GILLIAN FLYNN SULLA PELLE (Sharp Objects, 2006) Ai miei genitori, Matt e Judith Flynn 1 Il mio maglione nuovo, di un ros...
119 downloads
1691 Views
859KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
GILLIAN FLYNN SULLA PELLE (Sharp Objects, 2006) Ai miei genitori, Matt e Judith Flynn 1 Il mio maglione nuovo, di un rosso vivace, era davvero orrendo. Secondo il calendario era il 12 maggio, ma la temperatura era precipitata. Così, dopo quattro giorni passati a rabbrividire in maniche di camicia, avevo preferito ricorrere ai saldi, piuttosto che mettermi a rovistare negli scatoloni degli abiti invernali. Primavera a Chicago. Seduta nel mio cubicolo rivestito di iuta, rimuginavo con lo sguardo fisso sullo schermo del computer. Il mio caso del giorno era un dramma da due soldi. Quattro bambini, fra i due e i sei anni, erano stati trovati chiusi in una stanza nel South Side, con un paio di panini al tonno e un cartone di latte. Erano stati lasciati così per tre giorni, a starnazzare come polli sul tappeto, in mezzo ad avanzi di cibo ed escrementi. La madre era uscita in cerca di crack e si era semplicemente dimenticata di loro. A volte succede. Niente bruciature di sigarette, niente ossa rotte. Solo una lenta e inesorabile discesa nell'oblio. Avevo visto la donna dopo l'arresto: la ventiduenne Tammy Davis, bionda e paffuta, con due pomelli rosei sulle guance, due cerchi perfetti che sembravano stampati. Me la immaginavo seduta su un divano malandato, la bocca stretta intorno alla pipa, uno sbuffo di fumo acre. Poi tutto cominciava a ondeggiare, i bambini che svanivano in lontananza, mentre Tammy riandava con la mente ai tempi della scuola, quando i ragazzi la corteggiavano e lei era la più carina, una tredicenne con il lucidalabbra, che si infilava in bocca un chewing-gum alla cannella prima di farsi baciare. Una pancia prominente. Un odore inconfondibile: sigarette e caffè stantio. Il mio direttore responsabile, l'esimio, esausto Frank Curry, che si dondolava avanti e indietro sulle scarpe sportive ormai sformate. I denti a mollo nella saliva color tabacco. «A che punto sei con quell'articolo, ragazzina?» C'era una puntina da disegno argentea capovolta sulla mia scrivania. Lui se la fece scivolare delicatamente sotto l'unghia ingiallita del pollice.
«Ho quasi finito.» Avevo scritto dieci righe. Dovevo arrivare a due cartelle. «Bene. Fai a pezzi quella donna, manda l'articolo in composizione e vieni nel mio ufficio.» «D'accordo. Dieci minuti.» Rivolevo la mia puntina. Lui si voltò e fece per uscire dal cubicolo, con la cravatta che ondeggiava sopra il cavallo dei pantaloni. «Preaker?» «Sì, Curry?» «Falla a pezzi.» Frank Curry pensa che io sia una che si lascia intenerire. Forse perché sono una donna. Forse perché sono una che si lascia intenerire. L'ufficio di Curry è al terzo piano. Sono sicura che gli viene una crisi di nervi mista a panico ogni volta che guarda dalla finestra e vede il tronco di un albero. I direttori di successo non vedono i tronchi: vedono le foglie, sempre che riescano a scorgere la sagoma degli alberi dall'alto del ventesimo o trentesimo piano. Ma per il «Chicago Daily Post», quarto quotidiano di Chicago per importanza, relegato nei sobborghi, c'è spazio per espandersi in orizzontale. I tre piani di altezza dell'edificio, che passa quasi inosservato fra rivendite di tappeti e negozi di lampade, bastano e avanzano. Il nostro quartiere è il prodotto dell'efficientismo di un imprenditore edile che in soli tre anni, dal 1961 al 1964, ha edificato la zona, battezzandola poi con il nome della figlia, la quale un mese prima della fine dei lavori era stata vittima di un grave incidente a cavallo. Si sarebbe chiamato Aurora Springs, aveva deciso il costruttore, mettendosi in posa per una foto accanto al cartello nuovo di zecca. Poi aveva fatto armi e bagagli e se n'era andato con tutta la famiglia. La figlia, che ora è sulla cinquantina e gode di ottima salute, a parte occasionali formicolii alle braccia, vive in Florida e viene qui di tanto in tanto per farsi fotografare accanto al cartello con il suo nome, proprio come aveva fatto il padre. Durante la sua ultima visita, avevo scritto un articolo sulla storia di Aurora Springs. Curry l'aveva trovato orribile. Lui odia quasi tutti i pezzi di vita vissuta. Si era scolato un'intera bottiglia di Chambord mentre lo leggeva ed era uscito dall'ufficio che puzzava di lampone. Curry si ubriaca in modo discreto, ma spesso. Non è per questo, comunque, che gode di una vista ai piani bassi. È per pura e semplice sfortuna. Entrai e chiusi la porta dell'ufficio, che non era affatto come l'avrei desi-
derato: boiserie di quercia e una porta a vetri - con la targhetta DIRETTORE - dietro la quale i giovani cronisti potessero vederci discutere animatamente sui diritti del Primo Emendamento. L'ufficio di Curry, invece, era insignificante e anonimo, come tutto l'edificio, del resto. Che uno ci discutesse di giornalismo oppure si facesse fare un pap-test a nessuno importava. «Parlami di Wind Gap» esordì Curry, picchiettandosi il mento con una biro. Mi sembrava già di intravedere piccoli puntini blu fra i peli ispidi della barba. «Si trova all'estremità meridionale del Missouri, nel tacco dello stivale. A uno sputo dal Tennessee e dall'Arkansas» dissi, cercando di limitarmi ai fatti. Curry amava sondare i propri giornalisti su qualunque argomento: il numero di omicidi a Chicago l'anno prima, le statistiche demografiche della contea di Cook o, per qualche misteriosa ragione, la storia della mia città natale, l'argomento che più di tutti avrei preferito evitare. «Risale a prima della Guerra civile» proseguii. «È vicina al Mississippi, perciò a un certo punto è stata anche un porto. Adesso è al primo posto nella macellazione dei suini. Ha circa duemila abitanti. Solida vecchia borghesia e gentaglia.» «E tu a quale delle due categorie appartieni?» «Alla gentaglia. Ma discendo dalla vecchia e solida borghesia.» Sorrisi. Curry mi fissò accigliato. «Che diavolo sta succedendo laggiù?» Rimasi in silenzio, passando in rassegna i vari disastri che avrebbero potuto colpire Wind Gap. È una di quelle orribili cittadine inclini alle disgrazie: uno scontro frontale tra due autobus o un tornado; un'esplosione in un silo o un bambino caduto in un pozzo. Ero anche un po' indispettita. Avevo sperato - come sempre mi succede quando Curry mi convoca nel suo ufficio - che si complimentasse con me per un pezzo recente, che mi promuovesse a qualcosa di meglio - accidenti! -, che mi facesse scivolare sotto gli occhi un foglietto di carta con scarabocchiato un piccolo aumento... ma una chiacchierata sugli ultimi avvenimenti a Wind Gap, questa no, non l'avevo proprio prevista. «Tua madre vive ancora là, giusto, Preaker?» «Mia madre e il mio patrigno.» E una sorellastra nata quando ero al college, la cui esistenza mi sembra così irreale da farmi spesso dimenticare il suo nome: Amma. E poi Marian, la sempre compianta Marian. «Be', che diavolo, non parli mai con loro?»
L'ultima volta era stata a Natale. Una gelida, educata telefonata dopo aver tracannato tre bourbon. Avevo temuto che mia madre riuscisse a sentirne l'odore attraverso la cornetta. «Non di recente.» «Cristo, Preaker, leggi i lanci delle agenzie, ogni tanto! Non c'è stato un omicidio laggiù lo scorso agosto? Una bambina strangolata?» Annuii come se sapessi di che cosa parlava. Ma non era così. Mia madre - l'unica persona di Wind Gap con cui avessi sporadici contatti - non me ne aveva accennato. Strano. «E adesso ne è scomparsa un'altra. Sento puzza di serial killer. Prendi la macchina, vai laggiù e vedi di tirarci fuori un bel pezzo. In fretta. L'ideale sarebbe che tu riuscissi a essere lì già domani mattina.» Neanche morta. «Abbiamo anche qui le nostre storie dell'orrore, Curry.» «Già e abbiamo anche tre testate concorrenti, con il doppio del personale e del budget.» Si passò la mano fra i capelli, che gli ricaddero sulla fronte in ciuffi scomposti. «Mi sono stufato di arrivare sempre per ultimo. È la nostra occasione di mettere le mani su qualcosa di scottante. Di importante.» Curry crede che, con la storia giusta, potremmo diventare dalla sera alla mattina il primo quotidiano di Chicago, guadagnando credibilità a livello nazionale. L'anno scorso un altro giornale aveva mandato un reporter nella sua città natale, in Texas, dopo che un gruppo di adolescenti era annegato nelle alluvioni di primavera. L'inviato aveva prodotto un pezzo elegiaco, ma ben scritto, sulla natura dell'acqua e sul rimpianto, senza tralasciare nulla: dalla squadra di basket dei ragazzi, che aveva perso i suoi tre giocatori migliori, alla locale impresa di pompe funebri, tragicamente inadeguata a ricomporre i cadaveri degli annegati. L'articolo gli aveva fruttato il Pulitzer. Non mi importava, non volevo andarci lo stesso. Tanto che involontariamente mi aggrappai con le mani ai braccioli della poltrona su cui ero seduta, come se Curry fosse stato sul punto di buttarmi fuori con la forza. Lui rimase a fissarmi per qualche secondo con i suoi grandi occhi color nocciola. Si schiarì la voce, lanciò un'occhiata alla foto di sua moglie e mi sorrise, come un medico che sta per comunicare brutte notizie. Curry amava sbraitare - si confaceva alla sua immagine vecchia maniera del direttore di un giornale - ma era anche una delle persone più buone che conoscessi. «Senti, ragazzina, se non puoi farlo, non farlo. Ma penso che ti farebbe bene. Per espellere un po' di tossine. Per rimetterti in piedi. È una storia
che promette maledettamente bene... e noi ne abbiamo bisogno. Tu ne hai bisogno.» Curry mi aveva sempre sostenuta. Diceva che sarei potuta diventare la sua giornalista di punta. Che avevo una mente acuta. Nei due anni in redazione con lui ero stata abbondantemente al di sotto delle sue aspettative. Talvolta in modo eclatante. E adesso eccolo lì, dietro la scrivania, che mi sollecitava a dargli un po' di soddisfazione. Annuii con quello che speravo fosse un piglio sicuro. «Vado a fare i bagagli.» Le mie mani lasciarono impronte umide sui braccioli. Non ho animali domestici di cui preoccuparmi, nessuna pianta da lasciare ai vicini. Infilai in una borsa da viaggio vestiti per cinque giorni: la mia garanzia che, entro il fine settimana, me ne sarei andata da Wind Gap. Mentre lanciavo un'ultima occhiata intorno, il mio appartamento mi apparve per quello che in realtà era: una tana da studente squallida, provvisoria e soprattutto anonima. Promisi a me stessa che, al mio ritorno, avrei investito un po' di soldi in un nuovo divano, come premio per l'incredibile scoop che ero sicura di fare. Sul tavolo accanto alla porta c'era una mia foto da adolescente con in braccio Marian, che all'epoca doveva avere sette anni. Stiamo ridendo. Lei ha gli occhi spalancati per la sorpresa. Io li ho socchiusi. La tengo stretta a me, le sue gambette esili penzolanti all'altezza delle mie ginocchia. Non so più in quale occasione è stata scattata la foto né per che cosa stiamo ridendo. Negli anni la cosa è diventata un piacevole mistero. Penso che mi piaccia non saperlo. Faccio sempre il bagno. Non amo fare la doccia. Non sopporto lo scroscio dell'acqua che fa ronzare la mia pelle come quando qualcuno accende un interruttore. Pertanto, distesi l'inconsistente asciugamano del motel sul piatto della doccia, puntai il getto contro il muro e mi accucciai nei sette centimetri d'acqua che si erano formati, osservando galleggiare intorno a me peli pubici sconosciuti. Uscii dal box doccia. Non vedendo traccia di un secondo asciugamano, corsi ad avvolgermi nel copriletto di ciniglia da quattro soldi. Poi bevvi bourbon tiepido, maledicendo il guasto alla macchinetta del ghiaccio. Wind Gap è undici ore circa a sud di Chicago. Curry mi aveva gentilmente concesso il budget per una notte in un motel e una prima colazione,
se mi fossi accontentata di consumarla a una stazione di servizio. Una volta che fossi arrivata a destinazione, però, avrei dovuto pernottare a casa di mia madre. L'aveva deciso lui per me. Io sapevo già che reazione avrei suscitato, presentandomi a quella porta. Un'improvvisa agitazione; la mano di mia madre che correva nervosa ai capelli; un abbraccio imbarazzato e un po' sbilenco; scuse bofonchiate sul disordine in casa, peraltro inesistente; una veloce indagine sulla durata della permanenza, camuffata da convenevoli cortesi. "Per quanto tempo ti avremo con noi, tesoro?" avrebbe detto mia madre. Il che significava: "Quando te ne vai?". È proprio il tono cortese la cosa che mi urta di più i nervi. Sapevo che avrei dovuto riordinare i miei appunti, annotarmi le domande da fare. Invece continuai a tracannare bourbon, lo accompagnai con qualche aspirina e spensi la luce. Cullata dall'umido ronzio dell'aria condizionata e dai bip elettronici di un videogioco nella stanza accanto, finii per addormentarmi. Ero ad appena quaranta chilometri dalla mia città natale, ma avevo bisogno di un'ultima notte di lontananza. La mattina dopo trangugiai in fretta una ciambella alla marmellata e mi diressi a sud, con la temperatura in rialzo e fitti boschi su entrambi i lati della strada. Questa zona del Missouri presenta un paesaggio sinistramente monotono: chilometri e chilometri di alberi non particolarmente maestosi, interrotti solo dalla sottile striscia di autostrada che stavo percorrendo. Uno stesso, identico fotogramma ripetuto all'infinito. Wind Gap non è facilmente individuabile a distanza: l'edificio più alto è di soli tre piani. Ma dopo venti minuti di guida, capii che mi stavo avvicinando. Prima di tutto spuntò una stazione di servizio. Un gruppo di adolescenti se ne stava seduto scomposto accanto alla piazzola di rifornimento, tutti a torso nudo con l'aria annoiata. Accanto a un vecchio pick-up, un bambinetto con il pannolino lanciava in aria manciate di ghiaia, mentre la madre faceva il pieno di benzina. I capelli della donna erano biondi, ma ormai la ricrescita scura prevaleva sulla tinta. Mentre passavo la sentii gridare qualcosa ai ragazzi, ma non riuscii a capire che cosa dicesse. Poi, i boschi cominciarono a diradarsi. Superai una specie di centro commerciale che pubblicizzava lettini abbronzanti, un'armeria, un emporio di tessuti. Proseguii oltre un solitario dedalo di vecchie case, parte di un piano di sviluppo mai compiuto. Infine, ecco la città vera e propria. Senza un motivo particolare, trattenni il fiato mentre superavo il cartello con la scritta BENVENUTI A WIND GAP, come fanno i bambini quando
passano vicino ai cimiteri. Erano trascorsi otto anni dall'ultima volta che ero stata lì, ma l'impatto era viscerale. In fondo a quella strada, avrei trovato la casa della mia insegnante di pianoforte delle elementari, un'ex suora con l'alito che puzzava di uovo. Proseguendo sarei arrivata a un piccolo parco, dove avevo fumato la mia prima sigaretta in una calda e afosa giornata d'estate. Imboccando il viale che partiva da lì, mi sarei ritrovata a Woodberry e all'ospedale. Decisi di andare direttamente al comando di polizia in fondo a Main Street, che, come dice il nome, è la via principale della città, lungo la quale si trovano un parrucchiere, un salone di bellezza, un ferramenta, un bazar di cianfrusaglie che si chiama Five-and-Dime, una biblioteca con appena dodici scaffali di libri. C'è anche un negozio di abbigliamento, Candy's Casuals, in cui si possono comprare felpe, maglioni a collo alto e magliette con disegni di anatre e scuole. La maggior parte delle donne di Wind Gap fa l'insegnante o la madre, oppure lavora in posti come Candy's Casuals. Magari fra pochi anni ci sarà anche uno Starbucks, che potrebbe finalmente dare alla città ciò che più desidera: un tocco di preconfezionata, preapprovata, convenzionale modernità. Per il momento, comunque, c'è solo una tavola calda da quattro soldi, gestita da una famiglia di cui non ricordo il nome. Main Street era deserta. Nessuna macchina, nessun essere umano. Un cane gironzolava sul marciapiede, senza un padrone che lo richiamasse. A ogni lampione erano attaccati nastri gialli e volantini con la foto sgranata di una bambina. Parcheggiai e strappai uno di quei foglietti, che pendeva storto ad altezza bambino dal palo di un cartello stradale. Era un volantino artigianale, con la parola SCOMPARSA stampata in alto a caratteri cubitali. La foto mostrava una bambina dagli occhi scuri, con un sorriso birichino e una massa esagerata di capelli ricci, la tipica bambina che gli insegnanti definiscono "pestifera". Provai un'istintiva simpatia per lei. Natalie Jane Keene. Età: 10 anni. Scomparsa l'11 maggio. Vista l'ultima volta al Jacob J. Garrett Memorial Park, indossava pantaloncini jeans e una maglietta a righe rosse. Per informazioni telefonare al 555-7377. Entrai nel comando di polizia sperando di scoprire che Natalie Jane era
stata ritrovata. Che era sana e salva. Che si era semplicemente persa o slogata una caviglia nel bosco, oppure che era scappata di casa per poi pentirsene. Sarei subito risalita in macchina e ripartita per Chicago, senza dover parlare con nessuno. Scoprii, invece, che mezza città era in giro a setacciare il bosco a nord: ecco perché le strade erano così deserte. L'agente addetta al centralino mi disse che il capo della polizia, Bill Vickery, sarebbe ritornato di lì a poco per il pranzo e che avrei potuto aspettarlo. Nella sala d'attesa si respirava l'atmosfera fintamente rilassata degli studi dentistici; mi accomodai su una sedia pieghevole arancione e mi misi a sfogliare un annuario di personaggi famosi. Un deodorante per ambienti, infilato in una presa di corrente, emanava zaffate di profumo plasticato, che in teoria avrebbe dovuto evocare brezze campestri. Mezz'ora dopo avevo già finito tre riviste e cominciavo a essere nauseata da quell'odore. Quando finalmente Vickery rientrò, l'addetta al centralino mi indicò a lui con un cenno del capo, bisbigliando con aria schifata: «Stampa». Vickery, un tipo smilzo sulla cinquantina, grondava sudore nell'uniforme. La camicia gli si era incollata al petto e i pantaloni erano tutti raggrinziti all'altezza del fondoschiena. «Stampa?» Mi fissò al di sopra delle lenti bifocali. «Che tipo di stampa?» «Comandante Vickery, sono Camille Preaker del "Chicago Daily Post".» «Chicago? E che cosa è venuta a fare qui da Chicago?» «Vorrei parlare con lei delle due bambine... Natalie Keene e quella uccisa l'anno scorso.» «Oh, Cristo! Come ha fatto la notizia ad arrivare fin lassù? Cristo Santo!» I suoi occhi saettarono da me all'addetta al centralino, come se fossimo in combutta. Poi mi fece segno di seguirlo. «Non passarmi chiamate, Ruth.» L'agente alzò gli occhi al cielo. Bill Vickery mi precedette lungo un corridoio rivestito di pannelli di legno e tappezzato di foto incorniciate di trote e cavalli fino a un ufficio privo di finestre, che era poco più di un cubicolo circondato da classificatori di metallo. Si sedette e accese una sigaretta. Non me ne offrì una. «Non voglio che la faccenda trapeli, signorina. Non intendo permettere che ciò succeda.» «Temo che non possa farci molto, comandante Vickery. Delle bambine
sono state prese di mira. La gente dev'esserne informata.» Era la frase che mi ero preparata per tutto il viaggio. Dirottava la colpa sul fato. «E a voi di Chicago che cosa importa? Non sono bambine vostre, sono bambine di Wind Gap.» Si alzò, poi si sedette di nuovo e si mise a sistemare delle carte. «Sono pronto a scommettere che prima d'ora a Chicago non glien'è mai importato niente dei bambini di Wind Gap.» Gli si incrinò la voce. Tirò una voluttuosa boccata dalla sigaretta, rigirandosi un massiccio anello d'oro intorno al mignolo e sbattendo velocemente le palpebre. All'improvviso temetti che stesse per mettersi a piangere. «Ha ragione. Probabilmente a Chicago non glien'è mai importato. Senta, non sono qui per sfruttare una storia che fa scalpore. È una faccenda importante. Se può farla sentire meglio, io sono di Wind Gap.» "Eccoti servito, Curry, e non dire che non ci sto provando." Vickery mi fissò, scrutandomi con attenzione. «Come si chiama?» «Camille Preaker.» «Come mai non la conosco?» «Non mi sono mai messa nei guai, signore» mormorai, con un lieve sorriso. «I suoi si chiamano Preaker?» «Mia madre adesso si chiama Crellin: Adora Crellin, moglie di Alan Crellin.» «Oh, sì, li conosco.» E chi non li conosceva? La ricchezza non era così comune a Wind Gap, perlomeno quel genere di ricchezza. «In ogni caso, non la voglio qui, signorina Preaker. Se lei scrive questa storia, d'ora in poi la gente ci conoscerà solo per... per questo.» «Un po' di pubblicità potrebbe aiutare» azzardai. «Non sarebbe la prima volta che succede.» Vickery rimase in silenzio per un istante, con lo sguardo fisso sul sacchetto del pranzo in un angolo della scrivania. Dall'odore sembrava mortadella. Bofonchiò qualcosa a proposito del caso JonBenet. «No, grazie, signorina Preaker. No comment. Non ho niente da dire sulle indagini in corso. Può citare le mie esatte parole.» «Senta, ho tutto il diritto di stare qui. Semplifichiamo le cose. Lei mi dà qualche informazione - qualunque cosa - e io mi toglierò dai piedi per un po'. Non voglio metterle i bastoni fra le ruote, ma devo fare il mio lavoro.» Era un'altra battuta che avevo provato e riprovato da qualche parte nei pressi di Saint Louis.
Lasciai il comando di polizia con la fotocopia di una mappa di Wind Gap, su cui Bill Vickery aveva tracciato una piccola X per indicare il punto in cui era stato scoperto il corpo della bambina assassinata l'anno prima. Ann Nash, nove anni, ritrovata il 27 agosto nel torrente pietroso che attraversava il bosco a nord della città. Dalla sera del 26, quando era scomparsa, una squadra di ricerca aveva cominciato a setacciare la zona, ma erano stati alcuni cacciatori a imbattersi nel corpo della bambina la mattina seguente, dopo le cinque. Era stata strangolata verso mezzanotte, con una corda da bucato avvolta due volte intorno al collo. Poi era stata gettata nel torrente, che era molto basso per via della siccità estiva. La corda si era impigliata fra le pietre e il cadavere di Ann era rimasto tutta la notte a galleggiare sulla pigra corrente. Il suo era stato un funerale a bara chiusa. Queste erano tutte le informazioni che Vickery mi aveva concesso. E c'era voluta un'ora di domande insistenti per averle. Dal telefono pubblico della biblioteca chiamai il numero stampato sul volantino. Rispose una voce femminile, che sembrava quella di una persona anziana: «Centralino per Natalie Keene». In sottofondo udii il ronzio di una lavastoviglie. La donna mi informò che le ricerche erano ancora in corso nel bosco a nord della città. Se volevo collaborare non dovevo fare altro che presentarmi al limitare del bosco, lungo la strada principale, portandomi una provvista di acqua. Erano previste temperature record. Giunta sul luogo indicatomi, trovai quattro adolescenti bionde sedute al sole su una coperta da picnic. Mi indicarono uno dei sentieri e mi dissero di proseguire finché non avessi incontrato il gruppo impegnato nelle ricerche. «Che cosa ci fai qui?» mi apostrofò la più carina. Il suo viso lievemente arrossato conservava ancora la rotondità dell'infanzia e i suoi capelli erano legati con dei nastri, ma il suo seno, fieramente ostentato, era quello di una donna. Una donna fortunata. Sorrise come se mi conoscesse, cosa impossibile, dal momento che, quando io abitavo ancora a Wind Gap, lei probabilmente frequentava l'asilo. Eppure, aveva un'aria familiare. Forse era la figlia di una vecchia compagna di scuola. Come età poteva starci, se la presunta compagna fosse rimasta incinta appena finite le superiori. Il che non era improbabile. «Sono venuta a dare una mano» risposi. «Certo» tagliò corto lei, con un sorrisetto affettato, e tornò a concentrarsi sull'importante occupazione di togliersi lo smalto dalle unghie dei piedi.
Mi incamminai lungo il sentiero, con la ghiaia che mi crepitava sotto i piedi, e mi addentrai nel bosco, dove faceva ancora più caldo che fuori. Sembrava di essere in una giungla. Verghe d'oro e sommacchi selvatici mi graffiavano le caviglie e gonfi soffioni galleggiavano ovunque nell'aria, infilandosi in bocca e incollandosi alle braccia. Da bambini li chiamavamo "vestiti delle fate", mi ricordai all'improvviso. In lontananza udii parecchie voci che chiamavano Natalie, scandendo le tre sillabe del nome con il ritmo di un canto. Dopo circa dieci minuti di camminata a passo spedito scorsi il gruppo: una cinquantina di persone che avanzavano in lunghe file, rovistando nei cespugli con i bastoni. «Salve! Ci sono novità?» gridò l'uomo più vicino a me, che aveva il ventre prominente del bevitore di birra. Lasciai il sentiero e lo raggiunsi facendomi strada in mezzo alla vegetazione. «Posso fare qualcosa?» gli domandai di rimando. Non ero ancora pronta a estrarre il bloc-notes. «Cammini qui, accanto a me» rispose lui. «Una persona in più fa sempre comodo. Meno terreno da esplorare.» Avanzammo per qualche minuto in un silenzio interrotto solo da occasionali colpetti di tosse del mio compagno. «Talvolta penso che dovremmo bruciarlo, questo bosco» sbottò a un tratto. «Non capita mai niente di buono qui dentro. È un'amica dei Keene?» «In realtà, sono una giornalista. "Chicago Daily Post".» «Mm... guarda un po'. E deve scrivere un articolo su questa faccenda?» Un gemito improvviso squarciò l'aria, l'urlo di una ragazzina: «Natalie!». Sentii le mani imperlarsi di sudore mentre ci affrettavamo tutti nella direzione da cui era venuto il grido. Due figure stavano correndo verso di noi. Un'adolescente bionda ci passò accanto in direzione del sentiero, il volto rosso e gonfio, incespicando come un'ubriaca e gridando al cielo il nome di Natalie. Un uomo, forse il padre, la raggiunse, avvolgendola in un abbraccio, e la sospinse fuori dal bosco. «L'hanno trovata?» chiese a gran voce da lontano il mio compagno. Una collettiva scrollata di capo. «La ragazzina ha solo perso la testa, credo» rispose un tizio. «È stato troppo per lei. Le ragazze non dovrebbero comunque essere qui, ora come ora.» L'uomo mi lanciò un'occhiata penetrante, si tolse il berretto da baseball per asciugarsi la fronte e ricominciò a setacciare i cespugli.
«Brutta faccenda» mormorò il mio compagno. «Brutti tempi.» Avanzavamo lentamente. Allontanai con un calcio una lattina di birra arrugginita. Poi un'altra. Un uccello solitario si librò nell'aria ad altezza uomo e poi spiccò il volo verso la cima degli alberi. Una cavalletta mi atterrò all'improvviso su un polso, facendomi rabbrividire. «Posso chiederle che cosa pensa di tutta la faccenda?» domandai, estraendo il bloc-notes. «Credo di non poterle dire granché.» «Mi basta la sua opinione. Due bambine in una città piccola...» «Be', non è detto che i due casi siano collegati, giusto? A meno che lei non abbia sentito dire qualcosa che io ignoro. Per quanto ne sappiamo, Natalie potrebbe ricomparire in qualunque momento, sana e salva. Non sono passati neanche due giorni.» «Qualche ipotesi riguardo a Ann?» chiesi. «Un pazzo, dev'essere stato uno squilibrato. Qualcuno che passava di qua, si è dimenticato di prendere i suoi farmaci... e le voci che gli ronzavano nella testa hanno avuto il sopravvento. Qualcosa del genere.» «Perché dice questo?» Il mio compagno si fermò, estrasse dalla tasca posteriore dei pantaloni un pacchetto di cartine, mise su una di esse un grosso pizzico di tabacco e la arrotolò dandole la forma di una sigaretta. Cominciai a sbavare dalla voglia di fumare. «Perché altrimenti uno avrebbe dovuto strappare tutti i denti a una povera bambina già morta?» «Le ha strappato i denti?» «Tutti, tranne la parte posteriore di un molare da latte.» Dopo un'ora di ricerche senza risultati e senza ulteriori informazioni, lasciai il mio compagno, Ronald Kamens ("Scriva anche l'iniziale del secondo nome, se vuole: J"), e mi incamminai verso sud, in direzione del punto in cui l'anno prima era stato ritrovato il corpo di Ann. Ci vollero quindici minuti perché l'eco del nome di Natalie svanisse nell'aria. Dopo altri dieci minuti riuscii a sentire l'allegro mormorio delle acque del torrente. Era difficile trasportare un bambino in mezzo al bosco: rami e foglie intralciavano il passaggio e il terreno era ovunque ingombro di radici. Immaginando che fosse una vera figlia di Wind Gap, città che pretendeva il massimo di femminilità dal sesso debole, Ann aveva di sicuro avuto i capelli lunghi, che dovevano essersi impigliati nei cespugli e negli arbusti.
Continuavo a scambiare ragnatele per ciocche luccicanti di capelli. L'erba era ancora appiattita nel punto in cui era stato rinvenuto il cadavere. La zona era stata poi setacciata in cerca di prove. Scorsi anche mozziconi di sigaretta recentemente lasciati dai curiosi. Ragazzini annoiati che amavano spaventarsi a vicenda con falsi avvistamenti di un pazzo che lasciava dietro di sé una scia di denti insanguinati. Un tempo nel ruscello c'erano state delle pietre, fra le quali si era impigliata la corda da bucato stretta intorno al collo di Ann, lasciando la bambina a galleggiare nella corrente come un'impiccata per quasi tutta la notte. Adesso sotto il pelo dell'acqua limpida si vedeva solo la sabbia. Il signor Ronald J. Kamens me ne aveva spiegato il motivo con voce velata d'orgoglio: i cittadini di Wind Gap avevano estratto quelle pietre, le avevano caricate su un pick-up e le avevano frantumate appena fuori dalla città. Si era trattato di un gesto scaramantico, come se quell'atto distruttivo potesse servire a tenere alla larga il male per il futuro. A quanto pareva, non aveva funzionato. Mi sedetti sulla riva del torrente, passando il palmo della mano sul terreno roccioso. Raccolsi un ciottolo liscio e caldo e me lo premetti contro la guancia. Mi chiesi se Ann fosse mai stata lì da viva. Forse le nuove generazioni di Wind Gap avevano trovato modi più interessanti per ingannare il tempo durante l'estate. Quando ero una ragazzina, andavamo a nuotare in un punto del torrente poco più a valle, dove enormi rocce piatte formavano piscine naturali poco profonde. Gamberi d'acqua dolce ci sguazzavano fra i piedi e cercavamo di evitarli, saltellando e urlando quando ne toccavamo uno. Nessuno di noi indossava il costume, portarcelo dietro avrebbe comportato un'organizzazione eccessiva per i nostri gusti. Così tornavamo a casa in bicicletta con i pantaloncini e la maglietta fradici e ci asciugavamo i capelli scrollando la testa come i cani. Talvolta i ragazzi più grandi, muniti di birra e fucile, passavano di lì per andare a caccia di scoiattoli o lepri, con brandelli di carne sanguinolenta appesi alla cintura. Quei ragazzi, arroganti e ubriachi, che puzzavano di sudore e non ci degnavano della minima attenzione, mi ispiravano un grande rispetto. Esistono due generi di cacciatori, adesso lo so. Il gentiluomo alla Teddy Roosevelt, che punta alla selvaggina grossa e si ritira dopo una giornata di caccia a bere un gin tonic, non è il genere di cacciatore con cui sono cresciuta. I ragazzi che conoscevo avevano cominciato a cacciare da piccoli ed erano assetati di sangue. Bramavano il brivido fatale dell'animale braccato che un istante prima spiccava un balzo flessuoso e
l'istante dopo cadeva massacrato dai loro proiettili. Quando ero ancora alle medie, intorno ai dodici-tredici anni, mi ero avventurata nel capanno di caccia di un ragazzino che viveva vicino a noi, una baracca di assi di legno dove gli animali venivano spellati e disossati. Strisce di carne cruda pendevano gocciolanti da corde, in attesa di essiccarsi. Il pavimento era incrostato di sangue rappreso. Le pareti erano tappezzate di foto di donne nude. Alcune avevano le gambe aperte e l'aria lasciva, altre erano tenute giù a forza e penetrate. Una donna era legata, lo sguardo vitreo, i seni pieni e solcati di vene, mentre un uomo la prendeva da dietro. Mi sembrava di sentirne l'odore nell'aria impregnata di sangue. A casa quella sera, mi ero infilata un dito nelle mutande e mi ero masturbata per la prima volta, ansimante e disgustata. 2 Happy hour. Abbandonai le ricerche e feci un salto da Footh, una specie di country bar dall'atmosfera ovattata, prima di recarmi al 1665 di Grove Street, a casa di Robert e Betsy Nash, genitori di Ashleigh, dodici anni, di Tiffanie, undici anni, della defunta Ann, nove anni ormai per sempre, e del piccolo Bobby junior, sei anni. Tre femmine e poi, finalmente, un maschietto. Mentre sorseggiavo il mio bourbon accompagnato da noccioline, pensai alla crescente disperazione che doveva aver preso i Nash ogni volta che era venuto al mondo un neonato senza pene. Dapprima c'era stata Ashleigh: non era un maschio, d'accordo, ma era bella e delicata... e poi, tanto, di figli ne avevano sempre voluti due. La bambina aveva ricevuto un nome sofisticato e stravagante e un armadio pieno di vestitini tutti fronzoli. Poi avevano incrociato le dita e ci avevano riprovato, ma era arrivata Tiffanie. A quel punto si erano innervositi e il benvenuto era stato meno caloroso. Quando la signora Nash era rimasta incinta per la terza volta, suo marito aveva comprato un minuscolo guanto da baseball, tanto per dare al rigonfiamento della pancia una spintarella nella giusta direzione. Immaginate lo sgomento quando era nata Ann! Per lei un nome di famiglia qualunque, senza nemmeno una "e" finale a mo' di ornamento. Grazie a Dio, alla fine era arrivato Bobby. Tre anni dopo la deludente Ann - si era trattato di un incidente o di un ultimo exploit? - Bobby si era guadagnato il nome del padre, nonché la totale adorazione dei genitori, e le tre bambine dovevano essersi improvvisamente accorte di quanto poco contassero. Soprattutto Ann. Nessuno vuole una terza femmi-
na. Adesso, però, un po' di attenzione l'aveva ricevuta. Tracannai il secondo bourbon in un unico sorso, cercai di rilassare le spalle contratte, mi diedi un buffetto sulla guancia e risalii sulla grande Buick blu, subito assalita dal desiderio di un terzo drink. Non sono il tipo di giornalista che ama invadere la privacy altrui. Per questo probabilmente sono una giornalista di seconda classe. Ricordavo ancora bene la strada per Grove Street. Era a due isolati dal mio liceo, il Millard Calhoon, che raccoglieva tutti gli adolescenti nel raggio di cento chilometri. Era stato fondato nel 1930 come estremo tentativo da parte di Wind Gap di reagire alla Depressione e aveva preso il nome dal primo sindaco della città ed eroe della Guerra civile. Un eroe sudista, ma pur sempre un eroe. Durante il primo anno di conflitto, Millard Calhoon aveva tenuto a bada un intero plotone di yankee dalle parti di Lexington, salvando praticamente da solo la cittadina del Missouri. (O, perlomeno, così c'è scritto sulla targa all'ingresso della scuola.) Aveva attraversato di corsa cortili di case coloniche e dimore circondate da palizzate di legno, mettendo premurosamente al riparo starnazzanti matrone, in modo che non fossero ferite dagli yankee. Se andate a Lexington e chiedete di visitare la casa di Calhoon - una notevole testimonianza dell'architettura del periodo potrete vedere ancora adesso i segni delle pallottole dei nordisti nelle assi del pavimento. Le pallottole sudiste di Millard Calhoon si suppone siano state sepolte insieme agli uomini da lui ammazzati. Calhoon stesso morì nel 1929, alla vigilia del suo centesimo compleanno. Era seduto in un gazebo, che adesso non c'è più, nella piazza principale della città, ormai asfaltata, festeggiato da una banda di ottoni, quando si era chinato sulla donna che era sua moglie da cinquantadue anni, dicendo: «È tutto troppo rumoroso». Poi un attacco cardiaco fulminante lo aveva fatto cadere riverso sulla sedia, macchiandogli la divisa della Guerra civile con la torta che era stata decorata a stelle e strisce appositamente per lui. Nutro un particolare affetto per Calhoon. Talvolta è davvero tutto troppo rumoroso. La casa dei Nash era esattamente come me l'ero immaginata: un'anonima costruzione anni Settanta che assomigliava a tutte quelle della zona occidentale della città. Una villetta unifamiliare senza pretese, con il garage al centro. Mentre mi avvicinavo, vidi sul vialetto d'ingresso un sudicio bambino biondo seduto su una bicicletta troppo piccola per lui, tutto intento nello sforzo di pedalare. Le ruote faticavano a girare sotto il suo peso.
«Vuoi una spinta?» domandai, scendendo dalla macchina. Di solito non ci so molto fare con i bambini, ma tentar non nuoce. Il biondino mi fissò in silenzio per un istante, ficcandosi un dito in bocca. La maglietta, che si era sollevata sul davanti, lasciava intravedere un piccolo ventre tondo. Bobby junior aveva un'aria ottusa e intimorita. Finalmente un maschietto per i Nash, ma che delusione! Feci un passo verso di lui. Il bimbo smontò dalla bici che continuò a rimanere ancorata al suolo per un istante e poi franò a terra di lato. «Papà!» ululò Bobby, correndo verso casa come se gli avessi dato un pizzicotto. Non feci in tempo ad arrivare alla porta che un uomo si stagliò sulla soglia. Il mio sguardo si fissò su una fontana in miniatura che gorgogliava dietro di lui, nell'ingresso di casa. Era a tre piani, a forma di conchiglia, con la statua di un bambino appollaiata in cima. Perfino a distanza riuscivo a sentire l'odore dell'acqua stagnante. «Desidera?» «Lei è Robert Nash?» L'uomo assunse subito un'aria circospetta. Probabilmente era la prima domanda che la polizia gli aveva rivolto quando erano venuti a comunicargli che la figlia era morta. «Sì, sono Bob Nash.» «Mi scusi se la disturbo a casa. Mi chiamo Camille Preaker. Sono di Wind Gap.» «Mm.» «Adesso però lavoro per il "Chicago Daily Post". Sono qui per un servizio su tutta la vicenda... la scomparsa di Natalie Keene e l'omicidio di sua figlia.» Mi aspettavo urla, porte sbattute o addirittura un pugno. Bob Nash si ficcò le mani in tasca e si dondolò sui talloni. «Possiamo parlarne in camera da letto.» Mi tenne aperta la porta e io entrai, facendomi strada nel disordine della sala piena di ceste da bucato traboccanti di lenzuola spiegazzate e minuscole magliette. Passai accanto a un bagno, sul cui pavimento campeggiava il supporto di cartone di un rotolo di carta igienica, e proseguii lungo un corridoio disseminato di fotografie sfocate dietro cornici a giorno: bambine bionde che si affollavano amorevoli intorno a un maschietto; un giovane Bob Nash con un braccio intorno alla vita della sua sposa e una fetta di torta nuziale nell'altra mano. Quando arrivai in camera da letto - tende e
copriletto coordinati e un cassettone con specchio - capii perché Nash avesse scelto quella stanza per l'intervista: era l'unica parte della casa in cui si fosse mantenuto un minimo di civiltà, una sorta di avamposto ai margini di una giungla selvaggia. Nash si sedette su un lato del letto, io sull'altro. Non c'erano sedie. Saremmo potuti sembrare due attori di un film porno amatoriale, se non fosse stato per i bicchieri di succo di frutta che stringevamo in mano. Bob Nash era un uomo ancora attraente: baffi accuratamente spuntati, capelli biondi pettinati all'indietro con il gel a mascherare un inizio di stempiatura, una polo verde infilata nei jeans. Dedussi che fosse lui a mettere in ordine quella stanza, il cui squallido nitore era tipico della camera di uno scapolo che ce la mette tutta per tenere pulito. Non ci fu bisogno di preliminari per l'intervista, cosa di cui fui contenta. Sarebbe stato come perdersi in dolci convenevoli, pur sapendo di mirare solo al sesso. «Ann aveva passato tutta l'estate in sella alla bicicletta» esordì lui, senza bisogno che lo sollecitassi. «Tutta l'estate su e giù per l'isolato. Mia moglie e io non le permettevamo di andare oltre. Aveva solo nove anni. Siamo sempre stati iperprotettivi. Poi, poco prima dell'inizio della scuola, mia moglie ha ceduto. Ann continuava a frignare, così lei le ha concesso di spingersi fino a casa della sua amica Emily. Ma Ann non ci è mai arrivata. Prima che ce ne rendessimo conto erano le otto.» «A che ora si era allontanata?» «Più o meno alle sette. Quindi l'hanno presa da qualche parte lungo la strada, in quei dieci isolati. Mia moglie non se lo perdonerà mai. Mai.» «"L'hanno presa"? Pensa che fosse più di una persona?» «Uno, due, tre... che ne so? Un bastardo. Un disgustoso assassino di bambini. Mentre la mia famiglia e io dormiamo, mentre lei se ne va in giro a intervistare la gente, c'è una persona là fuori che cerca bambini da uccidere. Perché lei e io sappiamo benissimo che la piccola Keene non si è semplicemente persa.» Nash finì ciò che rimaneva del succo di frutta e si asciugò le labbra. Le frasi erano belle, a effetto, forse un po' troppo rifinite. È una cosa che ho notato spesso e che, di solito, è direttamente proporzionale alla quantità di tivù guardata dall'intervistato. Recentemente avevo intervistato una donna, la cui figlia di ventidue anni era stata assassinata dal fidanzato e che se n'era uscita con una frase presa di peso da un serial televisivo, che, per caso, avevo avuto occasione di vedere la sera prima: «Vorrei poter dire che pro-
vo pena per lui, ma ormai temo di non poter provare più pena per nessuno in vita mia». «Signor Nash, non le viene in mente nessuno che volesse colpire lei o la sua famiglia, uccidendo Ann?» «Signorina, io mi guadagno da vivere vendendo sedie ergonomiche per telefono. Ho un ufficio a Hayti con altri due tizi. Non vedo praticamente nessuno. Mia moglie lavora part-time nella segreteria della scuola elementare. Non c'è nessun complotto dietro questa faccenda. Qualcuno ha semplicemente deciso di uccidere la nostra bambina.» Pronunciò l'ultima frase in tono rassegnato, come se si fosse abituato all'idea. Poi si avvicinò alla porta a vetri scorrevole, che si affacciava su una piccola veranda, e la aprì, ma non uscì. «Magari è stato un omosessuale» mormorò. «Perché dice così?» «Non è stata violentata, il che, a detta di tutti, è insolito in un omicidio del genere. Io dico solo che è l'unica benedizione in tutta questa storia. Preferisco che l'abbia ammazzata piuttosto che stuprata.» «Non c'era nessun segno di molestie?» chiesi in un sussurro che speravo suonasse cortese. «No. Nessuna ferita, nessun taglio, nessun segno di... tortura. L'ha solo strangolata. E le ha strappato i denti. E non pensavo davvero quel che ho detto poco fa sul fatto che è meglio che sia stata uccisa piuttosto che violentata. È un'idiozia. Ma ha capito cosa intendevo.» Non replicai, lasciando che il nastro del registratore scorresse catturando il mio respiro, il tintinnio del ghiaccio nel bicchiere di Nash, i tonfi di una partita di pallavolo giocata nella casa accanto, alla luce morente del giorno. «Papà?» Una graziosa bambina bionda, con i capelli stretti in una coda di cavallo che le scendeva fino alla vita, si affacciò alla porta della camera da letto. «Non adesso, tesoro.» «Ho fame.» «Preparati qualcosa» ribatté Nash. «Ci sono delle cialde nel freezer. Fai mangiare anche Bobby.» La bambina indugiò un attimo, fissando il tappeto ai suoi piedi, poi in silenzio chiuse la porta. Mi domandai dove fosse la madre. «Lei era in casa la sera in cui Ann è scomparsa?» Nash mi guardò, piegando la testa di lato, e fece una smorfia con la bocca. «No, stavo tornando da Hayti. È a un'ora di macchina da qui. Non sono
stato io a far del male a mia figlia.» «Non è quello che intendevo dire» mentii. «Mi stavo solo chiedendo se l'avesse vista quella sera.» «L'avevo vista la mattina» ribatté lui. «Non ricordo neanche se abbiamo parlato o no. Probabilmente no. Quattro bambini di mattina possono essere davvero troppi, sa?» Fece roteare nel bicchiere i cubetti di ghiaccio, che si erano ormai quasi sciolti, e poi si passò le dita sulle punte dei baffi. «Non ci sono stati grandi sviluppi, finora» aggiunse. «Vickery è troppo coinvolto. Hanno fatto venire un altro detective da Kansas City, ma è un ragazzino, peraltro arrogante. Sembra quasi che stia contando i giorni per andarsene. Vuole vedere una foto di Ann?» Estrasse dal portafoglio l'immagine di una bambina con un grande sorriso un po' sbilenco e i capelli color castano chiaro scalati all'altezza del mento. «Mia moglie voleva metterle i bigodini la sera prima della foto scolastica, ma Ann si è tagliata i capelli da sola. Era testarda. Un maschiaccio. Mi ha sorpreso che abbiano preso lei. Ashleigh è sempre stata quella carina, quella che tutti guardano.» Fissò ancora una volta la foto. «Ann deve aver lottato come un'ossessa.» Mentre stavo uscendo, Nash mi diede l'indirizzo dell'amica da cui Ann stava andando la sera della scomparsa. Guidai lentamente fino a un quartiere di vie perfettamente squadrate. Quella occidentale era la zona più nuova della città. Lo si capiva dall'erba di un verde più brillante, piantata in grandi zolle predefinite una trentina di estati prima. Niente a che vedere con l'erba scura, secca e friabile, che cresceva di fronte alla casa di mia madre. Quella andava meglio per fischiare. Bastava dividere il filo d'erba a metà e soffiarvi dentro per ottenere un sibilo sordo fino a farsi prudere le labbra. Ad Ann Nash sarebbero bastati cinque minuti per arrivare a casa dell'amica in bicicletta. Dieci in più, se avesse deciso di prendere la strada più lunga e sgranchirsi un po' le gambe nella prima vera pedalata dell'estate. A nove anni si è troppo grandi per essere costretti a pedalare sempre intorno allo stesso isolato. Che ne era stato della bicicletta? Passai lentamente accanto alla casa di Emily Stone. Mentre la notte si tingeva di blu, vidi una bambina attraversare di corsa il riquadro di una finestra illuminata. Scommetto che i genitori di Emily dicevano agli amici cose come «L'abbracciamo un po' più stretta la sera, adesso». Scommetto che Emily si chiedeva dove Ann fosse stata portata a morire. Io me lo chiesi. Strappare circa una ventina di denti, per quanto piccoli, per quanto da un corpo inanimato, è un lavoro faticoso. Doveva essere sta-
to compiuto in un luogo sicuro, dove potersi riposare ogni tanto e riprendere fiato. Guardai la fotografia di Ann, con i bordi che erano arrotolati verso l'interno quasi a volerla proteggere. Quel taglio di capelli provocatorio e quel sogghigno mi ricordarono Natalie. Anche questa bambina mi piaceva. Riposi la foto nel vano portaoggetti. Poi mi tirai su una manica della camicia e con la penna blu scrissi il suo nome completo - Ann Marie Nash - nella parte interna del mio braccio. Evitai di infilarmi in un vialetto d'accesso privato per invertire il senso di marcia come avrei fatto in altre circostanze, perché immaginai che la gente fosse già abbastanza sul chi vive in quel momento senza bisogno di vedere una macchina sconosciuta vagabondare nei dintorni. Svoltai, invece, a sinistra alla fine dell'isolato e presi la strada più lunga verso la casa di mia madre. Mi chiesi se avrei dovuto telefonarle per avvertirla, ma, ormai in prossimità della meta, decisi che non era il caso. Era troppo tardi per telefonare, sarebbe stata una formalità maldestra e inutile. Dopo che uno ha varcato il confine di Stato, non chiama per chiedere se può entrare. L'imponente casa di mia madre si trova all'estremità meridionale di Wind Gap, nel quartiere ricco (sempre che si possa chiamare quartiere un gruppo di soli tre isolati). È un'elaborata dimora in stile vittoriano, con un'infilata di finestre, una veranda tutt'intorno, un portico sul retro e una cupola che svetta sul tetto. È piena di cantucci intimi e recessi tortuosi. I vittoriani, specialmente quelli del Sud, avevano bisogno di molte stanze per isolarsi gli uni dagli altri, evitare tubercolosi e influenza, sottrarsi alla lussuria, proteggersi da spiacevoli emozioni. Un po' di spazio in più non guasta mai. La casa sorge in cima a una collina molto scoscesa. Si può arrancare con la macchina in prima su per il vialetto pieno di buche e arrivare di fronte alla casa, dove un porticato protegge le auto dalla pioggia. Oppure si può parcheggiare ai piedi della collina e fare i sessantatré gradini fino alla casa, tenendosi alla ringhiera sulla sinistra. Da bambina usavo sempre le scale per salire e il vialetto per scendere di corsa. Credevo che la ringhiera fosse stata messa a sinistra per gentilezza nei miei confronti, visto che sono mancina. Curioso il fatto che mi perdessi in simili pensieri... Parcheggiai ai piedi della collina, in modo che la mia presenza risultasse meno invasiva. Il tempo di arrivare in cima ed ero già madida di sudore. Sollevai i capelli e mi passai una mano sul collo, poi scrollai un paio di
volte la camicetta per arieggiarla. Volgari macchie di sudore occhieggiavano sotto le ascelle. Odoravo, come avrebbe detto mia madre, di stantio. Premetti il campanello, che quand'ero piccola riecheggiava in un lungo miagolio acuto, mentre ora aveva un suono breve e smorzato. Erano le nove e un quarto di sera: abbastanza tardi perché qualcuno fosse già a letto. «Chi è?» La voce stridula di mia madre dietro la porta. «Ciao, mamma, sono Camille» risposi, cercando di mantenere un tono calmo. «Camille.» Mia madre aprì la porta e rimase sulla soglia. Non sembrava sorpresa e non mi offrì alcun abbraccio, neanche quello un po' sbilenco che mi sarei aspettata. «È successo qualcosa?» «No, no, mamma. Assolutamente no. Sono in città per lavoro.» «Lavoro? Be', santo cielo, scusa tesoro, entra. La casa non è proprio al meglio per una visita, temo.» La casa era perfetta, curata nei minimi dettagli, compresi i mazzi di tulipani nell'ingresso. L'aria era talmente satura di polline che gli occhi mi pizzicarono. Naturalmente mia madre non mi chiese quale lavoro mi avesse portato da quelle parti. Raramente faceva domande così personali. Forse per un esagerato rispetto della privacy altrui, oppure semplicemente perché non gliene importava abbastanza. Vi lascio indovinare qual era la mia opzione preferita. «Posso offrirti qualcosa da bere, Camille? Alan e io stavamo bevendo un cocktail all'amaretto.» Indicò il bicchiere che teneva in mano. «Ci aggiungo uno spruzzo di Sprite per attenuare il gusto dolce. Ma posso offrirti anche succo di mango, vino, tè dolce o acqua naturale. Oppure acqua gassata. Dove pensi di alloggiare?» «Buffo che tu me lo chieda. Speravo di potermi sistemare qui. Si tratta solo di pochi giorni.» Una breve pausa. Le lunghe unghie di mia madre, smaltate di un rosa trasparente, tintinnarono sul bicchiere. «Be', ma certo, non c'è problema. Avresti potuto telefonare, però, tanto per farmelo sapere. Ti avrei preparato qualcosa da mangiare. Vieni a salutare Alan. Siamo sotto il portico sul retro.» Si incamminò lungo il corridoio - luminosi saloni bianchi, salotti e sale di lettura che si affacciavano su entrambi i lati - e io la seguii, avendo così modo di osservarla. Non ci vedevamo da quasi un anno. I miei capelli erano di un colore diverso, castani anziché rossi, ma lei pareva non averlo no-
tato. Mia madre, invece, era sempre la stessa e non sembrava molto più vecchia di me, benché fosse ormai prossima ai cinquant'anni. Splendida pelle diafana, lunghi capelli biondi e occhi azzurri. Era come la bambola preferita di ogni bambina, quella con cui quasi non si osa giocare. Indossava un lungo abito di cotone rosa e ciabattine bianche. Fece roteare il drink nel bicchiere senza versarne neanche una goccia. «Alan, c'è Camille.» Scomparve nella cucina sul retro (la più piccola delle due), dove la sentii estrarre i cubetti di ghiaccio dall'apposito contenitore. «Chi?» Mi affacciai sulla soglia, esibendomi in un sorriso. «Camille. Mi dispiace di esservi piombata in casa così all'improvviso.» Una cosina deliziosa come mia madre sembrava nata per stare con un ex campione di football. Sarebbe stata perfetta accanto a un muscoloso gigante baffuto. Alan invece era, se possibile, ancora più magro di lei, con zigomi alti che sporgevano dal volto affilato, riducendo gli occhi quasi a due fessure. Ogni volta che lo vedevo mi veniva voglia di fargli una flebo ricostituente. Era sempre elegante, perfino per una serata casalinga con mia madre. Sedeva impettito, con le gambe magre che spuntavano da un paio di calzoncini da safari, e aveva un maglione celeste drappeggiato su un'immacolata camicia di cotone oxford. Non sudava affatto. Alan è l'antitesi del sudore. «Camille, che piacere! Davvero un piacere» mormorò con il suo tono cantilenante. «Sei venuta fin quaggiù a Wind Gap. Pensavo che per te ci fosse una moratoria su qualunque cosa si trovi a sud dell'Illinois.» «Si tratta di lavoro, veramente.» «Lavoro.» Pausa. Un sorriso. Era quanto di più simile a una domanda, da parte sua. Mia madre ricomparve, i capelli adesso legati con un fiocco blu. Una Barbie stagionata. Mi mise in mano un bicchiere di amaretto e Sprite, mi batté due volte sulla spalla e si sedette accanto ad Alan, lontana da me. «Quelle due bambine, Ann Nash e Natalie Keene» esordii. «Devo scrivere un articolo per il giornale.» «Oh, Camille» mi zittì mia madre, distogliendo lo sguardo. Quando è irritata o sconvolta, mia madre ha una caratteristica peculiare: si tira le ciglia. A volte fino a strapparle. In periodi particolarmente difficili, quando ero bambina, non aveva più ciglia e i suoi occhi erano costantemente arrossati come quelli di un coniglio da laboratorio. D'inverno lacrimavano
ogni volta che usciva all'aria. Il che non succedeva spesso. «È l'incarico che mi hanno assegnato.» «Santo Dio, che razza di incarico!» esclamò lei, con le dita pericolosamente vicine agli occhi. Si grattò la pelle sottostante e abbassò le mani in grembo. «Quei poveri genitori non soffrono già abbastanza senza che tu venga qui a estorcere informazioni per spargerle ai quattro venti? "Wind Gap uccide i suoi bambini!" È questo che vuoi che la gente pensi?» «Una bambina è stata uccisa, un'altra è scomparsa. Il mio lavoro è fare in modo che la gente ne sia informata, sì.» «Conoscevo quelle bambine, Camille, e sto passando un momento molto difficile, come puoi immaginare. Uccidere delle bambine. Che razza di mostro può fare una cosa del genere?» Bevvi un sorso del mio drink. Granelli di zucchero mi si appiccicarono alla lingua. Non ero pronta a parlare con mia madre. Sentii la mia pelle ronzare. «Non mi fermerò molto, te lo prometto.» Alan arrotolò le maniche del maglione, lisciando con la mano la piega dei pantaloncini. Il suo contributo alla conversazione di solito arrivava sotto forma di piccoli aggiustamenti: un colletto sistemato, una gamba accavallata. «Non posso proprio sopportare questo tipo di discorsi» esclamò mia madre. «Violenza sui bambini. Non dirmi che cosa farai, non raccontarmi che cosa verrai a sapere. Farò finta che tu sia qui in vacanza.» Percorse con la punta delle dita il contorno della poltrona di vimini di Alan. «Come sta Amma?» domandai, per cambiare argomento. «Amma?» ripeté mia madre, improvvisamente allarmata, come se si fosse dimenticata sua figlia da qualche parte. «Sta bene. È di sopra che dorme. Perché me lo chiedi?» Dai passi che sentivo muoversi freneticamente al piano superiore - dalla stanza dei giochi al guardaroba, fino alla finestra del corridoio, la postazione migliore per spiare il portico sul retro - capii che Amma non dormiva affatto. Non potevo biasimarla se non voleva incontrarmi. «Era solo per educazione, mamma. Ci comportiamo così, al Nord.» Sorrisi per far capire che stavo scherzando, ma lei abbassò lo sguardo sul bicchiere, rialzandolo poi con espressione risoluta. «Rimani pure quanto vuoi, Camille, davvero» dichiarò. «Ma cerca di essere gentile con tua sorella. Quelle bambine erano sue compagne di scuola.»
«Non vedo l'ora di conoscerla meglio» bofonchiai. «E mi dispiace per quel che ha dovuto passare.» Non riuscii a evitare quest'ultima frase, ma mia madre non ne notò la punta amara. «Ti darò la tua vecchia stanza. Ha la vasca da bagno. Comprerò frutta fresca e dentifricio. E bistecche. Ti piacciono le bistecche?» Quattro ore di sonno agitato, come se fossi stata sdraiata in una vasca da bagno con le orecchie semisommerse dall'acqua. Ogni venti minuti scattavo a sedere sul letto con il cuore che batteva tanto forte da farmi venire il dubbio che fossero proprio quei battiti forsennati a svegliarmi. Sognai che preparavo i bagagli per un viaggio, per poi accorgermi di aver messo in valigia i vestiti sbagliati, tipo maglioni pesanti per una vacanza estiva. Sognai che avevo consegnato a Curry l'articolo sbagliato prima di partire: così, invece della triste vicenda di Tammy Davis e dei suoi quattro bambini segregati, avevamo pubblicato un pubbliredazionale sulla cura della pelle. Sognai che mia madre sbucciava una mela, tagliandola poi in cubetti che diventavano di carne, e me la dava da mangiare, lentamente e dolcemente, perché stavo per morire. Poco dopo le cinque di mattina, mi decisi finalmente ad alzarmi. Lavai via il nome - Ann Marie Nash - che avevo scritto sul braccio, ma non so bene perché, ora che mi fui vestita, lavata i denti, spazzolata i capelli e messa il rossetto, l'avevo sostituito con quello di Natalie Keene. Decisi di lasciarvelo per scaramanzia. Per quanto il sole fosse appena sorto, la maniglia della portiera della mia macchina era già calda. Mi sentivo la faccia intorpidita per la mancanza di sonno, così spalancai bocca e occhi come una professionista dell'urlo in un film di serie B. La squadra di ricerca doveva riunirsi nuovamente alle sei per continuare il lavoro nel bosco; volevo un commento da parte di Vickery prima di cominciare la giornata. Picchettare il comando di polizia mi pareva una buona mossa. Main Street mi sembrò vuota sulle prime, ma, quando scesi dall'auto, vidi due persone a pochi isolati da dove mi trovavo. Era una scena surreale: una donna anziana seduta a gambe aperte nel bel mezzo del marciapiede, con lo sguardo fisso sul lato di un edificio, e un uomo chino su di lei. La donna scuoteva la testa in modo ossessivo, come un bambino che si rifiuta di mangiare. Le gambe erano divaricate a un'angolazione che doveva risultare dolorosa. Una brutta caduta? Forse, oppure un attacco di cuore. Avvicinandomi rapidamente riuscii a distinguere il mormorio concitato delle loro voci.
