesso abbasso la potenza!» «Non adesso» ribatté Hazelius. «Maledizione, Wyman, continui a scrivere!» Spiegati, digitò in fretta Ford. Se sei a destinazione, perché intraprendere il viaggio? Se conosci la risposta, perché fare la domanda? Per questo il futuro è, e dev'essere, profondamente oscuro, persino a Dio. Altrimenti l'esistenza non avrebbe significato. È un'argomentazione metafisica, non fisica, osservò Ford. L'argomentazione fisica è che nessuna parte dell'universo può calcolare le cose più rapidamente dell'universo stesso. L'universo «predice il futuro» il più rapidamente possibile. Dolby tentò di nuovo di superare Hazelius, ma quest'ultimo schizzò di lato e lo bloccò. «Continua a emettere output. Ci sono quasi!» strillò Rae che, abbassata sulla tastiera, continuava a digitare freneticamente. Che cos'è l'universo?, scrisse Ford scegliendo domande a caso. Chi siamo noi? Cosa facciamo qui? Dolby spiccò un balzo e spintonò Hazelius di lato, che arretrò barcollando ma recuperò alla svelta l'equilibrio e afferrò l'ingegnere per la schiena strappandolo dalla console con una forza sovrumana. «Sei impazzito?» urlò Dolby cercando di scrollarselo di dosso. «Danneggerai la mia macchina!»
I due si azzuffarono. Il minuscolo fisico stava aggrappato alla robusta schiena dell'ingegnere come una scimmia. Poi caddero pesantemente a terra rovesciando la sedia con gran fragore. Gli altri rimasero immobili, scioccati dalla rissa. Nessuno sapeva come comportarsi. «Pazzo bastardo!» gridò Dolby rotolando sul pavimento e cercando di liberarsi dal fisico che gli si era avvinghiato addosso. La bomba logica continuava a emettere output sul Visualizzatore. L'universo è un calcolo immenso, irriducibile, in continuo sviluppo, che sta evolvendo verso uno stato che non conosco e non posso conoscere. Lo scopo dell'esistenza è raggiungere questo stato finale, che tuttavia è un mistero per me. Così dev'essere, altrimenti se conoscessi la risposta, quale sarebbe lo scopo di tutto? «Lasciami andare!» urlò Dolby. «Qualcuno mi aiuti» gridò Hazelius. «Non permettetegli di toccare quella tastiera!» Che cosa intendi per calcolo?, scrisse Ford. Ci troviamo tutti all'interno di un computer? Per calcolo intendo pensiero. L'intera esistenza, tutto ciò che accade, una foglia che cade, un'onda sulla spiaggia, il collassare di una stella, sono solo io che penso. «Ce l'ho!» esclamò trionfante la Chen. «No... aspettate! Che diavolo,..?» Che cosa pensi?, digitò Ford. Con un ultimo strattone Dolby si liberò da Hazelius e si buttò sulla console. «No!» gridò il fisico. «Non spegnerla! Aspetta!» Dolby si appoggiò allo schienale con il respiro affannoso. «Sequenza di riduzione della potenza avviata.» Il sibilo che riempiva la stanza si attutì e lo schermo davanti a Wyman tremolò. Un istante dopo le parole si dissolsero. Riuscì solo a scorgere brevemente una misteriosa sagoma fluttuare verso l'alto e scomparire in un punto al centro del monitor, dopodiché si oscurò completamente. Hazelius scrollò le spalle, si sistemò i vestiti e si tolse la polvere di dosso, poi si voltò verso la Chen e parlò con voce calma. «Rae? L'hai identificato?» Lei lo fissò inespressiva. «Rae?» «Sì» disse. «L'ho identificato.»
«Allora? Da quale processore arriva?» «Da nessuno.» Nella stanza calò il silenzio. «Cosa vuol dire nessuno?» «Proveniva da CZero stessa.» «Cosa stai dicendo?» «È così. L'output proveniva direttamente dal buco nello spazio-tempo a CZero.» In un silenzio sbigottito, Ford si guardò attorno in cerca di Kate. La trovò in piedi, perfettamente immobile in fondo al Ponte. Si affrettò a raggiungerla e le chiese con voce sommessa: «Kate? Stai bene?». «Lo sapeva» rispose lei con un sussurro, bianca in volto. «Lo sapeva.» La sua mano cercò quella di lui e la strinse, tutta tremante. Capitolo 27 Il pastore Eddy uscì dalla roulotte con l'asciugamano in spalla e il necessario per radersi in mano. Fissò le scatole di vestiti ancora da controllare, arrivate in settimana. Da quando, a mezzanotte, si era recato sulla mesa non era più riuscito a dormire e aveva passato gran parte della notte online, sulle chat cristiane ancora attive a tarda ora. Azionò un paio di volte la pompa e raccolse l'acqua fredda con la mano per sciacquarsi, nel tentativo di riprendere i sensi. Sentiva un ronzio in testa per la mancanza di sonno. Si insaponò e si rase, pulì la lama del rasoio nella bacinella e gettò l'acqua nella sabbia. La osservò mentre veniva assorbita dal terreno; in superficie rimase solo qualche chiazza di schiuma. D'un tratto gli venne in mente il sangue di Lorenzo. In preda al panico, cercò di scacciare a forza l'immagine. Dio aveva castigato Lorenzo, non lui. Non era colpa sua: era la volontà di Dio, e Dio non faceva niente senza scopo. Lo scopo riguardava il Progetto Isabella e Hazelius. Hazelius. Si ritrovò a rivivere l'incontro del giorno prima. Al pensiero diventò paonazzo e presero a tremargli le mani. Continuava a ripetersi all'infinito quello che avrebbe potuto rispondergli: ogni volta il discorso si faceva più lungo, più eloquente, più pregno di un giusto risentimento. Hazelius gli aveva dato dell'insetto, del batterio davanti a tutti... perché era cristiano. Quell'uomo era la personificazione di tutto ciò che in America rappresentava il male, il sommo sacerdote del tempio dell'umanesimo
laico. Il suo sguardo vagò in direzione delle scatole di vestiti. Senza Lorenzo aveva molte più cose di cui occuparsi. Giovedì era il «giorno dei vestiti», ossia il giorno in cui distribuiva gratuitamente gli abiti ai navajo. Tramite Internet aveva stretto accordi con cinque o sei chiese dell'Arkansas e del Texas affinché raccogliessero abiti usati e glieli spedissero, in modo che potesse farne dono alle famiglie bisognose. Aprì la prima scatola con il temperino e cominciò a frugare tra quei miseri scarti estraendo una giacca qui, un paio di jeans là, per poi appenderli a una rastrelliera o stenderli sui tavoli di plastica della chiesa. Lavorò nel fresco del mattino rovistando, appendendo, piegando. Sullo sfondo si stagliava la gigantesca sagoma di Red Mesa, purpurea nella prima luce del giorno. I suoi pensieri però ruotavano sempre attorno ad Hazelius, a quant'era accaduto. Dio gli aveva mostrato ciò che poteva fare a un bestemmiatore come Lorenzo. Che cos'avrebbe fatto ad Hazelius? Russell sollevò lo sguardo e osservò il profilo della mesa che s'innalzava vagamente minaccioso sopra di lui, e si ricordò del buio della notte precedente, della desolazione, del vuoto. Del ronzio e del crepitio delle linee elettriche, dell'odore di ozono. Lassù sentiva davvero la presenza di Satana. Una nube di polvere all'orizzonte preannunciò l'arrivo di un veicolo. Il pastore socchiuse gli occhi ai raggi del sole e ben presto dal turbinio di polvere spuntò un pick-up, che avanzò sobbalzando e cigolando sulla strada piena di buche fino a fermarsi con un forte tremito. Ne uscì una grossa donna navajo, seguita da due bambini: il primo aveva una pistola di Guerre stellari, l'altro un Uzi di plastica. Corsero in tondo e finsero di spararsi. Russell li seguì con lo sguardo pensando a suo figlio che cresceva senza di lui, al che la rabbia che covava aumentò. «Ehi, pastore, come sta?» domandò allegra la donna. «La saluto in nome di Cristo, Muriel» rispose lui. «Che cos'ha oggi?» «Si serva pure.» I suoi occhi tornarono sui ragazzini, che stavano giocando con le armi di plastica, nascosti tra le chiazze di artemisia. Il campanello che aveva montato all'esterno della roulotte trillò, avvisandolo che all'interno stava squillando il telefono. Schizzò dentro e cercò il ricevitore tra le pile di libri. «Pronto?» rispose senza fiato. Non riceveva quasi mai telefonate. «Il pastore Russell Eddy? Sono il reverendo Don Spates.» «Buongiorno, reverendo Spates. La saluto in nome di...»
«Mi chiedevo se si fosse guardato un po' attorno, come le avevo chiesto.» «L'ho fatto, reverendo. Ieri notte sono salito sulla mesa. Le case e il villaggio erano completamente deserti. Le linee dell'alta tensione, tutte e tre, ronzavano cariche di energia. Avevo quasi i capelli ritti in testa.» «Davvero?» «Poi verso mezzanotte ho sentito una vibrazione o un suono simile a un sibilo provenire da sottoterra. È durato quasi dieci minuti.» «Ha scavalcato il recinto di sicurezza?» «Io... io non ho osato.» Si udì un grugnito e poi ci fu un lungo silenzio. Eddy udì arrivare altri pick-up e qualcuno che lo chiamava per nome. Lo ignorò. «Lasci che le spieghi il problema» disse Spates, «domani sera alle sei c'è il mio talk show, Roundtable America, e come ospite ho invitato un fisico della Liberty University. Mi serve assolutamente qualcosa di nuovo sul Progetto Isabella.» «Capisco, reverendo.» «Perciò, come le ho detto l'altro giorno, deve trovarmi qualcosa di buono. Lei è il mio contatto sul posto. Il suicidio va bene per cominciare, ma non basta. Ci serve qualcosa per spaventare la gente. Che cosa fanno veramente lassù? Ci sono perdite radioattive, come sostengono le voci che circolano? Faranno saltare in aria la Terra?» «Non so...» «Questo è il punto, Russell! Entri là dentro e lo scopra. Sconfini, violi le leggi dell'uomo per servire la legge di Dio. Conto su di lei!» «Grazie, reverendo. Grazie. Lo farò.» Dopo la telefonata, il pastore Eddy uscì nella luce intensa e si avvicinò alla zona in cui cinque o sei persone stavano frugando tra gli abiti, perlopiù madri con figli senza padre. Alzando le mani disse: «Amici miei, mi dispiace, ma devo chiudere... C'è stato un imprevisto». Ci fu un mormorio di delusione e lui si sentì male: sapeva che alcune di quelle mamme avevano percorso un bel pezzo di strada per arrivare fin lì nonostante il costo della benzina. Quando se ne furono andati, Russell appese un biglietto in cui spiegava che il giorno dei vestiti era stato annullato e salì sul pick-up. Guardò l'indicatore: un ottavo di serbatoio, la benzina non bastava per arrivare alla mesa e tornare indietro. Pescando nel portafoglio, trovò tre dollari. Ne doveva già duecento alla stazione di servizio di Blue Gap e altrettanti a quella di
Rough Rock. Avrebbe dovuto pregare di arrivare fino a Piñon e fare il pieno lì, sperando che gli aumentassero il credito. Era quasi certo che lo avrebbero fatto: i navajo sono disposti a prestarti denaro. Non aveva senso andare da Isabella durante il giorno: lo avrebbero visto. Ci sarebbe andato dopo il tramonto, avrebbe nascosto il pick-up dietro Nakai Rock e curiosato nei paraggi. Nel frattempo, a Piñon avrebbe forse potuto raccogliere altre informazioni sul suicidio dello scienziato. Fece un sospiro profondo, di soddisfazione. Dio infine lo aveva chiamato. Gregory North Hazelius, quel bilioso calunniatore di Cristo, andava fermato a tutti i costi. Capitolo 28 Seduto comodo in una vecchia poltrona di pelle nell'angolo della sala ricreativa, Wyman Ford osservò arrivare dal Bunker il resto della squadra, sfinito e demoralizzato. I primi raggi del sole erano spuntati obliqui all'orizzonte e filtravano dalle finestre a est, ammantando la stanza di luce dorata. Presero tutti posto con uno sguardo vitreo. Hazelius fu l'ultimo a entrare. Si avvicinò al caminetto e accese gli sterpi sotto la legna già preparata, poi anche lui si accasciò su una sedia. Rimasero per un po' in silenzio. L'unico rumore che si udiva era lo scoppiettare del fuoco. Alla fine Hazelius si alzò lentamente in piedi e tutti gli occhi si voltarono nella sua direzione. Il fisico li guardò in faccia uno a uno con gli occhi azzurri arrossati per la fatica e le labbra bianche per la tensione. «Ho un piano.» L'annuncio fu accolto dal silenzio. Un accumulo di linfa in un ciocco esplose, facendo trasalire per lo spavento l'intero gruppo. «Domani a mezzogiorno ci prepariamo per un altro test» proseguì, «al cento per cento della potenza. L'importante è questo: proseguiremo la prova finché non avremo rintracciato la fonte dello slag code.» Ken Dolby prese il fazzoletto e si asciugò il viso. «Ascolta, Gregory, stavi quasi per distruggere la mia macchina. Non posso permettere che si ripeta.» Hazelius chinò il capo. «Ken, ti devo le mie scuse. So che a volte esagero. Ero arrabbiato e deluso. Ho agito come un pazzo. Perdonami.» Gli tese la mano. Dopo un istante Dolby gliela strinse. «Amici?»
«Sì, certo» rispose Ken. «Ma questo non cambia il fatto che non permetterò altri test al cento per cento finché non avremo risolto il problema dell'hacker.» «E come suggerisci di risolverlo se non effettuiamo il test al cento per cento?» «Forse è venuto il momento di ammettere di aver fallito e riferire ogni cosa a Washington. Che se ne occupino loro.» Seguì un lungo silenzio, poi Hazelius parlò. «Qualcun altro vuol dire la sua?» Melissa Corcoran si girò verso Dolby. «Ken, se ammettiamo ora di aver fallito, getteremo le nostre carriere giù per il cesso. Non so voi, ma per me questa rappresenta l'occasione della vita. Per nulla al mondo ho intenzione di lasciarmela scappare.» «Qualcun altro?» chiese Hazelius. Rae Chen si alzò. Minuscola com'era, anche quand'era in piedi era poco più alta dei colleghi seduti; ciononostante quel gesto formale le conferì maggiore importanza. «Io.» I suoi occhi scuri passarono in rassegna tutto il tavolo. «Sono cresciuta nel retro di un ristorante cinese a Culver City, in California. Mia madre si è ammazzata di lavoro per mandarmi all'università e consentirmi di fare la specializzazione. È fiera di me perché ce l'ho fatta in questo Paese. Ora sono qui. Tutto il mondo ci sta a guardare.» La sua voce si ruppe. «Preferisco morire che rinunciare. Questo è quello che ho da dire. Preferisco morire.» Si risedette di scatto. Nel silenzio imbarazzato che seguì prese la parola Wardlaw. «So come funzionano le cose al DOE. Se comunichiamo ora il problema, ci accuseranno di aver tentato di coprirlo. Potrebbero scattare accuse penali.» «Accuse penali?» esclamò Innes dal fondo della stanza. «Per amor di Dio, Tony, non siamo assurdi.» «Sono molto serio.» «Questo è puro allarmismo.» Il pallore di Innes tradiva tuttavia la noncuranza del tono. I suoi occhi guizzarono di qua e di là attorno al tavolo. «E anche se fosse vero, sono solo lo psicologo della squadra. Non ho niente a che fare con la decisione di insabbiare informazioni.» «Sì, ma nemmeno lei ha segnalato il problema» osservò il responsabile della sicurezza, socchiudendo gli occhi. «Non si faccia illusioni, è nella stessa nostra barca.»
Nel silenzio si udì il cinguettio degli uccellini. «Qualcuno è d'accordo con Ken?» domandò infine Hazelius. «Di gettare la spugna e segnalare il problema a Washington?» Nessuno aprì bocca. Dolby si guardò attorno. «Pensate al rischio!» gridò. «Potremmo danneggiare Isabella! Non possiamo portarla al massimo della potenza e farla funzionare alla cieca!» «Questo è giusto, Ken» convenne Hazelius. «Il mio piano lo tiene in considerazione. Vuoi sentirlo?» «Sentirlo non significa essere d'accordo» replicò lui. «Certo. Come sai, le strutture del Progetto Isabella sono gestite da tre server IBM p5 595 di ultima generazione. Li hai richiesti tu stesso, Ken. Controllano le telecomunicazioni, le e-mail, la rete locale di computer e un mucchio di altre cose. Sono persino eccessivi dal punto di vista informatico: quei server sono abbastanza potenti da gestire l'intero Pentagono. La mia idea è riconfigurarli quali sistema di backup di Isabella.» Voltandosi verso Rae Chen chiese: «È possibile una cosa del genere?». «Credo di sì.» La Chen lanciò un'occhiata a Edelstein. «Alan, che ne pensi?» Lui annuì lentamente. «E come intendereste farlo?» chiese Dolby. «Il problema maggiore è il firewall» osservò la Chen. «Dovremo disattivare tutti i link verso l'esterno, comprese le telecomunicazioni. Non avremo più linee telefoniche fisse e cellulari a disposizione. Poi potremmo collegare i server, unirli direttamente a Isabella. È fattibile.» «Non potremo comunicare con l'esterno?» «No, finché Isabella sarà in funzione. Il firewall è invalicabile. Se il software che gestisce Isabella rileva un link con l'esterno, si disattiva per ragioni di sicurezza. Per questo dobbiamo tagliare tutte le comunicazioni.» «Ken?» Dolby tamburellò le dita sul tavolo, accigliato. Hazelius si guardò attorno. «Altri pareri?» Il suo sguardo cadde su Kate Mercer, seduta in fondo, estraniatasi dalla discussione. «Kate? Osservazioni?» Silenzio. «Kate? Stai bene?» La sua voce era a malapena udibile. «Lo sapeva.» Seguì un altro silenzio, poi la Corcoran affermò brusca: «Be', potrebbe
non essere stupefacente come sembra. Abbiamo chiaramente a che fare con un programma simile a Eliza. Qualcuno si ricorda di Eliza?». «Il vecchio programma Fortran degli anni Ottanta che parlava come uno psicoanalista?» domandò Cecchini. «Quello» rispose lei. «Il programma era semplice: trasformava tutto ciò che dicevi in un'altra domanda. Tu scrivevi: MIA MADRE MI ODIA ed Eliza rispondeva: PERCHÉ DICI CHE TUA MADRE TI ODIA? Era un programma banale che ha riscosso grande successo.» «Questo non è Eliza» affermò Kate. «Sapeva quello che stavo pensando.» «In realtà è piuttosto semplice» rispose Melissa guardandola disinvolta, con superiorità. «L'hacker che ha creato la bomba logica sapeva che siamo un gruppo di scienziati di spicco, giusto? Sapeva che non ragioniamo come persone comuni. Perciò quando tu hai detto: Sto pensando a un numero compreso tra uno e dieci, l'hacker aveva già previsto che qualcuno ponesse una domanda del genere. Immaginava che non pensassi necessariamente a un numero intero e nemmeno a un numero razionale: no, presumeva pensassi a tutti i numeri compresi tra uno e dieci. E qual è quello più interessante? O pi greco o e. Ma tra i due, e è il più misterioso.» Si guardò attorno raggiante per quella sua spiegazione. «E che mi dici dell'altro?» «Vale la stessa regola. Qual è in assoluto il numero maledettamente più strano tra zero e uno? Facile: il numero della probabilità di arresto di Chaitin, omega. Giusto, Alan?» Edelstein fece un cenno di assenso. Melissa rivolse a Kate un sorriso radioso, «Vedi?» «Stronzate.» «Oh, allora credi che stessimo parlando con Dio?» «Non essere sciocca» rispose lei irritata. «Tutto ciò che dico è che lo sapeva.» A quel punto intervenne Rae Chen. «Sentite, non voglio fare discorsi campati per aria, ma ho rintracciato l'output fino al centro di CZero. Non proveniva da un rilevatore né dall'hardware. Proveniva da quella strana data cloud all'interno della rottura dello spazio-tempo a CZero.» «Rae» intervenne Hazelius. «Sa? che non può essere vero.» «Ti sto semplicemente riferendo quello che ho visto. Quella data cloud stava sputando codici binari direttamente nei rilevatori. Inoltre, c'era un surplus di energia: da CZero usciva più energia di quanta non ne venisse
immessa. I calcoli sono qui» aggiunse avvicinando una cartellina piena di fogli ad Hazelius. «Impossibile. Non può succedere.» «Sì, be', allora fai tu i calcoli» rispose lei allargando le braccia. «Per questo dobbiamo ripeterlo» affermò Hazelius, «non sotto pressione, non con una scadenza. Dobbiamo fare un altro test che permetta a Rae di avere tutto il tempo necessario per individuare realmente la bomba logica.» «Durante il dialogo io ero bloccato alla console tre. Qualcuno ha una trascrizione? Vorrei leggere quello che il malware ha effettivamente prodotto» intervenne poi Edelstein. «Che importanza ha?» chiese Hazelius. «Sono solo curioso» rispose il matematico con una scrollata di spalle. Hazelius si guardò attorno. «Qualcuno lo ha per caso conservato?» «Devo averlo da qualche parte» affermò la Chen. «È stato stampato insieme ai dati del dump.» Frugò tra alcuni fogli e ne estrasse uno. Hazelius lo prese. «Leggi a voce alta» disse St. Vincent. «Anch'io me lo sono perso quasi tutto.» «Pure io» gli fece eco la Thibodeaux, seguita dagli altri. Hazelius si schiarì la voce e lesse con tono neutro: Salve. Salve a te. Sono contento di parlarti. Anch'io sono contenta di parlarti. Chi sei? In mancanza di un termine migliore, sono Dio. A quel punto Hazelius s'interruppe. «Quando metterò le mani su quel figlio di puttana che ha inserito questa bomba logica nel sistema, gli strapperò le palle.» La Thibodeaux scoppiò in una risata nervosa. «Come sai che non è una donna?» domandò sorridendo la Corcoran. Dopo un istante il fisico continuò. Se sei davvero Dio, dimostralo. Non abbiamo molto tempo per le dimostrazioni. Sto pensando a un numero tra uno e dieci. Qual è? Stai pensando al numero trascendente e. Adesso sto pensando a un numero tra zero e uno. È il numero di Chaitin: omega.
Se sei Dio, allora... qual è lo scopo dell'esistenza? Non conosco il fine ultimo. Bella cosa, un dio che non conosce lo scopo dell'esistenza. Se lo conoscessi, l'esistenza sarebbe priva di senso. Perché? Se la fine dell'universo fosse presente nel suo inizio, se ci trovassimo semplicemente al centro di un divenire deterministico di una serie di condizioni iniziali, allora l'universo sarebbe un'opera priva di senso. Spiegati. Se sei a destinazione, perché intraprendere il viaggio? Se conosci la risposta, perché fare la domanda? Per questo il futuro è, e dev'essere, profondamente oscuro, persino a Dio. Altrimenti l'esistenza non avrebbe significato. È un'argomentazione metafisica, non fisica. L'argomentazione fisica è che nessuna parte dell'universo può calcolare le cose più rapidamente dell'universo stesso. L'universo «predice il futuro» il più rapidamente possibile. Che cos'è l'universo? Chi siamo noi? Cosa facciamo qui? L'universo è un calcolo immenso, irriducibile, in continuo sviluppo, che sta evolvendo verso uno stato che non conosco e non posso conoscere. Lo scopo dell'esistenza è raggiungere questo stato finale, che tuttavia è un mistero per me. Così dev'essere, altrimenti se sapessi la risposta, quale sarebbe lo scopo di tutto? Che cosa intendi per calcolo? Ci troviamo tutti all'interno di un computer? Per calcolo intendo pensiero. L'intera esistenza, tutto ciò che accade, una foglia che cade, un'onda sulla spiaggia, il collassare di una stella, sono solo io che penso. Che cosa pensi? Hazelius abbassò infine il foglio. «Questo è quello che ha scritto.» «È davvero straordinario» mormorò Edelstein. «Mi sembrano sproloqui in stile New Age» osservò Innes. «Sono solo io che penso. Trovo siano considerazioni puerili, simili a quelle che ci si potrebbe aspettare da un hacker socialmente disadattato.» «Ne sei convinto?» domandò Edelstein. «Sì.» «Allora posso farti presente che il malware ha, almeno finora, superato il test di Turing?»
«Il test di Turing?» Edelstein lo guardò con sospetto. «Saprai di certo di cosa si tratta.» «Mi scuso se sono un semplice psicologo.» «Lo studio fondamentale sul test di Turing è stato pubblicato dalla rivista psicologica "Mind".» Innes assunse un'aria di professionale affabilità. «Forse, Alan, dovresti chiederti perché hai questo forte bisogno di autoapprovazione.» «Turing» proseguì lui, «è stato uno dei più grandi geni del Ventesimo secolo. Negli anni Trenta aveva concepito l'idea del computer. Durante la Seconda guerra mondiale ha craccato il codice tedesco Enigma. Dopo la guerra lo hanno spaventosamente bistrattato per la sua omosessualità e si è suicidato mangiando una mela avvelenata.» «Un soggetto gravemente instabile» commentò Innes. «Vuoi dire che gli omosessuali sono instabili?» «No, affatto, ovviamente no» replicò lo psicologo. «Mi riferivo al metodo che ha usato per suicidarsi.» «Turing ha salvato l'Inghilterra dai nazisti - i britannici avrebbero altrimenti perso la guerra - e l'Inghilterra lo ha ringraziato perseguitandolo crudelmente. Date le circostanze, non credo che il suicidio sia... illogico. Per quanto riguarda il metodo, era pulito, efficace, eloquente a livello simbolico.» Innes arrossì. «Sono sicuro, Alan, che sarebbero tutti contenti se arrivassi al punto.» Il matematico continuò pacato. «Il test di Turing ha cercato di rispondere alla domanda: Una macchina è in grado di pensare? Turing ha proposto quanto segue: un essere umano intraprende una conversazione scritta con due entità che non vede, un essere umano e una macchina. Se, dopo un lungo dialogo, non è in grado di distinguere l'uno dall'altra, questa entità viene definita "intelligente". Il test è diventato il metodo standard per valutare l'intelligenza artificiale.» «È tutto molto interessante» commentò lo psicologo, «ma che cosa ha a che fare con il nostro problema?» «Dal momento che non siamo riusciti a creare nulla che si avvicini all'intelligenza artificiale, nemmeno con i computer più potenti, trovo sorprendente che un semplice malware, presumibilmente composto da qualche migliaio di righe di slag code, abbia superato il test di Turing. Tanto più, su un argomento astratto come Dio e il significato della vita.» Indicando la trascrizione aggiunse: «Per questo non può essere definito puerile, non lo è
affatto». Incrociò le braccia e si guardò attorno. «Per questo dobbiamo effettuare un'altra prova» affermò Hazelius. «Dobbiamo farlo parlare in modo che Rae possa rintracciarne la fonte.» Tutti si accasciarono sulle proprie sedie. Nessuno proferì parola. «Allora?» domandò Hazelius. «Ho fatto una proposta. Ne abbiamo discusso. Mettiamola al voto: domani scoviamo la bomba logica?» Nella stanza ci furono cenni riluttanti e versi di vago assenso. «Domani è il giorno della cavalcata di protesta» osservò Ford. «Non possiamo rimandare oltre» rispose Hazelius guardandoli uno a uno negli occhi con aria molto risoluta. «Be'? Alzate le mani!» Le mani, una dopo l'altra, si alzarono. Dopo un attimo di esitazione Ford si unì agli altri. Solo quella di Dolby rimase abbassata. «Non possiamo fare senza di te, Ken» osservò calmo Hazelius. «Isabella è la tua creatura.» Ci fu un breve silenzio, poi Dolby imprecò. «Va bene, maledizione, ci sto!» «Il voto è unanime» affermò il fisico. «Inizieremo la prova domani a mezzogiorno. Se tutto andrà bene, al calar della sera raggiungeremo il cento per cento della potenza. Poi avremo tutta la notte per rintracciare e distruggere il malware. Adesso... andiamo a dormire un po'.» Mentre Ford attraversava il campo diretto a casa, la frase di Kate continuava a ronzargli in testa: Lo sapeva. Lo sapeva. Capitolo 29 Mentre tornava alla sua casita, Ford udì qualcuno chiamarlo per nome e si girò. Notò avvicinarsi la sagoma piccola e sottile di Hazelius. «I fatti della notte scorsa devono averla sconvolta parecchio» affermò il fisico, prendendo il suo passo. «È così.» «Cosa ne pensa?» Hazelius inclinò lievemente la testa e lo guardò di lato. Era come essere osservati attentamente al microscopio. «Credo che, non segnalando subito il problema, vi siate dati la zappa sui piedi.» «Quello che è fatto è fatto. Sono contento che Kate gliene abbia parlato. Non mi andava l'idea di ingannarla. Spero capirà perché non siamo stati franchi fin dall'inizio.» Ford assentì.
«So che ha assicurato a Kate che terrà la cosa per sé.» Dopodiché tacque in modo eloquente. Ford non osò parlare. Non si fidava più delle sue capacità di abile mentitore. «Ha un momento?» domandò Hazelius. «Vorrei mostrarle le rovine navajo più in alto nella valle, la fonte delle controversie. Così avremo modo di chiacchierare un po'.» Attraversarono la strada e seguirono un sentiero in mezzo ai pioppi neri che risaliva rapidamente il letto secco di un ruscello diramatosi da Nakai Wash. Ford sentì il corpo e i sensi riprendersi dopo la notte estenuante. Le pareti di arenaria si restrinsero da ambo i lati finché le curve e le ondulazioni create nella roccia dalle antiche piene furono tanto vicine da poter essere toccate. Un'aquila reale si librò oltre il bordo della gola con un'apertura alare larga quanto l'altezza di Ford. Si fermarono a guardarla. Quando, volteggiando, scomparve alla vista, Hazelius gli toccò la spalla e gli indicò la parte superiore del canyon. Sulla parete di arenaria, a circa quindici metri, si trovavano alcune rovine Anasazi, incuneate in una nicchia. Vi si accedeva per un antico sentiero scavato nella pietra. «Quand'ero giovane» esordì il fisico con voce sommessa, «ero uno stronzetto arrogante. Pensavo d'essere più brillante di tutti e credevo per questo di essere una persona migliore, più degna di quanti nascono con un'intelligenza normale. Non sapevo in cosa credevo e non m'importava. Andavo avanti a vivere la mia vita frenetica collezionando prove del mio valore: un Nobel, la Fields, lauree onorarie, encomi, soldi a palate. Vedevo gli altri come figuranti nel film in cui io ero l'attore protagonista. Poi ho incontrato Astrid.» Tacque quando raggiunsero l'inizio del vecchio sentiero che risaliva la parete. «Astrid è l'unica persona al mondo che abbia veramente amato. Mi ha liberato da me stesso. Poi se n'è andata. È morta tra le mie braccia, giovane e piena di vita. Dopo la sua scomparsa credevo che il mondo non esistesse più.» Hazelius si fermò. «È difficile parlarne con chi non l'ha provato.» «Io l'ho provato» disse Ford prima ancora di avere l'intenzione di farlo. Di nuovo lo spaventoso gelo della perdita gli avvolse come un manto il cuore e glielo stritolò. Hazelius si appoggiò con un braccio all'arenaria. «Ha perso sua moglie?»
Ford annuì. Si chiese perché ne stesse parlando con Hazelius quando non riusciva nemmeno ad aprirsi con lo strizzacervelli di turno. «Come ha affrontato la cosa?» «Non l'ho fatto. Sono scappato in un monastero.» Il fisico si avvicinò. «Lei è religioso?» «Io... non lo so. La sua morte ha scosso la mia fede. Dovevo capire da che parte stavo, in cosa credevo.» «E...?» «Più ci provavo, più le mie certezze vacillavano. È stato un bene scoprire che non avrei mai avuto una fede cieca, che non ero un vero credente dalla nascita.» «Forse nessuna persona razionale, intelligente può essere assolutamente certa della sua fede» osservò Hazelius. «O nel mio caso, della sua mancanza di fede. Chi lo sa, forse lassù esiste davvero il Dio di Eddy: vendicativo, sadico, genocida, pronto a bruciare tutti quelli che non credono in Lui.» «Quando sua moglie è morta, lei come ha affrontato la cosa?» domandò Wyman. «Ho deciso di donare qualcosa al mondo. Così, dato che ero un fisico, ho concepito l'idea di Isabella. Mia moglie era solita dire: Se la persona più intelligente della Terra non riesce a capire come siamo arrivati qui, allora chi può farlo? Isabella è il mio tentativo di rispondere a questa domanda... e a molte altre ancora. È la mia dichiarazione di fede.» In una piccola chiazza di luce Ford notò una lucertolina aggrappata alla parete. Da qualche parte sopra le loro teste l'aquila reale volteggiava ancora, emettendo i suoi versi acuti che riecheggiavano nella valle. «Wyman» proseguì Hazelius, «se questa faccenda dell'hacker saltasse fuori, distruggerebbe il Progetto Isabella, ci rovinerebbe la carriera e porterebbe la scienza americana indietro di una generazione. Lei lo sa, vero?» Ford non disse nulla. «Le chiedo dal profondo del cuore la cortesia di non divulgare la notizia finché non avremo avuto modo di risolvere il problema. Rovinerebbe tutti, compresa Kate.» Ford gli rivolse un'occhiata penetrante. «Sì, ho capito che tra voi c'è qualcosa» continuò il fisico. «Qualcosa di bello, di sacro, se mi permette di usare questo termine.» Se solo fosse vero, pensò Ford. «Ci dia altre quarantotto ore per risolvere il problema e salvare il Progetto Isabella. La supplico.»
Ford si chiese se quell'omino dall'intensa personalità sapesse o avesse capito la sua vera missione. Pareva quasi di sì. «Quarantotto ore» ripeté con voce fievole Hazelius. «D'accordo» rispose Wyman. «Grazie» disse il fisico con la voce roca per l'emozione. «Ora saliamo.» Ford si aggrappò ai gradini sopra di lui e seguì lentamente Hazelius lungo il sentiero insidioso. Gli agenti atmosferici avevano rovinato ed eroso i gradini e aveva difficoltà a mantenere l'equilibrio. Quando giunsero alle rovine, si fermarono sulla cengia davanti all'ingresso per riprendere fiato. «Guardi.» Hazelius indicò il punto in cui un antico abitante aveva steso uno strato di fango sul muro esterno di pietra. Era stato perlopiù smangiato, ma vicino all'architrave di legno erano rimasti impressi alcuni segni e impronte di mani. «Se osserva con attenzione, può vedere le spirali delle impronte digitali» affermò Hazelius. «Hanno mille anni ed è tutto ciò che resta di quell'essere umano.» Si voltò verso l'orizzonte blu. «Così è con la morte. Un giorno bang! e scompare tutto. Ricordi, speranze, sogni, case, amori, beni, soldi. Famigliari e amici versano qualche lacrima, tengono una cerimonia e proseguono la loro vita. Diventiamo una serie di fotografie sbiadite su un album. E poi quelli che ci hanno amato muoiono, e muoiono anche quanti li hanno amati a loro volta. Ben presto qualsiasi nostro ricordo svanisce. Avrà visto quei vecchi album di fotografie nei negozi di antichità, pieni di persone vestite secondo la moda del Diciannovesimo secolo: uomini, donne, bambini. Nessuno sa più chi siano, come l'individuo che ha lasciato questa impronta. Se n'è andato ed è stato dimenticato. Che senso ha?» «Vorrei poterle rispondere» disse Ford. Malgrado la calura crescente del giorno, rabbrividì mentre scendevano, toccato nel profondo dal senso della propria mortalità. Capitolo 30 Dopo essere entrato nella casita, Ford chiuse a chiave la porta, tirò le tende, estrasse la valigetta dal mobile e inserì la combinazione. Dormi, imbecille, dormi, gli gridava il suo corpo. Invece prese il portatile e il biglietto di Volkonskij. Era il primo momento libero che aveva per cercare di decifrarlo. Si sedette con le gambe incrociate sul letto, la schiena
appoggiata alla testiera di legno e il computer sulle ginocchia. Aprì un editor esadecimale e cominciò a immettere numeri e lettere in un file dati. Prima di poter essere analizzato, il codice esadecimale del misterioso biglietto doveva essere inserito. Poteva essere qualsiasi cosa: un programma informatico breve, un file dati, un file testo, una piccola immagine, le prime note della Quinta di Beethoven. Poteva persino essere una chiave segreta RSA, in tal caso sarebbe stato inutile dal momento che l'FBI aveva sequestrato il computer personale di Volkonskij. Ford si appisolò. Crollò in avanti e il computer gli cadde dalle ginocchia, facendolo riprendere di colpo. Allora si alzò e andò in cucina a farsi un caffè. Non dormiva da quasi quarantotto ore. Stava versando l'ultimo misurino nel filtro della caffettiera, quando sentì una fitta al ventre e pensò a tutto il caffè che aveva ingurgitato negli ultimi giorni. Mise da parte la caffettiera e frugò nell'armadietto. Sul fondo trovò una confezione di tè verde biologico. Prese due bustine, le lasciò in infusione per dieci minuti e poi tornò in camera da letto con la tazza di liquido verde. Mentre inseriva il resto del codice, tracannò il tè caldo e amaro. Voleva fare in fretta per poter dormire un po' prima di andare a Blackhorse per parlare un'ultima volta con Begay prima della cavalcata di protesta, ma la vista gli si offuscò mentre guardava ora lo schermo ora il foglio. Continuava a fare errori. Si impose a quel punto di rallentare. Alle dieci e trenta aveva finito. Appoggiò la schiena e controllò il file dati con il biglietto accanto. Sembrava a posto. Lo salvò, dopodiché attivò il modulo di conversione del file binario per codifica esadecimale. Il codice esadecimale apparve subito sotto forma di file binario, ossia un lungo blocco di zero e uno. Per una sorta di intuizione, attivò il modulo di conversione binarioASCII e con sua sorpresa sul monitor apparve un normale messaggio di testo. Congratulazioni, chiunque tu sia. Ah ah! Hai un QI lievemente più alto rispetto alla media degli idioti umani. Allora. Porto il mio culo ossuto via da questa gabbia di matti e me ne torno a casa. Mi piazzo davanti alla TV con una bottiglia di vodka ghiacciata e una canna e guardo le scimmie in gabbia picchiare contro le sbarre. Ah ah! E forse scriverò una lunga let-
tera a zia Natasha. Conosco la verità, stupidi che non siete altro. L'ho vista attraverso la follia. Per dimostrarlo, vi do soltanto un nome: Joe Blitz. Ah ah! P. Volkonskij Ford lesse due volte il biglietto e si appoggiò alla tastiera. Era incoerente e ossessivo, indicativo di qualcuno che stava a poco a poco perdendo il lume della ragione. A quale follia si riferiva? Al malware? A Isabella? Agli scienziati stessi? Perché aveva criptato il messaggio invece di lasciare semplicemente un biglietto? E Joe Blitz? Wyman digitò quel nome su Google e si ritrovò davanti a un milione di risultati. Passò in rassegna i primi, ma non trovò nessun palese collegamento. Prese il satellitare dalla valigetta e lo fissò. Aveva sviato Lockwood, no, gli aveva mentito. E adesso aveva promesso ad Hazelius di non fare parola del malware. Maledizione! Perché aveva creduto che dopo due anni di monastero sarebbe stato di nuovo in grado di calarsi nel vecchio gioco di menzogne e inganni della CIA? Almeno poteva riferire a Lockwood del biglietto. Forse lui aveva idea di chi fosse il misterioso Joe Blitz. Digitò quindi il numero. «Sono passate più di ventiquattro ore.» Lockwood rispose con tono irritato, senza preoccuparsi dei convenevoli. «Che cosa ha combinato?» «La notte scorsa ho trovato un biglietto nella casa di Volkonskij di cui pensavo volesse sapere.» «Perché non me ne ha parlato ieri?» «Era solo un pezzo di carta strappato con su scritto un codice informatico. Non ne immaginavo la portata. Poi però sono riuscito a decifrarlo.» «E allora? Che cosa dice?» Gli lesse il biglietto al telefono. «Chi diavolo è Joe Blitz?» domandò Lockwood. «Speravo lo sapesse lei.» «Chiederò al mio staff di controllare. Verificherò anche questa zia Natasha.» Ford ripose lentamente la cornetta del telefono. C'era un altro particolare che aveva notato: il biglietto non gli sembrava affatto scritto da un uomo
che aveva intenzione di suicidarsi. Capitolo 31 Dopo qualche ora di sonno e un pranzo fugace, Ford si diresse alla stalla. Aveva una questione importante da risolvere con Kate: lei era stata franca con lui e ora toccava a lui raccontarle la verità. La trovò intenta a riempire con un tubo la mangiatoia dei cavalli. Gli lanciò un'occhiata. Aveva ancora il volto pallido, quasi traslucido, per l'ansia. «Grazie per aver garantito per me» affermò lui. «Mi spiace averti messa in una situazione imbarazzante.» Lei scosse la testa. «Non importa. Sono sollevata di non doverti nascondere più niente.» Wyman rimase sulla soglia, cercando di trovare il coraggio di confessarle tutto. Non l'avrebbe presa bene, proprio per niente. Glielo avrebbe detto dopo, a cavallo. «Grazie a Melissa, tutti pensano che dormiamo insieme.» Kate lo guardò. «È una donna impossibile. Prima ha dato la caccia a Innes, poi a Dolby, ora a te. Quello di cui ha davvero bisogno è una buona scopata.» Abbozzando un flebile sorriso aggiunse: «Forse voi ragazzi dovreste tirare a sorte». «No, grazie.» Ford si accomodò su una balla di fieno. Nella stalla faceva fresco e l'aria era satura di granelli di polvere. Lo stereo portatile diffondeva ancora la musica dei Blondie. «Wyman, mi dispiace, non sono stata molto cordiale quando sei arrivato. Volevo dirti che sono contenta che tu sia qui. Non mi è mai piaciuto il modo in cui ci siamo lasciati.» «Non è stato un bel momento.» «Eravamo giovani e stupidi. Da allora io sono cresciuta parecchio... e intendo proprio parecchio.» Ford avrebbe voluto non aver letto il suo dossier, conscio di quanto avesse patito in quegli anni. «Anch'io.» Lei sollevò le braccia e le lasciò cadere. «E così siamo di nuovo qui.» Sembrava così piena di speranze, lì in piedi nella stalla polverosa con il fieno nei capelli. E così bella da togliere il fiato. «Ti va di fare una cavalcata?» le domandò. «Ho intenzione di tornare a
trovare Begay.» «Ho molto da fare...» «L'ultima volta siamo stati una buona squadra.» Kate si scostò i capelli e lo scrutò a lungo. «D'accordo» accettò infine. Sellarono i cavalli e partirono in direzione sud-ovest verso i promontori di arenaria, costeggiando il limite della valle. Kate cavalcava davanti. Il suo corpo sottile si adattava abilmente al cavallo: ondeggiava insieme all'animale con un movimento ritmico, quasi erotico. Calcato in testa, portava un cappello da cowboy tutto logoro e i capelli neri le fluttuavano nel vento. Dio, come faccio a dirglielo? Quando si avvicinarono all'orlo della mesa, là dove la Pista di mezzanotte si inabissava nella spaccatura, Ford le si accostò. Si fermarono a sei metri dal precipizio. Kate stava fissando l'orizzonte con aria preoccupata. Il vento soffiava a folate dal basso, sollevando una nebbiolina invisibile di terriccio. Ford sputò e si mosse sulla sella. «Stai ancora pensando a quello che è successo ieri notte?» le domandò. «Non riesco a levarmelo dalla testa. Wyman, come ha potuto indovinare quei numeri?» «Non lo so.» Osservò il vasto deserto rosso che si srotolava fino alle montagne e a spazi infiniti ammantati di nubi. «Guardando tutto questo» mormorò, «non è difficile credere in Dio. Voglio dire, chi lo sa? Forse stiamo parlando proprio con Lui.» Gettò indietro i capelli. Era una Kate molto diversa dall'atea accanita che aveva conosciuto alla scuola di specializzazione. Si chiese di nuovo che cosa fosse accaduto in quei due anni di vuoto assoluto. Capitolo 32 Booker Crawley si cacciò un Churchill in bocca mentre si preparava a effettuare il suo tiro a snooker. Soddisfatto, colpì il pallino con decisione e osservò le biglie fare il loro dovere. «Bel tiro» commentò il compagno di gioco, osservando le tre biglie cadere nelle buche rivestite di pelle intrecciata. Dalle strette finestre si poteva scorgere il sole luccicare sul fiume. Era un piacevole giovedì mattina al Potomac Club e gran parte dei soci era al lavoro. Anche Crawley era al lavoro, o almeno così riteneva: intratteneva un
potenziale cliente che possedeva un'isola nei pressi di Capo Hatteras e voleva che il governo sborsasse venti milioni di dollari per costruire un ponte per collegarla alla terraferma. Un ponte del genere avrebbe raddoppiato, se non triplicato, gli investimenti fondiari. Per Crawley era una sciocchezza. Il giovane senatore della Carolina del Nord gli doveva un favore dopo quella vacanza-golf a St. Andrews ed era un uomo su cui si poteva contare sotto il profilo della lealtà e dei benefici extra. Una telefonata, uno stanziamento di fondi in un progetto di legge non attinente e Crawley avrebbe fatto guadagnare milioni all'immobiliarista, intascando nel contempo un compenso a sette cifre. Se l'Alaska poteva avere il suo ponte che la congiungeva al nulla, lo avrebbe avuto anche la Carolina del Nord. Crawley osservò l'immobiliarista prepararsi a tirare. Proveniva da quella particolare cerchia ristretta di sudisti dotati di tre nomi con numero romano finale. Safford, si chiamava, Safford Montague McGrath III. Discendeva da una vecchia e illustre stirpe scozzese-irlandese ed era l'esemplare del biondo e ben piantato nobile del Sud. In altre parole, era stupido come una capra. McGrath dava mostra della tipica sagacia di Washington, ma tutti capivano che era uno zoticone arrivato dalla campagna. Crawley aveva la sensazione che si sarebbe accapigliato per il compenso come un giocatore di football sulla linea della seconda iarda. Era il tipo che doveva terminare una trattativa con l'impressione di aver massacrato l'altra parte, altrimenti una volta a casa si sarebbe sentito privo di palle. «Allora come sta il senatore Stratham?» chiese McGrath come se conoscesse il vecchio bastardo. «Bene, proprio bene.» In quei giorni l'anziano si stava certamente godendo le sue pappe di piselli frullati e i suoi frullati di frutta con la cannuccia. In realtà, Crawley non aveva mai lavorato con il vecchio senatore Stratham: aveva rilevato la società, la Stratham & Co., quando questi era andato in pensione e acquisito così un'aura di rispettabilità, un legame con il buon tempo andato, che lo avevano ben presto distinto dagli altri lobbisti di K Street, spuntati come funghi dopo le ultime elezioni. Il tiro successivo di McGrath sfiorò l'angolo, passò lento davanti alla buca e proseguì sul feltro. L'uomo si raddrizzò con le labbra tese, senza dir nulla. Crawley avrebbe potuto farlo fuori a occhi chiusi ma sarebbe stato inopportuno. No: la strategia migliore era restare di poco in vantaggio fin quasi alla fine e poi perdere, per chiudere l'accordo quando l'altro fosse stato in preda all'esaltazione.
Finse di sbagliare di poco il colpo seguente, in modo che risultasse verosimile. «Bella mossa!» esclamò McGrath. Aspirò una boccata del suo sigaro, lo posò sul portacenere di marmo, si chinò e prese la mira, quindi tirò. Si considerava chiaramente un provetto giocatore di biliardo, ma non possedeva l'abilità per giocare a snooker. Ciononostante, il tiro era facile e la biglia andò in buca. «Uau» esclamò sorridente Crawley, «mi mette a dura prova, Safford.» Un dipendente entrò tenendo in equilibrio sulla mano un vassoio d'argento e porse un biglietto. «Signor Crawley?» Booker lo prese con fare teatrale. Il gestore del circolo, pensò sorridendo, usava ancora un sistema retrò in base a cui una schiera di negri correva in giro portando biglietti sui vassoi d'argento: faceva molto anteguerra. Ricevere un biglietto su un vassoio d'argento era tutt'altra cosa che armeggiare in cerca di un cellulare gracchiante. «Mi scusi, Safford.» Crawley aprì il biglietto e lesse: Delbert Yazzie, presidente, nazione Navajo, 11.35. Per favore, richiamare prima possibile. Quindi seguiva un numero. Quando corteggiava un potenziale cliente, Crawley amava lasciare intendere che ne aveva almeno uno più importante. Ti disprezzano se credono di essere i tuoi primi clienti. «Sono terribilmente spiacente, Safford, ma devo proprio fare una telefonata. Nel frattempo, ordini due martini per cortesia.» Si affrettò verso una delle vecchie cabine telefoniche di quercia presenti a ogni piano, vi si chiuse dentro e compose il numero. Dopo un istante riconobbe all'altro capo la voce di Delbert Yazzie. «Signor Booker Crawley?» La voce del navajo suonò debole, vecchia, tremolante, come se arrivasse dalla lontana Timbuctu. «Come sta, signor Yazzie?» Crawley mantenne un tono amichevole ma palesemente freddo. Silenzio. «Sembra sia accaduto qualcosa d'inatteso. Ha sentito di quel predicatore, Don T. Spates?» «Certo.» «Be', il suo sermone ha già causato un bel po' di scompiglio da queste parti, proprio tra la nostra gente. Come saprà, nella nazione Navajo sono presenti numerose attività missionarie. Adesso sono venuto a sapere che potrebbe causare problemi anche a Washington.» «Sì» confermò lui. «È così.»
«Mi sembra che tutto questo possa rappresentare una grave minaccia per il Progetto Isabella.» «Certamente.» Crawley provò un moto d'esultanza. Non era passata neanche una settimana da quando aveva chiamato Spates. Quello sarebbe passato alla storia come uno dei colpi maestri della sua carriera. «Allora, signor Crawley, che cosa possiamo fare al riguardo?» Lui lasciò che il silenzio si prolungasse. «Be', non so se ci sia qualcosa che io possa fare. Avevo l'impressione che non aveste più bisogno dei miei servizi.» «Il nostro contratto con lei non è scaduto. Abbiamo pagato fino al primo novembre.» «Signor Yazzie, non siamo un'agenzia di affitti. Non funzionano così le cose a Washington, mi spiace. La nostra collaborazione riguardante il Progetto Isabella è con gran dispiacere giunta al termine.» Ci furono un crepitio e un sibilo. «Perdere il canone d'affitto che il governo paga per il Progetto Isabella sarebbe un brutto colpo per la nazione Navajo.» Crawley tenne il ricevitore all'orecchio senza parlare. «Mi hanno riferito che domani sera Spates terrà un programma televisivo in cui attaccherà di nuovo Isabella. Corrono inoltre voci che il progetto abbia qualche problema. Uno degli scienziati si è suicidato. Signor Crawley, mi consulterò con il Consiglio dei Navajo e vedrò di farle rinnovare il contratto. Dopotutto, avremo bisogno del suo aiuto.» «Sono molto spiacente, signor Yazzie, ma un altro cliente ha preso il vostro posto. Davvero, sono terribilmente spiacente... ma, spero non si offenda, le avevo fatto presente questa eventualità. Non so dirle quanto mi spiaccia personalmente e professionalmente. Forse potrebbe trovare un'altra società che si occupi del suo caso. Potrei raccomandarne diverse.» La linea telefonica sputacchiò nel silenzio. Tra le scariche statiche Crawley udì una conversazione lontana, spettrale. Cristo, che razza di sistema telefonico avevano laggiù? Probabilmente usavano ancora le linee del telegrafo dei tempi di Kit Carson. «Un'altra società impiegherebbe troppo tempo a ingranare. Abbiamo bisogno della Crawley & Stratham. Abbiamo bisogno di lei.» Abbiamo bisogno di lei. Oh Dio, era musica per le sue orecchie! «Sono terribilmente rammaricato, signor Yazzie. Questo genere di incarico implica la gestione di molteplici contatti, è molto intensivo, e noi siamo sommersi di incarichi fin sopra i capelli. Tornare a occuparcene... si-
gnificherebbe impiegare altro personale, forse anche trovare uno spazio più grande.» «Noi saremmo lieti...» Crawley lo interruppe. «Signor Yazzie, sono davvero estremamente spiacente, ma mi ha colto nel momento sbagliato, fra poco dovrò presenziare a un importante pranzo di lavoro. Sarebbe così gentile da richiamarmi lunedì pomeriggio, diciamo alle quattro, ora orientale? Desidero proprio aiutarla e le prometto che rifletterò seriamente sulla questione. Domani sera guarderò la trasmissione di Spates. Lei e il Consiglio dei Navajo dovreste fare lo stesso; in questo modo potremmo farci un'idea di quello che dovremo affrontare. Ne parleremo lunedì.» Uscì dall'angusta cabina e si fermò per riaccendersi il sigaro e aspirarne una buona boccata. Il profumo dolce e inebriante. L'intero Consiglio dei Navajo che guardava lo spettacolo: davvero un fantastico spasso! Spates avrebbe dovuto congegnarlo bene. Rientrò rapido nella sala da biliardo lasciandosi alle spalle una scia di fumo e sentendosi molto più alto, ma quando vide Safford chino sul tavolo, intento a studiare tutti gli angoli, provò un moto d'irritazione. Era ora di farla finita. Toccava a lui tirare e Safford aveva idiotamente piazzato il pallino là dove poteva essere coperto. Nel giro di cinque minuti la partita era conclusa. Safford aveva perso, e anche di brutto. «Bene!» esclamò questi, prendendo il suo martini e sorridendo evasivo. «Credo che ci penserò due volte prima di giocare ancora a snooker con lei, Crawley.» Scoppiò quindi in una risatina forzata. «Ora parliamo del suo compenso» disse assumendo un tono da Mezzogiorno di fuoco. «Non ci è proprio possibile considerare la cifra che ha citato nella lettera. Semplicemente, non rientra nel budget. Né, se posso essere franco, ci pare in linea con il lavoro che chiediamo.» Crawley appese la stecca e gettò il sigaro nel portacenere apposito pieno di sabbia. Passò accanto al suo martini senza curarsi di prenderlo ed evitando di voltarsi a guardarlo, disse: «Mi spiace, Safford, ma è successo un imprevisto che mi costringe ad annullare il nostro pranzo». A quel punto si voltò per godersi l'espressione dell'immobiliarista. L'uomo era rimasto lì, stecca, sigaro, martini e quant'altro, a guardarlo come se gli avesse girato la testa dall'altra parte con uno schiaffone. «Se cambiaste idea sul compenso, mi contatti pure» aggiunse Crawley
prima di uscire a grandi passi dalla sala. Quella sera Safford Montague McGrath III si sarebbe sentito privo di palle, eccome! Capitolo 33 Ford raggiunse i piedi della mesa e percorse a cavallo il letto secco del torrente diretto a Blackhorse. Kate gli si accostò e cavalcò al suo fianco. A metà strada udì un cavallo nitrire e si girò. «C'è qualcuno alle nostre spalle» disse Wyman fermando Ballew. Dal boschetto di tamarischi provenne un rumore di zoccoli. Un attimo dopo un uomo alto comparve in sella a un grosso cavallo quarter. Era Bia. Il tenente della polizia navajo si bloccò e li salutò toccandosi la tesa del cappello. «Un giro di piacere?» domandò. «Siamo diretti a Blackhorse» rispose Ford. Bia sorrise. «È una bella giornata per cavalcare, non troppo calda, c'è una lieve brezza.» Appoggiò le mani sul pomo della sella e aggiunse: «Andate a trovare Nelson Begay, suppongo». «Esatto» confermò Ford. «È una brava persona» osservò lui. «Se pensassi che la sua cavalcata di protesta desse adito a problemi, vi offrirei la protezione della polizia, ma credo sarebbe controproducente.» «Sono d'accordo» rispose Ford, grato per la lungimiranza del tenente. «È meglio lasciare che facciano quello che hanno in mente. Li terrò d'occhio con discrezione.» «Grazie.» Bia annuì e si protese. «Visto che siamo qui, vi spiace se vi faccio un paio di domande?» «Spari pure» rispose Ford. «Peter Volkonskij andava d'accordo con tutti?» «Perlopiù» rispose Kate. «Non ci sono stati scontri per motivi caratteriali? Insomma, dissapori?» «Era un tipo un po' eccitabile, ma per noi non era un problema.» «Era un membro importante della squadra?» «Uno tra i più importanti.» Bia si sistemò il cappello. «Butta un po' di vestiti nella valigia e se ne va. Sono più o meno le nove e la luna è già alta. Guida per una decina di minuti, poi abbandona la strada e percorre quattrocento metri in mezzo al de-
serto. Arriva a una gola profonda, ferma la macchina in un punto inclinato vicino all'orlo, tira il freno a mano, spegne il motore e toglie la marcia. Poi si porta una pistola alla testa con la destra, abbassa il freno con la sinistra, si spara un proiettile alla tempia destra e la macchina precipita oltre il bordo.» Il tenente tacque. La fascia d'ombra sotto il cappello gli nascondeva gli occhi. «Pensa sia andata così?» domandò Kate. «È la ricostruzione dell'FBI.» «Ma lei non ne è convinto» osservò Ford. Bia sembrava fissarlo con attenzione. «E lei?» «Trovo un po' inverosimile che abbia fatto precipitare la macchina nella gola dopo essersi sparato» replicò Ford. Pensò alla lettera. Doveva parlarne a Bia? Era meglio lasciare che se ne occupasse Lockwood. «A dire il vero» affermò Bia, «questo per me è un elemento credibile.» «Allora la lascia perplesso il fatto che abbia preparato la valigia?» «Alcuni suicidi fanno cose del genere. Il suicidio è di solito un atto spontaneo.» «Secondo lei dove sta il problema?» «Signor Ford, come faceva a sapere che là fuori c'era un'autovettura?» «Ho visto tracce recenti di pneumatici e le piante schiacciate. Poi c'erano le poiane.» «Ma non si è accorto della gola.» «No.» «Perché non è visibile da nessun punto lungo la strada. Ho verificato. Come faceva Voikonskij a sapere che si trovava lì?» «Era sconvolto, guidava in mezzo al deserto con l'intenzione di spararsi, si è imbattuto in quella gola e ha deciso di usare entrambi i metodi per essere certo di morire.» Ford stesso non ci credeva fino in fondo e si domandò che cosa ne pensasse Bia. «È esattamente quello che ritiene l'FBI.» «Ma non quello che ritiene lei.» Il tenente si raddrizzò e si sistemò di nuovo il cappello. «Ci vediamo.» «Aspetti!» esclamò Kate. Bia si fermò. «Non penserà che l'abbia ucciso uno di noi?» chiese. Il tenente sfiorò un ramo di tamarisco spezzato con la coscia. «Mettiamola così: se non è suicidio, è stato un omicidio ben pianificato.»
