SPLATTERPUNK (Splatterpunks: Extreme Horror, 1990) a cura di PAUL M. SAMMON SOMMARIO INTRODUZIONE di Paul M. Sammon LA S...
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SPLATTERPUNK (Splatterpunks: Extreme Horror, 1990) a cura di PAUL M. SAMMON SOMMARIO INTRODUZIONE di Paul M. Sammon LA SERA CHE NON ANDARONO ALL'HORROR SHOW di Joe R. Lansdale MACELLERIA MOBILE DI MEZZANOTTE di Clive Barker FILM ALLE UNDICI di John Skipp ROSSO di Richard Christian Matheson UNA VITA NEL CINEMA di Mick Garris MENO DI ZOMBI di Douglas E. Winter TRANSITI VELOCI di Wayne Allen Sallee MENTRE LEI ERA FUORI di Edward Bryant L'UOMO DELLA CASA DELLA CARNE di George R.R. Martin UNA VOLTA TANTO di Rex Miller IL BARACCONE DEGLI ORRORI di Nancy Collins CRUCIFAX AUTUMN CAPITOLO 18 IL CAPITOLO CENSURATO di Ray Garton ESCRESCENZE di Richard Christian Matheson ADDIO, OSCURO AMORE di Roberta Lannes A TUTTO GAS di Philip Nutman LA CITTÀ DEGLI ANGELI di J.S. Russell FUORILEGGE di Paul M. Sammon TI SPUTO IN FACCIA, I FILM CHE MORDONO di Chas. Balun RINGRAZIAMENTI Un tempo leggevo con aria di sufficienza i vari ringraziamenti che in genere ingombrano queste pagine. In fondo, pensavo nella mia grande ingenuità giovanile, il merito della pubblicazione di un'opera non dovrebbe essere soprattutto dell'autore o del redattore? Come mi sbagliavo... Tanto per cominciare vorrei esprimere la mia più profonda gratitudine
agli autori di Splatterpunks: questo libro rispecchia la vostra follia collettiva. Vorrei poi ringraziare Gordon Van Gelder e Stuart Moore della St. Martin's Press, sempre disponibili quando avevo bisogno di loro. Un grazie anche a Joe Lansdale per avere sopportato le infinite ore di discussioni in fase di stesura del libro. Infine desidero ringraziare le tre persone senza le quali quest'antologia non sarebbe mai stata pubblicata: Lori Perkins, agente e amica carissima; la prossima volta, che ne diresti se facessimo un libro sulla tapioca? John Skipp, uomo di grande coraggio e meravigliosa onestà; non è una battuta! E Sherry Sires Sammon, anima gemella, moglie e compagna di vita: puoi riporre la bambola vudu. Paul M. Sammon INTRODUZIONE I trasgressori ci sono sempre stati. Un tempo: Il Marchese de Sade. William Burroughs. Baudelaire. Oggi: Clive Barker. John Skipp. Joe R. Lansdale. Sono tutti ribelli, gente che si muove ai margini, che vive nell'abisso; artisti inflessibili che vedono tristi realtà con gli occhi dell'anima. Sono le calamite oscure da cui siamo attratti; attraggono e respingono e apprezzano il fascino degli eccessi. Sono gli epitomi dell'humor nero, le voci isolate dell'apocalisse. I loro scritti passano sulle pagine come fasci di luce attinica caldissima scrutando negli angoli più bui delle nostre anime. Per farla breve, sono splatterpunk. Che cos'è uno splatterpunk? Provate a immaginare un nuovo termine per definire un atteggiamento noto che non accetta restrizioni, non china il capo davanti a nessun dio e non conosce limiti. Pensate ai concetti: energia, fantasia e libertà dalle convenzioni. Pensate a un libro in cui da tali qualità si distilli l'essenza delle umane • contraddizioni; luce e oscurità, yin e yang. Ecco, state pensando a Splatterpunks. La presente antologia raccoglie diciassette voci uniche. Sono voci che
protestano contro repressioni e tabù. Ma attenzione: come l'accordo reaganiano armi-in-cambio-di-ostaggi, Splatterpunks non è adatto agli impressionabili. I racconti che state per leggere sono all'insegna della trasgressione, fuori da ogni legge. Provate a pensare: dove trovereste un macellaio che fa il turno di notte per la New York City Transit Authority? Solo qui. E neonati mutanti coprofagi? Ci sono anche quelli! Necrofilia, incesto, razzismo, stupro, crudeltà contro gli animali, pluriomicidi, saccheggio dei cadaveri... voltate pagina e vedrete. Ma, vi prego, non leggete soltanto a livello superficiale, perché questi racconti hanno significati profondi e offrono una visuale straziante sul nostro ventesimo secolo così malato e luccicante. In ogni sventramento scoprirete elementi dello humor più nero; dietro ogni apparente schifosaggine da ragazzi, le preoccupazioni più serie. Camminate senza far rumore, dunque, e portatevi dietro un grosso bastone. Siete entrati in una terra scura in cui l'orrore si fonde con l'arte. Armatevi solo di tre elementi: senso dell'umorismo, coraggio, una radio portatile a tutto volume sintonizzata preferibilmente su vero rock 'n' roll. Pronti? Okay. Vi aspettiamo... Paul M. Sammon Non ci sono limiti dalla pubblicità del film Hellraiser LA SERA CHE NON ANDAMMO ALL'HORROR SHOW Joe R. Lansdale "Joe R. Lansdale possiede cognizioni geografiche e una cultura del proprio stato, la Repubblica del Texas, molto personali, un grande talento per descrizioni maledettamente precise e fin troppo verosimili di crudeltà e vendette macabre ed è in grado di immedesimarsi nei personaggi in modo particolarmente convincente e paurosamente coinvolgente."
Questo paragrafo era sulla fascetta pubblicitaria della prima antologia rilegata di Lansdale (By Bizarre Hands del 1989, curata da Mark V. Ziesing), ma costituiva solo parte di essa. Joe Lansdale è anche una delle promesse più interessanti della narrativa moderna, un grande talento in attesa di sfondare. Dopo avere pubblicato su riviste "minori" come Last Wave, Modern Stories e Hardboiled, Lansdale si qualificò tra i professionisti già un paio d'anni fa. Si dedica con altrettanta passione e prolificità alla stesura di romanzi gialli (Cold in July, di cui sta preparando una versione cinematografica per il regista John Irvin), western (The Magic Wagon), fantascienza (Tight Little Stitches in a Dead Man's Back) e commedie nere (La notte del Drive-in, opera divenuta oggetto di un culto che si legge come un Joe Bob Briggs ed è all'altezza del Signore delle mosche). In questa sede ci interessa particolarmente la produzione di racconti dell'orrore di Lansdale. Nessuno, ma proprio nessuno, mette a disagio i lettori come lui. Forse sono le sue formidabili descrizioni a dare l'impressione che sappia destreggiarsi abilmente con la penna. Forse è la violenza esplicita percepibile tra le ben note debolezze dei protagonisti. Forse è l'entusiastica passione per il pessimo gusto. O forse è semplicemente il suo particolare senso dell'umorismo, comunque resta innegabile che Lansdale è uno dei più divertenti e maliziosi scrittori americani contemporanei. Non chiamatelo splatterpunk, però. "Io sono Joe Lansdale e non faccio parte di alcun movimento" dice. "Ovviamente mi piace che si faccia pubblicità per i miei lavori, ma non sono uno splatterpunk e quest'etichetta non mi va. Io sono la mia etichetta." E sia. I numerosi talenti e la varietà dei generi stanno a indicare che siamo in presenza di un autore che non può essere descritto con un unico termine. Tuttavia Lansdale di quando in quando scrive racconti classificabili come splatterpunk, categoria nella quale ricade senz'altro il qui presente. Il racconto, insignito del Premio Bram Stoker, è uno dei più duri della presente antologia. Sotto un'incredibile superficie d'impatto si nasconde un profondo rigetto del razzismo, della discriminazione sessuale e della più banale stupidità. Anche se Lansdale rifiuta l'etichetta, il racconto che segue è uno dei pochi altari davanti a cui tutti i veri splatterpunk s'inchinano. (Per Lew Shiner. Un racconto che non perdona.)