L'uomo, con i capelli bianchi e il volto segnato, alzò su di me uno sguardo vacuo. «Avverta la polizia» mi disse con voce rotta. «E chiami un'ambulanza.» «Che cos'è successo?» domandai. E a quel punto lo vidi. Incuneato nell'esiguo spazio tra il ferramenta e il salone di bellezza c'era un piccolo corpo, accucciato sul marciapiede. Come se si fosse seduto lì ad aspettarci, gli occhi castani spalancati. Riconobbi i riccioli ribelli. Ma il sorriso era sparito. Le labbra di Natalie Keene, risucchiate all'interno della bocca, formavano un piccolo cerchio. La bambina sembrava un bambolotto di plastica, di quelli con un buco in bocca per infilarci il biberon. Natalie non aveva più i denti. Il sangue mi andò alla testa e il viso mi si imperlò di sudore freddo. Sentii che gambe e braccia mi cedevano e per un istante temetti di crollare a terra accanto alla donna, che ora stava pregando silenziosamente. Indietreggiai, andando a sbattere contro una macchina parcheggiata e mi portai le dita al collo, come se volessi rallentare le pulsazioni. I miei occhi riuscivano a captare solo spezzoni di immagini: la punta di gomma del bastone da passeggio dell'uomo anziano; un neo rossastro sul collo della donna; il cerotto sul ginocchio di Natalie. Sentivo il suo nome ardere sul mio braccio, sotto la manica della camicia. Poi altre voci, e Bill Vickery che correva verso di noi insieme a un altro uomo. «Maledizione» grugnì Vickery, quando la vide. «Maledizione. Cristo santo!» Appoggiò il viso contro il muro del salone di bellezza, respirando affannosamente. Il secondo uomo, che aveva all'incirca la mia età, si accucciò accanto a Natalie, premendole due dita poco sopra il segno bluastro che aveva intorno al collo, per tentare di sentire il battito. Una tattica diversiva per riprendersi dallo shock... la bambina era evidentemente morta. "Il detective di Kansas City" pensai, "il ragazzino arrogante." Fu bravo, però, a distogliere la donna dalle sue preghiere, inducendola a raccontare quanto era successo. Lei e l'uomo anziano erano moglie e marito, i proprietari della tavola calda di cui non ricordavo il cognome il giorno prima. I Broussard. Stavano andando ad aprire il locale quando l'avevano trovata. Erano arrivati circa cinque minuti prima che sopraggiungessi io. Arrivò un agente in divisa che si coprì il volto con le mani quando vide il motivo per cui era stato chiamato. «Devo pregarvi di andare al comando di polizia con l'agente per rilascia-
re la vostra dichiarazione» disse il detective di Kansas City. «Bill!» esclamò poi rivolto a Vickery, con il tono severo di un padre. Vickery era inginocchiato accanto al corpo, immobile. Le sue labbra si muovevano silenziose, come se anche lui stesse pregando. Il detective dovette chiamarlo due volte prima che Vickery alzasse di scatto la testa. «Ti ho sentito, Richard. Cerca di essere umano per un attimo!» Passò un braccio intorno alle spalle della signora Broussard, mormorandole qualcosa, finché la donna non gli batté riconoscente dei colpetti sulla mano. Rimasi seduta in una stanza color rosso d'uovo per due ore, mentre l'agente trascriveva la mia deposizione. E per tutto il tempo non feci altro che pensare al corpo di Natalie sul tavolo dell'autopsia e a come avrei voluto sgattaiolarle accanto e metterle un cerotto nuovo sul ginocchio. 3 Mia madre si vestì di blu al funerale. Il nero era senza speranza e qualsiasi altro colore sarebbe stato indecoroso. Era in blu anche al funerale di Marian, mi disse. E anche Marian lo era. Si stupì che non me ne ricordassi. Io, invece, mi ricordavo che Marian era stata sepolta con un vestitino rosa pallido. Non c'era da meravigliarsene. Mia madre e io dissentiamo sempre su tutto ciò che riguarda la mia sorellina defunta. La mattina del servizio funebre Adora non fece altro che tacchettare dentro e fuori dalle stanze, ora spruzzandosi un po' di profumo, ora allacciandosi un orecchino. Io la osservavo, bevendo una tazza di caffè e scottandomi la lingua. «Non li conosco bene» mormorò. «Se ne stavano molto per conto loro. Ma penso che sia un dovere di tutta la comunità essere loro vicini in questo momento. Natalie era un tale tesoro. Sono stati tutti così carini con me quando...» Occhi bassi, sguardo malinconico. Poteva anche essere sincera. Ero a Wind Gap da cinque giorni e Amma era ancora una presenza fantasma. Mia madre non la nominava mai. Non ero riuscita a farmi rilasciare un commento dai Keene, né avevo avuto il loro permesso di partecipare al funerale, ma Curry voleva quel pezzo più di qualunque altra cosa al mondo e io volevo dimostrargli di potercela fare. Pensai che tanto i Keene non l'avrebbero mai scoperto. Nessuno legge il nostro giornale. Mormorii di saluto e abbracci profumati nella chiesa di Nostra Signora del Dolore: alcune donne fecero un cortese cenno con il capo nella mia direzione, dopo aver tubato amorevolmente con mia madre («Adora, come
sei stata coraggiosa a venire!») ed essersi strette per farle posto. Nostra Signora del Dolore è una rutilante chiesa cattolica degli anni Settanta: scintillante e placcata d'oro come un anello dozzinale. Fondata da un gruppo di irlandesi, Wind Gap è un minuscolo avamposto cattolico in una fiorente regione di battisti. Tutti i vari McMahon e Malone, approdati a New York durante la carestia delle patate, vennero debitamente maltrattati e i più fortunati furono spediti all'Ovest. I francesi regnavano già a Saint Louis, perciò si diressero a sud e fondarono le proprie città. Ma anni dopo, durante la Ricostruzione, vennero buttati fuori senza tante cerimonie. Il Missouri, da sempre territorio di conflitti, stava cercando di estirpare le radici sudiste e di reinventarsi come Stato non schiavista, così gli imbarazzanti irlandesi vennero spazzati via, insieme ad altri indesiderabili. Se ne andarono lasciandosi dietro la religione. Mancavano dieci minuti all'inizio della funzione e si stava già formando la coda per entrare in chiesa. Esaminai i convenuti. Qualcosa non andava. Non si vedevano bambini. Niente maschietti in pantaloni scuri che facevano correre macchinine sulle gambe delle madri, niente bambine che cullavano bambole di pezza. Non un volto al di sotto dei quindici anni. Non sapevo se si trattasse di un atto di riguardo verso i genitori della vittima, o di una forma di difesa dettata dalla paura. Un gesto istintivo per evitare che il proprio figlio diventasse la preda successiva. Riuscii a raffigurarmi centinaia di bambini di Wind Gap, maschi e femmine, nascosti in tinelli semibui, che si succhiavano il pollice guardando la tivù, al sicuro. Senza bambini, gli astanti sembravano statici, come sagome di cartone che tenevano il posto delle persone reali. In fondo alla chiesa scorsi Bob Nash, in abito scuro. Sempre senza moglie. Mi fece un rapido cenno con la testa, poi aggrottò la fronte. L'organo attaccò le note di Be Not Afraid e i familiari di Natalie Keene, che fino a quel momento si erano attardati all'ingresso, piangendo e abbracciando amici e conoscenti, sfilarono compatti lungo la navata. Bastavano due uomini a trasportare il piccolo feretro bianco. Se fossero stati di più sarebbero andati a sbattere gli uni contro gli altri. La madre e il padre di Natalie aprivano la processione. Lei era più alta del marito di almeno dieci centimetri, un donnone dall'aria cordiale, con i capelli color sabbia trattenuti da un cerchietto. Aveva un viso aperto: il genere di viso che induce gli sconosciuti a chiedere informazioni o l'ora. Il signor Keene era piccolo e magro, con un volto da bambino, reso ancor più
tondo da un paio di occhiali cerchiati di metallo, che sembravano le ruote dorate di una bicicletta. Dietro di loro camminava un bel ragazzo di diciotto o diciannove anni, che singhiozzava con la testa castana china sul petto. Il fratello di Natalie, bisbigliò una donna alle mie spalle. Le lacrime presero a rigare il volto di mia madre, gocciolando rumorosamente sulla borsa di pelle che teneva in grembo. La donna accanto a lei le diede un affettuoso colpetto sulla mano. Sfilai il bloc-notes dalla tasca della giacca e incominciai a scribacchiare appunti, finché mia madre non mi diede uno schiaffo sulla mano, sibilando: «Ti stai comportando in modo vergognoso e ci metti tutti in imbarazzo. Smettila o dovrò chiederti di andartene». Smisi di scrivere, rossa come un pomodoro, ma non riposi il bloc-notes, per un infantile gesto di sfida. Il corteo dei familiari ci passò accanto. La bara sembrava incredibilmente piccola. Mi immaginai Natalie dentro, rividi le sue gambine ricoperte da una lieve peluria, le ginocchia ossute e il cerotto e sentii una fitta di dolore pungente e dura, come un punto battuto a macchina alla fine di una frase. Mentre il prete, con indosso i paramenti funebri, mormorava le preghiere di apertura e noi ci alzavamo in piedi, per poi sederci e alzarci di nuovo, vennero distribuiti i libretti di preghiera. In prima pagina la Vergine Maria sorrideva radiosa, il cuore rosso fuoco rivolto al Bambin Gesù. Sul retro era stampato: NATALIE JANE KEENE DILETTA FIGLIA, SORELLA E AMICA IL PARADISO HA UN NUOVO ANGELO Una grande fotografia di Natalie, più formale di quella che avevo visto sui volantini, era appoggiata accanto al feretro. Era una bimba goffa e senza pretese, con il mento appuntito e gli occhi leggermente sporgenti, che però, crescendo, sarebbe potuta diventare una bellezza mozzafiato, deliziando gli uomini con la storia del brutto anatroccolo trasformato in cigno; oppure sarebbe potuta rimanere goffa e senza pretese. A dieci anni l'aspetto di una bambina è mutevole. La madre di Natalie si fece strada fino al pulpito, stringendo in mano un foglietto. Aveva il volto rigato di lacrime, ma la voce era ferma quando cominciò a parlare. «Questa è una lettera che ho scritto a Natalie, la mia bambina.» Fece un
respiro tremante e le parole cominciarono a scaturire come per incanto. «Natalie, figlia mia adorata. Non posso credere che ti abbiano strappata a noi. Mai più potrò cantarti una canzone per farti addormentare, né farti il solletico sulla schiena. Mai più tuo fratello ti tirerà i codini o tuo padre ti prenderà in braccio. Tuo padre non ti accompagnerà all'altare. Tuo fratello non sarà mai zio. Sentiremo la tua mancanza durante le cene domenicali e le vacanze estive. Ci mancheranno le tue risate. Ci mancheranno le tue lacrime. Ma più di tutto, tesoro mio, ci mancherai tu. Ti vogliamo bene, Natalie.» Mentre la signora Keene ritornava al suo posto, il marito le si affrettò incontro, ma lei sembrò non aver bisogno di sostegno. Non appena si fu seduta, il figlio si rifugiò fra le sue braccia, piangendo con il viso nascosto nell'incavo della sua spalla. Il signor Keene si girò verso i banchi alle sue spalle con lo sguardo torvo, come se stesse cercando qualcuno da picchiare. «Perdere un figlio è una tragedia terribile» esordì il prete. «Doppiamente terribile è perderlo per effetto di una simile malvagità. Perché è proprio di malvagità che si tratta. "Occhio per occhio, dente per dente" dice la Bibbia. E, tuttavia, non lasciamoci trasportare dalla vendetta, ma pensiamo piuttosto alle parole di Gesù: "Ama il prossimo tuo". Cerchiamo di essere buoni con il prossimo in questi momenti difficili. Innalziamo i nostri cuori a Dio.» «Preferivo occhio per occhio» bofonchiò un uomo dietro di me. Chissà se quel "dente per dente" aveva turbato qualcun altro, oltre a me. Quando uscimmo alla luce accecante del giorno, scorsi quattro ragazzine sedute su un muretto dall'altra parte della strada. Lunghe gambe da puledro che dondolavano nell'aria. Seni rotondi messi in evidenza dai reggiseni pushup. Le stesse ragazzine in cui mi ero imbattuta ai margini del bosco. Erano intente a confabulare e a ridere, ma poi una di loro - ancora una volta, la più carina - mi indicò con un cenno della testa e a quel punto finsero di chinare il capo in segno di rispetto, con le spalle ancora scosse dalle risate. Natalie fu sepolta nel lotto di famiglia, accanto alle pietre tombali che portavano già inciso il nome dei genitori. Conosco il vecchio adagio secondo cui nessun genitore dovrebbe mai assistere alla morte dei propri figli, perché si tratta di un evento contro natura. Eppure questo è l'unico modo per tenere davvero con sé i propri figli, che, altrimenti, crescono e
stringono nuove e più potenti alleanze. Trovano un coniuge o un amante. Non saranno mai sepolti insieme ai genitori. I Keene, invece, rimarranno la forma più pura di famiglia. Sottoterra. Dopo il funerale, la gente si riunì a casa dei Keene, un'imponente dimora colonica di pietra, una versione ricca dell'America rurale. Non c'era niente di simile a Wind Gap. I ricchi del Missouri tendono a tenere le distanze dal bucolico, da quel tipo di eccentricità campagnola. Pensate solo che, nell'America coloniale, le donne ricche vestivano lievi sfumature di blu e grigio per neutralizzare la loro immagine pacchiana di Nuovo Mondo, mentre le loro omologhe in Inghilterra si imbellettavano come uccelli esotici. In breve, la casa dei Keene faceva troppo Missouri per essere riconosciuta dagli autoctoni. Il buffet era a base perlopiù di carne: tacchino e prosciutto, manzo e cacciagione, involtini, polpettone e pasticcio in crosta. Il tutto accompagnato da cetriolini, olive e uova farcite. Gli ospiti si divisero in due gruppi, quelli in lacrime e quelli con gli occhi asciutti. Questi ultimi rimasero in cucina, a bere caffè e liquore e a parlare delle imminenti elezioni del consiglio cittadino e del futuro delle scuole, interrompendosi a tratti per commentare rabbiosamente la mancanza di progressi nelle indagini. «Giuro che se vedo uno sconosciuto avvicinarsi alla mia bambina, sparo a quel figlio di puttana prima ancora che riesca a dire una parola!» esclamò un uomo dal volto affilato, brandendo un panino al roast-beef. I suoi amici annuirono enfaticamente. «Non capisco perché diavolo Vickery non abbia fatto evacuare il bosco, cavolo!» esclamò un uomo più giovane dai capelli rosso carota. «Avrebbe dovuto raderlo al suolo. Sapete bene cosa c'è là dentro.» «Donnie, vengo io con te laggiù, domani mattina» ribatté l'uomo dal volto affilato. «Setacciamo il bosco palmo a palmo. Lo scoviamo noi quel figlio di puttana. Chi è dei nostri?» I presenti mormorarono il loro assenso, bevendo altro liquore dai bicchierini di plastica. Mi feci un appunto mentale di passare dal bosco l'indomani mattina per vedere se il doposbornia avesse ceduto il posto alla vera azione. Mi sembrava già di sentire le telefonate imbarazzate. "Tu ci vai?" "Mah, non so, penso di sì, e tu?" "Ecco, veramente avevo promesso a Maggie che avrei ridipinto le imposte... "
Accordi per incontrarsi per una birra, più tardi, e ricevitori riagganciati molto lentamente per soffocare il senso di colpa. Quelli che piangevano, perlopiù donne, erano rimasti nel salone principale, su soffici divani e ottomane di pelle. Il fratello di Natalie singhiozzava fra le braccia della madre, che lo cullava piangendo in silenzio e accarezzandogli i capelli scuri. Che tenerezza quel ragazzo che piangeva davanti a tutti! Non avevo mai visto niente del genere. Le signore si avvicinavano offrendo loro piatti di carta colmi di cibo, ma madre e figlio si limitavano a scuotere la testa in segno di diniego. Mia madre svolazzava intorno come un cardellino impazzito, ma loro non le prestarono la minima attenzione e lei ben presto si ritirò nella sua cerchia di amiche. Il signor Keene se ne stava in un angolo insieme al signor Nash, a fumare in silenzio. Tracce recenti della presenza di Natalie erano ancora sparse in tutta la stanza. Un piccolo maglione grigio sulla spalliera di una sedia, un paio di scarpe da tennis con i lacci blu accanto alla porta. Su uno degli scaffali della libreria c'era un blocco a spirale con un unicorno in copertina, mentre in un portariviste scorsi una copia di Nelle pieghe del tempo. Io fui pessima. Non mi avvicinai ai familiari di Natalie, non mi presentai neanche. Mi aggirai per la loro casa, spiandoli, con la testa china sulla mia birra, come un fantasma vergognoso. Adocchiai Katie Lacey, la mia migliore amica dei tempi del liceo, nel suo gruppo di amiche dall'acconciatura irreprensibile, la copia esatta delle amiche di mia madre con vent'anni di meno. Quando mi avvicinai, Katie mi baciò sulla guancia. «Ho sentito dire che eri in città e speravo che mi chiamassi!» esclamò, corrugando le sopracciglia sottili prima di affidarmi alle altre tre donne, che mi si affollarono intorno stringendomi in goffi abbracci. Erano state tutte mie amiche un tempo, evidentemente. Ci scambiammo frasi di circostanza, mormorando quanto fosse triste tutto questo. Angie Papermaker (nata Knightley) - il collo sottile e rugoso come quello di una vecchia sembrava ancora in lotta contro la bulimia che l'aveva tormentata alle superiori. Mimi, la ricca marmocchia viziata (suo padre possedeva interi allevamenti di polli giù in Arkansas), che non mi aveva mai amato molto, mi chiese di Chicago e poi si girò subito a parlare con Tish, che aveva deciso di tenermi per mano in un gesto di conforto abbastanza bizzarro. Angie mi annunciò che aveva una bambina di cinque anni: suo marito era rimasto a casa a farle la guardia con il fucile spianato. «Sarà una lunga estate per i nostri bambini» sussurrò Tish. «Penso che li
terremo tutti sottochiave.» Ripensai alle ragazzine che avevo visto fuori dalla chiesa al funerale, e che non dovevano avere molti anni più di Natalie, e mi domandai come mai i loro genitori non fossero preoccupati. «Hai figli, Camille?» mi chiese Angie, la voce esile come il suo corpo. «Non so neanche se sei sposata.» «No e no» risposi, tracannando un sorso di birra, mentre mi tornava in mente un'immagine di Angie che vomitava a casa mia dopo la scuola, riemergendo dal bagno tutta rossa e trionfante. Curry si sbagliava: essere del posto non era affatto un vantaggio. Anzi. «Signore, non potete accaparrarvi l'ospite di fuori città per tutta la sera!» Mi girai e vidi una delle amiche di mia madre, Jackie O'Neele (nata O'Keefe), evidentemente reduce da un recente lifting. Gli occhi erano ancora gonfi e il viso era umido e arrossato, come quello di un neonato appena espulso dal grembo materno. Svariati diamanti scintillavano sulle sue dita abbronzate e quando mi abbracciò fui avvolta da una nuvola profumata di juicy Fruit e borotalco. La serata cominciava ad assomigliare sempre più a una rimpatriata. Mi sentivo pericolosamente catapultata nel periodo dell'adolescenza e non osavo tirar fuori il mio bloc-notes, con mia madre nei paraggi che mi scoccava occhiate ammonitrici. «Bambina mia, ma come sei bella!» esclamò Jackie. Aveva una testa gonfia di capelli supertinti e un sorriso birichino. Jackie era sorniona e superficiale, ma perlomeno era sempre uguale a se stessa. E io mi ero sempre sentita più a mio agio con lei che con mia madre. Era stata Jackie, non Adora, ad allungarmi di nascosto la mia prima scatola di assorbenti interni, dicendomi con una strizzatina d'occhi di telefonarle se avessi avuto bisogno di istruzioni, ed era sempre Jackie quella che mi punzecchiava allegramente sui ragazzi. Piccoli grandi gesti. «Come stai, tesoro? Tua madre non mi ha detto che eri in città. Ma Adora non mi parla molto ultimamente, deve avercela con me per qualcosa. Sai come succede. Ma sì, certo che lo sai!» Se ne uscì in una rauca risata da fumatrice e mi strinse il braccio. Doveva essere ubriaca. «Mi sarò dimenticata di mandarle un biglietto di auguri o di ringraziamento» continuò poi, gesticolando con un bicchiere di vino in mano. «O forse il giardiniere che le ho raccomandato non le è andato a genio. So che stai scrivendo un articolo su quelle bambine... Una faccenda così orribile!» La sua conversazione era talmente rapida e discontinua che mi ci voleva sempre un po' per capire a cosa si riferisse. Prima che potessi ribattere qualcosa, Jackie mi accarezzò il braccio, guardandomi
con gli occhi umidi. «Camille, bambina, ne è passato di tempo dall'ultima volta che ci siamo viste! E ora... ti guardo e mi sembra di vederti quando avevi la stessa età di quelle ragazzine. E mi sento così triste. Troppe cose sono andate storte. Non riesco a trovare un senso.» Una lacrima le rigò la guancia. «Vieni a trovarmi, d'accordo? Così parliamo un po'.» Lasciai la casa dei Keene senza alcun commento da riportare nell'articolo. Ero già stanca di parlare, pur avendo detto così poco. Più tardi, corroborata da un bicchiere di vodka che avevo sottratto al rinfresco e al sicuro dietro la cornetta del telefono, chiamai i Keene per presentarmi e per spiegare loro che cosa avrei scritto. Non andò molto bene. Ecco quello che riuscii a mettere insieme quella sera: Nella cittadina di Wind Gap, Missouri, i volantini che denunciavano la scomparsa della piccola Natalie Jane Keene, di dieci anni, svolazzavano ancora tristemente al vento nelle strade deserte, mentre la bambina veniva seppellita. Il commovente servizio funebre, nel quale il sacerdote ha parlato di perdono e redenzione, è riuscito ben poco a placare gli animi o a lenire le ferite. Anche perché la piccola, dolce Natalie è la seconda vittima di quello che la polizia presume essere un serial killer. Un serial killer che ha scelto i bambini come bersaglio. «Tutti i nostri bambini sono dei tesori» dichiara Ronald J. Kamens, un allevatore del posto che ha partecipato alle ricerche della piccola Keene. «Non riesco a capire perché una cosa simile sia successa a noi.» Il corpo strangolato della piccola Natalie è stato rinvenuto il 14 maggio, fra due negozi della Main Street di Wind Gap. «Ci mancheranno le sue risate» dice Jeannie Keene, cinquantadue anni, madre di Natalie. «Ci mancheranno le sue lacrime. Ma più di tutto ci mancherà Natalie.» Questa tuttavia non è la prima tragedia che si è abbattuta su Wind Gap, la cittadina situata all'estremità meridionale dello Stato del Missouri. Il 27 agosto dell'anno scorso, Ann Nash, di nove anni, è stata rinvenuta in un torrente della zona, anche lei strangolata. Era scomparsa la sera prima, mentre si recava con la bicicletta a trovare un'amica a pochi isolati da casa sua. A entrambe le vittime l'assassino ha strappato i denti.
La polizia di Wind Gap, con un organico di cinque persone, è sconcertata dai brutali omicidi. Mancando di esperienza in crimini di tale efferatezza, hanno sollecitato l'aiuto della squadra Omicidi di Kansas City, che ha inviato un suo uomo, esperto nel tracciare il profilo psicologico degli assassini. Gli abitanti della cittadina (che ha una popolazione di 2.120 anime) sono tuttavia certi di una cosa: l'autore degli efferati delitti uccide senza un movente particolare. «C'è una persona là fuori che cerca bambini da uccidere» afferma il padre di Ann, Bob Nash, quarantun anni, venditore di sedie. «Non c'è nessun complotto dietro questa faccenda. Qualcuno ha semplicemente deciso di uccidere la nostra bambina.» La rimozione dei denti rimane un mistero e gli indizi fino a oggi sembrano inconsistenti. La polizia locale si astiene da ogni commento. In attesa che questi omicidi vengano risolti, Wind Gap si protegge da sola: è in atto un vero e proprio coprifuoco e in questa cittadina un tempo tranquilla sono spuntati i sorveglianti di quartiere. Ma è difficile sanare le ferite. «Non voglio parlare con nessuno!» esclama Jeannie Keene. «Voglio solo essere lasciata in pace. Tutti noi vogliamo essere lasciati in pace.» Giornalismo da quattro soldi, lo so, non c'è neanche bisogno di dirlo. Mentre inviavo a Curry il pezzo per posta elettronica, ero già pentita di ogni parola. Affermare che la polizia presumeva che l'omicida fosse un serial killer era decisamente azzardato: Vickery non aveva mai detto niente del genere. Il primo commento di Jeannie Keene l'avevo estrapolato dalla lettera che aveva letto al funerale. Il secondo l'avevo ripulito dal vetriolo che lei mi aveva sputato in faccia quando aveva capito che la mia telefonata di condoglianze era solo una scusa. Sapeva che avrei dissezionato l'omicidio della sua bambina per gettarlo in pasto a estranei. «Vogliamo solo essere lasciati in pace!» aveva urlato. «Abbiamo seppellito oggi la nostra bambina. Si vergogni!» Ma era pur sempre un commento di prima mano e io ne avevo un estremo bisogno, dal momento che Vickery mi stava tagliando fuori. Curry giudicò il pezzo un inizio promettente... non fantastico, badate bene, ma promettente. Lasciò perfino "Un serial killer che ha scelto i bambini come bersaglio", una frase a effetto di cui avevo avuto assoluto bisogno,
ma che, me ne rendevo conto, sarebbe stata da tagliare. Curry doveva essere ubriaco quando aveva letto l'articolo. Mi commissionò un servizio più ampio sulle due famiglie appena possibile. Un'altra occasione per redimermi. Ero fortunata... A quanto pareva, il «Chicago Daily Post» poteva lasciare Wind Gap tutta per me ancora per un po'. Uno scandalo sessuale al Congresso stava facendo il suo corso in modo delizioso, distruggendo non un solo austero membro della Camera, ma tre. Due dei quali donne. Una piccante, torbida faccenda. Ma, ancora più importante, c'era un serial killer che tormentava una città molto più affascinante, Seattle. Fra la nebbia e i caffè alla moda, qualcuno stava sventrando donne incinte, aprendo loro la pancia e utilizzandone il contenuto per creare sconvolgenti quadri plastici per il suo divertimento. Quindi, per mia fortuna, i giornalisti per questo tipo di pezzi erano tutti presi. Per Wind Gap rimanevo solo io, abbandonata infelice nel mio letto di infanzia. Mercoledì mattina mi alzai tardi, tra le lenzuola sudate e il copriletto tirato fin sopra la testa. Mi ero svegliata più di una volta per via del telefono che suonava, della domestica che passava l'aspirapolvere fuori dalla mia porta, di un tosaerba che ronzava. Avevo un disperato bisogno di dormire ancora, ma il giorno avanzava inesorabile. Tenni gli occhi chiusi, immaginando di essere di nuovo a Chicago, sullo sgangherato lettuccio nel mio monolocale affacciato sul retro di mattoni di un supermercato. Avevo un armadio di compensato acquistato proprio in quel supermercato quando mi ero trasferita lì quattro anni prima, e un tavolo di plastica su cui mangiavo con un set di inconsistenti piatti gialli e posate di latta. Mi preoccupai di non aver annaffiato la mia solitaria pianta, una felce leggermente ingiallita che avevo recuperato dalla spazzatura dei vicini, ma poi mi ricordai che ne avevo gettato via il cadavere due mesi prima. Cercai di ripescare altre immagini della mia vita a Chicago: il mio cubicolo in redazione, il mio caposervizio che ignorava il mio nome di battesimo, le lucine natalizie verdi che il supermercato non aveva ancora tolto, pochi conoscenti che probabilmente non si erano neanche accorti che me ne ero andata. Non sopportavo l'idea di trovarmi a Wind Gap, ma il ricordo di casa mia non era di grande conforto. Recuperai una fiaschetta di vodka ormai calda dalla borsa da viaggio e mi infilai di nuovo a letto. Poi, un sorso dopo l'altro, esaminai quel che mi circondava. Mi aspettavo che la stanza sarebbe stata completamente ristrutturata da mia madre, dopo che me n'ero andata, invece aveva lo stesso
identico aspetto di dieci anni prima. Rimpiangevo di essere stata un'adolescente così seria: niente manifesti di popstar o di film, nessuna collezione femminile di foto o mazzolini di fiori. Al loro posto dipinti di barche a vela, dignitosi acquerelli color pastello e un ritratto di Eleanor Roosevelt. Quest'ultimo particolare era piuttosto strano, dato che sapevo ben poco della signora Roosevelt, a parte il fatto che era buona, il che probabilmente all'epoca mi era sembrato sufficiente. Forse adesso preferirei un'istantanea della moglie di Warren Harding, "la Duchessa", che registrava ogni minimo oltraggio in un piccolo notes rosso per poi vendicarsi in modo adeguato. Oggi come oggi, preferisco che le mie eroine abbiano un po' di mordente. Bevvi dell'altra vodka. Desideravo solo perdere di nuovo conoscenza, essere avvolta dall'oscurità, svanire. Mi sentivo senza pelle. Potenziali lacrime premevano dietro le mie palpebre, simili a palloncini gonfi d'acqua pronti a scoppiare. Wind Gap mi faceva un brutto effetto. Quella casa mi faceva un brutto effetto. Un leggero bussare alla porta, poco più di un tamburellare sommesso. «Sì?» Nascosi la vodka accanto al letto. «Camille? Sono la mamma.» «Sì?» «Ti ho portato della crema per il corpo.» Mi alzai per aprire la porta in uno stato leggermente confusionale, solo la vodka mi dava la forza necessaria per gestire quella situazione. Avevo fatto la brava con l'alcol per circa sei mesi, ma qui tutte le regole erano sovvertite. Mia madre indugiava sulla soglia, cercando di sbirciare cautamente in camera mia, come se fosse il santuario di un bambino morto. Più o meno lo era. Teneva in mano un flacone verde pallido. «Vitamina E. Te l'ho comprata questa mattina.» Mia madre credeva negli effetti miracolosi della vitamina E, come se spalmandomene addosso in abbondanza potessi tornare nuovamente liscia e levigata. Fino ad allora non aveva funzionato. «Grazie» dissi. I suoi occhi mi scrutarono, passando velocemente in rassegna collo, braccia e gambe lasciati scoperti dalla maglietta che indossavo per dormire, per poi tornare, con espressione corrucciata, sul mio volto. Poi, con un sospiro, mia madre scosse lievemente la testa, senza dire una parola. «È stata molto dura per te al funerale, mamma?» Nemmeno da adulta riuscivo a sottrarmi al bisogno di riempire i silenzi fra noi.
«Sì, troppi ricordi. Quella piccola bara...» «È stata dura anche per me» mormorai. «Ne sono rimasta io stessa sorpresa. Lei mi manca tanto. Ancora adesso. Non è strano?» «Sarebbe strano se non ti mancasse. Stiamo parlando di tua sorella. È quasi altrettanto doloroso che perdere un figlio. Anche se eri così giovane.» Al piano di sotto Alan stava fischiettando, ma mia madre non sembrava udirlo. «Non mi è piaciuta molto la lettera aperta di Jeannie Keene» proseguì. «Si trattava di un funerale, non di un comizio politico. E perché erano vestiti in modo così informale?» «A me la lettera è sembrata carina. Era sincera» ribattei. «Non avevi letto niente al funerale di Marian?» «No, no. Riuscivo a stento a reggermi in piedi, figurati se potevo fare un discorso. Come fai a non ricordartene, Camille? Dovresti vergognarti.» «Avevo solo tredici anni quando è morta, mamma. Ero una bambina.» Possibile che fosse passato così tanto tempo? «Sì, be', basta così. Che cosa ti piacerebbe fare, oggi? Le rose sono in piena fioritura al Daly Park, se hai voglia di fare una passeggiata.» «Dovrei andare alla polizia.» «Non dire cose del genere, mentre sei in questa casa!» scattò lei. «Piuttosto di' che devi fare delle commissioni o vedere degli amici.» «Devo fare delle commissioni.» «Bene. Buon divertimento.» Si allontanò lungo il corridoio e sentii le scale scricchiolare mentre scendeva. Feci un bagno freddo, a luce spenta, con un bicchiere di vodka in bilico sul bordo della vasca, poi mi vestii e uscii dalla camera, nel corridoio. La casa era silenziosa, per quanto può esserlo un edificio vecchio di cent'anni. Rimanendo in ascolto fuori dalla porta della cucina per accertarmi che dentro non ci fosse nessuno, sentii solo il ronzio di un ventilatore. Allora entrai, presi una mela verde e vi affondai i denti mentre uscivo di casa. In cielo, non c'era nemmeno una nuvola. Fuori, sotto il portico, mi sembrò di avere le visioni. Una ragazzina fissava assorta un'enorme casa delle bambole alta quasi un metro e mezzo, una riproduzione perfetta della casa di mia madre. Mi dava la schiena e i lunghi capelli biondi le scendevano in boccoli ordinati fino quasi alla vita. Quando si girò, mi resi conto che si trattava della ragazzina con cui avevo
parlato ai margini del bosco, la stessa che rideva con le amiche fuori dalla chiesa il giorno del funerale di Natalie. La più carina. «Amma?» chiesi, e lei scoppiò a ridere. «Ma certo. Chi altri potrebbe starsene sotto il portico di Adora a giocare con la sua casa delle bambole?» Indossava una specie di infantile prendisole a quadretti, intonato al cappello di paglia appoggiato per terra. Per la prima volta dimostrava la sua età: tredici anni. Anzi, no. Adesso sembrava più giovane. Quei vestiti erano più adatti a una bambina di dieci. Aggrottò la fronte quando si accorse che la squadravo con aria critica. «Mi vesto così per Adora. Quando sono a casa, divento la sua piccola bambola.» «E quando sei fuori?» «Divento altre cose. Tu sei Camille. La mia sorellastra. La primogenita di Adora. Tu sei prima di Marian, io dopo Marian. Non mi hai riconosciuta.» «Manco da troppo tempo. E Adora ha smesso cinque anni fa di mandare gli auguri natalizi con le foto di famiglia.» «Forse ha smesso di mandarli a te, ma noi facciamo ancora quelle noiosissime foto. Ogni anno, per l'occasione, Adora mi compra un abito a quadretti verdi e rossi. E io, appena finito il servizio fotografico, lo butto nel fuoco.» Tirò fuori dalla casa delle bambole un poggiapiedi grande come un mandarino e lo sollevò verso di me. «Bisogna rifarlo, adesso. Adora ha cambiato lo schema dei colori da pesca a giallo. Aveva promesso di portarmi nel negozio di tessuti per farmi fare nuove fodere della stessa tonalità. Questa casa della bambole è la mia passione.» Riuscì quasi a farlo suonare naturale, "la mia passione". Le parole uscirono dalla sua bocca dolci e rotonde come una caramella al miele, accompagnate da una lieve inclinazione del capo, ma la frase era decisamente di mia madre. La sua piccola bambola, che parlava proprio come lei. «Mi sembra che tu abbia fatto un ottimo lavoro» osservai, facendole un cenno di saluto prima di allontanarmi. «Grazie» replicò lei. Gli occhi erano concentrati sulla mia camera. Con un dito sondò il letto. «Spero che passerai una bella vacanza qui da noi» mormorò rivolta alla stanza, come se parlasse con una minuscola Camille che nessuno poteva vedere.
Trovai Bill Vickery che sistemava a martellate le ammaccature di un cartello stradale all'angolo fra la Second e la Ely, una stradina tranquilla di piccole case a pochi isolati dal comando di polizia. Ogni colpo di martello lo faceva sussultare. La parte posteriore della camicia era impregnata di sudore e le lenti bifocali gli erano scivolate sulla punta del naso. «Non ho niente da dire, signorina Preaker.» Bang. «È facile prendersela con me, comandante Vickery. Neanch'io volevo questo incarico. Mi hanno costretto ad accettarlo perché sono di Wind Gap.» «Ho sentito dire che lei non tornava qui da anni.» Bang. Rimasi in silenzio, osservando un ciuffo d'erba che spuntava da una crepa del marciapiede. Il suo "signorina" mi aveva un po' ferito. Non capivo se si trattasse di una gentilezza a cui non ero abituata o di un'allusione maligna al mio nubilato. Una donna single anche appena sopra i trenta era una creatura bizzarra da queste parti. «Una persona perbene si sarebbe licenziata piuttosto che scrivere un articolo su due bambine morte.» Bang. «Il suo è opportunismo, signorina Preaker.» Dall'altra parte della strada, un uomo anziano, che teneva in mano un cartone del latte, si trascinava a piccoli passi verso una casa rivestita di assicelle di legno bianche. «Non mi sento particolarmente perbene in questo momento, ha ragione.» Non mi dispiaceva compiacerlo un po'. Desideravo entrare nelle sue simpatie, non solo perché la cosa mi avrebbe facilitato il lavoro, ma anche perché i suoi rimbrotti mi ricordavano Curry, di cui sentivo la mancanza. «Ma un po' di pubblicità potrebbe attirare attenzione sul caso e aiutare a risolverlo. È già successo in passato.» «Maledizione!» Gettò il martello per terra con un tonfo e si girò a guardarmi. «Abbiamo già chiesto aiuto. Da Kansas City ci hanno mandato una specie di detective speciale, che va e viene da mesi ormai. Nemmeno lui, però, è riuscito a capirci niente. Dice che potrebbe trattarsi di un autostoppista fuori di testa, che è capitato da queste parti, ha deciso che il posto gli piaceva e si è fermato per quasi un anno. Be', Wind Gap non è così grande e se ci fosse stato un tizio del genere nei paraggi me ne sarei accorto di sicuro.» Mi fissò intenzionalmente. «Ci sono boschi piuttosto estesi qui intorno e anche molto fitti» ribattei. «Non è stato uno di fuori e scommetto che l'ha capito anche lei.» «Io, invece, avrei giurato che lei preferisse l'ipotesi di uno straniero.»
Vickery sospirò, si accese una sigaretta e mise una mano intorno al palo del segnale stradale con fare protettivo. «Che cavolo, certo che lo preferirei!» esclamò. «Ma non sono uno stupido. Non ho mai lavorato a un caso di omicidio prima d'ora, però non sono un idiota.» In quel momento desiderai non aver bevuto così tanta vodka. Sentivo i pensieri evaporare, non riuscivo a concentrarmi su quanto mi veniva detto, né a fare le domande giuste. «Pensa che sia stato qualcuno di Wind Gap?» «No comment.» «In via ufficiosa, perché uno di Wind Gap dovrebbe uccidere delle bambine?» «Una volta ci hanno chiamato perché Ann aveva trafitto l'uccellino dei vicini con un bastone, al quale lei stessa aveva fatto la punta con uno dei coltelli da caccia del padre. Quanto a Natalie, maledizione, la famiglia si è trasferita qui due anni fa, perché a Filadelfia la bambina aveva infilzato una compagna di classe con un paio di forbici. Suo padre ha lasciato il lavoro in una grande azienda in modo da poter ricominciare da capo. Nello Stato in cui era cresciuto suo nonno. In una piccola città. Come se una piccola città non avesse i suoi problemi.» «Non ultimo il fatto che tutti sanno dove cresce l'erba cattiva.» «Proprio così.» «Quindi pensa che possa trattarsi di qualcuno a cui le due bambine non andavano a genio? Proprio quelle due in particolare? Qualcuno a cui avevano pestato i piedi e che si è vendicato in questo modo?» Vickery si diede una grattatina ai baffi, poi lanciò un'occhiata al martello che giaceva a terra e io capii che si stava domandando se raccoglierlo e congedarmi oppure continuare a parlare. In quel momento una berlina nera si accostò al marciapiede e il finestrino del passeggero si abbassò ancora prima che la macchina fosse completamente ferma. Il viso del guidatore, protetto da un paio di occhiali da sole, si protese per sbirciare fuori. «Ehi, Bill, pensavo che avessimo appuntamento nel tuo ufficio a quest'ora.» «Avevo un lavoretto da fare.» Era "Kansas City", il quale mi guardò, abbassando gli occhiali sul naso con un gesto consumato. Un ciuffo di capelli castano chiaro gli ricadeva in continuazione sull'occhio sinistro. Azzurro. Mi sorrise. Denti perfetti, da pubblicità del chewing-gum. «Salve.» Lanciò un'occhiata a Vickery, il quale ne aveva approfittato per
chinarsi a raccogliere il martello, e poi riportò lo sguardo su di me. «Salve» ribattei, oscillando da una gamba all'altra. «Vuoi un passaggio, Bill? O sei uno di quelli che preferisce camminare? Se ti va, passo a prendere del caffè e ci vediamo in ufficio.» «Non bevo caffè. Dovresti averlo imparato, ormai. Ci vediamo fra quindici minuti.» «Vedi se riesci a farcela in dieci, eh? È già tardi.» Kansas City mi guardò di nuovo. «Sicuro di non volere un passaggio, Bill?» Vickery non rispose, limitandosi a scuotere la testa. «Chi è la tua amica, Bill? Pensavo di conoscere tutti gli abitanti di Wind Gap, ormai.» Sorrise. Io rimasi zitta come una scolaretta, sperando che Vickery mi presentasse. Bang! Vickery aveva scelto di non sentire. A Chicago avrei allungato la mano, presentandomi con un sorriso e godendomi la reazione. Qui fissai Vickery, in silenzio. «D'accordo, ci vediamo al comando.» Il finestrino si chiuse e la macchina si allontanò. «È il detective di Kansas City?» domandai. Per tutta risposta Vickery si accese un'altra sigaretta e si allontanò. Dall'altra parte della strada, l'uomo anziano aveva appena raggiunto l'ultimo gradino di casa. 4 Qualcuno aveva dipinto con lo spray blu dei ghirigori sui piloni che sostenevano il serbatoio dell'acqua al Jacob J. Garrett Memorial Park, conferendogli un'aria stranamente aggraziata, come se avesse indossato stivaletti traforati. Il parco era l'ultimo posto in cui Natalie Keene era stata vista viva e al momento era deserto. La polvere del campo da baseball era sospesa nell'aria, a pochi centimetri da terra. Riuscivo quasi a sentirne il sapore in fondo alla gola, come del tè lasciato troppo a lungo in infusione. L'erba cresceva alta ai margini del bosco. Mi sorprendeva che nessuno avesse dato ordine di tagliarla, sradicandola come le pietre in cui si era incagliato il corpo di Ann Nash. Quando ero alle superiori, il Garrett Memorial Park era il posto in cui ci si dava appuntamento durante il fine settimana per bere birra, fumare erba o pomiciare nel bosco. Era lì che ero stata baciata per la prima volta, a tredici anni, da un giocatore di football con una cicca di tabacco da masticare
infilata nelle gengive. Il particolare del tabacco mi aveva colpita più del bacio; dietro la sua macchina avevo vomitato vino misto a pezzettini di frutta. «James Capisi era qui.» Voltandomi mi trovai davanti un bambino biondo, di circa dieci anni, con i capelli a spazzola e una pallina da tennis in mano. «James Capisi?» ripetei. «Il mio amico. Lui era qui quando hanno preso Natalie» ripeté il bambino. «James ha visto quella donna. Indossava una camicia da notte. Stavano giocando a frisbee, vicino al bosco, e quella si è portata via Natalie. Avrebbe potuto prendere James, ma lui aveva deciso di stare in mezzo al campo, mentre Natalie era andata a mettersi vicino agli alberi. James si trovava lì perché c'era il sole. Non dovrebbe stare sotto il sole, perché sua madre ha il cancro alla pelle, ma lui ci sta lo stesso. O perlomeno ci stava.» Fece rimbalzare la pallina a terra, sollevando una nuvola di polvere. «Non gli piace più il sole?» «Non gli piace più niente.» «Per via di Natalie?» Il bambino si strinse nelle spalle con aria scontrosa. «Perché è una femminuccia.» Mi squadrò per un istante e poi improvvisamente mi lanciò la pallina, con forza. E quella mi colpì sul fianco e poi rimbalzò via. Lui scoppiò in una breve risata. «Scusa.» Corse dietro la pallina, slanciandosi per riprenderla, quindi fece un salto e la scagliò a terra, facendola poi saettare in aria di almeno tre metri e rimbalzare sempre più piano fino a fermarsi. «Non credo di aver capito bene. Chi indossava una camicia da notte?» domandai, con lo sguardo fisso sui movimenti della pallina. «La donna che ha rapito Natalie.» «Aspetta un attimo... Che cosa vuoi dire?» Per quel che ne sapevo, Natalie aveva giocato al parco con alcuni amici, che poi a uno a uno se n'erano andati. Si supponeva perciò che fosse stata rapita in qualche punto imprecisato del breve tragitto verso casa. «James ha visto la donna che ha rapito Natalie. Erano solo loro due e stavano giocando a frisbee. Natalie ha mancato la presa e si è allontanata nell'erba alta ai margini del bosco e quella donna l'ha afferrata e l'ha rapita. Poi sono sparite. E James è corso a casa. E da allora non ne è più uscito.» «E allora come fai a sapere che cos'è successo?»
«Sono andato a trovarlo una volta e me l'ha detto. Sono il suo migliore amico.» «James vive da queste parti?» «Che vada al diavolo! In ogni caso, per l'estate dovrei andare da mia nonna. In Arkansas. Meglio che stare qui.» Il bambino lanciò di nuovo la pallina, che andò a incastrarsi nelle maglie della recinzione metallica che delimitava il campo da baseball, producendo un grande stridore. «Sei di queste parti?» domandò, sollevando nugoli di polvere con il piede. «Sì, vivevo qui, una volta. Adesso non più. Sono in visita.» Ci riprovai: «James abita da queste parti?». «Sei al liceo?» Aveva il viso molto abbronzato. Sembrava un piccolo marine. «No.» «All'università?» «Più vecchia.» «Devo andare.» Arretrando a piccoli salti, recuperò la pallina là dove si era incastrata, poi fece un giro su se stesso e mi guardò, dondolandosi nervosamente sui talloni. «Devo andare.» Lanciò di nuovo la pallina, che atterrò sulla mia macchina con un grande tonfo. Il bambino le corse dietro e in un attimo scomparve. Trovai "Capisi, Janel" nello striminzito elenco telefonico di Wind Gap che consultai nel solitario spaccio della città. Poi presi un bicchiere grande di gazzosa alla fragola e mi recai al 3617 di Holmes Street. La casa dei Capisi era situata al margine dei sobborghi orientali della città, un agglomerato di fatiscenti bilocali, i cui abitanti erano perlopiù impiegati nel vicino stabilimento per l'allevamento e la macellazione dei maiali, un'impresa privata che fornisce quasi il due per cento della carne di maiale del Paese. Trovate un povero a Wind Gap e quasi sempre vi dirà che lavora lì, come prima di lui aveva fatto il suo vecchio. Lo stabilimento comprende sia il reparto allevamento - dove i maialini vengono selezionati e chiusi in gabbie, le scrofe vengono ingravidate e chiuse in un recinto e i mucchi di letame vengono utilizzati come concime - sia il reparto macellazione, il peggiore. Il personale incaricato spinge i maiali, incanalandoli in corsie obbligate, in fondo alle quali trovano ad attenderli altro personale che li afferra per le zampe posteriori, li lega con una corda e lascia che vengano sollevati a testa in giù, tra calci e strida impressionanti. Poi gli a-
nimali vengono sgozzati con coltelli da macellaio appuntiti e il sangue schizza abbondante e vischioso sulle piastrelle del pavimento. Quindi è la volta delle vasche di cottura. Gli urli dei maiali - continui, frenetici, quasi metallici - costringono gran parte dei lavoranti dello stabilimento a mettersi i tappi nelle orecchie e a passare le giornate immersi in una mattanza insonorizzata. Di sera, poi, si ubriacano e ascoltano musica ad alto volume. Il bar di zona, l'Heelah, non serve nulla che abbia a che fare con il maiale. Solo pollo, presumibilmente allevato e macellato da lavoranti altrettanto rabbiosi, in qualche altra squallida cittadina. Per amore di verità, dovrei anche aggiungere che l'impresa è di proprietà di mia madre, la quale intasca approssimativamente 1,2 milioni di dollari di profitti annui. Ma lascia che siano gli altri a sporcarsi le mani. Un gatto miagolava sulla veranda della casa dei Capisi e, mentre mi avvicinavo, sentii il frastuono di un talk-show televisivo. Bussai sulla porta a zanzariera e aspettai. Il gatto mi si strusciò sulle gambe e attraverso la stoffa dei pantaloni riuscii a sentirgli le costole. Bussai di nuovo. Qualcuno spense il televisore. Il gatto si infilò sotto il dondolo della veranda, continuando a gemere. Tracciai con un'unghia la parola "miagolio" sul palmo della mano destra e bussai per la terza volta. «Mamma?» La voce di un bambino da una finestra aperta. Mi avvicinai e attraverso la zanzariera impolverata riuscii a scorgere un ragazzino gracile dai riccioli scuri, che mi guardava con gli occhi sgranati. «Ehi, ciao, mi dispiace disturbarti. Tu sei James?» «Che cosa vuoi?» «Ciao, James, scusami. Stavi guardando qualcosa di interessante?» «Sei della polizia?» «Sto cercando di scoprire chi è stato a fare del male alla tua amica. Posso parlarti?» Il bambino non si mosse dalla sua posizione e passò un dito sullo stipite della finestra. Mi sedetti sul dondolo, il più lontano possibile da lui. «Mi chiamo Camille. Un tuo amico dice che hai visto tutto. Un bambino con i capelli biondi tagliati molto corti.» «Dee.» «Ah, si chiama così? L'ho incontrato al parco, proprio dove stavi giocando a frisbee con Natalie.» «L'ha rapita lei. Nessuno mi crede. E non è vero che sono un fifone. È solo che devo stare in casa, ecco tutto. La mia mamma ha il cancro. È malata.»
«Dee me l'ha raccontato. Non ti biasimo. Spero di non averti spaventato piombando qui così.» James si mise a grattare lo stipite con un'unghia troppo lunga. Il rumore mi fece venire i brividi. «Tu non le assomigli. Sennò avrei chiamato la polizia. Oppure ti avrei sparato.» «Com'era quella donna?» Il bambino si strinse nelle spalle. «L'ho già detto centinaia di volte.» «Ripetilo ancora una volta.» «Era vecchia.» «Come me?» «Come una madre.» «Che altro?» «Indossava una camicia da notte bianca e aveva i capelli bianchi. Era proprio tutta bianca, ma non come un fantasma. Questo è ciò che ho ripetuto in continuazione.» «Bianca come?» «Come se non fosse mai stata all'aperto.» «E quella donna ha afferrato Natalie quando lei si è avvicinata al bosco?» chiesi con lo stesso tono di blanda adulazione che mia madre usa con i domestici preferiti. «Non sto mentendo.» «Ma no, certo. La donna ha afferrato Natalie mentre stavate giocando?» «È stata velocissima» rispose James. «Natalie stava camminando nell'erba alta per trovare il frisbee. E io ho visto quella donna sbucare dal bosco e osservarla. L'ho vista prima di Natalie. Ma non mi sono spaventato.» «Ah.» «Anche quando ha preso Natalie, all'inizio non mi sono spaventato.» «Ma dopo sì?» «No.» La voce gli morì in gola. «Neanche dopo.» «James, sai dirmi che cos'è successo quando ha preso Natalie?» «Se l'è stretta addosso, come se volesse abbracciarla. E poi ha alzato lo sguardo e mi ha fissato.» «La donna?» «Sì. Mi ha sorriso. Per un istante ho pensato che fosse tutto a posto. Ma lei non diceva niente. E poi ha smesso di sorridere. Si è portata un dito alle labbra per farmi capire di stare zitto. Subito dopo si è infilata nel bosco.
Con Natalie.» James si strinse di nuovo nelle spalle. «L'ho già detto tante volte.» «Alla polizia?» «Prima alla mamma, poi alla polizia. È stata mia madre a volere che parlassi con la polizia. Ma a quelli non importa.» «Perché no?» «Pensano che abbia mentito. Ma io non me lo sarei mai inventato. Sarebbe stato stupido.» «E Natalie non ha fatto niente mentre succedeva tutto questo?» «No. Se ne stava lì impalata. Probabilmente non sapeva cosa fare.» «Quella donna assomigliava a qualcuno che avevi già visto?» «No.» Si allontanò dalla finestra e lanciò un'occhiata in direzione del salotto. «Be', scusa se ti ho disturbato. Forse dovresti chiamare un amico che passi a trovarti. Trovarti un po' di compagnia.» Il bambino si strinse ancora una volta nelle spalle, mordicchiandosi un'unghia. «Magari ti sentiresti meglio se uscissi ogni tanto.» «Non mi va. E comunque, abbiamo un'arma.» Indicò alle sue spalle una pistola appoggiata sul bracciolo del divano, vicino a un panino al prosciutto mangiato a metà. Cristo santo! «Sei sicuro che sia saggio tenerla così a portata di mano, James? È meglio che non la usi. Le armi possono essere molto pericolose.» «Non più di tanto. Alla mia mamma non dà fastidio.» Per la prima volta mi guardò negli occhi. «Sei carina. Hai dei bei capelli.» «Grazie.» «Adesso devo andare.» «D'accordo. Mi raccomando, fa' attenzione, James.» «È proprio quel che faccio.» Sospirò e se ne andò. Un istante dopo sentii di nuovo il frastuono del televisore acceso. Ci sono undici bar a Wind Gap. Mi infilai in uno che non conoscevo, Sensors, che doveva essere nato in un lampo di idiozia degli anni Ottanta, a giudicare dai neon a zigzag sul muro e dalla minipista da ballo al centro del locale. Stavo bevendo un bourbon e scribacchiando alcuni appunti, quando il detective di Kansas City si materializzò sul divanetto di fronte a me, sbattendo la sua bottiglia di birra sul tavolino che ci separava. «Pensavo che i giornalisti non potessero parlare con i minori senza avere il permesso.» Sorrise e bevve un sorso. La madre di James doveva aver
fatto una telefonata. «I giornalisti sono costretti a diventare più aggressivi, quando la polizia li esclude dalle indagini» ribattei, senza alzare lo sguardo. «La polizia non riesce a fare il proprio lavoro se i giornalisti riferiscono i dettagli delle indagini sui giornali di Chicago.» Un vecchio scambio di battute. Tornai ai miei appunti, inumiditi dalle goccioline di condensa del bicchiere. «Ricominciamo da capo. Io sono Richard Willis.» Bevve una sorsata di birra, facendo schioccare le labbra. «E tu sei Camille Preaker, no? La ragazza di provincia che ha fatto carriera nella grande città.» «Oh, sì, centrato in pieno.» Lui fece balenare di nuovo quell'allarmante sorriso da pubblicità del chewing-gum, passandosi una mano fra i capelli. Niente fede nuziale. Chissà perché cominciavo a notare certe cose. «Ok, Camille, che ne dici se dichiariamo una tregua? Almeno per ora. Vediamo come vanno le cose. Immagino che non ci sia bisogno di farti un discorsetto su quel ragazzino... James Capisi.» «Immagino che tu ti renda conto che non c'è proprio nessun discorsetto da fare. Perché la polizia non ha tenuto conto della deposizione dell'unico testimone oculare del rapimento di Natalie Keene?» Impugnai la penna per dimostrargli che stavamo parlando in via ufficiale. «Chi dice che non ne abbiamo tenuto conto?» «James Capisi.» «Ah, quella sì che è una fonte autorevole!» Richard scoppiò a ridere. «Le svelerò un piccolo segreto, signorina Preaker» disse, imitando Vickery piuttosto bene e arrivando perfino a rigirarsi un immaginario anello intorno al mignolo. «Non teniamo i bambini di dieci anni informati degli sviluppi delle indagini in corso. Compreso il fatto che crediamo o meno alle loro storie.» «Ci credete o no?» «No comment.» «Avevate la descrizione dettagliata di un sospetto assassino, il passo successivo più logico sarebbe stato informare la gente del luogo per metterla in guardia. Invece non l'avete fatto, dal che deduco che non avete tenuto conto della storia raccontata da Capisi.» «Di nuovo, no comment.» «Per quanto ne so, Ann Nash non è stata molestata sessualmente» conti-
nuai. «Vale lo stesso per Natalie Keene?» «Signorina Preaker, al momento non posso rilasciare alcuna dichiarazione.» «E allora perché sei seduto qui con me?» «Be', per prima cosa so che l'altro giorno hai passato molto del tuo tempo, probabilmente lavorativo, con il nostro agente, fornendogli la tua versione della scoperta del corpo di Natalie. Volevo ringraziarti.» «La mia versione?» «Ognuno ha la propria versione di un ricordo» confermò lui. «Per esempio, tu hai detto che gli occhi di Natalie erano aperti, mentre i Broussard hanno detto che erano chiusi.» «No comment» sibilai con astio. «Sono più propenso a credere a una donna che si guadagna da vivere facendo la giornalista che a una coppia di anziani proprietari di una tavola calda» disse Willis. «Ma vorrei che tu me lo confermassi.» «In via ufficiosa, Natalie è stata molestata sessualmente?» Misi giù la penna. Willis rimase in silenzio per un attimo, rigirandosi la bottiglia di birra fra le mani. «No.» «Ti confermo che gli occhi erano aperti. Del resto eri lì anche tu.» «Sì, infatti» mormorò lui. «Perciò non hai bisogno di me. E la seconda cosa?» «Eh?» «Poco fa hai detto "Per prima cosa...".» «Ah, giusto. Be', la seconda cosa è che volevo parlare con te. In tutta sincerità - qualità che tu sembri apprezzare molto - ho un disperato bisogno di scambiare due parole con qualcuno di fuori città.» I suoi denti balenarono in un sorriso smagliante. «Voglio dire, so bene che sei cresciuta qui. E non so come tu sia sopravvissuta. Vado avanti e indietro da Wind Gap dall'agosto scorso e mi sembra già di impazzire. Non che Kansas City sia una metropoli in fermento, ma perlomeno esiste una vita notturna. E anche culturale... almeno in parte. Ci sono persone.» «Sono certa che te la cavi benissimo.» «Non ho scelta. Può darsi che debba fermarmi qui per un po'.» «Già.» Gli indicai il bloc-notes. «Allora qual è la sua teoria, signor Willis?» «Detective Willis, veramente.» Sogghignò.
Finii il mio drink in un sorso solo e mi misi a masticare la cannuccia. «Allora, Camille, posso offrirti un altro giro?» Scossi il bicchiere e annuii. «Bourbon liscio.» «Bene.» Mentre lui era al bancone, presi la penna e scrissi "Richard" sul polso, in corsivo. Ritornò con due Wild Turkeys. «Allora...» esordì «la mia proposta è questa: perché non chiacchieriamo un po', come persone civili? Ne ho un disperato bisogno. Bill Vickery non sta esattamente morendo dalla voglia di conoscermi.» «Benvenuto nel club.» «Grazie. Allora, sei nata e cresciuta a Wind Gap e adesso lavori in un giornale di Chicago. Il "Tribune"?» «Il "Chicago Daily Post".» «Non lo conosco.» «Non mi sorprende.» «Ne hai una grande opinione, eh?» «Non è così male.» Non mi sentivo in vena di essere affascinante, non ero nemmeno sicura di ricordarmi come si faceva. È Adora la fascinosa della famiglia... Perfino l'addetto alla disinfestazione delle termiti le manda affettuosi biglietti di auguri a Natale. «Non mi sembri particolarmente entusiasta della mia compagnia, Camille. Se vuoi che me ne vada, dillo.» Non lo volevo, in realtà. Richard era carino e la sua voce mi faceva sentire meno disperata. E non guastava il fatto che fosse anche lui di fuori città. «Mi dispiace, sono stata un po' brusca. È stato un rientro tempestoso. E dover scrivere di questa faccenda certo non aiuta.» «Da quanto tempo non tornavi?» «Anni. Otto per l'esattezza.» «Ma hai ancora la tua famiglia qui, giusto?» «Oh, sì. Ferventi sostenitori di Wind Gap.» «Quindi ai tuoi piace stare qui?» «Direi di si. Non si sognerebbero mai di andarsene. Troppi amici. Una casa troppo perfetta. Eccetera.» «Sono nati tutti e due qui?» Alcuni tizi più o meno miei coetanei e dall'aria familiare vennero a sedersi nel séparé accanto al nostro, ognuno con un boccale di birra in mano. Mi augurai che non mi vedessero.
«Mia madre è di qui. Il mio patrigno è del Tennessee. Si è trasferito a Wind Gap quando si sono sposati.» «E quando è stato?» «Circa trent'anni fa, mi pare.» Cercai di bere meno in fretta per non distanziare troppo Richard. «E tuo padre?» Sorrisi e cambiai argomento. «E tu sei cresciuto a Kansas City?» «Sì. Mai sognato di andarmene. Troppi amici. Casa troppo perfetta. Eccetera.» «E fare il poliziotto laggiù è... bello?» «Non ci si annoia. Almeno non corro il rischio di trasformarmi in Vickery. L'anno scorso ho seguito indagini di alto livello. Più che altro omicidi. E poi c'è stato quel tizio che andava in giro per la città ad assalire le donne.» «Stupro?» «No. Le buttava a terra e infilava loro una mano in bocca, riducendo la gola in brandelli.» «Cristo santo!» «L'abbiamo preso. Era un commerciante di liquori di mezz'età che viveva con la madre e aveva ancora frammenti della gola dell'ultima vittima sotto le unghie. Dieci giorni dopo l'aggressione.» Non era chiaro se a sconvolgerlo di più fosse la stupidità dell'uomo o la sua scarsa igiene. «Bello.» «E adesso, eccomi qui. Città più piccola, ma sfida più impegnativa. Quando Vickery ci ha telefonato la prima volta, il caso non aveva ancora un grande peso, per cui hanno mandato qualcuno di medio livello nella scala gerarchica: me.» Sorrise, quasi a scusarsi. «Poi è venuto fuori che si trattava di omicidio seriale. Mi hanno permesso di tenermi il caso, per ora... Sempre che io non incasini tutto.» La situazione mi suonava familiare. «È strano che la grande occasione professionale di una persona dipenda da una faccenda così orribile» proseguì. «Ma chi meglio di te può saperlo? Di che cosa ti occupi al giornale?» «Sono una cronista di nera, perciò probabilmente mi occupo delle stesse schifezze di cui ti occupi tu: abusi, stupri, omicidi.» Volevo che sapesse che anch'io ero stata testimone di molti drammi. Era un impulso infantile, ma lo assecondai. «Il mese scorso ho seguito il caso di una donna di ottan-
tadue anni. Suo figlio l'ha uccisa, poi l'ha messa nella vasca da bagno piena di acido per sciogliere il corpo. Il tizio ha confessato, ma, naturalmente, non è riuscito a dare una spiegazione del perché l'avesse fatto.» Rimpiangevo di aver usato la parola "schifezze" parlando di abusi, stupri e omicidi. Era irrispettoso. «A quanto pare sguazziamo tutti e due in mezzo agli orrori» mormorò Richard. «Già.» Feci roteare il drink nel bicchiere, non avevo nient'altro da dire. «Mi dispiace.» «Anche a me.» Lui mi scrutò. Il barista aveva abbassato le luci, segno inequivocabile che si era fatto molto tardi. «Potremmo andare a vedere un film qualche volta» buttò lì Richard in tono conciliante, come se una serata nella locale sala cinematografica potesse risolvere tutti i miei problemi. «Forse.» Ingollai d'un fiato ciò che rimaneva del mio drink. «Forse.» Lui staccò l'etichetta della bottiglia di birra e la incollò sul tavolo. Bello schifo. Era evidente che non aveva mai lavorato in un bar. «Be', Richard, grazie per il drink. Devo andare a casa.» «Mi ha fatto piacere parlare con te, Camille. Ti accompagno alla macchina?» «No, non c'è problema.» «Te la senti di guidare? Ti giuro che non sto parlando da poliziotto.» «Sto bene.» «Come vuoi. Buonanotte e sogni d'oro.» «Anche a te. La prossima volta voglio una dichiarazione ufficiale.» Alan, Adora e Amma erano riuniti in salotto quando arrivai. Era strabiliante quanto quella scena fosse simile ad analoga scena del passato, quando c'era Marian. Mia madre era seduta sul divano, cullava Amma, che indossava una camicia da notte di flanella nonostante il caldo, e le passava un cubetto di ghiaccio sulle labbra. La mia sorellastra alzò su di me uno sguardo vacuo e si mise a giocare con un tavolo di mogano identico a quello che c'era nell'adiacente sala da pranzo, ma in miniatura. «Niente di preoccupante» mi informò Alan, alzando gli occhi dal giornale. «Amma ha un po' di febbre.» Avvertii una punta di apprensione, seguita da irritazione: stavo ripiombando nell'antica routine, pronta a correre in cucina a mettere su l'acqua
per il tè, proprio come avevo sempre fatto per Marian quando era malata. Fui quasi sul punto anche di accoccolarmi accanto a mia madre, sperando che mi mettesse un braccio intorno alle spalle. Mia madre e Amma non dissero nulla. Mia madre non alzò nemmeno lo sguardo su di me, limitandosi a stringere a sé Amma e a mormorarle paroline dolci nell'orecchio. «Noi Crellin siamo un po' cagionevoli» continuò Alan, in tono di scuse. I medici di Woodberry probabilmente visitavano almeno uno dei Crellin ogni settimana: sia Adora sia Alan reagivano in modo eccessivo quando si trattava della salute. Ricordo che, quand'ero bambina, mia madre tentava di somministrarmi unguenti e oli, rimedi casalinghi e sciocchezze omeopatiche. Talvolta prendevo quelle sostanze disgustose, ma più spesso le rifiutavo. Poi Marian si era ammalata, ammalata sul serio, e Adora aveva avuto cose più importanti a cui badare che non convincermi a ingollare estratti di germe di grano. Adesso sentii una fitta di rimorso per tutti quegli sciroppi e tutte quelle pillole che lei mi offriva e che io rifiutavo. Era stata l'ultima volta che avevo goduto della sua completa attenzione di madre. D'un tratto rimpiansi di non essere stata una bambina più malleabile. I Crellin. Tutti in quella stanza erano Crellin, tranne me, pensai scioccamente. «Mi dispiace che tu non stia bene, Amma» mormorai. «L'intarsio sulle gambe è sbagliato» piagnucolò la mia sorellastra, allungando il minuscolo tavolo di mogano verso mia madre, con aria indignata. «Hai uno spirito di osservazione incredibile, Amma!» esclamò Adora, stringendo gli occhi per guardare la miniatura. «Comunque si nota appena, bambina mia. Sarai l'unica a saperlo.» Accarezzò la fronte sudata di Amma. «Deve essere tutto perfetto» ribatté lei, fissando il tavolo. «Dobbiamo rimandarlo indietro. A che serve farlo fare su misura se non è uguale?» «Tesoro, te lo giuro, non si nota neanche.» Mia madre le diede un buffetto sulla guancia e fece per alzarsi. «Hai detto che sarebbe stato identico. Me l'avevi promesso!» Le tremò la voce e le lacrime presero a rigarle le guance. «Così si rovina tutto. Tutta la casa. Si tratta della sala da pranzo... Il tavolo non può essere diverso. Lo odio!» «Amma...» Alan ripiegò il giornale, si avvicinò e la prese fra le braccia, ma lei si divincolò. «È l'unica cosa che voglio, che sia tutto identico, e a te non importa!» gridò fra le lacrime, i lineamenti del viso stravolti dalla rabbia. Un capric-
cio in piena regola. «Amma, calmati» disse Alan freddamente, cercando ancora una volta di prenderla fra le braccia. «L'unica cosa che voglio!» singhiozzò Amma e gettò a terra il tavolo in miniatura, che si ruppe. Poi lo colpì fino a ridurlo in briciole e infine seppellì il volto fra i cuscini, singhiozzando. «Be'» osservò mia madre «a quanto pare, dovremo ordinare un nuovo tavolo.» Corsi a rifugiarmi in camera mia, lontano da quella ragazzina orribile, che non assomigliava per niente a Marian. Avevo il corpo in fiamme. Camminai avanti e indietro per un po', cercando di ritrovare un ritmo di respiro regolare, di mettere a tacere la mia pelle. Che però continuava a urlare. Talvolta le mie cicatrici hanno una volontà tutta loro. Il fatto è, vedete... sono una che si taglia. O, se preferite, che si incide, si tagliuzza, si affetta, si pugnala. Sono un caso molto, molto speciale. Perché ho uno scopo. La mia pelle, dovete sapere, urla. È coperta di parole - "cucina", "tesoro", "gattina", "riccioli" - come se un intagliatore alle prime armi avesse imparato il mestiere sulla mia carne. A volte, ma solo a volte, mi viene da ridere. Uscendo dalla vasca da bagno, per esempio, quando con la coda dell'occhio scorgo su una gamba la parola "baby-doll". Mentre mi infilo un maglione e, in un lampo, colgo sul polso "malvagia". Perché proprio queste parole? Migliaia di ore di terapia hanno fruttato alcune idee da parte dei bravi medici. Sono spesso parole femminili, oppure sono decisamente negative. Sinonimi di "ansia" incisi sulla pelle: undici. Io so solo che in determinati momenti per me è di vitale importanza vedere quelle lettere impresse sulla carne. Non soltanto vederle, ma anche sentirle. Sulla mia anca sinistra: "sottoveste." E, accanto, la mia prima parola, incisa in un giorno d'estate, quando avevo tredici anni: "depravata". Quella mattina mi ero svegliata accaldata e annoiata, con l'ansia delle interminabili ore che mi attendevano. Come si fa a mantenere l'equilibrio mentale quando l'intera giornata si preannuncia sconfinata e vuota come la distesa infinita del cielo? Potrebbe succedere qualunque cosa. Ricordo di aver provato la sensazione fisica di quella parola, pesante e leggermente appiccicosa, scritta per intero sul bacino. Il coltello da carne di mia madre. Affondare la lama seguendo linee immaginarie. Asciugare il sangue. Affondare di nuovo. Asciugare. Versare candeggina sul coltello e sgattaiolare in cucina per rimetterlo a posto. "Depravata. " Sollievo. Il resto della giornata lo avevo passato a occuparmi della
ferita. Affondando nelle curve della "d" con una garza imbevuta di alcol. Tamponando finché il bruciore non si era attenuato. Unguento. Fasciatura. Poi, da capo. Il problema era iniziato molto tempo prima, ovviamente. I problemi iniziano sempre molto prima di riuscire a metterli a fuoco. A nove anni copiavo con una matita dalla punta spessa i dialoghi della serie televisiva La piccola casa nella prateria, parola per parola, su quaderni a spirale dalla copertina verde brillante. A dieci anni scrivevo ogni parola dell'insegnante sui jeans con una penna blu. Poi, sentendomi in colpa, li lavavo di nascosto nel lavandino del mio bagno con lo shampoo per bambini. Le parole si macchiavano e diventavano confuse, lasciando strani geroglifici color indaco lungo le gambe dei pantaloni, come se un minuscolo uccellino con le zampe bagnate d'inchiostro vi avesse saltellato sopra. A undici anni riscrivevo in modo ossessivo tutto ciò che mi veniva detto su un minuscolo bloc-notes blu, una vera giornalista in erba. Ogni frase doveva essere catturata sulla carta altrimenti non sembrava reale, scivolava via e scompariva. Vedevo fisicamente le parole a mezz'aria - "Camille, passami il latte" - e sentivo l'ansia montarmi dentro per paura che svanissero come l'inchiostro simpatico. Mettendole per iscritto mi sembrava di fissarle per sempre. Nessun pericolo di estinzione. Ero per la conservazione della lingua. Ero la secchiona della classe, una ragazzina di prima media, febbrile e nervosa, che copiava ogni frase pronunciata («Il signor Feeney è decisamente gay», «Jamie Dobson è brutto», «Non hanno mai il frappè al cioccolato») con un ardore che rasentava il fanatismo religioso. Marian era morta nel giorno del mio tredicesimo compleanno. Mi ero svegliata, avevo percorso il corridoio per andare a salutarla - la prima cosa che facevo ogni mattina - e l'avevo trovata con gli occhi spalancati e le coperte tirate su fino al mento. Ricordo di non essermi sorpresa più di tanto. Stava morendo da molto più tempo di quanto potessi ricordare. Quell'estate erano successe anche altre cose. All'improvviso ero diventata inequivocabilmente bella. Non era poi così scontato che ciò accadesse. La bellezza indiscussa di casa era Marian: grandi occhi azzurri, nasino sottile, zigomi perfetti. I miei lineamenti cambiavano giorno dopo giorno, come se su di me fluttuassero delle nubi in grado di gettare alternativamente ombre lusinghiere oppure orribili sul mio volto. Ma una volta ultimato il processo - e ce n'eravamo accorti tutti quell'estate, la stessa estate in cui mi trovai del sangue in mezzo alle gambe, la stessa estate in cui cominciai a
masturbarmi furiosamente - ero stata catturata dal mio aspetto, totalmente presa da me stessa: flirtavo con ogni specchio a portata di mano. Scatenata e ingovernabile come una puledra selvaggia. E tutti mi amavano. Non ero più un caso pietoso («Che sfortuna, le è morta la sorella»): ero la ragazza più carina («Che tristezza, le è morta la sorella»). Ed ero molto popolare. E quella era stata anche l'estate in cui erano cominciati i tagli, a cui mi dedicavo con la stessa devozione che riservavo alla mia bellezza da poco scoperta. Adoravo prendermi cura delle mie ferite, tamponare il sangue con un asciugamano umido rivelando magicamente "disgustosa" proprio sopra l'ombelico, applicare l'alcol, lasciando rimasugli di cotone lungo le linee insanguinate di "disinvolta". L'ultimo anno avevo preso una piega scurrile che in seguito avevo modificato. Pochi tagli veloci e "fica" era diventata "fila", "cazzo" si era trasformato in "carro", "clitoride" in "crisalide"... L'ultima parola che mi ero incisa sulla pelle, sedici anni dopo la prima, era stata "svanire". A volte riesco a sentire le parole bisticciare su tutto il corpo. "Mutandina", sulla spalla, chiama "ciliegia", nella parte interna della caviglia destra. "Rammendo", sulla parte esterna dell'alluce, borbotta velate minacce a "bambina", proprio sotto il seno sinistro. Riesco a farle tacere solo concentrandomi su "svanire", sempre silenziosa e regale, che domina tutte le altre dalla postazione sicura della mia nuca. Ah, dimenticavo: al centro della schiena, un punto troppo difficile da raggiungere, c'è un cerchio di pelle intatta, della grandezza di un pugno. Negli anni mi sono inventata le mie battute personali: "Puoi leggermi come un libro aperto". "Vuoi che ti faccia lo spelling?". Divertente, no? Non sopporto di guardarmi se non sono completamente vestita. Un giorno potrei anche decidere di andare da un chirurgo plastico per vedere che cosa si può fare, ma ora come ora non riuscirei a sopportare la sua reazione. Così bevo, per non pensare troppo a quel che ho fatto al mio corpo e per non ricominciare a farlo. Ciononostante, per la maggior parte del tempo in cui sono sobria desidero tagliarmi, incidere parole sul mio corpo. E non parole corte. "Equivocare." "Inarticolato." "Duplicità." Al mio ospedale nell'Illinois non ne sarebbero contenti. Per chi ha bisogno di dare un nome a tutto ciò esiste un vasto assortimento di termini medici. Io so solo che tagliarmi mi fa sentire al sicuro. È un dato di fatto. Pensieri e parole, catturati dove potevo vederli e toccarli. La verità, che mi bruciava sulla pelle in una bizzarra stenografia. Ditemi
che state per andare dal dottore e io sentirò il bisogno di incidermi "preoccupata" sul braccio. Ditemi che vi siete innamorati e io sentirò bisbigliare "tragedia" proprio sopra il seno. Non sentivo un particolare bisogno di farmi curare, ma avevo davvero esagerato nell'incidere "cattiva, piangi" fra le dita dei piedi, come una drogata all'ultimo stadio. È stato "svanire" a convincermi. Avevo preservato il collo, posto di primaria importanza, per il taglio finale. Poi mi ero consegnata. Ero rimasta in ospedale dodici settimane. C'è un reparto speciale per coloro che amano praticarsi tagli. Sono quasi tutte donne, perlopiù sotto i venticinque anni. Io ci sono entrata che ne avevo trenta. Sono fuori da appena sei mesi. Un periodo delicato. Curry era venuto a trovarmi una volta, portandomi un mazzo di rose gialle alle quali, prima di lasciarlo entrare nella sala visitatori, avevano tolto tutte le spine, riponendole in contenitori di plastica - simili a quelli sterili, aveva osservato lui - che poi erano stati messi sottochiave fino all'arrivo della nettezza urbana. Lui e io eravamo rimasti seduti uno di fronte all'altra nel salottino comune tutto spigoli smussati e divani imbottiti, chiacchierando del giornale, di sua moglie e delle ultime novità a Chicago, e io non avevo smesso un attimo di scrutarlo dalla testa ai piedi, in cerca di qualcosa di appuntito: la fibbia della cintura, una spilla da balia... «Mi dispiace davvero tanto, figliola» mi aveva detto al termine della visita e mi ero accorta che lo pensava sul serio, perché aveva la voce rotta. Quando lui se n'era andato, ero così disgustata da me stessa che ero corsa in bagno a vomitare e, mentre ero piegata in due sul water, avevo notato le viti coperte da capsule gommate che lo tenevano attaccato alla parete. Avevo tolto il rivestimento da una vite, sulla quale poi avevo strofinato il palmo della mano, finché gli infermieri non erano venuti a portarmi via, con il sangue che zampillava dalla ferita autoinflitta. Più tardi, quella settimana, la mia compagna di stanza si era uccisa. Ma ironia della sorte - non l'aveva fatto con un'arma da taglio. Aveva ingollato un intero flacone di detergente per vetri lasciato incustodito da un inserviente delle pulizie. Aveva sedici anni ed era un'ex ragazza pompon che aveva imparato a praticarsi tagli solo dalle cosce in su, cosicché nessuno potesse accorgersene. I suoi genitori mi avevano guardato storto quando erano venuti a prendere le sue cose. La depressione per me ha il colore giallo dell'urina. Chilometri e chilometri di piscio sbiadito. Le infermiere ci davano farmaci per alleviare il dolore bruciante della
pelle. E poi altri farmaci per placare i nostri cervelli in ebollizione. Venivamo perquisite due volte alla settimana in cerca di oggetti affilati o appuntiti e dovevamo sederci in gruppo per purificarci, in teoria, di tutto l'odio, la rabbia e l'autolesionismo. Imparavamo a non prendercela con noi stesse. Imparavamo a gestire la rabbia. Un mese di buona condotta faceva guadagnare bagni e massaggi. Ci veniva insegnata la bontà di un tocco gentile. L'unica altra persona che era venuta a trovarmi era stata mia madre, che non vedevo da un lustro. Profumava di fiori e indossava il braccialetto pieno di ciondoli tintinnanti che da bambina desideravo tanto. Quando eravamo sole, mi parlava del giardino e della nuova legge comunale che prevedeva la rimozione delle lucine natalizie entro il 15 gennaio. Quando i dottori si univano a noi, piangeva, mi accarezzava e mi coccolava. Mi passava una mano fra i capelli, domandandomi perché mi ero inflitta quel tormento. Poi - inevitabile - arrivava la storia di Marian. Aveva già perso una figlia. Ci era quasi morta. Perché la sua figlia maggiore (benché necessariamente meno amata) doveva farsi deliberatamente del male? Ero così diversa dalla sua bimba morta, la quale - «Ci pensi?» - avrebbe avuto quasi trent'anni, se fosse stata viva. Dio, era una tale gioia per tutti... «Ti ricordi, Camille, come rideva sempre, perfino in ospedale?» Detestavo dover far notare a mia madre che quello era il comportamento tipico di una bambina di dieci anni disorientata e morente. A che pro? È impossibile competere con i morti. Se solo potessi smettere di provarci. 5 Quando scesi a colazione trovai Alan in pantaloni bianchi dalla piega impeccabile e camicia di cotone oxford verde pallido. Sedeva da solo all'imponente tavolo di mogano della sala da pranzo, la cui superficie lucida rifletteva la sua immagine. Sbirciai le gambe del tavolo per capire la ragione della crisi isterica di Amma la sera prima. Alan fece finta di non notarlo. Stava mangiando un uovo sbattuto. Quando alzò lo sguardo su di me, una sbavatura di rosso d'uovo gli colò come uno sputo lungo il mento. «Accomodati, Camille. Che cosa posso farti portare?» Fece tintinnare il campanello d'argento posato accanto a sé e dalla porta tipo saloon della cucina comparve Gayla, un'ex fattoressa che dieci anni prima aveva sostituito i maiali con le pulizie e l'attività in cucina in casa di mia madre. Ave-
va più o meno la mia statura - quindi, alta -, ma non doveva pesare più di cinquanta chili. L'uniforme bianca inamidata, stile infermiera, le ballava addosso. Mia madre entrò, passandole accanto, baciò Alan sulla guancia e si sedette al suo posto, dopo essersi messa davanti una pera su un tovagliolo di cotone. «Gayla, ti ricordi di Camille?» «Ma certo, signora Crellin» rispose la donna, volgendo il viso volpino verso di me. Mi sorrise, mettendo in evidenza i denti storti e le labbra screpolate. «Buongiorno, Camille. Uova, pane tostato, frutta?» «Solo caffè, per favore. Con latte e zucchero.» «Camille, abbiamo comprato da mangiare appositamente per te» intervenne mia madre sbocconcellando la pera. «Almeno prendi una banana.» «E una banana.» Gayla si avviò in cucina, con un sorrisetto compiaciuto. «Camille, devo chiederti scusa per ieri sera» esordì Alan. «Amma sta attraversando una di quelle strane fasi...» «È troppo attaccata alle mie sottane» intervenne mia madre. «Di solito è abbastanza docile, ma talvolta è un po' difficile da governare.» «Direi ben più di un po'» ribattei. «Il suo era un capriccio in piena regola. Un po' inquietante, direi, per una ragazzina di tredici anni.» Era la Camille di Chicago che parlava, più sicura di sé e decisamente più loquace. «Sì, be', anche tu non eri esattamente tranquilla, alla sua età.» Non sapevo a che cosa intendesse riferirsi mia madre, se ai tagli che mi facevo, alle crisi di pianto per la morte di mia sorella oppure all'iperattiva vita sessuale a cui mi dedicavo. Decisi di limitarmi ad assentire. «Be', spero solo che stia meglio» dissi con un tono che non ammetteva repliche e mi alzai per andarmene. «Ti prego, Camille, siediti» mormorò Alan a bassa voce, pulendosi gli angoli della bocca con il tovagliolo. «Raccontaci di Chicago, la Città ventosa. Concedici un minuto del tuo tempo.» «Chicago è ok. Il lavoro va bene, sto cominciando ad avere qualche soddisfazione.» «Che cosa intendi con "qualche soddisfazione"?» Alan si sporse verso di me, a mani giunte, come se considerasse quella domanda particolarmente affascinante. «Be', mi stanno assegnando servizi più importanti. Dall'inizio dell'anno mi sono occupata già di tre omicidi.»