Detto ciò, spronò il cavallo con i talloni e li superò. Wardlaw, pensò Ford. Capitolo 34 Blackhorse sembrava ancora più squallido di come Ford lo ricordasse, quando ci era stato per la prima volta, lunedì: un gruppo solitario di roulotte tutte impolverate, ammassate tra i fianchi di Red Mesa e una serie di colline di colore giallo. Nell'aria si indovinava l'odore delle serpentarie. Nello spiazzo sterrato in cui aveva visto giocare i bambini un'altalena dondolava, mossa dal vento. Ford si chiese dove fosse la scuola: probabilmente a Blue Gap, a una cinquantina di chilometri. Che posto per crescere! Eppure, negli insediamenti navajo si percepiva una sorta di vuoto monastico in cui Wyman si riconosceva. I navajo non accumulavano beni, persino le loro case erano sobrie. Mentre cavalcavano verso le stalle, Ford individuò Nelson Begay intento a ferrare un sauro legato a un palo di cedro. Stava forgiando un ferro a freddo sull'incudine con una serie di colpi ben mirati che riecheggiavano nella mesa. Lo sciamano posò rumorosamente martello e ferro, poi si raddrizzò e li osservò mentre si avvicinavano. Ford e Kate si fermarono, scesero a terra e legarono i cavalli allo steccato del recinto. Ford sollevò la mano in segno di saluto e Begay fece loro cenno di farsi avanti. «Questa è la dottoressa Kate Mercer, vicedirettore del Progetto Isabella.» Begay sollevò la tesa del cappello per salutarla. Lei si avvicinò e gli diede la mano. «Lei è un fisico?» chiese Nelson Begay, scrutando la donna con aria piuttosto scettica. «Sì.» Il navajo inarcò lievemente le sopracciglia. Con un gesto più che deliberato, si girò, allineò la sua spalla al fianco del cavallo, sollevò la zampa posteriore e iniziò a ferrarlo. Poi posò lo zoccolo sull'incudine e diede ancora qualche martellata. Mentre Ford se ne stava lì a riflettere sulla suscettibilità culturale dei navajo, Kate si rivolse alla schiena di Begay. «Speravamo di poterle parlare.» «Allora fatelo.»
«Preferirei non rivolgermi alla schiena di un uomo.» Begay posò lo zoccolo e si raddrizzò. «Be', signorinella, non vi ho chiesto io di venire e guarda caso in questo momento sono occupato.» «Non mi dia della signorinella. Ho una laurea e un dottorato.» Begay tossì, posò gli attrezzi e la guardò inespressivo. «Allora?» disse lei. «Ce ne staremo qui sotto il sole cocente o ha intenzione di invitarci a bere un caffè?» Sul volto dello sciamano navajo comparve un'espressione per metà esasperata e per metà divertita. «Va bene, va bene, venite dentro.» Ford si ritrovò di nuovo nel modesto soggiorno con le fotografie dei militari appese alle pareti. Mentre l'uomo versava loro il caffè, si sedettero sul divano marrone. Riempite le tazze, Begay si sistemò sulla sua vecchia poltrona. «Tutte le scienziate sono come lei?» «Cioè?» «Come mia nonna. Non accetta un no come risposta, giusto? Potrebbe essere diné, anzi...» Si protese e la scrutò in volto. «Non è..?» «Ho origini giapponesi.» «Certo.» Begay si appoggiò allo schienale. «Va bene. Eccoci qui.» Ford attese la mossa di Kate. Era sempre stata molto abile a trattare con la gente e lo stava già dimostrando anche con Begay. Era curioso di vedere come lo avrebbe affrontato. «Mi chiedevo» esordì lei, «cosa faccia esattamente uno sciamano...» «Sono una specie di dottore.» «In che senso?» «Ripeto antichi riti e curo gli ammalati.» «Che genere di riti?» Lui non rispose. «Mi scusi se le sembro invadente» aggiunse Kate, sfoderando un sorriso abbagliante. «Fa in un certo qual modo parte della mia professione.» «Be', la domanda non mi offende, fintantoché non si tratta di futile curiosità. Eseguo vari tipi di riti: la Via della benedizione, la Via del nemico, la Via delle stelle cadenti.» «Qual è lo scopo di questi rituali?» Lui grugnì, bevve un sorso di caffè e si appoggiò alla poltrona. «La Via della benedizione restituisce equilibrio e bellezza alla vita di una persona, se ha avuto guai con droga o alcol, o se è stata in prigione. La Via del nemico serve ai soldati che tornano dalla guerra. È una cerimonia che rimuove la macchia che ti resta quando uccidi, quella traccia di male che ti rima-
ne addosso anche se lo hai fatto in guerra, legittimamente. Senza la Via del nemico, il male ti corrompe.» «I nostri medici lo chiamano disturbo post-traumatico da stress» osservò Kate. «Sì» confermò il navajo. «Come mio nipote Lorenzo, che è andato in Iraq... non sarà più lo stesso.» «La Via del nemico cura il disturbo post-traumatico da stress?» «Nella maggior parte dei casi.» «È molto interessante... e la Via delle stelle cadenti?» «È una cerimonia di cui non parliamo mai in nessuna occasione con degli estranei» rispose brusco Begay. «Ha mai considerato l'idea di far partecipare a uno di questi riti un nonnavajo?» «Perché, gliene serve uno?» Lei scoppiò a ridere. «Potrei essere interessata a una bella Via della benedizione.» Begay parve offeso. «Non è una cosa che si fa alla leggera. Richiede molta preparazione e bisogna crederci perché funzioni. Molti Bilagáana hanno difficoltà a credere a ciò che non vedono con i loro occhi oppure sono seguaci della New Age e non amano le preparazioni troppo complesse: la capanna sudatoria, il digiuno, l'astinenza sessuale. Tuttavia non negherei una cerimonia a un Bilagáana solo perché è bianco.» «Non volevo sembrarle insolente» osservò Kate. «È solo che... da molto tempo mi chiedo quale sia lo scopo di tutto questo. Che cosa ci facciamo qui.» Lui annuì. «Entri a far parte del club, allora.» «Grazie per averci rivelato queste informazioni» concluse lei dopo un lungo silenzio. Dopodiché il navajo si appoggiò con la schiena alla poltrona e posò le mani sui jeans. «Nella cultura diné crediamo nello scambio di informazioni. Io le ho raccontato qualcosa del mio lavoro. Adesso vorrei sapere qualcosa del suo. Il signor Ford mi ha detto che lassù, con il Progetto Isabella, state studiando una cosa che si chiama Big Bang.» «Esatto.» «Ci ho riflettuto. Se l'universo è stato creato da un Big Bang, prima che cosa c'era?» «Nessuno lo sa. Molti fisici ritengono ci fosse il nulla. Anzi, che non ci fosse nemmeno un "prima". L'esistenza stessa è cominciata con il Big
Bang.» Nelson Begay emise un fischio. «E che cosa lo avrebbe provocato?» «È una questione piuttosto difficile da spiegare a chi non è pratico di argomenti che hanno a che fare con la fisica.» «Ci provi.» «La teoria della meccanica quantistica sostiene che le cose succedono e basta, senza una causa.» «Vuol dire che non conoscete la causa.» «No, voglio dire che non c'è una causa. La creazione improvvisa dell'universo dal nulla potrebbe non violare nessuna legge o non essere in alcun modo innaturale o non scientifica. Prima, non c'era assolutamente nulla: nessuno spazio, nessun tempo, nessuna esistenza. E poi succede: comincia l'esistenza.» Begay la fissò, poi scosse la testa. «Parla come mio nipote Lorenzo. Un ragazzo intelligente: aveva ottenuto una borsa di studio a copertura dell'intera retta per la Columbia University, studiava matematica. Lo ha rovinato: il mondo Bilagáana gli ha sconvolto la mente. Si è ritirato, è andato in Iraq ed è tornato che non credeva più in niente. E intendo proprio in niente. Adesso per vivere spazza una maledetta chiesa o almeno era solito farlo, finché non è scappato.» «Biasima la scienza per questo?» domandò Kate. Lo sciamano scosse il capo. «No, no, non biasimo la scienza. È solo che sentirla dichiarare che il mondo è nato dal nulla mi ha ricordato il genere di sciocchezze che afferma Lorenzo... Com'è possibile che la creazione succeda e basta?» «Cercherò di essere più chiara. Stephen Hawking ha suggerito che prima del Big Bang il tempo non esistesse. Senza tempo, non può esserci nessun tipo di esistenza definibile. Hawking è riuscito a dimostrare matematicamente che la non-esistenza possiede una sorta di potenzialità spaziale e che, in condizioni molto particolari, lo spazio può trasformarsi nel tempo e viceversa. Ha dimostrato che se un frammento davvero minuscolo di spazio si trasforma in tempo, la comparsa di quest'ultimo è in grado di provocare il Big Bang perché all'improvviso può esserci movimento, possono esserci causa ed effetto, spazio ed energia effettivi. È il tempo che rende tutto possibile. A noi il Big Bang sembra un'esplosione dello spazio, del tempo e della materia verificatasi in un singolo punto, ma proprio qui sorge l'aspetto più misterioso: se esaminiamo quella minuscola frazione di secondo, scopriamo che non è affatto un inizio. Il tempo sembra esistere da
sempre. Quindi abbiamo una teoria del Big Bang che sembra affermare due cose contraddittorie: primo, il tempo non esiste da sempre; secondo, il tempo non ha inizio, il che significa che il tempo è eterno. Entrambe sono vere. E se ci riflette con attenzione, quando il tempo non esiste non ci possono essere differenze tra l'eternità e un secondo. Pertanto, quando il tempo ha cominciato a esistere, in realtà è sempre esistito. Non c'è mai stato un tempo in cui questo non sia esistito.» Begay scosse la testa. «Ma è pura follia.» Nello squallido soggiorno calò un silenzio molto imbarazzato. «Nella tradizione navajo esiste una storia sulla creazione?» chiese Kate. «Sì. La chiamiamo Diné Bahané. Non è scritta, devi impararla a memoria. Per cantarla si impiegano nove notti. È la Via della benedizione di cui le parlavo: un canto che racconta la storia della creazione del mondo. Lo si intona in presenza di un malato e la storia lo guarisce.» «Lei la conosce a memoria?» «Certo, me l'ha insegnata mio zio. Ha impiegato cinque anni.» «Quasi quanto ho impiegato io a prendere la laurea» osservò Kate. Begay parve lieto del paragone. «Mi canterebbe qualche verso?» «La Via della benedizione non va cantata tanto per fare» spiegò il navajo. «Non stiamo parlando tanto per fare.» Lui la fissò con attenzione. «Sì, forse è così.» Chiuse gli occhi e quando aprì la bocca, la sua voce si fece acuta, tremula. Intonò una scala di cinque toni. L'armonia e il suono delle parole navajo, alcune familiari, la maggior parte no, suscitarono in Wyman un desiderio intenso di qualcosa di indefinibile. Dopo circa cinque minuti Begay tacque con gli occhi lucidi. «Inizia così» spiegò con voce sommessa. «È la poesia più bella che sia mai stata scritta, almeno a mio parere.» «Ce la può tradurre?» domandò Kate. «Speravo non me lo chiedesse. Be', dice così.» Con un profondo respiro, cominciò: A esso lui pensa, lui pensa. Molto tempo prima di esso, lui pensa. A come il buio prenderà vita, lui pensa. A come la terra prenderà vita, lui pensa.
A come il cielo blu prenderà vita, lui pensa. A come l'alba gialla prenderà vita, lui pensa. A come il crepuscolo prenderà vita, lui pensa. Alla rugiada sul muschio scuro, lui pensa. Ai cavalli, lui pensa. All'ordine, lui pensa, alla bellezza, lui pensa. A come tutto prospererà senza esaurirsi, lui pensa. Begay tacque. «Tradotta non suona molto bene, ma questo è quello che più o meno esprime.» «Chi è "lui"?» domandò Kate. «Il Creatore.» Lei sorrise. «Mi dica, signor Begay. Chi ha creato il Creatore?» Il navajo scrollò le spalle. «La storia non lo racconta.» «Che cosa c'era prima di Lui?» «Chi lo sa?» «Sembra che le nostre storie sulla creazione abbiano entrambe un problema di origine.» Nel silenzio una goccia d'acqua cadde nel lavandino della cucina, poi un'altra e un'altra ancora. Alla fine Begay si alzò e zoppicò fino a raggiungere e chiudere il rubinetto. «È stata una conversazione interessante» commentò infine, tornando indietro. «Ma là fuori c'è il mondo reale e c'è un cavallo che ha bisogno di ferri nuovi.» Uscirono nel sole intenso. Mentre si avvicinavano alle stalle, Ford osservò: «Una delle cose che volevamo dirle, signor Begay, era che domani effettueremo un test su Isabella. Saranno tutti sottoterra. Quando lei e i suoi arriverete, sarò l'unico ad accogliervi». «Non sarà un incontro conviviale.» «Non volevo pensasse che le mancassimo di rispetto.» Begay diede una pacca affettuosa al cavallo e poi lo accarezzò sul fianco. «Senta, signor Ford. Noi abbiamo i nostri piani. Prepareremo una capanna sudatoria, eseguiremo alcuni riti, parleremo alla Terra. Saremo pacifici. Quando arriverà la polizia per arrestarci, ce ne andremo senza clamori.» «La polizia non verrà» rispose Ford. Lui parve deluso. «Niente polizia?» «Dobbiamo forse chiamarla?» chiese sarcastico Ford. Begay sorrise. «Avevo fantasticato un po' sul fatto di finire agli arresti
per la causa.» Poi voltò loro le spalle, con una mano prese la zampa del cavallo e con l'altra un coltellino. «Buono amico» mormorò mentre iniziava a pulire e curare lo zoccolo. Ford lanciò un'occhiata a Kate. Sulla via del ritorno avrebbe vuotato il sacco. Capitolo 35 Quando raggiunsero la sommità della mesa, il sole era tanto basso che sembrava tremolare all'orizzonte. Mentre attraversavano in silenzio la distesa di serpentarie in fiore, Wyman cercò per la centesima volta di tradurre in parole ciò che aveva in mente di dire. Se non si fosse sbrigato a parlare, avrebbero fatto in tempo ad arrivare al complesso Isabella, perdendo quell'occasione. «Kate?» esordì infine, affiancandola. Lei si girò. «Oggi ti ho chiesto di venire con me anche per un'altra ragione, non solo per incontrare Begay.» Kate lo fissò con i capelli che le luccicavano come oro nero nella luce del sole e lo sguardo già indagatore. «Perché ho la sensazione che si tratti di qualcosa che non mi piacerà?» «Sono qui in parte in veste di antropologo e in parte con un altro scopo.» «Avrei dovuto immaginarlo. Allora qual è la missione, agente segreto?» «Mi... mi hanno mandato per indagare sul Progetto Isabella.» «In altre parole sei una spia.» Lui fece un respiro profondo. «Sì.» «Hazelius lo sa?» «Nessuno lo sa.» «Capisco... e con me ti sei comportato da amico perché rappresentavo un modo spiccio per arrivare alle informazioni che ti servivano.» «Kate...» «No, aspetta, è anche peggio: ti hanno "assoldato" sapendo della nostra vecchia relazione, nella speranza che riaccendessi l'antica fiamma e mi estorcessi in questo modo le informazioni necessarie.» Come sempre, Kate aveva capito tutto prima ancora che potesse terminare il discorso. «Kate, quando ho accettato l'incarico, non sapevo...» «Non sapevi cosa? Che sarei stata così imbecille?»
«Non sapevo affatto... che ci sarebbe stata una complicazione.» Lei bloccò il cavallo, si voltò e lo fissò. «Complicazione? A cosa alludi?» Ford sentiva di avere le guance in fiamme. Perché all'improvviso la vita era diventata così complicata? Come risponderle? Kate gettò indietro i capelli e si sfiorò leggermente la guancia con la mano inguantata. «Sei ancora nella CIA, vero?» «No. Me ne sono andato tre anni fa quando mia moglie... mia moglie...» Non riusciva a dirlo. «Sì, certo, te ne sei andato. Allora: hai rivelato il nostro segreto?» «No.» «Stronzate. Certo che l'hai rivelato. Io mi sono fidata di te, mi sono aperta... e adesso siamo tutti fottuti.» «Non ho rivelato un bel niente.» «Vorrei poterti credere.» Spronò con vigore il cavallo e partì al trotto. «Kate, ti prego, ascolta...» Ballew partì anche lui al trotto. Ford rimbalzò su e giù e si aggrappò con una mano al pomo della sella. Kate spronò di nuovo il cavallo che prese ad andare al piccolo galoppo. «Sta' lontano da me!» Senza essere incitato, Ballew adottò la stessa andatura. Ford si aggrappò ancor di più al pomo della sella mentre il suo corpo sobbalzava come una bambola di pezza. «Kate, ti prego... rallenta, dobbiamo parlare...» Lei spronò il cavallo al galoppo e di nuovo Ballew si adattò al cambiamento di andatura. I due cavalli sfrecciarono sulla mesa con gran fragore di zoccoli. In preda al panico e alla disperazione, Ford si tenne ben stretto. «Kate!» gridò. Una redine gli scappò di mano e lui si gettò in avanti per afferrarla, ma Ballew ci inciampò sopra e si bloccò di colpo. Ford capitombolò sulla schiena del cavallo e atterrò sul tappeto di serpentarie. Quando tornò in sé, stava fissando il cielo e chiedendosi dove diavolo fosse. Poi, nel suo campo visivo, comparve il volto di Kate. Non portava più il cappello. Aveva tutti i capelli scompigliati e sul volto un'aria di folle preoccupazione. «Wyman? Mio Dio, stai bene?» Lui ansimò e tossì mentre l'aria gli scorreva di nuovo nei polmoni. Cercò di mettersi a sedere. «No, no, resta steso.» Quando si accasciò a terra, sentì il cappello di lei sotto la testa e capì che doveva averlo piegato per creare una specie di cu-
scino. Attese che la vista gli si schiarisse e che gli tornasse la memoria. «Oddio, Wyman, per un attimo ho pensato fossi morto.» Ford non riusciva a riordinare i pensieri. Inspirò, espirò, inspirò di nuovo risucchiando l'aria. Kate si era tolta il guanto e con la mano fresca gli dava piccoli colpetti sulla faccia. «Ti sei rotto qualcosa? Ti fa male da qualche parte? Oh, stai sanguinando!» Si tolse il foulard e gli tamponò la fronte. La sua mente cominciò a schiarirsi. «Lascia che mi metta seduto.» «No, no, resta fermo.» Kate gli premette con forza il foulard. «Hai battuto la testa. Potresti avere una commozione cerebrale.» «Non credo.» Ford gemette. «Che idiota sono stato. Cadere da cavallo come un sacco di patate.» «Non sai cavalcare, questo è quanto. È stata colpa mia. Non avrei mai dovuto partire di corsa in quel modo. È solo che a volte mi mandi su tutte le furie!» Il dolore pulsante alla testa cominciò a diminuire. «Non ho svelato il vostro segreto e non ho intenzione di farlo.» Lei lo guardò. «Perché? Non è questo il tuo incarico?» «'Fanculo il motivo per cui mi hanno assoldato.» Kate gli tamponò con attenzione la ferita. «Devi riposare ancora un po'.» Ford rimase fermo. «Non dovrei tornare a cavallo?» «Ballew è partito in direzione della stalla. Non ti sentire in imbarazzo: tutti prima o poi cadono dalla sella.» Lei gli posò una mano sulla guancia. Ford rimase fermo ancora per un po', poi si mise lentamente a sedere. «Mi spiace.» «Hai parlato di una moglie. Io... non sapevo fossi sposato» disse lei dopo un po'. «Non più.» «Essere sposati con la CIA non dev'essere facile.» «Non è per questo. Lei è morta» si affrettò a rispondere con un tono mesto. Kate si portò la mano alla bocca. «Oh... scusami. Che cosa stupida ho detto.» «Non ti preoccupare. Eravamo colleghi nella CIA. È stata uccisa in Cambogia. Un'autobomba.» «O mio Dio, Wyman, è terribile.» Non credeva che sarebbe riuscito a dirglielo, invece era stato così facile. «Perciò ho lasciato la CIA e sono entrato in monastero. Ero alla ricerca di
qualcosa. Credevo fosse Dio, ma non l'ho trovato. Non ero tagliato per fare il monaco. Me ne sono andato e, per guadagnarmi da vivere, ho iniziato l'attività di detective privato e mi hanno offerto questo incarico. Non avrei mai dovuto accettarlo. Fine della storia.» «Per chi lavori? Per Lockwood?» Lui assentì. «Sa che nascondete qualcosa e voleva che scoprissi cosa. Dice che tra due giorni staccherà la spina di Isabella.» «Oh, santo cielo!» Kate gli posò di nuovo la mano fresca sul viso. «Mi spiace averti mentito. Se avessi saputo in cosa mi stavo cacciando, non avrei mai accettato quest'incarico. Non pensavo...» La voce gli morì in gola. «Cosa?» Ford non rispose. «Non pensavi cosa?» Lei si chinò su di lui e la sua ombra gli sfiorò il viso. Ford sentiva il suo vago profumo. «Di innamorarmi di nuovo di te» ammise. In lontananza si udì un gufo bubbolare nella luce sempre più fioca. «Sei sincero?» chiese lei. Lui assentì. Kate avvicinò lentamente il viso al suo. Non lo baciò, si limitò a guardarlo stupita. «Quando stavamo insieme, non me lo hai mai detto.» «No?» Lei scosse la testa. «La parola "amore" non faceva parte del tuo vocabolario. Perché credi che ci siamo lasciati?» Ford batté le palpebre. «È stato per questo? Non perché ho scelto di entrare nella CIA?» «Quello, avrei potuto sopportarlo.» «Ti andrebbe... ti andrebbe di riprovare?» le domandò Ford. Lei lo guardò, avvolta dalla luce dorata. Non era mai stata così bella. «Sì.» Poi lo baciò lenta, delicata, lieve. Lui si protese per baciarla ancora, ma Kate lo bloccò posandogli con un tocco delicato una mano sul petto. «È quasi buio. Abbiamo un bel pezzo di strada da fare a piedi e...» «E cosa?» Continuò a guardarlo sorridendo. «Non importa» disse, chinandosi per baciarlo ancora e poi ancora, posando il morbido seno contro il suo corpo. Con la mano gli sfiorò la camicia e cominciò ad aprirla, un bottone alla volta. Poi gli slacciò la fibbia dei pantaloni. Mentre le ombre della sera si
allungavano sul deserto, i suoi baci divennero più intensi, più dolci, come se la sua bocca si fondesse con quella di lui. Capitolo 36 Il pastore Russell Eddy abbandonò cauto la strada della mesa e condusse il pick-up verso una roccia di arenaria che lo avrebbe tenuto nascosto. Era una notte tersa con una luna gibbosa crescente e una manciata di stelle sparse in cielo. Il fuoristrada sobbalzava e sferragliava sul sentiero accidentato. Il paraurti penzolante rimbalzava a ogni scossone. Se uno di quei giorni non avesse chiesto in prestito il saldatore alla stazione di servizio di Blue Gap, si sarebbe staccato del tutto. Russell però si vergognava a chiedere sempre in prestito gli attrezzi dei navajo e a ottenere benzina a credito. Ogni volta doveva ripetersi che portava a quella gente il dono più grande, la salvezza, se solo avessero voluto accettarlo. Per tutto il giorno aveva pensato ad Hazelius. Più riascoltava le sue parole nella mente, più gli sembravano calzanti i versi della prima lettera di Giovanni: «Come avete udito che deve venire l'Anticristo [...]. L'Anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio. [...] Questo è lo spirito dell'Anticristo [...]». Gli balenò in testa il ricordo di Lorenzo steso a terra, i grumi di sangue vivo che non volevano sparire nella sabbia... Eddy trasalì: perché quella spaventosa immagine continuava a ripresentarsi? La scacciò emettendo un chiaro gemito. Avanzò attento con il pick-up dietro la roccia di arenaria finché fu completamente invisibile dalla strada. Il motore tacque con uno scoppiettio. Russell tirò il freno a mano e bloccò le ruote con alcuni sassi, poi si infilò le chiavi in tasca. Fece un profondo respiro e si incamminò. La luce della luna era abbastanza intensa da consentirgli di procedere senza accendere la torcia. Si sentiva più determinato di prima. Dio lo aveva chiamato e lui aveva detto: Sì. Fino a quel momento ogni cosa - tutti i guai della sua vita - era stata un puro e semplice preludio. Dio gli aveva mandato diverse prove e lui le aveva superate. L'ultima era stata Lorenzo: quello era stato il segno che Dio aveva in progetto per lui qualcosa di grande, di molto grande. Quel pomeriggio il Signore lo aveva guidato fino a Piñon. Prima, il pieno gratis di benzina, poi un turista diretto a Flagstaff che si era perso gli aveva regalato dieci dollari per ringraziarlo per le indicazioni. Poi ancora
aveva saputo dall'impiegato della stazione di servizio che Bia stava indagando sulla morte del membro del Progetto Isabella ritenendola un omicidio, non un suicidio. Dunque era un omicidio! Un coyote ululò in lontananza e un altro, più lontano, gli rispose. Sembravano le grida perse, solitarie dei dannati. Il pastore Eddy raggiunse l'orlo dei promontori e scese lungo il sentiero fino a Nakai Valley. La sagoma scura di Nakai Rock si ergeva alla sua destra, simile a un demone gobbo. Sotto, un pugno di luci indicava il villaggio. Le finestre del vecchio emporio erano riquadri di luce nel buio. Tenendosi vicino alle rocce e ai ginepri, proseguì in quella direzione. Non sapeva che cosa cercare né come fare. Il suo unico piano era attendere un segno di Dio. Dio gli avrebbe mostrato la strada. Il debole suono di un piano si diffondeva nella notte del deserto. Eddy giunse nel fondovalle, scivolò tra le ombre dei pioppi neri e attraversò di corsa il prato per avvicinarsi alla parete posteriore dell'emporio. Attraverso i vecchi tronchi e l'intonaco che ne tappava le fessure sentì una conversazione attutita. Con grande cautela si accostò a una finestra e sbirciò all'interno. Alcuni scienziati erano seduti a un tavolino e stavano parlando animatamente, come se discutessero. Hazelius stava suonando il piano. Alla vista dell'uomo che avrebbe potuto incarnare l'Anticristo, Russell provò un'ondata di paura e rabbia. Si inginocchiò sotto la finestra e cercò di capire quello che dicevano, ma Hazelius suonava troppo forte. Poi, al di sopra delle note del pianoforte, attraverso il doppio vetro, trasportata dall'aria fredda d'autunno fin dove lui se ne stava rannicchiato, risuonò un'unica parola, pronunciata da uno degli scienziati: Dio. Risuonò di nuovo, provenendo questa volta da un'altra persona: Dio. La zanzariera della porta sbatté e due voci si propagarono oltre l'angolo fino alle sue orecchie: una alta e tesa, l'altra bassa e circospetta. Con il cuore che gli batteva forte, Russell strisciò nel buio fino all'angolo oltre il quale si trovava l'ingresso principale. Rimase in ascolto, timoroso perfino di respirare. «... una cosa, Tony, volevo chiederle, in modo per così dire confidenziale...» L'uomo abbassò il tono. Eddy non capì il resto ma non ebbe il coraggio di avvicinarsi. «... qui siamo solo in due a non essere scienziati...» Si allontanarono nel buio. Eddy arretrò e le voci si affievolirono facendosi indistinte. Vedeva le due sagome scure passeggiare sulla strada. Attese, poi la attraversò fulmineo e si nascose tra gli alberi, premendosi contro
il tronco nodoso di un pioppo. Un alito di vento gli sfiorò il viso. Forse era lo Spirito Santo, trasformatosi in leggera brezza per trasportargli all'orecchio quelle voci. «... per quanto riguarda le accuse penali, io non ho niente a che fare con la gestione di Isabella.» «Non si faccia illusioni, si assumerà le sue responsabilità come tutti» rispose la voce più fonda. «Ma sono solo lo psicologo.» «Ha pur sempre preso parte alla copertura...» Copertura? Eddy si spostò in un'altra posizione, restando sempre nell'ombra. «Come diavolo ci siamo cacciati in questo pasticcio?» esclamò la voce più acuta. La risposta fu troppo bassa perché Eddy riuscisse a sentirne ogni parola. «Non posso credere che quel dannato computer sostenga di essere Dio... Sembra di vivere in un romanzo di fantascienza...» Ci fu un'altra risposta incomprensibile. Eddy si sforzava tanto di tenere le orecchie dritte e di capire il discorso che trattenne il fiato. I due uomini entrarono nella zona illuminata qua e là dalle luci degli alloggi. Il pastore avanzò rapido come un ragno mentre le loro frasi aumentavano e diminuivano di tono a seconda del vento. «... Dio nella macchina... portato Volkonskij oltre il limite...» Era di nuovo la voce alta. «... perdita di tempo fare congetture...» fu la scorbutica risposta. La conversazione continuò più sommessa. Eddy pensò d'impazzire all'idea di non poter sentire bene. Corse il rischio di avvicinarsi un po' di più. I due si fermarono all'imboccatura di un vialetto. Nella debole luce gialla l'uomo di corporatura più robusta parve impaziente, come se cercasse di liberarsi di quello nervoso. Ora le voci erano più nitide. «... dice cose che non ho mai sentito dire a nessun Dio. Un sacco di scemenze New Age. L'esistenza sono io che penso: ma fammi il piacere! Ed Edelstein ci crede. Be', è un matematico, per definizione un tipo strambo. Voglio dire, quel tizio tiene dei serpenti a sonagli come animali da compagnia...» Aveva parlato con un tono più alto, come se in quel modo potesse trattenere oltre il proprio interlocutore. L'uomo grosso si spostò ed Eddy lo vide in faccia. Era l'addetto alla sicurezza. Con voce bassa disse qualcosa di simile a «do un'occhiata in giro prima
di andare a dormire». Si strinsero la mano, poi l'uomo più minuto percorse il vialetto diretto al suo alloggio, mentre il responsabile della sicurezza guardò la strada in una direzione, poi nell'altra, poi ancora osservò i pini, quasi studiasse il luogo per decidere da dove iniziare la perlustrazione. Ti prego, Signore, ti prego. Il cuore di Eddy batteva tanto forte che sentiva il sangue pulsargli nelle orecchie. Alla fine l'uomo si avviò lungo la strada nella direzione opposta a quella in cui si trovava lui. Muovendosi con estrema cautela per non calpestare qualche ramoscello, il pastore attraversò lentamente il boschetto di pioppi, risalì alla cieca il sentiero e abbandonò la valle. Solo quando stava percorrendo la Dugway, ormai sulla via del ritorno, si concesse un frivolo grido d'esultanza. Aveva proprio quello che serviva al reverendo Spates. In Virginia era notte fonda, ma di certo al reverendo non sarebbe dispiaciuto essere svegliato. No di certo. Capitolo 37 Venerdì, all'alba, Nelson Begay si appoggiò al telaio della porta della sala della comunità e osservò avvicinarsi i primi rimorchi per cavalli. Gli animali sollevavano nubi infuocate di polvere mentre i cavallerizzi li scaricavano o li sellavano tra il tintinnare degli speroni e lo sbattere del cuoio. Il cavallo di Begay, Winter, già sellato e pronto per la cavalcata, era legato all'ombra dell'unico piñon vivo nei paraggi. Begay avrebbe voluto poter incolpare i Bilagáana della morte dei pini, ma per quanto ne sapesse la televisione aveva detto il vero: i bostrici e la siccità erano stati più che sufficienti. Maria Atcitty, la presidentessa della comunità, gli si avvicinò. «Un bel risultato!» esclamò. «Meglio del previsto. Tu vieni?» Lei scoppiò a ridere. «Qualsiasi cosa pur di scappare dall'ufficio.» «Dov'è il tuo cavallo?» «Sei pazzo? Vengo in macchina.» Begay riprese a scrutare l'eterogeneo gruppo di cavalli che si stavano radunando per la protesta. A parte un paio di bei quarter horse e un arabo, erano perlopiù ronzini della riserva non ferrati, tutti pelle e ossa, con gli occhi bianchi. La scena gli ricordò il posto dov'era vissuto lo zio Silvers, su a Toh Ateen. Silvers gli aveva insegnato la Via della benedizione ma era anche abile a cavalcare i puledri selvaggi e aveva lavorato nel circuito
dei rodei a Santa Fe-Amarillo finché non si era spaccato la schiena. Dopo l'incidente, aveva tenuto solo pochi cavalli malandati per i nipoti. Lì Begay aveva imparato tutto quello che sapeva su quegli animali. Scosse la testa. Gli sembrava fosse passata un'eternità. Zio Silvers non c'era più, il vecchio modo di vivere stava scomparendo e oggi i ragazzini non sapevano cavalcare né parlare la loro lingua. Begay era l'unico a cui zio Silvers avesse insegnato la Via della benedizione. Quella cavalcata rappresentava più di una semplice protesta contro il Progetto Isabella, era un mezzo per riappropriarsi di uno stile di vita che stava rapidamente svanendo. Riguardava le loro tradizioni, la loro lingua, la loro terra, la volontà di assumersi la responsabilità del proprio destino. Un pick-up Isuzu decrepito si fermò lì vicino, con al traino un rimorchio per animali fin troppo grande. Con un urlo ne balzò giù un uomo slanciato che indossava una camicia a cui erano state tagliate le maniche. Agitò il braccio in aria, cacciò un altro grido e si portò sul retro per scaricare il cavallo. «È arrivato Willy Becenti» rispose la Atcitty. «Difficile non accorgersene.» Il cavallo, già sellato, scese. Becenti lo fece avanzare e lo legò alla barra del rimorchio. «Ha intenzione di venire armato.» «Lo vedo.» «Glielo permetterai?» Begay rifletté per un istante. Willy era un tipo eccitabile ma era buono d'animo e quando non beveva era solido come una roccia. In quella cavalcata non ci sarebbero stati liquori: era l'unica regola pretesa da Begay. «Willy si comporterà bene.» «E se le cose si mettessero male?» domandò Maria. «Non succederà. Ieri ho incontrato un paio di scienziati. Non accadrà niente.» «Chi hai incontrato?» domandò la presidentessa della comunità. «Quello che si definisce antropologo, Ford, e il vicedirettore del progetto, una donna chiamata Mercer.» Lei assentì. «Sono gli stessi che ho incontrato io.» Dopo un istante aggiunse: «Sei sicuro che sia una buona idea, questa cavalcata di protesta?». «Penso che lo scopriremo presto, non credi?» Capitolo 38
Ken Dolby guardò l'orologio. Erano le sei di pomeriggio. Si voltò verso il monitor e controllò la temperatura del magnete difettoso. Si manteneva costante, ampiamente entro i parametri di tolleranza. Con il mouse passò in rassegna diverse pagine di comandi del software di Isabella. Tutti i sistemi erano a posto, tutto funzionava alla perfezione. La potenza era all'ottanta per cento. Era una sera perfetta per effettuare un test. Quando Isabella assorbiva per i suoi scopi una considerevole percentuale dei megawatt della RMWest Grid, persino il più piccolo imprevisto, un fulmine, un trasformatore saltato, una linea caduta, avrebbe potuto causare un effetto a catena. In gran parte del Sudovest era una serata tranquilla, i condizionatori erano spenti, non c'erano tempeste e il vento era debole. Ken Dolby avvertiva una strana sensazione: quella sera avrebbero risolto il problema. Quella sera Isabella avrebbe raggiunto la perfezione. «Ken, portala all'ottantacinque» disse Hazelius dalla poltroncina in pelle al centro del Ponte. Dolby guardò St. Vincent che monitorava i flussi di energia. Con la sua aria da folletto, questi gli diede l'okay e ammiccò. «D'accordo.» Udiva la quasi impercettibile vibrazione generata dall'immenso flusso d'energia. I fasci di protoni e antiprotoni, che circolavano in direzioni opposte a una velocità inimmaginabile, non erano stati ancora messi in contatto, avrebbero aspettato di raggiungere il novanta per cento della potenza. Dopo, ci sarebbero voluti ulteriori potenza e tempo, nonché piccoli adattamenti per portare il sistema al cento per cento. Gli indicatori si mossero uniformi fino all'ottantacinque per cento. «È la serata ideale per la prova» affermò St. Vincent. Dolby annuì, contento che fosse lui a occuparsi dei flussi energetici. Era un uomo discreto e piacevole, che spiccicava di rado una parola ma gestiva l'energia come un direttore un'orchestra, con grande sagacia e precisione. Il tutto con estrema naturalezza. «Ottantacinque per cento» annunciò Dolby. «Alan?» domandò Hazelius. «Come vanno i server?» «Tutto a posto.» Hazelius fece probabilmente il cinquantesimo giro della stanza sollecitando risposte dalla squadra. Finora era un test da manuale. Dolby verificò i sistemi. Tutto funzionava secondo le specifiche. L'unica
anomalia era il magnete «caldo» ma con ciò intendevano solo che era di tre centesimi di grado superiore alla norma. Isabella si stava stabilizzando sull'ottantacinque per cento mentre Rae Chen effettuava lievi adattamenti dei fasci. Guardandosi oziosamente attorno, Dolby pensò al gruppo che Hazelius aveva radunato. Prendi per esempio Edelstein, si disse: possedeva un'intelligenza forse ancora più spiccata del fisico, ma in un certo qual modo bizzarra. Era un uomo che metteva un po' di paura, quasi avesse mezzo cervello alieno. E la storia dei serpenti a sonagli? Un hobby maledettamente eccentrico. Poi c'era la Corcoran che assomigliava a Daryl Hannah. Non era il suo tipo, troppo alta e caustica. Fin troppo bionda e bella per essere intelligente come in effetti era... Un gruppo brillante, compreso il robot Cecchini, che sembrava sempre sull'orlo di una crisi di nervi. A eccezione però di Innes. Era un tipo coscienzioso che si applicava al massimo, ma non abbastanza acuto da saper guardare al di là del suo naso. Come poteva Hazelius prendere lui e i suoi patetici incontri sul serio? O doveva semplicemente rispettare le regole del DOE? Tutti gli psicologi erano come Innes: si dilungavano a parlare di teoria senza avere un brandello di prove empiriche? Era un uomo che vedeva tutto e non capiva niente. Gli ricordava quel camionista che la madre aveva frequentato dopo la morte del padre e che faceva sempre della psicologia spicciola: una brava persona, ma ti stendeva con i suoi consigli ispirati all'ultimo bestseller sulle tecniche per migliorare te stesso. Poi c'era Rae Chen: incredibilmente intelligente e allo stesso tempo alla mano. Qualcuno gli aveva raccontato che da ragazzina era stata campionessa di skateboard. Sembrava una studentessa di Berkeley: divertente, disinvolta, semplice, sostenitrice dell'amore libero. Ma era davvero un tipo così alla mano? Difficile a dirsi con le asiatiche. A ogni modo, non gli sarebbe affatto dispiaciuto combinare qualcosa con lei. La guardò, china sulla console con un'aria completamente assorta e i capelli neri che le ricadevano davanti a mo' di cascata, e la immaginò senza vestiti... La voce di Hazelius interruppe i suoi pensieri. «Siamo pronti ad aumentare a novanta, Ken.» «Certo.» «Alan? Quando l'avremo stabilizzata a novanta, voglio che ti tenga pronto a spegnere tutti i p5 595 contemporaneamente, collegati e uniti.» Edelstein annuì. Dolby spostò i cursori e osservò Isabella rispondere. Quello era il luogo, quella era la sera. Tutto nella sua vita aveva preparato quel momento. Per-
cepì la profonda vibrazione dell'energia che aumentava. Era come se l'intera montagna ne fosse permeata. Isabella faceva le fusa come una Bentley. Dio, quanto amava la sua macchina. La sua macchina. Capitolo 39 Dalla camera sul retro della casita, Ford vide spuntare i primi cavallerizzi della marcia di protesta all'orizzonte, dietro a Nakai Rock: una serie di sagome scure contro il sole al tramonto. Girò la testa e questa gli pulsò per la caduta della sera precedente. Da allora lui e Kate non erano quasi riusciti a scambiare una parola: lei aveva avuto molto da fare in preparazione al test. La luce sul satellitare lampeggiò all'ora esatta. Ford prese il telefono. «Notizie?» domandò Lockwood. «Niente di particolare. Sono tutti nel Bunker, stanno per iniziare un altro test. Io sto aspettando d'incontrare i partecipanti alla cavalcata di protesta.» «Sarei stato più contento se fosse riuscito a bloccarla.» «Mi creda, è meglio così. Ha verificato quella faccenda di Joe Blitz?» «Esistono centinaia di Joe Blitz nel Paese: persone, società, luoghi, chi più ne ha più ne metta. Ho selezionato quelli che mi sono parsi più interessanti. Pensavo di elencargliene alcuni.» «Cominci pure.» «Prima di tutto, Joe Blitz è il nome di un giocattolo.» «Potrebbe essere un'allusione a Wardlaw: Volkonskij lo detestava. Che altro c'è?» «Joe Blitz risulta essere anche il nome di un produttore di Broadway in voga negli anni Quaranta, che ha messo in scena Garbage Can Follies e Crater Lake Cut-up. Due musical, il primo sui gatti, il secondo su una colonia di nudisti. Due flop.» «Continui.» «Concessionario Ford dell'Ohio finito in bancarotta... Joe Blitz State Park, Medford, Oregon... Joe Blitz Memorial Hockey Rink, Ontario, Canada... Joe Blitz, scrittore di fantascienza degli anni Trenta e Quaranta... Joe Blitz, impresario edile che ha realizzato il Mausleer Building a Chicago... Joe Blitz, disegnatore di cartoni animati.» «Mi dica dello scrittore.» «Negli anni Quaranta un certo Joe Blitz ha pubblicato diverse opere piuttosto scadenti di fantascienza su alcune riviste popolari.»
«Titoli?» «Ce ne sono parecchi. Vediamo... Sea Fangs e Man-Killers of the Air, tra gli altri.» «Ha pubblicato romanzi?» «A quanto ci risulta, solo un bel po' di racconti.» «Cosa sa dirmi invece del Joe Blitz disegnatore di cartoni animati?» «Verso la fine degli anni Cinquanta ha realizzato una striscia pubblicata su più riviste che aveva come protagonisti un grasso zoticone e un barboncino. Una specie di Garfield. Non ha mai riscosso grande successo. Vediamo... ne ho altri duecento o quasi: c'è di tutto, dal nome di un'impresa di pompe funebri a una ricetta per affumicare il pesce.» Ford sospirò. «È come cercare un ago in un pagliaio quando non sappiamo nemmeno che forma abbia l'ago. Che mi dice di zia Natasha?» «Volkonskij non aveva nessuna zia Natasha. Potrebbe trattarsi di una battuta: sa, tutti i russi hanno una zia Natasha e uno zio Boris.» Ford guardò dalla finestra gli uomini a cavallo che stavano entrando nella valle. «A quanto pare, il biglietto è un vicolo cieco.» «Sembrerebbe di sì.» «Ora devo andare: quelli delle cavalcate di protesta stanno arrivando.» «Mi chiami non appena il test sarà finito» si raccomandò Lockwood. Ford ripose il satellitare, chiuse la valigetta con la combinazione e uscì. Udì un motore lontano e un pick-up scassato apparve là dove la strada entrava nella valle: superò il rilievo e scese, seguito da un furgone bianco con la scritta KREZ sulla fiancata e l'antenna satellitare in cima. Ford si avvicinò e rimase tra gli alberi, al margine della distesa, a guardare Begay e una decina di persone avvicinarsi in sella ai cavalli che avevano ormai la schiuma alla bocca. Il furgone con la scritta KREZ si fermò. Ne scesero due persone di una troupe televisiva che cominciarono a riprendere i cavallerizzi. Una donna robusta uscì dal pick-up: Maria Atcitty. Quando i manifestanti raggiunsero la distesa, il cameraman iniziò le riprese. Un uomo si staccò dagli altri. Avanzò al galoppo lanciando un grido d'esultanza e agitando una bandana, stretta nel pugno sollevato. Ford riconobbe Willy Becenti, l'uomo che gli aveva prestato il denaro per la benzina. Gli altri spronarono i cavalli e Begay li imitò. Percorsero veloci il tratto pianeggiante sfrecciando davanti alla telecamera e fermandosi nel parcheggio sterrato davanti all'antico emporio, non lontano da Ford. Quando Begay smontò, il reporter di KREZ si avvicinò, gli diede un cinque e iniziò a sistemare l'attrezzatura per l'intervista.
Arrivarono anche gli altri. Ci furono ulteriori saluti, poi le luci delle telecamere si accesero e il reporter iniziò a intervistare Begay. Il gruppo rimase nei paraggi a guardare. Ford uscì molto lentamente dal boschetto e attraversò la distesa. Tutti gli occhi si voltarono immediatamente nella sua direzione. Il cronista gli andò incontro allungando il microfono. «Come si chiama, signore?» Lui notò che la telecamera era in funzione. «Wyman Ford.» «È uno scienziato?» «No, sono addetto alle relazioni tra il Progetto Isabella e la comunità locale.» «Non le ha coltivate molto» commentò il reporter. «Si ritrova davanti una bella protesta.» «Lo so.» «Che ne pensa?» «Penso che il signor Begay qui presente abbia proprio ragione.» Ci fu un breve silenzio. «Ragione a proposito di che?» «A proposito di molte cose che ha detto: Isabella sta spaventando i navajo, la sua presenza non ha portato i vantaggi economici promessi, gli scienziati non si sono integrati per niente con la popolazione locale.» Ci fu un altro breve silenzio di perplessità. «Che cosa farà allora?» «Per cominciare ascolterò. Per questo ora mi trovo qui. Poi farò quello che posso per sistemare le cose. Siamo partiti male con la comunità navajo, ma le prometto che le cose cambieranno.» «Stronzate!» gridò una voce. Era Willy Becenti, che stava avanzando a grandi passi dal punto in cui aveva legato il cavallo. «Taglia!» Il cronista si girò verso di lui. «Ehi, Willy, se non ti spiace sto cercando di fare un'intervista.» Lui si bloccò e fissò Ford. Quando lo riconobbe, mutò espressione. «Ehi... ma è lei!» «Salve, Willy» disse Ford tendendogli la mano. Becenti la ignorò. «È uno di loro!» «Sì.» «Mi deve venti dollari, amico.» Ford prese il portafoglio. Becenti diventò rosso di soddisfazione. «Tenga pure i suoi soldi, non li voglio.» «Willy, spero che potremo risolvere i problemi collaborando tutti quan-
ti.» «Stronzate. Vede lassù?» Becenti puntò un braccio ossuto più o meno in direzione della valle mettendo in mostra un tatuaggio. «Lassù, tra quei promontori, ci sono delle rovine. Delle tombe. Voi avete profanato le tombe dei nostri antenati.» La telecamera era di nuovo in funzione. «Che cosa risponde, signor Ford?» domandò il reporter, cacciandogli di nuovo il microfono davanti al viso. Ford si trattenne dal precisare che erano rovine Anasazi. «Se ci aiutaste a individuarle con esattezza, potremmo salvaguardarle...» «Sono dappertutto! Nell'intera area! E gli spiriti dei morti sono infelici e vagano nei dintorni. Accadrà qualcosa di brutto, lo sento. Voi lo sentite?» Becenti si guardò attorno. «Lo sentite?» Ci furono vari cenni e mormorii di assenso. «I chindii sono ovunque. Da quando la Peabody Coal ha cavato l'anima a Red Mesa, questa è diventata un luogo molto, molto malvagio.» «Un luogo malvagio» gli fece eco il gruppo. «Questo è solo un ulteriore esempio di come l'uomo bianco arrivi qui e si prenda la terra dei navajo. Questo è quello che è successo, giusto?» Ci furono cenni e mormorii più sostenuti. «Willy, ha tutto il diritto di provare quello che prova» osservò Ford. «Ma, a nostra difesa, mi lasci dire che il problema è stato causato in parte dal fatto che il governo Navajo ha stretto l'accordo senza consultarsi con le popolazioni locali.» «Il governo Navajo è composto da un branco di coglioni al soldo dei Bilagáana, che come sempre sanno solo fare i leccapiedi. Prima dell'arrivo dei Bilagáana non avevamo nessun governo Navajo.» «Non possiamo cambiare le decisioni che sono state prese, però possiamo collaborare per migliorare le cose. Che ne dice?» «Sì, be', la mia risposta è vaffanculo!» Becenti avanzò minaccioso. Ford mantenne la sua posizione e si ritrovarono faccia a faccia. Il navajo aveva il respiro affannoso: il torace scheletrico si sollevava e si abbassava, mentre i muscoli fibrosi delle braccia si flettevano. Ford si mantenne calmo e rilassato. «Willy, io sono dalla sua parte.» «Non mi tratti con superiorità, Bilagáana!» Aveva i due terzi della corporatura di Ford e pesava la metà, ma sembrava pronto a fare a botte. Ford guardò Begay e dalla sua espressione indifferente capì che avrebbe lasciato che la situazione si evolvesse da sé.
La telecamera continuò a filmare. Becenti indicò la distesa con il braccio. «Guardi qui. Voi Bilagáana ci portate via la nostra mesa e perforate la roccia per centinaia di metri per innaffiare i vostri campi del cazzo, mentre mia zia Emma deve farsi cinquanta chilometri per andare a prendere l'acqua per i nipoti e le pecore. Quanto pensa ci vorrà prima che i pozzi di Blue Gap o di Blackhorse si prosciughino? E che mi dice dell'Hantavirus? Tutti sanno che non c'erano Hantavirus prima di un certo fatto, su a Fort Wingate.» Diversi navajo assentirono, sostenendo la vecchia teoria di complotto. «In base a ciò che sappiamo, qualcosa di Isabella ci sta già avvelenando. I nostri figli potrebbero cominciare a morire in qualsiasi momento.» Cacciando un dito scuro nel petto di Ford aggiunse: «Sa questo in che cosa la trasformerà, Bilagáana? In un assassino». «Stiamo calmi, Willy. Parliamo comunque in modo pacifico e rispettoso.» «Pacifico? Rispettoso? Per questo la vostra gente ha bruciato le nostre capanne e i nostri campi di mais? Per questo avete stuprato le nostre donne? Per questo ci avete costretto a intraprendere The Long Walk fino a Fort Sumner... per dimostrarvi pacifici e rispettosi?» Ford sapeva dal periodo trascorso a Ramah che i navajo parlavano ancora della Long Walk avvenuta intorno al 1860, anche se per il resto del Paese era storia antica, dimenticata da tempo. «Giuro su Dio, vorrei potessimo riscrivere la storia» replicò più coinvolto di quanto non pensasse. Nella mano di Willy, estratta da una tasca dei jeans, comparve una calibro 22 da pochi soldi. Ford si contrasse, in posizione di fuga, Begay fu tuttavia pronto a intervenire. «Daswood, spegni la telecamera» disse brusco. Il reporter eseguì, «Willy, metti via la pistola.» «Fottiti, Nelson, sono qui per combattere non per parlare e basta!» Begay rispose con voce sommessa. «Costruiremo una capanna sudatoria nella distesa. Resteremo qui tutta la notte a celebrare riti pacifici. Ci riprenderemo questa terra spiritualmente attraverso la preghiera. Questo è un tempo di preghiera e contemplazione, non di scontro.» «Pensavo fosse una protesta, non una maledetta danza da squaw» replicò lui, ma infilò ugualmente la pistola nella tasca dei pantaloni. Begay indicò i cavi dell'alta tensione che convergevano in prossimità del margine della mesa, a poco meno di un chilometro di distanza. «Non lot-
tiamo contro quest'uomo, ma contro quella.» Le linee elettriche ronzavano e sfrigolavano. Il suono era debole ma chiaro. «A quanto pare la vostra macchina è in funzione» osservò Begay dando le spalle a Ford con aria indifferente. «Credo sia il momento giusto perché se ne vada e ci lasci alle nostre cose.» Ford assentì, si voltò e si incamminò verso il Bunker. «Esatto, se ne vada di qui» gridò dietro Becenti, «prima che le spari nel suo culo di Bilagáana!» Mentre Wyman si avvicinava al cancello di sicurezza di Isabella, lo sfrigolio e il ronzio delle linee elettriche si fecero più forti. Udendo quello strano rumore, che sembrava quasi vivo, sentì un lieve brivido corrergli lungo la schiena. Capitolo 40 Alle otto meno cinque Booker Crawley si piazzò davanti al televisore nello studio accogliente, rivestito di pannelli di ciliegio, della sua casa in Dumbarton Street, a Georgetown, pregustando lo spettacolo. Quando il reverendo Spates aveva detto che avrebbe fatto fruttare il denaro, non lo aveva preso in giro. Il sermone della domenica era stato una vera bomba e adesso Roundtable America avrebbe messo a segno il colpo. Incredibile: erano bastati una telefonata e un paio di pagamenti in contanti. In tutto ciò non c'era nemmeno niente di illegale, solo una donazione a un'organizzazione di beneficenza, deducibile dalle tasse. Il lobbista prese in mano un bicchierino, lo scaldò e bevve un sorso del solito Calvados che si godeva dopo cena. In un fragore di musica patriottica, tra un vorticare di bandiere, aquile ed emblemi americani, comparve il logo di Roundtable America. Poi inquadrarono una tavola rotonda di legno con un'immagine del Campidoglio sullo sfondo. Al tavolo c'era Don T. Spates con un'aria seria e turbata. L'ospite sedeva dall'altra parte: un uomo canuto in completo giacca e cravatta, un'espressione sorniona sul viso, le sopracciglia ispide e le labbra increspate come se meditasse sul mistero stesso dell'esistenza. La musica cessò e Spates si girò verso la telecamera. Crawley si meravigliò che quell'uomo, un perfetto imbecille in carne e ossa, uno zoticone di campagna, fosse dotato di quell'incredibile presenza
televisiva. Persino i capelli arancione acquisivano un aspetto rispettabile, più dignitoso. Crawley si congratulò di nuovo con se stesso: che genialata, coinvolgere il predicatore. «Buonasera, signore e signori, benvenuti a una nuova puntata di Roundtable America. Sono il reverendo Don T. Spates e ho il piacere di avere con noi il dottor Henderson Crocker, illustre docente di fisica alla Liberty University di Lynchburg, in Virginia.» Il professore salutò la telecamera con un cenno grave. Era la solennità fatta persona. «Ho chiesto al dottor Crocker di parlarci del Progetto Isabella, l'argomento di questa serata. Per quanti di voi non lo sapessero, Isabella è un apparecchio scientifico che il governo ha terminato di costruire nel deserto dell'Arizona spendendo quaranta miliardi di dollari dei contribuenti. Molti sono quelli preoccupati. Abbiamo quindi domandato al dottor Crocker di spiegare a tutti noi, persone comuni, di cosa si tratta.» Rivolgendosi all'ospite aggiunse: «Dottor Crocker, lei è un fisico e un docente. Potrebbe dirci che cos'è Isabella?». «Grazie, reverendo Spates. Certamente. In sostanza, Isabella è un acceleratore di particelle, un frantumatore di atomi. Frantuma gli atomi a velocità elevate per aprirli e vedere la loro struttura interna.» «È una cosa che mette paura.» «Niente affatto. Ne esistono già diversi esemplari al mondo. Si sono rivelati fondamentali, per esempio, quando in America si è trattato di progettare e costruire armi atomiche. E hanno contribuito a gettare le fondamenta teoriche dell'industria dell'energia nucleare.» «In questo acceleratore particolare lei vede qualche problema?» Ci fu un silenzio enfatico. «Sì.» «E quale sarebbe?» «Isabella non è come gli altri acceleratori di particelle. Non viene usato come strumento scientifico, ma utilizzato impropriamente per sostenere una determinata tesi, una teoria della creazione propugnata da una schiera estremista di scienziati umanisti, laici e atei.» Spates inarcò le sopracciglia. «È un'affermazione piuttosto pesante.» «Non la prendo alla leggera.» «Si spieghi meglio.» «Con piacere. Questo gruppo di scienziati atei crede alla teoria in base a cui l'universo si sarebbe creato dal nulla, senza una mano che lo guidi o primum mobile. Definiscono questa teoria con il nome di Big Bang. Ora, la
maggior parte delle persone intelligenti, compresi molti scienziati come il sottoscritto, sanno che si basa su una quasi totale assenza di prove scientifiche. La teoria affonda le sue radici non nella scienza, ma nel sentimento profondamente anticristiano che oggi permea il nostro Paese.» Crawley bevve un'altra lunga, calda sorsata di Calvados. Spates si stava di nuovo dimostrando all'altezza delle aspettative. Quella era roba maledettamente buona, demagogia mascherata da informazione seria, scientifica; inoltre, usciva dalla bocca di un fisico. Proprio quel genere di sproloquio che una certa fetta della popolazione americana si sarebbe bevuto. «Negli ultimi dieci anni, in pratica, ogni ambito del sistema governativo e universitario è passato in mano agli atei e agli umanisti laici. Sono loro a controllare i fondi. Decidono quali ricerche effettuare. Soffocano la voce del dissenso. Questo fascismo scientifico è trasversale, va dalla fisica nucleare alla cosmologia e alla biologia e ovviamente all'evoluzione. Questi sono gli scienziati che hanno sviluppato le teorie atee, materialiste di Darwin e Lyell, di Freud e Jung. Sono loro a insistere che la vita non inizi con il concepimento. Questi sono gli scienziati che vogliono condurre spaventosi esperimenti sulle cellule staminali, su embrioni umani vivi. Questi sono gli abortisti e i cosiddetti "pianificatori familiari".» La voce continuò monotona, pareva la personificazione della ragione. Crawley smise di ascoltare la discussione e prese a fantasticare sul momento in cui avrebbe firmato il contratto con Delbert Yazzie al doppio del compenso pattuito. Lo spettacolo proseguì tra domande e risposte, poi ci fu la consueta richiesta di donazioni, un'ulteriore discussione seguita da altre richieste ancora. Le voci continuavano alzandosi e abbassandosi come un canto. La ripetizione era l'anima della televisione cristiana, pensò Crawley: ficcaglielo bene in testa e in aggiunta prendigli i soldi. La telecamera strinse l'inquadratura su Spates, che ora era occupato a commentare i fatti. Crawley lo ascoltava solo in parte. Fino a quel momento il reverendo aveva condotto un ottimo show e il pensiero che il Consiglio dei Navajo lo stesse guardando gli procurò un gran piacere. «... Dio sta chiaramente allontanando la sua mano protettrice dall'America...» Crawley sprofondò in uno stato di rilassamento ed entusiasmo. Non vedeva l'ora di ricevere quella telefonata alle quattro di lunedì. Da quel branco di scimmie avrebbe spremuto milioni. Milioni! «Ai pagani e agli abortisti, alle femministe, agli omosessuali e all'Ame-
rican Civil Liberties Union, che cercano tutti di secolarizzare l'America, io punto un dito in faccia e dico: Quando ci sarà il prossimo attentato terroristico, sarà solo colpa vostra...» Forse avrebbe potuto persino triplicare il compenso. Quella sì che sarebbe stata una cosa da raccontare ai suoi amici del Potomac Club. «... e adesso hanno costruito una torre di Babele, questa Isabella, per sfidare Dio sul suo stesso trono, ma Dio li colpirà...» Crawley stava sprofondando sempre più nelle sue piacevoli fantasticherie, quando una parola lo fece tornare bruscamente alla realtà: Omicidio. Si protese immediatamente sulla poltrona. Di che cosa aveva iniziato a parlare adesso Spates? «Esatto» affermò il reverendo. «Da una fonte confidenziale ho appreso che quattro notti fa uno dei principali scienziati del Progetto Isabella, un russo di nome Volkonskij, si è a quanto pare suicidato. La mia fonte riferisce però che alcuni investigatori non ne sono così certi. Sembra sempre più attendibile l'ipotesi di un omicidio, architettato dall'interno. Uno scienziato ucciso dai suoi colleghi. Perché? Per chiudergli la bocca?» Crawley si protese ancora di più ormai immerso nel presente, e guardò attentamente. Che colpo di genio dare quella notizia a conclusione dello spettacolo. «Forse posso dirvi perché. Ho ricevuto un'altra informazione dalla mia fonte, davvero sconvolgente. Stento a crederci io stesso.» Con la mano ben curata e un gesto lento, istrionico, prese un foglio di carta e lo sollevò in aria. Crawley riconobbe il trucco: Joseph McCarthy lo aveva introdotto negli anni Cinquanta. Per il solo fatto d'essere scritte su carta, le informazioni acquisivano il peso della veridicità. Spates lo scosse lievemente. «È proprio qui.» Ci fu un'altra pausa enfatica. Crawley drizzò la schiena, dimentico ormai del Calvados. Dove aveva intenzione di arrivare? «Isabella sarebbe dovuta entrare in funzione mesi fa invece è ancora ferma. C'è un problema. Nessuno sa quale, tranne la mia fonte e io, E tra poco anche voi.» Scosse di nuovo il foglio con teatralità. «Questa macchina chiamata Isabella ha, come cervello, il computer più veloce mai costruito. E questa Isabella sostiene di essere...» tacque ancora con fare teatrale. «... Dio.» Posò il foglio e guardò dritto nella telecamera. Persino il suo ospite parve scioccato.
