ED GREENWOOD ELMINSTER LA TENTAZIONE (The Temptation Of Elminster, 1999)
A Steve & Jenny Helleiner Grandi amici, brave ...
26 downloads
873 Views
1MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
ED GREENWOOD ELMINSTER LA TENTAZIONE (The Temptation Of Elminster, 1999)
A Steve & Jenny Helleiner Grandi amici, brave persone, appassionati e campioni di gioco. Che tutti i vostri trionfi non si realizzino in un Altro Mondo. Il regno di Galadorna si trova a est di Delthuntle. La sua capitale, Nethrar, è l'odierna Nethra. Gli eventi della Parte prima avvengono nell'arco di cinque anni, a partire dall'Anno della Spada Mancante (759 Calcolo di Dale). Gli eventi della Parte seconda si svolgono in sedici o diciassette giorni nell'Anno del Risveglio del drago (767 Calcolo di Dale). PROLOGO Esiste un periodo della storia del potente Vecchio Mago di Shadowdale che alcuni saggi definiscono «gli anni in cui Elminster giacque morto». Io non ero presente e non vidi alcun cadavere, perciò preferisco definirlo il periodo degli «Anni Silenti». Sono stato denigrato e deriso, definito il peggiore esemplare di idiota vanesio, ma tutti i critici sono concordi su un fatto: qualsiasi cosa abbia fatto Elminster in quegli anni, non ne sappiamo... nulla. Antarn il Saggio
Da La grande storia della potenza degli arcimaghi faerûniani Pubblicata approssimativamente nell'Anno del Bastone La spada si abbassò per sferrare il colpo mortale. Il cespuglio di roszel, indifeso, si limitò a emettere un rumore sordo quando l'acciaio temprato lo tagliò in due; i rami spinosi si ruppero scricchiolando, poi si udirono uno scivolone e un tonfo violento. I tre avventurieri emisero all'unisono un gemito di sorpresa, poi tutto piombò in un silenzio teso. «Amandarn?», domandò uno di loro quando non riuscì più a trattenersi, la voce, femminile, stridula per l'apprensione. «Amandarn?» Il nome echeggiò sulle pareti diroccate... pareti che sembravano vigili... in attesa. I tre, le armi in pugno, avanzarono fra le macerie scrutando in ogni direzione, in cerca della striscia scura rivelatrice di un serpente. «Amandarn?», ripeté la voce, più bassa e più tremula. Dovunque avrebbero potuto esserci trappole, belve in agguato, e... «Gli dei maledicano queste rovine e queste spine... e i netheresi folli che le costruirono!», esclamò una voce esasperata poco distante, dove il terreno piombava nell'oscurità. «Per non parlare dei ladri, che sono ancor più folli!», ribatté la donna che lo aveva chiamato tanto ansiosamente, la voce forte e sollevata. «Distributori di ricchezze, Nuressa, se permetti», rispose Amandarn in tono offeso, mentre le pietre gli scivolavano rumorosamente sotto le mani. «Il temine "ladro" è volgare e limitativo». «Come la parola "idiota"?, chiese aspra una terza voce. «O "eroe"?», aggiunse ancora con tono beffardo. «Iyriklaunavan», lo riprese severa Nuressa, «abbiamo già fatto questo discorso, non è vero? Gli insulti e i commenti provocatori, teniamoli per quando ozieremo intorno a un fuoco, al sicuro, a casa nostra, non nella tomba di un temibile stregone, piena di incantesimi sconosciuti e di guardiani fantasma, intesi?» «Mi sembrava di aver udito qualcosa di strano», aggiunse una quarta voce, profonda e rauca, sghignazzando. «Devo dire che oggi i fantasmi sono molto più rumorosi che ai tempi di mio padre». «Hmmph», sbottò acida Nuressa, mentre allungava un braccio muscoloso e abbronzato nell'oscurità per aiutare Amandarn, che ancora lottava per rimettersi in piedi. La gigantesca spada da combattimento che teneva nell'altra mano non vacillò nemmeno per un istante. «I nani superintelligenti,
ho udito», aggiunse mentre sollevava il distributore di ricchezze come fosse un fantoccio, «muoiono altrettanto facilmente». «Dove hai sentito queste cose?», chiese Iyriklaunavan sardonico, con un tono fintamente invidioso. «Dovrò andare anch'io a bere in quel luogo». «Iyrik», grugnì Nuressa con uno sguardo d'avvertimento, una volta rimesso in piedi il ladro. «Che ne dite», commentò Amandarn eccitato, agitando una mano guantata per imporre silenzio. «Potremmo chiamarci... Il Nano Superintelligente!» «Potremmo», osservò Nuressa con tono gelido, appoggiando la spada a terra e incrociando le braccia sulle controguardie dell'elsa. Era ovvio che qualsiasi nemico fosse in agguato nella cripta o mausoleo, o in qualsiasi cosa vi fosse oltre quell'apertura scura e minacciosa, era ormai in allerta; affrettarsi non aveva più senso e la possibilità di agire di soppiatto era svanita per sempre. La muscolosa donna guerriero alzò lo sguardo verso il sole per calcolare quante ore di luce le restavano; faceva caldo nell'armatura, caldo davvero, per la prima volta dall'ultimo raccolto. Era una giornata inaspettatamente torrida del mese di Mirtul, nell'Anno della Spada Mancante, e i quattro avventurieri, che si trascinavano a fatica in quel mare di pietre frantumate, stavano sudando copiosamente sotto un denso strato di polvere. Quello più basso e robusto ridacchiò allegramente e, nella sua voce roca e rotta, esclamò: «Non posso eludere il mio dovere congenito di fare da nano... perciò sta a voi tre essere i "superintelligenti". Dubito però che, anche messi insieme, abbiate testa sufficiente...» «Ora basta», sbottò l'elfo accanto a lui con il tono burbero degno di un nano. «Non approvo questa scelta; voglio un nome meno ridicolo. Come potremmo sentirci fieri...» «Pavoneggiarci, intendi», mormorò il nano. «... con un nome che ci disgusterebbe dopo un solo mese. Perché non scegliere qualcosa di esotico, qualcosa di...» Sollevò la mano in cerca di ispirazione, e un istante più tardi aggiunse: «Qualcosa come Rosa d'Acciaio». Seguì un momento di riflessione, che Iyriklaunavan interpretò come accettazione della proposta, ma un attimo dopo Folossan scoppiò nuovamente a ridere e chiese, «Vuoi che forgi dei fiori da indossare? Fibbie? Brachette?» Amandarn smise per un attimo di massaggiarsi le parti dolenti e doman-
dò freddo: «Devi sempre scherzare, Lossum? A me piace». La donna, che nella sua armatura annerita dominava i tre avventurieri, obiettò lentamente: «Ma io non ne sono sicura, Signor Ladro. Quand'ero una schiava mi chiamavano con un nome simile, a causa delle frustate ricevute per la mia disobbedienza. Una "rosa d'acciaio" è il segno lasciato da una frusta uncinata». L'allegro nano sollevò le spalle. «E ciò lo rende inadatto come nome per un gruppo di avventurieri impavidi e minacciosi?» Udendo quella descrizione Amandarn sbuffò. Nuressa serrò le labbra che formarono una linea sottile, un'espressione che gli altri avevano imparato a rispettare. «Un sorvegliante di schiavi che lascia rose d'acciaio non è abile nell'usare la frusta o è incapace di controllare il suo temperamento. Tali segni diminuiscono il valore di uno schiavo, perciò i bravi schiavisti utilizzano altri modi per causare dolore senza lasciare tracce. Adottare quel nome equivarrebbe a dire che siamo incuranti e incapaci di controllarci». «Mi sembra ancora più appropriato», esclamò il nano rivolto alla colonna di pietra più vicina, poi balzò indietro con un'imprecazione strozzata quando da essa si staccò un enorme frammento di pietra, che rovinò a terra in mezzo a un improvviso clangore di armi. Una nuvola di polvere si sollevò nel silenzio, ma niente si mosse. Dopo un lungo momento Nuressa abbassò la spada e mormorò: «Abbiamo già perso troppo tempo sull'argomento; parliamone più tardi. Amandarn, non stavi cercando una via sicura per entrare in quella...?» «Tomba», mormorò tranquillo Folossan, sogghignando timidamente sotto il peso improvviso di tre sguardi scuri. In un silenzio quasi assoluto il ladro avanzò lentamente, le braccia allargate per mantenere l'equilibrio, i piedi che quasi si aggrappavano alle pietre grazie alle suole flessibili degli stivali. Una decina di passi più in là si trovava un'apertura buia nel fianco di una struttura di pietra dalle guglie infrante, che un tempo era stato il cuore di un palazzo sontuoso, ma che ora si ergeva come un casetta derelitta e dimenticata in mezzo a colonne inclinate e a cumuli di macerie circondati di felci. Iyriklaunavan fece qualche passo in avanti per osservare meglio l'incedere lento e cauto di Amandarn; quando l'esile ladro, dalla corporatura quasi fanciullesca, si arrestò all'altezza delle pareti diroccate per sbirciare prudentemente all'interno, l'elfo dalla tunica color terra bruciata sussurrò: «Ho un brutto presentimento...»
Folossan fece un gesto sprezzante con la mano e ribatté: «Tu hai brutti presentimenti su tutto, burbero d'un elfo». Con una gomitata Nuressa intimò loro di fare silenzio, mentre Amandarn riprendeva improvvisamente a muoversi, scomparendo dalla vista. I tre attesero. E attesero ancora. Iyriklaunavan si schiarì la gola quanto più silenziosamente poté, ma quel rumore gli sembrò incredibilmente forte. Una strana quiete pareva aver avvolto le rovine; un uccello sfrecciò nel cielo senza cinguettare, e i battiti delle sue ali parvero misurare un tempo che si era ormai fatto troppo lungo. Al ladro doveva essere accaduto qualcosa. Una morte silenziosa? Non avevano udito nulla, e quanto più passava il tempo, tanto più il silenzio si faceva teso. Nuressa si avviò lentamente verso l'apertura in cui si era infilato Amandarn, gli stivali scricchiolanti sulle pietre instabili. La donna scrollò le spalle e sollevò la spada. La femminilità non era certo il suo forte. Si trovava quasi all'interno, all'ombra delle pareti, quando qualcosa si mosse nell'oscurità davanti a lei. Nuressa sollevò la spada sopra la testa, pronta a colpire con ferocia, ma il viso sogghignante che sbucò dalle tenebre era quello di Amandarn. «Sapevo che eri seccata con me», esclamò il ladro, guardando l'arma sollevata, «ma sono già abbastanza basso, grazie». Il ladro indicò col pollice l'oscurità dietro di lui. «È una tomba», affermò, «antica e tappezzata di rune. "Qui giace Zurmapyxapetyl, mago di Netheril", o qualcosa del genere, ma interpretare l'Antico Netherese, o come diamine si chiama quella lingua, sarà compito di Iyrik». «Ci sono guardiani?», domandò Nuressa senza distogliere lo sguardo dall'oscurità oltre le spalle di Amandarn. «Non ne ho visti, ma una spada incandescente è poca cosa...» «Possiamo gettarci dentro una torcia?» Il ladro scrollò le spalle. «Si potrebbe. È tutto di pietra là dentro». Senza proferire parola Nuressa allungò una mano alle sue spalle. Dopo qualche minuto di affanno Folossan le porse una torcia accesa; la donna guerriero lo guardò, lo ringraziò con un cenno del capo, e la lanciò. La luce delle fiamme squarciò sfrigolando l'oscurità e si affievolì fin quasi a spegnersi quando la torcia toccò terra, ma subito riprese a scintillare. Nuressa avanzò fin quasi a ostruire l'apertura col suo corpo, e domandò: «Trappole?» «Nessuna vicino all'entrata», rispose Amandarn, «e ho il presentimento
che non ne troveremo. Tuttavia... non mi piacciono queste rune, vi si può nascondere qualsiasi cosa». «Hai ragione», assentì il nano a bassa voce. «Sei soddisfatta, Nessa? Hai intenzione di spostarti e di lasciarci passare oppure vuoi giocare a fare da porta fino a notte fonda?» La donna gli lanciò un'occhiataccia, poi si fece silenziosamente da parte e lo invitò a entrare con un ampio gesto. Folossan abbassò la testa ed entrò titubante. Iyriklaunavan, dall'aspetto solitamente triste, avanzò trotterellando sulle punte dei piedi, la tunica rossiccia sollevata per evitare d'inciampare. Sarebbe stato poco piacevole incespicare in una cripta in cui avrebbero potuto nascondersi serpenti o chissà quali nemici. Amandarn lo seguì di lì a poco. Nuressa li osservò avanzare uno a uno e scosse il capo. Pensavano forse si trattasse di una gita di piacere? La donna procedette con maggiore cautela, cercando porte che avrebbero potuto chiudersi e imprigionarli, trappole sfuggite alla vista di Amandarn, o nemici passati inosservati... «Per tutti gli dei sui loro troni lucenti!», ansimò Folossan sbalordito, e la sua voce sembrò echeggiare per un istante nella tomba scura, prima di svanire nel nulla. Nuressa si lasciò definitivamente alle spalle la luce del sole, la spada tra le mani, certa che i compagni non l'avrebbero avvertita di eventuali pericoli. La stanza era alta, polverosa e scura, e la luce della torcia le conferiva un aspetto tetro. Al centro, sulle piastrelle del pavimento, vi era una sorta di disegno circolare, incorniciato da quattro colonne di pietra scura e liscia, che si ergevano verso un soffitto invisibile. Oltre le fiamme, sempre più deboli, si intravedevano alcuni gradini scuri sormontati da ciò che poteva essere solo il sepolcro di un personaggio potente... o di un vero gigante, tanto grande era la pietra nera screziata di verde smeraldo, le cui curve, scintillanti di rune dorate, s'illuminavano di tanto in tanto alla luce fioca della torcia. La struttura era fiancheggiata da due bracieri vuoti, più alti di Nuressa, e sopra di essa pendeva l'estremità impolverata di ciò che sembrava una cotta di maglia appesa, a mo' di tenda, al soffitto invisibile. Ma non era la tomba che l'arcigno mago elfo, lo sbalordito nano, e l'esile ladro stavano fissando: era qualcosa di più vicino, sopra di loro. Nuressa alzò gli occhi, poi si guardò intorno, in cerca di altre entrate o di pericoli
incombenti. Nulla richiedeva l'intervento della spada, perciò l'appoggiò di punta e sollevò di nuovo lo sguardo. In alto, sopra di loro, sospeso a circa cinque metri d'altezza, vi era una specie di spaventapasseri, che un tempo avrebbe potuto essere un uomo. Erano ben visibili due suole consunte, e un ammasso di polvere grigia dalla sagoma umana, tanto fitta da sembrare peluria, unita al soffitto e ai muri da ragnatele altrettanto polverose, spesse quanto una fune. «Una volta quella cosa doveva essere un uomo», mormorò Iyriklaunavan, esprimendo ciò che tutti stavano pensando. «Già, ma che cosa lo tiene sospeso?», chiese Folossan. «Certamente non quelle ragnatele... ma non vedo nient'altro». «Magia», rispose Nuressa riluttante, e tutti annuirono solennemente. «È qualcuno che è morto in una trappola o in un duello d'incantesimi», osservò tranquillamente Amandarn, «oppure un guardiano, che ha atteso per tanti anni, non morto o addormentato, degli intrusi come noi?» «Non possiamo rischiare», affermò arcigno l'elfo. «Potrebbe benissimo essere un mago, e si trova proprio sopra di noi; tutti indietro». La banda di avventurieri senza nome indietreggiò in quattro direzioni diverse nella stanza ormai sempre più buia. Folossan si mise a frugare nel suo sacco voluminoso alla ricerca di un'altra torcia mentre Iyriklaunavan sollevò le mani a conca, mormorò qualcosa e poi le allargò. Qualcosa tremolò e scintillò fra di esse per un istante, prima di emanare tanta luce da far bruciare gli occhi e di balzare nel vuoto scuro come una spada sfrigolante. L'incantesimo fendette l'aria e colpì tutto ciò che poteva trovarsi sopra di loro, causando una pioggia di polvere soffocante. Ciuffi di pelo grigio caddero come neve dagli alberi sopra i quattro avventurieri, che iniziarono a tossire e a sfregarsi naso e occhi: poi, scuotendo la testa, indietreggiarono barcollando. Qualcosa tremolò nelle vicinanze, in numerosi punti, e, mentre lottavano per togliersi la polvere dagli occhi lacrimanti e per cercare di vedere ciò che stava accadendo, gli intrusi non poterono fare a meno di notare due particolari: gli stivali sopra di loro non si erano mossi di un centimetro, e una luce pulsante saliva e scendeva rapida dalle quattro colonne di pietra. «Si muove!», urlò improvvisamente Iyriklaunavan, puntando il dito sopra la testa. «Si muove! Farò...» Le altre parole si persero nell'improvviso stridore delle pietre sotto i loro piedi. Le luci delle colonne divennero d'un tratto più intense e si riflessero su quattro lame rigidamente sollevate. I rivestimenti di pietra dei pilastri
scivolarono sul pavimento, rivelando un'apertura che si estendeva per tutta la loro altezza. Qualcosa riempì poco dopo quelle fenditure, ma la radiosità si affievolì, e la stanza fu infine illuminata solo dai tizzoni color vermiglio rimasti sul pavimento. Folossan si gettò sulla torcia, soffiò forte su di essa, tossendo per la polvere ogniqualvolta riprendeva fiato. Ne avvicinò una nuova a quella vecchia e ravvivò il fuoco con un soffio. In quell'istante gli altri fissarono sospettosamente ciò che riempiva le aperture delle colonne: un ammasso pallido e scintillante, che brulicava nelle scanalature come un esercito di vermi su un cadavere. Perlacei o grigiastri, sembravano grani di riso in una salsa chiara che si piegavano e si allungavano come per sgranchirsi in seguito a una lunga prigionia. La nuova torcia avvampò, e nella sua luce tremolante Nuressa vide confermati i suoi sospetti. «Lossum... vieni via di là!», urlò. «Tutti indietro... via da questo luogo... subito!» La donna guerriero aveva visto distintamente la carne pallida ritrarsi per rivelare un occhio grigio-verde... e poi un altro, e un altro ancora. Quelle erano foreste di antenne occhiute! E le uniche creature che avevano tanti occhi sulle antenne erano i beholder, i crudeli tiranni leggendari. Anche gli altri capirono e corsero verso di lei nella coltre di polvere che iniziava a posarsi, l'idea di saccheggiare la tomba e uscirne con sacchi colmi di tesori ormai più che dimenticata. Dietro gli avventurieri, sotto gli occhi attenti di Nuressa, una miriade di occhi ammiccarono e iniziarono a mettere a fuoco l'ambiente circostante. «Muovetevi!», sbottò la donna, aspirando tanta polvere da riuscire a fatica a pronunciare le parole seguenti. «Muovetevi... o morirete!» Un bagliore improvviso circondò un occhio, poi un altro e infine esplose, emanando raggi di luce dorata che trafissero la polvere, bruciacchiando i talloni di Folossan e il muro accanto a Iyriklaunavan. Amandarn superò Nuressa, lasciando dietro di sé una scia di paura; allora la guerriera si schiacciò contro il muro in modo da non bloccare la fuga disperata dei compagni. Prima l'elfo, poi il nano uscirono rumorosamente, farfugliando una sequela di imprecazioni, ma Nuressa mantenne lo sguardo fisso sulle colonne. Quattro pilastri di occhi svegli e vigili guardavano ora nella sua direzione, tutti avvolti da cerchi dorati. «Dei», ansimò, in preda al terrore. Fate sì che non possano inseguirci... Un raggio di luce color rubino sfrecciò da un occhio in direzione di Nuressa, ma la donna lo schivò, e alcune scintille crepitarono lungo il filo del-
la sua spada. Un calore improvviso le arroventò il palmo; quando una decina di raggi dorati vennero scagliati contro di lei fra la polvere densa, la donna gettò la spada all'indietro, sopra la testa e fuori dalla stanza, poi si voltò rapida e seguì l'arma, tuffandosi per sicurezza quando qualcosa le passò accanto all'orecchio emettendo un suono simile a un tuono. Dopodiché numerose pietre iniziarono a pioverle addosso. È strano stare in piedi nell'aria... non è solida come la roccia, e neppure cedevole come l'erba. In un'oscurità secca e polverosa... per i dolci baci di Mystra, dove si trovava? La memoria fluiva intorno a lui come un fiume, un manto protettivo che lo aveva preservato dalla pazzia per tanto tempo, e che ora non avrebbe risposto alle sue richieste. Percepiva un gran formicolio nelle membra: un grande potere lo aveva scosso vigorosamente solo pochi istanti prima. Un incantesimo scagliato contro di lui... un nemico doveva essere vicino. I suoi occhi, rimasti immobili e secchi tanto a lungo, non ne vollero sapere di ruotare nelle orbite, perciò fu costretto a voltare la testa; ma anche il collo si rivelò rigido e irremovibile, dunque girò le spalle e l'intero corpo, scrollandosi di dosso ammassi enormi di polvere. Si ritrovò a sprofondare, a scivolare verso il basso, liberato da... da che cosa? Qualcosa lo aveva intrappolato in quel luogo, malgrado si fosse ricordato di aver camminato sull'aria per evitare trappole, incantesimi e guardiani. Ora qualcosa d'altro aveva spezzato la magia che lo teneva sospeso e immobile nell'oscurità. Doveva esser passato molto tempo. Eppure qualcosa aveva infranto l'incantesimo, destandolo. Non era solo, e, volente o nolente stava scendendo, verso... verso che cosa? Si sforzò di vedere tra la polvere e scoprì numerosi occhi che lo guardavano da ogni direzione; occhi malvagi, posti sulla sommità di antenne pallide che oscillavano lente e aggraziate mentre seguivano la sua discesa, occhi contornati da un bagliore luminoso. Una strana specie di beholder? No, alcune antenne erano più scure, altre più grosse, o più lunghe delle altre... erano sì antenne di mostro occhiuto, ma non appartenevano a un solo esemplare; e quel bagliore non poteva che essere malvagio. Si sentiva ancora molto strano... distaccato, quasi irreale, ancora immerso nel fiume di ricordi che facevano di lui... Elminster, l'Eletto... o almeno
uno degli Eletti... di Mystra, la signora della magia. Ah, il calore e il potere puro del fuoco argenteo che fluiva in lei e fuori di lei attraverso la bocca, si unì al suo per impossessarsi con furia rabbiosa e rovente di ogni centimetro del suo corpo, e fuoriuscirgli dal naso, dalle orecchie, dalle punte delle dita. D'un tratto balenò una luce, ed Elminster sentì un nuovo dolore straziante; cercò di gridare, ma aveva la gola troppo secca. Le sue mani iniziarono ad annaspare nel vuoto, e le sue interiora sembravano in fiamme e, pur tuttavia, libere e leggere. El guardò verso il basso e vide fuoco argenteo sfrigolare intorno a lui, uscire incessantemente dal suo stomaco insieme a qualcosa di pallido, sanguinolento, e filamentoso che doveva essere il suo intestino. Un altro raggio di luce, e una nuova fitta di dolore segnò la perdita di parte dei capelli e della punta dell'orecchio destro. Elminster fu invaso da una rabbia improvvisa e, senza nemmeno pensare, attaccò squarciando l'aria con fuoco argenteo, il quale emise un fascio di raggi magici nel suo tragitto verso le antenne occhiute. Numerosi occhi scomparvero, ma non prima di aver sbattuto le palpebre ed essersi dimenati nell'ormai inutile bagliore. El non perse tempo a osservarne la fine, ma si volse subito verso un altro pilastro e ridusse in cenere tutte le antenne. Non sapeva quali magie serbassero tutte quelle antenne occhiute recise, ma le fiamme di Mystra erano efficaci contro ogni sorta d'incantesimo, e di carne, viva o non morta. Elminster prese a distruggere anche la terza colonna di occhi affamati; non aveva ancora toccato terra, le sue budella penzolavano davanti a lui, e a ogni fulmine di fuoco argenteo qualcosa sembrava avvampare oltre i pilastri. I fasci di luce magica iniziarono a colpirlo violentemente, ma tutti venivano fermati dal fuoco divino di Mystra; il crepitio furioso e il rombo, a tratti più intenso, di tanta magia scuotevano la stanza come una violenta bufera, facendo tremare le membra del mago rimaste a lungo inutilizzate. Un'ultima colonna di antenne si oscurò e morì, incurvandosi penzolante verso il pavimento e secernendo una poltiglia nera che rispecchiava il flusso di fluidi vitali che fuoriusciva dal corpo di El, riversandosi sul pavimento. Il mago afferrò i suoi intestini, e cominciò a riporli dentro di sé con mani avvampanti di fiamme argentee, nauseato e debole nonostante il fluire del potere divino; prima ancora d'aver terminato, i suoi talloni trovarono finalmente qualcosa di solido. El vacillò, e prima di piantare saldamente i
piedi a terra rischiò di cadere all'indietro. Di nuovo la polvere si sollevò intorno a lui, crepitando rabbiosa quando incontrò il fuoco argenteo; oltre le colonne, alcune rune incise sui gradini, e su ciò che doveva essere una tomba, si illuminarono e crepitarono di fuoco proprio, in risposta al fuoco di Mystra. Ansimando in preda al dolore, Elminster si concentrò per guarire la ferita, ignorando gli ultimi sporadici occhi tremolanti; il fuoco argenteo l'avrebbe difeso da altri eventuali attacchi, o almeno era ciò che sperava. Il suo sangue era caduto come una pioggia scura sul pavimento durante tutta la sua discesa, ed egli si sentì completamente svuotato. Allora l'ultimo mago di Athalantar ringhiò di rabbia e di determinazione. Doveva riprendersi e uscire da quel luogo prima che il fuoco immagazzinato gli avvolgesse il cuore per rigenerarsi. Se avesse indugiato, l'entità che lo aveva intrappolato avrebbe potuto sferrare un nuovo attacco. El si voltò lentamente, si chinò, si sistemò l'intestino con le dita tremanti, e s'incamminò zoppicante verso il punto da cui penetrava una flebile luce solare. Le ultime antenne lanciarono nuovi raggi magici e colpirono il pavimento a pochi centimetri dai suoi stivali. Mentre sigillava l'ultimo lembo di carne, El creò dietro di lui uno scudo di fiamme argentee per proteggersi da ulteriori attacchi. Nel medesimo istante, alle sue spalle, le antenne sopravvissute si afflosciarono e si oscurarono; nel contempo il bagliore delle rune sulla tomba divenne sempre più intenso. Piccole luci ammiccarono nel centro della tenda metallica che lo sovrastava, e cominciarono a salire e scendere come ragni curiosi ed eccitati, via via più luminosi. Elminster uscì guardingo nella luce del sole, aspettandosi di essere colpito da frecce o spade mentre i suoi occhi stentavano ad abituarsi al chiarore accecante; ma trovò solo quattro volti spaventati che lo fissavano da un lontano muro diroccato. Il mago tentò di chiamarli, ma tutto ciò che riuscì a pronunciare fu un grugnito strozzato. Tossì, gorgogliò e tentò di nuovo, questa volta gli uscì un singhiozzo. L'elfo dietro il muro sollevò una mano come per sferrare un incantesimo, ma il nano e l'umano che gli stavano a fianco lo bloccarono. Dopodiché scoppiò una furiosa discussione. El fissò lo sguardo sul quarto avventuriero - una donna che lo osservava guardinga da sopra l'estremità incrinata di un'enorme spada, colpita da po-
co da un fulmine o da qualcosa di simile - e riuscì a domandare: «Che... anno... è questo?» «L'Anno della Spada Mancante, inizio di Mirtul», rispose lei. Poi, notando uno stanco tentativo di comprensione, aggiunse: «Nel Calcolo di Dale è il settecentocinquantanove». El annuì, fece un gesto di ringraziamento, si appoggiò a una colonna poco distante e scosse il capo. Stava esplorando quella tomba... un secolo addietro?... per cercare di capire come aveva affrontato la morte il più potente arcimago di Netheril, e qualche insidiosa trappola magica l'aveva irretito tanto abilmente che nemmeno si era accorto di essersi addormentato. Per anni, a quanto sembrava, era rimasto sospeso immobile. Elminster il Potente, Eletto di Mystra, Armathor di Myth Drannor, e Principe di Athalantar era stato un comodo ancoraggio per ragnatele e un ottimo deposito per la polvere. Che stupido idiota. Sarebbe cambiato, si domandò brevemente il mago dal naso aquilino, se fosse vissuto per mille o più anni? Forse no. Be', perlomeno sapeva di essere un idiota, mentre molti maghi non se ne rendevano nemmeno conto. El fece un respiro profondo, si nascose dietro il pilastro quando vide l'elfo sorridergli e sollevare nuovamente le mani, e frugò nei suoi ricordi. Sì, ecco gli incantesimi... e quello sì, sarebbe stato utile. Doveva riesplorare il mondo, e recuperare decenni di storia perduta. «Mystra, perdonami», affermò ad alta voce, invocando l'incantesimo. Non udì risposta, ma la magia funzionò come previsto, avvolgendolo in turbine di nebbia blu e di bolle argentee che l'avrebbe trasportato altrove. Improvvisamente la figura dietro la colonna scomparve. «L'avevo in pugno!», urlò Iyriklaunavan. «Ancora qualche istante e...» «Avresti potuto farci morire in un duello magico, proprio in questo luogo», sibilò Amandarn. «Non dovremmo andarcene di qui? Quell'uomo liberato dalle ragnatele, quegli occhi nelle colonne... che altro si starà svegliando là dentro?» Folossan roteò gli occhi e commentò: «Ho udito bene? Un ladro che scappa da un tesoro?» Il distributore di ricchezza gli lanciò un'occhiata glaciale. «Guardala da un'altra prospettiva», rispose. «Un ladro che fugge da una probabile morte». Il nano sollevò lo sguardo verso la donna guerriero. «Nessa?»
Lei emise un profondo sospiro di rimpianto, poi affermò brusca: «Ce ne andremo, tanto rapidamente quanto queste pietre ce lo consentiranno. Venite... subito». Nuressa si voltò, una figura possente in un'armatura annerita, e iniziò a farsi strada fra colonne e fondamenta di muri diroccati. «Siamo a meno di venti passi dalla magia più potente che abbia mai visto in decenni», protestò il mago elfo, indicando con una mano l'antro scuro. Nuressa si voltò, mani sui fianchi, e sbottò: «Ascolta la mia predizione: non solo è la magia più grande che tu abbia mai visto... ma è la più grande che vedrai in tutta la tua vita, Iyrik, se indugiamo qui un secondo più a lungo. Andiamocene prima che faccia buio... visto che ancora possiamo». La guerriera voltò loro nuovamente le spalle; Folossan e Amandarn guardarono con rimpianto la stanza da cui erano fuggiti, ma la seguirono. L'elfo dalla tunica rossiccia imprecò, fece per tornare alla tomba, ma poi si voltò e seguì i compagni. Pochi passi più avanti si fermò e guardò indietro. Sospirò e proseguì, non vedendo ciò che uscì dalla tomba per seguirlo. La seconda torcia si consumò, e nell'oscurità quasi totale le rune sui gradini della tomba avvamparono come candele di un altare; da un punto indistinto provenne un rumore sordo e ritmico, come di un tamburo distante. Le luci che correvano su e giù per la tenda sopra la tomba scura iniziarono a cadere come una pioggia di scintille, e sprofondarono nelle rune dando vita a piccole fiamme sulla pietra. Dalla lapide si sollevò quindi una nebbiolina, e un debole eco, simile a un canto d'esultanza, si mescolò per un attimo al suono di tamburo. Le rune brillarono, si affievolirono, poi s'illuminarono ancora di una luce quasi accecante... infine si spensero bruscamente, lasciando la sala immersa nelle tenebre e nel silenzio. I tizzoni della torcia emanavano ancora luce sufficiente - se qualcuno si fosse trovato ancora nella tomba - per illuminare il coperchio massiccio della bara che si sollevava di pochi centimetri. Qualcosa fuoriuscì dalla fessura e iniziò ad aleggiare nella stanza. Era un vento più che un corpo, un'ombra più che una presenza. Come un turbine gelido e tintinnante si compattò e si diresse verso la luce solare, non lasciando scampo, nel suo percorso, alle creature che fino ad allora erano vissute nella tomba.
LIBRO PRIMO La signora delle ombre 1. FUOCO DI MEZZANOTTE Azuth rimane una figura misteriosa... talora benevola, talaltra spietata, talora ansiosa di rivelare tutto, talaltra deliberatamente criptica. In altre parole, un tipico mago. Antarn il Saggio Da La grande storia della potenza degli arcimaghi faerûniani Pubblicata approssimativamente nell'Anno del Bastone «Che Tempus ci preservi!» «Risparmiati le preghiere, idiota, e corri! Tempus onorerà le tue ossa se non ti muovi!» Le pentole sbatterono furiosamente le une contro le altre quando Larando le gettò per terra, con la sacca e tutto il resto, e si mise a correre tra le felci alte fino alle ginocchia. Un ramo basso gli fece cadere l'elmo, ma egli non tentò nemmeno di raccoglierlo. Il sacerdote di Tempus lo seguì ansimando, il sudore gocciolante dal mento ispido. Ardelnar Trethtran era esausto per la corsa, e gli dolevano il petto e le gambe... ma ancora non osava cedere. Le torri diroccate di Myth Drannor era ancora visibili intorno a loro... e i demoni ancora in agguato. Risate grasse e malvagie si levarono dagli alberi alla sinistra di Ardelnar... seguite da un minaccioso trio di barbazu dalla barba sanguinolenta. Erano nudi, la loro pelle squamata scintillava del sangue delle vittime, misto alla bava da cui erano solitamente ricoperti; le ampie spalle s'incresparono, e le orecchie da pipistrello e la lunga coda sferzante cominciarono a ondeggiare esultanti, mentre le creature avanzavano balzellanti come orchi allegri, gli occhi neri colmi di gioia. Gettarono via le membra sanguinanti di qualche avventuriero sfortunato e si lanciarono all'inseguimento di Larando, urlando frasi scherzose in una lingua che Ardelnar fu lieto di non comprendere. Agitavano le pesanti spade seghettate come giocattoli, fra grida e sbuffi, e occorsero loro solo pochi istanti per raggiungere la prima vittima. Larando gridò quando il braccio che stava freneticamente agitando
gli si staccò dal corpo, tranciato nettamente da un colpo di spada ben assestato. Un secondo demone non fu tanto abile; l'altro braccio del guerriero fu lasciato a penzolare dalla spalla, attaccato solo mediante qualche brandello di carne sanguinolenta. Quando Larando gemette e si accasciò, due delle creature usarono le spade seghettate per sollevarlo in una barella improvvisata, e corsero via con lui in modo che il terzo barbazu potesse divertirsi con gli intestini del guerriero, dopo aver tagliuzzato il suo corpo così da permettere loro di vedere brevemente il mondo esterno. Quando Ardelnar fuggì in una direzione differente, la testa di Larando stava ancora penzolando dal corpo, nonostante i brutali colpi inflittigli. Il sacerdote lanciò un'ultima occhiata all'amico, e vide una meravigliosa donna alata - no, un demone, una erinyes - sbucare dagli alberi con una falce in mano. Enormi ali dalle piume grigie batterono sopra un corpo slanciato, armonioso e pallido nelle parti lasciate scoperte dalla crudele armatura spinata. La donna aggrottò le torve sopracciglia nere, si leccò le labbra insolenti con l'acquolina in bocca, e poi colpì, si contorse e volò via, agitando un trofeo mutilato. Sangue caldo ricoprì i barbazu sottostanti, che ulularono delusi, tra loro un cadavere senza testa che ancora si agitava. «Tempus perdona la mia paura, ti prego», balbettò Ardelnar con labbra bianche e tremanti, mentre continuava a correre in preda alla nausea. Avevano commesso un errore recandosi in quel luogo, un errore che sembrava dovesse costare a tutti la vita. La Città del Canto non era una cava di tesori, bensì il terreno di caccia di demoni. Quelle creature malvagie si nascondevano, lasciavano che i cercatori di tesori si avventurassero liberamente in mezzo a loro, tra le rovine della città decaduta, poi li intrappolavano e si divertivano macabramente a ucciderli. Storie di tali crudeltà venivano narrate nelle taverne dove si riunivano gli avventurieri. Quello fu il motivo che spinse tre gruppi famosi di mercenari a unirsi, di malavoglia, per andare insieme a Myth Drannor, certi che sette maghi, due dei quali arcimaghi di fama, sarebbero riusciti a gestire qualche mostro alato... Molti di quei maghi erano stati massacrati dai demoni oppure lasciati a vagare senza occhi e senza lingua, per una sorta di divertimento posticipato. Per quell'epoca i restanti membri del gruppo sarebbero stati già morti, pensò Ardelnar, truce, mentre calpestava una statuetta caduta. Fece qual-
che passo incerto per mantenere l'equilibrio, e si ritrovò a sbattere contro i resti coperti di vegetazione di una fontana. Oh, il tesoro l'avevano certamente trovato. La tasche della sua cintura straripavano di gemme - zaffiri e qualche rubino - strappate dal cadavere mummificato di un elfo quando la sua magia conservatrice aveva emesso gli ultimi bagliori e si era esaurita. Nella cripta avevano persino trovato una erinyes solitaria, e l'avevano uccisa senza esitare. Con le ali recise in una pioggia di piume insanguinate, la creatura, per quanto avesse sibilato e sputato, non sopravvisse a lungo alle spade di una decina di avventurieri. Ardelnar vedeva ancora davanti agli occhi quella bocca, bella da baciare, e il suo sangue fumante che colava lungo le membra brune. Poco dopo era scattata la trappola: demoni gongolanti erano usciti da dietro le rovine e i cespugli, e gli avventurieri avevano cominciato a fuggire in tutte le direzioni al suono di risate fredde e crudeli... ed era cominciata la carneficina. Ora, nel presente, il sacerdote vide ancora le erinyes. Quattro di loro sorvolarono le rovine a bassa quota; d'istinto Ardelnar si acquattò, ma i demoni alati lo ignorarono e virarono alla sua destra, ridendo scioccamente come damigelle di corte... nude, magnifiche e letali. Avrebbero potuto essere scambiate per donne brune del Tashalar, se non fosse stato per quelle ali grigie. Stavano inseguendo il mago che, sperava Ardelnar, avrebbe potuto salvare entrambi da quelle rovine infestate di demoni. Klargathan Srior era un uomo del sud, alto, dalla barba a spazzola: sembrava essere il più capace di tutti i maghi, nonché il più arrogante. Ma ora che correva faticosamente, le gambe villose macchiate di sangue nei punti in cui si era tagliato mentre tentava di liberarsi della tunica ingombrante, tutta quell'altezzosità sembrava scomparsa. Gli orecchini d'oro ondeggiavano tra rivoli di sudore, e un fiume continuo di imprecazioni accompagnava la sua fuga per la salvezza. Le erinyes si separarono per attaccarlo su quattro lati, tra le mani pugnali dalle lame affilate. Nei loro occhi crudeli e nelle loro risate si leggeva voglia di divertimento, non di omicidio immediato. Ansimando, il mago si arrestò e si mise in assetto di difesa. «Sacerdote!», urlò, mentre il manganello alla sua cintura si trasformava in un bastone. «Aiutami, per amore di Tempus!» Ardelnar fu tentato di continuare a correre, lasciando che la morte dell'uomo gli facesse guadagnare un po' di terreno, ma non avrebbe avuto alcuna chance in quel bosco infinito senza gli incantesimi di Klargathan, ed
entrambi lo sapevano. Entrambi sapevano anche che quella fredda intuizione aveva più potere che il comando di servire Tempus. La vergogna causata da quel pensiero era come un verme freddo sul cuore di Ardelnar, ma non vi era tempo di rimuginare né di smentire. Il sacerdote deglutì, si voltò, e, senza rallentare, corse verso il mago, inciampando su alcune ossa seminascoste dalle piante, ossa vecchie... ossa umane. Con un piede colpì un teschio, senza mandibola, incapace di sogghignare, e lo fece rotolare lontano. Klargathan stava agitando il bastone sopra la testa con vigore disperato, nel tentativo di allontanare le erinyes prima che una di loro gli squarciasse la faccia o gli togliesse l'arma dalle mani. I demoni gli giravano intorno come squali, allungando le spade per tagliargli i vestiti. Una spalla era già nuda... e bagnata di sangue. Nel baccano causato dai tonfi del bastone e dal battito d'ali, gli occhi del mago incrociarono quelli del sacerdote. «Ho bisogno...», ansimò esausto, «di un po' di tempo!» Ardelnar fece cenno d'aver compreso e raccolse il suo elmo per colpire le ali di un demone. La donna vacillò e il sacerdote colpì violentemente il suo volto meraviglioso con la mazza da guerra. Il sangue sprizzò da tutte le parti e il demone urlò di dolore; il suo volo cieco terminò con un ruzzolone e uno schianto contro un albero, mentre le tre compagne rimaste si abbatterono su Ardelnar. Il sacerdote colpì con l'elmo la faccia di una, poi si abbassò sotto il corpo della donna che lo sfiorò con i seni, e lo utilizzò per difendersi dalle spade delle colleghe. Esse colpirono indistintamente il demone e il sacerdote, e quando Ardelnar rotolò via e si rialzò per evitare d'essere intrappolato dalle due erinyes urlanti, udì Klargathan borbottare un incantesimo, ignorando il demone gorgogliante che si trascinava sul terreno accanto a lui, il fianco aperto e zampillante di sangue nero e fumante. Le ultime due erinyes si librarono nell'aria per potersi poi gettare su quella coppia di umani inaspettatamente tenaci, e Ardelnar lanciò una rapida occhiata alle torri diroccate di Myth Drannor. Stavano giungendo altri demoni. Barbazu e hamatula spinosi, troppi per poter essere sconfitti o seminati nella corsa, avanzavano con lunghi balzi, le code sferzanti e la sete di sangue evidente sui loro volti. Quel terreno ammantato di felci sarebbe stato la sua tomba. «Tempus, fa' che possa renderti gloria in quest'ultima battaglia!» implorò a voce alta, sollevando il martello insanguinato. «Rendimi degno di servirti, fa' che i miei colpi siano rapidi, la mia lotta attenta, i miei movimenti
agili e svelti!» Una delle due donne alate gli bloccò il martello col pugnale, e abbassandosi gli sussurrò beffarda all'orecchio: «I miei, i miei... e che altro?» La voce era bassa e carica di promesse lussuriose, ma il suo tono fece infuriare più che mai il sacerdote, che si lanciò all'inseguimento, esponendosi alle grinfie dell'altro demone. Eppure, proprio quest'ultimo divenne la prima vittima dell'incantesimo di Klargathan. Spire viscide e nere di ciò che sembrava un serpente o un'anguilla gigante s'innalzarono a una velocità incredibile dalle felci poco lontano, simili a radici o rami di un albero. Una di esse si avvinghiò alla gola dell'erinyes mentre si accingeva senza fretta a colpire Ardelnar, e un'altra le avvolse una caviglia. La forza delle sue ali frenetiche la fece ruotare su se stessa e la spinse verso il punto in cui l'albero nero aveva già intrappolato entrambe le erinyes abbattute. I loro corpi stavano avvizzendo a vista d'occhio, svuotati del sangue e delle interiora con la medesima velocità con cui si muoveva la pianta. Nel tentativo di riprendere il volo, il demone alato si schiantò in un intrico di piante e cespugli, si ruppe il collo e non si mosse più. «Per il Dio delle Battaglie, che incantesimo!», ansimò Ardelnar, osservando i tentacoli sciamare sopra il corpo del demone a velocità incredibile, mentre altri si agitarono nell'aria sopra di loro per intrappolare l'ultimo demone. Nonostante la sua lotta disperata, i viticci dell'albero nero le afferrarono le ali e la tirarono verso il basso; il sacerdote di Tempus rise e agitò il martello in segno di riconoscimento al mago. Klargathan ricambiò con un sorriso sbilenco. «Non sarà sufficiente», affermò, «e non ne ho un altro simile. Moriremo per poche gemme e qualche ninnolo elfo». L'orda di demoni li aveva quasi raggiunti; Ardelnar si voltò per fuggire, ma il mago scosse il capo. «Io non scappo», affermò, «il mio albero impedirà loro di prenderci da dietro». Una speranza improvvisa gli illuminò il viso e aggiunse: «Hai qualche zaffiro?» Ardelnar aprì la tasca e la rovesciò nella mano dell'uomo. «Dovrebbero essercene una decina», commentò zelante, per nulla seccato che Klargathan prendesse possesso dei suoi tesori e gettasse a terra tutto ciò che non erano zaffiri. Il mago mise un braccio intorno alle spalle del sacerdote e lo abbracciò ardentemente. «Moriremo lo stesso», osservò, assestando un bacio sulle
labbra del prete sbalordito, «ma per lo meno faremo a pezzi qualche demone». Sogghignò al vedere l'espressione di Ardelnar, e aggiunse: «Il bacio è per mia moglie; se ti rimane tempo per un'altra preghiera, di' a Tempus di darglielo da parte mia. Tienili di nuovo a bada, per favore». Klargathan si acquattò senza altre parole, il sacerdote sollevò il martello da guerra in una mano e sganciò con l'altra la piccola mazza dalla cintura, poi si posizionò davanti al mago, mentre tentacoli neri sempre più spessi si disposero attorno e sopra di loro, come una mano a coppa. L'albero tremolò sotto i colpi delle spade barbazu, e alcuni spinagon simili a grotteschi doccioni, ripiegarono le ali, appiattirono la coda spinosa e si intrufolarono fra i rami dell'albero, lungo aperture simili a tunnel, per affrontare il sacerdote, il quale si sentì traboccare di gioia... anzi, di soddisfazione. Sarebbe morto in quel luogo, ma sarebbe morto con onore. «Grazie, Tempus», mormorò, inviando il bacio di Klargathan al dio della guerra affinché lo prendesse in consegna. «Spero di compiacerti con quest'ultimo servizio». Il suo martello si sollevò e colpì. Artigli di spinagon gli graffiarono il braccio, ed egli li allontanò con la mazza, per essere respinto dalla forza bruta di cinque demoni inferociti. «Muoviti, mago!», ringhiò il sacerdote, lottando per evitare di venire sepolto da membra artigliate. «Ho fatto», rispose Klargathan tranquillo, poi toccò lievemente Ardelnar con un ginocchio, scagliò uno zaffiro lungo il tunnel di viticci, e il mondo esplose in una pioggia di fulmini. Da una gemma all'altra nella mano del mago saettarono numerosi fulmini. Crepitando e rimbalzando fino a formare archi luminosi, presero a muoversi in avanti e all'indietro. Nonostante fossero spaventati a morte, né il mago né il sacerdote vennero danneggiati dall'incantesimo. Anche il demone avvinghiato ad Ardelnar venne protetto dai fulmini, ma Klargathan avanzò verso di lui e gli conficcò un pugnale d'argento in un occhio, poi lo estrasse e lo colpì nell'altro. La creatura collassò, scivolando lungo le gambe del sacerdote, mentre i due avventurieri osservarono gli altri demoni, tra cui un hamatula dalla testa a punta, ricoperto di aculei, dimenarsi sotto la pioggia di fulmini. Questi ne annerivano la carne e ne facevano sfrigolare gli occhi. Poi, così bruscamente com'era iniziato, l'incantesimo terminò, lasciando Klargathan ad agitare la mano e a soffiare sul palmo fumante. «Davvero delle buone gemme», esclamò con un ghigno, «e ce ne rimangono altre». «Fuggiamo?», domandò Ardelnar, fissando una coppia di erinyes che lo
guardava dall'alto, «o attendiamo qui?» Un altro gruppo di demoni alati stava lottando per smuovere un'enorme statua elfa; dopo qualche secondo la lasciò cadere con estrema precisione, e la dura pietra di Myth Drannor si schiantò sul groviglio di rami neri, tramortendo i due uomini. Intontiti, questi cercarono di rialzarsi e scoprirono che la scultura aveva lasciato uno spiraglio, dal quale videro gli spinagon volteggiare nel cielo e riunirsi per sferrare l'attacco finale. Il mago scrollò le spalle. «Siamo morti, in ogni caso», affermò. «Se fuggiremo, sarà un bel divertimento sia per noi sia per loro, ma se attendiamo guadagneremo tempo e potremo ucciderne altri prima di cadere. Non era proprio ciò che desideravo fare tra le rovine di Myth Drannor, ma mi dovrò accontentare». La risata di Ardelnar risuonò lievemente selvaggia. «Muoviamoci», suggerì. «Non voglio finire schiacciato da un blocco di pietra, con quelle creature che mi straziano lentamente le estremità. Klargathan sogghignò e batté una mano sulla spalla del sacerdote di Tempus. «Che il tuo dio ce la mandi buona!», affermò e gli diede uno spintone violento. Mentre lo stupito Ardelnar finiva con la testa fra i tentacoli neri, cinque o sei spinagon si scagliarono nello spazio dove l'uomo si trovava fino a pochi istanti prima, e colpirono con le forche il vuoto, ma troppo in profondità per potersi ritrarre rapidamente. «Corri!», urlò il mago, indicando il tunnel. Ardelnar obbedì, si appoggiò alla mazza per mantenere l'equilibrio in quella selva di radici, e si allontanò rapidamente dall'albero magico. Il mago lo seguì a ruota, uno zaffiro stretto nel pugno e la testa bassa per vedere dove metteva i piedi. Quando gli artigli dello spinagon più vicino fecero per toccarlo, Klargathan sollevò la gemma e pronunciò piano una parola. Da essa scaturì improvvisamente un fulmine che colpì il demone in piena gola. Il suo corpo grigio esplose trafitto da ogni parte da una gragnola di fulmini: il mago aveva infatti lasciato un'altra gemma sul terreno accanto alla statua, nel punto in cui i demoni erano atterrati. Quando i brandelli scuri, intrisi di sangue, scomparvero dietro i due uomini in fuga, Ardelnar vide gli spinagon rimanenti cadere e fremere, vittime di una vera e propria tempesta di fulmini. Il sacerdote seguì il mago dietro un'enorme quercia, su un sentiero di caccia che si snodava approssimativamente nella direzione che volevano prendere: in verità, sarebbero andati ovunque, pur di allontanarsi immediatamente dalle rovine. Ardelnar vide il mago gettare in aria un'altra gemma; in fila indiana si
aprirono la strada, schivando gli alberi vivi e scavalcando quelli caduti, nell'infinita foresta brulicante di barbazu, che aveva ormai reclamato le rovine della città elfa. In lontananza videro un altro avventuriero in fuga finire a pezzi. Poi una coda spinosa si abbassò improvvisamente dai rami scuri sovrastanti e mandò Klargathan a gambe all'aria, al che i due non ebbero più tempo per guardarsi intorno. La prima sferzata della frusta del cornugon strappò il martello dalle dita intorpidite di Ardelnar, e la seconda gli mise a nudo l'osso della spalla, squarciando lo spallaccio e la cotta di maglia che avrebbero dovuto proteggerlo. Il sacerdote ruzzolò a terra impotente, agitandosi nella sua agonia, e fu un bene, poiché in tal modo evitò il primo fulmine. Questo si abbatté sull'enorme cornugon squamato e lo fece ruzzolare diritto nella trappola di punte acuminate, posta sul sentiero. Impalata, la creatura malvagia ruggì disperatamente, emettendo versi acuti e assordanti, finché un Klargathan sanguinante balzò su di lui e gli conficcò il pugnale argenteo in entrambi gli occhi. Dalle orbite cieche fuoriuscirono torrenti di fumo mentre il mago si accingeva a uscire dalla buca e ad allontanarsi da quell'ammasso d'ali di pipistrello e di artigli lunghi. Dopodiché aiutò Ardelnar a rialzarsi in piedi. «Meglio costeggiare il sentiero», ansimò Klargathan, «suppongo che tu non abbia portato con te alcuna pozione guaritrice. Ne avresti davvero bisogno». «Grazie per il conforto», grugnì il sacerdote vacillando. «Non ero io l'addetto al trasporto della mercanzia, ma se mi guardi un attimo le spalle...» La bacchetta del mago divenne nuovamente un lungo bastone, ed egli si mise di guardia, osservando gli ultimi fulmini sfrecciare avanti e indietro lungo il sentiero ormai deserto, mentre Ardelnar faceva del suo meglio per guarirsi la ferita. Proseguirono quindi il cammino, ma il sacerdote era debole e stanco. Davanti a loro si ergeva una ripida collina: avrebbero potuto aggirarla oppure arrampicarsi sul pendio alberato e in qualche modo sottrarsi ai demoni alati. Klargathan, sfinito, decise di aggirare la collina; Ardelnar lo seguì, domandandosi se sarebbero stati in grado di seminare gli occupanti dei Bassi Piani. Giunsero in una radura formatasi a causa della caduta di un'enorme quercia, e il sacerdote ottenne la sua risposta. Sfortunatamente, si trattò di
una risposta definitiva. Klargathan cadde sotto gli artigli di un gruppo di cornugon, lanciò una manciata di gemme in aria con le ultime forze che gli rimanevano e morì nella violenta tempesta di fulmini che seguì, e che scaraventò i suoi assassini in ogni direzione. Il sacerdote assistette alla loro fine ed emise un ultimo grido d'esultanza; mentre artigli di demone gli aprivano il petto e il suo stesso sangue lo soffocava, Ardelnar fu felice di essere riuscito a guarire prima della lotta finale. Gli sembrava così di essere in qualche modo... in ordine. La sua ultima preghiera a Mystra aveva ricevuto come risposta un silenzio tanto assordante quanto i precedenti. Era trascorso un anno da quando si era risvegliato in una tomba brulicante di occhi maligni, e la dea tanto amata da Elminster non gli aveva ancora rivolto la parola. Aveva pianto, in ginocchio, prima di avvolgersi sconfortato nel suo mantello per cercare di prender sonno sotto un cielo di nubi irrequiete, su una collina deserta tra le lande selvagge. Si era finalmente assopito quando gli giunse il segno. Una scena era affiorata spontaneamente nella sua mente assonnata: si trovava in piedi su una collina che conosceva... e non conosceva. Si trattava dell'Altura di Halidae, un rilievo ricoperto di vegetazione a sud est di Myth Drannor, sul quale era stato una o due volte, solitamente con una ragazza elfa sorridente fra le braccia e un cielo caldo e stellato sopra la testa. Nella scena non vi erano però giovani elfe, e, inoltre, più di un albero era stato abbattuto e più di una zona era stava devastata dal fuoco. El capì di dover raggiungere quel luogo senza esitazioni, al più tardi la mattina seguente. Doveva sapere che cosa Mystra desiderasse da lui... e, paragonata al silenzio, quella visione era già qualcosa. Per l'ennesima volta El si rammaricò del silenzio della dea e si domandò che cosa avesse fatto per meritarselo; sicuramente la ragione non era l'intrappolamento durato qualche generazione, poiché non aveva fatto altro che seguire la sua volontà, cioè cercare altre magie in luoghi antichi e nascosti. Eppure, il principe aveva mantenuto i suoi poteri, e alcuni di essi erano più grandi che in passato... perciò doveva esistere ancora una Signora dei Misteri. Ma perché non si faceva sentire, perché non gli mostrava il suo volto? In fondo, chi era lui per suggerire a una dea ciò che doveva o non doveva fare? Un uomo, che sfida gli dei come fanno altri uomini... e con altrettanto
scarso successo. El si addormentò pensando alle stelle che si muovono nel firmamento, pedine della gigantesca scacchiera degli dei. L'ultima cosa che ricordò fu la corsa improvvisa, tremula, di una stella verso oriente... forse una stella vera, non la fantasia di un sogno. L'Altura di Halidae era distrutta, come nella visione. Si teletrasportò sulla cima, accanto a un albero imponente che sembrava essere esattamente identico a quello del suo ricordo; soffiava una brezza lieve, e la collina era deserta. Elminster scrutò il pendio e spostò lo sguardo verso Myth Drannor, sapendo già quale triste panorama gli si sarebbe presentato, quando il vento gli portò delle grida alle orecchie. Grida di battaglia. Balzò al margine della scarpata, da dove, in tempi più felici, si poteva osservare la meravigliosa città. Minuscole figure stavano combattendo nella rada foresta sottostante. Umani e... demoni, mostri dei Bassi Piani... correvano qua e là, gli umani in fuga. Alcune donne alate sorvolavano il campo di battaglia. D'un tratto una gragnola di fulmini esplose in ogni direzione in mezzo a un gruppo di esseri e li scagliò lontano. Altri demoni sbudellarono un ultimo avventuriero sotto gli occhi inorriditi di Elminster. Nel caso uno degli umani fosse riuscito a fuggire, era stata aperta una porta nel vuoto... un cancello magico... ai piedi dell'Altura, da cui arrivava un'orda incessante di demoni. El fissò torvo il cancello, e sollevò le mani. «Cancelli», esclamò piano, «so come trattarli». Fece una magia che gli aveva insegnato la stessa Mystra e la indirizzò sulla porta che ancora vomitava creature malvagie. L'incantesimo si abbatté sul cancello con un crepitio minaccioso di energia magica, e i demoni uscenti urlarono disperatamente. Ma quando, alcuni attimi dopo, il fuoco feroce della magia svanì, il cancello si rivelò immutato. Elminster spalancò la bocca. Come poteva...? Un istante dopo ricevette una risposta... per così dire. Le ultime scintille fluttuanti generate dall'incantesimo si intensificarono, salirono fino a lui, e si disposero a formare lettere in una delle antiche lingue elfe che aveva imparato a leggere a Myth Drannor; una lingua conosciuta solo da lui e da numerose centinaia di elfi anziani. Le lettere si unirono in una frase: «Lascia stare». Mentre El le fissava sbalordito, esse si sfaldarono e svanirono in riccioli di fumo che si unirono al caos e alla morte sottostante. I demoni guardarono in alto, ringhiando. Poteva essere solo opera di Mystra... o no?
E di chi altri? L'ultimo principe di Athalantar guardò i demoni saltellare tra le rovine di Myth Drannor, e si domandò amareggiato: «A che cosa serve essere un mago, se non si possono usare i propri poteri per fare del bene e plasmare il mondo che ci circonda?» La risposta giunse dall'aria alle sue spalle: «Che bene si può fare, se si tenta ma non si hanno occhi e cervello abbastanza fini per vedere ciò che si sta plasmando?» La voce era bassa e calma ma risuonava del potere puro che aveva percepito soltanto nelle parole di Mystra. Era una voce maschile e familiare, ma nel contempo assolutamente nuova e strana. Elminster si voltò. Era solo: sull'Altura non c'erano che pochi alberi agitati dal vento. Fissò il vuoto, che rimase tale. «Chi mi ha risposto? Fatevi avanti», esclamò. «La filosofia è difficile da comprendere se le lezioni sono impartite da fantasmi». L'aria ridacchiò. Improvvisamente apparvero due punti di luce brillante, due stelle in miniatura che iniziarono a roteare pigramente, per poi turbinare a una velocità sorprendente ed esplodere in una cascata accecante di scintille. Quando quel vortice sfavillante svanì, Elminster si ritrovò a fissare un uomo con una tunica. Aveva la barba bianca e le sopracciglia scure, e i suoi occhi sereni erano di colore blu intenso. Un attimo dopo però assunsero tutte le tinte dell'arcobaleno e divennero infine macchie scure solcate di minuscole stelle in movimento. «Stupefacente», ammise il principe amabilmente. «E voi siete...?» Di nuovo una risata. «Non era una dimostrazione, né un annuncio della mia identità... ma già che ci siamo, perché non indovini?» El squadrò l'uomo dall'alto in basso: anziano, aveva forse più di un secolo, ma era tanto sveglio da sembrare un cinquantenne. Capelli e barba erano bianchi, al contrario delle sopracciglia, dei peli sulle braccia e sul petto; in mano non aveva nulla, e le sue dita non erano adorne di anelli. Indossava una tunica semplice e spartana, con maniche scampanate, priva di cintura; sotto di essa i piedi nudi... piedi che potevano permettersi di non indossare scarpe, poiché erano sospesi a qualche centimetro da terra. Elminster sollevò lo sguardo fino a quel viso saggio, e affermò lentamente: «Azuth». «In persona», rispose l'uomo, e malgrado non avesse sorriso, a El sem-
brò in qualche modo compiaciuto. Il principe fece un passo avanti ed esclamò: «Perdonate la mia impudenza, Eccelso, se potete... ma io servo Mystra in maniera intima e personale...» «Tu sei il suo più caro Eletto, certo», ribatté Azuth con un sorriso. «Parla spesso di te e della gioia che le hai dato quando giocava a essere mortale». Udendo ciò, El provò una felicità infinita e un grande sollievo. Emise un sospiro di contentezza e, nell'indietreggiare, quasi cadde dall'Altura; in quel momento una frusta uncinata si arcuò davanti al suo viso; qualcosa lo afferrò per le spalle mentre vacillava sull'orlo del precipizio, e lo tirò in avanti, lontano dal cornugon, un istante prima che i suoi artigli gli si conficcassero negli occhi. Elminster si ritrovò a sfiorare le pietre bruciacchiate della sommità collinare, con Azuth che indietreggiava davanti a lui in modo che tra loro si mantenesse sempre la stessa distanza. «I m-miei ringraziamenti», balbettò El quando si fermarono. Poi si sentì sollevare in aria, in una comoda posizione. Anche Azuth si sedette nel vuoto, di fronte a lui, al di là di un fuoco accesosi improvvisamente, le cui fiamme si levarono a una spanna dalle rocce. El abbassò lo sguardo su di esse, poi fissò il cielo ora brulicante di demoni squamati e sibilanti, dalle ali di pipistrello, che artigliavano l'aria con sorrisi sempre più ampi. «Non vorrei sembrarvi ingrato o critico, Eccelso», affermò, «ma quei demoni hanno certamente notato questa luce, e presto ci faranno visita». Azuth sorrise, e per un attimo le sue braccia sembrarono percorse da una lenta processione di luci scintillanti e ammiccanti. «No», rispose con voce calda e musicale, splendida e carica di eccitazione... e nel contempo rassicurante. «Quest'Altura, d'ora innanzi, sarà protetta dai demoni... di ogni sorta... fino a che durerà il mio potere. Ora ascolta attentamente, perché ci sono cose che devi sapere». Elminster annuì, gli occhi scintillanti d'impazienza, e il suo atteggiamento suscitò un abbozzo di sorriso sulle labbra del Signore degli Incantesimi, che, d'un tratto, materializzò due calici traboccanti di vino fumante. Il dio cominciò a parlare. Dietro alla spalla sinistra di Azuth un enorme demone rosso batté furiosamente le grandi ali, poi artigliò l'aria, che sembrò resistergli, e infine esplose. Con le fiamme che gli avvolgevano gambe e braccia, il mostro borbottò parole confuse tra sputi di saliva vérde; un bagliore magico scaturì dalle sue mani artigliate e strisciò per lunghi istanti attraverso una barrie-
ra invisibile, poi rimbalzò con un boato che spazzò via il demone. Il dio ignorò la scena, nonché i lamenti degli altri demoni, e si rivolse a Elminster col tono di un maestro gentile. «Tutti coloro che operano magie, volenti o nolenti, servono Mystra», esordì. «Lei fa parte del Tessuto, e ogni uso di questo la rafforza, la riverisce, e la esalta. Io e te sappiamo qualcosa di ciò che è rimasto della sua parte mortale. Abbiamo visto tracce dei sentimenti, dei ricordi, e dei pensieri a cui si aggrappa, disperata, di tanto in tanto, quando l'esultanza selvaggia di potere che circola nel Tessuto... che è il Tessuto stesso... minaccia di travolgere interamente la sua sensibilità. Nessuna entità, sia essa mortale o divina, può rimanere per sempre nella sua posizione. Ci saranno altre Mystra, in futuro». Azuth tese una mano seguita da una scia di minuscole stelle a indicare Elminster, poi se stesso. «Noi siamo i suoi tesori, ragazzo... siamo ciò a cui tiene di più, le rocce a cui può aggrapparsi nelle tempeste di Arte selvaggia. Per lei dobbiamo essere forti, molto più forti degli altri mortali... strumenti temprati al suo servizio. Dato che è legata a noi dall'amore e dal bisogno di conservare la sua umanità, le riesce difficile essere dura nei nostri confronti... affinché ci tempriamo come si deve. La dea ha iniziato a formarti molto tempo fa; tu rappresenti il suo "progetto preferito", per così dire, proprio come i Magister sono il mio. Lei forgia i suoi Eletti e i suoi Magister, ma la loro formazione la affida ad altri, a me principalmente, quando arriva ad amarli troppo oppure quando ha bisogno che stiano lontani da lei. I Magister necessitano di lontananza, affinché la creatività dell'Arte non venga ostacolata; per quanto riguarda te, Mystra ti ama troppo». Elminster arrossì e sfiorò col dito l'orlo del bicchiere; poi abbassò lo sguardo, mentre i demoni continuavano a sferzare l'aria sopra le loro teste... e restò sbalordito come non mai di trovare il calice di nuovo pieno. Azuth lo guardò sorridente ed esclamò: «Ora vorresti udire di più sui sentimenti che ha per te la Signora dei Misteri, ma non osi chiedere. Inoltre, muori dalla voglia di sapere che cosa sono i "Magister" e non domandi nulla per non sviarmi dalle meraviglie che ti svelerei se mi lasciassi parlare a ruota libera. Perciò sei combattuto e ricorderesti ben poco di ciò che sto per dirti... a meno che io non ti metta a tuo agio». Elminster sentì d'un tratto una gran voglia di ridere, forse di gridare, e cercò le parole per esprimersi, ma riuscì solo ad annuire quasi disperatamente; Azuth ridacchiò ancora una volta. Dietro di lui l'aria avvampò di un improvviso fuoco verde, da cui sbucarono due demoni del sottosuolo, che allungarono arti possenti dalle estremità artigliate per afferrare il Signore
degli Incantesimi... arti che presero fuoco sotto lo sguardo spaventato di El prima di sciogliersi contro una forza invisibile, emanando un fumo nero. Le urla erano spaventose, ma la voce gentile e soave di Azuth riuscì a penetrarle come una lanterna che squarcia l'oscurità. «Mystra ti ama come nessun'altra», continuò il dio, «ma ama molte altre persone, incluso me e individui che né io né te conosciamo, alcuni in modi che ti sbalordirebbero o persino ti disgusterebbero. Accontentati di sapere che tra tutti coloro che condividono il suo amore, tu sei lo spirito giovane e brillante a cui è più che affezionata, e io sono il vecchio e saggio maestro. Nessuno di noi due è meglio dell'altro, e lei ha bisogno di entrambi. Non permettere mai che la gelosia di altri Eletti... di altri maghi di qualsiasi razza, posizione, o aspetto... contamini la tua anima». Il calice di Elminster si riempì di nuovo. Egli annuì ad Azuth tra i riccioli di fumo che s'innalzavano dal bicchiere, mentre una schiera di erinyes alate si accingeva a colpire il dio con lance di fuoco rosso... che vennero divorate silenziosamente dall'aria intorno ad Azuth. Una delle donne dalla pelle scura si avvicinò troppo al dio, e, nella sua audacia, perse un'ala; tra grida e singhiozzi precipitò verso il suolo... ma la morte la colse prima che toccasse terra, quando altre erinyes, gli occhi assetati di sangue, si avventarono su di lei e la trafissero con le lance. El vide il corpo della donna spruzzare sangue in tutte le direzioni e piombare sul terreno come un sasso. Ignorando quanto accadeva, Azuth continuò serenamente. «I Magister sono maghi che raggiungono un grado di speciale riconoscimento... misurato naturalmente in termini di potere... agli occhi di Mystra: sono "i migliori" tra gli adoratori mortali in termini di potenza magica. Gran parte di essi ottiene il titolo sconfiggendo il Magister in carica, e nello stesso modo lo perde... in un processo spesso fatale». Mentre cornugon e demoni del sottosuolo si aggiravano intorno all'Altura, guardando i loro incantesimi infrangersi contro la barriera invisibile, il dio sorseggiò la bevanda e continuò: «La Nostra Signora e io stiamo lavorando in questo momento per mutare la natura del Magister: quel tanto che basta per renderlo più rispettoso dei rivali e più creativo per quanto concerne i nuovi incantesimi e le applicazioni magiche. Solo un mago alla volta può diventare Magister. Servendo se stesso, egli genera nuova magia... e non c'è modo più grande di servire Mystra. Lo scopo dei sacerdoti invece è quello di ordinare e di istruire, affinché i novizi dell'Arte non distruggano se stessi e Toril prima di aver acquisito i fondamenti della magi-
a... ma se quel compito non si addicesse loro, i sacerdoti di Mystra impiegherebbero i loro talenti per realizzare ciò che noi oggi lasciamo al Magister». Azuth si protese, il fuoco fattosi ora più intenso, ed esclamò al di là delle fiamme: «Tu servi Mystra in maniera diversa. Lei ti guarda e impara la parte umana della magia in tutte le sue sfumature attraverso le tue esperienze, e le azioni di coloro che incontri... nemici o amici che siano. Tuttavia è giunta l'ora che tu cambi, e cresca, per servirla come lei desidera nei secoli a venire». «Secoli?», mormorò Elminster e scoprì improvvisamente di avere urgente bisogno di bere. «Mi guarda?» Azuth sorrise. «Indiscrezioni con fanciulle seducenti e tutto il resto. Ma non preoccuparti, sii sempre te stesso. Ora ascolta le mie parole, Elminster Aumar. Negli anni a venire imparerai e crescerai usando la magia solo quando strettamente necessario». El sputacchiò sopra il bicchiere, aprì la bocca per protestare... e incontrò lo sguardo gentile, sapiente, e quasi beffardo di Azuth. Fece un respiro profondo, sorrise, e si ricompose senza dire nulla. Azuth gli sorrise, e aggiunse: «Inoltre non dovrai avere alcun contatto con il tuo' progetto preferito, gli Arpisti, finché Mystra non ti ordinerà altrimenti. Devono imparare a lavorare e a pensare da soli, senza far sempre affidamento su Elminster Questa volta fu El a sorridere mestamente. «Per tutti una dura lezione di obiettivi da conseguire e di fiducia in se stessi, eh?», azzardò. «Esattamente», assentì il Signore degli Incantesimi. «Per quanto mi riguarda, imparerò a guidare e ad assistere i maghi di tutta Toril senza invocare Mystra, per un certo periodo». «Andrà... "via"?», il tono del giovane lasciò intendere la sua incredulità di fronte all'idea che una dea potesse davvero troncare ogni rapporto con il suo mondo, con i suoi adoratori, e con la sua opera. Il sorriso di Azuth si ampliò. «Deve affrontare un compito inevitabile», asserì, «che non osa più rimandare; circostanze che devono essere determinate e ordinate, per il bene e la stabilità del tessuto. Per qualche tempo nessuno di noi avrà sue notizie o vedrà manifestazioni della sua presenza o dei suoi poteri». «"Non osa"? Mystra è al servizio di qualcuno più potente, o state parlando di ciò che il Tessuto richiede?» «Il Tessuto, per la sua stessa natura, presenta costantemente richieste a
coloro che sono in armonia con esso e che l'hanno realmente a cuore... insieme alla natura di tutta la vita e alla stabilità del mondo. È un piacere e un mestiere... e una sorta di gioco... anticipare i bisogni del Tessuto, soddisfarli, e renderlo ancora più grande di quanto non fosse quando lo conoscesti». «Non credo che mi abbiate rivelato la natura del "compito inevitabile" della Signora, o a chi... e se... obbedisce», affermò Elminster con uno dei suoi sorrisi disarmanti. Azuth lo ricambiò. «No, non credo di averlo fatto», rispose tranquillo, l'allegria nei suoi occhi mentre portava il calice alle labbra. El si sentì sprofondare dolcemente e riportare in posizione verticale, per poi essere depositato sul terreno roccioso tanto delicatamente quanto una piuma che atterra sul velluto. Una volta, tempo addietro, nella città di Hastarl, il giovane ladro Elminster aveva trascorso diversi minuti a guardare una penna di piccione fluttuare verso il basso fino a posarsi su un cuscino, lentamente... e ancora oggi reputò di aver speso bene quei momenti. Anche Azuth era ora in posizione eretta, i piedi nudi a pochi centimetri da terra: la conversazione sembrava essere giunta al termine. Malgrado non avesse degnato di un'occhiata i demoni infuriati, questi vennero improvvisamente avvolti da fiamme bianche e scaraventati in tutte le direzioni, i loro corpi svanirono nel nulla in un disperato silenzio. Anche l'assedio dell'Altura sembrava essere terminato. L'Eccelso non sembrò fare alcun passo avanti, ma improvvisamente fu più vicino a Elminster. «Potremmo non rispondere, ma tu invocaci. Non ci vedrai, ma abbi fede. Noi ti vediamo». Allungò una mano, ed Elminster, stupito, tese la sua. La stretta del dio somigliava a quella di un uomo... calda e vigorosa. Un istante più tardi El urlò... o tentò di farlo, improvvisamente senza respiro. Un fuoco argenteo stava ardendo dentro di lui, insieme a una traccia di un blu vivido che doveva essere l'essenza di Azuth. El lo vide chiaramente quando zampilli infuocati gli scaturirono dal naso, dalla bocca, e dalle orecchie. Le fiamme stavano bruciando tutto ciò che incontravano, causandogli spasmi di dolore straziante mentre i suoi organi venivano consumati, il suo sangue ardeva, e la sua pelle sfrigolava nel bollore della carne sottostante... attraverso occhi pieni di lacrime, El vide Azuth divenire un fuso di fuoco... un fuso che sembrava guardarlo attentamente mentre si avvicinava e mormorava (nonostante la mancanza di una bocca visibile): «Il fuoco pulisce e
guarisce. Risvegliati rinvigorito, il più prezioso fra gli uomini». Il fuso turbinante si avvicinò ulteriormente, toccando l'aura di fuoco magico attorno al principe, alimentata dalle fiamme argentee che ancora gli fuoriuscivano dal corpo... e il mondo esplose improvvisamente con un rombo. Elminster volteggiò nell'aria, tramutato in una miriade di goccioline scure fluttuanti in un fiume d'oro... oro troppo lucente da guardare, più lucente del sole. L'ultimo principe di Athalantar giaceva scompostamente disteso sulle pietre, privo di sensi, le fiamme argentee che si rincorrevano intorno a lui. C'erano due calici fluttuanti, tra i quali turbinava un fuso infuocato. Le fiamme toccarono il calice di Elminster, questo tremolò lievemente e svanì nella conflagrazione, lasciando dietro di sé grosse scintille dorate. Poi il fuso toccò le fiamme attorno al giovane, le assorbì; il fuoco di Azuth, ora rafforzato, collassò con un boato che scosse l'Altura di Halidae, travolse Elminster - che si contrasse ma non si destò - e poi si ricompose. Con grazia sinuosa, senza fretta, le fiamme si sollevarono a formare una colonna e si riversarono nel vino fumante del calice del dio. Alla fine, tutto ciò che rimase fu quel calice col suo contenuto borbottante. Quella fu anche la prima cosa che vide - e che bevve - El al suo risveglio, la mattina seguente. Il bicchiere svanì nell'aria con l'ultimo sorso, senza lasciare traccia. Elminster sorrise, si alzò, e abbandonò l'Altura con un cuore più leggero e un corpo giovane e rinvigorito. Si fermò al primo specchio d'acqua che incontrò e vi guardò dentro per assicurarsi che il riflesso fosse davvero il suo. Così era... naso adunco e tutto il resto. Fece una smorfia, e il riflesso lo ricambiò. Grazie Mystra. 2. LA MORTE CAVALCA UN DESTRIERO GRIGIO SCREZIATO Nei tempi in cui Mystra non si rivelò, e la magia si sviluppò a discrezione di questo o di quel mago, l'Eletto di nome Elminster venne lasciato solo nel mondo... affinché esso potesse insegnargli l'umiltà e molte altre virtù. Antarn il Saggio
Da La grande storia della potenza degli arcimaghi faerûniani Pubblicata approssimativamente nell'Anno del Bastone Nelle mattinate gelide la foschia si addensava fra gli alberi. Pochi abitanti di Starn si erano addentrati tanto nel Bosco del Fantasma Urlante, perciò la raccolta era buona; inoltre Immeira non aveva mai visto alcuno spettro. La sua sacca era già quasi piena di nocciole, di bacche e di foglie di alphran; presto i boccioli di luna sarebbero spuntati a centinaia tra gli alberi, seguiti dalle violinette e dai coni di burro... e pensare che alcuni, compreso qualche abitante di Starn, sostenevano che solo un cacciatore in grado di abbattere un cervo in dieci giorni poteva sopravvivere in quel bosco. Immeira si grattò pensierosa una guancia, e si guardò alle spalle, là dove gli alberi si diradavano. Al di là dei campi oltre il bosco, nella valle in cui la Strada di Gar attraversava il Larraude, sorgeva Buckralam's Starn. «Quaranta capanne piene di vecchie rumorose che cucivano mantelli tutto il giorno, mentre le loro pecore vagavano incustodite», così il bardo Talost aveva descritto una volta il villaggio. Gli anziani di Starn erano ancora furiosi per quelle parole e auguravano al bardo ogni sorta di disgrazia immaginabile. Quanto a Immeira, la ragazza pensava che Talost avesse ragione, ma aveva già imparato a sue spese che, a Starn, la verità non era sempre apprezzata. Suo padre era scomparso durante una spedizione; l'uomo faceva parte di una vera e propria banda chiamata Gli Artigli di Taver, in onore del vecchio e litigioso guerriero che li guidava con il sole riflesso sulla sua testa pelata. Per Immeira, Taver sedeva ancora sulla sua sella, brusco e brillante, ma la gente affermava che era morto otto anni prima; e nessuno poteva distinguere le sue ossa da quelle degli altri sei avventurieri - suo padre compreso - che erano periti quel giorno tra le mascelle del drago. Il villaggio parlava degli Artigli di Taver da ormai otto inverni, e alcuni uomini giuravano che gli Artigli erano demoni sotto forma umana, nascostisi in quel luogo per meglio corrompere le donne delle carovane di passaggio e diffondere il proprio seme oscuro in tutta Faerûn. Altri insistevano che gli avventurieri erano sempre stati banditi e che si aggiravano nei dintorni per imparare tutto ciò che potevano sugli starnesi e sui sentieri della foresta, per poi fondare un regno di banditi nel cuore del bosco, a poca distanza dal paese. Alcuni chiamavano quel regno Talontar... per altri era Darkride... ma nessuno sapeva dove iniziavano i suoi confini o chi vi
dimorava, né perché i banditi non avessero mai assalito il paese con frecce e pugnali da quando gli Artigli erano morti, fuggiti, o si erano nascosti dopo aver commesso un grave crimine. Sì, la verità a Starn era un'opinione che una o due malelingue potevano cambiare da un giorno all'altro. L'unica eccezione in tal senso, per quanto Immeira ne sapesse, era la verità latente nelle spade pronte e affilate di Iron Fox e dei suoi uomini. Erano giunti da est, per la Strada di Gar, sei primavere addietro: un pugno di mercenari incalliti con acciaio freddo tra le mani e uno sguardo spietato, stanco del mondo, negli occhi ancor più freddi. Il capo era un uomo grasso e alto, il cui elmo terminava con una testa di volpe di ferro; persino i suoi uomini lo chiamavano ormai solo «Iron Fox». Quel giorno irruppe nel cortile del piccolo Tempio del Covone, cacciò a suon di spada il vecchio e debole prete, Rarendon, fuori nella neve primaverile, e fece dell'edificio la sua casa. Quella sera stessa, alla locanda, comunicò agli abitanti silenziosi che i servizi a Chauntea, da allora in poi, si sarebbero tenuti nei campi, com'era giusto che fosse, mentre i torrioni sarebbero stati adibiti allo scopo per cui erano stati costruiti: ospitare uomini d'azione come lui e la sua truppa, che da quel momento avrebbero dimorato a Starn e l'avrebbero difeso. Il giorno seguente, poco dopo mezzogiorno, inchiodata alla porta della taverna, apparve una pergamena grossolanamente scritta che annunciava le nuove leggi. Era penosamente corta, e proclamava Iron Fox giudice, legislatore, e capo supremo di Fox's Starn. Quella stessa notte, i pochi che osarono dissentire da leggi specifiche, o disapprovare l'intera questione, vennero uccisi per la strada o lasciati morire sulle loro soglie... oppure scomparvero semplicemente. Alcune delle ragazze più belle del paese vennero sottratte alle famiglie, portate a Fox Tower e agghindate in abiti succinti; dieci giorni più tardi giunse un carro di muratori per trasformare l'edificio in una fortezza, e iniziarono le chiacchiere sugli unici eroi di Starn, gli Artigli di Taver. Il vecchio e confuso Rarendon venne portato nelle antiche stalle dietro il mulino, nelle quali i proprietari nani davano ospitalità agli orfani di Starn... Immeira inclusa. Nel mese seguente numerosi contadini in buona salute, le cui terre si trovavano nelle vicinanze di Fox Tower, morirono dopo la semina, quando, una notte, le loro fattorie presero improvvisamente fuoco. Le porte erano state sbarrate dall'esterno, e le finestre erano sorvegliate da briganti sconosciuti ed armati di balestre identiche a quelle degli uomini di
Fox. Due vecchie pettegole e l'anziano cieco, Adreim l'Intagliatore, vennero frustati nella piazza del mercato per trasgressioni minori. La popolazione allora iniziò ad abituarsi alle pattuglie onnipresenti di guerrieri dallo sguardo duro, alla confisca di gran parte del raccolto, e a vivere nella paura. Le deboli proteste si svolgevano silenziosamente. «Fox's Starn» rimase per tutti Buckralam's Starn, e gli uomini di Fox sembravano cavalcare in una valle quasi deserta, in un silenzio perpetuo. Dovunque essi si recassero, donne e bambini scomparivano nei boschi, lasciando i giocattoli sparpagliati qua e là, fornelli incustoditi; i contadini restavano sempre negli avvallamenti più reconditi e fangosi delle loro terre, troppo impegnati per sollevare lo sguardo quando l'ombra di un'armatura calava su di loro. Come molte ragazze del paese che stavano per diventare donne, Immeira era un altro tipo d'ombra... un'ombra che si aggirava in grigi abiti da uomo, che si nascondeva nei boschi di giorno, e che la notte dormiva nei granai e sui tetti bassi. Aveva guardato negli occhi delle sorelle più grandi, visto le loro cicatrici e le loro manette, e non desiderava affatto cedere alla prospettiva di avere un tetto, buon cibo e birra in abbondanza, lussi che erano costati loro la libertà. Immeira aveva ormai tutti i requisiti di molte fanciulle di Fox, perciò faceva attenzione a indossare solo ampie vesti di pelle consunta e tuniche informi, a portare i capelli arruffati... e a celarsi nell'oscurità della foresta o nel buio della notte. Ancora più degli arcigni giovanotti della valle, le ragazze ombra di Starn sognavano di vedere, un giorno, gli Artigli di Taver galoppare lungo la strada, con spade lucenti, pronte a mettere in fuga Iron Fox e la sua banda. Una o due volte la settimana Immeira si recava furtiva al margine orientale del Bosco del Fantasma Urlante, popolato da numerosi fagiani, dove la Strada di Gar raggiungeva Hurtle Tor e discendeva nel Regno di Iron Fox. Una pattuglia di crudeli guerrieri era sempre appostata in quel punto per intercettare chiunque si recasse a Starn ed esigere un dazio dai viandanti e dalle carovane, troppo stanche o a corto di uomini per rifiutarsi di pagare. Talora Immeira li teneva occupati imitando fruscii d'animali nel sottobosco e rubando i dardi di balestra che i soldati scagliavano stupidamente fra gli alberi, ma più spesso se ne stava acquattata in silenzio e osservava le buffonate che si svolgevano sulla strada. Le voci di tali ruberie dovevano esser giunte nelle terre circostanti la valle, poiché sempre meno viandanti percorrevano la Strada di Gar, e Starn non vedeva una carovana dalla stagione successiva all'arrivo di Iron Fox.