«Ed è una buona cosa, Camille?» Mia madre smise di sbocconcellare la pera. «Non capirò mai da dove viene questa tua attrazione per ciò che è abietto. Mi sembra che la vita ti abbia riservato abbastanza fatti spiacevoli senza che tu debba andarteli a cercare deliberatamente.» E scoppiò in una risata simile al sibilo acuto di un palloncino che si sgonfia all'improvviso mentre sale in aria. Gayla ritornò con il mio caffè e una banana malamente sistemata in una ciotola. Come due attrici che si avvicendano in una sit-com, mentre lei usciva, entrò Amma. Baciò mia madre sulla guancia, salutò Alan e si sedette di fronte a me, dandomi un calcio sotto il tavolo. Una risatina. "Oh, scusa, eri tu?" «Mi dispiace per la scenata di ieri, Camille» disse «soprattutto perché non ci conosciamo molto bene. È un momento un po' difficile per me.» Sfoggiò un sorriso affettato. «Ma adesso ci siamo ritrovate. Tu sei la povera Cenerentola e io la sorellastra cattiva.» «Non c'è cattiveria in te, tesoro» ribatté Alan. «Ma Camille è la primogenita. Di solito è la preferita. Ora che è tornata, vorrai più bene a lei che a me?» volle sapere Amma. Aveva buttato lì la domanda con fare scherzoso, ma le guance le si colorirono mentre attendeva la risposta di mia madre. «No» rispose Adora a bassa voce. Gayla entrò con un piatto di prosciutto e lo mise di fronte ad Amma, che vi versò sopra del miele in cerchi concentrici. «Perché tu vuoi bene a me» osservò la mia sorellastra fra un boccone e l'altro. Il nauseabondo odore della carne addolcita con il miele cominciò a farsi sentire. «Vorrei che avessero ucciso me.» «Amma, non dirlo neanche per scherzo» la redarguì mia madre, impallidendo. Le sue dita volarono alle ciglia, per poi tornare con decisione sul tavolo. «Così non dovrei più preoccuparmi di niente. Quando muori, diventi perfetta. Sarei come la principessa Diana. Tutti la amano adesso.» «Sei la ragazzina più popolare della scuola e a casa ti adoriamo. Non essere avida.» Amma mi assestò un altro calcio sotto il tavolo e sorrise raggiante, come se finalmente le cose fossero state messe in chiaro. Si gettò sopra la spalla un lembo di tessuto dell'indumento che indossava e in quel momento mi accorsi che quel che sembrava un abito da casa era in realtà un lenzuolo blu sapientemente drappeggiato. Anche mia madre lo notò.
«Si può sapere che cosa ti sei messa, Amma?» «È il mio mantello. Devo andare nel bosco a recitare la parte di Giovanna D'Arco. Le ragazze mi metteranno al rogo.» «Non farai proprio niente del genere, cara» scattò mia madre, strappandole di mano il barattolo del miele, mentre lei ne stava versando un'altra dose sul prosciutto. «Due ragazzine della tua età sono morte e tu pensi di andare a giocare nel bosco?» "I bambini nei boschi si dilettano in giochi selvaggi, segreti." Era l'inizio di una poesia che un tempo sapevo a memoria. «Non preoccuparti, non succederà niente.» Amma sorrise con affettazione. «Ho detto che rimarrai a casa.» Amma punzecchiò il prosciutto con la forchetta, mormorando qualcosa di sgradevole. Mia madre si girò verso di me, inclinando leggermente la testa, il diamante sull'anulare che lampeggiava come un SOS. «Allora, Camille, perché non organizziamo qualcosa di piacevole mentre sei qui?» domandò. «Per esempio, un picnic sul prato, oppure un giro sulla decapottabile e una partita a golf a Woodberry? Gayla, portami del tè freddo, per favore.» «Non sarebbe male. Devo solo capire quanto tempo mi fermerò ancora.» «Sì, piacerebbe anche a me saperlo» sbottò, affrettandosi poi ad aggiungere: «Beninteso, tu qui sei la benvenuta e puoi fermarti quanto vuoi... ma sarebbe carino saperlo, in modo da poterci organizzare». «Certo.» Diedi un morso alla banana, che non sapeva di niente. «Magari Alan e io potremmo venire a trovarti quest'anno. Non abbiamo mai visto Chicago.» Il mio ospedale era novanta minuti a sud della città. Mia madre era atterrata all'aeroporto O'Hare e da lì aveva preso un taxi che le era costato 128 dollari, 140 compresa la mancia. «Non è una cattiva idea. Abbiamo musei niente male. E il lago ti piacerà.» «Non credo di potermi più avvicinare all'acqua, ormai.» «E da quando?» domandai, pur sapendo benissimo la risposta. «Da quando quella bambina, Ann Nash, è stata lasciata annegare nel torrente.» Fece una pausa per bere un sorso di tè freddo. «La conoscevo, sai?» Amma emise un gemito, dimenandosi sulla sedia. «Ma non è annegata» obiettai, sapendo che la precisazione l'avrebbe irritata. «Qualcuno l'ha strangolata. Nel torrente è stata buttata solo dopo.»
«E poi Natalie Keene. Volevo bene a tutte e due. Molto.» Distolse lo sguardo tristemente e Alan posò una mano sopra le sue. Amma scattò in piedi, emise un gridolino che assomigliava al guaito di un cucciolo eccitato e corse al piano di sopra. «Poverina» mormorò mia madre. «Anche lei, come me, sta passando un brutto momento.» «Non ne dubito, dal momento che vedeva quelle bambine ogni giorno» bofonchiai, stizzita mio malgrado. «Come mai le conoscevi?» «Wind Gap, non c'è bisogno che te lo ricordi, è poco più che un paese. E loro erano due bambine belle e dolci. Davvero belle.» «Ma non le conoscevi sul serio.» «Oh, sì che le conoscevo. Le conoscevo bene.» «Come?» «Camille, ti prego, smettila. Ti ho detto che sono sconvolta e snervata e tu, invece di consolarmi, mi fai il terzo grado.» «Allora, hai deciso di stare lontana da tutte le fonti d'acqua in futuro, non è così?» «Chiudi il becco, Camille!» squittì mia madre. Poi avvolse i resti della pera nel tovagliolo come un neonato nelle fasce e lasciò la stanza. Alan la seguì con il suo assillante fischiettare, come un pianista d'altri tempi che sottolinei i momenti drammatici di un film muto. Ogni tragedia che accade nel mondo è una tragedia che si abbatte su mia madre e questa è una delle cose di lei che più dà il voltastomaco. Mia madre si preoccupa di persone mai viste, colpite da una sorte avversa. Piange alle notizie che vengono da un capo all'altro del pianeta. Ogni cosa è troppo per lei, la crudeltà degli esseri umani è troppo per lei. Dopo la morte di Marian non era uscita dalla sua camera per un anno. Una camera meravigliosa: un enorme letto a baldacchino, un tavolino da toilette costellato di flaconi di profumo, un pavimento talmente splendido da essere fotografato da numerose riviste di arredamento, a riquadri di puro avorio, che sembrava illuminare la stanza dal basso. Quella camera e il suo pavimento decadente mi mettevano soggezione, soprattutto perché mi era proibito entrarci. Personalità come Truman Winslow, sindaco di Wind Gap, avevano fatto visite settimanali a mia madre, portandole fiori freschi e classici della letteratura. Di tanto in tanto ero riuscita a sbirciarla per mezzo secondo, mentre la porta veniva aperta per lasciar passare gli ospiti. Lei era sempre a letto, appoggiata a una montagna di cuscini, con indosso una serie di delicate vestaglie a fiori. Io non ero mai riuscita a entrare.
Mancavano solo due giorni alla consegna del servizio a Curry e avevo ben poco da riferire. Sdraiata sul letto in camera mia, con le mani giunte come un cadavere, riassunsi ciò che sapevo cercando di dargli una struttura logica. Non c'erano testimoni del rapimento di Ann Nash, avvenuto lo scorso agosto. La bambina era semplicemente svanita e il suo corpo era riemerso dieci ore dopo a pochi chilometri di distanza, nel torrente. Era stata strangolata circa quattro ore dopo essere stata rapita. La sua bicicletta non era mai stata ritrovata. Il che faceva supporre che la piccola conoscesse l'assalitore. Prendere una bambina con la forza e portarla via insieme alla bici avrebbe causato un bel po' di casino in quelle stradine silenziose. Che fosse stato qualcuno della chiesa o addirittura uno dei vicini? Qualcuno dall'aria innocua. Dopo questo primo omicidio commesso con tanta cautela, perché rapire Natalie in pieno giorno, davanti agli occhi di un amico? Non aveva senso. Se James Capisi si fosse trovato ai margini del bosco, invece di godersi il sole all'insaputa della madre, sarebbe stato lui la vittima? Oppure Natalie Keene era un bersaglio deliberato? Era anche stata tenuta in vita più a lungo di Ann: era scomparsa da più di due giorni quando il suo corpo era stato rinvenuto, incuneato nell'esiguo spazio fra il ferramenta e il salone di bellezza sulla Main Street di Wind Gap. Che cosa aveva visto realmente James Capisi? Quel bambino non mi convinceva del tutto. Non pensavo che stesse mentendo, ma i bambini elaborano la paura in modo diverso. Lui aveva visto qualcosa di orribile, che si era trasformato nella strega malvagia delle fiabe, nella crudele regina delle nevi. E se invece quella persona avesse avuto solo un aspetto femminile? Un uomo alto e magro con i capelli lunghi, un travestito, un tipo androgino? Le donne non uccidevano così. I serial killer donna si potevano contare sulle dita di una mano e le loro vittime erano quasi sempre uomini: di solito qualche storia di sesso finita male. Le bambine, in ogni caso, non avevano subito violenza sessuale e neppure questo si accordava con lo schema. Anche la scelta delle bambine sembrava priva di senso. Se non fosse stato per Natalie Keene, avrei pensato semplicemente a una sfortunata coincidenza. Ma se James Capisi non stava mentendo, il rapimento di Natalie al parco aveva richiesto una certa preparazione, e se era proprio lei la bambina che l'assassino voleva, allora neanche Ann era stata un mero capriccio del fato. Nessuna delle due era tanto bella da suscitare ossessioni. Come
aveva detto Bob Nash, era Ashleigh quella carina. Natalie veniva da una famiglia benestante, ma ancora poco inserita a Wind Gap. Ann apparteneva alla piccola borghesia e la sua famiglia viveva a Wind Gap da generazioni. Le due non erano amiche. L'unico legame era una certa cattiveria, se le storie raccontate da Vickery erano credibili. E poi c'era la teoria dell'autostoppista. Richard Willis ci credeva davvero? Eravamo vicini a un'importante arteria stradale percorsa da grandi camion in direzione di Memphis. Ma nove mesi erano tanti perché uno di fuori città passasse inosservato e dal bosco che circondava Wind Gap non era uscito nulla, neppure gli animali. Erano stati sterminati con la caccia molti anni prima. I pensieri mi si accavallavano nella testa, contaminati da vecchi pregiudizi e da un eccessivo coinvolgimento emotivo. Sentii un disperato bisogno di parlare con Richard Willis, un estraneo che considerava tutta la faccenda un lavoro, un'indagine da portare a termine, l'ultima tessera di un mosaico incompleto. Avevo bisogno di ragionare in quel modo. Feci un bagno freddo, a luce spenta. Poi mi sedetti sul bordo della vasca, spalmandomi la crema di mia madre su tutto il corpo, in un'unica, rapida passata. I solchi e le linee in rilievo che segnavano la mia pelle mi fecero rabbrividire. Mi infilai un paio di pantaloni di cotone leggeri e una maglia a girocollo con le maniche lunghe. Mi spazzolai i capelli e mi guardai nello specchio. Nonostante ciò che avevo fatto al resto del corpo, il mio viso continuava a essere molto bello. Non c'era un tratto che risaltasse in modo particolare, ma era l'equilibrio dell'insieme a dare un'idea di armonia, producendo un effetto notevole: grandi occhi blu, zigomi alti che incorniciavano il piccolo triangolo del naso, labbra piene con gli angoli leggermente piegati verso il basso. Ero una delizia per gli occhi, finché rimanevo completamente vestita. Se le cose fossero andate diversamente, avrei potuto spassarmela con una serie di amanti, avrei potuto frequentare uomini interessanti, mi sarei potuta sposare. Fuori, la nostra porzione di cielo del Missouri era, come sempre, di un blu elettrico. Il solo pensiero mi fece venire le lacrime agli occhi. Trovai Richard alla tavola calda dei Broussard, intento a mangiare cialde senza sciroppo, con sul tavolo una pila di fascicoli che gli arrivava quasi alla spalla. Mi infilai nel posto di fronte a lui, sentendomi stranamente felice e tranquilla. Lui alzò gli occhi e sorrise. «Ciao, Preaker, prendi pure il pane tostato.
Tutte le volte che vengo qui dico che non voglio il pane tostato, ma evidentemente non serve. Forse devono comunque farlo fuori.» Presi una fetta di pane e la spalmai di burro. Il pane era freddo e duro e mordendolo sparsi una montagna di briciole sul tavolo. Le ripulii ficcandole sotto il piatto e venni subito al punto. «Senti, Richard, parliamone. In via ufficiale o meno. Non riesco a venire a capo di questa storia. Non riesco a essere abbastanza obiettiva.» Lui batté con la mano sulla pila dei fascicoli e mi indicò il suo blocco per appunti. «Ho tutta l'obiettività che vuoi, dal 1927 in poi, perlomeno. Nessuno sa che cosa sia successo ai fascicoli precedenti il 1927. Probabilmente qualche segretaria li ha buttati via, per fare un po' di ordine al comando di polizia.» «Di che tipo di documentazione si tratta?» «Sto tracciando un profilo criminale di Wind Gap, una specie di cronistoria degli episodi di violenza della città» rispose, lanciandomi un fascicolo. «Lo sapevi che nel 1975 due adolescenti sono state rinvenute con i polsi tagliati sulle rive del torrente, a non molta distanza dal punto in cui è stato scoperto il corpo di Ann Nash? La polizia ha archiviato il caso sostenendo che si trattava di ferite autoinflitte. Leggo qui: "Tra le ragazze c'era un legame troppo intimo e malsano per la loro età. Si sospetta un rapporto omosessuale". Ma non hanno mai trovato il coltello. Strano.» «Una di loro si chiamava Murray.» «Ah, allora conosci il caso.» «Aveva appena partorito.» «Sì, una bambina.» «Lo so, Faye Murray. Frequentava il mio liceo. La chiamavano Faye la Lesbica. I ragazzi la portavano nel bosco dopo la scuola e se la facevano a turno. Sua madre si era uccisa e, sedici anni dopo, Faye era costretta a scoparsi tutti i ragazzi della scuola.» «Non ti seguo.» «Per dimostrare di non essere una lesbica. Tale madre, tale figlia, giusto? Se non si fosse scopata quei ragazzi, nessuno avrebbe voluto avere a che fare con lei. Riuscì a dimostrare di non essere lesbica, ma si fece la fama di sgualdrina. Così di nuovo nessuno volle avere a che fare con lei. Questa è Wind Gap. Tutti conoscono i segreti altrui. E se ne servono al meglio.» «Che posticino delizioso!» «Già. Voglio una dichiarazione ufficiale adesso.»
«Te l'ho appena rilasciata.» Mi venne da ridere e la cosa sorprese me per prima. Già mi vedevo a consegnare il mio articolo a Curry: «La polizia brancola nel buio, ma sostiene che Wind Gap sia un "posticino delizioso"». «Senti, Camille, facciamo un patto: io ti rilascerò una dichiarazione ufficiale da citare nell'articolo e tu mi aiuterai a riempire i buchi in queste vecchie storie. Ho bisogno di qualcuno che mi spieghi com'è realmente questa città e Vickery non vuole farlo. È molto... protettivo.» «Ok per la dichiarazione ufficiale, ma voglio anche che continui a collaborare con me in via ufficiosa. Non scriverò niente senza il tuo permesso. Tu invece potrai usare tutto ciò che ti dirò.» Non era il più favorevole degli accordi, ma mi sarei dovuta accontentare. «Fammi pure la domanda.» Richard sorrise. «Credi veramente che gli omicidi siano stati commessi da uno sconosciuto?» «Per la stampa?» «Sì.» «Non abbiamo ancora escluso nessuno.» Richard addentò l'ultimo pezzo di cialda e assunse un'aria pensierosa, con gli occhi puntati al soffitto. «Stiamo esaminando molto attentamente potenziali sospettati all'interno della comunità, ma stiamo anche valutando la possibilità che gli omicidi siano opera di uno sconosciuto.» «Cioè brancolate nel buio.» Lui sorrise, stringendosi nelle spalle. «Hai avuto la tua risposta.» «Ok, in via ufficiosa, brancolate nel buio?» Richard aprì e chiuse varie volte l'appiccicosa bottiglia dello sciroppo, facendone scattare il tappo, e poi incrociò le posate sul piatto. «In via ufficiosa, Camille, credi davvero che i delitti siano opera di uno sconosciuto? Sei una cronista di nera.» «No, non lo credo.» Dirlo ad alta voce mi creò ansia. Cercai di distogliere lo sguardo dalle punte della forchetta di fronte a me. «Ragazza intelligente.» «Vickery ha detto che tu pensavi che si trattasse di un autostoppista o qualcosa del genere.» «Oh, dannazione, è una possibilità cui ho accennato appena sono arrivato... nove mesi fa. E lui ci si tiene attaccato ancora come a una prova della mia incompetenza. Vickery e io abbiamo qualche problema di comunicazione.»
«Hai dei sospetti reali?» «Posso invitarti a bere qualcosa in settimana? Voglio che mi racconti tutto quello che sai di Wind Gap.» Richard prese il conto e spinse contro il muro la bottiglia dello sciroppo, che lasciò sul tavolo un residuo appiccicoso; senza pensarci vi passai sopra un dito, portandomelo poi alle labbra. Le cicatrici fecero capolino dalla manica. Richard alzò lo sguardo proprio mentre nascondevo rapidamente la mano sotto il tavolo. L'idea di svelare a Richard i segreti di Wind Gap non mi dava fastidio. Non mi sentivo particolarmente in debito con la città. Era il luogo in cui era morta mia sorella, il luogo in cui avevo cominciato a praticarmi tagli sul corpo. Una città piccola e soffocante in cui eri costretto ogni giorno a imbatterti nelle persone che odiavi. Persone che sapevano tutto di te. Il tipo di posto che lascia il segno. Premesso questo, devo anche ammettere che in apparenza, quando vivevo qui, non avrei potuto essere trattata meglio. Merito di mia madre. Tutti in città l'adoravano, era come la panna montata su una torta: la ragazza più bella e più dolce a cui Wind Gap avesse mai dato i natali. I suoi genitori - i miei nonni materni - erano proprietari dello stabilimento in cui si allevavano e macellavano i maiali e di metà delle abitazioni circostanti e avevano cresciuto mia madre con le stesse regole ferree applicate ai dipendenti: niente fumo, niente bestemmie, messa domenicale obbligatoria. Posso solo immaginare la loro reazione quando Adora era rimasta incinta a diciassette anni. Un ragazzotto del Kentucky, conosciuto al campeggio della parrocchia, era venuto a trovarla durante le vacanze di Natale e, come regalo, le aveva lasciato me. Per la rabbia, i miei nonni si erano fatti venire un tumore, che era cresciuto insieme alla pancia di mia madre, ed erano morti entrambi a meno di un anno dalla mia nascita. Alcuni amici di famiglia nel Tennessee avevano un figlio che aveva cominciato a corteggiare Adora ancora prima che io venissi svezzata, facendole visita quasi ogni fine settimana. Non riesco a immaginarmi quel corteggiamento se non come qualcosa di impacciato e imbarazzante. Alan, stirato e inamidato, che disquisiva sul tempo. Mia madre, sola e senza guida per la prima volta in vita sua e bisognosa di un buon partito, che rideva per... che cosa? Per una battuta? Non credo che Alan ne abbia mai detta una in vita sua, ma sono certa che mia madre trovasse il modo di ridacchiare come una scolaretta per fargli piacere. E in tutto questo io dov'ero?
Probabilmente in qualche angolo remoto della casa, accudita dalla cameriera a cui Adora aveva allungato di nascosto cinque dollari extra per il disturbo. Immagino Alan che faceva la proposta di matrimonio a mia madre, fissando un punto alle sue spalle o giocherellando con una pianta per evitare di incontrare il suo sguardo, e mia madre che accettava con grazia, affrettandosi poi a versargli dell'altro tè. Magari c'era scappato anche un asettico bacio. A ogni buon conto, prima che io avessi raggiunto l'età della parola, Alan e Adora erano sposati. Non so praticamente nulla del mio vero padre. Il nome sul certificato di nascita è falso: Newman Kennedy, rispettivamente dall'attore e dal presidente preferiti di Adora. Mia madre si è sempre rifiutata di dirmi il suo vero nome, per paura che andassi a cercarlo. No, dovevo essere considerata figlia di Alan, il che era un po' difficile, visto che, otto mesi dopo il matrimonio, era nata la vera figlia di Alan. Mia madre aveva vent'anni, lui trentacinque e un notevole patrimonio di famiglia di cui Adora non aveva alcun bisogno, essendo a propria volta molto ricca. Nessuno dei due ha mai lavorato. Nel corso degli anni ho appreso ben poco su Alan. È un abile cavallerizzo, vincitore di molti premi, ma non va più a cavallo, perché la cosa rende Adora nervosa. È di salute cagionevole e, anche quando non è malato, se ne sta perlopiù fermo. Legge un libro dopo l'altro sulla Guerra civile e lascia che sia mia madre a sostenere gran parte della conversazione. È insipido e ha la profondità di una lastra di vetro. Ma d'altra parte Adora non ha mai cercato di stabilire un legame fra di noi. Dovevo essere considerata a tutti gli effetti figlia di Alan, ma lui non ha mai veramente tentato di farmi da padre, né mi ha mai incoraggiato a chiamarlo altrimenti che con il nome di battesimo. Ricordo di essermi azzardata una volta a chiamarlo papà, da piccola, ma l'espressione scioccata sul suo viso era stata tale da scoraggiare qualunque ulteriore tentativo. A essere sincera, penso che Adora preferisca così. Tutti i rapporti in casa devono passare attraverso di lei. Ma torniamo alla bambina, Marian. Era una serie ininterrotta di malanni e sofferenze. Fin dalla nascita aveva problemi a respirare e si svegliava di notte boccheggiando in cerca di aria, tutta chiazzata e grigia in viso. La sentivo ansimare in fondo al corridoio, nella camera accanto a quella di mia madre. Si accendevano le luci e udivo voci carezzevoli e sommesse, talvolta pianti e strilli. Andirivieni regolari dal pronto soccorso di Woodberry. In seguito Marian aveva sviluppato problemi di digestione e se ne stava confinata in camera, su un lettino da ospedale, a parlottare con la sua
bambola, mentre mia madre la nutriva con la flebo, armeggiando con tubicini vari. Durante quegli ultimi anni, Adora si era strappata tutte le ciglia. Non riusciva a tenere le dita lontane dagli occhi. Lasciava sempre mucchietti di ciglia sui tavoli. Mi dicevo che erano nidi fatati. Ricordo ancora di aver trovato due lunghe ciglia bionde per terra e di averle tenute per settimane sotto il cuscino. Di notte mi facevano il solletico sulle guance e sulla bocca, finché un giorno mi ero svegliata e avevo scoperto che erano volate via. Quando, alla fine, mia sorella era morta, mi ero sentita in parte sollevata. Avevo sempre avuto la sensazione che fosse stata introdotta a forza in questo mondo senza il dovuto equipaggiamento. Non era pronta a sopportarne il peso. La gente aveva bisbigliato parole di conforto dicendo che Marian era stata richiamata in cielo, ma nulla era riuscito a distrarre mia madre dal suo dolore. Ancora oggi è rimasto il suo passatempo preferito. La mia macchina di un blu sbiadito, coperta di escrementi di uccello e con i sedili di pelle che ribollivano per il caldo, non era certo invitante, così decisi di fare un giro a piedi in città. In Main Street, superai la polleria in cui i volatili arrivavano freschi di macellazione dall'Arkansas. Il loro puzzo mi fece fremere le narici. Una dozzina di polli spennati pendeva in vetrina, con qualche piuma bianca disseminata sul bancone sottostante. Verso la fine della strada, nel punto in cui era stato eretto una specie di altarino improvvisato per Natalie, vidi Amma con le sue amiche. Stavano rovistando fra palloncini e regali vari, con le tre biondine che facevano da palo, mentre mia sorella sgraffignava due candele, un bouquet di fiori e un orsetto di peluche, ficcando il tutto, tranne l'orsetto, in un grande borsone. Il peluche se lo tenne stretto a sé, mentre si prendeva sottobraccio con le altre e tutte e quattro avanzavano con aria di scherno verso di me. Contro di me, a dire il vero. Si fermarono a pochi centimetri dal mio naso, riempiendo l'aria di quel genere di profumo penetrante che le riviste di moda allegano come campione. «Ci hai beccate, eh? Adesso che cosa farai? Lo scriverai sul tuo giornale?» strillò Amma. A quanto pare il capriccio per la casa delle bambole era del tutto dimenticato. Certe bambinate, evidentemente, venivano lasciate a casa. Si era cambiata d'abito e adesso indossava una minigonna, sandali con la zeppa e un top aderente. «In tal caso, scrivi il mio nome per intero: Amita Adora Crellin. Ragazze, vi presento... mia sorella. Direttamente da Chicago. La bastarda di famiglia.» Amma inarcò un sopracciglio e le altre ragazze scoppiarono a ridere. «Camille, loro sono le mie delizioooose ami-
che, ma non c'è bisogno che tu le citi per nome. Il capo sono io.» «Solo perché strilla più forte» intervenne una delle tre, una piccolina con i capelli color miele e la voce roca. «E ha le tette più grandi» aggiunse la seconda, dai capelli biondo scuro. La terza, con i capelli biondi dalle sfumature ramate, afferrò il seno sinistro di Amma e gli diede una strizzatina. «In parte vere, in parte imbottite.» «Vaffanculo, Jodes!» esclamò Amma e le diede uno schiaffo. L'amica diventò tutta rossa e bofonchiò qualche parola di scuse. «E, comunque, si può sapere che intenzione hai, sorella?» proseguì Amma, abbassando lo sguardo sull'orsetto di peluche. «Perché scrivi un articolo su due bambine morte che da vive non interessavano a nessuno? Come se farsi uccidere rendesse famosi.» Due delle ragazzine fecero una risata forzata, la terza tenne lo sguardo abbassato. Una lacrima le scivolò lungo una guancia e finì a terra. Riconoscevo quel linguaggio adolescenziale così provocatorio. Era un terreno molto familiare. Ma anche se una parte di me apprezzava quell'esibizione, l'altra si sentiva stranamente protettiva nei confronti di Natalie e Ann. La mancanza di rispetto di mia sorella mi infastidiva. In tutta onestà, provai anche una punta di gelosia (il suo secondo nome era Adora?). «Scommetto che Adora non sarebbe contenta di leggere che sua figlia ruba i regali lasciati come ricordo a una compagna di scuola» dissi. «Compagna di scuola non vuole dire amica» ribatté la ragazzina più alta, guardandosi intorno per avere conferma della stupidità del mio commento. «Oh, Camille, stavamo solo scherzando» disse Amma. «Mi sento orribile. In effetti erano due bambine simpatiche. Solo un po' strambe.» «Decisamente strambe» le fece eco una delle amiche. «Ehi, ragazze, e se lui volesse uccidere tutti gli svitati?» ridacchiò Amma. «Non sarebbe perfetto?» La ragazzina piangente alzò lo sguardo e sorrise alla battuta. Amma la ignorò apposta. «Lui chi?» domandai. «Tutti sanno chi è stato» rispose la bionda dalla voce roca. «Il fratello di Natalie. Sono tutti svitati in famiglia» sentenziò Amma. «Ha un debole per le ragazzine» aggiunse con aria imbronciata la ragazza di nome Jodes. «Trova ogni scusa per attaccare discorso con me» proseguì Amma. «Almeno adesso sappiamo che non mi ucciderà. Sono troppo bella e intelligente.» Lanciò un bacio in aria, allungò il peluche a Jodes, prese a brac-
cetto le altre due e con un impertinente "scusa" mi spinse da parte per passare. Jodes si trascinò lentamente dietro il terzetto. Nella malignità di Amma scorsi un barlume di disperazione e di indignazione. Proprio come aveva piagnucolato a colazione: «Vorrei che avessero ucciso me». Per Amma nessuno doveva ricevere più attenzioni di lei. Di certo non due bambine che, da vive, non avrebbero potuto in alcun modo competere con lei. Verso mezzanotte chiamai Curry a casa. Curry è un pendolare in senso opposto, dal centro alla periferia: novanta minuti per raggiungere i nostri uffici dall'appartamento che i suoi genitori gli hanno lasciato a Mt. Greenwood, un enclave irlandese operaia nel South Side. Lui e sua moglie Eileen non hanno figli. «Mai voluto bambini» abbaia sempre Curry, ma ho visto come il suo sguardo indugia da lontano sui frugoletti ai primi passi e quanta attenzione presta ai rari bambini che capitano in ufficio. Curry e sua moglie si sono sposati tardi. Immagino che non siano riusciti ad avere figli. Eileen ha i capelli rossi e il viso coperto di lentiggini. Curry l'ha conosciuta all'autolavaggio del quartiere quando aveva quarantadue anni. In seguito è venuto fuori che lei era cugina di secondo grado del suo migliore amico d'infanzia. Si sono sposati tre mesi dopo il loro primo incontro e stanno insieme da ventidue anni. Mi piace il fatto che Curry ami ancora raccontare questa storia. Eileen fu molto affettuosa quando rispose al telefono ed era proprio ciò di cui avevo bisogno. Ma certo che non stavano dormendo, disse ridendo. Curry anzi stava lavorando a uno dei suoi puzzle da oltre quattromila pezzi. Aveva quasi completamente invaso il salotto e lei gli aveva dato come ultimatum una settimana per finirlo. Sentii Curry affrettarsi al telefono, mi sembrò quasi di sentire l'odore del suo tabacco. «Preaker, ragazza mia, che succede? Stai bene?» «Sto bene. È solo che non si fanno molti progressi da queste parti. Mi ci è voluto tutto questo tempo solo per avere una misera dichiarazione ufficiale da parte della polizia.» «Che sarebbe?» «"Non abbiamo ancora escluso nessuno."» «Ah, stronzate. Deve esserci dell'altro. Scoprilo. Sei riuscita a parlare di nuovo con i genitori?» «Non ancora.» «Parla con i genitori. Se non riesci a scoprire niente, voglio un profilo
delle bambine morte. Voglio un'indagine sulla natura umana, non un asettico rapporto di polizia. Parla anche con altri genitori e vedi se hanno qualche teoria. Chiedi se stanno prendendo precauzioni speciali. Parla con i fabbri e con i commercianti d'armi e scopri se il loro giro d'affari è aumentato. Va' a parlare con un prete o con qualche insegnante. Magari con un dentista, per capire quanto sia difficile strappare tutti i denti, se sia necessario un attrezzo speciale o una qualche esperienza in materia. Parla con qualche ragazzino. Voglio voci, voglio facce. Preparami almeno due pagine per domenica. Cerchiamo di darci dentro mentre abbiamo ancora l'esclusiva.» All'inizio mi appuntai i consigli su un bloc-notes, poi continuai a prendere nota mentalmente, mentre seguivo le cicatrici sul braccio destro con il pennarello. «Vuoi dire prima che venga commesso un altro delitto.» «A meno che la polizia non sappia molto più di quanto ti hanno lasciato intendere, ce ne sarà un altro, sì. Quel tipo di individui non si ferma mai dopo due omicidi, non quando si tratta di delitti rituali.» Curry non sa un bel niente sui delitti rituali, riesce a stento a sfogliare alcune pubblicazioni di basso livello sui crimini veri, tascabili ingialliti dalla copertina lucida che recupera nei negozi di libri usati. "Due per un dollaro, Preaker, questo si che è divertimento." «Allora, Cucciolo, nessuna teoria sulla possibilità che sia uno del posto?» A quanto pare, Curry trova quel nomignolo perfetto per me, la sua piccola giornalista preferita. La voce gli trema quando lo usa, come se la parola stessa arrossisse. Riesco perfettamente a immaginarlo in mezzo al salotto, che sbircia il suo puzzle, mentre Eileen si avvicina per dare un rapido tiro alla sua sigaretta, prima di riprendere a preparargli l'insalata di tonno e cetriolini dolci per il pranzo dell'indomani. Curry la mangia tre volte alla settimana. «In via ufficiosa, dicono di sì.» «Be', dannazione, costringili a dichiararlo ufficialmente. Ne abbiamo bisogno. Questo sì che sarebbe un bel colpo.» «C'è una cosa strana, Curry. Ho parlato con un bambino che dice di aver visto rapire Natalie. E sostiene che è stata una donna.» «Una donna? No, non è stata una donna. Che cosa ne dice la polizia?» «No comment.» «Chi è questo bambino?»
«Il figlio di una donna che lavora allo stabilimento dei maiali. Un bambino simpatico. Sembra davvero spaventato, Curry.» «Ma la polizia non gli crede, altrimenti l'avresti saputo, no?» «Onestamente, non saprei. Sono tutti così abbottonati quaggiù.» «Cristo, Preaker, falli parlare. Cerca di avere in mano qualcosa di ufficiale.» «Facile a dirsi. Comincio a pensare che sia uno svantaggio essere del posto. Ce l'hanno con me, come con un nordista dopo la Guerra civile.» «Cerca di farti benvolere. Sei una persona simpatica, quando vuoi. Tua madre ti spalleggerà.» «Nemmeno lei è particolarmente contenta che io sia qui.» Silenzio, poi un sospiro dall'altra parte della linea. Il mio braccio destro sembrava una mappa stradale blu scuro. «Va tutto bene, Preaker? Ti stai prendendo cura di te?» Non risposi. All'improvviso, mi sentii sul punto di piangere. «Sto bene. Questo posto mi fa un brutto effetto. Mi fa sentire... inadeguata.» «Tieni duro, Cucciolo. Stai facendo un ottimo lavoro. Andrà tutto bene. E se le cose si mettono male, chiamami. E ti tiro fuori di lì.» «D'accordo, Curry.» «Eileen ti manda a dire di stare attenta. Te lo dico anch'io: stai attenta.» 6 Le piccole città di solito soddisfano una sola categoria di bevitori. Con alcune varianti: ci sono le cittadine da bettole, che relegano i loro bar nei sobborghi e fanno sentire gli avventori quasi dei fuorilegge; ci sono le cittadine da locali sofisticati, dove un bicchiere di gin costa tanto da indurre i poveri a berselo a casa e poi ci sono le cittadine medio borghesi da centri commerciali, dove la birra viene servita con anelli di cipolla e tramezzini dai nomi leziosi. Per fortuna a Wind Gap bevono tutti, per cui abbiamo bar e locali di ogni genere. Saremo anche una piccola città, ma, quanto a capacità di bere, non siamo secondi quasi a nessuno. Il locale più vicino a casa di mia madre era un cubo di vetro specializzato in insalate e aperitivi a base di vino e piuttosto caro. L'unico ristorante sofisticato di Wind Gap. Era l'ora del brunch e non sopportavo l'idea di Alan con le sue uova brodose, perciò mi incamminai verso La mère. Le mie conoscenze di francese sono piuttosto
limitate, ma, a giudicare dall'arredamento del locale, in stile decisamente nautico, sono certa che l'intenzione dei proprietari fosse quella di chiamarlo La mer, il mare, e non La mère, la madre. Il nome mi sembra comunque appropriato, dato che mia madre frequenta il locale insieme alle sue amiche. Tutte adorano la Caesar salad, che non è né francese né a base di frutti di mare, ma non sarò certo io a farglielo notare. «Camille!» Una bionda in completo da tennis attraversò saltellando la stanza, sfavillante nel suo girocollo d'oro con orecchini abbinati. Era la migliore amica di Adora, Annabelle Gasser, nata Anderson e soprannominata Annie-B. Era universalmente noto quanto Annabelle odiasse il cognome del marito, arricciava perfino il naso quando lo pronunciava. Non l'aveva mai nemmeno sfiorata l'idea che non fosse obbligata a farlo proprio. «Ciao, tesoro, tua madre mi ha detto che eri in città.» Cosa che non aveva fatto con la povera Jackie O'Neele, ultimamente snobbata, la quale sedeva allo stesso tavolo e sembrava alticcia proprio come al rinfresco dopo il funerale di Natalie. Annabelle mi baciò su entrambe le guance e fece un passo indietro per studiarmi. «Sempre bellissima. Vieni, siediti con noi. Stavamo proprio facendo fuori qualche bottiglia di vino e spettegolando. Così abbasserai l'età media.» Annabelle mi trascinò al tavolo dove Jackie stava chiacchierando con altre due signore bionde e abbronzate. Non smise di parlare neanche mentre Annabelle faceva le presentazioni, continuando a blaterare sulle nuove lenzuola della camera da letto, poi si voltò verso di me rovesciando un bicchiere d'acqua pieno di ghiaccio. «Camille, sei qui! Sono così felice di rivederti, tesoro!» sembrava sincera. Da lei emanava il solito profumo di Juicy Fruit. «È qui già da cinque minuti» la rintuzzò brusca un'altra bionda, facendo defluire a terra l'acqua e il ghiaccio con una mano abbronzata su cui sfavillavano un paio di diamanti. «Ah, ora ricordo. Sei qui per un servizio sui due omicidi, ragazzaccia» proseguì Jackie. «Adora sarà disperata. Averti ospite in casa sua con il tuo cervellino sordido...» Fece un sorriso che vent'anni prima doveva essere stato birichino. Adesso sembrava leggermente folle. «Jackie!» esclamò una bionda, fulminandola con lo sguardo. «Naturalmente, prima che Adora ne diventasse la padrona, andavamo tutte ospiti in casa di Joya con i nostri cervellini sordidi. La casa è la stessa, la pazza che la governa è diversa» disse rivolta a me, palpandosi con le
dita la pelle dietro l'orecchio. Punti dell'ultimo lifting? «Non hai mai conosciuto tua nonna Joya, vero, Camille?» domandò Annabelle. «Wow! Quella sì che era tremenda, tesoro!» esclamò Jackie. «Faceva davvero paura.» «In che senso?» domandai. Non avevo mai sentito quel dettaglio su mia nonna. Adora ammetteva che fosse severa, ma non si era addentrata in particolari. «Oh, Jackie esagera» disse Annabelle. «A nessuno va a genio la propria madre quando si è alle superiori. E Joya è morta poco tempo dopo. Madre e figlia non hanno avuto il tempo di stabilire un rapporto da adulte.» Per un attimo fui attraversata da un barlume di speranza. Che fosse quello il motivo per cui mia madre e io eravamo così distanti? Adora non aveva alcun imprinting materno. Ma l'idea svanì ancora prima che Annabelle avesse finito di riempirmi il bicchiere. «Sì, come no, Annabelle» ribatté Jackie. «Sono certa che se Joya fosse viva ci divertiremmo tutte da morire. O perlomeno, Joya si divertirebbe a fare a pezzi Camille. Ti ricordi che unghie lunghe aveva? E mai una goccia di smalto. Mi è sempre sembrato strano.» «Cambiamo argomento.» Annabelle sorrise, lasciando cadere ogni parola come il tintinnio di un campanello d'argento. «Penso che il lavoro di Camille sia così affascinante!» disse gentilmente una delle bionde. «Specialmente questo incarico» soggiunse un'altra. «Già, Camille, dicci chi è stato!» esclamò Jackie. Sorrise di nuovo con aria furbesca, sbattendo gli occhioni castani. Mi ricordava il pupazzo animato da un ventriloquo. Pelle della consistenza del cuoio e capillari rotti. Avrei avuto qualche telefonata da fare, ma decisi che rimanere a quel tavolo poteva rivelarsi più interessante. Un quartetto di casalinghe ubriache, annoiate e velenose, che conoscevano tutti i pettegolezzi di Wind Gap? L'avrei scaricato dalle spese come pranzo di lavoro. «A dire il vero, mi piacerebbe conoscere la vostra opinione sull'argomento.» Una frase che non dovevano sentirsi dire molto spesso. Jackie affondò un pezzo di pane in un piattino di salsa che aveva accanto, poi lo lasciò sgocciolare davanti a sé. «Be', sapete tutte come la penso. Il papà di Ann, Bob Nash. È un pervertito. Mi fissa sempre il seno quando lo incontro al negozio.» «Ma quale seno?!» scherzò Annabelle, dandomi una gomitata.
«Sul serio, è una cosa sconveniente. Ho anche pensato di parlarne con Steven.» «Ho delle novità succose» si intromise la quarta bionda. Dana? Diana? Avevo dimenticato il suo nome un istante dopo le presentazioni. «DeeAnna ha sempre gli scoop migliori, Camille» esclamò Annabelle, stringendomi il braccio. DeeAnna fece una pausa a effetto, passandosi la lingua sulle labbra, si versò un altro bicchiere di vino e poi ci guardò. «John Keene se n'è andato dalla casa dei suoi» annunciò. «Che cosa?!» esclamò una bionda. «Stai scherzando?!» le fece eco un'altra. «Non ci credo!» trillò la terza. «E...» proseguì DeeAnna con aria trionfante, sorridendo come un banditore d'aste che sta per assegnare un lotto «...si è trasferito da Julie Wheeler. Nell'appartamento sopra il garage.» «No, questo è troppo!» ansimò Melissa o Melinda. «Oh, sono certa che ci stanno dando dentro in questo momento. Meredith non può più recitare il ruolo di Miss Perfettina» rise Annabelle. «Sai, Camille» proseguì poi, rivolgendosi a me «John Keene è il fratello maggiore di Natalie e quando la famiglia si è trasferita qui, tutta la città è impazzita per lui. Voglio dire, è un ragazzo stupendo. Davvero stupendo. Julie Wheeler è un'amica nostra e anche di tua madre. Non ha avuto figli fino a trent'anni e quando li ha avuti è diventata insopportabile. Sai, è una di quelle persone i cui bambini non hanno mai torto. Perciò quando sua figlia Meredith si è messa con John, oh, mio Dio, è scoppiato il finimondo! Meredith, la verginella prima della classe che si becca il maschio più ambito della città. Non esiste che un ragazzo del genere, più grande oltretutto, vada con una ragazza che non ci sta. Non funziona così, punto e basta. E ora ce l'ha proprio a portata di mano. Dovremmo scattare delle polaroid e ficcarle sotto il tergicristalli di Julie.» «Be', sapete bene quale sarà la versione di Julie» intervenne Jackie. «Si vanterà di quanto sono stati buoni ad accogliere John e a permettergli di avere un po' di spazio per sé mentre è in lutto.» «Ma chissà perché se n'è andato di casa?» chiese Melissa/Melinda, che stavo cominciando a considerare la voce della ragione. «Voglio dire, non dovrebbe stare con i suoi in un momento del genere? Perché dovrebbe avere bisogno di spazio?» «Perché l'assassino è lui!» sbottò DeeAnna e il tavolo esplose in una risata.
«Oh, non sarebbe fantastico se Meredith Wheeler la desse proprio a un serial killer?!» esclamò Jackie e all'improvviso le risate cessarono. Annabelle emise una specie di singulto e guardò l'orologio. Jackie appoggiò il mento sulla mano, con il respiro affannoso. «Non riesco a credere che sia successo davvero» mormorò DeeAnna, esaminandosi le unghie. «E proprio nella città in cui siamo cresciute. Quelle povere bambine. Mi si rivolta lo stomaco.» «Sono contenta che le mie figlie siano adulte ormai» mormorò Annabelle. «Non credo che sarei in grado di sopportarlo. La povera Adora sarà preoccupatissima per Amma.» Sbocconcellai un pezzetto di pane a mo' di uccellino, come vedevo fare alle mie commensali, e cercai di sviare la conversazione da Adora. «La gente pensa sul serio che John Keene c'entri qualcosa? O si tratta solo di pettegolezzi maligni?» Le ultime parole mi uscirono quasi come uno sputo. Avevo dimenticato quanto quelle donne potessero renderti la vita difficile a Wind Gap se non andavi loro a genio. «Lo chiedo solo perché alcune ragazzine, probabilmente ancora alle medie, mi hanno detto la stessa cosa ieri.» Tralasciai di dire che fra loro c'era Amma. «Lasciami indovinare, quattro biondine imbronciate che si credono chissà chi?» fece Jackie. «Jackie, tesoro, ti rendi conto di quel che hai appena detto?» la rimproverò Melissa/Melinda, dandole un buffetto sulla spalla. «Oh, merda, dimentico sempre che Camille e Amma sono parenti... Mi sembrano appartenere a due vite diverse, capisci?» mi sorrise Jackie. Sentendo lo schiocco di un tappo di bottiglia dietro di sé sollevò il bicchiere del vino senza neanche guardare il cameriere. «Camille, tanto vale che tu lo sappia da noi: la tua piccola Amma è una piantagrane.» «Ho sentito dire che lei e le altre vanno a tutte le feste del liceo» proseguì DeeAnna. «E si accaparrano tutti i ragazzi. E fanno cose che noi non abbiamo fatto fino a dopo sposate... e, anche in tal caso, solo con la mediazione di un bel gioiello.» Si fece ruotare intorno al polso un braccialetto di diamanti. Scoppiarono tutte a ridere, Jackie batté addirittura i pugni sul tavolo come un bambino nel pieno di un capriccio. «Ma voi credete...?» «Non so se la gente creda veramente che sia stato John. So che la polizia ha parlato con lui» rispose Annabelle. «Sono una famiglia decisamente strana.»
«Oh, pensavo che foste molto amici» ribattei. «Vi ho viste a casa loro dopo il funerale.» "Brutte stronze" soggiunsi fra me e me. «Chiunque contasse a Wind Gap era in quella casa dopo il funerale. Non potevamo mancare» spiegò DeeAnna, cercando di suscitare nuovamente l'ilarità delle amiche, ma Jackie e Annabelle stavano annuendo con aria solenne. Melissa/Melinda si guardava intorno, come se desiderasse trovarsi a un altro tavolo. «Dov'è tua madre?» se ne uscì all'improvviso Annabelle. «Dovrebbe venire anche lei a pranzo con noi. Le farebbe bene. Si comporta in modo così strano da quando è iniziata questa faccenda.» «Si comportava stranamente anche prima» rettificò Jackie, indurendo la mascella. Mi chiesi se non stesse per vomitare. «Oh, Jackie, per favore!» «Parlo sul serio. Camille, lascia che ti dica una cosa: per come vanno le cose con tua madre, è molto meglio che tu rimanga a Chicago. Faresti bene a tornarci al più presto.» Dal suo viso era sparita ogni traccia di ironia e l'espressione si era fatta seria. E sinceramente preoccupata. Sentii che quella donna mi piaceva di nuovo. «Sul serio, Camille...» «Jackie, chiudi il becco» scattò Annabelle e le lanciò in faccia un pezzo di pane, con forza. Il pane la colpì sul naso e rimbalzò sul tavolo. Un insensato lampo di violenza, come quando Dee mi aveva colpito con la pallina da tennis... Non è tanto l'impatto a sconvolgerti, quanto il gesto in sé. Jackie accusò il colpo con un movimento fiacco della mano e continuò a parlare. «Parlo quanto voglio, invece, e dico che Adora può essere pericolosa...» Annabelle si alzò in piedi e, avvicinatasi a Jackie, la strattonò per un braccio. «Jackie, forse è meglio che tu vada a vomitare» le disse in un tono a metà fra il persuasivo e il minaccioso. «Hai bevuto davvero troppo e se non vomiti tra un po' starai male. Ti accompagno in bagno. Vedrai, ti sentirai meglio.» Jackie cercò dapprima di liberarsi dalla mano di Annabelle, ma lei intensificò la stretta e alla fine le due si allontanarono a piccoli passi. Il silenzio calò sul tavolo. Io ero rimasta a bocca aperta. «Non è niente» disse DeeAnna. «Anche noi vecchiette abbiamo le nostre piccole liti, come voi giovani. Allora, Camille, hai sentito che forse apriranno un negozio Gap qui in città?»
Non riuscivo a togliermi dalla testa le parole di Jackie: "Per come vanno le cose con tua madre, è molto meglio che tu rimanga a Chicago". Che cosa aspettavo a squagliarmela da Wind Gap? Chissà come mai Jackie e Adora si erano allontanate. Doveva trattarsi di qualcosa che andava ben oltre un biglietto di auguri dimenticato. Presi nota mentalmente di fare un salto da Jackie quando sarebbe stata sobria. Posto che lo sarebbe mai stata. D'altra parte, chi ero io per dare giudizi? Sull'onda di una piacevole euforia da vino, chiamai i Nash dal telefono dello spaccio. Un'incerta vocetta di bambina rispose: «Pronto?» e poi rimase in silenzio. Sentivo respirare, ma non ebbi nessuna risposta quando chiesi di parlare con mamma o papà. Poi un lento clic e la linea si interruppe. Decisi di andare dai Nash di persona. Una monovolume degli anni Ottanta troneggiava nel vialetto d'accesso della loro casa, accanto a una Trans Am gialla arrugginita, dal che dedussi che Bob e Betsy dovevano essere entrambi in casa. La figlia maggiore venne ad aprire la porta, ma quando le chiesi se i suoi fossero in casa, rimase immobile dietro la zanzariera, lo sguardo fisso sul mio addome. I Nash erano di costituzione minuta. Sapevo che questa ragazzina - Ashleigh -aveva dodici anni, ma, come il maschietto che avevo visto la prima volta, sembrava molto più piccola della sua età. Lei si mise in bocca una ciocca di capelli e sbatté appena le palpebre quando il piccolo Bobby le trotterellò accanto, scoppiando a piangere nel vedermi. Il pianto si trasformò ben presto in un ululato. Passò un minuto buono prima che Betsy Nash venisse alla porta. Come i suoi figli, sembrava in trance e, quando mi presentai, mi fissò con aria confusa. «Wind Gap non ha un suo quotidiano» osservò. «Infatti, sono del "Chicago Daily Post"» spiegai. «Nell'Illinois.» «Be', è mio marito a occuparsi di queste faccende» ribatté lei, passando le dita nei capelli biondi del figlio. «Non voglio vendervi un abbonamento al giornale o roba del genere... Il signor Nash è in casa? Potrei scambiare velocemente due parole con lui?» Madre e figli si spostarono dalla porta all'unisono e di lì a qualche minuto sopraggiunse Bob Nash, che mi fece entrare e, spostando la biancheria che ingombrava il divano, mi invitò ad accomodarmi. «Maledizione, questo posto è un immondezzaio» borbottò ad alta voce, rivolto alla moglie. «Chiedo scusa per il disordine, signorina Preaker. Dopo la morte di Ann, sta andando tutto a rotoli.» «Oh, non si preoccupi» lo rassicurai, estraendo da sotto di me un paio di
mutande da bambino. «Anche casa mia è sempre in questo stato.» Il che non era affatto vero. Una qualità che avevo ereditato da mia madre era la maniacale tendenza all'ordine e alla pulizia. Dovevo obbligarmi a non stirare le calze. Dopo che ero stata dimessa dall'ospedale, avevo anche attraversato una fase in cui bollivo le cose: pinzette e piegaciglia, mollette per capelli e spazzolini da denti. Era una debolezza che mi concedevo. Avevo finito per buttare le pinzette, comunque. Troppi brutti pensieri notturni sulle loro punte acuminate. Cervellino sordido. Davvero. Speravo che Betsy Nash si volatilizzasse. Letteralmente. Era così inconsistente che riuscivo a immaginarla mentre evaporava lentamente, lasciando solo una macchia appiccicosa sul bordo del divano. Ma lei invece indugiava, con gli occhi che saettavano da me al marito, come se si stesse preparando per la conversazione che sarebbe seguita. Anche i bambini si aggiravano nei paraggi, come biondi fantasmi intrappolati in un limbo di indolenza e stupidità. La primogenita era carina e forse se la sarebbe cavata. Ma quella di mezzo, che sembrava un maialino e che era entrata in quel momento nella stanza con aria intontita, era destinata a darla via a chiunque per farsi accettare e ad abbandonarsi a notturne, compulsive scorpacciate di dolci. Il maschietto aveva l'aria di quello che da grande si sarebbe ubriacato nelle piazzole di parcheggio delle stazioni di servizio, come gli adolescenti annoiati e frustrati che avevo visto mentre arrivavo in città. «Signor Nash, ho bisogno di parlare ancora di Ann con lei. Per un articolo più approfondito» esordii. «Lei è stato molto disponibile e speravo di poterne approfittare ancora.» «Se serve ad attirare un po' di attenzione sul caso, con molto piacere» acconsentì lui. «Che cosa vuole sapere?» «Quali giochi le piacevano? Quali cibi preferiva? Che parole userebbe per descriverla? Tendeva a essere una leader o una gregaria? Aveva molte amiche o solo alcune molto strette? Come andava a scuola? Che cosa faceva al sabato?» I Nash mi fissarono in silenzio per un istante. «Tanto per cominciare.» Sorrisi. «La persona giusta per rispondere a queste domande sarebbe mia moglie» rispose Bob Nash. «È lei che si prende cura dei bambini.» Si girò verso Betsy, che piegava e ripiegava in grembo lo stesso abitino. «Le piacevano la pizza e i bastoncini di pesce» rispose Betsy. «C'erano molte bambine con cui andava d'accordo, ma aveva solo poche vere amiche, capisce cosa intendo? Giocava spesso per conto suo.» «Guarda, mamma, la Barbie ha bisogno di vestiti nuovi» interruppe A-
shleigh, agitando una bambola nuda di fronte alla madre. Tutti e tre la ignorammo e a quel punto la ragazzina gettò la bambola a terra e si mise a piroettare per la stanza come una ballerina. Cogliendo l'occasione al volo, Tiffanie afferrò la Barbie e cominciò ad aprirle e chiuderle le gambe scure. Aprirle e chiuderle. «Ann era una dura, la più tosta delle tre» intervenne Bob Nash. «Avrebbe potuto giocare a football, se fosse stata un maschio. Non faceva altro che correre ed era sempre piena di escoriazioni e lividi.» «Ann era la mia bocca» mormorò Betsy. Poi tacque senza aggiungere altro. «In che senso, signora Nash?» «Era una chiacchierona, diceva qualunque cosa le passasse per la testa. In senso buono. Perlopiù.» Si zittì di nuovo per qualche istante, ma capii che stava riflettendo, perciò non dissi niente. «Sa, pensavo avrebbe fatto l'avvocato o la moderatrice di dibattiti... qualcosa del genere... Non si fermava mai a soppesare le parole, come faccio io. Penso sempre che quel che dico sia stupido. Ann invece pensava che tutti dovessero ascoltare quel che lei aveva da dire.» «Lei ha chiesto come andava a scuola, signorina Preaker» intervenne Bob Nash. «Be', è proprio a scuola che la sua parlantina le aveva creato problemi. Ann era un po' autoritaria e abbiamo ricevuto diversi richiami dagli insegnanti nel corso degli anni. Dicevano che non si integrava molto bene con il resto della classe. Che era un po' sopra le righe.» «Penso, però, che dipendesse dal fatto che era così intelligente» si affrettò ad aggiungere Betsy. «Ah, sì, intelligente lo era davvero» annuì Bob Nash. «A volte pensavo che fosse più intelligente del suo vecchio. A volte lei pensava di essere più intelligente del suo vecchio!» «Guardami, mamma!» La grassottella Tiffanie, che non aveva smesso un secondo di masticare le dita dei piedi della Barbie, corse in mezzo al salotto e cominciò a fare le capriole. Ashleigh, colta da furia improvvisa per le attenzioni rivolte alla sorella, le diede uno spintone e le tirò violentemente i capelli. Il volto di Tiffanie si sgretolò in un pianto dirotto, che diede la stura alle lacrime di Bobby junior. «È colpa di Tiffanie» strillò Ashleigh, cominciando a sua volta a frignare. Dovevo aver spezzato qualche delicato equilibrio. Una casa piena di bambini è un pozzo di meschine gelosie, lo sapevo bene, e i bambini Nash
dovevano sentirsi spaventati all'idea di competere non solo fra loro, ma anche con una sorella morta. Avevano tutta la mia comprensione. «Betsy» mormorò Bob, inarcando leggermente un sopracciglio. La signora Nash corse a prendere in braccio Bobby junior e se lo sistemò a cavallo di un'anca, poi strattonò Tiffanie per un braccio, facendola alzare in piedi, e passò il braccio libero intorno alle spalle dell'ormai inconsolabile Ashleigh e in men che non si dica il quartetto si allontanò dal salotto. Bob Nash rimase a fissarli per qualche istante. «È così da quasi un anno ormai, le bambine... si comportano di nuovo come delle poppanti. E dire che, invece, dovrebbero essere impazienti di crescere. La scomparsa di Ann ha cambiato questa casa più di...» Si mosse a disagio sul divano. «Il fatto è che lei era una persona... adulta, capisce? Aveva nove anni, mi dirà lei, figuriamoci! Ma Ann aveva personalità. Riuscivo a capire che cosa le passava per la testa. Per esempio, quando guardavamo la tivù, sapevo che cosa trovava divertente e che cosa giudicava stupido. Con gli altri figli non ci riesco. Cavolo, non ci riesco neanche con mia moglie! Ann... be', la sua presenza si faceva sentire. È solo che...» Gli si bloccò la voce. Si alzò e si allontanò di qualche passo, poi si voltò, girò intorno al divano e si fermò di fronte a me. «Maledizione, la rivoglio qui con me. Voglio dire... e adesso che cosa faccio? È tutto qui quello che mi rimane?» Con un gesto della mano indicò la stanza e la porta da cui erano usciti moglie e figli. «Perché se è tutto qui, che senso ha? Maledizione, qualcuno deve trovare quel tizio, perché voglio che mi spieghi: perché Ann? Ho bisogno di saperlo. Era quella che pensavo se la sarebbe cavata meglio nella vita.» Rimasi in silenzio per un attimo, ascoltando il battito del mio cuore che rimbombava nel collo. «Mi è stato fatto capire, signor Nash, che la personalità di Ann, che, come lei stesso ha detto più volte, era molto forte, potrebbe avere irritato qualcuno. Lei pensa che questo possa avere avuto a che fare con la sua morte?» L'uomo si fece circospetto, lo capii dal modo in cui si rimise seduto e si appoggiò allo schienale del divano, allargando le braccia e assumendo un'aria fintamente rilassata. «Irritato chi, in particolare?» «Ecco, ho sentito che ci sono stati problemi con l'uccellino dei vicini... Che forse Ann ha fatto del male all'uccellino dei vicini. È così?» Bob Nash si sfregò gli occhi, fissando a terra.