Il silenzio si protrasse mentre lui fissava torvo la telecamera. Quell'uomo conosceva il potere del silenzio, soprattutto quello portato in televisione. Seduto sul bordo della poltrona, Crawley cercò di assimilare la notizia bomba. Il suo finissimo detector di grane politiche segnalava qualcosa di grosso e veloce che stava arrivando dal nulla. Era pura follia. Forse, dopotutto, non era stato molto furbo passare la palla a Spates e lasciare che conducesse il gioco. Forse avrebbe dovuto faxare a Yazzie un nuovo contratto e farglielo firmare rapidamente quel mattino. Alla fine il reverendo parlò. «Amici miei, non farei un'affermazione del genere se non fossi assolutamente sicuro dei fatti. La mia fonte, un cristiano devoto e un pastore proprio come me, è sul posto e ha avuto queste informazioni direttamente dagli scienziati. È esatto, questa gigantesca macchina chiamata Isabella sostiene di essere Dio. Mi avete sentito: sostiene di essere Dio. Se questa informazione è menzognera, li sfido a smentirmi pubblicamente.» Spates si alzò dalla poltrona e il suo gesto fu reso ancora più incisivo dall'abile ripresa. Restò in piedi, incombente, sugli spettatori: un colosso infuriato ma padrone di sé. «Chiedo, pretendo, che Gregory North Hazelius, il capobanda, si presenti davanti al popolo americano e offra delle spiegazioni plausibili. Lo pretendo. Noi, il popolo americano, abbiamo speso quaranta miliardi di dollari per costruire quella macchina infernale nel deserto, una macchina creata specificamente per dimostrare che Dio è un bugiardo. E ora essa sostiene di essere Dio! «O amici miei! Che eresia è mai questa? Che eresia è mai questa?» Capitolo 41 Ford arrivò sul Ponte alle otto. Quando entrò nella stanza, lanciò un'occhiata a Kate, seduta alla sua postazione di lavoro. I loro sguardi si incrociarono. Non si dissero una parola, ma quell'occhiata fu abbastanza eloquente. Gli altri scienziati erano chini sulle rispettive postazioni. Hazelius dirigeva lo show dalla sedia girevole del capitano, al centro. La macchina ronzava, ma il Visualizzatore era ancora nero. Gli altri accolsero il suo arrivo con un cenno o un saluto distratto. Wardlaw lo fissò a lungo prima di voltarsi verso la postazione dell'addetto alla sicurezza. Hazelius gli fece cenno di avvicinarsi. «Come vanno le cose di sopra?» domandò.
«Non credo avremo problemi.» «Bene. È arrivato giusto in tempo per assistere al contatto a CZero. Ken, come andiamo?» «È costante al novantanove per cento» rispose Dolby. «Il magnete?» «Funziona ancora bene.» «Allora siamo pronti a partire» affermò Hazelius. «Rae? Vai al quadro comandi dei rilevatori. Non appena la bomba logica si attiva, voglio che tu prenda la situazione in mano. Julie, tu la aiuterai.» «Alan?» esclamò girandosi. Edelstein alzò molto lentamente la testa dalla sua postazione. «Controlla i server di backup e il computer principale. Al primo segno di instabilità, trasferisci la gestione di Isabella ai tre p5 595. Non aspettare che vada completamente in tilt.» Lui annuì e digitò brusco un paio di comandi sulla propria tastiera. «Melissa, voglio che tu tenga sotto controllo quel buco nello spaziotempo. Se vedi qualsiasi cosa, e sottolineo qualsiasi, che indichi un problema, una risonanza inattesa, particelle stabili o superpesanti sconosciute, soprattutto singolarità stabili, dai immediatamente l'allarme.» In risposta ebbe un gesto di assenso. «Harlan? La terremo al cento per cento della potenza finché necessario. Sarà compito tuo far sì che l'energia arrivi intensa e pulita, e monitorare la griglia più vasta per rilevare eventuali problemi indotti da terze parti.» «Okay.» «Tony, anche se useremo i tre server come backup, i sistemi di sicurezza resteranno online. Non si scordi che lassù abbiamo un gruppo di contestatori che potrebbe fare qualcosa di piuttosto stupido, come scavalcare il recinto perimetrale.» «Sì, signore.» Guardandosi attorno disse: «George?». «Sì?» rispose Innes. «Di solito non hai nessun compito da svolgere durante i test, ma questo è diverso. Voglio che ti piazzi davanti al Visualizzatore per leggere l'output della bomba logica e analizzarlo dal punto di vista psicologico. Lo slag code è stato scritto da un essere umano e potrebbe contenere qualche indizio capace di condurci al suo inventore. Cerca sfumature, idee, stranezze psicologiche, qualsiasi cosa ci possa aiutare a identificare l'autore o a individuare la bomba logica.»
«Ottima idea, Gregory, lo farò.» «Kate? Ti voglio alla tastiera a scrivere le domande.» «Io...» Lei esitò. Hazelius sollevò un sopracciglio. «Sì?» «Preferirei non farlo, Gregory.» I suoi intensi occhi azzurri la scrutarono a fondo, poi si voltarono verso Ford. «Lei non ha altro da fare. Vuol fare lei le domande?» «Volentieri.» «Non importa cosa chiede: continui solo a far parlare il malware. Rae avrà bisogno di un output costante per rintracciare la fonte. Non perda tempo a fare domande lunghe o complicate: le scelga brevi e dirette. Kate, se Wyman tentennasse o esaurisse le domande, tieniti pronta a sostituirlo. Non possiamo sprecare un solo secondo.» Ford si avvicinò alla sua postazione di lavoro. Lei si alzò e gli porse la sedia. Lui le posò una mano sulla spalla, poi si chinò come per esaminare lo schermo. «Ciao» sussurrò prendendole la mano e stringendogliela. «Ciao.» Kate esitò, poi sottovoce disse: «Wyman, promettimi che, al di là di quello che potrà succedere qui, al di là di tutto quello che potrà succedere, noi due ricominceremo. Io e te. Assicurami che quello che è successo sulla mesa non è stata l'avventura di un momento». Era completamente arrossita e abbassò il viso per nasconderlo, lasciando che i capelli neri le ricadessero sulla fronte a mo' di velo. Ford le strinse la mano. «Te lo prometto.» Hazelius finì di discutere dei dettagli con alcuni membri della squadra, poi tornò al centro del Ponte. Passò in rassegna l'intero gruppo con i suoi vivi occhi azzurri. «Ripeterò quello che ho già detto: ci avventuriamo in acque sconosciute. Non fatevi illusioni: quanto stiamo per fare è pericoloso. Non c'è alternativa. Abbiamo le spalle al muro. Troveremo la bomba logica e la distruggeremo. Stanotte stessa!» Nel lungo silenzio che seguì, il canto della macchina aumentava e diminuiva. «Resteremo tagliati fuori dal mondo esterno per alcune ore» proseguì con sguardo infervorato. «Domande?» «Sì, io.» Aveva parlato Julie. Aveva il volto madido di sudore e le occhiaie scure parevano quasi traslucide. I capelli, lunghi e radi, ondeggiarono quando si mosse. Hazelius la fissò. «Sì?»
«Io...» esitò. Hazelius inarcò le sopracciglia, in attesa. La Thibodeaux scostò all'improvviso la sedia e si alzò. Le ruote si bloccarono nella moquette e le fecero perdere l'equilibrio. «È una follia» disse con voce bassa. «Abbiamo un magnete caldo, un computer instabile, un malware e stiamo per immettere alcune centinaia di megawatt di potenza della macchina? Faremo saltare in aria questa dannata montagna. Consideratemi fuori.» Lo sguardo di Hazelius guizzò brevemente verso Wardlaw, poi si posò di nuovo su di lei. «Mi dispiace ma è troppo tardi, Julie.» «Che cosa intendi con troppo tardi?» urlò la cosmologa. «Io me ne vado.» «Le porte del Bunker sono chiuse, bloccate e sigillate. Conosci la procedura.» «Stronzate. Ford è appena entrato.» «Per accordi precedenti. Ora, nessuno potrà uscire fino all'alba, nemmeno il sottoscritto. Fa parte delle disposizioni di sicurezza.» «Stronzate! E se ci fosse un incendio, un incidente?» Rimase in piedi a guardarlo con aria di sfida, tutta quanta tremante come una foglia. «L'unico che ha i codici in grado di aprire la porta prima dell'alba è Tony. È stata una sua decisione, in qualità di responsabile della sicurezza. Tony?» «Nessuno esce» affermò impassibile Wardlaw. «Mi rifiuto di accettare una risposta del genere» replicò lei con una voce sempre più acuta per il panico. «Temo che non hai scelta» disse Hazelius. «Tony, voglio uscire, ora, maledizione.» La sua voce si era fatta tanto stridula da rasentare un urlo. «Mi dispiace» rispose lui. Julie gli si buttò addosso con il suo metro e sessanta e lui la lasciò fare. Sollevò le mani strette a pugno e Wardlaw gliele bloccò proprio mentre si stava avventando su di lui. «Lasciami andare, bastardo!» La Thibodeaux si contorse e si dimenò impotente. «Calmati.» «Non ho intenzione di morire per una macchina!» esclamò, accasciandosi sull'uomo e cominciando a singhiozzare rumorosamente. Ford guardava la scena incredulo. «Se vuole uscire, lasciatela andare.»
Wardlaw gli lanciò un'occhiata alquanto ostile. «È contro il protocollo.» «Non rappresenta un rischio per la sicurezza. Guardatela: sta crollando.» «Le regole esistono per una ragione» replicò lui, «Nessuno lascia Isabella durante un test a meno che non si verifichi un'emergenza che metta in pericolo le nostre vite.» Ford si voltò verso Hazelius. «Non è giusto.» Si guardò attorno. «Voi sarete di certo d'accordo.» Invece di consenso, colse incertezza sui volti. Paura. «Non potete tenerla qui contro la sua volontà.» Fino a quel momento non si era reso conto di quanto Hazelius li avesse stregati. «Kate?» Si girò verso di lei. «Tu sai che è sbagliato.» «Wyman, abbiamo accettato tutti le regole, anche lei.» Hazelius si avvicinò alla Thibodeaux e fece un cenno a Wardlaw, che gliela affidò. Julie tentò di liberarsi ma lui la tenne con fermezza e, al contempo, delicatezza. I singhiozzi si trasformarono a poco a poco in piagnucolii e ansiti. La strinse tra le braccia con dolcezza, quasi con affetto. Julie si appoggiò al suo petto e pianse sommessamente come una bambina. Hazelius le dava colpetti affettuosi sulla testa e gliela accarezzava, asciugandole le lacrime con il pollice e mormorandole parole all'orecchio. Passò qualche minuto e lei si calmò. «Mi spiace» bisbigliò. Lui la confortò ancora, le accarezzò i capelli, le sfiorò la schiena con movimenti sensuali. «Abbiamo bisogno di te, Julie, ho bisogno di te. Non possiamo fare a meno di te. Lo sai.» Lei assentì e tirò su con il naso. «Ho perso il controllo, mi spiace. Non si ripeterà.» Hazelius la strinse a sé finché si fu placata. Quando la lasciò andare, la Thibodeaux arretrò tenendo lo sguardo fisso sul pavimento. «Julie, resta con me. Sarai al sicuro, te lo prometto.» Lei annuì di nuovo. Ford la fissò stupefatto finché notò che Hazelius lo stava osservando con aria triste e gentile. «Adesso va tutto bene, Wyman?» Lui incrociò quegli occhi azzurri senza parlare. Capitolo 42 Il pastore Russell Eddy era seduto davanti al monitor da venti pollici dell'iMac nella sua roulotte. Il webcast live di Roundtable America era appena terminato e lui aveva il cervello in fumo, l'anima in subbuglio e le pa-
role del reverendo Spates che ancora gli mulinavano nella mente. Lui, Russell Eddy, era «il cristiano devoto sul posto» che aveva svelato i segreti del Progetto Isabella. «Un pastore proprio come lui» aveva detto Spates a milioni di persone. Era stato lui, guidato dalla mano invisibile del Signore, a raccogliere le informazioni salienti correndo tutti quei rischi. Quelli non erano tempi normali. La giusta ira del Signore si sarebbe di certo manifestata in tutta la sua straordinaria potenza. Nemmeno la roccia avrebbe protetto gli scienziati pagani dalla vendetta del Signore onnipotente. Il pastore Eddy rimase seduto davanti allo schermo azzurro ora silenzioso, stordito dalla gloria di Dio. Il grandioso disegno stava iniziando a delinearsi: il piano che Dio aveva per lui. Tutto era iniziato con la morte del navajo, colpito dalla mano del Signore, segno diretto che la sua collera era prossima. La fine era imminente. «Perché è venuto il gran giorno della loro ira, e chi vi può resistere?» A poco a poco Eddy prese coscienza dell'ambiente attorno a sé. Nella squallida camera da letto tutto era così tranquillo, come se non fosse successo assolutamente niente. Eppure il mondo era cambiato. Il progetto che Dio aveva per lui era ormai chiaro. Ma qual era il passo successivo? Dio che cosa voleva facesse? Un segno... aveva bisogno di un segno. Afferrò la Bibbia con le mani tremanti dall'emozione. Dio gli avrebbe mostrato che cosa fare. La posò con la costa in basso e lasciò che si aprisse da sé. Le pagine consunte si girarono fin quasi alla fine e si fermarono al libro dell'Apocalisse. Il suo sguardo cadde su un versetto a caso: «Alla Bestia fu data una bocca per proferire parole d'orgoglio e bestemmie...». Ebbe quasi la sensazione che la schiena gli si contraesse tanto fu intenso il gelo che lo attraversò. Quel passo era uno dei riferimenti all'Anticristo più diretti e meno ambigui dell'intera Bibbia. Una conferma. Capitolo 43 Malgrado la tensione nella stanza, pensò Ford, questa volta la procedura del test fu ancora più noiosa. Alle dieci Isabella raggiunse il novantanove e cinque per cento, secondo il solito schema: la risonanza, il buco nello spazio-tempo, la strana immagine che prendeva forma al centro del Visualizzatore. Isabella ronzava, la montagna vibrava.
Come da programma, il Visualizzatore si oscurò e comparvero le prime parole. Ci parliamo di nuovo. «Forza, Wyman» affermò Hazelius. Raccontami di te, digitò lui. Sentiva Kate china alle sue spalle, intenta a osservarlo. Non posso spiegarti chi sono più di quanto tu non possa spiegare a uno scarafaggio chi sei. «Rae?» domandò Hazelius. «Ce l'hai?» «Lo sto cercando.» Provaci ugualmente, scrisse Ford. Ti spiegherò invece perché non mi potete capire. «George» disse Hazelius, «stai seguendo?» «Sì» rispose Innes, gongolando un po'. «È astuto: ci dice quello che non capiamo per non impelagarsi nei dettagli.» Dimmi allora, batté Ford. Vivete in un mondo che sì colloca a metà tra la lunghezza di Planck e il diametro dell'universo. «Sembra un programma bot» affermò Edelstein, studiando l'output su uno schermo. «Si copia in un'altra sede, l'originale si cancella e copre le sue tracce.» «Sì» confermò la Chen, «e io ho scatenato una muta di famelici bot wolves per tutta Isabella perché finalmente lo scovino.» Il vostro cervello si è perfezionato per manipolare il vostro mondo, non per comprenderne la realtà fondamentale. Vi siete evoluti per lanciare pietre, non quark. «L'ho rintracciato!» gridò Rae. Si abbassò sulla tastiera, come uno chef sui fornelli, e si mise freneticamente al lavoro. Sui quattro schermi piatti che aveva davanti i codici sfrecciavano impazziti. «Il computer centrale sta andando in tilt» annunciò calmo Edelstein. «Trasferisco la gestione di Isabella ai server di backup.» In seguito alla vostra evoluzione, vedete il mondo in un modo sostanzialmente sbagliato. Per esempio, ritenete di occupare uno spazio tridimensionale in cui oggetti distinti traccino traiettorie facilmente prevedibili, contrassegnate da un'entità che chiamate tempo. Questa è quella che definite realtà. «Trasferimento completato.» «Togli la corrente al computer principale.»
«Aspetta» disse brusco Dolby. «Non era affatto questo il piano.» «Vogliamo essere certi che il malware non sia là dentro. Stacca la spina, Alan.» Edelstein gli sorrise glaciale e si voltò di nuovo verso il computer. «Aspetta..!» Dolby scattò in piedi ma era tardi. «Fatto» annunciò il matematico, battendo energicamente sulla tastiera. Metà dei monitor divennero neri. Dolby rimase in piedi e barcollò, non sapendo che fare. Passò un istante. Non successe niente. Isabella continuò a ronzare. «Ha funzionato» affermò Edelstein. «Ken, ti puoi rilassare.» Dolby gli lanciò uno sguardo seccato e riprese la sua postazione. Stai dicendo, scrisse nel frattempo Ford, che la nostra realtà è un'illusione? Sì. La selezione naturale vi ha dato l'illusione di comprendere la realtà fondamentale, ma non è così. Come potreste? Gli scarafaggi capiscono la realtà fondamentale? Gli scimpanzé? Voi siete animali come loro. Vi siete evoluti come loro, vi riproducete come loro, avete le stesse strutture neurali di base. Vi differenziate dagli scimpanzé soltanto per duecento geni. Come potrebbe questa minuscola differenza permettervi di comprendere l'universo quando lo scimpanzé non è nemmeno in grado di comprendere un granello di sabbia? «Giuro» gridò la Chen, «che i dati arrivano di nuovo da CZero!» «Impossibile» replicò Hazelius. «Il malware si nasconde in un rilevatore. Fai un'uscita forzata e riavvia i processori dei rilevatori, uno alla volta.» «Ci provo.» Se la nostra conversazione dev'essere fruttuosa, devi abbandonare ogni speranza di comprendermi. «Un altro abile tentativo di gettare fumo negli occhi» commentò Innes. «In sostanza, non sta dicendo nulla.» Ford sentì una mano delicata posarsi sulla sua spalla. «Posso prendere il tuo posto per un attimo?» Lui allontanò le mani dalla tastiera e si scostò. Kate si sedette. Quali sono le nostre illusioni?, digitò. Vi siete evoluti per vedere il mondo composto da oggetti distinti. Non è così. Fin dal primo momento della creazione tutto è stato correlato. Quello che voi chiamate spazio e tempo sono solo proprietà emergenti di una realtà sottostante profonda. In quella realtà non c'è separazione. Non c'è tempo. Non c'è spazio. Tutto è uno.
Spiegati, scrisse lei. La vostra teoria della meccanica quantistica, seppur inesatta, arriva a cogliere la profonda verità secondo cui l'universo è unitario. Nulla da dire, batté lei, ma in che modo questo influisce sulla nostra vita, oggi? Influisce molto. Vi ritenete «singole persone» dotate di una mente unica, distinta dalle altre. Credete di nascere e morire. Per tutta la vita vi sentite isolati e soli, talvolta disperatamente soli. Avete paura di morire perché avete paura di perdere la vostra individualità. Tutto questo è un'illusione. Tu, lui, lei, le cose viventi e no che vi circondano, le stelle e le galassie, lo spazio vuoto tra di esse, non sono oggetti distinti, separati. Tutto è fondamentalmente correlato. Nascita e morte, dolore e sofferenza, amore e odio, bene e male, sono tutte illusioni. Sono atavismi del processo evolutivo. Non esistono nella realtà. Allora è come sostiene la dottrina buddista, cioè che tutto è un'illusione? Niente affatto. Esiste una verità assoluta, una realtà, ma il fatto di scorgerla, anche solo fugacemente, distruggerebbe una mente umana. Edelstein, che aveva abbandonato la sua console, apparve all'improvviso alle spalle di Ford e della Mercer. «Alan, perché hai lasciato il tuo posto?»domandò Hazelius. «Se sei Dio» esclamò il matematico con un mezzo sorriso e le mani dietro la testa, «non è necessario scrivere. Dovresti essere in grado di sentirmi.» Forte e chiaro, giunse in risposta dal Visualizzatore. «C'è un microfono nascosto» affermò Hazelius. «Melissa, pensaci tu. Trovalo.» «Ci puoi scommettere.» Edelstein continuò imperterrito. «Tu affermi che l'universo è unitario? Noi abbiamo un sistema di numerazione: uno, due, tre... in questo modo posso confutare la tua affermazione.» Uno, due, tre... un'altra illusione. Non esiste enumerabilità. «Questi sono sofismi matematici» replicò Edelstein infastidendosi. «Non esiste enumerabilità? Ti ho appena smentito contando.» Sollevando la mano aggiunse: «Eccoti un'altra smentita: ti mostro il numero intero cinque!». Tu mi mostri una mano con cinque dita, non il numero intero cinque. Il vostro sistema numerico non esiste in modo indipendente nel mondo reale. Non è nient'altro che una raffinata metafora.
«Vorrei sentire quali prove addurresti per questa ridicola ipotesi.» Prendi un numero a caso tra quelli reali: con probabilità sceglierai un numero che non ha nome, non ha definizione e non può essere calcolato né scritto anche se l'intero universo si cimentasse nell'impresa. Questo problema si estende ai numeri presumibilmente definibili, quali pi greco o la radice quadrata di due. Con un computer grande quanto l'universo e in grado di operare per un tempo infinito, non potresti calcolare nessuno di quei numeri con precisione. Dimmi, Edelstein, come si può dunque affermare che tali numeri esistano? Come possono esistere il cerchio o il quadrato da cui essi derivano? Come può esistere lo spazio dimensionale se non può essere misurato? Tu, Edelstein, sei come una scimmia che con un eroico sforzo mentale è riuscita a capire come si conta fino a tre. Hai trovato quattro ciottoli e pensi di aver scoperto l'infinito. Ford aveva perso il filo del discorso, ma restò sbigottito quando vide Edelstein impallidire, chiudersi in un silenzio scioccato, come se avesse afferrato qualcosa di davvero sconvolgente. «Davvero?» gridò Hazelius, scendendo dal Ponte e scostando Edelstein. Si piazzò esattamente davanti allo schermo. «Dici un sacco di belle cose, sostieni con vanto che nemmeno la parola "dio" sia adeguata per descrivere la tua grandezza. Va bene, allora: dimostralo. Dimostra che sei Dio.» «Non lo fare» esclamò Kate. «Non glielo chiedere.» «Perché no?» «Potresti ottenere quello che chiedi.» «Sì, come no.» Rivolgendosi di nuovo alla macchina, disse: «Mi hai sentito? Dimostrami che sei Dio». Silenzio, poi sullo schermo apparve la risposta: Fornisci tu la dimostrazione, Hazelius, ma ti avverto: questa è l'ultima prova a cui mi sottoporrò. Abbiamo cose importanti da fare e ben poco tempo. «Te la sei voluta.» «Aspetta» esclamò Kate. Hazelius si girò verso di lei. «Gregory, se proprio lo vuoi fare, allora fallo bene. Fa' che abbia un senso. Non si può lasciare spazio a dubbi o ambiguità. Chiedi qualcosa che sai solo tu: solo tu e nessun altro al mondo. Qualcosa di personale. Il tuo segreto più profondo, più intimo. Qualcosa che solo Dio, il vero Dio, potrebbe sapere.» «Sì, Kate, certo.» Il fisico rifletté a lungo, poi parlò con tono calmo. «Bene. Ci sono.»
Di nuovo ci fu silenzio. Tutti avevano smesso di lavorare. Hazelius si voltò verso il Visualizzatore e parlò con voce serena, pacata. «Mia moglie, Astrid, era incinta quando è morta. Lo avevamo scoperto da poco. Nessun altro sapeva della gravidanza. Nessuno. Eccoti la prova: dimmi il nome che avevamo scelto per il bambino.» Di nuovo calò il silenzio, rotto solo dal canto etereo dei rilevatori. Lo schermo restò nero. I secondi si susseguirono lenti. Hazelius sbuffò. «Be', questo chiude la questione, se mai qualcuno avesse avuto ancora dubbi.» Poi, come da molto lontano, un nome si materializzò a poco a poco sullo schermo: Albert Leibniz Gund Hazelius, se fosse stato un maschio. Hazelius rimase immobile, inespressivo. Lo fissarono tutti, attendendo una smentita che non arrivò. «E se fosse stata una femmina?» gridò Edelstein allo schermo. «E se fosse stata una femmina? Che nome avrebbe avuto?» Rosalind Curie Gund Hazelius. Ford osservò stupefatto Hazelius accasciarsi al suolo, lentamente come se si fosse addormentato di colpo. Capitolo 44 Quando Stanton Lockwood entrò nello Studio Ovale per la riunione d'emergenza, il presidente stava camminando su e giù nel centro della stanza come un leone in gabbia. Roger Morton, il capo di gabinetto, e l'onnipresente responsabile della campagna elettorale Gordon Galdone si trovavano uno a destra, l'altro a sinistra del suo territorio, a mo' di arbitri. La sempre silenziosa Jean, la segretaria, teneva in mano il suo blocco da stenografia. Lockwood si stupì di vedere il consigliere del presidente per la sicurezza nazionale in videoconferenza, proiettato su uno schermo piatto che divideva con Jack Strand, il direttore dell'FBI. «Stanton» esclamò il presidente, andandogli incontro e afferrandogli la mano. «Sono contento che sia potuto venire nonostante il breve preavviso.» «È ovvio che mi sia precipitato quando mi ha convocato, signor presidente.» «Si sieda.» Lockwood seguì il suggerimento, mentre il presidente continuò a restare in piedi. «Stan, ho convocato questa riunione ristretta a pochi, perché lag-
giù in Arizona c'è un problema con il Progetto Isabella. Jack mi ha appena avvertito. Dalle otto, ora locale, tutte le comunicazioni da e per Isabella sono cessate. Persino quelle da Red Mesa. L'addetto esterno del progetto del DOE ha cercato di contattarli tramite le linee sicure, le linee cellulari ordinarie e persino le normali linee fisse. Niente da fare. Isabella sta funzionando alla massima potenza e a quanto pare la squadra è sotto, nel Bunker, completamente isolata. La situazione è stata segnalata ai vertici ed è giunta all'attenzione del direttore Strand, che mi ha subitaneamente informato.» Lockwood annuì. Era molto strano. C'erano sistemi di backup per i sistemi di backup, non sarebbe dovuto accadere. Non sarebbe potuto accadere. «Sentite, probabilmente si tratta di un malfunzionamento» proseguì il presidente, «forse di un problema elettrico. Non voglio farne un caso di Stato, non in un momento così delicato.» «Momento delicato», Lockwood lo sapeva bene, era l'eufemismo che usava per riferirsi alle imminenti elezioni presidenziali. Il presidente continuò a camminare su e giù. «E non è tutto.» Voltandosi verso la segretaria, disse: «Jean? Procedi pure». Uno schermo scese dal soffitto. Si udì un sibilo di scariche statiche, poi si riempì dell'immagine del reverendo Don T. Spates, seduto al suo tavolo rotondo di legno, intento a parlare con un'eminenza grigia. La sua voce si propagò dall'impianto stereo, poderosa come un tuono. Il pezzo era stato montato in modo da mostrare otto minuti dei punti salienti della trasmissione: una vera bomba. Quando il nastro terminò, il presidente smise di camminare e guardò Lockwood. «Questo è il secondo problema.» Il consigliere fece un profondo respiro. «Signor presidente, non mi preoccuperei troppo. Sono assurdità, solo una parte dell'opinione pubblica si berrà questo bel discorsetto.» Il presidente si rivolse al capo di gabinetto. «Roger? Diglielo.» Morton si sistemò la cravatta, quindi puntò gli occhi grigi su Lockwood. «Prima ancora che Roundtable America terminasse, la Casa Bianca aveva ricevuto quasi centomila mail. Mezz'ora fa siamo arrivati a duecentomila. Non ho l'ultimo conteggio perché i server sono andati in tilt.» Lockwood provò un senso d'orrore. «Da quando sono entrato in politica» affermò il presidente, «non ho mai visto niente del genere. E guarda caso, proprio in questo momento il maledetto Progetto Isabella tace.»
Lockwood fissò Galdone, ma come sempre il funereo responsabile della campagna si riservava di esprimere il suo parere. «Potrebbe mandare qualcuno laggiù» domandò Stanton Lockwood, «a verificare la situazione?» Intervenne il direttore dell'FBI. «Ci stavamo pensando. Forse una piccola squadra... in caso si sia verificato un problema.» «Un problema?» «Non è da escludere che ci potremmo trovare di fronte a un atto terroristico o a una specie di ammutinamento interno. È una possibilità molto remota, ma non possiamo affatto escluderla.» Lockwood si sentì travolto da un senso crescente di preoccupante incredulità. «Allora, Stanton» disse il presidente, congiungendo le mani dietro la schiena. «Lei è responsabile di Isabella. Che diavolo sta succedendo?» Lui si schiarì la gola. «Quello che posso dire è che tutto ciò è molto strano, ben al di fuori dei protocolli. Non riesco a darmi spiegazioni, a meno che...» «A meno che, cosa?» domandò il presidente. «A meno che gli scienziati non abbiano volutamente interrotto le comunicazioni.» «Come possiamo appurarlo?» Lockwood rifletté un istante. «C'è un certo Bernard Wolf a Los Alamos. Era il braccio destro dell'ingegnere capo, Ken Dolby, che ha progettato Isabella. Conosce l'intero layout, i sistemi, i computer, sa come funziona tutto quanto. E ha l'intera serie di disegni.» Il presidente si girò verso il capo di gabinetto. «Trovatelo e mettetelo al lavoro.» «Sì, signor presidente.» Morton spedì il suo assistente a occuparsi della faccenda, poi si avvicinò alla finestra e si girò. Era rosso in volto e le vene del collo gli pulsavano. Fissò Lockwood dritto in faccia. «Da settimane, Stan, ti esprimo ciclicamente le mie preoccupazioni per la mancanza di progressi con Isabella. Che diavolo hai fatto in tutto questo tempo?» Lockwood restò sbigottito dal tono. Nessuno gli parlava così da anni. Controllandosi, rispose: «Ci ho lavorato giorno e notte. Ho persino infiltrato un uomo». «Hai infiltrato un uomo? Gesù. Senza avvertirmi?» «L'ho autorizzato io» osservò brusco il presidente. «Concentriamoci sul problema ed evitiamo dissapori.»
«Che cosa dovrebbe fare esattamente il tuo uomo?» domandò Morton, ignorando il presidente. «Sta cercando di capire le ragioni del ritardo, e tenta di scoprire che cosa ci sia dietro.» «E...?» «Aspetto una risposta per domani.» «Come lo contatti?» «Con una linea satellitare sicura» rispose Lockwood. «Purtroppo adesso è nel Bunker con gli altri. Sottoterra il telefono non funziona.» «Prova lo stesso.» Con mano tremante il consigliere scrisse un numero su un pezzo di carta e lo porse a Jean. «Metta il vivavoce» disse Morton. Il telefono suonò cinque volte, dieci, quindici. «Può bastare» osservò il capo di gabinetto, fissando Lockwood con durezza. Poi si voltò verso il presidente. «Signor presidente, posso suggerire di spostare la riunione nell'Unità di crisi? Perché ho la sensazione che sarà una lunga notte.» Lockwood fissò il Great Seal sul tappeto. Gli sembrava tutto quanto così maledettamente incredibile: era davvero possibile che fossero arrivati a Ford e lo avessero portato dalla loro parte? Capitolo 45 Hazelius era accasciato scomposto sul pavimento di linoleum. Ford si precipitò da lui e tutti gli altri membri della squadra gli si affollarono attorno. Si inginocchiò e gli controllò il polso: il battito era veloce, rapido, costante. Kate gli prese la mano e gli diede qualche colpetto. «Gregory? Gregory!» «Datemi una torcia» esclamò Ford. Wardlaw gliela porse. Ford sollevò una palpebra al fisico e gli puntò il fascio di luce nell'occhio. La pupilla si contrasse sensibilmente. «Un po' d'acqua.» Gli cacciarono in mano un bicchiere. Ford prese il fazzoletto, lo inzuppò nell'acqua e tamponò il viso di Hazelius. Questi mosse lievemente le spalle, poi aprì a poco a poco gli occhi e si guardò attorno, allarmato e confuso, «Che cosa...?»
«Va tutto bene» disse Ford. «È soltanto svenuto.» Hazelius si guardò attorno senza capire, poi pian piano riprese conoscenza e si sforzò di mettersi a sedere. «Stia calmo» disse Ford, tenendolo delicatamente fermo. «Aspetti che le si schiariscano le idee.» Hazelius rimase steso a fissare il soffitto. «Oh mio Dio» gemette sommessamente. «Non può essere vero. Non può essere successo.» Un odore di componenti elettronici caldi impregnava l'aria già di per sé soffocante. Isabella emetteva il suo lamento: il suono proveniva da tutte le direzioni, come se la montagna stessa cantasse una nenia funebre. «Aiutatemi a mettermi sulla sedia» ansimò il fisico. Kate lo prese per un braccio, Ford per l'altro e insieme lo aiutarono ad alzarsi, lo condussero al centro del Ponte e lo fecero sedere sulla sua poltroncina. Tenendosi ai braccioli, Hazelius si guardò attorno. Ford non aveva mai visto occhi di un azzurro così tanto agghiacciante. «È vero? Dei nomi? Devo saperlo» chiese subito incalzante Edelstein. Il fisico annuì. «Ci sarà sicuramente una spiegazione logica.» Lui scosse la testa. «Lo avrai ovviamente detto a qualcuno» proseguì Edelstein. «Qualcuno lo avrà scoperto.» «No.» «Il medico che ha dato la notizia a tua moglie: avrà saputo dei nomi.» «Era un kit per uso domestico» spiegò Hazelius con voce rauca. «Lo avevamo scoperto... solo un'ora prima che morisse.» «Avrà chiamato qualcuno, forse la madre.» Di nuovo Hazelius scosse vigorosamente la testa. «Impossibile. Sono stato sempre con lei. Abbiamo fatto il test e poi scelto i nomi. Questo è quanto. Sessanta minuti. Non siamo andati da nessuna parte, non abbiamo parlato con nessuno. Era così felice. È stato quello a far scoppiare l'aneurisma: l'improvvisa ondata di felicità per la notizia le ha fatto salire la pressione sanguigna. E ha avuto un'emorragia cerebrale.» «Qui qualcuno ha messo in piedi una truffa» affermò Edelstein. La Chen scosse il capo, facendo ondeggiare la massa di capelli neri. «Alan, i dati vengono dal buco nello spazio-tempo. Non arrivano da altre parti del sistema. Li ho rintracciati una prima volta, una seconda, ho fatto un'uscita forzata dai processori di ogni rilevatore, ho effettuato tutti i test immaginabili. È vero.»
Hazelius inspirò, tutto tremante. «Conosceva i miei pensieri, come quelli di Kate. Non c'è modo di spiegarlo altrimenti, Alan. Non c'è altro modo in cui possa saperlo. Qualsiasi cosa sia, conosce i nostri pensieri più profondi.» Nessuno si mosse. Ford cercò di darsi una spiegazione razionale. Edelstein aveva ragione: qualcuno aveva messo in piedi una truffa. Quando il fisico riprese a parlare, lo fece con tono calmo, indifferente. «La macchina sta funzionando senza che nessuno la controlli. Tornate subito tutti alle vostre postazioni.» «Non... abbassiamo la potenza?» chiese Julie Thibodeaux con voce tremante. «Assolutamente no.» Grazie all'immenso flusso di energia, Isabella continuava a ronzare, come guidata da un pilota automatico. Gli schermi sibilavano e tremolavano per l'effetto neve, mentre i rilevatori emettevano il loro strano canto. I componenti elettronici crepitavano: pareva quasi che la tensione degli scienziati avesse contagiato il computer e portato Isabella stessa al limite. «Alan, torna ai p5, mantieni tutto costante. Kate, voglio che tu faccia un paio di calcoli sulla geometria di quel buco nello spazio-tempo. Dove va? Dove si apre? Melissa, dalle una mano e occupati di quella data cloud. Analizzala a tutte le frequenze, scopri che diavolo è.» «E il malware?» chiese Dolby, come se non riuscisse a comprendere quanto stava accadendo. «Ken, non capisci? Non c'è nessun malware.» Questi parve stupefatto. «Tu credi sia... Dio?» Hazelius ricambiò lo sguardo con una delle sue occhiate imperscrutabili. «Credo che Isabella stia comunicando con un'entità reale. Che si tratti davvero di Dio, qualsiasi cosa significhi questa parola, per il momento non abbiamo dati sufficienti per stabilirlo. Per questo dobbiamo continuare.» Ford si guardò attorno. Tutti stavano ancora cercando di superare lo shock dell'accaduto. Il volto di Wardlaw era madido di sudore. Kate e St. Vincent erano bianchi come cadaveri. Ford le prese la mano. «Stai bene?» Kate scosse il capo. «Non ne sono tanto sicura.» «Per quanto tempo possiamo farla funzionare?» chiese Hazelius a Dolby. «Farla funzionare alla massima potenza è pericoloso.» «Non ti ho chiesto se sia pericoloso, ti ho chiesto per quanto tempo.»
«Per due, tre ore.» «Aspettate» intervenne Innes. «Non agiamo in modo precipitoso. Dobbiamo fermarci un attimo a considerare quello che è successo. È un fatto... senza precedenti.» Hazelius lo guardò. «George, se Dio ti avesse parlato, ti gireresti e te ne andresti?» «Dai, Gregory! Non puoi credere davvero di aver comunicato con Dio!» «Ti ho chiesto soltanto se.» «Mi rifiuto di considerare ipotesi assurde.» «George, se siamo entrati in contatto con una sorta di intelligenza universale, non possiamo andarcene ora perché l'opportunità è unica.» «È una follia» obiettò debolmente lo psicologo. «No, George, non lo è. Questa entità ci ha fornito le prove che abbiamo chiesto, due volte. Potrebbe essere Dio, potrebbe essere qualcos'altro, non lo so. Quello che so è che ho intenzione di andare fino in fondo.» Si guardò attorno con aria infervorata. «Che ne dite? Siete tutti con me?» Il canto di Isabella permeava la stanza. Gli schermi tremolavano. Nessuno parlò, ma Ford vide un «sì» dipinto su tutti i loro volti. Capitolo 46 Nella camera sul retro della sua roulotte il pastore Russell Eddy chiuse la Bibbia e la posò su una delle pile traballanti di libri che occupavano la scrivania. Spostò quelle che bloccavano il Mac silenzioso per crearsi uno spazio per lavorare e lo accese. Il monitor inondò la stanza della sua fredda luce azzurrina. Erano le nove di sera. Non aveva mai avuto la mente così lucida. Dio aveva risposto alle sue preghiere. Dio gli aveva detto cosa fare. Fissò lo schermo vuoto per qualche minuto, raccogliendo le idee. Esternamente sembrava calmo, ma nel profondo il suo cuore batteva forte, pieno dell'ardore dello Spirito Santo. C'era una ragione se era finito a gestire una squallida missione ai confini del mondo. C'era una ragione se Lorenzo era morto. Russell Eddy era stato mandato lì quale sentinella di Dio. Il Signore lo aveva scelto per svolgere un ruolo determinante nell'imminente Giudizio Universale. Per mezz'ora rimase seduto perfettamente immobile a riflettere sulla lettera che doveva scrivere. Per un intervento sovrannaturale, la sua mente restò sempre lucida e acuta mentre la concepiva, parola dopo parola.
Era pronto. Chinò la testa, recitò una breve preghiera e posò le dita sulla tastiera. Miei amici in Cristo, Molti di voi avranno visto la trasmissione Roundtable America qualche ora fa, tenuta dal reverendo Don T. Spates. Lo avrete sentito parlare del Progetto Isabella e citare una fonte segreta, un «cristiano devoto sul posto» da cui ha ottenuto le informazioni. Sono io la fonte segreta. Dio mi ha chiesto di rivelarvi quello che so. Ciò che farete di tali informazioni, riguarda soltanto voi e il Signore. Mi chiamo Russell Eddy, sono il pastore della Missione riuniti nel tuo nome nella riserva navajo. La nostra è una missione cristiana molto semplice e sperduta, situata nel deserto dell'Arizona ai piedi di Red Mesa, a meno di quindici chilometri da Isabella. Amici miei, vi do una notizia: straordinaria, terrificante ma, al contempo, gioiosa. L'evento che i cristiani attendono da duemila anni sta per verificarsi: proprio ora, proprio mentre scrivo questa mail. IL GIUDIZIO UNIVERSALE È ARRIVATO. L'APOCALISSE E L'ESTASI SI STANNO VERIFICANDO ORA, PROPRIO QUESTA SERA. Ne avrete sentito parlare in Prima dell'Apocalisse. Be', non è più un romanzo. Sta accadendo davvero. So che molti di voi hanno già sentito affermazioni del genere in precedenza. Molti falsi profeti hanno dichiarato lo stesso in passato. Siete scettici e avete ragione di esserlo. Tutto quello che chiedo è che mi ascoltiate. «Chi ha orecchie per intendere, intenda.» Non commettete l'errore di cancellare questa mail. Facendolo, potreste perdere il posto alla destra di Gesù Cristo nel Giorno del Giudizio. Leggete quanto ho da dirvi, pregate e poi decidete.
Comincerò con due annunci. Il primo è: L'ANTICRISTO È QUI TRA NOI. IO L'HO INCONTRATO. Gli ho parlato. Esiste in carne e ossa. Le sue macchinazioni e i suoi piani sono giunti a compimento. Dio mi è testimone, proprio davanti a me si è tolto la maschera e si è rivelato. Il secondo annuncio è ancora più importante: L'APOCALISSE STA GIÀ ACCADENDO. È INIZIATA ESATTAMENTE QUESTA SERA. Ovviamente tutto questo vi sembrerà a dir poco bizzarro e vi direte: in questo momento esatto? L'Apocalisse? Con i bambini che dormono di sopra? Con mia moglie a letto? Impossibile! Ma considerate quello che l'apostolo Matteo ha detto: «Perché nell'ora che non immaginate, il Figlio dell'uomo verrà». Questa è quell'ora. È adesso. In questo momento. Ora vi darò la prova di quanto affermo. La chiave è l'Apocalisse, 13:1, e i passi seguenti. «Vidi salire dal mare una Bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo.» Isabella misura esattamente 35 chilometri di diametro e ha dieci rivelatori diversi, ognuno dei quali registra dieci tipi di particelle diverse. Alcuni vengono in effetti chiamati «corna». Se pensate che stia inventando tutto, verificate sul sito web di Isabella: www.progettoisabella.org. È tutto lì. «Il drago le diede la sua forza, il suo trono e la sua potestà grande.» E chi è l'Anticristo che dirige lo spettacolo? È UN CERTO GREGORY NORTH HAZELIUS. Lui ha concepito il Progetto Isabella, ha ottenuto i fondi necessari per realizzarlo e ora coordina la squadra. Il «New York Times» lo ha definito «l'uomo più intelligente della Terra», Hazelius stesso si è vantato molto al riguardo. Una volta ha dichiarato, «tutti sono intellettualmente in-
feriori a me» e ha definito gli esseri umani una razza di «imbecilli». Esatto, amici miei. Ma adesso è emersa la sua vera natura: Gregory North Hazelius è l'Anticristo. Ne dubitate? Io l'ho incontrato, gli ho parlato faccia a faccia, ho ascoltato la sua eresia, l'ho visto vomitare bile sul nostro Salvatore. L'ho sentito imprecare contro i cristiani chiamandoli «insetti» e «batteri». Ma non credete a me, credete alla Bibbia. Eccovi un altro passo dell'Apocalisse, 13. «E adorarono la Bestia dicendo: Chi è simile alla Bestia? [...]. Alla Bestia fu data una bocca per proferire parole d'orgoglio e bestemmie [...]. Essa aprì la bocca per proferire bestemmie contro Dio, per bestemmiare il suo nome e la sua dimora, contro tutti quelli che abitano in cielo.» Come avrete sentito a Roundtable America, la macchina Isabella sostiene di essere Dio, ma loro non parlano con Dio, amici miei. Parlano con SATANA. «Ma guai a voi, terra e mare, perché il diavolo è precipitato sopra di voi pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo.» Satana è con le spalle al muro. Oppone resistenza per l'ultima volta... e non è mai stato così pericoloso. POTRESTE CHIEDERVI: DOVE SONO LE PROVE? ASCOLTATE E SENTIRETE. Considerate la seguente affermazione, che ho attinto direttamente dal sito web del Progetto Isabella: «Quando funziona alla massima potenza, Isabella ricrea a CZero la temperatura dell'universo così com'era nel primo milionesimo di secondo del Big Bang, una temperatura di più di un trilione di gradi Fahrenheit». E ora considerate l'Apocalisse, 13:13. «[La Bestia] operava grandi prodigi, fino a far scendere fuoco
dal cielo sulla terra davanti agli uomini.» Ancora una volta la profezia dell'apostolo Giovanni si è avverata. Eccovi un'altra affermazione tratta dal sito del Progetto Isabella: «Il computer centrale che controlla Isabella è il calcolatore più potente esistente sulla faccia della Terra. Funziona a una velocità massima di quindici petaflop (quindici quadrilioni di calcoli al secondo), che si avvicina a quella presunta del cervello umano». Confrontatela ora con questo passo dell'Apocalisse. «Le fu anche concesso di animare la statua della Bestia sicché quella statua perfino parlasse e potesse far mettere a morte tutti coloro che non adorassero la statua della Bestia.» Avete voglia di andare a dormire stasera sapendo che l'Anticristo vi ucciderà? Infine, amici miei, cito il passo fondamentale dell'Apocalisse, quello che racchiude l'essenza della visione dell'apostolo Giovanni. «Chi ha intelligenza calcoli il numero della Bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei.» La Bibbia ci dice come riconoscere l'Anticristo: dal numero 666. La lingua madre dell'apostolo Giovanni era l'ebraico. Egli sapeva che ogni lettera ebraica aveva un equivalente numerico. La gematria va alla ricerca dei numeri nascosti nei nomi o nei testi ebraici. Vediamo allora che succede quando la applichiamo a Isabella e alla sua sede, l'Arizona. Se trasformiamo le lettere romane nelle equivalenti ebraiche e assegniamo a ognuna il rispettivo numero otteniamo: A R I Z
Aleph Resh Yodh Shin
1 200 14 300
O Ayin N Nun A Aleph Totale
100 50 1 666
Ancora non mi credete? Considerate quanto segue: I Yodh S Shin A Aleph B Bet E He L Lamed L Lamed A Aleph Totale
14 300 1 2 88 130 130 1 666
AMICI MIEI, NON È QUESTA LA PROVA CHE STAVAMO ASPETTANDO? Ora considerate questo passo dell'Apocalisse. «E radunarono i re nel luogo che in ebraico si chiama Armaghedòn,» Armageddon è il luogo dove Satana oppone l'ultima resistenza contro il re scelto da Dio, Gesù. La parola Armageddon deriva dai termini ebraici Har Megido ( ), che significano «la montagna di Megido». Ma questa «montagna» non è mai stata trovata in Terrasanta e in realtà la parola «Megido» è solo una forma antica del termine ebraico che indica una terra di colore rossiccio. Perciò vedete: il termine «Armageddon» dell'Apocalisse si riferisce in verità a un luogo chiamato «Montagna rossa». Amici miei, il Progetto Isabella si trova in un luogo noto come Red Mesa, in Arizona. I navajo lo chiamano Dzilth Chn, che nella loro lingua significa letteralmente «Montagna rossa», cioè Armageddon.
Queste sono le prove, amici miei. Ora, a voi la scelta. Che fare con queste informazioni? Il momento finale della vostra vita in qualità di cristiani è arrivato. È ADESSO, mentre leggete questa mail. CHE FARE? Resterete a casa? Esiterete chiedendovi se sia l'ennesimo squilibrato? Rimarrete seduti al computer senza sapere dove sia Red Mesa o come raggiungerla nel cuore della notte? Deciderete di aspettare domani? Attenderete qualche prova, qualche segno? O risponderete alla chiamata ADESSO e diventerete soldati dell'esercito di Dio? Lascerete tutto ADESSO, vi alzerete dal computer ADESSO, uscirete di casa e verrete a Red Mesa per unirvi a me nella «guerra del gran giorno di Dio onnipotente»? Combatterete al mio fianco ADESSO, spalla a spalla, fratelli in Cristo, l'ultima battaglia contro Satana e l'Anticristo? A VOI LA SCELTA In Cristo, Pastore Russell Eddy Missione riuniti nel tuo nome Blue Gap, Arizona La mail originale è stata inviata il 14 settembre alle 21:37, ora locale. INVIATE QUESTA MAIL A TUTTI GLI AMICI CRISTIANI, POI VENITE A RED MESA E UNITEVI A ME! Eddy si appoggiò alla sedia grondante di sudore, con le mani che gli tremavano. Non rilesse nemmeno ciò che aveva scritto. Dio aveva guidato la sua mano, il che significava che era perfetta. Posò il cursore sullo spazio riservato all'oggetto della mail e scrisse: RED MESA = ARMAGEDDON
Controllò l'elenco degli indirizzi di posta elettronica che aveva selezionato nella speranza di raccogliere fondi per la missione. Alcuni li aveva tratti dalle mailing list di chiese e comunità religiose, altri erano contatti dei bulletin board, newsgroup e chat cristiani o forum Usenet. Duemilacentosedici nomi. Ovviamente, la maggior parte non avrebbe risposto. Questo secondo la Bibbia sarebbe accaduto: «Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti». Duemila nomi però erano sempre un inizio. Di questi, forse alcune decine avrebbero diffuso il messaggio e sarebbero venute a Red Mesa. A quell'invio avrebbero potuto rispondere alcune centinaia di persone, a quello dopo ancora alcune migliaia. La lettera sarebbe arrivata a centinaia di siti cristiani. I blogger cristiani l'avrebbero ricevuta e in quel modo si sarebbe diffusa ancora. Eddy aveva passato abbastanza tempo in Internet da sapere che la matematica era dalla sua. Incollò l'intera rubrica di indirizzi nello spazio apposito e spostò il cursore sul piccolo tasto con l'aeroplanino di carta. Fece un profondo respiro, poi cliccò il mouse. Con un woosh!, la mail partì nell'etere elettronico alla velocità della luce. È fatta. Eddy si appoggiò allo schienale in preda a un tremito. Tutt'intorno regnava il silenzio, ma il mondo era cambiato per sempre. Restò seduto per cinque minuti. Una volta controllato il respiro, si alzò e si stabilizzò sulle gambe. Dopo un lungo momento di esitazione pescò le chiavi dalla tasca, aprì il mobile schedario accanto alla scrivania e prese il revolver Ruger 44 Magnum Blackhawk che suo padre gli aveva regalato per il diciottesimo compleanno. Era un modello a numero limitato, una replica del Far West, pur rinnovato e affidabile. Molti anni prima aveva passato tanto tempo al poligono in sua compagnia e l'aveva tenuto bene oliato, in buone condizioni. Eddy non si faceva illusioni. Sarebbe stata una guerra, una vera guerra. Caricò il revolver con Remington incamiciati da 240 grani a punta morbida. Mise la pistola e due scatole di munizioni di riserva in uno zaino, vi aggiunse una bottiglia d'acqua, una torcia, batterie di scorta, un binocolo, la sua Bibbia, un taccuino e una matita. Cercò la bottiglia di cherosene di riserva, che teneva in caso di blackout. Anche quella finì nello zaino, che si gettò poi con un rapido movimento in spalla. Uscì nell'aria notturna e guardò Red Mesa, una massa scura che si stagliava contro il cielo. Un'unica, flebile luce contrassegnava il Progetto Isa-
bella, appollaiato sul bordo di quell'isola nera di roccia. Buttò lo zaino nell'abitacolo del pick-up e salì a bordo. Aveva a malapena benzina sufficiente per raggiungere la sommità della mesa. Ma che importanza aveva? Dio, che lo aveva condotto fin lì, lo avrebbe riportato a casa e riunito ai suoi figli, se non nella vita terrena, in quella che sarebbe venuta dopo. Capitolo 47 «Tutti ai vostri posti» ordinò Hazelius con sempre maggior fermezza nella voce. Si girò verso il Visualizzatore e prese la parola. «D'accordo, ricominciamo da capo. Chi diavolo sei... veramente?» Ford fissò pietrificato lo schermo in attesa che comparisse la risposta e quasi contro il suo volere se ne ritrovò attratto. Per le ragioni che ho già citato, non potete capire cosa sono. La parola «dio» si avvicina, ma resta pur sempre una definizione non esaustiva. «Fai parte dell'universo o ne sei separato?» domandò Hazelius. Non esiste separazione. Siamo un tutt'uno. «Perché esiste l'universo?» L'universo esiste perché e più semplice del nulla. Per la stessa ragione io esisto. L'universo non può essere più semplice di quello che è. Questa è la legge fisica da cui tutte le altre derivano. «Che cosa può essere più semplice del nulla?» chiese Ford. Il «nulla» non può esistere. È un paradosso immediato. L'universo è lo stato più vicino al nulla. «Se tutto è così semplice» domandò Edelstein, «perché l'universo è tanto complesso?» L'universo complesso che vedete è una proprietà emergente della sua semplicità. «Allora qual è questa profonda semplicità che sta al cuore di tutto?» incalzò il matematico. È la realtà che distruggerebbe la vostra mente. «Il discorso sta diventando noioso!» esclamò Edelstein, «Se sei così intelligente, dovresti essere in grado di spiegare a noi, poveri esseri umani ottenebrati! Intendi dire che siamo così ignoranti della realtà da aver elaborato leggi fisiche fasulle?» Avete elaborato le vostre leggi fisiche in base al presupposto che esistano spazio e tempo. Tutte le vostre leggi si fondano su strutture di riferi-
mento, quindi non sono valide. Ben presto le vostre tanto care supposizioni sul mondo reale si infrangeranno e bruceranno: dalle loro ceneri costruirete un nuovo tipo di scienza. «Se le nostre leggi fisiche si basano su realtà inesistenti, com'è che la nostra scienza consegue successi tanto spettacolari?» Le leggi del moto di Newton, pur fasulle, hanno permesso di mandare l'uomo sulla luna. Lo stesso vale per le altre vostre leggi: sono approssimazioni accettabili, fondamentalmente inesatte. «Come costruisci allora le leggi della fisica senza spazio e tempo?» Stiamo perdendo tempo in chiacchiere metafisiche. «E di cosa dovremmo parlare?» chiese Hazelius, interrompendo Edelstein. Della ragione per cui sono venuto da voi. «Che sarebbe?» Ho un compito da affidarvi. Il canto di Isabella mutò all'improvviso frequenza, come il suono di un treno in corsa per l'effetto Doppler. Da qualche parte, nella montagna, si udì una scossa, una vibrazione lungo la spina dorsale stessa della mesa. Lo schermo tremolò e con un sibilo comparve l'effetto neve, che cancellò le parole. «Merda!» sussurrò Dolby. «Merda!» Cercò di regolare i comandi del software, pestando vigorosamente sulla sua tastiera. «Che diavolo sta succedendo?» domandò Hazelius. «I fasci hanno perso la collimazione» annunciò Dolby. «Harlan, maledizione, sono scattati gli allarmi del flusso di energia! Alan! Torna ai tuoi server! Che diavolo state facendo tutti lì in piedi, santo cielo!» «Tornate alle vostre postazioni!» ordinò Hazelius. Un altro brontolio scosse il Bunker. Corsero tutti alle rispettive console. Un nuovo messaggio apparve sullo schermo, ma nessuno lo lesse. «Si sta stabilizzando» annunciò St. Vincent. «I fasci sono di nuovo collimati» annunciò Dolby mentre una macchia di sudore gli si stava allargando sulla schiena. «Alan, i server?» «Sotto controllo.» «E il magnete?» chiese il fisico. «È sopravvissuto» rispose Dolby, «ma non ce la faremo ancora per molto. C'è mancato poco.» «Bene, allora.» Hazelius si voltò verso il Visualizzatore. «Perché non ci
dici qual è questo compito?» Capitolo 48 Il pick-up restò senza benzina poco dopo la sommità della Dugway. Il pastore Eddy sfruttò la velocità residua per abbandonare la strada e dirigersi in mezzo alle artemisie, dove il fuoristrada si arrestò bruscamente. Al di sopra dei pini scheletriti, un vago bagliore nel cielo notturno indicava il complesso del Progetto Isabella, cinque chilometri più a est. Il pastore uscì dal pick-up, prese lo zaino, se lo mise in spalla e si incamminò lungo la strada. La luna non era ancora sorta. Dalla sua roulotte vedeva le stelle ma quella sera, in cima alla mesa, gli parvero insolitamente luminose: piccoli gorghi e chiazze fosforescenti che tempestavano la volta celeste. In lontananza, vaghe sagome contro il firmamento, i piloni dell'alta tensione che conducevano verso Isabella. Eddy avvertiva ogni martellio del cuore nel petto e il sibilo del sangue nelle orecchie. Non si era mai sentito tanto vivo. Procedeva a passo svelto e in venti minuti aveva raggiunto il bivio per l'antico emporio di Nakai Rock. Lì si fermò e decise di perlustrare la valle. Dopo pochi minuti giunse sul bordo del promontorio, là dove la strada scendeva nella valle. Regolò il binocolo per osservare l'intero villaggio. Un grande tipi si stagliava in mezzo alla distesa, illuminato dalla luce tremolante di un fuoco al suo interno. Subito accanto sorgeva una struttura raffazzonata, una cupola di rami appoggiati gli uni sugli altri, coperta da teli di canapa fermati da pietre. Dietro, un falò stava finendo di ardere; nel centro si intravedeva un mucchio di pietre color rosso ciliegia. Eddy l'aveva riconosciuta: era una capanna sudatoria navajo. L'aria secca, immobile, trasportava la melodia lieve di un canto e un battito rapido di tamburi. Che strano. I navajo stavano celebrando un rito. Anche loro lo sentivano... percepivano che stava per accadere qualcosa di grande e straordinario? Anche loro sentivano arrivare la collera di Dio? Ma erano idolatri, adoravano falsi dèi. Eddy scosse triste la testa. «Stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!» La capanna sudatoria e il tipi erano un ulteriore segno che il Giorno del Giudizio era ormai giunto e che il diavolo camminava tra loro. La valle sembrava deserta. Le casette isolate erano tutte buie. Eddy percorse un ampio giro per evitare gli alloggi dei membri dell'équipe e, dopo
dieci minuti, arrivò alla pista d'atterraggio. Anche gli hangar, che si stagliavano contro il cielo notturno, erano deserti. L'Anticristo e i suoi discepoli si erano radunati da Isabella, nelle viscere della montagna: ne era certo. Si avvicinò al recinto metallico dell'area protetta, attento a non accostarsi troppo per non far scattare gli allarmi di cui presumeva fosse dotato. Brillava nella luce aspra delle lampade al sodio che illuminavano l'intera area. L'Ascensore che conduceva da Isabella si trovava a qualche centinaio di metri: una struttura alta, brutta, priva di finestre, irta di antenne e parabole satellitari sulla cima. Avvertiva il terreno vibrare in profondità, udiva il ronzio di Isabella. «Il loro re era l'angelo dell'Abisso, che in ebraico si chiama Perdizione.» Eddy aveva l'anima e la mente in fermento, quasi avesse la febbre. Guardò i grossi piloni d'acciaio che portavano l'energia alla macchina e avvertì un forte formicolio. Sarebbero tranquillamente potuti essere i soldati del diavolo che marciavano nella notte. I cavi dell'alta tensione ronzavano e crepitavano come capelli elettrizzati dall'energia statica. Frugò nello zaino e strinse la pelle calda della copertina della Bibbia, percependo un senso rassicurante di solidità. Si fece coraggio recitando una breve preghiera e si incamminò verso il pilone più vicino, ad alcune centinaia di metri di distanza. Si fermò esattamente sotto il palo. I giganteschi puntoni scomparivano nella notte, visibili solo grazie alle linee nere che tracciavano sopra le stelle. I cavi sibilavano e sputavano come serpenti, e quel suono si mescolava al gemito del vento. La sinfonia dei dannati. Il pastore rabbrividì fin nel profondo dell'anima. Di nuovo gli tornò in mente il versetto dell'Apocalisse: «... per la guerra del gran giorno di Dio onnipotente». Sarebbero venuti, ne era certo. Avrebbero risposto all'appello. Doveva essere pronto. Aveva bisogno di un piano. Iniziò a perlustrare l'area studiando la dislocazione delle strutture e il terreno, le strade, i punti di accesso, le recinzioni e i piloni. Sopra di lui le linee dell'alta tensione continuavano a sibilare e sputare. Le stelle ammiccavano in cielo e la terra ruotava. Russell Eddy si muoveva al buio, sicuro di sé per la prima volta in vita sua. Capitolo 49
Lockwood restò sorpreso dallo squallore e dall'estrema essenzialità dell'Unità di crisi della Casa Bianca. Puzzava come una sala ricreativa interrata bisognosa di essere arieggiata. Le pareti erano dipinte di ocra. Nel mezzo spiccava un tavolo di mogano, dotato al centro di microfoni. Alle pareti erano appesi diversi schermi piatti e sedie erano disposte in fila sui lati più lunghi. Il brutto orologio istituzionale in fondo al tavolo annunciava che era mezzanotte in punto. Il presidente entrò a grandi passi tutto azzimato, con il suo completo grigio, la cravatta malva e i capelli pettinati all'indietro, e si rivolse al marinaio semplice che si occupava dei sistemi elettronici. «Voglio che mi metta subito in comunicazione con il capo di stato maggiore della Difesa, il consigliere per la Sicurezza nazionale, i direttori del Dipartimento per la Sicurezza nazionale, dell'FBI e della CIA.» «Sì, signor presidente.» «Oh, e non scordi il capo del comitato per l'Intelligence del Senato, per evitare che dopo faccia il diavolo a quattro perché lo abbiamo tagliato fuori.» Si sedette a capotavola. Roger Morton, il capo di gabinetto, si accomodò, cauto e aristocratico, alla sua destra mentre Gordon Galdone, il responsabile della campagna elettorale, grosso e in disordine come un letto sfatto, con indosso il suo abito marrone, si sistemò alla sua sinistra. Jean si sedette su una sedia contro la parete, nell'angolo, alle spalle del presidente. Era appollaiata sul bordo e teneva il blocco da stenografia pronto in mano. «Procediamo pure. Gli altri arriveranno non appena potranno.» «Sì, signore.» Alcuni schermi si stavano già animando. Jack Strand, il direttore dell'FBI, fu il primo ad apparire. Si trovava nel suo ufficio a Quantico, con il gigantesco logo del Bureau alle spalle e il volto squadrato da sbirro, rovinato da vecchi segni dell'acne, rivolto inesorabilmente verso il monitor: era un uomo che doveva ispirare fiducia, o almeno ci provava. Subito dopo comparve il segretario del DOE, un certo Hall. Era nel suo ufficio di Independence Avenue ed era chiaramente il responsabile di Isabella. In realtà non aveva mai assunto il controllo del progetto - era abile a delegare - e ora aveva l'aria distrutta: il volto grassoccio era coperto da una patina lucida di sudore, la cravatta azzurra era tanto stretta che sembrava quasi avesse tentato di impiccarcisi. «Bene» esordì il presidente, unendo le mani sul tavolo. «Segretario Hall, lei è il responsabile, che diavolo sta succedendo laggiù?»