Se fossero andati al drive-in come avevano deciso, niente di tutto questo sarebbe accaduto. Ma a Leonard non piaceva andare al drive-in senza una ragazza e poi aveva sentito parlare di La notte dei morti viventi e sapeva che il protagonista era negro. Non voleva vedere film con protagonisti negri. I negri raccolgono il cotone, riparano i guasti e fanno i ruffiani per le ragazze negre, non aveva mai saputo di nessun negro che uccidesse zombie. E aveva sentito anche che nel film c'era una ragazza bianca che si lasciava toccare dal negro; questo gli dava fastidio. Una ragazza bianca che si fa toccare da un negro non può essere che un cesso. Forse una di Hollywood, New York o Chissaddove, o qualche altro luogo sperduto. Steve McQueen sarebbe stato perfetto come ammazzazombi, e, come palpatore di ragazze, il meglio. Ma un negro... nossignore. Diavolo, Steve McQueen sì che era un giusto. Come parlava nei film... diceva le cose in modo così perfetto che sembrava che qualcuno le avesse scritte. Lui sì che aveva la mente lucida e sapeva trovare sempre le parole giuste, e poi era un duro e aveva lo sguardo crudele. Leonard avrebbe voluto essere Steve McQueen, o addirittura Paul Newman. Quella gente sa sempre che cosa dire e poi deve avere anche parecchia grana. Sicuramente non si sarebbe annoiato tanto. Era talmente stufo da pensare che sarebbe morto di noia prima che la serata giungesse al termine. Noia, noia, noia mortale. Non era affatto divertente starsene nel parcheggio del Dairy Queen, appoggiato al cofano della sua Impala del '64 a guardare la superstrada. Si chiese se quel vecchio pazzo di Harry, che faceva le pulizie nella scuola, non potesse aver visto effettivamente i dischi volanti. Harry vedeva sempre cose strane. Piedone, donnole con sei zampe, cose stranissime. Ma forse i dischi li aveva visti davvero. Diceva di averne visto uno qualche sera prima sopra Mud Creek che proiettava sulla terra raggi come bastoncini di zucchero alla menta umidi. Leonard pensò che se Harry aveva davvero visto i dischi e i raggi, allora probabilmente erano stati raggi di noia. Sarebbe stata una bella vendetta delle creature dello spazio contro i terrestri: annoiarli a morte. Sarebbe stato meglio essere fusi da raggi di calore. Farla finita in fretta, ma morire di noia era come essere ucciso gradualmente a colpi di becco da uno stormo d'anatre. Leonard continuava a guardare la superstrada tentando di immaginare i dischi volanti e i fasci di noia, ma non riusciva a concentrarsi. Finalmente soffermò lo sguardo su qualcosa che giaceva sulla strada. Un cane morto.
Ma non era un cane morto qualsiasi: quello era un CANE MORTO. Il bastardo doveva essere stato investito perlomeno da un camion con rimorchio, forse da più di uno. Sembrava che ci fosse stata una pioggia di cane. C'erano pezzetti di cane sparpagliati sull'asfalto e una zampa giaceva sul bordo dell'altra carreggiata, sollevata, sembrava salutare. Nemmeno il dottor Frankenstein con i fondi del Johns Hopkins e il contributo della NASA sarebbe stato in grado di ricomporre quel bastardo. Leonard si avvicinò all'amico fedele e ubriaco, Billy — per gli amici Scoreggia, perché tirava i peti più potenti di tutta Mud Creek e disse: — Vedi quel cane laggiù? Scoreggia seguì con lo sguardo il dito di Leonard. Non aveva notato il cane e la scena non lo lasciò indifferente. Quel cane a pezzetti gli fece tornare in mente un cane che aveva avuto all'età di tredici anni. Un pastore tedesco grande e bello che gli voleva bene più di sua mamma. Quel cretino era rimasto impigliato per la catena a uno steccato con il filo spinato e chissà come si era impiccato. Quando Scoreggia aveva trovato il cane la lingua gli era parsa un calzino nero imbottito e aveva visto i solchi lasciati dalle unghie sul terreno che era stato troppo lontano per potervi appoggiare le zampe. Gli era sembrato che l'animale gli avesse voluto lasciare un messaggio in codice. Quando l'aveva raccontato al padre piangendo il suo vecchio era scoppiato a ridere e aveva commentato: — Sì, probabilmente uno di quei messaggi che lasciano i suicidi. Ora, guardando la superstrada con la pancia riscaldata dal whisky mescolato con la Coca, gli vennero i lucciconi. L'ultima volta che si era sentito così era stato quando aveva vinto la gara delle scoregge dando loro fuoco con un fornello a gas di dieci centimetri. Si era bruciacchiato i peli del culo e gli amici gli avevano regalato un paio di boxer. Marroni e gialli, così non ci sarebbe stato bisogno di cambiarli molto spesso. Ed eccoli lì, Leonard e Scoreggia, nel parcheggio del Dairy Queen, coi gomiti sul tetto dell'Impala di Leonard; bevono Coca e whisky, si annoiano a morte, si sentono in vena di oscenità, guardano un cane spiaccicato e non hanno niente di meglio da fare che andare a vedere un film con un protagonista negro. A dire il vero non sarebbe stato male, se avessero avuto delle ragazze. Le ragazze fanno dimenticare un sacco di cose, o ne fanno venire in mente tante altre, dipende un po' dai punti di vista. Ma era una serata tremenda. Non avevano ragazze. Ma quel che era peggio era che in tutta la scuola non una ragazza sarebbe uscita con loro. Nemmeno Marylou Flowers, che di solito ci stava anche se aveva qualche
malattia. Questa situazione infastidiva da matti Leonard. Almeno Scoreggia era brutto. Aveva una di quelle facce che attirano le mosche e, anche se il fatto di essere campione di Mud Creek nella sua specialità gli dava un certo prestigio, certamente non contribuiva a renderlo affascinante per le ragazze. E lui, invece? Cascasse il mondo, non riusciva a capire quale diavolo fosse il problema. Non era brutto, aveva qualche capo di vestiario elegante e la sua macchina funzionava benissimo quando non comperava quella benzina da quattro soldi. Aveva perfino qualche dollaro in tasca per aver svaligiato un paio di lavanderie automatiche. Eppure aveva il braccio destro grosso quasi come la coscia, a forza di farsi seghe una dietro l'altra. Dall'ultima volta che era uscito con una ragazza era passato un mese, e visto che assieme a loro c'erano stati altri nove ragazzi, non era certo di poterlo considerare un vero appuntamento galante. Quel dubbio lo tormentò al punto da convincerlo a chiedere l'opinione di Scoreggia. L'amico, che era stato il quinto ad andare con la ragazza, rispose di no, ma se Leonard voleva classificarlo come tale non gliene importava un accidente. Leonard invece non voleva. Decisamente non lo era stato. Non aveva avuto quel qualcosa di particolare, non era stato romantico. Era vero, la Rossa l'aveva chiamato tesoro quando era entrato dentro di lei, ma tanto lo diceva a tutti, eccetto a Stoney, che chiamava topolino. Era lui che l'aveva convinta a mettersi in testa il sacchetto di carta con i fori per gli occhi e la bocca. Stoney era fatto così. Se chiedeva qualcosa, nessuno era in grado di resistergli e alla fine la Rossa era stata addirittura orgogliosa di indossare quel sacco. Quando finalmente era stato il suo turno di andare con lei le aveva permesso magnanimamente di togliersi il sacco. Era stato un errore. Se gli capitava per le mani qualcosa di buono non era mai in grado di accorgersene. Stoney aveva avuto un'ottima idea. Sfilare il sacco era stato un disastro. Prima era come farsela con un ippopotamo, o roba simile, mentre dopo vedevi esattamente che cosa li toccava, e lo spettacolo non era dei migliori. Aveva chiuso gli occhi, ma non era cambiato nulla. Aveva avuto l'impressione che la bruttezza di quel viso gli fosse rimasta impressa sulle palle degli occhi. Non era riuscito nemmeno a immaginare di ricoprirla con il sacco. Non aveva saputo pensare ad altro che a quella faccia cicciotta, troppo truccata, con la pelle malsana non solo esternamente ma anche in profondità.