«Dio, com'è pettegola la gente in questa città! Non ci sono prove che sia stata Ann. Tra lei e i vicini non correva buon sangue già da prima. Joe Duke abita dall'altra parte della strada. Le sue figlie, più grandi di Ann, la prendevano spesso in giro. Poi un giorno l'hanno invitata a giocare da loro. Non so cosa sia successo esattamente, ma quando Ann è tornata a casa, si sono messi tutti a strillare che aveva ucciso il loro dannato uccellino.» Rise, stringendosi nelle spalle. «Se l'ha fatto, tanto meglio. Era solo un vecchio volatile spennacchiato e rumoroso.» «Secondo lei, Ann sarebbe stata capace di un gesto simile, se provocata?» «Be', diciamo che non era saggio provocarla» rispose lui. «Non reagiva molto bene alle provocazioni. Non era esattamente quella che si direbbe una piccola gentildonna.» «Pensa che Ann conoscesse la persona che l'ha uccisa?» Nash prese una maglietta rosa che era sul divano e la ripiegò più volte, come un fazzoletto. «All'inizio credevo di no, ma adesso ho cambiato idea. Penso che si sia allontanata con qualcuno che conosceva.» «Secondo lei è più probabile che si tratti di un uomo o di una donna?» «Ha sentito la storia di James Capisi, eh?» Annuii. «Ecco, una bambina probabilmente è più portata a fidarsi di una persona che le ricorda la madre, no?» "Dipende da com'è la madre" pensai. «Ciononostante continuo a ritenere che si tratti di un uomo. Non riesco a immaginare una donna che fa una cosa del genere... a una bambina. Ho sentito che John Keene non ha un alibi. Magari voleva uccidere una bambina, aveva Natalie sempre intorno, ma non poteva sfogare il suo impulso omicida su di lei; così è uscito a prendersi un'altra ragazzina, una che gli ricordava la sorella. Alla fine, comunque, non ha potuto resistere e si è preso anche Natalie.» «Sono queste le voci che girano?» chiesi. «In parte.» Betsy Nash comparve all'improvviso sulla soglia. Con lo sguardo abbassato mormorò: «Bob, c'è Adora». Lo stomaco mi si annodò. Mia madre entrò con disinvoltura, portando con sé il profumo della brezza marina. Sembrava più a suo agio lei della padrona di casa in quella stanza. Per Adora era un dono naturale far passare le altre donne in secondo piano. Betsy Nash si ritirò dalla stanza in buon ordine, come la came-
riera di un film degli anni Trenta. Mia madre evitò il mio sguardo e si rivolse direttamente a Bob Nash. «Bob, Betsy mi ha detto che c'era una giornalista in casa e ho capito subito che si trattava di mia figlia. Sono terribilmente dispiaciuta. Non potrò mai scusarmi abbastanza per questa intrusione.» Bob Nash fissò sbalordito prima Adora e poi me. «Tua figlia? Non lo sapevo.» «No, infatti. Camille non è tipo da accennare ai legami familiari.» «Perché non me l'ha detto?» mi chiese Nash. «Le ho detto che ero di Wind Gap, ma non potevo sapere che le interessasse sapere chi fosse mia madre.» «Oh, non sono arrabbiato, non mi fraintenda. È solo che sua madre è una nostra amica» disse, come se Adora fosse una mecenate dal cuore d'oro. «Dava ripetizioni di inglese ad Ann. Erano molto legate. Ann era così orgogliosa di avere un'amica adulta.» Mia madre si sedette sul divano, intrecciando le mani in grembo, e mi strizzò l'occhio. Avevo l'impressione che volesse mettermi in guardia dal dire qualcosa, ma non sapevo che cosa. «Non ne avevo idea» mormorai infine. Era la verità. Avevo creduto che mia madre esagerasse il suo dolore, fingendo di conoscere bene le bambine. Adesso ero sbalordita per la sua astuzia. Ma perché diavolo dava ripetizioni ad Ann? Aveva interpretato il suo ruolo di madre che aiuta la figlia nei compiti quando ero a scuola - soprattutto per poter trascorrere un po' di tempo con le altre casalinghe di Wind Gap - ma non riuscivo proprio a immaginarmela mentre passava i pomeriggi con una bambina dei quartieri bassi. Talvolta la sottovaluto. Forse. «Camille, penso che sia meglio che tu vada adesso» mormorò Adora. «Sono venuta a trovare i miei amici e in questi giorni è difficile per me rilassarmi, con te intorno.» «Non ho ancora finito di parlare con il signor Nash.» «Sì, invece.» Adora guardò Bob Nash per conferma e lui le sorrise incantato, come uno che fissa il sole. «Forse possiamo riprendere un'altra volta, signorina... Camille.» Una parola mi lampeggiò improvvisamente sull'anca: "punizione". La sentii diventare rovente. «Grazie per il tempo che mi ha concesso, signor Nash» mormorai, uscendo a grandi passi dalla stanza, senza guardare mia madre. Cominciai a piangere ancor prima di aver raggiunto la macchina.
7 Una volta, a Chicago, ero ferma a un angolo di strada spazzato dal vento, in attesa che il semaforo diventasse verde, quando un cieco si era avvicinato, tastando il terreno con il bastone. «Come si fa per attraversare qui?» mi aveva chiesto e, non sentendo risposta, si era voltato verso di me dicendo: «C'è qualcuno?». «Sono qui» avevo risposto e quelle parole mi erano suonate stranamente confortanti. Così, quando sono in preda al panico, le ripeto a me stessa ad alta voce. «Sono qui.» Di solito non ho la sensazione di esistere. Ho l'impressione che una folata di vento possa spazzarmi via, facendomi scomparire per sempre, senza lasciare di me neppure un frammento di unghia. In certi giorni il pensiero mi pare rassicurante, in certi altri mi raggela. La sensazione di inconsistenza deriva, suppongo, dal fatto che so così poco del mio passato, o perlomeno questa è la conclusione a cui sono arrivati gli strizzacervelli all'ospedale. Ho smesso da tanto tempo di cercare di scoprire qualcosa su mio padre; quando penso a lui, ciò che mi viene in mente è un'immagine generica di padre. Non sopporto di pensare a lui in maniera troppo specifica, immaginandolo mentre fa la spesa, beve una tazza di caffè la mattina, o torna a casa dai suoi bambini. Chissà se un giorno mi imbatterò in una ragazza che mi assomiglia. Da piccola cercavo disperatamente qualche somiglianza fra me e mia madre, qualche legame che dimostrasse senza ombra di dubbio la nostra parentela. La studiavo quando non mi guardava e rubavo le foto dalla sua camera, cercando di convincermi che avevo i suoi occhi. O forse la somiglianza non andava cercata in un tratto del viso. Magari si trattava della caviglia o della curva del collo. Adora non mi ha mai raccontato neanche come ha conosciuto Alan. Quel che so della loro storia l'ho appreso da altre persone. Qualunque domanda veniva scoraggiata, considerata invasiva. Ricordo ancora lo shock che avevo provato sentendo la mia compagna di stanza al college parlare al telefono con la madre: la minuzia di dettagli in cui si addentrava e la disinvoltura con cui le si rivolgeva mi erano sembrate quasi oscene. Le raccontava anche cose banali, per esempio, che non si era iscritta a un corso o che si era dimenticata di dover frequentare geografia tre volte alla settimana, e lo raccontava con lo stesso tono orgoglioso di un bambino dell'asilo che mostra un disegno alla mamma. Ricordo che, alla fine, avevo conosciuto sua madre, che si era aggirata
per la stanza facendomi un sacco di domande, pur sapendo già parecchie cose su di me. Aveva consegnato ad Alison un sacchetto di plastica pieno di spille da balia, che pensava potessero esserle utili e, quando loro due erano uscite per il pranzo, ero scoppiata a piangere. Quel gesto - semplice e gentile -mi aveva sconcertata. Era così che si comportavano le madri, preoccupandosi perfino che una figlia potesse avere bisogno di spille da balia? Mia madre telefonava una volta al mese e mi faceva sempre le stesse domande molto pragmatiche (voti, corsi seguiti, tasse da pagare). Da bambina non ricordo di averle mai detto neppure quale fosse il mio colore preferito, o come avrei voluto chiamare mia figlia. Non credo abbia mai saputo che cosa mi piacesse mangiare e di certo non mi rifugiavo in camera sua di prima mattina, piangendo per un incubo notturno. Quando ripenso alla bambina che sono stata provo molta tristezza, perché non mi è mai passato per la testa che mia madre potesse consolarmi. Non diceva mai di volermi bene e di conseguenza non pensavo che me ne volesse. Si prendeva cura di me. Mi gestiva. Ah, sì, una volta mi ha comprato un flacone di crema alla vitamina E. Per un po' avevo cercato di convincermi che Adora tenesse le distanze per difesa, dopo la morte di Marian. Ma, a pensarci bene, credo che mia madre abbia sempre avuto con i bambini più problemi di quanti volesse ammetterne. Anzi, penso addirittura che li odi. Nel mio ricordo ci sono una gelosia, un risentimento, che riesco a percepire perfino adesso. Chissà, forse per un po' le è piaciuta l'idea di avere una figlia. Da ragazza scommetto che sognava a occhi aperti di fare la mamma, coccolare e vezzeggiare il suo bambino come una gatta gonfia di latte. Ha una specie di voracità nei confronti dei bambini. Perfino io in pubblico passavo per una figlia molto amata. Finito il periodo di lutto per Marian, mia madre aveva preso a fare sfoggio di me per le strade della città, sorridendomi, canzonandomi amorevolmente e facendomi il solletico, quando si fermava a parlare con la gente. Quando poi tornavamo a casa, andava a chiudersi in camera sua come una condannata a morte e io rimanevo seduta fuori, con il viso premuto contro la sua porta, ripassando mentalmente ogni momento della giornata e cercando di capire che cosa avessi fatto per scontentarla. Un ricordo in particolare mi è rimasto attaccato come una macchia di sangue indelebile. Marian era morta da circa due anni e un pomeriggio alcune amiche erano venute a trovare mia madre. Una di loro aveva una neonata con sé. Per ore, la piccola era stata coccolata, sbaciucchiata con grandi sbavature di rossetto, ripulita con fazzolettini e poi imbrattata di
nuovo di rossetto. Io sarei dovuta rimanere a leggere in camera mia, ma invece mi ero seduta in cima alle scale a osservare la scena. Finalmente era toccato a mia madre prendere in braccio la bimba e lei aveva cominciato a coccolarla avidamente. «Oh, che meraviglia stringere di nuovo un neonato fra le braccia!» L'aveva fatta saltellare sulle ginocchia, l'aveva portata in giro per il salotto, sussurrandole paroline all'orecchio, mentre io la tenevo d'occhio dal mio punto di osservazione, come una piccola divinità maligna, premendomi una mano sul viso e cercando di immaginare come fosse stare guancia a guancia con mia madre. Quando le altre signore si erano spostate in cucina per dare una mano a riordinare, l'atmosfera era cambiata. Ricordo mia madre, sola nel salotto, intenta a fissare la bambina con uno sguardo quasi lascivo. Aveva premuto le labbra contro la guancia morbida della piccola. Poi, aprendo lievemente la bocca, aveva preso tra i denti una minuscola porzione di pelle e aveva dato un piccolo morso. La bimba aveva strillato. La chiazza rossa era sparita rapidamente, mentre Adora aveva ripreso a coccolare la piccola, dicendo alle altre amiche che si era trattato solo di un piccolo capriccio. Io ero corsa in camera di Marian e avevo ficcato la testa sotto le coperte. Di nuovo da Footh per un drink dopo l'incontro con mia madre a casa dei Nash. Stavo alzando un po' troppo il gomito, riflettei fra me e me, ma mai fino al punto di ubriacarmi. Avevo solo bisogno di un goccetto. Per me l'alcol era sempre stato una sorta di lubrificante, uno strato protettivo contro tutti i pensieri acuminati che mi si affollavano nella testa. Il barista era un tizio dalla faccia tonda che a scuola era due classi dopo di me. Ero quasi sicura che si chiamasse Barry, ma non tanto sicura da osare chiamarlo così. «Bentornata» bofonchiò lui, riempiendomi il bicchiere con due terzi di bourbon e un terzo di Coca-Cola. «Offre la casa» aggiunse, con lo sguardo rivolto al portatovaglioli. «Da queste parti non accettiamo soldi dalle belle donne.» Diventò rosso fino alle orecchie e finse di avere qualcosa di urgente da fare all'estremità opposta del bancone. Imboccai Neeho Drive per ritornare a casa. Era una strada che si inerpicava attraverso la città, con ville sempre più eleganti, a mano a mano che ci si avvicinava alla dimora di mia madre. Un tempo vi abitavano molti dei miei amici. Riconobbi la casa di Katie Lacey, un edificio di scarsa imponenza, che i suoi avevano fatto costruire quando avevamo dieci anni, dopo aver fatto demolire la vecchia villa in stile vittoriano.
Poco più avanti vidi una ragazzina su un cart da golf decorato con adesivi floreali che avanzava a rilento lungo la strada. Aveva i capelli raccolti in elaborate trecce simile a quelle delle contadine svizzere sulle merendine al cioccolato. Amma. Aveva approfittato della visita di Adora a casa dei Nash per evadere: le ragazzine in giro da sole erano diventate una rarità a Wind Gap, dopo l'omicidio di Natalie. Invece di proseguire verso casa, svoltò dirigendosi verso est, il che significava case fatiscenti e lo stabilimento dei maiali. Girai l'angolo e la seguii ad andatura talmente lenta da ingolfare il motore. Il tragitto presentava un bel declivio e il cart da golf cominciò ad acquistare velocità, mentre le trecce di Amma ondeggiavano al vento. Tempo dieci minuti e ci ritrovammo in aperta campagna. Erba ingiallita e mucche annoiate. Fienili sbilenchi come vecchi ricurvi. Fermai la macchina per qualche istante in modo da dare ad Amma un po' di vantaggio, poi proseguii tenendomi a una distanza che mi consentisse di non perderla di vista. Oltrepassammo varie fattorie e un chiosco di noccioline gestito da un ragazzo che teneva la sigaretta con la disinvoltura di una star del cinema. Ben presto l'aria cominciò a puzzare di letame e saliva rancida e capii dove eravamo dirette. Altri dieci minuti e spuntarono le baracche di lamiera dei maiali, lunghe e luccicanti come file di punti metallici di una graffatrice. Gli urli degli animali - simili allo stridio di una pompa pneumatica arrugginita - mi fecero accapponare la pelle. Il naso cominciò a prudermi e gli occhi presero a lacrimare. Se vi siete mai avvicinati a uno stabilimento del genere, sapete cosa voglio dire. Il puzzo dà l'impressione di essere solido. Viene voglia di farci un buco in mezzo per trovare un po' di sollievo. Ma è impossibile. Amma sfrecciò attraverso i cancelli d'ingresso. Il tizio nella guardiola si limitò a farle un cenno con la mano. Per me fu un po' più dura, finché non pronunciai la parola magica: Adora. «Ah, sì. Adora ha anche una figlia grande, adesso ricordo» disse il tizio. Sulla targhetta lessi il suo nome: José. Diedi una sbirciatina alle sue mani per vedere se gli mancava qualche dito. I messicani non riescono ad accaparrarsi un tranquillo lavoro di sorveglianza, a meno che non sia loro dovuto. È così che funziona da queste parti: i messicani si beccano i lavori più merdosi e pericolosi e i bianchi continuano a lamentarsi. Amma parcheggiò accanto a un pick-up e scese. Poi con fare molto professionale si avviò a piedi, oltrepassando il mattatoio e i recinti dei maiali, con tutti quei nasi rosa premuti contro le grate delle prese d'aria, e si avvi-
cinò alla grande baracca dove avviene l'allattamento dei maialini. Gran parte delle scrofe vengono fecondate ripetutamente, cucciolata dopo cucciolata, finché non ce la fanno più e allora finiscono al mattatoio. Ma mentre sono ancora di qualche utilità, vengono adibite all'allattamento e, pertanto, tenute sdraiate su un fianco in una gabbia e legate in modo che abbiano le zampe divaricate e i capezzoli esposti. I maiali sono creature intelligenti e socievoli e questo isolamento forzato da catena di montaggio porta le scrofe da allattamento a lasciarsi morire. E la morte arriva puntualmente non appena smettono di avere il latte. La sola idea di questo tipo di pratica mi sembra repellente, ma assistervi di persona lascia un segno indelebile, che fa sentire meno umani. È un po' come assistere a uno stupro senza intervenire. Scorsi Amma in un angolo in fondo alla baracca, accanto a una delle gabbie, dalla quale alcuni uomini stavano estraendo a forza una cucciolata di lattonzoli urlanti per buttarne dentro un'altra. Mi spostai in modo da trovarmi alle spalle di mia sorella senza che lei mi vedesse. La scrofa giaceva su un fianco, in uno stato quasi comatoso, con il ventre in bella mostra fra le sbarre di metallo e i capezzoli sanguinanti protesi come dita. Uno degli uomini gliene sfregò uno - quello più imbrattato di sangue - con dell'olio e poi ci giocherellò un po', scoppiando in una risatina. Nessuno dei lavoranti faceva caso ad Amma, come se fosse del tutto normale che lei si trovasse lì. E lei strizzò l'occhio a uno di loro, mentre ficcavano un'altra scrofa in una gabbia e andavano a recuperare i lattonzoli da nutrire. Intanto i maialini si erano riversati sulla prima scrofa, come formiche su un grumo di marmellata, disputandosi i capezzoli che ballonzolavano fuori e dentro le loro bocche come birilli di gomma. La scrofa rovesciò gli occhi all'indietro. Amma era seduta a gambe incrociate e osservava la scena affascinata. Dopo cinque minuti si mise a sorridere e a dimenarsi. Dovevo uscire di lì. Mi avviai, camminando dapprima lentamente, poi sempre più velocemente fino ad arrivare alla macchina quasi di corsa. Dopo aver chiuso le portiere e acceso la radio a tutto volume, con una sorsata di bourbon caldo che mi bruciava in gola, mi allontanai dal fetore e dagli urli degli animali. E da quella ragazzina. 8 Amma. Fino ad allora avevo nutrito ben poco interesse per lei. Adesso,
però, le cose erano cambiate. Quel che avevo visto allo stabilimento mi aveva fatto venire un nodo in gola. Mia madre aveva detto che era la ragazzina più popolare della scuola e io le credevo. Jackie aveva detto che era cattiva e piantagrane e credevo anche a lei. Chi era preso nel vortice di risentimento e amarezza di Adora non poteva uscirne illeso. E, inoltre, che cosa aveva capito Amma di Marian? Quanto poteva essere destabilizzante per lei vivere all'ombra di un fantasma? Ma Amma era una ragazzina intelligente, i suoi problemi se li sbrigava lontano da casa. In presenza di Adora era ubbidiente, dolce, affettuosa, proprio come bisognava essere per avere l'amore di mia madre. Ma quella vena violenta... il capriccio, lo schiaffo alla sua amica e adesso questa abiezione. Una tendenza a compiere cose disgustose e ad assistervi. Mi fece ripensare a quel che avevo sentito dire su Natalie e Ann. Amma non era come Marian, ma forse assomigliava un po' a loro. Era pomeriggio tardi, poco prima di cena, e decisi di fare un altro tentativo con i Keene. Mi serviva una dichiarazione per il mio articolo e, se non fossi riuscita a ottenerla, Curry mi avrebbe tolto l'incarico. Non che lasciare Wind Gap mi dispiacesse, ma dovevo dimostrare di potercela fare, specialmente adesso che la mia credibilità era in declino. Una ragazza che si riempie di tagli non è proprio in cima alla lista dei candidati per i servizi giornalistici importanti. Superai il punto in cui era stato ritrovato il corpo di Natalie. Tutto ciò che Amma non aveva giudicato degno di essere portato via giaceva in un triste ammasso: tre mozziconi di candele da tempo consumati, fiori dozzinali ancora avvolti nella carta del supermercato e un palloncino a forma di cuore che oscillava fiaccamente. Nel vialetto d'accesso della casa dei Keene, il fratello di Natalie sedeva sul sedile del passeggero in una decappottabile rossa, intento a parlare con una biondina che, quanto a bellezza, reggeva perfettamente il confronto con lui. Parcheggiai dietro di loro e li vidi scambiarsi sguardi furtivi, per poi fingere di non avermi vista. La ragazza si mise a ridere forte, passando le unghie laccate di rosso fra i capelli scuri del ragazzo. Abbozzai un goffo cenno di saluto, di cui sono sicura che i due non si accorsero neanche, e passai oltre, dirigendomi alla porta d'ingresso. Venne ad aprirmi la madre di Natalie. Alle sue spalle la casa era buia e silenziosa. L'espressione sul suo volto era cordiale: non mi aveva riconosciuta. «Signora Keene, sono davvero spiacente di disturbarla in un momento
come questo, ma ho proprio bisogno di parlare con lei.» «Di Natalie?» «Sì, posso entrare?» Era un trucco meschino per introdurrai in casa senza presentarmi. «I giornalisti sono come i vampiri» ama ripetere Curry. Non possono entrare in una casa senza essere invitati, ma, una volta dentro, non riesci a buttarli fuori finché non ti hanno succhiato tutto il sangue. La signora Keene mi fece entrare. «Oh, come si sta bene qui! Che bel fresco!» esclamai. «Erano previsti trentadue gradi per oggi, ma secondo me li abbiamo già superati.» «Io ho sentito parlare di trentacinque.» «Ci credo. Posso chiederle un bicchiere d'acqua?» Un altro trucco meschino: una donna è meno propensa a buttarti fuori di casa se ti ha offerto ospitalità. Se soffrite di allergie o avete il raffreddore, chiedere un fazzoletto: funziona ancora meglio. Le donne amano la vulnerabilità. Almeno, la maggior parte di loro la ama. «Ma certo.» La signora Keene fece una pausa, osservandomi come se avesse la sensazione di conoscermi, ma non osasse chiedere spiegazioni. Impresari di pompe funebri, sacerdoti, polizia, medici, conoscenti venuti a porgere le condoglianze: probabilmente aveva incontrato più persone negli ultimi giorni di quante ne avesse viste in tutto l'anno. Mentre la signora Keene scompariva in cucina, mi guardai intorno. La stanza aveva un'aria completamente diversa quel giorno, dopo che i mobili erano stati rimessi al loro posto. Su un tavolino vidi una foto dei due ragazzi Keene, fratello e sorella. Erano appoggiati a una grande quercia - lui da una parte, lei dall'altra - e indossavano jeans e felpe rosse. Lui aveva un'aria imbarazzata, come se stesse facendo qualcosa di sconveniente. Lei gli arrivava a stento alla spalla e aveva un'espressione particolarmente seria, come il soggetto di un vecchio dagherrotipo. «Come si chiama suo figlio?» «John. È un ragazzo molto gentile e sensibile. Sono sempre stata orgogliosa di queste sue qualità. Si è appena diplomato al liceo.» «Hanno anticipato l'esame di diploma adesso? Quando andavo a scuola io dovevamo aspettare fino a giugno.» «Mm. È bello avere un'estate lunga davanti.» Sorrisi. Lei sorrise. Mi sedetti e bevvi un sorso d'acqua. Non ricordavo più che cosa Curry consigliasse di fare, una volta arrivati nel salotto. «Non ci siamo ancora presentate. Sono Camille Preaker, del "Chicago Daily Post". Abbiamo parlato brevemente al telefono l'altra sera.»
Il sorriso della donna svanì all'improvviso. La mascella cominciò a irrigidirsi. «Avrebbe dovuto dirmelo prima.» «Mi rendo conto che questo per lei è un momento terribile, ma se solo potesse rispondere a qualche domanda...» «No.» «Signora Keene, vogliamo essere corretti nei confronti della sua famiglia ed è per questo che sono qui. Più informazioni riusciamo a dare alla gente...» «...più giornali riuscite a vendere. Sono arcistufa di tutto questo. Glielo dico una volta per tutte: se ne vada e non torni più. Non cerchi di mettersi in contatto con noi. Non ho assolutamente niente da dirle.» In piedi davanti a me e leggermente piegata in avanti, mi sovrastava. Portava al collo la stessa collana di perle di legno con un grande cuore rosso al centro che avevo notato al funerale e che adesso le ondeggiava sul petto come un pendolo da ipnosi. «Lei è una parassita» sibilò velenosamente. «Mi disgusta. Spero che un giorno ripenserà a tutto ciò e capirà che razza di mostro è. E adesso, fuori di qui!» Mi seguì fino all'ingresso, come per assicurarsi che me ne andassi davvero. Poi sbatté la porta alle mie spalle con tale forza da far risuonare leggermente il campanello. Rossa in viso, ero ferma sulla soglia, dicendo fra me e me che la collana con il cuore sarebbe stato un simpatico dettaglio nel mio articolo, quando mi accorsi che la ragazza nella decappottabile mi stava fissando. Il ragazzo era sparito. «Sei Camille Preaker, vero?» mi gridò. «Sì.» «Mi ricordo di te» proseguì lei. «Ero poco più di una bambina quando te ne sei andata, ma ti conoscevamo tutti.» «Come ti chiami?» «Meredith Wheeler. Non puoi ricordarti di me, ero una lattante quando tu andavi al liceo.» La ragazza di John Keene. Il suo nome mi era familiare, grazie alle amiche di mia madre, ma non me la ricordavo fisicamente. Del resto doveva avere sei o sette anni quando mi ero trasferita a Chicago. Comunque, non mi sorprese il fatto che lei mi conoscesse. Le bambine di Wind Gap studiavano le ragazze più grandi in maniera ossessiva: quella che usciva con un campione di football, quella che era stata eletta reginetta del ballo, quel-
la che contava davvero. Si scambiavano le preferite come le figurine del baseball. Mi ricordo ancora di Cee-Cee Wyatt, reginetta del ballo del liceo quando io ero una ragazzina. Una volta avevo comprato rossetti di undici tonalità diverse per riuscire a trovare l'esatta sfumatura di rosa che portava lei la mattina in cui mi aveva detto ciao. «Sì che mi ricordo di te» ribattei. «Non posso credere che guidi già la macchina.» Meredith scoppiò a ridere, apparentemente lusingata dalla mia bugia. «Sei una giornalista adesso, vero?» «Sì, a Chicago.» «Farò in modo che John parli con te. Teniamoci in contatto.» E così dicendo sfrecciò via. Sono sicura che doveva sentirsi molto fiera di sé - "Teniamoci in contatto" - mentre si rimetteva il lucidalabbra e non si dava il benché minimo pensiero della bambina di dieci anni morta che sarebbe stata l'argomento della nostra futura conversazione. Telefonai al negozio di ferramenta, quello accanto al quale era stato ritrovato il corpo di Natalie. Senza presentarmi, cominciai a parlare di un'eventuale ristrutturazione del bagno, con sostituzione delle piastrelle. Non mi fu difficile orientare poi la conversazione sugli omicidi. Mi bastò dire che immaginavo che negli ultimi tempi un sacco di gente avesse potenziato i dispositivi di sicurezza domestici. «È proprio così, signora. Abbiamo quasi esaurito le catenelle per le porte e le serrature a doppia mandata» borbottò l'uomo. «Davvero? Quante ne ha vendute?» «Circa una trentina, mi pare.» «Più che altro a famiglie, vero? Con bambini.» «Oh, sì. Sono loro quelli più a rischio, non le pare? Che storia orribile! Stiamo pensando di fare una specie di colletta per la famiglia Keene.» Pausa. «Vuole passare in negozio per dare un'occhiata alle piastrelle?» «Sì, penso che lo farò, grazie.» Un altro dei miei ingrati doveri di giornalista compiuto. E senza nemmeno subire gli insulti di una madre in lutto. Per il nostro appuntamento a cena, Richard aveva scelto il Gritty, un ristorante a gestione familiare con un buffet di insalate che comprendeva tutto tranne l'insalata. La lattuga era sempre relegata in un piccolo recipiente in fondo al bancone, come un ripensamento dell'ultimo minuto. Richard si stava intrattenendo con una paffuta cameriera dall'aria gioviale, quando en-
trai trafelata con dodici minuti di ritardo. La ragazza, il cui viso faceva pensare a una delle torte esposte sul carrello dei dolci alle sue spalle, non si accorse neanche del mio arrivo, presa com'era dalle opportunità che intravedeva in Richard: nella sua testa stava già scrivendo l'incipit delle sue confessioni notturne sul diario. «Preaker!» esclamò lui, con gli occhi ancora fissi sulla cameriera. «Il tuo ritardo è scandaloso. Per tua fortuna c'era qui JoAnn a tenermi compagnia.» La ragazza ridacchiò, poi mi fulminò con lo sguardo e ci accompagnò a un séparé d'angolo, sbattendomi davanti un menu bisunto. Sul tavolo erano ancora visibili i segni lasciati dai piatti e dai bicchieri dei clienti precedenti. Comparve un'altra cameriera, che mise davanti a me un minuscolo bicchiere d'acqua e porse a Richard un bicchierone di acqua gassata. «Ehi, Richard, me ne sono ricordata, vedi?» «Ecco perché sei la mia cameriera preferita, Kathy.» Che carino! «Ciao, Camille. Ho sentito dire che eri in città.» Una frase che ormai non sopportavo più. A una seconda occhiata la cameriera si rivelò una mia ex compagna di classe. Durante il secondo anno ci eravamo frequentate per un intero semestre, perché uscivamo con due ragazzi molto amici fra loro - il mio si chiamava Phil, il suo Jerry -, due fusti che giocavano a football d'autunno, praticavano wrestling d'inverno e davano feste tutto l'anno nel seminterrato di Phil. Ebbi un flash di noi due che facevamo pipì accucciate nella neve, tenendoci per mano per rimanere in equilibrio, proprio fuori dalle vetrate scorrevoli, troppo ubriache per affrontare la madre di Phil al piano di sopra. Kathy mi aveva confessato di aver fatto sesso con Jerry sul tavolo da biliardo. Il che spiegava perché fosse così impiastricciata. «Ciao, Kathy, sono contenta di vederti. Come ti va?» Lei allargò le braccia e percorse il ristorante con un'occhiata. «Oh, lo vedi anche tu come va. Ma è questo che succede quando non ti schiodi da qui, no? Bobby ti saluta. Bobby Kidder.» «Oh... ma sì, certo!» Mi ero dimenticata che si fossero sposati. «Come sta?» «Sempre il solito Bobby. Dovresti fare un salto da noi, una volta o l'altra. Se hai tempo. Abitiamo nella Fisher.» Immaginai il ticchettio amplificato della pendola, mentre sedevo nel salotto di Bobby e Kathy Kidder, cercando disperatamente qualcosa da dire. Sarebbe stata Kathy a tener viva la conversazione, come sempre. Era il ti-
po di persona disposta a leggere ad alta voce i cartelli stradali piuttosto che stare un minuto in silenzio. E Bobby, sempre che fosse davvero lo stesso di sempre, sarebbe stato silenzioso ma affabile, un tipo con pochi interessi e occhi azzurri spenti, che si illuminavano solo quando si parlava di caccia. Ai tempi delle superiori conservava gli zoccoli di tutti i cervi che aveva ucciso, tenendo sempre gli ultimi della serie in tasca. Appena poteva li tirava fuori per suonare le percussioni su qualunque superficie disponibile. All'epoca quel tambureggiare mi sembrava una specie di alfabeto Morse del cervo ucciso, un mayday tardivo per la cacciagione dell'indomani. «Allora, ragazzi, vi servite da soli al buffet?» Chiesi una birra e Kathy rimase in silenzio per un lungo istante. Poi si guardò alle spalle, lanciando un'occhiata all'orologio sulla parete. «Ecco, non potremmo servire alcolici fino alle otto. Ma vedo se riesco a portartene una di nascosto... in nome dei vecchi tempi, no?» «Non voglio metterti nei guai.» Tipico di Wind Gap stabilire regole arbitrarie per gli alcolici. Le cinque avrebbero avuto un senso. Le otto serviva solo a farti sentire in colpa. «Santo cielo, Camille, sarebbe la cosa più eccitante che mi succede da un bel pezzo.» Mentre Kathy andava a trafugarmi una birra, Richard e io ci riempimmo i piatti di cotolette di pollo, purè di patate e, nel caso di Richard, una fetta di tremolante gelatina che si era già quasi sciolta nel piatto prima di ritornare al tavolo. Kathy aveva lasciato, con discrezione, una bottiglia di birra sul mio sedile. «Bevi sempre così presto?» «È solo una birra.» «Ho avvertito distintamente l'odore dell'alcol nel tuo fiato quando sei entrata, anche se coperto da uno strato di caramelle... Cos'erano... menta forte?» Mi sorrise, come se si trattasse di semplice curiosità, nessun giudizio morale. Scommetto che nella stanza per gli interrogatori Richard faceva furore. «Mentine, sì; alcol, no.» A essere sinceri era proprio quello il motivo per cui avevo fatto tardi: poco prima di infilarmi nel parcheggio, infatti, mi ero resa conto che il bicchierino che mi ero fatta dopo aver lasciato i Keene necessitava di una rapida copertura, così avevo proseguito in macchina fino allo spaccio per comprarmi delle mentine. «Ok, Camille» mi disse con gentilezza. «Non c'è problema. Non sono af-
fari miei.» Prese una forchettata di purè tinto del rosso della gelatina e rimase in silenzio. Sembrava leggermente abbattuto. «Allora, che cosa vuoi sapere su Wind Gap?» Sentivo di averlo profondamente deluso, come un genitore distratto che si è rimangiato la promessa di andare allo zoo, e per farmi perdonare ero più che disposta a rispondere con la massima sincerità a qualunque domanda mi avesse fatto. D'un tratto mi chiesi se non fosse proprio per raggiungere questo scopo che aveva toccato l'argomento del bere. Furbo, il poliziotto. Richard mi fissò con aria assorta. «Voglio sapere di eventuali episodi di violenza. Ogni luogo ha una sua particolare vena di violenza. Nel caso di Wind Gap è evidente o è sotterranea? Si tratta perlopiù di violenza di gruppo, risse nei bar, stupri di gruppo, o è più specifica, personale? Chi la commette? Quali sono i bersagli più consueti?» «Be', non so se riesco a raccontarti tutta la storia della violenza qui a Wind Gap.» «Parlami di un episodio violento a cui hai assistito da piccola.» Mia madre con quella neonata. «Ho visto una donna fare del male a un bambino.» «L'ha sculacciato? Schiaffeggiato?» «L'ha morso.» «Ok. Maschio o femmina?» «Non so. Bambina, forse.» «Era sua figlia?» «No.» «Ok, ok, così va bene. Dunque un atto di violenza su una bambina. Chi è stato a commetterlo? Così farò dei controlli.» «Non conosco il nome della persona. Era la parente di qualcuno, venuta da fuori città.» «Chi potrebbe sapere come si chiama? Voglio dire, se ha ancora dei legami qui, vale la pena controllare.» Sentii le mie membra cadere a pezzi e passarmi accanto galleggiando come relitti su un lago untuoso. Premetti i polpastrelli sulle punte della forchetta. Il solo raccontare quella storia ad alta voce mi mandava nel panico. Non avevo pensato all'eventualità che Richard volesse informazioni più specifiche. «Ehi, credevo che volessi tracciare un profilo della violenza cittadina» ribattei, con il sangue che mi pulsava nelle orecchie. «Non ho dettagli più specifici. Era una donna che non conoscevo, non so chi fosse. Ho dedotto
che fosse di fuori città.» «Pensavo che i giornalisti non facessero deduzioni.» Sorrise di nuovo. «Non ero una giornalista allora, ero una ragazzina...» «Camille, mi dispiace se ti sto dando filo da torcere.» Mi tolse di mano la forchetta e l'appoggiò con deliberata lentezza sul tavolo, poi mi prese la mano e la baciò. Per un istante la parola "rossetto" sbucò fuori dalla manica destra. «Scusa, non volevo farti il terzo grado. Stavo giocando al poliziotto cattivo.» «Difficile immaginarti in quel ruolo.» Richard sogghignò. «In effetti, è un po' tirato per i capelli. Accidenti alla mia aria da bravo ragazzo!» Per qualche istante sorseggiammo i nostri drink. Richard prese a giocherellare con la saliera. «Posso farti qualche altra domanda?» Annuii. «Qual è il secondo incidente che ti viene in mente?» L'odore dell'insalata di tonno mi faceva rivoltare lo stomaco. Mi guardai intorno in cerca di Kathy per chiederle un'altra birra. «Quinta elementare. Nell'intervallo due ragazzi misero alle strette una bambina e la costrinsero a infilarsi una matita nel corpo.» «Contro la sua volontà? L'hanno costretta con la forza?» «Mm... più o meno. Erano dei prepotenti, gliel'hanno ordinato e lei ha dovuto farlo.» «L'hai visto con i tuoi occhi o ne hai sentito parlare?» «Hanno costretto alcuni di noi ad assistere. Quando l'insegnante l'ha scoperto, abbiamo dovuto chiedere tutti scusa.» «Alla bambina?» «No. Anche la bambina ha dovuto scusarsi davanti alla classe. "Le signorine devono mantenere il controllo del proprio corpo, perché i maschi non ne sono capaci."» «Cristo. A volte ci si dimentica come fossero diverse le cose, un tempo, e non sto parlando di un secolo fa. Quanta disuguaglianza c'era ancora.» Richard prese appunti sul bloc-notes e ingollò una cucchiaiata di gelatina. «Che altro ricordi?» «Una volta una ragazzina di terza media si è ubriacata a una festa delle superiori e quattro o cinque ragazzi della squadra di football se la sono fatta, uno dopo l'altro. Anche questo episodio è importante, no?» «Camille, certo che lo è! Non lo sai, forse?» «Ecco, è solo che... non so se si possa considerare vera e propria violenza o...»
«Sì, be', direi che un gruppetto di stronzi che violenta una tredicenne possa essere considerata violenza.» «Come va? Tutto bene?» Kathy era comparsa all'improvviso e torreggiava su di noi con un gran sorriso. «Non è che potresti procurarmi un'altra birra?» «Due» disse Richard. «D'accordo, questo lo faccio solo per Richard, che lascia le mance migliori di tutta la città.» «Grazie, Kathy.» Richard le sorrise. Mi sporsi verso di lui. «Non sto discutendo se sia giusto o sbagliato, Richard, sto solo cercando di capire i tuoi criteri di valutazione della violenza.» «Già, e il solo fatto che tu mi chieda se l'episodio è importante mi aiuta a delineare un quadro del tipo di violenza con cui abbiamo a che fare qui. La polizia è stata chiamata, all'epoca?» «Ma certo che no.» «Mi meraviglio che la ragazza non abbia dovuto chiedere scusa per essersi fatta violentare. Terza media. Mi viene da vomitare.» Fece per prendermi nuovamente la mano, ma io la ritrassi e la posai in grembo. «Quindi è l'età che lo rende uno stupro.» «Sarebbe stupro a qualunque età.» «Se stasera bevessi un po' troppo, perdessi il controllo e facessi sesso con quattro tizi, sarebbe stupro?» «Legalmente non lo so, dipende da un sacco di cose... per esempio, dall'avvocato che ti trovi. Ma eticamente, accidenti se lo è!» «Sei un maschilista.» «Cosa?» «Sei un maschilista. Sono stufa marcia di uomini liberali di sinistra che praticano la discriminazione sessuale facendo finta di voler proteggere le donne dalla discriminazione sessuale.» «Posso assicurarti che non è affatto il mio caso.» «C'è un tizio in ufficio da me... una persona così sensibile! Quando sono stata scavalcata e non ho ottenuto la promozione, mi ha suggerito di fare causa per discriminazione. Ma non si trattava di discriminazione, bensì del fatto che ero una giornalista mediocre. E talvolta le donne ubriache non sono stuprate, fanno solo delle scelte stupide. Dire che ci meritiamo un trattamento speciale quando siamo sbronze perché siamo donne significa che abbiamo bisogno che ci si prenda cura di noi e io lo trovo offensivo.»
Kathy ritornò con le birre. Ce le scolammo in silenzio fino all'ultimo goccio. «Cristo, Preaker, ok, forse hai ragione.» «Ok.» «Comunque sia, comincia a delinearsi uno schema, no? Violenza contro le donne. L'atteggiamento generale di fronte a questo tipo di aggressioni.» «Solo che Ann e Natalie non sono state molestate sessualmente. Non è così?» «Credo che, nella mente del nostro individuo, strappare i denti equivalga a uno stupro. È sempre una questione di potere, un atto invasivo, implica una certa quantità di forza e ogni dente estratto comporta... sollievo.» «Stai parlando in via ufficiale?» «Se lo vedo scritto sul tuo giornale, se vedo anche solo un accenno a questa conversazione nel tuo articolo, tu e io non parleremo mai più. E sarebbe un vero peccato, perché mi piace parlare con te. Alla salute.» Richard fece tintinnare la sua bottiglia di birra vuota contro la mia. Io rimasi in silenzio. «Anzi, vorrei invitarti fuori» proseguì. «Solo divertimento. Niente lavoro. Il mio cervello ha un disperato bisogno di prendersi una pausa da tutta questa faccenda. Potremmo fare qualcosa in sintonia con questa cittadina.» Inarcai un sopracciglio. «Tiro alla fune e mele caramellate? Corsa con i sacchi?» Cominciò a elencare le varie attività sulla punta delle dita. «Gelato artigianale? Una corsa lungo Main Street su una di quelle macchine d'antiquariato? Oh, non c'è una sagra campagnola da qualche parte? Potrei esibirmi in qualche prova di forza per te.» «Questo atteggiamento ti renderà molto popolare fra i locali.» «Kathy mi adora.» «Perché lasci laute mance.» Finimmo al Garrett Memorial Park, incastrati in altalene troppo piccole, a dondolarci su e giù nell'aria polverosa della sera. Era il posto dove Natalie Keene era stata vista per l'ultima volta, ma nessuno di noi la nominò. Dall'altra parte del parco, una fontanella gettava incessantemente acqua e non avrebbe smesso fino al Labor Day. «Vedo sempre un sacco di adolescenti che, di notte, vengono qui a fare baldoria» osservò Richard. «Vickery ha troppo da fare in questi giorni per mandarli via.»
«Era così anche ai miei tempi. Il bere non è mai stato un problema da queste parti. Tranne che al Gritty, a quanto pare.» «Mi sarebbe piaciuto conoscerti quando avevi sedici anni. Lasciami indovinare... eri una scatenata figlia di papà: bellezza, soldi e cervello. La ricetta per guai assicurati da queste parti. Ti immagino proprio laggiù» disse indicando le gradinate scrostate «mentre metti ko i ragazzi nella gara a chi beve di più.» Quella era la minore delle bravate che avevo combinato in quel parco. Non solo il mio primo bacio, ma il mio primo pompino, a tredici anni. Un ragazzo dell'ultimo anno, che giocava nella squadra di baseball, mi aveva preso con sé e mi aveva portato nel bosco. Non mi avrebbe baciata se prima non gli avessi fatto un lavoretto. Poi, però, non mi aveva baciata per via di dove era stata la mia bocca. Amori giovanili. Non molto dopo era arrivata la mia notte selvaggia alla festa della squadra di football, la storia che aveva fatto drizzare il capelli in testa a Richard. Terza media, quattro ragazzi. Più sesso in quella notte di quanto ne abbia visto negli ultimi dieci anni. Sentii la parola "depravata" bruciarmi sul bacino. «Non posso lamentarmi, ho avuto la mia parte di divertimento» mormorai. «Bellezza e soldi ti fanno fare molta strada a Wind Gap.» «E il cervello?» «Il cervello meglio nasconderlo. Avevo molti amici, ma nessuno a cui fossi particolarmente legata.» «Me io immagino. E con tua madre andavi d'accordo?» «Non particolarmente.» Avevo bevuto troppo, sentivo il viso in fiamme. «Perché?» Richard si girò verso di me sull'altalena. «Penso solo che certe donne non siano portate per fare le madri. E altre non siano portate a fare le figlie.» «Ti ha mai fatto del male?» La domanda mi innervosì, specialmente dopo la nostra conversazione a cena. Mi aveva mai fatto del male? Ero sicura che prima o poi un sogno avrebbe innescato il ricordo di lei che graffiava, mordeva o pizzicava. In qualche modo sentivo che era successo. Mi immaginai nell'atto di togliermi la maglietta e fargli vedere le cicatrici, urlando: "Sì, guarda!". Patetica. «Che strana domanda, Richard.» «Scusami. È solo che sembravi così... triste. Furiosa. Non so...» «Ecco il segno di chi ha avuto rapporti sani con i genitori.» «Touché.» Richard scoppiò a ridere. «Cambiamo argomento?» «Sì.»
«Ok, vediamo... qualcosa di leggero. Conversazione da altalena.» Richard aggrottò la fronte, fingendo di concentrarsi. «D'accordo, allora... colore, gelato e stagione preferiti.» «Blu, caffè, inverno.» «Inverno? A nessuno piace l'inverno.» «Fa buio presto. Mi piace.» «Perché?» Perché significa che la giornata è finita. Mi piace cancellare i giorni dal calendario. 151 giorni cancellati e per il momento niente di orribile. 152 e il mondo non è andato in pezzi. 153 e non ho fatto a pezzi nessuno. 154 e nessuno mi odia davvero. A volte penso che non mi sentirò mai completamente al sicuro finché non riuscirò a contare i miei ultimi giorni sulle dita di una mano. Altri tre giorni e poi non dovrò più preoccuparmi della vita. «Mi piace la notte, tutto qui.» Stavo per aggiungere qualcosa - non molto, ma qualcosa -, quando una Iroc gialla dall'aria malandata si fermò rombando dall'altra parte della strada e ne scesero Amma e le tre biondine. La mia sorellastra si appoggiò al finestrino del guidatore con la scollatura che sfiorava l'autista, un ragazzo con i capelli biondi, lunghi e unti che uno si aspetta in un tipo che guida una macchina del genere. Le tre ragazze erano in piedi alle sue spalle, con una mano sul fianco. A un tratto la più alta si chinò in avanti, facendo finta di allacciarsi una scarpa, e sporse in fuori il sedere. Bella mossa. Poi si incamminarono tutte e quattro verso di noi, mentre Amma agitava con sussiego le mani in aria in segno di protesta contro le esalazioni del tubo di scappamento dell'auto. Erano davvero sexy, dovevo ammetterlo. Lunghi capelli biondi, visi a forma di cuore e gambe slanciate. Minigonne e magliette striminzite, che lasciavano scoperto l'addome piatto. E, a parte Jodes, che era ancora piuttosto informe, il resto del gruppetto vantava un seno ben sviluppato. Tutti quei primi anni a base di latte, maiale e manzo. Tutti quegli ormoni con cui gonfiamo il bestiame. Fra un po' vedremo poppanti con le tette. «Salve, Dick» gridò Amma. Stava succhiando un enorme lecca lecca rosso. «Buonasera, signorine.» «Ciao, Camille, hai già fatto di me una star?» chiese Amma, facendo saettare la lingua intorno al lecca lecca. Le trecce da contadina svizzera erano scomparse, come pure erano scomparsi i vestiti che indossava allo sta-
bilimento dei maiali e che probabilmente puzzavano in modo nauseabondo. Adesso indossava un top e una gonna che le copriva a malapena l'inguine. «Non ancora.» Amma aveva una pelle vellutata, priva di macchie, foruncoli e rughe, un volto così perfetto e senza personalità che sembrava appena uscito dal grembo materno. Sembravano tutte incompiute. Volevo solo che se ne andassero. «Dick, quand'è che ci porti a fare un giro?» domandò Amma. Si sedette per terra di fronte a noi, ripiegando le gambe sotto di sé, con un rapido balenare di mutandine. «Per farlo, dovrei arrestarvi. Magari invece arresterò quei tizi con cui andate in giro. I ragazzi del liceo sono troppo grandi per voi.» «Non sono al liceo quelli!» esclamò la più alta. «Già» ridacchiò Amma. «Si sono ritirati dalla scuola.» «Amma, quanti anni hai?» domandò Richard. «Ne ho appena compiuti tredici.» «Perché ti importa solo di Amma?» lo interruppe la più sfacciata del gruppo. «Ci siamo anche noi. Probabilmente non sai neanche come ci chiamiamo.» «Camille, ti presento Kylie, Kelsey e Kelsey» disse Richard, indicandomi prima la ragazzina alta, poi quella sfacciata e infine quella che mia sorella chiamava... «Lei è Jodes» spiegò Amma. «Ci sono due Kelsey, perciò lei viene chiamata con il cognome. Per evitare confusioni. Vero, Jodes?» «Possono anche chiamarmi Kelsey, se vogliono» rispose la ragazza, il cui ultimo posto in ordine di importanza era dovuto al fatto che era la meno carina. Mento sfuggente. «E Amma è la tua sorellastra, no?» proseguì Richard. «Non sono proprio fuori dal mondo.» «No, anzi, sembreresti esserci dentro in pieno» ribatté Amma, facendo suonare sensuali quelle parole, anche se io non riuscivo a scorgevi nessun doppio senso. «Allora voi due state insieme? Ho sentito dire che la piccola Camille, qui, è davvero scatenata. O perlomeno lo era.» Richard fece una risatina nervosa che sembrava più un gracidio scioccato. "Indegna" mi bruciò fra le gambe. «Be', è vero, Richard. Ero davvero scatenata ai tempi.» «Davvero scatenata» mi fece il verso Amma. Due delle biondine risero.
Jodes tracciava frenetici segni per terra con un bastone. «Dovresti fartele raccontare alcune di quelle storie, Dick. Ti farebbero eccitare. O forse sei già eccitato.» «Signorine, dobbiamo proprio andare, ma, come sempre, è stato un piacere» tagliò corto Richard e, prendendomi per mano, mi aiutò a scendere dall'altalena. Poi, sempre tenendoci per mano, ci incamminammo verso la macchina. «Ma che gentiluomo!» gridò Amma. Balzarono in piedi tutte e quattro e ci corsero dietro. «Non riesce a risolvere un caso di omicidio, ma trova il tempo per accompagnare Camille al suo macinino sgangherato.» Ormai ci erano addosso, Amma e Kylie letteralmente alle nostre calcagna. Sentii ardere la parola "malsana" nel momento in cui il sandalo di Amma mi urtò il tallone. Poi la mia sorellastra prese il lecca lecca appiccicoso e me lo passò sui capelli. «Smettila» borbottai, voltandomi di scatto e afferrandole il polso con tale violenza da sentire il battito del suo cuore, più lento del mio. Lei non si ritrasse, anzi si avvicinò ancor di più. Sentii il suo alito alla fragola soffiarmi sul collo. «Dai, fa' qualcosa.» Mi sorrise. «Potresti uccidermi qui su due piedi e Dick non riuscirebbe comunque a risolvere il caso.» Le lasciai il polso, allontanandola con uno spintone, dopodiché Richard e io ci infilammo in macchina, più rapidamente di quanto avrei voluto. 9 Piombai in un sonno profondo alle nove di sera, svegliandomi accecata da un sole impietoso alle sette della mattina dopo. Un albero rinsecchito frusciava con i rami contro la zanzariera della mia finestra, come se volesse arrampicarsi sul letto accanto a me per consolarmi. Mi infilai la solita divisa - camicia a maniche lunghe, gonna lunga - e mi recai al piano di sotto. La bianca uniforme da infermiera di Gayla risaltava luminosa contro il verde del giardino sul retro. Mia madre indossava un prendisole avorio che ben si intonava con i suoi capelli e procedeva impettita fra i grovigli di boccioli rosa e gialli, armata di un paio di cesoie, esaminando ogni fiore con aria famelica, strappando petali, spingendo e rovistando. «Devi innaffiarle di più, Gayla. Guarda che cos'hai combinato.» Separò una rosa pallida dal cespuglio, la tirò a terra e, tenendola ferma
con un piede, la tagliò alla radice. Cerano ormai due dozzine di rose sul vassoio. Non mi sembravano particolarmente messe male. «Camille, oggi tu e io andiamo a far spese a Woodberry» esclamò mia madre senza neanche alzare lo sguardo. «Che ne dici?» Non fece alcun accenno alla scena del giorno prima a casa dei Nash. Sarebbe stato un approccio troppo diretto. «Ho alcune faccende da sbrigare» ribattei. «A proposito, non sapevo che fossi amica dei Nash. E di Ann.» Mi sentivo un po' in colpa per averla tormentata a proposito della bambina, l'altra mattina a colazione. Non che fossi davvero dispiaciuta, più che altro mi scocciava avere delle cose in sospeso con lei. «Mm-hm. Alan e io diamo una festa sabato prossimo. L'avevamo programmata molto prima di sapere della tua visita. A dire il vero non sapevamo neanche che saresti venuta fino a quando non sei arrivata.» Un'altra rosa strappata. «Pensavo che conoscessi a malapena quelle bambine, non avevo capito...» «Sì, sì, va bene. Sarà un bel ricevimento in giardino, gente elegante. Ti serve un vestito. Sono certa che non ti sei portata un vestito elegante.» «No.» «Bene, allora, sarà una buona occasione per fare quattro chiacchiere fra noi. Sei qui da più di una settimana, sarebbe anche ora.» Depositò un'ultima rosa sul vassoio. «Ok, Gayla, queste puoi buttarle via. Dopo ne coglieremo altre più belle da mettere in casa.» «Prendo io quelle rose per la mia stanza, mamma. Mi sembrano ancora belle.» «No, non lo sono.» «Non m'importa.» «Camille, le ho controllate una per una e ti dico che sono appassite.» «Ma per me vanno bene, sono per la mia stanza.» «Ecco, guarda cos'hai fatto. Sto sanguinando.» Sollevò le mani graffiate dalle spine e un rivolo di sangue rosso scuro le colò lungo il polso. Fine della conversazione. Si avviò verso casa, con Gayla alle calcagna e io alle calcagna di Gayla. Il pomello della porta di servizio era tutto imbrattato di sangue. Alan fasciò esageratamente le mani di mia madre. Mentre uscivamo di casa, ci imbattemmo in Amma, che stava di nuovo giocando con la casa delle bambole. Adora le tirò scherzosamente una treccia e le disse di venire
con noi. Amma ci seguì ubbidiente e io mi apprestai a ricevere i soliti calci negli stinchi. Invece no, non davanti a mia madre. Adora volle che guidassi la sua decappottabile azzurra fino a Woodberry, che vantava ben due boutique, ma non volle abbassare la capote. «Prenderemo freddo» dichiarò, sorridendo ad Amma con aria complice. La ragazza sedeva in silenzio dietro mia madre e mi fece un sorriso impertinente, quando si accorse che la fissavo dallo specchietto retrovisore. A brevi intervalli accarezzava i capelli di Adora, delicatamente per non farsi scorgere. Mentre parcheggiavo la Mercedes di fronte alla sua boutique preferita, Adora mi chiese con voce a stento udibile di aprirle la portiera della macchina. Erano le prime parole che mi rivolgeva in venti minuti. Alla faccia delle "quattro chiacchiere fra noi"... Le aprii anche la porta della boutique e lo squittio del campanello d'ingresso riecheggiò perfettamente il benvenuto della commessa. «Adora!» Poi un'espressione di disgusto e stupore. «Mio Dio, che cosa le è successo alle mani?» «Oh, un piccolo incidente. Stavo facendo giardinaggio. Andrò dal dottore oggi pomeriggio.» Figuriamoci, ci sarebbe andata anche se si fosse tagliata con la carta. «Che cos'è successo?» «Davvero, non mi va di parlarne. Vorrei invece presentarle mia figlia Camille. È ospite da noi in questi giorni.» La donna guardò Amma, poi mi fece un sorriso esitante. «Camille?» Un rapido recupero della memoria. «Ma sì, dimentico sempre che ha una terza figlia.» Abbassò la voce nel pronunciare la parola "figlia", come se fosse una bestemmia. «Deve aver preso da suo padre» proseguì la donna, scrutandomi come se fossi un cavallo da acquistare. «Amma le assomiglia così tanto e anche Marian, dalle foto che ho visto. Ma lei...» «Non mi assomiglia molto» concluse mia madre. «Ha i colori del padre e i suoi zigomi alti. Nonché il suo carattere.» Era più di quanto avessi mai sentito su mio padre fino a quel momento. Chissà quante altre commesse avevano ricevuto simili accenni casuali su di lui. In un rapido flash, mi vidi mentre intavolavo conversazioni con tutte le negozianti del Missouri meridionale per mettere insieme un profilo raffazzonato di quell'uomo. Mia madre mi accarezzò i capelli con la mano fasciata. «Dobbiamo tro-
vare un abito elegante per il mio tesoro. Qualcosa di colorato. Si veste sempre di nero e di grigio. Taglia quarantadue.» La donna, talmente magra che le ossa del bacino sporgevano dalla gonna come un paio di corna, prese a far scorrere abiti, in un turbine di verde, blu e rosa. «Questo ti starebbe d'incanto» esclamò Amma, accostando un top dorato a mia madre. «Smettila, Amma» la rimbrottò mia madre. «È pacchiano.» «Davvero assomiglio a mio padre?» non potei fare a meno di chiedere. Sentii che le guance si colorivano per l'audacia della domanda. «Sapevo che non avresti lasciato perdere» rispose Adora, ritoccandosi il rossetto nello specchio e macchiandosi la fasciatura. «Ero solo curiosa. Non mi avevi mai detto che il mio carattere ti ricordava quello di...» «Mi ricorda una persona molto diversa da me. E siccome di certo non hai preso da Alan, ne ho dedotto che deve trattarsi di tuo padre. Adesso, però, basta.» «Ma, mamma, volevo solo sapere...» «Camille, mi stai facendo sanguinare di nuovo.» Sollevò le mani fasciate, ora chiazzate di rosso. Avrei voluto graffiarla. La commessa si affrettò a raggiungerci con una bracciata di vestiti. «Questo deve assolutamente comprarlo» esclamò, mostrandoci un abitino turchese. Senza spalline. «E questo bocconcino?» chiese la donna, ammiccando ad Amma. «Sono certa che potrebbe già entrare nelle nostre taglie più piccole.» «Amma ha solo tredici anni. Questi vestiti non sono adatti a lei.» «Solo tredici anni, santo Dio! Continuo a dimenticarmene, sembra così grande. Lei, Adora, sarà preoccupata a morte, visto quello che succede a Wind Gap.» Mia madre cinse Amma con un braccio e la baciò sulla fronte. «In certi giorni mi sembra di impazzire dalla preoccupazione. Vorrei chiuderla a chiave al sicuro da qualche parte.» «Come le mogli morte di Barbablù» borbottò Amma. «Come Raperonzolo» ribatté mia madre. «Forza, Camille, fa' vedere a tua sorella quanto sai essere carina.» Mi trascinò verso i camerini e io la seguii, silenziosa e imbronciata. Una volta davanti allo specchio, con mia madre appollaiata su una sedia di fuori, esaminai le mie opzioni: senza spalline, spalline minuscole, maniche ad
aletta. Mia madre mi stava punendo. Trovai un abito rosa con maniche a tre quarti e, sfilandomi velocemente pantaloni e maglietta, lo indossai. La scollatura era più profonda di quanto pensassi. Le parole sul petto sembravano gonfie alla luce del neon, come vermi sotto la pelle. "gemito", "latte", "ferita", "sanguinare". «Camille, fammi vedere.» «Ehm, non mi sta bene.» «Fammi vedere.» "Sminuire" bruciava sull'anca destra. «Aspetta, ne provo un altro.» Frugai tra gli altri vestiti. Erano tutti scollati. Con la coda dell'occhio sbirciai la mia immagine nello specchio. Facevo paura. «Camille, apri la porta.» «Ma cosa le prende?!» esclamò Amma. «Anche questo non va bene.» La cerniera laterale si era inceppata. Le braccia nude lampeggiavano di cicatrici rosse o rosa. Anche senza guardare direttamente nello specchio ne vedevo il riflesso, una grande chiazza di pelle escoriata. «Camille» sibilò mia madre. «Perché non vuole farsi vedere?» «Camille!» «Mamma, hai visto i vestiti, sai bene perché non vanno bene!» esclamai affannata. «Fammi vedere.» «Ne provo uno io, mamma» si intromise Amma. «Camille...» «E va bene!» Spalancai la porta del camerino. Mia madre, che si trovava con gli occhi all'altezza della scollatura, sussultò. «Oh, Dio santo.» Sentivo il suo respiro su di me. Sollevò una mano fasciata come a volermi sfiorare la gola, ma la lasciò ricadere. Dietro di lei Amma guaì come un cucciolo. «Guarda cosa ti sei fatta» mormorò Adora. «Guardati.» «Sì, lo so.» «Spero che sarai contenta. Spero che tu riesca a convivere con te stessa.» Chiuse la porta e io cercai di strapparmi l'abito di dosso, ma la cerniera era ancora inceppata; alla fine, con un ultimo strattone furibondo, riuscii ad aprirla quel tanto da far scivolare il vestito dai fianchi e liberarmene, graffiandomi la pelle. Tenendo il vestito premuto sulla bocca, urlai.
Sentivo la voce controllata di mia madre nell'altra stanza. Quando uscii, la commessa stava impacchettando una camicetta di raso a maniche lunghe e colletto ottocentesco e una gonna color corallo lunga fino ai piedi. Amma mi fissò, con gli occhi arrossati e dardeggianti, poi uscì e andò ad aspettarci accanto alla macchina. Una volta tornate a casa, seguii Adora nell'ingresso, dove Alan ci stava aspettando in una posa di finta indifferenza, con le mani nelle tasche dei pantaloni. Mia madre gli passò accanto e si infilò di corsa su per le scale. «Come è andato lo shopping?» le gridò dietro. «Orribile» balbettò lei. Al piano di sopra, la sentii sbattere la porta della camera. Alan mi guardò accigliato e la raggiunse. Amma si era già dileguata. Mi diressi in cucina, verso il cassetto delle posate. Volevo solo dare un'occhiata ai coltelli che un tempo usavo su di me. Non volevo farmi del male, ma solo sentire per un attimo quella pressione tagliente. Pregustavo già la punta aguzza del coltello che premeva contro i polpastrelli e quell'attimo di piacevole tensione prima del taglio. Il cassetto si aprì solo di pochi centimetri e poi si bloccò. Mia madre aveva messo i fermi. Tirai più volte con forza. Sentivo il tintinnio di tutte quelle lame che sbattevano l'una contro l'altra. Come frenetici pesciolini di metallo. La pelle mi bruciava. Ero sul punto di telefonare a Curry, quando il campanello della porta si intromise nei miei pensieri con il suo rintocco educato. Sbirciando da dietro l'angolo, vidi Meredith Wheeler e John Keene fermi sulla soglia. Mi sentii come se fossi stata scoperta a masturbarmi. Morsicandomi l'interno della bocca, aprii la porta. Meredith entrò, lanciando occhiate nelle stanze ed esprimendo il suo apprezzamento con gridolini. Emanava zaffate di un profumo pesante e dolciastro, più adatto a una matrona che a un'adolescente vestita con la divisa bianca e verde da ragazza pompon. Si accorse che la stavo osservando. «Lo so, lo so. La scuola è finita. Sarà l'ultima volta che la metto. Abbiamo una riunione con le ragazze pompon del prossimo anno. Una specie di passaggio del testimone. Anche tu eri una ragazza pompon, vero?» «Sì, anche se è difficile crederci.» Non ero particolarmente brava, ma stavo bene con il gonnellino. Ai tempi in cui limitavo i tagli al busto. «Ci credo benissimo, invece. Eri la ragazza più carina di tutta la città. Mio cugino era al primo anno quando ti sei diplomata. Dan Wheeler, ri-
cordi? Non faceva che parlare di te. Bella e intelligente, diceva, bella e intelligente. E gentile. Mi ucciderebbe se sapesse che te l'ho detto. Vive a Springfield adesso. Ma non è sposato.» Il tono adulatorio di Meredith mi ricordò quel tipo di ragazze con cui non mi ero mai sentita a mio agio, sempre pronte a creare subito una grande intimità, a raccontare particolari che solo gli amici intimi dovrebbero sapere. Quelle che si descrivevano come persone "alla mano". «Lui è John!» esclamò d'un tratto la ragazza, come se fosse sorpresa di trovarselo accanto. Era la prima volta che lo vedevo da vicino. Era davvero splendido, una bellezza quasi androgina, alto e slanciato, con labbra carnose e occhi color ghiaccio. Si passò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e mi tese la mano sorridendo, come un animale addomesticato intento a eseguire un numero di destrezza. «Allora, dove preferite parlare voi due?» domandò Meredith. Mi chiesi per un istante se liberarmi della ragazza, temendo che fosse il tipo che non sapeva mai quando, e come, tenere la bocca chiusa. Ma John sembrava aver bisogno di un supporto morale e non volevo spaventarlo. «Andate a sedervi nel salotto» proposi. «Vado a prendere del tè freddo.» Senza esitare, infilai di corsa le scale, inserii una cassetta nuova nel miniregistratore e accostai l'orecchio alla porta di mia madre. Tutto taceva a parte il ronzio del ventilatore. Lei stava dormendo? E in tal caso, Alan le era accoccolato accanto o si era appollaiato sulla poltroncina a guardarla? Dopo tutti quegli anni, non avevo ancora la più pallida idea di come fosse la vita privata di Adora e di suo marito. Passando accanto alla sua stanza, vidi Amma seduta composta sul bordo della sedia a dondolo intenta a leggere un libro intitolato Le dee greche. Da quando ero arrivata, si era atteggiata a Giovanna d'Arco, a moglie di Barbablù e a principessa Diana, tutte martiri, mi resi conto. Avrebbe trovato modelli ancora più malsani fra le dee greche. La lasciai al suo destino. In cucina versai da bere per tutti e tre. Poi mi premetti le punte di una forchetta sul palmo della mano, contando fino a dieci. La mia pelle cominciò a calmarsi. Entrando nel salotto trovai Meredith con le gambe in grembo a John, intenta a baciarlo sul collo. Non smise neanche quando appoggiai rumorosamente il vassoio sul tavolino. John mi guardò e lentamente si sciolse dalla stretta. «Non sei divertente, oggi» fece lei, mettendo il broncio.
«Allora, John, sono davvero contenta che tu abbia deciso di parlare con me» esordii. «So che tua madre non è d'accordo.» «Già. Lei non ha molta voglia di parlare con nessuno, specialmente con... la stampa. È una persona molto riservata.» «Sicuro che non ci siano problemi?» insistei. «Hai diciotto anni, immagino.» «Li ho appena compiuti.» Sorseggiò il tè in modo molto formale, come se lo stesse sorbendo a piccole cucchiaiate, contandole una per una. «Ciò che mi riprometto di fare è descrivere tua sorella ai nostri lettori» dissi. «Il padre di Ann Nash mi ha parlato di sua figlia e non voglio che Natalie venga dimenticata in questa storia. Tua madre sa che sei venuto da me?» «No, ma non c'è problema. Lei e io conveniamo di non convenire su questo punto.» Rise brevemente a quel gioco di parole. «Sua madre va fuori di testa se c'è di mezzo la stampa» intervenne Meredith, bevendo dal bicchiere di John. «È una persona molto riservata. Voglio dire, sa a malapena il mio nome e ormai noi due stiamo insieme da più di un anno, vero?» John annuì. Lei aggrottò la fronte, probabilmente delusa che il ragazzo non si addentrasse nei particolari del loro romanzetto d'amore. Poi, tolse le gambe dal grembo di lui, le accavallò e cominciò a tormentare con le dita il bordo del divano. «Ho sentito che vivi dai Wheeler adesso.» «Abbiamo una dépendance sul retro, un appartamento sul garage» intervenne Meredith. «La mia sorellina è furiosa; era il rifugio suo e delle sue amiche. Odiose. Tranne tua sorella. Tua sorella è in gamba. Conosci mia sorella, vero? Kelsey?» Ma certo! Ti pareva che questo peperino non avesse legami con Amma?! «Quella alta o quella bassa?» domandai. «Ah, già. Ci sono troppe Kelsey in questa città. Quella alta.» «L'ho conosciuta. Sembra molto legata ad Amma.» «Direi! La piccola Amma praticamente tiene in pugno tutta la scuola. Meglio essere dalla sua parte.» "Basta parlare di Amma" pensai, ma fugaci visioni della mia sorellastra che tormentava le ragazze più deboli continuavano a tornarmi in mente. Le medie sono un periodo difficile. «Allora, John, ti stai adattando alla nuova sistemazione?» «Sta bene» si intromise di nuovo Meredith. «Abbiamo raccolto un po' di roba maschile per lui... Mia mamma ha trovato perfino un lettore cd.»