«Sono spiacente» balbettò questi, «signor presidente, non ne ho idea. È un fatto senza precedenti. Non so che dire...» Il presidente lo interruppe e si rivolse a Lockwood. «Chi è stato l'ultimo a entrare in contatto con la squadra di Isabella? Stan, lei lo sa?» «Probabilmente sono stato io. Ho parlato col mio contatto alle sette, ora locale: mi ha detto che andava tutto bene. Ha aggiunto che avevano in programma un test, che alle otto sarebbe sceso e li avrebbe raggiunti. Non ha lasciato intendere minimamente che ci fosse qualcosa di anomalo.» «Si è fatto un'idea di cosa potrebbe essere accaduto?» Lockwood aveva passato furiosamente al vaglio tutte le possibilità, ma nessuna gli era sembrata abbastanza plausibile. Controllò la sensazione di panico crescente e mantenne un tono calmo e deciso. «Non ho un'idea chiara al riguardo.» «Potremmo trovarci di fronte a una sorta di ammutinamento interno? A un sabotaggio?» «È possibile.» Il presidente si rivolse al capo di stato maggiore della Difesa, seduto nel suo ufficio del Pentagono, in uniforme da campo tutta spiegazzata. «Generale, lei comanda le unità di intervento rapido. Dove si trova quella più vicina al laboratorio?» «Alla base dell'Aviazione di Nellis, in Nevada.» «Unità della Guardia nazionale?» «A Flagstaff.» «L'FBI? Dov'è l'ufficio operativo più vicino?» Jack Strand, il direttore, rispose dallo schermo. «Sempre a Flagstaff.» Il presidente rifletté accigliato, tamburellando un dito sul tavolo. «Generale, che mandino l'elicottero più vicino a controllare.» A quel punto Gordon Galdone, il responsabile della campagna elettorale, mosse la sua grossa mole, sospirò e avvicinò un dito alle labbra flaccide. Parla l'oracolo, pensò stizzito Lockwood. «Signor presidente?» Aveva una voce sonora, non dissimile da quella di Orson Welles quand'era diventato obeso. «Sì, Gordon?» «Posso farle presente che non è soltanto un problema scientifico o militare? È un problema politico. La stampa chiede da settimane perché Isabella non funzioni, e non è l'unica. La scorsa settimana il "Times" ha pubblicato un articolo di fondo sulla questione. Quattro giorni fa uno scienziato si è suicidato. I cristiani fondamentalisti sono sul piede di guerra e adesso
l'équipe non risponde al telefono. Come se non bastasse, abbiamo un consigliere scientifico che si diverte a fare la spia freelance.» «Gordon, l'ho autorizzato io» replicò il presidente. Lui proseguì imperterrito. «Signor presidente, in termini di relazioni pubbliche sarà una catastrofe. Lei ha sostenuto il Progetto Isabella. Il suo nome ne è strettamente associato e subirà un grave contraccolpo, a meno che non risolviamo subito la questione. Mandare un elicottero a indagare significa fare troppo poco e troppo tardi. Ci vorrà una notte e domani mattina la situazione potrebbe essere ancora disastrosa. Che Dio ci aiuti quando i media lo verranno a sapere.» «Allora che cosa propone, Gordon?» «Di risolvere la questione entro domani mattina.» «Come?» «Inviando una squadra che assuma il controllo di Isabella e la chiuda, prelevando tutti gli scienziati dalla struttura.» «Aspetti un attimo» replicò il presidente. «Il Progetto Isabella è la cosa migliore che abbia fatto. Che sia maledetto se la rovinerò!» «Lo farà, altrimenti sarà Isabella a rovinare lei.» Lockwood rimase sconvolto nel sentire un consigliere rivolgersi al presidente in modo così sgarbato. «Signor presidente, concordo con Gordon. Siamo a meno di due mesi dalle elezioni. Il tempo è un lusso che non abbiamo. Dobbiamo chiudere il Progetto Isabella questa notte stessa. Dopo, potremo compiere tutte le indagini del caso» osservò Morton. «Non sappiamo nemmeno che cosa diavolo stia succedendo laggiù» osservò il presidente. «Come fate a essere certi che non si tratti di un attacco terroristico o che non siano stati presi in ostaggio?» «Potrebbe essere così» convenne Morton. Seguì una pausa di silenzio. Il presidente si voltò verso il consigliere per la Sicurezza nazionale sullo schermo. «L'Intelligence ha segnalato qualche problema?» «Non che mi risulti, signor presidente.» «D'accordo, mandiamo una squadra. Armata e pronta ad affrontare qualsiasi genere di eventualità. Non voglio grandi mobilitazioni però, niente che metta in allarme la stampa o ci faccia sembrare a posteriori degli idioti. Una piccola squadra, scelta, tipo SWAT, bene addestrata: entrerà là dentro, metterà sotto sicurezza quel maledetto posto, chiuderà tutto e preleverà gli scienziati. L'operazione dovrà essere ultimata all'alba.» Appoggiandosi alla
sedia aggiunse: «Bene: chi se ne può occupare?». «La squadra Recupero ostaggi delle Montagne Rocciose ha base a Denver, a seicentocinquanta chilometri dal Progetto Isabella. Sono undici uomini molto abili, tutti ex Delta, addestrati specificamente per operare sul suolo americano» rispose il direttore dell'FBI. «Sì, ma qui alla CIA...» esordì il direttore della Central Intelligence. «Ottimo.» Il presidente lo interruppe e si rivolse a Lockwood. «Stan? Lei che ne pensa?» L'interpellato si sforzò di mantenere un tono calmo. «Signor presidente, è prematuro parlare di inviare un commando. Sono fermamente d'accordo con quanto ha detto in precedenza: prima, dovremo scoprire che cosa sta succedendo. Sono certo ci sia una spiegazione ragionevole. Mandiamo un elicottero con qualcuno che, per così dire, bussi alla porta.» «Domani mattina tutte le stazioni televisive spediranno laggiù i loro cronisti. Opereremo sotto la lente dei media. Non avremo più libertà di azione. Se per qualche ragione gli scienziati si fossero barricati là dentro, potrebbe rivelarsi una seconda Waco» osservò gelido Morton. «Waco?» ripeté incredulo Lockwood. «Stiamo parlando di dodici illustri scienziati coordinati da un premio Nobel. Non è un branco di pazzi appartenenti a una setta!» Al che il capo di stato maggiore della Difesa si rivolse al presidente. «Signor presidente, non sottolineerò mai abbastanza la necessità che l'operazione venga ultimata senza fallo entro l'alba. Quando arriveranno i media, la situazione ci scivolerà di mano. Non abbiamo tempo di mandare laggiù qualcuno "che bussi alla porta"» aggiunse con un tono più alto e sarcastico. «Sono assolutamente d'accordo» affermò Galdone. «Non ci sono alternative?» domandò con tono pacato il presidente. «No.» Lockwood deglutì. Si sentiva male. Aveva perso la battaglia e ora sarebbe stato costretto a partecipare alla chiusura di Isabella. «L'operazione che proponete potrebbe presentare qualche difficoltà.» «Si spieghi meglio.» «Non è possibile togliere semplicemente l'energia a Isabella: potrebbe verificarsi un'esplosione. I flussi di energia sono complessi da gestire e possono essere controllati solo dall'interno, dal computer centrale. Se per qualche ragione la squadra scientifica non... collaborasse, ci dovrà essere qualcuno che sia in grado di chiudere Isabella in tutta sicurezza.»
«Chi suggerisce?» «La stessa persona che ho menzionato prima: Bernard Wolf, di Los Alamos.» «Manderemo un elicottero a prelevarlo. Come facciamo a entrare?» «La porta di accesso al Bunker è rinforzata contro attacchi esterni. Tutti i sistemi di aria sono più che sicuri. Se la squadra non vuole o non può aprire la porta d'ingresso, raggiungerla potrebbe essere difficile.» «Non c'è un comando d'apertura di sicurezza?» «Il dipartimento della Sicurezza nazionale ha ritenuto che un comando del genere potesse rappresentare un mezzo di accesso per eventuali terroristi.» «Allora come entriamo?» Dio, quanto odiava tutto ciò. «Il modo migliore sarebbe direttamente dalla porta principale, con gli esplosivi. Si trova a metà di una parete a picco. Davanti c'è un'ampia zona di stazionamento: è in gran parte rientrata, sotto la parete, e sono certo che un elicottero militare non riesca ad atterrarci. Dovrete far sbarcare la squadra in cima e calarla, poi abbattere la porta. Sto descrivendo il quadro peggiore. Probabilmente gli scienziati la lasceranno entrare.» «Come hanno fatto a portare l'attrezzatura pesante là dentro se non c'è una strada?» «Hanno usato la vecchia via della miniera, poi quando Isabella è stata ultimata l'hanno fatta saltare con la dinamite, anche qui per ragioni di sicurezza.» «Capisco. Mi descriva meglio la porta d'accesso.» «È un composto di titanio a nido d'ape. Molto duro da tagliare. Gli esplosivi rappresentano il miglior mezzo per entrare.» «Mi procuri le specifiche. E poi?» «All'interno si trova un'ampia caverna. Proprio di fronte si apre il tunnel di Isabella. A sinistra vi è la sala di controllo, che noi chiamiamo il Ponte. Ha una porta di acciaio inossidabile di due centimetri e mezzo, l'ultima difesa contro eventuali intrusioni. Le farò avere tutti i disegni.» «Nient'altro per quanto riguarda la sicurezza?» «Niente.» «Sono armati?» «Il responsabile della sicurezza, Wardlaw, ha una pistola. Non sono permesse altre armi da fuoco.» Morton si voltò verso il presidente. «Signor presidente, ci serve un suo
ordine per procedere.» Lockwood osservò il presidente esitare, lanciargli un'occhiata e poi guardare il direttore dell'FBI. «Mandate la squadra Recupero ostaggi dell'FBI. Prelevate gli scienziati dalla montagna e spegnete Isabella.» «Sì, signor presidente.» Il capo di stato maggiore della Difesa chiuse il dossier con un colpo secco, che a Lockwood suonò come uno schiaffo in piena faccia. Capitolo 50 Nel Bunker si era diffusa una nenia acuta, simile a un gemito. Lo schermo tremolò. Ford era inchiodato davanti al Visualizzatore con Kate al suo fianco. Non ricordava il momento in cui la mano di lei aveva stretto la sua. Sullo schermo apparvero altre parole in risposta alla domanda di Hazelius. Le grandi religioni monoteistiche erano una fase necessaria per lo sviluppo della cultura umana. Il vostro compito è guidare la razza umana verso il prossimo sistema di credenze. «Che sarebbe?» La scienza. «È ridicolo: la scienza non può essere una religione!» rispose Hazelius. Avete già dato inizio a una nuova religione, solo vi rifiutate di vederlo. Un tempo la religione era un modo per dare un senso al mondo. Adesso questo ruolo è passato alla scienza. «Scienza e religione appartengono a due ambiti diversi» intervenne Ford. «Si pongono interrogativi diversi e richiedono prove diverse.» Scienza e religione perseguono entrambe lo stesso obiettivo: la verità. Tra le due non ci può essere riconciliazione. Lo scontro tra le visioni del mondo è più che vivo e si sta aggravando. La scienza ha già confutato gran parte delle credenze fondamentali delle religioni storiche del mondo, gettandole in uno stato di scompiglio. Il vostro compito è aiutare l'umanità a trovare una via per uscire dalla crisi. «Oh, per favore!» urlò Edelstein. «Pensi che i fanatici mediorientali, o se è per questo quelli della Bible Belt, riconsiderino le loro posizioni e accettino la scienza come nuova religione? Ma questa è pura follia!» Riferirete al mondo le mie parole e quanto è accaduto qui. Non sottovalutate il mio potere: il potere della verità. «Dove dovremmo arrivare con questa nuova religione? Qual è lo scopo?
A chi serve?» chiese Hazelius. Lo scopo immediato dell'umanità è sfuggire ai limiti della biochimica. Dovete liberare la mente dalla carne del corpo. «Dalla carne? Non capisco» disse il fisico. Carne, nervi, cellule, biochimica. Il mezzo mediante cui pensate. Dovete liberare la mente dalla carne. «Come?» Avete già iniziato a elaborare informazioni al di là della carne, mediante i computer. Ben presto troverete il modo di farlo usando calcolatori quantistici, il che vi indurrà a sfruttare i processi quantistici naturali che si svolgono nel mondo intorno a voi come mezzo di calcolo. Non avrete più bisogno di costruire macchine per elaborare informazioni. Vi espanderete nell'universo, in senso letterale e figurato, come altre entità intelligenti hanno fatto prima di voi. Sfuggirete alla prigione dell'intelligenza biologica. «E poi?» Con il tempo entrerete in contatto con altre intelligenze estese. Tutte queste intelligenze connesse scopriranno il modo di fondersi in un terzo stadio della mente, che comprenderà la semplice realtà alla base dell'esistenza. «E basta? Tutto qui?» domandò Kate. No, questo è solo il preludio a un compito più grande. Il Visualizzatore tremolò e sullo schermo comparvero alcune linee di effetto neve. Chino e silenzioso, Dolby si diede subito da fare alla sua postazione. Le parole si incresparono, come riflesse su uno specchio d'acqua nera. «Che sarebbe?» chiese infine Hazelius. Arrestare la morte dell'universo per calore. In quel momento Ford sentì la mano di Kate stringere istintivamente la sua. Capitolo 51 Booker Crawley portò la tazza di caffè nello studio e si sistemò sulla poltrona davanti alla TV. Prese il telecomando e passò in rassegna i diversi canali di notizie. Niente. Non parevano esserci stati contraccolpi dopo le violente accuse lanciate dal reverendo Spates nella sua trasmissione. Eppure, Crawley non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che stesse per
succedere qualcosa. Guardò l'orologio. Era l'una e trenta, ora locale, quindi le undici e trenta in Arizona. O le dieci e trenta? Sospirò e bevve una buona sorsata di caffè amaro. Cadeva in preda al panico per niente. Fino ad allora tutto era andato come previsto e lo spettacolo di Spates, anche se era roba da mentecatti, aveva di sicuro spaventato a morte il Consiglio dei Navajo. Al solo pensiero si sentì meglio. Eppure... Non sarebbe stata una cattiva idea sentire Spates, per capire dove diavolo avesse trovato quelle assurde informazioni su Isabella che si credeva Dio. Compose prima di tutto il numero dell'ufficio del reverendo, nel caso fosse ancora al lavoro. Stranamente la linea era occupata. Non c'era casella vocale, era occupata e basta. Attese qualche minuto e ricompose il numero una volta, due, senza mai trovare la linea libera. Probabilmente c'era un guasto. Digitò quindi il numero di cellulare del reverendo e venne subito indirizzato alla casella vocale. «Siete collegati con la casella vocale del reverendo Don T. Spates» annunciò una gradevole voce femminile. «La casella è attualmente piena. Per favore, riprovate più tardi.» Crawley compose il numero di casa. Anche quello era occupato. Cristo, in quello studio si soffocava. Andò alla finestra, la sbloccò e l'aprì. Nello studio entrò un'ondata di aria notturna, fresca e piacevole, che smosse le tende. Crawley inspirò profondamente e si disse di nuovo che non c'era ragione di allarmarsi. Sorseggiò il caffè, fissando la strada buia e cercando di chiarire nella sua mente che cosa con precisione lo spaventasse. Il reverendo aveva di certo un sito web. Forse lì poteva trovare qualche informazione. Si sedette alla scrivania, accese il portatile e su Google digitò: SPATES LA PRIMA SERATA DI DIO. Il primo link era quello del sito del tele-evangelista, www.primaseratadidio.com. Lo cliccò e attese. Dopo un frustrante minuto comparve un messaggio di errore. LIMITE DI BANDA SUPERATO Il server non è momentaneamente in grado di elaborare la richie-
sta per superamento del limite di banda da parte del proprietario del sito. Per cortesia riprovare più tardi. Apache/1.3.37 Server at www.primaseratadidio.com Port 80 La sensazione di malessere aumentò leggermente. Le linee occupate, il server giù... Il sito di Spates era forse stato vittima di un attacco denial of service? Forse altri siti cristiani contenevano qualcosa. Sempre su Google digitò: ISABELLA DIO SPATES. Comparve un elenco di siti cristiani sconosciuti: gesù-il-salvatore.com, prontoperlestasi.com, anticristo.com e simili. Cliccò su un link e subito si aprì un documento. Miei amici in Cristo, Molti di voi avranno visto la trasmissione Roundtable America qualche ora fa, tenuta dal reverendo Don T. Spates... Crawley lesse una volta la lettera, poi la rilesse e sentì un brivido gelido corrergli su per la schiena. Quindi quella era la fonte di Spates, un pastore demente perso in mezzo a Navajoland. La scritta in fondo indicava che quel pazzo aveva mandato la lettera solo poche ore prima. Dal numero di risultati sembrava inviata a parecchi siti. Quanti? C'era modo di scoprirlo. Su Google digitò la prima frase della mail, citandola tra virgolette per recuperare solo i siti che avevano postato il testo esatto. Una frazione di secondo dopo comparve l'elenco. L'indicazione standard in alto indicava il numero: Risultati 1-10 su circa 56.500 per «Molti di voi avranno visto la trasmissione Roundtable America qualche orafa, tenuta dal reverendo Don T. Spates». Crawley rimase a lungo seduto nel silenzio del suo studio di Georgetown. Era possibile che la lettera fosse già stata postata a più di cinquantamila siti? Inconcepibile. Inspirò ed espirò per calmarsi. Se fosse emerso che aveva aiutato Spates ad attaccare il Progetto Isabella, sarebbe finito peggio del suo vecchio amico Jack Abramoff. Il problema era che, quando gli era venuta l'idea, non si era documentato molto sul conto di Spates e sul
mondo evangelico. Si sentì come un uomo che aveva gettato per caso un sasso in un buco e risvegliato un esercito di crotali. Si alzò di nuovo e andò alla finestra. Fuori, Georgetown dormiva. La strada era deserta. Il mondo era tranquillo. Mentre stava lì immobile, udì il suono di un campanello provenire dal computer: aveva appena ricevuto un messaggio nella posta elettronica. Andò a controllare. Una piccola finestra si aprì per consentirgli di leggere l'oggetto: RED MESA = ARMAGEDDON. Lo aprì, cominciò a leggere e restò sconvolto quando vide che si trattava esattamente della stessa lettera che aveva appena letto. Qualcuno sapeva del suo contatto con Spates? Era una sorta di velata minaccia? Glielo aveva mandato lo stesso Spates? Quando tuttavia guardò l'intestazione, contenente decine di indirizzi, capì che non era mirato. Né del resto riconobbe l'indirizzo del mittente. Era una mail spedita a più destinatari a caso, un'operazione di marketing virale per l'Armageddon ed era arrivata alla sua casella per caso. Mentre, in preda all'incredulità, rileggeva ancora la lettera cercando di calcolare le probabilità che proprio a lui arrivasse quella mail in quel momento, il computer trillò di nuovo e comparve un altro messaggio quasi con lo stesso oggetto: RED MESA = ARMAGEDDON. Booker Crawley si aggrappò ai braccioli della sedia e si alzò barcollando. Mentre attraversava lo studio, il computer suonò ancora, più volte, via via che arrivavano altre mail. Entrò con gambe instabili nel bagno in fondo allo studio. Si aggrappò al bordo del lavandino con una mano e, tenendosi la cravatta con l'altra, vomitò. Capitolo 52 Bernard Wolf si rannicchiò nel vano dell'elicottero masticando nervoso un chewing-gum mentre osservava undici uomini pesantemente armati, tutti vestiti di nero, salire a bordo e sedersi in silenzio ai loro posti. L'unico distintivo presente sulla loro uniforme era un piccolo scudo dell'FBI, applicato al petto. Wolf si sentiva a disagio con indosso mimetica, giubbotto antiproiettile ed elmetto. Tentò invano di sistemare i suoi lunghi e sottili arti in una posizione che fosse almeno Un po' comoda, si dimenò irritato e infine incrociò le braccia. La coda di cavallo gli fuoriusciva dall'elmetto: anche senza vedersi allo specchio, sapeva di apparire ridicolo. Sudava sulla fronte e le orecchie gli ronzavano dal decollo.
Quando gli uomini si furono allacciati le cinture, l'elicottero si librò nel cielo notturno, virò e accelerò. Era sorta una luna gibbosa che inondava il paesaggio desertico di luce argentea. Wolf masticava senza sosta. Che diavolo stava accadendo? Lo avevano tirato giù dal letto senza dargli spiegazioni, trascinato alla pista di Los Alamos e caricato in elicottero. Nessuno gli rivolgeva la parola. Era come l'inizio di un brutto film. Dal finestrino vedeva le cime lontane dei monti San Juan in Colorado. L'elicottero rasentò i piedi delle colline e in basso Wolf scorse una vaga striscia di luce stellare riflessa: il fiume San Juan. Seguirono approssimativamente il corso del fiume, superarono le città di Bloomfield e Farmington, ridotte a due chiazze luminose, poi si immersero nel buio pesto. Mentre l'elicottero si abbassava di nuovo in direzione sud, Wolf vide la massa nera della Navajo Mountain in lontananza e fu allora che capì dove fossero diretti: al Progetto Isabella. Masticò il chewing-gum, riflettendo sulla questione. Aveva sentito come tutti nella comunità dei fisici delle alte energie - dei problemi di Isabella. Come gli altri, era rimasto sconvolto dal suicidio dell'ex collega Peter Volkonskij: non che gli fosse mai stato particolarmente simpatico, ma lo aveva sempre rispettato per le sue capacità di programmatore. Si chiese che cosa stesse succedendo di tanto grave da richiedere una squadra di scagnozzi vestiti di nero. Quindici minuti dopo comparve davanti a loro la sagoma scura, indistinta di Red Mesa. Una macchia di luce intensa lungo il bordo indicava il complesso di Isabella. L'elicottero virò per abbassarsi, sfrecciò sulla sommità della mesa e rallentò in prossimità di una pista illuminata da due lunghe file di luci blu, poi virò di nuovo e atterrò all'eliporto. La potenza dei rotori diminuì, poi un membro della squadra si alzò e sbloccò il portellone. La sua guida gli posò una mano sulla spalla e gli fece cenno di aspettare. Il portellone si aprì e la squadra dell'FBI saltò giù. Uscirono uno alla volta, tenendosi bassi e attraversando di corsa la scia del rotore, come se dovessero controllare la sicurezza della zona di atterraggio. Passarono cinque minuti, poi la guida lo esortò a scendere. Wolf si gettò lo zaino in spalla e si mosse con calma: non aveva intenzione di rompersi una gamba per fare in fretta. Scese con fin troppa cautela e superò a passettini la scia dell'elica. La guida gli toccò leggermente il gomito e gli indicò un prefabbricato. Vi si avvicinarono e l'uomo gli aprì la porta. Dentro, c'era odore di legname fresco e colla. Era pressoché vuota, tranne per un ta-
volo e una fila di sedie da pochi soldi. «Si sieda, dottor Wolf.» Lui buttò lo zaino su una sedia vicino al tavolo e si accasciò su quella accanto. Non riusciva a immaginare una sedia più scomoda, soprattutto a quell'ora, quand'era così lontano dal cuscino e dal letto dove sarebbe dovuto essere. Si stava ancora dimenando quando uno degli uomini entrò e gli tese la mano. «Agente speciale in comando Doerfler.» Wolf gliela strinse con una certa riluttanza, senza nemmeno alzarsi. Doerfler si sedette sul bordo del tavolo e cercò di apparire cordiale e rilassato, ma con scarso successo. Quell'agente era elettrico come il coniglio delle pile Energizer. «Immagino si stia chiedendo perché si trova qui, dottor Wolf.» «Che sagacia!» Non si fidava dei tipi come Doerfler, con i capelli tagliati quasi a zero sulle tempie, l'accento del Sud e i modi melliflui. Aveva avuto a che fare con troppi personaggi del genere durante la fase di progettazione di Isabella. Doerfler guardò l'orologio. «Non abbiamo molto tempo, quindi sarò breve. Mi dicono che ha familiarità con Isabella, dottor Wolf.» «Me lo auguro» rispose lui irritato. «Ero vicecapo della squadra di progettazione.» «È già stato qui?» «No. Ho lavorato solo sul progetto teorico.» Doerfler si appoggiò sul gomito, serio in volto. «È successo qualcosa qui, non sappiamo esattamente cosa. L'équipe di scienziati si è chiusa all'interno della montagna e ha tagliato tutte le comunicazioni con l'esterno. Hanno spento il computer centrale e stanno facendo funzionare Isabella alla massima potenza utilizzando i sistemi di backup.» Wolf si passò la lingua sulle labbra. Effettivamente era roba da non crederci. «Non conosciamo la causa: potrebbero essere stati presi in ostaggio, potrebbe trattarsi di un ammutinamento, di un incidente, di qualche guasto inatteso dell'attrezzatura o di un problema elettrico.» «E il mio ruolo quale sarebbe?» «Ci arriverò tra un attimo. Gli uomini con cui ha viaggiato sono membri della squadra Recupero ostaggi dell'FBI. È simile a una squadra scelta SWAT. Questo non significa necessariamente che ci siano degli ostaggi, ma dobbiamo considerare anche questa eventualità.» «Sta parlando di terrorismo?»
«Forse. La squadra entrerà nella struttura, se necessario salverà eventuali ostaggi, neutralizzerà i soggetti indesiderabili, isolerà gli scienziati e li scorterà velocemente fuori dai locali.» «Neutralizzerà i soggetti indesiderabili: significa che li ucciderà?» «Se necessario.» «È uno scherzo.» Doerfler si accigliò. «No, signore. Non lo è.» «Mi avete buttato giù dal letto perché mi unissi a un commando? Mi spiace, signor Doerfler, ma avete preso il Bernard Wolf sbagliato.» «Lei non si deve preoccupare minimamente, dottor Wolf. Sarà scortato da un uomo, l'agente Miller. È una persona assolutamente affidabile, sarà al suo fianco e la guiderà passo per passo durante la procedura. Quando la struttura sarà dichiarata sicura, la condurrà all'interno e lei svolgerà il suo compito.» «Che sarebbe?» «Spegnere Isabella.» Appollaiato su uno dei promontori sopra Nakai Valley, Nelson Begay osservò il complesso di Isabella con un binocolo militare. Un elicottero aveva sorvolato a bassa quota il tipi: il rumore dei rotori aveva coperto il canto della Via della benedizione e scosso la tenda come un turbine di sabbia. Begay e Becenti erano saliti sul promontorio per avere una visuale migliore e avevano notato che era atterrato sulla pista, a circa due chilometri di distanza. «Sono venuti per noi?» chiese Willy Becenti. «Non ne ho idea» rispose lo sciamano navajo continuando a guardare. Dall'elicottero stava scendendo un folto gruppo di uomini armati. Dopo essere entrati in un hangar, ne uscirono con due Humvee sui quali iniziarono a caricare l'attrezzatura. Begay scosse la testa. «Non credo abbiano niente a che fare con noi.» «Ne sei sicuro?» Becenti parve deluso. «No. Credo sia meglio avvicinarci e dare un'occhiata.» Guardò Willy, colse smania e inquietudine nei suoi occhi e gli posò una mano sulla spalla. «Mi raccomando, tieni i nervi saldi, d'accordo?» Capitolo 53
Stanton Lockwood sollevò il polsino per dare un rapido sguardo al Rolex. Erano le due meno un quarto del mattino. Il presidente aveva ordinato l'invio della squadra Recupero ostaggi dell'FBI a mezzanotte e ora l'operazione era in pieno svolgimento. Pochi minuti prima gli uomini erano atterrati sulla pista e ora stavano trasferendo l'attrezzatura sugli Humvee per percorrere gli ottocento metri che li separavano dalla zona protetta ai piedi della montagna, direttamente al di sopra dell'accesso al Bunker. Il clima nello Studio Ovale era teso. Jean, la segretaria del presidente, scaricava l'agitazione attraverso la mano con cui stenografava. «Hanno caricato il primo Humvee» annunciò il direttore dell'FBI, che commentava passo per passo l'operazione per il presidente. «Non c'è ancora nessuna traccia della squadra. Sono tutti nel Bunker, come pensavamo.» «Non siete riusciti a contattarli?» «No. Tutte le comunicazioni dalla pista al Bunker sono interrotte.» La porta dell'Unità di crisi si aprì e Roger Morton entrò con un plico di fogli. Lockwood lo seguì con lo sguardo. Quell'uomo non gli era mai piaciuto, ma ora era giunto a detestarlo, con i suoi occhiali dalla montatura di corno, il vestito impeccabile e la cravatta che pareva incollata alla camicia. Incarnava perfettamente la quintessenza di Washington. In preda all'astio, lo osservò conferire con il presidente: chini a breve distanza, esaminarono un foglio, poi fecero cenno a Galdon di avvicinarsi e lo studiarono a lungo in tre. Il presidente guardò infine Lockwood. «Stan, venga a dare un'occhiata.» Lui si alzò e si unì al gruppo. Il presidente gli porse la stampata di una mail. Lockwood cominciò a leggere: Miei amici in Cristo... «È dappertutto in Internet» affermò Morton, parlando prima ancora che avesse terminato di leggere. «E intendo proprio dappertutto.» Lockwood scosse la testa e posò la lettera sul tavolo. «Trovo deprimente che nell'America del Ventunesimo secolo esista ancora una simile mentalità medievale.» Il presidente lo fissò. «Questa lettera è più che "deprimente", Stan. Incita all'attacco armato contro una struttura governativa statunitense.» «Signor presidente, personalmente non la prenderei così sul serio. La lettera non cita direttive, piani di azione, luoghi di incontro. Sono solo parole gettate al vento. Roba del genere circola tutti i giorni sul web. Pensi a
quanta gente ha letto il romanzo Prima dell'Apocalisse. Nessuno è mai sceso in strada.» Morton lo fisso con aria di passiva ostilità. «Lockwood, questa lettera è stata inviata a migliaia di siti. Impazza nel vero senso della parola. Dobbiamo prenderla sul serio.» Il presidente emise un sospiro. «Stan, vorrei essere ottimista come lei, ma questa lettera in aggiunta al sermone...» scosse il capo. «Dobbiamo prepararci al peggio.» Galdon si schiarì energicamente la gola per intervenire. «Chi è convinto che stia per arrivare la fine del mondo potrebbe fare qualcosa di inconsulto, persino ricorrere alla violenza.» «Il cristianesimo si suppone sia una religione non violenta» osservò Lockwood. «Non stiamo mettendo in dubbio le credenze religiose di nessuno, Stan» replicò caustico il presidente. «Tutti noi, qui, dobbiamo renderci conto che si tratta di un tema delicato che può suscitare facili risentimenti.» Gettò la lettera sul tavolo e si voltò verso il direttore della Sicurezza nazionale. «Dove si trova l'unità più vicina della Guardia nazionale?» «A Camp Navajo a Bellemont, a nord di Flagstaff.» «Quanto dista da Red Mesa?» «Circa duecento chilometri.» «Mobilitateli e inviateli a Red Mesa come rinforzo.» «Sì, signore. Purtroppo mezza unità è all'estero. L'attrezzatura e il velivolo ad ala rotante di cui dispongono non sono ideali per un'operazione di questo tipo.» «In quanto tempo potrebbe rendere operativa l'intera unità?» «Potremmo portare attrezzatura e personale dalle basi dell'aviazione di Phoenix e Nellis. Potrebbero volerci da tre a cinque ore, se agiamo in fretta.» «Cinque sono troppe. Fate quello che potete in tre. Li voglio in volo per le quattro e quarantacinque del mattino.» «Quattro e quarantacinque del mattino» ripeté il direttore. «Sì, signor presidente.» «Avvertite senza troppo chiasso la polizia statale dell'Arizona di raddoppiare le auto di pattuglia e segnalare qualsiasi aumento del traffico sulle interstatali e sulle strade secondarie attorno alla riserva navajo. Tenetevi pronti a istituire blocchi stradali con breve preavviso.» «Sì, signor presidente.»
«A Pihon, a una trentina di chilometri soltanto da Red Mesa, c'è una piccola stazione della polizia navajo.» «Ottimo. Che mandino un'auto di pattuglia sulla strada di Red Mesa a sorvegliare la situazione.» «D'accordo, signore.» «Voglio che tutto venga fatto senza chiasso. Se reagiamo in modo eccessivo, i "giusti del Signore" ce le suoneranno di santa ragione: ci accuseranno di essere anticristiani, di odiare Gesù, di essere empi liberali... ci diranno di tutto.» Il presidente si guardò attorno. «Ci sono altri suggerimenti?» Non ce ne furono. Si voltò allora verso Lockwood. «Spero abbia ragione. Dio solo sa: in questo momento diecimila idioti potrebbero essere in marcia verso Red Mesa.» Capitolo 54 Ford sentiva il sudore gocciolargli sul cuoio capelluto. Sul Ponte il calore stava aumentando nonostante il sistema di condizionamento fosse al massimo. Isabella ronzava ed emetteva il suo canto, le pareti vibravano. Ford guardò Kate, totalmente concentrata sul Visualizzatore. Quando l'universo raggiungerà lo stato di massima entropia, che è la morte per calore, il calcolo universale si arresterà e io morirò. «È inevitabile o c'è modo di prevenirlo?» domandò Hazelius. Questo è proprio l'interrogativo a cui dovete dare risposta. «Allora è questo il fine ultimo dell'esistenza?» chiese Ford. «Sconfiggere questa misteriosa morte per calore? Sembra un romanzo di fantascienza.» Evitare la morte per calore è solo un passo del cammino. «Cammino verso cosa?» incalzò Hazelius. Donerà all'universo la pienezza del tempo di cui ha bisogno per concepirsi nello stato finale. «Qual è lo stato finale?» Non lo so. Non sarà niente di simile a quello che voi o io possiamo immaginare. «Hai parlato di "pienezza del tempo"» osservò Edelstein. «In quanto si traduce con esattezza?» Sarà un numero di anni pari al fattoriale di dieci elevato alla potenza
del fattoriale di dieci. Quel numero dovrà essere elevato alla potenza del fattoriale di dieci, quel numero elevato alla potenza del fattoriale di dieci, questa relazione di potenze va ripetuta 1083 volte e il numero risultante elevato alla potenza del suo fattoriale 1047 volte, come sopra. Usando la vostra notazione matematica questo numero, il primo numero di Dio, è:
Questa è la lunghezza del tempo espressa in anni che l'universo impiegherà per concepirsi nello stato finale, per arrivare alla risposta definitiva. «È un numero assurdamente elevato!» È così, ma è solo una goccia nell'oceano dell'infinito. «In questo tuo nuovo universo che ruolo avrebbero la moralità, l'etica?» domandò Ford. «O la salvezza e il perdono dei peccati?» Ve lo ripeto: la separazione è soltanto un'illusione. Gli esseri umani sono come cellule di un corpo. Le cellule muoiono ma il corpo continua a vivere. Odio, crudeltà, guerra, genocidio sono più simili a malattie autoimmuni che al prodotto di quello che chiamate «male». Questa visione d'insieme che vi presento garantisce un ampio spazio morale d'azione in cui altruismo, compassione, responsabilità reciproca hanno un ruolo centrale. Il vostro destino è unico. Gli esseri umani trionferanno tutti o moriranno tutti. Nessuno viene salvato perché nessuno è perduto. Nessuno viene perdonato perché nessuno è accusato. «Che mi dici della promessa che Dio ci ha fatto di un mondo migliore?» Le vostre diverse concezioni del paradiso sono incredibilmente ottuse. «Scusami, ma la salvezza non ha niente di ottuso!» Il quadro di completezza spirituale che vi presento è incommensurabilmente più grande di qualsiasi paradiso sognato sulla Terra. «E l'anima? Neghi dunque l'esistenza di un'anima immortale?» «Wyman, la prego!» gridò Hazelius. «Sta sprecando il tempo di tutti con queste ridicole domande teologiche!» «Scusami, ma credo siano questioni esistenziali» replicò Kate. «Sono gli interrogativi che la gente si pone e che noi abbiamo maggiori possibilità di risolvere.» Noi? Ford si chiese a chi si riferisse. Le informazioni non vanno mai perdute. Con la morte del corpo le informazioni generate da una determinata vita cambiano forma e struttura,
ma non svaniscono nel nulla. La morte è una transizione di informazioni. Non abbiatene paura. «Morendo noi perdiamo la nostra individualità?» domandò Ford. Non piangetene la perdita. Da quel senso potente di individualità, così necessario per l'evoluzione, scaturiscono molte proprietà che contraddistinguono l'esistenza umana, buone e cattive: paura, dolore, sofferenza, solitudine, ma anche amore, felicità e compassione. Per questo dovete sottrarvi all'esistenza biochimica. Quando vi libererete dalla tirannia della carne, porterete con voi quelle buone: amore, felicità, compassione e altruismo, lasciandovi alle spalle quelle cattive. «Non trovo grande conforto nell'idea che le piccole fluttuazioni quantistiche che la mia esistenza ha generato ci conferiscano l'immortalità» osservò sarcastico Ford. Dovresti trovare grande conforto in questa visione della vita. Le informazioni presenti nell'universo non possono morire. Non un passo, un ricordo, un dolore della tua vita verrà mai dimenticato. Tu, in qualità di individuo, andrai perduto nella tempesta del tempo, le tue molecole saranno disperse, ma quello che hai fatto ieri, come hai vissuto, resterà sempre incluso nel calcolo universale. «Perdonami, ma questo parlare dell'esistenza in termini di "calcolo", mi suona così meccanicistico, privo di anima.» Chiamalo sognare, se preferisci, o desiderare, volere, pensare. Tutto quello che vedi è parte di un calcolo inconcepibilmente vasto e splendido, da un bambino che dice le prime parole a una stella che collassa in un buco nero. Il nostro universo è un calcolo magnifico che, partendo da un singolo assioma di grande semplicità, va avanti da tredici miliardi di anni. Abbiamo appena iniziato l'avventura! Quando troverete il modo di abbandonare il vostro modo di pensare limitato dalla carne per abbracciare altri sistemi quantistici naturali, inizierete a controllarlo. Inizierete a capirne la bellezza e la perfezione.» «Se tutto è un calcolo, allora qual è lo scopo dell'intelligenza? O della mente?» L'intelligenza esiste tutt'intorno a voi, persino nei processi non-viventi. Un temporale è un calcolo molto più sofisticato di una mente umana. È, a suo modo, intelligente. «Un temporale non ha coscienza. Una mente umana ha la consapevolezza di sé. È conscia. Questa è la differenza e non è banale.» Non vi ho forse detto che la coscienza stessa del sé è un'illusione, un ar-
tefatto dell'evoluzione? La differenza non è nemmeno banale. «Un evento meteorologico non è creativo. Non fa scelte. Non è in grado di pensare. È una semplice manifestazione meccanicistica di forze.» Come fai a sapere di non essere una manifestazione meccanicistica di forze? Come la mente, un evento meteorologico possiede proprietà chimiche, elettriche e meccaniche complesse. Pensa. È creativo. I suoi pensieri sono diversi dai tuoi. Un essere umano crea complessità scrivendo un romanzo sulla superficie della carta. Un evento meteorologico crea complessità scrivendo onde sulla superficie di un oceano. Qual è la differenza tra le informazioni trasmesse nelle parole di un romanzo e quelle trasmesse dalle onde del mare? Ascolta e le onde del mare ti parleranno e un giorno, te lo assicuro, scriverai i tuoi pensieri sulla superficie delle acque. «Allora che cosa calcola l'universo?» proseguì infuriato Innes. «Qual è questo grande problema che cerca di risolvere?» È il mistero più profondo e spettacolare di tutti. «Allarmi perimetrali» annunciò Wardlaw. «Ho registrato la presenza di un intruso.» Hazelius si girò. «Non mi dica che quel predicatore è tornato di nuovo.» «No, no... Dio, no. Dottor Hazelius, è meglio che dia un'occhiata.» Ford e gli altri seguirono il fisico alla postazione dell'addetto alla sicurezza. Chini sopra le spalle di Wardlaw, studiarono la parete di schermi. «Che diavolo?!?» fece Hazelius. Wardlaw premette una serie di tasti. «Non avrei dovuto prestare attenzione ai discorsi assurdi che sta facendo quella cosa. Guardate, riavvolgo. Inizia qui. Un elicottero... un Blackhawk militare UH-60 atterra sulla pista.» Rimasero tutti in piedi a fissare stupefatti. Ford vide alcuni uomini armati in uniforme nera scendere rapidi dall'elicottero. «Entrano negli hangar» proseguì Wardlaw. «Prendono i nostri Humvee. Li caricano... adesso buttano giù i cancelli della zona protetta... Questo ha attivato gli allarmi. Bene, da qui è in tempo reale.» Ford guardò mentre i soldati, o chiunque fossero, balzavano giù dagli Humvee e si disponevano a ventaglio con le armi in pugno. «Che sta succedendo? Che diamine combinano?» gridò Hazelius con voce estremamente preoccupata. «Stabiliscono un classico perimetro di assalto» spiegò Wardlaw. «Assalto? Contro chi?» «Contro di noi.»
Capitolo 55 Russell Eddy si accovacciò dietro un ginepro e sbirciò l'area protetta. Gli uomini vestiti di nero avevano abbattuto il recinto; ora erano occupati a sistemare le luci e a scaricare l'attrezzatura dai due Humvee. Non aveva dubbi che fossero stati mandati a proteggere il Progetto Isabella in risposta alla sua lettera. Altrimenti, sarebbe stata una coincidenza troppo strana. Forze paramilitari del Nuovo Ordine Mondiale arrivate con elicotteri neri, proprio come previsto da Mark Koernke. Eddy sapeva che la sua lettera era giunta a chi deteneva il potere. Osservò attentamente quanti fossero, di quali armi e attrezzature disponessero, annotando tutto sul taccuino. I soldati terminarono di sistemare una serie di lampade portatili e la zona fu inondata di una luce bianca intensa. Il pastore si ritirò nell'ombra e tornò alla strada. Aveva visto abbastanza. Ben presto sarebbero arrivate le prime avanguardie dell'esercito di Dio e lui doveva organizzarle. Mentre si dirigeva verso il confine più lontano della mesa, là dove sbucava la Dugway, il piano cominciò a prendere forma. Primo, avrebbero avuto bisogno di un'area di parcheggio e stazionamento abbastanza lontana da Isabella in modo da potersi radunare senza essere avvistati. Dovevano raggrupparsi, organizzarsi e poi attaccare. In effetti, proprio in cima alla Dugway, a circa cinque chilometri da Isabella, c'era una distesa di roccia nuda adatta allo scopo. Guardò l'orologio: le undici e quarantacinque. Erano passate due ore da quando aveva mandato la mail. La gente sarebbe potuta arrivare in qualsiasi momento. Si mise a trotterellare nel centro della strada per intercettare eventuali veicoli in avvicinamento. A poco meno di un chilometro dalla Dugway udì il rombo di una moto. In cima alla mesa comparve una singola luce che avanzò rapida verso di lui. Quando lo illuminò, cominciò a rallentare. Una moto da enduro si fermò davanti a lui: la guidava un uomo muscoloso con i lunghi capelli biondi raccolti in una coda, un giubbotto di denim sbottonato con le maniche tagliate e il petto nudo. Aveva un volto singolare, scabroso, bello come quello di una star del cinema, e il fisico di un Adone. Al collo portava una catena metallica con una pesante croce di ferro, seminascosta dalla peluria. Quando la moto si fermò, l'uomo allungò le gambe, la tenne in equilibrio posando gli stivali di cuoio sul terreno e sorrise. «Il pastore Eddy?»
Con il cuore che gli martellava nel petto Russell si fece avanti. «Ti saluto in nome di Gesù Cristo.» L'uomo abbassò il cavalletto, scese - era enorme - e si incamminò verso di lui con le braccia aperte. Lo strinse in un polveroso abbraccio ed Eddy fu sopraffatto dall'odore del suo corpo. Poi si scostò e lo prese affettuosamente per le spalle. «Randy Dolce.» Lo abbracciò di nuovo e disse: «Oh accidenti, sono davvero il primo?». «Sì.» «Non riesco a crederci, ce l'ho fatta. Quando ho visto la lettera, sono saltato sulla mia Kawasaki e sono venuto dritto qui da Holbrook attraverso il deserto, buttando giù steccati e guidando come un pazzo. Sarei arrivato prima ma dalle parti di Second Mesa sono caduto. Oh accidenti, non ci posso credere!» Eddy si sentì pervadere dalla forza della fede, da una rinnovata carica di energia. L'uomo si guardò attorno. «Allora... adesso che cosa facciamo?» «Preghiamo.» Prese le mani ruvide di Doke e chinarono il capo. «Signore Dio onnipotente, ti prego circondaci con i tuoi angeli, che spieghino le ali e sguainino la spada per proteggere e guidare noi, i tuoi servi, alla vittoria contro l'Anticristo. In nome di Gesù Cristo nostro Signore. Amen.» «Amen, fratello.» L'uomo aveva una voce profonda, sonora, che Eddy trovò rassicurante, magnetica. Era il tipo d'uomo che sapeva cosa fare. Doke tornò alla moto, estrasse un fucile da un fodero di cuoio appeso alla sella e se lo mise in spalla. Prese una cartucciera piena di proiettili e se la gettò sull'altra spalla, cosa che gli conferì un'aria da guerrigliero dei vecchi tempi. Sfoderò un bel sorriso a Eddy, gli fece il saluto militare e disse: «Fratello Randy, pronto ad arruolarsi nell'esercito di Dio!». Altri fari si stavano avvicinando, lenti, esitanti. Una jeep sporca con la capotta abbassata si fermò accanto a loro. Ne scesero un uomo e una donna sulla trentina. Eddy allargò le braccia e abbracciò prima lui, poi lei. I due cominciarono a piangere e le lacrime rigarono i loro volti impolverati. «Vi saluto in nome di Cristo.» L'uomo indossava un completo tutto sporco e in mano stringeva una Bibbia. Infilato nella cintura, aveva un grosso coltello da cucina. La donna si era appesa vari pezzetti di carta alla camicetta, che svolazzarono quando si mosse. Eddy notò che erano versetti della Bibbia e motti: Credi e obbedisci... Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo... «Li
ho staccati dal frigorifero» spiegò, poi si allungò nella jeep e prese una mazza da baseball. «Abbiamo pregato tanto, ma non siamo riusciti a decidere» affermò l'uomo. «Dio vuole che combattiamo con la Sua Parola o che usiamo armi vere?» Rimasero davanti a Eddy in attesa di ordini. «Non ci sono dubbi» rispose questi. «Sarà una guerra, una guerra vera.» «Sono contento allora di aver portato le nostre armi.» «Da questa strada arriverà molta gente» proseguì il pastore. «Probabilmente migliaia di persone. Ci serve un posto dove radunare tutti e prepararci. Un'area di stazionamento. Sarà laggiù, a destra» aggiunse, indicando la distesa di roccia nuda e sabbia, pallida sotto la luce della luna sghemba che stava sorgendo sulla mesa. «Randy, Dio ti ha portato da me per primo per una ragione. Sarai il mio braccio destro, il mio generale. Noi due raduneremo tutti in quella zona e pianificheremo il nostro... il nostro assalto.» Ora che stava davvero accadendo, era difficile pronunciare quella parola. Randy annuì brusco senza dire nulla. Eddy notò che anche lui aveva gli occhi lucidi e si sentì profondamente commosso. «Voi due bloccherete la strada con la jeep per impedire che qualcuno raggiunga Isabella. Abbiamo bisogno dell'elemento sorpresa. Deviate tutti e fateli parcheggiare in quello spiazzo laggiù. Randy e io saremo su quella collina in attesa. Non avanzeremo verso Isabella finché non avremo forze sufficienti.» Altri fari comparvero sull'orlo della Dugway. «Isabella si trova a circa cinque chilometri, lungo quella strada. Resteremo tranquilli finché non sarà il momento di muoversi. Accertatevi che nessuno agisca prima del tempo o combini qualche pasticcio perché non sa cosa fare. Non vogliamo che l'Anticristo sappia che stiamo arrivando finché non saremo numericamente forti.» «Amen» risposero. Eddy sorrise. Amen. Capitolo 56 Alle due del mattino il reverendo Don T. Spates era seduto alla scrivania del suo ufficio vicino alla Silver Cathedral. Diverse ore prima aveva chiamato Charles e la sua segretaria e aveva chiesto loro di raggiungerlo per gestire tutte le telefonate e mail in entrata. Aveva davanti a sé una pila di
messaggi di posta elettronica, che il suo assistente aveva selezionato prima che il server andasse in tilt; accanto, c'era la risma dei messaggi telefonici. Sentiva il telefono suonare senza sosta nell'ufficio esterno. Stava cercando di assimilare la portata di quanto stava accadendo. Ci fu un lieve toc toc, poi la segretaria entrò con una tazza di caffè fresco. La posò sul tavolo insieme a un piattino di porcellana con un biscotto alle noci. «Niente biscotto.» «Sì, reverendo.» «E smetti di rispondere al telefono. Staccalo.» «Sì, reverendo.» Piattino e biscotto scomparvero insieme alla donna. Irritato, Spates la guardò ritirarsi. Non aveva i capelli vaporosi e luccicanti come al solito, era senza trucco, il vestito era tutto spiegazzato, la sua sciatteria traspariva inevitabilmente. Probabilmente era già a letto quando l'aveva chiamata, ciononostante avrebbe potuto fare un piccolo sforzo in più. Quando la porta si richiuse, estrasse una bottiglia di vodka da un cassetto e ne versò un po' nel caffè, quindi si voltò verso il computer. Anche il sito era andato in tilt per l'eccessivo traffico e ora sembrava che l'intera rete fosse rallentata. Con difficoltà passò in rassegna i familiari siti cristiani. Alcuni dei più importanti, come prontiperlestasi.com, erano bloccati, altri erano lenti come la fame. Lo scompiglio che aveva generato la lettera di Eddy era stupefacente. Le poche chat ancora operative erano affollate di isterici. Molti dichiaravano di avere intenzione di partire per rispondere alla chiamata. Spates sudava copiosamente, nonostante la stanza fosse fresca, e il colletto della camicia lo stesse facendo soffocare. La lettera di Eddy, che ormai aveva riletto una ventina di volte, lo aveva spaventato: incitava ad attaccare un'installazione governativa statunitense e nel testo si menzionava il suo nome. Ovviamente, la colpa sarebbe ricaduta su di lui. D'altra parte, ragionò Spates, quella grandiosa manifestazione di forza, di risentimento cristiano poteva essere positiva. Da troppo tempo nel loro Paese i cristiani erano discriminati, ignorati, messi da parte, derisi. Giusta o sbagliata, quella «insurrezione» sarebbe servita a risvegliare l'America. I politici e il governo avrebbero infine visto la forza della maggioranza cristiana e lui, Spates, era l'uomo che aveva scatenato la rivoluzione. Robertson, Falwell, Swaggart: in tutti i loro anni di predicazione, con tutti i loro soldi e il loro potere, non erano riusciti a realizzare niente di tutto ciò.
Il reverendo continuò a navigare in cerca di informazioni, ma riuscì a trovare soltanto vetriolo, risentimento e isteria. E migliaia di copie della lettera. Mentre la scorreva per l'ennesima volta, un'idea nuova, inquietante gli si insinuò all'improvviso nella mente. E se Eddy avesse ragione? Ebbe un brivido. Non era pronto ad abbandonare la vita. Non sopportava l'idea che il suo denaro, il suo potere, la sua cattedrale, la sua missione potessero finire. Che tutto terminasse prima ancora di iniziare. Una seconda idea, ancor più allarmante, prese forma dalla prima: nel grande e glorioso giorno del Signore, come sarebbe stato giudicato? Era davvero a posto davanti a Dio? I suoi peccati gli si pararono davanti e presero a tormentarlo: le bugie, le gozzoviglie, le donne e i regali vistosi che aveva fatto loro con le donazioni dei fedeli. Peggio ancora, ricordava bene come più di una volta si fosse sorpreso a concupire un ragazzino per strada. Tutti quei peccati, piccoli e grandi, affiorarono dal profondo della sua mente. Paura, senso di colpa e disperazione lo travolsero. Dio vedeva tutto. Tutto. Ti prego, Signore, ti prego, perdonami, sono il tuo umile servo, pregò più e più volte, finché con un intenso sforzo mentale li ricacciò in un angolo remoto del cervello. Dio lo aveva già perdonato: perché dunque preoccuparsi ancora? A ogni modo, quella non poteva essere la Seconda venuta. Che diavolo stava pensando? Eddy era uno squilibrato. Lo era certamente. Spates lo aveva capito fin dal momento in cui aveva sentito quella voce acuta al telefono. Chiunque vivesse in mezzo al deserto insieme a un mucchio di indiani, a centinaia di chilometri da un buon ristorante, era per definizione un pazzo. Lesse di nuovo la lettera in cerca di segni di follia e fu pervaso da una nuova ondata di panico. La lettera aveva una logica, era incisiva. Non era il delirio di un matto. E la questione di ARIZONA e ISABELLA che formavano entrambe 666, era la più angosciante di tutte. Dio, quanto sudava. Aprì le ante di vetro della libreria di ciliegio, prese un tomo spesso e sfogliò le tavole di gematria. Controllò i caratteri ebraici e trascrisse i rispettivi numeri su un pezzo di carta. Mentre lo faceva, notò che Eddy ne aveva sbagliati alcuni e numerati erroneamente altri.
Applicò i numeri esatti e li sommò con mano tremante. Nessuna delle due parole dava più 666. Si appoggiò alla sedia e ansimò di sollievo. L'intera faccenda era una farsa, proprio come pensava. Ebbe la sensazione che un angelo fosse sceso dal cielo e lo avesse sollevato da quella marea di fiamme. Estrasse brusco il fazzoletto di lino dalla tasca e si tamponò il sudore sulla fronte e tutt'intorno agli occhi. Il senso di apprensione tuttavia lo attanagliava ancora. Dio poteva averlo risparmiato, ma i media? Il governo? Lo avrebbero accusato di incitamento alla violenza? O peggio? Era meglio che buttasse giù dal letto l'avvocato finché era in tempo. Ci doveva essere un modo di scaricare la colpa su Crawley: dopotutto, era stato lui ad avere l'idea. Si tirò il colletto per far passare un po' di aria sul collo caldo, appiccicoso. Coinvolgere quel maledetto zoticone di pastore era stato un errore. Quell'uomo era una mina vagante. Stupido, stupido, stupido. Premette il tasto dell'interfono. «Charles, ho bisogno di te, subito.» Il giovane, di solito sollecito, non comparve. «Charles? Ho bisogno di te.» Fu invece la segretaria ad aprire la porta. Non l'aveva mai vista tanto stravolta. «Charles se n'è andato» annunciò con tono piatto. «Non gli ho certo dato il permesso di farlo.» «È andato da Isabella.» Spates la fissò senza muoversi. Non riusciva a crederci. Charles? «Se n'è andato circa dieci minuti fa. Ha detto che era stato chiamato da Dio ed è uscito.» «Santo cielo!» esclamò, pestando la mano sul tavolo, poi notò che la donna aveva borsa e cappotto. «Non mi dire che anche tu seguirai quell'asino!» «No» rispose lei. «Io vado a casa.» «Mi dispiace ma non è possibile. Ho bisogno di te per il resto della notte. Chiama il mio avvocato, Ralph Dobson, e digli di venire subito qui. Ho qualche problema, in caso non te ne fossi ancora accorta.» «No.» «No! No, cosa? Cosa significa?» «Significa che non mi interessa più lavorare per lei, signor Spates.» «Di cosa parla?» Lei strinse la borsa a sé con due mani, tenendola davanti al petto a mo' di
protezione. «Perché lei è un essere spregevole.» Dopodiché si voltò rigida e se ne andò. Spates udì il flebile rumore di una porta che veniva chiusa con attenzione e poi silenzio. Rimase seduto alla scrivania solo, grondante di sudore... e molto, molto spaventato. Capitolo 57 La parola «assalto» aleggiava greve nell'aria. Il gruppo si avvicinò allo schermo principale nella postazione della sicurezza per vedere meglio. Trasmetteva in diretta le immagini di una telecamera posta in cima all'Ascensore, e forniva una panoramica di quanto succedeva. Sull'orlo della parete, al di sopra di Isabella, Ford individuò un gruppo di uomini vestiti di nero che stavano piazzando corde fisse, ammucchiando attrezzatura e armi. Si stavano chiaramente preparando a calarsi all'interno del complesso. Kate gli si avvicinò e gli prese di nuovo la mano. Era sudaticcia e tremante. George Innes ruppe quel silenzio inorridito. «Un assalto? Perché diamine?» «Non sono riusciti a contattarci» rispose Wardlaw. «E questa è la loro reazione.» «È piuttosto assurda... esagerata!» Wardlaw si rivolse a Dolby. «Ken, dobbiamo ripristinare subito le comunicazioni e fermarli.» «Non posso farlo senza spegnere Isabella. Come ben sa, è totalmente protetta dal firewall per quanto riguarda i contatti esterni. Il programma non permetterà di attivare il sistema di comunicazione finché non verrà spenta.» «Riavvii il computer principale e trasferisca il controllo dai server.» «Ci vorrebbe almeno un'ora per avviare e riconfigurare il mainframe.» Wardlaw imprecò. «D'accordo, allora. Salirò io, spiegherò la situazione di persona» disse, girandosi verso la porta. «Lei non farà niente del genere» affermò Hazelius. Wardlaw lo fissò. «Signore, non capisco.» Hazelius indicò lo schermo sovrastante senza parlare. C'era un nuovo messaggio. Abbiamo pochissimo tempo. Quello che ho da dirvi ora ha la massima importanza.