Era rimasto talmente deluso che aveva dovuto fingere l'orgasmo e ritirarsi prima che l'uccello gli si afflosciasse e il profilattico scivolasse via nel vuoto. Ricordando l'evento Leonard sospirò. Una volta tanto sarebbe stato carino andare con una ragazza che non prendeva l'iniziativa o non aveva tra le gambe un buco come un tombino senza coperchio. Talvolta invidiava Scoreggia che era sempre contento. Gli piaceva qualsiasi cosa. Gli bastava un barattolo di peperoncini piccanti Wolf Brand, un bel dolce, Coca e whisky e poteva passare il resto della vita a scoparsi la Rossa e dare fuoco al gas che gli usciva dal buco del culo. Ma che vita era mai quella? Niente donne, niente divertimento. Noia, noia e ancora noia. Leonard si mise a guardare il cielo in cerca di astronavi e di raggi di noia color verde menta, ma vide solo qualche farfalla notturna che svolazzava come ubriaca nella luce del Dairy Queen. Riportando lo sguardo sulla strada e sul cane gli venne un'idea. — Perché non tiriamo fuori dal cofano la catena e leghiamo Fido? Lo portiamo a fare un giro. — Così, morto? — chiese Scoreggia. Leonard annuì. — È meglio che calpestare una puntina da disegno — fu il commento di Scoreggia. Portarono l'Impala in mezzo alla superstrada in un momento in cui non passavano altre automobili e scesero a guardare. Da vicino il cane aveva un aspetto ancora più tremendo. Le interiora gli erano schizzate fuori dalla bocca e dal buco del culo e puzzavano da far schifo. Il cane portava un grosso collare di cuoio con borchie metalliche a cui fissarono la catena di cinque metri. L'altra estremità la legarono al paraurti posteriore. Bob, il gestore del Dairy Queen, li vide dalla finestra e uscì gridando: — Che cosa state facendo, fottuti bastardi? — Portiamo Fido dal veterinario — rispose Leonard. — Ci sembra piuttosto mal ridotto. Forse è stato investito. — Che spiritosi! Quasi quasi mi piscio addosso dal ridere! — fece Bob. — Eh, già, i vecchi soffrono di questo problema — disse Leonard. Quindi si mise al volante e Scoreggia si issò sul sedile di destra. Riuscirono a spostare l'automobile e il cane appena in tempo per evitare un camion con rimorchio. Mentre si allontanavano Bob gridò loro dietro: — Vi auguro di andare a schiantarvi contro un palo con quella fottuta Chevy. Man mano proseguivano dal cadavere del cane volavano via pezzi quasi fosse una pagnotta molto friabile. Un dente qua, un ciuffo di peli là, un po'
di budella, un'unghia, e poi una poltiglia rosa non meglio identificabile. Le borchie del collare e la catena ogni tanto producevano scintille. Quando raggiunsero i centoventi chilometri l'ora il cane ondeggiava descrivendo un semicerchio sempre più ampio quasi aspettasse il momento opportuno per sorpassarli. Scoreggia versò Coca e whisky per entrambi. Porse a Leonard un bicchiere di carta e lui buttò giù l'intruglio tutto d'un fiato. Era già molto più allegro. Forse quella serata non sarebbe poi stata tanto male. Superarono una folla radunata sul bordo della strada, uno station wagon marrone e un rudere di Ford su un cricco. Videro subito che al centro del gruppo c'era un negro che non stava certo facendo da testimone. Saltellava come un porco con un petardo nel culo tentando di trovare un pertugio tra i bianchi per potersela dare a gambe. Ma erano in troppi attorno a lui. Nove ragazzi bianchi lo spintonavano come se fosse una palla da biliardo chiusa in una macchina malefica. — Ma quello non è uno dei nostri negri? — chiese Scoreggia. — E quelli non sono i ragazzi della squadra di football White Tree che cercano di farlo fuori? — Scott — rispose Leonard pronunciando il nome con disgusto. Era stato Scott a soffiargli il posto di terzino nella squadra. Quel maledetto negro faceva un gioco più disordinato di un barattolo di vermi da pesca, ma funzionava quasi sempre. E correva come una lepre. Mentre passavano Scoreggia commentò: — Leggeremo di lui domani sui giornali. Ma Leonard non proseguì a lungo e inchiodò, fece una svolta a "U" e tornò indietro. Fido seguì il movimento falciando alcuni girasoli secchi sul bordo della strada. — Torniamo lì a guardare? — chiese Scoreggia. — Non penso che i White Tree avrebbero qualcosa in contrario se stessimo lì a guardarli. — Sarà anche un negro — sbottò Leonard senza riuscire a capacitarsi di quanto stava per fare — ma è pur sempre il nostro negro e non possiamo permettere che ce lo facciano fuori. Se lo ammazzano poi ci battono. Scoreggia fu subito d'accordo. — Hai ragione! Non possono trattare così il nostro negro! Leonard girò nuovamente e si diresse verso il gruppo suonando il clacson all'impazzata. I White Tree schizzarono via in tutte le direzioni. Fossero stati rospi non avrebbero fatto balzi più alti. Scott rimase immobile, spaventato, con le ginocchia a "X" che si tocca-
vano e gli occhi dilatati come teglie da pizza. Non aveva mai notato che la grata del radiatore avesse un aspetto tanto minaccioso. Lì nella notte sembrava una bocca piena di denti e i fari parevano occhi. Si sentì come uno stupido pesce che sta per essere divorato da uno squalo. Leonard inchiodò, ma sulla ghiaia della piazzola non riuscì a evitare di colpire Scott facendolo volare sul cofano fino a fermarsi con la faccia spiaccicata contro il parabrezza. Poi rotolò per terra da un lato portandosi dietro un tergicristalli che gli si era impigliato nella maglietta. Leonard spalancò lo sportello e gridò: — Adesso o mai più. Uno dei White Tree corse verso l'automobile e Leonard tirò fuori da sotto il sedile il manico di martello coperto di nastro adesivo e scese per colpirlo. Il ragazzo cadde in ginocchio e disse qualcosa che sembrava francese ma non lo era. Leonard afferrò Scott per la schiena della maglietta, lo sollevò e lo scaraventò sul sedile. Scott scavalcò il sedile anteriore e si sedette dietro. Leonard scagliò il bastone contro un altro ragazzo e indietreggiò. Si mise al volante, ingranò la prima e partì pigiando l'acceleratore a tavoletta. L'Impala balzò avanti e Leonard spalancò con la sinistra lo sportello che si aprì come un'ala e colpì uno dei White Tree. Sobbalzando il veicolo tornò sulla strada seguito dalla catena che fece crollare a terra altri due proprio come aveva falciato i girasoli secchi. Leonard guardò nello specchietto retrovisore e vide due giocatori che trasportavano verso la loro auto quello che lui aveva colpito con il bastone. Quelli che erano stati colpiti dalla porta e dal cane stavano rialzandosi. Uno aveva tolto il cric da sotto l'auto di Scott e lo stava usando per infrangere i fari e il parabrezza. — Spero che tu sia assicurato — commentò Leonard. — L'avevo presa in prestito — rispose Scott togliendosi il tergicristalli dalla maglietta. — Tieni, potrebbe tornarti utile. — Lasciò cadere il pezzo tra Leonard e Scoreggia. — Quell'auto non era tua? — esclamò Scoreggia. — Allora è ancora peggio. — No — gli assicurò Scott. — Il proprietario non sapeva che l'avevo presa. Gli avrei anche cambiato la ruota se ne avesse avuta una di scorta, ma nel portabagagli non ho trovato che il cerchione. A proposito, grazie per avermi salvato. Altrimenti non avremmo più potuto giocare insieme. Però stavate per investirmi. Mi fa male il petto. Leonard lanciò un'altra occhiata allo specchietto. I White Tree si stavano avvicinando rapidamente. — Ti lamenti? — chiese Leonard.