«Ah, davvero?» Fissai il ragazzo con intenzione. "È ora di aprire la bocca, amico. Smettila di farti comandare a bacchetta nel tempo che mi dedichi." «Avevo bisogno di allontanarmi un po' da casa mia» rispose finalmente lui. «Siamo tutti tesi come corde di violino. Le cose di Natalie sono ancora dappertutto e mia madre non permette a nessuno di toccarle. Le sue scarpe sono nell'ingresso, il costume da bagno è appeso nel bagno che avevamo in comune, così mi tocca vederlo tutte le mattine quando faccio la doccia. Non ce la faccio più.» «Posso immaginarlo.» È vero: ricordo la giacchetta rosa di Marian appesa all'attaccapanni dell'ingresso finché non sono partita per il college. Per quanto ne so, potrebbe ancora essere lì. Accesi il registratore sul tavolino e lo sospinsi verso il ragazzo. «Raccontami com'era tua sorella, John.» «Ehm, era una brava bambina. Molto intelligente. Incredibile, davvero.» «Intelligente come? Tipo, brava a scuola o semplicemente brillante?» «Ecco, non andava molto bene a scuola. Aveva problemi di disciplina. Ma credo che fosse solo perché si annoiava. Avrebbe dovuto saltare una classe o due, penso.» «Sua madre pensava che questo l'avrebbe marchiata per sempre» intervenne Meredith. «Si preoccupava sempre del fatto che Natalie fosse emarginata.» Guardai John, inarcando un sopracciglio. «È vero. Mia madre desiderava molto che Natalie si integrasse. Era una bambina un po' goffa, una specie di maschiaccio, ed era anche un po' stramba.» Rise, guardandosi i piedi. «Stai pensando a un episodio in particolare?» domandai. Gli aneddoti sono il boccone più prelibato per Curry. Inoltre, la cosa mi interessava davvero. «Mah, una volta si era inventata una lingua completamente nuova. Un bambino normale l'avrebbe trovato un gergo incomprensibile. Ma Natalie aveva pianificato tutto l'alfabeto, suonava un po' come il russo. E me lo aveva perfino insegnato. O perlomeno aveva tentato. Con me, aveva gettato la spugna abbastanza in fretta.» Scoppiò in una risatina nervosa. «Le piaceva la scuola?» «Be', è difficile essere una nuova arrivata... e le ragazzine qui... be', forse è così dovunque... sono delle mocciose arroganti.» «John, non essere maleducato!» Meredith gli diede un finto spintone.
Lui la ignorò. «Voglio dire, tua sorella... Amma, vero?» Annuii. «Lei è stata addirittura sua amica per qualche tempo. Andavano a correre nel bosco e Natalie tornava a casa tutta piena di graffi.» «Davvero?» Ripensando al tono di disprezzo con cui Amma aveva parlato di Natalie, stentavo a crederci. «Sono state molto legate per un periodo. Ma credo che Amma, dopo un po', si sia stufata. Natalie era anche più piccola. Non so. Si sono allontanate.» Amma aveva imparato da nostra madre a essere volubile e a voltare le spalle alle amiche. «Ma non è stato un problema» John si affrettò a rassicurarmi. O a rassicurare se stesso. «C'era un bambino con cui giocava spesso: James Capisi. Un ragazzino di fuori città un po' più piccolo di lei, con cui nessuno parla mai. Sembravano andare molto d'accordo.» «Dice di essere stato l'ultimo a vedere Natalie viva» mormorai. «È un bugiardo!» esclamò Meredith. «Ho sentito anch'io quella storia. James si inventa sempre un sacco di frottole. Voglio dire, sua madre sta morendo di cancro. Non ha un padre. Nessuno che gli dia retta. Perciò si inventa storie assurde. Non dare ascolto a quel che dice.» Guardai John, che si strinse nelle spalle. «Una storia pazzesca, non trovi? Una vecchia pazza che rapisce Natalie in pieno giorno» commentò, poi. «E poi perché una donna dovrebbe fare una cosa simile?» «Perché dovrebbe farlo un uomo?» obiettai. «Chissà perché gli uomini fanno certe pazzie. È genetico, credo» mormorò Meredith. «Scusa, ma devo chiedertelo, John: sei stato interrogato dalla polizia?» «Sì, insieme ai miei genitori.» «E hai un alibi per la notte di entrambi gli omicidi?» Mi sarei aspettata una reazione, ma lui continuò a sorseggiare il tè con calma. «No. Ero andato a fare un giro in macchina. A volte ho bisogno di allontanarmi da qui.» Lanciò una rapida occhiata a Meredith che, sentendosi osservata, atteggiò le labbra a un piccolo broncio. «Questa città è più piccola di quella in cui vivevo prima. Si sente la necessità di prendere le distanze da tutto per un po'. So che non lo capisci, Mer.» Meredith rimase in silenzio. «Io lo capisco» intervenni. «Ricordo la sensazione di claustrofobia quando vivevo qui. E io ci sono nata! Figuriamoci come dev'essere arrivare in questo posto da un'altra città...»
«John vuole fare il magnanimo» intervenne Meredith. «Era con me tutte e due le sere. È solo che non vuole mettermi nei pasticci. Scrivilo pure.» Si dondolava sul bordo del divano, rigida e leggermente sbilanciata, come in trance. «Meredith, no» mormorò John. «Non voglio che la gente pensi che il mio ragazzo è un assassino di bambini, grazie tante, John.» «Vallo a raccontare alla polizia e sapranno la verità nel giro di un'ora. E allora sarà ancora peggio per me. Nessuno pensa davvero che io abbia ucciso mia sorella.» John prese una ciocca di capelli di Meredith e fece scorrere delicatamente le dita dalla radice alla punta. La parola "solletico" mi balenò per un istante sull'anca destra. Io credevo a quel ragazzo. Piangeva in pubblico, raccontava aneddoti divertenti sulla sorella e giocava con i capelli della sua ragazza. Io gli credevo. Mi sembrava quasi di sentire Curry sbuffare di fronte a tanta ingenuità. «A proposito di aneddoti» intervenni «vorrei chiederti una cosa: è vero che Natalie ha ferito una compagna di classe quand'eravate a Filadelfia?» John si irrigidì, si voltò verso Meredith e, per la prima volta, assunse un'aria sgradevole. Era l'immagine vivente dell'espressione "labbra arricciate". Tutto il suo corpo fu scosso da un tremito e per un istante pensai che John avrebbe spiccato un balzo verso la porta, ma poi si appoggiò allo schienale del divano, sospirando. «Fantastico. Ecco perché mia madre odia la stampa» bofonchiò. «Hanno scritto un articolo su questo fatto a Filadelfia. Solo un trafiletto. Faceva sembrare Natalie un animale.» «Allora dimmi che cos'è successo veramente.» John si strinse nelle spalle. Si mordicchiò un'unghia. «È stato durante la lezione d'arte; i bambini stavano tagliando e dipingendo e, sì, una bambina è rimasta ferita. Natalie aveva un bel caratterino e questa ragazzina era una prepotente che la tormentava in continuazione. È capitato che quella volta Natalie avesse un paio di forbici in mano. Non è stata un'aggressione premeditata. Voglio dire, aveva nove anni, all'epoca.» Ebbi una fugace visione di Natalie - la bambina dall'aria seria che ricordavo dalla foto a casa dei Keene - nell'atto di puntare un paio di forbici contro gli occhi di una compagna. Schizzi di sangue rosso vivo che si mischiavano all'improvviso agli acquerelli. «Che cos'è successo a quella bambina?» «Sono riusciti a salvarle l'occhio sinistro. Per il destro, ehm, non c'è stato
niente da fare.» «Natalie l'ha colpita a tutti e due gli occhi?» John si alzò di scatto, sovrastandomi quasi come aveva fatto sua madre. «Natalie è stata da uno strizzacervelli per un anno, dopo quella faccenda. Si è svegliata per mesi in preda agli incubi. Aveva nove anni. È stato un incidente. Eravamo distrutti. Mio padre ha istituito un fondo per l'altra bambina. Abbiamo dovuto trasferirci in modo che Natalie potesse ricominciare. Ecco perché siamo dovuti venire qui... Papà ha preso il primo lavoro che gli è capitato. Siamo scappati nel cuore della notte, come criminali. Per venire in questo posto. In questa stramaledetta città.» «Cavolo, John, non mi ero resa conto che per te fosse così terribile qui» mormorò Meredith. John, allora, tornò a sedersi e cominciò a piangere, prendendosi il volto fra le mani. «Non volevo dire che mi dispiace essere venuto qui. Volevo dire che mi dispiace che lei ci sia venuta, perché adesso è morta. Stavamo solo cercando di aiutarla. E adesso è morta.» Si abbandonò a un lento gemito e Meredith lo prese a malincuore fra le braccia. «Qualcuno ha ucciso la mia sorellina.» Non ci sarebbe stata una cena formale quella sera, mi informò Gayla. La "signora Adora" era indisposta. Immaginai fosse uno dei vezzi di mia madre pretendere il "signora" davanti al nome di battesimo e cercai di immaginare come si fosse svolta la conversazione: "Gayla, la migliore servitù delle migliori famiglie si rivolge ai padroni in modo formale e noi vogliamo solo il meglio, non credi?". O qualcosa del genere. Chi fosse la causa della sua indisposizione, se Amma o io, non era chiaro. Le sentii battibeccare come due uccellini in camera di mia madre. Adora la rimproverava, giustamente, per aver guidato il cart da golf senza permesso. Come tutte le cittadine rurali, Wind Gap aveva un'autentica ossessione per tutti i tipi di mezzi di locomozione. Buona parte delle famiglie aveva un'automobile e mezza a testa (la "mezza" di solito era un'antica auto da collezione o una vecchia carretta a motore, a seconda del reddito), più barche, acquascooter, motorini, trattori e, per quanto riguarda l'élite di Wind Gap, cart da golf, che anche gli adolescenti senza patente potevano guidare in città. In teoria era illegale, ma nessuno li fermava. Immaginai che mia madre avesse deciso di limitare certe libertà di Amma dopo gli omicidi. Il battibecco proseguì con i toni acuti di una sega elettrica per quasi mezz'ora. «Non raccontarmi bugie, ragazzina...»: il monito mi era
così familiare che mi procurò una ben nota sensazione di disagio. Quindi anche Amma non la passava liscia, ogni tanto. Quando squillò il telefono, risposi io, in modo che Amma non perdesse la sua foga e, con mia grande sorpresa sentii la voce da contralto della mia vecchia amica Katie Lacey. Angie Papermaker aveva invitato le ragazze a un "party della commozione", il che significava vino a fiumi, un film lacrimoso, pianti e pettegolezzi. Dovevo assolutamente andarci anch'io. Angie viveva nel quartiere dei nuovi ricchi, enormi ville poco fuori Wind Gap. Praticamente nel Tennessee. Dal tono di voce di Katie non riuscivo a capire se ne fosse invidiosa o schifata. Conoscendola, probabilmente era entrambe le cose. Anche da ragazza, era sempre stata una che voleva ciò che gli altri avevano, anche se in realtà non le interessava. Incontrando Katie e le altre amiche a casa dei Keene avevo capito che prima o poi mi sarei dovuta sorbire almeno una serata con loro. Del resto l'alternativa era finire di trascrivere l'intervista con John, cosa che rischiava di intristirmi. Inoltre, come il pranzo con Annabelle, Jackie e le altre amiche di mia madre, anche questa riunione poteva fruttarmi molte più informazioni di qualunque intervista formale. Non appena parcheggiò davanti casa, mi resi conto che nemmeno Katie Lacey, ora Katie Brucker, se la passava male dal punto di vista economico. Lo capii sia per la rapidità con cui passò a prendermi (si scoprì che casa sua distava solo pochi passi da quella di mia madre) sia per la macchina con cui si presentò: uno di quegli enormi, stupidi SUV, che costano più di un appartamento e garantiscono quasi gli stessi comfort. Dietro il mio poggiatesta era in funzione un lettore dvd con un programma per bambini, a dispetto dell'assenza di bambini in macchina. Sul cruscotto il navigatore satellitare forniva a ogni passo superflue indicazioni di percorso. Il marito di Katie, Brad Brucker, era stato per anni il galoppino del padre di lei e, quando il paparino si era ritirato dagli affari, aveva assunto il comando dell'azienda familiare. Distribuivano un controverso ormone per gonfiare i polli con inquietante rapidità. Mia madre arricciava sempre il naso di fronte a questo argomento... lei non aveva mai usato niente per forzare a tal punto il processo di sviluppo. Non che rifuggisse dagli ormoni: i suoi maiali erano bombardati di sostanze chimiche fino a scoppiare, tanto che le zampe non li sorreggevano più. Ma il tutto era fatto a un ritmo più tranquillo. Brad Brucker era il tipo di marito che abitava dove voleva sua moglie, la metteva incinta quando voleva lei, le comprava tutti i divani Pottery Barn
che lei desiderava e per il resto chiudeva il becco. Era abbastanza piacente se lo si guardava attentamente e aveva un pisello delle dimensioni del mio anulare. Lo sapevo per esperienza diretta, grazie a un incontro ravvicinato un po' goffo durante il primo anno di college. Ma a quanto pareva l'affarino funzionava bene: al momento Katie era incinta per la terza volta. Avevano intenzione di riprovarci finché non arrivava il maschio. «Non vediamo l'ora di avere un birbantello per casa.» Chiacchiere su di me, Chicago, niente marito, be' teniamo le dita incrociate! Poi di nuovo chiacchiere su di lei, i suoi capelli, la sua nuova cura a base di vitamine, Brad, le sue due figlie, Emma e Mackenzie, le dame della carità di Wind Gap e l'orribile lavoro che avevano combinato per la parata del giorno di San Patrizio. Poi - sospiro - quelle due povere bambine! Sì altro sospiro - il mio articolo su quelle due povere bambine. Ma evidentemente non gliene importava granché, perché ritornò subito alle dame della carità e a quanto fosse diventato tutto un disastro, ora che Becca Hart (nata Mooney) era stata eletta tesoriera delle attività. Becca era una ragazza di media popolarità ai nostri tempi, che cinque anni prima era balzata in cima alla scala sociale accaparrandosi Eric Hart, i cui genitori erano proprietari di una trappola per turisti con tanto di go-kart, scivoli acquatici e minigolf nella zona più brutta dell'altopiano d'Ozark. La situazione era abbastanza riprovevole. Ci sarebbe stata anche Becca quella sera, così avrei potuto constatarlo con i miei occhi: lei non c'entrava proprio niente con il resto del gruppo. La villa di Angie sembrava il disegno di un bambino di quattro anni ed era così banale che quasi non sembrava neppure tridimensionale. Quando entrai mi resi conto di quanto poco desiderassi trovarmi lì. C'era Angie, che aveva inutilmente perso cinque chili dai tempi del liceo e che mi fece un sorriso tirato e continuò a occuparsi della fonduta. C'era Tish, che anche allora era la mammina del gruppo, quella che ti teneva sollevati i capelli quando vomitavi e che aveva di tanto in tanto sfoghi lacrimevoli su quanto poco si sentisse amata. Aveva sposato un tizio di Newcastle, venni a sapere, un uomo un po' stupido (questo mi fu bisbigliato da Katie) che però aveva abbastanza successo nel lavoro. Mimi era abbandonata su un divano di pelle color cioccolato. Splendida da adolescente, non era più tale nell'età adulta. Nessuno, comunque, sembrava essersene accorto. Tutti si riferivano a lei ancora come a "Mimi la sexy". A conferma di tutto ciò c'era il gigantesco diamante all'anulare sinistro, gentile dono di Joey Johansen, un allampanato ragazzino del liceo, che nell'ultimo anno si era trasformato in
un muscoloso difensore della squadra di football e all'improvviso aveva preteso di essere chiamato Jo-ha. (Davvero è l'unica cosa che ricordo di lui.) La povera Becca sedeva in mezzo a loro, con l'aria ansiosa e imbarazzata e un abito fin troppo simile a quello della padrona di casa (che Angie avesse portato Becca a far compere?). Lanciava sorrisi a tutti quelli che incrociavano il suo sguardo, ma nessuno le rivolgeva la parola. Guardammo il film Spiagge. Quando Angie riaccese le luci, Tish stava singhiozzando. «Ho ripreso a lavorare» annunciò con un gemito, premendosi le unghie color corallo sugli occhi. Angie le versò del vino, battendole colpetti affettuosi sul ginocchio e fissandola con ostentata preoccupazione. «Santo Dio, tesoro, perché?» mormorò Katie. Perfino il suo mormorio era infantile e assillante. Come un esercito di micini che sgranocchiano cracker. «Con Tyler all'asilo, pensavo che fosse arrivato il momento» balbettò Tish fra i singhiozzi. «Mi sembrava di aver bisogno di uno scopo.» Sputò fuori l'ultima parola come se fosse contaminata. «Ma tu ce l'hai uno scopo» ribatté Angie. «Non lasciare che sia la società a dirti come allevare i tuoi figli. Non lasciare che le femministe» un'occhiata furtiva nella mia direzione «ti facciano sentire in colpa per avere ciò che a loro manca.» «Angie ha ragione, Tish, ha assolutamente ragione» intervenne Becca. «Femminismo significa permettere alle donne di fare qualunque scelta ritengano giusta.» Le altre fissarono dubbiose Becca, quando improvvisamente da un angolo della stanza si levarono i singhiozzi di Mimi, distogliendo l'attenzione di tutte da Tish. «Steven non vuole avere altri figli» gemette. «Perché no?» esclamò Katie in tono irato. «Dice che tre sono abbastanza.» «Per chi? Per lui o per te?» scattò Katie. «È quel che dico anch'io. Voglio una bambina. Voglio una figlia.» Le donne le accarezzarono i capelli. Katie si batté una mano sul ventre prominente. «E io voglio un maschio» piagnucolò, fissando la foto dei tre figli di Angie sul camino. Piagnistei e lamentele rimbalzarono avanti e indietro da Tish a Mimi... «Mi mancano i miei figli», «Ho sempre sognato una casa piena di bambini, è quel che ho sempre voluto», «Che male c'è a fare solo la mamma?». Mi
dispiaceva per loro, sembravano davvero disperate e capivo fin troppo bene che cosa volesse dire vivere una vita che non si era rivelata all'altezza delle aspettative. Ma dopo aver annuito con il capo infinite volte, mormorando parole di assenso, non mi venne in mente niente da dire e così mi rifugiai in cucina a tagliare un po' di formaggio, tanto per togliermi di torno. Conoscevo quel tipo di rituale dai tempi della scuola e sapevo che non mancava molto prima che diventasse sgradevole. Becca mi raggiunse subito in cucina e si mise a lavare i piatti. «Succede più o meno ogni settimana» disse, alzando gli occhi al cielo e fingendosi più divertita che infastidita. «È catartico, suppongo» ribattei. Sentivo che stava per dirmi qualcos'altro. È una sensazione che so riconoscere: quando sono sul punto di ottenere una dichiarazione interessante mi sembra quasi di poter infilare la mano nella bocca dell'interlocutore e strappargliela dalla lingua. «Non avevo idea che la mia vita fosse così infelice finché non ho cominciato a venire a questi piccoli incontri da Angie» sussurrò Becca, prendendo un coltello pulito per affettare il gruviera. Avevamo abbastanza formaggio da nutrire tutta Wind Gap. «Be', ecco, essere combattuti significa che si può vivere una vita superficiale senza ammettere di essere una persona superficiale.» «Mi sembra giusto» approvò Becca. «Era così fra voi ragazze anche ai tempi della scuola?» «Sì, più o meno era così, quando non ci pugnalavamo alle spalle.» «Sono quasi contenta di essere stata così sfigata all'epoca» osservò e scoppiò a ridere. «Come faccio a tornare indietro?» Scoppiai a ridere a mia volta e le versai un bicchiere di vino, un po' frastornata di ritrovarmi catapultata ai tempi della mia adolescenza. Quando tornammo nel salotto, ancora ridacchiando, tutta la stanza era in lacrime. Le altre alzarono simultaneamente lo sguardo su di noi, come un orribile ritratto vittoriano vivente. «Be', mi fa piacere che voi due ve la stiate spassando» sbottò Katie. «Considerando quel che succede in città» aggiunse Angie. Evidentemente l'argomento di conversazione si era ampliato. «Che cosa sta succedendo a questo mondo? Perché far del male a delle bambine?» singhiozzò Mimi. «Quelle povere bambine...» «E strappare loro i denti. Non riesco proprio a farmene una ragione» commentò Katie. «Se almeno fossero state trattate più gentilmente da vive» singhiozzò
Angie. «Perché le femmine sono così crudeli fra di loro?» «Le altre ragazze le tormentavano?» domandò Becca. «Un giorno, alla fine delle lezioni, hanno messo Natalie in un angolo del bagno della scuola... e le hanno tagliato i capelli» singhiozzò Mimi, con il volto rosso e gonfio di pianto e rivoli di mascara che le colavano sulla camicetta. «Hanno obbligato Ann a mostrare ai maschi... le sue parti intime» aggiunse Angie. «Se la prendevano sempre con quelle due bambine, perché erano diverse» proseguì Katie, asciugandosi delicatamente gli occhi con il polsino della camicia. «Chi se la prendeva con loro?» domandò Becca. «Chiedilo a Camille, è lei la giornalista!» esclamò Katie, sollevando il mento con aria di sfida, un gesto che ricordavo dal liceo e che significava che stava per prendersela con te, sentendosi peraltro completamente giustificata. «Sai bene quanto sia terribile tua sorella, Camille, vero?» «So che le ragazzine sanno essere davvero crudeli.» «Così la difendi?» si adontò Katie. Sentendomi intrappolata mio malgrado nelle dinamiche perverse di Wind Gap, venni presa dal panico. "Litigio" prese a pulsarmi sulla caviglia. «Oh, Katie, non conosco Amma abbastanza bene per poterla difendere o meno» ribattei, fingendo stanchezza. «Hai mai pianto almeno una volta per quelle povere bambine?» chiese Angie. Erano tutte in gruppo adesso e mi fissavano con sdegno. «Camille non ha figli» disse Katie con aria compassionevole. «Non credo che possa provare la sofferenza che sentiamo noi.» «Mi dispiace moltissimo per quelle bambine» mormorai, ma suonò del tutto artificiale, come una partecipante a un concorso di bellezza che invoca la pace nel mondo. Ero veramente dispiaciuta per quelle bambine, ma esprimerlo a comando mi suonava falso. «Non voglio sembrare crudele» esordì Tish «ma è come se una parte del proprio cuore non funzionasse mai appieno se non si hanno figli. Come se rimanesse per sempre chiusa.» «Sono d'accordo» approvò Katie. «Non mi sono mai sentita una vera donna finché non ho sentito Mackenzie dentro di me. Voglio dire, in questi giorni si parla tanto di Dio in contrasto con la scienza, ma con i figli l'uno e l'altra sembrano conciliarsi. La Bibbia dice: "Siate fecondi e moltiplicatevi" e la scienza... be', in definitiva, non è per questo che siamo fatte noi
donne? Per portare in grembo i nostri figli.» «Potere alle donne» mi sussurrò Becca sottovoce. Fu Becca a riaccompagnarmi a casa, perché Katie preferì fermarsi a dormire da Angie. Sicuramente ci avrebbe pensato la tata a occuparsi dei suoi piccoli tesori la mattina dopo. Becca si lasciò scappare un paio di battute sull'ossessione delle donne per la maternità, a cui risposi con brevi sbotti di risa. "Facile per te, tu hai due figli." Mi sentivo disperata e di pessimo umore. Mi misi una camicia da notte pulita e sedetti a gambe incrociate sul letto. Niente più alcol per te stanotte, sussurrai. Mi accarezzai le guance e cercai di rilassare le spalle, chiamandomi "tesoro". Desideravo farmi qualche taglio. "Zucchero" lampeggiava sulla coscia, "cattiva" bruciava sul ginocchio. Volevo incidere "sterile" sulla pelle. Perché tale sarei rimasta. Il mio utero inutilizzato. Vuota e immacolata. Immaginai il mio bacino aperto a rivelare una cavità perfettamente ordinata, come il nido di un animale estinto. Quelle povere bambine. «Che cosa sta succedendo a questo mondo?» aveva singhiozzato Mimi e il suo interrogativo era andato quasi perduto, tanto sembrava un luogo comune. Ma io adesso lo sentivo. Stava succedendo qualcosa, proprio qui, qualcosa di terribilmente sbagliato. Pensai a Bob Nash, seduto sul letto di Ann, che cercava di ricordare quale fosse stata l'ultima cosa detta a sua figlia. Vidi la madre di Natalie che piangeva con il viso affondato in una delle vecchie magliette della figlia. Vidi me stessa, una tredicenne disperata che singhiozzava sul pavimento della camera della sorellina morta, tenendo stretta una scarpina a fiori. O Amma, anche lei tredici anni, una bambina in un corpo da donna che bramava di essere la figlia che mia madre ancora piangeva. Mia madre che piangeva riversa su Marian. Che mordeva quella neonata. Amma che esercitava il suo potere su creature più deboli, ridendo insieme alle sue amiche mentre tagliava i capelli a Natalie, i riccioli scuri che cadevano sulle piastrelle del pavimento. Natalie che infilzava gli occhi di un'altra bambina. La mia pelle urlava, le mie orecchie sembravano esplodere al ritmo forsennato del cuore. Chiusi gli occhi, abbracciandomi stretta e scoppiai a piangere. Dopo aver singhiozzato dieci minuti sul cuscino, cominciai a calmarmi, distratta da pensieri più pratici che cominciavano a turbinarmi nella mente: le parole di John Keene che avrei potuto usare nell'articolo, l'affitto che
scadeva la settimana prossima a Chicago, l'odore acre delle mele che stavano marcendo nel cestino accanto al letto. Poi fuori dalla porta Amma sussurrò il mio nome. Mi abbottonai la camicia da notte fino al collo, tirai giù le maniche e andai ad aprirle. Lei indossava una camicia da notte rosa a fiori, aveva i capelli sciolti sulle spalle ed era a piedi nudi. Davvero incantevole: non c'erano altre parole per descriverla. «Hai pianto» mi disse, leggermente sconcertata. «Un po'.» «Per lei?» La parola finale rimase come sospesa, potevo visualizzarla, tonda e pesante che lasciava una piccola impronta sul cuscino. «In parte, si.» «Anch'io.» Lanciò un'occhiata verso il colletto della camicia da notte e i polsini delle maniche, sperando di vedere sporgere le cicatrici. «Non sapevo che ti facessi del male» disse infine. «Non più.» «Meglio così.» Si avvicinò titubante al letto. «Camille, non hai mai la sensazione che stia per accadere qualcosa di orribile e che tu non possa far niente per evitarlo? La sensazione di poter solo aspettare?» «Tipo un attacco di ansia?» Non riuscivo a smettere di fissare la sua pelle, liscia e dorata, come un morbido gelato alla crema. «No, non proprio.» Sembrava delusa, come se non fossi riuscita a risolvere un indovinello intelligente. «Ma, a ogni modo, ti ho portato un regalo.» Mi tese un minuscolo involto e mi disse di aprirlo con delicatezza. Dentro c'era uno spinello. «Molto meglio di tutta la vodka che bevi» spiegò Amma, subito sulla difensiva. «Bevi troppo. Questo è meglio. Non ti rende così triste.» «Amma, sul serio...» «Posso vedere ancora i tuoi tagli?» Mi sorrise timidamente. «No.» Silenzio. Tenni lo spinello tra due dita. «Amma, non credo che dovresti...» «Be', invece sì. Tu fa' come vuoi. Cercavo solo di essere gentile.» Aggrottò la fronte, arrotolando un angolo dell'orlo della camicia da notte. «Grazie. È carino che tu voglia farmi sentire meglio.» «So anche essere gentile, sai?» disse, con la fronte sempre aggrottata. Sembrava sul punto di piangere. «Lo so. Mi chiedo solo come mai tu abbia deciso di esserlo con me, adesso.»
«Non sempre ci riesco. Ma in questo momento sì. Quando tutti dormono e tutto tace, è più facile.» Mi agitò una mano davanti al viso, lieve come una farfalla, poi la lasciò ricadere, mi diede un colpetto sul ginocchio e se ne andò. 10 «Mi dispiace che lei sia venuta qui, perché adesso è morta» dice piangendo John Keene, diciotto anni, parlando della sorella Natalie, dieci anni. «Qualcuno ha ucciso la mia sorellina.» Il corpo di Natalie Keene è stato ritrovato il 14 maggio scorso, riverso sul marciapiede fra il salone di bellezza Cut-N-Curl e il negozio di ferramenta Bifty nella cittadina di Wind Gap, Missouri. È la seconda bambina assassinata in città negli ultimi nove mesi. Ann Nash, nove anni, era stata ritrovata lo scorso agosto in un torrente poco fuori dalla città. Entrambe le bambine sono state strangolate e a entrambe l'assassino ha strappato tutti i denti. «Era una bambina un po' goffa» prosegue John Keene, piangendo sommessamente. «Una specie di maschiaccio.» John Keene, trasferitosi a Wind Gap con la famiglia due anni fa e da poco diplomatosi al liceo locale, descrive la sorellina come una bambina intelligente, piena di fantasia. In grado perfino di inventare un proprio linguaggio, completo di alfabeto. «Un bambino normale l'avrebbe trovato un gergo incomprensibile» aggiunge Keene, ridendo affettuosamente. Incomprensibili finora sono gli sviluppi delle indagini: la polizia di Wind Gap e Richard Willis, il detective della Omicidi di Kansas City assegnato al caso, ammettono di avere pochi indizi. «Per il momento non abbiamo escluso nessuno» afferma Willis. «Stiamo esaminando molto attentamente potenziali sospettati all'interno della comunità, ma stiamo anche valutando la possibilità che gli omicidi siano opera di uno sconosciuto.» Nessun commento da parte della polizia su un potenziale testimone, il bambino che afferma di aver visto una donna rapire Natalie Keene. Secondo una fonte vicina alla polizia, infatti, è molto più probabile che l'assassino sia un uomo all'interno alla comunità. Il dentista di Wind Gap, James L. Jellard, cinquantasei anni, sembra avvalorare questa ipotesi, quando afferma: «Strappare i denti pre-
suppone una certa forza. I denti non vengono via così facilmente». Mentre la polizia è al lavoro sul caso, Wind Gap ha stretto le maglie per quanto riguarda dispositivi di sicurezza e allarmi. Il ferramenta locale ha venduto una trentina di serrature di sicurezza; i venditori di pistole e fucili hanno rilasciato più di trenta permessi di porto d'armi dall'omicidio Keene. «Pensavo che buona parte della gente di queste parti possedesse già un fucile da caccia» afferma Dan R. Sniya, trentacinque anni, titolare della più grande rivendita d'armi. «Ma adesso, chiunque non l'abbia ancora acquistato... be', non ci metterà molto a farlo.» Tra i residenti di Wind Gap che hanno ampliato il proprio arsenale c'è il padre di Ann Nash, Robert, quarantun anni. «Ho altre due figlie e un figlio da proteggere» dichiara l'uomo. Nash ha descritto sua figlia come una bambina incredibilmente intelligente. «A volte pensavo che fosse più intelligente del suo vecchio. A volte lei pensava di essere più intelligente del suo vecchio!» A sentire Nash, sua figlia era un maschiaccio, proprio come Natalie, una bambina che amava arrampicarsi sugli alberi e girare in bici. Ed è proprio ciò che stava facendo lo scorso agosto al momento della scomparsa. Padre Louis D. Bluell, parroco della locale chiesa cattolica, afferma di aver già notato le conseguenze dei due delitti sugli abitanti di Wind Gap: la folla alla messa domenicale è notevolmente aumentata e molti parrocchiani si sono recati da lui per un sostegno spirituale. «Quando succedono tragedie come questa la gente sente un reale bisogno di conforto spirituale» sostiene. «Vogliono sapere come sia potuto accadere.» Una domanda che sembra porsi anche la polizia. Prima di mandarlo in stampa, Curry mi aveva preso in giro per tutte le iniziali puntate del secondo nome. «Santo Dio, quanto siete formali voi del Sud.» Gli avevo fatto notare che teoricamente il Missouri faceva parte del Midwest e lui aveva risposto ridacchiando: «Anch'io teoricamente sono un uomo di mezz'età, ma vallo a dire alla povera Eileen quando si deve occupare della mia borsite». Aveva stralciato, inoltre, quasi tutta la parte su James Capisi. «Sembreremmo dei coglioni a prestare troppa attenzione a quel bambino, specialmente se la polizia non ha abboccato.» Aveva taglia-
to anche una frase della madre di John a proposito del figlio: «Un ragazzo molto gentile e sensibile». Era l'unico commento che ero riuscita a strapparle prima che mi buttasse fuori a calci, l'unica cosa che aveva reso la mia patetica visita degna di nota, ma Curry aveva ritenuto che fosse poco attinente. Probabilmente aveva ragione. Era stato molto contento che finalmente avessimo un sospettato su cui concentrarci: il mio "uomo all'interno della comunità". La "fonte vicina alla polizia" era una mia invenzione o, detto con un eufemismo, una mescolanza di pareri: chiunque, da Richard al sacerdote, pensava che fosse stato uno del posto. Non rivelai a Curry la mia bugia. La mattina in cui uscì il mio pezzo rimasi a letto a fissare il telefono, aspettando che suonasse per riversarmi addosso improperi. Avrebbe potuto essere la madre di John, furibonda perché avevo parlato con il figlio. O Richard, furibondo perché avevo lasciato trapelare che la polizia sospettava uno del posto. Trascorsero diverse ore di silenzio. La mia agitazione cresceva, mentre le mosche ronzavano al di là della zanzariera e Gayla passava l'aspirapolvere fuori dalla porta, ansiosa di entrare. Le lenzuola e gli asciugamani vengono cambiati ogni giorno; la lavatrice è sempre in funzione giù nel seminterrato. Credo che sia un'abitudine rimasta dai tempi di Marian. Lenzuola pulite e stirate per dimenticare tutte le secrezioni e gli odori del nostro corpo. Ero dovuta andare al college per scoprire che mi piaceva l'odore del sesso. Entrando in camera di una mia amica, una mattina, mi ero scontrata sulla soglia con un ragazzo, che mi aveva oltrepassata sorridendo, infilandosi le calze nella tasca posteriore dei jeans. La mia amica giaceva pigramente a letto, tutta arrossata in viso e con una gamba nuda che dondolava fuori dalle lenzuola. L'odore dolciastro e puramente animalesco che aleggiava nella stanza mi era completamente estraneo. Per me l'odore più evocativo dell'adolescenza era quello della candeggina. Alla fine la prima chiamata di insulti giunse da una fonte del tutto inaspettata. «Come hai potuto ignorarmi completamente nell'articolo?!» sbraitò Meredith Wheeler dall'altra parte della linea. «Non hai riportato neanche una delle mie frasi. Come se non fossi stata presente. Sono stata io a convincere John a parlare con te, o te ne sei dimenticata?» «Meredith, non ho mai detto che avrei riportato i tuoi commenti» risposi, irritata dalla sua invadenza. «Mi dispiace per l'equivoco.» Mi ficcai sot-
to la testa un orsetto di peluche blu, poi, sentendomi in colpa, lo rimisi ai piedi del letto. Bisogna mostrare un po' di rispetto per gli oggetti della propria infanzia. «Non capisco perché non hai voluto citarmi» proseguì la ragazza. «Se vuoi farti un'idea di come fosse Natalie, hai bisogno di John. E se hai bisogno di John, non puoi fare a meno di me. Sono la sua ragazza. Voglio dire, praticamente è una mia proprietà, chiedi a chiunque.» «Diciamo che la storia fra te e John non è esattamente il punto cruciale della vicenda» ribattei. Nel sottofondo potevo sentire una ballata countryrock e dei tonfi cadenzati, accompagnati da un lieve sibilo. «Ma hai nominato altre persone di Wind Gap nell'articolo. Addirittura quello stupido padre Bluell. Perché non me? John sta soffrendo molto e io gli sono stata sempre vicina, cercando di aiutarlo a elaborare il lutto. Non fa altro che piangere. Solo la mia presenza gli impedisce di andare in pezzi.» «Quando scriverò un altro articolo, citando varie fonti di Wind Gap, intervisterò anche te. Sempre che tu abbia qualcosa da aggiungere.» Tonfo. Sibilo. Stava stirando. «Su quella famiglia e su Natalie so un sacco di cose che a John non verrebbero in mente. O che non direbbe mai.» «Fantastico. Ti chiamerò, allora. Presto.» Riagganciai, leggermente a disagio per quel che la ragazza si era offerta di rivelarmi. Quando abbassai lo sguardo mi resi conto di aver scritto "Meredith" in corsivo lungo le cicatrici della gamba sinistra. Sulla veranda trovai Amma avvolta in una trapunta di seta rosa, con un panno umido sulla fronte. Mia madre aveva appoggiato accanto a sé un vassoio d'argento con del tè e del pane tostato, più un assortimento di medicinali, e si passava sulla guancia il dorso della mano di Amma con un movimento circolare. «Piccola mia, piccola mia» mormorava Adora, cullandola dolcemente. Amma ciondolava insonnolita come una neonata avvolta nella copertina, facendo schioccare di tanto in tanto le labbra. Era la prima volta che rivedevo mia madre dopo la nostra spedizione a Woodberry. Indugiai davanti a lei, ma Adora non staccò lo sguardo da Amma. «Ciao, Camille» bisbigliò infine Amma e mi fece un sorrisetto. «Tua sorella sta male. Non fa altro che ammalarsi da quando sei tornata a casa» mormorò Adora, senza smettere di passarsi la mano di Amma sulla
guancia. Mi immaginai che stesse digrignando i denti. Mi resi conto che Alan era seduto sul divanetto nel salotto e stava osservando la scena attraverso la zanzariera. «Devi essere più gentile con lei, Camille; è solo una bambina» mormorò mia madre. Una bambina con un doposbornia in piena regola. Amma era uscita dalla mia camera la sera prima ed era scesa a bere per conto suo. Era così che funzionava quella casa. Lasciai madre e figlia a sussurrarsi tenerezze, mentre la parola "favorita" mi ronzava sul ginocchio. «Ehi, Scoop.» Richard si accostò al marciapiede a bordo della sua Sedan. Mi stavo incamminando verso il luogo del ritrovamento di Natalie, per raccogliere un po' di dettagli sui palloncini e sui biglietti lasciati dalla gente. Curry voleva un pezzo sulla "città in lutto". Sempre che non ci fossero nuove piste sugli omicidi. Monito sottinteso: prima ne emergevano e meglio sarebbe stato. «Ciao, Richard.» «Bell'articolo.» "Maledetto Internet." «Lieto di sapere che hai trovato una fonte vicina alla polizia.» Sorrideva raggiante. «Anch'io.» «Sali, abbiamo del lavoro da fare.» Mi aprì la portiera sul lato del passeggero. «Anch'io ho del lavoro da fare. Finora lavorare con te mi ha fruttato solo inutili "no comment". Fra poco il mio capo mi toglierà l'incarico.» «E questo non possiamo permetterlo, altrimenti non avrò più distrazioni» ribatté. «Vieni con me. Mi serve una guida turistica di Wind Gap. In cambio risponderò a tre domande, in modo completo e veritiero. In via ufficiosa, ovviamente, ma prometto massima schiettezza. Su, coraggio. A meno che tu non abbia un appuntamento galante con la tua fonte vicina alla polizia.» «Richard!» «No, sul serio, non voglio interferire con una storia d'amore agli esordi. Tu e questo misterioso individuo formerete di sicuro una splendida coppia.» «Chiudi il becco.» Salii in macchina. Richard si chinò verso di me e mi allacciò la cintura di sicurezza, fermandosi per un istante con le labbra vicino alle mie. «Meglio assicurarsi che arrivi sana e salva.» Mi indicò un palloncino che ondeggiava sul luogo del ritrovamento di Natalie con la scritta "Guarisci
presto". «Quella scritta, secondo me,» mormorò Richard «riassume perfettamente lo spirito di Wind Gap.» Richard volle che lo portassi in tutti i luoghi segreti di Wind Gap, angolini nascosti, che solo i locali conoscevano. Posti in cui la gente si dava appuntamento per scopare o fumare erba, gli adolescenti per bere alcolici e gli adulti per riflettere in solitudine sul perché la vita fosse uscita dai binari. Ognuno di noi ha sperimentato un momento del genere. Il mio era stato quando era morta Marian. Il giorno in cui avevo preso in mano quel coltello si aggiudicava un buon secondo posto. «Non abbiamo ancora trovato l'ammazzatoio per nessuna delle due bambine» disse Richard, una mano sul volante e l'altra appoggiata sul mio sedile. «Per ora abbiamo solo i luoghi in cui sono stati abbandonati i corpi, e anche quelli sono notevolmente contaminati.» Fece una pausa. «Scusa. "Ammazzatoio" è un po' forte come termine.» «Già. Un sinonimo di mattatoio.» «Ah, già, dimenticavo quanto siate acculturati qui a Wind Gap.» Diedi indicazioni a Richard su come raggiungere una stradina non asfaltata e parcheggiammo in mezzo all'erba alta, una dozzina di chilometri a sud rispetto al punto in cui era stato ritrovato il corpo di Ann. Mi feci aria sul collo per asciugare il sudore e mi sistemai le maniche lunghe della camicia, incollate alle braccia, chiedendomi se Richard sentisse l'odore di alcol che mi trasudava dalla pelle. Ci incamminammo verso il bosco, scendendo e risalendo la collina. Le foglie dei pioppi scintillavano, come mosse da una brezza immaginaria. Ogni tanto si udiva un animale sfrecciare veloce nel sottobosco o un uccello librarsi in volo. Richard camminava dietro di me con passo sicuro, strappando foglie e facendole lentamente a pezzi lungo il cammino. Quando giungemmo alla nostra meta, eravamo madidi di sudore. Si trattava di un vecchio edificio scolastico, costituito da un unico locale, lievemente inclinato da un lato e ricoperto di viticci che spuntavano fra le assi di legno. All'interno i resti di una lavagna erano ancora inchiodati alla parete. Si vedevano anche elaborati disegni di peni che penetravano vagine, senza alcun corpo attaccato. Il pavimento era disseminato di foglie morte e bottiglie di liquore, più occasionali lattine di birra arrugginite risalenti ai tempi in cui non esisteva la linguetta a strappo. Erano rimasti ancora alcuni banchi di scuola. Uno era coperto da una tovaglia e come centrotavola aveva
un vaso di rose appassite. Un posto davvero patetico per una cena romantica. Mi augurai che, perlomeno, fosse andata a buon fine. «Bel lavoro» esclamò Richard, indicando uno dei disegni. La camicia celeste gli si era appiccicata al corpo, rivelando i contorni del torace ben modellato. «Ovviamente è più che altro un ritrovo per adolescenti» ammisi. «Ma è vicino al torrente, perciò ho pensato fosse il caso di fartelo vedere.» «Mm-hm.» Mi osservò in silenzio. «Che cosa fai a Chicago quando non lavori?» Si appoggiò al tavolino con la tovaglia e prese in mano una delle rose, sbriciolandone le foglie secche. «Che cosa faccio?» «Hai un fidanzato? Scommetto di sì.» «No, non ho un fidanzato. Da molto tempo.» Prese a strappare i petali della rosa. Non capivo se fosse veramente interessato alla mia risposta. Poi alzò lo sguardo e sogghignò. «Sei una dura, Camille. Non ti sbottoni mai. Fai la difficile. Ma mi piace. È diverso. Di solito le ragazze... non stanno mai zitte un secondo. Senza offesa.» «Non sto facendo la difficile. Solo che non è la domanda che mi aspettavo» risposi, recuperando terreno nella conversazione. Chiacchiere di poco conto e lievi punzecchiature scherzose. Non facevano per me. «E tu ce l'hai una fidanzata? Scommetto che ne hai due. Una bionda e una bruna, per coordinarle con le cravatte.» «Sbagliato su tutti i fronti. Niente fidanzata al momento e l'ultima era rossa. Non si accordava con nessun capo di abbigliamento. Ho dovuto mollarla. Peccato, era una brava ragazza.» In genere, i tipi come Richard non mi piacevano: nati con tutte le fortune, belli, affascinanti, intelligenti, probabilmente ricchi. Non mi avevano mai interessato: erano privi di mordente e generalmente erano vigliacchi. Fuggivano istintivamente da ogni situazione che potesse causare loro imbarazzo o disagio. Richard, però, stranamente non mi annoiava. Forse era per via di quel suo sorriso leggermente beffardo. Oppure era perché si guadagnava da vivere scontrandosi con realtà orribili. «Sei mai venuta qui da ragazzina, Camille?» parlava a voce bassa, quasi timida. Girò il viso di lato e il sole pomeridiano gli soffuse i capelli di una luce dorata. «Certo. Era il posto ideale per attività improprie.» Richard si avvicinò e mi porse l'ultima rosa, facendomi scorrere un dito
sulla guancia sudata. «Già, immagino» mormorò. «Per la prima volta vorrei tanto essere cresciuto a Wind Gap.» «Tu e io ci saremmo intesi alla perfezione» risposi e lo pensavo veramente. Mi sentii improvvisamente triste per non aver mai conosciuto da giovane uno come Richard, qualcuno che potesse rappresentare un minimo di sfida. «Sai che sei bella, vero?» mormorò. «Te lo direi, ma credo sia il genere di commento che spazzeresti via con un gesto della mano. Invece, pensavo...» Mi sollevò il mento con due dita e mi baciò, lentamente dapprima, poi, vedendo che non mi ritraevo, mi prese fra le braccia, ficcandomi la lingua in bocca. Era la prima volta che venivo baciata in quasi tre anni. Gli passai le mani sulla schiena, sbriciolando i petali di rosa sulla sua schiena. Poi scostai il colletto della camicia e gli leccai il collo. «Sei la ragazza più bella che abbia mai conosciuto» mormorò lui, sfiorandomi con un dito il profilo del viso. «La prima volta che ti ho vista, non sono più riuscito a ragionare per tutto il giorno. Vickery ha dovuto mandarmi a casa.» Scoppiò a ridere. «Anche tu sei molto carino» replicai, prendendogli le mani perché non cominciassero a vagare. La camicia era sottile, non volevo che sentisse le cicatrici. «"Anche tu sei molto carino"?» mi fece il verso lui. «Accidenti, Camille, sei davvero una romanticona, eh?» «È solo che mi hai colto di sorpresa. Voglio dire, prima di tutto, non è una buona idea... tu e io.» «Orribile.» Mi baciò il lobo dell'orecchio. «E poi, non volevi dare un'occhiata a questo posto?» «Signorina Preaker, ho passato al vaglio questo posto la seconda settimana che ero qui. Volevo solo una scusa per appartarmi con te.» Scoprii che Richard aveva setacciato anche gli altri due posti che pensavo di fargli vedere. In un capanno di caccia abbandonato nella parte meridionale del bosco era stato rinvenuto un nastro per capelli a quadretti gialli, che non era stato identificato da nessuno dei genitori. Le rocce a strapiombo a est di Wind Gap, da cui si poteva ammirare, in lontananza, il sottostante fiume Mississippi, avevano rivelato l'impronta di una scarpa da ginnastica da bambino che non corrispondeva a nessuna delle vittime. Sangue rappreso era stato trovato su alcuni fili d'erba, ma il gruppo san-
guigno non corrispondeva a quello delle bambine. Ancora una volta mi ero rivelata inutile. Ma Richard non ne sembrava particolarmente deluso. Ci recammo comunque alle rocce, dopo aver comprato una confezione da sei di birra e rimanemmo seduti sotto il sole a guardare il Mississippi scintillare grigio come un serpente sonnacchioso. Era uno dei posti preferiti di Marian, quando riusciva ad alzarsi dal letto. Per un istante mi sembrò di risentire il suo corpicino sulla schiena, le sue risate nell'orecchio e le braccine ossute che mi circondavano le spalle. «Dove porteresti una bambina per strangolarla?» mi domandò Richard. «A casa mia o nella mia macchina» risposi, tornando con un sobbalzo al presente. «E per strapparle i denti?» «In un posto facile da ripulire bene in seguito. Una cantina. Una vasca da bagno. Le bambine erano già morte, no?» «È una delle tue domande?» «Certo.» «Erano già morte.» «Morte da un tempo sufficientemente lungo perché non sanguinassero quando i denti venivano strappati?» Una chiatta che galleggiava sul fiume cominciò a girarsi di traverso per via della corrente, ma ben presto salirono in coperta uomini armati di lunghe pertiche che la riportarono nella giusta direzione. «Nel caso di Natalie, abbiamo trovato del sangue. Devono averle strappato i denti subito dopo averla strangolata.» Ebbi una fugace immagine di Natalie Keene, gli occhi castani spalancati, riversa in una vasca da bagno, mentre qualcuno le strappava i denti. Sangue che colava sul mento. Una mano sulle pinze. Una mano di donna. «Credi a James Capisi?» «Sinceramente non lo so, Camille, e non lo dico per depistarti. Il bambino è spaventato a morte. Sua madre continua a chiamarci perché mettiamo qualcuno di guardia alla casa. James è sicuro che quella donna tornerà a prenderlo. L'ho un po' maltrattato, dandogli del bugiardo, per vedere se cambiava versione. Niente.» Si girò a guardarmi. «Una cosa è certa, James Capisi crede veramente alla sua storia. Ma non riesco a capire come possa essere vera. Non si adatta a nessun profilo conosciuto. Non mi convince. È solo intuito da poliziotto. Anche tu hai parlato con James. Che cosa ne pensi?» «Concordo con te. Forse ha solamente perso la testa per il cancro di sua
madre e sta in qualche modo buttando fuori le sue paure. Non so. E che mi dici di John Keene?» «Il profilo coincide: età giusta, parente di una delle vittime, e sembra un po' troppo disperato.» «Sua sorella è stata assassinata.» «È vero, ma... ecco, da uomo ti posso dire che un adolescente maschio preferirebbe uccidersi piuttosto che farsi vedere piangere da tutta la città.» Richard soffiò nel collo della bottiglia di birra emettendo un sibilo cupo; sembrava il richiamo d'amore per un rimorchiatore di passaggio. La luna era già alta nel cielo e i grilli ci stavano dando dentro a pieno ritmo quando Richard mi riaccompagnò a casa. Il loro canto faceva da accompagnamento al pulsare che sentivo fra le gambe, dove gli avevo permesso di toccarmi. Con la cerniera abbassata e la mia mano che guidava la sua al clitoride, tenendola ferma in modo che non esplorasse altrove e sentisse le cicatrici, ci eravamo masturbati come adolescenti ("involtino" pulsava rosa e forte sul mio piede sinistro mentre venivo) e adesso ero tutta impiastricciata e puzzavo di sesso quando aprii la porta, trovandomi di fronte mia madre seduta ai piedi delle scale, con in mano una caraffa di cocktail all'amaretto. Indossava una camicia da notte rosa con maniche a sbuffo e impunture di satin intorno al collo. Aveva le mani ancora inutilmente avvolte nella garza che era riuscita a mantenere immacolata benché avesse parecchio alzato il gomito. Quando entrai dalla porta, ondeggiò lievemente, come un fantasma indeciso se sparire nel nulla o rimanere. Rimase. «Camille, vieni a sederti.» Agitò una mano bendata verso di me. «No, aspetta. Prima prendi un bicchiere in cucina. Bevi qualcosa con tua madre.» Che tristezza, mormorai sottovoce, mentre afferravo un bicchiere. Ma nei meandri della mia coscienza si fece subito strada un secondo pensiero: un po' di tempo da sola con lei! Residui d'infanzia. Dovrei farmi curare. Mia madre mi versò da bere sconsideratamente, riuscendo nondimeno a riempire il bicchiere fino all'orlo, senza versarne una sola goccia. Per me, invece, si rivelò un'impresa portarlo alla bocca senza farlo traboccare. Adora fece un sorrisetto mentre mi osservava. Poi si appoggiò a un pilastrino della balaustra e, ripiegando le gambe sotto di sé, sorseggiò il suo drink. «Penso di aver finalmente capito perché non ti voglio bene» esordì. Era la verità e lo sapevo, ma non glielo avevo mai sentito ammettere. Cercai di dirmi che la faccenda si faceva interessante, come uno scienziato
sul punto di fare una scoperta, ma sentii un groppo in gola e dovetti fare uno sforzo per respirare. «Mi ricordi mia madre Joya. Fredda e distante e con quell'aria di superiorità. Neanche mia madre mi ha mai amata. E se voi due non mi volete bene, non ve ne voglio neanche io.» Fui attraversata da un'ondata di rabbia. «Non ho mai detto di non volerti bene, è ridicolo. Cazzo, ridicolo! Sei tu quella che non mi ha mai voluta, nemmeno da bambina. Non ho mai sentito altro che freddezza da te, perciò non osare rivoltare la frittata.» Cominciai a fregarmi il palmo della mano sullo spigolo di un gradino. Accorgendosi di quello che stavo facendo, mia madre mi rivolse un mezzo sorriso e io mi fermai subito. «Sei sempre stata così testarda, non mi hai mai ubbidito. Mi ricordo quando avevi sei o sette anni... volevo raccoglierti i capelli e farti dei boccoli per la foto scolastica. E tu per sfida ti sei tagliata i capelli con le forbici da cucito.» Non ricordavo di aver mai fatto niente del genere. Mi ricordavo, invece, di aver sentito che Ann lo aveva fatto. «Ti sbagli di grosso, mamma.» «Testarda, come quelle bambine morte. Ho cercato di essere loro amica, sai?» «In che senso, essere loro amica?» «Mi ricordavano te, così selvagge e indomabili. Come graziosi animaletti selvatici. Ho pensato che se fossi riuscita a capirle, sarei riuscita a capire meglio te. Se fossi riuscita ad affezionarmi a loro, magari avrei potuto voler bene anche a te. Ma non ci sono riuscita.» «No, infatti, c'era da aspettarselo.» L'orologio a parete del nonno batté le undici. Chissà quante volte mia madre l'aveva sentito, mentre cresceva in quella casa. «Quando eri dentro di me, io stessa ero una bambina, molto più giovane di quanto tu sia adesso. Pensavo che mi avresti salvata. Che mi avresti voluto bene. E che, allora, anche mia madre mi avrebbe voluto bene. Era uno scherzo.» La sua voce si alzava e si abbassava, come una sciarpa sbatacchiata dal vento in una tempesta. «Ero una bambina!» «Sin dall'inizio hai cominciato a disobbedire, rifiutandoti di prendere il mio latte. Come se mi volessi punire per essere nata. Mi hai fatto fare la figura della stupida. Della mocciosa.» «Ma eri una mocciosa!» «E ora sei tornata e tutto ciò a cui riesco a pensare è "Perché Marian e
non lei?".» La rabbia che mi assalì si trasformò subito in cupa disperazione. Le mie dita trovarono una scheggia di legno sui gradini. Me la ficcai con violenza sotto le unghie. Non avrei pianto per questa donna. «Neanch'io sono particolarmente contenta di essere quella che è sopravvissuta, mamma, se ciò ti può consolare.» «Sei davvero odiosa.» «Ho avuto un'ottima maestra.» Mia madre si scagliò contro di me, afferrandomi i polsi. Poi allungò una mano dietro le mie spalle e con un'unghia tracciò un cerchio nell'unico punto della schiena privo di cicatrici. «L'unico punto che si è salvato» mi sussurrò. Il suo alito era nauseabondo e odorava di muschio, come se venisse dalle profondità di un pozzo. «Già.» «Un giorno vi inciderò il mio nome.» Mi diede uno strattone e poi mi lasciò andare. Infine si alzò e mi abbandonò sulle scale con un avanzo di cocktail ormai caldo. Scolai ciò che rimaneva del drink e mi trovai sprofondata in un cupo sogno: mia madre mi squartava, estraendo i miei organi e disponendoli in fila sul letto, con la carne che pendeva floscia. Dopodiché cuciva le proprie iniziali su ogni pezzo di carne e me lo infilava di nuovo dentro, insieme con una serie di oggetti dimenticati: una palla di gomma arancione che avevo preso da una macchinetta quando avevo dieci anni; un paio di calze di lana viola che portavo a dodici anni; un anellino d'oro finto che un ragazzo mi aveva comprato quando ero una matricola. E a ogni oggetto infilato, mi sentivo sollevata perché non era andato perso. Mi svegliai dopo mezzogiorno, disorientata e spaventata. Bevvi un sorso dalla mia fiaschetta di vodka per alleviare il panico, poi corsi in bagno e lo vomitai, insieme a residui bavosi di cocktail all'amaretto. Mi denudai ed entrai nella vasca, appoggiando la schiena alla ceramica fredda. Rimasi lì sdraiata, aprendo l'acqua e lasciandola scorrere sul mio corpo finché le orecchie non ne furono completamente sommerse con il risucchio soddisfatto di una nave che affonda. Sarei mai riuscita a impormi di lasciare che l'acqua mi coprisse la faccia, affogando con gli occhi aperti? Basta evitare di alzarsi di pochi centimetri e il gioco è fatto. L'acqua mi punse gli occhi, mi coprì il naso e poi mi avvolse completamente. Cercai di immaginarmi vista dall'alto: pelle martoriata e un volto
immobile che ondeggiava sotto il pelo dell'acqua. Il mio corpo si rifiutava di tacere. "Corpetto", "sordida", "bisbetica", "vedova" urlava. Lo stomaco e la gola cercavano convulsamente di prendere aria. "Dito", "puttana", "vuoto"! Ancora qualche attimo di disciplina. Che modo puro di morire! "Fiore", "freschezza", "graziosa". Esplosi in superficie, annaspando in cerca di aria. Ansimante, con la testa rovesciata all'indietro. Calma, calma, mi dissi. Calma, ragazzina, andrà tutto bene. Mi accarezzai la guancia, mormorandomi paroline dolci... ero davvero patetica, ma alla fine il respiro si normalizzò. Poi una fitta di panico. Allungai una mano a toccarmi il punto intatto sulla schiena: ancora liscio. Nuvole scure incombevano sulla città. Il sole sembrava arricciarsi ai bordi e stendeva su ogni cosa una patina di un giallo malato, rendendoci simili a insetti sotto luci fosforescenti. Ancora indebolita dallo scontro con mia madre, trovai quella luminescenza più che appropriata. Avevo appuntamento da Meredith Wheeler per un'intervista sui Keene. Non ero certa che avrebbe fruttato notizie importanti, ma se non altro avrei avuto qualche frase da riportare, cosa di cui avevo bisogno, non avendo sentito neanche una parola dai Keene dopo l'ultimo articolo. La verità era che se volevo arrivare a John, piazzato a casa di Meredith, dovevo per forza passare attraverso di lei. Chissà quanto gongolava la ragazza! Mi avviai a piedi verso Main Street per recuperare la macchina dove l'avevo lasciata prima dell'escursione con Richard. Mi infilai fiaccamente dietro il volante e misi in moto. Arrivai all'appuntamento con mezz'ora di anticipo. Sapendo quanto Meredith ci avrebbe messo ad agghindarsi per l'intervista, speravo che mi avrebbe fatta accomodare sulla veranda, dandomi così modo di scambiare due chiacchiere con John. Ma la ragazza non c'era. Sentendo della musica provenire da dietro la casa, mi avviai in quella direzione e mi trovai davanti le quattro biondine in bikini fosforescenti, che si passavano uno spinello a un'estremità della piscina, mentre John, seduto all'ombra dalla parte opposta, le osservava. Amma, abbronzata e incantevole, sembrava aver smaltito i postumi della sbronza del giorno prima. Era appetitosa e colorata come uno stuzzichino. Di fronte a quell'esibizione di pelle liscia, cominciai a percepire il solito mormorio della mia pelle. In preda al panico del doposbornia, non avrei potuto affrontare un confronto diretto. Perciò rimasi a spiare da dietro l'angolo della casa. Chiunque avrebbe potuto vedermi, ma, evidentemente,
nessuno era particolarmente interessato. Le tre amiche di Amma, sopraffatte dalla marijuana e dal caldo, finirono ben presto a pancia in giù sugli asciugamani. Amma si alzò in piedi, lo sguardo fisso su John, e cominciò a spalmarsi di olio abbronzante le spalle e il seno, facendo scivolare le mani sotto il top del costume e guardando il ragazzo che la guardava. Lui non manifestò alcuna reazione, come un bambino dopo sei ore filate di tivù. Più Amma diventava lasciva, più lui sembrava di marmo. Un triangolo del reggipetto le era scivolato giù, rivelando il seno tondo. "Tredici anni" pensai fra me e me, e sentii una punta di ammirazione per la ragazza. Quando mi ero sentita triste, avevo cominciato a ferirmi. Amma feriva il prossimo. Quando avevo voluto attenzione, mi ero sottomessa ai ragazzi: "Fa' di me quello che vuoi, ma amami". Le profferte sessuali di Amma sembravano piuttosto una forma di aggressione. Lunghe gambe affusolate, polsi sottili e una voce acuta da bambina, tutti puntati come fucili: "Fa' quello che vuoi e forse ti amerò". «Ehi, John, chi ti ricordo?» gli gridò Amma. «Una bambina cattiva che si crede chissà chi» urlò lui di rimando. Era seduto sul bordo della piscina in pantaloncini e maglietta, con i piedi nell'acqua. Le gambe erano coperte da una sottile peluria, quasi femminile. «Davvero? Perché non la smetti di osservarmi dal tuo piccolo nascondiglio, allora?» ribatté Amma, indicando con una gamba l'appartamento sopra il garage con il suo lucernario coperto da una tendina blu. «Meredith si ingelosirà.» «Mi piace tenerti d'occhio, Amma. Sappi che ti tengo sempre d'occhio.» Il mio primo pensiero fu: la mia sorellastra si è intrufolata nella camera di John senza permesso, frugando tra le sue cose. Oppure lo ha aspettato a letto. «Di certo lo stai facendo adesso» rispose lei, ridendo e allargando le gambe. Era inquietante nella luce livida del temporale imminente, con i raggi di sole che le disegnavano una ragnatela di ombre sul viso. «Verrà anche il tuo momento, Amma» disse John. «Presto.» «Sei proprio un grande uomo» ribatté lei. Kylie alzò gli occhi, mise a fuoco l'amica, le sorrise e abbassò di nuovo la testa. «E sono anche paziente.» «Ne avrai bisogno.» Gli lanciò un bacio con la mano. Il cocktail all'amaretto mi si stava rivoltando nello stomaco e quello
scambio di battute mi dava la nausea. Non mi piaceva che John Keene flirtasse con Amma, a prescindere da quanto lei lo provocasse. Aveva solo tredici anni. «Ehi, salve!» esclamai a voce alta, facendo sussultare Amma, che mi fece un cenno di saluto con le dita. Due delle biondine si tirarono su per un attimo e poi si distesero nuovamente. John prese un po' d'acqua con le mani e se la passò sul viso, prima di rivolgermi un mezzo sorriso. Stava cercando di ricostruire mentalmente la conversazione per capire quanto avessi sentito. Mi avviai verso di lui. «Hai letto l'articolo?» domandai. Il ragazzo annuì. «Sì, grazie. Era carino. La parte su Natalie, perlomeno.» «Sono venuta a parlare un po' di Wind Gap con Meredith; magari riuscirò a delineare un ritratto più approfondito di Natalie» proseguii. «Per te va bene?» John si strinse nelle spalle. «Certo, ma lei non è in casa. Non c'era abbastanza zucchero per il tè freddo, così è corsa al negozio senza neanche truccarsi.» «Scandaloso.» «Per Meredith, sì.» «Come vanno le cose qui?» «Oh, non c'è male» rispose, battendosi dei colpetti sulla mano destra. Autoconsolazione. Provai pena per lui. «Non so se le cose potranno più andare bene, perciò è difficile capire se questa situazione sia meglio o peggio. Capisci che cosa voglio dire?» «Qualcosa del genere: questo posto fa schifo e vorrei solo morire, ma non riesco a pensare dove altro potrei andare» suggerii. Lui si voltò a fissarmi, gli occhi dello stesso colore dell'acqua. «È esattamente quel che volevo dire.» "Tanto vale che ti ci abitui" riflettei. «Hai mai pensato di farti aiutare? Di andare in terapia?» domandai. «Potrebbe davvero esserti d'aiuto.» «Sì, John, potrebbe calmare alcune delle tue pulsioni. Possono essere letali, sai? Non vogliamo trovare altre bambine senza denti.» Amma era entrata in acqua e galleggiava a poca distanza da noi. John scattò in piedi come una molla e per un istante pensai che volesse tuffarsi nella piscina e strozzare mia sorella. Invece le puntò contro un dito, aprì la bocca, la richiuse e si incamminò verso il suo appartamento so-
pra il garage. «Questa era davvero crudele, Amma» la rimproverai. «Ma divertente» ribatté Kylie, distesa poco lontano su un materassino gonfiabile rosa. «Che svitato!» aggiunse Kelsey, superandola a rana. Jodes era rimasta seduta sull'asciugamano, con le ginocchia strette al mento e lo sguardo fisso sull'appartamento di John. «Sei stata così gentile con me l'altra sera. E adesso sembri un'altra persona» mormorai rivolta ad Amma. «Perché?» Per una frazione di secondo parve colta alla sprovvista. «Non lo so. Non posso farci niente.» Si avvicinò a nuoto alle amiche e proprio in quel momento Meredith comparve sulla porta e mi invitò a entrare con voce stizzita. La casa dei Wheeler aveva un'aria familiare: un soffice divano superimbottito, un tavolino basso con la riproduzione di una barca a vela, un'ottomana di velluto verde chiaro, una foto in bianco e nero della Torre Eiffel presa da un'angolatura ardita. Il catalogo primaverile di Pottery Barn al completo, compresi i piatti giallo limone con le paste ai frutti di bosco coperte di gelatina che Meredith stava sistemando sul tavolo. Indossava un abitino di lino color pesca acerba e aveva legato i capelli sulla nuca in una coda morbida, che doveva averle richiesto venti minuti per riuscire così perfetta. All'improvviso mi apparve molto, molto simile a mia madre. Avrebbe potuto essere lei la figlia di Adora, molto più di me. Sentii il risentimento in agguato e tentai di tenerlo sotto controllo, mentre la ragazza versava a entrambe un bicchiere di tè freddo e mi sorrideva. «Non ho idea di cosa ti stesse dicendo mia sorella, ma immagino fosse qualcosa di odioso o di osceno, perciò ti chiedo scusa» esordì. «Anche se saprai, immagino, che è Amma il vero cervello del gruppo.» Guardò una pasta, ma sembrava poco propensa a mangiarla. Troppo graziosa. «Probabilmente conosci Amma meglio di me» risposi. «Lei e John non mi sembra vadano molto...» «Amma vuole sempre essere al centro dell'attenzione» mi interruppe, accavallando le gambe, poi rimettendole unite e lisciandosi il vestito. «Ha paura di dissolversi nel nulla se l'attenzione non è sempre puntata su di lei. Specialmente quella dei ragazzi.» «Perché non le piace John? Sembrava insinuare che fosse stato lui a far del male a Natalie.» Estrassi il registratore premendo il tasto dell'accensio-
ne, in parte perché non volevo perdere tempo con giochetti egocentrici e in parte perché speravo che Meredith mi raccontasse qualcosa su John che valesse la pena pubblicare. Se davvero il ragazzo era uno dei principali sospettati, perlomeno nella fantasia dei suoi concittadini, mi serviva un commento di prima mano. «Amma è fatta così. Ha una vena di crudeltà. A John piaccio io e non lei, e così lei lo aggredisce. Quando non cerca di rubarmelo. Come se fosse possibile.» «A quanto pare, però, girano un sacco di voci secondo cui John potrebbe essere implicato nei delitti. Secondo te perché?» Lei si strinse nelle spalle, sporgendo in fuori il labbro inferiore e osservando per qualche istante il nastro che girava. «Sai com'è... John viene da fuori città. È intelligente e sofisticato e cento volte più bello di chiunque altro. Tutti si augurano che sia lui il colpevole, perché in questo modo il marcio verrebbe dall'esterno. Mangia una pasta.» «Tu pensi che sia innocente?» Addentai il dolce e la gelatina mi colò dalle labbra. «Ma certo. Sono tutti pettegolezzi che lasciano il tempo che trovano. Solo perché uno va a fare un giro in macchina... Lo fanno in tanti. Purtroppo John l'ha fatto nel momento sbagliato.» «E che mi dici delle due bambine?» «Erano care creature, molto beneducate e dolci. È come se Dio avesse scelto le bambine migliori di Wind Gap per portarle in cielo accanto a sé.» Meredith doveva essersi preparata quel discorso, le sue parole avevano il ritmo della recita. Anche il suo sorriso era studiato: troppo schivo sarebbe sembrato freddo e troppo raggiante sarebbe risultato inopportuno, date le circostanze. Così com'era, invece, pareva perfetto. Coraggioso e fiducioso. «Meredith, so bene che questo non è ciò che pensi delle bambine.» «E che tipo di commento vorresti?» «Uno sincero.» «Non posso. John mi odierebbe.» «Non devo per forza citare il tuo nome nell'articolo.» «E allora che senso ha intervistarmi?» «Se sai qualcosa su quelle bambine che la gente non dice, dovresti raccontarmela. Servirebbe a distogliere l'attenzione da John.» Meredith sorseggiò compostamente il tè, asciugandosi gli angoli delle labbra color fragola con un tovagliolino. «Ma potresti ugualmente fare il mio nome nell'articolo?»