Quella mattina vi era uno strato di brina lungo le sponde del Larrauden e le foglie cadute scintillavano di ghiaccio. Immeira doveva continuare a sfregarsi le dita nude per tenerle al caldo, e aveva le labbra blu, ma l'umidità rendeva silenziosi i suoi passi, perciò ringraziò il cielo. Le capitò di spaventare una lepre, che si lanciò in una rapida fuga tra i cespugli, ma per il resto si muoveva nella foschia come un'ombra, allungando dita delicate per raccogliere il cibo che le serviva. Una piccola depressione che aveva utilizzato in precedenza le offriva un giaciglio dal quale osservare indisturbata la pattuglia e la strada. Appoggiata contro una sponda di muschio, reggendo il peso rassicurante di un ramo d'albero, che teneva sempre pronto nel caso avesse avuto bisogno di un'arma, si stava quasi addormentando quando successe qualcosa. Si udirono un trambusto improvviso tra i sei uomini in armatura e un tintinnio di cotte: le spade erano state evidentemente sguainate. Alcuni soldati si affrettarono a nascondersi tra gli alberi, altri montarono in sella per bloccare la strada. Stava giungendo qualcuno... qualcuno che avrebbe causato guai o fornito loro un po' di divertimento. Immeira si sfregò gli occhi e si mise a sedere, improvvisamente sveglia. Un istante più tardi, un uomo solitario su un cavallo grigio screziato giunse in cima alla salita, una lunga spada penzolante al suo fianco. Il destriero avanzava senza fretta nella valle. Era giovane, aveva un viso gentile e nel contempo duro, un naso aquilino e una folta chioma di capelli neri raccolti in una coda che gli toccava le spalle. Lo sconosciuto vide gli uomini in attesa, armati fino ai denti, ma non dimostrò esitazione, né fermò il cavallo, che proseguì con aria indifferente, mentre il suo padrone dall'aria quasi baldanzosa canticchiava una melodia che Immeira non conosceva. «Alt!», abbaiò uno degli scagnozzi di Fox. «Sei sul confine del Regno di Iron Fox!» «E allora che cosa dovrei fare?», domandò lo straniero inarcando un sopracciglio e allungando un braccio per prendere un mantello arrotolato dalla sella. «Abbandonare ogni speranza? Pagare un dazio? Raggiungere il convento locale?» «Per prima cosa dovresti fare meno lo spaccone!», ringhiò la guardia. «Oh, pagherai anche un dazio... dopo che avrai implorato il nostro perdono... e avrai pianto per la perdita della mano con cui reggi la spada». Il viandante sollevò entrambe le sopracciglia e arrestò il cavallo. «Un prezzo piuttosto assurdo per oltrepassare un confine», commentò. «Non
dovremmo prima combattere?» Immeira si fregò nuovamente gli occhi, incredula. Le guardie esplosero in un coro di urla rabbiose, e quelle a piedi sbucarono improvvisamente dagli alberi, al che lo straniero fece indietreggiare il cavallo. Nella sua mano comparve un piccolo coltello. Poi lanciò il mantello estratto precedentemente dalla sella in faccia ai guerrieri a cavallo che nel frattempo erano avanzati, voltò il destriero, e investì uno degli uomini a piedi, che venne schiacciato dall'animale. Il cavaliere sferrò quindi un calcio a un'altra guardia, poi prese qualcosa dalla sella, vi praticò un'apertura, e lo lanciò all'uomo. Una nube di sabbia avvolse la faccia del soldato. D'un tratto il viandante solitario si ritrovò oltre la linea di guardie. Uno dei cavalli si spaventò e disarcionò il cavaliere. Gli altri due rimasero imprigionati da ciò che aveva destato tanta paura: la catena uncinata nascosta dentro il mantello. Con in mano un'altra catena della medesima lunghezza, lo sconosciuto s'inclinò per colpire alla gola uno dei soldati. L'uomo cadde dalla sella senza emettere alcun suono, e il suo collega si ritrovò il pugnale del nemico in un occhio. Improvvisamente senza cavaliere, uno dei destrieri s'impennò e poco dopo venne urtato da un altro, che calpestò le guardie cadute sotto i suoi possenti zoccoli. Una lama saettò alla gola dell'uomo accecato dalla sabbia; mentre questi cadeva a terra, un secondo sacchetto di sabbia volò sopra la spalla di uno dei due soldati rimasti. Abituate ad affrontare persone intimidite e spaventate, le guardie erano bianche in volto e si muovevano esitanti; mentre avanzavano lentamente verso lo straniero dal naso aquilino, questi estrasse l'ennesimo coltello da una tasca laterale della sella e rivolse loro un ampio sorriso. Una delle due gemette di terrore e si diede alla fuga; l'altra rimase in ascolto dei passi che si allontanavano rumorosamente tra gli alberi, guardò negli occhi color grigio blu del giovane che aveva ucciso tanto facilmente i suoi compagni, poi scagliò la spada contro quel volto dal sorriso freddo, e fuggì a gambe levate. Un istante più tardi un sacchetto di sabbia lo colpì alla tempia; dopo aver fatto qualche ulteriore passo incerto, la guardia in fuga cadde pesantemente sulla strada. Il destriero dal manto screziato avanzò per calpestarlo, mentre il suo cavaliere si girò sulla sella, sospirò, balzò giù e prese la strada degli alberi, lasciando la Strada di Gar ai morti e ai moribondi. Il giovane dal naso adunco, il coltello in pugno, percorse agilmente il
sentiero tracciato dal soldato in fuga; non sarebbe stato saggio lasciare che avvisasse gli altri del suo arrivo... non se solo un quinto di ciò che aveva udito sui malvagi guerrieri di Fox era vero. Non fu difficile seguire il soldato, che qualche metro avanti a lui respirava affannosamente e faceva ondeggiare i rami degli alberi mentre risaliva un crinale sotto il peso della nera armatura. Un attimo più tardi l'uomo piombò in una sorta di buca con un grido di sorpresa. Al suo urlo si unì quello di Immeira, visto che il guerriero era piombato improvvisamente nel suo nascondiglio. La ragazza afferrò il ramo mentre l'uomo sudato le ruzzolava addosso, colpì il lato dell'elmo tanto forte da spezzare il legno, e in qualche modo riuscì a liberarsi di quel corpo tremante. Un secondo in più e sarebbe riuscita a piantare la punta consunta dello stivale su una radice sporgente per uscire dalla cavità, ma alcune dita terribilmente forti l'afferrarono e la trattennero. La ragazza scalciò e si dimenò mentre l'uomo sotto di lei grugniva e lanciava imprecazioni in stato di semi incoscienza. Immeira vide per un attimo uno sguardo furioso e due guance annerite, poi un pugno la colpì alla tempia, spingendola contro una sponda del fosso e offuscandole la vista. La giovane scorse vagamente una massa in armatura dirigersi verso di lei, allora scalciò e contemporaneamente cercò di afferrare radici e muschio per riguadagnare la superficie. Qualche secondo dopo si ritrovò in ginocchio sul muschio al margine della cavità. Fece per alzarsi, ma di nuovo una mano forte e crudele come l'acciaio le afferrò una caviglia e la strattonò. Una lama d'acciaio sfrecciò oltre la sua testa, e la presa si allentò improvvisamente. Immeira cadde con la faccia all'ingiù sul tappeto umido di foglie morte e udì un suono gorgogliante affievolirsi nella fossa alle sue spalle. Una lunga spada sporca di sangue venne pulita sul muschio accanto a lei, e una voce sorprendentemente gentile esclamò: «Fanciulla, ti dispiacerebbe attendere vicino a quell'albero? Ho bisogno del tuo aiuto, ma prima devo sbrigare una faccenda urgente. «Io... io... sì», balbettò Immeira, rabbrividendo. Un istante dopo alcune dita delicate ma ferme aprirono la sua mano destra imbrattata di terra, vi deposero l'elsa di un pugnale, e la richiusero. La fanciulla fissò l'arma, un po' intontita, mentre un improvviso silenzio calò su quell'angolo della fore-
sta. L'uomo dal naso aquilino si stava dirigendo a passo veloce verso la strada; Immeira lo guardò allontanarsi, si leccò le labbra secche, e non poté fare a meno di dare un'occhiata nel fosso. Al vedere lo scagnozzo di Fox, un ammasso informe in un lago di sangue, la ragazza si sentì improvvisamente male. Occupata a vomitare sulle foglie morte e sulle felci, Immeira non vide lo sconosciuto rivoltare i corpi delle guardie, assicurarsi che fossero morte e sottrarre loro le armi. Quando riapparve fra gli alberi con un grosso fardello tintinnante, la ragazza lo attendeva accanto alla quercia; lui le fece un sorriso. «Ben incontrata», aggiunse cordialmente, abbozzando un inchino. Immeira lo fissò, poi sbuffò divertita e cercò di ricambiare la riverenza nonostante i pantaloni vecchi e gli stivali flosci, ma cadde sul muschio. Entrambi scoppiarono a ridere, e un braccio forte sollevò la fanciulla, che si ritrovò a fissare gli occhi del guerriero dai capelli corvini. «Io...», cominciò Immeira esitante. Lo sconosciuto le sorrise, le diede qualche pacca rassicurante sul braccio, e affermò: «Chiamami Wanlorn. Sono venuto a cacciare volpi... volpi di ferro. Come ti chiami?» «Immeira», rispose la ragazza, guardando il pugnale che le aveva dato, poi di nuovo l'uomo, incapace di credere che la salvezza che aveva atteso tutti quegli anni era giunta a Starn tanto rapida e micidiale. «È sicuro rimanere qui... per un po'... a parlare?», domandò il giovane. «Sì», gli garantì Immeira, che riuscì a raccapezzarsi e trovare il coraggio di fargli una domanda. «Sei solo?», gli chiese, studiando la faccia dell'uomo. Non era tanto giovane come le era sembrato a prima vista, e "Wanlorn" era un nome antico che significava «viandante in cerca di qualcosa». Come poteva un uomo solo - per quanto abile come lui - sconfiggere, o semplicemente sopravvivere a tutti i guerrieri di Fox? Come se avesse letto nella sua mente, l'uomo dal naso adunco la prese delicatamente per le braccia ed esclamò con tono incalzante: «Sono solo... perciò ho bisogno del tuo aiuto, fanciulla. Non per combattere gli scagnozzi della Volpe con rami d'albero... o con pugnali, bensì per sapere: gli abitanti di Starn desiderano sbarazzarsi di Iron Fox?» «Sì», rispose Immeira, un po' sbigottita per la velocità con cui Faerûn era cambiato davanti ai suoi occhi. «Per tutti gli dei, certamente». «E quanti sono gli uomini al suo servizio? Sia quelli armati, come que-
sti, sia quelli che sono in grado di sferrare incantesimi o di usare una balestra o quelli in qualche modo fedeli... dimmelo, ti prego». Immeira gli riferì tutto ciò che sapeva, che ricordava o che supponeva, su Iron Fox e sulle sue forze. L'uomo continuò a guardarla con occhi vivaci e il sorriso sul volto, persino quando la ragazza gli rivelò che coloro che indossavano l'armatura scura e lo stemma della testa di volpe ammontavano a una decina, escluse le guardie uccise, e che in paese non rimaneva alcun uomo con cervello o coraggio sufficiente per appoggiare uno sconosciuto solitario contro Iron Fox. Non c'era che lei per aiutarlo, poiché la fanciulla non si sarebbe arrischiata a confidarsi con nessuno, per paura che le altre ragazze ombra, dopo un duro inverno, la tradissero per procurarsi un tetto, bei vestiti e buon cibo. Il ghigno dell'uomo si allargò quando Immeira gli riferì che, per quanto ne sapesse, nessun mago e nessun sacerdote dimoravano a Fox Tower o nei dintorni di Starn, e che Fox non praticava magie. La ragazza riferì a Wanlorn, o qualunque fosse il suo vero nome, dov'erano le postazioni di guardia e quando si sarebbero accorti della scomparsa dei sei uomini. La mezza dozzina di guardie giaceva nascosta fra gli alberi, i loro elmi erano stati gettati nel Larrauden e le loro cavalcature... più un cavallo grigio screziato... erano state legate nelle vicinanze. Poi gli raccontò quanto sapeva su come il capo trascorreva le serate, dove teneva i suoi quattro cani da caccia, le balestre, le lanterne e i cavalli, come si svolgeva la vita a Starn in quei giorni e prima della scomparsa degli Artigli... finché non si stancò di rispondere alle domande. Warnlorn le domandò se vi fossero granai a cui potersi avvicinare inosservato e che non venissero frequentati dai contadini per un giorno o due. Ve ne erano tre, lo informò la ragazza, e l'uomo le chiese di guidarlo al migliore di essi il più furtivamente possibile, per nascondere il suo fardello di armi. «E poi?», domandò Immeira tranquillamente. «Sarebbe più sicuro, Immeira», affermò Wanlorn fissandola negli occhi, «se tu andassi a casa e non restassi nei boschi dove uomini armati e furiosi, con cani da caccia, potrebbero venire a cercare... e non ti avvicinassi a questa cavità o al granaio finché Fox non se ne sarà andato, qualsiasi cosa mi accada». «E se mi rifiuto?», mormorò. L'uomo sorrise lievemente e ribatté: «Non sono un tiranno. Nella Faerûn che desidero vedere, ragazzi e ragazze dovrebbero esser liberi di vagare e
parlare a loro piacimento. Se, tuttavia, mi seguirai o verrai in mio aiuto, io non potrò proteggerti... poiché sono solo, senza un dio che possa operare miracoli se le cose si mettono male». «Oh, no!», esclamò Immeira, sollevando una mano meno tremolante di quanto non pensasse, per indicare il luogo in cui la pattuglia gli aveva sbarrato la strada. «Quello non era forse un miracolo?» «No», rispose Wanlorn, sorridendo. «I miracoli diventano tali dopo anni e anni di narrazione delle gesta. Ma se parlerai troppo liberamente, potrebbe diventarlo». Chi era mai quell'uomo, e perché era venuto? Immeira incontrò quegli occhi calmi di color blu grigio per un istante... in quel momento sembravano molto più blu di quanto la sua mente non ricordasse... e chiese semplicemente: «Chi sei in realtà? E perché... perché vuoi affrontare la morte in questo luogo? Che cosa ti importa di Starn? Vuoi vendicarti di Iron Fox?» Wanlorn scosse lievemente il capo. «Ho udito parlare di lui meno di dieci giorni fa. Faccio ciò che mi detta il cuore, per questo sono qui; io viaggio per imparare e per rendere i regni come desidero che siano. A meno che Starn non si riveli la mia tomba, non posso far altro che proseguire. Sono un uomo, spinto su questa strada dalla mia nascita e... da scelte fatte tempo addietro». Fece una pausa, e quando le labbra della ragazza si aprirono per chiedere o dire altro, sollevò una mano per zittirla e aggiunse: «Prendimi così come mi trovi». Immeira sostenne il suo sguardo per una manciata di secondi, poi rispose: «Lo farò, uomo folle... mi sento onorata per averti incontrato. Vieni, il granaio ci aspetta». La ragazza gli voltò le spalle... mai prima d'ora si era fidata a distogliere lo sguardo da un uomo, specialmente tanto vicino e armato dietro di lei... e lo guidò lungo sentieri che solo lei e le bestie che li avevano tracciati conoscevano. Il giovane la seguì, emettendo un lieve tintinnio metallico. Sarebbe stato tanto facile ripulire la sala da ballo di Fox Tower con una sfera di fuoco ed eliminare i pochi scagnozzi con magie minori, ma quella era proprio la tentazione a cui Elminster doveva resistere. Era trascorsa una lunga estate da quando aveva parlato con un dio su una collina, ma l'abitudine di ricorrere a incantesimi per rispondere a ogni esigenza o capriccio, senza riflettere, stava svanendo lentamente. Molto lentamente. Le crudeltà e i massacri perpetrati dagli uomini della volpe erano tanto
deliberati e tanto frequenti che non doveva preoccuparsi di ucciderli all'istante. Sempreché vi fosse riuscito. Un uomo che combatte correttamente, e all'aperto, avrebbe avuto poche probabilità contro cani da battaglia come quelli. Hmmm, sì, pensò, quei cani... Era quasi mezzogiorno, e Immeira era ancora alle sue spalle; era una vera e propria ombra con non meno di una decina di pugnali fissati intorno al corpo e una pesante catena tra le mani. Senza dubbio gli uomini che El aveva ucciso quella mattina sarebbero stati trovati in breve tempo, e i corni d'allarme avrebbero risuonato in tutta la vallata; contemporaneamente un trio di guardie sarebbe giunto da Fox Tower per dare il cambio alla postazione situata all'estremità opposta della valle rispetto al luogo in cui quella mattina il principe era stato tanto calorosamente accolto. Uno dei soldati annoiati, seduto all'ombra dall'altro lato della strada, si alzò, si slacciò le braghe e attraversò la via polverosa per rispondere a un richiamo della natura. Ma questa volta la natura aveva in serbo anche una sorpresa. Elminster sbucò dal boschetto senza fretta e lanciò uno dei suoi coltelli nel momento in cui l'uomo s'arrestò e si mise nella tipica posizione. Poi imprecò silenziosamente e ne scagliò un altro, sapendo di aver mancato il bersaglio; la guardia alzò la testa allarmata quando vide sfrecciare il primo pugnale... il secondo, tuttavia, mancò l'occhio nel quale era diretto, penetrandogli invece nella guancia fino all'elsa. Quando si levò un grido gorgogliante e soffocato, El prese la catena dalle mani di Immeira e corse verso l'uomo, sapendo di non avere tempo sufficiente ma di dover tentare a ogni costo. Il soldato si stava dirigendo alla cieca verso la strada, e i suoi due colleghi si stavano avviando cauti in direzione del trambusto, le spade sguainate e le sopracciglia aggrottate. Le due guardie rallentarono quando passarono dal sole luminoso all'ombra screziata degli alberi, non desiderando essere colpiti dal nemico nascosto, poi si arrestarono alla vista del compagno barcollante. Elminster giunse correndo dietro di lui, ne usò il corpo vacillante come scudo mentre faceva oscillare la catena e colpì il braccio di un soldato, quello che reggeva la spada. Infine, si avvicinò alla guardia sbalordita e cercò di infliggerle una coltellata in faccia. L'uomo balzò via prima che El potesse colpire, scuotendo il braccio intorpidito e le dita fracassate; l'ultimo principe di Athalantar vide il volto
furioso dell'altro scagnozzo fissarlo da dietro il compagno, al che gli lanciò con forza un coltello. La guardia cadde a terra con un grido, più sorpresa che ferita, ed El usò la catena per colpire in faccia l'uomo che aveva disarmato. Vi fu uno spruzzo di sangue, poi la testa penzolò scompostamente e l'uomo cadde a terra... seguito da Elminster, che dovette gettarsi nel fango per evitare le sciabolate disperate del primo ferito. La guardia si era estratta il coltello dal viso e sputò sangue, mezza accecata dalle lacrime di dolore che le correvano lungo la faccia, ma riuscì ugualmente a individuare il nemico. El si mise a rotolare, tentando di sottrarsi alla spada che si abbassava imperterrita e si domandò quando sarebbe stato raggiunto dal terzo scagnozzo. A quel punto sarebbe stato costretto a utilizzare uno dei suoi incantesimi, Mystra o non Mystra, altrimenti sarebbe morto. L'uomo perse l'equilibrio dopo una sciabolata particolarmente violenta e inciampò; Elminster, allora, puntò una spalla a terra e si voltò, scalciando con entrambi i piedi. Quella spada maledettamente insistente emise un suono metallico e rimbalzò accanto al suo orecchio mentre il proprietario cadeva pesantemente, emettendo un ultimo rantolo. El continuò a rotolarsi, poi si alzò in piedi e corse per qualche passo prima di osare fermarsi e guardare indietro. Dov'era il terzo soldato? Lungo disteso sulla strada, a quanto pareva, insieme a una pallida e ansimante Immeira, che in quel momento si stava alzando da terra, il pugnale insanguinato in una mano. Quando il suo sguardo incrociò quello di El in mezzo a una nuvola di polvere, la ragazza tentò di sorridere... ma invano. El le fece un cenno, poi piombò sopra l'uomo che l'aveva inseguito con la sciabola; lo colpì tre volte col suo stesso pugnale, dopodiché sollevò lo sguardo e notò con sollievo che entrambi erano impolverati, sudati, ansimanti, ma vivi. Questa volta si scambiarono un sorriso vero. «Fanciulla, fanciulla», la rimproverò scherzosamente mentre si abbracciavano esultanti, «io non posso proteggerti!» Immeira gli diede un bacio sulla guancia, poi lo spinse via, facendo una smorfia fra i capelli aggrovigliati e il sangue che le imbrattava il viso. «Non devi preoccuparti», esclamò, «nemmeno io posso proteggerti!» El sorrise e scosse il capo, poi s'incamminò verso l'ombra in cui erano seduti i tre soldati e rise con soddisfazione. «Che cosa c'è, Wanlorn?» domandò Immeira. «Che cos'è?» Elminster sollevò una balestra ed esclamò: «Avevo sperato che avessero
una di queste. Armatura leggera, niente lance, né cavalli... era ovvio che dovessero avere qualcosa da usare, per esempio, contro tre uomini armati a guardia di una carovana. Ecco, ragazza... aiutami col verricello. Potrebbe restarci poco tempo». Immeira si chinò a pochi passi da lui per raccogliere una sacca piena zeppa di dardi di balestra. «Non ne abbiamo», affermò brevemente. «Sta arrivando il cambio, ho appena visto le guardie raggiungere l'ultima salita... quella vicino alla fattoria di Thaermon. Ci saranno addosso in...» «Allora prendi la mia catena e riportala dall'altro lato della strada», sibilò Elminster avvolgendo il verricello. «Vai, subito!» La ragazza si mosse con rapidità e grazia nonostante il peso della catena insanguinata. El attraversò la strada semi acquattato dietro di lei, l'arco pronto. Aveva appena infilato una mano nella sacca dei dardi sulle spalle di Immeira, quando il primo cavaliere giunse in cima all'ultima salita e vide i corpi. L'uomo urlò e tirò le redini tanto che il cavallo quasi s'impennò; i suoi due compagni si fermarono accanto a lui, ed emisero simultaneamente un grido di sorpresa al vedere i colleghi distesi per terra. «Lascia la catena e corri», mormorò El all'orecchio di Immeira. «Poi molla anche la sacca e mettiti al sicuro. Se ci perdiamo di vista, cercami nel boschetto a ovest del fienile. Va'!» Senza attendere una risposta, il principe tornò con calma sulla strada e scoccò una freccia mirando alla gola della guardia apparentemente più abile. Poi si buttò di nuovo tra gli alberi, lasciò cadere la balestra, e prese la catena che Immeira aveva lasciato cadere. Non vi era traccia di lei, solo alcuni rami ondeggianti nella penombra distante. Si addentrò per qualche passo, correndo, poi si acquattò in ascolto. Udì, come previsto, le imprecazioni, le voci furiose ma impaurite, e lo scalpiccio dei cavalli in manovra. In quel momento risuonarono i corni d'allarme in tutta la vallata, rapidi e striduli: anche l'altra pattuglia assassinata era stata scoperta. Il frastuono continuò a lungo, ed El ne approfittò per correre veloce tra gli alberi accanto alla strada, andando incontro ai due cavalieri. Ogni speranza di ucciderne un altro venne frustrata, tuttavia, quando le guardie lo sorpassarono al galoppo, ansiose di ritornare a Fox Tower prima che altri dardi li raggiungessero. L'animale senza cavaliere li seguì, privando El dell'occasione di rovistare nella sella; il giovane rimase a guardarli mentre si allontanavano, scrollò
le spalle e corse a recuperare la freccia dalla gola dell'uomo morto, poi le sue armi, la balestra e la sacca di dardi. Fortunatamente l'uomo, nella caduta, aveva tirato con sé anche la sua coperta da notte, che servì splendidamente per avvolgere il tutto. La catena di El, infine, chiuse il fardello come se fosse stata costruita proprio a quello scopo. Il fagotto era pesante, ma Immeira lo stava aspettando a numerosi alberi di distanza per alleggerirlo della balestra, guardandolo come fosse un grande eroe. Elminster sperava che la fanciulla si sbagliasse, poiché secondo la sua esperienza tutti i grandi eroi si trasformavano molto presto in cadaveri. La sala principale di Fox Tower era in stato di agitazione, ma un manipolo di uomini spaventati e infuriati non poteva sbraitare e urlare all'infinito... prima o poi nel locale si sarebbe scatenata una rissa o sarebbe piombato un silenzio teso. E il silenzio che regnava in quel momento era pesante quanto un macigno. Le catene a cui erano appesi i candelabri a forma di ruota gettavano lunghe ombre lungo i muri di pietra, mentre Iron Fox - un uomo enorme, somigliante più a un orso che a una volpe - e gli otto guerrieri rimanenti erano chini su un arrosto che sembrava essere diventato improvvisamente insapore, e bevevano vino come se vi volessero affogare dentro. I servi non osavano avvicinarsi al tavolo per paura di essere trafitti, e la galleria dei menestrelli era buia e vuota; le ragazze attendevano nelle camere da letto, dietro porte chiuse, dopo essere state congedate dalla tavola al ricevimento delle prime cattive notizie. Tutte temevano l'umore dei loro uomini quando finalmente sarebbero andati a dormire. Nove soldati stavano, dunque, meditando attorno a un lungo tavolo, mentre le candele si consumavano a vista d'occhio. Le possibili identità e alleanze dell'arciere solitario che avevano fugacemente intravisto erano state discusse all'infinito; alla fine avevano deciso di chiudere i cancelli della torre, di vigilare attentamente, e la mattina seguente di partire armati. Le porte erano state sbarrate dall'interno, i lucchetti erano stati controllati, e le chiavi deposte su quello stesso tavolo: tutto ciò che rimaneva loro da fare era attendere, nel timore, e fare congetture sul nemico sconosciuto. Una guardia rovesciò un calice con una gomitata, e mezza dozzina di uomini scattò in piedi urlando, con la spada semi sguainata, prima che il capo, disgustato, gridasse loro di calmarsi. I soldati si guardarono l'un l'altro, negli occhi una furia assassina, poi si risedettero lentamente. Alcune facce intimorite si ritirarono dietro le porte della cucina prima
che qualcuno potesse vederle e ricorrere alla frusta; la cucina era diventata fredda e silenziosa, ma le tre ragazze non osavano andarsene. L'ultima volta che una fanciulla s'era azzardata a uscire prima del tempo, era stata cercata per tutta la torre e frustata fino ad avere tutti i vestiti a brandelli e la pelle insanguinata sotto di essi era quasi ridotta nelle stesse condizioni. Iron Fox aveva ordinato che le tracce di sangue della serva non venissero tolte dal pavimento, affinché servissero da monito per chiunque avesse intenzione di disobbedire. Le serve si rannicchiarono assonnate su una panca appena dentro la cucina, ancor più terrorizzate degli uomini in sala; i guerrieri temevano l'ignoto e ciò che probabilmente stava in agguato nel paese avvolto nelle tenebre, ma le ragazze sapevano esattamente quale pericolo le attendeva nella stanza accanto e sapevano di essere in trappola. Molto presto, dietro le porte delle stanze, si sarebbero uditi schiaffi e grida, e... Con un forte tintinnio di catena, uno dei candelieri a ruota precipitò verso il tavolo sottostante. Gli scagnozzi di Fox scattarono di nuovo in piedi, urlando, le spade sguainate. Uno di essi corse attraverso la stanza con un'imprecazione, seguito a ruota da un'altra guardia. Prima che si udissero gli ordini furiosi di Iron Fox, i due erano già oltre l'arco della porta. Il governatore di Starn aveva un'enorme faccia arcigna, incorniciata da una barba ispida, da un folto paio di baffi, e da occhi freddi e crudeli; il corpo non era di certo piccolo o delicato, e il sudore gli fuoriusciva persino dalla gorgiera e dai guanti dell'armatura. Le placche metalliche curve contenevano un petto e un ventre flaccidi, che altrimenti avrebbero tremolato e ondeggiato come un mare di carne pallida e oscena, quando l'omone si alzò in piedi e puntò un dito minaccioso alle guardie restanti. «Il prossimo che lascia questa stanza senza il mio permesso farà meglio ad abbandonare la mia terra! Sapete quanto è stupido scappare in quel modo, quan...» Un grido acuto proveniente dal corridoio imboccato dalle due guardie lo interruppe e gli fece voltare di scatto la testa. Il passaggio portava alle dispense e alle stanze sul retro della torre... inclusa la Stanza di Beldrum, un sacerdote di Chauntea morto molto tempo addietro, usata come magazzino. Una stanza, a quanto pareva, ora in mano ai nemici. Iron Fox afferrò l'elmo dal tavolo e se lo calcò sulla testa. Gli scagnozzi fecero altrettanto e si avvicinarono per udire i suoi ordini. «Durlim e Aawlynson... alla galleria. Fatemi un fischio se è libera. Gondeglus, Tarthane, e Rhen... rimanete con me. Uno di voi guardi sotto il tavolo; poi gli volteremo le spalle e staremo in guardia. Llander, appostati a
quella porta. Se la galleria è sicura, noi quattro ti raggiungeremo e insieme perlustreremo la Stanza di Beldrum». Impartiti gli ordini, il capo tacque, ma i suoi uomini sembrarono attendere altre parole, al che egli fu invaso da una rabbia quasi soffocante. Che cosa comandava, un branco di pecore? «Muovetevi, figli di puttana!», tuonò. «Ubbidite! Viaviavia, muovetevi!» Il silenzio persistette per una frazione di secondo dopo che l'eco del suo grido fu svanito, poi le guardie partirono simultaneamente. Gondeglus grugnì e barcollò all'indietro, seguito da Aawlynson, e il sibilo dei dardi che li avevano uccisi echeggiò forte nella stanza. Poi fu il turno di Rhen, che venne colpito al viso e cadde a terra; nessuno di loro aveva elmi con visiera secondo lo stile del sud. Iron Fox fu abbastanza saggio da sollevare la sua vecchia e pesante sciabola davanti al viso prima di spostarsi da parte, voltarsi, e sollevare lo sguardo verso la galleria. Fece appena in tempo a intravedere un uomo dai capelli neri e dal naso adunco spuntare da dietro la balaustra con una balestra carica. Questa volta il bersaglio era Durlim, ma il veterano si acquattò e riuscì con un guanto di ferro a deviare la freccia verso un muro lontano. Dalla cucina provennero urla di paura, ma Fox non ebbe tempo di verificare se annunciassero un intruso o fossero solo urla di terrore per ciò che stava accadendo nella torre. Che importava? La galleria conteneva un nemico ora noto, e ormai probabilmente a corto di balestre cariche e forse in cerca di un nascondiglio. «Llander! Tarthane! Le scale», abbaiò il corpulento capo, brandendo la spada. «Subito!» I suoi più fedeli guerrieri esitarono visibilmente a obbedire, ma poi s'avviarono su per le scale com'era stato loro comandato. Fox si nascose prudentemente sotto il bordo della galleria mentre li osservava salire, con la scusa di ordinare a Durlim di percorrere rapido il corridoio fino in fondo alle scale secondarie. Un attimo dopo seguì pesantemente quest'ultimo fino all'arco che conduceva al corridoio, e si rannicchiò sollevando lo sguardo verso la galleria. Llander e Tarthane erano lassù e si muovevano con cautela. «Allora?», gridò Iron Fox. «Novità?» In quel preciso istante una tenda cadde su Llander. Tarthane indietreggiò per evitare i colpi menati alla cieca dall'amico, poi lo superò con un balzo, e cominciò a colpire le tende, nella speranza di colpire chiunque vi fosse dietro.
Ma quel qualcuno era già disteso sul pavimento e stava strattonando la passatoia sotto i loro piedi. Tarthane, già sbilanciato, si agitò in cerca della ringhiera, mancò la presa e ruzzolò a terra. L'uomo dal naso adunco spuntò da dietro la tenda arrotolata e gli conficcò un pugnale nel viso. La spada di Llander spuntò alla cieca dalla tenda per colpire il nemico solitario, che in risposta ficcò più volte il coltello nella stoffa, poi saltò oltre la balaustra e atterrò agilmente nella sala sottostante. Lì fece un allegro cenno a Fox e scattò verso la porta principale della torre. Infuriato, l'omone si diede all'inseguimento, ma si arrestò dopo pochi passi e sollevò la spada. No... se l'avesse seguito si sarebbe ritrovato solo in una parte della torre non pattugliata dai suoi uomini, in una zona in cui un nemico armato di coltello avrebbe potuto facilmente sopraffare un uomo in armatura. No, era tempo di vedere se Llander era ancora vivo e di andare a cercare Durlim, e insieme trovare una stanza difendibile per resistere a quel saltimbanco armato di pugnali. Attraversò con passo pesante la sala dei banchetti, agitando un paio di volte la spada dietro di sé, e salì le scale, in cima alle quali Tarthane giaceva inerte e la tenda si muoveva lentamente. «Llander?, chiamò, nella speranza di non esser trafitto da una spada. «Llander?» Fox udì un debole suono alle spalle e sferrò un colpo alla cieca, colpendo il muro con tanta forza da produrre una pioggia di frammenti metallici. Il suo sforzo fu ricompensato con un gemito di sorpresa. Quando si voltò per vedere chi fosse, al posto dell'uomo dal naso aquilino o di un cadavere sanguinante, Iron Fox si trovò faccia a faccia con una giovane che aveva visto una o due volte intorno al villaggio. Era a tre gradini di distanza, oltre la punta della sua spada, aveva uno sguardo serio e si teneva una mano sulla gola. Mentre l'uomo la fissava, ancora sorpreso di vederla all'interno della sua torre, la ragazza abbassò lentamente la mano e si aprì la tunica. Gli occhi di Fox seguirono i suoi movimenti finché l'alabarda che piombò dall'alto sulle sue caviglie non lo fece ruzzolare giù per le scale. Il soldato imprecò e agitò la spada per difendersi da quell'ultimo attacco, e si ritrovò nuovamente naso a naso con l'uomo sogghignante dai capelli corvini. Un sottile coltello, impugnato da una mano esile ma risoluta, affondò nell'occhio destro del gigante, e Faerûn scomparve per sempre dalia sua vista. Respirando affannosamente, Immeira si scostò dall'enorme carcassa ricoperta d'acciaio e lasciò che scivolasse fragorosamente lungo le scale, mentre coi guanti di ferro cercava invano di aggrapparsi a qualcosa.
Poi distolse rapidamente lo sguardo e sollevò gli occhi all'uomo che le stava sorridendo dall'alto. «Wanlorn», mormorò tremante, prima di scoppiare in lacrime. «Wanlorn, gliel'abbiamo fatta!» «No, fanciulla», rispose con voce tranquillizzante mentre l'abbracciava. «Abbiamo portato a termine la parte più facile. Ora inizia il compito più difficile. Hai ucciso qualche topo, tutto qua... ma la casa che infestavano dev'essere ancora riordinata». Elminster prese il pugnale gocciolante dalle mani di Immeira e lo gettò via; l'arma rimbalzò sulle piastrelle sottostanti. «Il Regno di Iron Fox è distrutto, ma Buckralam's Starn dev'essere reso nuovamente vivibile». «In che modo?», mugugnò la fanciulla stretta contro il suo petto. «Guidami. Hai detto che non saresti rimasto...» «Non posso, ragazzina... non più di una stagione. Sarebbe meglio per te se io partissi questa stessa notte». Le braccia di Immeira si strinsero a lui come una morsa. «No!» «Stai tranquilla, fanciulla», rispose El. «Rimarrò finché tu e il vecchio Rarendon non avrete trovato qualcuno... orfani o contadini... che vi scortino fino a Saern Hill. Io ti scriverò un messaggio da consegnare a un uomo, un allevatore di cavalli di nome Nantlin; chiedigli se la sua arpa ha un suono dolce come sempre, ed egli capirà chi è il vero mittente del biglietto. Radunerà gente affinché si trasferisca a Starn: donne e uomini d'onore ed esperti in armi, per far rispettare leggi che tutti gli starnesi approveranno e per rendere il villaggio nuovamente forte. Io, invece, sono costretto ad andarmene prima che uno dei suoi uomini entri nella valle». Immeira lo fissò col viso bagnato di lacrime; gli occhi e le labbra serrate dell'uomo denotavano un dispiacere sincero, e la fanciulla sollevò due timide dita e gli carezzò il volto. «Mi dirai il tuo vero nome, prima di andartene?» «Immeira», affermò solenne, «lo farò». «Bene», ribatté quasi ferocemente, mettendogli entrambe le mani intorno al collo, «poiché non mi concederò a un uomo senza nome». Un sorriso che non apparteneva a Immeira fluttuò nei suoi sogni ed El si risvegliò improvvisamente sudato. «Mystra», mormorò nel buio, fissando il soffitto crepato della migliore stanza da letto di Fox Tower. «Signora, ti ho finalmente compiaciuto?»
Alla sua domanda seguì il silenzio... ma improvvisamente sul soffitto apparvero alcune lettere di fuoco: «Servi colei che è chiamata Dasumia». Poi le fiamme scomparvero, ed Elminster batté le palpebre nell'oscurità. Si sentì molto solo... finché non udì un dolce sussurro contro il collo. «Elminster?», chiese Immeira con tono intimorito. «Che cos'era? Servi gli dei?» El le carezzò il viso, sentendosi improvvisamente prossimo alle lacrime. «Tutti noi lo facciamo, fanciulla», ribatté rauco. «Tutti noi lo facciamo, anche senza saperlo». 3. UN BANCHETTO A FELMOREL Se mai umani, draghi, orchi ed elfi potranno sedere insieme in questi Regni, sarà intorno al tavolo di un buon banchetto. Il trucco consiste nell'evitare che festeggino gli uni a danno degli altri. Selbryn il Saggio Da Riflessioni da una torre solitaria di Athkatla Pubblicate nell'Anno del Verme «E tu», chiese la guardia più bassa e più chiassosa delle tre con falsa allegria, «chi saresti?» L'uomo dal naso adunco e dalla barba curata a cui si era rivolto con sguardo glaciale - che se ne stava sotto la battente pioggia primaverile, senza cavallo e con gli stivali infangati, ma con le vesti completamente asciutte - ricambiò il finto e brillante sorriso e rispose: «Un uomo che a Lord Esbre farebbe piacere avere al suo tavolo». «Un uomo che conosce la magia e si crede abbastanza intelligente da evitare di rispondere quando gli viene chiesto il suo nome», ribatté secco il capo delle guardie, incrociando le braccia sul petto in modo che le dita di una mano appoggiassero sull'elsa del pugnale infilato nella parte anteriore destra della cintura, e quelle dell'altra potessero carezzare la mazza adagiata nel fodero nella parte sinistra. Le altre due guardie lasciarono cadere le braccia, altrettanto casualmente, sull'impugnatura delle loro spade. Lo straniero sorrise e aggiunse: «Il mio nome è Wanlorn, e il mio paese Athalantar». Il capitano sbuffò: «Mai sentito nominare, e un brigante su tre si chiama
Wanlorn». «Bene», affermò l'uomo allegramente, «allora è tutto a posto». La calma e la sicurezza con cui avanzò furono tali da disorientare le guardie, e, prima che gli intimassero di fermarsi spintonandolo con i guanti di ferro, Elminster era già in mezzo a loro. «Ma dove cavolo credi di andare?», ringhiò il capitano, spingendolo con la mano. L'uomo barbuto fece un ampio sorriso, gli afferrò la mano e gliela scosse alla maniera dei guerrieri. «A far visita a Lord Esbre Felmorel», rispose, «e a scambiare con lui due chiacchiere in privato, ragazzo mio. Nel frattempo prenderò parte a uno dei suoi superbi banchetti. Potresti annunciarmi». «Ci risiamo», sibilò la guardia, sporgendosi per fissare lo straniero naso a naso. «Non posso». Per un lungo momento due occhi verdi fiammeggianti fissarono in altri due, allegri, di color blu grigio, poi il capitano aggiunse brevemente: «Vattene. Allontanati dalla mia porta, altrimenti ti ucciderò. Non lascio entrare rozzi briganti... o mendichi dalla lingua lunga...» L'uomo barbuto sorrise e si protese per assestare un bacio risonante sulla bocca minacciosa della guardia. «Sei davvero impressionante come dicono», affermò lo straniero quasi affettuosamente. «Il vecchio Glavyn è una furia quando si arrabbia, mi hanno riferito. Sputa, ringhia, fa di tutto per cacciarti dalla sua porta... oh, è un vero e proprio piccolo drago!» Una delle altre guardie soffocò una risata; il Capitano Glavyn, smise di fissare, sbigottito, lo straniero e si voltò arcigno per fulminare un nemico molto più familiare. «Ci trovi qualcosa di divertente, Feiryn? Qualcosa di tanto esilarante da farci scordare la nostra virilità e la nostra formazione, e trascurare superiori e colleghi?» La guardia impallidì, e un Glavyn visibilmente soddisfatto si voltò nuovamente a fissare il viandante con sguardo assassino. «Per quanto riguarda te, straniero... se mai oserai... violare ancora la mia persona, sarai un uomo morto, e tutti gli dei di questo mondo e del prossimo non saranno sufficienti a salvarti!» «Ah, Glavyn, Glavyn», esclamò Wanlorn con ammirazione, «che parlantina! Che stile! Splendide parole pronunciate in modo sensazionale. Lo dirò a Esbr... al Signore, quando siederò a cenare con lui». Batté una mano sulla spalla del capitano e contemporaneamente lo superò. Glavyn divenne rosso di rabbia e ghermì le sue armi per... o, meglio, tentò di farlo. Per quanto, infatti, si sforzasse e lottasse, non riusciva a
smuovere né la mazza né il pugnale, e neppure a disincrociare le braccia per raggiungere la corta spada appesa alla schiena, né l'altro pugnale accanto a essa. Le sue braccia erano come paralizzate; Glavyn prese fiato per emettere un urlo, ma... «Signori miei, che cos'è questo trambusto?» La voce bassa e musicale di Lady Nasmaerae interruppe il capitano come una spada che squarcia la seta. Quattro uomini si spostarono in silenzio per poterla osservare meglio. La donna era snella, avvolta in una tunica verde, le cui maniche attillate e a punta le nascondevano quasi le dita, ma le lasciavano nude le spalle. Un corpetto d'argento finemente lavorato riflesse il bagliore del giorno morente, malgrado la pioggia e la foschia, quando Nasmaerae si voltò lievemente nelle tenebre per pronunciare un breve incantesimo, che fece avvampare di fiamme calde il candelabro che aveva in mano. Nella luce ondeggiante, i suoi occhi simili a pozze scure divennero ancor più grandi, di color indaco... e chiazzati d'oro. La bocca e le maniere di Lady Nasmaerae sembravano caste e innocenti, ma quegli occhi parlavano di una saggezza antica, di una sensualità oscura, e di una brama sopita. Un sorriso si accese nel suo sguardo mentre misurava il suo effetto sugli uomini di guardia alla porta, e, quasi sotto voce, aggiunse: «Chi siamo noi, in una notte come questa, per tenere un viaggiatore solitario in piedi sotto la pioggia? Entrate, signore, e siate il benvenuto. Castel Felmorel vi apre le porte». Lo straniero dal naso aquilino chinò il capo e sorrise. «Lady», esclamò, «la generosità che dimostrate verso uno straniero mi onora... le vostre maniere sono fiduciose e affabili, e le guardie farebbero bene a emularle. Sono Wanlorn di Athalantar e accetto la vostra ospitalità, giurando solennemente di non avere intenzioni malvagie nei vostri confronti, né di chiunque dimori nel castello, e di non avere alcuna mira su Felmorel. Ho sentito molto parlare della vostra bellezza, ma nulla di ciò che mi hanno riferito rende giustizia alla realtà». Sul volto della donna apparvero due fossette. Sempre col medesimo sorriso, si voltò e affermò: «Ascolta bene, Glavyn, e impara. Potranno essere sciocche lusinghe... ma oh, fanno un immenso piacere». Mentre ancora lottava contro il sortilegio che lo immobilizzava, il capitano delle guardie, rosso in viso e tutto tremante, guardò in cagnesco oltre le spalle della donna e rimase in silenzio. Lady Nasmaerae si voltò quasi di scatto e offrì il braccio a Wanlorn. L'uomo l'accettò con un inchino e quando le prese il candelabro le loro dita
si sfiorarono per un istante... o forse per un tempo più lungo. Quando i due si allontanarono lungo un buio corridoio, le guardie giurarono di aver visto ammiccare le fiamme del candelabro. E in quel momento Glavyn si accorse di poter muovere nuovamente le braccia. Ci si sarebbe aspettati che l'uomo sguainasse le armi come aveva tanto desiderato fare in quegli ultimi minuti... invece il capitano riversò tutte le sue energie a lanciare imprecazioni rabbiose. Quando fu costretto a terminare per riprendere fiato, le due guardie ai suoi ordini lo guardarono con rinnovato rispetto e stupore. Glavyn si voltò rapidamente, affinché i colleghi non lo vedessero arrossire. Al centro dello stemma di Felmorel era raffigurata una mantimera rampante, e, malgrado nessuno avesse mai visto tale bestia sgraziata e pericolosa (con ali di pipistrello, tre teste barbute, e tre code irte di pungiglioni a tre estremità del corpo), il Signore di Felmorel era conosciuto, sia dagli amici sia dai nemici, quale «Mantimera». Esbre Felmorel accolse l'ospite inaspettato con grande cordialità, lodandolo perché era arrivato al momento giusto per fare un po' di conversazione, mentre gli altri due ospiti si trovavano ancora nei loro appartamenti. Il Signore mise a disposizione alcune stanze affinché lo straniero esausto potesse riposare e rinfrescarsi, ma l'uomo dal naso aquilino rimandò tutto ciò a dopo il banchetto, affermando che, di fronte a tanta generosità, non sarebbe stato educato privare il padrone di casa della possibilità di un po' di conversazione. Lady Nasmaerae si adagiò su un divano, evidentemente il suo personale, con una grazia felina che entrambi gii uomini si soffermarono a guardare. La donna sorrise e afferrò un calice di vetro elfo colmo di vino ghiacciato, posto vicino alla sua guancia, felice di ascoltare i due uomini che si scambiavano le cortesie di rito seduti al lungo tavolo imbandito e illuminato dalle candele. «Nonostante in molte sale di questo genere, sarebbe considerato un po' sfacciato essere tanto diretti», esclamò Mantimera con voce tuonante, «io sono curioso, e chiedo che cosa vi ha spinto a giungere fin qui da una terra tanto distante, il cui nome vi confesso di non aver mai udito, e a cercare ospitalità in un castello?» Wanlorn sorrise. «Lord Esbre, io sono un uomo schietto quanto voi. Sono lieto che me l'abbiate domandato. In quest'Anno della Risata sto viaggiando per ordine divino al fine di conoscere meglio Faerûn, e al momento
sto cercando notizie su una persona che conosco solo col nome di "Dasumia". Avete, per caso, una Dasumia a Felmorel, o nei dintorni?» Mantimera corrugò lievemente la fronte, concentrato, poi affermò: «Temo di no, non conosco nessun con quel nome. Nasmaerae?» Lady Felmorel scosse il capo. «Mai sentita nominare». Volse io sguardo a Wanlorn e chiese: «La questione ha a che fare con la magia che avete usato tanto abilmente alla porta... o si tratta di faccende private?» «Non so di che cosa si tratti», rispose l'ospite. «Attualmente "Dasumia" è per me un mistero». «Forse i miei ospiti potranno illuminare gli angoli bui del vostro mistero, entrambi hanno viaggiato molto, e uno di loro è molto esperto di arti magiche», suggerì Lord Esbre, porgendo la caraffa verso Wanlorn. «Negli anni ho scoperto che in molti casi il sapere giace come gemme scintillanti in cantine dimenticate, nelle menti di coloro che cenano alla mia tavola... gemme che essi sono tanto sorpresi di riportare alla memoria quanto lo siamo noi, vedendo che possiedono tali ricchezze. Una fanfara risuonò debolmente lungo corridoi distanti, e Mantimera guardò i servi che aprirono le alte porte di ebano spingendo pesanti maniglie dorate. «Eccoli che arrivano», esclamò, servendosi un po' di formaggio speziato. «Vi prego, mangiate, signore. Qui non badiamo alle formalità e non siamo soliti aspettare gli altri. Tutto ciò che chiedo ai miei ospiti è una buona conversazione e un ascolto attento. Buon appetito!» Gomito a gomito, come se nessuno dei due volesse lasciare entrare l'altro per primo o per ultimo, gli ospiti entrarono nella stanza. Uno aveva la stazza di un toro: indossava una cintura d'oro a fascia larga che quasi gli toccava il petto muscoloso, coperto da una camicia di seta purpurea che gli ricadeva sulle braccia villose, dalle vene prominenti; un paio di bracciali, anch'essi d'oro, avvolgevano due avambracci più grossi delle cosce di molti uomini. Sia la cintura sia i bracciali recavano incise scene di lotta tra uomini e leoni... come pure la brachetta sotto la cintura. «Ho, Mantimera», tuonò. «Hai quella carne di daino in salsa che ancora si scioglie nella mia memoria? Sto morendo di fame!» «Certamente», ridacchiò Lord Felmorel. «Non è più necessario che viva solo nei tuoi ricordi, alza il coperchio di quel vassoio, ed è tua. Wanlorn di Athalantar, vi presento Barundryn Harbright, guerriero ed esploratore di fama illustre». Harbright lanciò un'occhiata all'uomo dal naso adunco non smettendo, tuttavia, di avanzare verso il vassoio indicatogli, ed emise una sorta di gru-
gnito, che risuonò più come un riconoscimento poco impegnativo che come un saluto di benvenuto. Wanlorn ricambiò con un cenno del capo, spostando subito lo sguardo sull'altro uomo, che se ne stava in piedi vicino al tavolo come una colonna scura e fredda di magia funesta. L'ospite dal naso aquilino non necessitò della presentazione di Mantimera per sapere che quello era un mago tanto potente quanto arrogante. Il suo sguardo gelido e beffardo incontrò quello di Wanlorn, ma sembrò attraversato da un guizzo di rispetto... o di paura?... quando si voltò a guardare Lady Nasmaerae. «Lord Thessamel Arunder, per alcuni il Signore degli Incantesimi», annunciò Esbre. Il suo tono era forse meno entusiastico ora che presentava il mago? L'arcimago fece a Wanlorn un cenno freddo, più di addio che di benvenuto, e si sedette con fare solenne, ostentando gli anelli scintillanti dalle forme più diverse che portava alle mani. Alcuni emisero bagliori variopinti. Mentre guardava il cibo davanti a lui, a Wanlorn vennero in mente le mascelle dei lupi che si chiudevano di scatto vicino al suo viso, nelle nevi alte dell'inverno appena trascorso, al di fuori di Starn. Quasi sorrise mentre scacciava quelle crude immagini dalla mente... fame, quelle bestie ululanti avevano semplicemente fame, né più né meno di quanta ne avesse lui in quel momento... e si mise a contemplare la zuppa di lucertola al pepe e la torta di serpente. Mentre tagliava una fetta di quest'ultima e ne annusava estasiato il profumo, Wanlorn si accorse che Arunder gli aveva lanciato un'occhiata per verificare se fosse stato sufficientemente impressionato dalla dimostrazione di potere. Il mago si riappoggiò quindi allo schienale e si versò un bicchiere di vino per nascondere l'irritazione. Il potere e il talento per l'Arte rendono molti maghi petulanti e infantili, in quanto si aspettano che il mondo giri intorno ai loro capricci e s'infastidiscono quando ciò non accade. L'attuale fonte di fastidio per Arunder era Wanlorn: il mago lo avrebbe presto attaccato. Fin troppo presto. «Dite di essere originario di Athalantar, signore... ah, Wanlorn. Avrei pensato che nessuno della vostra età si potesse proclamare discendente di quella terra abbandonata», mormorò il mago, mentre Harbright tornava al tavolo con un vassoio d'argento ampio quanto il suo petto, contenente un intero arrosto di cinghiale e numerosi volatili arrostiti, e si accomodava facendo scricchiolare la sedia sotto il suo peso e tintinnare le caraffe sul tavolo. «Dove avete vissuto più di recente, e che cosa vi porta dunque, avvolto in segreti e non annunciato, in una casa tanto piena di
ricchezze, se mi è permesso chiederlo? I padroni dovrebbero chiudere a chiave i loro cofanetti di gemme?» «Da qualche decennio vago per questi regni», rispose prontamente Wanlorn, ignorando il sarcasmo e le insinuazioni palesi di Arunder, «in cerca di conoscenza. Avevo sperato che Myth Drannor mi insegnasse molto... ma laggiù ho imparato solo a fuggire dai demoni. Ho sbirciato qua e là, ma non ho appreso che qualche segreto su Dasumia». «Ma davvero? Allora cercate il sapere magico... o la vostra è una caccia al tesoro?» Udita quell'ultima parola, il guerriero Harbright sollevò lo sguardo dal piatto e fissò Wanlorn in attesa di una risposta. «Il sapere è ciò che cerco», ribatté lo straniero. Barundryn emise un grugnito di disgusto e riprese a mangiare rumorosamente. «Informazioni su Dasumia... ma, a quanto pare, trovo solo l'Arte. Suppongo che il suo potere guidi coloro che ne sono capaci a riferire i dettagli per iscritto. Per quanto riguarda il tesoro... non si vive mangiando monete. Io ne ho a sufficienza per soddisfare i miei bisogni; da solo e a piedi, come potrei portarne di più?» «Usatene un po' per comprare un cavallo», borbottò Harbright sputacchiando sulla tovaglia pezzettini di cinghiale alle erbe. «Dei del cielo... viaggiare a piedi per i regni! Sarei decrepito ancor prima che i piedi mi si consumassero fino alle caviglie!» «Ditemi», esclamò Lord Felmorel rivolto a Wanlorn, «quanto avete potuto vedere della favolosa Città del Canto? Gran parte di coloro che si avvicinano alle rovine vengono fatti a pezzi in un batter d'occhio». «Oppure avete solo vagato nei boschi vicini a dove immaginate giaccia Myth Drannor?, chiese Arunder con voce suadente mentre si riempiva il bicchiere. «I demoni dovevano essere impegnati nell'inseguimento di qualcun altro», osservò il viaggiatore dal naso adunco rivolto a Mantimera, «poiché ho trascorso più di mezza giornata a vagare fra edifici vuoti ricoperti di vegetazione senza vedere anima viva che fosse più grande di uno scoiattolo. Magnifiche finestre arcuate, balconi curvi... dev'essere stata una città grandiosa. Non è rimasto molto da portar via; non ho visto calici sui tavoli o libri aperti dove qualcuno venne interrotto nella lettura, come vorrebbero farci credere i menestrelli. Senza dubbio la città venne saccheggiata dopo la sua caduta. Tuttavia ho visto, e ricordo, alcuni sigilli e frasi scritte. Ora se solo potessi capire ciò che significano...»
«Non avete visto demoni?», chiese beffardo Arunder, visibilmente ansioso di sentire la risposta di Wanlorn. Questi sorrise. «No, signor mago, nonostante custodiscano la città. Probabilmente passeranno anni prima che ci si possa avventurare fra le rovine senza che ci si debba preoccupare di qualcosa di più pericoloso di un mostro alato o, diciamo, di un orso gufo». Lord Esbre scosse il capo. «Tutto quel potere», mormorò, «eppure sono crollati. Tutta quella meraviglia spazzata via, il popolo ucciso o sparpagliato... una volta perduto, non potrà mai esser ripristinato. Non com'era prima». Wanlorn annuì. «Anche se i demoni svanissero da un giorno all'altro», affermò, «la città venisse ricostruita in dieci giorni e una gente di uguale intelligenza e abilità venisse radunata il giorno dopo, non avremmo un'altra Città delle Meraviglie. Non vi sarebbe l'energia, l'eccitazione, e la libertà di sperimentare, di ragionare e di abbandonarsi a stramberie, fondate sulla certezza della propria invulnerabilità. Il risultato sarebbe solo una messa in scena». Mantimera annuì e commentò: «Ho udito le storie sul declino di Myth Drannor, e ho persino affrontato un demone... non qui... e sono sopravvissuto per raccontarlo. Nonostante fosse diviso da interessi egoistici e da numerose rivalità, stento a credere che un popolo così grande e potente possa essersi estinto in modo tanto radicale». «Myth Drannor doveva cadere», tuonò Barundryn Harbright, allargando una mano enorme come se stesse afferrando un cranio invisibile affinché tutti lo ispezionassero. «Si sono spinti troppo oltre, vedete, a caccia della divinità... come quei netheresi. Gli dei provvedono affinché tali sogni terminino nel sangue, altrimenti ci sarebbero più divinità di quante potremmo ricordarne, e nessuna di esse con potere sufficiente a esaudire una singola preghiera. È tanto semplice; ma perché tutti questi maghi continuano a fare lo stesso errore?» Arunder abbozzò un sorriso con aria superiore e osservò: «Forse perché non hanno te che li riporti sulla Giusta Strada». Il volto del guerriero s'illuminò. «Oh, ne hai sentito parlare?» domandò. «Già, la Giusta Strada». Il mago rimase a bocca spalancata. Lui stava scherzando, ma per tutti gli dei, quello stupido sembrava serio. «Non siamo ancora in molti», continuò entusiasta Barundryn, agitando un fagiano gocciolante di salsa per dare enfasi al suo discorso, «ma dete-
niamo già il potere in una decina di città. Avremo bisogno di un regno, e...» «Come tutti. Io ne vorrei più di uno», lo interruppe beffardo Arunder, già ripresosi dallo sbalordimento. «Trovamene uno con tanti castelli, va bene?» Harbright gli lanciò un'occhiata fulminante. «Il problema con i maghi superintelligenti», borbottò rivolto all'intero tavolo, «è la familiarità pressoché inesistente col lavoro... per non parlare della capacità di andar d'accordo con le varie razze, e di sellare un cavallo, o persino di uccidere o cucinare un polio. Raramente reggono l'alcol, sanno corteggiare una fanciulla, o coltivare le rape... ma sono sempre in grado di dire agli altri come fare, anche quando si tratta di rape o di tirare il collo a una gallina!» Mani grandi e pelose, dalle dita tozze si agitarono in modo allarmante, e Arunder si ritrasse, mascherando la sua ovvia paura afferrando una caraffa distante. Wanlorn gliel'avvicinò cortesemente, ma il mago, invece di ringraziarlo, lo ignorò. Il padrone del castello interruppe quel momento di disagio e chiese: «Tuttavia, signori miei, Giuste Vie e natura dei maghi a parte, che cosa vedete nel futuro di Faerûn? Se Myth Drannor l'Eccelsa può essere spazzata via, a che cosa ci aggrapperemo negli anni a venire?» «Lord Felmorel», rispose il mago Arunder frettoloso, «maghi, e non, hanno discusso molto su quest'argomento, ma i punti di accordo sono pochi. Ogni proposta suscita critiche e timori, e ovviamente anche consensi. Alcuni hanno parlato di un concilio di maghi al governo di una terra...» «Ah! Un regno di tirannia e confusione sotto vesti raffinate!», sbottò il guerriero. «... mentre altri vedono un futuro brillante nelle alleanze con i draghi, così che ogni regno umano sia un loro dominio, con...» «Gli abitanti schiavi e cibo di quelle bestie», continuò Harbright, rivolto al piatto semivuoto. «... accordi che evitino ostilità tra uomini e draghi». «Mentre il drago piombava dall'alto con le fauci spalancate, il cavaliere guardò il suo destino, gridando invano, "Il nostro accordo mi protegge! Non puoi..." per qualche istante, prima che la bestia lo divorasse e volasse via», commentò sarcastico Harbright. «I sopravvissuti radunatisi concordarono solennemente che il drago aveva violato l'accordo, e venne proposto che qualcuno si recasse alla tana della bestia per informarla che aveva illecitamente divorato il cavaliere. Stranamente, nessuno si offrì volontario».
Nella sala piombò il silenzio. L'imponente guerriero protese la mandibola e lanciò un'occhiata fredda e tenebrosa al mago, come per sfidarlo a parlare, ma Thessamel sembrò aver acquisito un improvviso interesse per la zuppa di lucertola al pepe. Wanlorn sollevò gli occhi verso il padrone, consapevole dello sguardo costante e attento di Lady Felmorel, e asserì: «Per quanto mi riguarda, Signore, credo che un'altra città del genere tarderà a sorgere. Nelle terre pericolose e senza leggi si formeranno piccoli regni, più che mai difesi da orchi e briganti, come è sempre accaduto. I bardi terranno viva Myth Drannor mentre la città, al momento e in un futuro prossimo, rimane praticamente perduta». «E questa saggezza, giovane Wanlorn, era scritta sui muri della Città del Canto?», chiese ironico Arunder, evitando però di guardare Harbright. «Oppure te l'hanno detto gli dei, magari in sogno?» «Di questi tempi sarcasmo e derisione sembrano consumare un po' troppo spesso la lingua dei maghi», osservò Wanlorn in tono casuale, rivolgendosi a Barundryn Harbright. «Lo avete notato anche voi?» Il guerriero sogghignò, più al mago che al giovane dal naso adunco, e borbottò: «Sì. Una malattia del cervello, credo». Agitò uno spiedo di quaglia come fosse uno scettro e aggiunse: «Sono sempre tanto impegnati a mostrarsi intelligenti che non si accorgono mai quando la questione li riguarda personalmente». Harbright e Wanlorn si voltarono simultaneamente verso l'arcimago. Arunder aprì la bocca con un ghigno per pronunciare parole aspre, ma subito dopo sembrò dimenticarle; schiuse nuovamente le labbra per dire qualcosa d'altro, ma cambiò idea e afferrò un bicchiere di vino, che tracannò sin troppo avidamente. Quando iniziò a soffocare, a tossire e a gorgogliare, il guerriero allungò una mano delle dimensioni di un badile, e lo colpì forte tra le scapole. Mentre il mago barcollava sulla sedia, Harbright gli chiese: «Vi siete ripreso... nel vostro piccolo?» Nel silenzio teso che seguì, mentre Arunder cercava di riprendere fiato, Lady Nasmaerae si portò una mano alla bocca con rapidità e grazia, e Lord Esbre Felmorel affermò tranquillamente: «Credo abbiate ragione, signor Wanlorn. Piccole rocche, e città isolate e fortificate costituiscono la caratteristica di queste zone, e la situazione rimarrà sicuramente tale negli anni a venire... a meno che non accada qualche cosa alla Signora delle Ombre». «La Signora...?»
«Una maga malvagia», s'intromise Barundryn, lanciando allo straniero un'occhiata truce. Lord Esbre annuì. «Detto schiettamente, ma è così: da queste parti la temiamo e le obbediamo oppure, se possibile, la evitiamo. Nessuno sa dove dimora, ma la Signora cerca di imporre la sua volontà... se non di governare apertamente... sulle terre immediatamente a est di qui. È famosa per la sua... crudeltà». Notando che il mago sembrava essersi ripreso, Lord Esbre tentò di fargli tornare il buon umore rivolgendosi a lui con un po' di giovialità. «Voi siete un esperto in materia di magia, Lord Arunder... vogliate fornirci qualche informazione rilevante sulla Signora delle Ombre». Era tempo di sorprese alla mensa di Lord Esbre. Lord Thessamel Arunder fissò il piatto e mormorò: «Non ci sono... non ho nulla da aggiungere sull'argomento. No». Le candele poste sul tavolo tremolarono nel silenzio assoluto che regnò fino al termine della cena. Una decina di candele baluginavano all'estremità più lontana della camera da letto, come lingue di cuccioli di drago affamati. La stanza era piccola, aveva un soffitto alto, e le pareti erano coperte da vecchi ma grandiosi arazzi, che Elminster era certo nascondessero più di un passaggio segreto e numerosi spioncini. Sorrise lievemente all'idea della serenità che lo attendeva, e oltrepassò la tenda del letto a baldacchino, diretto alla fiamma più vicina. «Sono Wanlorn», iniziò gentile, «e non lo sono. In queste vesti, al tuo servizio, ascolta la mia preghiera, O Signora dei Misteri, O Mystra carissima, O Fiamma Tessitrice». Sfiorò la fiamma con due dita, e il bagliore arancione divenne di un blu intenso; soddisfatto, El si chinò sopra di essa fin quasi ad aspirare la fiamma tra le labbra, e sussurrò: «Ti prego, ascoltami, Mystra, e assistimi nel momento del bisogno. Shammarastra ululumae paerovevim driios». Tutte le candele si affievolirono, poi, simultaneamente, avvamparono di rinnovato vigore, e la stanza divenne più luminosa di quanto non fosse mai stata. Elminster roteò gli occhi all'indietro, poi vacillò e cadde pesantemente in ginocchio, scivolando con la faccia sul pavimento. Privo di sensi tra le candele, non vide la fiamma formare un cerchio di scintille blu che turbinò attorno a lui per poi affievolirsi, ridonando alla candela il suo solito colore
bianco-ambrato. In una stanza poco lontana, nascosta in fondo a cupi corridoi di pietra incantata, fiamme dello stesso colore blu intenso serpeggiavano e si contorcevano pochi centimetri al di sopra del pavimento, tracciando un sigillo intricato che mutava lentamente mentre ruotava sopra le pietre lisce come il vetro. Le fiamme lambivano e carezzavano le caviglie della loro creatrice, che vi danzava in mezzo a piedi nudi; la sua camicia da notte di seta bianca luccicava sopra di esse mentre la donna tesseva un incantesimo. I suoi occhi assunsero lentamente il medesimo colore delle fiamme. Questo fuoriuscì sotto forma di strane lacrime nell'aria circostante, mentre Lady Nasmaerae girava su se stessa e cantava. L'ambiente era spoglio e buio eccetto che per la luce dell'incantesimo, ma si illuminò un po' quando le fiamme si sollevarono a formare un ovale perpendicolare, nel quale apparve il volto inerte dell'uomo dal naso adunco, sdraiato scompostamente sulle pietre della stanza da letto, in mezzo a una decina di candele accese. Lady Felmorel contemplò l'immagine e mormorò una frase che portò in primo piano gli occhi semichiusi del giovane dormiente. «Ooundreth», aggiunse, «Ooundreth mararae!» Allargò le mani sopra le fiamme e attese che queste le lambissero i palmi, portando con sé ciò che tanto bramava: quell'ondata scura di intelligenza e di pensiero che aveva bevuto già numerose volte prima di allora, ricordi e conoscenza sottratti da una mente assopita. Quali segreti serbava il giovane Wanlorn? «Vieni», mugugnò, poiché il flusso misterioso tardava. «Vieni... a me...» Un potere mai sperimentato si levò improvvisamente dalle fiamme, e le fece tremare le membra e drizzare i peli sulla pelle formicolante. La tensione del corpo le impediva di respirare e la stanza intorno a lei era diventata pesante, e in qualche modo consapevole. Ma ancora il flusso scuro tardava a manifestarsi. Chi era quel Wanlorn? L'immagine nella cornice di fiamme ovale conteneva ancora due occhi assonnati, semiaperti... ma qualcosa stava ora cambiando. Lingue di fuoco argenteo si levarono da quelle blu, dapprima lentamente, poi più rapide e più fitte, fino a coprire completamente la scena per un attimo, davanti agli occhi sbalorditi della danzatrice. D'un tratto le fiamme argentee sommersero quelle blu, e due occhi freddi, che non erano quelli di Wanlorn si aprirono in mezzo a esse. Erano ne-
ri, disseminati di stelle scintillanti, ma le fiamme che ne scaturivano come lacrime erano dello stesso blu intenso di quelle degli occhi di Nasmaerae. «Sono Azuth», risuonò una voce, musicale e al contempo terribile, nelle profondità della sua mente. «Cessa quest'indagine... per sempre. Se non lo farai, ti verranno tolti i mezzi per scrutare». Nasmaerae si mise a urlare... più forte e più a lungo che poteva, mentre le lingue di fuoco turbinavano attorno a lei e la tenevano prigioniera. La donna fu sopraffatta dal terrore e dal ribrezzo, quando le fiamme blu del suo stesso incantesimo indagatore vennero spinte a forza dentro di lei. Rabbrividì sotto il loro assalto, ammutolì mentre si contorceva in preda agli spasmi, poi ricominciò a gridare con tono differente, come una creatura perduta e derelitta. Gli occhi di Nasmaerae avevano perso tutta la brillantezza, e da un angolo della bocca contorta le fuoriusciva un filo di bava. Lo sguardo stellato di Azuth fissò la donna per un lungo momento, poi sprizzò nuove fiamme blu che l'avvolsero in un inferno vorticante per alcuni istanti. Quando tutto fu cessato, la donna si ritrovò a piedi nudi sul pavimento di pietra della stanza degli incantesimi, la sua magia infranta e svanita. La camicia da notte era appiccicata alla sua pelle sudata, e le mani le tremavano incontrollabilmente, ma gli occhi desolati che le fissavano erano i suoi. «Sei nuovamente Nasmaerae, la tua mente è stata ripristinata. Probabilmente non lo considererai un atto pietoso, figlia di Avarae. Ho spezzato tutti i tuoi legami... incluso, naturalmente, quello che rende schiavo il tuo Signore. Presto le conseguenze si abbatteranno su di te, meglio che ti prepari». La maga fissò in preda al terrore quegli occhi fluttuanti colmi di stelle, che le rivolsero uno sguardo severo, pur cominciando a svanire nel nulla. La luce magica nella stanza si affievolì e scomparve con essi, lasciando dietro sé solo il vuoto. Nasmaerae si inginocchiò nell'oscurità e rimase a lungo a singhiozzare. Poi si alzò e con passo felpato e sguardo vitreo si avviò per corridoi che conosceva bene, tastando gli angoli e gli archi con la punta delle dita, alla ricerca del pannello scorrevole che si apriva sul retro del guardaroba nella sua camera da letto. Mentre scostava mantelli e tuniche, fece un respiro profondo e tremante, e posò le dita sullo scrigno segreto, che si trovava ancora sullo scaffale nascosto, in alto, dove l'aveva lasciato.
Le serve avevano lasciato un'unica lampada accesa sul comodino dal piano di marmo; il pugnale sottile come un ago catturò e riflesse la pallida luce nel momento in cui la donna lo estrasse e lo contemplò per un istante; dopodiché lo rigirò nella mano e se lo puntò minacciosa contro il petto. «Esbre», sussurrò all'oscurità, mentre si preparava a infliggersi il colpo mortale, «mi mancherai. Perdonami». «L'ho già fatto», le mormorò all'orecchio una voce fredda come la pietra; un braccio familiare le passò davanti al petto per intercettare la mano che impugnava il pugnale. Nasmaerae emise un grido di sorpresa e lottò selvaggiamente per un istante, ma la mano irsuta di Lord Esbre era praticamente irremovibile come il ferro, e tuttavia, intorno al polso, delicata come il velluto. Con l'altra mano, l'uomo s'impadronì del pugnale e lo gettò via; l'arma attraversò la stanza e venne afferrata con destrezza da una delle guardie, in tutto una decina, che si erano materializzate da dietro ogni arazzo e ogni specchio. I soldati accesero i candelabri a muro, tolsero il cappuccio alle lanterne e si appostarono per impedire alla donna di fuggire dalla porta o dal guardaroba dietro di lei. Lady Felmorel fissò il marito, ancora troppo scioccata e stordita per riuscire a parlare, e si domandò quando la sua collera si sarebbe abbattuta su di lei. Gli occhi di Mantimera avvamparono tra una foschia di lacrime, ma le labbra si mossero lente e in maniera precisa quando, in toni perplessi le chiese: «Il suicidio è la risposta al fallimento della magia? Avevi una buona ragione per tenermi in tua schiavitù?» Nasmaerae aprì la bocca per supplicare, per pronunciare bugie disperate, per sostenere che le sue azioni erano state fraintese, ma tutto ciò che le uscì fu un torrente di lacrime. Gli si gettò addosso e tentò di mettersi in ginocchio, ma un braccio forte intorno ai fianchi glielo impedì. Quando finalmente riuscì a pronunciare parole fra i singhiozzi, fu per implorare perdono e per dichiararsi disposta ad accettare qualsiasi punizione lui ritenesse necessaria, e per... Esbre zittì quel fiume di parole posando un dito sulle labbra della donna e affermò truce: «Non parleremo più di quello che hai fatto. Non dovrai mai più ipnotizzare me, né nessun altro». «Io... credimi, mio Signore, non avrei mai...» «Non ne sei capace, qualsiasi cosa tu possa desiderare. Questo lo so. Affinché lo sappiano anche gli altri, ora cercherai di ipnotizzarmi di nuovo». Nasmaerae lo fissò. «Io... no! No, Esbre, non oso! Io...»
«Lady», esclamò torvo Lord Felmorel, «è un ordine, non ti sto offrendo una scelta». L'uomo fece un gesto con tre dita, e le guardie sguainarono le spade. La donna si guardò attorno, e vide che le lame affilate e appuntite di spade da guerra la minacciavano da ogni lato. Dietro a esse vide il volto pallido di Glavyn e quello truce del fidato e vecchio Errart. Poi si voltò e nascose la faccia fra le mani. «Io... io... Esbre!», singhiozzò. «Sarò privata della magia se...» «Ti sarà tolta la vita se non lo farai. Morte od obbedienza, Signora. La stessa scelta che s'impone ogni giorno ai guerrieri che mi servono. Non è tanto difficile». Lady Nasmaerae emise un verso strozzato. Lentamente abbassò le mani e si raddrizzò, il respiro affannoso e lo sguardo assente; gettò il capo all'indietro per guardare il soffitto ed esclamò a voce bassa: «Ho bisogno di maggiore spazio. Qualcuno porti via questo tappeto, altrimenti si brucerà». Si diresse deliberatamente verso la punta di una spada finché non le fecero spazio per scendere dal morbido e lussuoso tappeto, poi si voltò nuovamente verso il centro del cerchio e affermò tranquilla: «Mi serve un coltello». «No», sbottò Esbre. «L'incantesimo lo richiede, Signore», ribatté con lo sguardo rivolto al soffitto. «Maneggialo tu, se ti senti più sicuro... ma obbediscimi quando comincerò il sortilegio, altrimenti moriremo entrambi». «Procedi», le ordinò il marito con voce fredda. La donna si allontanò da lui fino a portarsi al centro del cerchio di spade, poi si voltò nuovamente verso l'uomo. «Glavyn», esclamò: «portami il vaso da notte del mio signore. Se è vuoto faccelo sapere». La guardia la fissò, immobile... ma si affrettò verso la porta a un cenno di Lord Felmorel. Nell'attesa, Nasmaerae si strappò tranquilla la camicia da notte fradicia di sudore e la gettò lontano, rimanendo nuda davanti a tutti. Se ne stette impalata, senza accennare a coprirsi e senza adottare le sue solite pose sensuali, e si leccò le labbra più d'una volta, lo sguardo fisso su Esbre. «Puniscimi», esclamò improvvisamente, «in qualsiasi altro modo ma non così. L'Arte significa tutto per me, Esbre, ogni...» «Taci», le rispose quasi in un sussurro, ma la donna indietreggiò come avesse ricevuto una frustata sulle labbra e rimase in silenzio. La porta si aprì; Glavyn entrò con un vaso di terracotta. Lord Felmorel
glielo prese dalle mani, gli fece cenno di rimettersi al suo posto e, rivolto ai suoi uomini affermò: «Mi fido di tutti voi. Se doveste vedere qualcosa che minaccia Felmorel, colpite di conseguenza... entrambi, se necessario». Il coltello e il vaso in mano, l'uomo fece un passo avanti. «Ti amo, Esbre», sussurrò Lady Nasmaerae prima di inginocchiarsi. Il marito la guardò impassibile e si limitò a esclamare, «Procedi». La donna affermò: «Tieni il vaso in modo che possa arrivare al contenuto». Esbre ubbidì e la moglie vi immerse una mano e prese un po' della sua urina. Appoggiando la mano a coppa sul pavimento, allungò l'altra e gli ordinò: «Incidimi il palmo... quel tanto che basta per far uscire un po' di sangue». Con aria torva Lord Felmorel fece ciò che gli era stato chiesto, e Nasmaerae aggiunse: «Ora allontanati... col vaso, il coltello e tutto quanto». Quando l'uomo indietreggiò le guardie si irrigidirono, pronte a balzare con le armi sguainate al minimo segnale di Lord Esbre. Mentre il sangue scuro le riempiva il palmo, la donna si guardò attorno: i volti dei soldati lasciavano trasparire il profondo timore e l'odio che provavano nei suoi confronti. Poi si morse le labbra e scosse lievemente il capo. Fece un altro respiro profondo, col quale sembrò riacquistare coraggio. «Inizio», annunciò, e senza fermarsi si tuffò in una cantilena sempre più incalzante, che sembrava elaborata intorno al nome di Esbre. Le parole erano spesse e tuttavia scivolose come serpenti agitati; quando si fecero sempre più rapide, sottili riccioli di fumo fuoriuscirono dalle labbra della donna. D'un tratto, velocissima, Nasmaerae unì i palmi delle mani in modo da mischiare sangue e urina, e urlò una frase che sembrò lacerare i timpani dei presenti come un rombo di tuono. Una fiamma bianca avvampò fra i suoi palmi chiusi a coppa, e la donna sollevò la testa verso il marito... ma solo per urlare, con voce roca e disperata, tentare di rimettersi in piedi e di fuggire. Gli occhi stellati di Azuth, freddi e spietati, la stavano fissando dal volto di Lord Felmorel, e quella voce musicale e terribile risuonò nuovamente: «Ogni magia ha il suo prezzo». Nessuna delle guardie udì quelle sei parole, né vide altro se non la compassione sul volto del loro padrone, quando Mantimera sollevò una mano per placare le spade. Lady Felmorel era caduta a terra, il viso una maschera di disperazione, gli occhi vuoti, e fili di fumo morente che salivano dalle membra tremanti... membra che avvizzirono sotto i loro occhi, per poi ri-
fiorire, e avvizzire ancora. Per tutto il tempo, mentre il corpo della donna si contorceva, si rinnovava e raggrinziva nuovamente, Nasmaerae non smise di gridare, in preda alla sofferenza e al terrore. Le guardie fissarono il corpo fremente in silenzio, scioccate, finché Mantimera non parlò. «La mia signora rimarrà a letto per qualche giorno», esclamò torvo. «Ora lasciatemi solo con lei... ma convocate la cameriera affinché attenda ai suoi bisogni. Azuth è pietoso e d'ora in poi verrà adorato in questa casa». Da qualche parte una donna stava gridando e contorcendosi sul pavimento di pietra, con spade puntate tutt'intorno, e il suo corpo nudo avvizziva e rifioriva in continuazione... in un altro luogo scintille di luce, come stelle in un cielo notturno, turbinavano nelle tenebre emettendo un freddo tintinnio... seguì un istante confuso di maghi che sferravano incantesimi e diventavano scheletri nelle loro tuniche, poi Elminster si vide in piedi nel buio, mentre il chiarore lunare scendeva intorno a lui. Si trovava davanti a un castello il cui cancello aveva la forma di una gigantesca ragnatela: era un luogo in cui sapeva di non esser mai stato, e che non aveva mai visto prima. Le sue mani erano sollevate per preparare un incantesimo, che si attuò un attimo dopo e fece saltare il cancello in un'esplosione di luce. Questa si addensò in un vortice per poi trasformarsi nei denti di una bocca ridente che gli sussurrò: «Cercami nelle ombre». Le parole erano beffarde, la voce femminile, ed Elminster si ritrovò seduto ai piedi del suo letto intonso, i vestiti appiccicati al corpo per il sudore. «Mystra mi ha indicato la strada», mormorò. «Non mi soffermerò oltre in questo luogo, ma andrò a cercare e a sfidare questa Signora delle Ombre». Sorrise e aggiunse: «O il mio nome non è Wanlorn». Non aveva ancora disfatto la bisaccia consunta contenente i suoi effetti personali, perciò fu questione di pochi secondi verificare che nessun servo sollecito avesse tolto qualcosa da lavare, e uscire dalla porta, camminando con passo rapido, come se gli ospiti uscissero sempre per passeggiate notturne intorno a Castel Felmorel. La camminata era furtiva, da ladro. Annuì affabilmente all'unico servo che incontrò, ma non vide il volto imperturbabile di Barundryn Harbright osservarlo dalle profondità di un angolo scuro, e annuire lievemente, soddisfatto. E nemmeno vide l'ombra che scese le scale e lo seguì, portando il proprio bagaglio. Al cancello vi era solo un vecchio servo. El si guardò intorno per assicu-
rarsi che non vi fossero guardie nascoste; non vedendone, sollevò la lanterna d'ottone spenta che aveva preso in prestito poco prima in un corridoio, la fece oscillare cautamente, e la lanciò. La lampada atterrò sulla ghiaia ben oltre il vecchio guardiano, emettendo lo stesso rumore di un'armatura. L'uomo urlò di paura e sbatté la tibia contro lo stipite di una porta nel tentativo di afferrare la sua alabarda. Quando raggiunse la lanterna in frantumi, zoppicando e imprecando, e la minacciò con l'arma traballante, El era ormai uscito dalla porta, divenendo un'ombra in quell'umida notte primaverile. Un'altra lo seguì, dopo aver evocato una foschia magica, nel caso il giovane Wanlorn si fosse voltato a controllare di non essere seguito. Un breve bagliore contrassegnò l'incantesimo... ma il servo con la lancia era troppo lontano per notare o identificare la faccia tanto fugacemente illuminata. Anche Thessamel Arunder, il Signore degli Incantesimi, aveva sentito la necessità di lasciare improvvisamente, senza chiasso, Castel Felmorel nel mezzo della notte. La lanterna era un mistero, la gamba gli doleva, e la lancia era troppo lunga e pesante; il vecchio Bretchimus tornò lentamente alla sua postazione, e non senti né udì il turbine freddo e tintinnante, che quella sera fu la terza ombra a varcare la porta. Forse fu un bene. Quando s'inclinò per appoggiare la lancia al muro, la punta si staccò: era una vecchia arma e aveva visto fin troppo trambusto per una sera. La Fattoria di Torntlar si estendeva su sei colline e richiedeva un gran lavoro di zappatura. L'alba vide Habaertus Ilynker massaggiarsi la schiena dolente e affondare la zappa nel suolo sassoso dell'ultima collina... quella adiacente il bosco popolato dai lupi, che da lì giungeva fino a Felmorel. Come ogni mattina Habaertus volse lo sguardo in direzione del castello, sebbene fosse troppo lontano per vederlo davvero, e fece un cenno di saluto al fratello maggiore, Bretchimus. «Tu sei quello fortunato», esclamò rivolto al fratello assente, come faceva ogni giorno. «Bello abitare laggiù, con quell'enorme cantina di vini, le curve morbide della Signora che ti impartisce ordini, e tutto il resto». Il contadino si sputò sulle mani e riprese la zappa in tempo per vedere alcuni luccichii nell'aria: qualcosa di strano stava arrivando, o meglio gli stava passando accanto. Una presenza invisibile fuoriuscì dagli alberi e percorse il campo, vorticando come una nebbia o un'ombra, sfuggente... poiché nessuna ombra può esser vista se guardata direttamente.
Habaertus la vide serpeggiargli accanto, increspò le labbra, dopodiché, spinto dalla curiosità, la colpì con la zappa. La reazione fu immediata: nel punto in cui la zappa fendette la nebbia, l'aria si riempì di scintille e si udì un forte scampanio, poi l'ombra sopraffece Habaertus e gli girò attorno, ululando come un segugio pronto a uccidere la preda; il contadino non ebbe nemmeno il tempo di grugnire di sorpresa. Mentre il suo scheletro si tramutava in cenere, il turbine si levò con un altro scampanio e attraversò la Fattoria di Torntlar. Nella sua scia una zappa usurata cadde a terra rumorosamente, accanto a un paio di stivali vuoti. Uno di essi si rovesciò, e tutto ciò che rimaneva di Habaertus Ilynker uscì dalla calzatura e venne spazzato via. 4. CORNA DI CERVO E OMBRE Mi domando: i mostri appaiono diversi dall'interno? Città Hothemer Da Riflessioni di un nobile spudorato Pubblicate nell'Anno del Principe Gli occhi del contadino erano cupi per la diffidenza e infossati per la stanchezza. La forca che teneva tra le mani, tuttavia, puntava fermamente in direzione degli occhi di Wanlorn e si spostava a ogni minimo movimento del viaggiatore solitario. L'uomo ruppe finalmente il lungo silenzio che seguì alla domanda del viandante, e affermò: «Troverai la Signora delle Ombre da qualche parte oltre quella collina», dopodiché sputò per terra nello spazio che li separava. «Perlomeno, le sue terre cominciano laggiù. Non voglio sapere perché vuoi incontrarla... e non voglio nemmeno che ti soffermi un attimo di più sulla mia terra. Porta via di qui i tuoi stivali!» A sottolineare quelle parole, fece una finta con la forca. Wanlorn sollevò un sopracciglio e ribatté secco: «I miei ringraziamenti», e si avviò senza fretta. Non ebbe bisogno di guardare indietro per sapere che il contadino lo stava osservando salire la cresta della collina, poiché riusciva a sentire gli occhi dell'uomo penetrargli nella schiena come due pugnali. Decise di non
guardarsi alle spalle mentre superava il crinale... e in un paese senza leggi nessun viaggiatore assennato si sofferma a lungo su un'altura visibile da lontano. Gli occhi che vagano in cerca di estranei sono raramente benevoli. Mentre trotterellava giù dal pendio ammantato di felci, sulle terre della Signora, considerò per un attimo l'idea di trasformarsi in un falco o magari in una belva furtiva... ma no, se la Signora delle Ombre era vigile e all'erta, annunciare in tal modo le sue capacità magiche sarebbe stata una follia. Non che l'uomo chiamato Wanlorn, che aveva camminato a lungo col nome di Elminster, si preoccupasse eccessivamente di essere considerato pazzo... Era un po' troppo tardi per farlo, pensò ironicamente, considerando la strada che aveva scelto nella vita, con la sua partenza furtiva da Castel Felmorel a poche centinaia di metri dietro di lui. Mystra lo stava forgiando in un'arma, o almeno in uno strumento... e in tutte le fucine in cui era stato, la pioggia di martellate che lo colpiva sembrava essere molto violenta. Chi aveva affermato, tempo prima: «Il compito forgia il lavoratore»? Sarebbe stato molto più semplice fare ciò che desiderava, usando la magia per il proprio tornaconto, senza badare alle conseguenze o alla sorte degli altri. Avrebbe potuto governare felicemente la sua terra, e pregare come faceva più di un mago che aveva incontrato - una volta ogni tanto una dea di cui nulla gli importava. Poi c'era quel "dono" conferitogli dalla sua scelta: la lunga vita. Sufficientemente lunga da sopravvivere a tutti gli amici della gioventù, ai primi compagni d'avventura e alle magie e alle gozzoviglie di Myth Drannor... e anche a tutti gli amici e alle amanti di quella città meravigliosa. Elminster increspò le labbra amareggiato, mentre volti, risate e carezze passavano nella sua mente, uno dopo l'altro... e con essi i progetti, i sogni discussi con eccitazione, che svanivano come foschia mattutina nella calda luce del sole. Tutto alla fine era finito in niente... Come il villaggio davanti a lui, a quanto sembrava. Tetti sprofondati, giardini e sentieri invasi dalla vegetazione; qua e là un camino annerito si stagliava nel cielo, come un pugnale scuro e ammaccato, a indicare dove si trovava la casa prima dell'incendio, e muriccioli soffocati dalle viti segnavano i confini tra i campi. Quando El si avvicinò, un animale, forse un lupo o un'altra bestia dalle grandi fauci, uscì alla chetichella da una casa in rovina; il paese di Hammershaws sembrava completamente deserto. Era questo ciò che intendeva Lord Esbre quando affermava che la Signora del-
le Ombre cercava di «imporre la sua volontà» su quelle terre? Proseguendo avrebbe trovato solo luoghi abbandonati come quello? Che cos'era accaduto alla popolazione? Pochi passi più avanti El trovò la macabra risposta al suo interrogativo. Qualcosa di opaco, di color giallo grigio, scricchiolò sotto i suoi stivali: non era una pietra, ma un pezzo di cranio. Si voltò e proseguì truce. Un altro passo, un altro scricchiolio: questa volta un osso lungo. E un altro, e un altro ancora... stava camminando sui morti; ossa umane rosicchiate erano disseminate per tutto il villaggio. Ciò che aveva creduto fosse un parapetto crollato su un piccolo ponte di tronchi che attraversava il ruscello serpeggiante, era in realtà un groviglio di scheletri, con le braccia penzolanti quasi a toccare il pelo dell'acqua. El guardò meglio e vide almeno otto crani, poi sospirò e si trascinò oltre, guardandosi attorno tra carretti abbandonati e cancelli, reclamati da rovi e rampicanti. Nessuno oltre i morti dimorava più ad Hammershaws. El sbirciò in una casa, tanto per vedere se vi era rimasto qualcosa di interessante, e fu ricompensato dalla vista di uno scheletro umano seduto su una sedia di pietra, sulla quale un serpente stava avvolgendo le sue flessuose spire screziate. Il rettile si stava preparando a fronteggiare l'intruso e, quando il suo sibilo risuonò forte nella stanza, El decise che non era il caso di sfidarlo e uscì dalla casa. La strada oltre Hammershaws era ricoperta di vegetazione quanto il villaggio. Un avvoltoio solitario volteggiò alto nel cielo, osservando lo sconosciuto percorrere un sentiero appena visibile attraverso le terre collinose fino a Drinden. Il paese doveva essere sede di un mulino e di un affollato mercato, se si poteva dar credito ai ricordi di anziani ancora lucidi, ma ciò che si presentò agli occhi di Elminster non era che un altro cumulo di rovine desolate. Il viaggiatore si fermò all'incrocio principale e scrutò il cielo, che era lentamente diventato grigio ed era solcato da nubi nere di tempesta, dopodiché scrollò le spalle e proseguì. I suoi effetti personali erano al sicuro, perciò la pioggia non lo preoccupava. Tuttavia questa non giunse ed El percorse indisturbato il sentiero in direzione nord ovest, per poi risalire un ripido crinale che costeggiava un bosco stentato, che un tempo doveva esser stato un frutteto. Il cielo iniziò a tingersi di bianco, ma la terra rimase deserta. Gli era stato riferito che la Signora delle Ombre percorreva i suoi possedimenti in compagnia di cavalieri neri che avrebbe fatto bene a temere, vi-
sti le loro lame affilate, i loro inganni e la noncuranza delle rese o degli accordi. Mentre procedeva nel cuore del suo dominio, El ebbe tuttavia l'impressione di essere completamente solo in un regno deserto. Non udì alcun rumore di zoccoli, né suoni di tromba. Nessuno si fece vivo per sfidare un uomo a piedi con una bisaccia sulle spalle. Quando Elminster raggiunse la valle in cui si trovava la città di Tresset's Ringyl, un tempo, e forse ancora, dimora della Signora delle Ombre, si stava facendo tardi e il cielo si era appena rasserenato per rivelare un tramonto eccezionale. Davanti ai suoi occhi si stagliava un altro paese in rovina, abitato solo da belve vagabonde. Da una prima occhiata dall'alto, una quarantina di edifici si ergevano ancora tra gli alberi, che presto avrebbero però avuto il sopravvento; in mezzo alle rovine spiccavano le mura sgretolate di un castello, i cui bastioni costituivano probabilmente il nido di qualche bestia alata e pericolosa. Mentre El osservava quello spettacolo desolante, il cielo ambrato si trasformò in un mare rosso rubino, e le stelle iniziarono a fare capolino sopra la sua testa. L'ormai defunto Tresset era stato un brigante famoso che aveva costruito un castello dalle guglie a spirale, il Ringyl, dal quale governava il suo minuscolo regno. Tressardon, tuttavia, era caduto alcuni giorni dopo la sua morte. Elminster storse ironicamente le labbra. Sarebbe stato un atto di presunzione trovare un'allusione alle sue vicende in quella storia locale. Inoltre, perlomeno da quella distanza, nei muri del castello non vedeva alcun portone a forma di ragnatela che somigliasse a quello del sogno. Forse gli sarebbero occorsi giorni per esplorare tutto ciò che rimaneva della città. supponendo, naturalmente, che laggiù non vivesse nessuna creatura pronta a divorarlo non appena vi avesse messo piede - e nulla di quanto riusciva a vedere, a parte il Ringyl, era tanto alto o imponente da poter incorporare il cancello della visione. O perlomeno, pensò con un sospiro, tale gli appariva la situazione da lassù. Gli rimaneva giusto il tempo per dare un'occhiata da vicino prima che calasse la notte, quando sarebbe stato più prudente trovarsi da qualche altra parte... magari su una di quelle colline erbose oltre la città devastata. Un uomo saggio si sarebbe accampato immediatamente lassù, senza prima avventurarsi giù per una scarpata di pietre... e di ossa umane... per una perlustrazione, ma Elminster Aumar non aveva intenzione di diventare tale per almeno qualche altro secolo...
Quando El raggiunse il fondo della valle, le ombre erano già lunghe e rossastre; erba alta fino alle cosce ammantava quella che un tempo era stata la via principale della città, e l'uomo dai capelli corvini vi si inoltrò lentamente, tra le case sventrate, che si ergevano come crani di gigante ai suoi fianchi. El procedette con calma, aprendosi un varco fra l'erba con un bastone che si era procurato poco prima, per scoraggiare i serpenti e individuare eventuali ostacoli. La notte stava calando rapidamente mentre Elminster esplorava il cuore del Ringyl deserto. In esso sembrava regnare un silenzio teso e pesante, che inghiottiva gli eco come una nebbia densa. El batté il bastone su una roccia, e sebbene udisse il tonfo generato da ogni colpo, non sentì alcuna risposta provenire dalle mura circostanti. Due volte percepì un movimento con la coda dell'occhio, ma quando si girò non vide nulla, se non alberi e mura diroccate. Qualcosa di vigile dimorava o era in agguato fra quelle rovine, ne era sicuro. Le luci del crepuscolo si stavano insinuando fra le brecce degli edifici senza tetto, e negli intrichi di alberi, viti e rovi. Elminster iniziò ad aumentare il passo, ispezionando solo i muri sufficientemente alti da poter ospitare un cancello-ragnatela. Non esisteva nulla di tanto possente... tranne il Ringyl stesso. Ossa rosicchiate, la maggior parte tanto scure e fragili da sbriciolarsi sotto i piedi, erano disseminate lungo la distesa erbosa che ricopriva la strada. Ossa umane, naturalmente; erano tanto numerose da formare quasi un tappeto davanti alle mura diroccate del castello. Il viaggiatore solitario si fece strada, rigirando le ossa col bastone e mettendo in fuga più di una vipera. Intorno a lui era ormai buio, ma doveva assolutamente guardare attraverso una delle spaccature nel muro, per vedere se... Qualsiasi cosa avesse divelto interi tratti delle mura spesse quanto una casa e alte come venti uomini si trovava ancora all'interno, in attesa. Be', forse non era il caso di essere tanto drammatici, considerò El abbozzando un sorriso. È una debolezza propria degli arcimaghi pensare che il destino di Toril risieda nelle loro mani o in ogni loro movimento o frase. Un cancello-ragnatela sarebbe stato sufficiente a soddisfare i suoi bisogni immediati. Ora stava guardando dentro a una cappella, o quanto meno a una sala dall'alto soffitto a volta, intatto e dipinto che, nonostante i danni, ricordava ancora un groviglio di alberi dai frutti dorati. Sul pavimento dell'edificio, un tempo lucido, strisce ondulate di malachite s'intrecciavano a strisce di
quarzo o di marmo... era un pavimento ormai ammantato di polvere, ricoperto di detriti, di nidi e delle minuscole ossa di volatili, nonché da resti meno identificabili. La sala era molto buia; El pensò fosse prudente non evocare alcuna luce, ma le tenebre non gli impedirono di vedere l'enorme ovale di pietra situato di fronte a lui, sul muro opposto. Quarzo bianco scintillante era stato incastonato nel muro a formare una sagoma composta da numerose stelle... dodici o più luccichii dalle forme irregolari: nessuno di essi era la stella dalle lunghe punte di Mystra... e al suo centro spiccava un bassorilievo ampio quanto le braccia aperte di El: un paio di labbra femminili. Erano chiuse, lievemente increspate in un sorriso misterioso, e il principe aveva la forte sensazione di averle già viste. Forse si trattava di una bocca parlante, di un oracolo incantato che avrebbe potuto fornirgli qualche informazione... se mai fosse riuscito a interpellarlo o a comprenderne il messaggio. O forse rappresentava qualcosa di meno benevolo. Ma le sue ricerche potevano aspettare fino al mattino seguente. Era ormai tempo di lasciare Tresset's Ringyl e le sue ombre vigili. El si ritrasse dalla breccia nel muro, controllò che nulla fosse in agguato, e con più fretta che dignità si diresse verso le colline. Le alture oltre il Ringyl non erano ancora state sfiorate dalla luce lunare, ma le stelle emettevano luce sufficiente a illuminarne i fianchi erbosi. El si guardò alle spalle più volte durante la salita, ma nulla sembrava seguirlo, e i molti occhi che lo fissavano dall'oscurità non erano più grandi di quelli di un topo. Forse, dopotutto, avrebbe avuto tempo di schiacciare un pisolino. La sommità che scelse era piccola e spoglia, tranne che per l'onnipresente erba alta, che calpestò fino a formare un piccolo cerchio; poi aprì la bisaccia, estrasse un fardello pieno di pugnali che si illuminarono brevemente di una luce blu intensa, e ripercorse i propri passi intorno al cerchio. Conficcò pugnali nel suolo a intervalli regolari e pronunciò qualcosa che suonò come una vecchia e licenziosa filastrocca. Quando il cerchio fu completo, il principe ne tracciò un secondo, più interno, e fece in modo che i nuovi pugnali toccassero la lama verticale di quelli già conficcati; poi tese una mano, il palmo verso il basso e le dita aperte, pronunciò una singola parola, si avvolse nel mantello e si sdraiò per dormire. «Dimmi, che cosa stai leggendo?» Il mago barbuto, quasi calvo, depose il calice dal contenuto borbottante,
sollevò lentamente lo sguardo al di sopra degli occhiali, poi inarcò un sopracciglio e rispose: «Una commedia... una specie di commedia». Il mago più giovane, in piedi accanto a lui, più elegantemente vestito e con qualche capello in più, batté le palpebre. «Una "commedia", Baerast? Non un oscuro libro d'incantesimi o una delle macabre storie di Nabraether?» Tabarast delle Tre Maledizioni Cantate sollevò nuovamente lo sguardo, questa volta con aria più severa. «Non porre limiti al tuo giovane intelletto, mio caro Droon», rispose il mago. «Sono immerso nella lettura di una commedia, "Il Cavaliere Tempestoso, o, Il Carnefice Sfrontato". Un'opera di grande intensità». «E di spargimento di sangue», ribatté Beldrune dal Dito Piegato, scostando un ammasso disordinato di libri che quasi seppelliva una sedia dall'alto schienale, e sedendovisi risoluto ancor prima che questa avesse il tempo di godere dell'improvvisa libertà. Il tonfo dei volumi che caddero a terra fu a dir poco impressionante: fece tremare l'intera stanza, sollevò una nuvola enorme di polvere e smorzò il rumore, più sommesso, delle gambe posteriori della vecchia sedia che si rompevano. Quando Beldrune piombò sul pavimento disseminato di libri, Tabarast appoggiò una mano sopra il bicchiere affinché non vi entrasse la polvere e, in una nube di granelli turbinanti, chiese: «Hai finito? Inizi a darmi fastidio». Beldrune emise un verso che alcuni avrebbero giudicato volgare, altri impressionante, e ribatté: «Mio caro collega, questo... questo caos letterario è opera mia? Credo proprio di no. Non esiste una sedia, o un tavolo, sull'intero piano che non sia difesa dalla tua magia e...» Tabarast emise uno schiocco, simile al rumore di un cranio di serpente che viene schiacciato da un tacco di stivale. «La mia magia? Vorresti ora negare il tuo contributo alla confusione che ci circonda? Potrei confutare ogni tua affermazione, se solo tu avessi uno o due giorni da perdere». «Intendi dire che sono duro di comprendonio, o che fatichi a trovare le parole... atch, non importa. Non sono venuto per litigare tutta sera ma per parlare e chiarirmi un po' le idee». «Una prefazione che ho udito altre volte», osservò Tabarast ironico. «Prendi da bere». Il mago più anziano pigiò la leva che sollevava il familiare armadietto dalle assi del pavimento e, dal silenzio che seguì, capì che il giovane Droon doveva essere molto assetato.