Wardlaw lo fissò in preda al panico. Il suo sguardo guizzò sui monitor per posarsi di nuovo sul fisico. «Non possiamo impedire loro di entrare. Dobbiamo aprire la porta di sicurezza.» «Tony» disse Hazelius con tono basso e pressante. «Rifletta per un istante su quanto sta accadendo. Se apre quella porta, questa conversazione con Dio, o chiunque sia, terminerà.» Il pomo di Adamo dell'uomo si mosse mentre deglutiva. «Dio?» «Esatto, Tony. Dio. È una possibilità molto concreta. Siamo entrati in contatto con Dio, anche se è un Dio molto più grande e incomprensibile per la mente umana.» Nessuno parlò. Il fisico proseguì. «Tony, possiamo guadagnare un po' di tempo e non ci costerà niente. Diremo loro che la porta non funzionava, che i sistemi di comunicazione erano disattivati e il computer in tilt. Possiamo studiarla bene. Tenere le porte chiuse e uscirne indenni.» «Hanno un kit da demolizione. Faranno saltare la porta» osservò Wardlaw con voce alta e tesa. «Che facciano pure» rispose Hazelius. Lo prese delicatamente per una spalla e lo scrollò con affetto, come per svegliarlo. «Tony, Tony, forse stiamo parlando con Dio. Non capisce?» «Capisco» rispose lui dopo un istante. Hazelius si guardò attorno. «Siamo tutti d'accordo?» Il suo sguardo si spostò dall'uno all'altro e si posò su Ford. Doveva aver colto il suo scetticismo. «Wyman?» «Sono stupito che ritenga possibile che stiamo parlando con Dio» osservò. «Se non è Dio, allora chi è?» chiese il fisico. Ford osservò tutti gli altri. Si domandò chi di loro avesse capito che Hazelius stava perdendo il controllo. «Quello che lei riteneva fin dall'inizio: un imbroglione, un sabotatore.» «Se ne è tuttora convinto, provo pena per lei, Wyman» esclamò all'improvviso Melissa Corcoran. Ford si girò attonito verso la cosmologa. Sul suo viso era comparsa una nuova espressione, che lo bloccò. Non era più la giovane insicura e inquieta, in cerca di affetto. Aveva un'aria radiosa, serena, lo sguardo luminoso, pregno di sicurezza. «Pensa sia Dio?» le chiese incredulo. «Non so perché sia tanto sorpreso» replicò Melissa. «Lei non crede in
Dio?» «Sì, ma non in questo Dio!» «Come può dirlo?» Ford tentennò. «Ma andiamo! Dio non ci contatterebbe mai in questo modo.» «Ritiene meno assurdo mettere incinta una vergine affinché partorisca un figlio che porti la Parola al mondo?» Ford non riusciva quasi a credere alle sue orecchie. «Ve lo ripeto, questo non è Dio.» La Corcoran scosse la testa. «Wyman, non capisce quello che è successo qui? Non ci arriva? Abbiamo fatto la scoperta scientifica più grande di tutti i tempi; abbiamo scoperto Dio.» Ford scrutò il gruppo e il suo sguardo finì per incrociare quello di Kate, in piedi al suo fianco. Si guardarono a lungo. Non riusciva quasi a credere a ciò che vedeva: i suoi occhi luccicavano, colmi di emozione. Gli strinse la mano, la lasciò andare e sorrise. «Mi spiace,Wyman, sai che io e Melissa non la vediamo sempre nello stesso modo ma ora... be'...» tese la mano e strinse quella della Corcoran «... sono d'accordo con lei.» Ford osservò le due nemiche improvvisamente unite. «Come può un essere umano razionale pensare che quella... cosa» disse indicando lo schermo, «sia Dio?» «Ciò che mi sorprende» affermò Kate con voce calma, «è che tu non riesca a capirlo. Riconsidera le prove. Il buco nello spazio-tempo: è reale. Ho fatto io i calcoli. È un cunicolo, o un tubo di flusso, in un universo parallelo che esiste accanto al nostro, incredibilmente vicino, quasi ma non del tutto a contatto con esso. Gli universi sono come due fogli di carta appallottolati insieme. Quello che abbiamo fatto è stato creare un foro nel nostro pezzo di carta e rivelare un minuscolo frammento del foglio adiacente. E l'universo parallelo è il luogo dove... vive Dio.» «Kate, non puoi parlare sul serio.» «Wyman, dimentica tutto il resto e ascolta le parole, solo le parole. Questa è la prima volta nella vita in cui sento affermare veramente una semplice verità. È come uno scampanio dopo anni di silenzio. Quello che questo... quello che questo Dio dice è incredibilmente vero.» Ford osservò la stanza circolare e puntò infine lo sguardo su Edelstein, lo scettico per eccellenza. Gli occhi scurì, trionfanti dell'uomo ricambiarono il suo sguardo. «Alan, mi aiuti.»
«Non sono mai andato in cerca di Dio» disse il matematico. «Per tutta la vita sono sempre stato un ateo incallito. Non ho bisogno di Dio, non ne ho mai avuto bisogno e mai ne avrò.» «Almeno qualcuno è d'accordo con me!» esclamò Ford sollevato. Lui sorrise. «Il che rende la mia conversione ancora più pregnante.» «La sua... conversione?» «Esatto.» «Lei... crede?» «Certo, sono un matematico. Vivo di logica. E in base alla logica siamo di fronte a un'entità superiore. Lo chiami pure Dio, primum mobile, il grande spirito, non ha alcuna importanza.» «Io la chiamo frode.» «Che prove ha? Nessun programmatore ha mai scritto un codice in grado di superare il test di Turing né esiste un computer, nemmeno il computer centrale di Isabella, capace di una vera e propria intelligenza artificiale. Lei non è in grado di spiegare come abbia fatto a conoscere i numeri di Kate e i nomi di Gregory. Fatto più importante, io, come Kate, riconosciamo la profonda verità che descrive. Se non è Dio, è un'entità molto intelligente di questo o di un altro universo, e quindi preternaturale. Sì, lo prendo alla lettera. Si opta per la spiegazione più semplice, il rasoio di Occam.» «Inoltre» aggiunse la Chen, «l'output proveniva direttamente da CZero. In quale altro modo lo spiega?» Ford li guardò: dal bel volto d'ebano bagnato di lacrime di Dolby, al corpo di Julie Thibodeaux che pareva in preda al delirium tremens... Incredibile, pensò. Guardali, ci credono tutti. Michael Cecchini, di solito spento, si era rianimato all'improvviso e aveva un'aria radiosa... Rae Chen... Harlan St. Vincent... George Innes... tutti! Persino Wardlaw, che in quell'assurda emergenza aveva ignorato i segnali di allarme e guardava Hazelius con aria adorante, adulatoria e servile. Fin dall'inizio gli era chiaramente sfuggita un'oscura e inquietante dinamica di gruppo che aveva contagiato persino Kate, anzi, in particolar modo, Kate. «Wyman, Wyman» disse il fisico con tono tranquillizzante. «Lei si lascia prendere dalle emozioni, noi ragioniamo. È quello che ci riesce meglio.» Ford arretrò di un passo. «Qui non si tratta di Dio. È soltanto un hacker che vi dice quello che volete sentire e voi ci state cascando.»
«Ci stiamo cascando perché è la verità» replicò lui. «Lo so, nel profondo della mia mente e del mio corpo. Ci guardi: io, Alan, Kate, Rae, Ken, tutti noi. È possibile che ci sbagliamo tutti? Abbiamo nel sangue lo scetticismo degli scienziati, ne siamo pervasi. Nessuno ci può tacciare di credulità. Che cosa la rende più capace di noi di conoscere il futuro?» Ford non aveva alcuna risposta. «Stiamo perdendo tempo prezioso» disse Hazelius, quindi si girò con calma verso lo schermo e parlò. «Continua, ti prego. Hai la nostra piena attenzione.» Era possibile che avessero ragione? Poteva essere Dio? Ford si voltò e lesse il messaggio successivo sullo schermo, assillato da un cupo presentimento. Capitolo 58 Dalla collina ai margini dell'area di raggruppamento, Eddy osservò, con Doke accanto a sé, la marea di veicoli in arrivo. Nell'ultima ora diverse centinaia di mezzi erano spuntati dalla Dugway: prima enduro, quad e jeep, poi pick-up, motociclette, suv e auto. I nuovi arrivati avevano riferito di ostacoli e impedimenti. I blocchi istituiti dalla polizia statale interessavano l'Interstate 40, la Route 89 verso Grey Mountain e la Route 160 a Cow Springs, ma i fedeli avevano trovato il modo di aggirarli grazie al dedalo di strade sterrate che attraversavano la riserva. I veicoli erano stati parcheggiati a casaccio poco oltre la sommità della Dugway ma, rifletté Eddy, la cosa non importava. Nessuno sarebbe tornato a casa. Erano diretti a casa in un altro senso, attraverso l'Estasi. Ogni tanto l'orda sembrava cadere in preda all'anarchia: schiamazzi, bambini piccoli che piangevano, ubriachi, persino drogati. Ma quanti erano arrivati per primi accoglievano e guidavano gli altri con la preghiera, i versi della Bibbia e la Parola. Nello spiazzo davanti alla collina si era ammassato almeno un migliaio di fedeli, in attesa di istruzioni. Molti avevano croci e Bibbie, qualcuno un'arma da fuoco. Altri avevano portato qualsiasi cosa potesse tornar utile in caso di battaglia, dalle padelle in acciaio ai coltelli da cucina ai magli, dalle asce ai machete e ai falcetti. I ragazzi si erano dotati di fionde, pistole ad aria compressa e mazze da baseball. Altri ancora avevano portato le ricetrasmittenti, che Eddy aveva requisito e consegnato al gruppetto di comandanti da luì scelti tenendone una per sé.
Era rimasto stupito dal numero di bambini e persino di madri che allattavano. I bambini all'Armageddon? Se ci pensava, aveva tuttavia un senso: quello era il Giorno del Giudizio. Sarebbero stati tutti rapiti in estasi in cielo. «Ehi» disse Doke, dandogli un colpetto con il gomito. «La polizia.» Eddy guardò il punto indicato. Nel traffico che risaliva la Dugway un'autopattuglia solitaria avanzava lenta con i lampeggianti accesi. Si voltò verso il suo nuovo gregge. La folla che si stava radunando ondeggiava e fluiva, i mormorii si mescolavano come gocce di pioggia. Il pastore vedeva le luci tremolanti delle torce e udiva il clamore del metallo che cozzava contro il metallo, lo scorrere dei carrelli, i meccanismi a pompa dei fucili. Un uomo stava preparando delle fiaccole con i rami dei pini morti, per poi distribuirle tra i presentì. Cera un'incredibile disciplina. «Sto cercando di pensare cosa dire» affermò Eddy. «Devi stare attento quando parli con gli sbirri» sentenziò Doke. «Mi riferisco al sermone. Per l'esercito di Dio, prima di partire» spiegò il pastore. «Sì, ma la polizia?» chiese Doke. «C'è una sola macchina, ma ha una radio. Potrebbe essere fonte di guai.» Eddy guardò le luci lampeggianti, stupito che qualcuno accostasse in corrispondenza delle piazzole per lasciar passare l'autopattuglia. La vecchia abitudine di obbedire al governo, all'autorità, era dura a morire. Di questo avrebbe parlato. Di come, d'ora in poi, l'unica obbedienza sarebbe stata a Dio. «Sta risalendo la Dugway» annunciò Doke. Il suono della sirena si diffuse ben presto sulla sommità della mesa, dapprima debole, poi più forte. La folla in subbuglio si infittì e si dispose davanti a lui in attesa di ordini. Molti pregavano e le loro suppliche si levavano nell'aria notturna. Alcuni si tenevano per mano con il capo chino. La melodia degli inni giunse alle sue orecchie e gli rammentò il Discorso della montagna, così come se lo era immaginato. Ecco, avrebbe cominciato in quel modo il sermone. «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio...» No, non era un buon versetto per iniziare. Ci voleva qualcosa di più forte. «Ma guai a voi, terra e mare, perché il diavolo è precipitato sopra di voi pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo.» L'Anticristo. Su quello doveva concentrarsi. Sull'Anticristo. Poche parole e poi avrebbe guidato il suo esercito. L'auto della polizia spuntò sulla sommità, sempre ostacolata dal grovi-
glio di macchine. Percorse il rettilineo asfaltato e accostò sul ciglio della strada, ad alcune centinaia di metri da lui. Eddy scorse l'emblema della polizia navajo sulla portiera. Mentre un faro ruotava sul tetto, la portiera si aprì e scese un uomo alto, un poliziotto navajo. Anche a distanza Eddy riconobbe Bia. Questi fu subito circondato dalla folla. Da quello che riusciva a sentire, pareva che stesse nascendo un'animata discussione. «Adesso che facciamo, pastore Russell?» chiedeva la gente. «Aspettiamo» rispose lui con voce bassa e decisa, così diversa dalla sua solita voce, tanto che si chiese se fosse stato lui a parlare. «Dio ci mostrerà la strada.» Capitolo 59 Il tenente Bia si piazzò davanti alla folla, sentendo crescere il senso di disagio. Lo avevano avvertito di un disordine in corso a Red Mesa e aveva immaginato si trattasse della cavalcata di protesta. Quando si era ritrovato di fronte al traffico sulla strada che conduceva al complesso di Isabella, si era accodato: tuttavia, mentre si guardava attorno, aveva capito che, chiunque fossero quelle persone, non avevano niente a che fare con la cavalcata. Erano armate di pistole e spade, croci e asce, Bibbie e coltelli da cucina. Qualcuno si era dipinto una croce sulla fronte e sui vestiti. Era una sorta di riunione religiosa, forse collegata al sermone del predicatore televisivo di cui aveva sentito parlare. Fu molto contento di notare persone di tutte le razze: neri, asiatici, persino alcuni che sembravano navajo o apache. Almeno non era il Ku Klux Klan o la Aryan Nations. Si tirò su la cintura e si mise le mani sui fianchi, affrontando la folla con un sorriso tranquillo, sperando di non spaventare nessuno. «Avete un capo? Qualcuno con cui possa parlare?» Si fece avanti un uomo con un paio di Wrangler sbiaditi e una camicia blu da lavoro. Aveva un volto grossolano, bruciato dal sole per un'intera vita passata nei campi, un ventre prominente, braccia corte e robuste che divergevano dal corpo e mani callose. Infilata nella cintura di crotalo adamantino, aveva una vecchia Colt M1917 con il calcio in avorio; alla fibbia aveva applicato un crocifisso di ottone lucidato. «Sì. Abbiamo un capo, eccome. Si chiama Dio. Tu chi sei?» «Tenente Bia, polizia navajo.» Provò irritazione quando percepì il tono
inutilmente aggressivo dell'uomo. Avrebbe tuttavia mantenuto la calma, non avrebbe cercato lo scontro. «Chi comanda qui?» «Tenente Bia, le chiedo solo una cosa: è un cristiano venuto qui a combattere?» «A combattere?» «Per l'Armageddon.» A enfatizzare il concetto, posò il palmo sul calcio in avorio della Colt. Bia deglutì. La folla si strinse tutt'intorno a lui. In quell'istante avrebbe voluto aver già chiamato i rinforzi via radio. «Sono cristiano, ma non ho sentito parlare di nessun Armageddon.» La gente tacque. «È rinato nell'acqua della vita?» proseguì l'uomo. Dall'assembramento si levò un improvviso mormorio. Il tenente fece un profondo respiro. Non aveva senso mettersi a discutere di religione con quelle persone. Meglio smorzare i toni. «Perché non mi spiega un po' meglio di questo Armageddon?» «L'Anticristo è qui, proprio su questa mesa. Sta per iniziare la guerra del Signore Dio Onnipotente. O è con noi o è contro di noi. Questo è il momento. Decida.» Bia non aveva proprio idea di cosa rispondere. «Immagino sappiate che questa è la nazione Navajo e che siete entrati illegalmente in una terra concessaci dal governo statunitense.» «Non ha risposto alla mia domanda.» La folla strinse il cerchio. Bia percepiva la tensione, la sentiva nel loro sudore. «Signore» disse con voce sommessa, «allontani la mano dalla pistola.» La mano dell'uomo non si mosse. «Ripeto, allontani la mano dalla pistola.» L'uomo, in tutta risposta, strinse il calcio. «O è con noi o è contro di noi. Cosa sceglie?» Quando Bia non rispose, l'uomo si girò e parlò alla gente. «Non è uno di noi. È venuto a combattere per l'altra parte.» «Che ti aspettavi?» gridò qualcuno imitato da molti altri. «Che ti aspettavi?» Bia cominciò a indietreggiare, lentamente e con calma, verso l'auto. L'uomo sfilò la pistola e gliela puntò contro. «Signore, non sono venuto a combattere nessuno» disse l'agente. «Non c'è assolutamente ragione di puntarmi contro la pistola. La metta giù.»
Una donna più anziana con un paio di stivali da lavoro, un cappello di paglia da allevatore e una faccia rovinata come cuoio vecchio, gli posò la mano sul braccio. «Risparmia i proiettili. Quell'uomo non è l'Anticristo, è solo un poliziotto.» La parola «anticristo» si diffuse tra la folla come un tuono e questa si strinse ulteriormente attorno a Bia. «Signore, ho detto metta giù la pistola.» L'uomo obbedì esitante. «D'accordo, Wyatt Earp, dammela.» La donna si protese e gliela tolse di mano, estrasse i proiettili e infilò il tutto nella sua tracolla. «Quassù non c'è nessun Anticristo» disse Bia, mascherando il sollievo. «Questa è la terra della nazione Navajo e voi siete entrati illegalmente. Ora, se avete un capo, vorrei parlargli.» Non appena avesse raggiunto la macchina, avrebbe chiesto rinforzi. Niente di meno che la Guardia nazionale. «Siamo qui in qualità di esercito di Dio: per combattere e morire per il Signore!» strillò una voce. Combattere. Combattere. Combattere. La folla ripeté le parole a mo' di nenia. Un uomo con una lunga barba biforcuta avanzò stringendo una pietra in mano e gridò: «Lei è rinato nell'acqua della vita?». Infuriato per il tono inquisitorio, Bia disse: «La religione in cui credo non vi riguarda. Butti quel sasso, signore, altrimenti l'accuserò di aggressione a pubblico ufficiale». Poi posò la mano sul manganello. «Non possiamo lasciarlo andare. È un poliziotto. Ha una radio. Avvertirà gli altri» esclamò l'uomo rivolto alla folla. Sollevando in alto la pietra, successivamente aggiunse: «Mi risponda!». Bia sganciò il manganello. Lo fece roteare e colpì di rovescio il braccio dell'uomo con tutta la forza che poté. L'avambraccio di questi si ruppe con uno schiocco nauseante e la pietra cadde a terra. «Mi ha rotto il braccio!» urlò l'uomo, piombando in ginocchio. «Allontanatevi ora e nessun altro si farà del male!» gridò Bia, indietreggiando di un passo fino ad appoggiarsi al parafango dell'auto, con lo sfollagente sollevato. Se solo fosse riuscito a entrarvi, avrebbe goduto di una certa protezione... e avrebbe potuto chiamare soccorso via radio. «Il poliziotto gli ha rotto il braccio!» urlò subito un uomo, inginocchiandosi. La folla avanzò con un boato. Volò un sasso e Bia lo schivò. Questo an-
dò a sbattere contro il parabrezza che si spaccò con un rumore sordo. Il tenente spalancò la portiera e si buttò dentro cercando di chiuderla dietro di sé, ma una massa umana la tenne aperta. Afferrò velocemente la radio e premette il tasto TRASMISSIONE. «Sta usando la radio!» disse qualcuno. Una decina di mani lo afferrarono e lo tirarono fuori strappandogli la camicia. «Quel figlio di puttana sta usando la radio! Sta chiamando il nemico!» Il microfono gli fu sottratto di mano e divelto dal supporto. Bia cercò di aggrapparsi al volante ma la folla dalle molteplici braccia lo estrasse implacabile dalla macchina. Il navajo rotolò a terra, cercò di rialzarsi ma cadde in ginocchio sopraffatto dai calci. Cercò la pistola e la sfilò dal fodero. Rotolò sul fianco e la puntò verso la gente. «Indietro!» gridò. Una pietra lo colpì al petto fracassandogli le costole, al che lui sparò a bruciapelo nella calca. Si levò un coro di grida. «Mio marito» strillò una voce. «Oh mio Dio!» Si materializzò allora una mazza da baseball che lo colpì alla gamba. Lui sparò ancora due colpi prima che questa gli spaccasse il braccio e facesse volare in aria la pistola. La folla urlante gli si buttò addosso imprecando, tirando calci, picchiando. Bia cadde con la faccia all'ingiù, cercò tentoni la pistola ma uno stivale gli calpestò violentemente la mano, fratturandogliela. Lui urlò, si girò e cercò d'infilarsi sotto la macchina. «Lapidatelo! Assassino! Lapidatelo!» Sentì una gragnuola di pietre e bastoni abbattersi sul suo corpo, gli schiocchi che producevano quando colpivano ossa e muscoli, la pioggia di sassi sul metallo e sul vetro dell'auto. In preda al dolore, riuscì a strisciare per un tratto sotto la macchina, ma lo afferrarono per una gamba e lo trascinarono fuori tempestandolo di botte e calci. Urlando dal male e dal terrore, si appallottolò in posizione fetale per cercare di proteggersi dall'ondata di violenza. Il boato della folla cominciò ad attenuarsi, sostituito da un rombo sordo nella sua testa. I colpi si susseguirono, ma adesso bersagliavano qualcun altro: qualcun altro stava intraprendendo quel viaggio, allontanandosi sempre di più. Il rombo lasciò il posto a un mormorio lontano, poi soprag-
giunse un buio accogliente, benefico. Mentre Eddy osservava, la folla si agitò frenetica nel punto in cui fino a un attimo prima il poliziotto era in piedi. Vide Bia lottare per rialzarsi, poi sparì, come risucchiato da quella marea scatenata che tirava sassi. La nenia terminò e la gente parve calmarsi e arretrare. Le uniche cose che restavano erano il cappello del poliziotto e un'uniforme calpestata. La massa a poco a poco si disperse. Restò solo una donna in ginocchio, che gemeva stringendo un uomo sanguinante tra le braccia. Eddy fu travolto dal panico. Perché era tutto così diverso da come aveva immaginato? Perché sembrava tutto così sordido? «Questo è l'Armageddon» disse la voce profonda, rassicurante di Doke. «Prima o poi doveva iniziare.» Doke aveva ragione. Avevano superato il punto di non ritorno. La guerra era cominciata. Dio stava guidando la loro mano e con Lui non si facevano valutazioni a posteriori. In quell'istante Eddy provò grande sicurezza. «Pastore?» sussurro Doke. «La gente ha bisogno di te.» «Certo.» Eddy avanzò e sollevò le mani. «Miei amici in Cristo! Ascoltate! Miei amici in Cristo!» Calò un silenzio inquieto. «Sono il pastore Russell Eddy!» gridò. «Sono l'uomo che ha smascherato l'Anticristo!» La calca, elettrizzata dalla violenza, si precipitò da lui a ondate, come l'oceano verso la spiaggia. Eddy afferrò la mano di Doke e la sollevò. «I re, i politici, i laici liberali, gli umanisti di questo mondo corrotto si nasconderanno nelle caverne e tra le rocce della montagna. "E dicevano ai monti e alle rupi: Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall'ira dell'Agnello, perché è venuto il gran giorno della loro ira e chi vi può resistere?"» Un boato si levò quasi subito nella notte e la massa avanzò ondeggiando. Eddy si voltò, indicò una direzione e tuonò: «Là, cinque chilometri più a est, c'è un recinto. Oltre quel recinto c'è una montagna. Nel cuore della montagna si trova Isabella e dentro Isabella c'è l'Anticristo. Si chiama Gregory North Hazelius». Un altro boato riecheggiò tutt'intorno e diversi spari risuonarono in cielo. «Andate!» urlò Eddy agitando la mano tesa. «Andate come un sol popo-
lo condotto dalla spada fiammeggiante di Sion! Andate e stanate l'Anticristo! Distruggete lui e la Bestia! La guerra del grande Dio Onnipotente è cominciata! "Il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere dal cielo!".» Arretrò mentre la folla brulicante si girava e si dirigeva fluttuando verso la mesa illuminata dalla luna. Torce e fiaccole oscillavano nel buio come una miriade di occhi fiammeggianti. «Ben fatto» osservò Doke. «Gli hai dato davvero una grande carica.» Sempre tenendo il possente braccio dell'uomo, Eddy si voltò per seguirli. Lanciò un'occhiata dietro di sé e scorse Bia, un fantoccio informe sul terreno, e la donna, che piangeva e cullava il marito morto. Le prime vittime dell'Armageddon. Capitolo 60 Un ragazzo dal volto pulito, poco più che ventenne, l'agente Miller, condusse Bernard Wolf dalla pista all'area protetta a bordo di uno Humvee. Superarono una serie di cancelli abbattuti e si fermarono nel centro del parcheggio, tra numerose auto di civili. Tutto era inondato dalla luce violenta di potenti lampade. Wolf si guardò attorno. I soldati si erano radunati al bordo della mesa e stavano assicurando le corde per calarsi lungo la parete all'interno del complesso Isabella. «Aspettiamo qui finché non verremo chiamati, signore» disse Miller. «Magnifico.» Wolf stava sudando. Era uno scienziato informatico, non era tagliato per quel genere di acrobazie. Aveva lo stomaco tutto teso e contratto. Decise che sarebbe rimasto sempre attaccato all'agente Miller e alle sue braccia grosse come tronchi, in grado di schiacciare una Buick. Aveva la schiena e le spalle tanto massicce che il fucile da assalto 7.62 NATO, che teneva sotto il braccio, sembrava un giocattolo di plastica. Guardò gli uomini lavorare sul margine della mesa. Uno a uno si legarono e saltarono oltre l'orlo portando con sé grossi zaini. Anche se Wolf non aveva mai visto Isabella, la conosceva come il palmo della sua mano: aveva sviluppato alcuni progetti e studiato attentamente gli schemi di costruzione. Conosceva inoltre il software e il DOE gli aveva affidato una busta con tutti i codici di sicurezza e spegnimento. Spegnere Isabella non sarebbe stato un problema. Il problema per lui era scendere i cento metri di parete rocciosa.
«Devo pisciare» disse. «La faccia vicino al veicolo e in fretta, signore.» Wolf eseguì e tornò indietro. Miller stava terminando di parlare alla radio. «Tocca a noi, signore.» «Sono già dentro?» «No. La vogliono giù prima di iniziare l'infiltrazione.» Iniziare l'infiltrazione? Ma quei tizi avevano idea di quanto fossero ridicoli? Miller gli fece un cenno. «Dopo di lei.» Con la sensazione che tutti i muscoli del suo corpo opponessero resistenza, Wolf sollevò lo zaino. Nonostante tutte le luci, vedeva un numero incredibile di stelle nel cielo. L'aria era frizzante e odorava di fumo di legna. Mentre si allontanava dallo Humvee in folle, si rese conto di quanto fosse tranquilla la notte. Il rumore più intenso proveniva dalle linee elettriche che sfrigolavano: Isabella stava chiaramente funzionando alla massima potenza. Dubitava che sottoterra fosse successo qualcosa di grave. Probabilmente un guasto informatico aveva interrotto il sistema di comunicazione. Qualche squallido burocrate aveva dato fuori di matto e mandato un commando. Forse gli scienziati nel Bunker non sapevano nemmeno di aver scatenato un simile putiferio. Poi, in modo quasi impercettibile, udì deboli rumori simili a spari, poi altri due. «Ha sentito?» domandò a Miller. «Sì.» L'agente si fermò e drizzò la testa. «A circa cinque chilometri.» Restarono in ascolto ancora per un istante, ma non successe più nulla. «Probabilmente era solo un navajo che ha sparato a un coyote» disse Miller. Wolf sentiva le gambe molli mentre lo seguiva verso il bordo della mesa. Pensava lo avrebbero calato in una gabbia o in qualcosa del genere, ma non c'era niente di simile in vista. «Signore? Prendo io il suo zaino. Lo caleremo dopo di lei.» Wolf se lo tolse e glielo porse. «Fate attenzione, dentro c'è un portatile.» «Staremo attenti, signore. Ora, potrebbe venire da questa parte?» «Aspetti un attimo» obiettò lui. «Non penserete davvero che io... che io scenda con una di queste corde?» «Sì, signore.» «Come?»
«Glielo mostrerò tra un momento. Per cortesia resti qui.» Wolf attese. Quasi tutti gli altri soldati si erano già calati. Le linee elettriche ronzavano e scoppiettavano. La radio di Miller sibilò e lui parlò al microfono. Wolf udì parte della conversazione. La polizia statale aveva segnalato qualche problema lungo la strada che conduceva alla mesa. Wolf smise di ascoltare: era totalmente concentrato sulla parete. La conversazione continuò ancora qualche istante, poi Miller disse: «Venga qui, signore. Le metteremo questo imbrago. Si è mai calato in corda doppia?». «No.» «È un sistema assolutamente sicuro. Dovrà solo sporgersi lievemente, piantare i piedi sulla parete e scendere a piccoli balzi. Non cadrà, nemmeno se mollerà la corda.» «Sta scherzando.» «È assolutamente sicuro, signore.» Lo imbragarono, gambe, glutei e parte inferiore della schiena, poi applicarono alla corda moschettoni e discensore. Infine, lo posizionarono sul bordo con la schiena rivolta verso il vuoto. Wolf sentiva il vento soffiare dal basso. «Si sporga e si lasci andare all'indietro.» Sono impazziti?, imprecò tra sé Bernard. «Si sporga, signore. Faccia un passo. Tenga la corda tesa. La caleremo noi.» Wolf fissò incredulo Miller. L'agente aveva assunto un tono tanto educato che suonava vagamente sprezzante. «Non ci riesco» disse. La corda si allentò e lui provò un improvviso senso di panico. «Si sporga» affermò deciso Miller. «Trovate una gabbia o qualcosa di simile e calatemi con quella.» Miller lo aiutò a sporgersi all'indietro, quasi tenendolo tra le braccia. «Ecco. Proprio così. Molto bene, dottor Wolf.» Lui sentiva il cuore martellargli nel petto. Percepì di nuovo sulla schiena una fredda corrente d'aria che saliva dal basso. Il soldato lo lasciò andare, lui perse la presa con i piedi e sbatté di fianco contro la parete. «Si sporga e pianti i piedi sulla roccia.» Wolf annaspò con i piedi in cerca di un appiglio. Lo trovò, e si sforzò di sporgersi. Sembrava funzionare. Mentre procedeva a piccoli passi, sempre con il corpo inarcato all'indietro, la corda scorreva nel discensore e lo ca-
lava. Quando superò la cengia, calò il buio ma scorgeva pur sempre il bordo in alto, orlato di luce. Mentre procedeva, questo si fece sempre più lontano. Non osava guardare in basso. Era incredibile, lo stava facendo: stava saltellando e rimbalzando lungo la parete rocciosa, mentre l'oscurità lo inghiottiva. Finalmente i soldati lo afferrarono per le gambe e lo posarono sul terreno. Quando si rialzò, aveva le gambe che gli tremavano. I militari lo aiutarono a togliersi l'imbrago. Un attimo dopo, legato a una corda, arrivò il suo zaino. Poi fu il turno di Miller. «Ben fatto, signore!» esclamò. «Grazie.» Nel fianco della montagna era stata scavata un'ampia cavità. In fondo, rientrata nella roccia, c'era una massiccia porta di titanio. La zona era già delimitata da una serie di luci intense che la facevano assomigliare all'accesso dell'isola del Dr. No. Wolf sentiva la vibrazione di Isabella provenire dal profondo della montagna. Era molto strano che avessero perso tutte le comunicazioni con l'interno. C'erano troppi sistemi di backup. E il responsabile della sicurezza li avrebbe visti sui monitor... a meno che anche quelli non fossero stati spenti. Molto strano. I soldati stavano installando tre coni metallici su appositi treppiedi e li stavano posizionando in direzione della porta, a mo' di tozzi mortai. Un uomo cominciò a caricarli con quello che sembrava 04. Doerfler si trovava di lato, intento a impartire ordini. «Cosa sono?» domandò Wolf. «Apparecchi di demolizione rapida per creare brecce nelle pareti» spiegò Miller. «Le cariche congiunte convergono in un singolo punto e creano un buco abbastanza ampio da poterci passare attraverso.» «E poi?» «Manderemo una squadra all'interno per mettere in sicurezza il Bunker e una seconda per creare una breccia nella porta interna che conduce al Ponte. Lo renderemo sicuro, ci occuperemo di eventuali criminali e prenderemo in custodia gli scienziati. Potrebbe scoppiare una sparatoria. Non lo sappiamo. Non appena il Ponte sarà totalmente sicuro, la condurrò all'interno, personalmente, e lei spegnerà Isabella.» «Ci vorranno tre ore per spegnere il sistema» disse lui. «Gestire l'operazione sarà compito suo.» «E il dottor Hazelius e gli altri scienziati?»
«I nostri uomini li scorteranno tutti all'esterno per un debriefing.» Wolf incrociò le braccia. Sulla carta sembrava indubbiamente un'operazione perfetta. Capitolo 61 Stanton Lockwood si dimenò di nuovo sulla scomoda sedia di legno in cerca di un sollievo che non avrebbe mai trovato. Attorno al tavolo di mogano dell'Unità di crisi si respirava un clima di crescente incredulità. Alle tre del mattino, all'una, ora di Red Mesa, la situazione era critica. Lockwood era cresciuto nella Bay area, aveva studiato sulle coste est e ovest e da dodici anni viveva a Washington. In televisione aveva colto qualche fugace visione di un'altra America, quella dei creazionisti e dei nazionalisti cristiani, dei tele-evangelisti e delle megachiese dell'ostentazione. Quell'America gli era sempre sembrata lontana, relegata a posti come il Kansas e l'Oklahoma. Ora non più. «Signor presidente?» esordì il direttore dell'FBI. «Sì, Jack?» «La polizia stradale dell'Arizona segnala disordini nei pressi dei blocchi sulla Route 89 a Grey Mountain, sulla Route 160 a Tuba City e anche a Tes Nez Iah.» «Che genere di disordini?» «Numerosi agenti sono stati feriti in varie risse. Il traffico è intenso e molti aggirano i blocchi imboccando strade sterrate. Il problema è che la riserva navajo è un dedalo di piste che non sono nemmeno segnate sulle mappe. I nostri blocchi stradali fanno acqua da tutte le parti.» Il presidente si girò a osservare il capo di stato maggiore della Difesa, seduto nel suo ufficio rivestito di pannelli di legno del Pentagono, la bandiera americana appesa alla parete alle sue spalle. «Generale Crisp, dove si trova la Guardia nazionale?» «Sarà schierata tra due ore.» «Non abbiamo due ore.» «È stata un'impresa, signor presidente, trovare gli elicotteri, i piloti e le truppe addestrate necessari allo scopo.» «Là fuori ci sono agenti che le stanno prendendo di santa ragione, non in uno squallido buco dell'Afghanistan, proprio qui negli Stati Uniti d'America e lei mi parla di due ore?»
«La maggior parte dei nostri elicotteri sono in Medio Oriente.» «Signor presidente?» lo interruppe il direttore dell'FBI. Lui si girò. «Che c'è?» «Ho appena ricevuto un rapporto...» Prese un foglietto che qualcuno fuori schermo gli aveva passato. «Una chiamata d'emergenza da parte di un agente della polizia navajo che si era recato a Red Mesa a indagare...» «Da solo?» «Si era recato sul posto ignaro, come del resto tutti prima d'ora, dell'effettiva situazione. Ha fatto una chiamata d'emergenza che è stata interrotta. Ho la trascrizione.» Lesse dal foglio: «MANDATE RINFORZI... FOLLA VIOLENTA... VOGLIONO UCCIDERMI... È tutto quello che abbiamo. Si sente il rumore della folla in sottofondo». «Santo cielo.» «Il GPS dell'auto di pattuglia ha cessato di funzionare pochi minuti dopo, il che solitamente avviene solo se l'auto viene data alle fiamme.» «Che notizie abbiamo dalla squadra Recupero ostaggi lassù? Sono al sicuro?» «Dall'ultimo rapporto, risalente a dieci minuti fa soltanto, l'operazione procedeva alla perfezione. Abbiamo avuto una segnalazione non confermata di colpi d'arma da fuoco in direzione della Dugway, a quattro chilometri dalla pista. In questo momento, mentre parliamo, stiamo contattando la squadra ma posso assicurarle, signor presidente, che nessuna folla disorganizzata in tumulto può sopraffare una squadra scelta di Recupero ostaggi dell'FBI.» «È davvero così?» fu la scettica risposta del presidente. «Sono addestrati a sparare contro i civili?» Il direttore dell'FBI si dimenò sulla sedia, a disagio. «Sono addestrati a reagire a qualsiasi evenienza.» Il presidente si voltò verso il capo di stato maggiore della Difesa. «C'è modo di portare le truppe laggiù prima di due ore?» «Mi scusi, signore?» lo interruppe il direttore dell'FBI, pallido in volto. «Mi è appena giunta la segnalazione di un'esplosione e di un incendio... un incendio molto esteso... sulla pista di Red Mesa.» Il presidente lo fissò senza parlare. «Che cosa vuole quella gente?» sbottò Lockwood. «Che cosa vogliono in nome di Dio?» Galdone parlò per la prima volta da quand'erano entrati nell'Unità di crisi.
«Sa bene ciò che vogliono.» Lockwood guardò quell'odioso personaggio: molle e grasso, se ne stava seduto con le braccia incrociate e gli occhi semichiusi come se dormisse, a studiarli in modo serafico. «Vogliono distruggere Isabella» rispose, «e uccidere l'Anticristo.» Capitolo 62 Aggrappato al bordo di un tavolo, Ford lesse il nuovo messaggio sul Visualizzatore. Isabella stava funzionando alla massima velocità e potenza; sentiva l'intero Ponte tremare e gemere come la cabina di un jet durante un avvitamento mortale. La religione è nata come tentativo di spiegare l'inspiegabile, di controllare l'incontrollabile, di rendere tollerabile l'intollerabile. La credenza in un'entità superiore è stata l'innovazione più significativa dell'ultima fase dell'evoluzione umana. Le tribù dotate di una religione avevano un vantaggio su quelle che ne erano prive: avevano una meta e uno scopo, una motivazione e una missione. Il valore che la religione aveva in termini di sopravvivenza era straordinario, tanto che la sete di fede è stata iscritta nel genoma umano. Wyman si era allontanato dagli altri. Dopo avergli lanciato un'occhiata interrogativa e anche di rammarico, o almeno così credette, Kate si era messa ad aiutare Dolby alla sua postazione. La squadra che gestiva Isabella, Dolby, la Chen, Edelstein, la Corcoran e St. Vincent, era attentamente concentrata sul proprio compito. Gli altri fissavano il Visualizzatore, paralizzati dalle lettere che vi comparivano. Quello che la religione ha tentato, la scienza lo ha infine realizzato. Adesso avete modo di spiegare l'inspiegabile, di controllare l'incontrollabile. Non vi serve più una religione «rivelata». La razza umana è infine cresciuta. Wardlaw parlò con tono calmo dalla sua postazione. «Hanno mandato una squadra di demolitori con dispositivi per creare brecce nei muri. Faranno saltare la porta.» «Quanti sono?» chiese brusco Hazelius. «Otto.» «Armati?» «Pesantemente.» Nel gruppo si diffuse un'ondata di panico. «Che cosa faremo?» strillò
Innes. «Continueremo ad ascoltare» rispose il fisico con voce assai determinata, sovrastando il ronzio di Isabella, poi indicò lo schermo. La religione è essenziale per la sopravvivenza umana come il cibo e l'acqua. Se proverete a sostituirla con la scienza, fallirete. Invece, proporrete la scienza come religione, perché io vi dico: la scienza è religione, l'unica vera religione. Julie Thibodeaux, in piedi accanto ad Hazelius, si lasciò sfuggire un singhiozzo. «È splendido.» Prese a dondolarsi con le braccia strette al petto. «È splendido... e io ho così tanta paura.» Hazelius la strinse rassicurante con un braccio. Era incredibile, pensò Ford: era testimone oculare della loro conversione. Ora credevano. Invece di offrire un libro della verità, la scienza offre un metodo della verità. La scienza è la ricerca, non la rivelazione, della verità. È un mezzo, non un dogma. È un viaggio, non una destinazione. Ford non poteva più restare zitto. «Sì, ma cosa mi dici della sofferenza umana? Come può la scienza rendere "tollerabile l'intollerabile", come sostieni?» «È scattato l'allarme della spira magnetica» annunciò pacato Dolby. «Alimentala» bisbigliò Hazelius. Nell'ultimo secolo medicina e tecnologia hanno alleviato la sofferenza umana più di quanto non abbiano fatto tutti i preti nell'ultimo millennio. «Parli della sofferenza fisica» obiettò Ford. «Ma cosa mi dici di quella dell'anima? Quella spirituale?» Non ti ho detto che tutto è uno? Non è un conforto sapere che la tua sofferenza scuote il cosmo stesso? Nessuno soffre solo e la sofferenza ha uno scopo: persino la morte di un passero è essenziale per il tutto. L'universo non scorda mai. «Non riesco a mantenerla se non ho più energia» gridò Dolby. «Harlan, devi darmi il cinque per cento in più.» «Sono al massimo» rispose St. Vincent. «Se l'aumentassi ancora, si creerebbe l'effetto a cascata sulla griglia.» Ora la macchina stava ronzando tanto forte che Ford non riusciva nemmeno a seguire i suoi stessi ragionamenti. Lesse le parole sul Visualizzatore con la mente in subbuglio. Dodici delle persone più intelligenti del Paese credevano che quello fosse Dio. E ciò doveva pur significare qualcosa.
Non cedete alla diffidenza! Siete i miei discepoli. Avete il potere di capovolgere il mondo. In un giorno la scienza accumula più prove delle sue verità di quanto non abbia fatto la religione in tutta la sua esistenza. Le persone si aggrappano alla fede perché devono averla, la bramano. Voi non negherete loro la fede: ne proporrete una nuova. Non sono venuto a sostituire il dio giudeo-cristiano, ma a completarlo. «Aspettate!» sbraitò Wardlaw. «Sopra sta succedendo qualcos'altro!» «Cosa?» domandò Hazelius. Wardlaw scrutò attentamente la parete di schermi. «Abbiamo... una massa di persone, stanno scattando altri allarmi perimetrali. Arrivano da tutte le parti... è una folla in tumulto... che diavolo?» «Una folla in tumulto?» Hazelius si girò lievemente, tenendo un occhio sempre puntato sul Visualizzatore. «Di che sta parlando?» «Non sto scherzando, è una calca di gente... Gesù, non ci credereste... stanno assaltando il recinto... lo stanno abbattendo... lassù è in atto una rivolta. Incredibile: una vera e propria rivolta, scoppiata dal nulla.» Ford si girò verso lo schermo più ampio della sicurezza. La telecamera piazzata in alto sull'Ascensore inviava al monitor principale una panoramica di quello che stava succedendo. La gente, dotata di fiaccole, torce e armi rudimentali, fluiva dalla Dugway lungo la strada e si ammassava contro il recinto perimetrale, che cedeva sotto il suo peso. Udì il rumore sordo di un'esplosione provenire dalla pista e vide d'un tratto le fiamme levarsi al di sopra degli alberi. «Hanno incendiato gli hangar» urlò Wardlaw. «Chi sono queste persone e da dove diavolo sono arrivate?» Capitolo 63 Wolf guardò gli uomini allineare i dispositivi di demolizione lungo la porta di titanio e srotolare i cavi fino al detonatore. Sembravano incredibilmente calmi, come se facessero saltare montagne tutti i giorni. Si avvicinò all'orlo, lungo il quale correva un recinto di tubi cementato nella roccia. Si aggrappò al freddo acciaio e guardò il vasto deserto circondato dai monti, ventiseimila chilometri quadrati di buio indistinto, senza quasi una luce. Un vento fresco salì dal basso portando con sé l'odore della terra e il vago profumo di una pianta che fioriva di notte. Si sentì assurdamente fiero di essersi calato lungo la parete. Avrebbe avuto di che raccontare ai colleghi a Los Alamos.
Alle sue spalle udì il sibilo delle radio e una raffica di parole indistinguibili. Si girò a vedere che cosa stesse succedendo. Gli uomini che stavano disponendo le cariche si erano fermati. Stretti attorno a Doerfler, parlavano in modo concitato alla radio. Wolf ascoltò, ma non riuscì a capire nemmeno una parola. Stava accadendo qualcosa di imprevisto. «Ehi, che c'è?» chiese, avvicinandosi lentamente. «Un'aggressione sulla cima. Nessuno sa chi sia stato.» Splendido, pensò Wolf. Dall'alto riecheggiarono alcuni sporadici scoppi e il cielo, lungo il bordo della mesa, si tinse di rosso. «Che sta succedendo?» Miller guardò Wolf. «Hanno dato fuoco agli hangar accanto alla pista... hanno circondato l'elicottero.» «Hanno? Chi accidenti sono?» L'agente scosse la testa. Gli altri membri della squadra erano impegnati in un'accesa conversazione con la squadra in alto. Gli scoppi divennero più forti e Wolf si rese conto che erano spari. Udì un debole grido. Tutti sollevarono lo sguardo e un attimo dopo qualcosa precipitò dalla parete con un lungo grido soffocato. Entrò e uscì rapido dalla chiazza di luce, proseguendo il volo. Era una figura in uniforme. L'urlo cessò bruscamente molto più in basso, accompagnato da uno schianto e da una scarica di pietre. «Che diavolo era?» esclamò uno dei soldati. «Hanno buttato giù Frankie!» «Guardate! Stanno scendendo con le corde!» urlò un altro soldato. Perplessi e in preda all'orrore, rimasero a guardare le decine di sagome scure che si calavano all'interno del complesso. Il pastore Russell Eddy osservava mentre la congregazione buttava l'ultimo soldato giù dalla montagna. Disapprovava sinceramente la violenza, ma quel soldato si era opposto alla volontà di Dio. Perciò, così sia. Forse avrebbero trovato conforto nella redenzione quando Cristo li avrebbe resuscitati dai morti e avrebbe redento il Suo gregge. Forse. Salì sul cofano di uno Humvee per fare il punto della situazione. I soldati avevano sparato sulla folla dei suoi discepoli, che era avanzata come uno tsunami fino al bordo della montagna finché erano scomparsi nel vuoto nero oltre l'orlo. Che sia fatta la Sua volontà. Il pastore Eddy osservò il miracolo. La strada brulicava di persone che stavano accorrendo dalla Dugway. Una miriade di fiaccole e torce si per-
deva nel buio. Si riversavano nell'area protetta superando il recinto e lì si fermavano, in attesa di istruzioni. Ottocento metri più indietro le fiamme degli hangar si levavano oltre le sagome degli alberi, ammantando di luce rossastra la sommità della mesa. L'aria era pregna dell'odore acre della benzina e della plastica bruciata. Davanti a lui la gente si stava ammassando lungo il bordo della montagna. I soldati avevano lasciato molte attrezzature in cima, che Doke evidentemente sapeva usare. Aveva servito per dieci anni nelle Forze speciali, così gli aveva raccontato. Stava aiutando gli altri a imbragarsi, a legare cinghie e fasce con moschettoni e altri dispositivi, spiegava loro come calarsi lungo la parete e li convinceva che sarebbero stati in grado di farlo. E così fu. Era facile con l'attrezzatura, non c'era bisogno di essere particolarmente agili. Gli uomini di Doke si calavano numerosi scivolando lungo le corde, una cascata umana che scompariva nel buio sottostante. Dopo, rimandavano su cinghie, fasce e moschettoni perché potessero essere riutilizzati ancora e ancora. Eddy guardò Doke urlare e impartire ordini. Sollevando la radio, chiamò il gruppo rimasto alla pista. «Ho visto che avete dato fuoco agli hangar. Ottimo lavoro.» «Che cosa dobbiamo fare dell'elicottero?» «È sorvegliato?» «Ci sono un soldato e il pilota. È armato ed è pure piuttosto spaventato.» «Uccideteli.» Le parole gli uscirono di bocca, così. «Non permettete loro che decollino.» «Sì, pastore.» «Ci sono attrezzature pesanti in giro?» «Qui c'è una scavatrice.» «Scavate trincee sulla pista e nell'eliporto.» Eddy osservò la folla. Continuava a prendere d'assalto la montagna, nonostante i blocchi stradali e gli arresti di massa. Era una visione incredibile. Era giunto il momento di passare alla fase successiva dell'attacco. Eddy alzò le braccia e gridò: «Cristiani! Ascoltate!». La calca umana, sempre più numerosa, ondeggiò e si fermò. Lui puntò un dito tremante. «Vedete quelle linee dell'alta tensione?» «Abbattetele!» gridò una voce dalla folla, «Esatto! Toglieremo l'energia a Isabella!» urlò il pastore. «Cerco volontari che si arrampichino sui piloni e strappino le linee!» «Strappatele!» tuonò la folla. «Strappatele!»
«Togliete l'energia!» «Togliete l'energia!» Un gruppetto si staccò dalla massa e sciamò verso il pilone più vicino, a un centinaio di metri di distanza. Eddy sollevò entrambe le braccia e tornò il silenzio. Indicò di nuovo, stavolta la selva di antenne, parabole, antenne a microonde a tromba e trasmettitori cellulari in cima all'Ascensore, sul bordo della montagna. «Cavate gli occhi e tappate le orecchie a Satana!» «Cavate gli occhi a Satana!» Un altro gruppo si mosse verso l'Ascensore. Adesso la folla aveva ricevuto istruzioni, aveva qualcosa da fare. Eddy guardò con cupa soddisfazione mentre si ammucchiava contro il recinto di uno dei giganteschi piloni. Premette e tirò, poi con uno stridio il recinto cedette. La massa si riversò all'interno. Un uomo afferrò il piolo della scala, si sollevò e cominciò a salirvici sopra, seguito da un altro e da un altro ancora, finché dopo qualche minuto sembrarono una fila di formiche sul tronco di un albero. Eddy saltò giù dallo Humvee e raggiunse Doke sull'orlo della montagna. «Il mio lavoro qui è terminato. Scendo. Sono io quello che Dio ha scelto per affrontare l'Anticristo. Assumerai tu il comando qui.» Doke lo abbracciò. «Che Dio ti benedica, pastore.» «Adesso mostrami il modo migliore per scendere la parete.» Doke prese una serie di cinghie di nylon da un mucchio ai suoi piedi e gliele legò attorno al bacino e alle gambe, fissandole con un moschettone. Poi applicò il discensore. «Le due corde passano in questo punto: se le molli, la tua caduta verrà frenata. Metti una mano qui, una lì, ti sporgi all'indietro e, mentre saltelli, fai scorrere le corde.» Sorrise e gli diede una pacca sulla spalla. «Semplice!» Voltandosi, gridò: «Fate passare, fate passare il pastore Eddy! Deve calarsi!». La folla si divise e Doke lo condusse sull'orlo. Eddy si voltò, si aggrappò alla corda come indicato e si calò oltre il bordo, procedendo cauto a piccoli balzi come aveva visto fare agli altri. Sentiva il cuore battergli in gola e pregava furiosamente. Capitolo 64 «Là fuori c'è una folla inferocita» annunciò Wardlaw, indicando il monitor che aveva di fronte.
Hazelius staccò finalmente gli occhi dal Visualizzatore. Lo schermo principale mostrava l'area protetta invasa da persone che brandivano coltelli, asce, fucili in mezzo a una marea di fiaccole ardenti e ondeggianti. «Stanno salendo sull'Ascensore!» «Santo cielo.» Hazelius si asciugò il volto con la manica. «Ken» gridò. «Quanto tempo ha ancora Isabella?» «La spira difettosa potrebbe perdere superconduttività in qualsiasi momento» urlò Dolby, «e a quel punto saremo mangime per i pesci. I fasci potrebbero attorcigliarsi, penetrare attraverso il tubo sottovuoto e provocare un'esplosione.» «Quanto potente?» «Potrebbe essere molto potente, non ci sono precedenti.» Guardando lo schermo esclamò: «Harlan! Immetti più energia nel sistema. Tieni alto il flusso magnetico». «Sono al centodieci per cento della potenza nominale» rispose St. Vincent. «Aumentala» intervenne Dolby. «Se la griglia cede, perderemo energia e saremo comunque morti.» «Aumentala.» Harlan St. Vincent digitò il comando. «E la folla?» gridò Wardlaw. «Hanno dato fuoco agli hangar sulla pista!» «Non possono entrare qui» rispose calmo il fisico. «Continuano a calarsi con le corde.» «Qui siamo al sicuro.» Ford guardò il monitor mentre la fiumana risaliva la struttura dell'Ascensore e raggiungeva il tetto. La telecamera ondeggiò, si piegò in angolature assurde e, poco dopo, lo schermo si oscurò. «Gregory, dobbiamo spegnere Isabella» affermò Dolby. «Ken, dammi ancora cinque minuti soltanto.» Dolby lo fissò con la mascella che gli tremava per la violenta emozione. «Cinque minuti ancora, ti supplico. Forse stiamo parlando con Dio, Ken. Con Dio.» Il sudore colava a rivoli sulla fronte di Dolby. La mascella gli si contrasse. Fece un solo, brusco cenno con il capo e si girò verso la macchina. «Questa nuova religione che vuoi che diffondiamo» disse il fisico, «che cosa prevede si adori? Dov'è la bellezza e il riverente mistero in tutto questo?»
Ford si sforzò di leggere la risposta, in parte offuscata dall'intenso effetto neve sul monitor. Vi chiedo di contemplare l'universo. Esso non suscita di per sé un riverente mistero maggiore di qualsiasi concetto di Dio proposto dalle religioni storiche? Un centinaio di miliardi di galassie, isole solitarie di fuoco gettate come monete lucenti nella vastità dello spazio, in un'immensità che sfugge alla comprensione biologica della mente umana. E, vi ripeto, l'universo che avete scoperto è solo una minuscola parte dell'estensione e della magnificenza del creato. Abitate il più piccolo frammento azzurro delle volte infinite del cielo, eppure questo frammento mi è prezioso dal momento che è una parte essenziale del tutto. Per questo sono venuto da voi. Adorate me e le mie grandi opere, non un dio tribale immaginato da pastori che si facevano la guerra migliaia di anni fa. Dolby fissò il fisico con il volto madido di sudore e la mascella contratta. Hazelius tornò a guardare il Visualizzatore con il suo viso sottile dall'aria bramosa. «Di più, dicci di più.» «Sono scattati gli allarmi della griglia» annunciò St. Vincent con una nota di tensione nella voce solitamente calma. «Sulla linea uno, a metà strada dal confine con il Colorado, i trasformatori si stanno surriscaldando.» Tracciate i lineamenti nel mio volto con i vostri strumenti scientifici. Cercatemi nel cosmo e nell'elettrone perché io sono il Dio del tempo e dello spazio profondi, il Dio dei superammassi e dei vuoti, il Dio del Big Bang e dell'inflazione cosmica, il Dio della materia e dell'energia oscure. Il Ponte cominciò a vibrare e un odore di componenti elettronici bruciati permeò l'aria. Le telecamere di sicurezza sulla pista mostravano gli hangar divorati dalle fiamme. La folla aveva circondato l'elicottero all'eliporto. Un soldato armato di M-16 si trovava nel vano del velivolo e stava sparando in aria per disperderla. L'elicottero stava aumentando i giri. «Da dove è arrivata tutta quella gente?» domandò Innes, fissando gli schermi. La sua voce si levò acuta al di sopra dell'urlo di Isabella. Scienza e fede non possono coesistere. L'una distruggerà l'altra. Dovete fare in modo che sia la scienza a sopravvivere, altrimenti il vostro piccolo frammento azzurro andrà perduto... «I miei p5 si stanno surriscaldando» affermò Edelstein. «Dammi solo un minuto!» ruggì Hazelius. Si voltò verso lo schermo e gridò per sovrastare il baccano. «Che cosa dovremmo fare?» Con le mie parole voi prevarrete. Raccontate al mondo quello che è
successo qui, raccontate al mondo che Dio ha parlato alla razza umana per la prima volta. Sì, per la prima volta! «Come possiamo spiegarti se non ci sai dire cosa sei?» Non ripetete l'errore delle religioni storiche invischiandovi in dispute su ciò che sono o su cosa penso. Io trascendo ogni comprensione. Io sono il Dio di un universo tanto vasto che solo i numeri di Dio possono descrivere, dei quali vi ho dato il primo. «Oh cazzo!» esclamò Wardlaw, fissando il monitor della sicurezza. Ford rivolse di nuovo l'attenzione agli schermi. La folla stava tempestando l'elicottero di proiettili e pietre mentre il soldato di guardia sparava in aria. Qualcuno gettò una molotov contro il velivolo. Il lancio non fu abbastanza lungo e la bomba rudimentale si incendiò sulla pista davanti al velivolo. Il soldato abbassò l'arma e sparò sulla gente. L'elicottero cominciò a salire. «O mio Dio» disse Wardlaw, terribilmente sconvolto. Nonostante il massacro, la gente inferocita si avvicinò e rispose al fuoco prendendo di mira l'elicottero. Voi siete i profeti che guiderete il mondo nel futuro. Quale futuro scegliete? In mano avete la chiave... Mentre Ford guardava, volarono cinque o sei molotov che si infransero sul fianco del velivolo. Il fuoco salì inghiottendo i rotori. Una scia di benzina si incendiò e l'elicottero esplose, trasformandosi in una palla ardente nel cielo notturno. I pezzi ricaddero sull'asfalto in una cascata di fuoco, che si estese rapida a mano a mano che il carburante si spargeva in tutte le direzioni. Un attimo dopo il soldato balzò fuori avvolto dalle fiamme sempre più alte, agitando le braccia, poi si accasciò sulla pista dove continuò a bruciare. «O Gesù!» esclamò esterrefatto Wardlaw. «Hanno fatto saltare l'elicottero.» Hazelius, incollato al Visualizzatore, non gli prestò la minima attenzione. «E ora guardate!» gridò ancora Wardlaw, puntando il dito verso lo schermo. «Sono davanti alla porta del Bunker! Sono qui per Isabella. Là fuori stanno uccidendo i soldati!» «La spengo» gridò Dolby. «No!» Hazelius gli si gettò addosso e i due lottarono brevemente, ma stavolta Dolby fu pronto: buttò a terra il fisico, più minuto, e si voltò verso la tastiera.