«Potrei citarti in un altro punto.» «Voglio quello in cui dico che Dio le ha chiamate a sé in cielo!» esclamò Meredith con una vocina infantile. Si torse le mani, scoccandomi un sorriso furtivo. «No, quello no. Riporterò, invece, il tuo commento sul fatto che la gente ama spettegolare su John perché è di fuori città.» «Perché non puoi usare la frase che voglio io?» Ebbi una visione di Meredith a cinque anni, vestita come una principessa, che faceva i capricci perché la bambola preferita non voleva bere il suo tè immaginario. «Perché non si accorda con molte cose che ho saputo e perché nessuno parla davvero così. Suona falso.» Era lo scambio di opinioni più patetico che avessi mai avuto con un intervistato ed era un approccio molto poco ortodosso. Ma volevo quella fottuta storia. Meredith si rigirò la catenina d'argento intorno al collo, studiandomi. «Avresti potuto fare la modella, lo sai?» disse a un tratto. «Ne dubito» risposi secca. Ogni volta che qualcuno mi diceva che ero bella, pensavo alle brutture che mi deturpavano il corpo. «Sì, invece. Ho sempre desiderato diventare come te, da grande. Pensavo spesso a te, sai? Voglio dire, le nostre madri sono amiche, perciò sapevo che vivevi a Chicago e ti immaginavo in una grande villa con un paio di bambini adorabili e un fantastico marito consulente in una banca d'affari. Vi vedevo in cucina a bere succo d'arancia prima che lui salisse sulla Jaguar per recarsi al lavoro. Ma mi sbagliavo, vero?» «Proprio così. Carina, come fantasia, comunque.» Un altro morso alla pasta. «Allora, parlami delle bambine.» «Solo lavoro, eh? Non sei mai stata il massimo della cordialità. So di tua sorella. So che avevi una sorella che è morta.» «Meredith, magari un'altra volta tu e io avremo modo di chiacchierare un po'. Mi farebbe piacere. Ma prima finiamo l'intervista e poi pensiamo ad argomenti più divertenti.» Non intendevo trattenermi un solo minuto di più, dopo la fine dell'intervista. «Ok... allora ecco... penso di sapere perché... i denti...» mormorò, mimando l'estrazione. «Perché?» «Non posso credere che tutti si rifiutino di ammetterlo» proseguì, guardandosi intorno con fare circospetto. «Non dire che te l'ho raccontato io, d'accordo?» mi raccomandò poi. «A
quelle due, Ann e Natalie, piaceva mordere.» «In che senso, mordere?» «Avevano un caratteraccio, tutte e due. Mettevano anche un po' paura. Come certi maschi. Solo che loro non picchiavano. Mordevano. Guarda.» Allungò verso di me la mano destra. Proprio all'attaccatura del pollice c'erano tre minuscole cicatrici bianche, che brillavano nella luce pomeridiana. «Un regalino di Natalie. E anche questo.» Si tirò indietro i capelli, rivelando il lobo monco dell'orecchio sinistro. «La mano me l'ha morsa mentre le dipingevo le unghie. A metà dell'opera aveva deciso che non le piaceva più e, quando le ho detto di lasciarmi finire e le ho tenuto giù la mano, ha affondato i denti nella mia.» «E il lobo?» «Una sera mi fermai a casa sua, perché la mia macchina non partiva. Stavo dormendo nella camera degli ospiti e l'unica cosa che ricordo è che a un certo punto c'era sangue dappertutto sulle lenzuola e l'orecchio sembrava mi andasse a fuoco. Natalie urlava come una pazza, come se fosse stata lei ad andare a fuoco. Urla tremende, che mi facevano più paura del morso. Il signor Keene ha dovuto tenerla ferma con la forza. Quella bambina aveva gravi problemi. Cercammo il lobo dell'orecchio perché potessero ricucirmelo, ma non c'era più. Immagino che Natalie l'avesse ingoiato.» Sbottò in una breve risata, che suonò come un singulto. «Perlopiù mi faceva pena.» "Bugiarda." «E Ann, era anche lei così tremenda?» domandai. «Peggio. C'è un sacco di gente in città che porta i segni dei suoi denti. Compresa tua madre.» «Che cosa?!» Le mani cominciarono a sudarmi e sentii un brivido freddo lungo la schiena. «Tua madre le stava dando ripetizioni e Ann non riusciva a capire. A un certo punto ha perso completamente la testa, l'ha presa per i capelli, strappandogliene qualche ciocca, e l'ha morsa sul polso. Con forza. Credo che abbiano dovuto metterle dei punti.» Immagini del braccio sottile di mia madre catturato da dentini aguzzi, di Ann che la morde scuotendo la testa come un cane, del sangue che scorre sulla manica di Adora e sulle labbra di Ann. Un urlo, poi la liberazione. Un piccolo anello dalla linea spezzata e, al centro, un tondo di pelle perfetta.
11 Decisi di fare alcune telefonate dalla mia camera. Di Adora nessuna traccia. Al piano di sotto Alan stava sgridando Gayla per aver tagliato il filetto nel modo sbagliato. «So che può sembrare banale, Gayla, ma rifletti: i dettagli più insignificanti fanno la differenza fra un pasto sopraffino e uno appena decente.» Gayla emetteva mormorii di consenso. Perfino i suoi mm-hm erano nasali. Chiamai Richard sul cellulare: era uno dei pochi ad averlo a Wind Gap. Io, comunque, su questo argomento non dovrei pronunciarmi, visto che credo di essere rimasta l'unica persona a Chicago a non avere un telefonino. È solo che non sopporto di essere sempre raggiungibile. «Detective Willis» rispose lui. In sottofondo sentii un altoparlante che chiamava a gran voce un nome. «Molto occupato, detective?» Mi sentii arrossire. Frivolezza che sfumava in civetteria che sfumava in sciocchezze. «Ehi, salve» mi giunse la sua voce. Formale. «Sono un po' preso; posso richiamarti?» «Certo, sono a...» «Il numero compare sul display.» «Prodigi della tecnologia!» «Proprio così.» Venti minuti più tardi: «Scusa, ero all'ospedale di Woodberry con Vickery». «Una nuova pista?» «Più o meno.» «Qualche commento?» «Ieri sera è stato molto bello.» Avevo scritto dodici volte "Richard poliziotto" sulla gamba e mi ero dovuta fermare perché mi prudevano le mani dalla voglia di un rasoio «Anche per me. Senti, devo chiederti subito una cosa e mi serve una risposta immediata. In via ufficiosa. Poi, però, ho bisogno di una dichiarazione da citare sul prossimo articolo, «Ok, cercherò di aiutarti, Camille. Che cosa vuoi chiedermi?» «Possiamo incontrarci al bar dove abbiamo bevuto qualcosa la prima volta? Voglio parlarti di persona, devo uscire da questa casa e... ok, lo
ammetto, ho bisogno di bere.» C'erano tre miei ex compagni di classe da Sensors quando arrivai, ragazzi simpatici, uno di loro aveva vinto un nastro azzurro alla sagra del suino per la scrofa più obesa e gonfia di latte. Un prototipo del perfetto campagnolo che Richard avrebbe sicuramente apprezzato. Ci scambiammo dei convenevoli, mi offrirono i primi due giri e mi mostrarono le foto dei loro bambini, otto in tutto. Uno di loro, Jason Turnbough, aveva gli stessi capelli biondi e lo stesso viso paffuto dei tempi della scuola. La lingua che saettava a inumidire gli angoli della bocca, guance rosee, tondi occhi blu che guizzarono per tutto il tempo dal mio viso al seno, smettendo solo quando tirai fuori il registratore e cominciai a fare domande sui delitti. A quel punto il centro della sua attenzione diventò la cassetta che girava velocemente. La gente si eccita sempre nel vedere il proprio nome sui giornali. La conferma della propria esistenza. Immaginai un diverbio tra fantasmi intenti a sfogliare pile di giornali, indicando il proprio nome. "Guarda, eccomi qui. Te l'avevo detto che sono esistito. Te l'avevo detto!" «Chi avrebbe mai pensato, ai tempi della scuola, che ci saremmo ritrovati un giorno a parlare dei delitti a Wind Gap?» osservò Tommy Ringer, che era diventato un uomo con i capelli scuri e una folta barba. «È vero, Cristo santo! Se pensi che io lavoro in un supermercato...» commentò Ron Laird, muso da topo e voce tonante. I tre sprizzavano indignazione e orgoglio civico da tutti i pori. L'infamia era piombata su Wind Gap e loro se n'erano impadroniti. Avrebbero potuto continuare a lavorare al supermercato, all'emporio, al vivaio, ma, una volta morti, questa storia insieme al fatto di essersi sposati e avere messo al mondo figli - sarebbe rimasta scolpita a grandi lettere nella lista delle esperienze che avevano vissuto. Una tragedia capitata proprio a loro. O meglio alla loro città. Non ero del tutto d'accordo con Meredith su questo punto: secondo me, infatti, c'era gente che avrebbe voluto che l'assassino fosse uno di Wind Gap. Qualcuno con cui un tempo andavano a pesca o che era con loro negli scout. Avrebbe reso la storia ancora più eccitante. Richard spalancò di botto la porta, che era molto più leggera di quanto sembrasse. I clienti non abituali del locale l'aprivano sempre con troppa forza, cosicché ogni due minuti sbatteva contro il muro, fornendo un'interessante punteggiatura alla conversazione. Mentre lui entrava, con la giacca buttata sulla spalla, i miei tre compagni emisero un grugnito.
«Un vero duro.» «Ragazzi, che paura!» «Risparmia qualche cellula cerebrale per l'indagine, amico, ne avrai bisogno.» Saltai giù dallo sgabello, passandomi la lingua sulle labbra e sorridendo. «Be', ragazzi, devo tornare al lavoro. È l'ora dell'intervista. Grazie per i drink.» «Noi siamo qui, se ti annoi» mi gridò dietro Jason. Richard si limitò a sorridergli, bofonchiando "idiota" fra i denti. Tracannai il terzo bourbon, afferrai per un braccio la cameriera perché ci trovasse un tavolo e, dopo che ci ebbe portato i nostri drink, appoggiai il mento sulla mano, domandandomi se avevo davvero voglia di parlare di lavoro. Richard aveva una cicatrice poco sopra il sopracciglio destro e una fossetta sul mento. Mi sfiorò due volte il piede sotto il tavolo, dove nessuno poteva vedere. «Allora, che succede, Scoop?» «Senti, ho bisogno di sapere una cosa. È della massima importanza. Se non puoi rispondermi, lo capisco, ma ti prego, riflettici bene.» Richard annuì. «Quando pensi alla persona che ha commesso i due omicidi, hai in mente qualcuno di preciso?» domandai. «Più di uno.» «Uomo o donna?» «Perché è di vitale importanza per te, Camille? Perché proprio adesso?» «Ho bisogno di saperlo, tutto qui.» Fece una pausa, sorseggiando il suo drink, e si passò una mano sul mento non rasato. «Non credo che una donna avrebbe ucciso in quel modo due bambine.» Mi sfiorò di nuovo il piede. «Ehi, che cosa sta succedendo? Dimmela tu la verità, adesso.» «Non so, forse sto impazzendo. Avevo solo bisogno di sapere dove focalizzare le mie energie.» «Lascia che ti aiuti.» «Sapevi che le bambine avevano l'abitudine di mordere le persone?» «A scuola mi hanno parlato di un incidente che riguardava Ann e l'uccellino dei vicini» rispose. «Quanto a Natalie, veniva tenuta sotto stretto controllo, dopo quel che era successo a Filadelfia.» «Natalie ha morso il lobo dell'orecchio di una persona che conosco.»
«Non c'è stata nessuna denuncia contro di lei da quando si è trasferita qui.» «Questo perché l'incidente non è stato denunciato. Io ho visto l'orecchio, Richard, manca metà del lobo e la persona che me l'ha riferito non ha motivo di mentire. E anche Ann ha aggredito qualcuno a morsi. Mi domando sempre di più se quelle due ragazzine non abbiano pestato i piedi alla persona sbagliata. Sembra quasi siano state abbattute, come animali rabbiosi. Forse è per questo che hanno strappato loro i denti.» «Ricominciamo da capo, lentamente. Prima di tutto, chi sono le persone che sono state morse?» «Non posso dirtelo.» «Maledizione, Camille, non ho tempo per le stronzate! Dimmelo.» «No.» Ero sorpresa dalla sua reazione. Mi sarei aspettata che scoppiasse a ridere, dicendomi che ero carina quando avevo quell'aria di sfida. «È un fottutissimo caso di omicidio, d'accordo? Se hai delle informazioni, io ne ho bisogno.» «E allora fa' il tuo lavoro.» «Ci sto provando, Camille, ma questo tuo menare il can per l'aia con me non aiuta di certo.» «Adesso sai come ci si sente» borbottai con petulanza. «Come vuoi.» Si fregò gli occhi. «Ho avuto una giornata pesante, quindi... ti auguro la buonanotte. Spero di esserti stato d'aiuto.» Si alzò, spingendo il bicchiere mezzo vuoto verso di me. «Mi serve una dichiarazione ufficiale.» «Magari un'altra volta. Ho bisogno di prendere un po' le distanze. Forse avevi ragione su di noi: è un'idea orribile.» Richard se ne andò e i tre ragazzi mi chiamarono perché mi unissi di nuovo a loro. Scossi il capo, finii di bere e feci finta di annotare degli appunti, finché non se ne andarono. Ma tutto ciò che riuscii a scrivere fu "posto malsano" per più di dodici pagine. Questa volta, entrando in casa, trovai Alan ad aspettarmi. Era seduto sul divanetto di broccato a due posti, indossava pantaloni bianchi e camicia di seta e calzava pantofole di seta in tinta. Difficile collocarlo nel tempo... un gentiluomo vittoriano, un dandy edoardiano, un damerino anni Cinquanta? Oppure un marito del ventunesimo secolo, che non aveva mai lavorato, beveva spesso e di tanto in tanto faceva l'amore con mia madre? Accadeva molto raramente che Alan e io parlassimo in assenza di mia
madre. Una volta da bambina lo avevo incontrato per caso in corridoio e lui si era chinato goffamente verso di me, dicendomi: «Ciao, spero che tu stia bene». Vivevamo nella stessa casa da più di cinque anni e non era riuscito a trovare niente di meglio. «Sì, grazie» era stata l'unica risposta che ero riuscita a trovare. In quel momento, però, sembrava più che disponibile a parlare con me. Invece di chiamarmi, si limitò a dare un colpetto sul cuscino accanto a sé. Teneva in equilibrio sulle ginocchia un piattino con alcune grosse sardine argentee. Potevo sentirne l'odore fin dall'ingresso. «Camille» esordì, infilzandone una per la coda con una minuscola forchetta da pesce «stai facendo ammalare tua madre. Sarò costretto a chiederti di andartene, se le cose fra di voi non miglioreranno.» «In che senso, la sto facendo ammalare?» «Tormentandola. Facendole ricordare Marian in continuazione. Non puoi disquisire sullo stato di decomposizione del corpo di un bambino sottoterra con una madre che ha perso una figlia. Forse tu riesci a prendere certe cose con distacco, ma Adora no.» Una goccia di olio gli cadde sul davanti della camicia, lasciando una macchia di unto della grandezza di un bottone. «Non puoi parlarle dei cadaveri delle due bambine morte, chiedendoti quanto sangue possa essere uscito dalle loro bocche quando venivano loro strappati i denti, o quanto tempo possa avere impiegato l'assassino a strangolarle.» «Alan, non ho mai detto niente del genere a mia madre. Neanche lontanamente. Davvero, non so proprio di cosa tu stia parlando.» Più che indignata mi sentivo spossata. «Ti prego, Camille, so quanto sia conflittuale il rapporto con tua madre. So quanto tu sia sempre stata invidiosa della serenità altrui. È vero, sei proprio come la madre di Adora. Se ne stava a guardia di questa casa come una... strega, una strega vecchia e irosa. Le risate la offendevano. L'unica volta in cui ha sorriso è stato quando ti sei rifiutata di attaccarti al seno di Adora. Di prendere il capezzolo.» A sentire quella parola sulle labbra unte di Alan mi sembrò di prendere fuoco in dieci posti diversi. "Succhiare", "puttana", "cancellino" si accesero, tutte contemporaneamente. «Te l'ha detto Adora?» indagai. Alan annuì, arricciando le labbra con aria soddisfatta. «Così come è stata lei a riferirti le orribili cose che avrei detto su Marian e sulle bambine morte.»
«Esattamente» ribatté, scandendo le sillabe. «Adora è una bugiarda. Se non l'hai ancora capito, sei un idiota.» «Adora ha avuto una vita difficile.» Scoppiai in una risata forzata. Alan rimase impassibile. «Quando era bambina sua madre entrava in camera per darle dei pizzicotti mentre dormiva» proseguì, lanciando un'occhiata compassionevole all'ultimo pezzo di sardina. «Diceva che era perché temeva che Adora morisse nel sonno. Io penso invece che godesse nel farle del male.» Il lampo di un ricordo: Marian nella sua stanza in fondo al corridoio piena di macchinari. Un dolore acuto sul braccio. Mia madre che incombeva su di me in camicia da notte e mi chiedeva se stavo bene. Che baciava il rossore sul braccio e mi diceva di tornare a dormire. «Ho pensato che fosse giusto dirti queste cose» disse Alan. «Forse riuscirai a essere più gentile con tua madre.» Non avevo alcuna intenzione di essere più gentile con mia madre. Volevo solo che quella conversazione finisse. «Cercherò di andarmene il più presto possibile.» «Potrebbe essere una buona idea, se non riesci a fare ammenda» rispose Alan. «Ma magari ti sentiresti in pace con te stessa, se ci provassi. Potrebbe aiutarti a risolvere anche i tuoi problemi. Quelli psicologici, perlomeno.» Alan infilzò l'ultimo pezzo di sardina e lo risucchiò in bocca per intero. Mi sembrò quasi di vedere le minuscole lische frantumarsi mentre le masticava. Rubai un bicchiere pieno di ghiaccio e una bottiglia di bourbon in cucina e me ne andai in camera mia a bere. La sbornia mi piombò addosso subito, probabilmente perché avevo bevuto molto in fretta. Sentivo le orecchie scottare e la mia pelle aveva finalmente smesso di lampeggiare. Pensai alla parola sulla nuca: "svanire". "Svanire" avrebbe lenito il mio dolore, pensai mezza intontita. "Svanire" avrebbe allontanato i miei problemi. Sarebbe stata così dura se Marian non fosse morta? Altre famiglie superano queste tragedie. Elaborano il lutto e vanno avanti. Ma lei si librava ancora su di noi, una bimba bionda forse un po' troppo bella, un po' troppo adorata. Questo prima che si ammalasse. Ammalasse sul serio. Aveva un amico immaginario, un gigantesco orso imbottito che chiamava Ben. Quale bambino ha per amico immaginario un animale di peluche? Marian collezionava nastri per capelli e li sistemava in ordine alfabetico a seconda del nome
del colore. Era il tipo di bambina che usava la propria bellezza con tale gioia che non si poteva biasimarla. Un battito di ciglia, un ondeggiare dei riccioli. Chiamava mia madre "marni" e Alan... boh, forse lo chiamava Alan. Ripuliva sempre il piatto, teneva la stanza in perfetto ordine e voleva indossare solo vestitini da bambina. Mi chiamava Mille e non riusciva a stare lontana da me. La adoravo. Ero ubriaca, ma continuavo a bere. Mi versai un bicchiere di bourbon e barcollai lungo il corridoio fino alla stanza di Marian. La porta di Amma, subito dopo, era chiusa da ore. Che cosa voleva dire crescere nella camera accanto a quella di una sorella morta che non si è mai conosciuta? Sentii una punta di dolore per Amma. Alan e mia madre erano nella grande camera d'angolo, ma la luce era spenta e si sentiva il ronzio del ventilatore. Niente aria condizionata centralizzata per una dimora vittoriana e mia madre considerava volgari i condizionatori portatili, perciò sudavamo come matti per tutta l'estate. C'erano trentadue gradi, ma il caldo mi faceva sentire al sicuro, come se stessi nuotando sott'acqua. Il cuscino sul letto recava ancora un piccolo avvallamento. Un set di capi di vestiario era disposto in bell'ordine, pronto per essere indossato: abito lilla, calze bianche, scarpe nere di vernice. Chi era stato a metterlo lì? Mia madre? Amma? Il treppiedi per le flebo, compagno inseparabile di Marian durante l'ultimo anno di vita, era accanto al resto dell'attrezzatura medica: il letto cinquanta centimetri più alto dello standard, per facilitare l'accesso al paziente; il cardiografo; la padella. Mi disgustava il fatto che mia madre non si fosse disfatta di tutta quella roba. Era una stanza asettica e completamente senza vita. La bambola preferita di Marian era stata seppellita insieme a lei. Un'enorme bambola con riccioli biondi che ricordavano quelli di mia sorella. Evelyn. O Eleanor? Le altre bambole erano allineate su una serie di scaffali lungo la parete, come tifosi sulle gradinate. Una ventina di bambole con il viso di porcellana e grandi occhi vitrei. Riuscivo ancora perfettamente a vedere Marian seduta a gambe incrociate su quel letto, piccola e sudata, con gli occhi cerchiati da occhiaie violacee, mentre rimescolava le carte, pettinava le sue bambole o disegnava rabbiosamente. Riuscivo addirittura a sentire il rumore della matita che produceva linee dure sul foglio. Ghirigori scuri tracciati con tale violenza da rompere la carta. Poi, lei alzava gli occhi su di me, con il respiro corto e affannoso. «Sono stufa di morire.»
Tornai di corsa in camera mia, come se fossi braccata. Il telefono squillò sei volte prima che Eileen rispondesse. Cose che mancano nella casa dei Curry: un microonde, un videoregistratore, una lavastoviglie e una segreteria telefonica. Il suo "Pronto?" fu gentile, ma carico di tensione. Immagino che non ricevessero molte chiamate dopo le undici di sera. Mentì dicendo che non stavano affatto dormendo, ma che semplicemente non aveva sentito il telefono, ma ci vollero due minuti buoni prima che Curry venisse alla cornetta. Riuscivo a immaginarmelo, intento a pulirsi gli occhiali con un lembo del pigiama, infilarsi le vecchie pantofole di pelle, lanciando un'occhiata al quadrante luminoso della sveglia. Un'immagine rassicurante. Poi mi resi conto che stavo ricordando la pubblicità di una farmacia di Chicago aperta tutta la notte. Erano passati tre giorni dall'ultima volta che avevo parlato con Curry. Quasi due settimane dal mio arrivo a Wind Gap. In qualunque altra circostanza lui mi avrebbe telefonato almeno tre volte al giorno per sapere le ultime novità, ma stavolta non se la sentiva di chiamarmi a casa d'altri, per di più quella di mia madre, giù nel Missouri, che nella sua mente di cittadino di Chicago equivaleva al profondo Sud. In qualunque altra circostanza mi avrebbe rimproverato per non essermi tenuta in contatto, ma non quella sera. «Ehi, Cucciolo, tutto bene? Che novità ci sono?» «Be', non ho ancora una dichiarazione ufficiale, ma l'avrò presto. La polizia pensa che l'assassino sia di sesso maschile, sicuramente di Wind Gap. Non hanno né tracce di DNA, né luogo dell'omicidio; in realtà, hanno davvero poco in mano. O l'assassino è un cervellone oppure è molto fortunato. In città tutti sembrano convinti che sia stato il fratello di Natalie Keene, John. Ho registrato un'intervista con la sua ragazza che protesta la sua innocenza.» «Bene, bel lavoro, ma in realtà, ecco... volevo sapere di te. Tutto bene laggiù? Devi dirmelo tu, perché non posso vederti in faccia. E non fare la stoica con me.» «Non sto tanto bene, ma che importa?» La voce mi uscì più acuta e piena di amarezza di quanto volessi. «Si tratta di una faccenda scottante e penso di essere sul punto di scoprire qualcosa. Ancora qualche giorno, una settimana, forse, e poi... non saprei. Quelle bambine mordevano la gente. È quel che ho scoperto oggi e il poliziotto con cui lavoro non lo sapeva.»
«Glielo hai detto? Qual è stato il suo commento?» «Niente.» «Perché diavolo non ti sei fatta rilasciare una dichiarazione?» "Ecco, vedi, Curry, il detective Willis pensa che gli stia nascondendo qualcosa, così si è offeso e se ne è andato, come fanno sempre gli uomini quando non riescono a spuntarla con le donne con cui vanno a letto. " «Ho fatto casino, ma riuscirò a farmela rilasciare. Mi serve ancora qualche giorno prima di completare l'articolo, Curry. Per avere ancora un po' di colore locale e lavorarmi quel poliziotto. Penso che si siano finalmente convinti che un po' di interesse da parte della stampa possa aiutare. Non che qualcuno legga il nostro giornale, quaggiù.» Neanche lassù, peraltro. «Lo leggeranno. Ti farai notare sul serio con questo servizio. Ti stai avvicinando a qualcosa di grosso, lo sento. Insisti. Va' a parlare con qualcuno dei vecchi amici. Potrebbero essere più disponibili con te. E l'articolo ne guadagnerebbe... Quel giornalista che si è occupato delle alluvioni in Texas - quello che ha vinto il Pulitzer - ha presentato la storia secondo la prospettiva di un tizio che torna a casa durante la tragedia. Non era male. Inoltre una faccia amica e qualche birra potrebbero anche farti bene. Da quanto mi sembra di capire, hai già alzato un po' il gomito stasera.» «Un po'.» «Non è che... hai la sensazione che questa faccenda sia negativa per te, mentre sei in fase di recupero?» Sentii il crepitio di un fiammifero che veniva acceso, il rumore di una sedia spostata sul pavimento e un grugnito mentre Curry si sedeva. «Oh, non preoccuparti.» «Sì, invece. Non fare la martire. Non ho intenzione di fartelo pesare se decidi di andartene. Devi pensare prima di tutto a te stessa. Credevo che tornare a casa potesse giovarti, ma talvolta dimentico che la vicinanza dei genitori non è sempre salutare per i figli.» «Ogni volta che mi trovo qui...» Mi interruppi, cercando di ricompormi. «È solo che quando sono qui mi sento sempre una persona cattiva.» Poi cominciai a piangere, singhiozzando sommessamente, mentre Curry balbettava qualcosa all'altro capo del filo. Lo immaginavo in preda al panico, che gesticolava frenetico verso Eileen, perché lo aiutasse a gestire la ragazza che frignava. Ma mi sbagliavo. «Oh, Camille» sussurrò «tu sei una delle persone migliori che conosca. Non ci sono molte brave persone a questo mondo, sai? Dopo che i miei genitori sono morti, in pratica siete rimaste solo tu e Eileen.»
«Non sono una brava persona.» La punta della mia penna scarabocchiava lungo tutta la coscia, premendo forte. «Sì che lo sei, Camille. Vedo come tratti la gente, anche i peggiori pezzi di merda. Riesci a dar loro un po' di... dignità. Di comprensione. Perché credi che ti voglia sempre intorno? Non penserai mica di essere una grande giornalista.» Silenzio e copiose lacrime da parte mia. "Sbagliato", "donna", "denti". «La battuta non era divertente, eh?» «No.» «Mio nonno era nel varietà, ma suppongo di non aver preso da lui.» «Davvero?» «Oh, sì, appena sceso dalla nave che lo aveva portato a New York dall'Irlanda. Era un tipo davvero divertente, suonava quattro strumenti...» Lo scatto di un accendino. Mi tirai la sottile coperta sopra la testa e chiusi gli occhi, ascoltando il racconto di Curry. 12 Richard viveva nell'unico condominio di Wind Gap, un edificio squadrato che poteva ospitare quattro inquilini. Solo due appartamenti erano occupati. I tozzi pilastri che sorreggevano la tettoia del garage esterno erano ricoperte di graffiti rossi con la scritta STOP AI DEMOCRATICI ripetuta in sequenza e poi, qua e là, LOUIE TI AMO. Mercoledì mattina. Nubi cariche di pioggia continuavano a sovrastare la città. Clima caldo e ventoso, luce giallo piscio. Bussai alla porta di Richard con il collo della bottiglia di bourbon. "Porta dei regali se non hai altro da offrire." Avevo smesso di indossare le gonne. Rendevano le mie gambe troppo accessibili per uno in vena di toccare. Sempre che ne avesse ancora voglia. Richard aprì la porta con addosso l'odore del sonno. Capelli arruffati, boxer, una maglietta a rovescio. Nessun sorriso. La temperatura in casa era bassissima. Riuscivo a sentire l'aria condizionata perfino stando sulla soglia. «Vuoi entrare o preferisci che esca io?» domandò, grattandosi il mento. Poi si accorse della bottiglia. «Ah, ok, entra. L'idea è di ubriacarsi, immagino.» L'appartamento era un casino, cosa di cui mi stupii. Pantaloni gettati alla rinfusa sulle sedie, un secchio della spazzatura che traboccava, scatole di
documenti impilate nei posti più impensati, che obbligavano a fare uno slalom per passare. Richard mi fece segno di sedermi su un logoro divano di pelle e ritornò portando un vassoio con due bicchieri pieni di ghiaccio. Versò a entrambi una generosa dose di bourbon. «Scusami, sono stato davvero odioso, ieri sera» esordì. «Sì. Dopotutto ti sto dando un bel po' di informazioni. .. senza ricevere niente in cambio.» «Sto cercando di risolvere un caso di omicidio. Tu stai cercando di farci uno scoop. Penso di avere la priorità. Ci sono delle cose, Camille, che proprio non posso dirti.» «Lo stesso vale per me... Ho il diritto di proteggere le mie fonti.» «Che potrebbero anche proteggere chi ha commesso gli omicidi.» «Puoi arrivarci da solo, Richard. Ti ho detto quasi tutto. Cristo, fa' un po' di fatica per conto tuo!» Ci fissammo per un lungo istante. «Mi piace quando fai la giornalista tutta d'un pezzo con me.» Richard sorrise. Scosse la testa. Poi mi diede un colpetto con il piede nudo. «Davvero, mi piace proprio.» Riempì di nuovo i bicchieri. Prima di mezzogiorno saremmo stati ubriachi. Mi attirò a sé e mi baciò sul lobo, ficcandomi la lingua nell'orecchio. «Allora, ragazzina di Wind Gap, quanto eri cattiva?» sussurrò. «Raccontami la prima volta che l'hai fatto.» La mia prima volta era stata anche la seconda, la terza e la quarta, grazie all'episodio di sesso avvenuto quando avevo tredici anni. Decisi di limitarmi alla prima. «Avevo sedici anni» mentii. Qualche anno in più sembrava più dignitoso. «Mi sono scopata uno della squadra di football nel bagno, a una festa.» La mia tolleranza dell'alcol doveva essere migliore di quella di Richard, che aveva già un'aria appannata, e aveva preso a stuzzicarmi un capezzolo indurito sotto la camicia. «Mm... e sei venuta?» Annuii. Ricordavo di aver finto di venire. Ricordavo il gemito di un orgasmo, ma non prima che mi avessero passato al terzo ragazzo. Ricordavo di aver pensato che era dolce che lui continuasse a sussurrarmi nell'orecchio: "Ti piace così? Ti piace così?". «Vuoi venire anche adesso? Con me?» bisbigliò Richard. Annuii e lo sentii su di me. Quelle mani che vagavano dappertutto, cercando di sollevarmi la camicia, lottando poi per sbottonarmi i pantaloni e tirarli giù.
«Aspetta, aspetta. Facciamo a modo mio» sussurrai. «Mi piace farlo con i vestiti addosso.» «No. Voglio toccarti.» «No, baby, a modo mio.» Tirai giù i pantaloni appena un po', coprendomi la pancia con la camicia e cercando di distrarre Richard con baci mirati. Poi lo guidai dentro di me e scopammo, completamente vestiti, con il fruscio della pelle del divano come sottofondo. "Rifiuto", "pompa", "piccola", "ragazza"! Erano dieci anni che non andavo con un uomo. "Rifiuto", "pompa", "piccola", "ragazza"! I gemiti di Richard sovrastarono ben presto le urla della mia pelle. Solo allora riuscii a rilassarmi e a godermela. Quei pochi, ultimi, dolci affondi. Richard rimase semisdraiato su di me, ansimando, con il colletto della mia camicia ancora stretto in mano. La luce del giorno si era incupita. Il temporale stava per scoppiare. «Chi pensi sia stato?» mormorai. Richard mi guardò sconcertato. Che cosa si era aspettato? "Ti amo"? Per qualche minuto, giocherellò con una ciocca dei miei capelli e mi frugò con la lingua nell'orecchio. Quando si impedisce loro l'accesso ad altre parti del corpo, gli uomini si fissano con l'orecchio. È una cosa che ho imparato nell'ultimo decennio. Non potendo toccarmi il seno o il sedere, le gambe o le braccia, per il momento Richard sembrava accontentarsi dell'orecchio. «Detto fra me e te, penso che sia stato John Keene. Era molto legato alla sorella. In modo malsano. Non ha un alibi. Credo che abbia un debole per le bambine che non riesce a controllare, e così finisce per ucciderle. Strappare loro i denti gli procura un ulteriore brivido. Ma non credo che reggerà ancora a lungo. Il cappio gli si sta stringendo intorno al collo. Stiamo controllando se ci siano prove di strani comportamenti a Filadelfia. Può anche darsi che i problemi di Natalie non siano stati l'unica ragione del trasferimento della famiglia qui.» «Mi serve una dichiarazione ufficiale.» «Chi ti ha raccontato dei morsi e chi sono le persone morse dalle due bambine?» mi sussurrò nell'orecchio. Fuori la pioggia cominciò a percuotere l'asfalto come uno che stesse pisciando. «Meredith Wheeler mi ha detto che Natalie le ha staccato mezzo lobo dell'orecchio con un morso.» «Che altro?»
«Ann ha morso mia madre. Sul polso. Ecco tutto.» «Vedi, non era poi tanto difficile. Brava bambina» bisbigliò, accarezzandomi un capezzolo. «Adesso dammi qualcosa di ufficiale.» «No.» Mi sorrise. «A modo mio.» Richard mi scopò un'altra volta quel pomeriggio, concedendomi finalmente una dichiarazione ufficiale su uno spiraglio nel caso e un probabile arresto. Lo lasciai addormentato nel suo letto e corsi sotto la pioggia fino alla macchina, con un pensiero che mi tormentava: Amma sarebbe riuscita a strappargli di più. Guidai fino al Garrett Memorial Park e rimasi seduta in macchina a fissare la pioggia, perché non avevo voglia di tornare a casa. L'indomani quel posto sarebbe stato pieno di bambini, pronti a cominciare la loro lunga e pigra estate. Ma al momento c'ero solo io, che mi sentivo stupida e appiccicosa. Non riuscivo a stabilire se ero stata bistrattata... da Richard, da quei ragazzi che si erano presi la mia verginità, da chiunque. Non ero mai davvero dalla mia parte, in qualunque discussione. Amavo la cattiveria della frase del Vecchio Testamento: «Ha avuto ciò che si meritava». A volte per le donne è proprio così. Silenzio. Nient'altro che silenzio. Poi d'un tratto la vecchia Iroc gialla mi rombò accanto, con Anima e Kylie sedute entrambe nel posto del passeggero. Un ragazzo con i capelli incolti e una maglietta sudicia sotto la tuta da benzinaio era alla guida; un suo simile, tutto pelle e ossa, sedeva dietro. Sbuffi di fumo uscivano dalla macchina insieme a un odore di liquore agli agrumi. «Salta su, andiamo a una piccola festa» gridò Anima, allungando una bottiglia di vodka all'arancia da quattro soldi. Cacciò fuori la lingua per catturare una goccia di pioggia. I capelli e il top erano già bagnati. «No, grazie, sto bene così.» «Non si direbbe. E Dai, stanno pattugliando il parco. Di sicuro ti becchi una multa per guida in stato di ebbrezza. Sento l'odore da qui.» «Forza, chiquita» gridò Kylie. «Dacci una mano a tenere in riga questi ragazzi.» Valutai rapidamente le possibilità che avevo: tornare a casa e bere da sola; infilarmi in un bar a bere con chiunque capitasse a tiro; andare con questi ragazzi e magari ritrovarmi fra le mani qualche pettegolezzo interessante. Un'ora. Poi a casa per dormirci sopra. Tra l'altro c'era Amma, strana-
mente amichevole nei miei confronti. Detestavo ammetterlo, ma cominciavo a essere ossessionata dal pensiero di questa ragazza. I ragazzi esultarono quando montai sul sedile posteriore. Amma passò in giro una bottiglia diversa, rum caldo che sapeva di lozione abbronzante. Temevo che mi chiedessero di comprare loro degli alcolici. Certo non mi sarei tirata indietro. Volevo solo essere accettata. Patetica. Per essere di nuovo popolare. Non più la solita fuori di testa. Accettata dalla ragazzina più popolare di tutta la scuola. Bastò quel pensiero per farmi quasi balzare fuori dalla macchina e tornare a casa a piedi. Ma poi Amma fece fare un altro giro alla bottiglia. Il collo era sbavato di lucidalabbra rosa. Il ragazzo accanto a me, che si era presentato come Nolan, afferrò la bottiglia, asciugandosi il sudore dal labbro superiore. Braccia sottili coperte di croste e un viso devastato dall'acne. Anfetamina. Il Missouri è al secondo posto nel Paese per consumo di droga. Ci annoiamo quaggiù e abbiamo a disposizione un sacco di sostanze chimiche. Quando ero una ragazzina, erano perlopiù i duri che si facevano di anfetamina. Adesso era diventata una droga da feste. Nolan, che stava facendo scorrere un dito lungo le cuciture del sedile del guidatore, riuscì a sollevare lo sguardo su di me quel tanto da dirmi: «Tu hai più o meno l'età di mia madre. Mi piace». «Dubito di avere l'età di tua madre.» «Lei ha circa trentatré-trentaquattro anni.» Più o meno c'eravamo. «Come si chiama?» «Casey Rayburn.» La conoscevo. Qualche anno più di me. Lavorava allo stabilimento dei maiali. Troppo gel nei capelli e un debole per gli sgozzapolli messicani lungo il confine con l'Arkansas. Durante un ritiro spirituale della parrocchia aveva raccontato al suo gruppo di aver tentato il suicidio. Le ragazze a scuola avevano cominciato a chiamarla Casey Rasoio. «Doveva essere qualche anno avanti a me a scuola.» «Amico, questa pollastrella è troppo sofisticata per aver bazzicato quella tossica di tua madre!» esclamò il ragazzo alla guida. «Vaffanculo» sibilò Nolan. «Camille, guarda che cosa abbiamo!» Amma si mise in ginocchio e si girò, sporgendosi oltre il sedile, cosicché il suo sedere venne a trovarsi quasi addosso a Kylie. Agitò un flacone di pillole. «Oxycontin. Ti fa sentire alla grande.» Tirò fuori la lingua e vi posò sopra tre pillole in fila, come bottoncini bianchi, poi le masticò e le inghiottì con un sorso di vodka. «Prova.» «No, grazie, Amma.» L'Oxycontin è roba buona. Farselo con la tua so-
rellina di tredici anni non lo è affatto. «Oh, ti prego, Mille, solo una» piagnucolò Amma. «Ti sentirai più leggera. Io sto benissimo, sono felice in questo momento. Devi provare anche tu.» «Sto bene, Amma.» Il fatto che mi avesse chiamata Mille mi fece subito pensare a Marian. «Te lo giuro.» Lei si girò, rimettendosi seduta, e sospirò delusa. «E su, Amma, non sarà così importante.» «Sì, invece.» Non lo sopportavo, stavo perdendo terreno, provavo quel pericoloso desiderio di essere apprezzata come ai vecchi tempi. In fin dei conti, una pillola non mi avrebbe ucciso. «E va bene, dammene una. Una sola.» Amma si rasserenò subito e si voltò di scatto verso di me. «Tira fuori la lingua. Come alla comunione. Comunione di droga.» Tirai fuori la lingua e lei appoggiò una pillola sulla punta, ridacchiando. «Che brava ragazza» mormorò lei, sorridendo. Ne avevo abbastanza di sentirmelo dire, per quel giorno. Parcheggiammo davanti a una delle grandi ville in stile vittoriano di Wind Gap, completamente ristrutturata e dipinta di blu, rosa e verde, cosa che avrebbe dovuto darle un tocco di originalità, ma invece finiva per farla sembrare la casa di un gelataio pazzo. Un ragazzo a torso nudo stava vomitando fra i cespugli di fianco alla casa, altri due facevano la lotta in quel che rimaneva di un'aiuola e una coppietta era abbarbicata su un'altalena. Nolan, che continuava a far scorrere il dito sulle cuciture del sedile, venne abbandonato in macchina. L'autista, Damon, lo chiuse dentro, bofonchiando: «Così nessuno può rompergli le palle». Lo trovai un gesto affascinante. Grazie all'Oxycontin mi sentivo euforica e, mentre ci incamminavamo verso la casa, mi scoprii intenta a cercare nella folla i volti della mia gioventù: ragazzi con il taglio di capelli militare e le felpe del college, ragazze con la permanente e gli orecchini vistosi. Profumi come Drakkar Noir e Giorgio. Niente di tutto ciò I ragazzi qui erano poppanti in bermuda extralarge e scarpe da ginnastica; le ragazze portavano top, minigonne e piercing all'ombelico e tutti mi fissavano come se fossi uno sbirro. "In effetti me ne sono scopato uno oggi pomeriggio." Sorrisi, facendo grandi cenni di saluto. "Sei terribilmente su
di giri" pensai scioccamente. Nell'enorme sala da pranzo il tavolo era stato spinto di lato per far spazio alle borse termiche con le bibite e alle danze. Amma si buttò subito nella mischia, dimenandosi con il bacino contro un ragazzo, finché lui non avvampò di rossore, collo compreso. Lei gli sussurrò qualcosa all'orecchio e, quando lui annuì, aprì una borsa termica e ne estrasse quattro birre, che si strinse al petto fingendo di faticare a sorreggerle, mentre passava ancheggiando accanto a un gruppetto di ragazzi che le fischiarono dietro, ammirati. Le ragazze erano molto meno ammirate. Mi sembrò di sentire le loro velenose critiche lacerare l'aria come uno scoppio di petardi. Ma Amma e le biondine avevano dalla loro due vantaggi: primo, erano in compagnia del pusher locale, il che di sicuro apriva loro qualche porta; secondo, erano molto più carine di qualunque altra ragazza presente, il che voleva dire che i maschi si sarebbero rifiutati di buttarle fuori. E dalle foto sul caminetto in sala avevo capito che il padrone di casa era un ragazzo. Un tipo abbastanza belloccio dai capelli scuri, in posa con cappellino e guantone da baseball per la foto scolastica; accanto, la foto dei genitori orgogliosi. Riconobbi la madre: era la sorella maggiore di una mia compagna di scuola. L'idea di essere alla festa di suo figlio mi fece sentire a disagio. «Ohmiodio! Ohmiodio! Ohmiodio! Ohmiodio!» Una brunetta con gli occhi da rospo e una maglietta con la scritta «THE GAP», mi sfrecciò accanto, afferrando per un braccio un'altra ragazza con la stessa aria anfibia. «Sono venuti. Sono venuti davvero.» «Merda» commentò l'amica. «Troppo figo. Che dici, li salutiamo?» «Aspettiamo e vediamo che succede. Se J.C. non li vuole in casa sua, meglio restarne fuori.» «Certo.» Capii a chi si riferivano ancora prima di vederli. Meredith Wheeler fece il suo ingresso nella sala, trascinandosi dietro John Keene. Qualche ragazzo gli fece un cenno di saluto, alcuni gli batterono amichevolmente sulla spalla. Altri gli voltarono deliberatamente la schiena, serrando i ranghi. Per fortuna, nessuno dei due si accorse di me. Scorgendo davanti alla cucina un gruppetto di ragazze dalle gambe snelle, probabilmente ragazze pompon, Meredith fece un gridolino e si diresse verso di loro, piantando in asso John. Le ragazze furono se possibile ancora più gelide dei loro coetanei maschi. «Ciao» disse una di loro, senza sorridere. «Avevi detto che non sareste venuti.»
«Ho deciso che era assurdo. Chiunque con un minimo di cervello sa che John è innocente. E non faremo gli emarginati solo per colpa di... certe stronzate.» «Non sono stronzate, Meredith. J.C. non è affatto d'accordo con tutto questo» ribatté una rossa, probabilmente la ragazza di J.C., o forse una che aspirava a esserlo. «Parlo io con J.C.» frignò Meredith. «Lascia solo che parli con lui.» «Penso che dovreste andarvene.» «È vero che hanno preso i vestiti di John?» chiese una terza, che aveva un'aria materna. Quella che finisce sempre per tenerti sollevati i capelli mentre vomiti. «Sì, ma solo per eliminarlo completamente dai sospettati. Non perché è nei guai.» «Sì, come no» ribatté la rossa. La detestai. Meredith percorse con lo sguardo la stanza in cerca di facce amiche e, vedendomi, rimase sconcertata. Poi vide Kelsey e diventò furiosa. Lasciando accanto alla porta John, che fingeva di guardare l'ora con noncuranza e di allacciarsi una scarpa, mentre un mormorio scandalizzato cominciava a serpeggiare fra gli invitati, Meredith si avviò a grandi passi verso di noi. «Che ci fate qui?» esclamò con gli occhi pieni di lacrime, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Goccioline di sudore le imperlavano la fronte. Forse era una domanda rivolta a se stessa. «Ci ha portate Damon» trillò Amma, saltellando sulla punta dei piedi. «Non riesco a credere che tu sia qua. E di certo non posso credere che lui abbia osato mostrare la faccia.» «Mio Dio, sei una tale stronza! Che cavolo puoi saperne tu, brutta puttanella tossica?» sibilò Meredith con voce tremante. «Sempre meglio che scoparsi un assassino» replicò Amma. «Ehi, ciao, assassino!» proseguì, facendo un cenno con la mano a John, il quale parve notarla per la prima volta e subito assunse l'aria di chi ha ricevuto uno schiaffo. Fece per avvicinarsi, quando J.C. sbucò da un'altra stanza e lo prese da parte. Due ragazzoni che discutevano di omicidi e feste. Il brusio in sala divenne un mormorio sommesso, mentre tutti osservavano J.C. battere dei colpetti sulla schiena di John, in modo da sospingerlo verso l'uscita. John fece un cenno a Meredith e si avviò fuori. Lei lo seguì veloce a testa china, coprendosi il viso con le mani. Proprio un istante prima che John uscisse,
un ragazzo strillò con voce in falsetto: «Ammazzabambine!». Risatine nervose e occhi rivolti al cielo. Meredith sobbalzò, voltandosi e sibilando a denti stretti: «Andate tutti a farvi fottere!». La porta sbatté alle sue spalle. Il ragazzo di prima le fece il verso, ripetendo l'esclamazione di Meredith con una mano sul fianco e l'aria petulante. J.C. alzò di nuovo la musica e nella sala si diffuse, distorta dal sintetizzatore, una voce di adolescente che alludeva a pompini. Avrei voluto seguire John e abbracciarlo. Mai nessuno mi era mai sembrato così solo al mondo e Meredith non era certo il tipo capace di consolarlo. Che cosa avrebbe fatto rientrando sconsolatamente in quell'appartamento sopra il garage? Ma prima che potessi corrergli dietro, Amma mi afferrò per un braccio, trascinandomi di sopra, nella cosiddetta "stanza vip", dove le sue amiche bionde e due altri compagni di scuola con le teste rasate stavano rovistando negli armadi della madre di J.C., staccando gli abiti migliori dalle stampelle per costruire una specie di rifugio. Si arrampicarono sul letto, in mezzo al nido di seta e pellicce che si erano costruiti e Amma mi tirò accanto a sé, estraendo dal reggiseno una pasticca di ecstasy. «Hai mai giocato a "passalingua"?» mi domandò. Scossi il capo. «Passi l'ecstasy da una lingua all'altra, finché non si scioglie. L'ultimo che la tocca è il fortunato vincitore. Attenzione, però: questa è la roba migliore di Damon, per cui è probabile che ci stenda.» «No, grazie, sono a posto così.» Ero stata sul punto di acconsentire, finché non avevo visto l'espressione allarmata sul viso dei due ragazzi. Probabilmente, ricordavo loro la madre. «E Dai, Camille, non lo dirò a nessuno, santo cielo!» piagnucolò Amma, tormentandosi un'unghia. «Datemi una mano, sorelle.» «Ti prego, Camille!» gemettero Kylie e Kelsey. Jodes mi fissava in silenzio. Non so cosa fu a darmi il colpo di grazia, se l'Oxycontin e l'alcol che mi offuscavano il cervello, la mia pelle martoriata ("frigorifero" che scoppiettava impaziente su un braccio) oppure i funesti ricordi legati a mia madre. Fatto sta che d'un tratto Amma mi stava baciando tutta eccitata sulla guancia. Al mio cenno di assenso la lingua di Kylie si infilò in bocca a un ragazzo, che passò nervosamente la pasticca a Kelsey, la quale leccò il secondo ragazzo, che, con una lingua grande da lupo, trasferì l'ecstasy a Jodes, la quale allungò esitante la lingua verso Amma, che avviluppò la pasticca con la sua piccola lingua morbida e calda, per passarla a me, avvol-
gendomi in un abbraccio e spingendola con forza in gola, dove la sentii sbriciolarsi e sciogliersi come zucchero filato. «Bevi molta acqua» mi bisbigliò all'orecchio, per poi ridacchiare rivolta agli altri e buttarsi su una pelliccia di visone. «Cazzo, Amma, avevamo appena iniziato» la rimbeccò il ragazzo con la lingua da lupo, tutto rosso in faccia. «Camille è mia ospite» ribatté Amma altezzosa. «Inoltre, le farà bene un po' di allegria. Ha avuto una vita di merda. Anche noi abbiamo perso una sorella, come John Keene. Camille non ha mai superato la sua morte.» Lo annunciò come se stesse cercando di rompere il ghiaccio fra gli invitati a una festa: "David è proprietario di un emporio, James è appena tornato da un incarico in Francia e, oh, sì, Camille non ha mai superato la morte della sorella. Posso servirvi qualcos'altro da bere?". «Devo andare» mormorai, alzandomi bruscamente, con un top di satin rosso appiccicato alla schiena. Mi restavano circa quindici minuti prima di cominciare a sentire gli effetti dell'ecstasy e non era certo quello il posto in cui avrei voluto che succedesse. Però c'era un problema: Richard, per quanto forte bevitore, non era tipo da tollerare l'uso di sostanze stupefacenti e io sicuramente non volevo rimanere sola e strafatta nella mia afosa stanza, sentendo le prediche di mia madre. «Vieni con me» mi sussurrò Amma. Si infilò una mano nel reggiseno imbottito, recuperò una pasticca e se la ficcò in bocca, lanciando un sorriso crudele al resto del gruppo, che la guardava con aria speranzosa e delusa al tempo stesso. Per loro non ci sarebbe stato niente. «Andiamo a nuotare, Mille, è fantastico quando si è sballati» disse con un sogghigno che metteva in mostra denti perfetti. Non avevo più la forza di oppormi, era molto più facile soccombere. In un attimo eravamo giù per le scale e, passando per la cucina - sguardi perplessi degli invitati: una un po' troppo giovane, l'altra decisamente troppo vecchia -, prelevammo alcune bottiglie di acqua dal frigorifero (questa parola che ansimava di nuovo sulla mia pelle, come un cucciolo che avvista un cane più grosso) pieno di succhi di frutta, cibi cotti, frutta fresca e pane bianco. Tutt'a un tratto sentii una punta di commozione davanti a quell'innocente frigorifero familiare, così inconsapevole della degenerazione del resto della casa. «Andiamo, sono così eccitata al pensiero di nuotare» esclamò Amma, tirandomi per un braccio, impaziente come una bambina. Del resto era una bambina! "Mi sto drogando con la mia sorellina di tredici anni" sussurrai a me stessa. Ma nel giro di dieci minuti l'idea mi suscitò solo un brivido di
felicità. La mia sorellina, la ragazzina più popolare di Wind Gap, era davvero divertente e voleva stare con me. Mi voleva bene, come Marian. Sorrisi. L'ecstasy aveva rilasciato la prima ondata di ottimismo chimico, la sentivo galleggiare dentro di me, come un palloncino, e poi scoppiare sul palato, diffondendo buonumore. Mi sembrava quasi di sentirne il sapore di gelatina rosa spumeggiante. Kelsey e Kylie si apprestarono a seguirci in direzione della porta, ma Amma si voltò verso di loro, ridendo. «No, voi non venite» sghignazzò. «Rimanete qui e aiutate Jodes a farsi una bella scopata, ne ha proprio bisogno.» Kelsey si voltò a guardare accigliata Jodes, che era rimasta sulle scale con aria nervosa. Kylie lanciò un'occhiata al braccio di Amma intorno alla mia vita. Le due ragazze si fissarono. Kelsey si rannicchiò contro Amma, appoggiandole la testa su una spalla. «Non vogliamo restare qui, vogliamo venire con voi» piagnucolò. «Ti prego.» Amma la scrollò via, sorridendole come a un bambino ritardato. «Fai la brava e levati dalle palle, ok?!» esclamò. «Sono così stufa di tutte voi. Siete una tale noia.» Kelsey indietreggiò, confusa, le braccia ancora tese verso l'amica. Kylie si strinse nelle spalle e ritornò a passo di danza verso il gruppo, afferrando una birra da un ragazzo più grande e passandosi la lingua sulle labbra. Lanciò un'occhiata alle sue spalle per vedere se Amma la stesse guardando. Ma Amma non la guardava affatto, mi stava sospingendo verso l'uscita, come un cavaliere sollecito, guidandomi giù per i gradini fino al marciapiede, dalle cui crepe spuntavano minuscole acetoselle gialle. «Che belle!» esclamai, indicandole. Amma mi puntò un dito contro. «Adoro il giallo quando sono fatta. Senti già qualcosa?» Annuii. Il suo viso appariva e scompariva a ogni lampione, mentre ci dirigevamo come due automi verso la casa di Adora, del tutto dimentiche del progetto della nuotata. Sentivo la notte avvolgermi dall'alto, come una soffice e umida camicia da notte e a un tratto ebbi un flash dell'ospedale nell'Illinois, io che mi svegliavo madida di sudore, un fischio disperato nelle orecchie. La mia compagna di stanza, la ragazza pompon, cianotica e devastata dagli spasmi sul pavimento, il flacone di detergente per i vetri accanto a sé. Un grottesco fischio nell'aria. Gas post mortem. Una risata isterica da parte mia, qui adesso, a Wind Gap, che riecheggiava
quella emessa nella squallida stanza d'ospedale in una mattinata color giallo pallido. Amma infilò la mano nella mia. «Cosa ne pensi di... Adora?» Sentii il mio sballo vacillare, per poi riprendere vigore. «Penso che sia una donna molto infelice» risposi. «E turbata.» «La sento invocare dei nomi quando fa il sonnellino: Joya, Marian... te.» «Meno male che non mi tocca sentirli!» esclamai, battendole affettuosamente sulla mano. «Ma mi dispiace che tocchi a te.» «Le piace prendersi cura di me.» «Fantastico.» «Però è strano» proseguì Amma. «Dopo che lei mi ha accudito, ho voglia di fare sesso.» Si sollevò di scatto la gonna da dietro. Una fulminea visione di un tanga rosa. «Non dovresti permettere ai ragazzi di approfittarsi di te, Amma. Perché è così che stanno le cose. Alla tua età non è un atto reciproco.» «A volte se permetti agli altri di approfittarsi di te, finisci per essere tu al comando» rispose Amma, estraendo dalla tasca un lecca lecca. Alla ciliegia. «Capisci? Se vogliono farti fare qualche cazzata e tu glielo permetti, li incasini ancora di più. E allora sei tu ad avere il controllo. Sempre che tu non vada fuori di testa.» «Amma, è solo che...» Ma lei continuava a blaterare, senza ascoltarmi. «Mi piace la nostra casa» disse. «Mi piace la camera di Adora. Ha un pavimento incredibile. L'hanno pubblicato su una rivista una volta. L'articolo si intitolava Tripudio d'avorio: dimore del Sud dei bei tempi andati. Perché adesso naturalmente l'avorio è proibito. Peccato. Un vero peccato.» Si ficcò in bocca il lecca lecca e afferrò in aria una lucciola, tenendola fra due dita e strappandole la parte finale dell'addome, che poi si posò su un dito, come un anello di luce. Lasciò cadere l'insetto moribondo sull'erba e si rimirò la mano. «Com'erano con te le altre ragazze quando eri un'adolescente?» mi domandò. «Perché con me non sono affatto carine.» Cercai di conciliare l'immagine di Amma, brusca, autoritaria, talvolta inquietante (che inciampava apposta nei miei piedi nel parco. Quale tredicenne sfiderebbe così apertamente degli adulti?) con quella di una ragazzina trattata male. Amma notò la mia espressione e sembrò leggermi nel pensiero. «Non è che mi trattino male. Fanno tutto ciò che dico. Ma non mi vo-
gliono bene. Nell'istante in cui dovessi commettere un errore, sarebbero le prime a darmi contro. Talvolta rimango seduta in camera, annotando ogni singola cosa detta e fatta durante il giorno. Poi assegno dei voti, A per una mossa perfetta, F per una talmente sfigata che vorrei uccidermi.» Quando ero alle superiori, tenevo una lista di ogni vestito indossato. Per non metterlo di nuovo prima di un mese. «Come stasera, per esempio. Dave Rard, che è una matricola ed è un figo pazzesco, mi ha detto che non sapeva se sarebbe riuscito ad aspettare ancora un anno per stare con me, sai, finché non vado alle superiori. E io gli ho risposto: "E allora non aspettare". E mi sono allontanata senza degnarlo di un'occhiata, con tutti gli altri ragazzi che mi guardavano con la lingua di fuori. Ecco, questo merita una A. Ieri, invece, sono inciampata su Main Street di fronte alle ragazze e loro si sono messe a ridere. Questa è una F. O forse una D, perché da quel momento in poi sono stata talmente perfida con loro che Kelsey e Kylie si sono messe a piangere. Jodes piange sempre, perciò non vale la pena contarla.» «È molto più sicuro essere temuti che amati» commentai. «Machiavelli» ribatté Anima e scappò via ridendo e saltellando come a farsi beffe della sua età o per una genuina energia, non saprei. «Come fai a saperlo?» esclamai. Ero davvero colpita. Quella ragazzina mi piaceva ogni istante di più. Una piccola bambina intelligente e completamente marcia dentro. Suonava familiare. «So un miliardo di cose che non dovrei sapere» rispose, mentre la raggiungevo e mi mettevo a saltellare accanto a lei. L'ecstasy mi aveva rinvigorito e, pur sapendo che in circostanze normali non l'avrei mai fatto, ero troppo felice per farci caso. I miei muscoli cantavano. «A dire la verità sono molto più intelligente di gran parte degli insegnanti. Ho fatto il test d'intelligenza. Stando al risultato dovrei essere già in terza superiore, ma Adora preferisce che rimanga con i ragazzi della mia età. Ma sì, che importa? Tanto vado a fare il liceo da un'altra parte. New England.» Lo disse con il tono leggermente stupito di chi conosce il luogo solo per averlo visto in foto e che si nutre delle immagini sponsorizzate dalla Ivy League: «New England, dove si nutrono i cervelli migliori». Ma chi ero io per giudicare? Neanche io c'ero mai stata. «Devo andarmene da qui» riprese Amma, in tono affettato. «Mi annoio a morte. È per questo che faccio sempre la commedia. Lo so che a volte... esagero.»
«Con il sesso, vuoi dire?» Mi fermai, con il cuore che ballava la rumba nel petto. L'aria odorava di iris e sentivo il profumo galleggiarmi nel naso, infiltrandosi nei polmoni e nel sangue. Ben presto anche le mie vene avrebbero profumato di fiori. «No, con l'aggressività. Capisci cosa voglio dire? Ma certo che lo capisci.» Mi prese la mano, regalandomi un sorriso puro e dolce e mi accarezzò il palmo con un tocco che mi parve il migliore della mia vita. Sulla caviglia sinistra "svitata" sospirò all'improvviso. «Che cosa intendi per "aggressività"?» Eravamo nei pressi della casa di Adora e lo sballo nella mia testa era al culmine. Sentivo i capelli ondeggiarmi sulle spalle come acqua calda e anch'io ondeggiavo da una parte all'altra al suono di una musica inesistente. Un guscio di lumaca giaceva sul bordo del marciapiede e gli occhi mi si avvilupparono nelle sue spire. «Lo sai. Quel bisogno urgente di ferire il prossimo.» Lo disse con il tono di un banditore d'asta. «Per combattere noia e senso di claustrofobia ci sono modi migliori che ferire il prossimo» ribattei. «Sei intelligente, lo sai benissimo.» Mi accorsi che aveva infilato le dita nei polsini della mia camicia e che stava palpando le cicatrici. Non la fermai. «Ti tagli, Amma?» «Io ferisco» squittì e si mise a piroettare per la strada, con la testa gettata all'indietro e le braccia spalancate come ali di cigno. «E mi piace da pazzi!» gridò. L'urlo echeggiò sino in fondo alla strada, dove la casa di mia madre si ergeva impettita come un soldato di guardia sull'angolo. Amma continuò a volteggiare finché non cadde a terra; nell'impatto uno dei suoi braccialetti ad anello d'argento si sganciò e zigzagò lungo la strada come un ubriaco. Avrei voluto comportarmi da adulta e approfondire l'argomento, ma l'ecstasy mi piombò di nuovo addosso e così sollevai Amma da terra (rideva, con i gomiti feriti e sanguinanti) e mi avviai verso casa volteggiando insieme a lei. Il volto di Amma era raggiante - il sorriso da un orecchio all'altro, i denti perfetti e scintillanti - e a un tratto mi resi conto quanto potessero sembrare invitanti per un serial killer. Piccole perle bianche e scintillanti, gli incisivi simili a piccole tessere di un mosaico da tavolo. «Sono così felice quando sto con te» rise Amma, alitandomi in faccia il suo fiato caldo che sapeva di alcol. «Sei come... la mia anima gemella.» «Sei come... mia sorella» ribattei. Sacrilegio? Non me ne importava. «Ti voglio bene» gridò Amma.
Volteggiavamo così velocemente che le mie guance sbatacchiavano, facendomi il solletico. Ridevo come una bambina. "Non sono mai stata felice come in questo momento." La luce rosata del lampione, i lunghi capelli di Amma che mi solleticavano le spalle, i suoi zigomi alti sul viso abbronzato. Allungai la mano per toccargliene uno, lasciando la stretta che mi univa a lei e causando uno sbilanciamento che ci fece finire a terra. Sentii l'osso della caviglia sbattere contro il bordo del marciapiede e il sangue esplodere, schizzandomi sulla gamba. Bollicine rosse cominciarono a sprizzare sul petto di Amma per l'impatto con il suolo. Lei abbassò lo sguardo, poi mi guardò con occhi scintillanti, fece scorrere un dito sulla ragnatela di sangue che aveva sul petto, lanciò un lungo grido e infine mi appoggiò la testa in grembo, ridendo. Passandosi un dito sulla pelle raccolse una goccia di sangue con il polpastrello e, prima che potessi fermarla, me la passò sulle labbra. Aveva un sapore metallico speziato di miele. Amma alzò lo sguardo su di me e mi strofinò il dito sulla faccia, e io la lasciai fare. «So bene che tu pensi che Adora preferisca me, ma ti sbagli» mormorò. Come evocata, la luce sotto il portico di casa nostra, in cima alla collina, si accese. «Ti va di dormire in camera mia?» mi propose Amma a voce più bassa. Ebbi una fugace visione di noi due nel suo letto, che ci bisbigliavamo segreti sotto le lenzuola a pois, addormentandoci abbracciate e poi mi resi conto che l'immagine che stavo evocando era quella di me e di Marian. Lei, scappata dal lettino d'ospedale, addormentata accanto a me. Il dolce mormorio che emetteva mentre si accoccolava contro il mio corpo. Avrei dovuto riportarla in camera sua prima che Adora si svegliasse l'indomani mattina. Momenti di grande drammaticità nella casa silenziosa, quei cinque secondi in cui la trascinavo lungo il corridoio, oltrepassando la camera di mia madre, nel timore che la porta si spalancasse all'improvviso, eppure quasi sperando che succedesse. «Non è malata, mamma.» Era ciò che avevo progettato di urlare, se mai fossimo state scoperte. «Non è un problema che si sia alzata dal letto, perché non è malata sul serio.» Avevo dimenticato quanto disperatamente volessi crederci. Grazie all'ecstasy, comunque, in quel momento mi sembravano solo bei ricordi, che si susseguivano veloci, come le pagine di un libro girate da un bambino. Marian compariva come un coniglietto di peluche in queste fantasie, un coniglietto travestito da mia sorella. Mi sembrava quasi di poterne toccare la pelliccia, quando fui riportata al presente dai capelli di Amma
che mi solleticavano la gamba. «Allora, ti va?» ripeté lei. «Non stasera, Amma. Sono stanca morta e voglio dormire nel mio letto.» Era la verità. La droga aveva colpito duro e poi si era dissolta. Sapevo che nel giro di dieci minuti sarei tornata lucida e non volevo averla intorno nella fase down. «Posso dormire in camera tua, allora?» Amma si alzò in piedi alla luce del lampione, la minigonna jeans che le pendeva dalle minuscole ossa delle anche, il top di traverso e stracciato. Uno sbaffo di sangue vicino alle labbra. Aria speranzosa. «No. Meglio dormire separate. Ci vedremo domani mattina.» Amma non rispose, si voltò e corse velocissima verso casa, con i piedi che scalciavano dietro di lei come nei cartoni animati «Amma!» urlai, rincorrendola. «Aspetta, d'accordo, puoi dormire con me, ok?» Cercare di non perderla di vista attraverso l'oscurità e l'offuscamento della droga era come inseguire qualcuno guardandosi alle spalle in uno specchio. Non mi accorsi che Amma aveva fatto dietrofront e che mi stava correndo incontro. Mi piombò addosso, andando a sbattere con la fronte contro la mia mascella e cademmo di nuovo, questa volta sul marciapiede. La mia testa fece uno strano suono colpendo terra e sentii una fitta di dolore lancinante ai denti. Per un istante rimasi sdraiata a terra, con i capelli di Amma avvolti intorno al polso e una lucciola che lampeggiava al ritmo delle mie pulsazioni. Poi Amma cominciò a ridere, portandosi le mani alla fronte, che era già diventata bluastra come la buccia di una prugna. «Merda, mi sa che mi hai ammaccato la faccia.» «E tu mi hai rotto la testa» sussurrai. Mi misi seduta, stordita. Un fiotto di sangue, che il contatto con il marciapiede aveva tenuto a freno, mi colò sul collo. «Cristo, Amma, sei troppo violenta!» «Pensavo che ti piacesse.» Allungò una mano e mi tirò su, con il sangue che mi colava lungo il viso. Poi si tolse dal medio un anellino d'oro con una pietra verde pallido e me lo infilò al mignolo. «Ecco, voglio che lo porti tu.» Scossi il capo. «Chiunque te l'abbia dato, voleva che lo portassi tu.» «Me l'ha dato Adora, più o meno. Non gliene importa, credimi. Voleva darlo ad Ann, ma... be', Ann non c'è più, perciò l'anello è rimasto lì, dimenticato. Abbastanza brutto, eh? Fingo sempre che me l'abbia regalato. Il che è improbabile, dato che mi odia.»