— No — rispose Scott e si voltò a guardare fuori dal lunotto posteriore. Vide il cane che ondeggiava da una parte all'altra perdendo pezzi che volavano lontano. — Spero che non siate partiti dimenticando di avere il cane legato al paraurti. — Accidenti! — esclamò Scoreggia. — E avevo anche già pagato l'imposta. — Non c'è niente da ridere — sbottò Leonard — si avvicinano sempre di più. — Be', accelera — suggerì Scott. Leonard strinse i denti. — Potrei sempre disfarmi di un po' di zavorra. — Buttare fuori il tergicristalli non servirà a niente — rispose Scott. Leonard guardò nello specchietto e scorse il negro che ridacchiava sul sedile posteriore. Non c'è niente di peggio di un negro che ride. Non sembrava neppure grato. Leonard immaginò d'un tratto che i White Tree li raggiungevano. Rabbrividì. E se fosse stato ammazzato assieme al negro? Già farsi ammazzare era abbastanza grave, ma se l'indomani l'avessero trovato in un fosso con Scoreggia e il negro... O magari i White Tree l'avrebbero costretto a fare qualcosa di terribile con il negro prima di ucciderli. Forse gli avrebbero fatto succhiare l'uccello del negro o qualcosa di simile. Continuò a tenere pigiato a tavoletta l'acceleratore. Quando arrivarono al Dairy Queen fece una svolta azzardata a sinistra. Fido andò a sbattere contro un palo della luce e poi tornò a seguirli. Gli altri non avrebbero potuto fare quella svolta con la station wagon e non provarono nemmeno. Inchiodarono in un parcheggio, girarono e tornarono indietro. Intanto i fanalini di coda dell'Impala continuavano ad allontanarsi rapidamente. Sembravano due emorroidi infiammate in uno scuro buco di culo. — Prendi la prossima a destra — suggerì Scott — poi vedrai una stradina sulla sinistra. Spegni i fari e svolta a sinistra. Leonard non sopportava di prendere ordini da Scott sul campo, ma qui era ancora peggio. Offensivo. Però Scott faceva ottimi giochi e l'abitudine di seguire il terzino è dura a morire. Leonard svoltò a destra e Fido li seguì dopo aver fatto un tuffo in un fosso pieno d'acqua. Leonard scorse la strada sulla sinistra, spense i fari e svoltò. Si trovarono in mezzo ad alcuni capannoni metallici. Si infilò tra due di essi e poi prese un'altra stradina lungo la quale ne sorgevano diversi altri. Spense il motore e rimasero in attesa. Dopo cinque minuti Scoreggia disse: — Credo proprio che li abbiamo seminati, quei figli di puttana.
— Siamo una buona squadra. Suo malgrado Leonard era contento. Era come quando il negro faceva un buon gioco e poi tutti si scambiavano pacche sul sedere senza guardare di che colore fosse, perché in quel momento erano soltanto creature in divisa da football. — Beviamoci sopra — propose Leonard. Scoreggia raccolse dal pavimento un bicchiere e vi versò Coca calda e whisky. L'ultima volta che erano stati a Longview ci aveva pisciato dentro per non doversi fermare, ma era stato vuotato da tempo, e poi era per un negro. Rabboccò anche il bicchiere di Leonard e il proprio. Scott bevve un sorso ed esclamò: — Bleah, che schifo! — Piscio — rispose Scoreggia. Leonard levò il bicchiere. — Ai Wildcats di Mud Creek e che i White Tree vadano a farsi fottere. — Fottili tu — precisò Scott. Proprio nel momento in cui brindavano l'abitacolo fu invaso dalla luce. Con i bicchieri sollevati i Tre Moschettieri strinsero gli occhi per vedere da dove venisse la luce. Usciva dalla porta di un capannone; sulla soglia c'era un uomo grasso come una mosca turgida su uno spicchio di limone. Alle sue spalle c'era un grande schermo fatto di lenzuola su cui veniva proiettato un film. Benché la forte luce gli impedisse di vedere chiaramente Leonard, che era il più vicino, riuscì a intravedere qualche fotogramma. Gli parve di distinguere una ragazza inginocchiata che succhiava l'uccello di un grassone (visibile dalla vita in giù) che le puntava una pistola alla fronte. Lei si staccò per un istante e l'uomo le eiaculò in faccia e poi le sparò. La testa della ragazza uscì dall'inquadratura. Sembrava che il lenzuolo si fosse macchiato di sangue scuro come condensa sul vetro di una finestra. Poi Leonard non riuscì a vedere altro perché sulla soglia della porta era comparso un altro uomo grasso come il primo. Sembravano enormi palle da bowling appoggiate ognuna su un paio di scarpe. Alle loro spalle comparvero altri uomini, ma uno dei due fece un cenno con la mano e si allontanarono. I due grassoni uscirono e uno di loro socchiuse la porta. Ora solo una sottile striscia di luce veniva proiettata sui sedili anteriori dell'Impala. Il Grasso Numero Uno raggiunse l'automobile, aprì la portiera dalla parte di Scoreggia e disse: — Scendete, figli di puttana; anche il negro. — Fu come una voce d'oltretomba. Avevano pensato che solo i White Tree fossero pericolosi... ma si erano ingannati. Al confronto di questi individui
sembravano piuttosto innocui. Quell'uomo avrebbe ingoiato il manico del martello per poi cagare un ciocco di legno molto più grosso. Scesero e il grasso li allineò dal lato di Scoreggia e li esaminò. Avevano ancora in mano i bicchieri con i drink, ma a parte quelli sembravano galeotti. Il Grasso Numero Due si avvicinò per vederli e sorrise. I due erano evidentemente gemelli. Avevano la stessa brutta fisionomia e le stesse facce tonde. Indossavano camicie hawaiane che differivano tra loro solo per il profilo e il colore dei pappagalli; calzini bianchi, pantaloni neri a mezz'asta e scarpe nere italiane talmente appuntite che sarebbero potute servire per infilare un ago. Il Grasso Numero Uno prese il bicchiere di Scott e lo annusò. — Un negro che beve alcolici — sbottò. — È come una fica col cervello. Stona. Scommetto che ti stavi sbronzando per cacciare il tuo serpente nero in un budino al cioccolato. O magari preferisci il budino alla vaniglia e questi due ragazzi ti avrebbero combinato l'affare. — Io voglio solo andarmene a casa — precisò Scott. Il Grasso Numero Due lanciò un'occhiata al Grasso Numero Uno e commentò: — Così può farlo con sua madre. I ciccioni aspettarono di sentire che cos'avrebbe detto Scott, ma lui rimase muto. Per quanto lo riguardava potevano anche dire che se la faceva con i cani. Al diavolo! Potevano portargliene uno e se lo sarebbe fatto sui due piedi, se poi l'avessero lasciato andare. Il Grasso Numero Uno riprese: — Che schifo, che due ragazzi come voi se ne vadano in giro con un animale. — È solo un nostro compagno di scuola — si giustificò Scoreggia. — Non siamo amici. Gli abbiamo dato un passaggio unicamente perché i ragazzi della squadra di White Tree lo stavano pestando e non volevamo che gli facessero del male visto che è il nostro terzino. — Ah! — esclamò il Numero Uno — capisco. Personalmente... a me e Vinnie i negri che fanno sport non piacciono. Cominciano a farsi la doccia con i ragazzi bianchi e poi vogliono farsi anche le ragazze bianche. Il passo è breve. — Non abbiamo niente a che fare con lui quando giochiamo — ritorse Leonard. — Le scuole non sono integrate. — No — esclamò il Numero Uno — quello era il vecchio Johnson; voi eravate in giro e bevevate con lui. — Avevamo pisciato nel suo bicchiere — precisò Scoreggia. — Era co-