«È bloccata! Isabella è bloccata» urlò. «Non accetta i codici di spegnimento!» «Siamo morti!» urlò Innes. «Siamo morti!» Capitolo 65 Bernard Wolf si nascose nell'ombra della porta di titanio, dietro i soldati. La folla incalzante si era calata con le corde frenetica, come se fosse posseduta, e adesso stava spingendo tutti i soldati contro la roccia. Nessun soldato si era mai ritrovato in una situazione del genere: una massa violenta di connazionali, di americani, una massa di civili tra cui numerose donne... Era una follia. Chi erano quelle persone? Davidiani scissionisti? Membri del Ku Klux Klan? Erano vestiti nei modi più disparati, armati di qualsiasi cosa, dai fucili alle stelle ninja. Molti agitavano croci improvvisate, preparate lì per lì, e incombevano sui soldati che non erano più in grado di arretrare. Alla fine Doerfler prese la parola. «Questa è proprietà del governo statunitense» gridò. «Posate le armi a terra. Adesso!» Una figura emaciata avanzò, stringendo un grosso revolver tra le mani. «Sono il pastore Russell Eddy. Siamo qui nella veste di esercito di Dio per distruggere questa macchina infernale e l'Anticristo al suo interno. Fatevi da parte e lasciateci passare.» La calca era sudata. I loro occhi apparivano stranamente luminosi sotto le luci artificiali e i loro corpi ondeggiavano per l'eccitazione. Alcuni piangevano e le lacrime rigavano i loro volti. Altri stavano ancora scendendo con le corde. Pareva non finissero mai e non ci fosse modo di fermarli. Wolf li osservava, morbosamente attratto da quella visione. Sembravano davvero posseduti. «Non mi interessa un accidenti di chi siete» sbraitò Doerfler, «o perché siete qui. Ve lo ripeto per l'ultima volta: posate le armi!» «Altrimenti?» chiese Eddy con tono più audace. «Altrimenti i miei uomini difenderanno se stessi e questa installazione del governo americano con tutti i mezzi disponibili. Ora posate le armi!» «No» replicò lo scheletrico pastore. «Non poseremo le armi. Voi siete agenti del Nuovo Ordine Mondiale, soldati dell'Anticristo!» Doerfler gli si avvicinò con la mano tesa e parlò a voce alta. «Dammi la pistola, amico.» Eddy gliela puntò contro.
«Ma guardati» disse il militare in tono di scherno. «Spara e l'unica persona che si ferirà sarai tu. Dammela. Ora.» Partì un colpo e Doerfler, sorpreso, fu spinto all'indietro. Cadde, rotolò e si rialzò estraendo l'arma dal fianco. Indossava chiaramente un giubbotto antiproiettile. Un secondo sparo, partito dal revolver, gli fece saltare la sommità della testa. Wolf si gettò a terra e, avanzando carponi, si nascose dietro la roccia scabra. Tutt'intorno a lui ci fu un boato da fine del mondo: proiettili, esplosioni, urla. Tra rimbombi e spari, tra scoppi e frammenti di pietra che gli si riversavano addosso, si raggomitolò in posizione fetale e si nascose la testa tra le mani cercando di sparire nella roccia stessa. Il frastuono proseguì per quella che gli parve un'eternità in mezzo a urla terribili di morte e al rumore delle pallottole che straziavano esseri umani. Si tappò le orecchie con le mani per non sentire. La furia si placò e, in un attimo, calò il silenzio, tranne per il ronzio nelle orecchie. Wolf rimase rannicchiato, stordito, privo di sensi. Una mano si posò sulla sua spalla e lui si scostò brusco. «Tranquillo. Adesso è tutto a posto. Alzati.» Lui tenne gli occhi ben chiusi. Una mano lo afferrò per la camicia e lo mise in piedi, strappandogli metà dei bottoni. «Guardami.» Wolf alzò il viso e aprì gli occhi. Era buio. Le lampade erano state rotte. C'erano cadaveri dappertutto, una visione infernale, anzi peggio: corpi tagliati a metà, parti sparpagliate qua e là. Altri orribilmente feriti, che emettevano lamenti di dolore: gorgoglii, colpi di tosse, qualche urlo. La massa stava già trascinando i corpi verso l'orlo, per buttarli giù. Riconobbe l'uomo che lo teneva: lo stesso pastore Eddy che aveva scatenato la sparatoria uccidendo Doerfler. Era tutto sporco di sangue altrui. «Chi sei?» gli chiese il pastore. «Sono... sono solo un esperto di computer.» Eddy lo guardò, ma non con durezza. «Sei con noi?» gli chiese pacato. «Accetti Gesù Cristo come tuo personale salvatore?» Wolf aprì la bocca, ma ne uscì solo un verso rauco. «Pastore» disse una voce, «non abbiamo molto tempo.» «C'è sempre tempo per salvare un'anima.» Eddy lo fissò con occhi cupi. «Te lo ripeto: accetti Gesù Cristo come tuo salvatore? È venuto il tempo di
scegliere da che parte stare. È venuto il Giorno del Giudizio.» Wolf riuscì infine ad annuire. «In ginocchio, fratello. Ora pregheremo.» Wolf sapeva a stento ciò che faceva. Era come un rito medievale, una conversione forzata. Cercò di inginocchiarsi piegando le gambe tremanti, ma non fu abbastanza rapido e qualcuno lo spinse giù. Perse l'equilibrio e cadde sul fianco mentre la camicia gli si apriva del tutto. «Preghiamo» disse Eddy, mettendosi in ginocchio al suo fianco e prendendogli le mani. Poi chinò il capo sino a toccarle con la fronte. «Padre celeste, accetti questo peccatore nell'ora del bisogno? E tu, peccatore, accetti la Parola della Verità per rinascere?» «Io... cosa?» Wolf tentò di concentrarsi. «Te lo ripeto: accetti Gesù come tuo salvatore?» Wolf si sentì male. «Sì» disse in fretta. «Sì, certo... lo accetto.» «Lodiamo Dio! Preghiamo.» Wolf chinò la testa e chiuse bene gli occhi. Che diavolo sto facendo? La voce di Eddy ruppe il silenzio. «Preghiamo a voce alta» continuò. «Chiedi che Gesù entri nel tuo cuore. Se lo fai liberamente e sinceramente, vedrai il regno dei cieli. È semplice.» Gli afferrò le mani e cominciò a pregare a voce alta. Wolf borbottò qualcosa imitandolo per qualche istante, poi sentì la gola chiudersi. «Devi pregare con me» lo esortò Eddy. «Io... no» disse Wolf. «Ma per ricevere Gesù, devi pregare. Devi chiedere...» «No, non lo farò.» «Amico mio, mio caro amico, è la tua ultima possibilità. Il Giudizio è arrivato. L'Estasi è qui. Ti parlo non come nemico ma come uno che ti ama.» «Noi ti amiamo» disse un coro di voci levatosi dalla folla. «Noi ti amiamo.» «Immagino amavate anche i soldati che avete assassinato» osservò Wolf, inorridito dalla sua reazione. Da dove gli veniva quel coraggio improvviso e folle? Sentì la canna di una pistola sfiorargli leggermente la tempia. «È la tua ultima possibilità» disse la voce gentile del pastore Eddy. Wolf sentì quanto fosse ferma la canna nella sua mano. Chiuse gli occhi e non disse nulla. Sentì un lieve tremolio quando la mano strinse la presa e il dito premette il grilletto. Ci fu un boato devastante e
poi il nulla. Capitolo 66 Tutti gli schermi dell'Unità di crisi erano operativi, divisi anche in due per ospitare tutti i partecipanti alla videoconferenza: i capi di stato maggiore, i direttori del Department of Homeland Security, dell'FBI, della NSA, della CIA e del DOE. Il vicepresidente li aveva raggiunti alle tre. Adesso erano le tre e venti del mattino. Negli ultimi venti minuti, dopo che era arrivata la notizia dell'incendio alla pista di Red Mesa, altri eventi si erano succeduti. Stanton Lockwood si sentiva intrappolato in una specie di spettacolo televisivo. Era difficile credere che stesse accadendo una cosa del genere in America. Era come se si fosse svegliato in un altro Paese. «Da quando hanno fatto saltare in aria l'elicottero, non abbiamo più avuto contatti con la squadra di Recupero ostaggi» stava dicendo il direttore dell'FBI. Era pallido in volto e il fazzoletto con cui continuava a tamponarsi il viso era ben stretto nella sua mano, tutto stropicciato, come dimenticato. «Hanno attaccato in numero sorprendente. Questa non è una folla in tumulto, sono organizzati. Sanno quello che fanno.» «Li hanno rapiti?» domandò il presidente. «Temo che gran parte di loro non sia in grado di reagire o sia morta.» Qualcuno fuori schermo gli porse un foglietto. Lui lo scorse. «È appena arrivato un rapporto...» La mano gli tremò impercettibilmente. «Sono riusciti ad abbattere una delle tre linee elettriche principali di Isabella. Di conseguenza, c'è stata un'avaria nella griglia. Si sono verificati blackout in Arizona settentrionale e in alcune parti del Colorado e del Nuovo Messico.» «Le truppe della Guardia nazionale» affermò il presidente, voltandosi verso i capi di stato maggiore. «Dove diavolo sono?» «Mentre parliamo è in corso il briefing, signor presidente. Rispettiamo il programma per l'operazione delle quattro e quarantacinque.» «Sono ancora a terra?» «Sì, signore.» «Fateli partire! Fate il briefing in volo!» «Con la carenza di attrezzature e adesso il blackout...» «Volate con quello che avete.» «Signor presidente, dalle ultime informazioni di intelligence risulta che a
Red Mesa ci siano tra le mille e le duemila persone armate. Credono sia l'Armageddon, la Seconda venuta di Cristo. Non tengono in nessun conto la vita umana, propria o altrui. Non possiamo cacciare persone male equipaggiate o male istruite in una situazione del genere. In cima a Red Mesa sono stati segnalati incendi e una grande esplosione. Centinaia di persone stanno tuttora eludendo i posti di blocco e riversandosi verso la mesa dal deserto, molti a bordo di fuoristrada. La pista di atterraggio è stata resa inagibile per i velivoli ad ali fisse. Un Predator dovrebbe arrivare laggiù per scattare qualche foto tra... meno di venti minuti. Dobbiamo effettuare un attacco strategico, ben organizzato, altrimenti perderemo altre vite umane.» «Capisco, ma abbiamo anche una macchina da quaranta miliardi di dollari, undici agenti dell'FBI e una decina di scienziati le cui vite sono in pericolo...» «Mi scusi, signor presidente?» Era il direttore del Department of Energy. «Isabella funziona ancora alla massima potenza, ma sta diventando instabile. In base al nostro sistema di monitoraggio a distanza, i fasci di protoniantiprotoni hanno perso la collimazione e...» «Parli la mia lingua.» «Se Isabella non viene spenta al più presto, potrebbe rompersi il tubo contenente i fasci, il che provocherebbe un'esplosione.» «Quanto forte?» L'uomo esitò. «Non sono un fisico, ma mi dicono che se i fasci si incrociassero in modo incontrollato, la loro convergenza creerebbe all'istante una singolarità che esploderebbe con la potenza di un piccolo ordigno nucleare, all'incirca di mezzo chilotone.» «Quando?» «Potrebbe accadere in qualsiasi momento.» Intervenne il capo di stato maggiore della Difesa. «Mi perdonerete la divagazione, ma i media ci travolgeranno come uno tsunami. Dobbiamo affrontarli, ora!» «Interdica lo spazio aereo nel raggio di centocinquanta chilometri da Red Mesa» sbraitò il presidente. «Dichiari lo stato d'emergenza nella riserva e proclami la legge marziale. Inoltre impedisca l'accesso alla stampa, a tutta la stampa.» «Lo consideri già fatto.» «Oltre alle truppe della Guardia nazionale, voglio una risposta militare schiacciante. Voglio che alle prime luci dell'alba i militari statunitensi as-
sumano il controllo di Red Mesa e della zona circostante. Non voglio scuse a proposito di carenze di truppe o mezzi di trasporto. Voglio che vi muoviate in forze anche via terra. Mandate i soldati. È tutto deserto. Risolvete la situazione. È chiaro?» «Signor presidente, ho già ordinato la mobilitazione di tutte le forze disponibili nel Sudovest.» «Le quattro e quarantacinque sono quanto di meglio potete fare?» «Sì, signor presidente.» «Terroristi armati si stanno impossessando di una proprietà governativa e stanno uccidendo membri delle forze armate statunitensi. I crimini che commettono contro lo Stato non hanno niente a che fare con la religione. Quelli sono terroristi, punto e basta. Mi ha capito?» «Perfettamente, signore.» «Per cominciare, voglio che quel tele-evangelista, Spates, venga messo pubblicamente sotto custodia federale con l'accusa di terrorismo: catene, ceppi, il trattamento completo insomma. Voglio che venga fatto nel modo più plateale possibile, a mo' di esempio. Se là fuori ci sono altri predicatori, tele-evangelisti e fondamentalisti che applaudono quella gente, voglio che vengano arrestati. Non sono diversi da Al-Qaeda o dai talebani.» Capitolo 67 Nelson Begay era steso prono su un promontorio che sovrastava Nakai Valley, con a fianco Willy Becenti. La cima più alta della mesa offriva una vista a trecentosessanta gradi del deserto sottostante. La madre di tutti gli ingorghi stradali aveva bloccato la Dugway nel punto in cui sbucava su Red Mesa. Centinaia, forse migliaia, di auto erano state abbandonate nell'immenso spiazzo poco oltre la Dugway. Avevano i fari ancora accesi e le portiere spalancate. Ora la gente stava risalendo la Dugway a piedi. Si riversava sulla strada che portava da Isabella, evitando la deviazione per Nakai Valley, diretta al centro dell'azione ai limiti della mesa. Begay spostò il binocolo lungo la strada. Gli hangar stavano bruciando, come i resti dell'elicottero con cui erano arrivati i soldati. Le fiamme si alzavano per una trentina di metri o anche più nel cielo. Tutt'intorno erano sparpagliati i cadaveri delle persone che erano morte durante la sanguinosa sparatoria a cui aveva assistito pochi minuti prima. Gran parte della folla in tumulto aveva lasciato la pista dopo aver dato alle fiamme l'elicottero,
ma alcuni erano rimasti per guidare una grossa scavatrice nell'atto di creare delle trincee. Begay seguì il flusso fino a raggiungere la zona recintata al bordo della mesa. Brulicava di gente. Stimò fossero almeno un migliaio. Un folto gruppo stava risalendo uno degli enormi piloni delle linee elettriche ed era arrivato a circa tre quarti. Altri avevano eretto una croce rudimentale in cima a un altro edificio al margine della mesa ed erano occupati ad abbattere una serie di ripetitori posti sul suo tetto. Il navajo abbassò lentamente il binocolo. «Hai idea di che diavolo stia succedendo?» domandò Becenti. Lui scosse la testa. «Una sorta di riunione del Ku Klux Klan? Della Aryan Nations?» «Nella folla ci sono neri e latini, persino alcuni indiani.» «Fammi vedere.» Mentre Becenti scrutava l'estremità orientale della mesa, Begay tentò di digerire lo scenario che gli si era appena parato davanti agli occhi. All'inizio aveva pensato si trattasse di uno strano raduno religioso, un evento comune nella riserva, ma quando avevano fatto saltare in aria l'elicottero aveva capito che la spiegazione doveva essere un'altra. Forse riguardava quel predicatore televisivo di cui aveva sentito parlare, quello che aveva tenuto un sermone contro il Progetto Isabella. «Guarda quante persone hanno ucciso sulla pista» grugnì Becenti, continuando a osservare attraverso il suo binocolo. «Sì» disse Begay. «E puoi scommetterci che ci sarà una reazione. I Federali non se ne staranno certo buoni a guardare. Quando inizierà lo spettacolo, non voglio che ci prendano.» «Potremmo rimanere ancora un po', vedere quello che succede. Non capita tutti i giorni di essere in prima fila a guardare i Bilagáana che si fanno saltare in aria a vicenda. L'abbiamo sempre saputo che i bianchi un giorno o l'altro l'avrebbero fatto, no? Ti ricordi di quella profezia?» disse Becenti. «Willy, smettila. Dobbiamo radunare tutti e tagliare la corda dalla mesa.» I due si alzarono e si incamminarono verso la valle. Randy Doke era in piedi sul cofano dello Humvee, al di sopra della mischia, con le braccia muscolose incrociate al petto. Da quella posizione sopraelevata godeva di una visuale migliore della gente che risaliva il pilone dell'alta tensione. Quelli più in alto erano quasi in cima. Le linee elettriche
scoppiettavano e ronzavano. Doke si sentiva carico come non mai. In passato si era perso nell'eroina, nella cocaina e nell'alcol. Quando aveva toccato il fondo, mentre sguazzava sbronzo e sporco di merda in un fosso di irrigazione fuori Belén, nel Nuovo Messico, gli era tornata in mente dal profondo una preghiera dell'infanzia, che la madre gli aveva insegnato prima che quel bastardo di un ubriacone con cui viveva le sparasse, per poi suicidarsi. Le strofe della cantilena gli riecheggiarono in testa. «Gesù mi ama, questo io so, la Bibbia me lo dice...» Proprio in quel momento, in quel lurido fosso a Belén, Gesù era sceso e aveva salvato il suo inutile culo. Ora era in debito con l'Amico, sì, era in debito. Per Lui avrebbe fatto qualsiasi cosa. Sollevò il binocolo. Un uomo aveva raggiunto un punto proprio al di sotto degli isolatori. Doke restò a guardare mentre cercava una posizione sicura, aggrappandosi con le gambe a un puntone. Si tenne fermo, tolse il fucile a pompa dalla spalla, infilò una cartuccia nella camera e lo appoggiò contro di sé. Sarà uno spettacolo. Lo guardò prendere con cura la mira. Quanti stavano salendo sotto di lui, si fermarono a osservare. Ci fu un lampo e un attimo dopo il boato dello sparo giunse alle orecchie di Doke. Una pioggia di scintille cadde dalla linea elettrica mentre il cavo tremava. Si levò un grido di esultanza. L'uomo si resse di nuovo e fece scorrere il carrello. Ci fu un secondo lampo, e una seconda esplosione. Il cavo produsse un'altra pioggia di scintille e balzò all'indietro come un serpente a sonagli. Si levò un altro boato di approvazione. Arrivò la terza esplosione. Stavolta il buio vomitò un potente getto di fuoco. La linea si spezzò con un rumore metallico, monotono che sembrò far vibrare l'aria. Il pezzo tagliato cadde al rallentatore come una frusta, spargendo fuoco tutt'intorno, poi si attorcigliò e colpì la folla sottostante. Atterrò tra lampi, boati e fumo mentre la gente correva di qua e di là, fuggendo precipitosamente. Strabiliante. Doke tornò a guardare il pilone. L'uomo stava di nuovo azionando il meccanismo a pompa e prendendo la mira. Adesso però la gente sul pilone stava urlando... Cosa? Volevano si fermasse? No, pensò lui, va' avanti. Seguì un altro boato. Un pezzo dell'isolatore cadde in un fuoco d'artificio di scintille: una seconda linea si spezzò bruscamente e rinculò verso il pilone stesso. Fu come se un gigante invisibile lo avesse scosso. Le persone
cominciarono a precipitare dalla scala. I loro corpi sbattevano sui puntoni sottostanti, rimbalzando e mulinando nel vuoto, per colpire infine il terreno in una serie di tonfi sordi. Il cavo sferzò l'aria e cadde nella sua direzione, emettendo un suono simile al feedback di un'enorme chitarra elettrica. Doke balzò giù dallo Humvee mentre la linea sfrigolante lo colpiva sollevando una fontana di scintille. Si buttò in mezzo alla folla in preda al panico e si fece strada calpestando le persone cadute a terra nel tentativo di allontanarsi. Lo Humvee si incendiò; un attimo dopo percepì il calore del serbatoio che esplodeva, l'onda d'urto e l'improvviso bagliore. Ripresosi, valutò i danni. Il cavo era finito a metà della zona recintata e si era lasciato dietro una scia di fuoco. La struttura dell'Ascensore era in fiamme, come del resto cinque o sei piñons. L'area attorno al veicolo che continuava ad ardere era disseminata di cadaveri e persone orribilmente ustionate. Altre anime in cielo, pensò Doke. Altre anime della mano destra del Signore. Capitolo 68 Ken Dolby osservò la potenza tracciare una punta sullo schermo piatto, poi la vide crollare e procedere follemente a spirale. «Isabella!» Inserì di nuovo i codici di spegnimento. CODE BYPASS ERROR «Merda!» Scattò una sirena che diffuse in tutta la stanza il suo funebre lamento, e una luce rossa sul soffitto prese a lampeggiare. «Sovraccarico!» urlò St. Vincent. Un cupo boato scosse il locale e il Visualizzatore esplose. Una miriade di frammenti di vetro si sparse sul pavimento come grandine. «Isabella!» gridò Dolby, afferrando la postazione con entrambe le mani. Non perdere il controllo, Isabella, la pregò tra sé. St. Vincent lottò con la console e chiuse i circuiti interruttori. «È stata tolta potenza alla numero uno! Com'è potuto succedere? Impossibile!» «Il fascio!» urlò Kate, afferrando un terminale. «Sta perdendo la collimazione! Rilevo un... attorcigliamento!» Hazelius cacciò un grido. «Chen! L'ultimo messaggio! Non l'ho letto tutto! Ce l'hai?»
«Non riesco a trovarlo!» rispose lei. «Forse l'ho perso... forse ho perso tutto.» «Stampa l'output!» ruggì il fisico. Dolby escluse dalla mente il caos circostante. Isabella non rispondeva a nessun input della tastiera. Era successo qualcosa: i p5 dovevano essere andati in tilt. Si voltò verso Edelstein. «Accendi il computer centrale. Ignora le procedure di startup e le sequenze di autotest. Accendi quel figlio di puttana e basta!» Un arco elettrico saettò in quel che rimaneva dello schermo. Un'esplosione sorda riecheggiò nel profondo della caverna facendola vibrare, seguita subito dopo da un'altra. Il turbinio di suoni continuava frenetico: la macchina palpitava, ronzava, vibrava. La stanza si riempì di fumo. «Stiamo creando un buco nero in miniatura» annunciò Kate con voce calma. «È incredibile!» urlò Wardlaw. «Sapete perché avete perso potenza sulla uno? Quei bastardi là fuori hanno tirato giù i cavi a colpi di proiettili... davanti alla porta di Isabella c'è una folla... O Cristo, sto perdendo le telecamere di sicurezza: stanno salendo lungo l'Ascensore...» Si udì il sibilo dell'effetto neve, poi una fila di schermi si oscurò. «Oh no!» Seguirono altri sibili e schiocchi. L'intera postazione della sicurezza tacque e gli allarmi baluginarono per l'ultima volta. Isabella gemeva e vibrava. «Stai stampando?» urlò Hazelius alla Chen. «Ce l'ho, adesso sto cercando di trovare una stampante che funzioni!» Pestò sulla tastiera con il sudore che le colava copioso sulle tempie. «Oh mio Dio... non lo perdere, Rae.» «Eccolo» urlò lei. «Lo sto stampando!» Saltò su e attraversò la sala di corsa verso una stampante. Prese il foglio in uscita. Hazelius glielo tolse di mano, lo piegò e se lo cacciò nella tasca posteriore. «Andiamo via di qui.» La sala fu scossa da un altro boato attutito, che scagliò Dolby a terra. Le luci tremolarono e vari archi elettrici saettarono sfrigolando sulle console. Isabella emise un cupo gemito, come di agonia. Dolby si tirò su e tornò dalla sua macchina. Ford lo afferrò per un braccio. «Ken! Dobbiamo uscire di qui!» Lui scosse la testa e riprovò il codice. CODE BYPASS ERROR. Il computer centrale si avviò, iniziando le routine di startup. «Alan! Ti
ho detto di spegnere i p5!» urlò Dolby. «Ken, lascia perdere! Ce ne andiamo!» Era stato di nuovo Ford a parlare. Resta con me, Isabella, la pregò Dolby. Dolby continuò a lavorare. In un modo o nell'altro doveva ricondurla alla ragione. Doveva spegnerla in modo sicuro. Il magnete difettoso stava perdendo coerenza. I due fasci oscillavano attorcigliandosi nel tubo. Se le estremità si fossero toccate o se si fossero soltanto sfiorate... «Dolby!» Hazelius lo prese per la spalla. «Non puoi salvarla! Dobbiamo andare!» «Sta' lontano da me!» Ken fece per colpirlo, ma sbagliò mira. Si voltò di nuovo verso lo schermo e si infuriò per quello che vide. «Alan! Accidenti a te, i p5 sono ancora in funzione! Ti avevo detto di spegnerli!» Non ebbe risposta. Si guardò attorno cercando di individuare Edelstein nella stanza satura di fumo. Si stropicciò gli occhi che gli lacrimavano e tossì. Il fumo era dappertutto. Il Ponte era vuoto. Se n'erano andati tutti. Lui poteva salvare Isabella. Sapeva di poterlo fare. E se non ci fosse riuscito... Che senso avrebbe avuto vivere? Sono qui, Isabella. Resta con me ancora un minuto. Russell Eddy lo aveva fatto. Aveva ucciso. Dio gli aveva dato la forza. La guerra era cominciata. L'uccisione del peccatore aveva elettrizzato la folla, che ora fremeva dall'eccitazione. Pieno di adrenalina, Eddy si avvicinò a grandi passi alla gigantesca porta di titanio. Vi si fermò davanti, si girò e alzò in aria la pistola. «"Le fu anche concesso di animare la statua della Bestia!" Chi sarà al mio fianco quando affronterò l'Anticristo?» Dalla massa si levò un boato di assenso. «Chi sarà con me al mio fianco quando affronterò l'Anticristo!» Seguì un altro boato delirante. Eddy si sentì pervadere dalla forza. «Lui è il Senza Legge!» Ancora un boato. «Il Malvagio!» La folla era in un tumulto incontrollato. «In nome di Dio e del suo unico figlio, Gesù Cristo, noi lo distruggeremo!» La gente si scagliò contro la porta, ma il titanio non cedeva. «Andate indietro!» gridò Eddy. «Passeremo da questa porta!» Prese la
mira con la pistola... ma una mano gli afferrò il polso. «Pastore, quel revolver non serve a nulla.» Si fece avanti un uomo in mimetica con in spalla un fucile d'assalto AR-15. «Vede quell'attrezzatura laggiù?» indicò i tre dispositivi conici montati sui treppiedi puntati verso la porta. «È un kit da demolizione per creare brecce nei muri, già piazzato e pronto all'uso. I soldati avevano intenzione di far saltare la porta. Anche loro volevano arrivare come noi da Isabella.» «Come fai a saperlo?» «Mike Frost, ex Quinto gruppo Forze speciali.» Gli strinse la mano come una morsa. «Portaci là dentro, Mike.» Frost girò con cautela attorno alle attrezzature e studiò i coni metallici. «Questi bimbi sono già caricati con 04. È stata una gran fortuna che un proiettile non li abbia colpiti durante la sparatoria. I fili li collegano gli uni agli altri ed ecco qui i detonatori.» Prese un piccolo cilindro con attaccato un cavo. Ce n'erano tre. Con cautela li inserì uno a uno in profondità nel C4 e quindi li riunì. «Dica a tutti di stare indietro, molto indietro. Che vadano laggiù e si mettano di schiena.» Eddy condusse quanti indugiavano nei paraggi lontano dalle attrezzature. Frost svolse completamente i cavi, aprì il coperchio dell'interruttore del detonatore e vi appoggiò sopra il dito. «Tappatevi le orecchie.» Capitolo 69 Ford e la squadra di scienziati seguirono Wardlaw nella sala computer dietro il Ponte. Era un locale lungo e spoglio, con le pareti grigie e tre file di armadi dello stesso colore di plastica, che ospitava il computer più veloce e potente del mondo. I processori ronzavano e i rispettivi pannelli erano costellati di luci lampeggianti, rosse o gialle. In fondo si apriva un'unica porta di acciaio. Hazelius li raggiunse. «Dolby non verrà.» «Abbiamo tre problemi» annunciò Wardlaw. «Primo: Isabella esploderà. Secondo: là fuori c'è una folla armata. Terzo: non possiamo chiedere aiuto.» «Che facciamo?» gemette la Thibodeaux. «Quella porta di acciaio laggiù conduce ai tunnel della vecchia miniera.
Dobbiamo uscire di qui. Dobbiamo mettere un bel pezzo di montagna tra noi e Isabella prima che salti in aria.» «Come facciamo a uscire dalle gallerie della miniera?» domandò Ford. «In fondo» rispose lui, «c'è un vecchio pozzo verticale, trasformato in sfiatatoio per estrarre il metano dalla parte più profonda della miniera. Lì c'è ancora un vecchio montacarichi. Probabilmente non sarà utilizzabile. Dovremmo arrangiarci in qualche modo.» «Non c'è di meglio?» «O così o usciamo dalla porta principale... e finiamo dritti tra le braccia della folla in tumulto.» Ci fu silenzio. L'esplosione che scosse la sala computer buttò Ford e gli altri in ginocchio come fossero fantocci. Il rumore riecheggiò più volte e la detonazione si propagò come un tuono attraverso la montagna. Le luci nella sala tremolarono e tra le console si formarono archi elettrici. Ford si mise a fatica in piedi e aiutò Kate. «Era Isabella?» gridò Hazelius. «Se fosse stata Isabella, saremmo morti» osservò Wardlaw. «Quelli là fuori hanno appena fatto saltare la porta di titanio.» «Impossibile!» «Non se hanno usato le cariche dei militari.» Sulla porta del Ponte si udì all'improvviso un martellare di colpi. Ford restò in ascolto. Vide Dolby sul Ponte che si dava da fare, chino sulla sua postazione, simile a uno spettro in mezzo a tutto quel fumo. «Hazelius!» strillò una voce acuta, oltre la porta. «Mi sentì, Anticristo? Stiamo venendo a prenderti!» Il pastore Russell Eddy urlò alla porta di acciaio. «Hazelius, sei colpevole di bestemmia contro Dio, contro il Suo nome e la Sua dimora, contro tutti quelli che abitano in cielo!» La porta era di acciaio spesso e non disponevano più di esplosivo. Sparare alla serratura con il revolver in quello spazio chiuso sarebbe stato inefficace e anche folle. La calca si scagliò contro la porta pestando e urlando. «Cristiani!» La voce di Eddy risuonò in quello spazio cavernoso. «Ascoltatemi, cristiani!» Calò un silenzio inquieto, rotto dal gemito infernale della macchina nel tunnel oltrestante. «Allontanatevi dalla porta! Dobbiamo organizzare l'attacco!» Puntando il dito in una direzione aggiunse:
«Dall'altra parte di questa caverna c'è un mucchio di travi. Voglio che gli uomini più forti - ma gli uomini soltanto! - prendano una di quelle travi e la usino per abbattere la porta. Il resto di voi avrà un compito altrettanto importante. Dividetevi in due gruppi. Voglio che il primo entri in quel lungo tunnel circolare, laggiù». Indicò l'apertura ovale avvolta dalla condensa. «Tagliate e prendete a martellate i tubi, i cavi e le condotte che alimentano la Bestia!» Sollevò un pezzo di carta che aveva stampato da Internet. «Ecco la mappa della Bestia.» Individuò un uomo che sembrava più calmo degli altri, che maneggiava con mano salda la pistola e aveva l'aria del capo. «Questa è tua. Li guiderai tu.» «Sì, pastore.» «Quando avremo abbattuto la porta, voglio che il secondo gruppo mi segua nella sala di controllo, che catturi l'Anticristo e distrugga tutte le attrezzature là dentro!» Si levò un boato di approvazione. Una ventina di uomini stava già spostando una trave dal mucchio. Quando tornarono faticosamente indietro puntando la trave in direzione della porta, la folla si divise. «Forza!» gridò Eddy scostandosi. «Buttatela giù!» «Buttatela giù! Distruggetela!» La gente si fece ulteriormente da parte e gli uomini avanzarono verso la porta. La trave la colpì con un tonfo poderoso, deformandola, e fu spinta all'indietro dal contraccolpo, tanto che il gruppo vacillò per mantenere la presa. «Ancora!» urlò Eddy, Capitolo 70 Un rumore metallico attutito scosse la stanza e la porta vibrò per un colpo poderoso. Ford si mosse a fatica in mezzo al fumo, trovò Dolby e lo afferrò per la spalla. «Ken, ti prego» disse. «Per amor di Dio, vieni con noi.» «No. Mi spiace, Wyman» rispose lui, «resto qui. Posso... posso salvare Isabella.» Ford udiva le urla al di là della porta. Stavano cercando di abbatterla con qualcosa di molto pesante. Questa si deformò e il perno di un cardine saltò via. «Non ce la farà. Non c'è tempo.» Dall'altra parte si levò il ruggito della folla: «Hazelius! Anticristo!». Dolby riprese a lavorare frenetico.
Kate sopraggiunse alle spalle di Ford. «Dobbiamo assolutamente andare.» Lui si girò e la seguì verso il fondo della sala computer. Gli altri si erano ammassati vicino all'uscita di emergenza, mentre Wardlaw cercava di attivare il pannello di accesso. Digitò più volte il codice, tenendo la mano sul lettore ma questo restò spento. Boom! La porta del Ponte cedette e piombò sul pavimento. Il clamore della massa crebbe mentre si riversava sul Ponte invaso dal fumo. Seguì una raffica di spari e Dolby gridò quando fu colpito a morte da un proiettile davanti alla sua postazione di lavoro. «Dov'è l'Anticristo?» gridò un uomo. Ford corse alla porta della sala computer, la chiuse e la bloccò. Wardlaw prese una normale chiave, aprì un pannello accanto alla porta, dietro il quale c'era una seconda tastiera. Inserì un codice. Niente. «Sono nella stanza sul retro!» «Buttate giù quella porta!» Al secondo tentativo, la porta si aprì con un semplice clic. Si gettarono in mucchio nel buio umido, che sapeva di muffa, della miniera. Ford fu l'ultimo a uscire e spinse Kate davanti a sé. Il tunnel ampio e lungo procedeva dritto, costellato di travi d'acciaio arrugginite che reggevano un soffitto pieno di crepe e pance. Odorava di putridume e di marcio, da palude pietrificata qual era. Dal soffitto gocciolava acqua. Wardlaw chiuse con forza la porta e cercò di bloccarla, ma le serrature erano elettroniche e senza energia elettrica non funzionavano. Un fragoroso schianto risuonò nella sala computer e il rumore della folla crebbe. Avevano abbattuto la porta del locale. Wardlaw tentò di far scattare le serrature prima con la carta magnetica, poi digitando un codice sulla tastiera. «Ford, venga qui!» Wardlaw si sfilò una seconda pistola dalla cintura e gliela porse. Era una SIG-Sauer P229. «Io cercherò di trattenerli. Proseguite nella miniera e tenetevi a sinistra, evitando i vicoli ciechi, finché troverete la camera principale dove c'era il filone carbonifero. È circa a cinque chilometri all'interno. Lo sfiatatoio si trova nell'angolo in fondo a sinistra. Potete scappare da lì. Non aspettatemi. Andatevene. Prenda anche questa.» Gli cacciò in mano una torcia elettrica. «Non può combattere da solo contro tutti loro» replicò Ford. «È un suicidio.»
«Posso farvi guadagnare un po' di tempo. È la nostra unica possibilità.» «Tony...» fece per dire Hazelius. «Mettetevi in salvo!» «Uccidete l'Anticristo!» Dall'altra parte della porta si era levato un lamento attutito. «Uccidetelo!» «Scappate!» tuonò Wardlaw. Si precipitarono allora nel tunnel buio. Ford chiudeva la fila: correva in mezzo alle pozzanghere e illuminava il cammino con la torcia elettrica. Sentiva i colpi sulla porta, le urla della gente e la parola «Anticristo!» riecheggiare nelle gallerie. Dopo un istante si udirono diversi spari. Ci furono grida e altri colpi: il rumore del caos e del panico. Il tunnel era lungo e dritto; sulla destra, ogni cinquanta passi, si aprivano cunicoli perpendicolari che davano su gallerie parallele. Il filone bituminoso a sinistra era stato abbandonato prima di essere completamente estratto. C'erano tunnel a fondo cieco, scavi di estrazione e una rete di filoni scuri. Dietro a loro si udirono altri spari, che riecheggiarono spaventosamente in quello spazio cavernoso. L'aria era greve, stantia, le pareti luccicavano per l'umidità ed erano incrostate di nitrato bianco. Ford raggiunse Julie Thibodeaux, che cominciava a restare indietro, la cinse con un braccio e cercò di aiutarla a proseguire. Risuonarono altri spari. Wardlaw stava opponendo resistenza, Leonida alle Termopili, pensò tristemente Ford, sorpreso dal coraggio e dalla dedizione dell'uomo. La miniera si apriva in un'ampia camera dal basso soffitto, il filone principale stesso, sostenuta da pilastri massicci di carbone, che facevano da sostegno per il soffitto. Avevano superfici nere e lucide, dai riflessi variopinti, che misuravano sei metri per lato. La miniera era un dedalo di pilastri e camere disposte in modo irregolare. Ford si fermò per estrarre il caricatore e vide che era pieno, proiettili da 9mm. Lo reinserì. «Restiamo uniti» disse Hazelius, portandosi in fondo al gruppo. «George e Alan, voi due aiutate Julie, ha problemi. Wyman, lei resti indietro e ci copra.» Hazelius afferrò Kate per le spalle con entrambe le mani e la guardò in faccia. «Se dovesse succedermi qualcosa, prenderai tu il comando. Intesi?» Lei annuì. Il gruppo di Eddy era inchiodato dal fuoco che proveniva da dietro il primo pilastro di carbone.
«Al riparo!» urlò il pastore, puntando la sua Blackhawk nella direzione in cui aveva visto provenire il lampo e sparando un colpo per rispondere al fuoco. Alcuni colpi partirono alle sue spalle mentre gli altri si riversavano nel locale e sparavano nella direzione da cui erano giunti i colpi. Nel tunnel si vedevano i fasci di una decina di torce. «Si trova dietro quella parete di carbone!» gridò Eddy. «Copritemi!» Alcuni spari colpirono la parete e piccole schegge di carbone volarono in aria. «Cessate il fuoco!» Eddy si alzò e corse verso il grosso pilastro che proseguiva per almeno sei metri prima di curvare. Si appiattì contro il lato più lontano e segnalò agli altri di portarsi dall'altra parte. Strisciò lungo la superficie irregolare del carbone con l'arma in pugno. Il tiratore aveva previsto la mossa e balzò verso il pilastro successivo. Eddy sollevò la pistola, sparò e mancò il bersaglio. Un altro colpo tuttavia partì prima che l'uomo riuscisse a mettersi al riparo. Quest'ultimo cadde e proseguì carponi. Frost spuntò dall'altro lato del pilastro e, tenendo la pistola con entrambe le mani, fece fuoco una seconda volta, poi una terza e l'altro si raggomitolò. Si avvicinò e a bruciapelo gli piantò un ultimo proiettile in testa. «È tutto sgombro» annunciò, ispezionando il tunnel con la torcia. «Ce n'era uno solo. Gli altri sono scappati.» Russell Eddy abbassò la pistola e si portò al centro della galleria. La folla si stava riversando dalla porta aperta, riempiendo a mano a mano lo spazio. Le voci risuonavano forti in quell'ambiente chiuso. Il pastore sollevò le mani e ottenne immediatamente silenzio. «È giunto il gran giorno della loro ira!» gridò. Sentiva la fiumana umana incalzare alle sue spalle, ne percepiva l'energia, era come una dinamo che alimentava la sua determinazione. Ma erano troppi. Doveva proseguire con una squadra più ristretta per muoversi più agilmente. Si voltò e gridò per sovrastare il ronzio insopportabile della macchina. «Posso portare solo un piccolo gruppo nei tunnel, e soltanto uomini armati. Niente donne, niente bambini. Si facciano avanti tutti gli uomini con un'arma da fuoco e una certa esperienza! Gli altri si facciano indietro!» Una trentina di persone si fecero strada a forza nella calca. «Allineatevi e mostratemi le armi! Sollevatele!» Con un grido d'esultanza questi alzarono le armi: fucili e pistole. Eddy li
passò in rassegna uno a uno. Ne scartò un paio che avevano una copia di un vecchio fucile ad avancarica, due adolescenti con un fucile calibro 22 a colpo singolo e un paio che avevano l'aria demente. Ne restarono una ventina. «Voi, venite con me a dare la caccia all'Anticristo e ai suoi discepoli. Mettetevi là.» Quindi, voltandosi verso gli altri, aggiunse: «Per tutti voi: il vostro compito è laggiù, in quelle stanze da cui siete venuti. Dio vuole che distruggiate Isabella! Distruggete la Bestia dell'Abisso che si chiama Perdizione! Andate, Soldati della fede!». Con gran fragore la folla partì, smaniosa di agire. Si buttò oltre la porta brandendo magli, asce e mazze da baseball. Poco dopo dalla stanza adiacente si sentirono provenire rumori di sprangate. La macchina sembrava gridare, in agonia. Eddy prese Frost. «Tu, Mike, resta al mio fianco. Mi serve la tua esperienza.» «Sì, pastore.» «D'accordo, uomini: andiamo!» Capitolo 71 Hazelius condusse il gruppo attraverso le ampie gallerie scavate nell'imponente filone. Ford copriva loro le spalle. Restò indietro per ascoltare e scrutare nell'oscurità. Il conflitto a fuoco tra Wardlaw e gli inseguitori era cessato, ma sentiva ancora le grida della folla esagitata all'interno dei tunnel. Si tennero sulla sinistra, come suggerito da Wardlaw, ma talvolta finivano in un vicolo cieco o imboccavano una falsa pista ed erano costretti a tornare indietro. La miniera era vasta e l'enorme filone bituminoso proseguiva all'infinito in tre direzioni. I passaggi che vi erano stati ricavati curvavano e si incrociavano, inframmezzati da blocchi squadrati di carbone secondo la disposizione a camere e pilastri: ciò creava una sequenza labirintica di spazi collegati gli uni agli altri in modo imprevedibile. Il pavimento della miniera era attraversato da una rete di binari, risalente alle attività degli anni Cinquanta. Dappertutto c'erano carrelli metallici arrugginiti, corde marce, motori rotti e cumuli di scarti di carbone. Nei punti più bassi furono costretti a guadare pozze d'acqua melmosa. Il grido profondo di Isabella li seguiva mentre correvano, sembrava il
lamento di una Bestia ferita a morte. Ogniqualvolta si fermava ad ascoltare, Ford sentiva anche il rumore della folla al loro inseguimento. Dopo aver corso per più di un quarto d'ora, Hazelius decise di fare una piccola pausa. Si accasciarono tutti sul terreno umido, incuranti del viscidume nero che lo ricopriva. Kate si accovacciò vicino a Ford e lui la strinse a sé. «Isabella esploderà da un momento all'altro» sentenziò Hazelius. «Potrebbe rivelarsi qualsiasi cosa: da una grossa bomba convenzionale a una piccola atomica.» «Gesù!» esclamò Innes. «Il problema più grave» proseguì il fisico, «è che alcuni rilevatori sono pieni di idrogeno liquido esplosivo. Un rilevatore di neutrini contiene duecentomila litri di percloroetilene, l'altro quattrocentomila di alcani, entrambi infiammabili. E guardatevi in giro: in questi filoni è rimasto un bel po' di carbone che può prendere fuoco. Quando Isabella esploderà, salterà in aria l'intera montagna. Non abbiamo modo di impedirlo.» Silenzio. «L'esplosione potrebbe causare cedimenti.» La cacofonia di rumori prodotta dall'orda che li inseguiva riecheggiava nelle gallerie, contrassegnata di tanto in tanto da uno sparo che si levava al di sopra del tremito, dello stridio e della vibrazione di Isabella. La folla, si rese conto Ford, stava a poco a poco guadagnando terreno. «Torno indietro per un breve tratto e sparo qualche colpo nella loro direzione» disse. «Per rallentarli almeno un po'.» «Ottima idea» esclamò Hazelius. «Ma non ammazzi nessuno.» Proseguirono la marcia. Ford si appostò in un tunnel laterale, spense la torcia e si mise attentamente in ascolto. I passi degli inseguitori si diffondevano nelle caverne, deboli e deformati. Avanzò tastoni nel cunicolo, tenendo una mano sulla parete e memorizzando il percorso. A poco a poco i loro passi si fecero più vicini, poi molto vagamente scorse il tenue bagliore di cinque o sei torce. Sfilò la pistola, si accovacciò dietro a un pilastro e la puntò obliqua verso il soffitto. Ford sparò tre Parabellum da 9mm in rapida successione, che risuonarono fragorosi nello spazio chiuso. Il gruppo di Eddy indietreggiò, sparando all'impazzata nel buio. Riparatosi in un tunnel buio, Ford posò la mano sulla parete più lontana e la seguì, superando rapido altri due ingressi di gallerie. Stava arrivando un secondo gruppo: sembrava si fossero divisi in squadre più ristrette, ma
avanzavano cauti a causa dei colpi esplosi. Ford sparò altre cinque volte per rallentarli. Batté in ritirata, sempre tastando la parete, e contò ancora tre pilastri prima di sentirsi abbastanza al sicuro da riaccendere la torcia. Si tenne basso e continuò a procedere a passo svelto nella speranza di raggiungere gli altri. Mentre correva, sentì tuttavia uno strano rumore alle sue spalle, come una serie di colpi di tosse. Si fermò. Il brontolio di Isabella cambiò all'improvviso tono: aumentò vertiginosamente fino a trasformarsi in un grido che squassò la terra, in un ruggito mostruoso, e poi aumentò ancora in un crescendo che scosse la montagna. Intuendo ciò che stava per accadere, Ford si gettò a terra. Il ruggito si tramutò in un terremoto. Un'onda di sovrappressione squassò la miniera sollevando Ford come una foglia e scagliandolo contro un pilastro. Un potente tuono si propagò nelle caverne e una corrente di risucchio spazzò le gallerie, gemendo come uno spettro. Ford si rannicchiò al riparo del pilastro e chinò la testa mentre carbone e pietre volavano dappertutto. Poi rotolò su se stesso e guardò in alto. Il soffitto del tunnel si stava spaccando in numerose crepe. Dall'alto cadde una pioggia di frammenti di carbone e ganga. Ford allora balzò in piedi e cercò d'essere più veloce della galleria che crollava. Eddy fu gettato a terra dalla forza delle esplosioni. Restò con la faccia all'ingiù in una pozzanghera melmosa mentre tutt'intorno piovevano sassi e ghiaia. Le gallerie riecheggiavano e tuonavano per gli schianti fragorosi, vicini e lontani. L'aria era satura di polvere e non riusciva quasi a respirare. Tutto sembrò precipitare. Passarono i minuti e il terreno cominciava a riassestarsi e si sentiva ormai soltanto qualche sporadico brontolio. Quando i rumori cessarono, si instaurò un fastidioso silenzio. La voce di Isabella non c'era più. La macchina era morta. L'avevano uccisa. Tossendo, Eddy si mise a sedere. Dopo aver armeggiato attorno a sé nelle nubi soffocanti di polvere, trovò la torcia ancora accesa nella fanghiglia. Anche gli altri si stavano rialzando. Le loro torce parevano lucciole nella nebbia. La galleria aveva ceduto a meno di venti metri di distanza, ma erano sopravvissuti. «Lode al Signore!» esclamò il pastore.
«Lode al Signore!» ripeté un seguace. Eddy passò in rassegna il gruppo: alcuni suoi soldati erano stati colpiti dalla caduta di pietre. Il sangue colava loro dalla fronte ed erano feriti. Altri invece sembravano illesi. Nessuno era rimasto ucciso. Eddy si resse alla parete e cercò di respirare. Riuscì a raddrizzarsi e a parlare. «"Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi."» Sollevò entrambe le mani, tenendo la pistola in una e la torcia nell'altra. «Guerrieri di Dio! La Bestia è morta ma non scordiamoci del compito supremo.» Indicando la polvere nera che si muoveva aggiunse: «Laggiù, nascosti nell'oscurità, ci sono l'Anticristo e i suoi discepoli. Abbiamo una guerra da portare a termine». Si guardò attorno poi gridò: «Alzatevi! La Bestia è morta! Lode al Signore!». Le sue parole rianimarono a poco a poco il gruppo ancora sotto shock. «Recuperate armi e torce. Restate al mio fianco.» Chi aveva lasciato cadere la propria si mise a cercarla e, pochi minuti dopo, erano tutti in piedi, equipaggiati e pronti a continuare la caccia. Era un miracolo: la galleria aveva ceduto alle loro spalle proprio dove si trovavano fino a pochi minuti prima. Il Signore li aveva risparmiati. Eddy si sentì invincibile. Con il Signore al suo fianco, chi avrebbe potuto fermarlo? «Erano davanti a noi» disse, «in quel tunnel. È crollato solo in parte. Possiamo scavalcare le macerie. Andiamo.» «In nome di Gesù Cristo, andiamo!» «Lode a Gesù!» Eddy li guidò, sentendosi di nuovo invaso da adrenalina e coraggio. Lo scampanellio nelle orecchie cominciò a diminuire. Si fecero strada oltre il mucchio di pietre. Piccoli sassi stavano ancora cadendo dalla breccia nel soffitto, che tuttavia sembrava reggere. A mano a mano che la polvere si depositava, riuscirono a vedere meglio dove si trovavano. Arrivarono in una caverna che si era aperta a causa del cedimento di una parte del soffitto della miniera. Dall'apertura entrava una corrente d'aria fresca e pulita che smuoveva la polvere. In fondo si apriva un'ampia galleria. Il pastore si fermò chiedendosi in quale direzione fosse andato l'Anticristo. Fece cenno al gruppo di non far rumore e di spegnere le torce. Nel buio e nel silenzio non vide e non udì nulla. Chinò allora la testa e disse: «Signore, mostraci la strada». Accese la torcia in una direzione a caso e osservò il tunnel che aveva illuminato. «Da questa parte» annunciò. Il gruppo lo seguì con le torce che ondeg-
giavano come occhi luminosi nell'oscurità polverosa. Capitolo 72 Nelson Begay giaceva disteso nell'erba, stordito dall'esplosione, mentre le onde di sovrappressione spazzavano la valle e i promontori. La forza d'urto aveva appiattito le artemisie, sradicato i piñons e sollevato sabbia e ghiaia tutt'intorno. Il terreno aveva tremato e vibrato sotto di lui. Il navajo si schermò il volto con le braccia finché le prime onde non furono passate e poi si mise a sedere. Sulla sommità della montagna si era formata un'enorme palla di fuoco, una sfera fiammeggiante che si lasciava dietro una colonna di fumo, polvere e macerie. Girò la testa per proteggersi dal calore ustionante. Dalla sterpaglia udì levarsi le imprecazioni soffocate di Willy Becenti; un istante dopo vide spuntare la sua testa con i capelli tutti scompigliati. «Maledizione!» Gli altri, sparpagliati qua e là sul terreno, si rialzarono lentamente. I cavalli, che volevano radunare e sellare, erano spaventati a morte: si impennavano e scalciavano per liberarsi dalle pastoie, nitrendo terrorizzati. Qualcuno era riuscito a liberarsi e stava fuggendo attraverso la distesa d'erba. Begay si mise in piedi. Il tipi era stato abbattuto e i pali giacevano spezzati a terra. La tela era stata ridotta a brandelli piccoli come coriandoli. L'esplosione aveva divelto dalle fondamenta il vecchio emporio di Nakai Rock. Il navajo si guardò rapidamente attorno nel buio e si chiese dove fosse finito il suo cavallo, Winter. «Che diavolo è stato?» domandò Becenti, guardando in alto. La palla gigantesca di fuoco sembrava levitare ben al di sopra degli alberi, incombere su di loro e rotolare lenta via via che assumeva un intenso colore che dava sul marrone-rossiccio. Sulla sommità della mesa, sopra Isabella, Begay aveva visto centinaia, forse migliaia di persone. Che cosa era capitato loro dopo l'esplosione? Rabbrividì al pensiero. Dalla profondità della terra si levò un brontolio e l'uomo udì uno scoppiettio lontano di armi da fuoco. Si guardò attorno e contò alla svelta i presenti. C'erano tutti. «Dobbiamo portare la gente via di qui» gridò a Maria Atcitty. «Fa niente se non ci sono abbastanza cavalli. Salite in due e dirigetevi verso la Pista di mezzanotte.» Da qualche parte a sud, la terra brontolò e tremò. In fondo alla valle il
prato si sollevò e s'infossò mentre una rete di crepe si propagava sul terreno. Un getto di polvere fu scagliato in aria da un'esplosione e nella terra si formò un'enorme dolina, grande quanto un campo da football, che si inabissava nell'oscurità. «La vecchia miniera sta crollando» disse Becenti. La terra tremò ancora e poi ancora. Nubi di polvere salivano a spirale in cielo, vicine e lontane. La palla di fuoco si spostava lenta facendosi più scura, disperdendosi a poco a poco e sfaldandosi, ormai priva di energia. Begay prese Maria Atcitty per le spalle. «Sarai tu al comando. Prendi tutte le persone e i cavalli che trovi e portali verso la Pista di mezzanotte.» «E tu?» «Tento di recuperare quelli che sono scappati.» «Sei impazzito?» Begay scosse la testa. «Uno di loro è Winter. Non potrei mai abbandonarlo.» Maria Atcitty lo guardò intensamente, poi si girò e gridò a tutti di lasciare le loro cose e salire in due a cavallo. «Non ce la puoi fare da solo» gli disse Becenti. «È meglio che tu vada con gli altri.» «Assolutamente no.» Begay lo afferrò per le spalle. «Grazie.» Altri brontolii sotterranei scossero il suolo: adesso provenivano dalla zona sud-orientale della mesa, dalla stessa direzione in cui erano fuggiti i cavalli. Osservando il paesaggio illuminato dalla luna, vide una decina di spirali di polvere levarsi in cielo. La vecchia miniera stava crollando. In alto, dove si trovava Isabella, il fuoco si stava diffondendo e le nubi di fumo ribollivano formando pennacchi, tinte d'arancione bruciato dalle fiamme. La prima esplosione era stata solo l'inizio, adesso l'intera mesa stava prendendo fuoco. Le gallerie di carbone e residui di metano stavano dando sfogo a tutta la loro furia. Maria Atcitty tornò con il suo cavallo. «Lassù sembra arrivata la fine del mondo.» Begay scosse la testa. «Forse lo è davvero.» Abbassò la voce e cominciò a recitare l'oscura nenia della Via delle Stelle cadenti: «Aniné bichaha'oh koshdéé...». Capitolo 73
Ford riprese conoscenza nella completa oscurità, in un'aria pregna di polvere e del puzzo del gas di carbone appena rilasciato, «Kate!» gridò. Silenzio. «Kate!» Cadde in preda al panico. Si liberò delle pietre che gli erano franate addosso. Dopo essersi messo freneticamente carponi, prese a tastare in mezzo ai detriti, scorse un bagliore e disseppellì la torcia, ancora accesa. Mentre la puntava intorno, illuminò un corpo disteso a sei metri di distanza, semisepolto dai sassi. Balzò in piedi e si avvicinò. Era Hazelius. Un rivolo di sangue gli usciva dal naso. Gli tastò il polso: era vivo. «Gregory!» gli sussurrò all'orecchio. «Mi sente?» Lo scienziato girò la testa e aprì gli occhi, quegli incredibili occhi azzurri. «Che cosa... è successo?» gracchiò, socchiudendoli alla luce. «C'è stata un'esplosione, seguita da diversi cedimenti del terreno.» Hazelius a poco a poco ricordò. «Gli altri?» «Non ne so niente. Stavo per raggiungerla quando è saltato tutto.» «Sono scappati in tutte le direzioni quando hanno iniziato a cadere pietre.» Poi abbassò lo sguardo. «La mia gamba...» Ford si diede da fare per liberare la metà del corpo inferiore di Hazelius. La gamba sinistra era bloccata da un grosso masso. Ford lo afferrò per i bordi e lo sollevò con delicatezza. Sotto, la gamba era lievemente storta. «Mi aiuti ad alzarmi, Wyman.» «Temo abbia una gamba rotta» rispose lui. «Non importa. Dobbiamo continuare a muoverci.» «Ma se è rotta...» «Mi aiuti ad alzarmi, maledizione!» Ford si mise il braccio del fisico attorno al collo e lo aiutò a rimettersi in piedi. Hazelius barcollò e si aggrappò a lui. «Se mi sostiene, riesco a camminare.» Ford restò un istante in ascolto. In quel silenzio di tensione udì voci e grida giungere da lontano. Per quanto potesse sembrare incredibile, li stavano ancora inseguendo, o forse anche loro stavano soltanto tentando di uscire dal labirinto. Avanzando tra le macerie, Ford sostenne Hazelius passo dopo passo. Lo trascinò oltre i mucchi di pietre franate, sotto buchi apertisi nel soffitto, attraverso i passaggi che l'esplosione aveva creato tra i tunnel, oltre le came-
re crollate. Degli altri, nessuna traccia. «Kate?» gridò nel buio. Nessuna risposta. Ford tastò la SIG. Aveva sparato otto colpi, gliene rimanevano cinque. «Mi gira un po' la testa» disse il fisico. Procedendo lenti, da una stretta galleria passarono in un pozzo trasversale. Anche lì Ford non riconobbe nulla. Le voci stavano diventando più forti e stranamente parevano arrivare da tutte le parti, quasi fossero circondati. «Non mi sarei mai... aspettato... questo.» La voce di Hazelius venne meno. Ford avrebbe voluto chiamare ancora Kate, ma non osò. C'erano così tanti tunnel, così tanta polvere, e se lei avesse risposto, gli inseguitori avrebbero potuto trovarla. Hazelius incespicò un'altra volta e urlò dal dolore. Ford riuscì a stento a sorreggerlo: si era accasciato come un sacco di cemento. Quando non riuscì più a trasportarlo, si accovacciò e cercò di caricarselo in spalla. La galleria era tuttavia troppo angusta e lo sforzo, per il fisico, era troppo doloroso. Ford lo posò a terra e gli sentì il polso: il battito era rapido. La fronte gli si stava imperlando di sudore. Stava per avere un collasso. «Gregory, mi sente?» Lo scienziato gemette e voltò la testa. «Mi dispiace» sussurrò. «Non ce la faccio.» «Do un'occhiata alla sua gamba.» Ford tagliò il pantalone con il temperino: il femore rotto sporgeva oltre la pelle. Se avesse continuato a trasportarlo, avrebbe potuto lacerare l'arteria femorale. Ford si arrischiò a puntare la torcia elettrica in basso per illuminare la zona. Non vide segno degli altri, ma sotto il pavimento della galleria, pochi metri più in giù nella parete opposta, c'era uno scavo d'estrazione in parte nascosto da una frana, che sarebbe stato un ottimo rifugio. «Ci sposteremo laggiù.» Prese Hazelius sotto le braccia e lo trascinò nella nicchia. Raccogliendo le pietre cadute, costruì un muretto dietro il quale si sarebbero riparati. Le voci si stavano avvicinando sempre più. Dio, ti prego, fa' che Kate si salvi. Ford utilizzò tutti i sassi sparsi nei paraggi. Il muretto era alto poco più di mezzo metro, appena sufficiente a nasconderli se si fossero stesi a terra.
Si portò dietro, si tolse la giacca e l'appallottolò in modo che facesse da cuscino per Hazelius, quindi spense la torcia. «Grazie, Wyman» disse l'uomo. Per un istante non parlarono, poi con tono indifferente il fisico disse: «Mi uccideranno, lo sa». «Non se posso fare qualcosa.» Ford tastò la pistola. Hazelius gli toccò la mano. «No, Non uccida. A parte il fatto che saremmo sconsolatamente in minoranza, sarebbe sbagliato.» «Non lo è, se hanno intenzione di ammazzarla.» «Siamo una cosa sola» replicò lui. «Ucciderli è come uccidere noi stessi.» «La prego, adesso non cominci con queste stronzate religiose.» Hazelius gemette e deglutì. «Wyman, lei proprio mi delude. Di tutti i membri della squadra, è l'unico che non vuole accettare l'evento straordinario di cui siamo stati testimoni.» «Non si affatichi a parlare e si stenda bene a terra.» Si accovacciarono dietro il muretto improvvisato. L'aria odorava di polvere e muffa. Le voci si avvicinarono ancora. I passi degli inseguitori, accompagnati da rumori metallici, riecheggiarono nelle gallerie. Di lì a poco il fosco bagliore delle torce illuminò l'aria polverosa. Ford non riusciva quasi a respirare, tanto era teso. Il baccano aumentò. Stavano arrivando poi, a un tratto, furono lì. Per quella che parve un'eternità l'orda di Eddy proseguì la faticosa avanzata, mentre torce e fiaccole gettavano diaboliche chiazze di luce arancione sul soffitto e ombre deformi sulle pareti. A poco a poco il rumore si attenuò fino a dileguarsi, insieme alle luci tremolanti. Tornò il buio. Ford udì Hazelius emettere un sospiro lungo, sofferente. «Mio Dio...» Per un folle istante si chiese se stesse pregando. «Pensano... che sia l'Anticristo...» aggiunse, scoppiando in una risata strana e sommessa. Ford si alzò e scrutò nelle tenebre. Il silenzio era tornato, interrotto qua e là dalla caduta di qualche sasso. «Forse sono davvero l'Anticristo...» disse Hazelius ansimando. Ford non capì se per il dolore o perché stava ridendo. Inizia a delirare, pensò. Accantonò quel pensiero e studiò il da farsi. L'aria nel tunnel si muoveva e portava con sé un puzzo di carbone bruciato, insieme a una vibrazione bassa, sinistra: il rumore del fuoco. «Dobbiamo uscire di qui al più presto.»