«Va bene... prendine due», rettificò l'offerta. Beldrune non smise di deglutire rumorosamente. Tabarast aprì la bocca per dire qualcosa, si ricordò che parlare di un dato argomento era proibito per comune accordo, e la richiuse. Dopodiché un altro pensiero gli solcò la mente. «Hai mai letto "Il Cavaliere Tempestoso"?», domandò rivolto all'armadietto, supponendo che il collega vi avesse affondato la testa. Il mago più giovane sollevò il capo e assunse un'espressione offesa. «Eccome», rispose, dopodiché si schiarì la gola e recitò, «Che cavaliere è colui «che giunge da lontano «con l'armatura d'oro scintillante «e per cintura il sangue gocciolante dei suoi nemici?» Vi fu una pausa, e poi: «L'ho interpretata ad Ambrara, una volta». «Tu eri il Cavaliere Tempestoso?», chiese Tabarast incredulo, mentre i piccoli occhiali rotondi gli scivolavano lungo il naso. «Secondo vicegiardiniere», sbottò Beldrune, ancora più offeso. «Tutti dobbiamo iniziare in qualche modo». Afferrando una bottiglia impolverata con mano ferma, ne stappò il turacciolo e lo lanciò alle sue spalle; questo colpì lo Scudo Russante di Antalassiter con un rumore secco, poi rimbalzò sul Corno di Caccia Perduto delle Fanciulle di Mavran, e cadde dietro il cumulo di pergamene e di libri impolverati, alto quanto un uomo, che Tabarast definiva le «letture urgenti del momento». Il giovane mago si scolò rumorosamente il contenuto della bottiglia, tutto d'un fiato, e, improvvisamente, con le lacrime agli occhi, manifestò l'urgente necessità di ingerire qualcosa di meglio. Tabarast gli passò prontamente la ciotola delle noci tostate. Beldrune si servì con entrambe le mani fino a svuotare il contenitore, poi sorrise come per scusarsi, ruttò, ed estrasse la pietra delle preoccupazioni da una tasca della cintura. Il solo fatto di rigirarla fra le dita sembrò calmarlo. Appoggiandosi allo schienale della sedia aggiunse: «Ho sempre preferito "Broderick Tradito, o, Il Mago Sventurato"». «Ora toccherebbe a me», ribatté il mago più anziano con un cenno austero del capo, dopodiché, alla maniera di un attore sul palcoscenico, tese la mano e declamò con fare solenne:
«Quell'uomo tanto grasso e avido. «Dovrebbe avere tutte le stelle brillanti nelle sue mani. «Per accecare tutti noi con il loro luccichio. «Oscurando le sue numerose colpe. «Il suo enorme fantasma ululante «si aggira famelico per il mondo intero «ma ama e si sofferma perlopiù «in questo luogo solitario «dove gli dei amano, gli uomini uccidono, e gli elfi incuranti dimenticano». «Be'», affermò Beldrune dopo un breve silenzio, «non per negare l'ineccepibilità della tua performance, ma a quanto pare siamo tornati sull'argomento proibito: il Viaggiatore Solitario, e ciò che Mystra intendeva col creare un Eletto quale suo servo mortale più stimato». Tabarast scrollò le spalle e si accarezzò pensieroso la barba con dita lunghe e sottili. «Gli uomini colgono ciò che è proibito», ribatté. «L'hanno sempre fatto, e sempre lo faranno». «E i maghi ancor di più», assentì Beldrune. «Che cosa ci rivela tutto ciò, mi domando, su coloro che intraprendono la nostra professione?» Il mago più anziano sbuffò. «Che su Faerûn non scarseggiano i folli intelligenti». «Hah!» Beldrune si protese e cominciò a passarsi uno splendido risvolto di seta fra pollice e indice, la pietra delle preoccupazioni momentaneamente dimenticata. «Dunque ammetti finalmente che Nostra Signora potrebbe scegliere più di un Eletto?» «Non ammetto nulla del genere», rispose Tabarast piuttosto irritato. «Vedo una successione di Eletti, ma nessuna prova della decina di cui mi parli, e ancor meno di questa Compagnia Fulgente di arcimaghi potentissimi, menzionata continuamente dai maghi più romantici. Tra un po' imploreranno la Sacra Mystra di distribuire distintivi di merito». Il mago più giovane si passò una mano fra i capelli castani ondulati, rovinando completamente la pettinatura tanto faticosamente creata dalla serva, ed esclamò: «Sono d'accordo con te che ciò sia ridicolo... ma non potrebbero essere utilizzati come un segno? Se incontri un mago e vedi sette stelle e una pergamena sulla sua fascia, saprai da che parte sta!» «È più probabile che capisca quanto tempo è disposto a perdere un mago
simile per impressionare la gente e cucire fronzoli sulla sua veste», rispose aspro Tabarast. «Quanti pivelli aggiungerebbero qualche stella immeritata per accrescere il loro prestigio con poteri che, di fatto, non possiedono? Uno su tre, fra quelli che sanno cucire, ecco quanti! Se dobbiamo parlare di questo... di questo giovane damerino amante degli elfi, che sembra esser stato un principe e l'uccisore del potente Ilhundyl, nonché concubino di una cinquantina di dolci fanciulle elfe, l'oggetto del nostro discorso non sarà la sua ultima conquista o le sue ultime parole, bensì l'importanza che ha per tutti noi. Non m'importa che tipo di stivali indossi al mattino, quale sia il suo colore preferito, o se ami baciare labbra elfe piuttosto che umane... intesi?» «Naturalmente», rispose Beldrune, allargando le braccia. «Ma perché tanto fervore? I suoi successi... quale Eletto favorito dalla dea, bada bene... non sminuiscono certamente i tuoi». Tabarast si sistemò gli occhiali sul naso e mormorò: «Io non ringiovanisco. Non mi rimangono anni a sufficienza per portare a termine ciò che quel... ma basta così; non dirò altro. Lascia che ti riveli, mio giovane amico, cose su questo Viaggiatore Solitario di maggiore importanza per entrambi. I sacerdoti del Mantello, per esem...» «I sacerdoti di che cosa?» «Del Mantello... il Mantello di Mystra, il tempio di Nostra Signora ad Haramettur. Suppongo che tu non ci sia mai stato». Beldrune scosse il capo. «Cerco di evitare i templi della dea», commentò. «I sacerdoti hanno sempre quell'aria di superiorità e vogliono essere pagati con casse d'oro per svelarti incantesimi... scadenti... che potrei fare da solo con qualche spicciolo di rame». Tabarast fece un gesto d'assenso e ribatté: «Hai perfettamente ragione, capita spesso... ho avuto le mie discussioni a causa del loro snobismo... sono un branco di pivelli foruncolosi che guardano dall'alto al basso quelli come me solo perché indossano tuniche ordinarie, macchiate di cibo, al posto delle loro sfarzose fasce e tuniche di seta. Se servissero veramente i maghi e non solo le fanciulle attratte dai loro poteri, saprebbero che tutti i veri maghi si vestono di stracci, non come damerini alla moda!» Beldrune sembrò essersi offeso... per l'ennesima volta... e si passò una mano lungo la tunica di seta scarlatta. Il gesto la fece increspare alla luce della lampada, al che i dragoni di filo d'oro scintillarono, con tanto di smeraldi incastonati al posto degli occhi e filo d'acciaio finissimo, avvolto a spirale, al posto della lingua. «E io che cosa sono? Non un vero mago,
suppongo?» Tabarast si passò una mano stanca sugli occhi. «No, no, buon Droon... presenti esclusi, naturalmente. I miei vecchi occhi sono tanto accecati dal tuo brillante piumaggio che lo considero una faccenda di ordinaria amministrazione. Ma non litighiamo sulle tue capacità di scuotere il mondo; tu sei, davanti a tutti gli dei, un "vero mago", qualsiasi cosa ciò significhi. Facciamo l'eroico sforzo di resistere alla tentazione di divagare su altre questioni, e... se dobbiamo discutere del proibito... parliamone francamente. Tornando al discorso di prima, i sacerdoti del Mantello affermano che il Viaggiatore Solitario è libero di agire per proprio conto, ossia, di combinare guai, come lo siamo io e te... inoltre, è volontà di Mystra che egli sia lasciato libero di sbagliare, di scegliere e di intraprendere azioni avventate, per "diventare ciò che è necessario diventi". Se dovessimo incontrarlo, essi desiderano che fingiamo di non sapere chi o che cosa egli sia». Beldrune appoggiò il mento su una mano, mentre l'altra reggeva un calice fumante appena riempito. «E secondo loro che cosa dovrebbe diventare?», chiese. «Proprio qui termina il loro compito», sbuffò Tabarast. «Se lo chiedi loro, si gettano in ginocchio e farfugliano di "non esser degni di sapere", e che "i fini degli dei vanno oltre la comprensione di tutti i mortali"... il che indica che non l'hanno ancora capito... per poi lanciarsi in una serie infinita di "oh, ma quell'uomo è importante! I segni! I segni!"» Beldrune sorseggiò a lungo, deglutì e domandò, «Quali segni?» Con la medesima voce tonante usata per citare Broderick, il mago più anziano intonò: «Nel presente Anno della Risata, la Mano Fiammeggiante della Magia ascende allo stellato manto notturno, per la prima volta dopo secoli! Nove tressym neri hanno partorito quattro cuccioli tutti sul ventre della principessa dormiente, Sharandra del Sud! (Non chiedermi come ha fatto a dormire o che cosa ha pensato del sudiciume quando si è risvegliata!) La Torre Ambulante di Warglend si è mossa per la prima volta in mille anni, da Tower Tor fino al centro di un lago vicino! A Candlekeep è stata trovata una rana parlante, sei pagine di altrettanti libri sono diventate bianche, e sono apparsi due tomi mai visti prima da alcun intellettuale faerûniano! Il Pozzo della Danza Macabra a Maraeda si è prosciugato! Lo scheletro del fantasma Buardrim è stato visto danzare a... ah, bah! Basta così! Potrei proseguire per ore!» «Il Pozzo di Gullet si è seccato?» Tabarast lanciò un'occhiata a Beldrune. «Sì», rispose mite. «Il Pozzo di
Gullet si è prosciugato; ho visto i cavalli morti. Eccoti accontentato. Ma dimmi, buon Droon, tu esci più spesso di quanto io non faccia, e hai occasione di udire i pettegolezzi, per quanto falsi, che girano fra i nostri colleghi. Che cosa dicono i maghi più in vista del Viaggiatore Solitario?» Questa volta fu Beldrune a sbuffare. «I maghi in vista non pensano», replicò, «altrimenti presterebbero attenzione a non farsi catturare da nessuna moda. Ma per quanto riguarda ciò che si dice... di lui, meno di niente. Ciò che i nostri colleghi sembrano aver udito di quello che i sacerdoti hanno proclamato può essere riassunto in un gran pavoneggiarsi, e in una grande eccitazione segreta sulla possibilità di esser nominati Eletti di Mystra... e perciò acquisire ogni sorta di poteri speciali e di conoscenza. Sembrano considerarlo come il club più esclusivo del momento, e sono certi che qualcuno, un giorno o l'altro, li contatterà privatamente per farli diventare soci. Se Mystra sta selezionando maghi mortali per farne i suoi servitori, conferendo loro incantesimi tanto potenti da scuotere le montagne e leggere le menti, ogni singolo mago vorrà entrare a far parte di questo gruppo tanto esclusivo, senza apparire minimamente interessato a tale status». Tabarast inarcò un sopracciglio. «Capisco. Come fai a esser certo che io non sia già un Eletto e proprio ora non ti stia leggendo nel pensiero?» Beldrune abbozzò un sorriso. «Se stessi leggendo la mia mente, Baerast», rispose, «ora cercheresti di uccidermi... e per giunta arrossiresti!» Tabarast inarcò anche l'altro sopracciglio. «Oh? Devo arrischiare ulteriori domande?», chiese. «Suppongo di no, ma vorrei essere preparato se la tua rabbia ti spingesse a commettere atti di violenza contro di me... perché tu provi rabbia, non è vero?» «No, nemmeno un po'», rispose Beldrune allegro. «Ma potrei infuriarmi se continui a tenerti stretta quella ciotola di noci. Passamela subito!» Tabarast ubbidì, ma lanciò al collega uno sguardo severo e asserì: «Tengo molto a quelle noci; oserei dire che sono il mio tesoro, perciò moderati nel saccheggiarle». Il mago più giovane sorrise, ironico. «Tutti i maghi, se mi permetti, saccheggiano ciò che intendono distruggere o di cui intendono impadronirsi. Tu no?» Tabarast assunse un'aria pensierosa. «Certo», mormorò. «Anch'io», rispose, aggrottando la fronte. «Quanti di noi, mi domando, si abbandonano all'ebbrezza dei propri poteri e tentano di ottenere o di distruggere tutto ciò che considerano prezioso?» Beldrune prese una manciata di noci. «Molti di noi considererebbero
prezioso un Eletto, non è così?», chiese al collega. Tabarast annuì. «Il Viaggiatore Solitario avrà un'interessante carriera in un futuro molto prossimo», predisse tranquillamente, il volto serio. «Versami qualcosa». Beldrune esaudì la sua richiesta. La notte fu squarciata da un fulmine violento. El batté le palpebre e scattò a sedere. Archi blu di magia letale balzavano e crepitavano da pugnale a pugnale, e nel buio antistante si muoveva qualcosa di umido... qualcosa che veniva evitato da una ventina di creature furtive che somigliavano a ombre, ma si muovevano come felini. Elminster si destò rapidamente, si guardò attorno e iniziò a contare. L'agitazione non era terminata, e qualsiasi cosa potesse sopravvivere a una tale scarica di fulmini, meritava rispetto. Un grande rispetto. Avvolse il mantello, lo infilò fra le cinghie della bisaccia nel caso si fosse resa necessaria una fuga precipitosa, e si alzò in piedi. Le ombre striscianti si muovevano attorno al cerchio, da destra a sinistra, sempre più veloci, e incalzate da qualcosa; qualcosa che El percepiva quale tensione nell'aria, una presenza pesante e crudele, con la forza e la furia di una tempesta di grandine che sta per scoppiare. Mentre scuoteva le mani e torceva le dita per prepararsi a sferrare eventuali incantesimi, El scrutò nella notte, cercando di vedere il nemico. Riusciva a percepire quando gli era di fronte, poiché il suo sguardo invisibile lo trafiggeva come una punta di lancia rovente, ma non vedeva nulla, se non l'oscurità. Forse era nascosto da un muro formato da quelle ombre furtive; probabilmente, sarebbe stato opportuno evocare una sfera luminosa, di quelle alte che la gente chiamava «luci stregate», tanto per vedere ciò che doveva affrontare. Ma disponeva di un solo incantesimo del genere, e se il nemico l'avesse vanificato, El sarebbe rimasto accecato troppo a lungo per potersi difendere da un attacco concertato... Non fece in tempo a terminare la riflessione, che le ombre cambiarono direzione e si chiusero su di lui da tutti i lati, in un attacco silenzioso. Le sue difese crepitarono e sprigionarono fuoco blu-bianco nella notte; al che le ombre si arrestarono, indietreggiarono e si contorsero dal dolore nel mezzo di una tempesta di fulmini. El girò su se stesso per verificare che il suo anello protettivo avesse retto in ogni punto alla carica iniziale. Così era stato, ma le creature d'ombra non accennarono a ritirarsi e, pur
consumandosi nella furia dei fulmini, tentarono di superare la barriera. El rimase in attesa, mentre l'incantesimo protettivo s'indeboliva e moriva con le creature che stava uccidendo; per la miseria, sembravano essere incredibilmente numerose. Da lì a poco la magia si sarebbe esaurita e il principe sarebbe rimasto solo ad affrontarle. Aveva a disposizione un incantesimo di teletrasporto, con cui avrebbe potuto sottrarsi al pericolo: questo l'avrebbe però portato in un luogo delle sue precedenti peregrinazioni, perciò avrebbe dovuto ripercorrere i suoi passi per tornare nelle Terre della Signora. E chi poteva sapere come l'avrebbe accolto un nemico in attesa della sua seconda visita? Qua e là, mentre le ombre morenti svanivano trasformandosi in fumo, l'incantesimo protettivo scemava: i pugnali si stavano sollevando dal terreno, il loro crepitio e il loro bagliore sempre più deboli, per dirigersi contro le ombre. El decise di rimanere dove si trovava e sperò che le sue armi mietessero più vittime possibile prima che il nemico invisibile si manifestasse in altri modi. Per esempio, con un incantesimo. Una sfera di fulmini verdi dotati di artigli balenò nella notte... nella mano di una creatura antropomorfa, dal corpo nudo e dalla testa cornuta, che dopo averla rigirata fra le dita lunghe e malvagie, la scagliò contro l'umano. Ruggendo ed espandendosi a mano a mano che si avvicinava, la sfera diede il colpo di grazia al cerchio protettivo e, senza fermarsi, si diresse verso Elminster, che già stava mormorando una rapida frase e piegando il palmo in un gesto curioso. La sfera andò a segno ma rimbalzò sibilante verso il mittente. Il principe vide allora due occhi rossi osservarlo intensamente, e sentì il peso di un sorriso cupo che non poteva vedere. La figura rimase immobile e riassorbì i fulmini come non fossero mai esistiti. La mano sollevata di El emise un bagliore, poi tornò normale; l'incantesimo era pronto a respingere un altro attacco... o due, se quel nemico cornuto avesse colpito rapidamente. Le ultime ombre raggiunsero la creatura e sembrarono fluire verso l'alto e dentro di essa. El approfittò di quel momento d'immobilità per attaccare, e gettò un pugnale nell'aria, per poi trasformarlo in trentatré spade, che mulinarono verso il nemico. Le corna ramificate si abbassarono repentine e le ombre si dispersero, emettendo ciò che avrebbe potuto essere un lungo grugnito o forse un incantesimo; la creatura s'irrigidì ed emise un urlo acuto, stridulo, come
quello di una donna che riceve una coltellata alla schiena (El aveva già udito un verso simile, nella città di Hastarl, secoli e secoli addietro). Vi fu un bagliore magico, poi scintille di luce piovvero al suolo come acqua scrosciante che schiaccia lo scudo di un guerriero durante una tempesta, e le spade scomparvero improvvisamente. El incalzò il nemico; vincere quel duello magico era assolutamente necessario per rimanere in vita - nessun mago intenzionato a catturare l'avversario scaglia fulmini - e sarebbe stato da folli rimanere in attesa dell'incantesimo successivo. Sorrise lievemente e tracciò un simbolo intricato con le dita, le cui punte infine si illuminarono. Molte delle cose che aveva fatto dal giorno in cui un mago a cavallo di un drago si era abbattuto su Heldon, sconvolgendogli la vita, potevano esser considerate atti di un folle. «Sono un folle incitato da folli, a quanto sembra», esclamò affabilmente, rivolto al suo assalitore. «Attacchi tutti quelli che passano di qui, o si tratta di un trattamento speciale?» L'unica risposta che ottenne fu un forte sibilo, che gli sembrò terminare con uno sputo; l'incantesimo ebbe effetto in quel preciso istante, con un rombo che sovrastò per qualche secondo tutti gli altri rumori. Fiamme blu avvamparono attorno a quelle dita da ragno, nere come la pece, e sulle corna dietro di esse, dopodiché si levarono grida laceranti. El si arrischiò a guardarsi attorno per qualche istante, nel caso un'ombra fosse in agguato; dato che aveva voltato la faccia, evitò di essere accecato quando un controincantesimo infiammò le tenebre. La magia consumò in un istante le sue difese, e lo fece ruzzolare nel fumo di incantesimi infranti. Il calore gli scottò la guancia sinistra, ed El sentì i capelli sfrigolare, mentre le lacrime gli offuscavano la vista. Nonostante il dolore, Elminster pronunciò la parola che avrebbe scatenato l'effetto finale dell'incantesimo appena sferrato... e le fiamme blu che avvolgevano le estremità del nemico avvamparono a imitazione di quelle che l'avevano appena colpito. L'urlo che squarciò la notte fu rauco e profondo, un urlo di vera agonia. El intravide un paio di corna oscillare avanti e indietro prima che le fiamme morissero, e udì un respiro affannoso allontanarsi verso est, tra il fruscio dell'erba calpestata. Qualcosa di grosso cadde a terra, almeno due volte. Quando finalmente calò il silenzio, El fece tre rapidi passi verso ovest e si acquattò, tendendo l'orecchio nella notte.
Nulla, se non il rumore dell'erba accarezzata dal vento, e il debole grido di qualche creatura selvaggia agonizzante tra le fauci di un predatore, in lontananza, verso sud. Alla fine El estrasse l'ultimo pugnale incantato a disposizione, che non faceva altro che illuminarsi a comando, e lo lanciò in direzione dell'essere cornuto, per far luce nella tenebre. Prestò attenzione a non avvicinarsi troppo al bagliore e si mantenne accucciato nell'erba... ma nulla si mosse, né lo attaccò. Quando guardò verso il luogo illuminato dal pugnale, tutto ciò che riuscì a vedere fu una traccia in mezzo all'erba, terminante in un cumulo indistinto di ossa fumanti, o di corna... o forse erano solo rami? Qualcosa si sbriciolò quando il principe si avvicinò; qualcosa che somigliava molto a una mano lunga, dalle dita sottili. Strisce penzolanti di pittura tremolarono, si staccarono, e furono seguite entusiasticamente dallo stesso soffitto a volta, che si schiantò sul pavimento sottostante con un rumore assordante; l'intero Ringyl fu scosso. Pietre e sassi si stavano ancora staccando da edifici adiacenti quando la sala in cui El aveva precedentemente visto le stelle tremò e iniziò a crollare. I frutti dorati si frantumarono quando il muro su cui erano dipinti si sgretolò, spaccando l'ovale scuro e lanciando stelle luccicanti nella notte. Le labbra scolpite nella pietra fremettero, come se stessero per parlare, sembrarono sorridere ancor più ampiamente per un istante, dopodiché, quando la crepa sempre più larga le raggiunse, si ruppero in numerosi frammenti, che rotolarono attraverso la stanza, lasciando nella parete un buco scuro. L'eco della furia terrestre che aveva causato tutto ciò si affievolì; e nell'apertura nel muro, incorniciata da poche stelle sopravvissute, apparve qualcosa di lungo, nero e massiccio. Con un ruggito spaventoso, la creatura scavalcò le macerie ed entrò nell'edificio: era una sorta di catafalco nero le cui braccia sollevate d'argentana sostennero per qualche istante una bara e numerosi scettri, per poi crollare di lato e sfondare il pavimento. Schegge di piastrelle schizzarono in aria, seguite da fulmini purpurei scaturiti dalla bara distrutta. Le braccia d'argentana, schiacciate e distorte nella caduta, si sciolsero, mentre gli scettri rotti si spensero fra il debole bagliore magico da essi emanato. Un braccio lanciò uno scettro ancora intatto sul pavimento ricoperto di polvere, un istante prima che magie protettive percorressero per l'ultima volta la cassa e collassassero in una breve,
ma violenta, esplosione che trasformò bara, catafalco, e tutto il resto in polvere scura. Nella confusione lo scettro sul pavimento emanò un ultimo sospiro e si sgretolò lasciando un netto contorno di cenere sulla pietra. Nella sala distrutta piombò il silenzio: tutto era immobile, eccetto la polvere che si stava lentamente posando. Poco dopo, la luce stellare si fece più intensa sopra Tresset's Ringyl, finché un puntino di luce di color blu-bianco calò dal cielo... lentamente, come un grande e brillante fuoco fatuo, al centro della sala. La luce si arrestò a un palmo dal pavimento, e rimase sospesa per un attimo sopra la cenere dello scettro... cenere che dopo un attimo ammiccò e tremolò come un tizzone ardente. Poi vi fu un lampo, seguito da un suono debole, come di campanelli suonati a casaccio, in lontananza, e la cenere divenne nuovamente uno scettro... liscio e lucido, scintillante di nuovo potere. Una mano femminile dalle dita affusolate apparve improvvisamente dal nulla, come attraverso una tenda scostata, per afferrarlo e sollevarlo. Questo balenò una volta come una stella in cielo. Come per risposta, la mano si allungò rivelando un braccio dal colorito avorio, poi una spalla che si girò, permettendo a una chioma scura e lucida di ricadere su di essa. Dopo ancora apparvero un collo, un orecchio, una mascella... e infine un volto meraviglioso dai lineamenti raffinati, un volto freddo, sereno e fiero, che iniziò a guardarsi intorno con gli occhi scuri. Le stelle di quarzo disseminate qua e là scintillarono come in segno saluto, mentre lentamente appariva il resto del corpo. Una maga bellissima, dagli occhi neri sollevò lo scettro come un guerriero che brandisce vittorioso la spada, e sorrise. Lo scettro s'illuminò e svanì, la maga con esso, lasciando dietro di sé la sala buia, l'unica fonte di luce erano le stelle sparse sul pavimento. Col passare dei minuti quelle deboli luci si affievolirono e svanirono, una dopo l'altra, e Tresset's Ringyl ripiombò nell'oscurità inanimata. «Sacra Signora», esclamò Elminster rivolto alle stelle, inginocchiato in ciò che era stato il suo cerchio di pugnali, mentre il sudore gli imperlava ancora la fronte, «sono venuto fin quaggiù, ho combattuto... forse ucciso... secondo il tuo volere. Guidami, ti prego». Una brezza lieve si levò e accarezzò l'erba. El la osservò, domandandosi se fosse un segno, oppure qualcosa di malvagio destato dalle sue parole, o
più semplicemente un alito di vento, e continuò: «Ho osato toccarti, e desidero farlo ancora. Ho giurato di servirti e lo farò, se mi vorrai ancora... ma mostrami, ti supplico, che cosa devo fare in queste terre desolate... poiché non voglio rischiare di fare del male a causa della mia ignoranza. Ho il terrore della non conoscenza». La risposta fu immediata. Un'entità di color blu-bianco sembrò apparire e turbinare dietro i suoi occhi, rivelandogli una scena: Elminster si alzava, prendeva bisaccia e mantello, e s'incamminava verso nord est, con una certa fretta... una scena che sfumò nella luce del giorno e in una torre di pietra, vecchia, bassa e disordinata, che sembrava più un cono che un cilindro. Un grande arco, dove erano scolpite le fasi lunari, era chiuso da un vecchio e robusto portone di legno, senza difese apparenti, né fossati. El non l'aveva mai visto prima, ma la visione era sufficientemente chiara. Non le lasciò il tempo di svanire che già aveva raccolto le sue cose e si era messo in viaggio. L'ultimo principe di Athalantar non aveva percorso ancora tre colline che un vento gelido e tintinnante vorticò fra le rovine del Ringyl, come un serpente di ghiaccio volante, e risalì i pendii erbosi fino al punto in cui El aveva tracciato il suo cerchio. Il vento si ritrasse da quel luogo, inarcandosi e contorcendosi nella notte, poi avanzò lentamente per seguire il contorno dell'anello ormai svanito. Completatolo, balzò nel centro, un po' esitante, danzò e vorticò per qualche istante sopra il punto in cui Elminster si era inginocchiato a pregare, dopodiché, molto lentamente, iniziò a seguirne le tracce. Mentre avanzava si sollevò e tremolò una volta, come un animale che si guarda intorno, affamato. 5. UN MATTINO A MOONSHORN Un mago può visitare mondi e tempi in abbondanza se apre i libri giusti. Sfortunatamente, essi aprono spesso i tomi pieni d'incantesimi, in cerca di armi per sconfiggere il proprio mondo e sottomettere il proprio tempo. Claddart di Candlekeep Da Cose da me osservate
Pubblicato approssimativamente nell'Anno dell'Onda Si ergeva scura, antica, e un po' diroccata dalla foschia del nuovo giorno, più simile a un ceppo d'albero gigante pieno di fessure che a una torre. L'uomo stanco e vacillante maledisse, forse per la centesima volta, l'ordine di Mystra di non utilizzare inutilmente la magia, e fece una smorfia di dolore per le vesciche ai piedi. Il viaggio dalle terre della Signora delle Ombre non era stato breve. Ma ecco ciò che cercava: Moonshorn Tower, la torre della visione, con le fasi lunari scolpite in rilievo lungo il corroso arco di pietra che incorniciava la porta nera, massiccia, dai molti chiavistelli. Mentre El si avvicinava, la porta si aprì e ne uscì un individuo sbadigliante, che si trascinò per qualche passo e svuotò il vaso da notte in un fosso nascosto dall'erba alta. Era un uomo di mezza età, di bell'aspetto, dai capelli corvini, e dalle basette ben curate gli incorniciavano il volto, nel quale spiccava un occhio normale, castano scuro, e uno bianco che scintillava come una stella distante. Vide Elminster e si irrigidì, sorpreso, per un istante, prima di tornare verso la porta aperta e sbarrargli la strada. «Buon giorno», esclamò con tono cauto e inespressivo. «Sappiate che sono Mardasper, guardiano di questo tempio della Sacra Mystra. Avete questioni da sbrigare in questo luogo, viaggiatore?» Elminster era troppo esausto per dare risposte argute, ma notò con soddisfazione che la luce del sole che sfiorava la torre corrispondeva alla visione che aveva avuto la scorsa notte... o era invece mattina presto? «Sì», rispose semplicemente. «Venerate Mystra, la Signora dei Misteri?» Elminster sorrise al pensiero di come sarebbe rimasto scioccato Mardasper se avesse saputo il suo grado d'intimità con la dea. «Sì», ribatté ancora. Mardasper gli lanciò un'occhiata severa, resa ancor più pungente da quell'occhio scintillante, e mosse le mani per attuare quello che El riconobbe come un incantesimo della verità. «Tutti coloro che entrano qui», esclamò il guardiano indicando la torre con il vaso da notte, come fosse uno scettro, «devono obbedirmi completamente ed evitare magie non richieste. Chiunque rubi o danneggi il più piccolo oggetto mette a repentaglio la propria vita, o quantomeno la propria libertà. Potete riposare e prendere acqua dalla fonte, ma non vi sarà
fornito né cibo né altro... e dovete dirmi il vostro nome e consegnarmi eventuali libri e utensili magici, non importa quanto piccoli o innocui. Vi saranno restituiti alla partenza». «D'accordo», ribatté El. «Mi chiamo Elminster Aumar. A voi il mio libro d'incantesimi e l'unico oggetto magico che possiedo: un pugnale che si illumina a comando, che purifica l'acqua e il cibo, e che non s'arrugginisce; di altri poteri non sono a conoscenza». «È tutto?», chiese il guardiano fissandolo intensamente mentre afferrava libro e pugnale. «Ed "Elminster" è il vostro vero nome?» «Sì, ed Elminster è il mio nome», rispose il principe di Athalantar. Mardasper gli fece cenno d'entrare, e insieme si trasferirono in una stanza piccola e buia, contenente un leggio e un mare di polvere. Il guardiano trascrisse il nome dell'ospite e la data d'arrivo in un libro grande quasi quanto una porta, e indicò una delle tre porte chiuse dietro il leggio. «Quella scala porta ai piani superiori, dove sono custodite le scritture che senz'altro stai cercando». «I miei ringraziamenti», rispose El, titubante, inclinando il capo. Scritture che senz'altro sto cercando? Pensò. Be', probabilmente era così.... Si voltò, appoggiò la mano alla maniglia della porta, e domandò: «Per quale altra ragione un mago dovrebbe venire a Moonshorn Tower?» Mardasper sollevò lo sguardo dal libro mastro, e socchiuse sorpreso l'occhio buono. L'altro, notò El, non si serrava mai. «Non lo so», replicò il guardiano, quasi imbarazzato. «Qui non c'è nient'altro». «Perché veniste qui?», chiese Elminster gentilmente. L'uomo lo fissò in silenzio per qualche istante, poi rispose: «Se amministro con diligenza e obbedienza questo luogo per quattro anni... due sono già passati... i sacerdoti di Mystra hanno promesso di spezzare l'incantesimo che mi affligge». Indicò l'occhio fisso e aggiunse brusco: «Com'è accaduto è affar mio. Non domandate più nulla a riguardo, altrimenti vi caccerò». El annuì e aprì la porta. Magie indagatrici rumoreggiarono intorno a lui per qualche istante; poi l'oscurità al di là della porta divenne una rete che si rimpicciolì e scomparve, rivelando una scala di pietra dai gradini usurati. Quando il principe appoggiò la mano alla ringhiera, un occhio sembrò comparire sulla pietra liscia proprio sopra la sua mano e ammiccare... ma forse si trattava solo di un tiro giocatogli dalla stanchezza. Senza indugiare
oltre, salì la scala. «Al lavoro!» Il mago calvo e barbuto, dalla tunica macchiata e rammendata, sollevò l'imposta e s'infilò in tasca la barra di sostegno, lasciando entrare la luce nella stanza. «Sì, Baerast», assentì il collega più giovane, avvolgendo le mani in uno straccio per non sporcarsele prima di afferrare l'altra barra, «al lavoro. Abbiamo molto da fare, questo è certo». Tabarast delle Tre Maledizioni Cantate sbirciò severo oltre gli occhiali ed esclamò: «L'ultima volta che hai fatto una simile affermazione entusiasta, caro Droon, hai trascorso l'intera giornata con quella sfera tintinnante netherese, cercando di farla rotolare da sola!» «Come si supponeva dovesse fare», ribatté Beldrune dal Dito Piegato, con aria offesa. «Non è questa la ragione del nostro lavoro, Baerast? Ripristinare e ridare senso a frammenti di magia antica non è una nobile missione? Non ci arride la Sacra Dea in persona?» «Sì, sì, hai ragione», affermò Tabarast, evasivo. «Sebbene dubiti che sia rimasta impressionata da un tentativo fallito di ripristinare un giocattolo». Il mago sollevò l'ultima barra di supporto. «Ma ora, bando alle ciance, iniziamo!» Si ficcò il ferro in tasca, lo sistemò con una manata, e si voltò verso il tavolo enorme e irregolare che occupava gran parte della stanza, e che, in numerosi punti, quasi toccava gli scaffali massicci e stipati di libri all'inverosimile, allineati lungo i muri. Sessanta o più pile di tomi si ergevano qua e là da un tappeto di antiche pergamene, cartigli e frammenti di carta; annotazioni più recenti ricoprivano completamente il tavolo. In alcuni punti gli scritti raggiungevano lo spessore di diversi centimetri. Le carte erano tenute distese da un assortimento di gemme multicolori, da anelli antichi, lavorati, da fili metallici intricati, un tempo parte di oggetti più grandi, da crani portacandele, e da altre strane suppellettili. I due maghi allungarono una mano sulle pagine e la mossero in lenti circoli, come se un formicolio nella punta delle dita potesse indicare loro il passaggio che stavano cercando. Tabarast affermò lentamente: «Cordorlar, che scrive nei giorni della caduta di Netheril... gli esperimenti col sangue di drago...» La sua mano si abbassò a raccogliere una particolare pergamena. «Ecco!» Beldrune aggrottò la fronte ed esclamò: «Stavo cercando un incantesimo che genera una sfera di fuoco a tripla esplosione ritardata, che un tizio di
nome Olbert affermò di avere elaborato combinando magie precedenti di Lhabbartan, Iliymbrim Sharnult, e... e... agghh, un altro che non ricordo». Sollevò lo sguardo. «Dimmi allora: quali esperimenti si fanno col sangue di drago? Serve per preparare pozioni? Da bere? O da bruciare?» «Si tratta di introdurlo nel proprio sangue, nella speranza di acquisire longevità, vigore, immunità contro i pericoli come alcuni draghi, o persino i loro poteri», rispose Tabarast. «Vari maghi del tempo affermarono di aver ottenuto successi in tutti questi campi, ma nessuno di essi è sopravvissuto o ha lasciato prove ai posteri che confermino tali asserzioni». Il mago calvo sospirò. «Dobbiamo andare a Candlekeep». Beldrune si batté la fronte ed esclamò: «Ancora? Baerast, ogni cellula del mio cervello è d'accordo con te. Abbiamo bisogno di accedere ai tomi di Candlekeep... ma dobbiamo poterlo fare liberamente, quando vogliamo, non in una singola visita furtiva. Dubito fortemente che ci accetteranno quali co-sorveglianti di Candlekeep, se facciamo irruzione ed esigiamo tale privilegio». Tabarast aggrottò a sua volta la fronte. «Vero, vero», affermò con un sospiro. «Perciò dobbiamo trarre il massimo da queste scartoffie dimenticate». Sospirò nuovamente. «Indipendentemente da quanto siano false e incomplete». Poi toccò una pergamena ingiallita con dito quasi accusatore, e aggiunse: «Questo rispettabile personaggio si vanta di aver mangiato un intero drago, vassoio dopo vassoio. Impiegò una stagione, a quanto pare, e ingaggiò i cuochi migliori del tempo affinché rendessero gustosa la sua carne, pagandoli con ossa e squame. Ho iniziato a dubitare di lui quando affermò che quello era il suo terzo drago, e che preferiva i draghi rossi a quelli blu». Beldrune sorrise. «Ah, Baerast», esclamò. «Ti aggrappi ancora all'illusione romantica che gli individui che decidono di scrivere siano di una razza superiore e che scrivano sempre la verità? Alcune persone mentono anche ai propri diari». Detto ciò indicò il soffitto e le pareti con un gesto della mano. «Quando tutto ciò era nuovo, pensi che i netheresi che dimoravano o lavoravano in questo luogo fossero modelli di perfezione come affermano alcuni... più saggi o più potenti di noi, in grado di fare ogni magia con uno schiocco delle dita? Assolutamente no! Erano come noi... qualche mente eccelsa, molti cervelli lenti, e pochi subdoli imbroglioni che raggiravano gli altri e
li inducevano a fare ciò che desideravano». Tabarast afferrò una testa di falco scolpita tempo addietro in uno smeraldo delle dimensioni di un palmo, e ne accarezzò, assente, il becco. «Capisco che cosa intendi, Droon, e tuttavia mi domando: che cosa verrà dopo? Saremo condannati a sguazzare nelle mistificazioni della verità e nelle menzogne mentre gli anni passano, con il misero risultato di aver elaborato diciassette incantesimi... diciassette?» Beldrune allargò le mani. «Diciassette incantesimi sono più di quelli che alcuni maghi giungono a conoscere in una vita di Arte», ricordò mite al collega. «Condividiamo un compito che amiamo entrambi... e, inoltre, riceviamo ogni tanto una ricompensa personale da Lei, ricordi?» «Come facciamo a sapere che è proprio Lei il mittente delle visionisogno?», chiese il mago calvo a bassa voce. «Come facciamo a esserne sicuri?» Moonshorn Tower tremò per un breve istante, emettendo un rombo profondo; da qualche parte una pigna di libri si schiantò con un tonfo. Beldrune abbozzò un sorriso e affermò, «Per me è sufficiente. Che cosa vuoi che faccia, Baerast? Che ci conferisca un incantesimo per notte, scritto nella nostra mente a lettere di fuoco indelebili?» Tabarast sbuffò. «Non essere ridicolo, Droon». Poi sorrise pensoso e aggiunse: «Le lettere di fuoco non sarebbero poi male, per una volta». «Vecchio cinico», replicò il mago più giovane con aria boriosa e offesa, «Io non sono mai ridicolo. Provoco semplicemente un po' di ilarità che non ha mai mancato di divertire un pubblico persino più perspicace di te, o dovrei dire in particolare più perspicace di te». Tabarast borbottò qualcosa, poi aggiunse ad alta voce: «Ecco perché passano le ore e i giorni e noi non combiniamo nulla. Non facciamo altro che pronunciare belle parole». Beldrune indicò il tavolo. «Allora prendiamo qualche nuovo frammento e iniziamo», esclamò con aria di sfida. «Invece di perseguire scopi separati, oggi lavoreremo insieme e vedremo se la Signora ci aiuterà. Inizia, amico mio, io farò in modo che entrambi resteremo concentrati sulla questione. In ciò sarò inflessibile, e cercherò di non alterarmi». «Non si dice "adirarsi" ragazzo mio?», chiese Tabarast con la mano ancora sospesa sopra il tavolo. «Gli esseri minori, caro il mio mago, si adirano... io mi altero», ribatté Beldrune altezzoso, poi aggiunse con un grugnito: «Ora prendi una pergamena, e mettiamoci all'opera!»
Tabarast batté le palpebre un po' perplesso e prese un documento dal tavolo». «... "Ciò supera tutte le mie precedenti... Altri maghi screditano tale... Tuttavia vincerò, essendo la verità mia guida e guardiana", hmmm. Uno scrittore del Sud, di un tempo precedente rispetto a Myth Drannor, ma forse non di molto, parla di un incantesimo capace di trasferire l'intelligenza di un mago e tutto il resto nel corpo di una bestia, per una sola notte, oppure più a lungo, o addirittura per sempre, se il corpo del mago dovesse esser minacciato o andare perduto». «Bene, bene», rispose Beldrune. «Potrebbe trattarsi di Alavaernith, impegnato a elaborare l'incantesimo dei "tre gatti"?» «Sospetto non sia lui», ribatté lentamente Tabarast. «Non fu mai tanto disposto a rivelare i suoi segreti...» Nessuno dei due maghi si accorse dell'uomo dal naso adunco e dagli occhi arrossati per la stanchezza che, entrato nella stanza, si era appoggiato per un attimo allo stipite della porta e si era messo ad ascoltarli. «E dice qualcosa di utile?», lo incalzò Beldrune. «O possiamo gettare anche questa nel barile?» Il mago barbuto osservò la pagina, la voltò per assicurarsi che il retro fosse bianco, la sollevò contro luce in cerca di stranezze nella scrittura o nella carta, e finalmente la porse al collega con un sospiro più simile a uno sbuffo. «Nulla di utile, ci informa solo sull'operato di quel qualcuno...» L'uomo dal naso aquilino avanzò per osservare i tomi dalle scritte dorate stipati nello scaffale a lui più vicino, poi guardò il tavolo e capovolse cautamente una struttura di metallo lavorato, contorta e sfasciata, che un tempo aveva probabilmente avuto la forma di un globo. Dopo averla esaminata cautamente, l'estraneo l'appoggiò delicatamente e posò lo sguardo sugli scritti sotto di essa. «Passiamo a questo», esclamò Tabarast, chino sull'estremità opposta del tavolo, «è molto più interessante. No, non lo getteremo nella botte tanto rapidamente». Tenne il foglio davanti al naso e si drizzò lentamente, poi si arrestò quando lo stivale di El fece un lieve rumore e il mago dai capelli neri domandò: «Come va, Mardasper? Dai un occhio alle cose, come al solito, hmmm?» Non udendo alcuna risposta, il mago più giovane si voltò, ed entrambi fissarono il nuovo arrivato dall'altra parte della stanza... il quale salutò con gentile cenno del capo e un sorriso, guardò per un attimo una vecchia e fragile pergamena sul tavolo, poi si spostò di lato in cerca di scritti più interessanti.
Tabarast e Beldrune lo fissarono in cagnesco, poi gli voltarono le spalle, e continuarono le loro indagini a bassa voce. El offrì un sorriso forzato alle loro schiene eloquenti, poi scrollò le spalle ed esaminò un'altra pergamena che riguardava una bara di tortura foderata di punte: chi vi veniva imprigionato veniva teletrasportato altrove invece di soffrire le pene dell'impalamento. Il documento era scritto nelle lettere quadrate tipiche della costa sud del Mare delle Stelle Cadute. Gli inchiostri metallici riflettevano la luce e la pagina aveva già assunto quel colore marrone chiaro che precede lo sbriciolamento... era vecchia quanto lui, se non di più. El osservò la pagina successiva, spostando cautamente un oculare netherese per poterla vedere meglio. Poi vide un oggetto meraviglioso. Gli incantesimi che l'avrebbero fissato all'occhio del portatore erano svaniti, ma la gemma consentiva ugualmente di percepire il calore, persino attraverso il legno o una roccia spessa qualche centimetro. La filigrana arrotolata intorno a essa, conferiva alla pietra l'aspetto di una grande ed elegante lacrima, che avrebbe luccicato per sempre sulla guancia di una donna. Che lavoro! Un oggetto creato per la mera gioia di padroneggiare l'Arte e creare qualcosa di duraturo... dovevano esistere mille migliaia di tali opere, disseminate in un mondo tanto ricco di magia naturale da farle sembrare frivolezze. Anche Elminster Aumar era una frivolezza? Forse, e forse era destinato a lasciar dietro di sé solo un mare impolverato di frammenti scritti, di idee confuse e incomplete dei secoli in cui era vissuto... eppure quel fiume di errori e di tentativi vani, di trionfi occasionali o di disastri distruttivi era l'Arte stessa. E Mystra era la custode del Tessuto, dal quale tutto proveniva e al quale tutto tornava. Ma non era tempo di lunghe riflessioni. El si trovava in una stanza disseminata di pergamene, nella Moonshorn Tower, e il flusso di magie o la vera natura dell'Arte erano simili nella loro estraneità alla sua situazione. Il suo mondo era un luogo di fame, di sete, di caldo o di freddo... e di una stanchezza mortale. Un momento! Là... aveva già visto quella pergamena. Era stata scritta dalla mano sottile e fluente di Elenshaer, il mago che era stato tanto abile nel creare nuovi e insoliti incantesimi protettivi a Myth Drannor... finché non venne dilaniato da un Phaerimm che aveva avventatamente imprigionato con magie troppo deboli per fare qualche esperimento... una vittima, direbbe qualcuno, della convinzione arrogante della superiorità elfa e del
diritto etico di trasformare o mutilare "esseri inferiori" che affliggeva molti della sua razza. Uno sfortunato atto di imprudenza, come sosterrebbero altri. E chi poteva dire quale dei due punti di vista era quello giusto o se entrambi avessero realmente importanza? Rivedendo l'elfo dal corpo slanciato che rideva e gesticolava con un calice di vino in mano, su un terrazzo che non esisteva più, tra individui che non erano più in vita, El scostò altri scritti per esporre completamente la missiva di Elenshaer. Si trattava di una sorta d'incantesimo. O meglio, degli inizi di un «gancio» dell'Arte mediante cui era possibile potenziare un incantesimo protettivo già esistente. Elminster lesse l'incantesimo fino al punto in cui la narrazione si interrompeva. Elenshaer aveva seguito una pratica comune ai maghi elfi. Aveva scritto la parte finale del sortilegio su un altro foglio, custodito altrove. La sua dimora conteneva migliaia di tali pergamene, e la sua memoria sarebbe stata l'unico legame tra esse. Nella Città del Canto vi era persino stato un mago imbroglione, Twillist, che aveva cercato di acquisire potere rubacchiando le «parti terminali» degli incantesimi, per barattarle con giovani apprendisti e altri maghi bramosi di conoscenza, in cambio di magie minori ma complete. La parte mancante, tuttavia, era quasi ovvia per un mago che aveva partecipato alla creazione del mythal e studiato con gli elfi cormanthoniani. Un ponte di collegamento, probabilmente «Tanaelhaert shurruna rae», un gesto della mano... incorporato nell'incantesimo mediante la pronuncia di «Rahrada»... poi la formula che avrebbe fatto scomparire il gancio nella tessitura dello scudo e che avrebbe conferito all'autore il controllo degli effetti ottenibili con esso: «Dannaras ouuhilim rabreivra, tonneth ootaha la, tabras torren ouliirym torrin, dalarabban yultah». Un gesto conclusivo... ed ecco fatto. El aveva pronunciato quelle parole a bassa voce, quasi silenziosamente, e fu sorpreso di vedere qualcosa apparire nell'aria di fronte a lui: era una piccola costruzione luminosa, poco più lunga della sua mano, sospesa nell'aria sopra la pagina. Alcune linee di fuoco s'intrecciarono a formare un minuscolo nodo e cominciarono a roteare silenziosamente. El sospirò. Se esistevano magie inutili, questa era una di quelle. Senza pensare aveva violato gli ordini di Mystra, dopo tutti gli sforzi che aveva fatto per attenervisi. Maledizione! Il gancio che aveva creato cominciò a riversare scintille minuscole sulla pergamena sotto di esso. Oh, ci mancava solo quello! In una stanza stipata
di carta secca e polverosa... Cercò di fare scudo alla pergamena con le sue mani... troppo tardi. Le scintille caddero, saltellarono, e... Formarono parole luminose, che si sovrapposero a quelle di Elenshaer e avanzarono senza creare fumo, né fuoco nella loro scia. Parti. Ora. Cerca la Roccia Spaccata. Il messaggio si fece più intenso, come per assicurarsi che El lo leggesse, poi iniziò ad affievolirsi e scomparve. Il principe lesse ancora una volta quelle parole e deglutì. Non si reggeva più in piedi, ma l'ordine era più che chiaro: doveva lasciare quel luogo senza indugi. Sollevò la testa e si guardò intorno, dispiaciuto di non aver potuto rovistare oltre in quella stanza stracolma di sapere. Dal minuscolo gancio vorticante non scaturirono altre scintille, e i due maghi anziani gli mostravano ancora le spalle all'estremità opposta della stanza, mentre si mormoravano segreti all'orecchio, in modo che lui non potesse sentire. El abbassò nuovamente lo sguardo sulle lettere di fuoco magico, e le osservò scomparire del tutto. Poi fece un sospiro profondo, seguito da un ghigno triste, e uscì dalla stanza silenziosamente, come avrebbe fatto il ladro di Hastarl. Dopo aver esaminato la quarta pergamena Tabarast mormorò: «Voltati e guarda dov'è lo straniero. Se è accanto alla porta, o se è uscito, potremo ricominciare a parlare ad alta voce; mi sento come un servo colpevole che spettegola in un magazzino». «Già, come facciamo a discutere se non possiamo parlare liberamente?», assentì Beldrune, gettando un'occhiata casuale dietro di sé, al tavolo sommerso. Poi voltò rapidamente la testa, e affermò: «Baerast, se n'è andato». Qualcosa nel tono del mago più giovane fece sollevare di scatto la testa di Tabarast. Anch'egli si girò per guardare la stanza in cui avevano lavorato tanto a lungo: era deserta, tranne che per un... «Il segno!», ansimò Beldrune con voce tremula. «Il segno!» Un Eletto è stato qui!» «Dopo tutti questi anni», mormorò Tabarast rauco, quasi intontito. La sua vita, la sua fede, e tutta Toril, erano mutati in un istante. «Chi può essere stato? Quel giovane dal naso adunco? Dobbiamo seguirlo!» Lentamente, come se non osassero disturbarlo, i due maghi avanzarono attorno al tavolo. Per tacito accordo camminarono in direzioni opposte, per avvicinarsi al sigillo turbinante da lati diversi... come se temessero fuggis-
se. Il piccolo nodo di linee luminose era ancora là quando s'incontrarono davanti a esso per osservarlo con la bocca spalancata. «Corrisponde perfettamente alla visione», mormorò il mago calvo, come se vi potesse essere possibilità di falsificazioni o di errori. «Non vi sono dubbi». Guardò la stanza che era stata la testimone di anni di lavoro. «Mi mancherà tutto questo», commentò lentamente. «A me no!», rispose Beldrune, rischiando di investire il mago più anziano nella fretta di raggiungere la porta. «Avventura... finalmente!» Tabarast batté le palpebre e chiese al collega: «Droon? Sei pazzo? Tutto ciò è eccitante, sì, ma la nostra impresa è appena iniziata... e molto presto ti accorgerai che non sarà tanto divertente». «Gli Dei Oscuri si piglino il tuo pessimismo, Baerast... stiamo per intraprendere un'avventura!», gridò Beldrune già in fondo alle scale. Tabarast fece una smorfia e iniziò a scendere gli scalini, sul volto un'espressione arcigna: «Non hai mai preso parte a un'avventura, vero Droon?» Anni di viaggi avevano fatto sprofondare la fangosa mulattiera tra Aerhiot's Field e Saopar's Field, e poco ci mancava che le siepi intricate che la fiancheggiavano si congiungessero in alto, mentre gli uccelli e gli scoiattoli disturbati sfrecciavano impauriti nell'oscurità perpetua ogniqualvolta qualcuno vi si avventurava. I buoi vi erano avvezzi, e anche Nuglar. Si trascinava assonnato col frustino nell'incavo del braccio, senza aspettarsi di doverlo usare, mentre le tre bestie imponenti avanzavano lentamente davanti a lui, anch'esse mezze addormentate, tanto che non si prendevano nemmeno la briga di muovere la coda per scacciare le mosche. Qualcosa scampanellò nelle vicinanze. Nuglar sollevò una palpebra appesantita e voltò la testa per vedere che cosa emettesse quel suono... forse un agnello perdutosi, con al collo uno di quei minuscoli campanelli che i sacerdoti della Madre appendevano ai loro aspersori? Un intero gregge? Non vide nulla, se non una sorta di nebbia bianca e scintillante, le cui lingue turbinanti emettevano lo scampanio. Era tutt'intorno a lui, come uno scialle freddo, forte e in certo qual modo crudele... e intorno ai buoi. Uno di essi singhiozzò, improvvisamente allarmato, quando la nebbia tintinnante divenne un turbine ululante e gli si strinse attorno. Nuglar urlò, o così credette, e allungò una mano verso la natica dell'animale... solo per provare una sensazione di gelo mortale che gli fece ritrarre
il braccio. La mano era scomparsa e dal polso monco fuoriusciva un fiume di sangue; l'uomo aprì la bocca per gridare, e un soffio di nebbia micidiale gli scese nella gola. Una frazione di secondo più tardi la mandibola di Nuglar si staccò da un cranio tremolante, svuotato dal vento... poi lo scheletro si trasformò in polvere vorticante e si mescolò con quello dei tre buoi. Con un tintinnio forte e trionfante, come di campanelli suonati all'unisono, un vortice più grande e luminoso si sollevò dalla mulattiera e si riversò attraverso Aerhiot's Field, lasciando sul sentiero soltanto un frustino consunto e robusto. Questo turbinò nell'aria nella scia della nebbia per un lugubre momento, poi cadde nel fango, e rimase in attesa che un viandante lo trovasse. Passò molto tempo prima che gli scoiattoli scorrazzassero di nuovo sul sentiero scuro e gli uccelli ricominciassero a cantare. La Roccia Spaccata doveva essere un luogo, o più probabilmente un punto di riferimento... una roccia fessurata da un vento primaverile o invernale, ma, in ogni caso, un luogo a lui sconosciuto, come del resto molte altre zone di Faerûn. Mystra aveva forse intenzione di fargli percorrere a piedi tutto il mondo? Barcollante per la stanchezza, Elminster si trascinò su per un pendio erboso, cercando di non perdere di vista la strada che lo aveva condotto alla torre... e che ora lo stava portando lontano da essa. Lasciare Moonshorn era stata una questione di urgenza assoluta, ma la Signora... o Azuth che parlava in suo nome... sapeva che la Roccia Spaccata doveva essere cercata, e dunque non poteva aspettarsi che El la trovasse immediatamente. Ciò rappresentava una fortuna, in quanto il principe riusciva appena a trovare la forza di muovere un piede dopo l'altro. Elminster fece altri due passi goffi, poi si sentì scivolare all'indietro, inciampò, e un attimo dopo sbatté violentemente contro una quercia. Esausto com'era, non gli parve vero di potersi appoggiare alla massa confortevole di quell'albero... la corteccia che gli aveva impedito di ruzzolare fin sulla strada, ora bruciava a contatto con la sua guancia. Addormentarsi sul sentiero non sarebbe stato saggio in quella terra dai coltelli facili. Non vi erano rami bassi sui quali arrampicarsi o ai quali aggrapparsi per reggersi in piedi... e tanto per cambiare, le ginocchia incominciavano a cedergli... ah, ma un momento. Che cosa gli aveva insegnato la Srinshee? Ad
assumere la forma di un albero. La Variante di Thoaluta, già, ecco come si chiamava. «Doabro Thoaluta era una vecchia astuta»... e quella breve rima gli riportò alla memoria ciò di cui aveva bisogno. Probabilmente Elminster russò sommessamente una o due volte durante l'incantesimo, ma la quercia che apparve un istante più tardi, appoggiata a quella reale, al russare preferì il silenzio profondo. Così sul pendio accanto alla strada scese la tranquillità. Quand'era nella sua stanza, gli incantesimi di guardia lo avvertivano dei nuovi arrivi. Questa volta essi avvamparono violentemente, perciò Mardasper, il diadema in testa, l'oculare sull'occhio disgraziato, e lo Scettro della Signora in mano, raggiunse il leggio ancor prima che la porta si aprisse e un mago elfo entrasse nella sala. Il mantello turbinò attorno allo sconosciuto, e le gemme incastonate nel bastone di legno vivo ammiccarono in ordine sparso. L'elfo guardò l'occhio del custode, lasciò il bastone, che rimase sospeso perpendicolarmente nell'aria, e osservò la reazione di Mardasper che aveva una vaga espressione di scherno sul volto. L'uomo fece attenzione a non mostrarsi impaurito o interessato, e scrutò il nuovo arrivato con aria indifferente. Con gli elfi status e controllo erano elementi molto importanti. Quello sembrava giovane, ma Mardasper sapeva che, anche senza incantesimi che ne alterassero il corpo o l'aspetto, un elfo poteva apparire fresco e vigoroso per secoli. L'elfo che lo stava fissando in quel momento aveva un'aria altezzosa, come tutti quelli della sua razza, del resto. «Buon giorno», esclamò il custode in tono neutro. «Sappiate che sono Mardasper, guardiano di questo tempio della Sacra Mystra. Avete questioni da sbrigare in questo luogo, viaggiatore?» «Sì», rispose l'elfo con voce fredda, avanzando di qualche passo. Il guardiano della torre sollevò l'oculare e mostrò allo straniero il suo occhio scintillante. L'elfo rallentò, strinse gli occhi, poi si fermò e accarezzò il trio di bacchette magiche penzolanti al suo fianco. Mardasper resistette alla tentazione di sorridere e domandò cauto: «Venerate la Sacra Mystra, Signora dei Misteri?» Poi utilizzò il diadema per testare la veridicità delle parole del mago, risparmiando i suoi incantesimi per quando fossero stati necessari. L'elfo esitò. «Talora», ribatté finalmente, il che rispondeva a verità. Mardasper sospettò che il nuovo arrivato avesse pregato una o due volte in condizioni di grande intimità, nella speranza di acquisire qualche vantag-
gio su maghi rivali. Ciononostante, era sufficiente. «Tutti coloro che entrano qui», esclamò il guardiano, sollevando la punta dello scettro quanto bastò per far tremolare gli occhi dell'elfo, «devono obbedirmi completamente ed evitare magie non richieste. Chiunque rubi o danneggi il più piccolo oggetto tra queste mura mette a repentaglio la propria vita, o quantomeno la propria libertà. Potete riposare e prendere acqua dalla fonte, ma non vi sarà fornito né cibo né altro... e dovete dirmi il vostro nome e consegnarmi libri e utensili magici, non importa quanto piccoli o innocui. Vi saranno restituiti alla partenza». «No», affermò l'elfo sprezzante. «Non ho alcuna intenzione di diventare schiavo di un uomo, né di consegnare oggetti a me affidati, da tempo venerati nella mia famiglia, nelle mani di un estraneo... e per di più umano. Sai chi sono io, custode?» «Un elfo, quasi certamente un mago e probabilmente di lignaggio cormanthoniano... che disconosce la prudenza e la diplomazia», rispose freddo Mardasper. «C'è altro che devo sapere?» Detto ciò risvegliò l'incantesimo delle gemme sul diadema, rafforzandolo col bagliore dello scettro. Non abbiamo bastoni ammiccanti, giovanotto, pensò il custode, ma... Gli occhi del mago divennero verdi di rabbia e le sue labbra sottili si serrarono come ganasce di una trappola d'acciaio: «Se non posso procedere liberamente... no», affermò semplicemente. Mardasper scrollò le spalle, sollevando le braccia dal leggio per richiamare l'attenzione dello straniero ancora una volta sullo Scettro della Signora. Non desiderava ingaggiare una battaglia magica nemmeno col più debole dei nemici, e non ebbe certo bisogno di vedere il bastone fluttuante per capire che l'elfo era tutt'altro che debole. Questi alzò a sua volta le spalle, si voltò sdegnato con un grande svolazzo del mantello, e distolse lo sguardo da Mardasper come se l'uomo con lo scettro fosse solo una statua in via di sgretolamento. Nel frattempo, gli cadde l'occhio sul registro aperto... e improvvisamente il suo sguardo s'illuminò quanto l'occhio disgraziato del custode. Il mago si voltò nuovamente, si drizzò come un serpente a sonagli... e si ritrovò naso a naso con lo scettro. «Addio, signore!», mormorò il guardiano. «Quest'uomo!», sbottò l'elfo, indicando l'ultimo nome segnato sul registro con un dito simile a un pugnale. «È ancora qui?» Mardasper fissò quegli occhi incandescenti a pochi centimetri di distanza, cercando di non lasciar trasparire il suo terrore, ma sapendo che stava
fallendo nel suo intento. Deglutì e rispose con voce sorprendentemente tranquilla: «No. È rimasto solo una mattinata, è partito poco fa. Diretto a ovest, credo». L'elfo ringhiò come una pantera infuriata, si voltò e si diresse verso la porta. Il bastone lo seguì, lasciando dietro di sé una scia di fiamme nere; due grandi gemme verdi incastonate nell'estremità superiore scintillarono improvvisamente come occhi lucenti.. «Volete lasciare un messaggio per questo Elminster, se mai dovesse ripassare?», chiese il custode con voce solenne mentre l'elfo apriva violentemente la porta. «Molti lo fanno». L'elfo si girò, e riprese il bastone. «Sì! Ditegli che Ilbryn Starym lo cerca e sarebbe lieto di trovarlo preparato per l'incontro». Poi uscì di corsa, sbattendo la porta. Mardasper la fissò finché gli incantesimi di guardia non gli indicarono che l'elfo si era allontanato. Poi si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore si accosciò esausto sul leggio. Lo scettro s'illuminò una volta, e l'uomo quasi lo lasciò cadere. Quello era stato certamente un segno... di rassicurazione? O qualcosa d'altro? Mardasper scosse lievemente lo strumento magico, sperando in ulteriori indicazioni, ma non accadde più nulla. Ahh, maledizione! Per i Sette Incantesimi Segreti di Mistra...! Imprecò per un istante, ma resistette alla tentazione di scagliare lo scettro. L'ultimo custode di Moonshorn Tower che l'aveva fatto era stato ridotto in un mucchietto di cenere appena sufficiente a riempire il palmo di una mano. Mardasper tornò nel suo ufficio molto rattristato. Aveva fatto la cosa giusta? Che cosa pensava Mystra di lui? Avrebbe dovuto fermare l'elfo? Aveva fatto bene a far entrare Elminster? Naturalmente l'uomo non poteva essere quell'Elminster, il Viaggiatore Solitario, non è vero? No, quel mago doveva essere ormai vecchio, e solo Mystra... Mardasper deglutì. Quella domanda l'avrebbe tormentato per giorni, già lo sapeva. Ripose il diadema e lo scettro con delicatezza esagerata, poi si sedette, sospirò, e fissò a lungo la parete scura. I sacerdoti di Mystra erano stati molto chiari: nei quattro anni che doveva scontare non erano compresi i giorni in cui avesse bevuto bevande alcoliche. Deliberatamente, dallo scaffale più vicino, spostò tre voluminosi tomi, rovistò nell'oscurità, e ne estrasse una grande bottiglia polverosa. All'inferno i sacerdoti e le loro stupide regole!
«Mystra», chiese ad alta voce, mentre stappava la bottiglia, «Mi sono comportato tanto male?» Per un breve istante il turacciolo s'illuminò come una stella nelle sue mani, poi si riconficcò nella bottiglia tanto violentemente che le dita del guardiano si misero a sanguinare. Mardasper si guardò per un momento le mani, poi, cautamente, ripose la bottiglia nello scaffale. «Dunque ho fatto bene... o male?», domandò confuso. «Oh, dove sono i sacerdoti quando ho bisogno di loro?» «Whoah!», urlò Tabarast. «Woaaaaah...» Il suo grido terminò con un tonfo, quando le sue natiche toccarono violentemente il suolo, sollevando polvere in tutte le direzioni. Il mulo si arrestò un passo più avanti, gli diede un'occhiata di rimprovero, e rimase in attesa, con aria afflitta. Beldrune represse una risata e raggiunse il collega a terra, incalzando l'animale con un piccolo frustino piumato, mentre i suoi splendidi stivali sbucavano come zanne da entrambi i fianchi del mulo. «Sembri molto affezionato alla terra fertile di Faerûn quest'oggi, caro Baerast!», osservò scherzoso... un istante prima che il suo mulo si fermasse all'improvviso accanto all'altro animale. Sbilanciato, Beldrune ruzzolò oltre la testa della bestia con un urlo di sorpresa e, dopo una piroetta, atterrò sulla strada con un tonfo impressionante che fece sussultare Tabarast. Questi non riuscì a trattenere una risata quando i due muli si scambiarono un'occhiata, sembrarono raggiungere una sorta di accordo, e simultaneamente avanzarono, calpestando il gemente Beldrune. I suoi lamenti si trasformarono in grida di rabbia e di dolore, poi il mago agitò selvaggiamente le braccia fino a liberarsi delle bestie puzzolenti dagli zoccoli infangati. «Aiuto!» urlò. «Per l'amore di Mystra, aiuto!» «Alzati», esclamò truce il mago più anziano, tirandolo per i capelli. «Dovunque sia diretto, l'Eletto sarà ormai a metà strada, e noi non riusciamo nemmeno a rimanere in sella a due minuscoli muli, per la miseria! Alzati, Droon!» «Arrrgh!», grugnì Beldrune. «Molla i capelli!» Tabarast lasciò la presa... e la testa del collega ricadde sulla strada. Beldrune si lanciò in una litania di imprecazioni inconsulte, ma l'altro lo ignorò, e avanzò zoppicando per afferrare le briglie delle bestie prima che decidessero di scappare. «Ti ho riportato il tuo mulo», affermò rivolto al compagno ancora diste-
so sul sentiero. «Suggerisco di camminare per un po'... siamo entrambi fuori allenamento». «Se intendi dire che siamo caduti troppo spesso», ringhiò Beldrune, «allora ti do ragione... siamo fuori allenamento, ma la situazione non cambierà a meno che non montiamo di nuovo in sella!» Passando dalle parole ai fatti, il mago saltò in sella al mulo di Tabarast, sperando che un cambio di cavalcatura migliorasse le cose. L'animale ruotò un occhio, vide Tabarast accanto a lui, qualcun altro sul suo dorso e non si mosse di un centimetro. Beldrune lo incitò e tese le redini come se stesse tirando in barca un pesce mostruoso; il mulo, con la testa all'indietro, cercò di divincolarsi, si mise a masticare le briglie, ma non avanzò di un passo. Allora il mago ritrasse i piedi, rimpiangendo di non indossare un paio di speroni, e conficcò violentemente i talloni nei fianchi dell'animale. Questo non si mosse, ed egli calciò nuovamente. A quel punto il mulo schizzò in avanti, iniziando una folle corsa. Beldrune fu sbalzato all'indietro, emise un gemito disperato e atterrò duramente su una spalla, per poi rotolare, impotente, lungo il sentiero. Quando finalmente si fermò con un urto violento contro una delle due querce situate al bordo della strada, il suo splendido farsetto si era ormai trasformato in uno straccio macchiato di sterco. Tabarast afferrò le redini del mulo grugnente... fino ad allora non sapeva che quelle bestie sapessero grugnire... si assicurò di avere in mano anche quelle dell'altro animale, e guardò indietro, lungo la strada. «Hai finito di giocare ai prodi cavalieri?», sbottò. «Stiamo compiendo una missione importate, ricordi?» Un Beldrune intontito e a testa in giù fissò per un attimo il collega, poi si riprese e si raddrizzò. Quando fu di nuovo in piedi, scosse la testa sollevando una nuvola di polvere e, dolorante, ringhiò: «Con tutto il chiasso che stai facendo, scommetto che quell'Elminster si trova già a quaranta fattorie di distanza!» L'albero sembrò tremolare per un istante, ma nessuno dei due maghi parve accorgersene. 6. ALLA ROCCIA SPACCATA Lascia che le pietre vengano spaccate e che il mondo sia mutato,
Quando due del genere s'incontreranno, Con il caos ululante nel cielo E l'inganno un serpente attorcigliato ai loro piedi. Autore sconosciuto Dalla ballata I molti incontri Composta in un periodo precedente all'Anno delle Dodiciregole Il sole batteva forte, ed Elminster sorrise. Si trovava ancora in terre sconosciute, ma più di un contadino lungo quella strada in salita gli aveva assicurato che era la via giusta per la Roccia Spaccata. Come d'abitudine El si guardò alle spalle per vedere se qualcuno lo seguisse, poi alzò lo sguardo al cielo: assumere le sembianze di uccelli era stata la tattica favorita dei maghi elfi che non vedevano di buon occhio il primo umano che si era introdotto nel loro regno e aveva cambiato Cormanhtyr per sempre. In quel momento, tuttavia, non sembravano esserci nemici in agguato... né alcuna creatura vivente, a dire il vero. Il principe si domandò quanta strada avessero percorso la sera precedente quei due maghi confusionari sui loro muli recalcitranti, poi ridacchiò. A giudicare dagli ultimi ghiribizzi di Mystra, l'avrebbe saputo molto presto. Il cielo era terso, e soffiava un vento gelido; era un giorno meraviglioso per camminare, e l'ultimo principe di Athalantar se lo stava godendo appieno. Campi collinosi divisi da muriccioli sbrecciati si estendevano su entrambi i lati della strada, e, qua e là, massi troppo grandi per essere spostati si ergevano dalle coltivazioni come musi di mostri del sottosuolo, giganteschi e pietrificati... L'aria aveva l'odore umido della terra appena arata, e se l'Eletto doveva percorrere Toril da solo, giornate come quelle lo facevano almeno sentire vivo, e non un sopravvissuto, barcollante verso una tomba in attesa. Da sinistra gli giunse all'orecchio un gorgoglio d'acqua corrente, e oltre il ciglio della salita vide una fonte: un rapido ruscello tagliava i campi, formando una gola stretta e profonda, e, dopo aver attraversato un mulino, scorreva accanto alla strada per un tratto. Ah, benissimo. Secondo l'ultimo contadino a cui aveva domandato informazioni, quello doveva essere il Mulino di Anthather. Un edificio di pietra, alto e imponente, a un bivio della strada che, naturalmente, era privo di indicazioni.
Il torrente usciva dalla vasca sottostante la diga del mulino, e una ruota cigolante girava senza sosta sospinta dalla corrente; alcuni uomini ricoperti di farina stavano caricando un carretto al margine della strada, impilando sacchi su sacchi in un cumulo impressionante: i cavalli avrebbero avuto un bel da fare. Uno degli uomini vide El e mormorò qualcosa, al che tutti sollevarono lo sguardo, squadrarono lo straniero, senza però smettere di lavorare. Elminster allargò le mani per mostrare che era disarmato, e si fermò accanto all'uomo più vicino. «Buon giorno», esclamò. «Cerco la Roccia Spaccata, e da qui in poi non conosco più la strada». Il mugnaio lo guardò in cagnesco, indicò il sentiero di sinistra e affermò: «È molto facile da trovare... proseguite diritto finché non vi ritroverete in mezzo alla pietra. Ma vi avverto che laggiù non c'è nulla». El scrollò le spalle e sorrise. «Devo adempiere una sorta di voto», ribatté. «I miei ringraziamenti». L'uomo annuì, fece un cenno di saluto, e riprese a caricare il carro. In qualche modo rassicurato, Elminster riprese il cammino. Impiegò alcune ore di cammino per raggiungere la meta. La Roccia Spaccata era più che riconoscibile: alta e nera come la pece, si ergeva da un bosco di rovi simile a un elmo... fessurata nel mezzo, e attraversata dalla strada. Nelle vicinanze non si vedeva alcuna fattoria, ed El sospettò che quel luogo godesse della cattiva reputazione solitamente attribuita ai grandi punti di riferimento... a meno che non fossero sacri a una o all'altra religione. Mentre percorreva l'ultima curva del sentiero e si rendeva conto delle dimensioni della roccia, il suo sguardo non incontrò nessun sigillo, nessun altare, né tracce di abitazioni. La spaccatura, lunga e scura, doveva avere una profondità pari all'altezza di sei uomini, la superficie interna era umida a causa dell'acqua sorgiva filtrante, e la parte bassa era avvolta da una nebbia sottile. Nel mezzo della fenditura qualcuno lo stava aspettando. Mystra vede e provvede. Elminster procedette senza indugio, sul volto un sorriso affabile, nonostante la sensazione che la sua libertà di viaggiare sarebbe terminata con quell'incontro... e presagi ancor più oscuri. Le sue apprensioni non diminuirono vedendo ciò che l'attendeva. La figura era umana e molto femminile, alta e slanciata. Sola e senza mantello, la tunica scura; in una parola, pericolosa.
Se Elminster si fosse trovato in una certa sala buia di Tresset's Ringyl mentre uno scettro si trasformava in polvere, invece di contemplare su una collina i resti di un'ombra dalla testa di cervo, avrebbe visto prima quella magnifica maga dagli occhi scuri. Occhi fieri e freddi... che nascondevano una traccia di malizia? O invece si trattava di ilarità repressa... o di trionfo? Le gambe della donna, protette da un paio di stivali neri, erano oltremodo lunghe, e i capelli neri e lucidi, ancor più lunghi, le ricadevano lungo la schiena in una cascata selvaggia. La sconosciuta aveva la pelle color avorio, i lineamenti fini, ben definiti, e un'aria serena e coraggiosa. Le sue lunghe dita stavano giocherellando pigramente con una bacchetta magica: guai in vista. Era il tipo di maga che la gente preferiva evitare. «Buon giorno», lo salutò la donna, con un misto di sfida e di promessa, mentre scrutava senza fretta il giovane dagli stivali infangati e dai capelli arruffati. «Pratichi»... la sua lingua apparve per un istante fra le labbra socchiuse... «la magia?» Elminster tenne gli occhi fissi nei suoi e si piegò in un inchino. «Un po'», rispose, memore delle direttive di Azuth. «Bene», rispose la signora in nero, la sua parola quasi una carezza. «Sto cercando un apprendista. Un apprendista fedele», aggiunse con un lieve movimento della bacchetta. El rimase in silenzio, perciò la maga continuò con tono più vivace. «Io sono Dasumia, e tu sei...?» «Mi chiamo Elminster, Signora, semplicemente Elminster». Poi aggiunse: «Credo che i miei giorni da apprendista siano terminati. Io servo...» Un fuoco argenteo avvampò improvvisamente dentro di lui, e il suo bagliore gli riportò alla mente l'immagine di un soffitto crepato nella migliore camera da letto di Fox Tower, sul quale apparve una scritta luminosa: «Servi colei che è chiamata Dasumia». El deglutì. «... voi, se mi accetterete», concluse poi, consapevole che un paio di occhi scuri lo fissavano divertiti dalle profondità della sua anima. «Tuttavia devo avvisarvi: io servo la dea Mystra prima di chiunque altro». La maga dagli occhi neri sorrise, quasi indolente. «Sì, certo... tutti lo facciamo», ribatté timidamente, «non è vero?» «Mi dispiace, Lady Dasumia», replicò El con tono grave, «ma dovete capire... io La servo più intimamente di altri. Io sono il Viaggiatore Solitario». Dasumia gettò il capo all'indietro e scoppiò a ridere, la sua ilarità echeg-
giò sulle pareti rocciose. «Ma certo», affermò quando riuscì a parlare nuovamente. «Sai quanti giovani maghi in cerca di reputazione vengono da me spacciandosi per il Viaggiatore Solitario? Be', te lo dico io... una decina lo scorso mese, ben quaranta il mese prima, e un altro questo mese». «Ah», esclamò El, drizzandosi, «ma nessuno di loro era bello quanto me, non è vero?» La donna rise ancora, e, impulsivamente, lo abbracciò. «Un sognovisione mi ha suggerito di cercare un apprendista in questo luogo... ma non avrei mai pensato di trovarne uno che mi facesse ridere». «Allora mi prenderete?», chiese El, senza dar segno di aver percepito le magie indagatrici del suo abbraccio. Il calore che percepì nelle viscere gli indicò che il fuoco argenteo di Mystra stava lottando duramente per contrastare ogni tentativo di controllo e influenza... e almeno tre incantesimi che lo avrebbero ucciso all'istante se la maga avesse pronunciato le parole giuste. Ah, ma era una cosa meravigliosa essere un mago. Quasi quanto essere un Eletto. Dasumia gli sorrise con aria di trionfo, più che di benvenuto. «Ti prenderò, anima e corpo», mormorò. «Anima e corpo». La donna si allontanò da lui, voltandosi, e guardò indietro con sguardo languido: «Da dove iniziamo, hmmm?» «Ora, Droon, ti chiedo seriamente: avremmo avuto una tale padronanza della magia, tante legioni di maghi capaci da mare a mare e fino alle distese gelate e all'est più estremo, se Myth Drannor fosse ancora in piedi? Oppure si sarebbero formati gruppi chiusi ed elitari, composti da coloro che avrebbero avuto accesso o dimora nella Città del Canto... e il resto di noi sarebbe invece rimasto fuori a scannarsi per accaparrarsi le briciole?» Tabarast si voltò per sottolineare la domanda e quasi cadde dalla sella, nonostante il groviglio di fasce e di cinture con cui si era legato. Al che decise che era più prudente guardare avanti, gesticolando semplicemente con una mano. Il suo mulo sbuffò e proseguì. «Suvvia! Non parliamo di gemme, Baerast», replicò Beldrune, «nemmeno di cavoli... ma di magia! Dell'Arte! Un'accozzaglia di idee, un convito d'incantesimi, un flusso infinito di nuovi approcci e...» «Sciocchezze sparate a ruota libera da giovani maghi», replicò il collega più anziano. «Sicuramente anche tu, giovane Droon, hai vissuto tanto a lungo da sapere che la generosità... il dare disinteressato, escludendo perciò quello che si trasmette a un apprendista facilmente controllabile... è
una qualità rara, e meno coltivata nelle fila dei maghi che in ogni altra importante categoria di Faerûn, eccezion fatta forse per un'orda di orchi. Ti prego di non annoiare le mie orecchie con troppe sciocchezze». Beldrune allargò le mani in segno di disperazione. «Ogni opinione che differisce della tua costituisce un'idiozia senza valore?», chiese. «Oppure è possibile... brontolone che non sei altro... che qualche verità che gli dei non hanno ancora rivelato al vecchio e saggio Tabarast, all'astuto Tabarast, all'irriflessivo vecchio Tab...» «Perché i giovani la prendono tanto sul personale?», domandò ad alta voce il mago più anziano, rivolto al mondo intero. «Insulti e argomenti ridicoli. Un tale approccio fa di ogni monticello una montagna, di ogni scambio di commenti una tempesta perniciosa, e imbratta i nomi di tutti coloro che osano avere opinioni dissenzienti. Disapprovo fortemente, Droon, disapprovo. Minacce e spavalderia non sono sostitute valide di opinioni ben argomentate... e troppo spesso nascondono infantilismi!» «Uh, ah, ahem, sì», balbettò Beldrune. «Stavamo parlando dell'influenza della favolosa Myth Drannor sulla pratica dell'Arte su Faerûn, credo». «Già», confermò Tabarast quasi severo, spronando il mulo sulla sommità di una collinetta agitando solennemente la sua minuscola frusta. Il fatto che si fosse rotta in qualche precedente disavventura sembrava essergli completamente sfuggito. Beldrune attese il fiume di parole forbite e perlopiù insensate che accompagnavano inevitabilmente le osservazioni di Tabarast riguardo alla semplice realtà, ma per una volta il collega tacque. Al che, sorpreso, inarcò le sopracciglia, e in silenzio segui Tabarast oltre la collina. Allungò la mano sul mantello arrotolato, appeso al suo fianco, percepì la rassicurante levigatezza della sua fiaschetta sotto di esso, e la estrasse. Tabarast aveva preparato quella miscela, e per i suoi gusti era un po' acquosa, ma non aveva alcuna voglia di discutere ancora sull'argomento. La volta successiva sarebbe toccato a lui, e vi avrebbe messo meno acqua e vino, e una maggiore quantità di quell'intruglio raro, che dava alla testa, e che aveva sentito chiamare «brandy». Hmmm. Sempre che fossero vissuti abbastanza a lungo da avere una prossima volta. L'avventura gli era sembrata grandiosa il giorno prima... ma la sua idea di avventura non prevedeva i muli. Ancora qualche giorno in groppa a quelle bestie e non sarebbe stato più in grado di camminare; persino con tutte le cinghie e le fasce era caduto più di venti volte in un giorno.
Tabarast aveva collezionato un numero di cadute persino maggiore, rifletté con un sorriso, mentre osservava il vecchio mago sobbalzare lungo un ripido pendio, le gambe sporgenti dai fianchi del paziente animale, simili a due ali oscillanti. In un altro momento sarebbe... Qualcosa di scuro e pieno di stelle si abbatté su Beldrune come un vento vendicativo, gli assestò un forte colpo alla gamba sinistra e per poco non lo disarcionò, ma il mago riuscì a tenersi in equilibrio aggrappandosi disperatamente alla criniera del mulo. Davanti a lui, giù dalla collina, poté vedere che cosa si stava abbattendo sul povero e ignaro Tabarast: un elfo vestito di nero in sella a un cavallo spettrale, con un bastone luminoso fluttuante accanto alla spalla. Beldrune riuscì a vedere attraverso gli zoccoli scalpitanti della bestia magica l'elfo che si gettava in picchiata e virava all'ultimo momento per evitare una collisione diretta, facendo cadere entrambi, mago e mulo, su un fianco. Droon si affrettò, per quanto osasse farlo, a raggiungere il collega, ma Tabarast stava già elaborando una magia per sollevare se stesso e il mulo, sbigottito e scalciante, e nel contempo gridò: «Brutto zoticone! Grezzo idiota dalle orecchie mozze, i tuoi genitori non ti hanno insegnato l'educazione? Tiranno della strada! Mago impertinente! Impartirò un po' di saggezza a quel tuo minuscolo cervello... vedrai se non lo faccio! Ti insegnerò l'umiltà... e prima ancora... come si guida un cavallo!» Ilbryn Starym udì alcuni degli insulti, ma non si disturbò nemmeno a mutare il suo ghigno in un sorriso. Umani. Ombre pallide e chiassose di colui che stava cercando. Ormai doveva essergli vicino. Elminster Aumar... il naso adunco, due insolenti occhi di color blu grigio, i capelli neri e lisci quanto il pelo di orso bagnato. Nella sua bocca comparve un sapore forte e familiare. Sangue. Riusciva quasi a sentire il gusto del sangue di quell'Elminster, che doveva morire per lavare l'onore degli Starym, macchiato dalle sue sudice mani. Mentre raggiungeva la cima della collina, Ilbryn si alzò su staffe inesistenti e urlò al mondo: «Elminster deve morire!» La sua voce echeggiò di collina in collina, ma non si udì risposta alcuna. A Moonshorn l'imbrunire era quasi sempre uno spettacolo mozzafiato. A Mardasper piaceva arrampicarsi sui bastioni sgretolati per contemplare quei tramonti, mormorando parole di ballate amorose e di canti eroici. Era l'unico momento della giornata in cui dava sfogo alle emozioni, e sognava che cosa avrebbe fatto a Faerûn quando fosse terminato il suo servizio al
tempio. Sarebbe divenuto Mardasper il Potente, barbuto e saggio, rispettato da maghi minori, con anelli di potere a tutte le dita; avrebbe creato bastoni magici e domato draghi, nonché dato ordini a re, che non avrebbero osato disobbedirgli. Oppure avrebbe potuto salvare una principessa, o la figlia di un nobile ricco, e scappare con lei, usando la magia per rimanere giovane e impetuoso, senza tuttavia mai indossare la tunica di un mago, tenendo segreti i suoi poteri finché non si fosse creato una piccola baronia, da qualche parte, nel verde. Pensieri piacevoli, ristoratori e ovviamente privati... Per tale ragione Mardasper Oblyndrin diventava davvero furioso quando qualcosa o qualcuno interrompeva tali momenti. Adesso era molto arrabbiato. Gli incantesimi guardiani lo avvisarono; borbottando fra sé, Mardasper si precipitò giù per la lunga e stretta scala sul retro prima che l'intruso potesse raggiungere la soglia. Era molto ripida, ma la scala conduceva direttamente alla terza porta nella sala d'entrata; quando questa si aprì violentemente e sbatté contro il muro, vibrando per l'impatto, il guardiano era già in postazione dietro il suo leggio, le labbra bianche e serrate, fremente di rabbia. L'uomo tenne lo sguardo fisso oltre la soglia, nel calar della sera, ma non apparve nessuno. «Rivelati», affermò freddo, pronunciando ad alta voce ciò che avrebbe potuto far esprimere silenziosamente agli incantesimi guardiani, nella speranza d'impressionare chiunque vi fosse là fuori. Occorreva magia molto potente per forzare la porta della torre, con i suoi glifi intrecciati, gli strati di incantesimi attivi, e le rune incise sugli stipiti e sui cardini. Gli incantesimi non gli rivelarono nulla di magico in agguato nelle vicinanze. Hmmmph; forse quell'elfo altezzoso aveva lasciato dietro di sé una magia e aveva sbagliato i calcoli. Non riusciva proprio a immaginarsi qualcosa di sufficientemente rapido da spalancare un portone e sfuggire alla portata degli incantesimi guardiani... inoltre, una magia tanto potente da forzare una serratura da lontano avrebbe lasciato tracce. Lo stesso sarebbe accaduto per un teletrasporto. Dunque chi... o che cosa... aveva aperto la porta? Mardasper ricorse ai poteri degli incantesimi guardiani per richiudere e sigillare il possente portone, dopodiché lo fissò a lungo, pensoso, senza toccarlo, e mormorò parole che non avrebbe mai pensato di usare... quelle
che obbligavano l'incantesimo guardiano risvegliato a espellere qualsiasi essere in grado di fare magie fosse in contatto con esso. La magia avvampò di fuoco bianco dietro ai suoi occhi, ma non trovò nulla. Se vi erano nemici nelle vicinanze, erano ben celati nella foresta... ... oppure lì, nella torre, già oltre le magie difensive. Mardasper guardò la porta e deglutì, la gola improvvisamente secca. Se Moonshorn ospitava un intruso, egli si era appena sigillato con esso all'interno della torre. Dei del cielo. Forse era ora di guadagnarsi il titolo di Guardiano. Là dentro vi era un mare di magia utile... fraintesa, frammentaria, o dimenticata; armi potenzialmente micidiali che potevano finire in mani sbagliate. «Mystra assistimi», sussurrò, poi aprì la porta che conduceva alla scala principale, e iniziò a salire. La nebbia tintinnava raramente, e molto piano, mentre aleggiava sopra il tavolo disseminato di pergamene, come un'anguilla che si fa strada tra le rocce di un fiume. Talora piombava su una gemma o su un oggetto di filigrana utilizzati da Tabarast e da Beldrune come fermacarte, al che appariva brevemente una fredda luce turchese. Quando il potere assorbito era molto forte, si sollevava turbinante, formando una sorta di fiamma bianca, e scintille ammiccanti mulinavano sopra il tavolo per un breve istante di trionfo. La nebbia impalpabile sfrecciava di gingillo in gingillo, scintillando mentre ne beveva il potere, e diventando sempre più grande. D'un tratto la porta della stanza si aprì, e il Guardiano della Torre vi infilò la testa per guardare; qualcosa là dentro si era appena illuminato, e una lingua di luce bianca era fuoriuscita dalla serratura... Mardasper si fermò sulla soglia e inviò un incantesimo di ricerca per tutta la stanza. La nebbia si dissolse e sprofondò sotto il tavolo, diventando quasi invisibile... e quando l'incantesimo vi passò attraverso, invece di resistere ed essere scoperta, si lasciò disperdere. La magia del custode scandagliò ogni angolo del locale, poi si ritirò; nella sua scia il vento spettrale si ricompose, senza tintinnare nemmeno una volta. Mardasper scrutò la stanza, la fiamma del suo occhio bianco alla ricerca di ciò che non era riuscito a vedere l'incantesimo. Doveva per forza esserci qualcuno o qualcosa là dentro. Il suo occhio la intercettò immediatamente: una brezza che non era tale,
una cosa viva, incorporea. Rapido, Mardasper le sferrò contro una magia atta a bruciare gli esseri spettrali e gassosi. Le fiamme del sortilegio avvamparono, e si udì un urlo di dolore. Ma il Guardiano della Torre era impreparato per ciò che seguì. Invece di dissiparsi, la nebbia si addensò a velocità terrificante a formare una testa e un paio di spalle umane... una testa che era solo occhi e lunghi capelli. Mardasper fece un passo indietro; chi era quella donna fantasma? Alcune dita di fumo fecero gesti complicati, seguiti dalle fiamme della magia del custode, e Mardasper cercò nella sua mente un incantesimo efficace... quel fantasma, che non avrebbe dovuto essere in grado di resistere all'antispettro, stava per sferrare una magia! Un istante più tardi, il viso spettrale della maga iniziò a ridere... una risata acuta e stridula, che quasi si perse nel sibilo assordante della pioggia acida che si riversò sul guardiano... e tra le urla di dolore che precedettero la sua morte. Le ossa fumanti e fuse di Mardasper caddero sul pavimento in un torrente corrosivo che bucò il pavimento. Nella torre si udì allora una risata selvaggia, trionfante e fredda. Alcuni l'avrebbero considerata un grido rauco, ma era passato molto tempo da quando il turbine di nebbia aveva riso ad alta voce, ed era un po' fuori allenamento. 7. ASTENERSI DAGLI INCANTESIMI MORTALI Il male non costituisce alcuna stravaganza per chi serve innanzitutto se stesso. Thaelrythyn di Thay Da Il libro rosso di un mago thayviano Pubblicato approssimativamente nell'Anno della Sella Era una fresca giornata di primavera... la terza stagione da quando due maghi si erano incontrati alla Roccia Spaccata... e il sole si preparava a scomparire in un cielo color rosso intenso. Una torre si stagliava all'orizzonte come un ago indaco, e a ovest comparve un puntino scuro che si avvicinò all'edificio e vi volò intorno a debita distanza.