me una specie di scherzo. Non è nostro amico, lo giuro. È solo un negro che gioca a football. — Gli avete pisciato nel bicchiere, eh? — ripeté l'uomo che si chiamava Vinnie. — Mi piace l'idea, e a te, Pork? Ma guarda, gli hanno pisciato nel bicchiere. Pork lasciò cadere il bicchiere di Scott e sorrise. — Vieni qui, negro, devo dirti una cosa. Scott lanciò un'occhiata a Scoreggia e Leonard che non gli offrirono alcun aiuto. D'un tratto entrambi avevano preso a guardarsi le punte delle scarpe. Le guardavano come se ne fossero affascinati. Scott si avvicinò a Pork e questi, sempre sorridendo, gli cinse le spalle con un braccio e si avviò verso il grande capannone. — Che cosa facciamo? — s'informò Scott. Pork lo voltò verso Leonard e Scoreggia che avevano ancora in mano i bicchieri e continuavano a guardarsi le punte delle scarpe. — Non volevo sporcare il vialetto di ghiaia nuovo — spiegò Pork e avvicinò la testa di Scott alla propria; con la mano libera estrasse una piccola pistola nera da sotto la camicia hawaiana, la puntò contro la tempia di Scott e tirò il grilletto. Si sentì un rumore come di un ginocchio che si flette all'incontrano e i piedi di Scott si sollevarono insieme e furono spinti di lato; qualcosa di scuro gli spruzzò fuori dalla testa e i piedi tornarono verso Pork strisciando sull'asfalto. — Non è incredibile? — esclamò Pork quando il corpo di Scott si afflosciò e rimase appeso inerte alla sua mano — il ritmo è sempre l'ultimo a morire. Leonard non riuscì a dire nulla. Aveva lo stomaco in bocca. Avrebbe voluto sciogliersi e colare sotto l'auto. Scott era morto e il suo cervello, che aveva inventato giochi disordinati come vermi da pesca e aveva comandato ai suoi piedi di correre sul campo di football ora sembrava una porzione di uova strapazzate. — Cacchio — esclamò Scoreggia. Pork lasciò andare Scott che cadde seduto con le gambe larghe e andò a sbattere con la fronte sul cemento. Sotto la faccia si formò una pozza scura. — Per lui è meglio così, ragazzi — spiegò Vinnie. — I negri sono stati generati da Caino e da una scimmia e non sono vere scimmie né veri uomini. Nel mondo non c'è spazio per loro, eccetto come bestie da soma. Se provi ad addestrarli e a insegnare loro a guidare e a correre dietro una palla
sono sempre dolori per loro e per i bianchi. Ti sei macchiato la camicia, Pork? — No, neppure una goccia. Vinnie entrò nel capannone e disse qualcosa agli uomini che stavano dentro, ma dal di fuori non si riuscì a capire che cosa, poi tornò con qualche giornale stropicciato. Si chinò su Scott e gli avvolse la testa insanguinata con i giornali, poi la lasciò ricadere sul cemento. — Prova a pulire questo schifo con la pompa quando è asciutto, Pork, e vedrai che la ghiaia non è niente, al confronto. Poi Vinnie ordinò a Scoreggia: — Apri la portiera posteriore della macchina. — Scoreggia si slogò quasi una caviglia per obbedire in fretta. Vinnie sollevò Scott per la collottola e il didietro dei pantaloni e lo scaraventò sul pavimento dell'Impala. Pork si grattò le nocche con la canna della pistola che poi fece sparire infilandosela nella cintura sotto la camicia hawaiana. — Verrete al fiume con noi e ci aiuterete a liberarci di questo negro. — Signorsì — esclamò Scoreggia. — Ve lo buttiamo nel Sabine. — E tu? — chiese Pork a Leonard. — Che cosa sei, una femminuccia? — No — balbettò Leonard con voce roca. — Sono dei vostri. — Bravo — approvò Pork. — Vinnie, prendi il fuoristrada e vai avanti. Vinnie si tolse di tasca una chiave e aprì la porta del capannone accanto a quello da cui usciva la luce. Entrò e uscì in retromarcia a bordo di un'elegante Dodge dorata. Si fermò davanti all'Impala e rimase lì col motore acceso. — Voi, ragazzi, non muovetevi — ordinò Pork ed entrò velocemente nel capannone illuminato. Lo sentirono dire: — Andate pure avanti con i film. E conservateci qualche birra. Torniamo presto. — Poi la luce si spense e Pork uscì chiudendo la porta. Rivolto a Leonard e Scoreggia disse: — Su, bevete, ragazzi. I due versarono via la Coca calda con il whisky e buttarono per terra i bicchieri di carta. — E adesso — riprese Pork — tu siediti dietro con il negro che io mi metto davanti. Scoreggia si sedette sul sedile posteriore e appoggiò i piedi sulle ginocchia di Scott. Tentò di non guardare la testa avvolta nella carta di giornale, ma non riuscì a farne a meno. Quando Pork aprì la portiera anteriore e la luce interna si accese Scoreggia vide che il giornale era strappato e gli permetteva di scorgere un occhio di Scott. In corrispondenza della fronte la
carta era diventata scura. Vicino alla bocca e al mento c'era la pubblicità di una svendita di pesce. Leonard si sedette al volante e mise in moto. Pork si sporse verso di lui e suonò il clacson. Vinnie si avviò e Leonard lo seguì fino al letto del fiume. Nessuno parlò. Leonard maledisse il momento in cui aveva deciso di non andare al drive-in a vedere il film con l'attore negro. Giù al fiume l'aria era umida e calda per la vicinanza dell'acqua e la folta vegetazione. Percorrendo con la sua Impala le strette strade di fango rosso tra i cespugli Leonard si sentì come un granchio in mezzo alla folta peluria di un pube. Dagli strattoni del volante capì che il cane e la catena restavano impigliati su cespugli e rami. Fino a quel momento non aveva più pensato al cane e ora cominciò a preoccuparsene. Se si fosse impigliato e avesse dovuto fermarsi? Non pensava che Pork avrebbe accettato di buon grado una sosta, non con il cadavere di un negro di cui non vedeva l'ora di liberarsi. Finalmente arrivarono a una radura e si trovarono sulla riva del fiume Sabine. Leonard aveva sempre odiato l'acqua. Al chiaro di luna sembrava un fiume di caffè avvelenato. Sapeva che c'erano alligatori e lucci grandi come piccoli alligatori e serpenti d'acqua a migliaia; il solo pensiero di quelle bestie viscide che si muovevano nell'acqua lo faceva star male. Arrivarono al cosiddetto Ponte Rotto. Era un vecchio ponte consunto crollato al centro e collegato alla riva solo da quel lato. Talvolta veniva usato dai pescatori. Quella sera però a pescare non c'era nessuno. Vinnie fermò il camioncino e Leonard accostò puntando il muso della Chevy verso il ponte. Tutti scesero e Pork costrinse Scoreggia a tirare fuori Scott per i piedi. Il giornale che aveva attorno al capo si aprì lasciando scoperti un orecchio e parte del viso. Scoreggia lo risistemò. — Ma vaffanculo — sbottò Vinnie. — Chi se ne fotte se si sporcano i sassi! Voi due idioti, datevi da fare e cercate qualcosa di pesante per affondare il negro. Scoreggia e Leonard si misero a correre in giro come scoiattoli alla ricerca di pietre grandi e ciocchi di legno pesanti. D'un tratto Vinnie esclamò: — Ugh, che schifo! Ehi, Pork, vieni un po' qua a vedere. Leonard gli lanciò un'occhiata e vide che aveva scoperto Fido. Stava a guardarlo con le mani puntate sui fianchi. Pork lo raggiunse, poi si voltò verso di loro. — Ehi voi, figli di puttana, venite qua. Leonard e Scoreggia si avvicinarono guardando il cane. Ormai non restava molto più della testa con qualche brandello di carne e pelo attaccati