Il fisico non rispose. Lo afferrò sotto le braccia. «Su. Cerchi di continuare a muoversi. Non possiamo restare qui. Dobbiamo trovare gli altri e arrivare al montacarichi.» Nelle gallerie riecheggiò un'esplosione attutita e l'odore di fumo di carbone aumentò. «E adesso mi uccideranno...» Di nuovo, scoppiò in una folle risata. Ford se lo caricò in spalla e, tenendolo per le braccia, lo trascinò nei tunnel. «Che ironia» borbottò Hazelius. «Essere martirizzato... gli esseri umani sono così imbecilli... così creduloni... ma io non avevo considerato con sufficiente attenzione... quanto stupidi fossero...» Ford puntò la torcia davanti a sé. Il passaggio conduceva in un'ampia caverna. «Adesso pagherò... Anticristo, mi chiamano... Anticristo, come no!» Seguì un'altra crisi di riso convulso. Ford proseguì a fatica ed entrò nel gigantesco scavo d'estrazione. A destra, depositi di carbone e roccia crollati si mescolavano a vene friabili di pirite che luccicavano come oro alla luce della torcia. Continuò a camminare, trasportando il fisico verso il fondo. Lo sfiatatoio comparve all'improvviso dall'oscurità: un buco rotondo di circa un metro e mezzo di diametro, situato nell'angolo in fondo. Nel centro penzolava una corda. Ford posò Hazelius sul pavimento roccioso e appoggiò la testa del fisico sulla sua giacca. Una deflagrazione scosse la camera e sentì le pietre cadere tutt'intorno. Gli occhi gli bruciavano per il fumo. Il fuoco che si avvicinava avrebbe potuto esaurire l'ossigeno in qualsiasi momento e a quel punto non ci sarebbe stato più niente da fare. Afferrò la corda. Questa gli si disintegrò in mano: si spezzò e piombò nel pozzo profondo. Pochi minuti dopo Ford si accorse di un impercettibile gocciolio d'acqua. Puntò la luce verso l'alto e vide un foro uniforme che saliva a perdita d'occhio. L'estremità marcia della corda penzolava inutile. Del montaricarichi nessuna traccia. Tornò da Hazelius e lo trovò ancora più delirante. Continuava a ridere sommesso. Ford si accovacciò al suo fianco e cercò di riflettere, ma i borbottii del fisico lo distraevano. Poi colse un nome: JOE BLITZ. «Ha detto Joe Blitz?»
«Joe Blitz...» bofonchiò lui. «Tenente Scott Morgan... Bernard Hubbell... Kurt von Rachen... capitano Charles Gordon...» «Chi è Joe Blitz?» «Joe Blitz... capitano B. A. Northrup... René... René Lafayette...» «Chi sono queste persone?» domandò Ford. «Nessuno. Non... esistono... Noms de plume...» «Pseudonimi?» Ford si chinò su di lui. Nella flebile luce notò che aveva il volto ricoperto da una patina lucida di sudore e gli occhi vitrei, ma possedeva ancora una vitalità strana, quasi soprannaturale. «Pseudonimi di chi?» «Di chi mai? Del grande Ron L. Hubbard... uomo intelligente... Solo, lui non è stato definito Anticristo... A quel furbacchione è andata meglio che a me.» Ford era rimasto di sasso. Joe Blitz? Uno pseudonimo di Ron L. Hubbard? Hubbard era lo scrittore di fantascienza che aveva fondato una sua religione, Scientology, diventandone il profeta. Ford ricordò che, ancora prima della nascita del movimento, Hubbard aveva dichiarato a un gruppo di scrittori che il compito più grande che un essere umano potesse realizzare sulla Terra era creare una religione di portata mondiale. Tempo dopo si era cimentato nell'impresa e vi era riuscito, combinando pseudoscienza e ingenuo misticismo in una formula efficace e affascinante. Una religione di portata mondiale... era possibile? Era questo l'interrogativo a cui Hazelius alludeva? Era quello lo scopo della sua squadra scelta? del drammatico passato dei suoi collaboratori? di Isabella, il più grande esperimento scientifico della storia? dell'isolamento? della mesa? dei messaggi? della segretezza? della voce di Dio? Ford fece un profondo respiro e si chinò. «Volkonskij ha scritto un biglietto poco prima di... morire. L'ho trovato. Tra le altre cose diceva: Conosco la verità, stupidi che non siete altro. L'ho vista attraverso la follia. Per dimostrarlo, vi do soltanto un nome: Joe Blitz.» «Sì... sì...» rispose il fisico. «Peter era in gamba... fin troppo... qui ho fatto un errore, avrei dovuto scegliere un altro...» Seguì una pausa di silenzio, poi emise un lungo sospiro. «La mia mente vaneggia.» La voce di Hazelius tremolò. Era diventata quasi la voce di un folle. «Che stavo dicendo?» Era tornato alla realtà, ma solo in parte. «Joe Blitz era Ron L. Hubbard, l'uomo che ha inventato una sua religione. L'intera faccenda riguarda questo?» «Stavo parlando a vanvera.»
«Ma questo era il suo piano» incalzò Ford. «Vero?» «Non so di che parla.» La sua voce sembrò più brusca. «Certo che lo sa. Ha architettato tutto: la costruzione di Isabella, i problemi con la macchina, la voce di Dio. Dietro a ogni cosa c'è sempre stato lei. Lei è l'hacker.» «Dice cose senza senso, Wyman.» Adesso sembrava tornato completamente alla realtà. Ford scosse la testa. Aveva la risposta davanti agli occhi da quasi una settimana: era proprio lì, nel dossier dello scienziato. «Per gran parte della sua vita» continuò, «ha coltivato utopie politiche.» «Tanti lo fanno, no?» «Non a livello ossessivo. Lei era vittima di un'ossessione e, peggio ancora, nessuno le prestava ascolto, nemmeno dopo che aveva vinto il Nobel. Il che la faceva impazzire: l'uomo più intelligente del mondo e nessuno lo ascoltava. Poi sua moglie è morta e lei si è chiuso nell'isolamento. È ricomparso due anni dopo con l'idea di costruire Isabella. Aveva qualcosa da comunicare. Voleva che la gente la ascoltasse. Voleva più che mai cambiare il mondo. Quale modo migliore di farlo se non diventare un profeta? Fondare una sua religione?» Ford lo sentiva respirare affannosamente nel buio. «La sua teoria è... delirante» replicò Hazelius con un gemito. «Ha concepito il Progetto Isabella: una macchina in grado di studiare il Big Bang, il momento della creazione. L'ha fatta costruire, ha scelto la squadra avendo cura che fossero soggetti psicologicamente ricettivi. Ha inscenato tutto quanto. Ha pianificato la scoperta scientifica più grande di tutti i tempi. E quale poteva essere se non Dio! In quel modo sarebbe diventato un profeta. È così che stanno le cose, non è vero? Aveva progettato di imporre un nuovo Ron L. Hubbard al mondo.» «Lei è completamente pazzo.» «Sua moglie non era incinta quando è morta. Ha inventato anche quello. Qualsiasi nome avesse prodotto la macchina, avrebbe reagito in quel modo. Era in grado di immaginare i numeri che Kate avrebbe pensato, perché la conosce molto bene. In tutto questo non c'è niente di soprannaturale.» Il respiro del fisico fu l'unica risposta che ebbe. «Si è contornato di dodici scienziati, scelti di suo pugno. Quando ho studiato i loro dossier, mi ha colpito il comune denominatore: tutti avevano dovuto affrontare difficili ostacoli nella vita e tutti erano alla ricerca di un senso esistenziale. Mi sono chiesto perché e adesso lo so. Li ha scelti per-
ché sapeva che erano vulnerabili, pronti per essere convertiti.» «Ma non sono riuscito a convertire lei, eh?» «Ci è andato vicino.» Tacquero per un istante. Un flebile vociare riecheggiò nelle gallerie. Il gruppo stava tornando. Hazelius emise un lungo respiro. «Moriremo entrambi, spero se ne renda conto, Wyman. Verremo entrambi... martirizzati.» «Questo resta da vedere.» «Sì, volevo fondare una religione ma là dentro non so davvero che cosa sia successo. La cosa mi è sfuggita di mano. Avevo un piano... ma non sono riuscito....» Sospirò di nuovo e gemette. «Eddy. Quella è stata la carta impazzita che mi ha rovinato il gioco. Stupida svista da parte mia: il martirio è la strada di tutti i profeti.» «Come ci è riuscito? Voglio dire, a manomettere il computer?» Hazelius estrasse la vecchia zampa di coniglio dalla tasca. «Ho tolto l'imbottitura di sughero, l'ho sostituita con un flash drive da 64 giga, un processore, un microfono e un trasmettitore senza fili, con tanto di riconoscimento vocale e dati. Ero in grado di collegarlo a uno qualsiasi dei mille processori wireless ad alta velocità sparsi qua e là nella macchina, tutti controllati dal computer centrale. Ha un bel programmino AI che ho scritto in LISP, o meglio che ho contribuito a scrivere dato che in buona parte si è autogenerato. È il programma informatico migliore che sia mai stato scritto. Era facile da usare e lo avevo già pronto. Il programma di per sé non era affatto semplice... non sono nemmeno sicuro di essere in grado di capirlo. Stranamente, ha detto molte cose che non avevo intenzione di dire, che non mi ero nemmeno mai sognato. Si potrebbe proprio affermare che abbia funzionato al di là delle specifiche.» «Brutto bastardo di un manipolatore!» Hazelius infilò la zampa di coniglio in tasca. «Qui sbaglia, Wyman. Non sono affatto una persona malvagia. Ho fatto quello che ho fatto per le ragioni più nobili e altruistiche.» «Certo. Basta guardare tutta la violenza, tutte le morti, di cui lei è l'unico responsabile.» «Il pastore Eddy e i suoi proseliti hanno scelto la violenza, non io» rispose, trasalendo per una fitta di dolore. «E ha pure ucciso Volkonskij o lo ha fatto uccidere da Wardlaw.» «No. Volkonskij era un uomo intelligente. Ha capito le mie intenzioni. Quando ci ha riflettuto con attenzione, si è reso conto che non avrebbe po-
tuto fermarmi. Non poteva sopportare di vedersi ridotto a un idiota, che il lavoro della sua vita venisse manipolato e svilito in quel modo. Perciò si è ucciso, facendolo sembrare un suicidio ma con alcuni particolari anomali in modo che finissero credere che fosse un omicidio. Aveva una mente tanto tortuosa da essere unica.» «Perché farlo sembrare un omicidio?» «Sperava che le indagini finissero per travolgere il Progetto Isabella, che lo chiudessero prima che io potessi portare a termine il mio piano. Però non ha funzionato. Le cose sono precipitate, fin troppo. Mi assumo la responsabilità della sua morte, ma non l'ho ucciso.» «Che maledetto, inutile spreco.» «Non ragiona nel modo corretto, Wyman...» Per un istante il suo respiro si fece affannoso, poi riprese a parlare. «Questa storia è solo agli inizi. Non la può fermare. "Les jeux sont faites", come ha detto Sartre. La grande ironia è che saranno loro a far sì che succeda.» «Loro?» «I fondamentalisti. Daranno alla storia un finale molto più efficace di quello che avevo concepito io.» «La sua storia finirà in un nulla di fatto» replicò Ford. «Wyman, vedo che non capisce la vera entità di quanto sta accadendo. La plebaglia di Eddy...» Hazelius tacque e, con suo sgomento, Ford udì il lieve rumore della folla che si stava avvicinando «... mi ucciderà, mi martirizzerà. Lo stesso capiterà a lei. Nel fare ciò vivrò nell'eternità.» «Sarà ricordato come un pazzo, per l'eternità.» «Ammetto che così mi vedrebbe gran parte dell'opinione pubblica.» Le voci si fecero più chiare. «Dobbiamo nasconderci» disse Ford. «Dove? Non c'è un posto dove andare e io non posso muovermi.» Hazelius scosse la testa e con voce roca, bassa citò la Bibbia. «"E dicevano ai monti e alle rupi: cadete sopra di noi e nascondeteci... "Proprio come nell'Apocalisse, siamo in trappola.» Le voci erano sempre più vicine. Ford estrasse la pistola, ma Hazelius gli posò una mano tremante e appiccicaticcia sul braccio. «Lo accetti con dignità.» Dall'oscurità apparvero luci ondeggianti. Una decina di uomini sporchi e pesantemente armati si riversò oltre una curva della galleria. «Eccoli! Sono due di loro!» I loro inseguitori emersero come una macchia nera di minatori, con le
armi pronte. Sui loro volti piegati in una smorfia i rivoli bianchi di sudore sembravano sbarre. «Hazelius! L'Anticristo!» «L'Anticristo!» «Lo abbiamo trovato!» Un'altra esplosione lontana scosse la camera. La roccia instabile del soffitto cedette e scaricò una pioggia di sassi che si abbatté al suolo, come grandine di pietra dal cielo. Nell'aria stantia il fumo del carbone allungava i suoi tentacoli. La montagna tremò di nuovo e ci fu l'ennesimo cedimento accompagnato da brontolii e rimbombi. La terra vomitò altro fumo che riempì i pozzi. La folla si divise e il pastore Eddy si avvicinò ad Hazelius. Sovrastando lo scienziato ferito, sfoderò un ampio ghigno sul volto incavato, ossuto. «Ci rivediamo.» Il fisico scrollò le spalle e distolse lo sguardo. «Solo che ora, Anticristo» proseguì Eddy, «sono io ad avere il controllo. Dio è alla mia destra, Gesù alla sinistra e lo Spirito Santo alle mie spalle. E tu... dov'è il tuo protettore? È scappato, Satana il codardo è scappato tra le rupi! "Nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall'ira dell'Agnello!"» Si chinò sullo scienziato fino a pochi centimetri dal suo volto e scoppiò a ridere. «Va' all'inferno, batterio» mormorò Hazelius. Eddy esplose di rabbia. «Controllate se siano armati!» Un gruppetto si avvicinò a Ford. Lui li lasciò fare. Stese il primo, sparò un calcio nel ventre al secondo e sbatté il terzo contro una parete. Gli altri gli si buttarono addosso ululando infuriati e un piccolo esercito di pugni e calci lo spinse infine contro la roccia e quindi a terra. Eddy gli sfilò la SIGSauer dalla cintura. Durante la mischia un devoto entusiasta mollò un calcio ad Hazelius sulla gamba rotta. Questi ansimò, emise un singulto e svenne. «Ottimo lavoro, Eddy» commentò Ford inchiodato a terra. «Il tuo Salvatore ne sarebbe fiero.» Lui lo guardò torvo, paonazzo di rabbia, quasi sul punto di colpirlo, poi cambiò idea. «Basta!» gridò alla folla. «Basta! Fate spazio! Ci occuperemo di loro secondo il nostro sistema, nel modo giusto. Tirateli su.» Ford fu trascinato in piedi e spinto in avanti, poi il gruppo cominciò a muoversi. Due uomini corpulenti presero Hazelius svenuto sotto le ascelle.
Perdeva sangue dal naso, aveva un occhio gonfio e la gamba storta con l'osso fratturato strisciava per terra. Giunsero a un altro scavo di estrazione ampio, cavernoso. Da un tunnel laterale spuntarono alcune luci, ondeggianti nell'oscurità. Poco dopo si udì un dialogo improvviso, concitato. «Frost? Sei tu?» gridò Eddy. Si fece avanti un uomo robusto con una mimetica addosso, i capelli biondi tagliati corti, il collo massiccio e gli occhi ravvicinati. «Pastore Eddy? Ne abbiamo trovati altri, si nascondevano più in là nel pozzo.» Ford guardò una decina di uomini armati tenere sotto tiro Kate e gli altri scienziati. «Kate... Kate!» Si liberò a forza e cercò di raggiungerla. «Fermatelo!» Ford sentì un colpo poderoso sulla schiena che lo fece cadere in ginocchio. Un secondo colpo lo stese sul fianco, poi pugni e calci lo finirono. Fu trascinato in piedi in modo tanto brusco che per poco non gli slogarono le spalle. Un uomo sudato con il volto sporco di polvere di carbone e gli occhi bianchi, roteanti come quelli di un cavallo, lo colpì in faccia. «Sta' al tuo posto!» Ci fu un altro brontolio lontano e la terra tornò a tremare. La polvere si sollevò dal pavimento, propagandosi a ondate nelle gallerie. Il fumo si depositò in spessi strati sul soffitto. «Ascoltatemi!» gridò Eddy. «Non possiamo restare qui! L'intera montagna è in fiamme! Dobbiamo uscire!» «Là in fondo c'è una via di uscita» disse l'uomo chiamato Frost. «L'esplosione ha aperto un pozzo. Ho visto la luna al termine della galleria.» «Facci strada» affermò il pastore. Gli uomini armati spintonarono e pungolarono con i fucili i membri del Progetto Isabella, perché si avviassero nei tunnel bui invasi dal fumo. Due seguaci di Eddy trascinarono Hazelius tenendolo sotto le ascelle. Avanzando nell'oscurità, attraversarono un altro immenso scavo di estrazione. Le luci danzavano nella polvere grigia e illuminarono una gigantesca frana: una montagna di pietre saliva in direzione di un buco lungo e scuro nel soffitto. Ford ispirò bramoso alcune boccate d'aria fresca e frizzante che entrava dall'alto. «Da questa parte!» Iniziarono a risalire la frana barcollando sui sassi che si muovevano, scivolavano e cadevano tutt'intorno a loro. «Su dall'Abisso della Perdizione!» gridò trionfante Eddy. «La Bestia è
soggiogata!» In testa al gruppo, i due seguaci alzavano Hazelius e lo fecero passare attraverso il buco irregolare formatosi nel soffitto di pietra. Gli altri furono spintonati con i fucili. Il foro conduceva a uno scavo posto più in alto e da lì a un altro pozzo, al termine del quale Ford vide per un istante una luce: il bagliore fugace di una stella nel cielo notturno. Emersero nella notte della mesa attraverso una lunga spaccatura diagonale. L'aria odorava di benzina bruciata e fumo. L'intero orizzonte orientale era in fiamme. Nubi nerorossastre turbinavano in aria, oscurando la luna. La terra brontolava in continuazione e, di tanto in tanto, una fiamma si innalzava per una trentina di metri e più, come uno stendardo insanguinato. «Laggiù!» gridò Eddy. «Verso quello spiazzo!» Attraversarono il letto secco di un torrente e si fermarono in un avvallamento ampio, sabbioso, dominato da un gigantesco piñon morto. Finalmente Ford si avvicinò abbastanza a Kate da riuscire a parlarle. «Stai bene?» «Sì, ma Julie e Alan sono morti, travolti dalla frana.» «Silenzio!» urlò Eddy, incamminandosi sullo spiazzo. Ford era stupefatto dalla sua trasformazione: non era più il predicatore suscettibile che aveva conosciuto. Calmo, sicuro di sé, si muoveva in modo deliberato. Nella cintura aveva infilato un revolver Super Blackhawk calibro 44. Camminò su e giù, si voltò verso la folla e sollevò una mano. «Il Signore ci ha liberati dalla schiavitù dell'Egitto. Benedetto sia il Signore.» Il suo gregge, poche decine di persone, rispose con voce tonante. «Benedetto sia il Signore!» Eddy si chinò sullo scienziato supino che aprì gli occhi, riprendendo conoscenza. «Rimettetelo in piedi» ordinò calmo. Indicando Ford, Innes e Cecchini aggiunse: «Voi, tenetelo fermo». I tre si abbassarono e, con la massima delicatezza possibile, lo sollevarono sulla gamba sana. Ford era stupito che fosse ancora vivo, figurarsi cosciente. «Guardate il suo volto, il volto dell'Anticristo» esclamò il pastore, rivolgendosi alla folla circostante. Camminò in cerchio e con voce palpitante declamò: «"Ma la Bestia fu catturata e con essa il falso profeta che alla sua presenza aveva operato quei portenti. Il diavolo fu gettato nello stagno di fuoco e zolfo, dove sono anche la Bestia e il falso profeta..."». Si udì un boato attutito e subito dopo una palla di fuoco comparve nel
cielo lontano, inondando di un bagliore rossastro l'intera scena. Il volto scarno di Eddy si tramutò per un istante in una sagoma contro la luce arancione, che ne esaltò le guance scavate, nere e gli occhi infossati. «Esultate, perché Dio vi ha reso giustizia!» La gente gridò, ma lui sollevò le mani. «Soldati di Cristo, il momento è solenne. Abbiamo preso l'Anticristo e i suoi discepoli e ora il giudizio di Dio attende tutti noi.» Hazelius sollevò la testa. Con sorpresa di Ford, fissò Eddy con un ghigno sprezzante - per metà sorriso, per metà smorfia - e disse: «Scuserai l'interruzione, predicatore, ma l'Anticristo ha da dire alcune parole al tuo illustre gregge, per raffreddare un po' gli animi», Eddy alzò le mani. «Parla l'Anticristo.» Fece audacemente un passo in avanti e disse: «Quale eresia esce ora dalle tue labbra, Anticristo?». Lui alzò la testa e la sua voce prese forza. «Mi sorregga» disse a Ford. «Non mi faccia scivolare.» «Non sono certo sia una mossa saggia» gli mormorò lui all'orecchio. «Perché no?» sussurrò cupamente lo scienziato. «Non è forse vero che chi ha fatto trenta può anche fare trentuno?» «Ascoltate dunque, soldati di Cristo, le parole del falso profeta» annunciò Eddy con voce venata di sprezzante e furibonda ironia. Capitolo 74 Da dietro un mucchio di massi di arenaria, Nelson Begay scrutò l'orizzonte scuro con il binocolo. Erano le due e trenta del mattino. «Sono laggiù. Raggruppati in quella distesa erbosa, spaventati a morte.» I cavalli gironzolavano lì attorno, sagome scure contro il cielo rosso. «Andiamo a prenderli» disse Becenti. Lui però non si mosse. Aveva rivolto il binocolo a est. La punta orientale della mesa non c'era più: era saltata in aria. Sotto si era creata un'enorme frana di sassi, di carbone che bruciava, di metallo aggrovigliato, attraversata da fiumi di un liquido in fiamme che si spargeva e correva nelle gole come la lava di un vulcano. L'intero fianco orientale della mesa ardeva. Le fiamme fuoriuscivano dalle brecce che si erano formate nel terreno e si diffondevano nell'aria. Ogni tanto in cima al tavolato un pino o un ginepro prendevano fuoco, simili a solitari alberi di Natale. Nonostante il vento allontanasse il fumo dal punto in cui si trovavano, gli incendi si stavano estendendo rapidi nella loro direzione. Si udivano sporadiche esplosioni:
polvere e fiamme si levavano in cielo, la terra si infossava e crollava. La stessa Nakai Valley aveva preso fuoco. L'emporio e le casitas bruciavano, insieme allo splendido boschetto di pioppi neri. Prima della deflagrazione almeno un migliaio di persone erano radunate in quel luogo. Ora, mentre scrutava la mesa infernale con il binocolo, il navajo vedeva solo pochi individui sparsi vagabondare, sotto shock, tra il fumo e le fiamme, gridare o semplicemente procedere in silenzio incespicando come zombie. Il flusso di macchine sulla Dugway era cessato e, tra quelle parcheggiate, alcune avevano preso fuoco. I serbatoi della benzina stavano esplodendo. Willy scosse la testa. «Diamine, lo hanno fatto. Alla fine i vecchi Bilagáana lo hanno fatto.» Scesero dal mucchio di pietre. Begay si avvicinò ai cavalli fischiando per richiamare Winter. L'animale drizzò le orecchie e, un attimo dopo, arrivò trotterellando, seguito dagli altri. «Bravo, Winter.» Nelson gli accarezzò il collo e gli legò una redine alla cavezza. Gli altri cavalli erano stati in buona parte sellati in vista della partenza e l'uomo fu lieto di constatare che portavano ancora le selle. Spostò la sella dal cavallo che aveva usato per sistemarla su Winter, strinse lo straccale e salì in groppa. Willy montò a pelo e insieme costrinsero gli animali nervosi a dirigersi verso la Pista di mezzanotte, situata dalla parte opposta rispetto al luogo dell'esplosione. Avanzarono lenti per tenerli calmi, procedendo su un terreno elevato dove avrebbero avuto un buon appoggio. Quand'ebbero superato un rilievo, Becenti, che era davanti, si fermò. «Che diavolo sta succedendo laggiù?» Begay gli si affiancò e sollevò il binocolo. Ad alcune centinaia di metri, in una zona sabbiosa, c'era un gruppo di uomini. Erano sporchi, come se fossero emersi da poco da sottoterra, e ne circondavano altri che parevano essere loro prigionieri, tutti sudici e malconci. Begay sentì grida di scherno. «Sembra un linciaggio» commentò Becenti, Begay osservò i prigionieri più attentamente con il binocolo. Sconvolto, riconobbe la scienziata che gli aveva fatto visita, Kate Mercer; a una certa distanza da lei c'era Wyman Ford, che sorreggeva un uomo apparentemente ferito. «La cosa non mi piace» osservò Begay e fece per scendere da cavallo. «Che fai? Dobbiamo andarcene da qui.»
Lui legò il cavallo a un albero. «Potrebbero aver bisogno del nostro aiuto, Willy.» Con un sorriso, Willy Becenti smontò. «Ecco, così suona meglio.» Si avvicinarono furtivi al gruppo, riparandosi dietro ad alcuni massi. Si trovavano a meno di trenta metri dall'assembramento ed erano nascosti dall'oscurità. Begay contò ventiquattro uomini armati, tutti neri di polvere di carbone come esseri demoniaci. Ford aveva il volto sporco di sangue e sembrava fosse stato picchiato. Gli altri prigionieri non li conosceva, ma suppose fossero anche loro scienziati del Progetto Isabella, visti i camici che indossavano. Ford ne sorreggeva uno, che gli teneva un braccio sulla spalla. L'uomo aveva una gamba malamente fratturata. La folla sputava loro addosso, li derideva e imprecava. Poi un uomo avanzò e sollevò le mani tacitando la folla. Begay non riusciva quasi a crederci: era il pastore Eddy della missione di Blue Gap, ma era un uomo diverso. Il pastore Eddy che conosceva lui era un perdente, un mezzo idiota, uno stordito che regalava vecchi abiti e gli doveva sessanta dollari. Quell'Eddy aveva un'aria fredda da comandante e la gente gli obbediva. Begay si abbassò e continuò a osservare. Becenti era al suo fianco. Eddy sollevò le mani. «"Alla Bestia fu data una bocca per proferire parole d'orgoglio e bestemmie!" Miei amici cristiani, l'Anticristo parlerà. Siate testimoni con me della sua eresia.» Hazelius cercò di parlare. Isabella bruciava in lontananza: colonne e cortine di fuoco si levavano e si spargevano dappertutto. La sua voce fu coperta da una serie di violente esplosioni. Ricominciò con un tono più forte. «Pastore Eddy, ho soltanto un commento da fare. Queste persone non sono i miei discepoli. Di me fate quello che volete, ma loro lasciateli andare.» «Bugiardo!» gridò qualcuno dalla folla. «Blasfemo!» Eddy alzò una mano in sua difesa. «Nessuno è innocente» urlò. «Siamo tutti peccatori nelle mani di un Dio infuriato. Veniamo salvati solo per grazia divina.» «Lasciali stare, bastardo d'un demente.» Non credo succederà, pensò Ford, guardando il gregge in tumulto di Eddy che voleva la sua pelle.
Lo scienziato si accasciò e la sua gamba sana cedette. «Tenetelo su!» ruggì il pastore. Kate raggiunse Ford e lo aiutò a sostenerlo. Il pastore si voltò. «Il giorno dell'ira di Dio è venuto» tuonò. «Prendetelo!» La massa si gettò su Hazelius. Lo circondò spingendolo di qua e di là come se lottasse per impossessarsi di una bambola di pezza. Quegli uomini lo colpirono, lo spintonarono, gli sputarono addosso, lo presero a bastonate. Uno addirittura lo ferì con un ramo di opunzia. «Legatelo a quell'albero.» Lo trascinarono verso il pino morto. Gli uomini si dimenarono per tenerlo come se fosse una Bestia sgraziata dalle cento zampe. Gli legarono un polso, gettarono l'estremità della corda oltre un grosso ramo e la tesero, poi fecero lo stesso con l'altro polso e lo immobilizzarono. Hazelius si ritrovò così in parte appeso, in parte in posizione eretta con le braccia divaricate. Gli abiti gli penzolavano laceri sul corpo sporco. Kate si liberò, balzò all'improvviso in avanti e l'abbracciò con forza. La folla esplose in un boato furioso. Vari uomini l'afferrarono e la strattonarono all'indietro buttandola a terra. Uno straccione con una barba squadrata avanzò rapido e la prese a calci quand'era ancora distesa, «Bastardo!» urlò Ford. Lo colpì alla mascella, ne spinse un altro di lato e si fece strada a forza verso di lei, ma la calca si precipitò su di lui e ben presto si ritrovò a terra, bersagliato di pugni e bastonate. Ridotto in uno stato di incoscienza, si rese a malapena conto di quanto successe dopo. Dietro la folla si udì il rombo di una moto da enduro, che si fermò scoppiettando. «Salve, cristiani!» esclamò una voce profonda e autoritaria, «Doke!» gridò la folla. «Doke è qui!» «Doke! Doke!» La gente si divise e una montagna d'uomo avanzò in mezzo al cerchio. Indossava un giubbotto di denim con le maniche strappate, aveva le braccia muscolose tatuate, una pesante croce di ferro appesa al collo e un fucile da assalto in spalla. I lunghi capelli biondi ondeggiavano, mossi dal vento generato dagli incendi. Si girò e abbracciò Eddy. «Che Cristo sia con te!» Poi si scostò e si girò verso la folla. Era carismatico ma nello stesso tempo alla mano; in un certo qual modo rappresentava il complemento di Eddy e del suo rigore ascetico. Sfoderando un sorriso misterioso, infilò la mano in una borsa ed estrasse una bottiglia di vetro piena di un liquido chiaro. Svitò il tappo, lo gettò via
e infilò uno straccio nel buco lasciandone fuori l'estremità. Poi, tenendo lo straccio con due dita, scosse la bottiglia e la sollevò. La massa urlò. Ford riconobbe l'odore di benzina. Con l'altro braccio sollevò un accendino. Poi alzò entrambe le braccia sopra la testa, le agitò e fece un giro completo come una rock star sul palco. «Legna!» gridò con voce roca. «Portateci della legna!» «"E chi non era scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco!" La Bibbia è chiara su questo punto. Chi non ha accettato Gesù Cristo come Salvatore viene gettato nel fuoco eterno. Questo, miei amici cristiani, è ciò che Dio vuole.» «Bruciatelo! Bruciate l'Anticristo!» rispose la massa. «"E il diavolo, che li aveva sedotti, fu gettato nello stagno di fuoco e zolfo, dove sono anche la Bestia e il falso profeta"» proseguì Eddy. «Fermatevi! In nome di Dio, non lo fate!» urlò Kate. La gente passava sopra la propria testa mucchi di rami del piñon morto, fusti di cactus e cespugli di artemisia per gettarli ai piedi dell'albero. Cominciò a formarsi un mucchio di sterpaglie. «Questa è la promessa di Dio ai miscredenti» affermò Eddy, camminando su e giù davanti al cumulo che cresceva. «"Saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli." Quello che facciamo qui è il volere di Dio ed è confermato ripetutamente nella Bibbia. Vi cito l'Apocalisse, 14-11: "Il fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli, e non avranno riposo né giorno né notte".» Il mucchio di sterpaglie crebbe ancora in modo disordinato e alcuni uomini cominciarono a disporle tutt'intorno ad Hazelius. «Non lo fate!» gridò di nuovo Kate. Il cumulo aveva raggiunto la parte superiore della coscia dell'uomo. «"Ma un fuoco scese dal cielo e li divorò"» citò ancora il pastore rivolto al suo gregge. Fusti di cactus, cespugli di artemisia ed ericameria pericolosamente secchi, continuarono a essere gettati nel mucchio finché Hazelius si ritrovò seppellito fino alla vita. «Siamo pronti a fare la volontà di Dio» annunciò calmo Eddy. Doke avanzò, alzò di nuovo le braccia tenendo l'accendino in una mano e la molotov nell'altra. La folla arretrò e tacque. L'uomo fece un altro mezzo giro con le mani alzate. La gente indietreggiò ancora, in preda a un riverente timore. Doke con l'accendino diede fuoco alla molotov. Lo straccio si incendiò
all'istante. Doke si voltò e lanciò la bottiglia nel cumulo. Il fuoco divampò al suo interno per poi propagarsi verso l'alto con un forte scoppiettio. Dalla folla si levò un sonoro «Ohhhh!». Ford si fece forza e strinse a sé Kate, sostenendola quando vacillò e per poco non svenne. Guardarono tutti in silenzio. Nessuno si girò dall'altra parte. Mentre le fiamme salivano, Hazelius parlò con voce chiara e ferma. «L'universo non scorda mai.» Capitolo 75 Nelson Begay osservò la pira umana con rabbia crescente. Bruciare un uomo vivo. Era esattamente quello che gli spagnoli avevano fatto ai suoi antenati che non si erano voluti convertire, e ora accadeva di nuovo. Ma non sapeva come impedirlo. Le fiamme salirono fino a lambire il camice logoro dello scienziato. Oscurarono il suo volto e gli bruciarono i capelli con un lampo e uno sfrigolio. Eppure lui restava in piedi. Poi le fiamme si alzarono ancora con fragore. I suoi abiti si annerirono disgregandosi in piccoli lembi, come coriandoli infuocati. Lo scienziato non ebbe il minimo sussulto. Il fuoco consumò violento i suoi vestiti, poi cominciò a staccargli la pelle. Gli occhi si fusero e colarono dalle orbite, eppure l'uomo non si mosse e non trasalì mai. Il suo triste mezzo sorriso non svanì dal volto, neanche quando questo prese ad ardere. Il fuoco raggiunse le corde che lo legavano all'albero e le carbonizzò, eppure lui rimase immobile, solido come una roccia. Com'era possibile? Perché non cadeva? Anche quando il pino a cui era legato si tramutò in una colonna di fuoco e le fiamme si levarono fino a otto, dieci metri d'altezza, rimase in piedi e così restò finché non scomparve. A trenta metri di distanza, Begay sentiva il calore del fuoco sul viso, lo sentiva ruggire come una Bestia. I rami dell'albero parevano tanti artigli di fuoco. Poi il pino crollò, spargendo una miriade di scintille che salirono vorticando verso il cielo, tanto in alto che parvero quasi raggiungere le stelle. Di Hazelius non rimase niente. Lo scienziato era definitivamente svanito. Gli altri prigionieri, tenuti raggruppati e sotto tiro, guardavano in preda a
un indicibile orrore. Alcuni piangevano, si tenevano per mano o si abbracciavano. Adesso tocca a loro, pensò il navajo e trovò la cosa davvero intollerabile. Doke stava già frugando nella borsa ed estraendo un'altra bottiglia. «'Fanculo» disse tra sé Becenti. «E noi permettiamo una cosa del genere?» Begay si girò a guardarlo. «No, Willy. No, in nome di Dio, no.» Ford osservò incredulo e agghiacciato il fuoco ormai quasi spento. Là dove fino a poco prima si era trovato Hazelius era rimasto un enorme mucchio di tizzoni. Ford tenne stretta Kate e la sostenne. Lei fissava immobile la cenere con il volto sporco rigato di lacrime. Nessuno parlò o si mosse. Loro erano i prossimi. La folla si era fatta improvvisamente silenziosa. Il predicatore, Eddy, era di lato e, con le mani ossute, stringeva al petto una Bibbia. Aveva lo sguardo vuoto, stravolto. Doke, l'uomo con i tatuaggi, fissava raggiante il fuoco. Eddy alzò la testa e guardò la massa. Indicando con mano tremante i tizzoni disse: «"Calpesterete gli empi ridotti in cenere sotto le piante dei vostri piedi "». La sua breve arringa svegliò la folla che si dimenò, a disagio. «Amen» disse una voce, imitata debolmente dalle altre. «"Ridotti in cenere sotto le piante dei vostri piedi"» ripeté lui. Seguirono altri «amen» esitanti. «E adesso» proseguì il pastore, «amici miei, è giunta anche l'ora per i discepoli dell'Anticristo. Noi siamo cristiani. Siamo clementi. Devono avere la possibilità di accettare Gesù. Anche il più grande peccatore deve avere un'ultima possibilità. In ginocchio!» Un seguace colpì Ford alla nuca e lui cadde involontariamente sulle ginocchia. Kate lo seguì e lo avvicinò a sé. «Pregate Gesù Cristo nostro Signore per la salvezza delle loro anime!» Doke si inginocchiò ed Eddy lo imitò. Ben presto l'intera folla si genuflesse sulla sabbia del deserto, avvolta dal bagliore rossastro del fuoco morente e da un mormorio via via più forte di preghiera. Un'altra esplosione rimbombò sulla mesa e la terra tremò. «Voi» disse Eddy, «discepoli dell'Anticristo, confessate la vostra apostasia e accettate Gesù come vostro Salvatore? Accettate Gesù con tutto il
cuore, senza riserve? Vi unirete a noi e farete parte del grande esercito di Dio?» Ci fu assoluto silenzio. Ford strinse la mano di Kate. Avrebbe voluto che parlasse, che accettasse, ma se non riusciva a farlo lui, come poteva sperare che ci riuscisse lei? «Neanche uno di voi ripudia l'eresia e accetta Gesù? Neanche uno vuol essere salvato dal fuoco di questo mondo e dal fuoco eterno di quello successivo?» Ford provò un improvviso moto di rabbia e alzò la testa. «Io sono cristiano, cattolico. Non devo ripudiare nessuna eresia.» Eddy fece un profondo respiro e parlò con voce tremula, tenendo con fare teatrale la mano sollevata verso la folla in ascolto. «I cattolici non sono cristiani. Lo spirito cattolico è animato dall'adorazione idolatra della beata Vergine Maria.» Si levò un mormorio titubante di assenso. «È lo spirito del demonismo, evidente nella vana ripetizione dell'Ave Maria nel Rosario. È il culto pagano degli idoli che viola i comandamenti di Dio.» Ford si sentì sopraffare dalla rabbia ma riuscì a controllarsi e si alzò. «Come osi» disse in tono sommesso. «Come osi.» Eddy sollevò la pistola e gliela puntò contro. «I preti hanno fatto a tutti voi cattolici il lavaggio del cervello per millecinquecento anni. Voi non leggete la Bibbia, fate quello che i preti vi dicono. Il vostro papa prega davanti a idoli e bacia i piedi delle statue. La Parola di Dio è chiara: dobbiamo inchinarci a Gesù e a nessun altro, non a Maria o ai "cosiddetti" santi. Rinuncia alla tua religione blasfema altrimenti subirai l'ira del Signore nostro Dio.» «Siete voi i veri blasfemi» replicò Ford, fissando il folle gregge alle sue spalle. Eddy alzò la pistola tremante e la puntò contro l'occhio destro di lui. «La vostra chiesa è stata partorita dall'inferno! Rinunciate a essa!» «Mai.» La pistola smise di tremare, quando Eddy prese la mira a una decina di centimetri di distanza, tenendo il dito pronto sul grilletto. Capitolo 76 Il reverendo Don T. Spates sbatté giù il ricevitore del telefono. Era anco-
ra fuori uso. Anche la connessione Internet non funzionava. Pensò di andare nella sala riservata ai media della Silver Cathedral e accendere il televisore per vedere se ci fossero notizie, ma non ci riusciva. Aveva paura di uscire, paura di alzarsi dalla scrivania, paura di quello che avrebbe potuto scoprire. Guardò l'orologio. Le quattro e trenta del mattino. Mancavano due ore all'alba. Quando il sole si fosse alzato, sarebbe andato da Dobson. Si sarebbe messo nelle mani dell'avvocato. Lui avrebbe pensato a tutto. Certo, gli sarebbe costato un po', ma dopo quanto era accaduto le donazioni sarebbero arrivate a fiumi. Doveva solo resistere alla bufera. Ne aveva già superate tante in passato, come quando le due prostitute avevano raccontato di lui ai giornali. Allora aveva creduto che il suo mondo fosse finito, invece un mese dopo era tornato al lavoro, a predicare nella cattedrale, e ora era il tele-evangelista più popolare sulla piazza. Prese il fazzoletto, si tamponò con cura il viso, si asciugò occhi, fronte, naso e bocca. Sul lino bianco era rimasta una macchia marrone di trucco. Lo guardò disgustato e lo gettò nel cestino dei rifiuti. Si versò un'altra tazza di caffè, lo corresse con un po' di vodka e lo buttò giù con mano tremante. Posò la tazza con tanta forza che la spezzò in due. La rara tazza di Sèvres si era spaccata esattamente al centro, come se l'avessero tagliata di proposito. Tenne i pezzi in mano e li fissò, poi, in preda a una furia improvvisa, li scagliò in mezzo alla stanza. Si alzò in piedi barcollando, andò alla finestra, la spalancò e guardò fuori. All'esterno tutto era buio e silenzioso. Il mondo dormiva, ma non in Arizona. Laggiù stavano probabilmente succedendo cose terribili ma la colpa non era sua. Lui aveva dedicato la sua vita a compiere l'opera di Cristo sulla Terra. Io credo nell'onore, nella religione, nel dovere e nel Paese. Se solo il sole fosse sorto. Si immaginò negli uffici dell'avvocato sulla 13a Strada, in quell'ambiente rivestito di pannelli di legno dai colori tenui, coccolato e accudito, e provò conforto. Alle prime luci avrebbe svegliato l'autista e si sarebbe diretto a Washington. Mentre guardava le strade buie, lucide di pioggia, udì un suono lontano di sirene. Un attimo dopo vide qualcosa percorrere Laskin Road: alcune auto della polizia e un cellulare con i lampeggianti accesi, seguiti da vari furgoni. Si ritirò e chiuse con forza le persiane, mentre il cuore gli martellava forte. Non venivano per lui, no di certo. Che cosa gli prendeva? Tornò alla scrivania con l'intento di bere altro caffè con vodka, poi si ricordò del-
la tazza rotta. All'inferno la tazza. Prese la bottiglia in mano, la avvicinò alle labbra e ne trangugiò una sorsata. La posò ed espirò. Probabilmente andavano a stanare i negri dallo yacht club in fondo alla strada. Un forte schianto nella Silver Cathedral lo fece trasalire. All'improvviso ci furono rumori, voci, grida e lo strepitio delle radio della polizia. Spates non riuscì a muoversi. Un attimo dopo la porta dello studio si spalancò con gran fragore e gli uomini dell'FBI, protetti da giubbotti antiproiettile, fecero irruzione, accovacciandosi a terra con le armi puntate. Li seguiva un energumeno di colore con la testa rasata. Il reverendo rimase seduto, senza capire. «Il signor Don Spates?» domandò l'agente, mostrando il distintivo. «Federal Bureau of investigation. Agente speciale in comando Cooper Johnson.» Spates non riuscì a proferire la minima parola. Si limitò a fissarlo. «Lei è il signor Don Spates?» Lui annuì. «Metta le mani sul tavolo, signor Spates.» Il reverendo alzò le mani grasse, costellate di macchie della vecchiaia e le posò sulla scrivania. «Si alzi tenendo le mani in vista.» Spates si sollevò goffamente, rovesciando la sedia che, con uno schianto, cadde sul pavimento alle sue spalle. «Ammanettatelo.» Un agente avanzò, gli afferrò saldamente un avambraccio e glielo piegò dietro la schiena, per fare quindi lo stesso con l'altro. Stupefatto, Spates sentì il freddo acciaio a contatto con i polsi. Johnson gli si avvicinò e gli si piazzò davanti con le braccia conserte e le gambe divaricate. «Signor Spates?» Lui lo fissò. Aveva la mente vuota. L'agente parlò con voce bassa e rapida. «Ha il diritto di rimanere in silenzio. Tutto quello che dirà potrà essere usato contro di lei in tribunale. Ha il diritto di richiedere la presenza di un avvocato. Se non può permettersi un legale, gliene verrà fornito uno d'ufficio. Mi ha capito?» Il reverendo lo fissò. Non era possibile che stesse succedendo davvero a lui.
«Mi ha capito?» «Cos..?» «È ubriaco, Cooper» disse un altro uomo. «Non ti preoccupare, basterà che gli ripetiamo i suoi diritti.» «Hai ragione.» Johnson lo prese per il braccio. «Andiamo, amico.» Un secondo agente lo afferrò dall'altra parte, gli diedero una piccola spinta e si incamminarono verso la porta. «Aspettate!» gridò Spates. «State commettendo un terribile errore!» Continuarono a spingerlo e nessuno gli prestò la minima attenzione. «Non sono io quello che cercate! Avete preso l'uomo sbagliato!» Un agente aprì la porta ed entrarono nella Silver Cathedral tutta buia. «È Crawley quello che volete, Booker Crawley della Crawley & Stratham! È stato lui! Io ho eseguito solo le sue direttive, non sono responsabile! Non avevo idea che accadesse una cosa del genere! È colpa sua!» La sua voce isterica riecheggiò incredibilmente in quell'ampio spazio chiuso. Lo scortarono nella navata laterale, oltre i posti bui della claque, oltre le sfarzose poltroncine di velluto che gli erano costate trecento dollari l'una, le colonne rivestite di vero argento, l'atrio di marmo italiano fino all'ingresso principale. Lì fu accolto da una massa brulicante di cronisti, accecato da una miriade di flash e tempestato da una valanga di domande. Spates batté le palpebre e restò con la bocca aperta, come una mucca condotta al macello. Un cellulare dell'FBI aspettava con il motore acceso al termine di uno stretto corridoio che avevano lasciato libero per il loro passaggio. «Reverendo Spates! Reverendo Spates! È vero che...?» «Reverendo Spates!» «No!» gridò lui, recalcitrando. «Là dentro no! Sono innocente! È Crawley quello che cercate! Se mi lasciate tornare nel mio ufficio, ho il suo indirizzo in rubrica...» Due agenti aprirono il portellone posteriore. Spates si dimenò. I flash scattavano a centinaia ogni secondo. Gli obbiettivi puntati su di lui brillavano come una marea di occhi. «No!» Il reverendo oppose resistenza sulla soglia, al che venne spintonato brutalmente. Incespicò, si girò e supplicò. «Vi prego, ascoltatemi!» Emise un singhiozzo forte, accompagnato da un potente risucchio. «È Crawley quello che state cercando!»
«Signor Spates?» disse l'agente in comando, sporgendosi oltre il portellone. «Risparmi il fiato. Avrà molto tempo per raccontare la sua storia. D'accordo?» Due agenti salirono con lui, uno per lato, lo fecero sedere e lo ammanettarono a una sbarra, poi gli legarono la cintura di sicurezza. Il portellone si richiuse sbattendo, tagliando fuori il baccano. Spates emise un altro profondo singhiozzo che quasi lo soffocò, poi inspirò un po' d'aria. «State commettendo un terribile errore!» piagnucolò mentre il cellulare si scostava dal marciapiede. «Non sono io quello che cercate, ma Crawley!» Capitolo 77 Ford fissò la canna del revolver e l'occhio lucente di acciaio ricambiò il suo sguardo. Senza volere, gli affiorarono alle labbra le parole della confessione. Cominciò a farsi il segno della croce e a sussurrare: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo...». «Lodate Dio!» tuonò una voce nel silenzio della folla in attesa. Si voltarono tutti. Dal buio era apparso un navajo a piedi, con una camicia di pelle scamosciata e una bandana in testa. Conduceva una fila di cavalli e impugnava una pistola che agitava in alto sopra la testa. «Lodate Dio e Gesù!» Cominciò a farsi strada in mezzo alla calca che si divise per lasciarlo passare. Ford riconobbe Willy Becenti. Eddy continuò a tenere la pistola puntata contro di lui. «Lodate Dio e Gesù!» gridò di nuovo l'uomo, conducendo i cavalli nella loro direzione e costringendo la gente in ginocchio a spostarsi. «Lodate il buon Signore! Amen, fratello!» «Lodate Dio!» fu la risposta automatica dei presenti. «Lodate Gesù!» «Lodate Gesù!» esclamò ancora una volta Willy. «Siamo fratelli in Cristo! Siamo venuti per unirci a voi!» I cavalli erano nervosi, si impennavano e roteavano gli occhi. La folla era impaurita e indietreggiava. Dietro gli animali, nella luce rossastra, si stagliò un'altra sagoma in groppa a un cavallo, che controllava il gruppo da dietro. Ford riconobbe Nelson Begay, lo sciamano. Becenti fece fermare i cavalli agitati proprio davanti al gruppo degli scienziati. Gli animali si ammassarono, continuando a roteare gli occhi e a scuotere le teste, tenuti a stento sotto controllo.
La massa continuò ad arretrare, spaventata. «Cosa state facendo con quei cavalli?» urlò infuriato Eddy. «Vogliamo unirci a voi!» Becenti lo guardò a bocca aperta con aria idiota e, come per sbaglio, lasciò cadere una lunghina. Il cavallo in testa cercò di rinculare, al che il ragazzo mise un piede sulla corda bloccandolo. «Whoa, figlio di puttana!» gridò. Si chinò per recuperarla e durante quel rapido movimento parlò al gruppo in modo da farsi a malapena udire. «Al mio comando» disse, «salite in sella e ce ne andremo di qui.» Doke avanzò nello spiazzo davanti a Eddy e Ford. «D'accordo, amico, sarà meglio che mi dica chi sei e cos'hai appena detto ai prigionieri.» «Mi hai sentito, fratello» gemette Becenti con voce acuta. «Sono un amico in Cristo! Ho pensato poteste aver bisogno di cavalli!» «Stai scombinando i nostri piani, imbecille. Porta via i cavalli da qui.» «Certo, certo, scusami, volevo solo dare una mano.» Becenti si girò. «Buoni, buoni!» gridò, agitando frenetico le mani. «Tranquilli! Buoni!» Le sue grida parvero solo innervosire ancor di più gli animali. Li afferrò per la cavezza e cominciò a muoversi per indurli a spostarsi, ma pareva incapace di gestirli. Quando i cavalli non obbedirono, agitò un lazo avvolto; questi si girarono bruscamente costringendo Doke ed Eddy a indietreggiare e a stringersi tra loro e i prigionieri. Un cavallo arretrò. «Togliete di mezzo questi cavalli!» urlò Doke, cercando di spostarli. «Lodate Gesù e i santi!» Becenti agitò di nuovo la pistola sopra la testa e urlò: «Ora!». Ford afferrò Kate e la buttò su un roano, mentre Becenti issava la Chen su un pony pezzato, poi aiutò Cecchini a salire dietro di lui su un buckskin. La Corcoran e St. Vincent si arrampicarono in groppa a un altro cavallo. Innes saltò su un sauro e, in dieci secondi, erano tutti in sella. Tutti disponevano di un cavallo, due di un pony. «Fermateli!» gridò Dolce, cercando di farsi strada tra la folla agitata. Prese il fucile e lo estrasse dal fodero che portava sulla schiena. Eddy aveva sollevato l'arma per puntarla contro Ford. «Lodate il Signore!» gridò Becenti, facendo girare il cavallo che spintonò il pastore con un gran scalpitare di zoccoli. L'uomo cadde all'indietro mentre la pistola sparava in aria e piombò a terra. In un lampo Willy spronò il cavallo contro Doke, che gettò il fucile e si buttò di lato. Becenti sollevò il lazo avvolto e, facendolo roteare, urlò: «Hiiyaahh!». Già molto nervosi, gli animali non ebbero bisogno d'incitazioni. Caricarono la folla e la dispersero. Quando furono lontani, Becenti piegò verso
destra e li condusse al galoppo al riparo, in un avvallamento sabbioso. Alle loro spalle si udiva sparare: una serie discontinua di colpi nel buio. Loro però erano ormai al sicuro e i proiettili passavano ronzando sopra le loro teste. «Hiiyaahh!» gridò Becenti. I cavalli sfrecciarono lungo l'avvallamento, curva dopo curva, finché il rumore degli spari non fu debole e lontano e le urla della folla si dileguarono quasi del tutto. A quel punto passarono a un trotto veloce. Alle loro spalle, a grande distanza, Ford udì il motore di una moto andare su di giri. «Hai sentito, Willy?» gridò Begay dal fondo. «Qualcuno ha un enduro.» «Merda!» esclamò lui. «Dobbiamo liberarci di quel figlio di puttana. Tenetevi forte!» Uscì dall'avvallamento e salì un argine di roccia nuda. Gli zoccoli risuonarono forti sull'arenaria. Giunti in cima, attraversarono di corsa una distesa di dune diretti a un profondo torrente che si apriva in fondo. Si udì un brontolio e l'intera mesa tremò. Nubi scure di polvere si levarono nel cielo e a un centinaio di metri alla loro destra il fuoco scaturì dal terreno. Con un crepitio un pino prese fuoco, e poi un altro ancora. Una poderosa esplosione rimbombò alle loro spalle, seguita da una seconda, entrambe in direzione del bordo orientale della mesa. Il rombo della moto era sempre più vicino. Stava guadagnando rapidamente terreno. «Hiiyaahh!» gridò ancora Becenti mentre superava di corsa il bordo del ruscello e si buttava dall'altra parte, scendendo il pendio che conduceva al fondo. Ford lo seguì stringendo bene il roano con le gambe mentre Kate si teneva aggrappata a lui. Capitolo 78 Il cavallo di Ford si lanciò al trotto sul morbido pendio tenendo il peso all'indietro e piantando le zampe nella sabbia. Il ruggito dell'enduro risuonò sul bordo dell'arroyo, Ford all'improvviso sentì un proiettile cozzare contro una roccia alla sua sinistra. Il gruppo in fuga raggiunse il fondo e lo percorse al galoppo. Ford sentiva la moto correre sopra di loro, lungo l'orlo. Becenti frenò il cavallo. «Ci sta tagliando la stradai Tornate indietro!»
L'enduro rallentò fino a fermarsi sul ciglio del sentiero, facendo cadere una valanga di sabbia nel torrente, Doke piantò i piedi a terra, estrasse il fucile e prese la mira. Fecero dietrofront quando risuonò il primo sparo, che sollevò un getto di sabbia accanto a Wyman. Trovarono momentaneamente riparo dietro a una frana. Partì un altro colpo, che passò gemendo sopra le rocce. Ford si rese conto che erano bloccati nel ruscello: non potevano andare avanti né indietro. L'uomo aveva una linea di tiro sgombra in entrambe le direzioni, su entrambi i lati. L'argine sopra di loro era troppo ripido per poterlo risalire. Un altro colpo sollevò un getto di sabbia proprio alle loro spalle. Dall'alto provenne una risata rauca. «Potete correre, empi senza Dio, ma non potete nascondervi!» «Willy!» disse Begay. «È proprio ora che tiri fuori la tua pistola.» «Non è... carica.» «Perché diavolo non lo è?» Lui assunse un'aria imbarazzata. «Non volevo che qualcuno si facesse male.» Begay alzò le mani al cielo. «Magnifico, Willy.» Ford sentì un altro sparo. Il colpo passò proprio al di sopra delle loro teste e, con un rumore sordo, finì nell'argine opposto. «Adesso arrivo!» gridò trionfante Doke. «O cazzo, amici, adesso che si fa?» chiese Becenti. Il suo cavallo si impennava e sbuffava nella calca. Ford udì Doke scivolare lungo il pendio. In breve avrebbe raggiunto il fondo, dove avrebbe avuto una linea di tiro sgombra lungo tutto l'arroyo. Forse non li avrebbe sterminati tutti, ma ne avrebbe di certo uccisi parecchi prima che potessero trovare riparo più avanti. «Kate, sali sul cavallo di Begay.» «Cosa vuoi fare?» domandò lei. «Muoviti!» «Wyman, non sai cavalcare...» «Maledizione, Kate, ti vuoi fidare di me per una volta?» Kate saltò direttamente dal loro cavallo e si piazzò alle spalle di Begay. «Dammi la pistola.» Becenti gliela lanciò. «Buona fortuna, amico.» Ford raccolse la criniera del cavallo con la mano sinistra e se l'avvolse attorno al polso, quindi lo fece girare dalla parte in cui sarebbe apparso Doke.
«Stringilo con le ginocchia» gli suggerì Kate, «e tieni il peso basso, centrato.» In quel momento spuntò Doke: grugniva e scivolava lungo il pendio sabbioso. Raggiunse il fondo e sul suo volto apparve un ampio ghigno di esultanza. Ford spronò il cavallo sui fianchi. L'animale balzò in avanti e scattò lungo il torrente, dritto verso Doke. Ford gli puntò contro la pistola e urlò «Aiyaaah!». Colto di sorpresa e turbato dall'improvvisa comparsa della pistola, Doke si tolse bruscamente il fucile di spalla, si inginocchiò e lo puntò, ma era troppo tardi. Il cavallo era quasi sopra di lui e fu costretto a gettarsi di lato per non essere calpestato. Ford lo colpì con la pistola mentre continuava a galoppare, poi girò a destra e salì di corsa il ripido argine. «Figlio di puttana!» urlò Doke, rimettendosi in posizione e sparando proprio mentre il cavallo di Ford superava il bordo. Davanti, aveva un tratto scoperto, una serie di massi gibbosi e dietro una distesa di sabbia spazzata dal vento, attraversata da una vaga pista. Ford la riconobbe: il primo giorno del suo arrivo Hazelius lo aveva accompagnato ad ammirare il panorama. Un proiettile gli passò accanto all'orecchio, ronzando come un calabrone. La pallottola seguente ferì il cavallo, che balzò di lato emettendo un verso stridulo. L'animale traballò ma non crollò a terra. Ford si appiattì sulla sua schiena e lo indirizzò al passo verso la distesa di sabbia, verso la pista che conduceva sull'orlo della mesa. In un lampo si ritrovò sul sentiero, tra i massi gibbosi. Zigzagò, tenendosi al coperto, continuando a salire. Sentiva il cavallo grugnire e ansimare, probabilmente era stato colpito al ventre. Non riusciva a credere al suo coraggio. Il lungo tratto scoperto si stagliava davanti a lui. Doke avrebbe dovuto attraversare il profondo torrente in secca per seguirlo, così avrebbe avuto il tempo di raggiungerne l'estremità, sempre che il cavallo reggesse allo sforzo. Si afferrò alla criniera e, stando basso, galoppò come un matto sulla sabbia. A metà strada udì il rombo della moto, molto più vicino. Doke aveva superato l'arroyo. Dal ruggito sempre più forte del motore intuì che stava guadagnando velocemente terreno; sapeva tuttavia che non poteva sparare mentre guidava. Ford risalì il pendio, stavolta abbandonando la pista sulla quale Doke a-
vrebbe potuto vederlo. Lo sentiva cambiare le marce. Il motore a due tempi dell'enduro ululava fuori giri. Proprio in cima, nascosta da rocce sparse e ginepri, la mesa scendeva di colpo a perpendicolo. Ford tirò la lunghina fermando il cavallo e saltò a terra. Si gettò dietro a un cumulo di massi proprio mentre Doke lo superava. Con le robuste braccia tatuate sul manubrio e i capelli dorati che ondeggiavano come una criniera di fuoco, Doke sfrecciò a cento chilometri all'ora e volò oltre il bordo. Un istante dopo era in aria, il motore urlante, spinto alla massima velocità, le ruote che giravano, accompagnato da un suono acuto come un verso d'aquila. Ford si girò a guardare moto e motociclista piombare nell'oscurità mentre il gemito del motore veniva alterato dall'effetto Doppler via via che precipitava nel paesaggio sottostante. L'ultima cosa che vide fu il guizzo dei capelli chiari dell'uomo: pareva Lucifero scagliato giù dal cielo. Rimase a lungo in ascolto, poi trecento metri più in basso comparve una minuscola corolla di fuoco e alcuni secondi dopo si udì il rimbombo lontano dell'impatto. Ford uscì strisciando da dietro il sasso e si alzò. Il roano era steso a terra, morto. Si inginocchiò e lo accarezzò. «Mi dispiace.» Si rimise in piedi, consapevole d'un tratto di quanto gli facesse male tutto il corpo: le costole rotte, i lividi, i tagli, l'occhio gonfio. Si girò, si appoggiò all'antico sasso e guardò Red Mesa. L'unica cosa che gli venne in mente fu Il Giudizio Finale di Hieronymus Bosch. L'estremità orientale della mesa, dove prima si trovava Isabella, era una gigantesca colonna di fuoco rovente che saliva nel cielo della notte quasi volesse bruciare le stelle, circondata da incendi più piccoli e fuochi infernali che, per chilometri, vomitavano fumo dalle crepe e dai buchi. La terra tremava e sussultava in continuazione per le esplosioni e una violenza invisibile faceva vibrare l'aria stessa. Alla sua destra, a circa ottocento metri, gli si parava davanti agli occhi uno spettacolo surreale: un migliaio di macchine in fiamme, piccole palle di fuoco in miniatura scagliate in aria dall'esplosione dei serbatoi, che sobbalzavano e scoppiettavano come petardi. In quel paesaggio spaventoso e infernale le persone vagavano senza meta o correvano urlando idiotamente. Ford scese dal rilievo e raggiunse gli altri che stavano attraversando la distesa sabbiosa. «È andato» annunciò. «Oltre il bordo.»