Due figure sollevarono lo sguardo verso di essa: un tappeto volante, con due umani a bordo, le sagome scure contro il cielo infuocato. «Meraviglioso, non è vero?», mormorò Dasumia, dando le spalle alla torre. Un luccichio verde, che, come El aveva ormai imparato, presagiva pericolo, danzò negli occhi della donna, che scivolò in avanti sui gomiti, il mento fra le mani, e contemplò la torre con aria quasi soddisfatta. «Già, meraviglioso», ribatté El cauto. La maga gli lanciò un'occhiata divertita. Per tutti gli dei, guai in vista; Mystra aiutami. Dasumia indicò la torre e affermò: «Là vive un mago di nome Holivanter. Un tipo allegro; alle bestie che convocò per costruire la torre insegnò ogni sorta di canzoni e filastrocche comiche. Tiene rane parlanti, e ad alcune di esse ha fatto spuntare le ali». Il tappeto eseguì un secondo giro intorno alla guglia fiabesca, che si ergeva armoniosa da un cerchio di mura verdi. Lampade color rubino scintillavano dietro numerose finestre, ma per il resto la torre sembrava tranquilla, quasi deserta. «La dimora di Holivanter... carina, vero?» «Sì, Lady», rispose convinto Elminster. «Uccidilo», sbottò Dasumia. El la guardò attonito. La donna annuì, e indicò l'esile torre con mano imperiosa. Il principe aggrottò la fronte. «Lady, io...» Minuscole fiamme sembrarono scintillare negli occhi di Dasumia quando posò lo sguardo sull'apprendista, sollevando un elegante sopracciglio. «Un amico tuo?» «Non lo conosco», ribatté El sincero. Non vi era alcun modo per avvertire o difendere il mago: era condannato. Perché rischiare, dunque? Dasumia scrollò le spalle, estrasse una bacchetta scura e liscia dal fodero al suo fianco, e la protese con grazia languida. L'aria sembrò addensarsi in una lunga linea retta... ... e la metà superiore della torre di Holivanter esplose con un ruggito, scagliando pietre e detriti nel cielo rossastro. Seguirono lampi più piccoli color porpora, ambra e blu verde, causati dall'esplosione di varie magie contenute nella torre. El osservò la spaventosa conflagrazione e udì l'eco rimbalzare sulle colline circostanti; alcune dita annerite passarono accanto al tappeto in una scia di fuoco: Holivanter era morto. Dasumia si rotolò su un fianco e si sollevò su un braccio, mentre con
l'altro si mise a giocherellare con la bacchetta magica. «Ora dimmi», esclamò con tono che fece trasalire El, «perché mi hai disobbedito. Ti risulta tanto difficile uccidere maghi?» La paura gli attanagliò lo stomaco. «Credo non sia... necessario», rispose il principe scegliendo accuratamente le parole. «Mystra non afferma forse che l'uso della magia dovrebbe essere incoraggiato, e non gelosamente difeso od ostacolato?» Ah, Mystra. Le sue parole l'avevano condotto là, a servire quella donna perfida. Aveva quasi dimenticato che cosa si provava a essere un Eletto della dea, ma nei suoi sogni, El s'inginocchiava spesso e pregava, oppure ripeteva i suoi decreti e suoi consigli, temendo di dimenticarli se non l'avesse fatto. Talora credeva che Lady Dasumia gli sottraesse i ricordi con magie latenti o che glieli offuscasse, al fine di renderlo completamente schiavo. Ma, al di là della vera causa del suo ottenebramento, col passare dei mesi gli risultava sempre più difficile ricordare la vita precedente... Dasumia rise lievemente. «Ah, capisco. I sacerdoti della Signora della Magia affermano ciò per impedirci di uccidere ladri di pergamene... e apprendisti disobbedienti. Io, tuttavia, non vi faccio molto caso, dal momento che tutti i maghi rivali diminuiscono il mio potere; perché dovrei aiutare tali potenziali nemici a sfidarmi? Che cosa ci guadagnerei?» La donna si protese e picchiettò il ginocchio di El con la bacchetta; l'apprendista tentò di non guardare le minuscole luci verdi apparire intorno a essa e percorrerla pigramente su e giù per tutta la lunghezza. «Talora ti vedo pregare Mystra di notte», esclamò la maga. «Tu preghi e la supplichi, ma dimmi: lei ti parla?» «Di questi tempi no», ammise El, con voce bassa, sull'orlo della disperazione. Tutto ciò a cui poteva aggrapparsi erano i suoi piccoli inganni, e se un giorno Dasumia li avesse scoperti... La donna sorrise trionfante. «Eccoti qui... solo, abbandonato a te stesso. Se Mystra fosse interessata ai maghi mortali, guarderebbe i forti prosperare sulla pelle dei deboli. Non lo dimenticare mai, Elminster». Il suo tono si fece più incalzante. «Confido che il tuo lavoro non si sia interrotto in mia assenza», commentò, mettendosi seduta... e puntando la bacchetta contro il viso dell'uomo, come fosse una spada. «Quanti scheletri interi hai preparato?» «Trentasei», rispose Elminster. La maga sollevò nuovamente un sopracciglio, ovviamente impressionata, e si protese, costringendolo a guardarla negli occhi col solo potere della sua presenza. El non tentò di resisterle.
Talora Lady Dasumia era come, come... come Mystra in persona. Com'era possibile, domandò una vocina nelle profondità della sua mente? «Hai lavorato sodo», osservò. «Credevo che avresti trascorso un po' di tempo cercando di spiare nei miei libri e curiosando nella torre. Mi compiaccio con te». El inclinò il capo, e si sforzò affinché il suo volto o la sua voce non tradissero la soddisfazione - e il sollievo - che provava in quel momento. Dunque la maga non aveva scoperto la sua opera di salvataggio. Con i suoi incantesimi, l'obbediente apprendista aveva guarito un servitore e lo aveva spedito in una terra lontana, carico di provviste e bianco per la paura. Dasumia se l'era portato a letto, ma, all'inizio dell'Anno delle Fanciulle della Nebbia, si era stancata di lui e una mattina lo aveva tramutato in un verme gigante e lasciato ad agonizzare, infilzato a uno degli spiedi arrugginiti situati dietro le stalle. Al suo posto, El aveva lasciato il corpo trasformato di un uomo morto di febbre. Forse aveva commesso una pazzia, ma si sentiva in dovere di agire così, per rimediare alla malvagità della sua padrona. Quello non era stato il suo primo inganno... ma avrebbe potuto essere l'ultimo. «La mia onestà è di gran lunga più grande della mia ambizione», rispose con tono grave. La donna assunse nuovamente un'espressione di scherno. «Belle parole», esclamò. «Riesco quasi a credere che tu segua i dettami di Mystra alla lettera». La maga si stirò come un grosso gatto e utilizzò la bacchetta per grattarsi la schiena, portandosi molto vicino a Elminster. «Devi avere molta più pazienza di quanta non ne abbia io», ammise, gli occhi molto scuri e fissi su di lui. «Non potrei mai servire una dea tanto arbitraria». «È permesso chiedervi chi servite, Lady?», chiese El, protendendo le mani in una tacita offerta d'aiuto. La maga si diede un'altra grattatina alla schiena, sorrise, e mise la bacchetta nelle mani dell'apprendista. Due dei suoi anelli luccicarono. Dasumia sorrise. «Un po' più in alto... ah, sììììì». Un sorriso le illuminò il volto mentre El usava cautamente la bacchetta per grattare il punto indicato. La donna tenne lo sguardo fisso sulle mani di El, e gli anelli che un attimo prima avevano brillato, ora emettevano una luce costante. «Non è un segreto», esclamò con indifferenza. «Servo Lord Bane. Il suo dono più prezioso è il fuoco nero che uccide gli intrusi e tiene a bada i maghi più cauti. Sai che c'è uno sciocco elfo che ogni dieci giorni cerca di
spezzare le mie magie difensive con un nuovo incantesimo? Sono già tre stagioni che ci prova, regolare come un calendario; ha iniziato subito dopo che ci siamo incontrati». Sorrise ancora. «Forse desidera prendere il tuo posto. Dovrei ordinarti di sfidarlo?» El allargò le mani e replicò: «Come desiderate Lady. Io preferirei non uccidere nessuno, a meno che non sia strettamente necessario». Dasumia lo fissò a lungo in silenzio, mentre il tappeto volante si allontanava dalle rovine fumanti della torre, e infine mormorò, «Temi di privarmi del piacere offertomi dalla futilità elfa? Non avere paura». Detto ciò, si inginocchiò, prese la bacchetta dalle mani di El, la rinfoderò, e con lo stesso movimento gli afferrò le spalle. Le lunghe dita della donna poggiarono delicatamente su di lui, ma El sapeva che se avesse tentato di muoversi, si sarebbero trasformate in artigli d'acciaio. In tre anni quello era il contatto più ravvicinato che avessero mai avuto. Il principe rimase immobile mentre Dasumia avvicinava il volto fin quasi a toccargli il naso, ed esclamò: «Non muoverti e non parlare». Il suo respiro fu come nebbia calda sulle guance e sul mento di Elminster, e i suoi occhi, grandi e scuri, sembrarono scrutare nelle profondità della sua mente, tra segreti e pensieri. La maga si protese, per un breve istante, e le loro bocche si toccarono. Una lingua imperiosa gli schiuse le labbra... e qualcosa di bruciante, e nel contempo gelido, gli si s'insinuò in bocca, gli discese nella gola e gli serpeggiò nel naso. Un dolore straziante lo pervase. El starnutì ripetutamente, aggrappandosi al tappeto nel tentativo disperato di non cadere nel vuoto, consapevole che il suo intero corpo stava tremando. Iniziò a dimenarsi scompostamente, singhiozzando quando trovava fiato sufficiente per farlo... impotente come un neonato. Una foschia gialla gli fluì davanti agli occhi; il cielo sempre più scuro sopra di lui non smetteva di vorticare, e gli artigli non mollavano la loro presa dolorosa. Per un tempo che gli parve un'eternità, El tossì e lottò contro la nebbia gialla, madido di sudore, finché la fatica gli sottrasse ogni forza: allora rimase immobile, fin quando il dolore non lo abbandonò. Era di nuovo Elminster, ma si sentiva debole come una foglia secca spazzata dal vento. Giaceva supino sul tappeto volante, e l'unica cosa che gli aveva impedito di precipitare durante la sua agonia era stata la presa d'acciaio della maga che serviva, Lady Dasumia.
Ora le sue mani lo avevano lasciato, ed El si passò un braccio sulla fronte, per asciugarsi il sudore. La donna si chinò su di lui nell'oscurità crescente, mentre la brezza scivolava sui loro corpi in quel cielo superbo, e affermò piano: «Hai saggiato il fuoco nero. Fai attenzione, se mai mi tradirai questa è la fine che ti aspetta. Fintanto che adorerai Mystra più di quanto tu non riverisca me, il respiro di Bane sarà per te molto doloroso. Tre apprendisti mi hanno dato un bacio non richiesto; nessuno di loro è sopravvissuto per vantarsene». Elminster la fissò, incapace di parlare. Dasumia lo guardò con occhi infuocati e sorrise lievemente. «La tua lealtà, tuttavia, supera la loro. Dovrai sfidare per me il mio peggiore nemico ed eliminarlo... quando sarai pronto. Prima però devi imparare a uccidere, rapido, senza pensare alle conseguenze. Egli non ti darà tempo di riflettere». Finalmente il principe recuperò le forze per parlare, e con voce rauca ed esitante chiese: «Lady, chi è questo nemico?» «Un mago eletto da Mystra a suo servo personale», rispose la maga, osservando le ultime tracce di luce solare. In quell'istante il tappeto iniziò a scendere. «Per farlo mi ha lasciato, e nonostante non sia stato in grado di seguire l'angusto sentiero preparatogli dalla Signora della Magia e sia ora chiamato l'Eletto Ribelle, non è tornato da me. Hah! Mystra è incapace di ammettere che qualcuno possa cessare di adorarla ciecamente». Con sguardo acceso si voltò verso l'apprendista, e in tono casuale aggiunse: «Si chiama Nadrathen. Tu lo ucciderai per me». L'ultimo principe di Athalantar contemplò il cielo notturno e un brivido gli corse lungo la schiena. I fruscii e i gracidii della notte erano iniziati da un pezzo nel boschetto di hexel, di rovi, e di alberi ad alto fusto nelle vicinanze del castello. Mentre il tappeto volante scendeva verso la più alta delle torri nere, un paio di occhi carichi di rabbia sbirciarono attraverso la corteccia fessurata di un tronco colpito da un fulmine. «I tuoi incantesimi guardiani potranno placare le mie orecchie, fiera Signora, ma i miei incantesimi funzionano bene quando siete fuori casa. Non contate troppo sul vostro apprendista. La sua vita è mia». L'elfo rimase a fissare la torre più alta del castello anche dopo che il tappeto fu scomparso, finché il suo sguardo non divenne improvvisamente più calmo, e la furia si tramutò in meditazione. «Mi domando se sia sopravvissuto qualcosa nella torre di quel mago?», chiese rivolto alla notte. «Un'oc-
chiata vale la pena del viaggio...» Un bagliore scuro si accese e svanì come fumo. Il castello di Dasumia si ergeva nel cielo sopra di loro, i bastioni scuri e inaccessibili. Tabarast guardò il tappeto scomparire nel cuore dell'edificio dalle molte torri e grugnì. «Bene, è stato eccitante», affermò. «Un'altra giornata di progresso dell'Arte, devo dire». Beldrune sollevò lo sguardo dalla tazza di zuppa riscaldata magicamente che stava cullando fra le mani, e parlò in tono piuttosto aspro. «Ogni tanto la mia memoria vacilla, stimato Baerast, ma eravamo, o no, d'accordo di non lamentarci più del tempo e delle opportunità perduti? La nostra missione è, e rimane, chiara. Questo Viaggiatore Solitario potrà anche essere un idiota, ma lui, e ciò che sceglie di fare, costituiscono gli sviluppi più importanti nell'Arte di tutta Toril. Penso che possiamo permetterci di obbedire ai dettami di una dea... la dea... e perdere qualche anno di studio di scritti impolverati e sbiaditi, nella speranza di trovare un nuovo modo di evocare luci fluttuanti». Tabarast si limitò a grugnire in tacito assenso. Alcune luci si accesero in alto nelle torri del castello di Dasumia, e attorno a loro ricominciarono i rumori notturni; i due rimasero a lungo in silenzio, accovacciati su piccoli sgabelli al margine della siepe che delimitava il confine del campo coltivato più vicino all'edificio, finché Beldrune non mormorò: «Mardasper ci avrà ormai dati per morti». Il mago calvo scrollò le spalle e rispose: «Custodisce Moonshorn Tower, non noi». «Hmmph. Ti ha mai raccontato del suo occhio?» «Sì. Una sorta di maledizione... perse un duello magico, e la sua mansione di custode costituisce il pagamento affinché i sacerdoti dei Misteri rompano quell'incantesimo. Un altro povero mago indotto a servire la Signora che governa tutti noi». Beldrune sollevò il capo. «La fede di Tabarast delle Tre Maledizioni Cantate vacilla? Le grazie divine di Mystra perdono il loro fascino dopo tutti questi anni?» «Naturalmente no», sbottò il collega. «Me ne starei seduto qui in quest'umidità se così fosse?» Aprì col pollice il coperchio della tazza, ne bevve un lungo sorso, e sollevò lo sguardo verso il castello, in tempo per vedere una delle luci spegnersi. Rimasero seduti ancora per un po', fino a svuotare le tazze, ma non ac-
cadde nient'altro. Il castello, a quanto pareva, era addormentato. Tabarast distolse lo sguardo dalle torri e sospirò. «Ciononostante, siamo tutti pedine della Signora che custodisce il Tessuto... non è vero? Ciò che conta è non illudersi di esser liberi». «Be', io sono libero», sbottò Beldrune, seccato. «Per la miseria, Tabarst, tieni per te queste idee balzane, e lascia che regolino le tue giornate, se vuoi, ma per favore lasciami fuori dalla storia dei "burattini". Vivrai più a lungo se riconoscerai che anche altri maghi se la sono cavata». Tabarast si voltò a fissare il mago più giovane con uno sguardo saggio e tagliente. «Quali altri maghi?» «Oh, quelli che incontri», borbottò Beldrune. «Tutti quanti». Lontano dalle torri che Tabarast e Beldrune stavano sorvegliando, e ancor più distante dalla torre distrutta e fumante che era stata la dimora di Holivanter, la torre di un altro mago si stagliava nel cielo notturno. Era un modesto edificio di pietra grezza, costellato di finestrelle, dalle quali pendevano piccole serre di erbe. La costruzione si ergeva solitaria in una terra selvaggia, priva di villaggi o di strade fangose. I cervi pascolavano tranquilli fin sotto la sua porta... finché una nebbia non si addensò sopra di loro, e le bestiole caddero nell'oblio, tramutandosi ben presto in un mucchio d'ossa. Quando non vi furono più testimoni, il turbine gelido e tintinnante si avvicinò alla torre e iniziò a risalirla. S'inerpicò fra edere e rose in un tetro silenzio, poi si addensò a formare una sorta di serpente sinuoso... e si infilò nella fessura di una persiana a metà torre, riversandosi all'interno, nelle tenebre. Nella seconda stanza buia il vento ululò mentre assorbiva potenza dai libri e dalle pergamene disseminati sui tavoli impolverati... divenendo una creatura impalpabile dai molti artigli e dalle molte mandibole; poi iniziò a salire la scala a chiocciola al centro della torre, sempre più in alto. In cima all'edificio le scale erano illuminate dai riflessi di una candela accesa oltre una porta sgangherata, e una voce vecchia e rauca stava parlando, da sola, inconsapevole del pericolo in agguato. Al centro di un simbolo di gesso contornato da numerose candele, un uomo anziano, vestito con una tunica rattoppata, era inginocchiato davanti alla riproduzione di una mano con l'indice proteso. Un bagliore blu avvolgeva la mano, che, insieme al simbolo, era opera del mago, da tempo rinchiuso nella sua torre.
«Per anni ho servito te e la Grande Signora», pregò il vecchio. «Sono in grado di annientare le cose con incantesimi o di crearle dal nulla. Tuttavia non conosco il mondo al di fuori di queste mura e necessito della tua guida, o Azuth. Ascoltami, Eccelso, e dimmi, ti prego: a chi devo trasmettere la mia magia?» L'ultima sua parola sembrò echeggiare, come da una parete all'altra di un grande abisso, e, d'un tratto, il bagliore blu divenne quasi accecante. Poi si spense completamente quando un vento si sollevò dal pavimento, soffiando dalla mano di gesso; le candele avvamparono selvaggiamente, sputarono fiamme, e si spensero a loro volta, e dall'oscurità si levò una voce, profonda e nel contempo fredda: «Fai attenzione, fedele Yintras, poiché il pericolo ti è molto vicino. Io trarrò a me la tua Arte nel momento del tuo trapasso... non preoccuparti». Si udì un potente crepitio e una sorta di canto, e il vento avvolse il mago conferendogli vigore e calore. Con un'agilità che da anni sognava, il vecchio balzò in piedi, sollevò le mani, guardò meravigliato le minuscole luci crepitare da un braccio all'altro, e le lacrime gli annebbiarono gli occhi. «Signore», esclamò con voce rauca, «non merito un tale aiuto. Io...» Dietro di lui, la porta della stanza degli incantesimi si spaccò dall'alto in basso, cigolando di protesta quando una decina di artigli la squarciarono. Qualcosa di evanescente apparve in cima alle scale... qualcosa di grosso, di minaccioso, e tuttavia di indistinto: una creatura piena di tentacoli, dalle mandibole uncinate avanzò minacciosa e letale nella stanza degli incantesimi. Yintras Bedelmrin osservò la morte venirgli incontro, fluttuare sopra incantesimi protettivi che avrebbero bruciato chiunque al minimo contatto, e deglutì tremante. Un fulmine gli percorse il corpo, come per confortarlo, e improvvisamente Yintras gettò il capo all'indietro, fece un respiro profondo e parlò con voce alta e imperiosa. «Sono protetto da Azuth stesso, e non temo alcuna entità. Vattene, qualsiasi cosa tu sia. Vattene di qui, per sempre!» Il vecchio mago avanzò verso la creatura. La luminosità spettrale si sollevò in un imponente muro di artigli e di tentacoli guizzanti... ma nel contempo vacillò, tremò, e si oscurò, mentre buchi sempre più larghi si aprirono dentro di essa. Con rapidità terrificante la creatura si sollevò fin quasi al soffitto, torreggiando sopra l'anziano mago dalla tunica rattoppata; Yintras rimase immobile a fissarla, non sapendo che altro fare.
Un atteggiamento fatale per un avventuriero, lo stesso per un mago. Dentro di sé iniziò a tremare, sapendo che la morte avrebbe potuto coglierlo in ogni momento, inorridito dalla sua incapacità di sfuggirle... sarebbe bastato fare la cosa giusta, o perlomeno qualcosa. Numerosi artigli si gettarono su di lui in un terribile attacco, che gli impedì di notare un tentacolo serpeggiare nell'oscurità, e aggirarlo per colpire da dietro. D'un tratto un fulmine crepitò, si agitò incandescente nell'aria della stanza e poi svanì, lasciando una nebbia grigia debolmente tremolante a strisciare e contorcersi davanti alla porta. Quando riacquistò la vista, Yintras respirò profondamente e fece una delle cose più coraggiose e insensate di tutta la sua vita: si mosse verso la nebbia, ridacchiò, poi avanzò ancora, sollevando le braccia nonostante l'assenza dei fulmini o di qualsiasi sensazione di potere dentro di lui. La nebbia si compattò per dargli battaglia, formando in una massa piccola ma solida, come uno scudo dai contorni indefiniti. Il vecchio mago fece un altro passo avanti, e la strana foschia sembrò tremare. Yintras allungò una mano come per afferrarla, ma con una ventata d'aria gelida e tintinnante, la nebbia turbinò rapida fuori dalla porta, lasciando nella sua scia un ringhio sinistro. Il vecchio la guardò allontanarsi e fissò il vuoto davanti a sé. Quando si rese conto che era davvero scomparsa, s'inginocchiò nuovamente per ringraziare gli dei, ma tutto ciò che gli uscì dalla bocca furono singhiozzi irrefrenabili. Strisciò sulle ginocchia cercando di pronunciare il nome di Azuth, poi s'irrigidì sorpreso: là dove le sue lacrime erano cadute sul pavimento si accesero altrettante candele. «Azuth», riuscì finalmente a sussurrare. «Ti ringrazio!» Le candele si spensero contemporaneamente, poi arsero di nuovo. Yintras si portò al centro del cerchio, commosso e riconoscente; la gioia si mescolò alla tristezza, il mago si era completamente svuotato, e dopo aver toccato il gesso che una volta era stato una mano dal dito puntato, iniziò a piangere come un bambino. 8. IL TRONO CONTESO Un trono è un bottino ambito da molti individui meschini e crudeli.
Nelle chiare mattine, tuttavia, non è altro che una sedia. Ralderick Hallowshaw, Giullare Da Governare un regno, dalle torri ai letamai Pubblicato approssimativamente nell'Anno dell'Uccello Sanguinario Un'ombra oscurò le pagine che Elminster stava sfogliando, ma il giovane non dovette nemmeno alzare lo sguardo per sapere chi fosse. Poi una treccia di capelli corvini e lucidi strisciò su annotazioni e schizzi sbiaditi. «Apprendista», gli sussurrò Dasumia all'orecchio, con un tono gentile e melodioso che lo fece inquietare, «prendi l'Orbrum, il Prospaer sugli Orrori Ignoti, e il Tomo dai Tre Lucchetti dal mio comodino nella Stanza Blu, e portameli nella Sala del Balcone. Spogliati di qualsiasi oggetto che possieda la minima magia, a rischio della tua vita». «Sì, Signora», mormorò El, fissandola negli occhi. La donna aveva un aspetto insolitamente triste, ma i suoi occhi non mostrarono alcun segno di rabbia o di malizia, quando si diresse verso una porta che veniva aperta raramente, la oltrepassò, e la richiuse dietro di sé. Quando udì il rumore secco della serratura, Elminster si rese conto che non le aveva domandato come avrebbe dovuto comportarsi col guardiano della Stanza Blu. Poteva facilmente rompere il lucchetto incantato... era forse una prova?... ma il guardiano doveva essere ucciso se voleva compiere la missione e rimanere vivo. Ma se l'avesse fatto, gli aveva spiegato una volta la maga, piccoli esseri maligni sarebbero usciti dagli specchi, dalle sfere e dai libri disseminati nel castello, e avrebbero imperversato per mesi prima di poter essere catturati e ridotti nuovamente all'obbedienza. Mesi di tempo perduto che Dasumia gli avrebbe fatto pagare con un tormento della medesima durata... ed Elminster aveva già assaggiato le punizioni della maga. La sua favorita sembrava essere quella di costringerlo a portarle oggetti camminando a carponi, con le mani e le ginocchia a pezzi, in modo che ogni movimento gli procurasse un dolore straziante; talora, invece - specialmente in quegli ultimi giorni di primavera dell'Anno delle Fanciulle della Nebbia - la donna preferiva legarlo con una cinghia guaritrice per poi colpirlo ripetutamente con una spada sottile dalla punta avvelenata e dalla lama munita di spine, lunga quanto il suo avambraccio, e immersa nell'acido. Dasumia sembrava godere delle sue urla.
Tali riflessioni durarono solo per i pochi secondi che gli occorsero per attraversare la stanza e aprire la porta da cui era appena uscita la maga, dietro la quale si apriva la Galleria Lunga, un passaggio costellato da un'alternarsi di quadri e di finestre ovali. Si trattava di una passerella volante, chiusa, che collegava le torri più alte del castello, che attraversava un cortile di ciottoli a un'altezza pari a quella di venti uomini. Da quando due exapprendisti della Signora l'avevano eletta quale luogo perfetto per un duello e si erano uccisi a vicenda in una tempesta di fiamme magiche, che aveva minacciato entrambe le torri, Dasumia aveva reso la Galleria una zona franca per qualsiasi magia: la sua aria estingueva e soffocava tutti gli incantesimi. El aprì la porta, schiuse le labbra per parlare... e fissò in silenzio la Galleria vuota e scura. Anche se fosse stata tanto veloce quanto il più rapido messaggero del Calishite, avrebbe potuto arrivare solo a metà corridoio, ma forse aveva eliminato l'effetto dell'antimagia e si era scordata di informarlo. Forse... El corrugò le fronte ed evocò una luce a metà corridoio. Eseguì l'incantesimo alla perfezione... ma non apparve alcuna fonte luminosa, perciò la Galleria doveva essere ancora protetta dalla magia. Ma non vi erano tracce di Dasumia; El voltò le spalle alla porta e assunse un'espressione pensierosa. Il guardiano della Stanza Blu, un piccolo e irrequieto vortice irascibile dalle tre code uncinate, e dai molti artigli, venne imprigionato in un labirinto magico per una manciata di secondi, ed El ebbe il tempo di entrare e uscire dalla stanza, di richiudere la porta dietro di sé, e di raggiungere il corridoio con i libri sotto braccio, prima che la creatura si liberasse con un sibilo furioso. Due volte le ragnatele gli sfiorarono il viso nella Galleria, confermandogli che la Signora non l'aveva percorsa di recente... né tanto meno qualche minuto prima. Le porte erano aperte, e dalla Sala del Balcone fuoriusciva un fumo cosparso di stelle; Dasumia aveva creato uno scudo magico per proteggere il castello, forse aveva intenzione di metterlo alla prova, o di sfidarlo seriamente. El entrò nella stanza con i libri impilati davanti a sé, e mormorò: «Sono arrivato, Signora». I libri si sollevarono dalle sue braccia tese e fluttuarono verso il balcone. «Sbarra le porte, apprendista», esclamò Dasumia da lassù.
El sollevò lo sguardo e nel contempo si voltò verso le porte; la maga indossava una maschera e i capelli le si agitavano attorno alle spalle come fossero mossi dal vento. Sopra e dietro di lei fluttuavano sfere magiche; in una di esse erano contenuti gran parte dei suoi gioielli, mentre l'altra si accingeva ad avvolgere i libri. Nella stanza stava per essere sferrata una magia potente. Elminster appose la barra alla porta e ne assicurò le catene senza fretta, dandole il tempo di cui necessitava per finire di prepararsi. Quando si affronta una maga che ti può distruggere a suo piacimento, è bene non darle alcun motivo di irritazione. Voltatosi, El vide una fila di luci attorno alla balaustra del balcone, ma non Dasumia, che doveva essere da qualche parte sopra di lui. «È ormai ora che io ti metta alla prova, Elminster. Difenditi come puoi... e colpisci per uccidere, non gentilmente come tuo solito». Una luce improvvisa avvampò sopra la sua testa, bianca e bruciante, proveniente dal volto, dal corpo, e dalle mani a coppa della maestra. Era venuta a conoscenza dei suoi inganni? Avrebbe avuto tempo di apprenderlo più tardi... sempreché fosse sopravvissuto. El creò un vortice per imprigionare la luce e respingerla al mittente, ma si tuffò di lato quando la furia della maga si rivelò troppo potente per le sue difese, e distrusse il vortice con una forte esplosione. El afferrò un fuoco generato dalla conflagrazione e lo lanciò in alto verso Dasumia, nella speranza di rovinare il prossimo sortilegio. Il fuoco tremolò mentre ricadeva lontano, ma il suo breve bagliore gli mostrò la maga immobile come un palo, avvolta da fasce di magia argentea in rapido movimento... fasce che divennero catene sferzanti dirette verso di lui. Elminster saltellò per la stanza per guadagnare un po' di tempo, poi unì le mani, e causò un'esplosione magica che le mandò in frantumi. La sua nuova posizione gli permise di indirizzare il fuoco inutilizzato dell'incantesimo verso il balcone, ma si domandò per quanto tempo la sua decina di magie difensive sarebbe riuscita a contrastare l'immensa potenza della maga. Questa volta, il fuoco la colpì; El udì un grido sommesso e la vide gettare la testa all'indietro, in un gran turbinio di capelli, nel momento in cui il suo scudo magico vacillò sotto l'assalto violento del sortilegio. Poi intravide lo scintillio del suo sorriso, e sentì il primo brivido di paura. La maga aveva intenzione di fare sul serio, e prima o poi l'avrebbe sconfitto.
Fulmini purpurei scaturirono dal vuoto buio della balaustra, e sfrecciarono nella Sala, rimbalzando in ogni dove. Elminster creò un rapido scudo protettivo ma sentì un dolore bruciante sopra un gomito, e alla coscia opposta... e cadde pesantemente sul pavimento di pietra, mordendosi la lingua mentre soffocava un urlo. Il suo corpo rimbalzò e si contorse impotente quando un altro fulmine lo attraversò, togliendogli il respiro. Ma, forse, non tutto era perduto: i resti della sua armatura potevano essere usati per respingere i fulmini... poiché la donna non avrebbe perso tempo a creare un altro scudo per sé. El strisciò e si rotolò, alla cieca e ancora in preda agli spasmi, in attesa che le membra gli obbedissero di nuovo. Un sibilo acuto proprio sopra la sua testa gli confermò che la sua armatura magica era in parte sopravvissuta... e poteva deviare abbastanza efficacemente i fulmini. El fece sì che si abbassasse fin sopra la sua testa per spezzare il fulmine che lo stava tenendo prigioniero, poi la spostò da parte, rotolandosi per rimanere nella sua ombra. I fulmini gli lambirono un piede per un istante, dopodiché fu nuovamente libero. Mentre mormorava un incantesimo per ampliare e rendere più duratura la sua difesa, Elminster si accovacciò a guardare le ultime saette vagare nella Sala. Gli occorsero pochi istanti per deviarle, raggrupparle tutte nella sua armatura e respingerle contro il balcone, che tremò per il breve istante che precedette la loro distruzione a opera di Dasumia. Questa creò allora un muro di polvere verde che Elminster aveva già visto prima d'allora: era effimero e instabile, ma trasformava in pietra qualsiasi essere vivente toccasse. L'apprendista generò a sua volta un muro di forza, curvandolo come una mano a coppa per raccogliere la polvere e rimandarla al mittente. Mentre la sua "mano" si muoveva in una direzione, El trotterellò in un'altra, scagliando proiettili magici verso il punto in cui doveva essere acquattata la donna, per impedirle di muoversi. Un istante più tardi, la nuvola verde si riversò sul balcone: Dasumia non ebbe il tempo di fuggire, ed El ebbe la soddisfazione di vederla impietrire. Pochi secondi dopo il giovane si mise a urlare di dolore, quando numerose lame affilate si materializzarono dappertutto. Si gettò sul pavimento e rotolò, proteggendosi il viso e la gola con le braccia, mentre richiamava il suo scudo protettivo, che discese dal balcone come un falco in picchiata per difenderlo dal nuovo attacco. Lo stridore che udì sopra la testa gli indicò che la tattica aveva funziona-
to; El pronunciò affannato uno dei suoi due incantesimi dissipatori per liberare l'aria dalle lame metalliche affilate, ma sgranò gli occhi per la sorpresa quando, scomparse le spade, apparve un serpente d'energia scintillante, che subito attaccò il suo muro di forza fino a distruggerlo. Mentre ne schivava gli attacchi, l'apprendista alzò lo sguardo verso Dasumia, ancora immobile sul balcone con una mano alzata: non si era spostata di un centimetro. Gli incantesimi che si stavano abbattendo su di lui dovevano essere collegati, in modo che la distruzione di uno ne innescasse un altro! Nel suo stato pietrificato, la maga si rendeva conto di ciò che accadeva intorno a lei? Riusciva ancora a esercitare un controllo sulle sue magie? El evitò un attacco del serpente d'energia, che colpì il pavimento tanto vicino da intorpidirgli braccio e spalla, poi scattò verso le scale del balcone; questo però lo seguì, attorcigliandosi come un vero rettile. Il mago salì i larghi scalini a tre a tre, e riuscì a gettarsi dietro i piedi immobili di Dasumia prima che il serpente lo trovasse; questo si abbatté accanto al suo volto, e la violenza del colpo sollevò ciò che rimaneva del pulviscolo verde. El si sentì intorpidire lentamente, riuscì a cingere le gambe della maga con un braccio, mentre il serpente si agitava nell'aria senza colpire, e, d'un tratto, scoprì di non essere più in grado di muoversi. La frusta-serpente si dileguò in granelli di luce evanescente, e la Sala del Balcone piombò per un istante in una tranquilla oscurità. «Se le mie ginocchia si congeleranno in futuro, saprò chi chiamare», esclamò una voce familiare poco sopra la testa di Elminster, ed egli si accasciò alle caviglie di Dasumia, sul pavimento del balcone, quando le sue membra vennero bruscamente liberate. La donna si allontanò da lui, si voltò con le mani sui fianchi, e guardò in basso. I loro sguardi s'incrociarono. Gli occhi della maga erano colmi di soddisfazione e di compiacimento. «Sei sufficientemente pronto per entrare in azione», esclamò. «Ora va', e dormi. Quando sarai riposato, sarà ora di un duello serio, in un altro luogo». «Signora», chiese Elminster rimettendosi in piedi, «è permesso domandare con chi dovrei battermi?» Dasumia sorrise e, con un dito affusolato, gli sfiorò la gola. «Sfiderai per me Nadrathen, l'Eletto Ribelle», rispose allegramente. L'Unicorno Purpureo sventolava sopra le porte di Nethrar e sul cancello arcuato del palazzo centrale, indicando a tutti i cittadini di Galadorna che il
re era ancora vivo. Mentre le ore della luminosa giornata estiva trascorrevano lente, molti volsero ripetutamente lo sguardo a quegli stendardi, cercando di scoprire se il Trono dell'Unicorno fosse ancora nelle stesse mani. Da più di una stagione, Re Baerimgrim, anziano e senza figli, era ormai moribondo. Era sopravvissuto al feroce attacco del drago verde Arlavaunta solo grazie alla sua grande forza e alla magia del Mago di Corte Ilgrist, ma non era più in grado di procreare, nemmeno con l'ausilio della magia, ed era costantemente tormentato da dolori. Da quando Baerimgrim era caduto vittima della disgrazia, Galadorna era in balia delle scaramucce e delle cattiverie dei cinque baroni, tutti desiderosi di prendere il suo posto. Tutti e cinque avevano legami di sangue con il trono, accampavano diritti legittimi sul regno... ed erano odiati e temuti dai galadorniani. Quel giorno, nel Palazzo dell'Unicorno, la tensione si poteva tagliare col coltello... e i coltelli non mancavano nelle sue sale ombrose, tappezzate di arazzi. Si mormorava che il re non avrebbe visto il tramonto. Baerimgrim era stato adagiato sul trono e legato in posizione dai servi, una severa determinazione in volto e la corona cascante sulla fronte. Il mago Ilgrist era di guardia accanto a lui, come un'ombra alta, onnipresente, gli abiti scuri sovrastati dal mantello con gli unicorni purpurei, e non permetteva a nessuno di sistemargli la corona o di avvicinarsi troppo. Tali precauzioni erano tutt'altro che inutili. Quel giorno i cinque baroni si aggiravano nel palazzo come avvoltoi in attesa; Ilgrist aveva chiesto al più vecchio e il più rispettoso di loro, il gigante barbuto che i suoi uomini chiamavano l'Orso, di rinforzare la difesa del trono con sette dei suoi migliori soldati, e il Barone Belundrar aveva obbedito. Ora stava guardando le tre porte della stanza del trono, le mani irsute incollate all'elsa dei numerosi pugnali alla cintola, e i suoi, che a loro volta fissavano impassibili le truppe, di gran lunga più numerose, del Barone Hothal; quest'ultimo era venuto a corte con la corazza da guerra, armato fino ai denti. Tra i galadorniani correva voce che non se la togliesse mai, se non per indossarne una più nuova e robusta. Vi erano anche altri soldati, privi di armatura; e a disagio come granchi senza guscio tra tutti gli altri guerrieri pronti alla battaglia. Alcuni di loro indossavano le tuniche purpuree del Barone Maethor, il soave e sempre sorridente maestro dai mille intrighi. Venivano sovente definiti gli «avvelenatori purpurei», e non senza motivo. Altri servitori - alcuni dei quali avevano tutta l'aria di essere mercenari stranieri - indossavano gii abiti scar-
latti del Barone Feldrin, il truffatore irrequieto che, a quanto pareva, faceva apparire monete d'oro tra le dita ogni volta che allungava le mani per prendere le cose... e le sue mani si protendevano alquanto spesso. Tra quel nutrito gruppo di losche figure non potevano mancare gli altezzosi maghi e gli scagnozzi del barone, che alcuni a corte consideravano la minaccia più pericolosa per la libertà di cui godevano i galdorniani: Tholone, l'aspirante mago sfregiato, nonché maestro di spada, che si faceva chiamare "Signore" anziché Barone, e che aveva ampiamente ignorato i decreti e gli ordini del Trono dell'Unicorno per quasi dieci anni. Alcuni sostenevano che Arlavaunta era stato indotto ad attaccare il re proprio dai suoi incantesimi, in quanto, il giorno dell'assalto, Baerimgrim e numerosi cavalieri armati si stavano recando da Tholone per esigere da lui rinnovata fedeltà, e il pagamento di alcune tasse arretrate. «Uno stormo di avvoltoi», mormorò il re, guardando i lacchè in livrea riversarsi nella stanza del trono. «Vorrei che nessuno di loro assistesse alla mia morte». Il Mago di Corte Ilgrist sorrise lievemente e rispose: «Vostra Maestà ha ragione». Fece un breve gesto con la mano a una delle guardie del trono, che quel giorno sorvegliava i balconi, affinché si assicurasse che nessun arciere baronale risalisse per caso le scale posteriori al fine di avere una vista migliore. L'ufficiale annuì e inviò tre guardie giù per le scale, una di esse con un corno, e le altre due con lo stendardo dell'Unicorno Purpureo. Quando lo stendardo fu infine depositato ai piedi del re, la guardia col corno suonò una singola nota, per decretare l'apertura delle udienze. Nella sala vi erano anche alcuni borghesi - individui che tenevano sempre d'occhio il re, e che non si sarebbero persi, per nulla al mondo, il pericolo e l'eccitazione che si prospettava quel giorno - ma nessuno di loro osò farsi avanti fra i numerosi uomini dei baroni. Di fronte al trono c'era un semicerchio di soldati che si guardavano intorno con occhi truci, le mani pronte sull'elsa dei pugnali semi sguainati; se ne avesse avuta la forza, Re Baerimgrim si sarebbe alzato e si sarebbe aggirato, beffardo, tra loro presentandoli l'uno l'altro. Data la situazione, poteva solo rimanere seduto e attendere di vedere quale dei cinque avvoltoi sarebbe stato il più sfacciato. La guerra si sarebbe scatenata indipendentemente da quanto avrebbero deciso quel giorno in quella sala... ma poteva rendere un ultimo servizio a Galadorna e lasciare il trono in mani il più possibile sicure, al fine di ridurre al minimo lo spargimento di sangue.
L'Orso sarebbe stato dalla sua parte, se ce ne fosse stato bisogno. Non lo stimava, ma tra tutti era il migliore. Credeva nelle leggi e nella necessità di agire con giustizia... ma chi gli garantiva che sarebbe stato un buon sovrano? Era difficile stabilire quale fosse la minaccia più insidiosa: i maghetti allo sbaraglio di Tholone, le spie e i veleni di Maethor, o i bruti scagnozzi di Hothal. E quale sorta di mercenari aveva assoldato Feldrin con il suo oro... appoggiava forse uno degli altri baroni? Oppure stava tramando con i Signori di Laothkund o con altri avidi stranieri? Finalmente un giovane dalla barba nera e dalla livrea verde e argento di Hothal si fece strada fra i guerrieri e si diresse verso Baerimgrim. Era uno dei pochi che non erano venuti a corte bardati per la guerra. Il delegato si inchinò davanti al trono ed esclamò, «Vostra Maestà, tutto il regno è addolorato per la vostra condizione. Lord Hothal è preoccupato per la vostra sorte, ma anche per il futuro di Galadorna, se il Trono dell'Unicorno dovesse rimanere vuoto... o peggio, se dovesse accogliere qualcuno la cui malizia o la cui ignoranza potrebbero condurre il regno in rovina». «Comprendo perfettamente le vostre preoccupazioni, signore», rispose il re, con una voce rauca che suscitò risate sommesse in tutta la sala. «Avete soluzioni da proporre?» Il rappresentante, rosso in volto, rispose bruscamente: «Sì, Maestà. Parlo per conto di Hothal, Barone di Galadorna, il quale domanda il permesso di accedere al trono in questo tempo di pace»... alzò la voce per sovrastare gli schiamazzi di derisione e di contestazione che si levarono nella sala... «nel pieno rispetto dei diritti e dei desideri di altri. Il mio signore crede di meritare tale onore; è stato molto diligente nei confronti di Galadorna e mi ha pregato di rivelare una cosa: con la promessa di garantire pace e giustizia al regno, egli si è procurato il pieno sostegno del potente signor Feldrin, Barone di Galadorna, come egli stesso può confermare». Tutti gli occhi si posarono su Feldrin, il quale sfoggiò il suo solito sorriso sornione, e senza incontrare lo sguardo di alcuno, annuì lentamente. «Inoltre», continuò il delegato, «il mio signore ha parlato con i nemici del regno, affinché essi rispettino i nostri confini e stiano alla larga dalle nostre ricchezze, e Galadorna rimanga libera e prosperosa, senza la minaccia di guerre imminenti. In cambio di prezzi favorevoli sull'argento e sul ferro delle nostre miniere, i Signori di Laothkund hanno accettato di firmare un trattato di pace e di rispetto reciproco».
Urla di rabbia, imprecazioni e mormorii di sorpresa crearono un tale frastuono nella sala che il giovane barbuto fu costretto al silenzio per qualche istante, prima di aggiungere: «Lord Hothal asserisce che, dal momento che comanda una forza in grado di mantenere l'ordine e la prosperità nel regno, la corona dovrebbe passare a lui, e... per il bene di Galadorna... il suo governo dovrebbe essere legittimato da voi, Vostra Maestà». Si udì un altro vocio, soffocato immediatamente dal profondo brontolio del Barone Belundrar, che in un attimo si portò di fianco al trono. Con ovvia riluttanza nella voce e rabbia negli occhi, affermò, «Condivido la collera dei presenti sul fatto che un galadorniano abbia tramato in segreto con i lupi di Laothkund. Tuttavia...» Fece una pausa e scrutò la stanza con lo sguardo, gli occhi verdi e feroci sotto le sopracciglia folte e nere, il naso ammaccato e prominente come una spada sguainata, dopodiché riprese: «Tuttavia sosterrò la richiesta di Hothal, per quanto scaltra possa sembrare, a patto che osservi leggi e diritti. Il regno deve essere governato dal più forte... e non deve diventare terreno di faide, di intrighi e di esecuzioni». Quando l'Orso fece un passo indietro per meglio sorvegliare ancora una volta tutte le porte, nella sala si levò un mormorio di approvazione... ma un altro barone avanzò e zittì la folla: «Un momento, impavido Belundrar! Parlate come se non vedeste alternative accettabili a ciò che ammettete essere una macchinazione. Be', allora ascoltatemi, vi farò un'offerta priva di rischi». Lord Tholone ignorò il ringhio istintivo di Belundrar e continuò, girando lentamente su se stesso con le mani allargate, per contemplare i presenti. «Avete udito preoccupazioni molto sincere per la sicurezza del nostro amato regno. Condivido l'amore per Galadorna e l'angoscia per la nostra sicurezza, ma a differenza di altri non ho avviato losche trattative, ho radunato i migliori maghi presenti da questo lato del mare!» Molti guerrieri sbuffarono e sputarono in segno del disgusto e della diffidenza che provavano per i maghi... per di più stranieri. Tholone, allora, alzò la voce e continuò risoluto: «Solo i miei maghi possono garantire la pace e la prosperità auspicata da tutti. A coloro che diffidano della magia, domando: se desiderate realmente la pace, perché assoldare e tramare con guerrieri assetati di battaglie? Galadorna non dev'essere governata da signori sanguinari». Fece una pausa per dare spazio ai mormorii di assenso, ma non udì alcun commento, perciò aggiunse rapido: «Comando magia sufficiente a rendere
Galadorna non solo un regno sicuro, ma anche grandioso... e per trattare con i traditori che, in questa stanza, progettano di anteporre i propri interessi alla sicurezza e alla ricostruzione del Regno dell'Unicorno Purpureo». «Bah! Non vogliamo un regno governato da stregoni perversi!», gridò qualcuno tra la calca di uomini armati intorno al Barone Hothal, e numerose voci gli fecero eco con tono rabbioso: «Stregoni perversi!» Il re e il mago di corte, alle sue spalle, si scambiarono occhiate di mesto divertimento. D'un tratto, tra i soldati, che già avevano estratto i pugnali scintillanti, piombò nuovamente il silenzio. Il più attraente dei baroni di Galadorna si era fatto strada tra la folla, il sorriso che troppo spesso stregava le donne del regno, scintillante come una spada abile e aggraziata. Il Barone Maethor avrebbe potuto benissimo essere un principe della corona, tanto eleganti erano i suoi abiti, tanto perfetta era la sua chioma castana, e tanto sicure erano le sue maniere. «Sono addolorato, popolo di Galadorna», affermò, «nel vedere tale rabbia e tali palesi illegalità in questa sala. La spavalderia di coloro che si aggirano con le armi spianate, e la volontà spietata di usarle sono proprio ciò che dev'essere fermato, se desideriamo evitare che un regno tanto amato si trasformi in... una terra indegna di essere salvata o abitata, o in un altro dei tanti covi dei signori della guerra». Si voltò con un gran turbinio di abiti, tutti gli occhi puntati su di lui, e aggiunse: «Perciò, il mio dovere verso il regno è evidente. Sosterrò Lord Tholone...» Si udì un mormorio di sorpresa, e persino Tholone rimase a bocca aperta. Maethor e Tholone erano considerati da molti i due baroni più forti, e tutti nel regno sapevano che erano tutt'altro che amici. «... l'unico uomo tra noi che può impedirlo. Stanotte voglio coricarmi sapendo di aver fatto del mio meglio per Galadorna... e questo può accadere soltanto se Lord Tholone conferirà di buon grado al più affidabile di tutti noi, il buon Barone Belundrar, l'incarico di siniscalco di Nethrar, quale unico responsabile della giustizia del regno». A quel punto si levò un mormorio d'approvazione; Belundrar lanciò a Maethor una breve occhiata. Non per nulla il giovane barone era chiamato «l'Eloquente Avvelenatore di Galadorna». Che cosa stava tramando? Maethor fece a tutti un ultimo sorriso e rientrò rapidamente nel cerchio protettivo dei suoi eleganti assistenti vestiti di seta e pelle, con i pugnali, non poi tanto nascosti, infilati nei polsini orlati di trine. A quell'offerta sorprendente... e per molti un po' troppo promettente, se-
guì un chiacchierio eccitato; un chiacchierio che divenne via via più forte, per poi scemare ancora una volta in un silenzio teso, quando l'ultimo barone si riunì ai suoi sostenitori, e si diresse frettoloso verso il trono; le guardie s'irrigidirono, ma Ilgrist fece loro un cenno, ed esse indietreggiarono. I grandi occhi castani di Feldrin vagarono per la stanza. Agitando nervosamente le mani com'era solito fare, il barone dall'aspetto fragile si avvicinò all'orecchio del re. Gli abiti eleganti ma fuori misura di Feldrin erano madidi di sudore, e i capelli neri, solitamente impomatati, erano completamente arruffati, come se un uccellino vi avesse frugato in cerca di materiale per il nido. Dall'altra parte del trono, anche Ilgrist si chinò per ascoltare, al che Feldrin gli lanciò un'occhiata nervosa... ma solo una. «Vostra Maestà», sussurrò Feldrin, lasciando nell'aria un forte odore di prezzemolo, «anch'io, nel mio piccolo, amo Galadorna e vorrei che a tutti i costi sfuggisse alla rovina sanguinosa di una guerra tra noi baroni... inoltre, ho motivo di pensare che almeno tre ambiziosi signori di Laothkund piomberanno qui con i loro migliori mercenari in caso impugnassimo le armi l'uno contro l'altro, per impadronirsi di gran parte del regno. I tre hanno un patto: i loro uomini non dovranno mai attaccarsi finché uno di noi vivrà». «E allora?», grugnì il re, sprezzante quanto Belundrar delle minacce e degli intrighi sussurrati. Feldrin si torse le mani nervosamente, e si guardò attorno per vedere se qualcuno fosse abbastanza vicino da udirlo, poi abbassò la voce e si avvicinò ulteriormente; Ilgrist sollevò un pugno per mostrare a tutti l'anello scintillante al dito medio, che avrebbe fulminato il barone se avesse osato alzare un pugnale contro il re. «Anch'io sosterrò Lord Tholone, se voi, sire, accetterete le mie condizioni... che come ben comprenderete devono rimanere segrete. Sono soltanto due: Hothal dev'essere giustiziato ora in questo luogo, poiché non accetterà mai che Tholone sieda sul trono, e ci tormenterà per anni versando il miglior sangue del regno...» «Incluso quello di un certo Feldrin?», mormorò il re, abbozzando un mezzo sorriso. «Io... io... be', sì, suppongo, ahem-hem, e questo ci porta alla mia seconda condizione: il pericolo più grande di Galadorna è quel viscido serpente laggiù, Maethor. Dovete promettermi che gli accadrà molto presto un "incidente". È sempre stato un instancabile e infido autore di intrighi, un maestro della menzogna e degli avvelenamenti; la nostra terra non ha bisogno di lui, indipendentemente da chi detenga il trono». Feldrin era quasi senza
fiato, madido di sudore per la paura per il proprio ardire. «E un certo Feldrin, senza dubbio, non necessita di un attraente rivale che guasti le sue macchinazioni», mormorò Ilgrist, tanto piano che, forse, solo il re lo udì. Re Baerimgrim allungò improvvisamente una mano e afferrò Feldrin per il mento, poi gli voltò la faccia verso di lui, e sussurrò: «Accetto le vostre condizioni, a patto che nessuno perisca più per mano vostra o dei vostri intrighi. Per il vostro bene, pongo anch'io la mia condizione, mio astuto Feldrin: quando, tra un istante vi volterete, assumete un'espressione preoccupata... non compiaciuta». Il re allontanò il barone sussurrante, e con voce tremula ma risonante ordinò: «Lord Tholone! Avvicinatevi, per amore di Galadorna!» Si levò un breve mormorio d'eccitazione, accompagnato da qualche urlo in alcuni angoli della stanza, ma subito ripiombò il silenzio. Lord Tholone avanzò lentamente, il volto sorridente, gli occhi attenti, e una sorta di tintinnio tutt'intorno a lui: i suoi maghi si erano dati da fare. Senza dubbio pugnali e spade si sarebbero rivelati inutili se lanciati in quel momento o anche in seguito. Se mai ci sarebbe stato un seguito, dato il numero di maghi e di guerrieri pronti alla battaglia. Il silenzio si fece assoluto quando Tholone si fermò davanti al trono, separato dal re solo dallo stendardo cremisi e oro dell'Unicorno Purpureo. «Inginocchiatevi», gli ordinò brusco Baerimgrim, «sull'Unicorno». Si udì un mormorio di sorpresa collettivo, poiché tale richiesta poteva significare solo una cosa. Il re sollevò una mano verso la testa, e lentamente... molto lentamente... si tolse la corona. Senza il minimo tremore la depose sul capo di Tholone, il cui viso era solcato da un sorriso trionfante, quasi maniacale, e affermò: «Tutti i veri galadorniani qui riuniti siano testimoni che in questo giorno, di mia spontanea volontà, nomino quale legittimo erede il qui...» Il crepitio del fulmine che scaturì in quel momento dalla corona assordò tutti e scaraventò alcuni all'indietro, contro le pareti rivestite di arazzi. Baerimgrim e il Trono dell'Unicorno vennero spaccati in due in un solo istante, mentre la corona schizzò verso il soffitto distrutto. Quando le membra infuocate del re crollarono sopra ciò che rimaneva del trono, la testa dorata dell'unicorno che lo sormontava singhiozzò forte. Il mago di corte sembrò sbalordito per la prima volta, ed estrasse una bacchetta magica mentre guardava severamente la testa di legno vernicia-
ta... ma qualsiasi incantesimo l'avesse fatta parlare era ormai svanito, e l'unicorno si sbriciolò. Ilgrist si guardò rapidamente attorno. Feldrin giaceva senza vita sul pavimento, le braccia due monconi bruciacchiati, la faccia sfigurata, Tholone era supino e stava cercando debolmente di staccarsi lo stendardo che si era fuso e appiccicato al suo volto. Il mago di corte li fulminò nuovamente, poi evocò la furia della bacchetta nelle sue mani, e un'autentica pioggia di proiettili magici sfrecciò sibilante e seminò morte in tutta la stanza. Molti dei maghi di Tholone si accasciarono sul pavimento, riccioli di fumo fuoriuscirono dai loro occhi e dalle loro bocche spalancate; e d'un tratto l'aria si riempì di imprecazioni e di spade lucenti brandite da uomini in fuga. Attorno a Ilgrist si levò un cerchio di fuoco, e la sua bacchetta, dopo aver sputato un ultimo trio di fulmini magici, che colpì uno dei maghi ancora in piedi, si sbriciolò lentamente. Il mago di corte lasciò che le sue ceneri gli scivolassero fra le dita mentre osservava tranquillo il cerchio di uomini armati e furiosi, dopodiché esclamò: «Galadorna è troppo importante per me, non potevo permettere un tale errore. Baerimgrim era un buon re e un caro amico, ma... spesso, un errore è ciò che uccide gran parte dei re. Confido nel fatto che il resto di voi, gentili signori, v...» Con un ruggito che scosse la stanza Belundrar l'Orso si lanciò tra le fiamme, incurante del dolore, e balzò verso Ilgrist. Il mago fece un tranquillo passo indietro e sollevò un braccio. Il coltello nella mano del barone colpì qualcosa che lo mandò in pezzi, tra mille scintille. Il fuoco che scaturì dalla mano del mago investì Belundrar in pieno volto, e il suo ruggito divenne un gorgoglio per il breve istante che precedette la sua caduta sul pavimento. Infastidito, Ilgrist sollevò un piede per evitare il contatto con la testa del barone. «Chi altro vuole fare l'eroe oggi?», chiese pacato. «Ho le mani piene d'incantesimi mortali». Come se quello fosse stato un segnale, tutti i presenti scagliarono pugnali e spade nella sua direzione, che inevitabilmente rimbalzarono contro una barriera invisibile e scomparvero, dal primo all'ultimo. Ilgrist abbassò lo sguardo sul corpo di Belundrar, che aveva interrotto il suo cerchio di fuoco e ora stava bruciando lentamente, e mormorò: «Un ammasso di carne fumante. Un vero patriota... e che cosa ha concluso alla fine? Suvvia, signori miei! Arrendetevi. Io sarò il nuovo re di...»
«Mai!», tuonò il Barone Hothal. «Morirò piuttosto che permettere ta...» Ilgrist increspò la bocca. «Naturalmente», ribatté. Fece un breve gesto con due dita, e l'aria si riempì del sibilo di frecce, scagliate dalle guardie del trono appostate sui balconi, i volti bianchi e assenti, i gesti meccanici. I guerrieri colpiti grugnirono, afferrarono inutilmente le frecce conficcatesi nei loro volti e nelle loro gole, e caddero esanimi. Molti uomini al servizio dei baroni risposero alla pioggia di dardi con archi, fino ad allora rimasti nascosti... e Hothal, privo di elmo, il capo trafitto da numerose frecce, vacillò e s'accasciò su un fianco. Il Barone Maethor avrebbe fatto la stessa fine se non fosse stato per la barriera invisibile che teneva lontani i dardi e i coltelli scagliati da ogni parte. Numerosi dei suoi assistenti, senza armatura, rimasero uccisi, altri invece si gettarono con le armi in pugno contro i soldati di Hothal, oppure si precipitarono su per le scale delle balconate per consumare una sanguinosa vendetta sulle guardie del trono di Galadorna. La sala si riempì del clangore delle spade, del tuono di soldati in fuga, e di grida... molte grida. Si udì una gran confusione dietro a due delle porte della sala, poi vari soldati reali con alabarde si fecero largo nella stanza... poi ancora vi fu un rombo accompagnato da un forte bagliore, che scosse il pavimento ancor più del primo fulmine, e accecò tutti i presenti. Nell'eco dell'esplosione, che trasformò una ventina dei migliori cavalieri del Barone Hothal in frammenti d'armatura sanguinolenti, conficcati negli arazzi devastati, il mago di corte urlò: «Fermi... fermi tutti! Fermi, ho detto!» I borghesi, le guardie del trono, gli uomini di Maethor rimasti, col loro padrone al centro, si voltarono tutti a guardare Ilgrist. L'anello di fuoco che lo circondava era svanito, e il mago stava indicando qualcosa nella stanza... Il corpo bruciato e deturpato di Lord Tholone stava cercando spasmodicamente di mettersi seduto. Il barone rivolse gli occhi ciechi e imploranti ai presenti e, con labbra tremule e sanguinanti pronunciò alcune parole con voce terribilmente monotona: «Rendete omaggio al Re Ilgrist di Galadorna, come faccio io». Il corpo si afflosciò... un istante prima di scoppiare, imbrattando molti dei guerrieri sopravvissuti. «La magia ha pronunciato quelle parole, non Tholone!», esclamò uno di essi. «Oh?», ribatté Ilgrist pacato, mentre la corona deformata e annerita di
Galadorna si sollevava dal pavimento e raggiungeva le sue mani. «E anche se fosse, che cosa faresti?» Raddrizzò il simbolo reale con un'improvvisa dimostrazione di forza, e invisibili mani magiche sollevarono il mantello del mago di corte dalle sue spalle. Questo cadde inosservato sul pavimento quando il nuovo re fece un passo avanti, si sistemò la corona ammaccata sulla testa, e affermò con voce tonante. «Che tutti i galadorniani si inginocchino davanti al nuovo re. Io governerò il regno col nome di Nadrathen, un nome che porto da più tempo che "Ilgrist". Inchinatevi!» Il silenzio che seguì fu rotto dal rumore delle armature di numerosi guerrieri che s'inginocchiarono goffamente. Due uomini di Maethor fecero altrettanto; uno di essi venne prontamente pugnalato alla schiena da uno dei compagni e cadde di faccia con un gorgoglio sommesso. Re Nadrathen sorrise gentilmente al gruppetto di uomini finemente agghindati ed esclamò: «Be', Maethor? Galadorna dovrà perdere tutti i suoi baroni in una giornata?» Si udì un fruscio alle spalle di Nadrathen. Questi si voltò, fece contemporaneamente un passo indietro, e ammutolì. Il mantello del Mago di Corte di Galadorna, lasciato cadere da Nadrathen pochi istanti prima, si era sollevato dal pavimento ed era sospeso perpendicolarmente, come fosse indossato da un uomo piuttosto alto. Mentre la corte osservava stupefatta, un corpo si materializzò sotto il mantello e apparve un umano dal naso adunco e dai capelli corvini, una tunica bizzarra e un vago sorriso in volto. «Nadrathen?», domandò. «Chiamato l'Eletto Ribelle?» «Re Nadrathen di Galadorna, per combinazione», ribatté il mago freddamente. «E tu chi saresti? L'ombra di un ex mago di corte?» «Mi chiamo Elminster... e per la Mano di Azuth e la Pietà di Mystra, ti sfido a duello, qui e ora, in un cerchio di mia...» «Oh, per tutti gli dei», sospirò Nadrathen, e, con un ruggito, fiamme nere esplosero improvvise dalle sue mani e formarono una sorta di ariete diretta verso l'estraneo. «Muori, e non disturbare più la mia incoronazione», esclamò il nuovo re di Galadorna, osservando l'inferno di fuoco nero che si scatenò nel punto in cui l'incantesimo aveva colpito. In tutta la stanza guerrieri terrorizzati si nascosero dietro le colonne, le balaustre, oppure fuggirono dalle uscite. Le fiamme nere si levarono fino al soffitto... poi scomparvero alla vista. L'uomo avvolto nel mantello di corte era rimasto immutato, salvo un so-
pracciglio, ora sollevato in segno di derisione. «Hai qualche avversione per le regole del combattimento o per i cerchi difensivi? O avevi fretta di rimodellare questa parte del castello?» Nadrathen imprecò... e blocchi di pietra cominciarono a piovere dall'alto tutt'intorno a loro, scuotendo la sala. Numerose schegge schizzarono in tutte le direzioni e molte altre guardie fuggirono spaventate. Nessun frammento colpì Nadrathen o Elminster, e questa volta fu l'Eletto Ribelle a corrugare, sorpreso, la fronte. «Sei ben protetto», grugnì rabbioso. «Ulmimber... o qualsiasi sia il tuo nome... sai chi sono io?» «Un arcimago di grande potenza», rispose Elminster tranquillo, «nominato dalla stessa Mystra quale suo Eletto... e ora votato al male». «Non mi sono dato al male, pazzo mago. Mystra mi conobbe per ciò che ero fin dal principio». Il re di Galadorna scrutò torvo il suo sfidante, e aggiunse: «Sai quali saranno le conseguenze del duello?» El deglutì, fece per annuire, e improvvisamente sogghignò. «Hai intenzione di sfinirmi con le parole?» Nadrathen ringhiò: «Ne ho abbastanza! Hai avuto la tua chance, idiota, e ora...» L'aria sopra di loro si fece improvvisamente scura e si riempì di figure spettrali senza volto, vestite con tunica e cappuccio, che si abbatterono con spade fredde ed evanescenti sul mago dal naso adunco, per poi dissolversi nel nulla. Le lame trafissero Elminster senza incontrare resistenza, né provocare ferite... poi si ridussero in fumo e scintille, insieme alle figure misteriose. Nadrathen rimase a bocca spalancata. «Tu devi essere un El...» Dietro al sedicente re di Galadorna, ignorata da entrambi i maghi, era apparsa una mano femminile dalle lunghe dita: fuoriusciva dallo schienale ancora integro e perpendicolare del Trono dell'Unicorno, ed era attorniata da scintille blu di luce magica. La mano puntò un dito alla schiena dell'ignaro Eletto Ribelle. Nadrathen spalancò gli occhi, incredulo, per un breve istante, prima che le ossa gli schizzassero fuori dal petto, seguite da una massa di carne informe, che infine si spiaccicò sul pavimento, sporcando di sangue gli stivali di Elminster e ciò che rimaneva del trono. El fece un balzo indietro, disgustato, ma le ossa e la terribile poltiglia rossa stavano già bruciando dall'interno. Una magia blu-bianca turbinò sopra quelle fiamme argentee, mentre i presenti urlavano impauriti in tutta la
sala. El osservò un filo argenteo sollevarsi dalle fiamme, trapassare il soffitto e continuare ad ardere. Non vide però la luce del sole penetrare nella stanza e illuminare il trono dall'alto; poco prima, infatti, vacillò e cadde pesantemente in ginocchio; allora una magia che non gli apparteneva si riversò nel suo corpo scosso dagli spasmi. Il Barone Maethor deglutì. Non osava avvicinarsi a quanto restava di «Re» Nadrathen, ma il mago sfidante era in ginocchio, impegnato a vomitare fiamme argentee sul pavimento. Aveva un'ultima occasione per liberare Galadorna da maghi troppo ambiziosi. «Dammi la spada», mormorò a un assistente, stendendo la mano senza neppure guardare. Un colpo sarebbe stato sufficiente, se... Una slanciata figura femminile apparve dietro la conflagrazione; le cosce nude e le gambe protette da alti stivali neri si intravedevano di tanto in tanto attraverso gli spacchi delle vesti scure. «Credo che governerò io Galadorna», esclamò dolcemente Dasumia, le scintille di luce blu ancora turbinanti attorno a una delle mani. «Il mio regno inizia in questo momento dell'Anno delle Fanciulle della Nebbia. E tu sarai il mio siniscalco, Elminster di Galadorna. Alzati, Mago di Corte, e portami la fedeltà dei signori e dei baroni sopravvissuti... oppure un organo di ognuno; domanda loro ciò che preferiscono». 9. TEMPI LIETI NEL REGNO DI GALADORNA Il governatore saggio dedica tempo, tra udienze e passeggiate, a ricevere pugnali... solitamente nella schiena. Ralderick Hallowshaw, Giullare Da Governare un regno, dalle torri ai letamai Pubblicato approssimativamente nell'Anno dell'Uccello Sanguinario Un fuoco nero avvampò, e l'elfo slanciato con una tunica scura addosso indietreggiò barcollando ed emettendo un grugnito. I trecento o più tentativi di Ilbryn Starym di eliminare gli incantesimi guardiani intorno al castello della Signora erano miseramente falliti. Il suo potere era ancora troppo grande, anche in sua assenza... e, a proposito, dove diamine era spa-
rita? Il mago sospirò, alzò lo sguardo alle torri nere e altissime nel cielo purpureo, e... Quasi finì a gambe all'aria a causa di un colpo violento e improvviso. Si voltò di scatto per affrontare chiunque avesse osato colpirlo, e si ritrovò a fissare gli stivali di uno dei due buffi maghi, anch'essi accampati fuori dalle mura della fortezza di Dasumia. L'urlo eccitato di Beldrune urtò le orecchie dell'elfo furioso. «Baerast! Ascoltami attentamente!» Tabarast alzò lo sguardo da un fuoco che non ne voleva sapere di accendersi, scosse le dita bruciacchiate, e domandò: «Che cosa c'è ora?» «Stavo guardando Nethrar nella sfera», ansimò Beldrune dal Dito Piegato, «come mi aveva suggerito il sogno, e ho scoperto delle novità! Lady Dasumia ha appena usurpato il trono e ha nominato l'Eletto suo siniscalco. Elminster è Mago di Corte di Galadorna!» Ilbryn fissò per un istante la schiena del mago trotterellante, poi fece uno scatto, lo raggiunse, lo prese per le spalle, ricoperte di un'elegante seta violacea, pieghettata, e sbottò: «Che cosa?» Costretto a voltarsi da due mani che sembravano artigli d'acciaio, Beldrune si ritrovò di fronte due occhi elfi fiammeggianti, e borbottò: «Lasciami, orecchie lunghe! Le tue dita sono come mascelle di lupo!» Ilbryn lo scosse. «Che cosa hai detto?» Tabarast rovistò in una tasca della cintura, rovesciò una serie di piccoli oggetti scintillanti, e ne tenne uno fra pollice e indice, mormorando qualcosa. Dall'aria scaturì una sorta di lancia fantasma, che si diresse infallibile e rapida come una saetta verso Ilbryn. Lo colpì alle costole, infranse il suo incantesimo protettivo generando una cascata di scintille e lo sollevò da terra. Il mago sbatté violentemente contro l'albero di phandar; le sue costole si spezzarono come ramoscelli nelle mani di un boscaiolo. Ilbryn singhiozzò e si agitò, ma l'incantesimo lo tenne inchiodato all'albero. Se si fosse trattato di una lancia reale, l'avrebbe aperto in due... ma il fatto di sapere che era magica gli offriva di certo una gran consolazione. Tra la nebbia purpurea del dolore, il mago fissò quasi supplicante gli umani. Tabarast guardò un po' sconsolato l'elfo in trappola e scosse il capo. «Il problema con i giovani elfi è che ostentano tutta l'arroganza di quelli anziani, ma senza alcuna ragione valida», osservò. «Ora, Beldrune, ripeti ciò
che hai detto». Curthas e Halglond se ne stavano eretti e immobili, come le loro lance poiché sapevano che la finestra della torre del loro padrone dava proprio su quella sezione dei bastioni... e che egli amava guardare le notti illuminate dalla luna e vedere la tranquillità, non il luccichio e il bagliore delle guardie che si agitavano nelle loro postazioni. I due erano di guardia a un'estremità del ponte arcuato che collegava le stanze più alte della Torre del Padrone con i bastioni circostanti. Si trattava di un compito abbastanza semplice: nessun ladro o guerriero infuriato a distanza di tre regni avrebbe osato presentarsi senza invito alla dimora di Klandaerlas Glymril, Padrone dei Draghi. Le bestie che teneva magicamente i schiavitù venivano liberate raramente, ma quando uscivano dalle torri erano affamate, impavide e selvagge. Una delle guardie arrischiò una rapida occhiata lungo il muro illuminato dalla luna. Come al solito la torre possente che imprigionava i draghi era scura e silenziosa. Come il resto di Glymril Gard, era stata eretta, grazie agli incantesimi del Padrone, dalle macerie di un'antica dimora, situata al margine di una cresta che dominava su sei città e sulla confluenza di due fiumi. Era una notte chiara e meravigliosamente calda, persino sui bastioni del castello, sempre spazzati dal vento, e non era difficile farsi trasportare dai ricordi di altre notti illuminate dalla luna, senza armature o servizi di guardia, e... Curthas s'irrigidì e voltò la testa. Campanelli? Che cosa poteva mai suonare lassù, a quell'ora di notte? Le mura erano chiaramente deserte. Halglond guardò immediatamente oltre le merlature, nel cortile sottostante, nel caso qualcuno si stesse arrampicando o stesse salendo per la scala delle guardie. No. Forse si trattava di un falco fuggito, con i geti al seguito, posatosi nelle vicinanze... ma dove? Il suono era flebile... tuttavia molto vicino, e non proveniva da terra, né da una delle torri. Per tutti gli dei tempestosi, che cosa poteva essere? Ora sembrava tintinnare proprio sotto il naso di Halglond. La guardia vide una striscia frastagliata di nebbia evanescente attorcigliarsi nell'aria. Cercò di scacciarla con l'alabarda, al che piccole scintille si unirono per un istante lungo la sua lama curva per poi spegnersi. Il vento tintinnante si allontanò lungo i bastioni. Halglond scambiò un'occhiata con Curthas, ed entrambi si misero a rincorrerlo cautamente, os-
servandolo crescere in luminosità e grandezza. Dietro le loro spalle si udì il debole stridore che annunciava l'apertura dei battenti della finestra del Padrone; forse si trattava di uno dei suoi incantesimi... o no, in ogni caso era meglio seguirlo, qualora si trattasse di un test di diligenza. La foschia li condusse alla Torre di Prua, all'estremità della cresta, dove le rocce s'interrompevano bruscamente sotto le mura, e in quel punto sembrò vorticare più intensamente. Curthas e Halglond le si avvicinarono cauti, da direzioni diverse, con le alabarde spianate, e si acquattarono per evitare di essere scagliati giù dalle mura. Il tintinnio si trasformò in un suono acuto e regolare, quasi fastidioso, e la nebbia che lo emetteva si levò a formare una forma vagamente umana, più alta dei due messi insieme. Entrambe le guardie la colpirono con le lance, ed essa collassò improvvisamente, e divenne una sorta di luminosità lattiginosa attorno ai loro piedi. Curthas e Halglond si scambiarono un'altra occhiata. Il tintinnio era cessato; sollevarono le spalle, lanciarono un'ultima occhiata ai merli della torre, e si accinsero a tornare alla loro postazione. Se il Padrone avesse voluto spiegare loro di cosa si trattava, l'avrebbe fatto; se avesse taciuto, sarebbe stato meglio fare altrettanto, e... Halglond indicò un punto lungo il bastione. A metà strada rispetto alla zona in cui si trovavano la nebbia stava danzando lungo le merlature. Ora aveva una forma definita... una donna a piedi nudi, dai capelli e dalle vesti fluenti correva, nella sua scia un lieve scampanio. Le guardie potevano vedervi attraverso. Come per tacito accordo, Curthas e Halglond si misero a correre. Se avesse attraversato il ponte, loro due avrebbero dovuto essere di guardia... La donna lo superò, dirigendosi verso le ruote di tortura e le macchie purpuree della Torre Insanguinata, nella quale - quando il Padrone non aveva più bisogno dei prigionieri - ai draghi era, talora, consentito banchettare. La distanza era considerevole, e la signora sembrava non avere fretta, perciò le guardie la raggiunsero rapidamente. Una figura dagli abiti scuri stava avanzando sul ponte... il Padrone! Halglond sibilò un'imprecazione, e Curthas fece altrettanto, ma il mago li ignorò, e si unì all'inseguimento sui bastioni, ben più avanti delle due guardie. In mano stringeva una bacchetta magica. I soldati videro la donna voltarsi tra le ruote, la folta chioma scintillante nel chiaro di luna, e fare un cenno silenzioso al Padrone dei Draghi, timido quanto quello di un innamorato in una ballata. Mentre il mago si avvicina-
va, la donna si avviò danzando all'estremità dei bastioni. Le guardie ansimanti lo videro seguirla guardingo, la bacchetta sollevata e pronta. Glymril si voltò una volta a guardarle, come per decidere se attendere o meno che raggiungessero la Torre, e Curthas vide chiaramente lo sgomento sul suo volto. Non era dunque opera del padrone, e, per giunta, era inaspettata. I soldati non rallentarono la corsa... ma Curthas ebbe il presentimento che ormai fosse troppo tardi. La donna si trasformò in una creatura informe, serpentina, e le guardie, scioccate, udirono Klandaerlas Glymril lanciare un urlo rauco e lungo, quando qualcosa lo avvolse in una rapida spirale che si allontanò verso la luna. Un istante più tardi il Padrone dei Draghi divenne una ruggente colonna di fuoco che squarciò la notte con la sua furia improvvisa. Curthas afferrò il braccio di Halglond, ed entrambi si arrestarono bruscamente, troppo vicini al punto in cui i bastioni si univano alla Torre Insanguinata. Si udì un tonfo violento, e qualcosa esplose lanciando fiamme nel cortile interno: la bacchetta magica. Le guardie si scambiarono sguardi impauriti, si passarono la lingua sulle labbra secche, e iniziarono a indietreggiare terrorizzate. Dopo soli due passi le pietre sotto i loro piedi s'incresparono come onde su una spiaggia e iniziarono a precipitare. Curthas e Halglond caddero nel vuoto, nelle orecchie il ruggito di Glymril Gard. Mentre la luna osservava impassibile la grande fortezza trasformarsi nuovamente in un edificio diroccato, una nebbia luminosa e trionfante turbinò sopra la polvere e le grida, il suo tintinnio mescolato a una fredda risata. Il mago di corte guardò la faccia truce del capitano delle guardie e sospirò. «Chi era questa volta?» «Anlavas Jhoavryn, Lord Elminster: un mercante d'oltremare. Opere in ottone, cianfrusaglie; nulla d'importante, ma una gran quantità di merce. Dunque molto denaro per numerose stagioni. Gli hanno tagliato la gola». Elminster sospirò nuovamente. «Maethor o uno dei nuovi baroni?» «L-lord, non lo so, e non oserei mai...» «I vostri sospetti, fedele Rhoagalow». Il capitano delle guardie guardò nervoso da una parte e dall'altra; El ab-
bozzò un mezzo sorriso e si protese per appoggiare l'orecchio alle labbra dell'uomo. «Limmator», sussurrò l'ufficiale con voce rauca; Elminster annuì e si allontanò. Nessuna meraviglia che Rhoagalow avesse ragione; Limmator era l'unico barone - o signorotto - di Galadorna che superava Maethor dei Molti Sussurri per corruzione, minacce, e omicidi. «Andate a cenare ora», suggerì all'esausto capitano. «Parleremo più tardi». Rhoagalow e le sue tre guardie si affrettarono a uscire; El attese finché l'anticamera fu quasi vuota ed emise un grande sospiro. Mormorò qualche cosa e fece un breve gesto con due dita. Si udì un tonfo sordo dietro un muro, quando la spia nascosta si accasciò, improvvisamente addormentata; El sorrise alla parete, oltrepassò la porta segreta, che desiderava mantenere tale ancora un po' di tempo, e si avviò lungo il corridoio buio dietro una delle stanze nascoste, impolverate e in disuso, del Palazzo dell'Unicorno. Un po' di tempo per riflettere da soli è un lusso per alcuni, e un sogno per altri. Quell'anno erano già morti tre baroni, uno di essi con un pugnale conficcato in gola, a meno di due passi dall'entrata della sala del trono, e sei... no, sette, nobili minori. Galadorna era divenuta un nido di vipere, che si mordevano ogniqualvolta saltava loro il ghiribizzo, e il mago di corte non era un uomo felice: non aveva amici, e i pochi che riusciva a farsi finivano presto a fissare il soffitto con occhi spalancati. Dietro ogni porta del palazzo si udivano sussurri e i sorrisi che gli porgevano, quando tali porte si aprivano, erano a dir poco fasulli; El si stava abituando alla vista di rivoli di sangue scuro fuoriuscenti da sotto porte chiuse... forse avrebbe dovuto emanare un decreto che imponesse di togliere e bruciare tutte le porte di Nethrar. Hah, pessima idea. Il mago stava diventando degno del soprannome che sapeva gli sussurravano alle spalle: «Lo Sputadecreti». I baroni e i signorotti tentavano costantemente di eludere l'autorità reale, oppure rubavano apertamente a corte, e la sua Padrona non gli era affatto d'aiuto, poiché usava gli incantesimi troppo di rado per generare paura e, di conseguenza, obbedienza. Alla sua sinistra si udì un rumore stridulo. El tirò il pomello giusto e un pannello si aprì: due giovani guardie scrutarono nella semioscurità. «Ci ha mandato a chiamare, Lord Elminster?» «Avete trovato le pergamene, Delver, e...?» «Bruciate, le ceneri nel fossato, signore, come avete ordinato, mescolate
alla polvere che mi avete dato. L'ho usata tutta». Elminster annuì e allungò una mano per toccagli la fronte. «Dimentica tutto, fedele guerriero», affermò, «e fuggi il destino che tutti temiamo». Il soldato che aveva sfiorato rabbrividì, gli occhi assenti, poi si voltò e si affrettò a tornare sui suoi passi, slacciandosi i pantaloni mentre camminava. Si stava dirigendo nel suo alloggio quando l'urgente bisogno di recarsi in bagno s'impadronì di lui, e lo condusse nell'ala in disuso del palazzo. «Ingrath?», chiese tranquillo il mago di corte. «Ho trovato l'opera della R... ah, la sua opera nella Camera dello Scudo Rosso e l'ho mischiata con la polvere bianca fino a non vederla più. Poi ho pronunciato le parole e sono uscito». El annuì e protese la mano. «Tu e Delver meritate laute ricompense...», mormorò. La guarda ridacchiò. «Non lo stimolo di andare al bagno, per favore, signore. Piuttosto lasciatemi quaggiù a rimembrare gli amoreggiamenti della gioventù, eh?» El sorrise. «Come vuoi», rispose, mentre gli toccava la carne con le dita. Lo sguardo di Ingrath vacillò, e il guerriero immemore aggirò il mago immobile e silenzioso, camminò pensoso in tondo per la stanza, trovò il pannello, e si allontanò trotterellando. In tal modo avrebbe potuto vivere ancora qualche mese. Sarebbe stato più sicuro se i due non fossero stati amici e non sapessero nulla l'uno dell'altro... ma il caso aveva voluto che i soli guerrieri di cui El potesse fidarsi, dopo aver scrutato numerose menti, fossero come fratelli. Non c'era da sorprendersi, suppose. El prese a passeggiare per la stanza buia, il suo umore altrettanto nero. Il comando di Mystra di servire Dasumia era stato chiaro, ma egli l'aveva sempre fatto a modo suo; se ciò era considerato una disobbedienza, che lo punisse pure. Vi sono alcune cose a cui un uomo deve aggrapparsi per rimanere tale. E a cui una donna deve rimanere fedele, per essere se stessa... ed esisteva una signora a Galadorna che, senza alcun dubbio, faceva ciò che voleva. In quegli ultimi tempi la Regina Dasumia aveva nei suoi confronti un atteggiamento derisorio e sembrava trascurare i suoi doveri di regina: sedeva raramente sul trono ed era spesso assente dal castello, lasciando El a emanare decreti al suo posto. Galadorna avrebbe potuto diventare una terra di guerre e di furti, senza che lei neppure se ne accorgesse... e con l'arrivo via via più consistente di schiavi e di mercanti senza scrupoli, consapevoli del-
le poche restrizioni ai vari traffici, i Signori di Laothkund guardavano con cupidigia a quel regno sempre più ricco. L'illegalità tra i mercanti contribuisce, infatti, a riempire le casse dello stato. El sospirò per l'ennesima volta. L'importante era che, con tutto quell'oro, l'illegalità non si diffondesse alla corona. Dolce Mystra impedisci che ciò accada. Come sarebbe stato vivere in una terra governata da mercanti? Tutti ignorarono i rumori causati dal crollo di un tavolo sotto i piedi di due uomini imprecanti, che si stavano prendendo a pugni, e anche il tintinnio di vetri infranti, che seguì quando gli avventori circostanti scagliarono bottiglie sui combattenti, per cercare di alterare il risultato delle scommesse appena piazzate. Qualcuno urlò in un'altra stanza... un grido di morte, che terminò con un orribile gorgoglio, a cui segui uno scroscio di applausi. Era tardi, dopo tutto, e quello era il Calice delle Ombre. Nethrar aveva conosciuto taverne più selvagge, ma i giorni dei golem danzanti, che mangiavano i propri emolumenti per arricchire Ilgrist erano ormai terminati, e i luoghi in cui ballavano erano scomparsi con essi. Il Calice, tuttavia, era vivo e vegeto; e coloro che temevano di sfidare da soli i suoi piaceri potevano sempre ingaggiare un trio di guerrieri dallo sguardo arcigno, pronti a difenderli e a farli sembrare, almeno ai loro occhi, i veterani di una banda di avventurieri impegnati in missioni pericolose. E poi c'erano le signore. Una di esse, una bambola in seta blu e finta armatura, le cui catene e le cui curve di pelle mettevano in evidenza più che nascondere, si era appena appoggiata all'estremità di un tavolo non lontano da quello in cui Beldrune e Tabarast stavano rigirando tra le mani bicchieri di vino color rubino, e pur tuttavia aspro... «Ben invecchiato? Di sei giorni, a dir tanto!» Da dietro l'orlo dei propri bicchieri, i due maghi osservarono quella bellezza impertinente chinarsi su due giovanotti seduti a un tavolo, e offrir loro una visione che avrebbe tramortito uomini ben più anziani e sobri. Beldrune e Tabarast si schiarirono la gola simultaneamente. «Fa un po' caldo qui dentro», osservò il più anziano, allargandosi il colletto della tunica. «Anche laggiù in quel tavolo?», grugnì Beldrune, gli occhi incollati sulla signora in blu. Schioccò le dita, e, improvvisamente, fra il chiasso di bicchieri rotti e le risate, i due maghi udirono una voce nitida, come se la donna stesse sussurrando alle loro orecchie: «Delver? Ingrath? Sono nomi... eccitanti. I nomi di uomini arditi... di eroi. Voi siete eroi arditi, non è
vero?» I due giovani soldati ridacchiarono e mormorarono qualcosa all'unisono, al che la bellissima donna in seta blu sussurrò: «Quanto vi sentite coraggiosi questa notte? E... quanto eroici?» Le due guardie risero ancora, piuttosto caute, e la bellezza mormorò: «Sufficientemente eroici da rendere un servizio alla vostra regina? Un... servizio personale?» Essi la osservarono frugare nel corpetto ed estrarre una lunga e pesante catena di monete d'oro, che attirò il loro sguardo famelico. In quell'istante la donna fece brillare l'Anello Reale di Galadorna. I due rimasero allibiti, e sollevarono lentamente gli occhi dalle monete e dai morbidi tratti al viso sovrastante... che sfoderò un ghigno malizioso. «Venite», esclamò la donna, «se ne avete il coraggio... in un luogo dove possiamo... divertirci di più». I maghi in ascolto videro i due uomini esitare e scambiarsi rapide occhiate; poi uno di essi affermò qualcosa, sollevando le sopracciglia in maniera esagerata, ed entrambi scoppiarono in una risata piuttosto nervosa, tracannarono il vino, e si alzarono. La regina avvolse la catena di monete attorno al polso di una delle guardie e la trascinò allegramente fra il labirinto di tavoli affollati, le tende imperlate, e gli archi che formavano la spina dorsale del Calice. Alcuni lembi di seta blu oscillarono molto vicini ai nasi innocentemente protesi di Beldrune e di Tabarast. Quando anche il secondo guerriero fu passato loro accanto, i due maghi si guardarono l'un l'altro, entrambi paonazzi, allargarono ulteriormente il colletto dei vestiti, e si schiarirono la gola. Tabarast brontolò: «Ah... credo sia giunta l'ora di vedere il fondo di più di un boccale... sei d'accordo?» «Mi hai letto nel pensiero», assentì Beldrune. Immerso nella penombra, dietro una colonna del Calice delle Ombre, un elfo, la cui faccia ricordava una scultura di marmo freddo, osservò la Regina Dasumia di Galadorna trascinare le sue prede fuori dal tumulto. Quand'ebbero voltato un angolo, Ilbryn Starym rivolse uno sguardo beffardo ai vecchi maghi dal viso rosso, i quali, tuttavia, non lo videro. Poi scivolò fra i tavoli della taverna, verso l'uscita che sapeva avrebbe utilizzato la regina, facendo attenzione a non farsi notare. Rhoagalow gli aveva comunicato la notizia di un altro omicidio e di un
accoltellamento, la cui vittima sarebbe forse sopravvissuta. Elminster gli aveva porto un barilotto di Budrym's Best prelevato dalle cantine reali e gli aveva consigliato di andare in un luogo sicuro, senza uniforme, e di goderselo in santa pace. Il Mago di Corte di Galadorna, esausto, si diresse verso la sua stanza da letto, ansioso di trascorrere alcune ore di riposo, a guardare nell'oscurità e a riflettere seriamente sul governo di un regno logorato dalle faide. Probabilmente, in quel breve lasso di tempo vi sarebbe stato un altro tentato omicidio. Aveva un gran mal di testa per aver trattato tutto il giorno con mercanti dalla lingua affilata e, per di più, non riusciva a togliersi un'idea dalla testa... i due maghi confusionari di Moonshorn Tower, che a quanto pareva l'avevano seguito fin lì, avevano messo in giro la voce che «Dasumia» fosse il nome della temuta maga chiamata la Signora delle Ombre; quest'ultima e la regina potevano essere in qualche modo connesse? Hmmm. El sospirò ancora, forse per la millesima volta in quella giornata, e, per abitudine lanciò un occhiata lungo il corridoio laterale a cui l'aveva condotto il passaggio. D'un tratto si arrestò e rimase a guardare. Una figura molto familiare stava attraversando il corridoio più in fondo, usando un passaggio parallelo al suo. Era la regina, vestita come una danzatrice da taverna... avvinghiati a lei vi erano due giovanotti, guerrieri a giudicare dalla bardatura. La donna li stava conducendo in una parte del Palazzo dell'Unicorno che Elminster non aveva ancora visitato. Una morsa di paura gli attanagliò lo stomaco quando riconobbe i due uomini, Delver e Ingrath: i suoi strumenti contro Dasumia. Con la testa che gli martellava, il mago sollevò la tunica e scattò più silenziosamente che poté lungo il corridoio, verso il punto in cui aveva visto scomparire la Signora. Per il momento era meglio non utilizzare un incantesimo d'occultamento, nel caso la maga avesse lasciato dietro di sé una magia rivelatrice di sortilegi. La regina non si preoccupava affatto di non farsi sentire. La risata acuta e tintinnante che utilizzava a mo' di lusinga risuonò quando El raggiunse l'angolo e iniziò a spostarsi da una colonna all'altra. Seguirono poi il rumore di uno schiaffo, la voce di Delver che raccontava una barzelletta di cui non riuscì a cogliere le parole, e ulteriori risate. El abbandonò allora ogni precauzione di non farsi udire e cominciò a correre quando vide il corridoio che avevano percorso terminare in un'arcata. Fece
appena in tempo a vedere il trio abbandonare l'estremità opposta di quella sala vuota ed echeggiante. Stanza dopo stanza, El faceva attenzione a non farsi vedere, in caso qualcuno avesse guardato indietro, e rimaneva immobile ogniqualvolta i rumori cessavano. Si mantenne sempre a una camera di distanza ma, d'un tratto, qualche gioco di correnti d'aria rese le voci davanti a lui sorprendentemente forti. «Per tutti gli dei delle battaglie, dove ci state portando, donna?» «Uh, Vostra Maestà, intendeva dire... Sembrerebbe una via per le celle sotterranee». Dasumia rise nuovamente, questa volta di puro piacere. «Tieni quella mano dove si trova, impavido guerriero... e no, non stiamo andando affatto alle prigioni. Parola di regina!» El raggiunse furtivo l'arcata successiva e si sporse... in tempo per udire il rumore di una tenda adorna di perle aprirsi e vedere accendersi una luce. El attraversò la stanza e raggiunse lo spigolo del muro: oltre il corridoio aperto e illuminato che i tre avevano imboccato vi era un'altra tenda. Avrebbe potuto nascondersi dietro di essa se solo avesse colto il momento giusto. Adesso? Scattò, si arrestò, e tentò di ridurre al minimo il rumore del respiro, il tutto in una manciata di secondi. Dopodiché si sporse un poco per vedere dove la regina avesse portato le sue prede. L'area ben illuminata oltre la tenda era solo un'anticamera, e un'arcata alla sua estremità si apriva su un luogo immerso in una luce rossastra e sinistra. Accanto all'arco vi erano due guardiani in armatura, con la visiera abbassata e le sciabole curve tra le mani inguantate... guerrieri senza piedi, i cui monconi non toccavano nemmeno il pavimento. Gli uomini li chiamavano gli orrori corazzati; armature animate magicamente che, senza dubbio, potevano uccidere come guardie in carne e ossa. El li osservò avanzare minacciosi, per poi fermarsi a un gesto della regina. Dasumia passò tra loro senza fermarsi, trascinando i suoi guerrieri, ed El avanzò furtivo, osservando da vicino quelle sciabole sollevate. Prima che li raggiungesse, gli orrori corazzati si voltarono e fluttuarono dietro il trio scherzoso, rinfoderando silenziosi le spade. El chiuse il corteo, muovendosi molto cautamente. La stanza antistante era molto ampia e molto scura, l'unica luce proveniva da un arazzo che emanava un bagliore rosso rubino, situato sulla parete più lontana, un arazzo che ostentava un congegno nero: la Mano Nera di
Bane. La navata che correva al centro del tempio era fiancheggiata da bracieri, e quando Dasumia passò fra i primi due, questi si accesero spontaneamente. Delver e Ingrath cominciarono ad avere ripensamenti sulla notte di passione reale; El li vide deglutire in maniera vistosa mentre rallentavano e venivano trascinati dalla regina. Ai lati della navata vi erano numerose panche, alcune di esse occupate da scheletri con ancora indosso le tuniche, altre da corpi mummificati o ancora in decomposizione. El si acquattò tra due panche vuote: sapeva che cosa sarebbe accaduto. «No!», urlò improvvisamente Ingrath, contorcendosi per sottrarsi dalla presa della regina e fuggire. Gemette terrorizzato, un istante prima che Delver si liberasse dalla catena di monete, iniziasse la sua fuga... e urlasse. Le due armature magiche erano proprio dietro di loro, le mani inguantate e protese, pronte a chiudersi intorno alla gola dei soldati. Gemendo per il terrore, Delver e Ingrath si voltarono nuovamente verso la regina. Dasumia giaceva ora sull'altare, appoggiata a un gomito e ancora più svestita di quando era entrata nel tempio. Beffarda, fece loro cenno di avvicinarsi. I due guerrieri avanzarono riluttanti. 10. UN ASSAGGIO DI FUOCO NERO La cosa migliore che un arcimago può fare con i suoi incantesimi? Usarli per distruggere un altro arcimago, naturalmente... e se stesso nell'intento. Pianteremo qualcosa di utile nelle ceneri. Magari ravanelli. Albryngundar della Spada Canterina Da Pensieri per una Faerûn migliore Pubblicata approssimativamente nell'Anno del Leone Tamburi invisibili iniziarono a rullare con un ritmo lento e inesorabile, che scosse l'intero tempio. El osservò una grande mano di Bane - un po' più alta di un uomo, e apparentemente fatta di pietra nera - apparire dietro l'altare. Sottili fiamme rosse fuoriuscirono a intervalli dalle sue dita; quando Dasumia scese dall'altare e retrocedette, Elminster vide, grazie alla loro
luce tremolante, due lunghe fruste, nere e uncinate, disposte a croce sul blocco di pietra sul quale poco prima giaceva la donna. Il rullo dei tamburi si fece più rapido. Per ottenere una visione migliore, El sollevò il cappuccio per nascondere la faccia e, lentamente, si mise seduto su una panca, fingendosi un altro dei tanti cadaveri. I suoi vicini in decomposizione erano senz'altro vittime di rituali come quello a cui stava per assistere. Delver e Ingrath, nonché Elminster, avrebbero potuto fare presto la stessa fine, se il Mago di Corte di Galadorna non avesse agito con tempismo e non avesse fatto la cosa giusta. I due guerrieri, in piedi di fronte a Dasumia, stavano tremando di paura; la donna prese loro le mani e parlò. A causa del rullo di tamburi, El non riuscì a udire che cosa stesse dicendo, ma si trattava senza dubbio di parole di conforto, e di tanto in tanto li abbracciava o li baciava, ignorando le armature senza piedi alle loro spalle. La regina si voltò, prese le fruste, e le porse ai due uomini. Appoggiandosi poi all'altare, diede loro un comando e sollevò le mani al soffitto, scuro e invisibile, in gesto d'invito. Con grande riluttanza le guardie fecero oscillare la frusta in sua direzione, ma senza forza, cosicché gli uncini rimbalzarono senza ferirla. Questa volta Elminster udì chiaramente l'ordine furioso di Dasumia: «Colpite! Colpite o morirete!» Sollevò nuovamente le mani, e le fruste la colpirono sul serio. Il suo corpo sobbalzò sotto le sferzate, e un brandello di seta blu cadde sul pavimento; Dasumia continuava a sibilare incoraggiamenti a Ingrath e a Delver, che colpivano via via con maggiore forza, facendo schioccare le fruste. Una sferzata la avvolse e le denudò il petto. Sulla pelle della maga apparvero i primi segni rossi, ciononostante la donna incitò i guerrieri a metterci più forza. Le guardie apparvero un po' titubanti, ma, quando la maga li guardò come aveva fatto più di una volta per piegare la volontà di Elminster, essi obbedirono le ciecamente. Dapprima vacillarono, poi si misero all'opera, riversando nei loro colpi tutta la paura di morire e il risentimento per la donna che li aveva intrappolati. La seta blu intrisa di sangue e la pelle liscia svanirono rapidamente sotto una pioggia di colpi sferrati da fruste che brillavano di un rosso scuro. D'un tratto Dasumia gettò il capo all'indietro e urlò di smettere. Delver, colto da un pianto isterico, non si fermò... e l'orrore corazzato dietro di lui lo afferrò e gli trattenne il braccio a mezz'aria.