«Adora non ti odia.» Ci incamminammo verso il portico illuminato in cima alla collina. «A te non vuole bene» azzardò Amma. «No, infatti.» «Be', non vuole bene neanche a me. Solo, in modo diverso.» Salimmo le scale, schiacciando sotto le scarpe bacche di gelso. L'aria aveva l'odore della glassa sulle torte dei bambini. «Dopo la morte di Marian ti ha voluto più bene?» domandò, infilando il braccio sotto il mio. «No, meno.» «Perciò non è stata d'aiuto.» «Che cosa?» «La sua morte non è stata d'aiuto.» «No. Ora fa' piano finché non arriviamo in camera mia, d'accordo?» Salii di soppiatto le scale, tenendomi una mano sulla ferita alla nuca per tamponare il sangue. Amma mi seguì, fermandosi ad annusare una rosa in un vaso dell'ingresso e sorridendo al proprio riflesso nello specchio. Dalla camera di Adora il solito silenzio, rotto dal solito ronzio del ventilatore dietro la porta chiusa. Richiusi l'uscio di camera mia, mi sfilai le scarpe da ginnastica ormai fradice e macchiate di residui d'erba tagliata, fregai via un residuo di succo di gelso spiaccicato sulla gamba e cominciai a togliermi la camicia prima di accorgermi dello sguardo di Amma fisso su di me. Mi infilai subito nel letto, fingendo di essere troppo esausta per spogliarmi completamente. Mi tirai su le coperte e mi accoccolai lontana da Amma, bofonchiando una buonanotte. Sentii che lei lasciava cadere gli abiti a terra e un istante dopo la luce si spense e mia sorella era accoccolata a letto accanto a me, con addosso solo le mutandine. Mi venne da piangere all'idea di riuscire a dormire semisvestita accanto a qualcuno, senza preoccuparmi di quale parola potesse scivolar fuori da una manica o dal bordo dei pantaloni. «Camille?» La voce di Amma, bassa, infantile e insicura. «Dicono che talvolta l'impulso di infliggere dolore è un bisogno imperioso, a cui non ci si può sottrarre, se non a rischio di diventare completamente insensibili.» «Mm.» «E se fosse il contrario?» bisbigliò Amma. «Se invece la gente lo facesse perché è una sensazione bellissima? Come un prurito, come se ci fosse un interruttore sotto la pelle che si accende solo infliggendo dolore? Capisci cosa voglio dire?»
Finsi di dormire. Finsi di non sentire le sue dita che seguivano i contorni della parola "svanire" sulla mia nuca. Un sogno. Marian, con la camicia da notte fradicia di sudore e un ricciolo biondo incollato alla guancia. Mi prende per mano e cerca di tirarmi fuori dal letto. "Non sei al sicuro qui" bisbiglia. "Non sei al sicuro." Le dico di lasciarmi in pace. 13 Erano le due passate quando mi svegliai, con lo stomaco sottosopra e la mascella dolorante per aver digrignato i denti per cinque ore di seguito. Fottuta ecstasy. Pensai che nemmeno Amma doveva essere messa molto meglio. C'erano alcune sue ciglia sul cuscino accanto al mio. Le feci scivolare sul palmo della mano, accarezzandole con un dito. Rigide di mascara, lasciarono una chiazza di inchiostro blu scuro sulla mia pelle. Le feci scivolare in un piattino sul comodino. Poi andai in bagno e vomitai. Mi piace vomitare. Quando stavo male da bambina, mia madre mi teneva indietro i capelli, mormorandomi con voce dolce: «Butta fuori quella robaccia. Non smettere finché non è uscita tutta». Di conseguenza i conati, la sensazione di spossatezza e gli sputi mi piacciono. Prevedibile, lo so, ma vero. Chiusi a chiave la porta, mi strappai di dosso i vestiti e mi infilai nuovamente a letto. Il dolore partiva dall'orecchio sinistro, scendendo lungo tutto il collo, fino alla spina dorsale. Avevo le viscere contratte. Riuscivo a stento a muovere la bocca e la caviglia mi bruciava da morire. E sanguinavo ancora. Si capiva dalle chiazze rosse sulle lenzuola. Anche il lato di Amma era insanguinato: piccole macchie dove si era graffiata il petto e una macchia più scura sul cuscino. Sentivo la testa pulsarmi dolorosamente e non riuscivo a respirare. Dovevo sapere se mia madre era al corrente di quanto era successo. Aveva già visto Amma? Ero nei guai? Mi prese il panico. Stava per succedere qualcosa di orribile. Anche in quello stato paranoico, mi resi conto di quello che cosa stava davvero succedendo: i miei livelli di serotonina, aumentati dalla droga la notte prima, erano precipitati, lasciandomi in una valle di lacrime. Me lo ripetei anche mentre giravo la faccia sul cuscino scoppiando a piangere. Mi ero dimenticata di quelle due bambine, peggio ancora, non ci avevo mai pensato veramente: Ann e Natalie, entrambe morte. E, soprattutto, avevo tradito Marian, rimpiazzandola con Amma e ignorandola nei
miei sogni. Le conseguenze non avrebbero tardato a farsi sentire. Piansi nello stesso modo convulso e purificatore con cui avevo vomitato, finché il cuscino fu completamente zuppo e il mio viso gonfio come quello di un ubriacone. Poi sentii la maniglia della porta muoversi. Mi costrinsi a tacere, accarezzandomi la guancia e sperando che il silenzio convincesse l'intruso, chiunque fosse, ad andarsene. «Camille, apri la porta.» Mia madre, ma non arrabbiata. Voce suadente, perfino gentile. Rimasi in silenzio. Ancora un paio di tentativi con la maniglia. Un leggero bussare. Poi silenzio e il rumore dei suoi passi che si allontanavano. "Camille, apri la porta." Il ricordo di mia madre che incombeva su di me con un cucchiaio di sciroppo dall'odore pestilenziale. Le sue medicine mi facevano sempre stare peggio. Stomaco debole. Non come quello di Marian, ma comunque debole. Le mani cominciarono a sudare. "Ti prego, fa' che non torni." Ebbi una fugace visione di Curry, con una delle sue vistose cravatte ballonzolante sulla pancia, che irrompeva nella stanza per salvarmi. Che mi portava via nella sua Ford Taunus, con Eileen che mi accarezzava i capelli, mentre tornavamo a Chicago. Mia madre introdusse una chiave nella serratura. Non sapevo che avesse la chiave di quella stanza. Entrò in camera mia con aria soddisfatta, il mento sollevato con aria di sfida, la chiave appesa a un lungo nastro rosa. Indossava un prendisole blu e teneva in mano un flacone di alcol, una scatola di fazzoletti e un beauty-case di raso rosso. «Bambina mia» sospirò. «Amma mi ha raccontato che cosa vi è capitato. È tutta la mattina che va avanti e indietro dal bagno. Poverine. So che sembra un vanto ciò che sto per dire, ma, a parte quella della nostra piccola impresa di famiglia, la carne di questi tempi sta diventando del tutto inaffidabile. Amma ha detto che probabilmente è stato il pollo.» «Immagino di sì» mormorai. Non potevo fare altro che assecondare la scusa inventata da Amma. Era chiaro che mia sorella riusciva a gestire la situazione molto meglio di me. «Non riesco ancora a credere che siate svenute tutte e due proprio sulle scale di casa, mentre io ero dormivo in camera. Detesto il solo pensiero» proseguì Adora. «E vedessi le sue ferite! Sembra quasi che sia finita in un tafferuglio!» Non era verosimile che mia madre si fosse bevuta quella panzana. Era esperta in fatto di malattie e ferite e non ci sarebbe mai cascata, se non
perché voleva cascarci. Adesso si sarebbe presa cura di me e io mi sentivo troppo debole e disperata per respingerla. Ricominciai a piangere, incapace di fermarmi. «Mi sento male, mamma.» «Lo so, bambina mia.» Mi strappò via le lenzuola, buttandole indietro con un unico movimento fluido. Istintivamente mi coprii con le braccia, ma Adora me le scostò, appoggiandole con fermezza lungo i fianchi. «Devo vedere cosa c'è che non va, Camille.» Mi girò il viso da una parte e poi dall'altra, abbassandomi il labbro inferiore, come se stesse ispezionando un cavallo. Sollevò lentamente prima un braccio e poi l'altro, esaminandomi le ascelle e tastandole con le dita, per poi toccarmi la gola in cerca di ghiandole gonfie. Ricordavo la procedura. Mi mise una mano fra le gambe, veloce e professionale. Era il modo migliore per sentire la temperatura, diceva sempre. Poi, leggermente e con delicatezza, fece scorrere le dita fresche lungo le gambe, finendo con il pollice nella ferita aperta sulla caviglia. Lampi accecanti mi esplosero davanti agli occhi e istintivamente mi rannicchiai, voltandomi su un fianco. Adora approfittò della posizione per tastarmi la testa finché trovò la ferita. «Ancora un attimo, Camille e poi ho finito.» Inumidì un fazzoletto con l'alcol e mi fregò la caviglia finché non fui accecata dalle lacrime che si mescolavano al muco che mi colava dal naso. Poi la fasciò strettamente con la garza, che tagliò usando le forbicine del beauty rosso. La ferita cominciò a sanguinare impregnando la fasciatura, che ben presto venne ad assomigliare alla bandiera giapponese: bianca con uno smagliante cerchio rosso al centro. Subito dopo mi tenne ferma la testa e sentii che cominciava a tagliare i capelli tutt'intorno alla ferita. Cercai di sottrarmi a quell'operazione. «Non provarci, Camille, potrei ferirti. Rimani ferma e fai la brava.» Mi premette una mano fresca sulla guancia, tenendomi la testa ferma sul cuscino e, zac, zac, zac, si insinuò fra le ciocche di capelli finché non sentii una strana sensazione di fresco. Un'innaturale esposizione all'aria a cui il mio cuoio capelluto non era abituato. Toccandomi la testa, sentii una piccola tonsura della dimensione di una moneta. Mia madre allontanò lesta la mia mano e cominciò a disinfettarmi con l'alcol. Di nuovo mi mancò il fiato per il dolore. Mi fece adagiare nuovamente sulla schiena e passò un asciugamano umido su gambe e braccia, come se fossi un'inferma costretta a letto. I suoi occhi erano arrossati nei punti in cui si era strappata le ciglia. Le guance
erano soffuse di un rossore da scolaretta. Prese il beauty-case e si mise a frugare fra varie boccette e tubetti, estraendo un pezzetto di stoffa arrotolato da cui tirò fuori una pillola blu elettrico. «Ancora un istante, tesoro.» La sentii scendere in fretta le scale e capii che si stava avviando in cucina. Poi gli stessi passi affrettati che tornavano in camera mia. Aveva un bicchiere di latte in mano. «Ecco, Camille, buttala giù con questo.» «Che cos'è?» «Una medicina. Previene le infezioni e ripulisce dai batteri che puoi aver ingurgitato con quel pollo.» «Che cos'è?» domandai nuovamente. Il petto di mia madre si chiazzò di rosso e il suo sorriso cominciò a vacillare, come la fiamma di una candela. «Camille, sono tua madre e tu sei in casa mia.» Occhi arrossati. Distolsi lo sguardo e sentii un'altra ondata di panico. Qualcosa di orribile. Qualcosa che avevo fatto. «Camille, apri la bocca.» Voce suadente. "Infermiera" prese a pulsarmi sotto l'ascella sinistra. Da bambina rifiutavo sempre di prendere tutte quelle medicine e così mi ero alienata definitivamente il suo amore. Mi venne in mente Amma che mi supplicava di accettare la sua offerta di ecstasy. Rifiutare aveva molte più conseguenze che sottomettersi. Sentivo la pelle bruciare nei punti in cui mia madre mi aveva disinfettato e provai la stessa sensazione di appagamento di quando mi tagliavo. Pensai ad Amma e a quanto sembrasse felice, avvolta nell'abbraccio di mia madre, fragile e sudata. Mi voltai verso di lei, lasciai che mi posasse la pillola sulla lingua, mi versasse il latte in gola e mi baciasse. Nel giro di pochi minuti ero addormentata, il puzzo del mio fiato che aleggiava nei sogni come una nebbia fetida. Mia madre entrava in camera mia, dicendomi che ero malata. Si sdraiava su di me e mi baciava sulla bocca. Sentivo il suo alito in gola. Poi cominciava a mordicchiarmi e quando si ritraeva, sorridendomi e lisciandomi i capelli all'indietro, sputava nel palmo della mano i miei denti. Mi svegliai all'imbrunire accaldata e stordita, con un filo di saliva rappreso sul collo. Ero esausta. Mi avvolsi in un accappatoio leggero e rico-
minciai a piangere, ripensando alla piccola tonsura sulla testa. "È solo la fase down dell'ecstasy" sussurrai tra me e me, accarezzandomi una guancia. "Un brutto taglio di capelli non è la fine del mondo. Ti farai la coda di cavallo." Mi trascinai lungo il corridoio, le giunture che scricchiolavano e le nocche che mi dolevano per qualcosa che non riuscivo a ricordare. Al piano di sotto mia madre stava canticchiando. Bussai alla porta di Amma e mi giunse una flebile risposta. Mia sorella era seduta per terra nuda, di fronte all'enorme casa delle bambole, con il pollice in bocca. Aveva occhiaie quasi violacee e la fronte e il petto fasciati da mia madre. Aveva avvolto la sua bambola preferita nella carta velina punteggiata di rosso con il pennarello e l'aveva messa a letto. «Che cosa ti ha fatto?» mi domandò con aria assonnata e un mezzo sorriso. Mi voltai per farle vedere la medicazione sulla testa. «E poi mi ha dato qualcosa che mi ha fatto sentire stordita e in preda alla nausea» soggiunsi. «Una pillola blu?» Annuii. «Sì, è la sua preferita» bofonchiò Amma. «Ti addormenti tutta accaldata e con un filo di saliva che ti scende dalla bocca, e lei può portare qui le sue amiche e mostrarti come un fenomeno da baraccone. «È questo che ti fa?» Mi sentii gelare sotto il sudore. Avevo ragione, allora: stava per succedere qualcosa di orribile. Amma si strinse nelle spalle. «Non me ne importa. A volte non la inghiotto nemmeno... faccio solo finta. Così siamo contente tutte e due. Gioco con le bambole, leggo e, quando la sento arrivare, faccio finta di dormire.» «Amma?» Mi sedetti per terra accanto a lei e le accarezzai i capelli. Dovevo muovermi con cautela. «Ti dà spesso pillole o roba del genere?» «Solo quando vede che mi sento male.» «Che sintomi hai?» «Certe volte sono tutta accaldata e agitata e lei mi deve fare bagni freddi. A volte mi viene da vomitare. Altre volte comincio a tremare, mi sento stanca e debole e ho solo voglia di dormire.» Stava accadendo di nuovo. Proprio come con Marian. Sentii la bile che mi saliva in gola, i muscoli che si irrigidivano. Ricominciai a piangere, mi
alzai, poi mi risedetti, con lo stomaco in subbuglio. Mi presi la testa fra le mani. Amma e io eravamo malate proprio come Marian. Avevo dovuto sbatterci contro per riuscire finalmente a capire... con quasi vent'anni di ritardo. Avrei voluto urlare dalla frustrazione e dalla vergogna. «Gioca con me alle bambole, Camille.» Non si era accorta delle mie lacrime o aveva deciso di ignorarle. «Non posso, Amma, devo lavorare. Ricordati di fingere di dormire quando torna la mamma.» Mi infilai a fatica i vestiti sul corpo dolorante e mi guardai allo specchio. "Stai sragionando. Stai diventando pazza. No, non è così. Mia madre ha ucciso Marian. Mia madre ha ucciso quelle due bambine." Arrancai fino in bagno, mi inginocchiai sul water e vomitai un fiotto di liquido caldo e salato, mentre gli spruzzi dell'acqua dello scarico mi solleticavano le guance. Una volta liberato lo stomaco, mi accorsi di non essere sola. Mia madre era in piedi accanto a me. «Povero tesoro» mormorò. Sobbalzai e mi allontanai a carponi, appoggiandomi con la schiena alla parete e alzando lo sguardo su di lei. «Perché sei vestita, tesoro?» domandò. «Non puoi andare da nessuna parte.» «Devo uscire. Ho del lavoro da fare. E poi un po' d'aria mi farà bene.» «Camille, torna subito a letto» esclamò lei con voce alterata. Marciò determinata verso il mio letto e, dopo aver tirato indietro le lenzuola, ci batté sopra con la mano. «Vieni, tesoro, con la salute non si scherza.» Mi rimisi in piedi, afferrai le chiavi della macchina e le passai accanto di corsa. «Non posso, mamma. Non ci metterò molto.» Lasciai Amma al piano di sopra con le sue bambole malate, mi infilai in macchina e imboccai il vialetto d'ingresso a velocità tale da ammaccare il paraurti anteriore quando la collina bruscamente lasciò il posto alla strada pianeggiante. Una donna grassa che spingeva una carrozzina scosse la testa con aria di riprovazione. Cominciai a vagare senza meta, cercando di mettere a fuoco i pensieri che mi brulicavano in testa e passando mentalmente al vaglio i volti delle persone che conoscevo a Wind Gap. Avevo bisogno di qualcuno che mi dicesse chiaro e tondo se avevo torto o ragione su mia madre. Qualcuno che conoscesse Adora, che fosse stato testimone della mia infanzia e che fosse rimasto in città anche dopo la mia partenza. D'un tratto ripensai a
Jackie O'Neele, al suo profumo di Juicy Fruit, alle sue sbornie e ai suoi pettegolezzi. Alla sua aria protettiva nei miei confronti e al suo commento, che ora suonava tanto come un monito, "Troppe cose sono andate storte". Era Jackie la persona giusta. Jackie, l'amica respinta, completamente senza filtri, una donna che conosceva mia madre da una vita. E che, evidentemente, aveva cercato di dirmi qualcosa. La casa di Jackie era a pochi minuti da quella di mia madre, una villa moderna che voleva ricordare una dimora coloniale. Un ragazzino pelle e ossa ingobbito su un tosaerba fumava e spingeva la macchina avanti e indietro. Aveva la schiena punteggiata da foruncoli infiammati, così grossi da sembrare ferite. Un'altra vittima dell'anfetamina. Jackie avrebbe fatto meglio a dare i venti dollari della paga direttamente al suo pusher. Riconobbi la donna che venne ad aprire la porta: Geri Shilt, una mia compagna di liceo, più vecchia di me di un anno. Indossava un'uniforme inamidata, proprio come Gayla e aveva ancora quel grosso neo tondo sulla guancia per cui mi aveva sempre fatto pena. Alla vista di Geri, un volto così comune del passato, fui sul punto di voltare le spalle, risalire in macchina e ignorare tutte le mie paure. Una presenza tanto normale nel mio mondo mi indusse a chiedermi che cosa stavo mai pensando. E tuttavia non me ne andai. «Ciao, Camille, che posso fare per te?» Sembrava del tutto indifferente al motivo della mia visita, una mancanza di curiosità che la distingueva nettamente dal resto delle donne di Wind Gap. Probabilmente non aveva amiche con cui spettegolare. «Ciao, Geri. Non sapevo che lavorassi per gli O'Neele.» «E perché mai avresti dovuto saperlo?» ribatté lei. I tre tigli maschi di Jackie, nati a pochissima distanza l'uno dall'altro, dovevano essere ormai sui vent'anni. Li ricordavo come ragazzoni robusti dal collo taurino, che indossavano sempre pantaloncini sportivi di poliestere e l'anello della scuola con una vistosa pietra blu al centro. Avevano preso gli occhi esageratamente tondi e i denti sporgenti di Jackie. Jimmy, Jared e Johnny. Almeno due di loro adesso dovevano essere a casa, in vacanza dalla scuola, e riuscivo a immaginarmeli mentre giocavano a palla nel giardino sul retro. Dall'espressione di stolida rassegnazione sul volto di Geri dedussi che il modo migliore per sopravvivere era starsene alla larga. «Sono tornata qui...» esordii. «Sì, lo so perché sei tornata» mi interruppe lei in tono non accusatorio, ma nemmeno affabile. La sua era una pura e semplice constatazione. Ero
soltanto un altro ostacolo nella sua giornata. «Mia madre è amica di Jackie e pensavo...» «So bene chi sono le amiche di Jackie, credimi» ribatté Geri. A quanto pareva, non aveva intenzione di farmi entrare. Mi squadrò dall'alto al basso per poi lanciare un'occhiata alla macchina alle mie spalle. «Jackie è amica di molte madri delle tue amiche» aggiunse. «Mm, non ho molte amiche qui in questo periodo.» Era un fatto di cui andavo fiera, ma, nel dirlo, accentuai deliberatamente il tono deluso. Più Geri provava simpatia nei miei confronti, prima mi avrebbe fatta entrare. Dovevo assolutamente parlare con Jackie, prima di cambiare idea. «A dire il vero, credo di non averne avute molte neppure quando vivevo qui.» «Katie Lacey. Anche sua madre fa parte delle amiche di Jackie.» La vecchia, cara Katie Lacey, che mi aveva trascinato alla festa di donne per poi rivoltarsi contro di me. Me la vedevo sfrecciare in città sul suo SUV fiammante, con le sue deliziose bambine appollaiate dietro, perfettamente agghindate e pronte a tiranneggiare l'intero asilo. Dalla mamma avevano imparato a essere particolarmente crudeli con le loro coetanee brutte e povere, che volevano solo essere lasciate in pace. Ma sarebbe stato chiedere troppo. «Katie Lacey è una donna di cui mi vergogno di essere stata amica.» «Già, be', tu eri a posto» mormorò Geri. E in quel momento mi ricordai che ai tempi della scuola aveva un cavallo di nome Butter, "burro". La battuta era che ovviamente perfino il cavallo di Geri era ingrassante. «Non direi proprio.» Non avevo mai partecipato direttamente agli scherzi e alle crudeltà, ma non avevo neppure mai cercato di oppormi. Mi ero limitata a starmene in disparte e a far finta di ridere. Geri continuava a stare sulla soglia, rigirandosi intorno al polso il cinturino dell'orologio da quattro soldi, chiaramente persa nei ricordi. Brutti ricordi. E allora perché era rimasta a Wind Gap? Da quando ero tornata non facevo altro che imbattermi in volti noti, ragazze con cui ero cresciuta e che non avevano mai avuto la forza di andarsene. Era una città che alimentava la soddisfazione con la tivù via cavo e un ipermercato. Chi era rimasto continuava a essere segregato come prima. Le ragazze molto carine come Katie Lacey, che adesso vivevano, com'era prevedibile, in ville poco distanti dalla nostra, giocavano nello stesso tennis club di Adora e compivano gli stessi pellegrinaggi a Saint Louis per lo shopping, mentre le ragazze brutte - le vittime, quelle come Geri Shilt - erano confinate a pulire le case
di quelle carine, a testa china, in attesa di altre angherie. Non erano donne abbastanza forti o abbastanza furbe da andarsene. Erano donne prive di immaginazione. Così se ne stavano a Wind Gap e continuavano a vivere la stessa vita di quando erano adolescenti in una spirale senza fine. E adesso anch'io ero confinata qui insieme a loro, incapace di tirarmene fuori. «Vado a dire a Jackie che sei qui.» Geri prese la strada più lunga per arrivare alle scale di servizio, passando attraverso la sala invece che davanti ai pannelli di vetro della cucina che l'avrebbero esposta alle occhiate dei figli di Jackie. La stanza in cui mi fece accomodare era tutta bianca, punteggiata di luminose chiazze di colore, come se un bambino birichino l'avesse dipinta con un dito. Cuscini rossi, tende gialle e blu, un vaso verde brillante colmo di fiori di ceramica rossi. Una foto in bianco e nero di Jackie con un'espressione particolarmente maliziosa, i capelli al vento e le mani dalle lunghe unghie graziosamente ripiegate sotto il mento, era appesa sopra il camino. Sembrava che fosse un cane da grembo agghindato di tutto punto. Perfino nel mio stato di malessere mi venne da ridere. «Camille, tesoro!» Jackie attraversò la stanza con le braccia tese. Indossava una vestaglia di raso e orecchini di diamanti grandi come nocciole. «Sei venuta a trovarmi. Hai un aspetto terribile, ragazza mia. Geri, portaci due Bloody Mary, svelta!» Emise una specie di ululato, prima rivolta a me, poi a Geri. Suppongo che fosse una risata. Geri si attardò sulla soglia, finché Jackie non batté le mani. «Forza, Geri, dico sul serio! E stavolta ricordati di mettere il sale sul bordo del bicchiere.» Si voltò verso di me. «È così difficile trovare del personale in gamba di questi tempi» borbottò seria, senza rendersi conto che nessuno usava espressioni del genere, se non alla tivù. Jackie sicuramente guardava la televisione dalla mattina alla sera, senza sosta, un drink in una mano, il telecomando nell'altra e le tende chiuse, mentre i programmi della mattina lasciavano il posto alle soap opera e ai processi, per finire con vecchi film, sit-com, telefilm polizieschi e film della notte su donne stuprate, pedinate, tradite o uccise. Geri tornò con i Bloody Mary su un vassoio, insieme a ciotole di sedano, cetriolini e olive. Poi, come le fu chiesto, chiuse le tende e se ne andò. Jackie e io rimanemmo sedute a fissarci per qualche secondo nella stanza tutta bianca con l'aria condizionata. Poi lei si chinò in avanti e aprì il cassetto del tavolino. Conteneva tre flaconi di solvente per smalto, una Bibbia
e una decina di confezioni di medicinali con obbligo di prescrizione. Pensai a Curry e alle sue rose senza spine. «Un antidolorifico? Ne ho di ottimi.» «Sarà meglio che rimanga lucida» ribattei, incerta se parlasse sul serio. «Potresti quasi aprire una farmacia.» «Oh, sì, sono molto fortunata.» Mi sembrava di sentire l'odore della sua rabbia mescolato a quello del succo di pomodoro. «Oxycontin, Percocet, Percodan, tutti gli ultimi prodotti del campionario del mio medico. Ma devo ammettere che sono uno sballo.» Si versò alcune pasticche bianche sul palmo della mano, poi le inghiottì e mi sorrise. «Che cos'hai?» domandai, quasi paventando la risposta. «Qui viene il bello, tesoro. Nessuno ne capisce un cazzo. Lupus, dice uno; artrite, dice un altro; una specie di sindrome autoimmune, dice un terzo; è tutto nella mia testa, dicono il quarto e il quinto.» «E tu che cosa pensi?» «Che cosa penso io?» ripeté, alzando gli occhi al cielo. «Penso che finché continuano a prescrivermi farmaci, non me ne importa più di tanto.» Scoppiò di nuovo a ridere. «Davvero, sono un vero sballo.» Era difficile capire se stesse solo cercando di essere coraggiosa o fosse davvero assuefatta. «Sono sorpresa che Adora non si sia ancora allineata» sghignazzò poi. «Una volta ammalata io, pensavo che le sarebbe scattato il solito spirito competitivo, no? Certo non uno stupido lupus. Avrebbe trovato qualcosa di più... non so, magari un tumore al cervello, che dici?» Ingollò un sorso di Bloody Mary che le lasciò uno sbaffo rosso sul labbro superiore. Il secondo sorso parve calmarla e lei prese a fissarmi come se cercasse di memorizzare il mio viso. «Santo Dio, mi fa impressione vederti cresciuta» disse, accarezzandomi il ginocchio. «Perché sei qui, tesoro? Va tutto bene a casa? Probabilmente no. Si tratta di... tua madre?» «No, no, assolutamente.» Detestavo essere così prevedibile. «Oh.» Con aria delusa, si portò tremando una mano alla vestaglia, come in un vecchio film in bianco e nero. Avevo sbagliato approccio. Dimentico sempre che in questo posto i pettegolezzi vengono incoraggiati. «No, scusa, non sono stata sincera con te. Certo che voglio parlare di mia madre.» Jackie si rasserenò subito. «Non riesci proprio a capirla, vero? Angelo o diavolo, o entrambi, vero?» Si infilò un cuscino di raso verde sotto il sede-
re ossuto e mi posò i piedi sulle gambe. «Tesoro, non me li massaggeresti un po'? Sono puliti.» Da sotto il divano, estrasse un sacchetto pieno di dolcetti di ogni tipo, come quelli che si distribuiscono ad Halloween e se lo appoggiò sull'addome. «Dio, dovrò sbarazzarmi di questi dolci prima o poi, ma sono così buoni!» Approfittai di questo momento di spensieratezza. «Mia madre è sempre stata... come adesso?» Mi sentii avvampare per l'imbarazzo, ma Jackie ridacchiò, come una strega. «Che cosa vuoi dire, tesoro... Bella? Affascinante? Adorata? Perfida?» Agitò le dita dei piedi, mentre scartava un cioccolatino. «Massaggia.» Iniziai a massaggiarle i piedi freddi, le piante dure come il carapace di una tartaruga. «Adora... ecco... Adora era ricca e bella e quegli svitati dei suoi genitori erano padroni della città. Sono stati loro a portare quel maledetto stabilimento dei maiali a Wind Gap, creando centinaia di posti di lavoro... C'era anche una piantagione di noci. Erano loro a dettare legge. Tutti leccavano i piedi ai Preaker.» «Ma come andavano le cose... a casa?» «Adora era accudita in modo soffocante da sua madre. Non ho mai visto tua nonna Joya sorriderle o farle una carezza affettuosa, ma non riusciva a toglierle le mani di dosso. Sempre lì ad aggiustarle i capelli, sistemarle i vestiti e... oh, faceva quella cosa. Invece di inumidirsi il pollice per toglierle qualche sbaffo, leccava direttamente Adora. Le afferrava la testa e la leccava in faccia. Quando Adora si scottava al sole - un tempo succedeva a tutti, non usavamo le creme protettive come si fa adesso - Joya le toglieva la camicia e la spellava, togliendole lunghe striscioline di pelle. Le piaceva moltissimo farlo.» «Jackie...» «Non sto dicendo bugie. Dover assistere allo spettacolo della tua migliore amica spogliata nuda di fronte a te e... strigliata come un cavallo. Neanche a dirlo, tua madre si ammalava in continuazione. Aveva sempre tubicini e aghi infilati da qualche parte.» «Di che cosa si ammalava?» «Un po' di tutto. In gran parte era lo stress di vivere con Joya. Le sue lunghe unghie non dipinte, come quelle di un uomo. E i suoi lunghi capelli grigi, che le scendevano a metà schiena...» «Dov'era mio nonno in tutto ciò?» «Non lo so. Non ricordo neanche come si chiamava. Herbert? Herman? Non c'era mai e anche quando c'era, se ne stava zitto e... in disparte. Hai
presente il tipo? Uguale ad Alan.» Scartò un altro cioccolatino e agitò le dita dei piedi. «Sai, il fatto di essere rimasta incinta di te avrebbe potuto rovinarla» proseguì in tono di rimprovero, come se avessi fallito un compito banale. «Per qualunque altra ragazza, incinta prima del matrimonio, nella Wind Gap di allora sarebbe stata la fine. Ma tua madre aveva un modo tutto suo di indurre la gente a coccolarla. E intendo proprio tutti... non solo i ragazzi, ma anche le ragazze, le loro madri, gli insegnanti.» «E come mai?» «Tesoro, una bella ragazza riesce sempre a cavarsela se sa giocare bene la partita. Dovresti saperlo. Pensa a tutte le cose che i ragazzi hanno fatto per te nel corso degli anni e che non avrebbero fatto se non avessi quel faccino. E se i ragazzi sono gentili, lo sono anche le ragazze. Adora si giocò la carta della gravidanza in maniera magistrale: orgogliosa, un po' avvilita e molto riservata. Tuo padre venne per quella fatale visita e poi non si rividero mai più. Tua madre non ne parlò mai. Fin dall'inizio tu eri solo sua. E la cosa uccise Joya. Sua figlia aveva finalmente qualcosa su cui lei non poteva mettere le mani.» «Mia madre non si ammalò più dopo la morte di Joya?» «Per un po' stette bene» rispose Jackie, guardandomi da sopra l'orlo del bicchiere. «Ma, del resto, di lì a non molto nacque Marian e non ci fu più molto tempo per ammalarsi.» «Mia madre era...» Sentii un singhiozzo salirmi in gola e lo deglutii con un sorso del mio drink. «Mia madre era una brava persona?» Jackie ridacchiò. Si infilò in bocca un altro cioccolatino e lo masticò, lasciando che le nocciole le si incastrassero fra i denti. «È questo che vuoi sapere? Se era una brava persona?» Fece una pausa. «Tu che ne dici?» mi chiese, prendendomi in giro. Poi si mise di nuovo a frugare nel cassetto, aprì tre flaconi di medicinali, prese una pillola da ognuno e le sistemò in ordine decrescente sul dorso della mano sinistra. «Non lo so. Lei e io non siamo mai state molto unite.» «Ma hai vissuto con lei. Non fare giochetti con me, Camille. Mi stancano. Se pensi che tua madre sia una brava persona, perché sei qui a chiederlo alla sua migliore amica?» Jackie si mise in bocca le pillole, una dopo l'altra, le masticò insieme alla cioccolata e le inghiottì. Aveva il petto costellato di carte di cioccolatino, lo sbaffo rosso le attraversava ancora il labbro superiore e i denti erano
macchiati di cioccolato. I suoi piedi avevano cominciato a sudare nelle mie mani. «Scusa, hai ragione» mormorai. «Solo... ecco, credi che sia malata?» Jackie smise di masticare, mise una mano sulla mia e sospirò. «Fammelo dire ad alta voce, perché è da troppo tempo che ci penso e i pensieri mi giocano brutti scherzi a volte, sfuggono via, come se cercassi di catturare un pesce a mani nude.» Si chinò verso di me, stringendomi un braccio. «Adora cerca di divorarti e, se non glielo permetti, è ancora peggio. Guarda quello che sta succedendo ad Amma. Guarda quello che è successo a Marian.» Sì! "Groviglio" cominciò a formicolare proprio sotto il seno sinistro. «Perciò tu pensi che....» la incalzai. "Dillo!" «Penso che sia malata e penso che sia contagiosa» bisbigliò Jackie, facendo tintinnare il ghiaccio nel bicchiere con mani tremanti. «E penso sia ora che tu te ne vada, tesoro.» «Sì, scusa, non volevo stancarti.» «Voglio dire da Wind Gap. Qui non sei al sicuro.» Meno di un minuto dopo mi chiudevo la porta di quella stanza alle spalle, lasciando Jackie a fissare la propria foto che le sorrideva maliziosamente da sopra il camino. 14 Nello scendere i gradini di casa di Jackie le gambe mi tremavano a tal punto che per poco non finii a terra. Alle mie spalle sentii i suoi figli intonare l'inno della squadra di football del liceo. Salii in macchina, girai l'angolo e parcheggiai in un boschetto di gelsi, appoggiando la testa al volante. Mia madre era davvero malata? E Marian? E Amma e io? A volte penso che la malattia sia insita in ogni donna, in attesa del momento giusto per manifestarsi. Ho conosciuto troppe donne malate nella mia vita. Donne con dolori cronici, con malattie in continua gestazione, con malesseri costanti. Gli uomini, certo, si rompono le ossa, soffrono di mal di schiena, subiscono un'operazione o due, si tolgono le tonsille, si fanno mettere una protesi all'anca. Ma le donne si consumano. Non c'è da meravigliarsi, considerando l'incredibile viavai cui è soggetto il corpo di una donna. Assorbenti interni e divaricatori, cazzi, dita, vibratori e quant'altro, fra le gambe, da dietro, in bocca. Gli uomini adorano infilare cose dentro le donne, non è così? Cetrioli, banane e bottiglie, un filo di perle, un pennarello, un pugno.
Una volta un tizio voleva infilarmi un walkie-talkie. Ho declinato l'offerta. Malate, malate, sempre più malate. Che cos'era reale e che cosa non lo era? Amma era davvero malata e aveva bisogno delle medicine di mia madre o erano quelle medicine a farla ammalare? La pillola blu che Adora mi dava mi faceva vomitare o mi impediva di stare peggio? Marian avrebbe potuto salvarsi e sopravvivere se non avesse avuto Adora come madre? Avrei dovuto chiamare Richard, ma non sapevo che cosa dirgli. Sono spaventata. Sono furibonda. Voglio morire. Tornai indietro, superando la casa di mia madre, e proseguii verso lo stabilimento dei maiali, fermandomi da Heelah, la simpatica bettola senza finestre dove, anche se avessero riconosciuto la figlia della proprietaria, l'avrebbe saggiamente lasciata in pace con i propri pensieri. Il posto puzzava di sangue e di urina di animale; perfino i popcorn sul bancone del bar sapevano di carne. Un paio di uomini con cappellino da baseball e giacche di pelle, baffi a manubrio e sguardi corrucciati alzarono un attimo gli occhi, per poi tornare alle loro birre. Il barista mi versò un bourbon senza dire una parola. Una canzone di Carole King ronzava dagli altoparlanti. Al secondo giro, il barista fece un cenno della testa per indicare qualcosa alle mie spalle. «Cercava lui?» John Keene sedeva accasciato sul suo bicchiere nell'unico séparé del bar, intento a scrostare con le dita i bordi scheggiati del tavolo. La carnagione pallida era chiazzata di rosso per i troppi drink e, dalle sue labbra umide e dal modo in cui faceva schioccare la lingua, capii che aveva già vomitato. Presi il mio bicchiere e mi sedetti di fronte a lui, senza dire nulla. John mi sorrise e allungò una mano sul tavolo per sfiorare la mia. «Ciao, Camille, come stai? Hai un'aria così carina e pulita.» Si guardò intorno. «Qui dentro è tutto così sporco!» «Sto abbastanza bene, grazie, John. E tu?» «Oh, alla grande. Mia sorella è stata assassinata, stanno per arrestarmi e la mia ragazza, che mi si è incollata da quando mi sono trasferito in questo schifo di città, sta cominciando a capire che non sono poi quella grande conquista. Non che me ne importi. Meredith è carina, ma...» «Un po' scontata?» azzardai. «Sì, già. Stavo per rompere con lei prima della morte di Natalie. Adesso non posso più farlo.» Una mossa del genere sarebbe stata analizzata al microscopio dall'intera
città... Richard compreso. "Che cosa vorrà dire?" "Significa che lui è colpevole?" «Non tornerò a casa dei miei» aggiunse poi. «Preferisco andare in quel fottuto bosco e uccidermi piuttosto che tornare là dentro, con tutte le cose di Natalie che sembrano fissarmi.» «Non posso darti torto.» Prese la saliera e cominciò a farla girare come una trottola sul tavolo. «Sei l'unica, penso» mormorò. «L'unica che capisce che cosa significhi perdere una sorella, mentre tutti si aspettano che in qualche modo tu ti rassegni e vada avanti. "L'hai superata, sì o no?"» Sputò le parole con tale amarezza che mi aspettavo quasi di vedere la sua lingua diventare gialla. «È una cosa che non superi mai» mormorai. «È come un bubbone che ti infetta dall'interno. A me ha rovinato la vita.» Mi fece bene dirlo ad alta voce. «Perché tutti trovano così strano che io pianga mia sorella?» Rovesciò la saliera, che cadde a terra. Il barista ci lanciò un'occhiata di rimprovero. La raccolsi e la rimisi sul tavolo dalla mia parte, poi mi gettai un pizzico di sale oltre la spalla, per tutti e due. «Forse perché sei così giovane, la gente si aspetta che tu prenda queste cose con maggiore indifferenza» risposi. «E poi sei un maschio e i maschi non piangono in pubblico.» John sbuffò. «I miei genitori mi hanno comprato un libro su come affrontare il tema della morte: Maschio in lutto. Dice che talvolta può far bene estraniarsi e limitarsi a negare l'accaduto. Che la negazione fa bene agli uomini. Così ho provato a prendermi un'ora e a far finta che non me ne importasse nulla. Per un po' ha funzionato. Me ne sono rimasto seduto nella mia stanza a casa di Meredith e ho pensato a... stronzate. Ho guardato il rettangolo di cielo azzurro fuori dalla finestra, continuando a ripetermi: "Va tutto bene; va tutto bene". Come se fossi tornato bambino. E una volta passata l'ora ho capito senza ombra di dubbio che niente sarebbe mai andato più bene. Nemmeno se prendessero il colpevole. Non capisco perché tutti insistano a dire che ci sentiremo meglio quando lo arresteranno. E adesso pare proprio che sarò io a essere arrestato.» Rise senza allegria e scosse la testa. «È tutto talmente folle.» E poi cambiando bruscamente argomento: «Ti va di bere ancora? Con me?». John era già completamente sbronzo e ondeggiava pesantemente, ma non avrei mai negato a un compagno di sofferenze il sollievo del momentaneo oblio che una sbornia può offrire. Talvolta è l'unica via di salvezza.
Ho sempre pensato che la sobrietà sia per i duri di cuore. Andai al bancone, dove mi concessi un bicchierino veloce, e poi tornai al tavolo con due bourbon. Per me, doppio. «Sembra quasi che abbiano deciso di uccidere le uniche due bambine di Wind Gap in grado di ragionare con la propria testa» osservò John. Bevve un sorso di bourbon. «Pensi che tua sorella e mia sorella sarebbero state amiche?» In una terra immaginaria dove entrambe fossero state vive e Marian non fosse mai invecchiata. «No» risposi e scoppiai a ridere. Anche John rise. «Quindi la tua sorellina morta era troppo in gamba per la mia sorellina morta?» commentò. Scoppiammo di nuovo a ridere per poi incupirci bruscamente e tornare ai nostri bicchieri. Mi sentivo già intontita. «Non ho ucciso Natalie» bisbigliò John. «Lo so.» Mi prese una mano e la posò sulla sua. «Aveva le unghie smaltate quando l'hanno trovata. Qualcuno le aveva dipinto le unghie» farfugliò. «Magari se le era dipinte da sola.» «Natalie odiava quel genere di cose. A stento si spazzolava i capelli.» Silenzio per diversi minuti. Carol King aveva lasciato il posto a Carly Simon. Voci femminili folk per un bar di macellai. «Sei così bella» mormorò John. «Anche tu sei bello.» Nel parcheggio John si frugò addosso in cerca delle chiavi della macchina e, quando gli feci notare che era troppo ubriaco per guidare, me le allungò senza fare storie. Non che io me fossi molto più sobria di lui. Guidai come in trance verso la casa di Meredith, ma quando fummo nelle vicinanze John scosse il capo e mi chiese di accompagnarlo in un motel appena fuori città. Lo stesso in cui mi ero fermata arrivando da Chicago, il piccolo rifugio dove prepararsi ad affrontare Wind Gap e tutti i suoi fardelli. Procedemmo lentamente, l'aria calda della notte entrava dai finestrini aperti, incollando al petto la maglietta di John e facendo svolazzare le maniche lunghe della mia camicia. A parte la folta capigliatura, il ragazzo era quasi glabro; perfino sulle sue braccia c'era solo una peluria chiara. Sembrava quasi nudo e bisognoso di protezione. Pagai io la stanza, la numero 9, perché John non aveva carte di credito.
Poi gli aprii la porta, lo misi seduto sul letto e gli portai un bicchiere di plastica pieno d'acqua tiepida. John si guardò i piedi e si rifiutò di prenderlo. «John, devi bere un po' d'acqua.» Lui la tracannò tutta d'un fiato. E lasciò cadere il bicchiere di fianco al letto. Poi mi afferrò la mano. Cercai di tirarmi indietro, più che altro per istinto, ma lui strinse più forte. «Ho visto anche questo l'altro giorno» mormorò, seguendo con un dito la "e" di "spregevole" che spuntava dall'orlo della manica. Poi allungò l'altra mano e mi accarezzò il viso. «Posso guardare?» «No.» Cercai di nuovo di sottrarmi alla stretta. «Fammi vedere, Camille» insistette lui, senza lasciare la presa. «No, John. Nessuno può vedere.» «Io sì.» Mi arrotolò la manica della camicia fino al gomito, strizzando gli occhi per decifrare i caratteri sulla pelle. Non so perché lo lasciai fare. Aveva un'espressione così vulnerabile. E io ero sopraffatta dalla debolezza, dopo una giornata del genere. Ed ero stufa: più di dieci anni passati a nascondermi. Mai una volta in cui, parlando con un amico, con una delle mie fonti, con la cassiera del supermercato, non fossi stata sul chi vive, nel timore che una delle cicatrici sbucasse fuori da qualche parte. Che John guardasse pure! Sì, Dio, che guardasse! Che senso aveva nascondersi da una persona in cerca di oblio quanto me? Lui arrotolò l'altra manica ed ecco le mie braccia esposte, così nude da lasciarmi senza fiato. «Nessuno hai mai visto questa roba?» Scossi il capo. «Da quanto ti fai questo, Camille?» «Da tanto.» Mi fissò le braccia, spingendo ancora più in su le maniche. Mi baciò nel mezzo di "esausto". «È così che mi sento» mormorò, facendo scorrere le dita sulle cicatrici, sino a farmi venire la pelle d'oca. «Fammi vedere tutto.» Mi sfilò la camicia dalla testa, mentre io me ne stavo seduta come un bambino ubbidiente. Mi tolse calze e scarpe, tirò giù i pantaloni. In slip e reggiseno rabbrividii nella stanza gelida, con l'aria condizionata che mi arrivava a fiotti. John tirò indietro il copriletto, mi fece segno di salire completamente sul letto e io ubbidii, sentendo freddo e caldo allo stesso tempo.
Lui mi esaminò le braccia, le gambe, mi fece voltare sulla schiena. E cominciò a leggere ad alta voce le parole sulla mia pelle, quelle rabbiose e quelle senza senso: "forno", "disgustosa", "castello". Si tolse i vestiti, per colmare lo squilibrio fra noi, li gettò a terra alla rinfusa e ricominciò a leggere. "Focaccina", "depravata", "groviglio", "spazzola". Mi sganciò il reggiseno con un rapido movimento delle dita e me lo sfilò. "Bocciolo", "dosaggio", "bottiglia", "sale". Gli era venuto duro. Accostò la bocca a un capezzolo. Era la prima volta, da che avevo cominciato a tagliarmi sul serio, che permettevo a un uomo di farlo. Quattordici anni. Fece scorrere le mani su di me e io lo lasciai fare: schiena, seno, cosce, spalle. La sua lingua in bocca, lungo il collo, sui capezzoli, fra le gambe e poi di nuovo sulla mia bocca. Sentii il mio sapore sulle sue labbra. Le parole rimasero tranquille. Mi sentivo esorcizzata. Lo guidai dentro di me e venni in fretta e con foga, e poi di nuovo. Sentivo le sue lacrime sulle spalle mentre rabbrividiva dentro di me. Ci addormentammo avvinghiati l'uno all'altra (una gamba che spuntava da una parte, un braccio dietro la testa) e sentii ronzare una sola parola: "presagio". Buono o cattivo, non lo sapevo ancora. In quel momento optai per buono. Stupida pazza. L'alba colorò i rami degli alberi, facendoli sembrare centinaia di minuscole mani fuori dalla finestra. Mi avvicinai nuda al lavandino per riempire un bicchiere di acqua, visto che eravamo entrambi assetati e in preda al doposbornia. La debole luce del sole colpì crudelmente le cicatrici, riportando in vita le parole. Fine dell'assoluzione. Arricciai involontariamente il labbro superiore per il disgusto alla vista della mia pelle martoriata e mi avvolsi in un asciugamano prima di ritornare a letto. John prese un sorso d'acqua e, tenendomi abbracciata, me ne versò un po' in bocca, inghiottendo d'un fiato il resto. Le sue dita corsero all'asciugamano, ma io me lo tenni stretto intorno al petto, scuotendo la testa. «Che c'è?» mi sussurrò all'orecchio. «L'impietosa luce del giorno» sussurrai di rimando. «È arrivato il momento di abbandonare l'illusione.» «Quale illusione?» «Che tutto andrà bene» risposi, dandogli un bacio sulla guancia. «No, non ancora» ribatté lui, avvolgendomi tra le sue braccia. Quelle braccia così sottili e lisce. Le braccia di un ragazzo. Una cosa che mi ripetevo, ma che non mi impediva di sentirmi bene. Al sicuro. Bella. Pulita.
Gli annusai il collo: liquore e dopobarba dall'odore forte e pungente, quello che schizza fuori dal flacone color blu ghiaccio. Quando riaprii gli occhi, scorsi il lampeggiatore di un'autopattuglia fuori dalla finestra. Toc, toc, toc. La porta vibrò sui cardini come se potesse essere abbattuta con un soffio. «Camille Preaker. Sono Bill Vickery. Se è lì dentro, apra la porta.» Afferrammo i vestiti, disseminati per terra, lo sguardo di John impaurito come quello di un uccellino. Tintinnio di fibbie e fruscio di stoffa che avrebbero rivelato la nostra presenza a chi stava fuori. Rumori frenetici, colpevoli. Ributtai alla meglio le lenzuola sul letto e mi ravviai i capelli con le dita, mentre John, alle mie spalle, assumeva un atteggiamento fintamente disinvolto, con i pollici infilati nei passanti dei pantaloni. Andai ad aprire la porta. Richard. Camicia bianca perfettamente stirata, cravatta a righe, un sorriso che si spense non appena scorse John. Vickery, accanto a lui, si grattava i baffi come se avesse un'eruzione cutanea, con gli occhi che guizzarono da me a John, prima di fermarsi su Richard. Richard non disse una parola, limitandosi a fissarmi. Poi incrociò le braccia e inspirò profondamente. Di sicuro la stanza odorava di sesso. «Be', a quanto pare stai bene» disse, sforzandosi di fare un sorriso. Ma aveva il collo rosso come quello dei personaggi adirati dei cartoni animati. «E tu, John, come stai? Bene?» «Bene, grazie» rispose John, mettendosi al mio fianco. «Signorina Preaker, sua madre ci ha chiamati qualche ora fa, perché non l'ha vista tornare a casa» borbottò Vickery. «Ci ha detto che lei non era stata molto bene, che era caduta o qualcosa del genere. Era preoccupata. Molto preoccupata. Tra l'altro, con tutte le cose orribili che sono capitate negli ultimi tempi, non si è mai troppo sicuri. Immagino che sarà contenta di sapere che lei è... qui.» L'ultimo commento conteneva una domanda inespressa, alla quale non intendevo rispondere. A Richard dovevo una spiegazione. A Vickery no. «Chiamerò subito mia madre, grazie. Apprezzo molto il vostro interessamento.» Richard si guardò i piedi, mordendosi le labbra, era la prima volta che lo vedevo davvero turbato. Lo stomaco mi si contrasse per la tensione. Lui fece un lungo sospiro, con la mano sul fianco, fissando prima me e poi John. Ragazzini colti in fallo. «Vieni, John, ti portiamo a casa» disse poi.
«Mi accompagna Camille, ma grazie comunque, detective Willis.» «Sei maggiorenne, figliolo?» domandò Vickery. «Ha diciotto anni» rispose Richard per lui. «Be', allora, vi auguro una buona giornata» concluse Vickery, reprimendo un sorriso all'indirizzo di Richard e mormorando: «Visto che la notte è già stata ottima». «Ti telefono più tardi, Richard» dissi. Lui alzò una mano in segno di saluto, mentre si girava e si avviava alla macchina. John e io rimanemmo perlopiù in silenzio durante il viaggio di ritorno verso la casa dei suoi genitori, dove lui avrebbe cercato di dormire un po' nella sala giochi del seminterrato. John aveva cominciato a fischiettare un motivetto degli anni Cinquanta, battendo il tempo sulla maniglia della portiera. «È andata tanto male?» domandò alla fine. «Per te... non direi. Hai dato prova di essere un vero eroe a stelle e strisce, con sani appetiti per le donne e per il sesso occasionale.» «Non è stato sesso occasionale. Non l'ho vissuto per niente così. E tu?» «No, ho usato la parola sbagliata. Anzi è stato esattamente il contrario» risposi. «Ma ho dieci anni e passa più di te e mi sto occupando degli omicidi... È conflitto di interessi. Giornalisti molto più bravi di me sono stati licenziati per cose simili.» Ero consapevole della luce del giorno che mi colpiva il viso, con le rughe agli angoli degli occhi e l'età che incombeva impietosa. Il volto di John, malgrado la sbornia e la mancanza di sonno, era liscio come il petalo di un fiore. «Ieri notte... mi hai salvato la vita. Se non fossi rimasta con me, avrei commesso qualche sciocchezza. Ne sono certo, Camille.» «Anche tu mi hai fatta sentire al sicuro» ribattei. Era la verità, ma le parole mi uscirono nel tono affettato di mia madre. Lasciai John a un isolato dalla casa dei suoi genitori, girando il viso all'ultimo istante, in modo che il suo bacio andasse a finire sulla guancia e non sulla bocca. "Nessuno può provare che sia successo qualcosa" pensai in quel momento. Ritornai verso Main Street e parcheggiai davanti al comando di polizia. Lungo la strada c'era ancora un lampione acceso. Le 5.47 di mattina. Non trovando nessun centralinista dietro il bancone nell'atrio, suonai il campa-
nello delle chiamate notturne. Il deodorante per ambienti emanò una zaffata di profumo al limone proprio sopra la mia spalla. Suonai di nuovo e Richard comparve dietro il rettangolo di vetro della porta che conduceva agli uffici. Rimase a fissarmi per un istante e proprio mentre mi aspettavo che mi voltasse le spalle e se ne andasse, anzi quasi lo speravo, aprì la porta ed entrò nell'atrio. «Da dove preferisci cominciare, Camille?» Si sedette su una sedia imbottita e si prese la testa fra le mani, lasciando oscillare la cravatta fra le gambe. «Non è come sembra, Richard» esordii. «So che suona come un cliché, ma è la verità.» "Negare, negare, negare." «Camille, solo quarantott'ore dopo che io e te abbiamo fatto sesso, ti trovo in una stanza di motel con il principale sospettato in un'indagine di omicidio. Non sarà come sembra, ma anche così, credimi, è piuttosto brutto.» «Non è stato lui, Richard, ne sono assolutamente certa.» «Davvero? Parlavate di questo, mentre lui te lo ficcava dentro?» "Rabbia" pensai. "Bene. Questa la so gestire. Meglio della disperazione e della testa fra le mani." «Non è successo niente del genere, Richard. L'ho trovato da Heelah, completamente sbronzo e ho pensato davvero che potesse commettere qualche sciocchezza. L'ho portato al motel perché volevo rimanere sola con lui e ascoltare che cosa avesse da dirmi. Ho bisogno di lui per il mio articolo. E sai cos'ho scoperto? Che la tua indagine ha distrutto quel ragazzo, Richard. E quel che è peggio, sono certa che neanche tu lo consideri colpevole.» Solo l'ultima frase era del tutto vera e me ne resi conto solo nel momento in cui la pronunciai. Richard era intelligente, molto ambizioso, un bravo poliziotto alle prese con il suo primo caso importante, con un'intera comunità che esigeva a gran voce un arresto e non aveva ancora nessuna pista. Se avesse avuto qualcosa di più sostanzioso su John, l'avrebbe già arrestato da giorni. «Camille, malgrado quel che pensi, non sai tutto di questa indagine.» «Credimi, Richard, non ho mai pensato una cosa del genere. Mi sono sempre sentita solo un'inutile estranea. Sei riuscito a scoparmi senza rivelarmi niente. Niente fughe di notizie con te.» «Ah, è per questo che sei ancora incazzata? Pensavo che fossi un'adulta.»
Silenzio. Un'altra zaffata di deodorante al limone. Riuscivo a sentire vagamente il ticchettio dell'orologio da polso di Richard. «Lascia che ti dimostri quanto so stare al gioco» mormorai. Era come se avessi inserito il pilota automatico, come ai vecchi tempi: disperatamente smaniosa di piacergli, di compiacerlo, di fare sì che mi volesse di nuovo. Per qualche istante la notte prima mi ero sentita in pace con me stessa, ma la comparsa di Richard sulla porta del motel aveva distrutto quel poco di calma apparente. La rivolevo. Mi inginocchiai e cominciai ad abbassargli la cerniera dei pantaloni. Per un istante lui mi appoggiò la mano sulla nuca. Poi, però, mi afferrò rudemente per le spalle con entrambe le mani. «Camille, Cristo, ma che diavolo credi di fare?» Si rese conto di quanto mi stringesse forte e lasciò la presa, facendomi rialzare. «Volevo solo sistemare le cose fra noi» mormorai, giocherellando con un bottone della sua camicia, senza osare guardarlo negli occhi. «Non in questo modo, Camille!» ribatté. Mi diede un casto bacio sulle labbra. «Bisogna che tu lo sappia subito, prima che ci spingiamo oltre. Punto e basta.» Poi mi chiese di andarmene. Cercai invano di inseguire qualche ora di sonno sul sedile posteriore della macchina. Fu come tentare di decifrare un cartello stradale fra i vagoni di un treno in corsa. Mi svegliai sudaticcia e di pessimo umore. Allo spaccio comprai uno spazzolino da denti e un dentifricio, una lozione per il corpo e lo spray per capelli più profumato che riuscii a trovare. Mi lavai i denti nel bagno di una stazione di servizio, mi passai la lozione sotto le ascelle e fra le gambe e applicai lo spray ai capelli. L'odore che ne risultò era un misto di sudore e sesso, avvolto in una nuvola di fragola e aloe. Non potevo sopportare il pensiero di affrontare mia madre a casa e assurdamente pensai di lavorare un po'. (Come se avessi ancora potuto scrivere quell'articolo. Come se non fossimo stati tutti sul punto di finire all'inferno.) Mi ricordai di Katie Lacey nominata da Geri Shilt e così decisi di andare a trovarla. Era una delle madri rappresentanti nella scuola elementare, per cui aveva conosciuto sia Natalie sia Ann. Anche mia madre aveva ricoperto quel ruolo, una posizione molto ambita, a cui potevano aspirare solo le donne che non lavoravano: piombare nelle classi due volte alla settimana per aiutare a organizzare eventi artistici o musicali o, solo per le ragazze, lezioni di cucito il giovedì. Almeno, ai miei tempi era il cucito. A-
desso probabilmente si trattava di qualcosa di più moderno e unisex. L'uso del computer o del forno a microonde per principianti. Katie, come mia madre, viveva in cima a una collina. La gradinata di accesso alla casa tagliava attraverso il prato ed era bordata di girasoli. Una catalpa si ergeva sottile ed elegante come un dito, ideale compagna della tarchiata quercia alla sua destra. Erano appena le dieci, ma Katie, snella e abbronzata, stava già prendendo il sole sul terrazzo, accanto a un ventilatore che rinfrescava l'aria. Sole senza calura. Magari avesse potuto trovare una soluzione per il sole senza cancro alla pelle. O, perlomeno, senza rughe. Mi vide salire le scale e si schermò gli occhi con una mano per capire chi fosse la figura indistinta che si stagliava contro il verde intenso del prato. «Chi è?» gridò. I capelli, biondo naturale al liceo, erano adesso biondo platino racchiusi in una coda di cavallo alta sulla testa. «Ciao, Katie, sono Camille.» «Camiiiilleee!! Oh, mio Dio, arrivo subito.» Era un benvenuto molto più caloroso di quanto mi aspettassi, visto che non ci eravamo più sentite dopo la serata a casa di Angie. Ma i suoi sbalzi di umore andavano e venivano come temporali estivi. Saltellò fino alla porta, con quei suoi brillanti occhi azzurri che risaltavano sul viso scuro. Le braccia erano abbronzate e magre come quelle di un bambino e mi ricordarono i piccoli sigari francesi che Alan si era messo a fumare un inverno. Mia madre lo aveva confinato nel seminterrato, chiamato pomposamente "sala da fumo". Alan ben presto aveva lasciato perdere i sigari e si era buttato sul porto. Katie si era infilata una canotta rosa shocking sul bikini, simile a quelle che le ragazzine si compravano alla fine degli anni Ottanta, come souvenir delle gare di Miss Maglietta Bagnata. Mi avvolse nelle sue braccia che sapevano di burro di cacao e mi condusse all'interno. Niente aria condizionata in questa vecchia casa, come in quella di mia madre, mi spiegò. Avevano però un condizionatore portatile nella camera matrimoniale. Le bambine, immaginai, potevano anche sudare. Non che fossero trascurate, peraltro. Tutta l'ala est della casa sembrava un parco giochi in miniatura, completo di casetta di plastica gialla e di cavallino a dondolo di design. Nessuno di quei giochi sembrava essere mai stato usato. Grandi lettere colorate erano allineate sulla parete a formare i nomi delle piccole: Mackenzie e Emma. Foto di bambine bionde sorridenti, nasini all'insù e occhi vitrei, bocche socchiuse per respirare. Mai un primo piano, però: le foto erano
sempre scattate per immortalare il modo in cui erano vestite. Grembiulini rosa con margherite, abitini rossi con calzamaglie a pois e cappellini di paglia. Bambine graziose con abitini ancora più graziosi. Ecco, avevo appena creato uno slogan per i negozi di abbigliamento di Wind Gap. Katie Lacey Brucker sembrava indifferente al motivo per cui mi trovavo a casa sua, quel venerdì mattina. Parlammo di un libro che stava leggendo - la biografia di un personaggio famoso - e del fatto che i concorsi di bellezza per bambini fossero stati rovinati per sempre dal caso di JonBenet, la piccola reginetta di bellezza rapita e uccisa alcuni anni prima. «Mackenzie muore dalla voglia di fare la modella.» Be', è carina come sua madre, chi può biasimarla? «Oh, Camille come sei gentile... Non mi sono mai accorta che tu pensassi che ero carina.» Oh, suvvia, non essere sciocca. «Ti va qualcosa da bere?» Sì, grazie. «Non teniamo alcolici in casa.» Ma certo, non è ciò che intendevo bere. «Del tè freddo?» Oh, tè freddo... fantastico, è impossibile trovarlo a Chicago, incredibile quanto ti manchino le piccole specialità regionali, dovresti vedere come trattano il prosciutto lassù. È fantastico essere di nuovo a casa. Katie tornò con il tè freddo in una caraffa di cristallo. Strano, perché dalla sala l'avevo vista estrarre un grande tetrapak di tè dal frigo. L'importante è salvare le apparenze, pensai, sentendomi subito dopo in colpa. Neanch'io ero stata particolarmente onesta con lei. Anzi, avevo addirittura camuffato il mio odore naturale con un alone di essenze artificiali. Aloe e fragola, con una sottile sfumatura di deodorante per ambienti al limone che mi era rimasta sulla spalla. «Questo tè è fantastico, Katie. Potrei bere tè a ogni pasto, lo giuro.» «Come trattano il prosciutto dalle tue parti?» Katie raccolse i piedi sotto di sé e si protese verso di me. Mi fece tornare in mente i tempi della scuola, quello sguardo così serio, come se volesse memorizzare la combinazione di una cassaforte. Non mangio prosciutto, non l'ho più toccato dal giorno in cui da piccola ero andata a visitare lo stabilimento di famiglia. Per quanto non fosse giorno di macellazione, ciò che avevo visto mi aveva tenuto sveglia per intere notti: centinaia di animali talmente stipati nei recinti da non potere neanche girarsi, e poi il nauseabondo odore di sangue e di escrementi. Un flash di Amma intenta a fissare le gabbie. «Non ci mettono abbastanza zucchero di canna.» «Mm. A proposito, ti va un panino o qualcos'altro? Ho il prosciutto dello stabilimento di tua madre, il manzo di Deacons, il pollo di Coveys e il tac-
chino di Lean Cuisine.» Katie avrebbe preferito sgobbare per casa tutto il giorno, pulire la cucina con uno spazzolino da denti e togliere la lanugine dalle assi del pavimento con uno stuzzicadenti, piuttosto che affrontare argomenti spiacevoli. Perlomeno da sobria. Tuttavia riuscii a convincerla a parlare di Ann e di Natalie, garantendole l'anonimato, e accesi il registratore. Le bambine erano carine ed educate... i soliti convenevoli retorici. Poi, però... «C'è stato in effetti un incidente con Ann, nel giorno del cucito.» Il giorno del cucito, dunque, era sempre in voga. C'era un che di confortante in tutto ciò, immagino. «Infilzò Natalie Keene sulla guancia con l'ago. Credo che mirasse agli occhi, sai, come Natalie aveva fatto con quella sua compagna nell'Ohio.» "A Filadelfia." «Un attimo prima erano sedute tranquille l'una accanto all'altra - non che fossero amiche, erano in classi diverse, ma il cucito è obbligatorio per tutte -, Ann canticchiava sommessamente un motivetto e sembrava proprio una donnina. E poi improvvisamente il disastro.» «Natalie si è fatta molto male?» «Mm, non particolarmente. Rae Whitescarver e io... Lei insegna in seconda elementare adesso... Ti ricordi?, a scuola era soprannominata Piccola Rae, di qualche anno più giovane di noi... e nient'affatto piccola. Perlomeno allora... adesso ha perso alcuni chili. In ogni modo, quando Rae e io siamo riuscite a strapparle Ann di dosso, Natalie aveva l'ago conficcato in una guancia, a pochi centimetri dall'occhio. Non ha pianto, né niente. Ansimava e sbuffava come un cavallo imbizzarrito.» Un'immagine di Ann con i capelli arruffati che cuciva, ricordando la storia di Natalie e delle sue forbici, un atto di violenza che la rendeva così diversa. E prima che lei avesse potuto rifletterci, l'ago era stato piantato nella carne con un unico movimento rapido. Natalie con quello spuntone di metallo che fuoriusciva dalla guancia, come uno spillone d'argento. «L'ha fatto per qualche motivo in particolare?» «Una cosa che ho imparato a proposito di quelle due è che non avevano bisogno di una vera ragione per colpire.» «Le altre bambine le prendevano in giro? Le tormentavano?» «Ha-ha!» rise lei, con aria genuinamente sorpresa. «Diciamo che la scuola non era certo il loro posto preferito. Ma faresti meglio a chiederlo alla tua sorellina.» «Lo so, mi hai detto che Anima le tormentava...» «Dio ci aiuti quando quella ragazzina andrà alle superiori!»
Aspettai in silenzio che Katie Lacey Brucker affilasse gli artigli e cominciasse a parlarmi di mia sorella. Brutte notizie, probabilmente. Ecco perché era così contenta di vedermi. «Ricordi come ci comportavamo al liceo? Quel che pensavamo fosse figo diventava figo e chi non ci andava a genio veniva detestato da tutti.» Aveva assunto un'aria sognante, come se stesse pensando a una terra fatata di gelati e coniglietti. Mi limitai ad annuire. Ricordavo una mia azione particolarmente crudele: una ragazza superseria di nome LeeAnn, un'amica dei tempi delle elementari, si era preoccupata un po' troppo per il mio stato mentale, sostenendo che potevo essere depressa. Così un giorno in cui lei era corsa da me per parlarmi prima dell'inizio delle lezioni, l'avevo snobbata platealmente. Me la ricordo ancora: i libri sotto il braccio, una bizzarra gonna a motivi stampati, la testa leggermente inclinata quando parlava. Le avevo voltato le spalle, escludendola dal gruppetto di ragazze con cui mi trovavo e facendo commenti acidi sui suoi vestiti da suora. Le ragazze ci erano andate a nozze. Per il resto della settimana LeeAnn era stata presa di mira e sbeffeggiata. Aveva trascorso gli ultimi due anni di superiori a pranzare con gli insegnanti. Avrei potuto mettere fine a quella situazione con una parola. Ma non l'avevo fatto. Avevo sentito il bisogno di tenerla a distanza. «Tua sorella è come noi, ma tre volte di più. E ha una notevole vena di violenza.» «In che senso?» Katie estrasse un pacchetto morbido di sigarette dal cassetto del tavolino e ne accese una con un lungo fiammifero da camino. Fumava ancora di nascosto. «Oh, lei e quelle tre biondine con le tette hanno in pugno la scuola. E Amma ha in pugno loro. Sul serio, la faccenda è grave. A volte è divertente, ma perlopiù è una cosa seria. Ogni giorno si fanno portare il pranzo da una cicciona e prima che lei se ne vada, la costringono a mangiare qualcosa senza usare le mani, ma ficcando la faccia nel piatto.» Katie arricciò il naso con disgusto, senza peraltro sembrare sconvolta. «Hanno obbligato un'altra bambina a tirarsi su la camicetta davanti ai maschi. Perché era piatta. E l'hanno costretta a dire oscenità mentre lo faceva. Gira anche voce che abbiano preso una delle loro amiche di un tempo, una certa Donna Deel, di cui si erano stufate, l'abbiano portata a una festa, facendola ubriacare... e poi l'abbiano offerta ai ragazzi più grandi. E hanno fatto la guardia davanti alla porta finché quelli non hanno finito con lei.»