alla spina dorsale e a un paio di costole spezzate. — È la scena più disgustosa e perversa che io abbia mai visto — sbottò Pork. — Che schifo — ripeté Vinnie. — Far fuori un cane così. Ma proprio non avete cuore? Un cane. Il migliore amico dell'uomo e voi bastardi lo ammazzate così. — Non l'abbiamo ammazzato noi — spiegò Scoreggia. — Ah, vuoi cercare di convincermi che l'ha fatto da solo? Aveva avuto una brutta giornata e ha deciso di farla finita... — Che schifo! — insisté Vinnie. — Nossignore — si difese Leonard. — Quando l'abbiamo legato era già morto. — Sì, buonanotte, e io vi credo — sbottò Vinnie. — Bella roba! Brutti bastardi, avete assassinato questa povera bestia. — Solo il pensiero che lui avrà tentato di tenervi dietro mentre voi, maledetti bastardi, continuavate ad accelerare, mi fa incazzare come una iena — esclamò Pork. — No — precisò Scoreggia. — Non è andata così. Era già morto e noi eravamo ubriachi e non avevamo niente di meglio da fare, così l'abbiamo... — Ma chiudi il becco! — lo interruppe Pork puntandogli un dito contro la fronte. — Chiudi il becco, hai capito? Vi siete trascinati dietro questo povero cane fino a scorticarlo tutto... ma che razza di madri avete, che non vi hanno insegnato ad amare gli animali? — Che bastardi — gli fece eco Vinnie. Rimasero tutti a guardare il cane in silenzio. Poi Scoreggia propose: — Volete che continuiamo a cercare pietre per far affondare il negro? Pork lo fulminò con lo sguardo. — Maledetti bastardi, voi siete molto peggio dei negri. Fare fuori un cane così. Tornate vicino alla macchina. Leonard e Scoreggia obbedirono e si misero a osservare il corpo di Scott più o meno come avevano guardato il cane. La fioca luce lunare interrotta qua e là dalle ombre proiettate dagli alberi faceva sembrare il cadavere una grande bambola di cartapesta. Pork sferrò un calcio alla faccia di Scott e fece volare in acqua il giornale spaventando alcune rane. — Lasciate perdere il negro — ordinò Pork. — Dammi le chiavi della macchina, pezzo di merda. — Leonard gliele porse e lui andò ad aprire il portabagagli. — Trascinate qua il negro. Leonard prese Scott per un braccio, Scoreggia per l'altro. — Mettetelo nel portabagagli — continuò Pork.
— Ma perché? — volle sapere Leonard. — Perché di sì! — sbottò Pork. Leonard e Scoreggia lo issarono nel bagagliaio. Aveva un aspetto desolato, vicino alla ruota di scorta con il viso parzialmente coperto dal giornale. Leonard considerò che se soltanto il negro avesse rubato un'auto con la ruota di scorta forse tutto sarebbe andato diversamente. Avrebbe potuto cambiare il pneumatico e ripartire prima ancora che i White Tree lo scoprissero. — Bene, adesso tu sali con lui — ordinò Pork facendo cenno a Scoreggia. — Io? — chiese lui. — No, non tu, l'elefante che hai sulla spalla. Ma sì, certo, tu, avanti, non abbiamo tutta la notte. — Cristo! Guardi che non abbiamo fatto niente a quel cane. Gliel'abbiamo già detto. Giuro. Io e Leonard l'abbiamo legato che era già morto... l'idea è stata di Leonard. Pork non reagì. Rimase a guardarlo con una mano sul cofano. Scoreggia ricambiò lo sguardo, poi lanciò ancora un'occhiata a Leonard e salì nel bagagliaio voltando le spalle a Scott. — Una bella coppietta — commentò Pork e sbatté il cofano. — Adesso tu, come diavolo ti chiami, Leonard? Vieni qui. — Lo afferrò per la collottola con una mano grassoccia e lo spinse verso il punto in cui giaceva Fido. Vinnie non riusciva a staccare lo sguardo dalla scena. — Che cosa ne dici, Vinnie? — chiese Pork — stiamo pensando alla stessa cosa? Vinnie annuì. Si abbassò e slacciò il collare del cane, quindi lo mise a Leonard. Leonard sentì il fetore, chinò il capo e rigettò. — E io che speravo di non sporcarmi le scarpe — commentò Vinnie colpendolo con un pugno allo stomaco. Leonard cadde in ginocchio e vomitò ancora Coca calda e whisky. — Maledetti stronzi, siete i bastardi più bastardi che io abbia mai visto — esclamò Vinnie — peggio dei negri. Vinnie prese dal camioncino del filo da pesca robusto con cui legarono le mani dietro la schiena a Leonard. Lui scoppiò a piangere. — E chiudi il becco — gl'intimò Pork. — Non è poi così grave, davvero. Ma Leonard non riusciva a stare zitto. Ora i suoi gemiti riecheggiavano tra gli alberi. Chiuse gli occhi e tentò di immaginare di essere andato a vedere il film con l'attore negro e di essersi addormentato in macchina. Tentò
di convincersi che era solo un incubo, ma non ci riuscì. Pensò a Harry, l'uomo delle pulizie, e ai suoi dischi volanti con i raggi di noia, ma sapeva benissimo che se esistevano dischi volanti che proiettavano fasci di luce, quella luce non era affatto noia, perché in quel momento non si sentiva minimamente annoiato. Pork gli sfilò le scarpe, lo fece sdraiare per terra e gli tolse le calze, poi gliele ficcò in bocca riempiendola del tutto in modo che non le potesse sputare. Non che Pork temesse che qualcuno potesse sentire le grida, ma il rumore gli dava fastidio, gli faceva dolere le orecchie. Leonard giaceva per terra nel vomito vicino ai resti del cane e piangeva in silenzio. Pork e Vinnie aprirono le portiere anteriori dell'Impala in modo da riuscire a spingerla. Vinnie mise in folle e cominciarono a spingere. L'automobile dapprima si mosse lentamente, poi, venendosi a trovare sul pendio che portava al ponte, accelerò. Da dentro il bagagliaio Scoreggia bussava piano sul cofano come se non fosse certo di volerlo fare. La catena si tese e Leonard si sentì tirare il collo. Cominciò a scivolare sul suolo come un serpente. Vinnie e Pork si allontanarono e guardarono l'Impala che saliva sul ponte e colava a picco nel fiume quasi senza far rumore. Leonard, trascinato dal peso dell'automobile, scivolò accanto a loro. Poi andò a sbattere contro il ponte e le schegge di legno gli fecero calare i calzoni e le mutande fino alle ginocchia. La catena ondeggiò verso la ringhiera marcia del ponte e Leonard tentò di tenersi con una gamba a un'asse, ma fu uno sforzo inutile. Il peso della macchina gli fece slogare il ginocchio e l'asse fu sradicata producendo un sinistro scricchiolio di legno e chiodi. Leonard cadde sempre più veloce e la catena lo tirò sott'acqua come un fuscello. L'ultima immagine di Leonard furono le piante dei piedi, bianche come la pancia dei pesci. — È profondo, qui — esclamò Vinnie. — In questo punto una volta ho pescato un grosso pesce gatto, ti ricordi? Un bestione. Ci scommetto che sono quasi venti metri. Salirono a bordo della loro vettura e Vinnie mise in moto. — Credo che abbiamo fatto un favore a quei ragazzi — esordì Pork. — Andavano in giro con i negri e poi la fine che hanno fatto fare a quel cane... Non valevano una cicca. — Lo so — rispose Vinnie. — Però avremmo dovuto filmare la scena. Pork, sarebbe stata una buona idea. Quando la macchina è precipitata in