La maga appariva più come una bestia scuoiata che una donna nuda, ma, quando abbassò le braccia e si mise le mani ai fianchi per spiegare la parte successiva del rituale, riacquistò tutta la sua regalità. Non mostrava alcuna sensibilità al dolore, nonostante i rivoli di sangue che scorrevano lungo le sue membra, e si mosse tranquillamente, facendo oscillare i fianchi come suo solito, per ordinare a Ingrath di mettersi supino sull'altare. Elminster fu colto da una rabbia improvvisa; doveva assolutamente fermare quella pratica barbara. El tentò di ricordare ciò che aveva udito una volta raccontare da un adoratore di Bane ubriaco, riguardo a quel tipo di rituale. Offerte sacrificali sgozzate da sacerdoti con spade affilate, era possibile? Oppure una Mano di Bane fluttuante che stritolava le vittime nella sua morsa... già, proprio così. Dasumia si mise a cavalcioni della guardia sull'altare e gridò a Delver: «Colpisci! Colpisci!»; questi si avvicinò riluttante con la frusta alzata per obbedirle, e l'Eletto seppe di non poter più guardare. La frusta colpì, scalfendo la pelle a ogni sferzata, ed El si ritrovò formicolante di rabbia e di potere... potere pulsante fin nella punta delle dita. Nonostante ricordasse vagamente che cosa ciò significasse, egli era un Eletto della dea. «Mystra», mormorò, «guidami». Per quanto malvagia si era rivelata essere la sua Padrona, egli non poteva rimanere a guardare il suo sangue sgorgare copioso, e due bravi giovanotti andare incontro alla morte. La mano nera dietro l'altare si sarebbe sollevata lentamente, per afferrarli e schiacciarli... come stava facendo ora! Inorridito, Elminster utilizzò l'unico incantesimo che poteva sferrare senza parlare né muoversi, nella speranza di rimanere un cadavere anonimo ancora per qualche istante. Non agì contro la mano... non ancora... ma per mettere fuori combattimento nemici che sapeva si sarebbero abbattuti su di lui nel momento in cui l'avessero scoperto. Una ragnatela di connessioni partiva infatti dall'altare. Con molta cautela staccò il laccio di un'armatura animata, spostandolo a un'altra sezione di soffitto, per evitare di troncarlo immediatamente. Se solo avesse potuto rimanere inosservato ancora per qualche istante.... Dasumia s'irrigidì e, ignorando le continue sferzate, si guardò intorno in cerca dell'intruso. El scrollò le spalle e ruppe bruscamente la connessione del secondo guerriero. Due occhi scuri e terribili si posarono su di lui. Poi, lentamente, le labbra della maga s'incresparono in un sorriso. Dasumia tornò a sdraiarsi sull'alta-
re, appoggiandosi su un gomito con aria divertita, e si mise a guardarlo. Silenziosamente, con le membra tremanti, Delver e Ingrath iniziarono a trascinarsi verso El. Ovviamente schiavi della volontà della maga, i due si gettarono la frusta sulla spalla, pronti per l'ennesima sferzata. Gli uncini che avevano sfigurato Dasumia scintillavano di rosso mentre le guardie si preparavano all'agguato, sempre più vicine... L'incantesimo tranciatore dell'Eletto di Mystra era ancora attivo, ed El era riluttante a usare un'altra magia quando il duello della sua vita lo attendeva sogghignante sull'altare; d'altronde che senso avrebbe avuto toglierle il controllo dei due giovani, quando, con un altro piccolo incantesimo, lei avrebbe potuto ripristinarlo? Delver e Ingrath si avvicinarono ulteriormente, i volti fissi e impassibili, lo sguardo terrorizzato e implorante... El spezzò con forza brutale il loro collegamento con la maga, e, ignorando i corpi colti improvvisamente da spasmi incontrollabili, il principe dominò lo shock della reazione magica nella loro mente, provando il loro stesso male. Fu El a gridare di dolore... ma essi s'accasciarono sul pavimento, privi di sensi. Aveva funzionato. Elminster scoprì d'essersi morso le labbra. Lanciò un'occhiata all'altare, e notò che Dasumia era ancora sdraiata comodamente sul blocco di pietra, e rideva silenziosa... mentre il sangue e le ferite stavano scomparendo dalla sua pelle. El fece un respiro profondo e si guardò alle spalle per assicurarsi che non vi fossero altre armature animate, adoratori di Bane, o qualsiasi altra minaccia avesse potuto colpirlo da dietro. Nulla. Per un attimo pensò di vedere un movimento fra i cadaveri lungo la fila più buia di panche, in fondo al tempio, ma non poteva esserne sicuro e quando guardò con maggiore attenzione tutto sembrò perfettamente immobile. Poi si girò, non osando voltare troppo a lungo le spalle alla maga. La trovò nella medesima posizione di prima, completamente guarita, il corpo quasi nudo; Dasumia rise ad alta voce, ed El digrignò i denti per soffocare la rabbia che gli stava salendo alla testa e, con controllo ferreo elaborò con precisione un altro sortilegio. Signora o non signora, aveva intenzione di far schiantare sull'altare quell'enorme mano di pietra nera. Era... La Mano gli resistette, e Dasumia scoppiò in una risata, divertita dai suoi sforzi vani. Elminster riusciva a sentire il collegamento, a insinuare la sua volontà nel flusso della mano, ad aggrapparsi alla sua magia... ma questa continuava a ignorarlo, rimanendo rigida come una barra di ferro.
Quando la Regina di Galadorna lo schernì, El abbandonò l'incantesimo con un grugnito e ne elaborò subito un altro, nascondendo i suoi gesti dietro lo schienale della panca davanti a lui. Quando si sentì pronto, dopo un tempo che gli sembrò un'eternità, si alzò e sferrò la sua magia... non alla donna fatale, né all'altare stesso, avvolto da un potere che non sperava di sovrastare, ma al pavimento antistante. Le pietre si sollevarono, s'inarcarono, e si frantumarono, emettendo un rumore ancor più secco di quello delle frustate. Il pavimento s'increspò come un'onda di pietra, scagliando frammenti contro il muro posteriore del tempio, sprofondò improvvisamente, e, al suo posto, si aprì un'enorme voragine. Sotto dovevano esserci state le prigioni. Dasumia scese tranquilla dall'altare e si mise di fronte a lui; sorrise con approvazione e s'inchinò, poi si voltò a guardare il blocco di pietra tremare, ondeggiare, e ribaltarsi nella fossa con un forte tonfo. «Frantumato... come sei diventato cattivo», osservò allegra la donna. «Vuoi distruggere qualcos'altro?» In risposta, Elminster staccò un'asse da una panca e la spezzò sul ginocchio, incrinando la mano di Bane, le cui magie morenti sputarono scintille nere. Il mago di corte gettò a terra i pezzi di legno e afferrò un'altra asse. Dasumia scoppiò nuovamente a ridere. «Dunque, è finalmente giunto il momento del duello tra noi due, Elminster? Sei pronto a sfidarmi?» «No», sussurrò Elminster. «Avete dimenticato che cosa vi dissi, quando ci incontrammo per la prima volta alla Roccia Spaccata? Io servo dapprima Mystra... e poi Dasumia... in ultimo Galadorna. Ditemi: chi serve Dasumia in primo luogo?» La maga rise ancora. «Le scelte hanno un prezzo», affermò quasi allegramente. «Preparati a pagare le tue». Le sue mani si sollevarono in un semplice gesto, quasi immediatamente El si sentì stringere la gola e percepì una sensazione di soffocamento crescente. Le gambe sembrarono venirgli meno, gli abiti iniziarono a stringersi... sempre più attillati. L'Eletto fece per alzarsi, e vide le sue dita diventare salsicciotti screziati. Lo stesso stava accadendo al resto del suo corpo; i vestiti iniziarono a strapparsi con un rumore simile a schiocchi di frusta. Il mantello del Mago di Corte di Galadorna cadde a brandelli quando El si agitò nel tentativo di rimettersi sulle gambe, le quali continuavano a mutare in lunghezza e spessore. Dasumia rise a crepapelle al vedere Elminster diventare tanto grasso da essere schiacciato a mo' di morsa tra lo schienale
della sua panca e quella davanti a lui. Ora era largo quanto due barili, e il suo corpo non smetteva di crescere. Cercò di compiere i gesti di un altro incantesimo con dita che penzolavano e ondeggiavano, lunghe quanto il suo avambraccio. D'un tratto la magia fece effetto, e il senso di costrizione svanì improvvisamente mentre le panche di fronte, dietro, e sotto di lui si staccarono dal pavimento, lasciando sotto di sé una nuvola di polvere. El cadde supino sul pavimento, una grottesca massa di carne molle, pieghettata, e ansimante. Si sollevò a fatica, cercando di respirare, e riuscì a girarsi su un fianco, faccia a faccia col nemico. Nel momento in cui poté vederla, fece un gesto, e tre panche si gettarono contro di lei come lance giganti. Dasumia si abbassò, rotolò, fece una capriola all'indietro, si voltò quando toccò terra, flettendo contemporaneamente le magnifiche gambe e compiendo un altro balzo. Tutte e tre le panche la mancarono, e andarono a schiantarsi contro la mano nera fluttuante, con tanta violenza da scuotere la sala. Dalla mano si staccò un dito, che cadde a terra lasciando nella sua scia un bagliore magico. Dasumia sibilò una breve frase, e, quasi immediatamente, El iniziò a sollevarsi da terra. Mentre saliva, sempre più in alto, impotente, cercò di imprimersi nella mente la disposizione del tempio. La maga aveva forse intenzione di lasciarlo cadere, o di...? El vide qualcosa giù nella navata laterale e gli venne un'idea. In gran fretta elaborò l'incantesimo di cui necessitava, sapendo che da lì a poco sarebbe avvenuto l'impatto con il soffitto di pietra ricoperto di ragnatele. Terminò la magia appena in tempo per portarsi un braccio davanti alla faccia e voltare la testa, poi cozzò contro il soffitto... spaventando a morte numerosi pipistrelli che si allontanarono strillando con un gran frullio d'ali... e scoprì che la magia di Dasumia lo teneva ancora inchiodato alla pietra umida. Grattò il soffitto con braccia e gomiti, cercando di voltarsi in modo da poter vedere la maga... e non la pietra scura e sporca a pochi millimetri dal suo volto. Doveva assolutamente vedere, affinché l'incantesimo che aveva sferrato funzionasse. Grugnendo e ansimando riuscì a girarsi appena in tempo per vedere una Dasumia ghignante sollevare magicamente una delle panche fracassate e rispedirla al mittente. Sempre più grande, sempre più vicina... El cercò di uscire dalla sua traiettoria facendo perno con i piedi sulle nervature della volta, che sarebbero state distanti più di tre metri da lui se il suo corpo avesse avuto dimensioni
naturali... il mago cercò di concentrarsi sul suo incantesimo, e ignorò la panca incombente. Non vide mai la figura esile, vestita di nero, che, in piedi nell'ultima panca, prese con calma la mira, si fissò la sua posizione nella mente, e poi cominciò a elaborare il proprio incantesimo mortale. Quando El si spostò, la panca virò per seguirlo, e Dasumia sorrise pregustando l'impatto. El sarebbe stato trafitto da una serie di schegge di legno dentellate, molte di esse lunghe quanto un uomo. La donna fece tre rapidi passi lateralmente per controllare meglio la situazione... e questo era tutto ciò di cui El aveva bisogno. Il principe si rotolò nella volta, sbuffando come una grande balena volante, e dal quel riparo evocò il suo incantesimo. Due fruste si sollevarono dalla navata laterale come serpenti impetuosi, per balzare addosso alla Regina di Galadorna. Quando la panca colpì il soffitto con un tonfo e lo fece rimbalzare contro il rivestimento della volta in mezzo a una pioggia di polvere, El colse brevemente il volto sorpreso di Dasumia nel momento in cui una striscia di pelle nera e insanguinata le si avvolse intorno a un polso e la strattonò verso il pavimento, facendola cadere di schiena. La donna batté la testa sulla pietra e urlò di dolore... e tanto bastò affinché le due fruste le imprigionassero le caviglie; l'impugnatura di una le colpì gli occhi accecandola momentaneamente, quella dell'altra le si insinuò nella bocca aperta, impedendole di parlare. Gran parte della panca si frantumò e inondò il tempio sottostante di schegge di legno. Ilbryn Starym non ebbe nemmeno il tempo di fuggire: un grande frammento di legno si schiantò sulla panca di fronte a lui, piroettò schegge in ogni direzione e lo scagliò in aria, per poi farlo ricadere nel mezzo della sfera di fuoco creata dal suo incantesimo. Con un gran tonfo, questa colpì a sua volta la parete posteriore del tempio. L'elfo scivolò lentamente lungo il muro, le sue urla via via più flebili. El si ritrovò a precipitare verso il suolo, ciononostante sogghignò selvaggiamente: ciò significava che Dasumia aveva perso i sensi oppure stava abbandonando l'incantesimo in favore di un gesto disperato. Elminster diede ordine alla fruste di sollevare la prigioniera, in modo da riservarle la sua stessa fine se l'avesse sopraffatto, o se il suo atterraggio fosse stato troppo... violento. Dei! El era certo di essersi spezzato le ossa ancor prima di girarsi su se stesso, come una sorta di elefante agonizzante, e di tentare d'alzarsi. Dopo numerosi tentativi riuscì a guadagnare la posizione eretta; poi riuscì a vol-
tarsi, giusto in tempo per vedere le fruste oscillare senza prigioniera. Un istante più tardi un dolore gelido gli si insinuò nel fianco, ed El seppe dove era finita la maga. Invece di girarsi e vedere una spada gocciolante del suo sangue - cosa che le avrebbe offerto un bersaglio migliore - l'Eletto di Mystra si concentrò su un altro incantesimo, ignorando il dolore. La spada lo trafisse ancora una volta, ma El era sicuro che la sua mole le avrebbe impedito di tagliargli la gola; non sarebbe infatti riuscita a raggiungerlo senza doversi arrampicare, e, se avesse tentato, il mago non avrebbe dovuto far altro che rotolarsi e schiacciarla per sempre sotto di sé. Il principe si gettò all'indietro e udì un'imprecazione di sorpresa, accompagnata dal clangore di una spada caduta sulla pietra. Se l'arma fosse stata sufficientemente vicina, avrebbe potuto gettarvisi sopra e seppellirla. I suoi occhi incontrarono lo sguardo sbalordito di Dasumia, la donna si portò una mano alla bocca, guardò la spada tanto vicino al suo apprendista... e svanì, pochi istanti prima che El completasse l'incantesimo. El gettò indietro il capo e gridò di dolore. Quando la magia iniziò a guarire le sue ferite, sentì una sorta di fuoco imperversare nel suo corpo da gigante... fuoco che avvampò, si agitò, poi svanì rapidamente quando la guarigione fu pressoché completa. L'incantesimo avrebbe potuto teletrasportarlo in qualsiasi punto fosse stato versato sangue... sul pavimento sotto di lui, sulla spada a pochi centimetri di distanza... e sulle mani della regina, dovunque fosse! La magia luccicò, il tempio si deformò, ed Elminster si ritrovò improvvisamente dietro l'altare, dove Dasumia, acquattata, lo stava fissando con sguardo perplesso. Allungò un braccio per afferrarla nel caso avesse tentato di fuggire, ma si sbilanciò e quasi le cadde addosso. La donna effettuò una capriola all'indietro, sfiorando con i talloni la Mano Nera di Bane... ed El si schiantò a pochi centimetri da lei. Di nuovo tentò di afferrarla, ma ancora non riuscì a raggiungerla, e mentre tentava di spostare la sua enorme massa per agguantarla col braccio gonfio e deforme, la donna si fermò contro la parete posteriore del tempio e sferrò un altro incantesimo, abbozzando un beffardo sorriso di trionfo. Vi fu un bagliore improvviso. Il principe voltò la testa in tempo per vedere una delle armature animate sollevarsi e contorcersi, per poi esplodere in una sfera di schegge metalliche... schegge che presero a dirigersi rapide verso di lui. El si coprì gli occhi e la gola con un braccio, e con l'altro si mise a tastare davanti a sé, sentì il corpo di Dasumia, serrò spietato la presa, e la tra-
scinò come una bambola di fronte a sé, a mo' di scudo. Quando alcune schegge brucianti lo colpirono in tre o quattro punti, El udì la maga ansimare, ma poco dopo quel rumore cessò bruscamente. L'ex apprendista abbassò il braccio che teneva sugli occhi, e vide che Dasumia si stava mordendo le labbra, mentre dal mento e dagli occhi serrati sgorgava copioso il sangue. I frammenti metallici l'avevano trafitta in una decina di punti, e ora stava tremando. Ma che cos'erano quelle scintille di luce blu-bianca che scaturivano dal corpo della Padrona? Mentre El guardava, una scheggia si piegò, penzolò, poi si spezzò e cadde, visibilmente rimpicciolita. Un'altra sembrò fondersi dentro il corpo della donna, e un'altra ancora... per tutti gli dei! Il dolore improvviso costrinse Elminster ad abbassare il suo scudo umano. Il corpo devastato di Dasumia cadde sopra di lui... e fu allora che iniziò la vera agonia. Una nuvola di fumo si sollevò dalla zona sulla quale giaceva la donna, il cui corpo stava sprofondando lentamente in lui. Acido! Aveva trasformato il suo sangue in acido, che ora stava consumando El e le schegge. Be', di carne ne aveva in abbondanza, ma doveva assolutamente liberarsi di lei. La afferrò, la lanciò violentemente contro la Mano di Bane, alla quale rimase appiccicata per un momento, prima di cadere dietro l'altare. Fili di fumo si sollevarono dalla mano, corrosa anch'essa da una piccola quantità di acido. El si mise seduto e sospirò. Per quanto incosciente potesse essere la donna, a El mancava la forza di schiacciarla. Forse se l'avesse spinta nella voragine e vi avesse gettato sopra quelle due panche... No, non era tanto crudele. Dunque, quando si fosse svegliata, Elminster Aumar sarebbe morto. Era quasi a corto di incantesimi e ancora intrappolato in quel corpo grottescamente grasso, forse incapace di ripercorrere i corridoi che l'avevano condotto in quel luogo. Non poteva fare quasi più nulla per fermare la Signora malvagia che Mystra gli aveva ordinato di servire. La magia della donna era superiore a quella di El, come la sua superava quella di un novizio. Sarebbe stata un'abile serva di Mystra, un'Eletta migliore di lui, se solo fosse stata sufficientemente arrendevole da obbedire a qualcuno. Elminster chiuse gli occhi per non vedere il vessillo di Bane ed evocò nella sua mente un'immagine della stella blu-bianca di Mystra. «Signora dei Misteri», esclamò a voce alta nel tempio-silenzioso, «uno che è stato tuo servitore invoca il tuo aiuto. Ho mancato nei tuoi confronti, ho fallito nel mio servizio a Dasumia, ma sono certo che potrebbe servirti al mio po-
sto. Soccorrila, ti prego, e...» All'improvviso un gelo bruciante gli strappò un grido acuto. El si sentì tremare incontrollabilmente, mentre una magia più forte che mai s'impadronì di lui. Stordito, attese il colpo di grazia di Dasumia, ma questo non venne. Invece, il gelo fu sostituito lentamente dal calore, ed egli si sentì rilassare, nonostante una strana sensazione di formicolio; il suo corpo venne guarito, e iniziò a sgonfiarsi fino ad assumere dimensioni normali, e un volto che vedeva appena tra le lacrime copiose, si chinò al di sopra di lui. Poi udì una voce tenera, una voce che apparteneva alla Regina di Galadorna ma non conteneva più la fredda crudeltà di Dasumia. «Dunque hai superato la prova, Elminster Aumar, e rimani il primo e il più caro fra i miei Eletti... nonostante la tua mente sia troppo confusa per riconoscere quando un rituale di Bane è stato alterato, portando al suo altare piacere, invece che dolore, e spargendo il sangue di un individuo compiacente». Seguì una risata musicale e affettuosa: «Sono orgogliosa di te, questa notte». Due braccia delicate lo cinsero, ed Elminster gridò di stupore quando si sentì sollevare verso l'alto a una velocità incredibile, ritrovandosi poco dopo fra le stelle. Il tetto del Palazzo dell'Unicorno esplose, le torri si accasciarono, quando una colonna di fuoco argenteo si levò ruggendo nella notte. Mentre gli uomini sui bastioni urlavano e imprecavano, qualcosa di gelido e di tintinnante, che era avvolto rabbiosamente attorno a una guglia accanto alle loro teste, fuggì formando una parabola nebbiosa, per poi allontanarsi strisciando fra le strade buie di Nethrar. Un fuoco argenteo danzò sull'acqua scura, gettando pallidi riflessi sugli arazzi neri bordati di porpora, sui quali erano intessuti sorrisi crudeli, forse femminili, quale unica decorazione. Le acque della fonte magica, nere come l'inchiostro, s'incresparono, e la scena delle fiamme argentee che fuoriuscivano dal castello scomparve. L'individuo chino sull'acqua esclamò eccitato: «Hai visto? So come potremmo usarlo». «Dimmi!», sbottò una voce fredda, che subito dopo si abbassò e, rivolta in un'altra direzione, aggiunse più calma: «Cancella il servizio della Fiamma Serale. Saremo occupati, mi raccomando, Sorella Notte... fino a ulteriore avviso».
E così accadde che Galadorna perse la sua regina e il suo mago di corte nella medesima notte, meno di dieci giorni prima che gli eserciti di Laothkund si riversassero dalle colline alberate per incendiare Nethrar e distruggere per sempre il Regno dell'Unicorno. LIBRO SECONDO L'alba su una strada buia 11. CHIARO DI LUNA, FUOCO GHIACCIATO E MORTE Gli avventurieri servono per uccidere i mostri. Prima o poi essi diventano i vostri peggiori mostri, e dovete ingaggiarne di nuovi per fare la cosa più ovvia. Ralderick Hallowshaw, Giullare Da Governare un regno, dalle torri ai letamai Pubblicato approssimativamente nell'Anno dell'Uccello Sanguinario «Sembra tutto abbastanza tranquillo, vero?», tuonò il guerriero dall'alto della sella, guardando la foresta di hiexel, di foglie blu e di vecchi phandar nodosi che fiancheggiava la strada da ambo i lati. Uccelli lanciavano richiami nelle scure profondità del bosco, e piccole creature pelose si affrettavano qua e là fra le foglie secche che ammantavano il terreno muschioso e i mucchi di arbusti abbattuti ricoperti di funghi. Alcuni raggi di sole dorati penetravano qua e là, illuminando piccole radure, in cui i cespugli lottavano per raggiungere la luce, e i rampicanti adorni di muschio si facevano più radi. «Mai parlare in quel modo, Arvas», brontolò uno dei suoi compagni. «A simili parole segue solitamente un'imboscata di briganti, oppure una freccia dritta in gola... e la strada su cui cavalchiamo potrebbe benissimo rivelarsi essere la testa di qualche titano o chissà che altro». «Preferisco "chissà che altro"», grugnì Arvas. «Intendevo solo dire che non vedo graffi sugli alberi, o macchie di sangue... quel genere di cose insomma... il che dovrebbe rallegrarti». «Certo è che il Gran Duca non ci ha ingaggiato per bloccare la strada di
Starmantle mentre discutiamo di cose che preferirei non udissero altre orecchie», esclamò bruscamente una voce più profonda. «Arvas, Faldast... tacete!» «Paeregur», domandò Arvas con tono annoiato, «hai perlustrato questa strada di recente? Vedi qualcun altro, oltre a noi? Bloccare la strada a che cosa, chiedo? Da quando sono iniziati i decessi misteriosi, sembra che nessuno viaggi più da queste parti. E poi, da dove ti è venuta l'idea balzana di poter dare ordini a tutti noi? È colpa della nuova armatura, dell'elmo pesante che ti schiaccia il cervello? O si tratta della nuova brachetta con le...» «Arvas, basta!», esclamò un'altra voce, esasperata. «Per tutti gli dei, è come viaggiare con un ubriaco brontolone». «Rolian», affermò il compagno nano, «stiamo effettivamente viaggiando con un ubriaco brontolone!» Vi fu una risata generale - condivisa, seppur sarcasticamente, anche da Arvas stesso - e gli uomini del Vessillo del Fuoco Ghiacciato spronarono i cavalli; tutti desideravano trovare un luogo difendibile per potersi accampare prima che calasse la notte, oppure disporre di tempo sufficiente per tornare a Starmantle. Il Gran Duca Horostos si era nominato lord delle ricche campagne a ovest di Starmantle, lungo la scogliera boscosa di una costa che offriva pochi - e pessimi - porti. Si trattava di una terra tranquilla e sicura, talora afflitta dai soliti orsi-gufo e dai mostri alati, da bande di briganti e da mendicanti ladri; piccoli problemi che qualche soldato e qualche guardaboschi potevano facilmente gestire con arco e frecce. Recentemente, a quanto sembrava, più o meno al termine delle grandi nevicate invernali, dunque all'inizio di ciò che la gente considerava la parte proficua dell'Anno del Risveglio del Drago, il Gran Ducato di Langalos aveva in qualche modo incontrato un grande problema. Qualcosa che non lasciava tracce, ma uccideva a piacimento... mercanti di passaggio, taglialegna, agricoltori, bestiame e gruppi dei migliori soldati del duca, senza fare differenza. Persino un sommo sacerdote di Tempus, che viaggiava con guardie del corpo a cavallo, era stato dato per disperso lungo la strada alberata a ovest di Starmantle, forse vittima del misterioso assalitore. Poteva trattarsi del «Drago Risvegliato» di cui parlavano le profezie? Forse, ma i cavalieri dei grifoni avevano sorvolato l'area senza trovare alcun segno di grandi caverne, di alberi bruciati o abbattuti, o altri indizi indicanti la presenza di grosse bestie... né segni di briganti o dei loro ac-
campamenti. Nemmeno i pochi guardaboschi che ancora osavano avventurarsi tra gli alberi avevano veduto nulla... e uno a uno, anch'essi stavano scomparendo. I loro racconti narravano di una terra che sembrava priva di qualsiasi essere vivente, in cui i sentieri di caccia erano ormai ricoperti di felci. Perciò il Gran Duca aveva aperto con riluttanza le sue casse, quando gli rimanevano ancora sudditi da tassare, e aveva adottato una classica soluzione: una banda di avventurieri... in questo caso, mercenari cacciati dai ricchi tethyriani per una varietà di ragioni, che si erano riuniti, sotto il nome di Vessillo del Fuoco Ghiacciato, per cercare fortuna nelle terre situate più a est, in cui il loro passato non era tanto noto. Il denaro offerto da Horostos fu per loro come manna dal cielo. La banda era composta da dieci avventurieri, annoverava tra le sue fila un paio di maghi e un paio di sacerdoti guerrieri, ma procedeva sempre con i piedi di piombo. La terra che stavano percorrendo era loro poco familiare... ma la morte conosce ogni luogo, intimamente. Per tale motivo numerosi archi penzolavano dalle selle, nonostante il rischio di danneggiare le corde, e nessuno cavalcava con disinvoltura. La foresta era magnifica... e deserta. «Niente cervi», brontolò Arvas, e i suoi compagni, annuendo in risposta, si accorsero di quanto il gruppo fosse diventato silenzioso. Tutti attendevano l'imboscata. A una buona distanza a ovest di Starmantle la strada saliva serpeggiando intorno a uno sperone di roccia, che puntava in alto e verso il mare come la prua di una grande nave sepolta. Quando il sole calò all'orizzonte, la banda decise di accamparsi proprio in quel luogo. «Quello, se gli dei vogliono, è il luogo che fa per noi. Potremo osservare la strada e le scogliere, nonché la foresta; legheremo i cavalli sotto, e accidenti a chi oserà percorrere questa strada di notte», ringhiò Rolian. Paeregur rispose con un grugnito ben poco convinto. Quella sera la paura era palpabile nell'accampamento, e la cena non fu chiassosa come al solito. «Siamo vicini alla morte come non lo siamo mai stati», mormorò il nano, mentre tutti si avvolgevano nei propri mantelli, le armi a portata di mano, e osservavano le stelle sollevarsi in cielo dal mare. «La vuoi smettere di parlare di morte?», sibilò Rolian. «Nessuno può raggiungerci inosservato, abbiamo delle sentinelle, e mestoli e scudi potranno servire da allarme... che altro possiamo fare?»
«Andarcene da qui e tornare a Tethyr», esclamò Arvas a bassa voce... ma il campo era tanto immerso nel silenzio che la maggior parte degli uomini udì quelle parole. Molti si voltarono, con sguardo minaccioso... ma nessuno disse nulla. Il cielo nel frattempo era diventato un tappeto di stelle. «Che cos'è?», mormorò Rolian all'orecchio di Paeregur. «Non lo senti?» «Certo che lo sento», rispose piano il guerriero, alzandosi e voltandosi lento e silenzioso, la spada sguainata, scintillante al chiaro di luna. Un tintinnio strano proveniva da ovest, da qualche parte nelle vicinanze. La cima di un ormeggio? Un campanello sullo strumento di un menestrello, o sulla bardatura di un cavallo ribelle? Un istante dopo avanzò cauto sullo sperone di roccia, facendo attenzione a non calpestare le forme immobili dei compagni addormentati. Un sottile filo di nebbia si stava spostando lentamente a ridosso della roccia... strano, con la luna nascente... ma oltre a ciò non vide nulla; nemmeno un gabbiano, né un gufo. I boschi erano silenziosi, non un fruscio, non un grido di animali catturati da un predatore... nulla. Paeregur scosse il capo, perplesso, e si voltò lentamente per tornare al suo giaciglio. Ed ecco nuovamente quel tintinnio. Si girò ancora verso ovest e restò immobile, come una statua in ascolto. Poco dopo lo scampanio cessò; il guerriero alzò le spalle, diede un'occhiata ai cavalli sotto la roccia... e rimase esterrefatto. Dov'erano finiti i cavalli? Si portò rapidamente dall'altra parte dello sperone, nel caso si fossero spostati; data la lunghezza delle redini, ciò era possibile... ma, no. Erano scomparsi. «Rolian», mormorò, gesticolando, dopodiché corse fino in cima allo sperone, dove Arvas, incappucciato, sedeva immobile col volto al mare, la spada orizzontale sulle ginocchia. Hah! Si era messo anche a fare la vedetta! «Arvas!», sibilò, appoggiando pesantemente la mano sulla spalla del guerriero, «dove sono i cavalli? Se hai bevuto ancora, ti...» La spalla sotto la sua mano si sbriciolò come un mucchio di foglie secche, e l'involucro senza faccia di Arvas ruotò verso di lui per un istante prima di ridursi in cenere. Il teschio dell'uomo rimbalzò fino ai piedi di Paeregur, poi si schiantò sulla strada sottostante con un gran fracasso. Poco mancò che, per lo spavento, Paeregur non facesse la stessa fine. L'uomo corse indietro fino al primo dei suoi compagni dormienti, e sollevò la coperta con la punta della spada: un cranio lo accolse con un ghigno si-
nistro. «Per tutti gli dei», singhiozzò, scostando la coperta accanto. La lama s'impigliò nei vestiti dell'uomo e li strappò, al che numerose ossa si riversarono sul terreno e si sbriciolarono. Paeregur fu colto da vero terrore per la prima volta nella sua vita, e desiderò correre via, non importava dove, purché fosse lontano da quel luogo. Rolian ci stava mettendo un sacco di tempo ad arrivare. Il guerriero terrorizzato diede un'occhiata lungo lo sperone dove Rolian era stato seduto accanto a lui, rivolto verso la foresta. Dove diamine era...? Il tintinnio, che ora proveniva dal muro di alberi scuri davanti a lui, sembrava quasi beffardo. Una nebbia sottile si stava avvolgendo ai tronchi, e Rolian... Rolian era in piedi fra quegli alberi, la spada nell'incavo del braccio e i lacci della brachetta in mano, nella posizione a gambe larghe tipica di uomo che orina in un bosco, rivolto verso l'oscurità. Paeregur iniziò a rilassarsi, poi la paura gli attanagliò di nuovo lo stomaco. Rolian era immobile, troppo immobile. «Fuoco Ghiacciato svegliaaa!», ruggì Paeregur più forte che poté, e il suo grido riecheggiò sulle rocce circostanti e nelle profondità della foresta. Il guerriero si mise a correre verso Rolian... già sapendo che cosa avrebbe trovato. Si arrestò bruscamente dietro la figura immobile dell'amico e cercò di sbirciare al di là di essa. Zanne? Occhi? Spade in attesa? Nulla; grazie alla luce lunare riuscì a intravedere solo alberi. Allora protese delicatamente la spada. «Rolian?» Il guerriero emise un lungo sospiro mentre cadeva in avanti fra i cespugli. Si ruppe in tre pezzi prima di raggiungere il suolo, la spada rimbalzò tra le foglie secche... e Paeregur si ritrovò a fissare un paio di stivali vuoti e un groviglio di vestiti informi. Dannati dei! Il possente guerriero indietreggiò rapidamente e si voltò. Era l'unico sopravvissuto? Si guardò intorno... no. Quasi si mise a gridare per la gioia: il mago Lhaerand era in piedi, il volto imbronciato dal sonno, e anche Phostral era ancora vivo, il gigante un po' tardo ma fedele, la cui armatura lo faceva assomigliare in quel momento a una montagna scintillante al chiaro di luna. Due. Solo due. «Qualcosa ha ucciso tutti gli altri», spiegò loro Paeregur. «Qualcosa che ammazza all'istante, in silenzio». «Oh?», ringhiò Lhaerand. «Che cos'è?»
Di nuovo si udì il tintinnio, forte e insistente, sopra le loro teste; improvvisamente tornò anche la nebbia, che scivolando fra i loro piedi si spostò lungo lo sperone di roccia. Il guerriero strinse gli occhi. «Lhaerand», esclamò all'improvviso, «sai lanciare il fuoco?» «Sì, naturalmente», sbottò il mago. «A chi? Io...» «A quella cosa!», urlò Paeregur, la voce colma di paura. «Subito!» E come se avesse udito le sue parole, la nebbia si addensò in un fumo brillante, e colpì repentina Phostral. Il gigante aveva sollevato la spada per sfidare la creatura ancor prima del grido del compagno; gli altri due poterono solo vedere la sua schiena, e udire un debole sospiro - una sorta di sfrigolio? Un gorgoglio? - nell'istante prima che gli cadesse la spada dalle mani. E con essa il guanto di ferro. Poi, lentamente, Phostral si voltò verso i compagni, con l'avambraccio che terminava in un moncone. L'elmo era vuoto, la testa era stata completamente bruciata, ma qualche cosa lo riempiva, o perlomeno lo teneva al suo posto, sopra l'enorme petto corazzato del guerriero. Ciò che restava di Phostral avanzò vacillando verso di loro, ma molto lentamente. Il mago indietreggiò e cominciò a balbettare un incantesimo. Immediatamente il gigante si voltò verso di lui e cadde sulla faccia mentre un turbine bianco si levò da esso. Peregur urlò in preda al panico, agitando la spada, pur sapendo che ciò non sarebbe servito a nulla... ma Lhaerand gridò più forte e si mise a correre lungo lo sperone, con la nebbia alle calcagna. Il mago non tentò neppure di voltarsi e combattere; corse più veloce che poté e saltò oltre il dirupo, e, dopo aver urlato brevemente si schiantò sulla strada sottostante. Quella era una morte disperata. Paeregur deglutì. Che differenza avrebbe fatto una morte eroica? E come avrebbe fatto un menestrello a riconoscerla, una volta che di lui fossero rimaste solo ossa e ceneri? Lentamente, il turbine tornò verso di lui, tintinnando... come se volesse giocare con l'avventuriero rimasto. Il guerriero strinse i denti, sollevò la spada, e quando stimò che la nebbia fosse sufficientemente vicina, sferrò un colpo e si spostò da parte, dopodiché si accinse a colpirla di rovescio. Come si era aspettato, la lama incontrò il nulla, e, ciononostante, sembrò attraversata da una striscia di scintille, che, tuttavia, si spensero non appena si mise a correre freneticamente lungo la roccia sporgente.
Paeregur si voltò bruscamente, per sferrare ancora inutili colpi con la sua arma, e per poco non gli cadde di mano dopo che ebbe calpestato l'elmo di un compagno. La nebbia turbinò e si portò sopra la sua testa, ma l'uomo fece uno scarto laterale per evitare che gli piombasse addosso; la creatura continuò allora la sua corsa intorno alla sua spada, per poi dirigersi repentina lungo il braccio del guerriero. All'ultimo istante, invece di sfiorarlo, la nebbia gelida lo colpì... ed egli fu invaso da un'agonia bruciante. Paeregur si rese appena conto che stava gridando e continuò, vanamente, ad agitare il braccio nell'aria. Il suo unico braccio. Dell'altro non rimaneva che una massa contorta di carne e di pelle bruciate. Non vi era sangue... ma il suo braccio era scomparso, il braccio con cui reggeva la spada. Paeregur si guardò selvaggiamente intorno, mentre il filo di nebbia gli passava accanto, con aria quasi beffarda, e vide la sua spada sopra un ammasso confuso che poco prima era stato un sacerdote di Tymora. La Signora della Fortuna... gliene aveva portata davvero molta! Con una corsa malferma, a causa della maggiore leggerezza di una parte del corpo rispetto all'altra, raggiunse la spada e la raccolse. Non si era ancora raddrizzato che venne colto nuovamente da un dolore bruciante; cadde pesantemente sulla roccia e vide uno dei suoi stivali volare via: la creatura gli aveva disintegrato una gamba. Cercò di sollevarsi, di muoversi, facendo perno sulla gamba rimastagli, ma non smise di agitare la spada in modo provocatorio. La nebbia gli si avvicinò, ed egli iniziò a mulinare disperatamente l'arma; la lama colpì due volte la roccia intorno a lui, una volta con tanta violenza da scheggiarne il filo, ma Paeregur non vi fece nemmeno caso. Stava per morire... La nebbia si tuffò su di lui, il tintinnio si fece più intenso, ed ecco nuovamente quel dolore bruciante. Questa volta era scomparsa l'altra gamba, ed egli ruzzolò impotente, senza tuttavia cessare di agitare l'inutile spada. Un arto per volta... la creatura si stava prendendo gioco di lui. Lo avrebbe forse ridotto a un tronco impotente, incapace di far nulla se non di assistere alla sua morte lenta? Un istante più tardi, mentre fra le lacrime guardava le stelle incuranti, capì che la risposta alla sua domanda sarebbe stata affermativa. Si chiese fino a che punto la creatura avesse intenzione di farlo soffrire, poi decise che non gliene importava più nulla... tutti coloro che morivano abbastanza lentamente da sapere che cosa stava accadendo sarebbero finiti certamente in un luogo al di là di ogni preoccupazione.
Egli era... era Paeregur Amaethur Donlas, e aveva incontrato la morte su una roccia nelle terre selvagge del maledetto Gran Ducato di Langalos, all'inizio dell'estate dell'anno settecentosessantasette (Calcolo di Dale), senza nessuno che compiangesse o registrasse il suo trapasso, e i suoi compagni erano morti tutt'intorno a lui. Be', grazie a tutti, o dei vigili. L'ultimo pensiero di Paeregur fu quello di ricordare il nome di una determinata stella... solo di quella... La cripta della famiglia Moondark era ricoperta di rovi, di rampicanti e di alberelli curvi e contorti, deformati da incantesimi guardiani, ancora attivi dopo numerosi secoli. Casa Moondark, una felice mescolanza di sangue elfo e umano, era conosciuta un tempo per la sua magia malvagia, ma erano circa centosedici inverni che nessun Moondark percorreva le strade di Faerûn. Westgate era molto contenta di ciò. Niente più incantesimi potenti che potessero sfidare un re o sconfiggere sedicenti nobili, nessun obbligo di essere gentili con mezzo sangue belli, colti, brillanti, sempre allegri... e troppo insistenti su giustizia e onestà di governo. Vi era persino un cartello, molto più recente delle porte magicamente chiuse: «Questa è la fine di tutti coloro che troppo insistono». Elminster sorrise truce a quella scritta d'avvertimento, che fu la prima cosa che si sbriciolò al tocco di una delle sue più potenti magie; gli incantesimi guardiani, da tempo sopiti, furono la seconda. Era quasi l'alba a Westgate, e il mago desiderava essere al sicuro nella tomba prima che la gente uscisse per le strade. Le guardie all'angolo stavano ancora sbadigliando e sonnecchiando contro il muro della cripta quando Elminster scivolò al suo interno. Nel breve tratto lungo il corridoio fiancheggiato di statue, fino alle porte della tomba a colonne, la magia di El disintegrò un numero impressionante di trappole. Una strana pratica per un individuo al servizio di Mystra... ma, del resto, la dea gli aveva ordinato numerose «cose strane» da quando la conosceva. Ciò che doveva fare in quel luogo era uno dei compiti più importanti di un Eletto. Un compito che sembrava suscitare un'allegria quasi fanciullesca nella Signora dei Misteri. Elminster Aumar avrebbe fatto qualsiasi cosa per vederla sorridere in quel modo. In un paio di secondi infranse i sortilegi alle porte, i raggi assassini e le trappole di spade; il fatto che la gente dovesse entrare di tanto in tanto in
una tomba di famiglia per propositi legittimi, quali i funerali, significava che tali difese erano di secondo ordine. Un istante più tardi El entrò nella stanza scura, sigillò la porta alle sue spalle, e illuminò con un bagliore magico la sala dal basso soffitto ricoperto di ragnatele. Quasi un centinaio di sarcofagi di pietra erano accatastati tutt'intorno a lui. Quelli più antichi erano i più grandi, recavano incisioni lungo i fianchi e l'effigie del defunto sul coperchio, quelli più recenti erano casse di pietra liscia; alcune di esse erano persino senza nome. Grazie al cielo tutti i cadaveri erano rigorosamente morti; non aveva molto tempo e desiderava eseguire con calma la parte più divertente. I brillanti e ricchi Moondark erano stati tanto accorti da lasciare una lastra funeraria al centro della cripta: un tavolo alto sul quale poteva giacere la bara del defunto più recente durante l'ultimo servizio di commemorazione, prima che venisse sollevata e deposta su una delle pile lungo i muri, dove sarebbe rimasta per sempre, indisturbata. O perlomeno fino all'arrivo di uno scaltro Eletto di Mystra. Elminster si mise a canticchiare una melodia della perduta Myth Drannor e nel contempo depose il mantello sulla lastra... un mantello bizzarro di pelle foderata, ormai stinto e sempre più rattoppato. L'interno recava numerosi tasconi grezzi, apparentemente vuoti. El li tastò affettuosamente, poi si voltò e girò per la stanza sbirciando negli angoli bui, in particolari sarcofagi, e persino sotto la lastra funeraria. Quando terminò, infilò le dita in una tasca alta e ne estrasse una fiaschetta avvolta da un laccio e contenente un liquido ambrato. La sollevò e mormorò: «Mystra, a te, come sempre. Un'ombra pallida del fuoco del tuo tocco». Dopo aver bevuto un lungo sorso, El tappò la bottiglia, sospirò soddisfatto, e la ripose nel mantello... in una tasca che continuava a sembrare vuota. Frugò in un'altra con entrambe le mani e ne estrasse una bacchetta magica in un logoro astuccio di pelle di drago. Per farlo sembrare antico, aveva sprecato due incantesimi, e aveva dovuto sfregarlo a lungo contro le mura di pietra di un vecchio castello. Ma era ancora più fiero della bacchetta, apparentemente scolorita da decenni d'uso, che aveva invecchiato in pochi minuti con grasso d'oca, sabbia e fuliggine. Ora, Eaergladden Moondark era morto povero, supplicando i parenti per avere poche monete di bronzo con cui comprare un pollo... ma chi eccetto Elminster era ancora vivo per ricordare quella storia? Un mago esperto come Eaergladden poteva benissimo aver posseduto una bacchetta magica, e naturalmente un libro di in-
cantesimi... El rovistò nuovamente nelle tasche e ne tolse un grosso tomo consunto, dagli enormi angoli d'ottone ammaccato... che non aveva voluto vendere nell'ultimo anno di vita. Per non menzionare il solito coltello incantato, che non arrugginiva e non diventava opaco, e che s'illuminava a comando; quegli incantesimi erano fatti per durare, diciamo, tre secoli grazie alla magia elfa di uno dei più poveri apprendisti di Myth Drannor. Già, proprio così. Elminster sollevò il coperchio del sarcofago di Eaergladden, e mormorò: «Buongiorno, Mago Maestro dei Moondark», e depose delicatamente bacchetta, pugnale e libro al posto giusto intorno allo scheletro mummificato. Poi richiuse la bara e tornò al suo mantello per prendere qualche pergamena, accuratamente invecchiata, e un libricino consunto di osservazioni magiche, rune copiate, e incantesimi incompleti che avrebbero indotto anche uno stupido a creare una magia. In quei giorni tale lavoro aveva assorbito gran parte del suo tempo al servizio di Mystra; la dea gli aveva chiesto di viaggiare per Faerûn visitando rovine e tombe di maghi defunti, disseminando «antiche» pergamene, libri d'incantesimi, oggetti magici, e persino qualche bacchetta, affinché qualcuno li trovasse... mentre tali resti erano, in realtà, oggetti che aveva appena creato e appositamente invecchiato. Quasi sempre, poi, tra i tesori che lasciava vi erano annotazioni che avrebbero spinto chiunque avesse il dono della magia a sperimentare e a creare un «nuovo» incantesimo. A Mystra non interessava molto chi trovasse tali oggetti, o come venissero utilizzati... l'importante era aumentare la quantità di magia in uso, e che il numero di praticanti non si limitasse a pochi arcimaghi che tiranneggiavano chi era magicamente meno dotato o del tutto incapace, com'era già accaduto al tempo della perduta Netheril. All'Eletto piaceva tale missione e spesso era costretto a combattere la tendenza maliziosa a indugiare tra le rovine e nelle cripte, lasciando che le luci da lui evocate e gli effetti dei suoi incantesimi fossero visti da altri, al fine di attirare qualche avventuriero. «Ingegnose quasi quanto un'orda di orchi», aveva osservato una volta Mystra, parlando delle sue tattiche, ed El sapeva che aveva ragione. Perciò quel giorno afferrò risoluto il suo mantello, pronunciò l'incantesimo potente che Azuth gli aveva fornito per cancellare ogni traccia o eco magico della sua visita, e uscì sotto forma di ombra. Ripristinò alcuni incantesimi guardiani e poche trappole, dopodiché scivolò fuori sulla strada, a pochi centimetri di distanza dalla schiena di una guardia, la cui attenzione fu atti-
rata da una moneta d'oro che sembrava esser piovuta dal cielo pochi istanti prima. Inosservata, l'ombra ritornò solida e si allontanò. La figura incappucciata, dal naso adunco, aveva appena girato un angolo, quando un cavallo scuro giunse trottando in un via vai di individui affaccendati e si fermò bruscamente davanti alla guardia. Questa sollevò il capo, inarcò un sopracciglio, e si ritrovò a guardare un giovane elfo, con una tunica color marrone-rossiccio e sulle spalle un raffinato mantello, che stava osservando la moneta d'oro nel suo palmo calloso. La guardia chiuse la mano frettolosamente ed esclamò: «Sì? Che cosa vuoi, straniero?» «È di Myth Drannor, non è vero?», chiese piano l'elfo. «Trovata qui intorno?» Il soldato arrossì. «Me l'hanno pagata, ci puoi giurare», tuonò. L'elfo annuì e il suo sguardo indugiò a lungo sulla cripta ricoperta di vegetazione davanti alla quale il soldato era di guardia. I Moondark... quella casata ibrida di maghi dilettanti; tutti coloro che avevano trovato la strada di casa per andarvi a morire, ora condividevano la tomba di famiglia, com'erano soliti fare gli umani. Dall'aspetto era ancora in buone condizioni, gli incantesimi guardiani ancora attivi. Possibile che, blindata com'era, qualche uccello curioso o qualche scoiattolo avesse sottratto una moneta d'oro e l'avesse portata fuori dalle mura? Il mago strinse gli occhi, e il suo volto assunse un'espressione assassina, al che la guardia alzò cauta la sua arma e si rimpicciolì dietro di essa. Ilbryn Starym rivolse un sorriso assente all'uomo e spronò il cavallo verso la taverna Stelle e Spada. I maghi che giungevano a Westgate alloggiavano sempre alla Spada, nella speranza di essere presenti quando Alshinree fosse entrata e avesse effettuato la sua danza estatica. Alshinree stava diventando vecchia e macilenta, le sue danze non erano più come una volta, quando l'edificio soleva riempirsi di uomini bramosi. Adesso erano più che altro messinscene e brontolii da ubriaca... ma, talora, poco più di una volta al mese, il fenomeno accadeva ancora. Una Alshinree in trance iniziava a pronunciare parole d'incantesimi sconosciuti dai tempi di Netheril, consigli che sarebbero potuti provenire dalla stessa Signora dei Misteri, e istruzioni dettagliate sui luoghi, sulle trappole e persino sui contenuti di alcune tombe di arcimaghi, di scuole di magia in rovina, di nascondigli stregati e infine di templi da tempo dimenticati e dedicati a Mystra.
Ai maghi che rivolgevano la parola alla ballerina al di fuori della Spada o che tentavano d'infastidirla nel locale accadevano brutte cose, perciò gli uomini s'accontentavano di prenotare una stanza alla locanda, alcuni di essi tanto spesso da vivere praticamente in quel luogo. Anche se un certo mago umano - Elminster, ex Mago di Corte di Galadorna, prima della caduta del regno - non aveva preso alloggio alla Spada, la taverna conteneva numerosi individui di Westgate che l'avevano probabilmente visto nei dintorni o che avevano sentito parlare di lui. Gli sguardi severi rivoltigli da ogni guardia e da molti mercanti che aveva superato sortirono d'improvviso l'effetto desiderato; Ilbryn Starym batté le palpebre, si guardò intorno, e si accorse che il suo destriero al galoppo, con gli zoccoli che scivolavano sui ciottoli, stava creando non poco scompiglio per la strada. Tirò le redini e mise il cavallo al passo. Poco più avanti spiccava l'insegna della famosa taverna, luminosa e magicamente animata, e l'erede degli Starym guidò l'animale tra la gente affaccendata, nella speranza di trovare qualche risposta, o persino l'uomo che cercava. Mentre spostava le redini in una mano per suonare con l'altra il campanello dello stalliere che avrebbe badato al cavallo, Ilbryn scoprì che qualcosa che aveva in una tasca della cintura gli era finito in mano: un brandello di tessuto rosso, appartenuto al mantello del Mago di Corte di Galadorna. Il mantello di Elminster. L'elfo lo guardò attentamente e, nonostante la sua mano fosse immobile come un sasso, il suo bel viso assunse un'espressione truce e turbata; gli occhi acquisirono uno scintillio tanto minaccioso che i due garzoni arretrarono e dovettero essere persuasi a tornare. Quando scese da cavallo e raggiunse la maniglia della porta d'entrata della taverna, finemente intagliata, Ilbryn Starym sorrise lievemente. Sempre sorridendo, l'elfo si mise una mano dietro la schiena - quella illuminata dal bagliore di un incantesimo mortale pronto all'uso - e con l'altra aprì la porta ed entrò. Gli stallieri indugiarono, quasi si aspettassero di udire un tonfo terrificante, o di vedere fumo, oppure corpi scaraventati fuori dalle finestre... ma lo sperato divertimento non venne. 12. IL TRONO VUOTO Dev'essere molto seccante per gran parte dei maghi non poter rag-
giungere l'immortalità nonostante tutti i loro incantesimi. Molti tentano di diventare dei, ma pochi ci riescono. Per questo dobbiamo rendere grazia. Sambrin Ulgrythyn, Saggio Signore di Sammaresh Da La veduta dalla collina tempestosa Pubblicata approssimativamente nell'Anno del Cancello Lontano, a est di Westgate, proprio mentre un elfo sorridente scivolava in una locanda in cerca di guai, una sorta di nebbia stava attraversando un'antica foresta. Era una nebbia che scintillava e tintinnava in continuazione, muovendosi risoluta fra gli alberi. Talora acquisiva una forma quasi umanoide, alta e possente, talaltra avanzava col movimento ondulatorio tipico di un serpente. Nessun uccello cinguettava nelle vicinanze, e nulla frusciava tra le foglie morte del sottobosco; solo quel vento disturbava i rampicanti e i brandelli di muschio penzolante tra cui si faceva strada; nella foresta regnava un silenzio assoluto. Non c'era però da meravigliarsi; i suoi passaggi precedenti non avevano lasciato vita alcuna in quella parte di foresta. La nebbia si era lasciata alle spalle il cimitero del Vessillo del Fuoco Ghiacciato, e aveva viaggiato per miglia lungo la strada deserta fino a un luogo in cui molti occhi non avrebbero notato un sentiero, ormai ricoperto d'erbacce, svoltare nel bosco. La nebbia si mosse lungo gli avvallamenti e le curve di quella strada, passando come fumo impetuoso sopra ponti di pietra pericolanti che attraversavano i rivoli d'acqua, fino alla distesa verde in cui finiva la strada... e iniziavano le rovine. Le file di vecchi alberi giganteschi che fiancheggiavano la strada nascosta cedettero il posto a un ammasso di carri e di carrozze cadenti, anch'essi reclamati dall'edera. Poco oltre si ergevano boschetti, al cui centro vi erano tumuli ricoperti di vegetazione, un tempo case e stalle. Oltre i boschetti si ergevano querce tanto alte da soffocare gli alberelli circostanti e gettare un'ombra perenne sulle rovine di un ponte levatoio abbassato su una spaccatura profonda e fangosa, che un tempo era stata un fossato... e sulle colonne di pietra all'interno del fossato, vecchi contrafforti di mura perlopiù crollate. Mura che un tempo guardavano Faerûn da molto in alto. La fortezza diroccata non rassomigliava più nemmeno a un edificio. La nebbia si addentrò nel groviglio di alberi e di rampicanti che crescevano
nelle zone interne, come se sapesse il luogo esatto di ogni stanza. Via via che avanzava, le mura si facevano più alte; qua e là erano sopravvissuti pezzi di soffitti e di tetti, sebbene tutti i passaggi a volta fossero sventrati e senza porte, e non vi fosse alcun segno di vita all'interno del castello. La nebbia si arrestò in una stanza, un tempo ampia e grandiosa. Dai fori nelle pareti si vedeva la foresta all'esterno, ma il soffitto esisteva ancora, e c'erano persino alcuni mobili. Un enorme letto a baldacchino, ormai marcio, si ergeva con le sue colonne decorate e la biancheria d'oro, scintillante fra le incrostazioni verdi di muffa. Accanto al letto vi era anche un'agrippina, inclinata su una gamba spezzata, e numerosi sgabelli ricoperti da funghi. Poco oltre, accanto a una fila di armadi cadenti, si levava, dal pavimento di marmo crepato, uno specchio ovale, scrostato, alto quanto un uomo. In un'altra parte della stanza l'acqua gocciolava costantemente su quello che, un tempo, era stato un enorme tavolo; oltre a esso, in un angolo scuro, vi era un parapetto dalla forma circolare. All'interno del muro, alto fino al ginocchio, si vedeva solo oscurità... e quando la nebbia riprese a muoversi, si diresse subito verso quella sorta di pozzo. Quando si avvicinò, improvvisi lampi di luce balenarono nell'aria sopra il parapetto. La nebbia esitò, si levò più in alto, e avanzò ulteriormente verso il pozzo. Il bagliore la raggiunse, la illuminò, accompagnato da scintille che percorsero i muri di pietra e il pavimento circostante, delineando rune e simboli fino ad allora invisibili. La nebbia turbinò per un momento fra quelle lingue scintillanti di luce silenziosa... poi si calò repentina nel pozzo. Fili magici intricati avvamparono per un istante quando la nebbia vi passò attraverso, forse nel tentativo di trattenerla, ma quando scomparve nelle profondità del pozzo, i resti sbiaditi degli incantesimi guardiani caddero nuovamente in uno stato di quiescenza. Il condotto, largo, profondo e completamente buio, terminava con un pavimento sconnesso di pietra naturale... situato all'estremità di una vasta caverna sotterranea. La nebbia strisciò in quel vuoto vellutato con la sicurezza di chi si muove nel buio in un luogo familiare. Poi tintinnò lievemente quando il suo debole bagliore evidenziò una sagoma: un trono di pietra, imponente e vuoto. La creatura tintinnante si fermò a poca distanza da esso, e volteggiò so-
pra un semicerchio di grandi e complesse rune, incise nella roccia di fronte al trono. La nebbia sembrò indugiare pensierosa per qualche istante, ma, d'un tratto, si mise a vorticare rapida, e si innalzò a spirale con uno scintillio e un tintinnio incessanti. La velocità aumentò vertiginosamente, polvere e ciottoli vennero assorbiti da essa e il turbine divenne una colonna in continuo mutamento. Sviluppò due braccia, e le riassorbì, poi fu la volta di strane protuberanze, forse teste, e infine avvampò, per poi oscurarsi improvvisamente. Il vortice di nebbia era scomparso e al suo posto vi era la sagoma spettrale e diafana di una donna alta e magra in una tunica disadorna, i piedi e le braccia nudi, i capelli aggrovigliati lunghi fino alle ginocchia, lo sguardo selvaggio. La donna sollevò le braccia in segno di trionfo o di felicità, e scoppiò in una risata da pazza, che riecheggiò tra le pareti della caverna. «Osi dubitare delle visioni inviateci da Nostra Signora che Canta nell'Oscurità?», domandò una voce fredda da dietro il velo. «Ciò mi sembra un'eresia... o persino scetticismo». «N-no, Terribile Sorella», rispose una seconda voce femminile, un po' troppo frettolosamente. «Si tratta di un mio difetto, non di un atto di miscredenza o di scortesia nei confronti della Cantante della Notte... e non vedo perché questo santuario debba essere costruito nelle profondità di un bosco, in cui nessuno vive e perciò nessuno saprà mai della sua esistenza». «È necessario», rispose la prima voce. «Sdraiati sulla lastra di pietra. Non sarai incatenata; la tua fede verrà dimostrata dalla tua capacità di rimanere immobile mentre l'orso-gufo si ciba di te. Offriti senza resistenza, e non avere paura. I miei incantesimi ti terranno in vita, qualsiasi parte di te divori la bestia... e indipendentemente da quanto doloroso possa sembrare, indipendentemente dalle ferite che riporterai, sarai completamente guarita al termine del rito. Io sono sopravvissuta a tale prova, ai miei tempi, al pari di poche altre. Ciò rappresenta un segno di onore autentico; il sangue di un individuo tanto fedele è la consacrazione migliore che possiamo offrire alla Terribile Signora del Tutto». «Sì, Terribile Sorella», sussurrò la discepola, la voce tremante come il resto del corpo. «I-io... la mia mente rimarrà indifferente al vedere qualcosa che mi divora?» A quel pensiero la sua voce si trasformò quasi in un grido di terrore. «Be', Terribile Sorella», rispose calma la voce dietro il velo, «dipende da
te. La pietra ti attende. O discepola più cara tra i discepoli, rendimi fiera in questo giorno, non farmi vergognare. Io ti guarderò... e lo stesso farà colei che è di gran lunga più grande di quanto noi potremo mai diventare». «Per il sorriso di Mystra, è meraviglioso!», esclamò Beldrune sorpreso, mentre allungava e piegava sperimentalmente le dita. «Mi sento effettivamente più giovane; tutti gli acciacchi sono scomparsi». Si mise seduto con un rapido movimento, si sfregò la faccia intorno agli occhi, e tra le dita fissò Tabarast con sguardo serio. «È tempo di verità, fidato collega dell'arcano», affermò risoluto. «I maghi di un certo rango non "trovano" semplicemente nuovi sortilegi nelle ultime pagine del proprio libro d'incantesimi, fino ad allora vuote. Da dove viene realmente?» Tabarast dalle Tre Maledizioni Cantate lo guardò piuttosto severamente da sopra gli occhiali sporchi. «Non stai invecchiando bene, mio carissimo Droon. Noto in te una tendenza crescente, e decisamente antipatica, a dubitare apertamente della testimonianza degli anziani più saggi. Rimedia a tale pecca, ragazzo mio, mentre ancora conservi qualche relazione amichevole con individui che possono fungere da anziani più saggi... poiché è certo, data la tua età avanzata e la tua saggezza, che questi sono pochi, e d'ora in poi saranno sempre meno». Il mago più anziano fece alcuni passi, pensieroso, e si grattò il naso. «E invece l'ho proprio trovato su una pagina che è sempre stata bianca, e che desideravo riempire con un incantesimo potente. Non so come sia finito nel mio libro, ma credo... posso solo credere... che la sacra Mano della Signora, sia in qualche modo coinvolta nella faccenda. Risparmiami la tua solita predica sul rifiuto assoluto ed eterno di Mystra di donare magie ai mortali». Beldrune batté le palpebre. Tabarast attese, facendo attenzione a non sorridere. «Molto bene», affermò il mago più giovane dopo una pausa, che sembrò più lunga di quanto non fosse, «ma ora mi lasci senza parole. Temo che me ne starò un po' in silenzio». A quel punto Tabarast non poté non sorridere, e, in tono innocente, chiese: «È una promessa?» Nonostante non si vedesse creatura alcuna nell'ombra scura delle querce, dove i tronchi erano tanto vicini da toccarsi, l'umano solitario percepì che qualcuno lo stava osservando, e da molto vicino. Deglutì, e decise di ri-
schiare. «È questo il luogo che gli uomini chiamano "Tangletrees"?», chiese tranquillo, sedendosi su un enorme tronco abbattuto, ricoperto di muschio, e posandovi sopra il bastone consunto. «Sì», rispose una voce soave e melodiosa come poteva essere solo la voce di un elfo. Umbregard da Galadorna resistette all'istinto di girarsi verso il punto dal quale sembrava provenire la voce, e sorrise stendendo le mani con i palmi rivolti verso l'alto. «Vengo in pace, senza fuoco né volontà, o desiderio, di distruggere. Sono qui per cercare risposte». Una risatina profonda giunse alle sue orecchie, seguita dalle parole: «Come tutti, uomo... e i più fortunati ne trovano qualcuna. Sii mio ospite per un po', mettiti a tuo agio. Alzati e aggira quei due alberi intrecciati alla tua destra. C'è acqua in una conca, e sospetto che sarà la più pura che le tue labbra abbiano mai toccato». «I miei ringraziamenti», rispose Umbregard. La conca era fredda e scura come una caverna, le foglie si intrecciavano sopra la testa, e nessun raggio di sole toccava mai il suolo. Il lieve bagliore emanato da un gruppo di funghi bastò a illuminare una pietra al margine della pozza, e un calice di cristallo su di essa. «È per me?», chiese il mago umano. «Naturalmente», rispose la voce calma. «Temi gli incantesimi degli elfi?» «No», ribatté Umbregard. «Piuttosto non vorrei recare offesa impossessandomi di cose con troppa sfacciataggine». L'uomo afferrò il calice... era fresco al tocco, e in qualche modo più morbido tra le sue dita di quanto avrebbe dovuto essere... lo immerse nello specchio d'acqua, e bevve. Mentre le increspature si rincorrevano verso le sponde, gli parve di vedere in esse un triste volto elfo dagli occhi scuri osservarlo per un istante... ma se davvero così fu, l'istante dopo era scomparso. L'acqua era buona, e gli sembrò nel contempo rinvigorente e lenitiva. L'uomo la lasciò scorrere giù per la gola, chiuse gli occhi, e si concesse un momento di piacevole silenzio. Da qualche parte un uccello emise un richiamo e un altro rispose. Era tutto molto pacifico... si drizzò con un sussulto, temendo per un attimo di aver dormito sotto un incantesimo elfo, e con cautela ripose il calice sulla pietra.
«Molte grazie», ripeté. «L'acqua era davvero come l'avete descritta. Sappiate che sono Umbregard da Galadora, e che sono fuggito lontano quando il regno è stato distrutto. Sono un mago, malgrado non possa vantare grandi poteri, e spesso, durante i miei viaggi, ho pregato Mystra... la dea della magia venerata dagli umani». «E per che cosa l'avete pregata?», domandò la voce elfa con tono interessato, ora molto vicina. Nuovamente Umbregard resistette alla tentazione di girarsi a guardare da dove provenisse. «Perché guidasse la mia magia verso fini nobili e perché aiutasse un individuo, per nulla interessato a usare gli incantesimi come spade, per minacciare o uccidere, a costruire una vita», rispose. «Prima della caduta Galadorna era diventato un covo di vipere sputa incantesimi, tutte impegnate a eliminare i rivali, incuranti della desolazione e della rovina che così arrecavano. Io non sarò come loro». «Ben detto», esclamò l'elfo, e Umbregard udì il calice immergersi e levarsi dalla sorgente. «Tuttavia, per uno della tua razza, il viaggio attraverso la foresta ombrosa sarà stato lungo e faticoso. Che cosa ti ha portato in questo luogo?» «Mystra mi ha mostrato la strada e questo querceto», spiegò Umbregard. «Non sapevo chi avrei incontrato qui, ma sospettavo che sarebbe stato un elfo dell'antica Myth Drannor... poiché avrebbe saputo che cosa significava scegliere una strada dopo la caduta del proprio regno e la morte di tutti i propri cari». «Certamente avete il dono della schiettezza, Umbregard», rispose l'elfo, e l'uomo udì chiaramente un sussulto nella sua voce. «Non intendevo offendervi», rispose il mago umano, voltandosi rapidamente e porgendo la mano. Un elfo della luna con una camicia color blu scuro, aperta sul petto, e un paio di calzoni di pelle infilati in stivali alti, sedeva a un palmo da lui, con il calice in mano. Sembrava disarmato, nonostante due piccole gemme nere, a forma di goccia, scintillassero come due stelle scure sopra la sua spalla sinistra. Sorrise a un Umbregard sbalordito e affermò: «Lo so. Anch'io sono conosciuto, tra la mia gente, per la mia franchezza, insolita per la mia razza. Nella tua lingua sono chiamato Starsunder; una stella cadde dal cielo quando nacqui, ciononostante dubito fortemente che qualsiasi cosa essa annunciasse avesse a che fare con me». Il mago umano ammutolì, si ritrasse, ed esclamò: «Quello è uno dei...»
L'elfo inarcò le sopracciglia. «Sì?», chiese. «O stavate per lasciarvi sfuggire un segreto?» Umbregard arrossì. «Ah, no... no», rispose. «Quello è uno dei detti dei sacerdoti di Mystra. "Cerca colui per cui cadono le stelle, poiché egli dice il vero"». Starsunder batté le palpebre. «Oh, cielo. Il mio ruolo, a quanto sembra, è già scritto», asserì con un sorriso, poi bevve, e ripose il calice sulla pietra, cautamente, come aveva fatto Umbregard prima di lui; il bicchiere di cristallo svanì silenziosamente. «Quali verità state cercando?», chiese Starsunder, e in quel momento Umbregard capì che l'ironia nella voce di un elfo non sempre equivale a una presa in giro. Esitò un istante, poi rispose: «A Galadorna si mormorava che l'uomo chiamato Elminster, il nostro ultimo mago di corte, visse a Myth Drannor molto tempo fa, e praticò magia nera. So che sto chiedendo di un uomo, e che pretendo troppo... perché poi dovreste rivelarmi liberamente i vostri segreti?... ma devo sapere. Com'è possibile che gli uomini possano vivere a lungo quanto gli elfi, e perché? A quale scopo?» Starsunder sollevò una mano. «Inizia la piena», esclamò in tono scherzoso. «Fermatevi un momento, altrimenti le mie risposte si perderanno nel fiume delle vostre prossime domande e di quelle che seguiranno». L'elfo sorrise e si appoggiò a una radice. «Sì, lo stesso uomo di nome Elminster dimorò a Myth Drannor da prima della stesura del mythal fino a poco tempo dopo, imparando e operando molte magie. Egli fu tra i primi umani a dimorare fra noi, e chi non tollerava l'idea, e invidiava il suo potere potrebbe aver definito "neri" alcuni dei suoi incantesimi, ma in verità io non li posso giudicare tali, come non posso giudicare le ragioni per cui li effettuò». Umbregard aprì la bocca per parlare, ma Starsunder ridacchiò e sollevò nuovamente la mano per zittirlo. «Non ancora, per favore; le verità importanti non possono essere affrettate». Il mago arrossì, poi sorrise e fece cenno all'elfo di continuare. Quando riprese la parola, i suoi occhi acquisirono uno strano luccichio. «Gli umani che conoscono sufficientemente la magia... o meglio, che pensano di conoscerla... tentano in tutti i modi di allungarsi la vita. Molti tra i metodi per farlo, dagli elisir alla dimensione spettrale, sono imperfetti, in quanto distorcono la natura essenziale degli individui che li utilizzano; nel processo essi diventano infatti esseri nuovi... e come asserirebbero molti,
me compreso, "esseri minori". Se voi mi chiedeste come poter vivere più a lungo, io vi risponderei che l'unica via nobile per farlo... sebbene vi cambierebbe alla stregua dei metodi più abietti... è quella che il nostro Elminster ha intrapreso... o forse nella quale è stato indotto. Non so se l'abbia cercata ardentemente, se l'abbia trovata per caso, o se sia stato costretto a imboccarla, ma so per certo che egli serve Mystra quale discepolo speciale, obbedendole in cambio di longevità, di uno status speciale e di poteri. Credo sia stato nominato "Eletto" della dea». «In che modo è stato scelto per tale servizio?», chiese lentamente Umbregard. «Lo sapete?» «Non lo so», rispose Starsunder, «ma so come abbia fatto a svolgerlo per un tempo che voi umani considerate un'eternità: amore». «Amore? Mystra lo ama?» «Ed Elminster ama lei». Il viso del mago mostrava incredulità e confusione evidenti, perciò l'elfo aggiunse gentilmente: «Sì, oltre ogni affettuosità e amicizia, al di là del desiderio impetuoso della carne; amore vero, profondo, e duraturo. È difficile da credere finché non lo si è provato, Umbregard, ma ascoltatemi. Nell'amore esiste un potere più grande di molte cose che possono sfiorare gli umani... o gli elfi, o gli orchi, se vogliamo. Un potere benigno o maligno. Come tutte le cose tanto potenti, l'amore è molto pericoloso». «Pericoloso?» Starsunder sorrise debolmente e continuò: «L'amore è una fiamma che incendia tutto. Per i maghi esso costituisce un pericolo più grande di un qualsiasi incantesimo sbagliato». L'elfo si protese, appoggiò una mano sul braccio di Umbregard, e, con lo sguardo fisso su di lui, affermò quasi ferocemente, «Una magia andata a monte può semplicemente uccidere un uomo; l'amore può rimodellarlo, e indurlo a ridisegnare il mondo. Il grande amore spinse il nostro Coronal a cercare un modo per riplasmare il regno di Cormanthyr... e, come direbbero molti elfi, alla fine lo distrusse. Una calda notte d'estate, quando ero ancora giovane e non conoscevo magie che potessero rivelare la mia presenza - probabilmente è per questo che sono sopravvissuto - la Grande Signora degli Starym, Ildilyntra, che aveva amato il Coronal ed era stata ricambiata, si uccise per tentare di causarne la morte, spinta dall'amore per la nostra terra, proprio come lui... ed entrambi soffrirono a causa dell'amore negato e tuttavia vivo che provavano ancora l'uno per l'altra». L'elfo della luna sospirò e scosse il capo. «Non potete immaginare la tri-
stezza che mi assale quando nella mia testa li odo nuovamente litigare... e voi siete il primo umano dopo Elminster a sapere di quella notte. Ricordate, Umbregard: rivelare questo segreto a individui della mia razza equivale per voi a una morte rapida». «Farò attenzione», sussurrò Umbregard. «Continuate». Starsunder abbozzò un sorriso e continuò: «C'è dell'altro. Mystra scelse Elminster quale servo, ed egli ha avuto successo dove altri hanno fallito. Gli dei ci creano tutti diversi, e la maggior parte di noi non riesce nel proprio intento. Elminster ha spesso fallito... ma il suo amore non ha mai vacillato, ed egli è rimasto fedele al suo compito. Audacia, credo che così la definiscano i vostri bardi». «Audacia? Come può un individuo protetto da un dio temere qualcosa? Dove sta l'audacia senza la paura con cui lottare?», chiese Umbregard, reso più sfrontato dall'eccitazione. Un sentimento simile alla tenerezza danzò negli occhi di Starsunder, «Esistono molti dei; il favore divino espone un mortale a un pericolo più grande rispetto ai suoi simili "comuni" e, solo raramente, costituisce una difesa sicura contro i rischi di questo mondo... o di qualsiasi altro. Solo gli sciocchi confidano tanto negli dei da riporre ogni paura, e sottovalutare interamente i pericoli. Ho osservato spesso audacia nei tuoi simili; sembra una qualità insita negli umani, ciononostante, ancora più spesso, ho visto in loro avventatezza o stupida indifferenza per il pericolo, che altri meno attenti potrebbero definire audacia». «Dunque che cos'è l'audacia?», chiese Umbregard. «Significa affrontare il pericolo?» «Sì. Rimanere al proprio posto, diligenti più che mai, sapendo che in ogni minuto la spada sospesa sulla nostra testa può cadere, oppure guardare la morte che si avvicina senza abbandonare tutto per fuggire». «Per favore, non intendo mancarvi di rispetto, ma devo sapere: se ciò è audacia, com'è che...», sussurrò Umbregard, impaurito dalla sua stessa sfacciataggine, «...Myth Drannor... Cormanthyr... è andata distrutta, e voi siete ancora vivo?» Starsunder rispose con un sorriso triste. «Una razza e un regno necessitano di stupidi obbedienti per sopravvivere, ancor di più di quanto non abbiano bisogno di eroi audaci... e morti». L'elfo si alzò, e con la mano fece una sorta di saluto d'addio. «Vedete da voi ciò che io sono. Se mai incontrerete questo Elminster faccia a faccia, chiedetegli chi è lui tra i due... e tornate a darmi una risposta. Io devo sapere Tutto; è un mio difetto». Co-
me un'agile pantera, si arrampicò tra il fogliame sovrastante la sorgente. «Aspettate!», protestò il mago umano, alzandosi e seguendo l'elfo con non poca fatica. «Ho ancora molte cose da chiedervi... dovete andare?» «A preparare un luogo dove un umano possa russare, nonché un pasto per entrambi», rispose Starsunder. «Siete il benvenuto e potete rimanere tutto il tempo che desiderate per farmi tutte le domande che riuscite a pensare. Ho pochi amici tra i vivi e da questa parte dei Mari di Mezzo». Umbregard iniziò a tremare. «Sarei onorato d'essere considerato vostro amico», affermò cauto, «ma devo chiedervi, come potete fidarvi di me? Abbiamo parlato per pochi istanti del vostro tempo, non di più; come potete giudicarmi? Potrei essere un cacciatore di elfi, o di tesori elfi. Avete la mia parola che non sono né l'uno né l'altro... ma temo che per voi elfi le promesse umane siano state, nei secoli, solo parole vane». Starsunder sorrise. «Questo bosco è sacro a due dei elfi: Sehanine e Rillifane», affermò. «Loro ti hanno giudicato. Osserva». Gli occhi dell'umano seguirono il dito dell'elfo puntato verso il tronco d'albero ricoperto di muschio e il bastone di legno appoggiato a esso. Umbregard conosceva quel bastone come le proprie mani; quel pezzo di legno l'aveva accompagnato per migliaia di chilometri attraverso Faerûn, era vecchio e temprato dal fuoco, e la sua estremità recava un puntale di rame per evitare che si spezzasse. Nonostante ciò, mentre lui sedeva a chiacchierare nella conca, esso aveva emesso germogli verdi per tutta la sua lunghezza... e ognuno di essi terminava con un piccolo e meraviglioso fiore bianco, scintillante nell'ombra. In una fredda oscurità una donna spettrale smise di ridere e lasciò cadere le mani. Gli echi della sua gelida allegria risuonarono nella caverna per qualche tempo. La figura si guardò intorno come se vedesse quel luogo per la prima volta, lo sguardo sempre più feroce e crudele. Poi si alzò, due fiamme vivide per occhi, e con la grazia di un gatto raggiunse una determinata runa. Toccò il simbolo con un piede, lo osservò accendersi di un bagliore blu-bianco, poi incrociò le braccia e continuò a guardare, mentre fili di fumo si levavano dalla luce a formare una nuvola simile a una scintilla grande come un uomo... una nuvola che improvvisamente si trasformò in qualcos'altro. Un'immagine fluttuante, senza gambe, di un giovane zelante dallo sguardo intenso, apparve di fronte al trono vuoto, sospesa a mezz'aria. Quando l'immagine cominciò a parlare, la donna spettrale tornò al trono,
si appoggiò a un bracciolo, e guardò il giovane. Indossava abiti color cremisi bordati di nero, e anelli d'oro scintillavano sulle sue dita, richiamando il colore ambrato degli occhi; aveva capelli castani scompigliati, la barba incolta, e la sua voce risuonò sicura e risoluta. «Io sono Karsus, come tu sei Karsus. Se mi stai guardando, significa che a me, il primo Karsus, è accaduto qualcosa... e tu, il secondo, dovrai perseverare verso la gloria». L'immagine sembrò avanzare di qualche passo, ma in realtà rimase sopra la runa. Agitò una mano irrequieta e continuò: «Non so che cosa ricordi della mia... della nostra... vita; alcuni affermano che la mia mente è molto confusa, di questi tempi. Sappi che molti maghi del nostro popolo hanno raggiunto un grande potere; i più potenti tra questi, gli arcimaghi di Netheril, governano i propri domini. Il mio, come molti, è una città fluttuante; l'ho chiamata col nostro nome. Io sono il più potente di tutti gli arcimaghi, l'Arcanista Supremo. Mi chiamano Karsus il Grande». L'immagine fece un lieve gesto con la mano, gli occhi brillanti ancora fissi sul trono. La donna spettrale stava recitando le medesime parole, che, ovviamente, aveva udito già molte volte. Una sorta di ghigno apparve sulle sue labbra. «Naturalmente», continuò l'immagine, «dato il tuo risveglio, nulla di ciò può significare qualcosa per te. Io potrei non essere stato ucciso da un rivale o essere stato vittima di un destino personale... Karsus la città e la gloria della stessa Netheril potrebbero essere cadute in una grande guerra o a causa di un cataclisma; ci siamo fatti molti nemici, dei quali i principali siamo noi stessi. Ci facciamo guerra l'un l'altro, noi netheresi, e qualcuno lotta anche con se stesso. La mia mente non sempre è completamente mia. Forse anche tu condividi quest'afflizione; difenditi da essa». L'immagine di Karsus sorrise; sollevando sardonica un sopracciglio, la donna ricambiò. Karsus riprese il discorso. «Forse non hai alcun bisogno dei miei incantesimi per ricordare, ma ne ho preparato uno per ogni runa che vedi sul pavimento di questo luogo; una serie di lezioni di magia, nel caso che affrontassi i pericoli di questo mondo senza conoscere certi sortilegi che ho scoperto essere cruciali. Il nostro lavoro deve continuare; solo mediante il potere assoluto io... noi... possiamo trovare la perfezione... e Karsus esiste, è sempre esistito, per raggiungere la perfezione e trasformare tutta Toril». La donna scoppiò in una risata breve e sgradevole, simile a un latrato. «Sei proprio matto, Karsus! Trasformare Toril, oh, tu ne eri senz'altro ca-
pace». «Il tuo primo bisogno potrebbe essere la guarigione fisica, e io ho pensato al futuro, a una vita in cui ti potrebbero mancare servitori leali o persone di fiducia. Sappi, dunque, che toccando la runa che ha evocato la mia immagine, e pronunciando nel contempo la parola "Dalabrindar", tutti i tuoi mali verranno guariti. Tale potere può essere invocato ogni volta che desideri, a patto che la runa rimanga intatta, e può servire a chiunque pronunci la parola magica, che è in realtà il nome del mago che morì affinché l'incantesimo potesse vivere; ci ha reso un grande servizio, e...» «Parole sprecate, Karsus!», ghignò la donna spettrale. «Il tuo clone era una mummia senza testa la prima volta che lo vidi! Chi l'ha ucciso sul trono, mi domando? Mystra? Azuth? Qualche rivale? Oppure il grande e supremo Karsus dormiente è rimasto vittima di un mago-avventuriero di passaggio, dai deboli incantesimi, il quale pensava di decapitare uno spettro?» «... molti altri incantesimi giungeranno dove questi non possono, ma ho preservato in questo luogo dimostrazioni di magie di utilità duratura e...» La donna congedò l'immagine che molte volte aveva sentito parlare, e annuì soddisfatta. «Saranno utili. Molto utili. Posseggo un fascino a cui nessun mago può resistere». Strofinò nuovamente la runa col piede e l'immagine svanì nel mezzo del discorso, il chiarore scomparve e la caverna ripiombò nell'oscurità. «Ora, come fare per farlo sapere ai maghi viventi, senza che si riversino qui a migliaia?», domandarono due labbra spettrali alle tenebre. Ma queste non risposero. Il fantasma pensieroso raggiunse il fondo del condotto e iniziò a offuscarsi, trasformandosi ancora una volta in un turbine di nebbia scintillante, che lentamente prese a salire a spirale. «E come tenere le mie prede qui per più di una notte?» In cima al condotto il vortice si librò sopra il margine circolare del pozzo, e una voce sottile fuoriuscì da esso. «Devo elaborare potenti incantesimi, senza dubbio. Le rune devono rispondere esclusivamente a me... e poi solo una volta al mese, indipendentemente dai mezzi tentati. Ciò dovrebbe far sì che un giovane mago si soffermi sufficientemente a lungo in questo luogo». Con improvviso vigore la nebbia avanzò verso una crepa del muro e uscì, serpeggiando fra gli alberi e lasciando dietro di sé una risata selvaggia e l'eco del grido esultante: «Abbastanza a lungo per un buon pranzetto».
13. LA GENTILEZZA BRUCIA LA ROCCIA La crudeltà è una spada affilata, di rado intelligente... e per tale motivo dovremmo ringraziare gli dei. La gentilezza è un'arma ancor più efficace, sebbene spesso disprezzata. Molti individui non lo capiscono. Ralderick Hallowshaw, Giullare Da Governare un regno, dalle torri ai letamai Pubblicato approssimativamente nell'Anno dell'Uccello Sanguinario Lo straniero alto e slanciato che aveva rivolto loro un sorriso allegro mentre entrava alla taverna della Fanciulla, ne uscì pochi istanti dopo. I due anziani sulla panca gli rivolsero uno sguardo sospettoso. Raramente la gente si avvicinava a loro... ed era la ragione per cui quella panchina, situata all'ombra della veranda sempre più sgangherata della Fanciulla di Ripplestones, era la loro preferita. Un angolo freddo, ma perlomeno riparato dal sole del mattino. Lo straniero, tuttavia, si stava avvicinando, il viso contornato dalla luce dorata; gettò indietro il mantello bizzarro e rivelò vesti impolverate che non recavano alcun distintivo o decorazione, quando... per tutte le meraviglie!... Alnyskavver uscì dalla taverna armeggiando con il suo miglior tavolo pieghevole e una sedia... e cibo! L'oste fece la spola avanti e indietro, ansimando, mentre i due anziani vedevano servire un pranzo inaudito: una zuppa fumante, il cui profumo aveva fatto brontolare loro lo stomaco per tutta la mattina, un'intera forma di formaggio piccante... e tre torte di gallo cedrone! Baerdagh e Caladaster fissarono aspramente l'uomo dal naso adunco, domandandosi perché diamine avesse dovuto scegliere proprio la loro panca per la colazione. Ogni cosa che per mesi avevano sognato di potersi permettere ora stava passando dritta davanti al loro naso. Per l'ascella di Tempus chi cavolo pensava di essere? I due uomini si guardarono a vicenda, lo stomaco brontolante, poi, di comune accordo, squadrarono lo straniero dalla testa ai piedi. Niente armi... niente ricchezze evidenti, nonostante gli stivali consumati fossero di buona fattura. Un fuorilegge che li aveva rubati a una vittima? Già, ciò a-
vrebbe giustificato la possibilità di spendere per un pranzo simile. Alnyskavver era tornato con il quarto di cervo, di cui avevano sentito il profumo fin dalla sera precedente, con un contorno di cipolline in salamoia e di lingua affettata, il tutto sul vassoio usato in occasione della visita del Gran Duca... no, non potevano sopportare oltre! Che giovane arrogante! Scuotendo il capo, Baerdagh sputò deliberatamente per terra accanto agli stivali dello straniero e iniziò a spostarsi lungo la panca, per non osservare quel goloso banchettare sotto i loro occhi. Caladaster, accanto a lui, era, tuttavia, più lento, perciò i due anziani stavano ancora scivolando lungo la panca, quando l'oste uscì di nuovo con un barilotto di birra e alcuni boccali. Tre boccali. Lo straniero si sedette e sorrise a Baerdagh quando l'uomo sollevò lo sguardo sorpreso. «Buon giorno, signori», salutò garbatamente. «Per favore, perdonate la mia sfacciataggine, ma sono affamato, odio mangiare da solo, e ho bisogno di parlare con qualcuno che sappia qualcosa del passato di Ripplestones. Voi sembrate avere abbastanza cervello e un'età adatta... che cosa ne dite di un accordo? Potrete condividere tutto ciò con me... e mangiare liberamente, senza limitazioni, tenendo tutto ciò che avanza... in cambio di risposte a qualche domanda su una signora che viveva nei dintorni. «Chi siete?», chiese bruscamente Baerdagh, mentre Caladaster sussurrava: «Non mi piace. I pranzi non cadono dal cielo. Deve aver pagato Alnyskavver per portare tutto ciò sul tavolo, ma chi ci dice che non dovremo pagare?» «Le nostre tasche», rispose Baerdagh all'amico. «Alnyskavver sa quanto siamo poveri. Come lo sanno anche tutti gli altri». L'anziano annuì verso le finestre della taverna. Caladaster guardò nella stessa direzione, già sapendo che cosa avrebbe visto: tutti gli avventori erano pigiati contro i vetri sporchi, a guardare lo straniero dal naso adunco riempire due boccali, spingerli lungo il tavolo, ed estrarre forchette e coltelli dal terzo bicchiere, per poi distribuire anch'esse. Caladaster si grattò nervosamente il naso, si passò una mano lungo uno dei basettoni bianchi e grigi, non troppo puliti, e si voltò verso lo straniero. «Il mio amico chiede chi siete, e vorrei saperlo anch'io. Vorrei anche sapere che cosa state tramando. Posso anche alzarmi e andarmene senza toccare il vostro cibo, sapete». In quel momento il suo stomaco protestò sonoramente.