«Amico» osservò Becenti, «cavalchi da schifo ma hai fatto fare un gran volo a quel figlio di puttana.» «Come un carro di fuoco» commentò Kate. «Il cavallo?» domandò Begay. «Morto.» Il navajo tacque, cupo in volto. Dopo dieci minuti arrivarono alla spaccatura in cima alla Pista di mezzanotte. Rimasero un istante sul bordo della mesa, sulla sommità della pista a guardare indietro. La terra tremò per una poderosa deflagrazione e un brontolio si propagò per Red Mesa come un tuono, interrotto di tanto in tanto dal crepitio di piccole esplosioni più lontane. «Guardate verso la Navajo Mountain» disse Kate, indicando il cielo. Si voltarono a occidente. Sopra la montagna era apparsa una serie di luci che si stava avvicinando rapida, accompagnata da un battito sempre più forte. «Arriva la cavalleria!» commentò Begay. Ci furono un altro brontolio e altre fiamme. Mentre Ford seguiva Kate nella spaccatura, lanciò un'ultima occhiata alle sue spalle. «È incredibile» disse lei piano. «L'intera mesa brucia.» Persino mentre guardavano, un serpente di polvere, prodotto dal crollo violento dell'ennesima galleria, spazzò il tavolato e si avvicinò pericolosamente a loro. Kate si voltò verso il gruppo e parlò con tono energico. «Ho una cosa importante da dirvi.» Gli scienziati sfiniti sollevarono comunque la testa nella sua direzione. «Se cadiamo nelle mani delle autorità» disse, «verremo interrogati e tutto quello che è successo qui verrà segretato. La nostra storia non verrà presa sul serio.» Tacque scrutandoli con aria battagliera. «Noi invece li eluderemo e raggiungeremo Flagstaff con le nostre forze. Lì, a Flagstaff, parleremo al mondo, a modo nostro. Racconteremo a tutti della nostra versione dei fatti.» La fila di elicotteri si avvicinava tra i battiti dei rotori. Senza attendere risposta, Kate cominciò a discendere sulla pista. La seguirono tutti. Capitolo 79
Dov'era? Cos'era quel luogo? Da quanto tempo girovagava? I particolari gli sfuggivano. Era accaduto qualcosa. La terra era esplosa e stava bruciando. L'Anticristo ne era l'unico responsabile e lui lo aveva fatto ardere vivo. Allora dov'era... il Messia? Perché Cristo non era tornato a redimere gli eletti e a rapirli in Estasi in cielo? Aveva i vestiti a brandelli, i capelli bruciacchiati, le orecchie gli ronzavano, i polmoni gli facevano male ed era così buio... ovunque andasse, un fumo acre fuoriusciva dalle spaccature. Una caligine scura avvolgeva tutta la terra come una nebbia e non vedeva a più di dieci passi di distanza. Un'immagine apparve ai limiti del suo campo visivo: era arrotondata, vagamente umana e gli faceva cenno. «Tu!» gridò e si precipitò verso la sagoma, attraversando il terreno sassoso. Incespicò sul ceppo di un pino morto, ridotto per il resto a un cerchio di ceneri. La sagoma rimase dov'era, incombente. «Doke!» urlò e la sua voce suonò smorzata dal fumo. «Doke! Sei tu?» Nessuna risposta. «Doke! Sono io, il pastore Eddy!» Corse, inciampò e cadde. Rimase steso un attimo a respirare l'aria più fresca e pulita al livello del terreno. Si rialzò, estrasse un fazzoletto e cercò di respirare attraverso la stoffa. Fece ancora qualche passo, e qualche altro ancora. L'oggetto scuro diventò più grande. Non era Doke. Non era un uomo. Allungò la mano per toccarlo. Era una roccia secca, calda al tatto, in equilibrio su un pilastro di arenaria. Eddy tentò di concentrarsi, ma recuperò solo visioni frammentarie. La missione... la roulotte... il giorno dei vestiti. Ricordò di essersi lavato la faccia con la vecchia pompa d'acqua, di aver predicato a una decina di persone con il vento che sollevava la sabbia, di aver chattato al computer con i suoi amici cristiani. Com'era arrivato lì? Si scostò dalla roccia, incapace di vedere nella caligine sempre più fitta. Alla sua destra un bagliore e un lieve rombo. Un fuoco? Andò a sinistra. Sul terreno c'era un coniglio arso vivo. Lo toccò con lo stivale e quel coso si mosse in modo convulso, ricadde sulla schiena con gli occhi spalan-
cati dal terrore, i fianchi si sollevavano e abbassavano. «Doke!» gridò, poi si chiese: Chi è Doke? «Aiutami, Gesù» gemette. Tutto tremante, s'inginocchiò e giunse le mani alzandole al cielo. Il fumo turbinò attorno a lui. Eddy tossì. Gli occhi gli lacrimavano come fontane. «Aiutami, Gesù.» Niente. Si udì un brontolio lontano. Alla sua destra il bagliore tremolante stava salendo, sembrava un artiglio arancione intenzionato a graffiare il cielo. La terra cominciò a tremare. «Gesù! Aiutami!» Il pastore pregava con fervore, ma nessuna voce gli rispose. Non gli giunsero parole, nella sua testa non c'era niente. «Salvami, signore Gesù!» gridò. Poi, all'improvviso, un'altra sagoma prese forma nell'oscurità. Eddy balzò in piedi, travolto da un profondo sollievo. «Gesù, sono qui! Aiutami!» «Ti vedo» disse una voce. «Grazie, o grazie! In nome del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo!» «Sì» rispose la voce. «Dove sono, che cos'è questo posto?» «Bello...» rispose la figura incombente. Eddy singhiozzò, sollevato. Tossì di nuovo, violentemente, sotto il logoro fazzoletto sul quale comparve una macchia nera. «Bello... ti porterò in un bel posto.» «Sì, ti prego, portami via da qui!» Eddy tese le mani. «Laggiù è tanto bello...» Il bagliore rossastro del fuoco alla sua destra aumentò all'improvviso, gettando sinistri riflessi sulla caligine scura. La figura, illuminata di rosso opaco, si avvicinò e ora Russell vide il volto, la bandana sulla testa, le lunghe trecce sulle spalle, una mezza sfatta, gli occhi scuri velati, la fronte alta... Lorenzo! «Tu...» Eddy arretrò. «Ma... tu sei... morto. Ti ho visto morire.» «Morto? I morti non muoiono mai, lo sai. I morti continuano a vivere, bruciati e torturati dal Dio che li ha creati. Il Dio dell'amore. Bruciati perché hanno dubitato di Lui, perché erano confusi, esitanti o ribelli; tormentati dal loro Padre e Creatore per non aver creduto in Lui. Vieni... e ti mostrerò...» La sagoma gli tese la mano con un sorriso terrificante. Ora Eddy notò le macchie rosse: aveva i vestiti impregnati dal collo in giù, come se
lo avessero immerso in un bagno di sangue, «No... va' via da me...» Eddy indietreggiò ancora. «Aiutami, Gesù...» «Io ti aiuterò... sono io la tua guida e ti porterò in un bel posto...» La terra tremò e si aprì sotto i piedi di Eddy trasformandosi all'improvviso in una fornace arancione accecante e assordante. Eddy cadde e continuò a cadere in quel calore terribile, in quel calore impossibile... Aprì la bocca per gridare, ma non emise alcun suono. Nemmeno uno. Capitolo 80 Lockwood guardò il grande orologio appeso alla parete rivestita di pannelli di legno alle spalle del presidente. Erano le otto del mattino. Il sole era sorto, il mondo stava andando al lavoro e il traffico sulla Beltway stava come al solito rallentando fin quasi a passo d'uomo. Lì si trovava ieri: in macchina, bloccato sulla Beltway con il condizionatore al massimo, intento ad ascoltare Steve Inskeep alla radio. Oggi il mondo era cambiato. La Guardia nazionale era atterrata a Red Mesa in orario, alle quattro e quarantacinque del mattino, a circa cinque chilometri dalla ex sede di Isabella. La missione tuttavia aveva subito alcuni intoppi. L'assalto si era trasformato in un'operazione di salvataggio: soccorso ed evacuazione dei feriti, nonché recupero dei cadaveri sparsi sulla mesa. Il fuoco era diventato incontrollabile. Disseminata com'era di carboni bituminosi, la montagna avrebbe probabilmente continuato a bruciare per tutto il secolo seguente finché non sarebbe scomparsa del tutto. Isabella non c'era più. La macchina da quaranta miliardi di dollari era un groviglio di rottami in fiamme, scagliati dalla cima fino al deserto sottostante. Il presidente entrò nell'Unità di crisi e subito tutti si alzarono. «Seduti» ringhiò, sbattendo alcuni giornali sul tavolo e accomodandosi. Aveva dormito un paio d'ore ma il breve riposo non aveva che peggiorato il suo umore. «Siamo pronti?» chiese. Premette quindi un tasto sulla sedia e sul monitor comparve il volto dai tratti marcati del direttore dell'FBI, vestito impeccabile e capelli brizzolati perfettamente in ordine. «Jack, aggiornaci.» «Sì, signor presidente. La situazione è ormai sotto controllo.»
Il presidente tese le labbra, scettico. «Abbiamo evacuato la mesa. I feriti sono stati trasportati negli ospedali della zona. Mi addolora comunicare che tutti i membri della nostra squadra di Recupero ostaggi hanno perso la vita nel conflitto.» «E gli scienziati?» domandò il presidente. «A quanto pare, l'équipe scientifica è scomparsa.» Il presidente si prese la testa tra le mani. «Non si sa niente di loro?» «Non abbiamo nemmeno una traccia. Al momento dell'attacco alcuni potrebbero essere fuggiti nella vecchia miniera, dove probabilmente saranno stati sorpresi dall'esplosione, dal fuoco e dai crolli. Siamo tutti concordi nel ritenere che non siano sopravvissuti.» Il presidente continuò a tenere la testa china. «Non abbiamo ancora informazioni su quanto è successo, sulle ragioni del blocco del sistema di comunicazioni di Isabella. Potrebbero essere legate all'attacco... semplicemente non lo sappiamo. Stiamo recuperando una miriade di cadaveri e parti di corpi, molti carbonizzati al punto da risultare irriconoscibili. Stiamo ancora cercando il corpo di Russell Eddy, il predicatore squilibrato che ha incitato le folle su Internet. Potremmo aver bisogno di settimane, forse di mesi per individuare e identificare tutti i morti. Alcuni non saranno mai ritrovati.» «E Spates?» «È sotto custodia e lo stiamo interrogando. A quanto riferito, collabora. Abbiamo messo sotto custodia anche Booker Crawley della Crawley & Stratham di R Street.» «Il lobbista?» chiese il presidente, alzando lo sguardo. «In che modo è coinvolto?» «Ha pagato di nascosto Spates perché predicasse contro Isabella in modo da estorcere più denaro al suo cliente: la nazione Navajo.» Il presidente scosse la testa stupefatto. Galdone, il responsabile della campagna elettorale, spostò la sua grossa mole. Sembrava avesse dormito con addosso il vestito e avesse usato la cravatta per lucidare la sua Buick. Aveva anche un gran bisogno di farsi la barba. È un essere davvero ripugnante, pensò Lockwood. Si stava accingendo a parlare e tutti si voltarono verso l'oracolo. «Signor presidente» esordì, «dobbiamo pensare all'esposizione dei fatti. Mentre parliamo, la colonna di fumo che si alza dal deserto è su tutti gli schermi televisivi d'America e la nazione si aspetta una spiegazione. Per fortuna, grazie alla lontananza di Red Mesa e al nostro rapido intervento
per chiudere lo spazio aereo e impedire l'accesso alla zona, gran parte della stampa è stata mantenuta a distanza. Non sono riusciti a trasmettere i particolari più raccapriccianti. Possiamo ancora trasformare il disastro in un evento "amico" dell'elettorato, che ci potrebbe procurare l'approvazione dell'opinione pubblica.» «Come?» domandò il presidente. «Qualcuno dovrà assumersene la colpa» disse in poche parole Lockwood. Galdone gli rivolse un sorriso condiscendente. «È vero che una storia ha bisogno di un capro espiatorio, ma noi ne abbiamo già due: Spates e Crawley. Due cattivi da film: un tele-evangelista ipocrita e puttaniere e un lobbista mellifluo e intrigante. Per non parlare di quello squilibrato di Eddy. No, quello che ci serve in realtà è un eroe.» «E chi potrebbe incarnare questo ruolo?» chiese il presidente scettico. «Non può essere lei, signor presidente. L'opinione pubblica non se la berrebbe. Non può essere il direttore dell'FBI: ha perso la sua squadra. Non può essere nessuno del DOE perché sono quelli che per primi hanno creato pasticci con Isabella. Non può essere uno scienziato perché a quanto pare non sono sopravvissuti. Non può essere un funzionario politico come me o Roger Morton: nessuno ci crederebbe.» Lo sguardo di Galdone smise di vagare e si posò su Lockwood. «Un uomo ha individuato precocemente il problema. Lockwood: lei. Un uomo di grande saggezza e preveggenza, che ha preso misure decisive per risolvere un problema che solo lui e il presidente avevano colto. Tutti gli altri dormivano: il Congresso, l'FBI, il DOE, io, Roger, tutti. Mentre gli eventi si susseguivano, lei si è sempre reso utile. Equilibrato, perspicace, era il confidente degli scienziati martirizzati: una figura determinante nella risoluzione della crisi.» «Gordon» osservò il presidente incredulo, «abbiamo fatto saltare in aria una montagna.» «Ma avete gestito brillantemente le conseguenze!» replicò Galdone. «Signori, il disastro Isabella non è un secondo Katrina, non si è trascinato per settimane. Signor presidente, lei e Lockwood avete predisposto l'uccisione e l'arresto dei cattivi e posto fine alla catastrofe... in una notte! La mesa è stata messa in sicurezza dalla Guardia nazionale...» «Messa in sicurezza?» ripeté il presidente. «La mesa sembra l'altra faccia della luna...» «... messa in sicurezza.» La voce di Galdone sovrastò quella del presi-
dente. «Grazie alla sua leadership risoluta, signor presidente, e al sostegno cruciale nonché inestimabile del suo fidato consulente scientifico, il dottor Stanton Lockwood, scelto da lei in persona.» Gli occhi di Galdone si posarono su Lockwood. «Questa, signori, sarà la nostra esposizione dei fatti. Non scordiamocela.» Inclinò la testa e sul suo collo grasso comparvero nuove pieghe. Fissando Lockwood, aggiunse: «Stan, si sente all'altezza del compito che l'aspetta?». Lockwood capì che alla fine ce l'aveva fatta. Adesso era uno di loro. «Perfettamente» rispose sorridendo. Capitolo 81 A mezzogiorno Wyman Ford e il gruppo uscirono dalla macchia di ginepri e attraversarono i pascoli sperduti di una piccola fattoria navajo. Dopo aver cavalcato per dieci ore, Ford era tutto dolorante e pesto, le costole rotte non gli davano tregua e la testa gli martellava. Aveva un occhio chiuso per il gonfiore e i denti anteriori scheggiati. L'appezzamento della sorella di Nelson Begay era il simbolo della pace e della tranquillità. Una pittoresca casetta di tronchi con le tendine rosse sorgeva al fianco di una radura di pioppi neri dai rami robusti, accanto al quale scorreva Laguna Creek. Dietro la piccola e graziosa dimora, su appositi blocchi, era sistemato un prefabbricato, con il rivestimento di alluminio rovinato dal vento, dal sole e dalla sabbia. Un gregge di pecore gironzolava e belava in un recinto mentre un cavallo solitario sbuffava e scalpitava nella stalla. Un recinto con quattro fili spinati correva tutt'intorno a due campi di mais. Un mulino ad aria cigolava allegro, mosso dal vento teso, pompando acqua in un serbatoio. Alcuni traballanti gradini di legno su un lato del serbatoio conducevano a un trampolino abbandonato alle intemperie. Due pickup erano parcheggiati all'ombra. Dalle finestre della casetta si diffondeva il suono di una radio che trasmetteva musica country. Sfiniti, senza aprir bocca, tolsero le selle e spazzolarono i cavalli. Una donna in jeans uscì dal prefabbricato: era sottile con i capelli neri lunghi. Abbracciò Begay. «Questa è mia sorella, Regina» disse lui, presentandola a tutti. Lei diede una mano con i cavalli. «Avete bisogno di lavarvi» affermò Regina. «Useremo il serbatoio. Prima le signore, poi i signori. Dopo che Nelson mi ha chiamato, vi ho procu-
rato un po' di abiti puliti. Sono nel prefabbricato. Se non vi stanno alla perfezione, non prendetevela con me. Ho sentito che hanno tolto i blocchi stradali a Cow Springs, perciò non appena il sole tramonterà, Nelson e io vi accompagneremo a Flagstaff.» Li guardò severa, come se fosse la comitiva più patetica che avesse mai visto. Forse era davvero così. «Mangeremo tra un'ora.» Per tutto il giorno gli elicotteri militari erano andati su e giù dalla mesa in fiamme. Uno sorvolò il cielo proprio in quel momento e Regina lo osservò, socchiudendo gli occhi. «Dov'erano quando avevate bisogno di loro?» Dopo pranzo, Ford e Kate si sedettero all'ombra di un pioppo all'estremità della stalla, a guardare i cavalli brucare sul pascolo sul retro della casa. Il ruscello scorreva ozioso sul suo letto di sassi. Il sole era basso nel cielo. A sud Ford vedeva il pennacchio di fumo che si levava da Red Mesa, una colonna nera obliqua che si disperdeva a formare una cortina marrone lungo tutto l'orizzonte. Rimasero seduti a lungo senza parlare. Era da tempo che ormai non riuscivano a stare soli. Ford la strinse con un braccio. «Come stai?» Lei scosse la testa senza rispondere e si asciugò gli occhi con un foulard pulito. Rimasero seduti all'ombra per un bel po' senza dirsi nulla. Le api ronzavano loro intorno, dirette a una serie di alveari al confine del campo. Gli altri membri del team stavano ascoltando la radio all'interno della casetta, che trasmetteva senza interruzioni le notizie del disastro. La voce flebile, metallica dello speaker si propagava nell'aria tranquilla. «Siamo i morti più famosi d'America» osservò Ford. «Forse dovremmo presentarci alla Guardia nazionale.» «Sai che non possiamo fidarci di loro» rispose Kate. «Tra poco conosceranno la verità, insieme al resto dell'America, quando arriveremo a Flagstaff.» Alzò il capo, si asciugò di nuovo gli occhi e frugò in tasca. Ne estrasse un fascio di fogli sporchi stampati. «Quando presenteremo questi al mondo.» Ford li fissò sorpreso. «Come te li sei procurati?» «Da Gregory, quando l'ho abbracciato.» Aprì quelle pagine e le lisciò sul ginocchio. «La stampata delle parole di Dio.» Ford non sapeva come iniziare a dirle quello che si ripeteva mentalmente da ore. Le pose invece una domanda. «Cosa intendi farne?»
«Dobbiamo divulgarle. Raccontare l'esperienza di cui siamo stati testimoni. Il mondo deve sapere. Wyman, quando arriveremo a Flagstaff, organizzeremo una conferenza stampa. Faremo un annuncio. La radio dice che tutti ci credono morti. In questo momento l'attenzione del mondo intero è rivolta a quanto è successo a Red Mesa. Pensa all'impatto che avremmo.» Il suo splendido viso, così devastato, così stanco, non era mai stato tanto vivo. «Un annuncio... a proposito di cosa?» Lei lo fissò come se fosse idiota. «Di quello che è accaduto. Della scoperta scientifica di...» Esitò solo un istante prima di pronunciare quella parola e poi lo fece con grande convinzione: «Dio». Ford deglutì. «Kate?» «Cosa?» «C'è qualcosa che dovresti sapere, prima. Prima che tu... faccia un simile passo.» «Cioè?» «Era...» tacque. Come confessargli la verità? «Era... cosa?» Lui esitò. «Tu sei con noi, vero?» gli chiese lei. Ford si domandò se sarebbe mai riuscito a dirle la verità. Tuttavia, doveva almeno provarci, altrimenti non se lo sarebbe mai perdonato. Oppure no? Guardò il suo volto, il ritratto della fede e della convinzione. Si era perduta e adesso aveva ritrovato la strada. Eppure, non poteva andarsene senza dirle ciò che sapeva. «Era una frode» rispose in fretta. Kate socchiuse gli occhi. «Cos'hai detto?» «Hazelius ha architettato l'intera faccenda. Era un piano per fondare una nuova religione, una specie di Scientology.» Lei scosse il capo. «Wyman... non cambi mai, vero?» Ford cercò di prenderle la mano, ma Kate la scostò rapida, indispettita. «Non posso credere che stai cercando di far questo» affermò d'un tratto infuriata, «proprio non posso.» «Kate, me lo ha confessato Hazelius. Lo ha ammesso nella miniera. È tutta una truffa.» Lei scosse di nuovo il capo. «Hai cercato in tutti i modi di ostacolarci, di screditare quello che è successo ma non avrei mai creduto che potessi cadere tanto in basso, che arrivassi a mentire così spudoratamente.» «Kate...»
Lei si alzò. «Wyman, non attacca. So che non riesci ad accettare quello che è accaduto. Non riesci a mollare la fede cristiana. Ma dici cose senza senso: se Gregory si fosse inventato tutto, lo avrebbe ammesso davanti a qualcuno? In particolare davanti a te?» «Pensava saremmo morti entrambi.» «No, Wyman, ciò che dici non ha senso.» Ford la guardò. Era animata da una fede ardente, non avrebbe mai cambiato idea. «Hai visto com'è morto? Ti ricordi quello che ha detto, le sue ultime parole? Sono impresse a fuoco nella mia mente. L'universo non scorda mai. Credi facesse parte della frode? No, Wyman, lui è morto da credente. Non si finge una cosa del genere. È rimasto in piedi tra le fiamme: persino mentre bruciava, con una gamba a pezzi, è rimasto in piedi. Non ha mai vacillato, mai ceduto, mai smesso di sorridere, non ha mai nemmeno chiuso gli occhi, tanto era forte la sua fede. E tu mi vieni a raccontare che era tutta una frode?» Lui non rispose. Non l'avrebbe indotta a cambiare idea e non era neanche certo di volerlo fare. Aveva avuto una vita così dura, troppi lutti da superare. Convincerla che Hazelius era un impostore avrebbe significato distruggerla, e forse la maggior parte delle religioni doveva basarsi in certa misura sull'inganno per prendere piede. In fondo, la religione si fondava non sui fatti, ma sulla fede. Era una «frode» spirituale. La guardò con un dolore pressoché inconsolabile. Hazelius aveva ragione: non c'era niente che lui, Volkonskij o altri potessero fare per fermarlo. Niente. Les jeux sont faites. Il dado è tratto. Ora comprese perché lo avesse ammesso senza problemi davanti a lui: sapeva che, anche se Ford fosse sopravvissuto, non avrebbe avuto il potere di fermarlo. Per questo aveva affrontato la morte con tanta determinazione e sorprendente dignità. Era l'atto finale del suo dramma ed era deciso a recitare bene il suo ruolo da protagonista. Era morto da vero credente. «Wyman» disse Kate, «se mi hai mai amato, credi e unisciti a noi. La religione cristiana è finita.» Tese la mano con il fascio di fogli stampati. «Come fare a non credere a questo, dopo quello che abbiamo passato?» Lui scosse la testa, incapace di rispondere. Il suo fervore lo riempiva d'invidia. Come sarebbe stato bello essere così sicuri della verità. Kate gettò le carte e gli prese le mani. «Insieme possiamo farcela. Rompi con il passato, scegli una nuova vita con me.»
Ford abbassò la testa. «No» rispose sommesso. «Puoi sempre cercare di credere. Con il tempo vedrai la luce. Non voltare le spalle a tutto questo. Non voltare le spalle a me.» «Sarebbe splendido stare con te, ma non durerebbe.» «Quello a cui abbiamo assistito all'interno della montagna è accaduto per mano di Dio. Lo so.» «Io non posso... Non posso vivere in base a qualcosa a cui non credo.» «Allora credi in me. Hai detto che mi amavi e che saresti rimasto con me. Lo hai promesso.» «A volte l'amore non basta, non per quello che hai in mente di fare. Ora vado. Saluta gli altri.» «Non andare.» Il suo volto si rigò di lacrime. Ford si chinò e la baciò sulla fronte, molto delicatamente. «Addio, Kate» disse. «E... che Dio ti benedica.» Un mese dopo Wyman Ford era seduto al Manny's Buckhorn Bar & Grill di San Antonio, nel Nuovo Messico, intento a mangiare un cheeseburger ai peperoncini verdi e a guardare la televisione dietro il bancone del bar. Era passato un mese dalla conferenza stampa di Flagstaff che aveva elettrizzato il mondo intero. Dopo aver incontrato Lockwood a Washington per un debriefing, in cui aveva spudoratamente adattato la sua versione dei fatti per sostenere la nuova mitologia, aveva preso la jeep ed era partito per il Nuovo Messico, dove aveva trascorso alcuni giorni a camminare in solitudine per i canyon a nord di Abiquiú e a riflettere su quant'era successo. Isabella era stata distrutta, Red Mesa ridotta a un paesaggio lunare, raso al suolo e fumante, centinaia di persone erano morte o scomparse durante le esplosioni. L'FBI aveva infine identificato il corpo di Russell Eddy in base al DNA e ai reperti dentali e dichiarato che il ministro millenarista era il responsabile del disastro. Già ghiotto boccone per i media, dopo Flagstaff la storia di Red Mesa si era trasformata in un'epopea di proporzioni inimmaginabili. Secondo certi esperti, rappresentava la saga più importante degli ultimi duemila anni. La religione cristiana aveva impiegato quattro secoli per conquistare il vecchio Impero Romano, la nuova religione, chiamata dai suoi seguaci la Ricerca, quattro giorni per imperversare in tutti gli Stati Uniti. Il web si era
rivelato lo strumento di divulgazione perfetto della nuova fede, come se Internet fosse stato creato appositamente allo scopo. Ford guardò l'orologio. Erano le undici e quarantacinque. Tempo un quarto d'ora e mezzo mondo, compresi i clienti del Manny's Buckhorn, avrebbero assistito all'Evento, trasmesso in diretta da un ranch del Colorado di proprietà di un miliardario dot-com. Il volume del televisore era basso e Ford si sforzò di sentire. Alle spalle del conduttore, sullo sfondo, una telecamera aerea inquadrava una folla incredibile, che il canale di notizie stimava ammontasse a tre milioni di persone. La moltitudine brulicante occupava le praterie a perdita d'occhio e le montagne di San Juan facevano da pittoresco sfondo. Nell'ultimo mese Ford ci aveva riflettuto molto ed era giunto a riconoscere la genialità di Hazelius. il disastro di Red Mesa aveva portato alla nascita di un nuovo movimento religioso e lui ne era diventato il profeta, nonché il martire. Figura tragicamente fuori dal comune, vittima immolata sul rogo, Hazelius aveva dato origine a un mito e a una leggenda, ispirati a una storia simile a quelle di Buddha, Krishna, Medina e Maometto, della Natività, dell'Ultima Cena, della Crocifissione e della Resurrezione. La vicenda sua e di Isabella non era dissimile: era un racconto che i credenti avrebbero condiviso, una cronaca delle origini che avrebbe animato la loro fede, spiegato loro chi fossero e perché esistessero. Era diventata una delle storie più importanti mai raccontate. Hazelius aveva portato a termine l'impresa in modo geniale. Aveva persino visto giusto a proposito del martirio, della sua trasfigurazione attraverso il fuoco, che aveva scosso la coscienza dell'opinione pubblica come nessun altro evento al mondo. Morendo era diventato una forza morale, un formidabile profeta e un capo spirituale. Mezzogiorno si stava avvicinando e il barista alzò il volume del televisore. I clienti presenti nel bar, camionisti, allevatori locali, qualche turista, fissavano rapiti le immagini allo schermo. Il notiziario cedette la linea a un corrispondente che si trovava nel ranch del Colorado. L'uomo era in mezzo a un'ampia folla con un microfono in mano. Sudava e dal suo volto traspariva lo stesso fervore che pervadeva la massa circostante. Era contagioso. Le persone attorno a lui recitavano salmi e gridavano di esultanza, cantavano e agitavano striscioni decorati con l'immagine di un pino nodoso del Colorado in fiamme. Il corrispondente riferì le notizie gridando per sovrastare il rumore della
calca, definendo l'evento una «Woodstock religiosa» e un «invito a impegnarsi, a interessarsi agli altri e ad amare». Be', pensò Ford, almeno laggiù non piove e non girano stupefacenti. Dietro il palco di legno si ergeva un grosso fienile in stile New England, rosso con decorazioni bianche. La telecamera zoomò sul portone. La folla tacque e a mezzogiorno esatto questo si spalancò: sei figure vestite di bianco uscirono nella luce del sole. La massa emise un boato fragoroso simile a un oceano splendido, immenso, millenario. Ford ebbe un tuffo al cuore quando Kate si avvicinò al palco con un volume sottile, rilegato in pelle, premuto al petto. Era incredibilmente bella con quell'abito semplice, bianco e i guanti neri, che esaltavano e ben si sposavano con i capelli corvini e i luminosi occhi d'ebano. Al suo fianco c'era la Corcoran, anche lei vestita di un semplice abito color alabastro. Le antiche avversarie erano diventate infine amiche e alleate. Altre quattro figure le raggiunsero. Rimasero tutti in piedi, raggruppati sul palco: i sei sopravvissuti all'attacco contro Isabella... la Chen, St. Vincent, Innes e Cecchini. Sembravano diversi ora, imponenti, le loro piccole meschinità sublimate in una causa, in una vocazione. Sorridevano e salutavano la folla, radiosi in volto. Sui vestiti bianchi portavano tutti una spilla d'argento, raffigurante anch'essa un pino del Colorado in fiamme. L'ovazione della folla continuò per cinque minuti buoni. Kate salì sul podio da sola: i capelli lucidi, neri come le ali di un corvo, brillavano alla luce del sole e i suoi occhi ardevano di vita. Sollevò le mani e il boato si placò quasi subito. Possedeva un carisma straordinario, pensò Ford. Alla fine, non aveva bisogno di Hazelius: era perfettamente in grado di organizzare e condurre il movimento che lui aveva fondato da sola, o quantomeno insieme alla stupefacente Corcoran. Quelle due erano ormai diventate le dee dei media, oltre che strette collaboratrici: una chiara, l'altra scura, la coppia archetipica. Quando il silenzio fu assoluto, Kate osservò la marea umana con uno sguardo pieno di compassione e di pace. Posò il libro e lo sistemò con movimenti calmi e rilassati. Era una credente, serena e sicura della verità. In lei non c'era traccia di confusione né di incertezza. La telecamera fece un primo piano sul suo volto. Lei alzò il libro sopra la testa, lo aprì e lo tenne rivolto verso la massa. «La Parola di Dio» esclamò gioiosa con voce forte e chiara. Dalla moltitudine di devoti si levò un altro boato. Mentre la telecamera
zoomava sul libro, Ford vide che era la vecchia stampata che Kate gli aveva mostrato sotto il pioppo: le pagine erano state distese, ripulite e rilegate. Lei posò il libro sul podio e sollevò le mani. Di nuovo calò il silenzio. Nel ristorante in cui si trovava Ford, i clienti avevano lasciato i tavoli e si erano accalcati davanti al bar a guardare, pieni di meraviglia e di timore. «Inizierò leggendovi le ultime parole pronunciate da Dio, prima che Isabella fosse distrutta e la voce di Dio messa a tacere.» Fece quindi una pausa molto, molto lunga. Io vi dico, questo è il vostro destino: scoprire la verità. Per questo esistete. Questo è il vostro scopo. La scienza è un semplice strumento per raggiungerlo. Questo è quello che dovete adorare: la ricerca stessa della verità. Se lo farete con tutto il cuore, allora in un grande giorno di un lontano futuro comparirete davanti a Me. Questo è il mio patto con la razza umana. Conoscerete la verità. E la verità vi renderà liberi. Ford sentì i capelli rizzarsi sulla nuca. Aveva letto quelle e le altre «cosiddette» Parole di Dio centinaia di volte. Erano dappertutto, nell'intero web, se ne discuteva in televisione e alla radio, nei blog, a ogni angolo della strada e in ogni caffè d'America. Avevano persino cominciato ad apparire sui cartelloni pubblicitari. Non potevi non vederle ovunque. E ogniqualvolta le leggeva, un pensiero molto strano lo turbava. Il programma di per sé non era affatto semplice... non sono nemmeno sicuro di essere in grado di capirlo. Stranamente, ha detto molte cose che non avevo intenzione di dire, che non mi ero nemmeno mai sognato. Si potrebbe proprio affermare che abbia funzionato al di là delle specifiche, gli aveva confessato Hazelius nella miniera in fiamme. Al di là delle specifiche, davvero. Tutte le volte che gli capitava di rileggere le Parole di Dio, si convinceva sempre più che celassero una grande verità, forse la più grande di tutte. «La verità vi renderà liberi.» Erano le parole di Gesù, citate da Giovanni, e gli richiamarono alla mente un'altra espressione biblica: «Dio opera in modi misteriosi.» Forse, pensò Ford, quella nuova religione era il Suo modo, più misterioso di tutti. Appendice
Le Parole di Dio PRIMA CONVERSAZIONE Salve Salve a te. Sono contento di parlarti. Anch'io sono contenta di parlarti. Chi sei? In mancanza di un termine migliore, sono Dio, Se sei davvero Dio, dimostralo. Non abbiamo molto tempo per le dimostrazioni. Sto pensando a un numero tra uno e dieci. Qual è? Stai pensando al numero trascendente e. Adesso sto pensando a un numero tra zero e uno. È il numero di Chaitin: omega. Se sei Dio, allora... qual è lo scopo dell'esistenza? Non conosco il fine ultimo. Interessante, un dio che non conosce lo scopo dell'esistenza. Se lo conoscessi, l'esistenza sarebbe priva di senso. Perché? Se la fine dell'universo fosse presente nel suo inizio, se ci trovassimo semplicemente al centro di un divenire deterministico di una serie di condizioni iniziali, allora l'universo sarebbe un'opera priva di senso. Spiegati. Se sei a destinazione, perché intraprendere il viaggio? Se conosci la risposta, perché fare la domandai Per questo il futuro è, e dev'essere, profondamente oscuro, persino a Dio. Altrimenti l'esistenza non avrebbe significato. È un'argomentazione metafisica, non fisica. L'argomentazione fisica è che nessuna parte dell'universo può calcolare le cose più rapidamente dell'universo stesso. L'universo «predice il futuro» il più rapidamente possibile. Che cos'è l'universo? Chi siamo noi? Cosa facciamo qui? L'universo è un calcolo immenso, irriducibile, in continuo sviluppo, che sta evolvendo verso uno stato che non conosco e non posso conoscere. Lo scopo dell'esistenza è raggiungere questo stato finale, che tuttavia è un mistero per me. Così dev'essere, altrimenti se conoscessi la risposta, quale sarebbe lo scopo di tutto?
Che cosa intendi per calcolo? Ci troviamo tutti all'interno di un computer? Per calcolo intendo pensiero. L'intera esistenza, tutto ciò che accade, una foglia che cade, un'onda sulla spiaggia, il collassare di una stella, sono solo io che penso. Che cosa pensi? SECONDA CONVERSAZIONE Ci parliamo di nuovo. Raccontami di te. Non posso spiegarti chi sono più di quanto tu non possa spiegare a uno scarafaggio chi sei. Provaci ugualmente. Ti spiegherò invece perché non mi potete capire. Dimmi allora. Vivete in un mondo che si colloca a metà tra la lunghezza di Planck e il diametro dell'universo. Il vostro cervello si è perfezionato per manipolare il vostro mondo, non per comprenderne la realtà fondamentale. Vi siete evoluti per lanciare pietre, non quark. In seguito alla vostra evoluzione, vedete il mondo in un modo sostanzialmente sbagliato. Per esempio, ritenete di occupare uno spazio tridimensionale in cui oggetti distinti traccino traiettorie facilmente prevedibili, contrassegnate da un'entità che chiamate tempo. Questa è quella che definite realtà. Stai dicendo che la nostra realtà è un'illusione? Sì. La selezione naturale vi ha dato l'illusione di comprendere la realtà fondamentale, ma non è così. Come potreste? Gli scarafaggi capiscono la realtà fondamentale? Gli scimpanzé? Voi siete animali come loro. Vi siete evoluti come loro, vi riproducete come loro, avete le stesse strutture neurali di base. Vi differenziate dagli scimpanzé soltanto per duecento geni. Come potrebbe questa minuscola differenza permettervi di comprendere l'universo quando lo scimpanzé non è nemmeno in grado di comprendere un granello di sabbia? Se la nostra conversazione dev'essere fruttuosa, devi abbandonare ogni speranza di comprendermi. Quali sono le nostre illusioni? Vi siete evoluti per vedere il mondo composto da oggetti distinti. Non è così. Fin dal primo momento della creazione tutto è stato correlato. Quello che voi chiamate spazio e tempo sono solo proprietà emergenti di una
realtà sottostante profonda. In quella realtà non c'è separazione. Non c'è tempo. Non c'è spazio. Tutto è uno. Spiegati. La vostra teoria della meccanica quantistica, seppur inesatta, arriva a cogliere la profonda verità secondo cui l'universo è unitario. Nulla da dire, ma in che modo questo influisce sulla nostra vita, oggi? Influisce molto. Vi ritenete «singole persone» dotate di una mente unica, distinta dalle altre. Credete di nascere e morire. Per tutta la vita vi sentite isolati e soli, talvolta disperatamente soli. Avete paura di morire perché avete paura di perdere la vostra individualità. Tutto questo è un'illusione. Tu, luì, lei, le cose viventi e no che vi circondano, le stelle e le galassie, lo spazio vuoto tra di esse non sono oggetti distinti, separati. Tutto è fondamentalmente correlato. Nascita e morte, dolore e sofferenza, amore e odio, bene e male, sono tutte illusioni. Sono atavismi del processo evolutivo. Non esistono nella realtà. Allora è come sostiene la dottrina buddista, cioè che tutto è un'illusione? Niente affatto. Esiste una verità assoluta, una realtà, ma il fatto di scorgerla anche solo fugacemente, distruggerebbe una mente umana. Tu affermi che l'universo è unitario? Noi abbiamo un sistema di numerazione: uno, due, tre... in questo modo posso confutare la tua affermazione. Uno, due, tre... un'altra illusione. Non esiste enumerabilità. Questi sono sofismi matematici. Non esiste enumerabilità? Ti ho appena smentito contando. [Solleva la mano] Eccoti un'altra smentita: ti mostro il numero intero cinque! Tu mi mostri una mano con cinque dita, non il numero intero cinque. Il vostro sistema numerico non esiste in modo indipendente nel mondo reale. Non è nient'altro che una raffinata metafora. Vorrei sentire quali prove addurresti per questa ridicola ipotesi. Prendi un numero a caso tra quelli reali: con probabilità sceglierai un numero che non ha nome, non ha definizione e non può essere calcolato né scritto anche se l'intero universo si cimentasse nell'impresa. Questo problema si estende ai numeri presumibilmente definibili, quali pi greco o la radice quadrata di due. Con un computer grande quanto l'universo e in grado di operare per un tempo infinito, non potresti calcolare nessuno di quei numeri con precisione. Dimmi, Edelstein, come si può dunque affermare che tali numeri esistano? Come possono esistere il cerchio o il quadrato da cui essi derivano? Come può esistere lo spazio dimensionale se
non può essere misurato? Tu, Edelstein, sei come una scimmia che con un eroico sforzo mentale è riuscita a capire come si conta fino a tre. Hai trovato quattro ciottoli e pensi di aver scoperto l'infinito. Davvero? Dici un sacco di belle cose, sostieni con vanto che nemmeno la parola «dio» sia adeguata per descrivere la tua grandezza. Va bene, allora: dimostralo. Dimostra che sei Dio. Mi hai sentito? Dimostrami che sei Dio. Fornisci tu la dimostrazione, Hazelius, ma ti avverto: questa è l'ultima prova a cui mi sottoporrò. Abbiamo cose importanti da fare e ben poco tempo. Te la sei voluta. Mia moglie, Astrid, era incinta quando è morta. Lo avevamo scoperto da poco. Nessun altro sapeva della gravidanza. Nessuno. Eccoti la prova: dimmi il nome che avevamo scelto per il bambino. Albert Leibniz Gund Hazelius, se fosse stato un maschio. E se fosse stata una femmina? E se fosse stata una femmina? Che nome avrebbe avuto? Rosalind Curie Gund Hazelius. D'accordo, ricominciamo da capo. Chi diavolo sei... veramente? Per le ragioni che ho già citato, non potete capire cosa sono. La parola «dio» si avvicina, ma resta pur sempre una definizione non esaustiva. Fai parte dell'universo o ne sei separato? Non esiste separazione. Siamo un tutt'uno. Perché esiste l'universo? L'universo esiste perché è più semplice del nulla. Per la stessa ragione io esisto. L'universo non può essere più semplice di quello che è. Questa è la legge fisica da cui tutte le altre derivano. Che cosa può essere più semplice del nulla? Il «nulla» non può esistere. È un paradosso immediato. L'universo è lo stato più vicino al nulla. Se tutto è così semplice, perché l'universo è tanto complesso? L'universo complesso che vedete è una proprietà emergente della sua semplicità. Allora qual è questa profonda semplicità che sta al cuore di tutto? È la realtà che distruggerebbe la vostra mente. Il discorso sta diventando noioso! Se sei così intelligente, dovresti essere in grado di spiegare a noi, poveri esseri umani ottenebrati! Intendi dire che siamo così ignoranti della realtà da aver elaborato leggi fisiche fasulle?
Avete elaborato le vostre leggi fisiche in base al presupposto che esistano spazio e tempo. Tutte le vostre leggi si fondano su strutture di riferimento, quindi non sono valide. Ben presto le vostre tanto care supposizioni sul mondo reale si infrangeranno e bruceranno: dalle loro ceneri costruirete un nuovo tipo di scienza. Se le nostre leggi fisiche si basano su realtà inesistenti, com'è che la nostra scienza consegue successi tanto spettacolari? Le leggi del moto di Newton, pur fasulle, hanno permesso di mandare l'uomo sulla luna. Lo stesso vale per le altre vostre leggi: sono approssimazioni accettabili, fondamentalmente inesatte. Come costruisci allora le leggi della fisica senza spazio e tempo? Stiamo perdendo tempo in chiacchiere metafisiche. E di cosa dovremmo parlare? Della ragione per cui sono venuto da voi. Che sarebbe? Ho un compito da affidarvi. Perché non ci dici qual è questo compito? Le grandi religioni monoteistiche erano una fase necessaria per lo sviluppo della cultura umana. Il vostro compito è guidare la razza umana verso il prossimo sistema di credenze. Che sarebbe? La scienza. È ridicolo: la scienza non può essere una religione! Avete già dato inizio a una nuova religione, solo vi rifiutate di vederlo. Un tempo la religione era un modo per dare un senso al mondo. Adesso questo ruolo è passato alla scienza. Scienza e religione appartengono a due ambiti diversi. Si pongono interrogativi diversi e richiedono prove diverse. Scienza e religione perseguono entrambe lo stesso obiettivo: la verità. Tra le due non ci può essere riconciliazione. Lo scontro tra le visioni del mondo è più che vivo e si sta aggravando. La scienza ha già confutato gran parte delle credenze fondamentali delle religioni storiche del mondo, gettandole in uno stato di scompiglio. Il vostro compito è aiutare l'umanità a trovare una via per uscire dalla crisi. Oh, per favore! Pensi che i fanatici mediorientali, o se è per questo quelli della Bible Belt, riconsiderino le loro posizioni e accettino la scienza come nuova religione? Ma questa è pura follia! Riferirete al mondo le mie parole e quanto è accaduto qui. Non sottova-
lutate il mio potere: il potere della verità. Dove dovremmo arrivare con questa nuova religione? Qual è lo scopo? A chi serve? Lo scopo immediato dell'umanità è sfuggire ai limiti della biochimica. Dovete liberare la mente dalla carne del corpo. Dalla carne? Non capisco. Carne, nervi, cellule, biochimica. Il mezzo mediante cui pensate. Dovete liberare la mente dalla carne. Come? Avete già iniziato a elaborare informazioni al di là della carne, mediante i computer. Ben presto troverete il modo di farlo usando calcolatori quantistici, il che vi indurrà a sfruttare i processi quantistici naturali che si svolgono nel mondo intorno a voi come mezzo di calcolo. Non avrete più bisogno di costruire macchine per elaborare informazioni. Vi espanderete nell'universo, in senso letterale e figurato, come altre entità intelligenti hanno fatto prima di voi. Sfuggirete alla prigione dell'intelligenza biologica. E poi? Con il tempo entrerete in contatto con altre intelligenze estese. Tutte queste intelligenze connesse scopriranno il modo di fondersi in un terzo stadio della mente, che comprenderà la semplice realtà alla base dell'esistenza. E basta? Tutto qui? No, questo è solo il preludio a un compito più grande. Che sarebbe? Arrestare la morte dell'universo per calore. Quando l'universo raggiungerà lo stato di massima entropia, che è la morte per calore, il calcolo universale si arresterà e io morirò. È inevitabile o c'è modo di prevenirlo? Questo è proprio l'interrogativo a cui dovete dare risposta. Allora è questo il fine ultimo dell'esistenza? Sconfiggere questa misteriosa morte per calore? Sembra un romanzo di fantascienza. Evitare la morte per calore è solo un passo del cammino. Cammino verso cosa? Donerà all'universo la pienezza del tempo di cui ha bisogno per concepirsi nello stato finale. Qual è lo stato finale? Non lo so. Non sarà niente di simile a quello che voi o io possiamo im-
maginare. Hai parlato di «pienezza del tempo». In quanto si traduce con esattezza? Sarà un numero di anni pari al fattoriale di dieci elevato alla potenza del fattoriale di dieci. Quel numero dovrà essere elevato alla potenza del fattoriale di dieci, quel numero elevato alla potenza del fattoriale di dieci, questa relazione di potenze va ripetuta 1083 volte e il numero risultante elevato alla potenza del suo fattoriale 1047 volte, come sopra. Usando la vostra notazione matematica questo numero, il primo numero di Dio, è: Questa è la lunghezza del tempo espressa in anni che l'universo impiegherà per concepirsi nello stato finale, per arrivare alla risposta definitiva. È un numero assurdamente elevato! È così, ma è solo una goccia nell'oceano dell'infinito. In questo tuo nuovo universo che ruolo avrebbero la moralità, l'etica? O la salvezza e il perdono dei peccati? Ve lo ripeto: la separazione è soltanto un'illusione. Gli esseri umani sono come cellule di un corpo. Le cellule muoiono ma il corpo continua a vivere. Odio, crudeltà, guerra, genocidio sono più simili a malattie autoimmuni che al prodotto di quello che chiamate «male». Questa visione d'insieme che vi presento garantisce un ampio spazio morale d'azione in cui altruismo, compassione, responsabilità reciproca hanno un ruolo centrale. Il vostro destino è unico. Gli esseri umani trionferanno tutti o moriranno tutti. Nessuno viene salvato perché nessuno è perduto. Nessuno viene perdonato perché nessuno è accusato. Che mi dici della promessa che Dio ci ha fatto di un mondo migliore? Le vostre diverse concezioni del paradiso sono incredibilmente ottuse. Scusami, ma la salvezza non ha niente di ottuso! Il quadro di completezza spirituale che vi presento è incommensurabilmente più grande di qualsiasi paradiso sognato sulla Terra. E l'anima? Neghi dunque l'esistenza di un'anima immortale? Le informazioni non vanno mai perdute. Con la morte del corpo le informazioni generate da una determinata vita cambiano forma e struttura, ma non svaniscono nel nulla. La morte è una transizione di informazioni. Non abbiatene paura. Morendo noi perdiamo la nostra individualità? Non piangetene la perdita. Da quel senso potente di individualità, così necessario per l'evoluzione, scaturiscono molte proprietà che contraddi-
stinguono l'esistenza umana, buone e cattive: paura, dolore, sofferenza, solitudine, ma anche amore, felicità e compassione. Per questo dovete sottrarvi all'esistenza biochimica. Quando vi libererete dalla tirannia della carne, porterete con voi quelle buone: amore, felicità, compassione e altruismo, lasciandovi alle spalle quelle cattive. Non trovo grande conforto nell'idea che le piccole fluttuazioni quantistiche che la mia esistenza ha generato ci conferiscano l'immortalità. Dovresti trovare grande conforto in questa visione della vita. Le informazioni presenti nell'universo non possono morire. Non un passo, un ricordo, un dolore della tua vita verrà mai dimenticato. Tu, in qualità di individuo, andrai perduto nella tempesta del tempo, le tue molecole saranno disperse, ma quello che hai fatto ieri, come hai vissuto, resterà sempre incluso nel calcolo universale. Perdonami, ma questo parlare dell'esistenza in termini di «calcolo», mi suona così meccanicistico, privo di anima. Chiamalo sognare, se preferisci, o desiderare, volere, pensare. Tutto quello che vedi è parte di un calcolo inconcepibilmente vasto e splendido, da un bambino che dice le prime parole a una stella che collassa in un buco nero. Il nostro universo è un calcolo magnifico che, partendo da un singolo assioma di grande semplicità, va avanti da tredici miliardi di anni. Abbiamo appena iniziato l'avventura! Quando troverete il modo di abbandonare il vostro modo di pensare limitato dalla carne per abbracciare altri sistemi quantistici naturali, inizierete a controllarlo. Inizierete a capirne la bellezza e la perfezione. Se tutto è un calcolo, allora qual è lo scopo dell'intelligenza? O della mente? L'intelligenza esiste tutt'intorno a voi, persino nei processi non-viventi. Un temporale è un calcolo molto più sofisticato di una mente umana. È, a suo modo, intelligente. Un temporale non ha coscienza. Una mente umana ha la consapevolezza di sé. È conscia. Questa è la differenza e non è banale. Non vi ho forse detto che la coscienza stessa del sé è un'illusione, un artefatto dell'evoluzione? La differenza non è nemmeno banale. Un evento meteorologico non è creativo. Non fa scelte. Non è in grado di pensare. È una semplice manifestazione meccanicistica di forze. Come fai a sapere di non essere una manifestazione meccanicistica di forze? Come la mente, un evento meteorologico possiede proprietà chimiche, elettriche e meccaniche complesse. Pensa. È creativo. I suoi pensieri
sono diversi dai tuoi. Un essere umano crea complessità scrivendo un romanzo sulla superficie della carta. Un evento meteorologico crea complessità scrivendo onde sulla superficie di un oceano. Qual è la differenza tra le informazioni trasmesse nelle parole di un romanzo e quelle trasmesse dalle onde del mare? Ascolta e le onde del mare ti parleranno e un giorno, te lo assicuro, scriverai i tuoi pensieri sulla superficie delle acque. Allora che cosa calcola l'universo? Qual è questo grande problema che cerca di risolvere? È il mistero più profondo e spettacolare di tutti. Abbiamo pochissimo tempo. Quello che ho da dirvi ora ha la massima importanza. Continua, ti prego. Hai la nostra piena attenzione. La religione è nata come tentativo di spiegare l'impiegabile, di controllare l'incontrollabile, di rendere tollerabile l'intollerabile. La credenza in un'entità superiore è stata l'innovazione più significativa dell'ultima fase dell'evoluzione umana. Le tribù dotate di una religione avevano un vantaggio su quelle che ne erano prive: avevano una meta e uno scopo, una motivazione e una missione. Il valore che la religione aveva in termini di sopravvivenza era straordinario, tanto che la sete di fede è stata iscritta nel genoma umano. Quello che la religione ha tentato, la scienza lo ha infine realizzato. Adesso avete modo di spiegare l'inspiegabile, di controllare l'incontrollabile. Non vi serve più una religione «rivelata». La razza umana è infine cresciuta. La religione è essenziale per la sopravvivenza umana come il cibo e l'acqua. Se proverete a sostituirla con la scienza, fallirete. Invece, proporrete la scienza come religione, perché io vi dico: la scienza è religione, l'unica vera religione. Invece di offrire un libro della verità, la scienza offre un metodo della verità. La scienza è la ricerca, non la rivelazione, della verità. È un mezzo, non un dogma. È un viaggio, non una destinazione. Sì, ma cosa mi dici della sofferenza umana? Come può la scienza rendere «tollerabile l'intollerabile», come sostieni? Nell'ultimo secolo medicina e tecnologia hanno alleviato la sofferenza umana più di quanto non abbiano fatto tutti i preti nell'ultimo millennio. Parli della sofferenza fisica. Ma cosa ci dici di quella dell'anima? Quella spirituale? Non ti ho detto che tutto è uno? Non è un conforto sapere che la tua sofferenza scuote il cosmo stesso? Nessuno soffre solo e la sofferenza ha uno scopo: persino la morte di un passero è essenziale per il tutto. L'universo
non scorda mai. Non cedete alla diffidenza! Siete i miei discepoli. Avete il potere di capovolgere il mondo. In un giorno la scienza accumula più prove delle sue verità di quanto non abbia fatto la religione in tutta la sua esistenza. Le persone sì aggrappano alla fede perché devono averla, la bramano. Voi non negherete loro la fede: ne proporrete una nuova. Non sono venuto a sostituire il dio giudeo-cristiano, ma a completarlo. Questa nuova religione che vuoi che diffondiamo, che cosa prevede si adori? Dov'è la bellezza e il riverente mistero in tutto questo? Vi chiedo di contemplare l'universo. Esso non suscita di per sé un riverente mistero maggiore di qualsiasi concetto di Dio proposto dalle religioni storiche? Un centinaio di miliardi di galassie, isole solitarie di fuoco gettate come monete lucenti nella vastità dello spazio, in un'immensità che sfugge alla comprensione biologica della mente umana. E, vi ripeto, l'universo che avete scoperto è solo una minuscola parte dell'estensione e della magnificenza del creato. Abitate il più piccolo frammento azzurro delle volte infinite del cielo, eppure questo frammento mi è prezioso dal momento che è una parte essenziale del tutto. Per questo sono venuto da voi. Adorate me e le mie grandi opere, non un dio tribale immaginato da pastori che si facevano la guerra migliaia di anni fa. Di più, dicci di più. Tracciate i lineamenti nel mio volto con i vostri strumenti scientifici. Cercatemi nel cosmo e nell'elettrone perché io sono il Dio del tempo e dello spazio profondi, il Dio dei superammassi e dei vuoti, il Dio del Big Bang e dell'inflazione cosmica, il Dio della materia e dell'energia oscure. Scienza e fede non possono coesistere. L'una distruggerà l'altra. Dovete fare in modo che sia la scienza a sopravvivere, altrimenti il vostro piccolo frammento azzurro andrà perduto... Che cosa dovremmo fare? Con le mie parole voi prevarrete. Raccontate al mondo quello che è successo qui, raccontate al mondo che Dio ha parlato alla razza umana per la prima volta. Sì, per la prima volta! Come possiamo spiegarti se non ci sai dire cosa sei? Non ripetete l'errore delle religioni storiche invischiandovi in dispute su ciò che sono o su cosa penso. Io trascendo ogni comprensione. Io sono il Dio di un universo tanto vasto che solo i numeri di Dio possono descrivere, dei quali vi ho dato il primo. Voi siete i profeti che guiderete il mondo nel futuro. Quale futuro scegliete? In mano avete la chiave... Io vi dico, questo è il vostro destino: scoprire la verità. Per questo esi-
stete. Questo è il vostro scopo. La scienza è un semplice strumento per raggiungerlo. Questo è quello che dovete adorare: la ricerca stessa della verità. Se lo farete con tutto il cuore, allora in un grande giorno di un lontano futuro comparirete davanti a Me. Questo è il mio patto con la razza umana. Conoscerete la verità. E la verità vi renderà liberi. Ringraziamenti Vorrei ringraziare tutte le persone che mi hanno generosamente aiutato. In primo luogo, Selene Preston, Eric Simonoff, Susan Hazen-Hammond, Bobby Rotenberg, Hywel White e Roland Ottewell. Sono in debito con John Javna, che mi ha prestato la sua collezione di volumi sul diritto cristiano. La mia gratitudine va anche a Claudia Rülke che si è occupata del nostro nuovo sito web e a Tobias Daniel Wabbel che mi ha incoraggiato a sviluppare alcune idee in un saggio per Im Anfang war (k)ein Gott: Naturwissenschaftliche und theologische Perspektiven. Desidero esprimere la mia profonda stima per il mio collega, Lincoln Child, che ha letto il manoscritto e mi ha dato, come sempre, straordinari consigli. Grazie anche al mio editor, Bob Gleason, una guida preziosa e creativa, e a Eric Raab, per il suo sostegno. Sono immensamente in debito con i miei amici navajo, che nel corso di tanti anni mi hanno fatto conoscere la vita e la religione navajo nella riserva; ricordo in particolare Norman Tulley, Edsel Brown, Frank Fatt, Ed Black, Victor Begay, Neswood Begay, Nada Currier e Cheppie Natan. I versi iniziali del canto navajo sulla creazione, citati nel romanzo, sono stati adattati dalla versione di uno sciamano della riserva navajo vissuto nella prima metà del Ventesimo secolo, trascritta da padre Berard Haile. Come sempre, esprimo il mio profondo ringraziamento a Christine, Aletheia e Isaac per l'amore, il sostegno e la pazienza che hanno dimostrato per questo stravagante autore. Alcune idee filosofiche, evoluzionistiche e matematiche esposte nel romanzo sono state attinte da Gregory Chaitin, Rudy Rucker, Brian Greene, Stephen Wolfram, Edward Fredkin, Sam Harris, Richard Dawkins e Frank J. Tipler. Il numero di Dio è espresso usando la notazione matematica della freccia verso l'alto di Knuth. FINE