acqua tirandosi dietro quell'amico dei negri è stato fantastico. — Ma no, ci sarebbe voluta qualche donna. — Già, hai ragione — approvò Vinnie, poi mise in retro, girò il camioncino e prese la strada che serpeggiava tra gli alberi lasciandosi alle spalle il letto del fiume. Titolo originale: Night They Missed the Horror Show (1988) MACELLERIA MOBILE DI MEZZANOTTE Clive Barker Clive Barker comparve dal nulla nel 1984 con i tre volumi I libri di sangue di Clive Barker. I tre tomi, originariamente concepiti come un volume unico, sono scritti in una prosa grafica, intensa ed esplicita in campo sessuale e dimostrano come l'Autore, dopo avere assimilato tutta la narrativa dell'orrore precedente, sferri un attacco frontale allo status quo. La tattica di Barker è improntata alla semplicità: nulla è specificato, tutto è possibile. I Libri di sangue, in cui a elementi stilistici del cinema di David Cronenberg, Dario Argento e George Romero si fondono influssi letterari da Ramsey Campbell, Graham Greene e riviste sadomaso, costituiscono le fondamenta su cui Barker in seguito edificò un impero solitario (con altri tre volumi della serie, romanzi come Il mondo nel tappeto, Cabal, Gioco dannato e Il grande spettacolo segreto, numerosi adattamenti di fumetti e film quali Hellraiser e Cabal che l'Autore scrisse e diresse). Dal 1984 questo affascinante e loquace personaggio — che somiglia fisicamente a Paul McCartney — ha raggiunto apici di vendite pari a quelli dei grandi James Herbert e Stephen King. Per la sua grande maestria, la fantasia iperallucinata e la particolare abilità a descrivere gli eccessi del sesso e della violenza, Barker resta il punto di riferimento fisso per un gruppo di scrittori affini. Stranamente la produzione di Barker è divisibile in due categorie proprio come quella del compatriota Graham Greene: intrattenimento da un lato e opere serie dall'altro (esito a usare il termine arte; anche Greene del resto si serve delle etichette "intrattenimento" e "romanzi"). Per trovare un'opera seria si rimanda il lettore a "Sulle colline, la Città", un racconto nello stile di Borges che narra di lotte tra paesi diversi munito da Barker di un'accurata struttura portante che sostiene l'aspetto fantastico. Poi ci sono i divertimenti come il racconto di che qui presentiamo.
Qui le tecniche cinematografiche splatterpunk sono utilizzale con qualche elemento mitologico tratto dai "grandi antichi" di H.P. Lovecraft. Il risultato è una satira piuttosto pesante nei confronti della paura che i cittadini di New York nutrono costantemente nei confronti della propria rete di trasporti metropolitani. Attenzione però, perché le prossime pagine sono alquanto... sanguinolente. Per scriverle Barker deve avere studiato a fondo l'anatomia dal libro di Gray. E infine "Macelleria mobile di mezzanotte" ha anche una funzione storica. Quest'esercizio carnografico riproduce fedelmente il momento storico in cui, attraverso l'avvento di Clive Barker, il modello inglese preferito dagli splatterpunk riesce a sgusciare dal ventre della letteratura tradizionale dell'orrore dopo averlo squarciato a morsi. Leon Kaufman ormai non era più nuovo in città, nella Reggia dei Piaceri, come l'aveva chiamata nei giorni della sua innocenza. Ma allora abitava ad Atlanta e considerava New York una specie di terra promessa dove era permesso tutto, qualsiasi cosa. Ora Kaufman viveva da tre mesi e mezzo nella città dei suoi sogni e la Reggia dei Piaceri gli sembrava un luogo tutt'altro che piacevole. Era davvero passata solo una stagione da quando era uscito dal terminal delle autocorriere di Port Authority e aveva scrutato la Quarantaduesima Strada in direzione di Broadway? Un intervallo di tempo così breve per perdere tante illusioni. Ora si sentiva in imbarazzo per essere stato tanto ingenuo. Sussultava al ricordo di avere annunciato ad alta voce: "New York, ti amo". Amore? Mai. Tutt'al più si era trattato di un'infatuazione. E ora, dopo essere vissuto per soli tre mesi a contatto con l'oggetto della sua adorazione, trascorrendo giorni e notti in sua presenza, la città aveva perso ogni aura di perfezione. New York era soltanto una città. L'aveva vista svegliarsi di mattina come una sciattona e togliersi dai denti i morti ammazzati e spazzolarsi via i suicidi dai capelli aggrovigliati. L'aveva vista di sera tardi con le sue strade sporche e buie a corteggiare la corruzione senza provare vergogna. L'aveva osservata nei pomeriggi afosi, indolente e sgradevole, cieca alle atrocità commesse ogni ora nei suoi vicoli soffocanti. Quella non era affatto una Reggia delle Delizie. Generava morte, non piacere.
Tutti i suoi conoscenti erano venuti a contatto con la violenza; faceva parte della vita. Era quasi considerato chic avere conosciuto qualcuno che fosse morto di morte violenta. Un modo per dimostrare di essere un abitante di quella città. Ma Kaufman aveva amato New York da lontano per quasi vent'anni. Ci aveva pensato durante buona parte della sua vita adulta, non era facile, quindi, dimenticare quella passione come se non l'avesse mai provata. C'erano ancora momenti, di mattina presto, prima che cominciassero a farsi sentire le sirene della polizia, o al crepuscolo, in cui Manhattan era ancora un miracolo. Per quei momenti, e per amore dei sogni, le dava qualche chance, anche quando il suo comportamento era ben diverso da quello di una vera signora. Lei non gli agevolava il compito. Nei pochi mesi in cui Kaufman aveva vissuto a New York, le sue strade si erano spesso macchiate di sangue. Anzi, più che le strade, le gallerie sottostanti. Dappertutto si parlava di "Assassinii in metropolitana". Soltanto la settimana precedente c'erano stati altri tre morti. I cadaveri erano stati rinvenuti in una carrozza della metropolitana dell'AVENUE OF THE AMERICAS, sventrati a colpi di mannaia e in parte sbudellati quasi fosse stata l'opera di un esperto macellaio interrotta all'improvviso. Il lavoro era stato compiuto in modo talmente professionale che la polizia aveva deciso di concentrare le ricerche sugli elementi sospetti del mondo dei macellai. Venivano tenuti sotto controllo gli impianti di lavorazione della carne nella zona del porto e i macelli subivano accurate perlustrazioni. Alla promessa di una rapida soluzione dei casi non fece seguito alcun arresto. L'ultimo terzetto di cadaveri non era però il primo a essere rinvenuto in quello stato. Proprio il giorno che Kaufman era arrivato in città sul Times era stato pubblicato un servizio di cui tutte le segretarie dell'ufficio che avevano un po' di gusto del macabro continuavano a parlare. Secondo il giornalista un turista tedesco, smarritosi nella rete metropolitana di sera tardi, aveva trovato un cadavere a bordo di un convoglio. La vittima era un'attraente donna trentenne di Brooklyn. Era stata completamente denudata, compresi tutti i gioielli, perfino gli orecchini. Ancora più sorprendente dell'assassinio era l'ordine maniacale con cui i vestiti erano stati ripiegati e sistemati singolarmente in buste di plastica impilate in bell'ordine sul sedile accanto al cadavere.