Lo straniero si passò una mano fra i capelli neri aggrovigliati e si protese. «Mi chiamo Elminster, e sto lavorando per la mia Padrona; un lavoro che mi richiede di trovare e visitare vecchie rovine e tombe di maghi. Mi è stato dato denaro da spendere a piacere... vedete? Lascerò queste monete sul tavolo... dunque, se dovessi sparire in una nuvola di fumo prima che solleviate il boccale, qui c'è denaro sufficiente per pagare Alnyskavver». Baerdagh guardò le monete come fossero un mucchio di spiritelli danzanti sotto il suo naso, poi fissò nuovamente lo straniero. «Va bene, vi credo», affermò lentamente, «ma perché noi?» Elminster si riempì il boccale, lo ripose, e chiese: «Avete idea di quanto sia faticoso girare per giorni in una città di individui sospettosi, sbirciare sopra le staccionate in cerca di lapidi e rovine? La prima sera i contadini minacciano sempre d'inforcarmi; la seconda sera mi inseguono in massa!» Entrambi i vecchi risero brevemente. «Perciò pensavo che avrei risparmiato tempo e destato meno sospetti», aggiunse l'uomo, «se avessi semplicemente condiviso un pranzo con individui che mi ispirassero, sufficientemente anziani da conoscere le vecchie storie e il luogo esatto delle tombe, e...» «State cercando Sharindala, non è vero?», chiese lentamente Caladaster, socchiudendo gli occhi. El annuì allegramente. «Sì», rispose, «e prima che troviate le parole adatte per chiedermelo, sappiate: non sottrarrò nulla dalla tomba, non sono interessato ad aprire il sarcofago, o a fare magie su di lei, né a disseppellire o bruciare oggetti, e sarei lieto se qualcuno di Ripplestones venisse ad assistere a ciò che faccio. Devo fare un sopralluogo molto accurato, alla luce del giorno, tutto qua». «Come sappiamo che non state mentendo?» «Venite con me», rispose El, distribuendo i vassoi e affondando le posate in una delle torte. «Guardate con i vostri occhi». Baerdagh fece per emettere un gemito per il profumo proveniente dal vassoio fumante... ma non ne ebbe bisogno: il suo stomaco lo precedette, e le sue mani agirono prima che riuscisse a fermarle. Lo straniero sogghignò e spinse il vassoio con la fetta di torta tra le sue mani. «Io non andrei a disturbare le maghe morte», ribatté Caladaster, «e sono un po' vecchio per arrampicarmi sulle rovine domandandomi quando il soffitto mi cadrà in testa, ma non potete non vedere il Palazzo della Pietra Bruciata; siete passato...» S'interruppe quando Baerdagh gli sferrò un calcio sotto il tavolo, ma
Elminster si limitò a sorridere e lo incalzò: «Continuate, per favore; non ho alcuna intenzione di sottrarvi il pranzo una volta avute le mie risposte!» Caladaster si servì un mestolo di zuppa, sperando non gli tremassero troppo le mani per la premura, e affermò con voce impastata: «Amico Elminster, voglio mettervi in guardia dai suoi incantesimi, che sono la ragione per cui nessuno osa saccheggiare quel luogo, e per cui non avete visto la sua tomba. Alberi e rovi sono cresciuti tutt'intorno formando un muro appena al di fuori dello scintillio... ma ricordo, prima che crescessero, di aver visto scoiattoli e volpi, e persino uccelli cadere morti dopo aver solo sfiorato gli incantesimi guardiani di Sharindala. Ci siete passato accanto, dopo il ponte, dove la strada fa quella grande svolta, proprio attorno alla Pietra Bruciata». Addentò un grande pezzo di formaggio, chiuse gli occhi per assaporare la gioia momentanea, e aggiunse, «Bruciò dopo la sua morte; non è stata lei a darle tale nome». Baerdagh si appoggiò al tavolo in atteggiamento cospiratore e sussurrò rauco, «Dicono che si aggiri ancora lì intorno, sapete... uno scheletro avvolto nei brandelli di una tunica raffinata, e che sia ancora in grado di fare incantesimi». El annuì. «Beh, cercherò di non disturbarla. Com'era nella vita, lo sapete?» Baerdagh voltò la testa di scatto in direzione di Caladaster. L'amico, più vecchio, stava soffiando sulla zuppa per farla raffreddare; sollevò lo sguardo, si carezzò il mento, e rispose: «Be', non ero che un ragazzo, vedete, e...» Uno alla volta, sopraffatti dalla curiosità, gli abitanti di Ripplestones uscirono dalla locanda o dalle proprie case per ascoltare quanto si diceva... e, senza dubbio, per aggiungere entusiasti i propri consigli. Elminster sogghignò, sorseggiò la birra, e fece cenno ai due anziani di proseguire il racconto. Entrambi stavano divorando il cibo a un ritmo impressionante, Baerdagh si era già allentato una volta la cintura dei pantaloni... e mancavano ancora parecchie ore a mezzogiorno. Alla fine i due anziani furono contenti di non accompagnare l'amico Elminster al Palazzo della Pietra Bruciata, tuttavia, Caladaster lo invitò a fermarsi a casa loro sulla via del ritorno, nel caso avesse avuto bisogno di un letto per la notte, o semplicemente per far loro sapere d'essere sano e salvo. El gli promise, altrettanto solennemente, che sarebbe passato, dando per scontato che li avrebbe trovati addormentati dietro a porte sbarrate, se
fosse tornato prima dell'alba. Li aiutò a portare a casa il cibo che non erano riusciti a ingurgitare, e comprò a ognuno un barilotto di birra. Di tanto intanto i due amici lo guardavano come fosse un dio mascherato sotto spoglie mortale, ma alla fine, prima di rientrare nelle loro case, gli strinsero la mano con entusiasmo e lo ringraziarono quasi con le lacrime agli occhi. El sorrise e andò per la sua strada, salutando allegramente il gruppetto di bambini che gli stava alle calcagna... e le madri che tentavano di trattenerli. Poi seguì il sentiero e si addentrò tra i fitti alberi che nascondevano la Pietra Bruciata. Gli ultimi spettatori, usciti dalla Fanciulla col boccale in mano, lo osservarono da lontano, sputarono pensierosi sulla strada, d'accordo sul fatto che Ripplestones aveva appena visto per l'ultima volta l'ennesimo pazzo, e rientrarono nella taverna. Il luccichio era come Caladaster l'aveva descritto... ma si dissipò con un sibilo al primo incantesimo di El, il quale si trasformò ancora una volta in ombra, nel caso lo attendessero trappole formidabili, e avanzò tranquillo nei giardini incolti di quella che un tempo era stata una magnifica casa. Era bruciata, ma solo un po'. Ciò che doveva esser stata una torre nell'angolo orientale della facciata era ridotta a un cerchio di pietre annerite fra cespugli e rovi, attaccata alla casa retrostante da un cumulo di pietre proveniente dalle mura cadute... ma la costruzione a due spioventi sembrava intatta. El trovò una persiana inclinata, e si infilò attraverso una finestra che, a quanto pareva, non aveva mai conosciuto un vetro. La grande casa scura ospitava licheni, muffe e resti di roditori, ma sembrava che qualcuno la pulisse regolarmente. L'Eletto non trovò trappole di alcun tipo e presto riacquistò la forma solida per sbirciare, frugare, e aprire. Trovò sculture, pitture recentemente pulite dalla muffa, e scaffali di libri colmi di diari di viaggio, storie erudite di regni e di famiglie di spicco, e persino romanzi d'amore. In nessun luogo della casa vi erano, tuttavia, tracce di magia. Se Sharindala era stata una maga, tutti i libri, gli inchiostri, e le sostanze magiche a lei appartenenti dovevano essere andate distrutte nel rogo che aveva fatto crollare la torre... e forse anche la signora era morta in quell'occasione. El alzò le spalle. Be', un cercatore non l'avrebbe mai saputo se Elminster avesse svolto un lavoro accurato. Una pergamena dimenticata su uno scaffale, una bacchetta magica in una scatola di legno nascosta in una cesta, e un foglio di appunti incompleti tra le pagine di un libro. Non gli rimaneva che mettere qualche altra pergamena negli armadi che aveva visto nelle
stanze, e il gioco era fatto. Vi era abbastanza magia, se usata accortamente, per trasformare qualsiasi pivello in un maestro, e... Aprì un'anta dell'armadio e qualcosa si mosse. Si rannicchiò, per la precisione, quando alcune scintille avvamparono fra le dita di Elminster. Ossa marroni e grigie si spostarono nell'angolo più profondo dell'armadio, tenendo una bacchetta vacillante puntata contro il mago. Quando lo scheletro rasentò le pareti, El vide due occhi scintillanti, un brandello di stoffa, un tempo parte di una tunica lussuosa, e un groviglio di lunghi capelli castani fuoriuscente dai resti di un cranio bucherellato. Indietreggiò, sollevando una mano in segno di «alt», sperando che la donna non azionasse la bacchetta tremante. «Lady Sharindala?», chiese piano. «Io sono Elminster Aumar, della scomparsa Myth Drannor, e non intendo farvi del male, né mancarvi di rispetto. Per favore uscite, non abbiate paura. Non sapevo che abitavate ancora in questo luogo; vi porgerò i dovuti rispetti, poi uscirò da questa casa e vi lascerò in pace». L'uomo indietreggiò verso la porta, si rimise il mantello ed evocò uno scudo protettivo nel caso la maga non morta sferrasse qualche incantesimo, e attese, guardando la porta aperta dell'armadio. Dopo lunghi momenti il cranio dagli occhi scuri fece capolino... e si ritirò frettoloso. El si appoggiò allo stipite e rimase in attesa. Dopo qualche istante, lo scheletro si trascinò fuori dal guardaroba, scrutando in tutte le direzioni in cerca di avventurieri in agguato. Tenne la bacchetta sollevata, non più puntata contro El, e si fermò in mezzo alla stanza, guardandolo in silenzio. Con un gesto, Elminster le offrì la sedia accanto a lui; la donna non si mosse, perciò il mago prese la sedia e gliela portò. Lo scheletro gli puntò nuovamente la bacchetta contro, ma egli la ignorò... anche quando proiettili magici scaturirono dalla punta e lo colpirono, lasciando dietro di sé fuoco blu. Lo scudo li assorbì senza vacillare, ed El sentì solo piccole scosse. Fingendo di non accorgersi nemmeno della seconda raffica, che lo colpì dritto in viso da un solo metro di distanza, l'ultimo principe di Athalantar appoggiò la sedia e fece cenno a Sharindala di sedersi, poi s'inchinò e tornò alla porta. Dopo un lungo e silenzioso momento, lo scheletro raggiunse la sedia e si sedette, incrociando le gambe all'altezza delle caviglie e appoggiandosi al bracciolo come, probabilmente, era solito fare.
El s'inchinò nuovamente. «Mi scuso per l'intrusione nella vostra casa. Io servo la dea Mystra e sono qui per suo volere; mi è stato richiesto di lasciare magia affinché venga trovata da eventuali avventurieri. Ora ripristinerò i vostri incantesimi di guardia e non vi disturberò più. C'è qualcosa che posso fare per voi?» Dopo un lungo momento, lo scheletro scosse il capo, con aria stanca. «Vorreste trovare riposo duraturo?», chiese El gentilmente. La bacchetta si sollevò con fare minaccioso, ma il giovane sollevò una mano e chiese: «Fate ancora magie?» Il cranio annuì, poi scrollò le spalle, alzando la bacchetta. El annuì. «Non stavo cercando magie nascoste; ho solo aggiunto, senza sottrarre nulla». In quel momento un pensiero gli passò per la testa, e le domandò: «Vorreste conoscere dei nuovi incantesimi?» Lo scheletro s'irrigidì, fece per alzarsi, poi annuì in maniera tanto entusiasta da spargere capelli dappertutto. El tastò nel suo mantello e ne estrasse un libro d'incantesimi. Mormorando una parola sopra di esso, attraversò la stanza e depose delicatamente il libro in grembo alla donna, sostenendolo finché questa non lo afferrò. L'altra mano lasciò cadere la bacchetta e gli afferrò impulsivamente il braccio. Invece di liberarsi, El allungò lentamente anche la sua, l'appoggiò sulle dita ossute e le carezzò. Sharindala iniziò a tremare, e per un lungo momento due occhi color blu-grigio e due luci scure nelle orbite di un cranio si fissarono intensamente. El ritirò la mano e affermò: «Lady, io devo andare. Devo mettere magia altrove... ma se in futuro tornerò a Ripplestones, vi prometto di farvi una visita che si rispetti». La donna annuì lentamente. «Lady, potete parlare?», chiese El. Lo scheletro s'irrigidì, poi la mano sul suo avambraccio divenne un pugno che sbatté violentemente sul bracciolo della sedia, in chiaro segno di frustrazione. El si chinò e indicò il libro. «Nelle ultime pagine vi è un incantesimo che può aiutarvi. Non richiede elementi verbali, ovviamente... ma desidero che ricordiate qualcosa. Quando avrete appreso l'incantesimo, voglio che solleviate il tomo e pronunciate ad alta voce le parole: "Mystra, per favore". Vi ricorderete?» Lo scheletro annuì ancora. El le prese la mano e le baciò le dita. «Dunque, Lady, addio per il momento. Io vado, ma tornerò. Siate serena».
Il mago si raddrizzò, le fece un saluto, e uscì dalla stanza. Lo scheletro fece un cenno a quel volto sorridente, poi lasciò ricadere la mano sul libro, e lo tenne stretto. A lungo rimase seduta tremante sulla sedia, fissando la porta. L'unico suono nella stanza era un rumore secco di ossa. La donna stava tentando di piangere. «Ma c'è dell'altro!», sibilò Beldrune, avanzando con le dita arcuate come artigli davanti a sé. Incantati, i discepoli disposti in cerchio guardarono divertiti il vecchio mago in sovrappeso che cercava di camminare in punta di piedi come un attore che recita la parte di un ladro. «Il nostro potente mago ha percorso queste stesse strade! Qui fuori... nemmeno tre notti fa... l'ho visto di persona! «Pensate», s'intromise Tabarast eccitato, non sapendo che il mago di cui stavano parlando, al momento stava baciando le dita di uno scheletro. «Noi abbiamo camminato con lui, abbiamo studiato magia fianco a fianco nella favolosa Moonshorn Tower... e presto, forse, anche voi avrete quest'opportunità! Parlare con il mago supremo del tempo... un uomo toccato da un dio!» «No», aggiunse il mago con tono allusivo, «un uomo toccato da una dea!» «Pensate!», continuò Tabarast frettolosamente, lanciando un'occhiata d'avvertimento al giovane Droon. I giovani non pensavano proprio a nient'altro? «Il grande Elminster ha vissuto per secoli! Alcuni credono sia un Eletto, sotto la personale tutela della dea Mystra... è questo che il mio collega tentava di dirvi... e le testimonianze sono chiare: è un uomo che ha dimorato nella favolosa Myth Drannor quando la magia elfa scorreva come acqua, era tanto rispettato da essere accettato in una nobile famiglia elfa, da consigliare il governatore, il Coronal... e sopravvisse persino alle tenebre della sua distruzione per mano di un esercito urlante di demoni malvagi! Difficile da credere? Chiedete agli abitanti di Galadorna, testimoni della sua sopravvivenza dopo un duello con un'arci-sacerdotessa di Bane, sfidata nel suo stesso tempio! Ciò accadde prima della caduta di quel regno, quando egli ne era ancora mago di corte». «Già, è tutto vero», assentì Beldrune, riprendendo le redini del racconto. «E non dimenticate: Elminster è stato visto qui... è stato visto uscire indisturbato dalla tomba del mago Taraskus in pieno giorno!» A quella notizia si innalzò un coro di mormorii sorpresi, e molti volsero
involontariamente lo sguardo verso l'esterno. Una figura fantasma che stava fluttuando fuori da una delle finestre, intenta ad ascoltare, si ritirò cautamente e si trasformò in nebbia. «Anch'io sono vissuta per secoli», mormorò, tintinnando mentre acquistava velocità per recarsi altrove. «Forse questo Elminster sarà un compagno adatto... se è vivo e umano, e non una sorta di spettro furbamente travestito o uno spirito netherese». Inconsapevole del fatto che i discepoli eccitati si fossero assiepati contro le finestre per osservarla quale presunta manifestazione del mago su cui stavano facendo congetture, la donna si allontanò mormorando: «Elminster... è ora di dare la caccia a Elminster». 14. LA CACCIA A ELMINSTER Il divertimento più letale tra gli Zhentarim è rivaleggiare per la supremazia all'interno dei loro oscuri ranghi... e in particolare, il destino degli ambiziosi troppo giovani e sprovveduti consiste nell'essere mandatati a caccia di Elminster. Scommetto che è sempre stato un passatempo pericoloso. Alcuni sono abbastanza saggi, come lo fui io, da sfruttare tale opportunità per uscire dalla Confraternita. Fu interessante... anche se un po' deprimente... ascoltare ciò che la gente diceva di me una volta consideratomi bell'e morto. Un giorno ritornerò e li perseguiterò. Destar Gulhallow Da Riflessioni postume di un mago Zhentarim Pubblicata approssimativamente nell'Anno della Stella Mattutina L'oscurità non abbandonava mai Ilbryn Starym,- e non l'avrebbe mai fatto, non dal giorno in cui l'ultima casa di caccia degli Starym era stata distrutta da fiamme e incantesimi, dopo che i fieri edifici di Myth Drannor avevano già fatto la stessa fine, e gli Starym erano stati eliminati per sempre. Se qualcuno dei suoi parenti era ancora vivo, non ne aveva mai trovato traccia. Un tempo fiera e potente, la famiglia aveva guidato le sorti di Cormanthyr; adesso era ridotta a un solo membro, giovane e zoppo. Se Seldarine gli avesse arriso, con la sua magia egli sarebbe stato in grado di
generare eredi per mantenere in vita il nome della famiglia... ma solo se la dea gli fosse stata propizia. Era colpa del Maledetto, quell'Elminster, con i suoi incantesimi che cadevano qua e là nel tempio mentre duellava con la regina di Galadorna. Ilbryn aveva rivissuto migliaia di volte i momenti del crollo del tempio in fiamme. Operare magie che gli avrebbero ripristinato la gamba e la pelle avrebbe significato rovinare incantesimi che mai aveva appreso; gli incantesimi che gli erano costati tanto, per mantenere in funzione i visceri devastati. Lo attendevano anni di agonia... se mai avesse vissuto tanto a lungo. Agonia del corpo che andava ad aggiungersi a quella dell'anima. «Grazie tante, umano», ringhiò. Il cavallo lo fece prontamente sobbalzare, causandogli dolori lancinanti nella parte di corpo devastata, mentre camminava su un ponte traballante e sconnesso. Davanti a lui, tra le lacrime, vide un'indicazione. Dopo sei giorni di viaggio solitario da Westgate, fu un segno più che gradito; per lo meno era arrivato in qualche luogo... anche se non sapeva esattamente dove fosse. «Ripplestones», lesse ad alta voce. «Un'altra fortezza umana della cultura. Com'è stimolante!». Si avvolse nel suo amaro sarcasmo come fosse un mantello e spronò il cavallo al trotto, drizzandosi sulla sella per apparire imponente quando vari occhi umani iniziarono a guardarlo sorpresi; un elfo che cavalca solo, tutto vestito di nero, con le spade e i coltelli di un avventuriero, e con parte della faccia devastata da una cicatrice brunastra, che compariva quando il mago diminuiva il potere dell'incantesimo. Naturalmente, le armi erano tutta una messinscena, affinché gli incantesimi potessero cogliere i nemici di sorpresa. Ilbryn abbassò una mano sul pomo liscio di una spada e lo accarezzò, mantenendo un'espressione dura e truce quando la strada aggirò un folto gruppo di alberi e Ripplestones apparve di fronte a lui. Era sempre in viaggio, sempre in cerca di Elminster - ucciderlo era diventato la sua unica ragione di vita - nonostante non ci sarebbe stata una Casa Starym in cui tornare con la trionfante notizia della vendetta, a meno che Ilbryn non ne avesse ricostruita una. Era sulla pista giusta; lo presentiva nell'aria. Cercò di dimenticare le volte in cui era giunto molto vicino al suo scopo, e quelle in cui aveva fallito ritrovandosi con un pugno di mosche. Ah, una taverna: La Bella Fanciulla di Ripplestones; probabilmente l'unica locanda in quel polveroso villaggio di contadini. L'elfo fermò il caval-
lo, gettò le redini sopra la sua testa per azionare l'incantesimo che l'avrebbe tenuto immobile come una statua finché non avesse pronunciato la parola giusta, e iniziò una faticosa discesa dalla sella. Quando atterrò, la gamba artificiale tintinnò come un carro di spade, ed egli si aggrappò a una cinghia per un lungo momento, prima di cancellare dal volto l'espressione di sofferenza, e di riuscire a raddrizzarsi. I due anziani seduti sulla panchina rimasero semplicemente a guardare, come se tutti i giorni giungessero alla taverna strani viaggiatori. Ilbryn si rivolse a loro gentilmente, ma afferrò l'elsa di una spada e un pugnale quale sorta di avvertimento silenzioso, nel caso in cui i due avessero cercato guai. «Che la fortuna sia con voi», salutò formalmente. «Spero che possiate aiutarmi. Sto cercando un amico per consegnargli un messaggio urgente. Devo assolutamente trovarlo! Avete per caso visto un mago umano che si presenta col nome di Elminster? È alto, magro, coi capelli scuri e il naso adunco... ed entra in ogni tomba di mago in cui s'imbatte». I due uomini sulla panchina lo fissarono, pensierosi, ma non proferirono parola. Un terzo individuo, sulla soglia della taverna, lanciò agli anziani un'occhiata ancor più strana di quella rivolta all'elfo ed esclamò: «Oh, quello! Sì, è entrato alla Pietra Bruciata poco tempo fa, e ne è subito uscito. È diretto a est, nella Zona dei Morti». «La Zona dei Morti?» «Già, chi entra non ne esce più. Da questa parte di Starmantle, fra il Fiume Oggle e Rairdrun Hill, non si vede più nemmeno uno scoiattolo o un borunduk. Noi, se proprio dobbiamo, ci andiamo in barca; più nessuno prende la strada, né attraversa i boschi. Più di dieci giorni fa una banda di avventurieri... e, badate, non è la prima... ingaggiata dal Gran Duca stesso è entrata nella zona... e non ne è ancora uscita. E non farà più ritorno, se è vero che mi chiamo Jalobal; ricordate, nessuno li vedrà mai più. Ho sentito che un'altra banda di pazzi è appena partita da Starmantle...» L'elfo si era voltato e aveva iniziato a risalire faticosamente in sella. Grugnendo di dolore tra i denti serrati, si issò sul cavallo e afferrò le redini per dirigersi a est. «Ehi!», gridò Jalobal. «Non vi fermate?» Ilbryn storse le labbra in un sorriso truce. «Non lo prenderò mai se mi fermo a riposare in tutti i luoghi da cui se ne è appena andato». «Ma laggiù inizia la Zona dei Morti, come vi ho detto». Con due rapidi strattoni l'elfo slacciò due fermagli d'argento sul fianco,
che Baerdagh aveva scambiato per accessori ornamentali, e scostò i pantaloni. All'interno non vi era pelle liscia, ma un ammasso di cicatrici in rilievo di un nauseante color giallo oppure grigio, che ricordavano la corteccia di un vecchio albero. La devastazione si estendeva dall'ascella al ginocchio... e sopra quest'ultimo si notavano supporti e lacci che tenevano in posizione una gamba di legno e metallo, con cui l'elfo non era certamente nato. «Probabilmente là mi sentirò a casa», affermò Ilbryn rivolto ai tre uomini sbalorditi. «Come potete vedere, sono già mezzo morto». Senza proferire altre parole o guardare in loro direzione, richiuse i pantaloni e spronò il cavallo. Scioccati, i tre uomini osservarono la polvere sollevarsi, e, dietro di essa, l'elfo sobbalzante allontanarsi col suo cavallo lungo la strada verso il Fiume Oggle, ormai coperta di vegetazione. «Avete visto? Incredibile!», esclamò eccitato Jalobal, rivolto ai due anziani ammutoliti seduti sulla panchina. Questi lo fissarono impietriti, allora l'uomo fece loro un cenno, e rientrò nella taverna a raccontare a tutti il suo intrepido incontro con il cavaliere elfo deturpato. Baerdagh voltò il capo per guardare Caladaster. «Non ricordo, ha detto "raggiungerlo" o "prenderlo"?» «Ha detto "prenderlo"», rispose secco Caladaster. «Quel particolare mi ha colpito». Baerdagh scosse il capo. «Non vorrei essere nei panni di un mago, nemmeno per tutto il suo potere. Sono pazzi, per la maggior parte. Lo hai notato?» «Già», rispose Caladaster, la voce profonda e severa. «Ma non se si fermano in tempo». E come se quelle fossero state parole di commiato, l'uomo si alzò dalla panchina e si avviò verso casa. D'un tratto qualcosa s'illuminò, e nella mano dell'anziano comparve un robusto bastone, incastonato di gemme, che Baerdagh non gli aveva mai visto prima. L'amico richiuse la bocca e si sfregò gli occhi per esser sicuro di non esserselo sognato, ma il bastone era reale, tra le mani di Caladaster. Fissò la schiena del vecchio compagno oscillare lungo la strada, ma questi non si voltò indietro. Nonostante il cielo grigio e la brezza fredda, molti allievi, quel giorno, avevano guardato più volte fuori dalle finestre, tanto che Tabarast, a un
certo punto, aveva commentato severo: «Dubito molto che il grande Elminster se ne stia appollaiato come un piccione sul davanzale della nostra finestra solo per ascoltare i rudimenti della magia. Chi di voi desidera raggiungere un decimo della sua grandezza è pregato di guardare dritto avanti a sé, e di fare attenzione ai nostri insegnamenti, che, lo ammetto, non sono altrettanto eccitanti. Tutti i maghi... persino il divino Azuth, Signore degli Incantesimi, il quale supera Elminster in potenza come quest'ultimo supera ognuno di voi, hanno iniziato in questo modo, ossia imparando il sapere magico dalle labbra di maghi più anziani e saggi». Le occhiate verso la finestra diminuirono considerevolmente dopo tali parole, ma Beldrune stava ancora sospirando esasperato quando Tabarast sollevò le mani e sbottò: «Come l'abilità di concentrarvi, questo fondamento dell'arte magica sembra oggi sfuggirvi totalmente. Per oggi concludiamo qui, e ricominceremo domani con rinnovato interesse, almeno spero. Potete andare, ed evitate scherzi magici sulla strada di casa, mi raccomando, Signor Maglast». «Sissignore», rispose un bel giovane con fare scontroso, fra il tumulto generale di sedie strascicate. Tabarast si voltò borbottando verso il focolare, per raccogliere i tizzoni e mettere un altro ceppo sul fuoco. Beldrune guardò i riccioli di fumo che salivano verso i travetti, poi intrecciò le mani dietro la schiena e guardò gli allievi uscire, per assicurarsi che i pugnali da dimostrazione o gli appunti d'incantesimi non finissero accidentalmente in qualche manica, bisaccia, stivale, o camicia che fosse. Come al solito, Maglast fu uno degli ultimi a uscire. Beldrune lo fissò con un sorriso furbo e risoluto, che fece affrettare il passo al ragazzo, e solo allora si ricordò dell'uomo seduto quieto in fondo alla classe, con l'aria di qualcuno con la testa tra le nuvole... nonostante la moneta d'oro che aveva pagato per assistere alla lezione. Ora stava avanzando lentamente verso di lui. Un novellino: forse aveva domande da fare. «Sì? Come possiamo esservi utili, signore?», chiese Beldrune gentilmente. L'uomo aveva una chioma scompigliata color biondo scuro, un paio d'occhi castani slavati, un viso insignificante, ed era vestito come un povero mercante: tunica sporca, sopratunica dalle tasche sporgenti sopra a un paio di pantaloni consunti e rattoppati, e stivali di buona fattura, ma ormai logori. «Devo trovare un uomo», affermò pacato, sorpassando Beldrune e raggiungendo Tabarast presso il camino, «e offro un compenso generoso per
essere guidato da lui». Beldrune fissò per un istante la schiena dell'uomo. «Credo che abbiate frainteso i nostri talenti, signore. Non siamo...» La sua voce si affievolì quando vide ciò che il presunto mercante stava disegnando tra la cenere del focolare. Aveva raccolto un bastoncino e ora stava disegnando un'arpa fra le punte di una luna crescente, circondata da cinque stelle. L'uomo voltò la testa per assicurarsi che entrambi i maghi avessero visto il disegno, poi lo cancellò frettolosamente. Beldrune e Tabarast si scambiarono occhiate sorprese, le sopracciglia inarcate e l'eccitazione evidente sul volto. Il mago più anziano si sporse fino a toccare la fronte del collega con la sua, e mormorò: «Un Arpista. Elminster ha contribuito a crearli, sai». «Certo che lo so, testa di legno... io sono quello che tiene le orecchie ben aperte alle novità, ricordi?», Beldrune rispose un po' irritato, e si rivolse all'Arpista. «Dunque, da chi vorreste che vi portassimo?» «Da un mago di nome Elminster. Sì, il nostro fondatore; quell'Elminster». Se gli allievi fossero tornati a spiare il focolare con la stessa attenzione che avevano prestato alle finestre, in quel momento avrebbero visto i loro anziani e severi maestri strillare come bambini eccitati, saltellare davanti al fuoco mentre battevano entusiasti le mani, e balbettare frasi d'assenso senza fare alcun riferimento a compensi, mentre lo sconosciuto posava tranquillo il bastoncino dove l'aveva trovato. Beldrune e Tabarast si scontrarono mentre correvano verso gli armadi, scoppiarono a ridere, si spinsero via l'un l'altro con altrettanto entusiasmo, e ripresero a girovagare afferrando tutto ciò che pensavano sarebbe servito loro per scovare Elminster. L'Arpista dall'aria stanca si appoggiò contro la parete con un sorriso sempre più ampio in volto, a mano a mano che il cumulo di oggetti «essenziali» s'innalzava verso il soffitto. «Che cos'è accaduto, Bresmer?», chiese senza entusiasmo il Gran Duca, che non si aspettava affatto buone notizie. «Scomparsi, signore», rispose il siniscalco, «da ciò che possiamo dedurre. Un cavallo morto è stato visto galleggiare da alcuni pescatori, che hanno chiamato Ghaerlin affinché lo vedesse; prima di entrare al vostro servizio, signore, era un domatore di cavalli. Ha detto che aveva lo sguardo fis-
so e le zampe e gli zoccoli insanguinati, e pensa che si sia lanciato in preda al panico dalla scogliera, senza cavaliere. Il barcaiolo ha riferito che il Vessillo non ha acceso il fuoco di segnalazione, né ha innalzato la bandiera... credo siano tutti morti, signore». Horostos annuì, fissando, senza vederlo, un bicchiere di vino tra le sue dita. «Abbiamo trovato qualcun altro disponibile? Notizie di Marskyn?» Bresmer scosse il capo. «Egli pensa che tutti a Westgate abbiano udito la notizia delle uccisioni... e anche Eltravar a Reth». «Innalza il compenso», affermò lentamente il Gran Duca. «Raddoppia quella dannata somma». «L'ho già fatto, signore», mormorò il siniscalco. «Eltravar ha provveduto a farlo da solo, e ho pensato fosse prudente confermare le sue offerte con il sigillo ducale. Marskyn sta proponendo la nuova offerta ormai da dieci giorni... ma nessun mercenario accetta». Horostos grugnì. «Be', finalmente ora conosciamo il loro valore, e sappiamo chi non ingaggiare in caso di bisogno». «O la loro prudenza, signore», ribatté cauto Bresmer. «O la loro prudenza». Il Gran Duca sollevò bruscamente lo sguardo, fissò il siniscalco, poi lo riabbassò senza dire nulla, e, d'un tratto, appoggiando il bicchiere sul tavolo con tanta violenza da romperlo, sbottò, «Be', dobbiamo fare qualcosa! Non sappiamo nemmeno di che cosa si tratta, e tra poco distruggerà interi villaggi! Io...» «L'ha già fatto, signore», mormorò Bresmer. «Ayken's Stump, una decina di giorni fa». «I taglialegna?» Horostos gettò il capo all'indietro e sospirò rivolto al soffitto. «Non avrò più alcun regno da governare se tutto ciò continuerà», affermò con aria triste. «L'Assassino rosicchierà le porte di questo castello, al di fuori del quale rimarranno solo le ossa dei morti». Horostos riabbassò lo sguardo sul siniscalco e chiese: «Esiste qualche speranza? Qualcuno a cui possiamo ricorrere, prima di impugnare gli scudi e di uscire da quelle porte?» «Ho ricevuto la visita di uno straniero, signore», rispose Bresmer con lo sguardo abbassato sul tappeto finemente lavorato. «Mi ha pregato di dirvi che gli Arpisti si sono interessati alla questione, signore, e che vi faranno rapporto prima della fine della stagione... se vi troveranno. Io l'ho interpretato come un suggerimento a rimanere qui almeno fino ad allora, signore». «Per tutti gli dei, Bresmer! Rimanere a tremare in un cantuccio come un
bambino, e sentirmi dire dal mio popolo che sono un codardo? Starmene con le mani in mano mentre questi misteriosi arpisti mi sussurrano ciò che sta accadendo alle mie terre, e mi consigliano di starne fuori? Guardare impotente il denaro uscire dalle casse e vedere uomini che muoiono con le monete ancora fra le mani, mentre il grano marcisce nei campi perché non vi sono più contadini vivi per mieterlo? Che cosa vuoi che faccia?» «Non sta a me decidere, signore», rispose pacato il siniscalco. «Piangete per la vostra gente e la vostra terra, e ciò è molto più di quanto molti governatori sono soliti fare. Se scegliete di avventurarvi in cerca dell'Assassino anche domani stesso, io verrò con voi... ma spero darete riparo a coloro che fuggiranno dalla foresta, signore, e attendiate qui, finché un Arpista non entrerà dal cancello per riferirci che cosa sta distruggendo il paese». Il Gran Duca fissò le schegge di vetro sul suo grembo e il sangue colargli lungo le dita, e sospirò. «I miei ringraziamenti, Bresmer, per avermi fatto ragionare. Rimarrò qui e sarò chiamato codardo... e pregherò Malar di far cessare questo flagello e di risparmiare la mia gente». Si alzò, spostò impaziente i vetri, e abbozzò un mezzo sorriso, «Altri consigli, siniscalco?» «Sì, un'altra cosa», mormorò Bresmer. «Fate attenzione al luogo in cui cacciate, signore». Una nebbia gelida e tintinnante si tuffò tra due phandar ricurvi, coperti di muschio, e scivolò a mo' di serpente attraverso una fessura di un muro in rovina. Si mise a turbinare brevemente nella stanza antistante, e si trasformò ancora una volta nella sagoma semisolida di una donna. Si guardò intorno, sospirò, e si distese sulla logora agrippina a meditare sulle future vittorie, giocherellando con capelli che erano poco più che fumo. «Non deve vedermi», rifletté a voce alta, «finché non verrà qui e non troverà le rune da sé. Devo sembrare... collegata a esse, un'attraente prigioniera da liberare. Dovrà inoltre risolvere il mistero riguardante la mia identità e la ragione per cui mi trovo qui». La donna sorrise lentamente. «Sì. Sì. Mi piace». Di nuovo si levò nell'aria come un turbine confuso, per poi fermarsi davanti al grande specchio scrostato. Sufficientemente alta, sì... Si voltò da una parte e dall'altra, alterando lievemente il suo aspetto per apparire più esotica e attraente... pancia in dentro, sedere in fuori, una giusta inclina-
zione del naso, gli occhi più grandi... «Sì», esclamò finalmente, la voce colma di soddisfazione. «Un po' meglio di quanto non fosse Saeraede Lyonora da viva... e tuttavia non meno micidiale». Scivolò verso la fila di armadi, e si creò due gambe lunghe e magre, sufficientemente solide per camminare; era passato tanto tempo dall'ultima volta che si era pavoneggiata in una sala da ballo. Il guardaroba si aprì con uno scricchiolio, e una porta marcia si staccò dall'intelaiatura. Saeraede si accigliò e si diresse al secondo armadio, in cui teneva abiti sottratti di recente dalle carovane - e dalle vittime - sulla strada... quando ancora ne passavano. A quel pensiero abbozzò un sorriso malizioso, rese le mani abbastanza solide da afferrare i vestiti, e trasalì per la sensazione di vuoto che ciò le causò. Diventare reale le comportava un gran consumo di energie. Rapidamente, frugò tra le tuniche, ne scelse tre che catturarono la sua attenzione, e le depose sull'agrippina. Infilandosi nella prima, la donna divenne completamente solida... e di nuovo percepì il vuoto freddo serpeggiare dentro di sé. «Non devo farlo più... per un po'», ansimò a voce alta, appannando lo specchio con il fiato. Le gale blu della prima tunica erano appiattite e spiegazzate a causa della permanenza nell'armadio, mentre il vestito nero, con i suoi spacchi arditi, aveva un aspetto migliore, ma si sarebbe strappato più facilmente. La terza tunica era di colore rosso, e di gran lunga più modesta, ma i draghi di gemme sui fianchi le davano un tocco di classe. Le sue forze si stavano esaurendo. Per tutti gli dei, doveva cibarsi presto di qualche vita, altrimenti... Con rapidità quasi febbrile Saeraede mutò forma per riempire al meglio le tre tuniche, fissò nella sua mente le diversità di ognuna, e finalmente si ritrasformò in turbine, lasciando che la tunica rossa s'accasciasse sul pavimento. Sotto forma di nebbia fluttuò sopra di essa, solidificò solo la punta delle dita e la ripose accuratamente nel guardaroba. Quando tornò a prendere gli altri due indumenti, un osservatore avrebbe notato che la nebbia era diminuita di luminosità e volume. Mentre chiudeva l'anta dell'armadio, se ne accorse anche lei. Sospirò, ma non poté resistere alla tentazione di acquisire un'ultima volta la forma solida, e lanciare un'occhiata critica alla sua immagine nello specchio. «Dovrebbe funzionare, suppongo... e un'altra cosa, Saeraede», esclamò con tono di rimprovero. «Smetti di parlare ad alta voce. Sei sola, sì, ma
non completamente pazza». «Prova laggiù», affermò una rauca voce maschile, in quello che doveva probabilmente essere un sussurro. Proveniva dalla foresta dietro le rovine. «Sono sicura di aver visto una donna laggiù, con una veste rossa...» La figura spettrale s'irrigidì, la testa alta, poi abbozzò un ghigno crudele e divenne nuovamente nebbia tintinnante. «Che sollecitudine», mormorò rivolta allo specchio, la voce sottile e, tuttavia, echeggiante. «Proprio nel momento del bisogno». Si levò una risata tintinnante. «Non avrei mai pensato di trovarmi nel posto giusto, ma gli avventurieri stanno diventando quasi... prevedibili». Uscì da una fessura del muro come un'anguilla famelica, e pochi istanti dopo si udì un urlo rauco. Il suo eco non era ancora cessato quando l'aria fu squarciata da un secondo grido. 15. UNA FIAMMA SCURA E una fiamma scura si leverà, e disperderà tutti davanti a sé, scatenando guerre sanguinarie, magia malvagia, e uccisioni. Solo un altro tranquillo interludio prima dei nuovi pericoli del prossimo mese... Caldrahan Mhelymbryn, Esperto in questioni sacre Da Pensieri quotidiani di un viaggiatore di Tashlutan Pubblicata nell'Anno della Luna Calante Terribile Fratello Darlakhan. Portava un anello che faceva pendant con le bruciature e i segni di frusta che gli solcavano gli avambracci. Aveva applicato a lungo una pasta di sangue, urina e pittura nera per il viso per rendere quelle cicatrici scure sporgenti e permanenti; la sua brama di essere marchiato a fuoco durante i rituali del tempio non era passata inosservata. Il vento che soffiava dal Shaar era caldo e secco quella notte, ed egli non vedeva l'ora di trascorrere una serata quieta, prostrato a pregare sul pavimento di pietra fredda della sua cella... ma l'adepta che aveva pagato per essere frustato era giunta da lui e gli aveva sussurrato raucamente all'orecchio la sua missione per la sera: per comando della Terribile Sorella Klalaera, doveva immediatamente portare quel vassoio di vino e di cibo nelle stanze più interne della Casa della Sacra Notte.
«Sono eccitata per voi, Terribile Fratello», gli mormorò nuovamente all'orecchio la ragazza, prima di affibbiargli l'usuale ceffone sulla faccia; inginocchiandosi, l'uomo le aveva artigliato le caviglie con più entusiasmo del solito, il cuore impazzito nel petto. Era certo che la crudele Somma Sacerdotessa degli Accoliti, da dieci giorni a quella parte, lo stesse osservando piuttosto da vicino: quella sarebbe stata finalmente la sua chance? Una volta rimasto solo, si affrettò ad avvolgersi nel mantello di cocci, fissandolo accuratamente fra le cosce, in maniera di ferirsi prima ancora di fare un passo, invece di camminare con attenzione, come faceva la maggior parte degli adepti, per evitare i tagli causati dai frammenti. Poi prese il vassoio, lo sollevò sopra la testa e offrì una preghiera silenziosa alle dee onnivedenti. Oh, sacra Shar, perdona la mia presunzione, ma io ti servirei come il vento scuro della notte, come la nera spada uncinata, sarei il tuo flagello e la tua mano fidata, non solamente un burattino del tempio agli ordini di Klalaera. «Shar», affermò ad alta voce, nel caso qualcuno lo stesse spiando da dietro i pannelli e pensasse che, invece di pregare, stesse sognando a occhi aperti, dopodiché abbassò e risollevò il vassoio in segno di saluto e si avviò lesto attraverso le sale debolmente illuminate del tempio. Il marmo liscio e nero era freddo sotto i suoi piedi nudi, e le sue membra erano solleticate dai rivoli di sangue che gocciolavano sul pavimento. Camminò impettito, senza mai voltarsi a guardare i novizi nudi che strisciavano dietro di lui per leccare il sangue che cadeva, e fece finta di non udire i grugniti, i singhiozzi, e le urla soffocate provenienti dalle porte laterali, mentre il clero ambizioso della Casa offriva il proprio dolore alla Sacra Shar. Udì il rimbombo del tamburo solitario molto prima di raggiungere il Portale Interno, e la sua l'eccitazione salì alle stelle; un Sommo Rituale, non annunciato e inatteso, al quale anch'egli avrebbe preso parte. Terribile Fratello Darlakhan. Oh, sì. Finalmente una valutazione del suo potere. Era sulla strada della grandezza. Darlakhan aggirò l'ultima colonna e si diresse verso un'arcata davanti alla quale attendevano due sacerdotesse. Queste incrociarono le spade nere e affilate di fronte a lui, poi le scostarono rasentando delicatamente il suo petto, mentre l'uomo teneva il vassoio in alto per non ostacolarle; quella notte le donne si voltarono verso di lui, e Darlakhan si arrestò, tremante,
per ricevere la loro ultima approvazione: lo lasciarono guardare mentre facevano colare il suo sangue dalla punta delle spade nel palmo della mano, e se lo portavano alle labbra. L'uomo sussurrò loro: «Sia fatta la volontà di Shar», con tono di ringraziamento, poi avanzò lungo l'ultimo corridoio verso il Portale Interno, il rullio del tamburo sempre più forte. Fu sorpreso di non trovare guardie al Portale. Una tenda nera, adorna con il Disco Scuro, pendeva dall'arcata solitamente spoglia; Darlakhan rallentò per un istante, domandandosi che fare, poi decise che doveva seguire la procedura insegnata a tutti gli accoliti, come se non vi fosse nulla di straordinario. Si fermò davanti al Portale, allargò i gomiti per far sì che i cocci lo ferissero un'ultima volta e per scostare il mantello mentre s'inginocchiava, allungò il vassoio davanti a lui e, con la fronte, toccò il marmo freddo della soglia. Mani rapide gli sottrassero il vassoio, e altre lo decapitarono con un unico e abile colpo. Un braccio lungo e unto d'olio afferrò la testa gocciolante per i capelli, e la depose in un braciere, ignorando le fiamme che correvano avanti e indietro lungo la carne lucida. «L'ultimo», mormorò una voce tesa per il dolore. «Allora mettetevi il cuore in pace, Terribile Sorella», affermò qualcun altro, toccandola con la Bacchetta Estintrice che assorbiva tutto il fuoco. Il tamburo rullò un'ultima volta, una mano dalle unghie lunghe fece un gesto, e fiamme nere si levarono da una decina di bracieri con un crepitio rabbioso. Ogni braciere del cerchio conteneva una testa mozzata, annerita, e ogni lingua di fuoco nero si levava in una colonna serpeggiante ad alimentare una sfera scura sospesa. La Sacra Stanza di Shar, la sala più importante della Casa della Sacra Notte, quella sera era piuttosto affollata. Tutte le crudeli e potenti sacerdotesse di Shar, nei loro abiti neri e porpora, erano riunite sotto la sfera: tutte perdevano sangue da ferite aperte, i loro occhi brillavano d'eccitazione, e la loro attenzione era rivolta alla sfera scura che, con un'altezza di sei uomini, incombeva minacciosa sopra le loro teste. Qualcosa apparve brevemente dentro di essa: un braccio umano, esile e femminile, dalla pelle chiara, che tentava di afferrare invano il nulla. Poi apparve anche un gomito, seguito dalla testa e dalle spalle di una donna
che lottava. Era nuda, e si stava agitando nel fuoco, apparentemente accecata, il volto deformato dalla disperazione, gli occhi scuri e fissi, la bocca spalancata in un grido silenzioso e infinito. Fra le sacerdotesse si levò un mormorio di perplessità; la più alta, splendente nel suo copricapo nero lavorato e nel mantello color porpora, fece un passo avanti e frustò con forza bruta la schiena nuda di un uomo inginocchiato sotto la sfera, il cui sudore scintillante schizzò in tutte le direzioni. «Spiegateci, Terribile Sommo Fratello», comandò la Darklady della Casa della Sacra Notte, con voce tagliente. «Voi, e la Fiamma dell'Oscurità in persona, avevate promesso che i vostri sforzi ci avrebbero fornito grande potere e grandi opportunità. Quella puttanella potrebbe anche essere una delle più potenti regine di Faerûn, ma non vedo potere né opportunità, salvo quella di impadronirsi di una terra e delle sue ricchezze. Spiegatevi in maniera chiara e rapida... e vivrete». Il sacerdote anziano della Casa guardò la figura nella sfera e lasciò cadere le mani lungo i fianchi, poi s'accasciò esausto sul pavimento di marmo, sul volto un lieve sorriso. «È un successo, vostra Oscurità», affermò quando riuscì a respirare di nuovo. «Quella è una manifestazione della dea Mystra, sebbene di potere molto inferiore alle tante che emana. Non possiamo danneggiarla senza innescare magie troppo selvagge per noi da controllare, ma, fintanto che la teniamo intrappolata, possiamo sfruttare il Tessuto ogniqualvolta lei si sforza di toccarlo, acquisendo magia per innescare gli incantesimi studiati... come fanno i maghi. Quella manifestazione dev'essere stata contaminata dal suo amoreggiare con Bane... credo vi sia una debolezza duratura». «Risparmiatevi le fantasticherie per dopo», affermò risoluta la Darklady Avroana. La sua voce risuonò ancora fredda e mordace, ma la brama sul suo volto e la frusta che batteva ripetutamente sulla sua coscia, e non sulla faccia del Sommo Fratello Narlkond, tradivano eccitazione e approvazione. «Parlatemi di questi incantesimi. Ci siederemo a studiare come fanno i maghi, e riempiremo le nostre menti... e poi?» «Nessun potere fluisce finché la nostra prigioniera non tenta di toccare il Tessuto», rispose l'anziano sacerdote, rotolandosi e inginocchiandosi di fronte a lei, «il che accade ogni poche ore. Sembra incapace di non farlo, poiché rientra nella sua natura essenziale, e...» «Fino a quando possiamo mantenere tale situazione?», sbottò Avroana, indicando la sfera con la frusta. «Finché avremo credenti tanto entusiasti della Nera Madre da fornirci le
loro teste». «Ne sono stati convocati altri», affermò la Darklady, abbozzando per un breve istante un sorriso, freddo come il ghiaccio che sigilla certe tombe del nord. «È stato detto loro che stiamo organizzando una crociata sacra». «Vostra Oscurità», ribatté il Sommo Fratello Narlkond, anch'egli con un lieve sorriso, «è proprio ciò che faremo». «Questo è ciò che nella lingua umana verrebbe chiamato l'Albero Sentinella», spiegò l'elfo della luna, sedendosi su una foglia enorme, che, immediatamente, si fletté e lo avvolse come una mano gigante. Umbregard guardò il panorama fra i grandi rami arcuati, che si aprivano in un punto per poi innalzarsi ulteriormente nell'aria fresca e limpida. «Per tutti gli dei», esclamò lentamente, «quelle sono nuvole! Siamo sopra le nuvole!» «Solo quelle più basse», rispose Starsunder con un sorriso. «Oh, non lo sapevi? Sì, diversi tipi di nuvole si soffermano a vari livelli, proprio come i pesci di un lago cercano la profondità che preferiscono». «Pesci...?», chiese il mago umano, poi sogghignò e aggiunse, «Non importa; divaghiamo troppo, torniamo alla mia domanda originale». L'elfo ricambiò il sogghigno. «Adesso capisci perché gli umani studiarono a Myth Drannor per secoli», ribatté, «e alcuni di loro impararono solamente alcuni degli incantesimi che andavano cercando?». Umbregard scosse il capo. «Oh, quanto darei per esser stato là», sussurrò malinconico, prima di sedersi cautamente su una foglia. Nel tempo di un breve mormorio di sorpresa, questa lo avvolse e divenne un sedile comodissimo. «Be', ahem», mormorò, mentre Starsunder ridacchiava. «Comodo, molto comodo». Il mago guardò la «sedia» di Starsunder, viva e attaccata alla gigantesca quercia su cui si erano arrampicati tanto laboriosamente, salendo una scala a spirale che sembrava non finire mai. «Suppongo che non esistano sedie come queste in nessun altro luogo, se non nella corte di un elfo!» «Esatto», rispose Starsunder con un ampio sorriso, «da nessuna parte, mi spiace». Umbregard sbuffò. «Non sembri per nulla dispiaciuto. Perché abbiamo dovuto faticare per salire quassù, scalino dopo scalino, quando potevamo usare incantesimi di volo?» «L'albero doveva conoscerti», gli spiegò l'elfo. «Altrimenti, quando ti
saresti seduto come hai fatto, ti avrebbe catapultato tra le nuvole... e io non avrei avuto alcun mago umano con cui conversare questa sera». Umbregard rabbrividì al pensiero di essere lanciato in alto, nel vuoto, prima di intraprendere la lunga e terribile caduta... «Aghh!», urlò, agitando la mano come per spazzare via quel macabro pensiero. «Dei! Via, via! Torniamo alla nostra conversazione! Mentre stavamo mangiando... oh, quella marmellata favolosa! Come si... no. Dopo, te lo chiederò dopo. Ora vorrei sapere perché, mentre mangiavamo, hai detto che Elminster è attualmente in pericolo... e poco ci manca che diventi un pericolo ancor più grave per noi tutti... perché?» Starsunder percorse con lo sguardo la foresta verde che si estendeva fino alla linea distante delle montagne, poi rispose: «Ogni mago umano che vive tanti anni come Elminster vede la morte di tutti i suoi nemici. E proprio la sua longevità e il suo potere lo rendono un bersaglio naturale per tutti coloro che vorrebbero i suoi doni, le sue presunte ricchezze od oggetti magici. Tali pericoli attendono tutti i maghi che hanno riscosso successi». Umbregard annuì, e l'elfo continuò. «È ragionevole supporre che un mago di grande successo attragga maggiore attenzione, e perciò nemici più pericolosi, giusto?» L'umano annuì nuovamente, protendendosi impaziente. «Hai intenzione di raccontarmi di qualche grande nemico misterioso che Elminster sta affrontando in questo momento?» Starsunder sorrise. «Come i Phaerimm, i Malaugrym, e forse anche gli Sharn? No». Umbregard si accigliò. «I Phaerr...?» L'elfo ridacchiò. «Se ti parlo di loro, non saranno più misteriosi, non è vero? Inoltre, trascorreresti il resto dei tuoi giorni attanagliato dalla paura, e nessuno ti crederà quando spargerai voce della loro esistenza. Ogni volta che lo farai, aumenterà la probabilità che uno di loro ritenga necessario zittirti... e perciò troncare brutalmente la tua giovane vita. No, dimenticali. È un buon allenamento per i maghi, dimenticare e lasciar perdere le cose che li interessano. Alcuni non imparano mai, e muoiono prima del tempo». Umbregard aggrottò le sopracciglia, aprì la bocca per dire qualcosa, poi la richiuse. Dopodiché la riaprì ed esclamò quasi rabbioso: «Bene dunque, se non parliamo di nemici, quale pericolo incombe su di lui?» Accanto al gomito di Starsunder una piccola foglia arrotolata si aprì e rivelò due ciotole di vetro, piene di ciò sembrava acqua. L'elfo ne porse una a Umbregard e bevvero insieme.
Era proprio acqua, e delle migliori che Umbregard avesse mai assaggiato. Quando il liquido fresco ebbe raggiunto ogni angolo del suo essere, il mago si sentì completamente vigile e rinvigorito; voltò la testa per esternare i suoi sentimenti, ma, guardando gli occhi di Starsunder notò una grande tristezza. Esitò un momento e l'elfo della luna rispose deliberatamente: «Se stesso». «Se stesso?» Per tutti gli dei, si era ridotto a un'eco? E quella era la sua sesta sera con Starsunder... o la settima? Già, era come un bambino invitato a conversare con gli adulti, che, per la prima volta, considerava Faerûn da un punto di vista più serio e più ampio. Con uno sforzo improvviso, Umbregard trattenne la lingua e si protese per ascoltare. Starsunder gli offrì un lieve sorriso e aggiunse, «Essendo sopravvissuto a tutti i suoi amici, alle sue amanti, ai suoi nemici, e persino ai regni della sua gioventù, Elminster si sentirà sempre più solo e malinconico... Si aggrapperà allora a tutto ciò che gli rimane, ossia il potere e la magia, e inizierà a biasimare il patto che lo ha derubato della sua gioventù, e di tutte le cose che avrebbe potuto fare, ma non fece... in poche parole, diventerà irrequieto al servizio di Mystra». «No! L'hai detto tu stesso: l'amore...» «È tipico degli umani», continuò Starsunder tranquillo, «e di tutti noi, in diversi periodi della vita... ma ora sono io che sto divagando. In breve, Elminster, il mago maturo e potente, non più il giovane ardente e facilmente distraibile, per la prima volta incontrerà le tentazioni». «Tentazioni?» «La possibilità di utilizzare il suo potere come gli pare, senza restrizioni dettate da altri; il desiderio di fare ciò che vuole, ignorando le conseguenze nel bene e nel male, schiacciando tutti coloro che lo ostacolano; la voglia di perseguire ogni suo capriccio». «E allora?» «E allora, quando lo farà, ogni creatura vivente sopra o sotto Toril farà meglio ad acquattarsi e a nascondersi... poiché non saprà quale sorte l'aspetta se dovesse incontrare Elminster sul suo cammino». L'elfo lasciò che le sue parole rimanessero sospese nel silenzio per qualche istante, in attesa che il mago parlasse. Umbregard non lo fece attendere troppo. «Stai dicendo», domandò sottovoce, «che noi... io... o qualcuno... deve dare la caccia a Elminster e distruggerlo per salvare Toril?»
Starsunder scosse il capo con aria quasi stanca. «Perché gli umani amano tanto quella parola? "Distruggere!"» L'elfo ripose la ciotola nella foglia e, sorridendo, domandò: «Se tu avessi successo; Umbregard il Potente, dimmi, chi proteggerebbe Toril da te?» Se fossi un Assassino in agguato, avrei certamente una tana... «Dolce Mystra», mormorò El, sorridendo suo malgrado, «qualsiasi cosa tu stia facendo, impediscimi sempre di tentare di essere un bardo». Fece un altro passo lungo il muro sgretolato delle rovine, e il lieve rumore del suo stivale sulle foglie umide risuonò forte nello strano silenzio della foresta vuota. In certo qual modo egli sapeva che quell'edificio cadente era legato all'entità che stava uccidendo gli uomini e le creature boschive dei dintorni. Il richiamo era cominciato lungo la strada costiera... Si fermò e guardò le pietre ricoperte di muschio. Era possibile che ad attrarlo in quel luogo fosse stato un incantesimo? Se ne sarebbe accorto... non è vero? Improvvisamente El si voltò e iniziò a tornare verso il ponte in rovina, allontanandosi dalle macerie a un passo costante. Si guardò indietro una volta, tanto per essere sicuro che nulla stesse per colpirlo alle spalle, ma tutto sembrava quieto come prima. Ciononostante si sentiva osservato. Scrutò a lungo i resti delle mura, ma nulla si mosse o mutò. Con un'alzata di spalle, El si voltò e si diresse verso la strada. Non aveva fatto che pochi passi quando la vide con la coda dell'occhio... non era proprio ciò che si aspettava, bensì una donna che lo osservava tra due querce; il mago si voltò verso gli alberi, ma questa era svanita. Fece un lento giro su se stesso, ma non vide nessuno, né udì alcun rumore. Con un lieve sorriso sul volto, El si rimise in cammino verso la strada. Sospettava che non sarebbe trascorso molto tempo prima che quel volto si riaffacciasse... poiché un volto era tutto ciò che aveva visto, non una figura intera, ma una testa e un collo. Forse era solo un fantasma. Se la donna era l'Assassino, ciò avrebbe potuto spiegare l'assenza di tracce o di creature da mettere con le spalle al muro. La maniera di uccid... Eccola di nuovo scrutarlo da un albero davanti a lui. Questa volta El non si precipitò verso di lei, ma si voltò a guardare in tutte le direzioni... e come si aspettava, vide la faccia spuntare dall'albero dietro di lui, vicino alle rovine, per il tempo sufficiente a incrociarne lo sguardo. El sorrise lentamente e si diresse verso quel secondo albero; era a pochi
da esso quando un volto spettrale si voltò a guardarlo dall'alto di un'altra pianta ben più vicina alle rovine. Il principe la salutò con un cenno e si lasciò guidare nuovamente verso l'edificio; quanto prima fosse andato in fondo alla questione, tanto prima avrebbe potuto andarsene da quel luogo, e proseguire nella missione affidatagli da Mystra. Questa volta aggirò le mura dalla parte opposta, tanto per perlustrare un terreno nuovo, e si ritrovò a guardare, tra i buchi delle pietre cadenti, in una vasta camera che sembrava essere ammobiliata. Si avvicinò cautamente fra il groviglio di rovi e di macerie. «Laggiù!», ringhiò una voce... umana, rauca, e non molto lontana. Quando Elminster si acquattò e si voltò, udì il sibilo familiare di dardi che si avvicinavano al bersaglio, lui stesso. Ilbryn Starym tirò le redini al grido sorpreso della sentinella e sollevò una mano vuota. «Vengo in pace», cominciò, «sono solo...» Non fece in tempo a completare la frase che alcuni giavellotti vennero scagliati in sua direzione e uomini con spade sguainate e sul volto un'espressione di paura e stupore, balzarono fuori da ogni direzione. «Elfi!», ruggì uno di loro. «Ve l'avevo detto che si trattava di elfi...» Ilbryn sospirò, si levò il mantello con la parola che faceva calare le tenebre sul mondo e spostò il cavallo. Lo scatto improvviso della bestia gli fece capire che era stata colpita da uno dei giavellotti: poco dopo questa lo sbalzò di sella e cadde pesantemente su un fianco... a pochi centimetri da Ilbryn. L'elfo rotolò via ma uno zoccolo del cavallo colpì la sua anca buona, e probabilmente la squarciò. Umani maledetti! Non si poteva nemmeno cavalcare lungo i sentieri senza essere assaliti da avventurieri idioti, tanto arroganti da accamparsi proprio in mezzo alla strada. Ilbryn si alzò in piedi, zoppicò fino ad andare a sbattere contro un albero, e si appoggiò contro di esso. Gli umani stavano brancolando nel buio che aveva evocato, colpendosi a vicenda, lanciando grida di allarme, e distruggendo l'accampamento e il bosco attorno a loro. Troppo stolti per essere il famigerato Assassino... no, doveva trattarsi di una banda di mercenari... hah! Quelli pensavano che lui fosse l'Assassino! Bene, dunque... Avvolto da un'oscurità in cui solo lui poteva vedere, Ilbryn osservò la zuffa per il tempo necessario a riprendere fiato e a guardarsi intorno, alla ricerca di maghi o di preti con intelligenza o potere sufficienti da spezzare
il suo incantesimo. Una volta sferratone un altro, l'oscurità si sarebbe dileguata... perciò desiderava che quel sortilegio fosse molto efficiente. Due degli avventurieri erano già morti per mano dei compagni, e mentre Ilbryn li osservava, un terzo venne trafitto da due giavellotti. L'elfo vide un uomo accanto alla tenda, chino sopra le pergamene, al che preparò l'incantesimo, poi raccolse una pietra, prese la mira con gli occhi socchiusi... e lanciò. Il sasso rimbalzò su una pentola, che riversò il suo contenuto nel fuoco. L'uomo con le pergamene sollevò di scatto la testa, e altri due avventurieri lo raggiunsero chiedendo che cosa fosse accaduto, fra una pioggia d'imprecazioni. Un bel gruppetto. Ora, prima che si disperdesse! Ilbryn si appoggiò al tronco, pronunciò la formula il più silenziosamente possibile ma senza fretta, e fu ricompensato, un istante prima di terminare, udendo il mago sibilare: «Ohi, tutti in silenzio! Ascoltate!» I sette avventurieri smisero obbedienti di gridare e di correre in giro; rimasero immobili come statue mentre l'oscurità si dileguava... e schegge d'acciaio rotanti si materializzarono nell'aria e li tagliarono in due all'altezza della vita. Alcuni di loro videro persino l'elfo accanto all'albero che li guardava sogghignando. Il mago, sempre chino, venne decapitato, e il sangue imbrattò le pergamene quando il suo corpo cadde nel fango. Ilbryn cessò di interessarsi al massacro e si mise in ascolto dei rumori dei sopravvissuti. Almeno due, o forse quattro uomini erano ancora in agguato nelle vicinanze. Uno di essi gli passò accanto correndo, gridando inorridito per la scena che si presentò ai suoi occhi. Per tutti gli alberi tremanti, gli umani erano tutti tanto stupidi? Evidentemente sì; altri due raggiunsero il primo, e si misero a piangere e a gridare; Ilbryn sospirò. Persino idioti come quelli presto si sarebbero accorti di un elfo immobile contro un albero. Quasi con rimpianto sferrò l'incantesimo esplosivo che li uccise. L'eco della conflagrazione stava ancora rimbalzando fra gli alberi intorno a lui quando il rumore di uno stivale lo fece voltare di scatto... Un guerriero terrorizzato gli stava venendo incontro con la spada sollevata. «Tu sei l'Assassino?», chiese l'uomo, il viso e le nocche bianchi per la paura. «No», rispose Ilbryn, nascondendosi dietro l'albero. L'uomo esitò, poi riprese ad avvicinarsi cautamente. «Perché hai ucciso i
miei compagni?», ringhiò, estraendo un coltello dalla cintura per avere due armi pronte. Ilbryn indietreggiò ulteriormente, tenendo l'albero fra loro, e scrollò le spalle. «Vi siete sbagliati», rispose all'umano, mentre presero entrambi a muoversi lentamente attorno all'albero, senza distogliere lo sguardo l'uno dall'altro. «Stavo cavalcando lungo il sentiero, in pace, senza intenzioni malvagie... e voi mi avete attaccato, più di dodici contro uno. Briganti? Avventurieri? Non mi avete dato il tempo di parlare o di vedere chi foste. Tutto ciò che ho potuto fare è stato difendermi. Una piccola riflessione prima di brandire la spada avrebbe potuto evitare questo spargimento di sangue». L'elfo sorrise beffardo. «Dovreste prestare più attenzione quando vi inoltrate nel bosco. È un luogo pericoloso». Quelle ultime frasi scatenarono nel guerriero la rabbia che si aspettava; gli umani erano tanto prevedibili... Con un ruggito incomprensibile l'uomo lo caricò agitando furiosamente l'arma; Ilbryn lasciò che l'albero ricevesse la maggior parte dei colpi, attese che la lama rimanesse infilzata nella corteccia, poi fece uno scatto, scostò la mano dell'uomo che teneva il coltello e gli premette la sua contro la faccia, pronunciando l'incantesimo che gli avrebbe tolto la vita. La carne si fuse, e l'uomo gorgogliante cadde in ginocchio. Dal gemito disperato che emise, l'elfo seppe che stava morendo. «Non che non fossi felice di uccidervi», gli confessò, «dal momento che mi siete costati un cavallo in perfette condizioni». L'elfo indietreggiò e si guardò intorno, nel caso qualche sopravvissuto... o magari l'Assassino, chiunque egli fosse... si stessero avvicinando. A quanto pareva, tuttavia, non vi era più nessuno. Il guerriero emise un ultimo rantolo, poi sembrò rilassarsi. «Dopotutto», esclamò Ilbryn, «questa è la Zona dei Morti, mi hanno detto». L'elfo si voltò e si accinse a perlustrare l'accampamento in cerca di oggetti utili, ma, fatti pochi passi, si arrestò, si guardò nuovamente intorno, poi si chinò piuttosto goffamente per raccogliere una spada sottile da sotto le foglie calpestate. «In caso servisse», esclamò Ilbryn rivolto al corpo devastato del suo proprietario morto, dallo sguardo fisso, le cui dita sarebbero rimaste per sempre protese verso la spada che aveva lasciato cadere. Quando l'elfo allungò la sua per tagliare il fodero dalla cintura imbrattata di sangue, aggiunse con tono quasi allegro: «Dopotutto, non si sa mai che cosa potrebbe succedere».
16. SE LA MAGIA DOVESSE VENIR MENO Se la magia dovesse venir meno, Faerûn verrebbe cambiata per sempre... e non pochi accoglierebbero volentieri tale cambiamento. Innanzitutto, la terra stessa potrebbe inclinarsi sotto il peso improvviso degli oppressi e degli afflitti che inseguono maghi, ormai senza poteri, per regolare vecchi conti in sospeso. Mi domando, come sarebbe un fiume di sangue di mago? Tammarast Dieciguanti, Bardo di Elupar Da Le corde della lira fracassata Pubblicato nell'Anno del Behir «Andatevene! Eventi potenti scuoteranno Faerûn, e i sacerdoti non possono uscire a parlare con voi in questo momento! Per amor di Mystra, andatevene!» La voce della guardia, profonda e potente, si riversò sulla folla assiepata, come un'onda spinta dalla tempesta che s'infrange sulla sabbia di una spiaggia... ma quando si ritirò, la gente era ancora là. Le voci stridule e le facce bianche per la paura, nessuno voleva abbandonare gli scalini della Casa della Stella, a costo della vita. La guardia fece un ultimo gesto per invitare la folla a disperdersi, e si ritirò dal balcone. «Mi spiace, Lucente Maestro», mormorò. «Percepiscono che qualcosa non va. Ci vorrebbero gli incantesimi inseguitori della stessa Mystra per farli spostare». «Osi bestemmiare qui, nel luogo sacro?», sibilò il sommo sacerdote, gli occhi scintillanti di rabbia. Sollevò una mano, come per colpire la guardia - una spanna al di sopra della sua testa, nonostante la sua ragguardevole altezza - ma poi la lasciò cadere lungo il fianco, con un espressione sbalordita. «Perduto», mormorò con labbra tremanti. «Tutto è perduto...» La guardia avvolse il Signore della Casa in un abbraccio confortante, come si fa con un bambino singhiozzante, ed esclamò: «Passerà, signore. Aspettiamo la notte; molti se ne saranno andati per allora. Attendiamo pazienti, e rimaniamo vigili in caso di segni». «Il vostro consiglio ha un motivo particolare?», chiese il sacerdote, con la voce tremolante per la disperazione.
La guardia gli batté delicatamente una mano sulle spalle e si allontanò da lui esclamando: «No, signore... ma che altro potremmo fare?» Il Signore della Casa emise una risatina, pericolosamente simile a un singhiozzo, e rispose: «I miei ringraziamenti, fedele Lhaerom». Fece un grande respiro, gettò il capo all'indietro per riacquistare la dignità, e domandò: «Che cosa fanno i guerrieri quando devono rimanere dentro le mura con le mani in mano, in attesa del colpo di grazia?» Lhaerom ridacchiò. «Molte cose, signore, gran parte delle quali, le lascio alla vostra immaginazione. Ma per rinfrancare il morale solitamente cuciniamo la zuppa. Scodelle e scodelle di zuppa, la più buona e la più ricca possibile; invitiamo tutti a partecipare, perlomeno ad apprezzare il profumo». Il sommo sacerdote lo fissò per un istante, poi sollevò le mani come per dire «e perché no?», e comandò ai sacerdoti minori, che stavano osservando in silenzio, di andare in cucina a preparare una zuppa. «Scoprirete, signore», aggiunse l'enorme guardia, «che...» «Lhaerom», sbottò un altro soldato, «nuovi guai». Senza terminare la frase, la guardia si voltò e uscì rapidamente sul balcone. Il sacerdote lo seguì, ma una guardia gli sbarrò la strada. «No, signore», affermò, il volto cautamente inespressivo. «Non sarebbe saggio. Stanno tirando pietre». Fuori, il sole caldo picchiava sulle porte di bronzo chiuse della Casa della Stella. Molti le prendevano a pugni, e le guardie avevano da tempo smesso di rispondere ai colpi e alle grida d'aiuto, e si limitavano a camminare avanti e indietro dentro il cancello, guardando ansiosi i catenacci e le spranghe, nel timore che cedessero. Tutte le lance che erano riusciti a trovare nei sotterranei del tempio erano già state conficcate tra le pietre per impedire che la porta fosse forzata verso l'interno. I segni lucidi che queste presentavano indicavano quanti assalti avessero già subito quel mattino. Il sacerdote si passò la lingua sulle labbra secche e chiese per l'ennesima volta: «E se le porte dovessero cedere? Che cosa...» La guardia più vicina gli intimò brutalmente di fare silenzio; il sacerdote si accigliò e fece per ribattere, infastidito, poi i suoi occhi seguirono il dito del soldato puntato verso le porte e rimase con la bocca spalancata. La mano di un uomo sporgeva attraverso il bronzo, e intorno al polso, al di qua del pesante metallo, si vedeva la magia crepitare. D'un tratto la mano fece i segni usati fra il clero di Mystra durante i rituali silenziosi. Il sacerdote la osservò per un momento, poi sibilò: «Rimani là!», e percorse ansimante i gradini verso una porta che dava sulla torre esterna. Do-
veva riuscire a salire su quel balcone... Le mani dell'uomo alto, dal mantello nero, tremavano quando le ritirò dalla porta. Sapeva di esser stato visto e conosceva l'umore della folla che spingeva dietro di lui. «Non serve», affermò ad alta voce. «Non riesco a entrare». «Tuttavia sei uno di loro, vero?», ringhiò una voce vicino al suo orecchio. «Già, l'ho visto... ha usato un incantesimo!», s'intromise un altro, ebbro di paura e di rabbia. L'uomo dal mantello nero non rispose, ma guardò speranzoso il balcone. E venne ricompensato. Due guardie corpulente apparvero con lunghe lance tra le mani... lance in grado di arrivare laggiù e di trafiggere chiunque fosse stato vicino al cancello... e gli chiesero, più o meno contemporaneamente: «Sì? Avete affari legittimi con la sacra casa?» «Sì, signori», rispose l'uomo, ignorando i mormorii di rabbia che si levarono alle sue parole. «Perché i cancelli sono chiusi?» «Grandi avvenimenti richiedono la contemplazione di tutti i servi ordinati di Mystra», tuonò la guardia. «Oh? È in corso qualche orgia?», gridò qualcuno dal mezzo della calca, e subito si levarono ruggiti di assenso e di derisione. «Già, lasciateci entrare! Vogliamo partecipare!» «Andatevene!», sbraitarono le guardie, drizzandosi per sovrastare l'intera folla. «Mystra è viva?», urlò un uomo. «Già!», si unirono gli altri. «La dea della magia respira ancora?» La guardia lanciò loro un'occhiata sprezzante. «Naturalmente», ringhiò. «Ora andate via!» «Provacelo!», gridò un altro. «Fai un incantesimo!» La guardia sollevò la lancia. «Io non faccio incantesimi, Roldo», affermò minaccioso. «E tu?» «Portateci un sacerdote... portateceli tutti!», gridò Roldo. «Già», gli fecero eco gli altri. «E vediamo se uno di loro... soltanto uno... riesce a fare un incantesimo!» Il ruggito di assenso che seguì le sue parole scosse le mura del tempio, ma, nel trambusto, l'uomo dal mantello nero udì una delle guardie mormorare: «Sì, magari una bella sfera di fuoco che vi travolga tutti». L'altra assentì, senza sorridere. «Ascoltate», ricominciò l'uomo, «io devo parlare con Kadeln. Kadeln
Parosper. Ditegli che c'è Tenthar». La guardia più vicina si sporse. «No, ascolta tu», rispose freddo. «Io non aprirò questi cancelli per nessuno... tranne che per Mystra stessa. Perciò se torni mano nella mano con lei, e me lo chiedi gentilmente, va bene, altrimenti...» Una terza figura era sul balcone, e sbirciava oltre le spalle del soldato. Indossava il mantello e l'armatura di una guardia, ma niente guanti, e l'elmo, troppo grande, continuava a scivolargli sul viso. Una mano impaziente lo sollevò, e il viso bianco e preoccupato di Kadeln, Sommo Sacerdote del tempio, sibilò all'amico: «Tenthar, non saresti dovuto venire. Questa gente è impazzita per la paura». «Sai», commentò l'uomo dal mantello nero con tono casuale, «stando quaggiù con loro, avevo iniziato a notarlo». Poi il suo autocontrollo vacillò e iniziò ad arrampicarsi freneticamente sul muro del balcone, ignorando la stoccata d'avvertimento di una lancia; la lama sporca si arrestò a pochi centimetri dal suo naso e rimase minacciosamente immobile, ma Tenthar non vi prestò la minima attenzione. «Kadeln», ringhiò, «che cosa sta accadendo? Ogni mio dannato incantesimo va a monte, e quando studio... nulla. Non riesco a elaborare nuovi sortilegi!» «Qui accade la stessa cosa», sussurrò il sacerdote dal viso pallido. «Si mormora che Mystra sia morta, e...» Una delle guardie prese Kadeln con la forza e lo allontanò dalla balaustra, mentre l'altra iniziò a menare colpi con la lancia; Tenthar cercò disperatamente di evitarli e cadde a terra davanti al portone di bronzo. La folla si allontanò di qualche passo, come per magia, ed egli si ritrovò sdraiato in un piccolo spazio vuoto, la lancia a una spanna dalla sua gola. «Chi sei?», gli chiese la guardia che l'impugnava. «Rispondimi, o morirai. Ho nuovi ordini». Tenthar si mise seduto e scostò la punta della lancia con un gesto altezzoso. Quando riguadagnò la posizione eretta, badò bene a mettere qualche passo tra lui e l'arma. «Mi chiamo Tenthar Taerhamoos», affermò severo, aprendo il mantello per mostrare le sue ricche vesti, e un medaglione gemmato scintillante sul petto. «Arcimago della Torre di Phoenix. Tornerò». E con quella promessa minacciosa, l'arcimago si voltò e si fece strada tra la folla. Intorno a lui si udirono mormori... «È vero! Mystra è morta? La magia non esiste più?»
Una pietra colpì Tenthar sulla spalla, egli non si voltò, né tentò di farlo, ma proseguì fra corpi riluttanti a lasciarlo passare. «Un arcimago?», gridò qualcuno. «Senza incantesimi?», chiese un altro, a pochi passi da lui. Poi un altro sasso colpì Tenthar sulla testa, e l'uomo barcollò. Tutt'intorno si levò un mormorio di esaltazione mista a terrore, e qualcuno urlò: «Prendetelo!» «Prendetelo!», gli fece eco la folla. Tenthar cadde in ginocchio, sollevò lo sguardo agli stivali, ai bastoni, e alle mani che gli stavano piombando addosso da tutte le direzioni, strinse il prezioso medaglione per scongiurare l'insuccesso dell'incantesimo, e pronunciò le parole che aveva sperato di non dover mai proferire. Fulmini crepitarono in ogni direzione, e l'arcimago cercò di non guardare gli individui che cadevano morti intorno a lui. La fulminazione a catena è una cosa terribile, persino quando non è aumentata dalla potenza di un medaglione... Sospirò, si alzò mentre le ultime grida si affievolivano, e guardò le teste balzellanti di coloro che erano fuggiti diventare sempre più piccole. Anche Tenthar avrebbe fatto bene a mettersi a correre, prima che qualche idiota assetato di sangue radunasse gli individui dispersi, o che quelli sopravvissuti si riprendessero e cercassero vendetta. L'odore di carne bruciata era forte, e numerosi corpi erano ammassati tutt'intorno. L'arcimago fece una smorfia di disgusto, poi trotterellò via. Non vide mai la lancia scagliata contro di lui dal balcone, che s'infilzò tremolante nel terreno. Un corpo annerito si levò a fatica da sotto i cadaveri. «La cosa che odio maggiormente di questi giochini», commentò, «è il costo. Quante vite si spegneranno prima che sia tutto finito, questa volta?» Un'altra sagoma annerita si sollevò da terra, scrollò le spalle, toccò la lancia, e rispose con tono triste: «Tutto ha un prezzo... tanto potere, e non possiamo cambiare le cose». Nell'aria si videro due luccichii... e i due corpi anneriti scomparvero. La lancia svanì un istante più tardi. «Vi sono arcimaghi sotto ogni pietra laggiù? O erano una sorta di dei?», sbottò la guardia che aveva scagliato la lancia, più impaurita che arrabbiata. «Mystra e Azuth», sussurrò il sacerdote accanto a lui. Le guardie si voltarono verso Kadeln... e rimasero a bocca aperta. La lancia svanita era appena ricomparsa tra le mani tremanti dell'uomo. Questi li fissò, gli occhi
pieni di stupore, e mormorò: «Erano Mystra e Azuth. Proprio là, con i simboli con i quali li conosciamo, scintillanti sopra le loro teste... proprio davanti a noi! Cercò di indicare l'ammasso di corpi, ma poi decise di svenire. Lo fece a regola d'arte, con gli occhi che roteano nelle orbite, il corpo che si accascia e tutto il resto. Una delle guardie lo afferrò, ormai abituato, e l'altro prese possesso della lancia. Se gli dei fossero tornati a far visita, non voleva essere disarmato. «Mystra è morta!», dichiarò esultante la Darklady. «I suoi sacerdoti scoprono che i loro incantesimi sono inefficaci, e i maghi studiano senza trovare il potere nelle parole. Ora soltanto noi comandiamo la magia... e la controlliamo!» Quando il suo sguardo scuro si sollevò a contemplare tutti i presenti, le fiamme purpuree che avvampavano nel braciere davanti alla donna proiettarono luci strane sul suo volto. Attorno al fuoco sedeva il suo pubblico anelante: i sei sacerdoti della Darklady che avevano acconsentito a lavorare come maghi, imbrigliando, per i propri incantesimi, il potere di ciò che era già conosciuto nel tempio come il Segreto della Sfera. Con essi avrebbero potuto rendere la Casa della Sacra Notte il tempio di Shar più potente di tutta Faerûn... e la fede della Portatrice delle Tenebre la più grande di tutta Toril. «Miei fedeli maghi», esclamò la sacerdotessa, «avete una grande opportunità per guadagnare il favore di Shar, e potere per voi stessi. Viaggiate per Faerûn e cercate i maghi più abili e le più grandi roccaforti di magia. Uccidete a vostra discrezione, e prendete tutto ciò che riuscite. Portatemi tomi, oggetti rari e qualsiasi cosa contenga il minimo luccichio magico. Inoltre, se mai li incontrerete, dovete uccidere tutti gli Eletti di Mystra: noi qui lavoreremo diligentemente con i nostri incantesimi al fine di trovarli e facilitarvi il compito». «Vostra Oscurità?», chiese esitante uno dei maghi. «Sì, Terribile Fratello Elryn?», rispose Avroana con tono insinuante, un chiaro avvertimento per tutti del fatto che chiunque osasse interromperla avrebbe fatto bene ad avere un ottimo motivo per farlo. «Il mio lavoro comprende lo spionaggio tramite i nostri agenti a Westgate», affermò rapido Elryn, «e nella città corre voce di molti avvistamenti recenti di un Eletto nelle vicinanze di Starmantle... nella cosiddetta "Zona dei Morti"...»
«Anch'io ho udito tali notizie», assentì entusiasta la Darklady. «Molte grazie per averci fornito il nome di un luogo, Elryn. Dovete andarci immediatamente... là inizierà la vostra missione sacra. Mettete le mani nel fuoco... ah, fedelissimi maghi, ricordate che possiamo sentirvi e vedervi in ogni momento». Sei volti impallidirono... e sei mani si allungarono riluttanti tra le fiamme. La Darklady Avroana rise divertita della loro paura e li lasciò bruciare per qualche istante, prima di pronunciare le parole che li avrebbero teletrasportati altrove. Era tutto molto tranquillo nei boschi intorno all'altare... da quando erano cominciate le uccisioni e la gente impaurita se ne era andata. Uldus Blackram trascorreva gran parte delle sue giornate da solo, inginocchiato davanti al blocco di pietra, frustandosi ogni tanto, senza molto entusiasmo, in modo da non causare troppo rumore, e sussurrando preghiere alla Cantante della Notte. L'altare era stato costruito accuratamente, consacrato con sangue e un rituale selvaggio, al solo ricordo del quale Uldus arrossiva. Ora non vi erano ragazze dalle tuniche nere che danzavano e vorticavano a piedi nudi attorno alla pietra a forma di mezza luna, e nessuna lo guidava nelle preghiere che ricordava a spizzichi... perciò si limitò a ringraziare ripetutamente Shar per averlo tenuto in vita durante le sue visite furtive nei boschi. Sperava inoltre, che l'avrebbe perdonato per aver cessato di andare all'altare di notte. «Possa la vostra oscurità salvarmi dall'Assassino», mormorò Uldus, sfiorando con le labbra la pietra nera. «Possiate guidarmi al potere e all'esultanza a scapito dei miei nemici, e trasformarmi in una spada forte che tagli dove necessario, e colpisca secondo la vostra volontà. Oh, sacra Padrona della Notte, ascoltate la mia preghiera, la supplica del vostro fedele servo, Uldus Blackram. Shar, ascoltate la mia preghiera. Shar, rispondete alla mia preghiera. Shar, prestate...» «Ecco fatto, Uldus», esclamò una voce nitida sopra di lui. Il sacerdote appoggiò la testa sull'altare, fece una capriola all'indietro per portarsi a qualche passo di distanza, e si rimise in piedi con un unico movimento. Quando alzò lo sguardo, ansimante, e con l'intenzione di fuggire, si ritrovò a guardare sei uomini pelati vestiti con tuniche color nero e porpora, disposti in semicerchio davanti a lui, sui volti un'aria vagamente divertita.
«Sacerdoti della Darklady?», mormorò Uldus. «Le mie preghiere sono state finalmente esaudite?» «Uldus», cominciò affabile il più anziano, avanzando di un passo. «Sono state esaudite. Inoltre, ti spetta un'adeguata ricompensa. Ci guiderai nella Zona dei Morti!» «S-sia lodata Shar!», rispose Uldus, rovesciando gli occhi nelle orbite mentre cadeva svenuto sull'erba. «Rianimatelo», comandò Elryn, senza disturbarsi a nascondere il disprezzo sul suo volto o nella voce. «E pensare che un tipo simile adora la Sacra Signora della Notte». «Be'», commentò uno dei maghi, chinandosi sopra Uldus, «prima o poi tutti dobbiamo iniziare da qualche parte». La sfera magica illuminata orbitava lenta intorno al trono. Saeraede le prestò poca attenzione, impegnata com'era a mandare immagini di se stessa tra gli alberi, per attirare l'impavido Elminster al suo castello. Già, perché non stuzzicare un po' quel mago potente e, a suo modo, anche affascinante. Le notizie ottenute scrutando segretamente i maghi erano, tuttavia, più che chiare: voci della morte di Mystra si stavano diffondendo come un fuoco selvaggio, gli incantesimi fiorivano in tutta Faerûn, i maghi si rinchiudevano nelle torri prima che qualcuno cercasse di regolare i conti in sospeso.... Era finalmente tempo di agire, e di far sì che il mondo temesse ancora il nome di Saeraede Lyonora! Improvvisamente, qualcosa trafisse una delle sue immagini. La donna si drizzò accigliata e tentò di scoprire che cosa fosse stato. Dalla sfera magica sparì bruscamente la scena delle guglie cittadine e delle ali di grifoni cavalcati da cavalieri armati, e comparve quella della penombra screziata della foresta. Una foresta in cui Elminster stava accovacciato, numerosi volti fluttuavano e... Alcune frecce sibilarono attraverso l'immagine del suo viso e le foglie morte antistanti, per conficcarsi nel sottobosco e costringere un Elminster affannato a spostarsi dall'altra parte di un albero. Frecce? «Maledetti avventurieri!», ruggì Saeraede alzandosi di scatto dal trono, mentre il suo urlo rimbombava nella caverna. La sfera magica si spense e cadde, il bagliore attorno al sedile di pietra si affievolì... ma la donna stava
già turbinando su per il passaggio, gli occhi fiammeggianti. Quei dannati spadaccini non le avrebbero rovinato il piano per nessuna ragione al mondo! Il mago potente e, a suo modo, anche affascinante, schivò abilmente un altro dardo, tuffandosi nel muschio umido, quando un altro dardo scuro gli sfrecciò accanto all'orecchio come una vespa infuriata e si conficcò nel tronco di un hiexel. El si rimise in piedi, prese fiato per pronunciare un'imprecazione, e si rigettò a terra immediatamente. Una terza freccia sibilò sopra la sua testa, andando a raggiungere quella precedente. L'albero non sembrò apprezzare molto quel trattamento, ma El non aveva tempo di considerare la sua tristezza... né di fare altro, se non alzarsi rapidamente, saltare sopra un tronco caduto, e nascondervisi dietro. Sollevò immediatamente la testa, sperando che i due arcieri non avessero ancora caricato le armi; era necessario vedere dove fossero. Ah! Eccoli laggiù! Scagliò un'ondata di proiettili magici a uno di loro, poi si acquattò di nuovo, e udì il rumore di piedi che correvano nella sua direzione. Era tempo di andarsene, e rapidamente! Si mise a zigzagare giù per un pendio, sentendo dietro di lui il passo pesante di un individuo imponente, con un'armatura e una spada fra le mani. El si guardò bene dal fermarsi a scambiare cortesie, e girò attorno a un tronco per colpire il volto dell'uomo con una pioggia di saette magiche. La testa dell'avventuriero balzò all'indietro, fili di fumo gli uscirono dalla bocca e dagli occhi, e l'uomo corse alla cieca per una decina di passi, per poi crollare al suolo, morto o incosciente. «Morto o incosciente». Hmm; sarebbe stato un motto perfetto per una banda di avventurieri, ma... Era tempo di sistemare il secondo arciere, oppure sarebbe fuggito nella foresta con la sensazione di avere una freccia tra le scapole per tutto il giorno. El percorse un buon tratto sulla destra e iniziò a dirigersi verso le rovine, cercando di fare il minor rumore possibile. Non gli importava di dover strisciare in quel modo: tutto, pur di non essere individuato troppo presto. Doveva avvicinarsi il più possibile per... Un uomo vestito di pelli, dall'aspetto arcigno, l'arco teso tra le mani, spuntò da dietro un phandar nodoso a pochi passi da lui, e non poté fare a
meno di notare un certo mago dal naso adunco, nel momento in cui sollevò lo sguardo dall'arco che aveva appena lasciato cadere. Allora El sollevò la mano per sferrare il suo ultimo incantesimo. Un istante più tardi l'arciere esplose in un turbinio di ossa e di fuoco. Elminster vide brevemente due occhi scuri... se poi di occhi si trattava... in un confuso vortice di nebbia. Poi, qualsiasi cosa esso fosse, si dileguò, e ossa annerite ricaddero sul muschio. L'Assassino? Doveva essere così, poiché correva voce che bruciasse le sue vittime quando colpiva. «Bene incontrato!», mormorò Elminster rivolto al bosco deserto, dopodiché avanzò con molta cautela. Sapeva che non avrebbe trovato altro che ceneri e ossa, ma chi poteva sapere... Indumenti sparpagliati, armi e ossa erano sparsi dappertutto. Un silenzio teso regnava sulle rovine, come se qualcuno fosse in attesa e sorvegliasse la sua avanzata. Quella grande stanza, in cui aveva veduto gli armadi e... uno specchio? Valeva sicuramente la pena di dare un'altra occhiata. Sbirciò di nuovo nella vasta sala e incontrò ancora una volta quel paio di occhi scuri; una nebbia turbinò attorno a un armadio e le sue ante si aprirono di colpo. La creatura s'illuminò di un bagliore accecante, ed El non riuscì a vedere che cosa stesse prendendo dal guardaroba. Qualsiasi cosa fosse, la nebbia continuò a vorticare attorno all'oggetto, quasi lo stesse deliberatamente nascondendo tra i suoi filamenti luminosi e tintinnanti, mentre attraversava veloce la stanza. El si apprestò ad entrare dalla fenditura per veder meglio, ma si arrestò prudentemente quando la nebbia luminosa si fermò. Essa indugiò per un istante nell'angolo più buio della stanza, librandosi sopra ciò che sembrava essere un pozzo, poi si tuffò nell'apertura rotonda e svanì. «Vuoi che ti segua, non è vero?», mormorò fra sé Elminster, scrutando il pozzo. Esaminò la stanza, esaminò lo specchio scrostato, la fila di armadi di cui quello aperto conteneva una serie di abiti femminili - l'agrippina, e tutto il resto, poi si diresse verso il pozzo. «Molto bene», affermò con un sospiro. «Un altro avventato salto nel buio. Sembra essere parte integrante del mio lavoro». Si arrampicò sul bordo del pozzo, si aggrappò al primo di una serie di appigli scavati nella pietra e inserì la punta dei piedi in un altro, cominciando la discesa. Per risalire avrebbe dovuto (usare l'incantesimo volante.