«Ma hanno solo tredici anni» obiettai. Ripensai a quel che facevo alla loro età, rendendomi conto per la prima volta di quanto fossero piccole. «Sono ragazze precoci. Noi stesse eravamo abbastanza scatenate quando avevamo solo un paio d'anni più di loro.» La voce di Katie si era arrochita per il fumo. Lo soffiò fuori e lo osservò galleggiare azzurrognolo sopra le nostre teste. «Ma mai qualcosa di così crudele.» «Ma ci siamo andate molto vicino, Camille.» "Tu forse, io no." Rimanemmo a fissarci, ripensando ai nostri giochi di potere. «A ogni modo, Amma ha tormentato parecchio sia Ann sia Natalie» proseguì Katie. «È stato molto carino da parte di tua madre prendersi cura di quelle due bambine.» «Mia madre dava lezioni private ad Ann, lo so.» «Oh, lavorava con loro durante i corsi organizzati dalle madri rappresentanti, le invitava a casa sua, dava loro da mangiare dopo la scuola. A volte faceva addirittura un salto a trovarle durante l'intervallo e rimaneva a osservarle mentre giocavano.» Un fuggevole lampo di mia madre, le dita infilate nella rete metallica che delimita il campo giochi, mentre guarda le due bambine con aria famelica. Un altro flash di mia madre vestita di bianco, che afferra Natalie per un braccio, portandosi un dito alle labbra per ingiungere a James Capisi di tacere. «Abbiamo finito?» domandò Katie. «Mi sono stufata di parlare di questa faccenda.» Spense il registratore. «Allora, ho saputo di te e di quel poliziotto così carino» proseguì sorridendo. Una ciocca di capelli le sfuggì dalla coda di cavallo e mi fece ripensare a un episodio lontano, lei china a dipingersi le unghie dei piedi, mentre mi faceva domande su quel giocatore di pallacanestro che avrebbe voluto per sé. Cercai di non sussultare sentendo nominare Richard. «Oh, sono solo pettegolezzi.» Sorrisi. «Uomo single, donna single... La mia vita non è poi così interessante!» «John Keene potrebbe pensarla diversamente.» Si accese un'altra sigaretta ed esalò il fumo, fissandomi con i suoi occhi blu. Nessun sorriso, stavolta. A questo punto avevo due possibilità: potevo darle in pasto qualche ghiotto bocconcino e farla felice - se la storia era già arrivata alle orecchie di Katie alle dieci, il resto di Wind Gap l'avrebbe saputa entro mezzogiorno - oppure potevo smentire tutto, rischiando di inimicarmela e di perdere la sua collaborazione. In fondo, avevo già ottenuto la mia intervista e di
certo non m'importava rimanere nelle sue grazie. «Ah, ancora pettegolezzi. La gente dovrebbe trovarsi qualche altro passatempo da queste parti.» «Davvero? A me è sembrato molto tipico di te. Eri sempre disposta a spassartela, un tempo.» Mi alzai, prontissima ad andarmene. Katie mi seguì verso l'uscita, mordicchiandosi l'interno della guancia. «Grazie per avermi dedicato del tempo, Katie. Mi ha fatto piacere rivederti.» «Anche a me, Camille. Goditi il resto della vacanza.» Ero già fuori dalla porta quando mi sentii chiamare. «Camille?» Mi voltai e vidi Katie con la gamba sinistra ripiegata all'interno come una bambina, una posa che ricordavo dai tempi della scuola. «Un consiglio da amica: va' a casa a farti un bagno. Puzzi.» In effetti andai a casa. Nel mio cervello si susseguiva una serie di immagini di mia madre, tutte inquietanti. "Presagio." La parola pulsava ancora sulla mia pelle. Flash di Joya, magra, con i capelli grigi e le unghie lunghe, mentre toglieva la pelle a mia madre. Flash di mia madre con le sue medicine e le sue pozioni, che mi tagliava i capelli. Flash di Marian, ormai un mucchietto di ossa in una bara, un nastro di raso bianco intorno ai riccioli biondi, come un bouquet di fiori appassito. Flash di mia madre che si prendeva cura di quelle due bambine violente. O perlomeno che cercava di farlo. Natalie e Ann non erano tipi da farsi imbrigliare. Adora odiava i bambini che non si arrendevano al suo peculiare istinto materno. Era stata lei a dipingere le unghie a Natalie prima di strangolarla? O l'aveva fatto dopo? "Sei pazza a pensare quel che stai pensando. Sei pazza a non pensarlo. " 15 Tre piccole biciclette rosa, con tanto di cestini bianchi e nastri che fluttuavano dai manubri, erano allineate sotto il portico. Curiosando in uno dei cestini, trovai un lucidalabbra e uno spinello in un sacchetto di carta Sgattaiolai in casa da un'entrata laterale e arrancai su per le scale. Le ragazze erano in camera di Amma e lanciavano gridolini divertiti. Aprii la porta senza bussare. Un gesto maleducato, lo so, ma non sopportavo l'idea di quel tramestio segreto, di quell'affrettarsi ad assumere la posa delle in-
nocentine davanti agli adulti. Le tre amiche erano in cerchio intorno ad Amma, calzoncini e minigonne evidenziavano le loro gambe snelle e depilate. Amma, seduta a terra, si gingillava davanti alla casa delle bambole con un tubetto di colla in mano, i capelli raccolti e legati con un nastro blu. Strillarono all'unisono come uccellini spaventati quando aprii la porta, gratificandomi di sorrisi divertiti e allo stesso tempo indignati. «Ciao, Mille» esclamò Amma, che non portava più le bende, ma aveva un'aria tirata e febbricitante. «Stiamo giocando. Non è la casa delle bambole più bella del mondo?» Aveva una voce sdolcinata, modellata su quella delle bambine dei programmi televisivi degli anni Cinquanta. Un'immagine che mal si conciliava con quella dell'adolescente che mi aveva offerto la droga due sere prima. La mia cara sorellina, che si mormorava offrisse per gioco le amiche ai ragazzi più grandi. «Ehi, Camille, che ne dici della casa delle bambole di Amma?» le fece eco la bionda dalla voce roca. Jodes era l'unica che non mi guardava, ma fissava la casa come se volesse perdercisi dentro. «Ti senti meglio, Amma?» «Oh sì, certo, sorella cara» rispose lei con sussiego. «Spero lo stesso di te.» Le ragazze ridacchiarono tutte insieme, con un fremito convulso. Chiusi la porta, seccata da quel gioco che non capivo. «Perché non ti porti via Jodes?» gridò una di loro da dietro la porta chiusa. Jodes non avrebbe resistito a lungo in quel gruppo. Mi preparai un bagno caldo, nonostante la calura, e mi sedetti nuda nella vasca, con il mento sulle ginocchia, mentre il livello dell'acqua saliva intorno a me. La stanza sapeva di sapone alla menta e dell'odore dolciastro del sesso femminile. Ero martoriata e completamente esausta e la cosa mi stava bene. Chiusi gli occhi, allungandomi nella vasca e lasciando che l'acqua mi fluttuasse nelle orecchie. "Sola." A un tratto avrei voluto avere inciso anche quella parola sul mio corpo e mi stupii di non averci mai pensato. Sentii la pelle della piccola tonsura che Adora mi aveva fatto sulla testa rabbrividire, come se si stesse offrendo volontaria per quell'impresa. Anche il mio viso rabbrividì. Allora aprii gli occhi e vidi mia madre incombere sulla vasca da bagno, con i lunghi capelli biondi che le incorniciavano il viso. Mi alzai a sedere barcollando e mi portai le braccia al seno, schizzando d'acqua il suo vestito rosa. «Tesoro, ma dove sei stata? Ero fuori di me dalla preoccupazione. Sarei
venuta a cercarti, ma Amma ha passato una brutta nottata.» «Che cos'è successo ad Amma?» «Dove sei stata?» «Che cos'è successo ad Amma?» Mia madre allungò una mano per toccarmi il viso e io sussultai. Lei aggrottò la fronte e allungò di nuovo la mano, dandomi dei buffetti su una guancia e lisciandomi i capelli umidi. Poi ritirò la mano e si stupì di trovarla bagnata, come se le avessi rovinato la pelle. «Ho dovuto prendermi cura di lei» rispose semplicemente. Pelle d'oca sulle mie braccia. «Hai freddo, tesoro? Hai i capezzoli induriti.» Mi aveva portato un bicchiere di latte azzurrognolo, che mi porse in silenzio. "O mi fa star male e io saprò di non essere pazza, oppure non mi fa star male e io saprò di essere una creatura disgustosa." Bevvi il latte mentre mia madre canticchiava, passandosi la lingua sul labbro inferiore con una voluttà quasi oscena. «Non sei mai stata così ubbidiente da piccola» osservò. «Sei sempre stata così testarda! Magari ti sei un po' ammorbidita con il tempo. Lo dico in senso buono. Forse era necessario.» Se ne andò e io rimasi nella vasca, in attesa che succedesse qualcosa. Crampi allo stomaco, vertigini, febbre. Stavo seduta immobile come sull'aereo, quando si ha paura che un movimento brusco possa farlo precipitare. Niente. Poi, nell'aprire la porta del bagno, trovai Amma sul mio letto. «Sei così volgare!» esclamò, con le braccia conserte. «Non posso credere che tu sia andata a letto con un assassino di bambini. Sei proprio una pervertita, ha ragione lei.» «Non dare retta a nostra madre, Amma. Non è una persona di cui fidarsi. E non...» "Che cosa? Non prendere niente di quello che ti dà? Abbi il coraggio di dirlo, se davvero lo pensi, Camille." «...non prendertela con me, Amma. Riusciamo a ferirci con molta facilità in questa famiglia.» «Dimmi del suo cazzo, Camille. Com'è?» La stessa voce sdolcinata e affettata di poco prima, ma lei non era più così distaccata: si contorceva sotto le lenzuola, gli occhi spiritati, il volto arrossato. «Amma, non voglio parlarne con te.» «Non eri così adulta poche sere fa, sorella. Che c'è...? Non siamo più amiche?» «Amma, ho bisogno di dormire un po'.» «Notte faticosa, eh? Be', aspetta e vedrai... Le cose peggioreranno.» Mi baciò sulla guancia e scivolò fuori dal letto, ciabattando lungo il corridoio
con i sandali di plastica. Venti minuti più tardi cominciò il vomito. Conati, convulsioni ed eccesso di sudorazione. Mi sembrava che lo stomaco si contraesse e si dilatasse come durante un infarto. Fra un conato e l'altro rimasi seduta a terra accanto al water, appoggiata contro la parete, con solo una maglietta addosso. Fuori sentivo i cardellini cinguettare. Al piano di sotto mia madre chiamava Gayla. Dopo un'ora stavo ancora vomitando, bile verdastra che colava lenta e vischiosa. Mi vestii e mi lavai i denti cautamente: introdurre lo spazzolino in bocca mi procurava ancora dei conati. Alan era seduto in veranda a leggere un grosso volume rilegato in pelle, intitolato semplicemente Cavalli. Una ciotola di vetro arancione era in bilico sul bracciolo della sedia a dondolo con un residuo di budino verdastro al centro. Alan indossava un completo blu di lino e portava un panama in testa. Era tranquillo come un laghetto alpino. «Tua madre sa che stai uscendo?» «Tornerò presto.» «Sta andando molto meglio fra voi due ultimamente, Camille, e di questo ti sono grato. Mi sembra che lei sia più serena. Anche i suoi rapporti con... Amma sono migliorati.» Faceva sempre una pausa prima di pronunciare il nome di sua figlia, come se avesse un che di leggermente osceno. «Bene, Alan, bene.» «Spero che tu stia meglio anche con te stessa, Camille. È una cosa importante volersi bene. Un atteggiamento positivo può cambiare le cose, proprio come uno negativo.» «Goditi i tuoi cavalli.» «Lo faccio sempre.» Il tragitto fino a Woodberry fu punteggiato di rapide soste per vomitare bile mista a sangue. Tre fermate, in una delle quali vomitai in macchina, non essendo riuscita ad aprire in tempo la portiera. Usai il bicchiere con un avanzo di gazzosa alla fragola per lavare via il vomito. Il St. Joseph Hospital di Woodberry era un grande edificio squadrato di mattoni dorati con sezioni trasversali di finestre ambrate. Marian lo chiamava "il wafer". Era un posto generalmente tranquillo: chi viveva più a ovest andava a Poplar Bluff per problemi di salute, mentre chi abitava a nord andava a Hayti. A Woodberry andava solo chi era intrappolato nel tacco dello stivale del Missouri.
Al banco dell'accettazione sedeva un donnone dal seno enorme, inviando messaggi subliminali del tipo "Non mi scocciate". Rimasi in piedi e aspettai. Lei finse di essere immersa nella lettura di una rivista. Mi avvicinai. Lei continuò a leggere, seguendo con il dito ogni riga dell'articolo che aveva davanti. «Mi scusi» dissi, con un tono fra il petulante e il condiscendente che non piacque neppure a me. La donna aveva i baffi, i polpastrelli ingialliti da fumatrice e un paio di canini dal colore indefinibile che le spuntavano dal labbro superiore. "La faccia che mostri alla gente dice alla gente come trattarti" ripeteva sempre mia madre quando mi ribellavo ai suoi tentativi di occuparsi del mio aspetto. Quella era una donna che nessuno avrebbe potuto trattare con gentilezza. «Ho bisogno di recuperare alcune cartelle cliniche.» «Faccia una richiesta al suo medico curante.» «Erano di mia sorella.» «Dica a sua sorella di fare una richiesta al suo medico curante» ribatté lei, sfogliando una pagina della rivista. «Mia sorella è morta.» C'erano sicuramente modi più gentili di dirlo, ma volevo colpirla. Anche così ottenni solo un'attenzione riluttante. «Ehm, mi dispiace. È morta in questo ospedale?» Annuii. «Deceduta all'arrivo. Era già stata diverse volte in questo ospedale e il suo dottore lavorava qui.» «Data del decesso?» «Primo maggio 1988.» «Cristo santo, ne è passato di tempo! Spero che lei sia molto paziente.» Quattro ore più tardi, dopo due alterchi furibondi con infermiere indifferenti, un maldestro tentativo di civettare con un pallido amministratore dalla barba incolta e tre corse in bagno per vomitare, le cartelle cliniche di Marian atterrarono sulle mie ginocchia. Ce n'era una per ogni anno della sua vita ed erano di volta in volta più corpose. Metà degli scarabocchi dei medici mi risultò incomprensibile. Accennavano a esami prescritti ed eseguiti, che non erano serviti a nulla. Elettroencefalogrammi ed elettrocardiogrammi. Un esame consistente nell'inserimento di una microcamera attraverso la gola di Marian per esaminare lo stomaco. Monitoraggio della frequenza cardiaca e respiratoria.
Possibili diagnosi: diabete, soffio al cuore, reflusso esofageo, insufficienza epatica, ipertensione polmonare, depressione, sindrome di Crohn, lupus. Poi un foglio rosa a righe, tipicamente femminile, pinzato a un referto che documentava una degenza settimanale di Marian per gli esami allo stomaco. Calligrafia ordinata e arrotondata, ma nervosa: la penna aveva lasciato segni profondi sulla carta: Sono l'infermiera che si è occupata di Marian Crellin in questa settimana di analisi e anche nei precedenti ricoveri della paziente. È mia ferma opinione ["ferma" era sottolineato due volte] che la bambina non sia affatto malata. Credo che, se non fosse per sua madre, godrebbe di ottima salute. La bambina presenta strani sintomi ogni volta che viene lasciata sola con sua madre, perfino in giorni in cui si è sentita benissimo prima dell'arrivo della suddetta. La madre non dimostra alcun interesse per Marian quando lei sta bene, anzi sembra volerla punire. Consola la figlia solo quando sta male o piange. Io e alcune altre infermiere, che per prudenza preferiscono non firmare questa lettera, crediamo fermamente che la bambina, così come anche la sorella maggiore, debbano essere allontanate da casa per ulteriori accertamenti. Beverly Van Lumm Giusta indignazione. Avremmo potuto sfruttarla di più. Mi immaginai Beverly Van Lumm mentre, impettita, con le labbra serrate e i capelli raccolti in un severo chignon, scriveva questo appunto in sala infermiere, dopo aver lasciato Marian fra le braccia di mia madre, nella certezza che sarebbe passato poco tempo prima che Adora chiamasse per una nuova emergenza. Nel giro di un'ora avevo rintracciato l'infermiera nel reparto pediatrico, che in realtà era uno stanzone con quattro letti, di cui solo due occupati: il primo da una bambina che stava leggendo placidamente e il secondo da un bambino che, accanto a lei, dormiva con il collo sorretto da un sostegno metallico che sembrava penetrargli nella spina dorsale. Beverly Van Lumm non era assolutamente come me l'ero immaginata. Più vicina ai sessanta che ai cinquanta, era magra, con un caschetto di capelli grigi che le aderiva alla testa. Indossava pantaloni a fiori e una casacca di un blu brillante e aveva una penna infilata dietro l'orecchio. Quando mi presentai, sembrò ricordarsi subito di me e si mostrò nient'affatto sor-
presa di vedermi. «Sono contenta di incontrarti di nuovo dopo tutti questi anni, anche se in circostanze così orribili» disse con voce calda e profonda. «Talvolta sogno a occhi aperti che Marian stessa entri qui dentro, cresciuta, magari con un paio di marmocchi. I sogni a occhi aperti possono essere pericolosi.» «Sono venuta perché ho letto il suo appunto.» La donna sbuffò e mise il cappuccio alla penna. «Sai quanto è servito! Se non fossi stata così giovane e intimorita dai dottoroni, avrei fatto molto più che scrivere un appunto. Naturalmente all'epoca accusare una madre di un simile reato era quasi inaudito. Ci è mancato poco che mi licenziassero. Nessuno vuole credere davvero a certe cose. Sembra una favola dei fratelli Grimm... SDMPP.» «SDMPP?» «Sindrome di Munchausen per procura. Il genitore, di solito la madre, costringe il proprio bambino a un perenne stato di malattia per accentrare su di sé tutte le attenzioni. Nella sindrome di Munchausen, ingurgiti veleni per ammalarti e ottenere attenzioni. Con la sindrome di Munchausen per procura fai del male a tuo figlio per dimostrare che madre attenta e premurosa sei. I fratelli Grimm, capisci cosa voglio dire? È proprio il comportamento che ti aspetti dalla strega cattiva di una favola. Mi sorprende che tu non ne abbia mai sentito parlare.» «In effetti, mi suona familiare» dissi. «Sta diventando una sindrome abbastanza diffusa. Va di moda. La gente ama tutto ciò che è nuovo e morboso. Ricordo quando l'anoressia era di moda negli anni Ottanta. Più facevano film in tivù più le ragazzine digiunavano a morte. Tu però mi sei sempre sembrata a posto. Meno male.» «Sto bene, perlopiù. Ho un'altra sorella, che è nata dopo Marian. È per lei che sono preoccupata.» «E fai bene. Nel caso della sindrome di Munchausen per procura è meglio non essere la cocca di mamma. La tua fortuna è stata che tua madre non nutrisse un particolare interesse nei tuoi confronti.» Un tizio in pantaloni e casacca verde sfrecciò lungo il corridoio su una sedia a rotelle, seguito da due ragazzi grassi vestiti nello stesso modo, che ridevano a crepapelle. «Studenti di medicina» spiegò Beverly, alzando gli occhi al cielo. «Nessun dottore si prese la briga di controllare quel che lei aveva scritto?» «Per loro si trattò solo di un gesto infantile, frutto di gelosia e meschini-
tà. Erano altri tempi. Le infermiere godono di un po' più di rispetto adesso. Ma solo un po'. A essere sincera, Camille, non ho insistito più di tanto. Ero appena uscita da un divorzio, avevo bisogno di questo lavoro e poi, fondamentalmente, volevo solo sentirmi dire che mi stavo sbagliando. Avevo bisogno di crederlo. Quando Marian morì, mi attaccai alla bottiglia per tre giorni. Fu seppellita prima che potessi andare a chiedere al caporeparto se avesse letto il mio appunto. Mi fu detto di prendermi una settimana di vacanza. Ero una di quelle donne isteriche.» Sentii le lacrime pungermi gli occhi e Beverly mi prese una mano. «Mi dispiace, Camille.» «Dio, sono così furiosa!» Le lacrime mi rigarono le guance e le asciugai con il palmo della mano libera, finché Beverly non mi porse un pacchetto di fazzoletti di carta. «Furiosa che sia potuta succedere una cosa del genere. Che mi ci sia voluto così tanto per capirlo.» «Be', tesoro, è tua madre. Non riesco neanche a immaginare che cosa sia stato per te crescere in quella casa. Almeno la giustizia sta per fare il suo corso, a quanto pare. Da quanto lavora al caso quel detective?» «Detective?» «Willis, giusto? Un bel ragazzo, sveglio. Ha fotocopiato ogni pagina delle cartelle cliniche di Marian e mi ha torchiato a dovere. Non mi ha detto che c'era di mezzo un'altra bambina. Però mi ha detto che tu stavi bene. Credo che abbia una cotta per te... Era così imbarazzato ogni volta che ti nominava.» Smisi di piangere, appallottolai i fazzoletti e li gettai nel cestino accanto alla bambina che leggeva. Lei lanciò un'occhiata incuriosita, come se fosse arrivata nuova posta. Ringraziai Beverly e mi diressi verso l'uscita, agitata e ansiosa di rivedere il cielo azzurro. Beverly mi raggiunse all'ascensore e mi prese entrambe le mani. «Porta via tua sorella da quella casa, Camille. Non è al sicuro là dentro.» Fra Woodberry e Wind Gap, vicino all'uscita numero 5, c'era un locale per motociclisti che vendeva confezioni di birra da sei senza chiedere un documento. Ci andavo spesso quando ero alle superiori. Mi ricordavo che, accanto al bersaglio per le freccette, c'era un telefono a monete. Presi una manciata di spiccioli da un quarto di dollaro e telefonai a Curry. Fu Eileen a rispondere, come al solito, la voce dolce e serena. Cominciai a singhiozzare ancor prima di riuscire a farfugliare il mio nome. «Camille, tesoro, che cos'hai? Stai bene? Ma no, certo, che domanda
stupida. Oh, mi dispiace così tanto. L'avevo detto a Frank di toglierti da lì, dopo l'ultima telefonata. Che cosa succede?» Continuai a singhiozzare, senza sapere che cosa dire. Una freccetta colpì il bersaglio con un tonfo sordo. «Non ti stai... ferendo di nuovo? Camille? Tesoro, mi fai paura.» «Mia madre...» singhiozzai, prima di crollare nuovamente. Ero quasi piegata in due dai singhiozzi che mi squassavano. «Tua madre? Sta bene?» «Nooo!» Un lungo gemito come quello di un bambino. Una mano sulla cornetta e il mormorio concitato di Eileen che chiamava Frank, «È successo qualcosa di terribile», un silenzio di due secondi e il rumore di un vetro in frantumi. Curry si era alzato dal tavolo troppo in fretta e il bicchiere di whisky era caduto a terra. Era solo una supposizione. «Camille, che cos'hai?» La voce di Curry era inquietante e rude come due mani che mi scrollassero, dopo avermi afferrato per le braccia. «So chi è stato, Curry» sibilai. «Lo so.» «Be', non c'è motivo di piangere. La polizia ha effettuato un arresto?» «Non ancora. So chi è stato.» Un altro sibilo. Un altro tonfo contro il bersaglio. «Chi? Camille, dimmelo.» «È stata mia madre» singhiozzai tutto d'un fiato nel telefono. Un silenzio prolungato. «Camille, sei ancora troppo scossa. È colpa mia, ho sbagliato a mandarti laggiù dopo così poco tempo. Senti, vai subito all'aeroporto e ritorna qui. Non prendere neanche le tue cose, consegna la macchina e torna qui. Ce ne occuperemo dopo. Compra un biglietto. Ti rimborserò quando arrivi. Ma devi tornare subito a casa.» «A casa, a casa, a casa» ripeté, come se cercasse di ipnotizzarmi. «Non avrò mai una casa» balbettai, ricominciando a singhiozzare. «Devo occuparmi di questa faccenda, Curry.» Riagganciai mentre lui mi ordinava di non farlo. Rintracciai Richard al Gritty, dove stava cenando. Leggeva i fascicoli sull'aggressione con le forbici di Natalie a Filadelfia. Mi fece un poco affabile cenno di saluto con la testa, quando mi sedetti di fronte a lui, e abbassò lo sguardo sul piatto di formaggio alla griglia, per poi sollevarlo a studiare la mia faccia gonfia. «Tutto bene?» «Penso che mia madre abbia ucciso Marian e anche Ann e Natalie. E so
che lo pensi anche tu. Sono appena tornata da Woodberry, brutto stronzo.» Da qualche parte, fra l'uscita numero 5 e la numero 2, il dolore si era trasformato in rabbia. «Non posso credere che per tutto questo tempo stessi solo cercando di estorcermi informazioni su mia madre. Che razza di fottuto bastardo sei?!» Tremavo e dalla bocca mi uscivano solo dei balbettii. Richard prese una banconota da dieci dollari dal portafoglio, la infilò sotto il piatto, si alzò, venendo dalla mia parte del tavolo, e mi prese per un braccio. «Non qui, Camille. Usciamo.» Mi sospinse fuori dal locale fino alla macchina, sempre tenendomi per un braccio, e mi fece salire accanto a sé. Guidò in silenzio fino alle rocce a strapiombo, alzando una mano per zittirmi ogni volta che cercavo di dire qualcosa. Alla fine distolsi lo sguardo, girandomi verso il finestrino e rimasi a osservare i boschi che sfrecciavano lungo la strada. Parcheggiammo nello stesso punto in cui, settimane prima, eravamo rimasti a osservare il fiume. Adesso serpeggiava sotto di noi, nell'oscurità, la corrente che rifletteva a sprazzi la luna. Sembrava un insetto che avanza attraverso le foglie cadute dell'autunno. «Adesso tocca a me ricorrere ai cliché» esordì Richard, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. «Sì, all'inizio ho cercato la tua compagnia perché mi interessava tua madre, ma poi mi sono davvero preso una cotta per te. Per quanto sia possibile con una persona così chiusa a riccio. Ovviamente, ne capisco la ragione. In un primo momento pensavo di farti un interrogatorio ufficiale, ma non sapevo quanto fossi legata ad Adora e non volevo che la mettessi sul chi vive. Non ero sicuro al cento per cento, Camille. Volevo un po' di tempo per studiarla più a fondo. Il mio era solo un sospetto. Solo e unicamente un sospetto. Voci captate qua e là su di te, su Marian, su Amma e tua madre. Ed è vero che una donna non si adatta al profilo del serial killer di bambini. Poi ho cominciato a guardare la cosa da un punto di vista diverso.» «Com'è successo?» chiesi con voce incolore. «È stato quel bambino, James Capisi. Continuavo ripensare a lui, al suo racconto... quella strega che sembrava uscita da una favola dell'infanzia.» Mi tornò in mente Beverly con la sua allusione ai fratelli Grimm. «Continuo a pensare che non abbia davvero visto tua madre. Penso piuttosto che ricordi qualcosa - una sensazione o una paura a livello del subconscio -, che si è trasformata in quella persona. Ho cominciato a chiedermi che tipo di donna avrebbe potuto uccidere delle bambine per poi strappare loro i
denti. Una donna che vuole avere il controllo totale. Una donna con un istinto materno alterato. Sia Ann sia Natalie erano state in qualche modo accudite, prima di essere uccise. I genitori di entrambe hanno notato strani dettagli: le unghie di Natalie erano dipinte di un rosa brillante; le gambe di Ann erano state depilate; tutte e due avevano tracce di rossetto sulle labbra.» «E che mi dici dei denti?» «Il sorriso di una ragazza non è forse la sua arma migliore?» rispose Richard, voltandosi finalmente verso di me. «E, nel caso di quelle due bambine, era un'arma nel vero senso della parola. Quando mi hai parlato dei morsi, tutti le tessere del mosaico sono andate al loro posto. L'assassino era una donna che non sopportava la forza nelle femmine, che la trovava volgare, che ha cercato di fare da madre a quelle due bambine, di dominarle, di trasformarle nel suo ideale di femminilità. E quando loro si sono rifiutate di adattarsi e si sono ribellate, l'assassina si è infuriata. Quelle bambine dovevano morire. Strangolare qualcuno è l'apice del dominio. Un assassinio al rallentatore. Una volta in ufficio ho chiuso gli occhi dopo aver tracciato il profilo e ho visto il volto di tua madre. La sotterranea vena di violenza, il legame con le due bambine morte... Inoltre, lei non ha un alibi per le notti degli omicidi. I sospetti di Beverly Van Lumm su tua madre e Marian hanno confermato la mia intuizione. Ma dobbiamo ancora dissotterrare Marian per cercare prove più sostanziali. Tracce di veleno o altro.» «Lascia in pace Marian.» «Non posso, Camille. Sai bene che è la cosa giusta da fare. La tratteremo con il massimo rispetto.» Mi mise una mano sulla coscia. Non sulla mano o sulla spalla, ma sulla coscia. «John è mai stato veramente sospettato?» «Il suo nome continuava a saltare fuori, per un motivo o per l'altro. Vickery era come ossessionato. Data la natura violenta di Natalie, pensava che anche John potesse essere violento. Inoltre veniva da fuori città e sai come siano sempre visti con sospetto quelli di fuori.» «Hai prove concrete contro mia madre, Richard? O le tue sono solo supposizioni?» «Domani riceveremo il mandato per perquisire la casa. Adora deve avere conservato i denti. Ti sto dicendo tutto questo a titolo di favore personale. Perché ti rispetto e mi fido di te.» «Già» dissi. "Innamorarsi" si accese sul ginocchio sinistro. «Devo assolutamente tirare fuori Amma da lì.»
«Stanotte non succederà niente. Devi andare a casa e far finta che sia una serata normale. Comportati nel modo più naturale possibile. Penseremo domani alla tua deposizione, ci sarà d'aiuto per il caso.» «Adora sta facendo del male a me e ad Amma. Ci droga, ci avvelena...» mormorai, provando un senso di nausea. Richard tolse di scatto la mano dalla coscia. «Camille, perché non me l'hai detto prima? Avremmo potuto sottoporti a delle analisi. Ci sarebbe stato di grande aiuto per il caso. Maledizione!» «Grazie per l'interessamento, Richard.» «Ti ha mai detto nessuno che sei troppo suscettibile, Camille?» «No, mai.» Gayla era in piedi sulla soglia di casa, un vigile fantasma a guardia della nostra casa in cima alla collina. In un battibaleno scomparve e, mentre parcheggiavo la macchina, le luci della sala da pranzo si accesero. Prosciutto. Sentii l'odore ancora prima di aprire la porta. E verza. E mais. Erano tutti seduti in silenzio, come attori prima che si alzi il sipario. Atto primo: cena in famiglia. Mia madre sedeva impettita a un capo della tavola, con Alan e Amma ai due lati; un posto era apparecchiato per me all'altro capo della tavola. Gayla mi scostò la sedia e ritornò in cucina nella sua immacolata uniforme stile infermiera. Per quel giorno ne avevo abbastanza di infermiere. Sotto le assi di legno del pavimento si sentiva la lavatrice ronzare instancabile, come sempre. «Ciao, tesoro? Hai passato una bella giornata?» esclamò mia madre a voce un po' troppo alta. «Siediti, ti abbiamo aspettato. Ho pensato che avremmo dovuto cenare tutti insieme come una vera famiglia, dato che fra poco te ne andrai.» «Ah, sì, me ne vado?» «Stanno per arrestare il tuo amichetto, cara. E non dirmi che sono meglio informata dei giornalisti.» Si voltò verso Alan e Amma, sorridendo come una perfetta ospite sul punto di servire gli antipasti. Agitò il campanello e Gayla entrò con un vassoio d'argento sul quale era adagiato il prosciutto nella sua tremolante gelatina. Una fettina di ananas scivolò di lato. «Taglialo tu, Adora» disse Alan rispondendo allo sguardo interrogativo di mia madre. Ciocche di capelli biondi oscillavano avanti e indietro, mentre Adora tagliava fette di prosciutto spesse un dito e le deponeva nei piatti. Scossi la testa ad Amma quando me ne allungò uno. Lo passai ad Alan.
«Niente prosciutto» mormorò mia madre. «Ancora non hai superato quella fase, Camille?» «La fase di disgusto per il prosciutto? No, non l'ho superata.» «Pensi che John verrà condannato a morte?» mi domandò Amma. «Il tuo John nel braccio della morte?» Mia madre le aveva fatto mettere un abitino bianco con nastri rosa e le aveva fatto le trecce. L'ira le usciva a fiotti come bile rancida. «Il Missouri ha la pena di morte e certamente per reati come questi è contemplata» risposi. «Abbiamo ancora la sedia elettrica?» volle sapere ancora Amma. «No» rispose Alan. «Mangia, adesso.» «Iniezione letale» mormorò mia madre. «Come per sopprimere un gatto.» Ebbi un flash di mia madre legata a un lettino, mentre si intratteneva con il medico prima che l'ago le fosse infilato nella vena. Proprio una morte adatta a lei. «Camille, se potessi essere un personaggio delle fiabe, chi saresti?» domandò Amma. «La Bella Addormentata.» Passare la vita sognando: troppo bello per essere vero. «Io vorrei essere Persefone.» «Non so chi sia» ribattei. Gayla mi mise verze e mais nel piatto. Mi obbligai a mangiare, un boccone alla volta, con lo stomaco che si torceva per la nausea. «È la sovrana del regno dei morti» replicò Amma con un gran sorriso. «Era così bella che Ade l'aveva rapita e portata negli inferi per farla sua sposa. Ma la madre di Persefone si infuriò a tal punto da costringere Ade a restituirle la figlia. Ma solo per sei mesi all'anno. Così lei trascorre metà della sua vita con i morti e metà con i vivi.» «Amma, perché mai una creatura del genere ti affascina?» domandò Alan. «Sai essere così spettrale a volte.» «Mi fa pena perché, anche quando ritorna nel mondo dei vivi, la gente ha paura di lei per il posto da cui proviene» spiegò Amma. «E nemmeno quando è con sua madre è mai davvero felice, perché sa che deve tornare sottoterra.» Fece un sorriso ad Adora, si infilò in bocca un grosso pezzo di prosciutto e subito dopo lanciò un gridolino. «Gayla, manca lo zucchero!» urlò poi, in direzione della porta. «Usa il campanello, Amma» la riprese mia madre. Nemmeno lei stava
mangiando. Gayla arrivò con una ciotola di zucchero e ne sparse una cucchiaiata sul prosciutto e sulle fette di pomodoro. «Faccio da sola» piagnucolò Amma. «Lascia fare a Gayla» intervenne mia madre. «Tu ne metti troppo.» «Sarai triste quando John morirà, Camille?» domandò Amma, masticando una fetta di prosciutto. «Saresti più triste se morisse John o se morissi io?» «Preferirei che non morisse nessuno» risposi. «Wind Gap ha avuto già abbastanza morti.» «Senti... senti» disse Alan. Stranamente gioioso. «Certe persone dovrebbero comunque morire» proseguì Amma. «John, per esempio. Anche se non è stato lui a uccidere le bambine, dovrebbe morire lo stesso. È distrutto, adesso che sua sorella è morta.» «In base a questa logica, anch'io dovrei morire perché mia sorella è morta e sono distrutta» osservai. Masticai un altro boccone. Amma mi osservava attenta. «Forse. Ma tu mi piaci, perciò spero che questo non succeda. Tu che cosa ne pensi?» si girò verso Adora. Mi venne in mente che non si rivolgeva mai a lei chiamandola mamma, o anche solo Adora. Come se non sapesse il suo nome, ma cercasse di non darlo a vedere. «Marian è morta tanto tempo fa e a volte penso che forse saremmo dovuti morire tutti con lei» rispose mia madre con voce stanca. Poi sembrò rianimarsi. «Ma non siamo morti e quindi tanto vale che andiamo avanti, no?» Scampanellio, acciottolio di piatti, Gayla che si aggirava intorno al tavolo come un lupo decrepito. Sorbetto all'arancia per dessert. Mia madre si dileguò con discrezione nel ripostiglio delle stoviglie e riapparve con due calici di cristallo e gli occhi umidi e arrossati. Sentii lo stomaco contrarsi. «Camille e io berremo qualcosa nella mia camera» annunciò agli altri, mentre si sistemava i capelli davanti allo specchio della credenza. Era abbigliata per l'occasione, mi resi conto, notando che indossava già la camicia da notte. Proprio come mi succedeva quando, da bambina, venivo convocata da lei, la seguii su per le scale. E così mi ritrovai in camera sua, dove da sempre desideravo entrare. L'enorme letto disseminato di soffici cuscini. Lo specchio a tutta altezza incassato nella parete. E il famoso pavimento d'avorio, che faceva risplendere ogni cosa, come in un paesaggio innevato al chiaro di luna. Adora
buttò a terra i cuscini, tirò indietro il copriletto e mi fece segno di sedermi sul letto, poi prese posto accanto a me. In tutti quei mesi dopo la morte di Marian in cui lei era rimasta chiusa in camera, tenendomi a distanza, non avrei mai osato sperare di sedermi su quel letto accanto a lei. E adesso, invece, ero lì, con troppi anni di ritardo. Adora mi passò le dita fra i capelli e mi porse un calice. Annusai: sapeva di mele cotogne. Lo tenni rigidamente fra le dita, ma non bevvi. «Quando ero piccola, un giorno mia madre mi portò nel bosco e mi lasciò lì» esordì Adora. «Non sembrava arrabbiata né sconvolta. Solo indifferente. Quasi annoiata. Non mi spiegò il perché. Non mi disse neanche una parola, in realtà. Solo di salire in macchina. Ero scalza. Una volta arrivate a destinazione, mi prese per mano e mi condusse lungo il sentiero, addentrandosi in mezzo agli alberi. Poi mi lasciò la mano e mi ordinò di non seguirla. Avevo otto anni ed ero una bambina gracile e sparuta. Avevo i piedi distrutti quando ritornai a casa e lei si limitò ad alzare gli occhi dal giornale della sera e a ritirarsi nella sua camera. In questa camera.» «Perché me lo racconti?» «Quando un bambino capisce che a sua madre non importa niente di lui, le cose si mettono male.» «Credimi, conosco la sensazione» ribattei. Le sue mani erano ancora fra i miei capelli, un dito che giocherellava con la piccola tonsura. «Desideravo tanto volerti bene, Camille, ma eri così dura. Marian, invece, era ubbidiente.» «Adesso, basta, mamma!» esclamai. «No, non basta. Lascia che mi prenda cura di te, Camille. Per una volta almeno, fa' finta di aver bisogno di me.» "Ma sì, che finisca. Che finisca tutto." «D'accordo» dissi. Ingollai d'un fiato il contenuto del calice, allontanai le mani di Adora dalla mia testa e mi sforzai di parlare con voce ferma. «Ho sempre avuto bisogno di te, mamma. Ma si trattava di un bisogno reale. Non di una tua fantasia, da accendere e spegnere a tuo piacimento. E non potrò mai perdonarti per Marian. Era solo una bambina.» «Sarà sempre la mia bambina» mormorò mia madre. 16 Mi addormentai senza accendere il ventilatore e mi svegliai con il lenzuolo impregnato di sudore e di urina. Battevo i denti e sentivo i battiti del
cuore dietro i bulbi oculari. Presi il cestino della cartastraccia accanto al letto e vomitai. Liquido caldo, con quattro chicchi di mais. Prima ancora che riuscissi a scendere dal letto mi ritrovai accanto mia madre. Probabilmente era rimasta seduta sulla poltrona nel corridoio, vicino alla foto di Marian, a rammendare calze in attesa che mi sentissi male. «Coraggio, bambina. Nella vasca» mormorò. Mi sfilò la giacca del pigiama e abbassò i pantaloni. Per una frazione di secondo sentii i suoi occhi sfiorarmi collo, seno, fianchi e gambe. Vomitai ancora mentre entravo nella vasca da bagno, con mia madre che mi teneva per mano perché non perdessi l'equilibrio. Altro liquido caldo che mi scorreva sul petto, scivolando sulle piastrelle. Adora prese una salvietta dal portasciugamani, ci versò sopra dell'alcol e mi ripulì con la meticolosità di un lavavetri. Rimasi seduta nella vasca mentre lei mi versava bicchieri di acqua fredda sulla testa per abbassare la temperatura. Mi diede una serie di pillole e un altro bicchiere di latte azzurrognolo. Ingollai tutto con la stessa furia e avidità che mi animava durante le sbornie. "Non sono ancora morta, che altro hai da darmi?" Volevo rendere la cosa ignobile. Lo dovevo a Marian. Vomitare nella vasca, svuotare la vasca, riempirla nuovamente, svuotarla. Borsa del ghiaccio sulle spalle, fra le gambe. Pezzuole umide sulla fronte, sulle ginocchia. Pinzette nella ferita sulla caviglia, alcol, sfregamento. L'acqua che diventava rosa. "Svanire, svanire, svanire" mi si supplicava dalla nuca. Adora si era strappata quasi tutte le ciglia, l'occhio sinistro lacrimava copiosamente e la lingua saettava in continuazione a inumidire le labbra. Mentre perdevo conoscenza, un ultimo pensiero: "Sono accudita. Mia madre si sta prendendo cura di me. Che bello! Nessun altro lo farebbe per me. Marian. Sono gelosa di Marian". Stavo fluttuando in una vasca riempita a metà di acqua tiepida, quando fui svegliata dalle grida. Debole e stordita, mi issai fuori dalla vasca e mi avvolsi in un sottile accappatoio di cotone. Poi, con le urla di mia madre che mi rimbombavano nelle orecchie, aprii la porta, andando quasi a sbattere contro Richard. «Camille, va tutto bene?» Le urla di mia madre, aspre e indignate, fendevano l'aria alle sue spalle. Poi spalancò la bocca. Mi piegò la testa da un lato, osservando i tagli sul collo. Aprì l'accappatoio e sussultò.
«Cristo santo!» Un gemito a metà fra l'isterico e lo spaventato. «Che cos'ha mia madre?» «Che cos'hai tu?! Ti tagli?» «Incido parole» bofonchiai, come se facesse differenza. «Parole, sì, lo vedo.» «Perché mia madre sta urlando?» Sentii che la testa mi girava e mi lasciai cadere sul pavimento. «Camille, ti senti male?» Annuii. «Avete trovato qualcosa?» Vickery e alcuni agenti passarono velocemente davanti alla mia camera. Mia madre li seguiva barcollando, le mani alzate in aria, urlando loro di andarsene, di mostrare rispetto, di stare attenti, perché gliel'avrebbe fatta pagare. «Non ancora. Stai molto male?» Richard mi mise una mano sulla fronte per provare la temperatura e mi richiuse l'accappatoio, evitando di guardarmi in faccia. Mi strinsi nelle spalle come un bambino imbronciato. «Dovete lasciare tutti la casa, Camille. Mettiti qualcosa addosso. Ti porto dal medico.» «Già, ti servono le prove. Spero di avere ancora abbastanza veleno in corpo.» Entro sera, dal cassetto della dispensa di mia madre furono prelevati i seguenti articoli: otto flaconi di farmaci antimalarici con etichetta d'oltreoceano, grandi pillole blu tolte dal mercato per la loro tendenza a indurre febbre e alterazione della vista (tracce delle medesime furono rilevate nei miei test tossicologici); settantadue compresse di lassativo di tipo industriale, usato principalmente per liberare le viscere degli animali da allevamento (tracce delle medesime furono rilevate nei miei test tossicologici); tre dozzine di pillole antiepilettiche, il cui abuso può indurre vertigini e nausea (tracce delle medesime furono rilevate nei miei test tossicologici); tre flaconi di uno sciroppo usato per indurre il vomito in caso di avvelenamento (tracce del medesimo furono rilevate nei miei test tossicologici); centosessantuno tranquillanti da cavallo (tracce dei medesimi furono rilevate nei miei test tossicologici); un kit da infermiera, con dozzine di pillole, flaconi e siringhe di cui, in teoria, Adora non avrebbe dovuto avere alcun bisogno. In teoria.
In una cappelliera di mia madre fu rinvenuto un diario con la copertina a fiori, che sarebbe stato esibito come prova in tribunale. Conteneva brani come i seguenti: 14 settembre 1982 Oggi ho deciso di smettere di occuparmi di Camille e di concentrami su Marian. Camille non è mai stata una paziente docile, stare male la rende solo irritabile e odiosa. Non le piace che io la tocchi. È un fatto inconcepibile. Ha lo stesso atteggiamento sprezzante di Joya. La odio. Marian è un tale tesoro quando sta male, stravede per me e mi vuole sempre accanto. Amo asciugarle le lacrime. 23 marzo 1985 Marian è dovuta tornare a Woodberry. Problemi respiratori fin dalla mattina e dolori allo stomaco. Indossavo il mio abito giallo di St. John, ma ultimamente non mi piace più tanto, ho paura che, con i capelli biondi, il giallo mi sbatta troppo. Non vorrei sembrare un ananas ambulante! Il dottor Jameson è molto in gamba e gentile, si interessa di Marian, ma non è un ficcanaso. Sembra molto colpito da me. Ha detto che sono un angelo e che ogni bambino dovrebbe avere una madre così. Abbiamo anche flirtato un po', malgrado portassimo entrambi la fede nuziale. Le infermiere invece sono abbastanza preoccupanti. Probabilmente sono gelose. Forse dovrei portare loro qualcosa al prossimo ricovero (si parla addirittura di un intervento chirurgico!). Magari dirò a Gayla di preparare un polpettone. Le infermiere adorano queste prelibatezze per la loro pausa pranzo. Con del nastro verde intorno alla pirofila, magari? Sarà meglio che vada dal parrucchiere prima della prossima operazione... Spero che il dottor Jameson (Rick) sia di turno... 10 maggio 1988 Marian è morta. Non sono riuscita a impedirlo. Ho perso sei chili e sono pelle e ossa. Sono tutti incredibilmente gentili e affettuosi. La gente a volte è davvero meravigliosa. La prova più schiacciante fu rinvenuta sotto i cuscini del divanetto di
broccato giallo, nella camera di Adora: un paio di pinzette insanguinate, piccole e da donna. Il test del DNA confermò che le tracce ematiche rilevate sul reperto corrispondevano al sangue di Ann Nash e a quello di Natalie Keene. I denti non furono mai ritrovati a casa di mia madre. Per settimane, dopo l'irruzione della polizia, continuai a lambiccarmi il cervello pensando a dove potessero essere finiti: vedevo una decappottabile azzurra, con la capote alzata come sempre, una mano di donna che si sporgeva dal finestrino e una manciata di denti che finiva in mezzo agli alberi vicino al sentiero che portava nel bosco. Un paio di pantofoline vezzose, infangate sulle rive del torrente... i denti che rimbalzavano come sassolini nell'acqua. Una camicia da notte rosa che fluttuava attraverso il roseto di Adora... mani che scavavano... denti seppelliti come minuscoli ossicini. Ma nessuno di questi posti si rivelò essere il nascondiglio giusto. Avevo fatto in modo che la polizia li ispezionasse. 17 Il 28 maggio, Adora Crellin fu arrestata per gli omicidi di Ann Nash, Natalie Keene e Marian Crellin. Alan pagò subito l'esorbitante cauzione, per permetterle di aspettare il processo nella tranquillità della propria casa. Considerata la situazione, la corte stabilì che mi fosse affidata la custodia di mia sorella. Due giorni dopo ritornai a Chicago, con Amma seduta accanto a me in macchina. Amma era estenuante. Aveva sempre bisogno di qualcosa e traboccava di ansia. Andava avanti e indietro per la casa, come un animale in gabbia, assillandomi con un fuoco di fila di domande (Perché era tutto così rumoroso? Com'era possibile vivere in un appartamento così minuscolo? Fuori era pericoloso?) E pretendeva continue rassicurazioni del mio affetto. In qualche modo doveva sfogare tutte le energie extra che le derivavano dal non essere più così spesso ammalata. Entro agosto aveva sviluppato una vera e propria ossessione per le donne assassine. Lucrezia Borgia, Lizzie Borden, una tizia in Florida che dopo un esaurimento nervoso aveva affogato le tre figlie. «Sono persone speciali» affermava con aria di sfida. Stava cercando a modo suo di perdonare la madre, mi comunicò la sua psicologa. Amma andò a due sedute, ma, quando cercai di accompagnarla alla terza, si buttò a terra urlando e dime-
nandosi. Passava la maggior parte del tempo a giocare con la casa delle bambole di Adora. Era il suo modo di affrontare le cose orribili che le erano successe, mi disse la psicologa, quando le telefonai. Al che replicai che, allora, avrebbe dovuto fare a pezzi quell'affare. Amma mi schiaffeggiò quando arrivai a casa con il colore sbagliato di tessuto per il copriletto del letto di Adora. Sputò sul pavimento quando mi rifiutai di pagare sessanta dollari per un divano in miniatura fatto di vero legno di noce. Tentai la terapia degli abbracci, un ridicolo programma in base al quale dovevo stringerla a me, ripetendo «Ti voglio bene, ti voglio bene, ti voglio bene», mentre lei cercava di divincolarsi. Quattro volte si strappò dall'abbraccio e mi diede della stronza, correndo a chiudersi in camera sbattendo la porta. La quinta scoppiammo entrambe a ridere. Alan allentò i cordoni della borsa per iscrivere Amma alla Bell School (22.000 dollari all'anno, senza contare libri e materiale scolastico vario), un istituto a pochi isolati da casa mia. In poco tempo Amma si fece delle amiche, una ristretta cerchia di ragazzine simpatiche, che impararono ben presto ad andare in estasi per tutto ciò che veniva dal Missouri. Quella che mi piaceva più di tutte era Lily Burke, sveglia e intelligente come Amma, ma più solare. Aveva il viso spruzzato di lentiggini, grandi incisivi e capelli color cioccolato, che, secondo Amma, avevano la stessa sfumatura del tappeto della mia vecchia camera a Wind Gap. Pazienza, Lily mi piaceva lo stesso. Divenne una presenza fissa nell'appartamento, mi aiutava a preparare la cena, mi chiedeva aiuto per i compiti e raccontava storielle sui ragazzi. Amma si fece sempre più silenziosa a ogni visita di Lily. Entro ottobre, si chiudeva apposta in camera ogni volta che lei suonava il campanello. Una notte mi svegliai e trovai Amma che incombeva sul mio letto. «Vuoi più bene a Lily che a me» sussurrò. Era febbricitante, batteva i denti e aveva la camicia da notte incollata al corpo dal sudore. La portai in bagno, la feci sedere sul water, bagnai un asciugamano con l'acqua fredda e le rinfrescai la fronte. Poi ci fissammo. Occhi azzurri uguali a quelli di Adora. Immoti come un lago alpino. Presi un flacone di aspirine e me ne versai due compresse sul palmo della mano, poi le rimisi nel flacone, quindi me le versai di nuovo sul palmo. Una o due pillole. Era così facile. Avrei voluto dargliene un'altra e poi un'altra ancora? Mi sarebbe piaciuto prendermi cura di una piccola bambina malata? Un barlume di riconoscimento quando Amma alzò gli occhi a
guardarmi, tremante e malaticcia: «La mamma è qui». Le diedi due aspirine. L'odore mi fece aumentare la salivazione. Versai il contenuto del flacone nello scarico. «Adesso devi mettermi nella vasca e lavarmi» piagnucolò Amma. Le sfilai la camicia da notte. Nuda era uno schianto: lunghe gambe adolescenziali, una cicatrice dentellata sul fianco simile a un mezzo tappo di bottiglia, un accenno di peluria fra le gambe. Seni pieni e sensuali. Tredici anni. Amma entrò nella vasca e si sedette, appoggiando il mento sulle ginocchia. «Mi devi massaggiare con l'alcol» piagnucolò. «No, Amma, cerca solo di rilassarti.» Divenne tutta rossa in viso e cominciò piangere. «Ma lei fa così» sussurrò. Le lacrime si trasformarono in singhiozzi, per finire in un lungo gemito dolente. «Non faremo più come lei» dissi. Il 12 ottobre Lily Burke scomparve mentre tornava a casa da scuola. Quattro ore più tardi il suo corpo fu ritrovato appoggiato a un cassonetto di rifiuti, a tre isolati dal nostro appartamento. Le erano stati strappati sei denti, i due incisivi superiori e quattro inferiori. Telefonai a Wind Gap e rimasi in attesa dodici minuti finché la polizia non mi confermò che mia madre non si era mossa da casa. Fui io a trovarli. Avevo dato alla polizia l'opportunità di trovarli, ma arrivai prima di loro. Con Amma che mi stava alle calcagna come un cane rabbioso, buttai all'aria l'appartamento, rovesciando cuscini e rovistando nei cassetti. «Che cosa hai fatto, Amma?!» Il tempo di arrivare in camera sua e Amma si era già calmata, assumendo un'aria di sfida. Frugai nella sua biancheria, tirai fuori i cassetti e buttai all'aria il materasso. Poi passai alla scrivania e trovai solo matite, adesivi e una tazza che odorava di candeggina Tirai fuori tutti i mobili della casa delle bambole, fracassando il mio letto, quello di Amma e il divanetto giallo. Una volta buttato a terra il letto a baldacchino di mia madre e distrutto il tavolino da toilette, una di noi due lanciò un grido. O forse lo lanciammo entrambe. Il pavimento della camera di mia madre. Lo splendido pavimento d'avorio. Fatto di denti umani. Cinquantasei piccoli denti, puliti e sbiancati con la candeggina, che mi fissa-
vano. Anche altre persone finirono implicate negli omicidi di Wind Gap. In cambio di una commutazione della pena dal carcere minorile a un istituto psichiatrico, le tre biondine ammisero di aver aiutato Amma a uccidere Ann e Natalie. Erano sgusciate fuori da casa nel cart da golf di Adora e si erano aggirate nei pressi della casa di Ann, convincendola ad andare a fare un giro con loro. «Mia madre vorrebbe tanto salutarti.» Poi si erano dirette verso il bosco a nord della città, fingendo di voler dare una festicciola. Avevano agghindato Ann e giocato con lei per un po', ma dopo qualche ora si erano stufate e avevano cominciato a trascinarla verso il torrente. Intuendo il pericolo, la bambina aveva cercato di scappare, ma Amma l'aveva rincorsa e l'aveva buttata a terra, colpendola poi con un sasso e beccandosi un morso nella lotta. Avevo visto la cicatrice sul fianco di mia sorella, ma non avevo capito il significato di quella mezzaluna dentellata. Le tre biondine avevano tenuto Ann ferma, mentre Amma la strangolava con una corda da bucato presa dalla cassetta degli attrezzi di un vicino. C'era voluta un'ora per calmare Jodes e un'altra ora perché Amma strappasse i denti a Ann, con Jodes che non la smetteva di piangere. Poi tutte e quattro avevano trasportato il corpo fino al torrente e lo avevano buttato in acqua; quindi, erano andate a casa di Kelsey, si erano ripulite nell'appartamento sopra il garage e avevano guardato un film. Nessuna ne ricordava il titolo. Ricordavano però di aver mangiato melone e di aver bevuto vino bianco che avevano messo in bottigliette di Sprite, nel caso in cui la mamma di Kelsey fosse venuta a curiosare. James Capisi non aveva mentito a proposito della donna fantasma. Amma aveva preso un lenzuolo candido e se l'era drappeggiato addosso come un peplo, legandosi i capelli biondi e incipriandosi dappertutto fino a luccicare. Era Artemide, la dea cacciatrice assetata di sangue. Natalie era rimasta sconcertata in un primo momento, quando Amma le aveva bisbigliato: «Vieni con me, è un gioco», poi si era lasciata condurre attraverso il bosco fino all'appartamento sul garage di Kelsey, dove le quattro ragazze l'avevano tenuta prigioniera per quarantott'ore, depilandole le gambe, vestendola, dandole da mangiare a turno e godendosi le sue crescenti proteste. Poco dopo la mezzanotte del 14, le tre biondine avevano immobilizzato Natalie mentre Amma la strangolava. Di nuovo Amma le aveva strappato i denti. Si scoprì che non era poi così difficile strappare i denti a un
bambino: bastava esercitare un bel po' di pressione sulle pinze e non preoccuparsi più di tanto del risultato. (Flash del pavimento della casa delle bambole di Amma, con il suo mosaico di denti rotti e frastagliati, alcuni ridotti a mere schegge.) Alle quattro del mattino, le ragazze erano andate in Main Street con il cart da golf di Adora. L'esiguo spazio fra il ferramenta e il salone di bellezza era risultato ideale per ospitare il cadavere di Natalie, che Amma e Kelsey avevano scaricato lì, tenendolo per le mani e per i piedi. Poi avevano aspettato che qualcuno lo trovasse. E di nuovo Jodes aveva pianto. Più tardi le ragazze avevano discusso se uccidere anche lei, preoccupate che potesse crollare. Erano sul punto di farlo, quando mia madre era stata arrestata. Amma aveva ucciso Lily da sola, l'aveva colpita sulla testa con una pietra e poi l'aveva strangolata a mani nude, strappandole sei denti e tagliandole i capelli. Tutto questo in un vicolo, dietro il cassonetto contro cui aveva poi appoggiato il cadavere. Si era portata a scuola la pietra, le pinze e le forbici nello zainetto rosa che le avevo comprato. I capelli color cioccolata di Lily Burke erano stati intrecciati in un tappeto per la mia camera nella casa delle bambole. Epilogo Adora venne giudicata colpevole di omicidio di primo grado per quanto aveva fatto a Marian. Il suo avvocato stava già preparando l'appello, seguito con grande entusiasmo e fervore dal gruppo di sostegno che gestiva il sito Internet di mia madre, Liberateadora.org. Alan aveva chiuso la casa di Wind Gap e si era preso un appartamento vicino alla prigione di Vandelia, nel Missouri. Nei giorni in cui non poteva farle visita, le scriveva delle lettere. Pubblicazioni riguardanti la storia della nostra famiglia assassina fioccarono in tutto il Paese; venni bersagliata da centinaia di offerte per una biografia esclusiva. All'inizio Curry mi sollecitò ad accettare, ma poi fece rapidamente dietrofront. Buon per lui. John mi scrisse una lettera gentile e grondante di sofferenza. Aveva sempre sospettato che fosse stata Amma e si era trasferito a casa di Meredith anche per tenerla d'occhio. Il che spiegava la conversazione che avevo udito fra lui e mia sorella, che evidentemente godeva nello stuzzicare la sofferenza del ragazzo. Infliggere dolore come arma di civetteria. Sofferenza come intimità. Mia madre che mi fic-
cava le pinzette nelle ferite. Per quanto riguarda l'altra mia avventura sentimentale a Wind Gap, non ebbi più notizie di Richard. Dopo il modo in cui aveva fissato il mio corpo martoriato, sapevo che sarebbe andata così. Amma sarebbe rimasta in carcere fino al suo diciottesimo compleanno e probabilmente anche oltre. Erano permesse due visite al mese. Andai a trovarla una volta e rimasi seduta insieme a lei in un allegro parco giochi circondato da filo spinato. Le altre detenute, ragazzine in pantaloni e maglietta carcerari, oziavano fra altalene e percorsi ginnici, sotto la supervisione di donnoni dall'aria truce. Tre ragazzine sfrecciavano su uno scivolo, risalivano la scaletta e scivolavano giù di nuovo. Continuarono così ininterrottamente, in silenzio, per tutta la durata della visita. Amma si era tagliata i capelli quasi a zero: il tentativo di sembrare una dura, che, invece, le dava un'aria ascetica e spirituale. Quando le presi la mano era umida di sudore. Lei la ritrasse immediatamente. Mi ero ripromessa di non farle il terzo grado, di rendere la visita il più leggera possibile. Invece le domande mi uscirono di bocca immediatamente, quasi in automatico. Perché i denti, perché proprio quelle bambine, che erano così intelligenti e interessanti? In che modo potevano averla offesa? Come aveva potuto fare una cosa del genere? L'ultima domanda sembrava piuttosto un rimprovero, come se la stessi sgridando per aver dato una festa quando non ero in casa. Amma, che fissava accigliata le tre ragazzine sullo scivolo, disse che odiava tutti lì dentro, tutte le sue compagne di prigionia erano pazze o stupide. Odiava dover fare il bucato e toccare la biancheria altrui. Poi rimase in silenzio per un tempo che sembrò lunghissimo e pensai che avesse semplicemente deciso di ignorare le mie domande. «Siamo state amiche per un po'» mormorò infine, a capo chino. «Ci divertivamo a correre nel bosco. Eravamo davvero scatenate. Ne combinavamo di tutti i colori. Una volta abbiamo anche ammazzato un gatto. Ma poi lei» - come sempre, il nome di Adora non venne pronunciato - «ha cominciato a interessarsi a loro. Non potevo mai avere niente di mio. Quelle due non erano più un mio segreto. Giravano sempre per casa. Cominciarono a farmi domande sul perché mi ammalavo. Avrebbero rovinato tutto. Lei non se ne è neanche resa conto.» Si grattò impaziente i capelli cortissimi. «E perché diavolo Ann l'ha morsa? Non riuscivo a smettere di pensarci. Perché Ann poteva morderla e io no?» Si rifiutò di dire altro, rispondendo solo con mugugni e colpi di tosse. Quanto ai denti, li aveva strappati solo perché le servivano. La casa delle
bambole doveva essere perfetta, proprio come tutto quello che Amma amava. Penso che questo non sia tutto, che sotto ci sia dell'altro. Ann e Natalie erano morte perché Adora aveva dedicato loro troppe attenzioni. Per Amma i patti erano chiari. Aveva lasciato che mia madre le facesse del male per troppo tempo. A volte se permetti agli altri di farti certe cose, finisci per essere tu al comando. Amma controllava Adora lasciandosi avvelenare un po' alla volta. In cambio, pretendeva amore e lealtà incondizionati. Non c'era spazio per nessun'altra bambina. Per lo stesso motivo aveva ucciso Lily Burke. Perché sospettava che volessi più bene a Lily che a lei. Si potrebbero azzardare migliaia di altre ipotesi, naturalmente, sul perché Amma abbia fatto tutto ciò. Alla fine, conta solo una cosa: mia sorella godeva nell'infliggere dolore agli altri. «Amo la violenza» mi aveva urlato. Considero mia madre la vera responsabile. Un bambino svezzato con il veleno considera il dolore un conforto. Il giorno dell'arresto di Amma, il giorno in cui tutte le tessere del mosaico andarono definitivamente al loro posto, Curry e Eileen si piazzarono sul divano di casa mia, come due birilli. Mi feci scivolare un coltello sotto la manica e, una volta in bagno, mi strappai di dosso la camicia e lo conficcai nel cerchio di pelle ancora intatta sulla schiena, rigirandolo avanti e indietro finché non fui martoriata di tagli. Curry irruppe in bagno un attimo prima che attaccassi con il viso. Curry e Eileen impacchettarono le mie cose e mi portarono a casa loro, dove ho un letto e un po' di spazio per me in quella che un tempo era la sala giochi del seminterrato. Tutti gli oggetti affilati sono stati messi sottochiave, ma io non mi sono data molto da fare per trovarli. Sto imparando a lasciarmi accudire, sto imparando ad avere dei genitori. Sono ritornata all'infanzia, la mia scena del crimine personale. Eileen e Curry mi svegliano la mattina e mi mettono a letto la sera riempiendomi di baci (o, nel caso di Curry, di buffetti scherzosi sotto il mento). Non bevo niente di più forte del succo d'uva che piace tanto a Curry. Eileen mi prepara il bagno e talvolta mi spazzola i capelli. La cosa non mi fa venire la pelle d'oca e lo consideriamo un buon segno. Siamo quasi al 12 maggio, un anno esatto dal mio arrivo a Wind Gap. Quest'anno la data coincide con la Festa della mamma. Astuto. Talvolta penso alla notte in cui mi sono presa cura di Amma. A quanto sia stata brava a calmarla e a confortarla. Ho sogni ricorrenti in cui lavo Amma e le
detergo il sudore dalla fronte. Mi sveglio con lo stomaco in subbuglio e il labbro superiore imperlato di sudore. Mi era venuto spontaneo accudirla per gentilezza? O mi piaceva occuparmi di lei perché soffro della stessa sindrome di Adora? Oscillo fra le due ipotesi, specialmente di notte, quando la mia pelle comincia a pulsare. Ultimamente propendo per la gentilezza. Ringraziamenti Un sentito grazie alla mia agente, Stephanie Kip Rostan, che mi ha accompagnata con pazienza durante l'intera stesura di questo mio primo romanzo, nonché alla mia editor, Sally Kim, che è riuscita a fare domande incisive e a fornire risposte interessanti, mentre mi aiutava a dare forma alla storia. Due donne intelligenti e incoraggianti, nonché affascinanti compagne di cene. La mia gratitudine va anche al dottor D.R Lyle, al dottor John R. Klein e al tenente di polizia Emmet Helrich, che mi hanno aiutata a capire i complessi meccanismi legati alla medicina, all'odontoiatria e al lavoro investigativo. Grazie, poi, ai miei direttori di «Entertainment Weekly», in modo particolare a Henry Goldblatt e a Rick Tetzeli. Un grazie di cuore ai miei amici, specialmente a quelli che si sono prestati a infinite letture, svariati consigli e un po' di sano divertimento mentre scrivevo: Dan Fierman, Krista Stroever, Matt Stearns, Katy Caldwell, Josh Wolk, Brian "Ives!" Raftery e alle mie quattro sorelle-cugine (Sarah, Tessa, Kam e Jessie), sempre pronte a elargire parole di incoraggiamento in momenti cruciali, come quando stavo per bruciare l'intero manoscritto. Dan Snierson è, forse, la persona più buona e ottimista del pianeta: grazie per la tua illimitata fiducia e mi raccomando, dì a Jurgis di essere benevola nella sua recensione. Emily Stone è stata fonte di sostegno e buonumore dal Vermont, da Chicago e perfino dall'Antartico. Grazie a Susan ed Errol Stone per la loro casa-rifugio sul lago; a Brett Nolan, il miglior lettore del mondo - un complimento che non si elargisce facilmente -, che mi ha salvato da accidentali riferimenti ai Simpson ed è l'autore della più rassicurante e-mail di sole due parole; a Scott Brown, che, poverino, ha letto infinite stesure del libro, accompagnandomi in necessarie fughe dalla realtà, solo lui e io... e un unicorno nevrotico con il complesso di Edipo. Grazie a tutti voi.
E infine, tutto il mio amore va alla mia numerosissima famiglia del Missouri, che, grazie al cielo, non è stata di alcuna ispirazione per i personaggi del libro. Ai miei fantastici genitori, che mi hanno incoraggiata a scrivere fin dalla terza elementare, quando avevo annunciato di voler fare la scrittrice o l'agricoltore. La faccenda dell'agricoltore non è mai andata in porto, perciò spero che il libro vi piaccia. FINE