La donna distese le tre tuniche sulla pietra alla fine del passaggio, con la delicatezza di una madre che carezza il figlioletto malato, e con la stessa gentilezza vi depose sopra dei sassi. Lo sforzo le costò molta energia, ma agì rapidamente, incurante delle conseguenze, e schizzò via prima che la sua preda giungesse al bordo del pozzo e guardasse giù. Un istante dopo Saeraede sprofondò in una delle rune che le davano forza, nascondendo completamente il suo corpo nebbioso. Da troppo tempo non mangiava, e quell'incessante tintinnio iniziava a infastidirla. Brandagaeris era un eroe possente, alto, abbronzato, e forte; si era nutrita di lui per tre stagioni, ed egli aveva finito per amarla e per offrirsi a lei liberamente... ma alla fine l'aveva svuotato e aveva sofferto nuovamente la fame. Quello era il suo destino: quando il suo corpo si riduceva in polvere, ciò che le rimaneva era una magia che la obbligava a nutrirsi di creature vive... oppure a dimorare al loro interno, e bruciare le interiora di un corpo giovane, forte e vitale. Brandagaeris era stata una delle sue migliori vittime, il mago Sardon un'altra... ma i maghi, nonostante la loro intelligenza, non le fornivano ciò che bramava. Forse possedevano poca vitalità. Sperava in cuor suo che quell'Elminster non si rivelasse un'altra delusione. Forse poteva guadagnarsi il suo amore, o almeno la sua sottomissione, e non avrebbe dovuto combatterlo a lungo per assaggiare il potere di un Eletto. «Vieni a me», sussurrò avida la donna, le sue parole un flebile sospiro sopra la runa incisa nel pavimento. «Vieni a me, mio bel pranzetto». 17. UNA MAGNIFICA GIORNATA PER VIAGGIARE Il viaggio amplia la mente e svuota la borsa, come afferma il detto. Ho scoperto che ha un effetto ben più grande. Esso disgrega la mente degli irremovibili, e alleggerisce le schiere della popolazione in eccesso. Forse i governatori dovrebbero decretare che diventassimo tutti nomadi. In quel caso, naturalmente, potremmo scegliere di rimanere solo nel raggio dei governatori a noi graditi... non riesco a immaginare il caos, e il lavoro delle truppe e degli ufficiali di un regno in cui il popolo può scegliere i propri governatori. Grazie al cielo, non riesco nemmeno a credere che gli uomini siano tanto folli da accettare una
simile condizione. Perlomeno non in questo mondo. Yarynous Whaelidon Da Divergenze dal Chessent Pubblicato nell'Anno dello Sperone «Ti stai comportando bene, prode Uldus», affermò con tono rassicurante Elryn, pungolando la guida tremante con la sua stessa spada. Il prode Uldus s'incurvò per evitare la lama, ma la corda stretta intorno al collo con un nodo scorsoio, e tenuta dal mago Femter, gli impedì di sottrarsi completamente alla lama acuminata. Anche il mago Hrelgrath camminava a poca distanza da lui, tenendo il pugnale pronto a pochi centimetri dalle sue costole. «Shar è fiera di te», esclamò Elryn rivolto all'uomo, mentre procedevano sul sentiero di caccia quasi invisibile, verso la Zona dei Morti. «Adesso mostraci queste rovine... oh, Uldus, rassicurami ancora: è l'unico edificio o caverna di cui sei a conoscenza in questi boschi, non è vero?» Intimorito dal cappio, Uldus non tardò a rispondere. «Oh, sì, Terribile Signore, lo è, possa la Portatrice della Notte fulminarmi sul colpo se mento, e tutti gli dei mi siano testimo...» Questa volta Femter non attese il segnale di Elryn e strinse il cappio abbastanza forte da togliere il respiro a Uldus. La guida barcollò e si portò silenziosamente le mani alla gola, finché il mago non allentò la corda e lo lasciò respirare di nuovo. «Iyrindyl?», chiese Elryn, senza voltare la testa. «Sto guardando, Terribile Signore», rispose entusiasta il mago più giovane. «Al primo avvistamento di mura o simili, vi avvertirò». «Non sono mura quelle che vedo in questo momento», s'intromise con voce strascicata il mago Daluth, qualche passo più tardi, «bensì un elfo... da solo, che cammina con una spada in mano, laggiù in fondo». I sacerdoti di Shar si fermarono, tapparono inutilmente la bocca al povero Uldus, e scrutarono fra gli alberi. Un elfo solitario si volse e li vide, assumendo immediatamente un'espressione disgustata. Un attimo dopo, Elryn ringhiò: «Attacchiamo!», e i maghi balzarono in avanti, mentre Elryn e Daluth rimasero fermi per sferrare incantesimi. Videro l'elfo sospirare, togliersi il mantello e lanciarlo sopra il ramo di un albero, poi voltarsi verso di loro, acquattandosi lievemente. «Dannati avventurieri umani!», urlò. «Non ne ho già uccisi a sufficienza?»
Ilbryn Starym osservò i maghi correre verso di lui... maghi alla carica! Faerûn stava davvero sprofondando nella pazzia, giorno dopo giorno... sollevò la spada che era stata il bottino dell'ultima battaglia con una banda di folli, e pronunciò una parola. Quando lanciò l'arma come una freccia, questa s'illuminò, si divise in tre lame, che, come falchi, si gettarono su bersagli diversi. Nello stesso istante un albero situato immediatamente dietro i maghi fu pervaso da un bagliore blu e si sollevò dalla terra con un rombo assordante, scagliando terra e pietre in tutte le direzioni; qualcuno imprecò per la sorpresa. Un momento più tardi fulmini bianchi esplosero brevemente sopra i maghi in fuga, e un uomo che sembrava avere un cappio intorno al collo fu assalito da convulsioni, si agitò per qualche istante e strillò: «La mia ricompensa!», dopodiché cadde a terra in un ammasso informe. I sacerdotimaghi non si fermarono, al che Ilbryn sospirò e si preparò a disintegrarli. Le sue tre lame avrebbero dovuto fare qualcosa. Uno dei maghi grugnì, si voltò, e cadde con qualcosa di lucente conficcato nella spalla. Ilbryn sorrise: meno uno. Vi fu un gran bagliore, qualcuno gridò di dolore; i tre maghi rimasti uscirono dalla luce ancora scintillante e proseguirono la loro corsa, mentre uno di loro agitava le dita fumanti. Ilbryn smise di sorridere; doveva essere una sorta di barriera magica, e si era presa le altre due spade. L'elfo sollevò le mani e attese. Sicuramente, adesso che gli erano tanto vicini da poter contare i suoi denti, i maghi ansimanti si sarebbero fermati per sferrare incantesimi. Ilbryn creò intorno a sé una sfera difensiva, lasciando aperto solo un buco per lanciare l'incantesimo successivo. Se la sua valutazione di quegli idioti fosse stata corretta, non avrebbe avuto molto da temere in quella battaglia... malgrado il mago colpito alla spalla si stesse rialzando lentamente e i due che erano rimasti immobili fin dal principio si stessero ora avvicinando. D'un tratto l'aria di fronte alla sfera dell'elfo si riempì di fiori blu, che lentamente si posarono a terra. Ilbryn increspò le labbra in un sorriso, e dalle imprecazioni che giunsero alle sue orecchie comprese che non era ciò che doveva accadere. Forse era rimasto coinvolto in una prova di battaglia di apprendisti incapaci, e decise di attendere e di vedere che cos'altro sarebbe stato sferrato contro di lui.
Un attimo più tardi fu costretto a guardare quei maghi con rinnovato rispetto. Il terreno si stava aprendo con un suono terribile tra gli stivali di uno di essi... e la crepa avanzava minacciosa verso Ilbryn, con un lieve movimento zigzagante. Alberi, massi, e tutto il resto vennero scalzati dalle sponde della voragine, e l'elfo tenne pronto il suo unico incantesimo di battaglia, se mai ce ne fosse stato bisogno. Avrebbe dovuto agire con un tempismo perfetto, squarciare la sfera e balzare in alto in un unico fluido movimento. La crepa deviò bruscamente e gli passò accanto, trascinando con sé le grida incredule di un mago che sembrava sbalordito di aver causato un simile fenomeno. Ilbryn strinse gli occhi, e si domandò che razza di folli fossero quegli individui. Be', aveva perso fin troppo tempo e magia. Sferrò un rapido incantesimo attraverso il buco della sfera, e rimase a guardare quando il tronco della quercia colpita ondeggiò quasi pigramente e si abbatté sui maghi. Questi urlarono e corsero in tutte le direzioni, ma quando i rami smisero di agitarsi, un uomo giaceva spezzato in due, come una bambola abbandonata sotto un tronco dieci volte la sua circonferenza. Ilbryn arrischiò un altro sortilegio attraverso il buco. Perché non una raffica di proiettili magici? Quegli idioti assomigliavano ad attori disorientati che impersonavano maghi incapaci, e non sembravano affatto nemici temibili. Un attimo più tardi sperò, tuttavia, di non aver dato agli dei un terribile suggerimento. «Se Mystra è morta, che cosa alimenta i suoi incantesimi?», ringhiò Hrelgrath, raggiungendo di corsa Elryn, che stava osservando la scena con sguardo glaciale. «Una delle divinità elfe, idiota», rispose Daluth... un istante prima che fulmini di color blu-bianco venissero scagliati verso di loro. «Indietro!», sbottò Elryn, «non credo che possano mancare il bersaglio, ma in ogni caso scappiamo! Questa storia ci sta costando fin troppo!» La predizione di Elryn si rivelò esatta: nessuno dei fulmini fallì. I maghi-sacerdoti grugnirono e fuggirono barcollando fra gli alberi, sperando che l'elfo non si fosse disturbato a seguirli. «Femter?», chiamò Elryn. Una testa si sollevò. «Starò di nuovo bene la prossima volta che il potere si riverserà in noi», ripose il mago con aria truce. «Non riesco più a muo-
vere il braccio». «La nostra guida... morta?» «Direi di sì», rispose brevemente Femter, ridacchiando beffardo. «Iyrindyl?» «Morto. Gli è caduto addosso mezzo albero». Elryn fece un respiro profondo ed espirò a più riprese, cosciente degli occhi invisibili di Avroana puntati su di lui. «Bene... consideriamo questo fiasco come il nostro primo allenamento alla battaglia. Non ci lanceremo più in alcuna lotta; d'ora in avanti ci sposteremo in questo bosco come ombre. Quando troveremo le rovine, attenderemo che il Tessuto ci ricarichi... e solo allora, anche se dovesse occorrere tutta la notte... avanzeremo. L'unica cosa che ci interessa in questa foresta è l'Eletto, e non ho intenzione di farmi trovare nuovamente con la guardia abbassata». «Bel piano», assentì Ilbryn sarcastico, poi interruppe l'incantesimo per udire da lontano, salutò i maghi idioti e le loro chiacchiere, e pronunciò il sortilegio-guida che lo avrebbe portato alle rovine dov'erano diretti. Gli ordinò di cercare una pietra toccata da un umano, ogni masso più grande di quattro uomini... il che escludeva tombe e simili. Quasi immediatamente sentì la magia mettersi all'opera. Ilbryn la seguì ubbidiente, procedendo nel bosco lungo una linea invisibile ma costante. Ah, che cosa avrebbe fatto senza di essa? Il Palazzo della Pietra Bruciata era stato freddo e buio per molti anni. Troppo gelido per i vivi. Uno scheletro aprì le persiane di una finestra per lasciar entrare il sole, e tornò al tavolo sul quale giaceva un libro d'incantesimi. Sedendosi cautamente sulla sedia più solida rimasta nella sala, prese il tomo, lo strinse al petto con le braccia ossute, ed evocò il potere dell'incantesimo che aveva pronunciato poco prima, il potere che le avrebbe permesso di parlare. Proferì due sole parole, con voce sufficientemente forte da risuonare negli angoli bui della stanza. «Mystra, per favore». Un fuoco blu-bianco scaturì dal libro, e lo scheletro quasi lo lasciò cadere per lo spavento; le sue dita ossute ne artigliarono però la copertina, e le fiamme, assolutamente innocue, le pervasero le ossa. Sharindala rabbrividì, mentre il fuoco che lambiva le sue membra lasciava qualcosa nella sua scia. Meravigliata, la donna abbassò lo sguardo sul suo corpo, poi guardò il libro, sentendo qualcosa salirle in gola.
Baerdagh si irrigidì al suono improvviso che provenne dagli alberi, e quasi lasciò cadere il bastone; si voltò, per assicurarsi, al di là di ogni dubbio, che il debole pianto provenisse dalla Pietra Bruciata. Era proprio così. Nel cuore della casa in rovina, una donna singhiozzava... un pianto lungo che sembrava non dovesse terminare mai. Nel palazzo tenebroso e spiritato, in cui camminava il fantasma della maga. Baerdagh si mise a correre faticosamente, diretto alla Fanciulla... dove lo attendeva un bel boccale di birra. «Dovrebbe essere di qua», esclamò Beldrune, quando svoltarono e quasi investirono un uomo anziano con un bastone, che sembrava avesse appena iniziato a correre, e ansimava forte per farlo sapere al mondo intero. «Laggiù! Sulla sinistra della salita... La Fanciulla di Ripplestones. Là possiamo contare su un buon pasto, poche porte più oltre troveremo letti decenti, e in entrambi i luoghi potremo domandare notizie di Elminster. So che si diverte a visitare torri di vecchi maghi». «E anche le loro tombe», aggiunse Tabarast. «È passato qualche anno da quando mi fermai alla taverna, ma il vecchio Ralder, se è ancora vivo, era solito cucinare discretamente il cervo». L'Arpista dai capelli e dagli occhi castano chiaro, che cavalcava fra loro, annuì affabilmente. «Sembra carina», fu tutto ciò che disse, quando arrestarono i cavalli sotto il portico sgangherato e suonarono il gong per chiamare gli stallieri. Mentre entravano nella locanda, un anziano seduto su una panchina in un angolo della veranda li guardò severamente, concentrandosi su Tabarast. Dopo un istante si alzò e li seguì. Caladaster aveva abbastanza fame da fare un secondo spuntino in quel pomeriggio e, prima che Baerdagh giungesse ansimante sulla soglia della Fanciulla, era già seduto con i tre cavalieri, come se si conoscessero da anni. «Sì, conosco Elminster», stava rispondendo Caladaster, «nonostante pochi giorni fa vi avrei risposto diversamente. Si è fermato proprio in questa taverna. Baerdagh... oh, ehi! Questo è Baerdagh; siediti con noi vecchio cane... e io stavamo scaldando quella panchina laggiù, dove mi avete visto poco fa, lui è arrivato e ci ha offerto la cena... un enorme banchetto, a dire il vero!... in cambio di alcune informazioni sul Palazzo della Pietra Bruciata. Per tutti gli dei, abbiamo mangiato come principi!»
«Noi non possiamo essere da meno», affermò allora il più giovane e il più trasandato dei tre, pronunciando le prime parole da quando aveva dato la mancia al garzone. «Mangiate entrambi ciò che volete, nel contempo ci scambieremo informazioni». «Oh, a-heh. Va bene... molto gentile da parte vostra», esclamò sincero Caladaster mentre vassoi di tartarughe fumanti e di lumache al burro venivano posati sul tavolo. Alnyskavver gli strizzò persino l'occhio quando appoggiò i boccali accanto a lui. Caladaster batté le palpebre incredulo; per la miseria, stava diventando il leone del villaggio! «Dove si trova, e che cos'è il Palazzo della Pietra Bruciata?», chiese Beldrune con giovialità, prima di bere un lungo sorso di birra. Baerdagh non poté fare a meno di notare la faccia che fece lo straniero per il gusto della bevanda e la velocità con cui posò il bicchiere. «Una casa in rovina lungo la strada», rispose rapido, determinato a guadagnarsi la sua parte di pranzo. «L'avete passata per venire qui... la strada curva attorno a essa, proprio da questa parte del ponte». «È sorvegliata», affermò pacato Caladaster. «Voi signori siete maghi, non è vero?» Tre paia di occhi si levarono su di lui nel breve silenzio che seguì, prima che Tabarast sospirasse, prendesse una lumaca, e grugnisse: «Si vede tanto, vero?» Caladaster sorrise. «Io ero un mago, anni fa. E lo sono ancora, suppongo. Ne avete l'aspetto... e i vostri occhi vedono oltre quella siepe laggiù. Pancia e rughe, ma le dita sono leste come quelle di un menestrello. Per non parlare degli incantesimi che proteggono le vostre bisacce». Beldrune ridacchiò: «E va bene, siamo maghi... due di noi almeno». «Non tre?», chiese Caladaster inarcando le sopracciglia. L'uomo dagli occhi color castano chiaro e dai capelli arruffati sorrise lievemente e affermò: «Attualmente suono l'arpa». «Ah», esclamò Caladaster, badando di non incrociare lo sguardo con gli avventori abituali della Fanciulla, seduti sull'orlo della sedia per non perdere una parola della conversazione fra i viaggiatori e i due vecchi ubriaconi. Maghi! E case spiritate! Non se la potevano di certo perdere... Un arpista e due maghi, alla ricerca di Elminster. Caladaster si sentì più sollevato e meno riluttante a rispondere alle loro domande. Elminster non aveva qualcosa a che fare con la fondazione degli Arpisti? «Il Palazzo della Pietra Bruciata», continuò Caladaster, con voce tanto bassa che l'improvviso canticchiare di Baerdagh impedì l'ascolto dei curio-
si ai tavoli vicini, «è la dimora di una maga locale... una donna di nome Sharindala. Una maga buona, e ormai morta da anni. Naturalmente, corre voce che qualcuno, dalle finestre, abbia visto il suo scheletro camminare... ma dovreste essere dei provetti arrampicatori di alberi per raggiungere un punto dal quale vedere almeno una finestra... per non parlare del fatto che sono quasi completamente sbarrate!» I maghi gli sorrisero, ed egli continuò: «In ogni caso... Elminster ci chiese di lei, e noi lo avvisammo degli incantesimi guardiani, ma qualcosa mi dice che si è diretto laggiù e ha fatto qualcosa. Lo invitammo a fermarsi a casa nostra quando avesse portato a termine il suo compito, in modo da sapere che era sano e salvo...» «E di non dover entrare in quel luogo a cercare il suo corpo», brontolò Baerdagh, interrompendo momentaneamente il suo canticchiare. Tabarast e l'Arpista si scambiarono un'occhiata divertita. Caladaster lanciò uno sguardo torvo al vecchio amico e riprese il racconto. «Infatti così è stato... sembrava contento di farci visita, nonostante avesse negli occhi un po' di tristezza, come quando si ricordano amici defunti, o si vedono vecchie rovine, un tempo splendenti e piene di vita. Disse che aveva una "missione" da compiere, e che era diretto a est. A quel punto l'abbiamo naturalmente avvertito dell'Assassino, ma...» «L'Assassino?», chiese pacato l'Arpista. Improvvisamente l'intera taverna piombò nel silenzio più assoluto. Alnyskavver, l'oste della Fanciulla, si avvicinò rapidamente. «Non è stato visto da queste parti, signori», s'affrettò a rassicurarli, «qualsiasi cosa esso sia...» «Già, qui siete al sicuro», grugnì un altro individuo. «Oh? Allora perché il vecchio Thaerlune ha fatto le valigie ed è tornato a...» «Disse che andava a far visita alla sorella malata...» Caladaster batté con violenza il palmo della mano sul tavolo. «Se non vi dispiace...», affermò mite nel silenzio che seguì, poi si volse nuovamente verso i tre stranieri. «L'Assassino è qualcosa che preoccupa molto il Gran Duca, nel suo castello sulla via per Starmantle. Qualcosa che uccide tutti gli esseri che vivono nella foresta, o che percorrono la strada costiera, tra il Fiume Oggle... proprio qui dietro... e Rairdrun Hill. Vacche, volpi, intere bande di mercenari... tutto. Hanno cominciato a chiamare Zona dei Morti quel tratto di foresta, ma nessuno conosce la natura dell'uccisore. Alcuni affermano che le
vittime sono state bruciate fino alle ossa, altri forniscono versioni differenti, ma non importa. Non sappiamo di che cosa si tratti, perciò abbiamo iniziato a chiamarla l'Assassino». Detto ciò, si guardò intorno. «Va bene così? Ho detto tutto, non è vero?» Si udirono vari grugniti d'assenso, una o due opinioni dissidenti, frettolosamente zittite, e Caladaster sorrise a denti stretti e abbassò di nuovo la voce. «Elminster è andato dritto dritto nella Zona dei Morti, sì, e ora dovrebbe essere là», affermò. «Non so esattamente perché dovesse recarsi in quel luogo... ma è qualcosa d'importante, vero?» Di nuovo un breve silenzio. Poi l'Arpista esclamò, «Penso di sì», e contemporaneamente Tabarast sbottò: «Tutto ciò che Elminster fa è importante». «Lo seguirete?», chiese Caladaster, con voce poco più forte che un sussurro. Dopo un attimo l'Arpista annuì. «Io vengo con voi», esclamò l'anziano. «Il bosco è grande, e avete bisogno di una guida. Inoltre, potrei sapere dov'è diretto». Beldrune si agitò, «Be'», iniziò con tono grave, «Non so. Sei un po' troppo vecchio per fare l'avventuriero, e io non voglio essere...» «Vecchio? Vecchio?», sbottò Caladaster, la mascella sporgente. «E lui, allora? Cos'è?», chiese indicando Tabarast. «Un timido giovanotto?» Il vecchio mago fissò Caladaster con uno sguardo che avrebbe intimorito uomini ben più potenti, e sbottò, «"Potrei sapere "dov'è diretto Elminster? Che cosa ti ha detto... o stai tirando a indovinare? Questo timido giovanotto vorrebbe saperlo». «Esistono delle rovine in quella foresta», rispose tranquillo Caladaster, «lontano dalla strada. Potete vagabondare tra gli alberi tutto il giorno, aspettando di essere mangiati dall'Assassino, oppure farvi condurre direttamente alle rovine. Se mi sbaglio... be', perlomeno avrete avuto la compagnia di un altro vecchio mago in sovrappeso e dei suoi incantesimi». «In sovrappeso?», sbottò Tabarast. «Chi è in sovrappeso?» «Ah», esclamò Beldrune, schiarendosi la gola e allungando la mano ad afferrare un piatto di formaggio con funghi che Alnyskavver aveva appena posato sul tavolo, «credo parli di me». «Non penso sia una buona idea portare con noi un altro uomo», asserì brusco Tabarast, «da proteggere contro gli dei sanno che cosa...» «Ah», esclamò pacato l'Arpista, appoggiando una mano sul braccio di
Tabarast, «ma credo mi farebbe molto piacere poterti avere con noi, Caladaster Daermree. Se riesci a partire con noi nei prossimi cinque minuti, e non necessiti una notte di più per prepararti». Caladaster spinse la sedia indietro e si alzò. «Sono pronto»', affermò semplicemente. L'Arpista si alzò, nei suoi occhi una sorta di profondo sorriso, mise sul tavolo una pila di monete alta quanto un boccale, facendo uscire gli occhi dalle orbite agli altri avventori, ed esclamò: «Oste! I nostri cavalli... qui c'è lo stallaggio per dieci giorni e la cena. Se non torniamo a reclamarli per allora, considerateli vostri. Da qui in poi andremo a piedi. Il cibo era ottimo». Baerdagh aveva lo sguardo fisso sull'amico, il viso pallido. «CCaladaster?», mormorò, «hai davvero intenzione di andare... nella Zona dei Morti?» Il vecchio mago lo guardò. «Già, ma non possiamo portare un vecchio guerriero, perciò non temere. Rimani... devi mangiare tutto il resto per noi!» «Io... io...», balbettò Baerdagh, e il suo sguardo cadde sul boccale. «Vorrei non essere tanto vecchio», brontolò. L'Arpista gli appoggiò una mano sulla spalla. «Non è mai facile... ma ti sei meritato un po' di riposo. Tu eri il Leone di Elversult, non è vero?» Baerdagh spalancò la bocca, come se all'uomo fossero spuntate tre teste coronate. «Come fai a saperlo? Caladaster non ne è al corrente!» L'Arpista gli batté la spalla delicatamente. «È il nostro mestiere ricordare gli eroi... per sempre. Siamo menestrelli, ricordi?» S'incamminò verso la porta e aggiunse: «C'è una ballata molto bella su di te...» E poi uscì. Baerdagh fece per alzarsi, ma Caladaster glielo impedì. «Tu siedi e mangia. Se non torniamo, chiedi al prossimo Arpista di cantartela». Anch'egli si diresse alla porta, poi si voltò accigliato. «Tutti questi anni», esclamò torvo, «e non mi hai mai detto di essere il Leone! Quelle piccole cose che si dimenticano, huh?» Poi uscì dalla taverna, seguito da Tabarast e da Beldrune. Questi scrollarono le spalle e gli sorrisero, ma Tabarast si voltò con le dita sulla maniglia e grugnì: «Se ti fa sentire meglio, non sei il solo a non sapere che cosa stia succedendo!» La porta si richiuse con un cigolio, e Baerdagh rimase a lungo con lo sguardo fisso... come del resto gli avventori, che restarono incollati alle finestre per guardare i quattro uomini uscire dalla città. Alnyskavver si se-
dette accanto a Baerdagh e gli chiese esitante, «Tu eri il Leone di Elversult?» «Molto tempo fa», rispose Baerdagh con amarezza. «Molto tempo fa». «Se potessi tornare a rivivere un momento del passato», domandò l'oste rivolto a un boccale davanti a lui, «quale sceglieresti?» Baerdagh rispose lentamente: «Be', vi fu una notte a Suzail... Avevamo trascorso il pomeriggio a correre per il castello, inseguendo fanciulle nobili che volevano accoltellarsi a vicenda. Sai, stavano litigando per...» Voltandosi verso Alnyskavver per raccontargli accuratamente la storia, Baerdagh si accorse improvvisamente che nel locale era calato il silenzio. Sollevò lo sguardo, e voltò la testa: tutti gli abitanti di Ripplestones lì presenti erano si affollati silenziosamente attorno a lui, in attesa di ascoltare la storia. Baerdagh arrossì e mormorò: «Be', fu tanto tempo fa....» «Fu allora che ricevesti quella medaglia?», chiese timidamente l'oste, indicando la catena che scompariva nella camicia non troppo pulita dell'uomo. «Be', no», rispose il vecchio guerriero, la fronte aggrottata, «fu quando...» Si appoggiò allo schienale, e il suo volto divenne ancor più rosso. «Oh, dei», esclamò. L'oste sogghignò e spinse il boccale di Baerdagh nelle sue mani. «Eri nel castello di Suzail, a inseguire nobili fanciulle su e giù per i corridoi, e senza dubbio i Draghi Purpurei ti stavano inseguendo, e...» «Hah!», abbaiò Baerdagh. «Proprio così... avete mai visto un uomo con un'armatura d'acciaio rotolare per una scala a chiocciola? Sembra di udire due fabbri che combattono in una fucina! Noi...» Uno degli avventori batté una mano sulla spalla di Alnyskavver in segno silenzioso di ringraziamento. L'oste annuì, mentre la storia del vecchio guerriero prendeva il volo. «Scordatevi il sole», grugnì Caladaster, «una volta sotto quegli alberi». «Umm», assentì Beldrune. «Una foresta fitta. Molti fruscii, versi strani e cose del genere?» Caladaster scosse il capo. «Non da quando è sbucato l'Assassino», rispose. «Tutto ciò che si sente è la brezza fra le foglie... oh, e ogni tanto qualche ramo morto che cade. Per il resto regna un silenzio di tomba». «Allora sarà più facile sentirlo arrivare», concluse tranquillo l'Arpista.
«Guidaci, Caladaster». Il vecchio mago annuì fiero mentre percorrevano insieme la strada. Avevano fatto qualche miglio e quasi raggiunto il luogo in cui il sentiero ricoperto di vegetazione, che conduceva alle rovine, si staccava dalla strada costiera, quando venne colto da un pensiero improvviso... freddo quanto un secchio d'acqua di lago in piena faccia. Badò a non voltarsi, in modo che l'Arpista non potesse vederlo in volto... l'Arpista a cui non aveva mai detto il suo nome. Ma da quel momento, poté sentire lo sguardo dell'uomo su di lui... una punta di lancia nella parte alta della spina dorsale. Quell'uomo lo aveva chiamato con il nome intero. Caladaster Daermree. Caladaster non usava mai il suo cognome... non l'aveva mai detto a nessuno, nemmeno a Baerdagh... e forse nessuno tra i vivi l'aveva mai udito. Perciò, come faceva l'Arpista a conoscerlo? 18. ABBONDANZA DI VITTIME L'unica certezza di un'incursione di orchi, o di una riunione di pettegole attorno a un pozzo, è che non vi sarà carenza di vittime. Ralderick Hallowshaw, Giullare Da Governare un regno, dalle torri ai letamai Pubblicato approssimativamente nell'Anno dell'Uccello Sanguinario Una volta cessato lo scricchiolio degli stivali, in fondo al pozzo ripiombò il silenzio. Era solo, in mezzo a pietra fredda e umida, la polvere di secoli nelle narici... e una sensazione di tensione, come se qualcosa lo stesse attendendo nell'oscurità che si estendeva davanti a lui. Elminster rimase immobile come l'appiglio di pietra a cui era ancora aggrappato, scrutò nell'oscurità in agguato, ed evocò uno dei poteri donatigli da Mystra. Non lo utilizzava quasi mai, poiché richiedeva concentrazione, e tempo... molto più tempo di quanto gran parte degli esseri con cui condivideva Faerûn fossero disposti a concedergli. Troppo spesso, in quei tempi, la vita gli era sembrata una corsa a perdifiato. La sua consapevolezza risuonò attraverso l'oscurità. Non poteva vedere esseri viventi o defunti, ma, se si concentrava, riusciva a vedere la magia,
quella sì, e in ogni sua forma. Deboli sortilegi turbinavano in ogni dove, nessuno di essi era localizzato in un punto preciso, ma, insieme, delineavano un'ampia caverna o uno spazio aperto. A una certa distanza, sul pavimento della caverna... o in una buca, non riusciva bene a capire... numerosi nodi aggrovigliati di potenza magica non altrettanto sopita, pulsavano e mormoravano incessantemente. El batté le palpebre. Trappola o no, doveva vedere che cosa detenesse tanto potere. Era stato attirato in quel luogo, la creatura turbinante che l'aveva condotto lo stava sicuramente guardando, o almeno sapeva della sua visita... perciò, a cosa serviva tanto silenzio? El sferrò un incantesimo rivela-roccia, alla ricerca di buche o di fenditure che potessero aprirsi davanti a lui, e, avvolto da un debole alone blu, avanzò cauto. Il pavimento era di roccia naturale, ma, a mano a mano che El procedeva, questo lasciava spazio a enormi lastre levigate; il muschio non le aveva in alcun modo intaccate, sebbene, qua e là, fossero ricoperte da incrostazioni di sale. Un trono della stessa pietra si ergeva davanti al principe... privo di potere, a quanto pareva, nonostante fosse quasi nascosto dal bagliore emesso dai sette nodi di magia che la sua vista riusciva a cogliere. Grazie al cielo, il trono era vuoto. El sospirò, gettò il capo all'indietro, e avanzò ancora verso i nodi. Prevedibile o meno, non poteva ignorare tale potere e rimanere Elminster; sorrise, scosse lievemente la testa... e fece un altro passo. Probabilmente sarebbe morto in quel luogo, ma non poteva tirarsi indietro. L'umano si stava avvicinando. Il Grande Nemico sarebbe stato presto a portata di mano... ma anche vicino alle rune, potenti e pericolose. Troppo vicino. Avrebbe avuto forse una sola possibilità, perciò avrebbe dovuto essere un colpo devastante, al quale nemmeno un grande mago protetto dagli dei poteva sperare di sopravvivere. Dopo tutti quegli anni, qualche giorno o mese in più non avrebbero fatto differenza. L'importante era il colpo mortale. Il colpo doveva essere distruttivo... o perlomeno tanto potente da ridurre quel mago in condizioni pietose, senza tuttavia fargli perdere coscienza, in modo che fosse consapevole del dolore che gli sarebbe stato inflitto, dell'i-
dentità del suo aguzzino... e delle sue motivazioni. Perciò, perché non aspettare ancora, come un fantasma paziente nell'ombra. Due occhi scuri, illuminati dal fuoco nero della collera, scrutarono dalle profondità di una delle fessure più buie al fondo della caverna, e videro il mago avanzare cauto verso la morte. Anni consumati dalla brama di vendetta, quel desiderio che lo assillava notte e giorno... anni che lo avevano condotto fin lì. «Sì, Vaelam?», chiese Elryn, con voce pericolosamente suadente. La lunga e nervosa marcia di avvicinamento alle rovine in cui quasi sicuramente li attendevano potenti nemici, non aveva migliorato il suo umore... specialmente dopo che uno dei suoi stivali era sprofondato in una pozza fangosa, piena d'acqua, subito seguito dall'altro. Da allora aveva perso il conto di quanti arbusti spinosi gli avevano graffiato mani e faccia... e tutto ciò, naturalmente, osservato beffardamente dagli occhi crudeli delle sacerdotesse della Casa, e dalla stessa Darklady. Vaelam era in preda all'eccitazione, gli occhi grandi e tondi come non mai. L'uomo mandato in avanscoperta dai «maghi» di Shar era un esile e affabile sacerdote, scrupoloso e dedito agli studi. Era la prima volta che Elryn lo vedeva tanto agitato. «Oscuro Fratello», sibilò impaziente, «ho trovato qualcosa». «No!» mormorò Elryn, aggrottando le sopracciglia, «Davvero? Mi sorprendi». «È una pietra», continuò Vaelam, ignorando, più o meno involontariamente, il sarcasmo di Elryn. «Una pietra con una scritta». «Una scritta che dice...?» «Be', ah, effettivamente si tratta di una sola lettera... una "K", ma alta come un uomo!» «No!», esclamò Femter con tono sarcastico. «Possibile?» «Fratello, è come ho detto», confermò Vaelam. Sembrava sinceramente inconsapevole della loro derisione. «Mostracela», gli ordinò brusco Elryn, che, alzando un po' la voce, aggiunse, «Fratelli, muovetevi lentamente, e guardatevi bene intorno. Non voglio che stiate tutti uniti, per evitare di costituire un facile bersaglio. «Già», mormorò Daluth, e contemporaneamente qualcun altro - Elryn non riuscì a capire chi - brontolò: «Pensa proprio a tutto, il nostro Elryn». Cattivi presagi o meno, i «maghi», di Shar raggiunsero senza incidenti la
lastra di pietra trovata da Vaelam. Giaceva fra due sponde muschiose, era quasi completamente ricoperta da muffe e foglie morte, ma la K era ben visibile. La lettera, incisa in profondità, occupava un po' più di spazio di quello che avrebbe richiesto una delle sedie ornate del tempio. La lastra sembrava antica e mastodontica. Erlyn si protese, senza disturbarsi a nascondere la propria eccitazione. Quella pietra doveva avere qualcosa a che fare con una magia potente... e la magia era la ragione per cui si trovavano in quel luogo. «Scopritela», ordinò, poi indietreggiò prudentemente e rimase a guardare. La pietra si rivelò avere una larghezza di un uomo disteso, una lunghezza di due, nonché uno spessore pari a una spada corta. Quand'ebbero finito di liberarla dalle foglie morte, i sacerdoti rimasero a fissare la lastra imponente... che sembrava ricambiare pazientemente i loro sguardi, sapendo chi si sarebbe mosso per primo. Dopo lunghi attimi di silenzio i sacerdoti minori iniziarono a lanciare occhiate furtive al loro capo, allora Elryn sospirò e ordinò: «Daluth, fai l'incantesimo che usano i maghi per rivelare la presenza di magia. Non riesco a vederla... ma qualcosa ci dev'essere». Daluth annuì e obbedì immediatamente. Elryn rimase scioccato come tutti gli altri quando il sacerdote sollevò la testa e affermò: «Nessuna magia. Né sulla lastra, né attorno a essa. Nulla, se escludiamo i pochi oggetti che portiamo addosso». «Impossibile», sbottò Elryn. Daluth annuì. «Sono d'accordo... ma il mio incantesimo non può mentire, giusto?» Mentre Elryn fissava sbalordito il collega, si udì un generale sospiro di sollievo da parte degli altri sacerdoti, che subito salirono sopra la lastra, come se questa li stesse chiamando. Elryn si voltò di scatto, un grido d'avvertimento gli salì alle labbra... un grido che si fermò nella sua gola. I sacerdoti alle sue dipendenze stavano camminando su e giù per la lastra, guardandosi in giro come se fosse una postazione magica che desse loro una vista speciale. Nessun fulmine scaturì dalla pietra per ucciderli, e nessuno di essi mutò forma, gridò, o assunse espressioni insolite. Al contrario, uno alla volta, i sacerdoti scrollarono le spalle e ammutolirono, guardandosi l'un l'altro e poi Elryn, finché Hrelgrath non espresse ciò che tutti stavano pensando: «Ma dev'esserci qualche magia, questa cosa deve avere uno scopo... e non può essere il coperchio di una tomba, altri-
menti servirebbe un drago per spostarla». Daluth inarcò un sopracciglio. «E dato che noi non abbiamo nulla a che fare con i draghi, nessun altro dovrebbe aver contatti con loro? E se fosse una sorta di deposito, costruito da un drago, a uso personale?» «Nel mezzo di un foresta? Tanto esposta e per di più a terra? Senza protezioni di roccia? Pur ammettendo la mia scarsa familiarità con i draghi, ciò mi suona molto strano», rispose Femter. «No, ha l'aria di essere opera di uomini... o di nani al loro servizio, o di giganti abili in campo edilizio». «Dunque per che cosa o per chi sta la "K"?», chiese Vaelam. «Un re, o un regno?» «O un dio?», gli fece eco Daluth, e qualcosa nella sua voce attirò tutti gli occhi su di lui. «Kossuth? In una foresta?», osservò Hrelgrath con tono perplesso. «No, no», esclamò eccitato Vaelam. «Come si chiamava quel mago della leggenda, quello che sfidò gli dei per sottrarre loro tutta la magia e diventare lui stesso signore dell'Arte? Klar... no, Karsus». E nell'istante in cui quel nome uscì dalle labbra del giovane sacerdote di Shar, egli svanì. Sulla lastra, fra Femter e Hrelgrath, rimase il vuoto. I due intrepidi colleghi balzarono a terra e si allontanarono dalla pietra come due schegge, mentre Daluth annuiva truce, gli occhi fissi sulla lastra vuota, ed Elryn esclamava lentamente: «Bene, bene...» I quattro «maghi» rimasti guardarono la pietra in silenzio per qualche istante, prima che il più esaltato ordinasse con tono quasi gentile: «Daluth, sali sulla lettera e pronuncia quel nome come ha fatto Vaelam». Daluth lanciò un'occhiata rapida a Elryn, gli lesse in volto che si trattava di un ordine indiscutibile, al che obbedì. Femter e Hrelgrath osservarono con non poco disagio il loro collega più competente svanire nel nulla, e uno di essi non riuscì a soffocare un gemito di paura quando Elryn affermò: «Ora fai lo stesso, Hrelgrath». Hrelgrath tremava tanto da riuscire appena a pronunciare il nome «Karsus», eppure si dileguò altrettanto rapidamente del collega. Femter scrollò le spalle e salì sulla lastra senza attendere l'ordine, guardando brevemente Elryn per un cenno d'approvazione, dopo aver piantato entrambi i piedi al centro della lettera gigante. Il cenno giunse, e un altro falso mago scomparve. Rimasto solo, Elryn si guardò attorno, scrollò le spalle, e seguì la sorte dei compagni. Ancor prima della battaglia con l'elfo, in cui Iyrindyl era rimasto ucciso,
aveva pensato che quella faccenda di sacerdoti-maghi fosse uno sbaglio... uno sbaglio pericoloso. Tuttavia, se, per qualche miracolo, ciò che li attendeva all'altro capo del teletrasporto non fosse stato una trappola, avrebbe potuto conoscere nuove magie, guadagnarsi la sacra approvazione di Avroana... e sopravvivere abbastanza per godersela. L'uomo sorrise al solo pensiero, poi esclamò con voluta lentezza «Karsus», e guardò il mondo turbinare via. Un bagliore rosso illuminava le tenebre, rispecchiato da un centinaio di oggetti metallici e da numerose gemme. La luce scaturiva dal pavimento... dovunque mettessero piede, le impronte degli stivali apparivano contornate di rosso. Era troppo tardi per metterli in guardia da incantesimi o creature guardiane... Vaelam stava già vagando, immerso fino alle ginocchia in un mare di meraviglie, intenzionato a raggiungere un guanto di ferro le cui file di zaffiri brillavano di luce propria: il vivace bagliore della magia, che formava un'iridescenza sinistra in una decina di punti intorno alla cripta. La stanza dal basso soffitto era colma di tesori, molti dei quali dalla forma insolita, e tutti, a giudicare dall'aspetto, contenenti qualche magia. Elryn riuscì a trattenere un grido di sorpresa, ma vide la rapida occhiata lanciatagli da Daluth, e capì che dal suo volto traspariva chiaramente una grande emozione. I sacerdoti più giovani non avevano di certo perso tempo. Hrelgrath sembrò danzare con una figura dotata di armatura, mentre tentava di strapparle la gorgiera; una serie di bacchette magiche munite di fodero sbattevano contro la coscia destra di Femter: penzolavano da una cintura gemmata che gli avvolgeva la vita come fosse stata costruita per lui. Come ovvio, si era adattata magicamente al suo corpo. Il sacerdote dallo sguardo cupido stava già dirigendosi verso un altro cumulo di bracciali e cavigliere, dove un altro oggetto aveva colto la sua attenzione. Vaelam si stava infilando un guanto, ma i suoi occhi erano già da un'altra parte. Solo Daluth aveva le mani vuote, e sollevate per sferrare un incantesimo nel caso uno degli avventati colleghi avesse liberato un sortilegio pericoloso. Elryn guardò rapido in ogni direzione: vide solo oggetti immobili, nessuna porta che conducesse fuori dalla stanza dalle pareti di pietra, e domandò tranquillamente: «Oh, miei prodi maghi, qualcuno ha per caso pensato come fare a lasciare questo luogo?»
«Karsus», esclamò deciso Hrelgrath, la gorgiera finalmente nelle sue mani. Non accadde nulla, ma Vaelam aveva già puntato il dito nell'angolo più lontano e più scuro della stanza. «Vi è un'altra "K" laggiù sul pavimento», riferì. «Dovrebbe funzionare». «Già, ma ci riporterà fuori... o ancora più all'interno, in qualche luogo sconosciuto?», chiese Daluth. «Inoltre, se fossi intenzionato a uccidere ospiti non graditi, piazzerei guardie all'uscita», aggiunse Elryn, dopodiché - senza aver fatto un solo passo dal punto in cui era riapparso - esclamò lento, «Karsus». Questa volta il mondo davanti ai suoi occhi non si mise a turbinare, ma egli rimase impassibile. Lievi suoni metallici annunciarono che Vaelam aveva ripreso i suoi scavi... mentre si guardava attorno, Elryn vide Femter infilare qualcosa nella tunica, e armeggiare con le dita in una tasca interna. «Non prendete nulla che non potete portare con voi», avvisò il capo, «e preparatevi a consegnare tutti gli oggetti magici sottratti a questo luogo alla Darklady, non importa quanto insignificanti siano. Ricordate che ci osservano, ora e sempre». Femter alzò di scatto la testa, e arrossì quando si ritrovò addosso gli occhi di Elryn. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma Daluth lo anticipò chiedendo a tutti: «Qualcuno ha trovato qualcosa di veramente potente?» In risposta ottenne unicamente scrollate di capo e fronti corrugate. Elryn usò la punta del piede per aprire un piccolo cofanetto nero, inarcò le sopracciglia al vedere la fila di anelli in esso contenuti, lo richiuse, e poi gli cadde l'occhio su ciò che vi era accanto. «Daluth», chiese pacato, inclinando la testa verso il cumulo scintillante vicino al suo stivale, «quella corona... non reca il simbolo della guarigione?» Daluth balzò accanto al diadema. Era d'oro massiccio e liscio, ma presentava una base di metallo più resistente, e recava il disegno di un sole lucente tra due mani stilizzate. «Sì», rispose eccitato. La sollevò per mostrarla agli altri ed esclamò, «Per il momento lasciate perdere tutto il resto e cercate simboli uguali a questo». I sacerdoti minori fecero come ordinato, e iniziarono a frugare fra i tesori, alzandosi di tanto in tanto con grida di soddisfazione. Daluth prese gli oggetti che gli consegnarono - quattro diademi e un bracciale - ed Elryn esclamò: «Basta così. Prendete solo ciò che riuscite a portare o a indossare,
e lasciate stare spade, elmi e cose simili. Meglio non risvegliare nulla qui dentro. Bardatevi come se doveste andare in battaglia, ma non voglio vedere nessuno che barcolla sotto il peso degli oggetti che ha raccolto». Si abbassò e raccolse alcuni scettri tra un cumulo di tomi, vassoi e scatole più piccole. Poi, come colto da un ripensamento, con indifferenza, afferrò anche il cofanetto nero. Qualche istante più tardi gli scettri erano legati alla cintura con le lunghe cinghie che portava sempre in tasca, e il cofanetto nascosto nella parte anteriore dei pantaloni. Elryn era pronto. «Vaelam, a te l'onore. Portaci fuori di qui», affermò sbrigativo. Il sacerdote più giovane guardò la lettera incisa sul fondo della cripta, che lo attendeva in silenzio, deglutì ed esclamò: «Hai detto che potrebbero esserci guardie...» Elryn annuì. «Sono sicuro che saprai cavartela a meraviglia», affermò freddo. Riluttante, il giovane attraversò la stanza stipata di oggetti, rallentando prima di arrivare alla lettera sul pavimento. Quattro paia d'occhi lo accompagnarono da lontano, quasi nascosti dietro cataste di magia sconosciuta; Vaelam lanciò loro un'occhiata di paura mista a disperazione, si drizzò, ed esclamò: «Karsus». Come la prima volta, Vaelam scomparve in un batter d'occhio. Quasi fosse stato un segnale, qualcosa si mosse nel cumulo più vicino a Hrelgrath, sollevandosi in mezzo al tintinnio di molti piccoli oggetti; il sacerdote barcollò, e mugugnò allarmato. «Non fate nulla», sbottò Elryn. Nel silenzio gelido i quattro uomini guardarono una spada scintillante sollevarsi, e puntare tra Daluth ed Elryn. Misurava più o meno un metro e mezzo, l'elsa lavorata luccicava di gemme, e una serie mutevole di rune e di lettere apparve momentaneamente lungo la lama azzurrognola. «Hrelgrath», ordinò Elryn, «segui Vaelam. Cammina basso, e non fare movimenti bruschi. Vai ora». Quando il secondo sacerdote di Shar scomparve, la spada sembrò tremolare per un istante, ma non si mosse. Elryn la contemplò per un momento, poi comandò lentamente: «Femter, segui gli altri». Di nuovo l'arma rimase al suo posto. Rimasti soli, Elryn chiese a Daluth, «Nel caso qualche incantesimo ci impedisca di tornare qui, c'è qualcosa in particolare che dovremmo portare con noi?» Daluth scrollò le spalle. «Ci vorrebbero anni per esaminare tutta questa
meraviglia... e anche allora, non arriveremo a conoscere che pochi poteri di ciascun oggetto. Questo luogo è semplicemente... fantastico. Esiste più magia qui dentro di quanta non ne evochino le migliaia di adoratori di Shar. Se dovessi prendere solo una cosa... si tratterebbe di quei bastoni laggiù. Quattro, quasi uno per ciascuno di noi, e tutti sicuramente capaci di effettuare qualche magia utilizzabile in una battaglia. Se li portiamo con noi, possiamo recitare la parte degli arcimaghi in maniera più convincente... seppur per un tempo limitato». «Speriamo sia comunque sufficientemente lungo», assentì Elryn, «due per ciascuno?» Diedero un'altra occhiata alla spada sospesa, vi scivolarono cauti accanto; Daluth si mise i bastoni sotto un braccio ed estrasse una bacchetta magica raccolta precedentemente. Le sagome dei diademi col simbolo della guarigione erano visibili nella bisaccia. Elryn osservò la bacchetta di Daluth, sorrise lievemente, e citò il detto: «Mai fidarsi di nessuno all'infuori della Sacra Shar». Mentre pronunciava tali parole, sollevò la sua, in modo che Daluth potesse vederla. «Per i pericoli che potremmo trovare nell'altro luogo», affermò cauto Daluth, «non per... pericoli imminenti». La sua voce cambiò e assunse un tono allarmato. «Attento alla spada!» Elryn si voltò, vide che l'arma era ancora immobile, e mentre si girava di nuovo verso il collega lo sentì pronunciare il nome di Karsus. Il sacerdote più anziano effettuò un rapido balzo laterale, nel caso Daluth non avesse resistito all'impulso di usare la bacchetta e si gettò su un cumulo di vestiti incantati. Maglie luminose scintillarono sotto di lui mentre scivolava dolorosamente lungo il mucchio, sfiorando una serie di punte acuminate; Elryn cercò di rimettersi in piedi, ma prima diede un'altra occhiata alla spada, che era sempre immobile nella medesima posizione. Si guardò intorno, abbassò lo sguardo sulle impronte rosse che già iniziavano a sbiadire assumendo il colore del sangue vecchio, poi osservò i cumuli di tesori, fortunatamente immobili, e infine esaminò i vestiti su cui era caduto. Quella era sicuramente una pettorina, forse di una donna altezzosa... tastò un indumento dopo l'altro, percependo il formicolio di una magia potente sulla punta delle dita. Erano tutte tuniche, con ritagli nelle maglie e corpini ornati. Elryn di Shar osservò l'ampiezza delle spalle di una, rifletté un istante con le sopracciglia aggrottate... poi iniziò a spogliarsi. Doveva sbrigarsi, se voleva raggiungere gli altri, per tenerli fuori dai guai... o per impedire loro
di andarsene senza di lui. Lottando con i vestiti nell'oscurità crescente, un occhio sempre attento alla spada, Elryn pregò gli dei di non trovare alcuno specchio in cui vedersi riflesso. Poteva immaginare l'ilarità di Avroana che lo osservava lottare con indumenti poco familiari... Alla fine riuscì a raggiungere la lettera sul pavimento e pronunciò rapido il nome di Karsus. Il moncone fumante di ciò che doveva esser stato un albero gigantesco era una muta testimonianza dell'efficacia di qualche sortilegio risvegliato da uno dei sacerdoti più giovani. Elryn lo fissò, mentre la rabbia gli saliva alla gola, ma prima che potesse proferire parola, Femter gli mostrò eccitato un anello. «Oscuro Fratello, guarda! Quest'anello... a dispetto del miglior incantesimo del Fratello Daluth... nasconde completamente le fonti di magia a contatto con il suo possessore! Sarebbe possibile avvicinarsi a un re senza destare sospetti e colpirlo con impunità». «Tali stratagemmi sono solitamente più efficaci nelle ballate che nella vita reale», rispose Elryn severo, «per non parlare della prudenza». Guardò Daluth e lo trovò impegnato a togliere i vari diademi dalla sua bisaccia. «Ah», annunciò con soddisfazione il capo dei sacerdoti, «un modo più saggio per trascorrere il tempo. Risaniamoci, poi dedicheremo qualche minuto a esaminare bacchette e bastoni, prima di riprendere il cammino verso le rovine». Numerosi altri alberi subirono la medesima sorte del primo. Gli oggetti guaritori si rivelarono avere più di una funzione: due bastoni sembravano non possedere altri poteri se non quello di sputare quei fulmini che gli uomini chiamavano «proiettili magici», ma gli altri potevano scagliare raggi di fuoco e innescare magie esplosive... due delle quali sembravano capaci di prosciugare a comando gli oggetti magici, e persino gli incantesimi dei loro possessori. «Che fortuna sfacciata!», ridacchiò Vaelam, riducendo in polvere un povero alberello. «Fortuna? La Sacra Shar ci ha condotto in questo luogo, Oscuro Fratello», ribatté Elryn severo, cercando di ingraziarsi le sacerdotesse che li osservavano da lontano. «Shar ci guida sempre... farai bene a non scordartelo mai». «Naturalmente», si affrettò a rispondere Vaelam, poi rise di cuore quando il bastone nelle sue mani si attivò nuovamente... e un altro albero svanì tra le fiamme feroci, che si tramutarono in fumo a contatto con il terreno
muschioso. «Vaelam di Shar», sbottò Elryn, «cessa immediatamente quest'inutile distruzione. Preferirei che la foresta non prendesse fuoco e non attirasse druidi e maghi nel raggio di centinaia di miglia. Hai già dimenticato la sorte di Iyrindyl?» Vaelam fece una smorfia, ma sembrava incapace di riporre il bastone, come un guerriero a cui è appena stata donata una splendida spada. «Le mie scuse, Oscuro Fratello», rispose con aria pentita, «mi sono lasciato prendere dall'eccitazione». Si leccò le labbra, appoggiò la punta del bastone a terra, e, quasi stesse cercando approvazione, chiese: «Sapete come ci si sente a poter distruggere qualsiasi cosa vi irriti o vi osteggi?» «Sì, Vaelam, lo so», rispose Elryn, muovendo la bacchetta che teneva in mano - la bacchetta puntata al viso di Vaelam - tanto delicatamente da attirare l'attenzione del giovane. Vaelam impallidì, e il capo continuò truce: «In questo momento è una delle mie tentazioni». Elryn sorrise a denti stretti e infilò la bacchetta nella cintura. «Già», aggiunse lentamente, avviandosi a passo lesto in direzione delle rovine. «Una delle tante». Poi fece loro cenno di seguirlo. I sacerdoti, riluttanti, obbedirono; Vaelam si voltò per osservare la lastra di pietra, e i boschi dietro di essa... e si ritrovò a guardare negli occhi freddi e nel bastone puntato di Daluth, che chiudeva vigile il corteo. Vaelam abbozzò un mezzo sorriso, ma lo sguardo di Daluth rimase impassibile; al giovane non rimase altro che deglutire, voltarsi, e riprendere il cammino verso l'ignoto. «Ora, questo arricciamento della foglia, d'altra parte, indica che si trat...» Starsunder si arrestò a metà frase e si drizzò improvvisamente, quasi battendo la testa contro quella di Umbregard. Il mago umano si scansò frettolosamente quando l'elfo allargò le mani. Sempre rimanendo drammaticamente immobile con le braccia distese, l'elfo della luna gettò il capo all'indietro e aprì la bocca, come cercasse di assaggiare il cielo. Umbregard osservò a lungo il suo amico tramutatosi in statua, prima di osare chiedere: «Starsunder?» «Pensi che qualcuno entri nel mio corpo solo perché ho smesso di muovermi?», lo rimproverò mite l'elfo, che voltò la testa, si girò, e afferrò il braccio di Umbregard con un unico fluido movimento. «Conosci qualche
pericolo magico che s'impossessa dei corpi, di cui io non sia al corrente?» «D-dove stiamo andando?», chiese Umbregard invece di rispondere, mentre l'agile elfo lo trascinava praticamente fra gli alberi, con un gran movimento del corto mantello verde scuro. «Dove c'è bisogno di noi, e in fretta», rispose Starsunder con aria quasi assente, aumentando il passo. «E dove...» L'umano era senza fiato, anche se stavano procedendo in discesa lungo un pendio ricoperto di felci, «... mai potrebbe essere?» «In una foresta quasi antica quanto questa, attraverso un braccio di mare», rispose l'elfo, la voce calma come se stesse riposando su una foglia gigante, e non correndo nel bosco, tra alberi caduti e radici sporgenti. «È un luogo di cui gli umani non ricordano nemmeno il nome». «Perché?», gridò quasi Umbregard, correndo più veloce di quanto avesse mai fatto nella sua vita, con l'elfo sempre mezzo passo avanti a lui che per poco non gli staccava il braccio dalla spalla. «Alberi che bruciano», gli rispose Starsunder aggrottando le sopracciglia, «improvvisamente, come colpiti da un fulmine, dove non c'è alcuna tempesta... ma eccoci arrivati!» Si tuffarono in mezzo a due querce che sembravano perfettamente uguali, poste a una distanza di meno di un metro l'una dall'altra... e da qualche parte nell'oscurità tra esse, una foschia blu li afferrò e li scagliò lontano. Umbregard fece il passo successivo in una foresta diversa... più secca e più silenziosa della prima; l'umano rimase a bocca aperta, e cercò di guardarsi alle spalle, ma in quel momento Starsunder gli lasciò il braccio e gli prese il mento. Fissandolo negli occhi a pochi centimetri di distanza, l'elfo della luna mormorò: «Non fare rumori inutili, e rimani in silenzio se dovessi vedere qualcuno... anche se si tratta di vecchi amici. Hmmm; specialmente se si tratta di vecchi amici». «Perché?», chiese Umbregard, sull'orlo della disperazione. «Vivrai più a lungo», rispose Starsunder, posando delicatamente due dita sulle labbra dell'uomo. «Ecco perché». La Torre di Phoenix si ergeva scura, fredda, e solitaria. Con la sua fortezza attorniata da fitti rovi, massi e da un pericoloso baratro scavato dai suoi golem quando caddero letteralmente a pezzi, Tenthar si sentiva al sicuro da quasi tutti gli intrusi, tranne che dagli avventurieri più ostinati. Se uno di loro gli avesse fatto visita, avrebbe dovuto trovarsi un buon nascondiglio... oppure morire.
L'Arcimago della Torre di Phoenix già da molto tempo era passato dalla solitudine alla noia... dopotutto, quante volte si possono leggere i vecchi libri di magia, senza osare mettere in pratica i loro incantesimi? Era stanco di trascinarsi giù nei sotterranei, al buio, a trangugiare funghi come una sorta di bestia delle tombe. E se era per quello, era anche stanco di camminare e di non poter volare... e lasciare la Torre. Tutto ciò che aveva visto di Faerûn nelle sue ultime passeggiate era il paesaggio che gli offrivano le sue finestre; non osava utilizzare nessuno degli otto preziosi moccoli di candela che aveva trovato... lui, Tenthar Taerhamoos, che era solito evocare luce a piacere, senza nemmeno pensarci. Una luce dopo il tramonto avrebbe potuto attrarre l'attenzione di avventurieri o di bestie affamate e tradire la presenza di qualcuno nella torre sbarrata. Nemmeno due giorni prima aveva chiuso e sprangato le persiane appena in tempo; poi aveva trascorso gran parte della giornata accovacciato dietro di esse, la bocca secca per la paura, ascoltando un peritone infuriato che agitava le corna e tentava di squarciare il vecchio legno che il mago sperava avrebbe retto. E se un tale nemico entrava nella Torre, che cosa avrebbe potuto fare Tenthar? Non aveva forza o abilità belliche particolari, e gli incantesimi continuavano a fallire... perlomeno quando non li sosteneva con il prezioso potere del suo medaglione, che si stava peraltro indebolendo a causa del troppo uso. L'aveva utilizzato troppo spesso nei primi giorni di caos, quando aveva cercato di scoprire che cosa stesse accadendo alla sua magia. Ora se ne stava semplicemente seduto nella penombra infinita, attendendo che gli incantesimi gli ubbidissero nuovamente... o che qualcuno forzasse le porte della Torre di Phoenix e lo uccidesse. Ogni mattina Tenthar scendeva nella dispensa sotterranea, sferrava un semplice incantesimo, lo osservava tingere di porpora le pareti di pietra, oppure scioglierle, o ricoprirle di fiori... o fare qualsiasi altra idiozia passasse quel giorno per la mente di Mystra. Ogni mattina sperava che gli incantesimi tornassero ad avere i loro effetti per poter ricominciare a essere l'Arcimago della Torre di Phoenix. Ma ogni giorno le visite alla dispensa lo deludevano. Tutte le volte risaliva nella cucina fredda e solitaria, si cuoceva qualche fagiolo e tagliava un po' di muffa verde dall'enorme ruota di formaggio posta sotto il coperchio di marmo, poi saliva le scale fino alla grande finestra per studiare nuovamente l'incantesimo fallito. La sua disperazione cresce-
va di giorno in giorno. Era quasi arrivato al punto in cui, se gli fosse venuto il ghiribizzo, avrebbe usato il medaglione per volare via da quel luogo. Avrebbe potuto trovare qualche regno lontano, in cui nessuno conoscesse il suo volto, cercare lavoro come scriba, e tentare di dimenticare d'esser stato un arcimago capace di evocare mostri di altri mondi. Già, con una pallida scusa avrebbe... Qualcosa andò in frantumi nella stanza accanto, e si udì un suono simile a una decina di campanelli. In un attimo Tenthar si alzò e andò a vedere... ah! L'incantesimo che aveva posto sul cancello di alberi elfo, nella foresta di Tangletrees... qualcuno l'aveva appena usato per passare a sud nei boschi vicini a Starmantle. Ecco la sua scusa: era stanco di nascondersi e di non fare nulla. «Gli elfi sono in marcia», esclamò Tenthar Taerhamoos rivolto alle schegge di vetro ai suoi piedi. «Devo andare laggiù... almeno riuscirò a capire qualcosa di questo caos». Con il coltello tagliò una grossa fetta di formaggio, la avvolse in una vecchia coperta insieme al suo libro d'incantesimi da viaggio, e mise il tutto in una sacca malconcia. Poi sistemò la spada nel fodero, evocò il potere vacillante del medaglione, e pronunciò una magia pronta da parecchio tempo. «Addio, vecchie pietre», salutò rivolto alla Torre, guardandola forse per l'ultima volta. «Tornerò... se potrò». Un momento dopo scomparve... e un istante più tardi un altro incantesimo colpì la stanza in cui nessuno era più in ascolto. Troppo spesso questa era la vita di un arcimago. L'eccitazione bruciava dentro di lei, solleticandole la gola che non possedeva più, in un modo che da anni non ricordava. Calma, Saeraede. Non avere fretta... sono passati troppi secoli per tremare ancora come una ragazzina. Come un filo di fumo nero nell'oscurità, la donna si levò da una fessura sul fondo della caverna, e raggiunse la stanza soprastante. Aveva preparato quell'incantesimo tempo addietro, e lui non aveva disturbato nessuno dei suoi preparativi. In un attimo fu tutto pronto e il fumo grigio andò a posarsi come una pietra vecchia sopra la cima del passaggio; in superficie sarebbe apparso come un tratto di pavimento rialzato, e avrebbe nascosto completamente l'entrata del pozzo... la sua vittima sarebbe
rimasta intrappolata là sotto come se si fosse davvero trattato di pietra solida. Saeraede si concesse un breve momento di piacere prima di tornare nella caverna sottostante attraverso la pietra gelida e scura. E ora facciamoci liberare dal mio principe salvatore... e conduciamolo verso una lenta morte. Si tuffò di sotto come una freccia; Elminster sollevò lo sguardo, accigliato, percependo una sorta d'interferenza magica... ma non poté intuire nulla, perciò, dopo aver scrutato sospettoso l'oscurità per qualche istante, riprese ad avanzare cautamente. Nel frattempo Saeraede si infilò in una delle rune del pavimento, illuminandola debolmente. Elminster si fermò davanti a essa, e fissò le curve e gli incroci del tutto sconosciuti. Quei sigilli sembravano antichi e complessi, e facevano naturalmente pensare alla perduta Netheril... o alla ventina di regni effimeri che nacquero in seguito alla sua caduta, con i loro sedicenti re-stregoni... se le antiche storie che aveva letto in tutti quegli anni dicevano il vero. Solo quella era illuminata. El la fissò intensamente. «Sensibilità sopita», mormorò, «ma di chi?» Solo il silenzio gli rispose. L'ultimo principe di Athalantar sorrise lievemente, sospirò, e attuò un incantesimo di liberazione. Gli echi della sua magia stavano ancora rimbalzando sui muri intorno a lui, quando una testa e due spalle spettrali fuoriuscirono dal debole bagliore stellato della runa. Gli occhi erano due macchie scure in un volto, il collo lungo e aggraziato si levava da spalle di una bellezza commuovente. Una massa di lunghi capelli fluivano su seni prosperosi, ma a quanto pareva, il suo incantesimo non poteva liberare altro di quell'apparizione. «Liberatemi!», sussurrò una voce tremante, che sembrò provenire da lontano. «Oh, se la gentilezza e la pietà degli dei significano qualcosa per voi, liberatemi!» «Chi siete?», chiese El tranquillamente, facendo un passo avanti e inginocchiandosi per guardare più da vicino quel viso spettrale, «e che cosa sono queste rune?» Due labbra evanescenti sembrarono tremolare, e, quando la voce si levò nuovamente, aveva il tono di chi ha appena vinto il dolore. «Sono Saeraede... Saeraede Lyonora. Sono imprigionata qui da tanto tempo che ho perso il conto degli anni». Mentre pronunciava le ultime parole, sembrò offuscarsi debolmente e tornò nella runa fino alle spalle.
«Chi vi ha imprigionato?», le chiese Elminster, guardando rapidamente il buio vigile attorno a lui. Già, eccola di nuovo... non riusciva a togliersi di dosso la sensazione di essere osservato... e non solo dagli scuri occhi spettrali che fluttuavano ai suoi piedi. «Colui che fece queste rune», gli rispose l'ombra. «Mie sono la volontà e l'essenza che conferiscono loro potere, stagione dopo stagione». «Perché l'ha fatto?», domandò pacato El, fissando quegli occhi che parevano ospitare minuscole stelle, mentre lo guardavano supplichevoli. La sua risposta fu un sospiro quasi impercettibile: «Karsus era crudele». L'ultimo principe di Athalantar inarcò improvvisamente le sopracciglia; conosceva quel nome. Il Prode Mago Supremo, che nella sua bizzarra follia aveva osato rubare il potere della divinità e aveva subito l'eterna rovina. Il nome Karsus significava pericolo per ogni mago di buon senso; El socchiuse gli occhi, indietreggiò, e mormorò un incantesimo. Spirito imprigionato, non morto, ombra magica o donna vivente che fosse, egli avrebbe saputo se avesse detto il vero; naturalmente, questa Saeraede era probabilmente stata una grande maga, forse un'apprendista o una rivale di Karsus, dato che era stata scelta per tale compito, dunque si sarebbe potuta accorgere del suo incantesimo. I loro sguardi s'incrociarono, consapevoli, ed Elminster scrollò le spalle. La donna avrebbe risposto il più sinceramente possibile, dissimulando mediante risposte brevi, e come due spadaccini avrebbero dovuto soppesare le rispettive parole e schivarsi attentamente. Il principe mormorò un incantesimo che avrebbe dovuto usare ancor prima di scendere dal pozzo, ed evocò attorno a sé un mantello protettivo, poi si riavvicinò. Nascosto dietro il debole scintillio del mantello, due occhi immersi nella profonda oscurità in fondo alla caverna arsero di rabbia. «Che cosa farete o dovete fare, una volta liberata?», chiese El. «Vivere di nuovo», ansimò. «Oh, uomo, liberatemi!» «Che cosa accadrà alle rune?» «Dopo averle risvegliate ancora una volta», mormorò la testa spettrale, «si esauriranno per sempre». «Quali sono i loro poteri?» «Evocano immagini di Karsus, che insegna la magia a tutti coloro che le vedono. Karsus le aveva ideate per istruire il suo clone, nascosto in questo luogo». «Che ne è stato di lui?», domandò brusco Elminster, desiderando ascoltare la risposta prima che l'incantesimo della verità si esaurisse.
Gli occhi scuri, punteggiati di stelle si fissarono nei suoi. «Quando ho riacquistato consapevolezza dopo l'imprigionamento... credo sia passato molto tempo... lo trovai decapitato e avvizzito sul trono. Non so che cosa gli sia accaduto». L'incantesimo era terminato prima che quelle labbra fantasma pronunciassero altro, ma in qualche modo El le credette. «Saeraede, in che modo posso liberarvi?», le chiese. «Se possedete una magia estintrice o un incantesimo simile, sferratelo su di me... non sulla runa, ma su di me». «E se non ne possiedo?» Gli occhi scuri tremolarono. «Mettetevi sopra di me, in modo che il vostro mantello tocchi la runa, e me dentro di essa, poi scagliate un proiettile magico sulla runa. Da ciò che seguirà dovreste uscirne illeso... e io verrò liberata. Badate: vi costerà il mantello». «Preparatevi», esclamò El mentre si poneva sopra di lei. «Uomo, ho atteso per un'eternità; sono ben preparata. Non toccate la runa con gli stivali». L'ultimo principe di Athalantar si assicurò che i suoi piedi non calpestassero il sigillo, e operò l'incantesimo. Un bagliore blu-bianco lo avvolse, la runa sotto di lui assunse una brillantezza accecante, ed egli udì Saeraede ansimare. Il suo respiro si fece molto rapido e finalmente si levò da terra nel mantello che si stava accasciando accanto a lui. Quando El indietreggiò, vide un piacere selvaggio sul volto della donna; tutta la magia sembrava confluire dentro di lei, e attimo dopo attimo divenne più solida... più vera. La sua sagoma evanescente e tremolante acquisì braccia e gambe e anche una tunica scura. La donna aveva le spalle larghe, una vita sottile, ed era più alta di lui; i capelli neri e vellutati le sfioravano i fianchi, e le sopracciglia scure incorniciavano due occhi di un verde brillante. Il volto era fiero e vivace... e molto, molto bello. «Salve, mago salvatore», esclamò con gli occhi pieni di gratitudine, mentre le ultime fiamme magiche venivano assorbite dal suo corpo. Una lingua di fuoco fuggì dalle sue labbra quando parlò. «Saeraede vi deve un favore». La donna esitò, poi allungò una mano sottile. «Posso sapere il vostro nome?» «Elminster», rispose il principe, indietreggiando cauto. «Elminster», mormorò con occhi scintillanti, «oh, grazie di cuore!» Saeraede si abbracciò, come se non credesse di essere nuovamente soli-
da e intera... e spostò i piedi dalla runa, piedi che indossavano stivali neri a punta con i tacchi alti. Nel momento in cui si spostò, la runa eruttò: una colonna di fuoco bianco, alta come due uomini, si sprigionò dal pavimento, e iniziò a sbuffare fumo in tutte le direzioni. Elminster fece un ulteriore passo indietro, gli occhi socchiusi - e qualcosa nell'oscurità si agitò e si accinse a balzare - ma poi rimase dov'era, non molto distante dalla schiena dell'ignaro mago. «Saeraede», sbottò El, senza distogliere lo sguardo dalla manifestazione magica, «che cos'è?» «La magia della runa», rispose, sorridendogli. «Karsus la preparò per impressionare gli intrusi. È innocua, fa parte di una serie di illusioni. Guardate». La donna si voltò verso la colonna di fuoco e incrociò le braccia, un'espressione di lieve interesse sul volto; nel frattempo il fumo sembrò addensarsi e congelarsi. L'arcata di rune luminose si solidificò con rapidità sorprendente, e dietro la colonna si formò un muro quasi identico a quello della caverna circostante... ma sollevato di qualche centimetro rispetto al liscio pavimento di pietra. Le rune attorno all'arco corrispondevano a quelle incise sul pavimento, tranne per il fatto che erano accese ed emettevano piccoli fulmini. Saeraede rimase tranquilla a guardare, ed El, fu colto da un pensiero improvviso, scivolò al suo fianco e indicò il trono vuoto. «Vi dispiacerebbe sedervi?» Saeraede gli rispose con un sorriso abbagliante, sollevò una mano come ringraziamento silenzioso e si sedette; gli occhi vigili di El non osservarono alcun mutamento, né in lei né nel trono. Hmmm, bene. Quando la donna incrociò le gambe e si appoggiò comodamente allo schienale, dalla colonna di fuoco fuoriuscì un volto... un volto giovanile incorniciato da capelli arruffati e da una barba incolta, gli occhi, due punte d'oro scintillanti. Erano fissi sul trono, e quando Elminster fece un ampio gesto col braccio sinistro, essi non accennarono a spostarsi. L'aria della caverna si riempì improvvisamente di tensione, quel volto aprì la bocca e una voce forte rimbombò come un tuono nella mente del principe. «Io sono Karsus! Guardami, e temimi. Sono il Signore dei Signori, un Dio tra gli Uomini, l'Arcanista Supremo. Tutta la magia è mio dominio, e tutti coloro che la esercitano senza il mio permesso pagheranno. Vattene e vivrai. Rimani e la prima e l'ultima delle mie maledizioni ricadrà immediatamente su di te, consumando i ricordi della tua mente fino a non
lasciare nulla, se non un'ombra sospirante». A quelle parole Elminster lanciò un'occhiata severa alla donna, ma Saeraede rimase tranquilla a guardare mentre i capelli sulla testa fiammeggiante emettevano un alone di luce in direzione delle rune; queste iniziarono ad attenuarsi, e la voce echeggiante si affievolì lasciando la caverna tremante e invasa dalla polvere. D'un tratto le rune esplosero formando una pioggia di scintille, e portarono via con sé l'illusione dell'arco e del muro. Con le labbra ancora increspate in un sorriso crudele, la faccia serrò gli occhi, si immerse nuovamente nella colonna, e scomparve; in pochi istanti le fiamme si ritirarono nella runa, ed essa si spense, ridiventando un solco scuro nel pavimento di pietra. «Quella maledizione vi ha mai colpito?», chiese Elminster, spostandosi in modo da poterla vedere meglio. La donna sollevò un angolo della bocca meravigliosa e sorrise lievemente. «Mai... né ha mai colpito nessuno, poiché è tutto un bluff. Credimi, l'ho sentita molte volte in questi anni, ogniqualvolta mi sentivo sola e desideravo vedere e udire un altro essere umano, ma si tratta solo di parole vuote». El annuì, quasi tremante per l'impazienza, e chiese: «Come si fa a vedere le scene contenute nelle altre rune... e che cosa mostrano?» Saeraede protese una mano. «Nella runa accanto vi sono due degli incantesimi più distruttivi inventati da Karsus, nonché una magia difensiva di impareggiabile forza e una magia guaritrice; le depose nella runa nel caso il suo nuovo io avesse avuto urgente bisogno di difendersi». La donna spostò il dito. «Quell'altra contiene altre quattro magie, tanto potenti quanto le precedenti, ma di uso più pratico. Una crea un piccolo «mondo» fluttuante che serve da roccaforte per il mago che utilizza la magia; un'altra è in grado di fermare e trattenere le acque di un fiume mentre si scava un nuovo corso per il suo letto; la terza può proteggere per sempre un'area da incantesimi specifici o categorie di incantesimi, mentre l'ultima consente di tenere in vita un essere umano mentre gli alterano membra od organi... Karsus la utilizzò spesso per spostare il cuore o il cervello in un luogo inaspettato, oppure per inserire artigli di bestie al posto delle mani od occhi aggiuntivi... ad alcuni uomini, se ben ricordo, diede le branchie, affinché potessero lavorare sott'acqua per lui». Saeraede indicò poi le rune nel punto in cui curvavano. «Le altre contengono magie minori, ce ne sono quattro in ognuna... Karsus stesso dà una dimostrazione di tutte, precisando svantaggi, dettagli, e strategie efficaci».
La donna vide la brama sul volto di El e soppresse un sorriso. L'aveva notata molte altre volte in precedenza... persino gli Eletti, a quanto pareva, erano ansiosi come bambini quando si offrivano loro nuovi giocattoli. Rimase in attesa della domanda che, senza dubbio, le avrebbe rivolto. Elminster si passò la lingua sulle labbra, improvvisamente secche, poi deglutì e affermò pacato: «Vi ho domandato come si fa a svegliare queste rune, lady... e non mi avete risposto. Esiste un segreto, o qualche rischio?» Saeraede gli offrì un caldo sorriso. «No, signore. Dal momento che non siete Karsus e non siete in grado di fare le magie che rispondono solo al suo sangue, è solo questione di tempo... e di pazienza». El sollevò un sopracciglio interrogativo, e il sorriso della donna si fece più ampio e divenne triste. «Solo io posso attivare tali rune», rispose, «e posso evocare il potere di una sola al mese, per mezzo di un incantesimo senza nome che ha impresso Karsus nella mia mente. È una magia che non so eseguire, né posso insegnare ad alcuno; la posso solo evocare al momento giusto... e senza dubbio questa è l'unica ragione per cui ancora esisto». Elminster aprì la bocca per affermare qualcosa, gli occhi brillanti, ma Saeraede alzò una mano, e aggiunse: «Chiedevate se esiste un rischio? Ve n'è uno, ora vi spiego: devono essere passati molti anni da quando venni imprigionata qui, poiché i miei poteri si sono affievoliti. Posso risvegliare una runa, non di più... aprirne un'altra mi distruggerebbe... e tutta la magia conservata qui si esaurirebbe e andrebbe perduta per sempre, poiché non può esistere senza di me». «Perciò non vi è alcun modo di vedere gli incantesimi di Karsus... o almeno non più di un quartetto?» «Un modo esiste», rispose dolcemente Saeraede, lo sguardo fisso nel suo. «Se voi usaste quell'ultimo incantesimo di cui vi ho parlato, non per darmi le branchie o una coda, ma per trasferire in me forza magica... la magia di un altro incantesimo guaritore, o che trasmetta vitalità, o che infonda il potere vitale dell'Arte negli oggetti, per ricaricarli. Questo dovrebbe funzionare». Elminster aggrottò le sopracciglia, pensieroso. «E dovremmo dimorare qui per un mese, per vedere la runa che contiene quell'incantesimo?» Saeraede allargò le mani. «Voi mi avete liberato e avete risvegliato la prima runa. Io sono ancora in grado di destarne un'altra... e vi devo la vita. Vi piacerebbe vedere la runa di cui parlo, quella che ospita l'incantesimo che mi consentirà di destare le altre per voi?»
«Certamente», rispose El bramoso, facendo un passo avanti. Saeraede si alzò dal trono e sollevò le mani in segno ammonitore. «Ricordate», affermò solenne, «vedrete Karsus che spiega a se stesso come operare quelle magie, poi la runa morirà per sempre, i suoi incantesimi... che né voi né altri maghi viventi sarebbero in grado di fare... andranno perduti con essa». La donna si allontanò di qualche passo dal principe, poi si voltò verso di lui, indicando la runa. «Se volete preservare il suo potere ed essere in grado di rivederla, esiste un modo... ma richiederà la vostra cieca fiducia». El inarcò di nuovo un sopracciglio, poi esclamò semplicemente: «Proseguite». Saeraede allargò le mani nel gesto antico che usavano i mercanti per mostrare che erano disarmati, ed esclamò gentile: «Potete incanalare energia nella runa attraverso il mio corpo; toccatemi mentre sono sopra di essa, e fate in modo che l'incantesimo cerchi la runa quale bersaglio. I legami immessi da Karsus dentro di me mi proteggeranno dal dolore e convoglieranno in essa la furia della vostra magia. Dovrebbe bastare un incantesimo potente... oppure due incantesimi minori». Gli occhi dell'ultimo principe di Athalantar si strinsero. «Mystra impediscimelo», mormorò, alzando una mano riluttante.. «Elminster», esclamò la donna con aria supplichevole, «vi devo la vita, non intendo farvi del male. Prendete ogni precauzione che ritenete necessaria... una benda, un laccio, un bavaglio», poi protese le mani verso di lui, i polsi incrociati in segno di sottomissione. «Non avete nulla da temere». Lentamente, Elminster avanzò e le prese la mano gelida nella sua. 19. PIÙ SANGUE CHE TUONI Il tuono della lingua di un re può sempre spargere più sangue del suo peso in oro prima dell'alba. Mintiper Moonsilver, Bardo Dalla ballata Grandi mutamenti in atto Inscenata per la prima volta nell'Anno della Spada e delle Stelle Il tocco di Sacraede era freddo... più freddo di alcuni fiumi ghiacciati in
cui era caduto, più freddo del morso gelido del ghiaccio blu che aveva un tempo bruciato la sua pelle nuda. Dei! Elminster lottò per respirare, troppo scioccato persino per gemere. Il volto accanto al suo non recava traccia di trionfo, solo di preoccupazione sincera; El fissò quegli occhi magnifici e urlò tutto il suo dolore. Un istante dopo il suo grido fu seguito da un grande ruggito che scosse la caverna e squarciò la semioscurità con un raggio di luce... un raggio che illuminò brevemente tutte le rune, e costrinse una figura furtiva a nascondersi frettolosamente in un antro. Uno dei suoi incantesimi migliori, infranto come un calice di vetro scagliato a terra... e non poteva essere opera di quel mago tremante e impotente. Oh, che sfortuna nera: un Eletto possedeva incantesimi che chiamavano aiuto da soli? Saeraede si drizzò, gli occhi fiammeggianti, e ringhiò, «Chi...?» La luce che proveniva dall'alto del pozzo questa volta non era un raggio distruttivo, bensì una colonna dorata di magia duratura. Quattro figure discesero silenziosamente, in piedi, nella caverna del trono. Tre di essi erano vecchi, robusti... e sbalorditi. Caladaster, Beldrune e Tabarst fissavano il loro compagno con occhi sgranati. Il tranquillo Arpista aveva appena rotto un incantesimo che aveva scosso gli alberi intorno, e aveva spazzato via uno spesso pavimento di pietra con un gesto casuale della mano. Poi aveva fatto qualche passo, aveva sorriso loro in maniera rassicurante, e con un altro gesto li aveva sollevati nella colonna di luce e, insieme, erano scesi nella caverna. «Elminster», esclamò il quarto uomo bruscamente, non appena i suoi piedi toccarono terra con la stessa leggerezza di una piuma, «allontanati da quelle rune. Mystra ci proibisce di fare ciò che stai tentando». Elmister aveva appena recuperato le forze per parlare. Si voltò di scatto, con fare rigido e gambe tremanti, e, con labbra sottili e bluastre rispose secco: «Mystra ci proibisce di fare, mai di guardare. Tu chi sei?» L'uomo sorrise lievemente, e i suoi occhi divennero lance di fuoco magico che attraversarono la caverna e arrivarono fino a Saeraede. «Chiamami... Azuth», rispose. «L'incantesimo è fallito ancora, s-signore», balbettò l'uomo con la tunica. Lord Esbre Felmorel annuì brevemente. «Avete il permesso di ritirarvi. Tuttavia non allontanatevi troppo, nel caso avessimo urgente bisogno di
voi». «Signore, col vostro permesso», mormorò il mago, e quasi di corsa abbandonò la stanza. «Nasmaerae?» Lady Felmorel sollevò gli occhi tristi e affermò: «Non è opera mia, signore. Al momento l'unico mio collegamento all'Arte sono le preghiere che rivolgo ad Azuth. Lo giuro». Una grande mano villosa si chiuse sulle sue. «Calmati lady. Nemmeno io posso dimenticare quella dura lezione; so che non trasgredisci. Ho visto il tuo sangue sul pavimento davanti all'altare, e ti ho vista pregare. Umili te stessa come solo un individuo veramente credente può fare». Sul volto della donna apparve un sorriso fugace. «Ora spaventi gli uomini più di quanto non facevi quando governavi questo castello con la magia, lo sai. Dicono che parli con Azuth ogni notte». «Esbre», sussurrò la signora, lo sguardo fisso in quello del marito nonostante il rossore che le aveva pervaso il volto. «È ciò che faccio. E sono più spaventata ora di quanto non lo fossi quando Azuth mi ha privato della magia davanti a te. Tutti gli incantesimi dei Regni falliscono, e presto ritornerà la legge della spada, e nessuno dei nostri maghi sarà in grado di aiutarci!» «E che cosa c'è di tanto spaventoso nell'affidarsi alle spade affilate, alle braccia possenti, e all'astuzia dei guerrieri?» «Esbre», sussurrò Lady Nasmaerae, sfiorandogli le labbra con le sue... tanto lentamente che egli non mancò di notare i suoi occhi brillanti colmi di lacrime, «quanto a lungo siete in grado di contrastare i nemici senza gli incantesimi dei nostri maghi? Quante spade affilate e quanta furbizia possiede un'orda di orchi?» Un tintinnio di numerosi campanelli si levò nella stanza, ed Elminster rimase quasi assordato, mentre il vento gelido che lo emanava gli attraversò il corpo, immobilizzandolo ancora una volta. La nebbia spettrale che era stata Saeraede lo avvolse sinuosa, apparentemente indisturbata dai raggi infuocati di Azuth, che tramite lei colpirono Elminster. Ghiaccio, poi fuoco... fuoco che lo sollevò da terra in un turbine di nebbia e fiamme in lotta tra loro e lo depose nuovamente a terra, barcollante, e troppo affranto per poter fare altro se non gemere dolorante. «State distruggendo il nostro Elminster, signore... Vostra, er, Divinità, signore!», balbettò Tabarast con labbra bianche, tremanti di paura.
«Liberati di lei», esclamò Azuth con tono tranquillo, il suo sguardo non più fiammeggiante... e fisso negli occhi di Elminster, socchiusi per il dolore, «altrimenti sarai spacciato». «Direi che sei spacciato in ogni caso», affermò una voce beffarda da sopra... e cinque bastoni scagliarono simultaneamente una pioggia di morte lungo il condotto. La Somma Sacerdotessa degli Accoliti passò attraverso la tenda di catene nere con tutta l'autorità crudele per la quale era tanto temuta fra il clero minore. La frusta uncinata sulla spalla, pronta a sferzare alla minima omissione che le recasse dispiacere, la donna abbozzò un sorriso di malvagia attesa sotto la maschera nera dalle lunghe corna. Persino le due Sacerdotesse Guardiane della Stanza si fecero da parte; lei le ignorò, e, accompagnata dal ticchettio emesso dai tacchi di stivali neri alti fino alla coscia, attraversò le tre tende di tessuto che introducevano nel luogo più intimo della contemplazione della Darklady... la Piscina di Shar. Una figura si mosse nella penombra dietro la piscina: una figura con un familiare copricapo cornuto e un mantello purpureo. La Terribile Sorella Klalaera s'inginocchiò immediatamente, e protese la frusta davanti a sé con entrambe le mani. Senza fretta la Darklady aggirò la piscina dalle acque scure e prese la frusta, la Somma Sacerdotessa si piegò rapida a baciare la punta affilata dei suoi stivali, e tenne la lingua premuta contro il metallo freddo e macchiato di sangue, finché non sentì la frustata sulla schiena. Bruciava, nonostante l'intrico di lacci che costituivano parte del suo abito, ma il fatto di non batter ciglio era un segno d'orgoglio; la sacerdotessa rimase immobile, in attesa della seconda sferzata, sintomo del dispiacere della sua superiora, o dell'ira di Avroana. Non accadde nulla di tutto ciò, e con un movimento lento che riuscì, quasi, a celare il suo sollievo, Klalaera si mise a sedere; Avroana le portò la frusta alle labbra perché la baciasse, poi gliela restituì e la sacerdotessa si rilassò. Il rituale era stato adempiuto. «Vostra Oscurità?», domandò, come era di costume. «Klalaera», affermò la Darklady con tono piuttosto urgente - e quella familiarità riempì d'eccitazione il Capo delle Sacerdotesse - «ho bisogno che tu faccia una cosa per me. Nonostante le assicurazioni di Narlkond, quei cinque maghi faranno fiasco. Tu dovrai essere la mano che punirà i loro misfatti. Se tradiscono la Casa della Sacra Notte, farai conoscere loro
la sua giustizia, qualsiasi sia il rischio che dovrai correre. Lo esigo; la Fiamma dell'Oscurità stessa lo esige. Carissima fra i miei seguaci, farai questo per me?» «Con piacere», rispose Klalaera sinceramente. Viaggiare nuovamente fuori dalla Casa! Respirare i venti liberi di Faerûn, e vedere i magnifici paesaggi che si estendevano a vista d'occhio! Oh, Avroana! «Lady carissima», aggiunse con voce tremante, «che cosa devo fare?» Il rumore spaccò loro le orecchie. Si levò polvere dappertutto, il terreno tremò e si sollevò sotto i loro stivali, e qua e là intorno alle rovine lastre di pietra vennero lanciate in aria da geyser di vapore bollente. I cinque falsi maghi si scambiarono occhiate soddisfatte, mentre il rombo della loro magia sovrastava le grida di eccitata approvazione, e riversarono morte finché Elryn non batté loro sul braccio e non agitò gli scettri nelle sue mani... armi che aveva slacciato dalla cintura non appena il bastone si era esaurito. Quand'ebbe ottenuto la loro attenzione, il capo dei Terribili Fratelli puntò gli scettri in maniera angolata sul pavimento accanto al passaggio. Se il fuoco avesse squarciato la caverna sottostante, avrebbe seguito un percorso angolato fino al punto in cui, grazie all'incantesimo spia di Elryn, sapeva si trovasse l'Eletto: accanto a un trono e a un semicerchio di rune che forse, solo forse, potevano essere fatte esplodere. Dopotutto, la distruzione di un Eletto rappresentava la loro sacra missione. Mentre Femter Vaelam, e Hrelgrath puntavano i loro bastoni con impavido entusiasmo, Elryn fece due passi indietro e vide Daluth, dall'altra parte del gruppo, fare altrettanto; i due si scambiarono un freddo sorriso. Se fossero sorti problemi, qualcuno doveva pur sopravvivere per riferire l'accaduto alla Darklady. Ma non era quello il momento di sognare a occhi aperti, nel tardo pomeriggio, in una dimora in rovina, nel cuore di una foresta spettrale priva di vita, con un noto Eletto, un folle che pensava di essere un dio, e il fantasma di una maga che combattevano a pochi passi da loro, per di più sopra rune magiche, antiche e potenti, incise nel pavimento per qualche scopo molto importante. Il tuono di magia distruttiva rimbombava imperterrito mentre i sacerdoti più giovani ridevano, esaltati dal potere al loro comando. Alcune pareti crollarono e schiacciarono gli armadi, mentre il pavimento sotto i loro piedi si disintegrava. Tutt'intorno gli alberi scricchiolarono quando il terreno
si sollevò. Daluth tenne la bacchetta puntata verso il basso, contro il sedicente Azuth e i suoi compagni; il sacerdote di Shar aveva visto i gesti casuali di una mano creare ciò che molti arcimaghi avrebbero elaborato solo con lunghi e complicati rituali. Dio, avatara, o arcimago che fosse, doveva essere distrutto. Elryn puntò gli scettri nell'apertura polverosa, nella scia dei tre bastoni... che, uno alla volta, si esaurirono e vennero sostituiti da scettri netheresi di altrettanta potenza. Eletto o no, nessun mago da solo può resistere incolume a tanta distruzione. Elryn ringhiò quando uno scettro si sbriciolò fra le sue dita, ma subito lo rimpiazzò; no, non esisteva alcuna possibilità che un uomo potesse sopravvivere. Perché, allora, si sentiva tanto a disagio? Il fondo della caverna crollò sotto la potenza delle esplosioni magiche, frammenti di roccia schizzarono in ogni dove, e lastre di pavimento si sollevarono al passaggio di un'onda d'urto che distrusse il trono. Altre rocce si staccarono dal soffitto, rimbalzando in mezzo alla furia distruttrice; in ginocchio, un Elminster stordito osservava, con occhi offuscati dal dolore, mentre il soffitto si spaccava lungo una linea che portava diritta a lui, in una pioggia di massi enormi. Qualcuno o qualcosa stava tentando di ucciderlo, o di distruggere le rune... non che al momento gli mancassero i nemici. Saeraede, che doveva avergli mentito su tutto tranne che sull'autore delle rune, lo stava cavalcando come un cavaliere, le unghie attorno alla sua gola e artigli di ferro gelido che gli bruciavano la schiena. Sapeva ancor prima di tentare, che anche se si fosse agitato o si fosse sbattuto contro un muro, non si sarebbe liberato di lei; come si fa a togliersi di dosso la nebbia? Eppure, doveva muoversi, oppure sarebbe rimasto schiacciato sotto le pietre o sarebbe stato bruciato dai fulmini magici che stavano consumando terra e roccia per raggiungerlo. El grugnì e si trascinò per un breve tratto lungo le pietre che si sollevavano... finché le rune di Karsus non esplosero in colonne di fuoco incandescente, una dopo l'altra. Quando lambirono il soffitto semidistrutto, tutta la caverna fu invasa da magia purpurea, e da forme e immagini indistinte che svanivano e si riformavano in una parata infinita. L'ultimo principe di Athalantar sbatté il naso e la spalla contro una lastra del pavimento che si stava sollevando, e rotolò di fianco con un grido di
dolore e di disperazione. Mentre si arrampicava sul bordo della pietra con dita deboli e sanguinanti, nel tentativo di rimettersi in piedi, la roccia si dissolse in fumo e magia lacerante esplose dentro di lui. Ah, bene, ci siamo... perdonami, Mystra. Ma non seguì alcuna agonia, e niente gli strappò le carni, né le bruciò... Invece, rotolò e un nulla evanescente lo avvolse con corde luminose. Indistintamente, fra le lacrime e le scintille, Elminster vide la magia venire verso di lui da ogni lato, e virare all'ultimo momento. Una risata selvaggia si levò tutt'intorno a El, stridula, crudele, ed esultante. Saeraede! La donna era abbarbicata su di lui, in una rete di nebbia luminosa che si faceva più spessa e più brillante a mano a mano che si rimpinzava di magia. La luce solare entrò nella caverna devastata, ma la polvere vorticante oscurava ogni cosa... ogni cosa tranne il gigante attorno alla sagoma di El, che ancora si contorceva debolmente. Le fiamme delle rune vorticarono a mezz'aria per fluire in Saeraede, e lei si levò ancora più in alto, un essere di fiamme crepitanti. El si sforzò di guardare in su... e due macchie scure nel fuoco magico divennero occhi che gli lanciarono un'occhiata trionfante... seguita da un sorriso crudele. «Ora sei mio, sciocco», sussurrò con un sibilo rauco, «per quel poco che durerai....» «Lord Thessamel Arunder, il Signore degli Incantesimi», annunciò il servo con tono solenne, quando si spalancarono le porte. Un mago varcò lentamente la soglia, un ghigno freddo sul volto affilato; indossava una tunica a collo alto, nera e priva di decorazioni, che, data la sua magrezza, lo faceva sembrare un obelisco funerario, mentre la donna più bassa e più in carne che teneva a braccetto, vestiva di verde foresta, i grandi occhi castani brillanti di malizia. «Signori miei», cominciò senza preamboli, «perché siete tornati? Quante volte dovete udire il mio rifiuto prima che le parole entrino nella vostra testaccia?» «Buon giorno, Lord Arunder», salutò il mercante Phelbellow, con tono secco. «Di buon umore fin dal primo mattino, scommetto?» Arunder gli lanciò un'occhiata gelida. «Risparmiatemi le vostre adulazioni, commerciante di stracci. Io non venderò questa casa, costruita con magia potente, né parte alcuna delle mie terre, indipendentemente da quanto mi lecchiate i piedi o da quanto oro mi offriate. Che bisogno ho del de-
naro? Che cosa me ne faccio delle tuniche?» «Già, ha ragione», grugnì uno degli altri mercanti. «Non ce lo vedo proprio in una buona tunica. Gli mancano le ginocchia». «E i fianchi, se è per quello», aggiunse un altro. Tra i mercanti assiepati sulla soglia i levarono risa soffocate; il mago li guardò con disprezzo, ed esclamò a voce bassa: «Sono stanco dei vostri insulti. Se non ve ne sarete andati dalle mie sale prima del temine del Canto dei Fantasmi, gli artigli dei miei spettri guardiani vi...» «Lady Faeya», chiese Hulder Phelbellow, «non ha visto i documenti?» «Naturalmente, Signor Phelbellow», rispose la donna in verde con voce musicale. Rivolgendo a tutti un sorriso, Faeya si allontanò dal mago ed estrasse una striscia di pergamena piegata, «e li ho anche firmati». Faeya porse i documenti al mercante, che li spiegò ansioso, mentre gli altri gli si stringevano attorno per vedere. Il Signore degli Incantesimi guardò la pergamena e i mercanti, poi Faeya, e balbettò: «C-che cosa sta accadendo qui?» «Una necessità, mio signore», rispose la donna dolcemente. «Sono molto contenta che avete avuto il buon senso di firmarlo. Una bell'offerta... vi consentirà di ritirarvi completamente dagli incantesimi, se lo desiderate». «Io non ho firmato nulla», ansimò Arunder, bianco in volto. «Oh, l'avete fatto, signore... e anche con molto fervore», rispose la donna dagli occhi vivaci. «Vi siete dimenticato? In quell'occasione non mancaste di apprezzare la durezza e la piattezza del mio ventre, che rendeva tanto scorrevole la vostra calligrafia. Firmaste con uno svolazzo, se ben ricordo». Arunder s'irrigidì. «Ma... quello era...» «Un inganno meschino?», ridacchiò uno dei mercanti. «Ah, ben fatto, Faeya!» Un altro eruppe in una risata fragorosa, e un terzo mormorò una frase beffarda. «Apprendista», sussurrò selvaggio il Signore degli Incantesimi, «che cos'hai fatto?» Lady Faeya si allontanò da lui di tre passi, raggiunse i mercanti, che si fecero da parte per farle spazio, e si voltò a guardarlo, le mani sui fianchi. «Tra l'altro, Thessamel», affermò piano, «negli ultimi dieci giorni ho ucciso due uomini, che erano venuti a regolare vecchi conti da quando i vostri incantesimi vi hanno abbandonato... e la voce si è sparsa». «Faeya! Sei matta? Dire queste...»
«Lo sanno, Thess, lo sanno», lo interruppe la donna con freddo disprezzo. «L'intera città ne è al corrente. Tutti i maghi hanno le mani piene d'incantesimi impazziti, non solo voi. Se prestaste la minima attenzione a Faerûn, lo sapreste già da un pezzo». Il Signore degli Incantesimi era diventato bianco come un cadavere e la guardava a bocca aperta, mentre tutti attendevano che ritrovasse la voce. Passò un bel po' di tempo. «Ma... i tuoi incantesimi funzionano ancora, dunque?», riuscì a domandare finalmente. «Nemmeno uno», rispose secca. «Li ho uccisi con questo». Estrasse il minuscolo pugnale dal fodero al suo fianco, poi arrotolò la manica sinistra e rivelò una lunga ferita infiammata, cosparsa di resina di pino e avvolta in tessuto di lino. «È così che me la sono procurata». «Anche questi mercanti sono venuti per... per...?», chiese Arunder con voce flebile, oscillandosi sui tacchi. Le mani gli tremavano come quelle di un anziano malato. «Sono andata io da loro», affermò mordace Faeya, «per supplicarli di rifare l'offerta che due mesi fa avete rifiutato tanto alacremente. Sono stati tanto buoni da accettare, quando avrebbero potuto benissimo aizzare i loro cani contro di me: l'apprendista dell'uomo che trasformò tre di loro in maiali per una notte». A quelle parole, attorno a lei, si levarono grugniti arrabbiati e mormorii di assenso; Arunder fece un passo indietro e, come d'abitudine, sollevò la mano per fare un incantesimo... ma subito la lasciò cadere, in preda alla nera disperazione. Faeya si drizzò ed esclamò con voce più pacata: «Dunque l'accordo è fatto. La vostra torre e tutte le terre circostanti, da mezzogiorno in avanti, apparterranno a questa cricca di mercanti, che potranno utilizzarla a loro piacimento». «E-e che cosa ne sarà di me? Per tutti gli dei, don...» La donna alzò una mano, e il suo debole balbettio cessò, come troncato da un coltello. Qualcuno rise. «Noi, mio signore, siamo liberi di vivere indisturbati nella Guglia Meridionale, e di fare incantesimi... a patto che non danneggino nessuno in questa dimora... a nostro piacimento... e se ne saremo capaci. Voi, Thess, riceverete duecentomila pezzi d'oro... per tale ragione questi signori si trovano qui... tutta la legna di cui avete bisogno, e una decina di cervi all'anno, pronti da consumare».
Senza proferire parola, Hulder Phelbellow appoggiò un sacco su un tavolo, e si udì un gran tintinnio di monete. Whaendel il macellaio lo seguì, e tutti gli altri, uno alla volta, fecero altrettanto, fino a formare una pigna di sacchi alta fino al soffitto, sopra un tavolo che scricchiolava per protesta. Arunder sgranò gli occhi. «Ma... non potete avere oro sufficiente, nessuno di voi!» La sua signora lo raggiunse e appoggiò una mano di conforto sul suo braccio. «Hanno un finanziatore, Thess. Ora ringraziateli educatamente. Dobbiamo fare le valige... altrimenti finirete per indossare le mie tuniche». «Io-io...» La mano della donna, fino ad allora delicata, spinse forte nelle sue costole. «Signori miei», ansimò il mago, «non so come ringraziarvi...» «Thessamel», affermò gioviale Phelbellow, «l'hai appena fatto. Anche noi ti ringraziamo... e buon viaggio fino alla Guglia Meridionale, eh?» Arunder stava ancora deglutendo quando i mercanti uscirono in fila, ridacchiando. I versi che stava emettendo si trasformarono, tuttavia, in piagnucolii quando la loro ritirata rivelò l'uomo che li aveva sostenuti nell'impresa. Un debole bagliore di magie mortali avvolgeva la sciabola sguainata che teneva sulle ginocchia. Le grandi mani irsute che la impugnavano erano quelle del famoso guerriero Barundryn Harbright, il quale si alzò, rivolse al mago un sorriso freddo, ed esclamò: «Dunque ci rincontriamo, Arunder». «Tu...!», ringhiò il mago con cattiveria. «Ora tu sei il mio inquilino, mago, perciò risparmiami le solite imprecazioni e i soliti sputi. Se mi fai arrabbiare ti prendo sottobraccio, ti porto al fiume dove giocano i bambini, e ti sculaccio fino a farti diventare il fondo schiena rosso come un ravanello. Mi hanno detto che questo non può danneggiare i tuoi incantesimi». Una mano dalle dita tozze si agitò casualmente sotto il naso di Arunder. Il mago serrò gli occhi allarmato. «Che cosa? Chi...?» «Mi ha detto ciò?», Harbright sollevò il mento e fece un caloroso sorriso, diretto dietro le spalle di Arunder. Il Signore degli Incantesimi si voltò in tempo per vedere il sorriso felino di Faeya svanire dietro la porta da cui erano entrati insieme, accompagnato da uno svolazzamento di vesti color verde foresta. Lord Thessamel Arunder gemette, oscillò prima su un piede poi sull'altro, e si voltò, furibondo, sull'orlo delle lacrime; fece per scappare, ma si
dovette arrestare bruscamente, per non ritrovarsi infilzato dalla spada protesa di Harbright. Lentamente, con riluttanza, sollevò lo sguardo dalla lama che gli sbarrava la strada al volto del gigantesco guerriero che l'impugnava. «Perché i maghi, con tutta la loro intelligenza, stentano tanto a imparare le lezioni della vita?», chiese Barundryn con una punta di compassione nella voce. La spada si abbassò e una grande mano si appoggiò risoluta sulla spalla tremante del mago. «I maghi tendono a vivere più a lungo, Arunder», esclamò gentile Harbright, «se imparano a resistere alle tentazioni più allettanti». I sacerdoti di Shar stavano cominciando a sudare, per il mero sforzo di tenere gli scettri puntati, mentre la magia emessa distruggeva pietre e terra, per scoperchiare una fortezza e uccidere gli esseri sottostanti. Elryn guardò Femter trasalire e scuotersi i frammenti fumanti di un anello dal dito, mentre Hrelgrath gettava a terra la sua terza bacchetta e Daluth infilava uno scettro esaurito nella cintura. «Basta», abbaiò Elryn, agitando le mani. «Basta, Sacerdoti di Shar!» Qualche oggetto magico doveva essere risparmiato nel caso quel giorno avessero incontrato altri nemici... o nel caso laggiù qualcuno fosse ancora vivo. I falsi maghi voltarono la testa con sguardo assente, come se avessero dimenticato chi e dove fossero. «Abbiamo una missione sacra da svolgere, Oscuri Fratelli», ricordò loro il capo, con tono deliberatamente dispiaciuto, «e non è distruggere terra e roccia di rovine dimenticate nel cuore della foresta. Il nostro obiettivo è l'Eletto; come se la sta cavando?» Tre teste scrutarono tra la polvere fitta. Poi tutti e cinque guardarono giù nel passaggio da cui avevano iniziato l'opera distruttrice, dove la polvere era molto meno densa. Laggiù videro detriti, e... Uno dei sacerdoti urlò incredulo. Il sedicente Azuth li salutò dal basso, più o meno nella medesima posizione in cui si trovava quando avevano aperto il fuoco. I tre anziani, che ancora lo fissavano sorpresi, erano intorno a lui, e tutti, compreso il pavimento intorno al fondo del pozzo, sembravano indenni. «Avete finito?», chiese tranquillo, fissandoli con occhi grigi di tempesta. Elryn sentì il gelo della paura insinuarsi nella gola e scivolare lentamente fino alla bocca dello stomaco, ma Femter ringhiò: «Che Shar se lo por-
ti!», e ghermì una bacchetta magica alla sua cintura. Prima che Elryn o Daluth potessero fermarlo, il giovane si sporse sul bordo del pozzo e ringhiò le parole che scatenarono un raggio di fuoco nella semi oscurità sottostante, diritto sul volto dell'uomo dagli occhi grigi. L'Arpista non si mosse, ma la sua bocca, in qualche modo, si allargò più del normale... e le fiamme vi caddero dentro. Il suo corpo rabbrividì per un istante quando il fuoco raggiunse le viscere, Dall'incespicare dei tre anziani intorno a lui, sembrò che una sorta di magia li stesse tenendo a bada, facendoli muovere quand'egli si muoveva. Un attimo dopo la sfera di fuoco esplose con un rombo sordo, e del fumo uscì dalle orecchie dell'Arpista, il cui volto aveva assunto un'espressione spensierata. Dopodiché questi lanciò un'occhiata di rimprovero ai falsi maghi e commentò: «Mancava un po' di pepe». I sacerdoti di Shar si diedero alla fuga, gridando, ancor prima che Azuth abbassasse la testa e guardasse nuovamente Elminster sul pavimento della caverna semi distrutta. «Parlavo seriamente», affermò con tono grave. «Devi liberarti di lei». «Io... non ci riesco», ansimò Elminster, fissando gli occhi scuri di Saeraede, mentre si sollevava trionfante sopra di lui come una specie di serpente gigante, per poi avvolgerlo in spire sempre più strette. «E non ci riuscirai mai», sussurrò la donna, le labbra fredde a pochi centimetri dalle sue, tanto che El poté sentire il respiro gelido sulla sua faccia quando mormorò, «Con le magie di un Eletto e tutta la potenza di Karsus, posso anche sconfiggere uno come lui». Sollevò lo sguardo per rivolgere ad Azuth un'occhiata di sfida e nel contempo strinse una mano gigantesca di nebbia solida attorno alla gola di El. Altri tentacoli di foschia si levarono intorno a loro come una foresta protettiva, lambendo le lastre di pietra frantumate. L'ultimo principe di Athalantar lottò per respirare nella sua morsa, tanto stretta che non riusciva nemmeno a gridare, quando la maga spettrale trasformò, senza fretta, la spira più alta del suo corpo nebbioso in un torso umano solido, formoso e mortale. Dita esili svilupparono unghie simili ad artigli, e quand'ebbero raggiunto la lunghezza della mano di Saeraede, la donna li allungò quasi amorevolmente verso la bocca di El. «Toglieremo solo la lingua, credo», affermò ad alta voce, «per evitare cattivi... ah, ma aspetta un attimo, Saeraede, prima che diventi muto vorre-
sti che ti rispondesse a qualche domanda... Hmmm...» Artigli affilati come lame passarono a pochi centimetri dalla gola di Elminster, per affondare nel primo tratto di carne libero. Dopo aver provocato solchi profondi nel collo del mago, la donna spruzzò gocce di sangue sulla nebbia turbinante ed, esultante, sollevò gli artigli insanguinati alla luce del sole. «Ah, ma sono ancora viva!», sibilò Saeraede, «viva e intera! Respiro, sento!» Si portò le dita alla bocca, si morse le nocche, e allungò la mano verso l'avatara di Azuth per fargli vedere il sangue zampillante. «Sanguino! Sono viva!» Poi urlò, oscillò, e con gli occhi scuri, enormi per la sorpresa, guardò in basso, alla punta di spada fumante che le aveva appena trafitto il petto da dietro. «Alcune persone vivono molto più a lungo di quanto dovrebbero», esclamò Ilbryn Starym da dietro l'elsa, mentre fissava gongolante gli occhi del mago ancora immobile nella morsa di Saeraede. «Non sei d'accordo, Elminster?» Una porta si spalancò e andò a sbattere contro una parete pesantemente rivestita. Erano passati anni da quando la donna alta, dalle spalle larghe, che ora si ergeva sulla soglia con espressione allarmata, aveva indossato l'armatura che odiava tanto... ma mentre scrutava la stanza, la lunga spada, sguainata per metà, al fianco, sembrava in tutto e per tutto un guerriero. Talora Rauntlavon avrebbe desiderato essere più bello, più forte, e di dieci anni più vecchio, e avrebbe dato molto per un sorriso di quella magnifica donna. In quel momento, lei era però tutt'altro che sorridente. Lo stava guardando dall'alto come se avesse trovato una vipera nel suo vaso da notte... e la sua unica consolazione era rappresentata dal fatto di non essere l'unico mago a rotolarsi sul pavimento sotto il suo cupo malcontento; il suo maestro, il beffardo elfo Iyriklaunavan, stava ansimando sul fine tappeto di piume di cigno a poca distanza da lui. «Iyrik, per tutti gli dei», grugnì Nuressa, «che cosa diamine state combinando?» «Il mio incantesimo di spionaggio è andato a monte», ringhiò l'elfo. «Se non fosse stato per il ragazzo, tutti quei libri ora sarebbero in fiamme, e staremmo correndo avanti e indietro con i secchi!» Rauntlavon arrossì quando la padrona fece un passo avanti e lo guardò
con espressione un po' più gentile. «Non ho fatto nulla di eccezionale, Grande Signora», balbettò. «Signorino Rauntlavon», affermò pacata la donna, «un apprendista non dovrebbe mai contraddire il suo maestro di magia... né sminuire il giudizio di uno dei Quattro Padroni del Castello». Il ragazzo divenne ancor più rosso e iniziò a balbettare, «I-io, hummm, ah...» «Sì, sì, ragazzo, ti sei spiegato brillantemente come al solito», affermò sbrigativo Iyriklaunavan, rotolando sui gomiti. «Ora taci e perlustra la stanza per me: c'è qualcosa fuori posto? Qualcosa di rotto? Fuochi sopiti? Forza, forza!» Rauntlavon si alzò, quasi grato di quel compito, ma orientò la sua attenzione a ciò che due dei Quattro Signori stavano dicendo. Erano stati tutti avventurieri bonari e di successo, meno di un decennio prima, e non si poteva mai sapere le cose eccitanti ed esotiche di cui avrebbero potuto parlare. Be', questa volta il discorso non verteva sull'accoppiamento dei draghi. «Dunque dimmi, Iyrik», stava dicendo la donna con voce spazientita, «perché il tuo incantesimo è esploso. Si tratta di uno di quegli incantesimi che faresti bene a non tentare mai? Oppure sei stato distratto da qualche giovane elfa?» «Nessa», mormorò l'elfo... Rauntlavon aveva sempre ammirato il maestro, che appariva tanto agile, elegante, e giovane, e nel contempo sapeva essere più burbero di un nano... alzandosi e fissandola con espressione altrettanto spazientita, «è una questione seria. Riguarda tutta Faerûn. Smetti per un momento di giocare alla cagna spavalda e ascoltami. Solo per una volta». Rauntlavon s'irrigidì, strinse la testa nelle spalle, domandandosi se fosse possibile sopravvivere alla furia cieca della Grande Nuressa... e quanto presto e brutalmente avrebbe ricordato la sua presenza e lo avrebbe cacciato dalla stanza. «Signorino Rauntlavon», affermò con tranquillità, «ora puoi lasciarci. Chiudi la porta quando esci». «Apprendista Rauntlavon», intervenne il maestro con altrettanta calma, «è mio volere che tu rimanga. Manda fuori il Signorino Rauntlavon, e chiudi la porta dietro di lui, ma tu rimarrai con noi». Il ragazzo deglutì, fece un respiro profondo e si voltò, non osando quasi alzare lo sguardo. «N-non ho trovato nulla fuori posto da questa parte della
stanza», annunciò, con voce più alta e più tremolante di quanto avrebbe voluto che fosse. «Devo esaminare ora l'altra metà... o più tardi?» «Adesso va bene, Rauntlavon», rispose la donna con un tono di vellutata minaccia. «Per favore, procedi». L'apprendista fu colto da un tremito ancor prima di inchinarsi e mormorò: «Come desidera la Grande Signora». «È magnifico che uomini e ragazzi ti temano, Nessa, ma ciò compensa davvero gli anni trascorsi sotto la frusta? Lo schiavo fuggito si vendica schiavizzando a sua volta gli altri?» La voce del padrone era mordace; Rauntlavon cercò di non dimostrare la sua momentanea esitazione; la signora era stata una schiava? Nuda e inginocchiata sotto una frusta, tra la polvere e il caldo? Dei, non avrebbe mai... «Non pensi che potremmo lasciare il mio passato nell'armadio della mia stanza, Iyrik?», chiese Nuressa con tono quasi gentile. Le parole successive furono, tuttavia, simili a un grido di battaglia. «Oppure esiste un bisogno urgente di raccontarlo a tutto il mondo?» «Non lo dirò a nessuno, non... lo giuro, non lo farò!», balbettò Rauntlavon, inginocchiandosi sul tappeto. Udì la donna sospirare e sentì dita d'acciaio sulla sua spalla, che lo fecero alzare. Un'altra mano s'impossessò del suo mento e gli girò bruscamente la testa, al che l'apprendista si ritrovò a fissare gli occhi della Signora a una distanza pari, forse, al suo dito più lungo. «Rauntlan», iniziò Nuressa, rivolgendosi a lui con il nome con cui gli piaceva farsi chiamare da un gruppetto di amici... un nome che pensava i signori del castello nemmeno conoscessero, «sai che una della abilità fondamentali di ogni mago è la capacità di mantenere i segreti. Perciò ora ti testerò, per vedere se sei abbastanza in gamba per rimanere nel castello quale apprendista-mago... o come mago vero e proprio, in un futuro prossimo. Mantieni il mio segreto, e rimarrai; raccontalo... e sarai cacciato dalle nostre terre, a suon di punzecchiature della mia spada». Rauntlavon udì il maestro iniziare una frase, ma la donna fece un gesto dietro la schiena, e Iyriklaunavan richiuse la bocca. «Hai capito, Rauntlan?» La sua voce era calma e gentile come se stesse parlando di un argomento più frivolo; Rauntlavon deglutì, annuì, e, imbarazzato dallo sguardo penetrante della donna, mormorò: «Grande Signora, giuro che manterrò il vostro segreto... e se mai dovessi farmelo sfuggire, vi confesserò io stesso la mancanza, in modo che mi possiate cacciare immediatamente».
Nuressa sollevò le sopracciglia scure. «Ben detto, Signorino Apprendista. Siamo d'accordo, dunque». Rapidamente, la donna indietreggiò di un passo e sollevò senza fretta la tunica a rivelare una gamba muscolosa e abbronzata, tanto lunga e sinuosa che il ragazzo deglutì due volte, incapace di distoglierne gli occhi. Da qualche parte si sentì il maestro ridacchiare, ma Rauntlavon era preso dal lento, ma continuo, sollevarsi del fine tessuto, su, su fino al fianco, dove i suoi occhi s'incantarono su una bruciatura color bianco-purpureo... ora stava deglutendo vistosamente, e sapeva che il suo volto doveva essere acceso come una lampada. Il disegno crudele era marchiato a fuoco nella carne, proprio al margine dell'osso che le faceva sporgere il fianco; con un dito affusolato la donna tracciò un cerchio attorno a esso e chiese con voce rauca: «Hai visto abbastanza, Rauntlan?» Il ragazzo quasi soffocò nel tentativo di deglutire e di annuire ferventemente nel medesimo istante, e, nel mezzo del suo turbamento, la tunica ricadde sulle caviglie, le mani di Nuressa si appoggiarono violente sulle sue spalle, e la sua voce profonda gli sussurrò all'orecchio: «Dunque ora condividiamo un segreto, tu e io. Qualcosa da ricordare». Lo spinse via delicatamente e aggiunse: «Credo che questa parte di stanza non sia stata ispezionata completamente, Signorino Apprendista». La voce della Signora era stata ancora una volta pungente, ma in qualche modo Rauntlavon si ritrovò a sogghignare mentre si dirigeva verso il fondo del locale e annunciava: «Riprende l'ispezione, Grande Signora... e inizia la compartecipazione!» L'elfo scoppiò a ridere, e un attimo dopo l'apprendista udì un mormorio sopito, che doveva essere il riso soffocato della Signora. La donna interruppe la risata e sbottò: «Abbiamo perduto abbastanza tempo, mago. Mi hai convocato d'urgenza nel bel mezzo della cena, e ora non parli. Che cosa c'è di tanto "serio" che anche il tuo apprendista debba ascoltare insieme a me? Pensi di farcela a raccontarmi tutto prima di mezzanotte?» «Si tratta davvero di una questione seria, Nessa», ribatté pacato l'elfo. «Trattieni per un attimo la tua linguaccia e ascolta. Per favore». Il mago fece una pausa, e... miracolo! Rauntlavon si voltò addirittura per vedere, guadagnandosi uno sguardo quasi divertito dalla Grande Singora... Lady Nuressa fece silenzio, e attese che Iyrik parlasse. Iyriklaunavan batté le palpebre, anch'egli apparentemente sorpreso, e poi cominciò: «Sai che la magia... tutta la magia non basata sull'utilizzo di po-
che specie di oggetti incantati... sta declinando. Gli incantesimi si alterano continuamente in ogni sorta di effetti pericolosi, e alcuni maghi sono nascosti nelle loro torri, incapaci di difendersi contro chi potrebbe tentare di regolare vecchi conti; la magia è impazzita. Se lo sapessero meno persone, direi che questo sarebbe il nostro segreto... il mio e di Rauntlavon... e che tu dovresti mantenerlo. Non ti meraviglierà il fatto che molti maghi abbiano tentato di scoprire il motivo di tale disastro. Io sono uno di quelli». «E ciò mi meraviglia ancor meno», ribatté Nuressa con tono tranquillo. Rauntlavon girò la testa di scatto per contemplare la faccia cupa della padrona; mai l'aveva sentita parlare con tale gentilezza, tanto da suonare quasi... tenera. «Io non ho oggetti da sprecare per sostenere i miei incantesimi», continuò Iyriklaunavan, «perciò il ragazzo... Rauntlavon... è stato il mio baluardo, ha usato i suoi sortilegi per stabilizzare i miei. Ci è persino giunta voce che alcuni maghi... e anche sacerdoti fedeli al Tessuto... credono che Mystra e Azuth abbiano corrotto deliberatamente la magia, per scopi che i mortali non riescono nemmeno a immaginare». «Tu adori i nostri dei della magia?» «Nessa», ribatté calmo Iyrik, «non ho nemmeno un armadio per custodire i miei segreti. Sto tentando d'essere rapido, davvero; limitati ad ascoltare». Nuressa si appoggiò a una delle colonne attorniate di lampade, che sostenevano il soffitto della stanza degli incantesimi, e fece cenno al mago di continuare. Non sembrava nemmeno irritata. «Poco fa stavamo cercando un luogo nella sfera, senza tuttavia averlo ancora evocato», continuò Iyriklaunavan, «quando sentii una cosa, e ne vidi un'altra. Credo che chiunque in Faerûn stesse tentando in quel momento il mio stesso incantesimo, abbia sentito ciò che ho sentito io: l'uso intenzionale e avventato di molti bastoni magici contemporaneamente, in un unico luogo, tutti diretti allo stesso bersaglio». «Intendi dire che i maghi percepiscono qualcosa ogniqualvolta uno colpisce un altro?», chiese Nuressa con voce incredula. «Non mi meraviglia che siate tutti tanto difficili». «No, normalmente non sentiamo tali cose... né abbiamo la sensazione violenta che qualcosa ci colpisca tanto forte da fare esplodere le nostre magie», asserì il maestro di Rauntlavon. «La ragione per cui è accaduto ciò è il bersaglio dell'attacco: l'Eccelso. L'ho visto, in piedi sul fondo di un passaggio con tre maghi mortali, mentre dall'alto pioveva magia desiderosa
di distruggerlo... e la sua attenzione era altrove». «Azuth? Chi è tanto folle da usare magia per tentare di uccidere un dio degli incantesimi?» La Signora sembrò sorpresa. «Purtroppo non ho visto», rispose l'elfo. «Ho visto, tuttavia, che cosa stava guardando Azuth. Una maga fantasma che tentava di uccidere un Eletto di Mystra». «Che cos'è un eletto?», chiese Nessa. «Una sorta di servo degli dei?» «Sì», ribatté truce il mago, «ed era un individuo che probabilmente ricordi. Ripensa a un giorno nel quale fuggimmo da una tomba... una tomba piena di colonne che si riempirono di occhi. Un mago era sospeso sopra di noi, addormentato o intrappolato, e uscì dopo che scappammo. Ti chiese che anno era». «Oh, sììì», mormorò la donna, «e gli risposi». «E grazie a ciò guadagnammo il favore della dea Mystra», le rivelò Iyrik, «la quale consegnò questo castello nelle nostre mani». Lady Nuressa si accigliò. «Pensavo che Amandarn avesse vinto queste terre a dadi con qualche mercante... rischiando tutti i nostri soldi nell'intento», esclamò poi. Rauntlavon rimase in silenzio, non volendo essere espulso dalla stanza proprio in quel momento. Sicuramente quello era un segreto molto più pericoloso di... «Amandarn perse tutto il nostro denaro, Nessa. Folossan quasi lo uccise... e dovettero fuggire quando egli si riprese qualche moneta per comprarsi da mangiare quella stessa notte, e venne colto in flagrante. Si nascosero in un santuario di Mystra, proprio sotto il lenzuolo dell'altare; dormirono in quel luogo, ed entrambi giurano che a farli addormentare fosse stata la magia, poiché avevano poco da bere ed erano eccitati per la fuga e il pericolo. Quando si risvegliarono, tutte le monete erano di nuovo nella borsa di Amandarn... insieme al titolo del castello». La Grande Signora inarcò un sopracciglio e chiese: «E tu credi a quella favola?» «Nessa, ho utilizzato un incantesimo della verità, è accaduto veramente». «Capisco», mormorò Nuressa. «Rauntlavon, sappi che questo è un altro segreto che deve rimanere tra noi; in caso contrario avrai alle costole quattro Signori del Castello, non solo uno». «Sì, Signora», rispose l'apprendista, poi deglutì e guardò entrambi. «Dovrei dirvi una cosa. Se accade qualcosa al Grande Azuth... o alla Divina
Mystra... e la magia inizia a sbriciolarsi, saremo tutti in guai seri». «Ossia?», chiese la donna, accarezzando il pomo della sua lunga spada. Rauntlavon abbassò lo sguardo sulle sue dita... la cui forza favolosa era una delle rocce su cui poggiava il suo mondo... poi guardò nuovamente gli occhi fumosi della Signora. «Credo che dovremmo pregare per Azuth o trovare un modo per aiutarlo. Il castello venne costruito con molta magia», spiegò loro, in preda alla frenesia. «Se gli incantesimi vengono meno, le mura crolleranno... e noi con esse». L'espressione della grande Signora non mutò, e il suo sguardo incontrò quello di Iyriklaunavan. «È vero?» L'elfo si limitò ad annuire. Nuressa lo fissò per un momento, il viso ancora calmo, ma Rauntlavon notò che la sua mano era chiusa attorno all'elsa della spada, tanto forte da avere le nocche bianche. Poi la donna si rivolse all'apprendista. «Bene, Rauntlavon... hai un piano per evitale tale sorte?» Il ragazzo allargò le mani vuote, desiderando fortemente d'essere un eroe, e di vedere nei suoi occhi amore per lui... desiderando di poterle offrire di più della semplice disperazione. «No, Nuressa», rispose tranquillo, con sua stessa sorpresa. «Sono solo un apprendista. Ma morirei per voi, se me lo chiedeste». Con gioia crudele estrasse la spada dalla maga ondeggiante, per colpire il Grande Nemico che aveva inseguito per anni, l'umano avido e puzzolente che aveva osato macchiare Cormanthyr con la sua presenza e condannare la Casata degli Starym; ora impotente davanti a lui, in grado di muovere solo gli occhi... per vedere da dove gli giungeva la morte. «Sappi, mentre muori, verme umano», sibilò Ilbyn, «che gli Starym vendi...» E quelle furono le sue ultime parole, poiché la magia che la donna aveva assorbito dentro di sé venne rilasciata sotto forma di energia pura, che consumò la spada che l'aveva scatenata e l'elfo che teneva quella spada, il tutto con un'ondata violenta che si infranse sulla parete più lontana della caverna. L'onda d'energia proseguì fino a trovare la luce del giorno su una collina vicina, abbattendo alberi e sgretolando rocce. Saeraede gemette tra le fiamme fuoriuscenti dalla sua bocca, e si staccò da Elminster, mentre le sue nebbie si riducevano a una nuvola inerte e i suoi occhi disperati lo guardarono imploranti per un breve istante, prima
che si riducesse in polvere turbinante e scomparisse. El stava ancora barcollando e tossendo, le mani intorno alla gola devastata, quando Azuth avanzò e sferrò una magia, il cui bagliore, di un verde bizzarro, sommerse le rune e la polvere che era stata Saeraede. Come un'onda tranquilla che rotola su una spiaggia, l'incantesimo del dio si estese fino alla fessura in cui si era nascosto Ilbryn e raggiunse ogni altro angolo della caverna semi distrutta. Poi tremolò, assunse una splendente sfumatura dorata, che fece ammutolire Beldrune, e si levò dal pavimento, lasciando dietro di sé un vuoto purificato. Azuth avanzò nella magia crescente senza fermarsi, afferrò Elminster per le spalle, e insieme si allontanarono, per svanire nel nulla... lasciando tre vecchi maghi con la bocca spalancata, accanto a un trono distrutto, illuminato da un raggio di luce solare, in una ex caverna situata in una foresta improvvisamente silenziosa e vuota. I tre fecero qualche passo verso il luogo in cui tanta morte era stata inferta e tanta magia era stata operata - videro che le rune erano diventate sette fosse di pietra frantumata, disposte ad arco - e si fermarono, scambiandosi alcune occhiate. «Se ne sono andati tutti, eh?», esclamò d'un tratto Beldrune. «È tutto finito... la furia, la lotta, e nel giro di pochi istanti... tutto terminato. E noi qui, sedotti e abbandonati!» Tabarast delle Tre Maledizioni Cantate sollevò elegante le folte sopracciglia bianche e domandò: «Ti aspettavi che le cose andassero diversamente, questa volta?» «Siamo stati degni della protezione personale di un dio», affermò Caladaster quasi sussurrando. «Ha camminato con noi e ci ha protetti quando eravamo in pericolo... un pericolo che per lui non era tale, altrimenti non sarebbe mai stato in grado di gestire in quel modo la sfera di fuoco». «È stato incredibile, non è vero?», ridacchiò Beldrune. «Ah, non vedo l'ora di raccontare ai miei allievi...». «Credo sia questa la ragione per cui l'ha fatto», asserì Tabarast. «Già, siamo stati onorati... e siamo ancora vivi, a differenza di quella maga spettrale e dell'elfo... questo è un successo, altro che storie!» Si guardarono nuovamente negli occhi, e Beldrune si grattò il mento, si schiarì la voce ed esclamò: «Sì... ahem. Bene. Penso che ora possiamo uscire, da quella parte, dove il fuoco ha squarciato la parete della caverna». «Non voglio andarmene... non ancora», ribatté Caladaster, assestando un calcio al margine incrinato di una delle buche dove prima c'era una runa.
«Non sono mai stato in compagnia di individui realmente potenti, in un teatro di eventi importanti... e credo non mi capiterà mai più. Qui dentro mi sento... vivo». Tabarast abbracciò goffamente Caladaster, e mormorò: «So come ti senti. Ma dobbiamo andarcene prima che faccia buio, e per allora desidero un boccale di birra fra le mani». «Molti boccali», assentì Beldrune. «Ma in un luogo quieto in cui sederci a riflettere, solo noi tre», aggiunse Tabarast, con tono quasi feroce. «Non voglio raccontare a un branco di contadini ubriachi di come questa notte abbiamo camminato fianco a fianco con un dio, solo per farci prendere in giro». «Già», esclamò Caladaster, e si voltò. Beldrune fissò la sua schiena. «Dove stai andando?» Il vecchio mago raggiunse il fondo del pozzo, coperto dai detriti, e scrutò fra le pietre. «Io ero proprio qui», mormorò, «e Azuth era... laggiù». Nonostante la sua voce suonasse ferma, persino un tantino burbera, le guance gli si bagnarono improvvisamente di lacrime. «Ci ha protetti», sussurrò. «Ha respinto più magia di quanta non ne abbia vista scagliare in tutta la mia vita, magia che ha polverizzato le rocce... per noi, affinché potessimo vivere». «Gli dei lo devono fare, capisci», gli spiegò Beldrune. «Qualcuno deve vedere che cosa fanno e vivere per raccontarlo agli altri. A che cosa serve altrimenti tanto potere?» Caladaster lo guardò con disprezzo, gli occhi furiosi, e si allontanò da Beldrune. «Osi ridere degli dei...» «Sì», gli rispose semplicemente Beldrune. «A che cosa serve altrimenti essere umani?» Caladaster lo fissò, la bocca aperta, per un tempo che sembrò un'eternità. Poi il vecchio mago deglutì, scosse il capo, e ridacchiò lievemente. «Non ho mai guardato le cose da quel punto di vista», affermò, quasi con ammirazione. «Ridete spesso di loro?» «Da una a tre volte ogni dieci giorni», rispose solenne Beldrune. «Tre volte nei giorni sacri, se qualcuno ci ricorda quando cadono». «Spostati, sacro canzonatore», gli ordinò improvvisamente Tabarast. Beldrune sollevò un sopracciglio con aria interrogativa, ma il vecchio amico si limitò a rifargli il gesto con la mano mentre s'avvicinava, poi aggiunse: «Sposta quegli zoccoli che ti ritrovi al posto dei piedi!» «Va bene», rispose affabile il mago, mentre ubbidiva, «a patto che tu mi
dica perché». Tabarast si chinò tra le macerie e iniziò a tirare qualcosa: un angolo di tessuto luminoso nascosto sotto le pietre. «Gemme e raffinata stoffa scarlatta?», si domandò. «Che cosa abbiamo qui?» Le sue vecchie mani rugose stavano già spostando le pietre per liberare il vestito con impensabile rapidità, quando Beldrune, con un grugnito, s'inginocchiò a sua volta e si mise ad aiutarlo. Caladaster li osservò, preoccupato che, in qualche modo, la maga spettrale potesse levarsi da quegli stracci e minacciarli ancora una volta. Beldrune brontolò il suo apprezzamento quando la tunica rossa, con draghi adorni di gemme su entrambi i fianchi, venne estratta completamente... ma subito la passò a Caladaster, poiché aveva intravisto un altro pezzo di stoffa: «C'è dell'altro!» L'audace tunica nera venne accolta con un grugnito ancor più forte, ma quando apparvero le gale blu e Tabarast frugò tra le pietre sottostanti per assicurarsi che quei tre abiti fossero tutto ciò che c'era da recuperare, i grugniti di Beldrune si trasformarono in sussurri di curiosità. «Dal momento che Azuth non li indossava, devono essere della maga», osservò. Tabarast e Caladaster si scambiarono un'occhiata. «Dal momento che siamo più vecchi e più saggi di te», ribatté l'amico gentilmente, «questo l'avevamo già immaginato». In tutta risposta Beldrune cacciò fuori la lingua e sollevò la tunica blu per osservarla meglio. «Pensate che possano contenere poteri?», chiese Tabarast con l'abito nero penzolante dalle sue dita, mentre Caladaster soffocava un sorriso sciocco. «Hmmph. Potere o no, io non ho intenzione d'indossare quest'affare senza schiena», ribatté Beldrune, rivoltando tra le mani le gale blu. «Troppo provocante per i miei gusti...» 20. MAI TANTI INDIVIDUI SONO STATI TANTO IN DEBITO Mai nella storia di questo giusto regno tanti individui sono stati tanto debitori nei confronti del re. ha riscossione non si farà attendere... e il prezzo saranno le vite dei debitori, in una guerra straniera. Egli la chiamerà la Crociata o con un nome altrettanto altisonante...
ma, per coloro che muoiono con i colori di Cormyr, nulla cambierebbe se la chiamasse Incursione e Razzia, oppure Pattuglia di Tagliateste. È tipico dei re riscuotere nel sangue. Solo gli arcimaghi possono ottenere tali pagamenti in maniera più rapida e più incauta. Albaertin di Marsember Da Una piccola ma sediziosa raccolta di poemi popolari Pubblicata nell'Anno del Serpente «È il tempo del giudizio», risuonò una voce profonda nella testa di Elminster. «Fai attenzione a dare le risposte esatte». L'ultimo principe di Athalantar era in certo qual modo consapevole che Azuth se ne era andato, ed egli era solo nel flusso di scintille blu - il flusso che pensava fosse Azuth... che lo faceva turbinare sempre più in basso - in un luogo oscuro, un freddo pavimento di pietra sotto le ginocchia nude. Era tutto nudo, la tunica, i pugnali, e numerosi altri piccoli oggetti magici spariti nel turbinio. «Derubato da un dio», mormorò, ridacchiando. La sua ilarità non suscitò alcuna eco, ma ciò che accadde mentre si smorzava gli fece comprendere di essere sotto terra... in un luogo non molto ampio. Il suo buon umore scomparve subito dopo la risata; Elminster si sentì le interiora... devastate. Era umido, e il freddo cominciava a insinuarglisi nel corpo, ma El non si alzò. Si sentiva debole, stava male, e... quando cercò di evocare alcuni incantesimi... tutti i suoi poteri di Eletto e di mago sembravano svaniti. Era nuovamente un semplice uomo, inginocchiato in una stanza buia; sapeva che avrebbe dovuto disperarsi, ma in realtà si sentiva in pace. Aveva vissuto molti più anni della maggior parte degli umani e si era comportato abbastanza bene... per ciò che poteva giudicare, e secondo i suoi standard. Se era tempo che la morte lo cogliesse, che agisse pure. Vi erano soltanto i soliti dubbi: era il suo momento? Che cosa avrebbe dovuto fare? Che cosa stava succedendo? Chi si sarebbe fermato e gli avrebbe fornito le risposte ai suoi interrogativi... e quando? In tutta la sua vita vi era stata una sola fonte di soccorso e di guida... la dea che l'aveva nominato Eletto. «Oh, Mystra, sei stata la mia amante, mia madre, la mia guida spirituale, la mia salvatrice, e la mia insegnante», esclamò Elminster ad alta voce. «Per favore, ascoltami ora». Non aveva davvero intenzione di pregare... o forse sì, ma non voleva ammetterlo a se stesso. «È stato un onore servirti», continuò. «Mi hai dato
una vita splendida, per la quale... com'è tipico di ogni uomo... non ti ho ancora ringraziato abbastanza. Ora sono lieto di affrontare qualsiasi sorte consideri adatta per me, tuttavia... com'è tipico dei maghi... vorrei dirti prima alcune cose». Ridacchiò, e sollevò una mano. «Risparmia i tuoi incantesimi e la tua furia», esclamò. «Sono solo tre cose». Elminster fece un respiro profondo. «La prima cosa: grazie di avermi dato la vita che ho trascorso». Si stava, per caso, muovendo qualcosa nell'oscurità oltre la quale i suoi occhi non vedevano chiaramente? Il mago alzò le spalle. E anche se fosse? Solo, nudo, in ginocchio senza poteri magici; se qualcosa si fosse avvicinato, ecco come l'avrebbe accolto, e che cosa avrebbe avuto da offrirgli. «La seconda cosa», annunciò El con voce tranquilla. «Ciò che desidero realmente è trascorrere i miei giorni quale tuo Eletto». Quelle parole echeggiarono, e non vennero attutite dall'oscurità come le precedenti; El si accigliò, poi scrollò di nuovo le spalle e concluse: «La terza cosa e la più importante: Lady, io ti amo». A quelle parole, le tenebre rigettarono qualcosa che si mosse e si profilò fin troppo chiaramente. Qualcosa di grande, di mostruoso, irto di tentacoli, scivolò lentamente verso di lui. «Era un dio?», chiese Vaelam, pallido in volto. Scrollate di spalle e fiato corto furono le prime risposte che ottenne dai colleghi, mentre giacevano ansimanti nell'avvallamento. Graffiati e scalfiti dai rami degli alberi durante la fuga e completamente senza fiato, solo ora si stavano liberando del pesante mantello del terrore. «Dio o non dio», mormorò Femter, «chiunque possa resistere a tutto ciò che gli abbiamo scagliato in testa... e riesca a ingoiare sfere di fuoco, per amor di Shar!... non vorrei averlo come nemico in una battaglia». «Per amor di Shar, davvero, Terribile Fratello», esclamò qualcuno con tono affabile all'estremità dell'avvallamento, dove le felci crescevano alte. Cinque teste si voltarono di scatto, gli occhi sbarrati per lo spavento... ... i sacerdoti rimasero a bocca spalancata, deglutirono rumorosamente, e assunsero l'espressione di topi in trappola. La donna mascherata dal mantello nero, sospesa nell'aria poco sopra di loro, era fin troppo familiare. «Poiché vi è una Fiamma Nera nell'Oscuri-
tà», mormorò la Somma Sacerdotessa degli Accoliti, con un saluto formale. «Ed essa ci riscalda, e il suo sacro nome è Shar», risposero, riluttanti, in coro i cinque. «Siete lontani dalla Casa della Sacra Notte, Terribili Fratelli, e non siete avvezzi ai modi dei maghi... troppo propensi a girovagare, e avete urgente bisogno di una guida», osservò la Terribile Sorella Klalaera, con voce insinuante. «Perciò la nostra cara e sollecita Darklady Avroana ha inviato la Casa della Sacra Notte... a voi». «Salve, Terribile Sorella», esclamò Elryn riuscendo a dissimulare il suo timore. «Che notizie ci porti?» «Notizie del profondo dispiacere della Darklady per la tua direzione, prode Elryn», rispose quasi con giovialità la sacerdotessa, i suoi occhi due selci contornate da scintille. «Vi ordina di smettere di bighellonare per Faerûn a piacimento e di ritornare nel luogo da cui siete appena fuggiti. Laggiù giace un immenso potere... e Shar desidera che ce ne impossessiamo. So che non volete deludere la Sacra Dea... o la Darklady Avroana. Perciò fate dietro front e tornate nella caverna, per servire Shar scrupolosamente, come so che siete in grado di fare. Io vi accompagnerò, per impartirvi la volontà della Darklady mentre tornate alla missione per la quale siete stati mandati qui. Ora alzatevi, tutti!» «Tornare?», ringhiò Femter, portando rapida una mano a una delle bacchette che aveva ancora alla cintura. «Per duellare con un dio? Sei matta, Klalaera?» I colleghi osservarono in silenzio, attoniti, quando qualcosa di invisibile balenò tra la Somma Sacerdotessa, comodamente sdraiata, la testa appoggiata su una mano, e Femter Deldrannus, la bacchetta magica in mano, non del tutto pronta a colpire. Il sacerdote urlò, scagliò via la bacchetta, si afferrò la testa con entrambe le mani, e avanzò con gambe tremanti. I compagni lo videro dimenarsi in preda a spasmi e a convulsioni, e balbettare a lungo prima che Klalaera sollevasse una mano languida e la serrasse con gesto casuale... poi Femter collassò a metà frase, accasciandosi in un mucchio di ossa scomposte come un burattino a cui sono stati tagliati i fili. «Posso fare lo stesso a ognuno di voi... o a tutti voi contemporaneamente», affermò la Somma Sacerdotessa con voce strascicata. «Ora alzatevi, e tornate. Temete la morte per mano di questo "dio" di cui farfugliate... bene,
io posso assicurarvi una morte certa, contro una probabile. Qualcuno vorrebbe inginocchiarsi qui e morire adesso... in agonia, e in disgrazia di Shar? O preferite mostrare alla Fiamma dell'Oscurità un po' di quell'obbedienza che si aspetta da coloro che professano la sua fede?» Mentre pronunciava tali parole, la Terribile Sorella Klalaera discese lentamente a terra, estraendo dalla cintura la famigerata frusta uncinata, con la quale impartiva disciplina agli accoliti sotto il suo comando. I sacerdoti voltarono riluttanti la testa verso le rovine che avevano abbandonato tanto precipitosamente, e iniziarono a trascinarsi fuori dall'avvallamento... al ritmo delle frustate che la donna stava infliggendo alla schiena indifesa dell'immobile Femter. Giunti al margine del fosso, i quattro si voltarono come per un tacito accordo... in tempo per vedere Femter, la testa penzolante e gli occhi vitrei, alzarsi in piedi nella morsa di un incantesimo malvagio e barcollare dietro di loro, la schiena sbrindellata e piena d'insetti attirati dal sangue, e gli stivali che lasciavano "impronte di sangue a ogni passo. Klalaera scrollò gocce di sangue dalla frusta satura e sorrise loro debolmente. «Andate avanti», ordinò, «vi raggiungo subito». Nonostante la minaccia fluttuante della Somma Sacerdotessa dietro di loro, i cinque rallentarono prudenti mentre salivano l'ultima cresta prima delle rovine. Muoversi alla cieca avrebbe potuto significare una morte rapida... e un eventuale ritardo avrebbe potuto condurli in una caverna ormai deserta, pronta per essere saccheggiata. «Attenzione», mormorò Elryn, quando udì lo scricchiolio della pelle indicante che Sorella Klalaera si stava accingendo a colpire la schiena di qualcuno con la frusta... probabilmente la sua. «Non c'è bisogno di agire da soli, se lavoriamo insieme, e...» «Evita i tuoi discorsetti», sbottò la donna. «Elryn chiudi il becco e conduci! Non vi è nulla tra noi e le rovine, tranne un paio di ceppi, un sacco di sterpaglie, le vostre paure, e...» «Noi», mormorò una voce musicale; una voce elfa. Una figura si alzò dall'altra parte del ponte, una spada di legno tra le mani. «Una passeggiata nei boschi, di questi tempi, riserva tanti pericoli», aggiunse Starsunder. «Il mio amico qui, per esempio». Il mago umano Umbregard uscì dal suo nascondiglio e offrì ai sacerdoti un breve sorriso, una bacchetta in entrambe le mani. «Uccideteli!», sbottò la Somma Sacerdotessa.
«Oh, bene», sospirò teatralmente l'elfo, «se insisti». La magia scaturì dal suo corpo come un'ondata violenta, che spazzò via i fulmini scagliati dalle bacchette, e le vite di Hrelgrath e dello stordito Vaelam. Femter urlò e fuggì alla cieca fra gli alberi... finché la magia invisibile di Klalaera non lo fece arrestare bruscamente e non lo costrinse a voltarsi; gemente e riluttante, il mago venne trascinato sul campo di battaglia. Raggi di luce fendevano l'aria mentre Elryn e Daluth cercavano di colpire il mago elfo, e Umbregard usava le sue bacchette per disturbare i loro attacchi. Daluth gridò di dolore quando un raggio vagante gli lacerò la spalla, bruciando in un istante carne, tendini e vestiti. Indietreggiò, vacillando, di qualche passo, quasi nel medesimo momento in cui Umbregard cadde a terra con un grugnito e una pioggia di scintille, lasciando l'elfo da solo contro i Sacerdoti di Shar. Klalaera sfoggiò il più freddo e il più crudele dei sorrisi, quando l'incantesimo protettivo di Starsunder si oscurò, tremolò, e cominciò a diminuire sotto i fulmini delle bacchette dei falsi maghi. «Non so chi sei, elfo», esclamò la donna, «o perché hai scelto di metterti sulla nostra strada... ma ti assicuro che tale decisione ti sarà fatale. Posso ucciderti subito con un incantesimo, ma prima vorrei delle risposte. Che luogo è questo? Quali magie si nascondono qui da renderlo tanto importante da rischiare la tua vita?» «L'unica cosa degli umani che mi rende più perplesso della loro abitudine di suddividere Faerûn in "luoghi" separati, l'uno senza connessione con l'altro», rispose Starsunder, con il tono tranquillo di chi sta conversando con un vecchio amico davanti a un bicchiere di vino, «è il loro bisogno di gongolare, di minacciare, e di fare i gradassi in battaglia. Se puoi uccidermi, fallo, e risparmia le mie orecchie. Altrimenti...» Senza terminare la frase, spiccò un balzo, lasciando i sacerdoti a devastare felci e rovi al suo posto, e trasformò il suo scudo in una rete di forza letale che tentò di afferrare Klalaera. La donna si contorse in aria, singhiozzando e ringhiando, finché il suo disperato vincolo mentale non attirò a sé un Femter dagli occhi sgranati. Poi, mentre l'attacco di Starsunder continuava, trasferì le sue difese all'impotente sacerdote e quindi le annullò: un flusso mortale trasformò quest'ultimo in una massa cieca e barcollante di sangue e ossa. Le articolazioni di Femter Deldrannus vennero meno, ed egli si accasciò nell'ultimo ed eterno abbraccio con la terra, ignorato da tutti. Non ebbe
nemmeno il tempo di gridare. Elryn emise un ruggito vittorioso quando riuscì finalmente a colpire Starsunder, e lo fece vorticare in mezzo a uno sciame di dardi pungenti. Umbregard cercò di alzarsi con tutte le sue forze, il volto teso per il dolore mentre guardava l'amico sopraffatto. Daluth puntò la bacchetta a distanza ravvicinata contro il mago umano, attraverso i corpi fumanti dei compagni caduti, e sorrise lentamente all'uomo inorridito. Poi si voltò di scatto e colpì Sorella Klalaera con tutta la potenza della sua bacchetta. Questa si sbriciolò nella sua mano, mentre la frusta, che tutti gli adepti della Casa della Sacra Notte tanto odiavano e temevano, avvampò da estremità a estremità e venne scagliata in alto tra gli alberi, da un corpo fumante, che si accasciò in preda agli spasmi. D'un tratto quel corpo si risollevò, circondato da fiamme nere scoppiettanti, e le labbra che erano state di Klalaera tuonarono, «Daluth, morirai per questo!» La voce era strana e rimbombante, ma i due sacerdoti rimasti la riconobbero immediatamente, tanto che Elryn voltò la testa di scatto e smise di colpire il corpo annerito e in preda alle convulsioni, del mago elfo. «Sei espulso dai favori di Shar... muori falso sacerdote!», tuonò la Darklady Avroana, attraverso labbra non sue. Il dardo di fuoco nero che il corpo della Somma Sacerdotessa vomitò in quel momento spazzò via Daluth, un vecchio e possente albero dietro di lui, e un tronco che sovrastava entrambi, scuotendo la foresta tutt'intorno e scagliando Elryn a terra. L'ultimo sacerdote stava ancora lottando per rimettersi in piedi quando il corpo sospeso di Klalaera, ancora avvolto nelle fiamme nere, fluttuò verso di lui. «Ora sbarazziamoci dei maghi ficcanaso, sia elfi sia umani, e...» Una sfera di fuoco purpureo scaturì dal nulla e squarciò quel poco che era rimasto della Somma Sacerdotessa, disseminando dappertutto brandelli di pelle nera. «Ah, sciocca, nessuno ci libererà da tali cose», affermò una voce nuova, rivolgendosi alla sfera di fuoco nero sospesa dov'era prima Klalaera. Elryn alzò lo sguardo e vide un umano, un medaglione fumante ormai ridotto in polvere nella sua mano, e un mantello nero avvolto intorno alle spalle. «Faerûn avrà sempre i suoi maghi ficcanaso», continuò il nuovo venuto con tono di cupa soddisfazione, osservando il groviglio morente di
fiamme. «Me, per esempio». Elryn si mise a correre verso il nemico, agitando ferocemente la mazza che teneva alla cintura, e spiccò un balzo in aria per aggiungere al colpo che avrebbe inferto tutta la potenza del suo peso. Il bersaglio, tuttavia, non rimase ad attenderlo: aggirò l'ultimo sacerdote con scatto felino e, nel contempo, gli infilò un coltello in gola. «Tenthar Taerhamoos, Arcimago della Torre di Phoenix, al tuo servizio... in eterno, a quanto pare», esclamò poi con tono gentile. Soffocato da una sensazione di freddo in gola, che non sarebbe svanita mentre il piacevole mondo di alberi e di ombre screziate si oscurava intorno a lui, Elryn scoprì di non avere i mezzi per rispondere. Fiamme purpuree esplosero sull'Altare di Shar in un turbine improvviso, bruciacchiando il calice di vino nero ivi sospeso. L'accolito prescelto prese il coltello incandescente che doveva essere spento in esso e continuò, fervente, a pregare, non sapendo che quell'esplosione non faceva parte del rituale sacro. Era tanto concentrato nel suo canto che non vide la Darklady barcollare e crollare oltre lui sopra l'altare, le membra avvolte da fiamme rosse. Il vino sibilò e borbottò sotto il suo corpo, mentre la donna si dimenava, la faccia rivolta al cerchio nero, bordato di porpora, che adornava la volta del soffitto. Avroana stava ancora contorcendosi dal dolore e cercando di riprendere fiato per urlare quando la preghiera terminò con le ultime parole trionfali... e il coltello si abbassò. Con entrambe le mani l'accolito accompagnò la lama consacrata, e disseminata di rune pulsanti, giù, giù, nel cuore del calice, nel centro del... petto della Darklady. I loro sguardi s'incontrarono mentre la lama penetrava fino all'elsa. La donna ebbe il tempo di vedere una gioia immensa affiorare negli occhi dell'accolito, che poco dopo, quando capì lo sbaglio, si tramutò in orrore. Poi il mondo attorno a lei si oscurò per sempre. Ansimante, Starsunder riuscì a sollevarsi su un braccio, il volto abbruttito dal dolore. Grosse piaghe gli ricoprivano il fianco. Umbregard accorse zoppicando al suo fianco, cercando di non guardare l'Arcimago della Torre di Phoenix, suo nemico da molti anni. La paura di ciò che Tenthar avrebbe potuto fare, in piedi a poca distanza dietro di lui, era scritta chiaramente sul volto dell'uomo che si chinò accan-
to all'elfo e pronunciò l'incantesimo guaritore più potente che conosceva. Non era un esperto, ma anche uno sciocco avrebbe capito che a Starsunder sarebbe, altrimenti, rimasto poco da vivere. Il mago elfo rabbrividì fra le braccia dell'umano, sembrò cedere per un istante, poi ricominciò a respirare meno faticosamente, gli occhi semichiusi. Il fianco appariva uguale a prima, ma gli organi solo parzialmente nascosti sotto la terribile bruciatura non erano più raggrinziti, né fumanti. Tuttavia... Una mano apparve da dietro la spalla di Umbregard, le lunghe dita illuminate da magia guaritrice, e toccò il fianco di Starsunder. Il bagliore avvampò, l'elfo rabbrividì, e gli ultimi frammenti di qualcosa che era stato appeso a una catena al collo dell'arcimago si polverizzò completamente. Tenthar si alzò frettolosamente e indietreggiò, portando la mano alla bacchetta magica. Umbregard sollevò lo sguardo alla bacchetta, e chiese esitante al suo proprietario, «Ci sarà violenza tra noi?» Tenthar scosse il capo. «Quand'è in gioco l'intera Faerûn, i rancori personali devono esser messi da parte», rispose, «sono cresciuto abbastanza da dimenticarli per sempre». Dopodiché, gli tese la mano e aggiunse: «E tu?» Elminster s'inginocchiò sulla pietra fredda mentre il viscido mostro si faceva sempre più vicino. Quasi con indolenza un lungo tentacolo chiazzato, di color blu-marrone, gli si avvinghiò intorno alla gola. Brividi di paura gli percorsero la schiena, ed El iniziò a tremare mentre il tentacolo stringeva quasi amorevolmente. «Mystra», sussurrò nell'oscurità, «Io...» Il ricordo della dea fra le sue braccia, mentre insieme fluttuavano nell'aria, emerse, allora, spontaneo nella sua mente; facendo appello all'orgoglio che esso aveva risvegliato in lui, El riuscì a vincere le sue paure. «Se devo morire sotto questi tentacoli, che sia. Ho vissuto bene, e molto più a lungo di tanti». Mentre i suoi timori si dissipavano, altrettanto fece il mostro viscido; rimase avvinghiato a lui sotto forma di fumo per qualche istante, poi una luce improvvisa lo spazzò via. El voltò la testa per vedere da dove provenisse... e rimase sbalordito. Ciò che credeva essere solo un muro di pietra spoglio, era ora un'enorme arcata aperta, dietro la quale si estendeva una grande stanza inondata di
monete d'oro scintillanti, piena di preziose statue e di barili di gemme. Elminster guardò tutto quello splendore e si limitò a scrollare le spalle. Non fece in tempo ad abbassarle che la stanza del tesoro si oscurò, e tutte le sue ricchezze si dissolsero... dopodiché una tromba suonò forte alle sue spalle. El si voltò e vide un'altra sala enorme, caldamente illuminata. Non conteneva tesori, bensì molte persone... reali, a giudicare dagli abiti, dalle corone, e dai volti fieri. Re umani e imperatori dalla pelle squamata stavano gomito a gomito con gente comune... tutti erano ansiosi di deporre le loro corone e i loro scettri ai suoi piedi, mormorando, «Sottometto me stesso e tutte le mie terre a voi, Grande Elminster». Le principesse si spogliarono delle tuniche ingemmate, e offrendogli i propri abiti e se stesse, gli si prostrarono davanti e gli afferrarono le caviglie. El sentì le loro dita delicate sul suo corpo, fissò i loro occhi adoranti e bramosi, poi serrò i suoi per un istante ed evocò la forza di volontà di cui necessitava. Quando li riaprì, un'eternità più tardi, fu per affermare risoluto: «Le mie scuse, e non intendo offendervi col mio rifiuto, ma... no. Non posso accettare voi, né tutto il resto». D'un tratto la scena scomparve nell'oscurità, e, alla sua destra, comparve un'altra luce, questa volta una luce solare. Immeira di Buckralam's Starn si stava avvicinando attraverso una stanza luminosa, le braccia tese e quel sorriso appassionato sul volto, per offrirsi a Elminster. A mano a mano che avanzava, pronunciando il suo nome solo con le labbra, la ragazza si aprì il corpino della tunica color blu scuro... ed El deglutì vistosamente quando i ricordi lo assalirono in un impeto caldo di nostalgia. Il sole entrò dalle finestre di Fox Tower e illuminò le pergamene che Immeira stava maneggiando. Per tutti gli dei, chi ci capiva qualcosa? Sospirò e si appoggiò allo schienale della sedia... poi, in una sorta di sogno, si ritrovò ad attraversare la stanza, verso l'angolo più buio. A metà strada le sue dita iniziarono a slacciare i cordoncini della sua tunica, come se si stesse offrendo a... al nulla. Immeira si accigliò. «Perché...?», mormorò, poi rabbrividì violentemente, si girò, e riallacciò la veste con dita tremanti. Quand'ebbe terminato strinse i pugni, e si guardò attorno nella stanza deserta, la faccia pallida come un lenzuolo. «Wanlorn», sussurrò. «Elminster? Hai bisogno di me?»
Nessuna risposta. Stava parlando da sola, spinta forse dalla sua immaginazione. Irritata, tornò alla sedia... ma si arrestò bruscamente, colta dalla sensazione di essere osservata, subito seguita da un sentimento di grande pace e calore. Immeira si ritrovò a sorridere alla stanza deserta, contenta come non mai; con viso raggiante si sedette, e sospirò. La luce screziata del sole ondeggiò sulle pergamene, e la ragazza sorrise al ricordo di un uomo magro, dal naso adunco che salvò Starn mentre lei osservava. Immeira sospirò per l'ennesima volta, gettò il capo all'indietro per togliersi i capelli dagli occhi, e tornò al suo lavoro per decidete, chi, a Starn, avrebbe dovuto piantare che cosa, in modo che tutti potessero avere cibo a sufficienza per l'inverno. Il suo calore, la sua passione, la sua speranza, e la sua gioia... Elminster protese le braccia verso Immeira, con un ampio sorriso sul volto... un sorriso che scomparve quando fu colto da un pensiero improvviso: la giovane era forse una ricompensa, segnava forse la fine del suo servizio a Mystra? Il mago abbassò le braccia e gridò nell'oscurità; «No. Tempo fa feci la mia scelta... decisi di percorrere la strada lunga, quella più buia, di affrontare il pericolo, l'avventura, e la morte. Non posso ritirarmi ora, poiché come io ho bisogno di Mystra, Mystra ha bisogno di me». A quelle parole, Immeira e la stanza screziata dal sole dietro di lei svanirono in granelli di luce, che si inabissarono nel grande vuoto scuro in cui era sospeso. D'un tratto una nuova luce si accese alla sua destra. El si voltò, e si ritrovò a guardare in una lunga stanza fiancheggiata da scaffali, alti fino al soffitto. Granelli di polvere illuminati dal sole erano sospesi nell'aria, e attraverso il loro splendore il mago poté vedere che le mensole erano stipate di libri d'incantesimi. Nastri colorati sporgevano da alcuni; altri ardevano di rune misteriose. Una poltrona dall'aspetto molto comodo, uno sgabello per i piedi, e un comodino sommerso da una pigna di libri ammiccavano nell'estremità destra della biblioteca; El fece un passo avanti per osservarli meglio e si ritrovò a vagare bramoso nella stanza. Incantesimi di Athalantar, si leggeva a chiare lettere sul dorso di un libro; il principe tese una mano e la lasciò ricadere lungo il fianco, mormorando: «No. Mi piange il cuore a rifiutare tale conoscenza, ma... vogliamo mettere il divertimento di trovare nuova magia, di indovinare le frasi, e di fare esperimenti?»
La stanza non piombò nell'oscurità come avevano fatto le precedenti apparizioni; El guardò ancora una volta quei libri, più numerosi di quanti non avrebbe sperato di collezionare in un secolo di ricerche, e deglutì. Poi, come in un sogno, si recò allo scaffale più vicino, allungando la mano verso un volume particolarmente spesso, dal titolo Compendio di incantesimi Netheresi di Galagard. A pochi centimetri dal libro, El ritrasse le dita, e ringhiò: «No!» Nell'eco di quell'esclamazione il suo mondo divenne nuovamente scuro e vuoto, la stanza polverosa svanì in un istante, e si ritrovò nelle tenebre, ancora una volta solo. Dall'oscurità vellutata apparve un'altra luce, che divenne un uomo con una tunica decorata, dal collo alto, in piedi su un pavimento di pietra, con un bastone incantato in mano. L'uomo stava fissando torvo una donna morta, sdraiata scompostamente sulla pietra davanti a lui, fili di fumo si levavano dal suo corpo, un grido di paura per sempre fissato sul suo volto. «No», affermò l'uomo cautamente. «Basta. Ho scoperto che essere "il Primo degli Eletti" è diventato un vanto vuoto. Trova un altro folle che sia tuo schiavo per secoli, lady. Tutti coloro che ho amato... tutti coloro che ho conosciuto... sono morti, il mio lavoro è spazzato via da ogni generazione di avidi maghi, la gloria di Faerûn ora non è che una pallida ombra rispetto a quella della mia gioventù... e soprattutto, sono... dannatamente... stanco...» L'uomo ruppe il bastone con un improvviso impeto di forza; una luce blu avvampò dalle due estremità spezzate, poi ci fu una violenta esplosione di magia. L'Eletto, disperato, si conficcò allora un'asta rotta e appuntita nel petto, gettò la testa all'indietro in un grido silenzioso... e scomparve nella polvere, che, d'un tratto, divenne accecante. El distolse lo sguardo dal bagliore... solo per trovarsi specchiato in miniatura in un'altra direzione, in una piccola sfera magica sulla quale era chino un uomo calvo con una veste rossa. L'uomo agitò un pugno trionfante per ciò che aveva visto nelle profondità del cristallo, e sibilò: «Sì! Sì! Ora sono il Primo degli Eletti di Mystra... e se pensavano che Elthaeris fosse prepotente, impareranno a inginocchiarsi e a tremare di paura sotto lo scettro magico di Uirkymbrand! Hahahaha! I deboli dovrebbero uccidersi, e cedere il potere a qualcuno più adatto a detenerlo... a me!» Quell'urlo selvaggio stava ancora risuonando nelle orecchie di Elminster quando la scena scomparve, e, accanto all'ultimo principe di Athalantar, apparve un anello di luce, nel quale fluttuava un pugnale... quando ebbe ri-
conosciuto la sua arma, essa si sollevò lentamente e avvicinò l'elsa alla sua mano. El lo osservò, sorrise, e scosse il capo. «No. È una strada che non prenderò mai», affermò. Il pugnale svanì... e riapparve rapidamente alla sinistra di Elminster, nella mano di un uomo con una tunica, di schiena, che subito lo conficcò nel dorso di un altro uomo. La vittima s'irrigidì, dalla ferita fuoriuscì un bagliore blu, e la lama del coltello assassino avvampò in una fiamma del medesimo colore, che la consumò rapidamente. L'uomo morente si voltò, seguito da una scia di minuscole stelle, ed El vide che era Azuth. Il volto contorto dal dolore, il dio artigliò con mani nude il viso dell'uomo che l'aveva accoltellato... e il bagliore fuoriuscente dal suo corpo gli mostrò il volto dell'assassino... Elminster. «No!», urlò il principe, cercando di scacciare la visione con le mani. «Via! Viaaa!» Le due figure lottarono al centro di una nuvola di stelle blu, sempre più grande, ignari di lui. «Tali ambizioni non sono mie», ringhiò El, «e non lo saranno mai, se Mystra lo vorrà. Sono contento di percorrere Faerûn, e lo conosco più di quanto non conosca i profondi misteri... perciò come potrei davvero apprezzare l'uno senza gli altri?» Il dio morente turbinò via, e dalle stelle che erano state il suo sangue giunse un uomo che El ricordava di aver incontrato a Myth Drannor. Era Raumark, un re-stregone di Netheril, sopravvissuto alla caduta di quel regno per diventare uno dei fondatori di Halruaa. Raumark il Potente era solo in una sala di grosse colonne bianche e ampi spazi echeggianti, sulla cima di un alto palco, e aveva il volto pallido e truce. Cautamente, l'uomo materializzò un vortice disintegrante, e lo testò su una delle gigantesche colonne. Quando la cima della colonna si sbriciolò facendo cadere una cascata di schegge sul pavimento invisibile sottostante, il soffitto s'imbarcò. Raumark osservò il crollo, il volto impietrito, e riportò il vortice di fronte a lui. Annuì soddisfatto in direzione del turbine... e vi saltò dentro. La scena morì con Raumark, e venne rimpiazzata dall'immagine di una tomba polverosa. Un uomo che El non riconobbe, ma sapeva, in qualche modo, essere un Eletto di Mystra, estrasse un telo sbrindellato da un sacco e lo mise in un sarcofago aperto, eseguendo lo stesso compito che El aveva svolto tanto spesso per la Signora dei Misteri. Quell'Eletto, tuttavia, era in preda alla furia e i suoi occhi brillavano di
pazzia. Dal sarcofago estrasse un cranio ricoperto di ragnatele, ne fissò le orbite vuote, e ringhiò: «Incantesimo dopo incantesimo, io continuo a regalare, mentre il mio corpo si sbriciola, il mio udito s'indebolisce e le mie gambe vacillano. Finirò come te fra pochi inverni! Perché gli altri dovrebbero godere delle ricompense che distribuisco? Perché io no? Eh?» L'uomo gettò il cranio nel sarcofago e ne richiuse violentemente il coperchio, con uno stridore di pietre che fece trasalire Elminster. L'Eletto sconosciuto avanzò con gli occhi infuocati ed esclamò: «Vivere per sempre... perché no? Impossessarsi di un corpo sano, distruggere la sua mente, portarlo alla rovina, per poi passare a un altro. Da tempo conosco gli incantesimi... perché non usarli?» Poi riprese la sua andatura risoluta, svanendo come un fantasma attraverso Elminster... ma quando il principe si voltò per vedere che cosa accadesse all'Eletto, l'uomo era già scomparso, e la tomba con lui. «Che grande spreco», mormorò Elminster, gli occhi colmi di lacrime. «Oh, Mystra, Mia Signora, per quanto ancora deve continuare? Non tormentarmi più, dammi qualche segno. Sono degno di servirti ancora? O sei tanto scontenta di me che farei meglio a chiederti di morire? Lady, parlami!» Fu un grande shock sentire l'improvviso fremito di labbra sulle sue... le labbra di Mystra, sicuramente, poiché al loro tocco un brivido di energia pura gli percorse il corpo, conferendogli vigore e potenza. El aprì gli occhi, sollevò le braccia per cingerla... ma la Signora del Tessuto non era nulla più che un volto di luce evanescente, che si allontanava rapidamente nel vuoto. «Lady?», ansimò El quasi disperato, allungando braccia imploranti verso di lei. Mystra sorrise. «Devi essere paziente», sussurrò una voce melodiosa al suo orecchio. «In futuro ti farò una visita come si deve, ma devo affidarti una missione importante, molto lunga, forse la più impegnativa che ti abbia mai assegnato». Il suo volto cambiò, assunse un'espressione triste, e aggiunse, «Ma prevedo almeno un altro compito che potrebbe essere giudicato altrettanto importante». «Quale?», farfugliò El. Ormai Mystra era poco più che una stella lucente. «Presto», mormorò la dea in modo calmante. «Lo saprai molto presto. Ora ritorna a Faerûn... e guarisci i primi due esseri feriti che incontri». L'oscurità svanì, e il principe si ritrovò nei boschi accanto alle rovine, di
nuovo con i vestiti addosso. A pochi passi da lui due uomini stavano parlando con un elfo, tutti e tre seduti con la schiena appoggiata ai tronchi di vecchi alberi nodosi. Subito interruppero la conversazione e lo osservarono ansiosi. Uno dei maghi estrasse improvvisamente una bacchetta. Puntandola verso Elminster, chiese con freddezza: «E tu saresti...?» El sorrise e rispose: «Morto da un pezzo, Tenthar Taerhamoos, se non fosse stato per il fatto che Mystra aveva altri piani». I tre maghi batterono le palpebre, e l'elfo gli domandò esitante: «Tu sei colui che chiamano Elminster, vero?» «Sono io», rispose il principe, «e mi è stata affidata la missione di guarirvi». Ignorando un rapido dispiego di bacchette magiche e di anelli luccicanti, El elaborò un incantesimo guaritore per Starsunder, poi un altro per Umbregard. Quand'ebbe terminato, il principe di Athalantar e il mago Tenthar si guardarono, El indicò le rovine con un cenno del capo e chiese: «È tutto compiuto, allora?» «Tutto tranne la bevuta», rispose Taerhamoos... e nella mano apparve una bottiglia di vino impolverata. Pulì l'etichetta, la osservò sospettoso, tolse il turacciolo, annusò e, infine, sorrise. «La magia sembra tornata affidabile», annunciò, tendendo l'altra mano e guardando comparire in essa quattro calici di cristallo. «Il momento di difficoltà di Mystra è cessato», spiegò loro Elminster. «È stata fatta una prova, e molti malvagi operatori di magia sono stati eliminati». Tenthar si accigliò e osservò: «È tipico degli dei crudeli sottrarci il meglio». Umbregard alzò le spalle mentre afferrava un bicchiere e osservò apparire dal nulla molte altre bottiglie. «È tipico degli dei prenderci tutto», aggiunse, «alla fine». Starsunder intervenne: «I miei ringraziamenti per avermi guarito, Elminster. Per quanto riguarda gli usi degli dei, credo che nessuno di noi sia stato creato per vivere a lungo. Elfi, nani, umani... persino, credo, i nostri stessi dei. I troppi anni ci trasformano, ci rendono pazzi... la perdita degli amici, degli amanti, della famiglia, dei luoghi preferiti, e la solitudine sono molto dolorose. Per quanto riguarda la mia razza, ci attende una ricompensa, ma ciò non rende l'attesa meno lacerante, bensì ci fornisce soltanto uno scopo, al di là della sofferenza presente».
El annuì lentamente. «C'è verità nelle tue parole». Poi guardò Starsunder di traverso e gli chiese: «Non ci siamo incontrati, seppur brevemente, a Myth Drannor?» L'elfo della luna sorrise. «Facevo parte di coloro che erano in disaccordo col Coronal in merito all'ammissione di altre razze nella Città del Canto», ammise l'elfo. «E lo sono ancora. Tale decisione affrettò la nostra fine e portò al furto di tutti i nostri segreti. E tu fosti colui che aprì i cancelli; ti odiavo e ti volevo morto. Se ci fosse stato un modo semplice per ucciderti senza lasciare tracce, l'avrei probabilmente fatto». «Che cosa ti ha trattenuto?», chiese El con fare tranquillo. «Ho valutato il tuo valore, parecchie volte, alle feste e nel mythal, e anche successivamente. Ed eri come noi... solo, e impegnato a fare del tuo meglio. Ti do il benvenuto, umano; hai resistito alle nostre provocazioni, ti sei comportato con dignità, e hai agito bene. Le tue buone azioni sopravviveranno alla tua morte». «Grazie», rispose Elminster, gli occhi colmi di lacrime, mentre si protese per abbracciare l'elfo. «Le tue parole significano molto per me». La taverna della Fanciulla era molto affollata. Sembrava che l'ultima idea del Gran Duca fosse inviare enormi carovane armate lungo quella strada pericolosa. Ripplestones appariva come un grande pascolo, con bestie sparse in ogni dove. All'interno, un po' riparati dalla polvere e per nulla dal fracasso, Beldrune, Tabarast, e Caladaster dividevano un tavolo con un mago altezzoso della Costa della Spada, un boccale strapieno in ogni mano. Il discorso verteva in quel momento su incantesimi e mostri malvagi sconfitti, su maghi che non potevano morire e che si alzavano dalle bare, e la gente si stava avvicinando loro per ascoltare. «Ciò non è nulla!», stava ringhiando Beldrune. «Meno di nulla! Proprio oggi, nel cuore della Zona dei Morti sono stato fianco a fianco con il dio Azuth!» Il mago straniero sogghignò, incredulo, ma Beldrune continuò, «Oh, sì... Azuth, ve lo dico io, e...» Caladaster e Tabarast si scambiarono occhiate silenziose, annuirono, e di comune accordo si alzarono e frugarono nella sacca di Caladaster, mentre il loro compagno continuava a raccontare, puntando un dito al naso del mago della Costa. «Aveva bisogno del nostro aiuto, sì. I nostri incantesimi hanno fatto la differenza... l'ha detto lui!... e ci ha fatto capire...» «Che ci eravamo guadagnati queste tuniche magiche!», lo interruppe
Tabarast trionfante, sollevando l'audace abito nero affinché tutti lo vedessero. Lo scoppio di risa che seguì minacciò di far crollare il soffitto della taverna in testa agli avventori, tra fischi e pugni battuti sui tavoli, ma quando il baccano si affievolì, un ghigno stridulo si unì alle loro risate. Chi si voltò verso la soglia per vederne la fonte s'impietrì. «Sembra che mi possa andare bene», esclamò la maga Sharindala rivolta ai quattro maghi dalla bocca spalancata. «E ho bisogno di qualcosa per preservare il mio pudore, come potete vedere». La Signora del Palazzo della Pietra Bruciata era avvolta soltanto dai suoi lunghi capelli castani. Essi le coprivano il petto e i fianchi, ma nessun uomo poté fare a meno di notare che la donna era nuda dalla testa ai fianchi... punto in cui la sua carne terminava, le gambe semplici ossa. «Posso?», domandò, allungando una mano verso il vestito. Intorno a lei molti individui scivolarono sulle sedie, svenuti, e si udì uno scalpiccio di stivali verso la porta. Improvvisamente la donna si ritrovò attorniata da pochi uomini con lo sguardo fisso e la faccia pallida. «Devo imparare ancora qualche incantesimo prima di poter mangiare o bere qualcosa», spiegò Sharindala, «ed è piuttosto imbarazzante...» Con un grugnito di paura Tabarast tolse di scatto la tunica dalla portata della donna, ma Caladaster gli si mise davanti e si spogliò della sua. In un attimo se la sfilò dalla testa, e rivelò un corpo tondo e peloso vestito di pantaloni e bretelle, rigide e consunte dagli anni e dalla sporcizia. «Non è molto pulita, signora», affermò esitante, «e probabilmente vi starà larga come una tenda, ma... prendetela; ve la do con piacere». Un lungo ed esile braccio bianco l'afferrò e sul volto della donna apparve un sorriso. «Caladaster? Eri solo un ragazzino quando io... oh, dei, quanto tempo è passato?» L'anziano mago deglutì, divenne rosso in volto, e si leccò le labbra improvvisamente molto secche. «Che cosa vi è accaduto, Lady Sahree?» «Sono morta», rispose semplicemente, e nella taverna piombò il silenzio. Poi la maga scrollò le spalle guardando la tunica, e sorrise all'uomo che gliel'aveva offerta. «Ma sono tornata. Mystra mi ha indicato la strada». A quelle parole si levò un gran mormorio. Sharindala afferrò il braccio di Caladaster con una mano e il suo boccale con l'altra... il tocco era fresco e delicato, abbastanza normale. «Vieni, facciamo una passeggiata; abbiamo molto di cui parlare», esclamò gentile. Mentre insieme raggiungevano la porta, la maga mezzo scheletro si fer-
mò di fronte al mago della Costa e aggiunse: «A proposito, signore: tutto ciò che è stato detto su Azuth questa sera è vero. Che voi ci crediate o no». Quando uscirono dalla porta il silenzio era totale, e gli individui rimasti erano tanto attoniti che per poco non si scordarono di respirare. Gli sembrò di aver perduto di nuovo gli stivali e di camminare a piedi nudi nella luce lunare, da qualche parte a Faerûn, dove avrebbe dovuto splendere ancora il sole del tardo pomeriggio. Un attimo prima stava parlando con tre maghi in una foresta, tra un pezzo di formaggio e un bicchiere di vino... e ora eccolo in quel luogo, con una pallida immagine delle loro facce perplesse per la sua improvvisa scomparsa. Ma dov'era esattamente? «Mystra?», chiamò speranzoso, ad alta voce. D'un tratto la luce lunare lo avvolse con fiamme argentee che non bruciavano; esse gli infusero il brivido del potere, e presto si trasformarono in braccia attorno al suo corpo. «Signora mia», sussurrò Elminster quando si sentì sfiorare da quel corpo tanto familiare e percepì il fremito delle sue labbra... di nuovo si ritrovò senza vestiti; ma come ci riusciva? Il principe ricambiò il bacio, appassionatamente, e il fuoco argenteo s'insinuò dentro di lui mentre i loro corpi tremavano avvinghiati. El tentò di carezzare le morbide fiamme mutevoli... ma si ritrovò con un pugno di mosche, in piedi nell'oscurità, con Mystra sotto forma di una colonna di fuoco argenteo non lontano da lui. «Mystra?, chiamò, nella sua voce un pizzico di solitudine. «Per favore», sussurrò, implorante, la dea, «per me è difficile quanto lo è per te... non devo indugiare. E tu mi tenti, Elminster... mi tenti davvero molto». Le fiamme argentee vorticarono, e una bocca bramosa si posò sulle labbra di El per un lungo, glorioso momento, scatenando un turbinio di fuoco e di emozioni che lo fecero piangere, urlare, e fremere contemporaneamente. «Elminster», esclamò quella voce musicale mentre il principe fluttuava in una gioia indistinta, «dovrai andare alla Torre di Silverhand, ad allevare tre Elette». «Allevare?», chiese El, allarmato. La dea sembrò soffocare una risata, e aggiunse: «Troverai tre bambine ad attenderti alla Torre, sole e incerte; sii uno zio gentile e un bravo tutore,
sfamale, vestile, e insegna loro come comportarsi e che cosa diventare». Elminster deglutì, osservando Mystra rimpicciolirsi di nuovo e diventare una stella lontana. «Ti è proibito controllare le loro menti, o forzarle in alcun modo, se non in caso di grave emergenza», aggiunse. «Quando cresceranno, lascia che si costruiscano la loro vita. Il tuo compito, allora, sarà di sorvegliarle di nascosto, di farti vivo di tanto in tanto e di assicurare loro la sopravvivenza, senza guidarle, a meno che non siano loro a chiedere consiglio... ed entrambi sappiamo bene quanto spesso gli Eletti ostinati cercano i consigli altrui, non è vero? «Mystra!», gridò El disperatamente, allungando un braccio verso di lei. «Diamine, uomo, non rendermi le cose più difficili», mormorò la dea, e il bacio e la carezza che lo fecero avvampare lo trascinarono via in un gran turbinio. EPILOGO Forse il più grande servizio che Elminster abbia mai reso a Faerûn è quello di aver fatto da padre e da madre alle figlie di Mystra. Esercitare tutto il potere della dea e tenere insieme Toril con le sue mani durante i Tempi Duri... quello fu facile. Più facile del compito che lo aspettava: crescere tre bambine intelligenti, vivaci, di ammaliante bellezza e dagli immensi poteri, e crescerle bene. Antarn il Saggio Da La grande storia della potenza degli arcimaghi faerûniani Pubblicata approssimativamente nell'Anno del Bastone Da lontano, nell'abbagliante luce solare, la Torre di Silverhand sembrava poco più di una catapecchia, connessa con un cerchio vuoto di bastioni e a un torrione sventrato. Boschi rigogliosi la circondavano, la ammantavano, ed erano in procinto di sopraffarla, tranne che per un piccolo orto di forma ovale. Un faccino sporco lo stava osservando, perplesso, tra le foglie dell'orto... un volto che scomparve non appena El gli sorrise, lasciando dietro di sé solo foglie ondeggianti. Elminster scrutò il giardino per cogliere qualche traccia di un piccolo corpo in fuga, ma non vide nulla, allora scrollò le spalle e si avviò verso la casa, il tetto di paglia pieno di fiori vivaci e di erbe pendenti. «Ambara?», chiamò allora gentilmente mentre s'avvicinava. «Ethena?»
La porta sembrava essere saldamente bloccata... era priva di chiavistello, ma rifiutava di aprirsi. Spinse piano col ginocchio, consapevole del fatto che tre piccoli corpi potevano essere premuti dietro di essa, e udì la debole protesta del legno che cede. Era stata fissata con un piolo conficcato nel pavimento di terra battuta. Qualcuno doveva avere un maglio, una mazza o un'ascia a portata di mano. «Ambara?», chiese rivolto all'oscurità dell'interno. «Ethena? Anamanué?» La bacchetta si azionò dietro di lui, a distanza tanto ravvicinata che El sentì una vocina vivace mormorare chiaramente la parola di comando prima che la pioggia di proiettili magici lo raggiungesse e lo scagliasse contro la porta. Elminster stava ancora rabbrividendo quando qualcosa spostò il picchetto e spalancò la porta, facendolo cadere nell'interno scuro, e qualcos'altro lo colpì forte con un'ascia. L'arma rimbalzò contro lo scudo protettivo con una pioggia di scintille, intorpidendo mani troppo piccole per poter brandire un simile strumento e facendo singhiozzare di dolore l'aggressore. Istintivamente, El allungò una mano e pronunciò un incantesimo guaritore su una bimbetta scalza che stava cercando di non piangere... e si rese conto che nella stanza regnava un silenzio assoluto. Lentamente, ritrasse la mano da quella che aveva appena guarito, poiché aveva scorto un viso assorto e un pugnale impolverato, stretto con forza, molto vicino al suo orecchio sinistro... e un altro, altrettanto serio, accanto a una bacchetta spianata, alla sua destra. Capelli argentei, lunghi e scompigliati, adornavano tutte e tre le teste, e tutti e tre i volti, seppur sporchi, spaventati, e infantili, erano di una bellezza sorprendente. «Come fai a sapere i nostri nomi?», chiese feroce la più grande, agitando la bacchetta. «Chi sei?» «Me li ha detti Mystra», rispose Elminster, rivolgendole un sorriso triste, «e mi ha inviato per fare quello che vostra madre ora non può fare». «Nostra madre è morta!», ribatté la bambina. Elminster annuì. «Tu sei Ambara», esclamò, «non è vero?» «Nessuno mi chiama così», rispose la piccola agitando la testa rabbiosamente. Per tutti gli dei, com'era bella. «Sei Ambara Colombina, quattro anni», continuò El. «Come vuoi che ti chiami?» «Colombina», rispose. «E lei è Tempesta. Sa parlare un po'. Laer invece no... lei piange soltanto».
«Ha bisogno di essere cambiata», osservò El solenne. «Tutte e tre ne abbiamo bisogno», osservò Colombina con aria severa, «dopo lo spavento che ci hai fatto prendere. Però, più che altro, abbiamo fame. Non posso sprecare questa cosa preziosa» - agitò la bacchetta magica nell'aria come una maga esperta - «per abbattere altri uccellini e bestiole simili... e le cose che so che si possono mangiare sono terminate». «Io non sono un grande cuoco», rispose El. Colombina sospirò. «Allora perché Mystra ha mandato te?», chiese sgarbatamente, poi puntò la bacchetta. «Usiamo quel tratto di ruscello, sotto il ceppo, per lavarci, e beviamo da lì in su. Tu cambi Laer, io vado a caccia. Tempesta...» «Ti accudirà», esclamò improvvisamente Tempesta, allungando una mano per afferrare risoluta la barba di Elminster. «E proteggerà Laer. Sii simpatico... come la tua barba. Simpatico». Elminster le sorrise, ma si accorse di avere un nodo in gola e le lacrime agli occhi. Si portò un braccio al viso e pianse apertamente, pensando alla lunga e difficile strada che avrebbero dovuto affrontare le tre bambine negli anni a venire. Laeral gorgogliò, contenta di essere tanto vicino all'uomo che le aveva guarito la mano, ma Colombina le assestò uno schiaffo sulla tempia e sbottò: «Smetti di frignare. Tra poco farà notte, e noi dobbiamo mangiare». Il pianto di El si trasformò in una risata, e improvvisamente si ritrovò a rotolare sul pavimento sporco con tre ragazzine sorridenti aggrappate ai capelli e alla barba. Per quanti anni avrebbe dovuto farlo?» Della lucertola arrostita erano rimaste solo ossa e squame annerite, nonché un delizioso profumino. La sua salsa di bacche era risultata poco raffinata, ma costituiva pur sempre un inizio; aveva poi scoperto che nessuna delle bambine aveva vestiti sufficienti per scaldarsi la notte... ma dal suo mantello avrebbe facilmente ricavato tre coperte abbastanza grandi per loro. Il sole stava tramontando, e quando El sollevò lo sguardo alle cime degli alberi illuminati, vide gli occhi scuri di Mystra osservarlo dal groviglio di rami. Il principe fissò intensamente quegli occhi misteriosi che, silenziosamente, gli infondevano amore, comprensione e profonda ammirazione, e rivolse alla dea una preghiera affinché lo guidasse. El rimase immobile fino a quando non calò il buio, e la notte non s'impadronì delle terre.
Una mano piccola afferrò una delle sue. Dei, si muovevano davvero silenziosamente quelle piccolette... tanto furtivamente che un coro d'insetti riusciva a coprirne i rumori. Elminster abbassò lo sguardo e sussurrò: «Non dovresti essere a dormire?» Colombina gli tirò la mano. «Zio Barbuto», rispose la bimba, «è buio, e io non posso dormire finché non so che tu sei di guardia contro i lupi e tutto il resto... altrimenti devo stare alzata col mio bastone. Sono stanca. Perché non entriamo?» El la guardò, sentì di nuovo salirgli le lacrime agli occhi, e rapidamente sollevò lo sguardo al cielo stellato. «Signore», insistette Colombina con fare quasi austero, tirandolo ancora per la mano. «Non è meglio entrare?» El sospirò, diede un'ultima occhiata alle stelle, col cuore traboccante di gioia. Poi s'inginocchiò, le diede un bacio delicato e le sorrise: «Sì, credo sia meglio entrare. Perché non mi fai strada?» FINE