Non si trattava dell'opera di un maniaco. Quello era frutto di una mente lucida: di un lunatico con uno spiccato senso dell'ordine. Inoltre, ancora più bizzarro del ripiegamento dei vestiti, era stato ritenuto lo scempio perpetrato sul cadavere. In base al rapporto, ma il Comando distrettuale di Polizia non era stato in grado di confermarlo, il corpo era stato meticolosamente depilato, ovvero privato di ogni pelo, dai capelli al pelo pubico, ai peli ascellari; tutto era stato rasato fino a scorticare la pelle. Erano perfino state depilate le sopracciglia e le ciglia. Questo pezzo di carne così conciato era stato appeso per i piedi a uno dei sostegni sospesi dal soffitto della vettura sopra un secchio di plastica nero foderato da un sacco di plastica nero in cui raccogliere il sangue che defluiva dalle ferite. In questo stato — nudo, rasato, appeso e praticamente dissanguato — era stato rinvenuto il cadavere di Loretta Dyer. Era disgustoso, meticoloso e terribilmente sconcertante. Non erano stati riscontrati segni di violenza carnale o di sevizie. La donna era stata eliminata in modo rapido ed efficiente come se fosse un pezzo di carne qualsiasi. E il macellaio era tuttora a piede libero. I padri della città, nella loro grande saggezza, avevano decretato il più totale silenzio stampa. Si diceva che l'uomo che aveva scoperto il cadavere si trovasse in un luogo sicuro nel New Jersey, fuori dalla portata dei giornalisti curiosi. Ma si era verificata qualche fuga di notizie. Un poliziotto avido di denaro aveva spiattellato i particolari più importanti a un giornalista del Times. Ora tutti i newyorkesi conoscevano l'orribile resoconto degli omicidi. Se ne parlava nelle tavole calde e nei bar e, ovviamente, sulla metropolitana. Ma Loretta Dyer non era stata che la prima di una lunga serie. Ora erano stati trovati altri tre cadaveri in circostanze identiche. In questo caso il macellaio era evidentemente stato interrotto. Non tutti i corpi erano stati rasati e non erano state incise le giugulari per dissanguarli. C'era inoltre un'altra differenza importante: a scoprirli non era stato un turista, ma un giornalista del New York Times. Kaufman lesse l'articolo che occupava tutta la prima pagina del quotidiano. Non nutriva un interesse morboso per quella vicenda come il suo vicino di sgabello al banco della tavola calda. Avvertiva soltanto un vago senso di disgusto che gli suggerì di non finire la sua porzione di uova stracotte. Era solo un'ennesima dimostrazione della decadenza della città, un fenomeno perverso che non poteva piacergli.
Tuttavia, poiché era un essere umano, non riusciva a ignorare del tutto i particolari raccapriccianti della vicenda. L'articolo era stato scritto senza enfasi particolare, ma la chiarezza della forma contribuiva soltanto a rendere più spaventoso l'argomento. Non riusciva a fare a meno di pensare all'uomo che si nascondeva dietro tali atrocità. Si trattava di un pazzo solitario o di diversi pazzi animati da uno spirito di emulazione? Forse era soltanto l'inizio di una storia truce. Forse sarebbero seguiti altri omicidi fino a quando l'ultimo boia, in preda all'esaltazione o alla spossatezza, avrebbe commesso qualche errore e sarebbe stato catturato. Fino a quel momento l'adorata città di Kaufman avrebbe vissuto sospesa tra estasi e isterismo. Un uomo con la barba che gli sedeva accanto rovesciò il suo caffè. — Merda! — esclamò. Kaufman si spostò per evitare il rivolo di caffè che colava giù dal banco. — Merda — ripeté l'uomo. — Non fa niente — lo tranquillizzò Kaufman. Osservò lo sconosciuto con un'espressione di leggero disgusto. L'idiota stava tentando di asciugare il caffè con un tovagliolo di carta che gli si scioglieva tra le dita. Kaufman si chiese se quello scimmione con le guance floride e la barba incolta sarebbe stato in grado di commettere un omicidio. Nel viso grasso, nella forma della testa o nel movimento dei piccoli occhi c'era qualche prova che tradisse la sua vera natura? L'uomo parlò. — Ne vuole un altro? Kaufman scosse il capo. — Un nero liscio — riprese l'uomo rivolgendosi alla cameriera. Lei rispose con uno sguardo interrogativo. Stava pulendo una griglia unta. — Eeh? — Un caffè. Sei sorda? L'uomo sorrise a Kaufman. — È sorda — ripeté. Kaufman notò che gli mancavano tre denti. — Brutta storia, eh? — riprese ancora l'uomo. A che cosa si riferiva? Al caffè? Ai denti mancanti? — Tre morti così conciati. Kaufman annuì. — Fa pensare — disse. — Già. — Per me non ci hanno raccontato la verità. La polizia deve sapere chi è
stato. Che conversazione assurda, pensò Kaufman. Si sfilò gli occhiali e se li mise in tasca: la faccia barbuta non era più a fuoco. Già meglio. — Bastardi — esclamò l'uomo. — Maledetti bastardi tutti quanti. Scommetterei qualsiasi cosa che è una copertura. — Di che cosa? — Hanno le prove ma ci tengono all'oscuro. Là fuori c'è qualcosa di mostruoso. Kaufman capì. Lo scimmione tentava di sostenere la teoria di un complotto. Le aveva sentite così spesso. Una sorta di panacea. — Con tutti gli esperimenti che fanno in genetica una volta o l'altra sbaglieranno di certo. A quanto ne sappiamo magari stanno allevando mostri. Laggiù c'è qualcosa e non vogliono dirci che cos'è. Copertura, come dicevo. Ci scommetterei qualsiasi cosa. Kaufman era affascinato dalla convinzione di quell'uomo. Mostri in agguato. Sei teste, dodici occhi. Perché no? Sapeva perché no. Perché doveva difendere la sua città, doveva scagionarla. E in cuor suo Kaufman credeva che i mostri che vivevano nelle gallerie sotterranee fossero perfettamente umani. Il barbuto sbatté sul tavolo dei soldi e si alzò facendo scivolare il suo grasso didietro dallo sgabello in plastica macchiato. — Probabilmente è proprio un piedipiatti — disse congedandosi. — Volevano produrre un eroe e invece hanno creato un mostro. — Sul suo volto si dipinse una smorfia grottesca. — Ci scommetterei qualsiasi cosa — ripeté, quindi uscì senza dire altro. Kaufman tirò un sospiro avvertendo che la tensione si allentava. Odiava quel genere d'incontri che lo facevano sentire impacciato e incapace. Pensandoci bene odiava quel tipo di persona: i bruti intransigenti che a New York proliferano così bene. Erano quasi le sei quando Mahogany si svegliò. Dopo la pioggia mattutina ormai non cadevano che poche gocce. L'aria era pulitissima rispetto alla media di Manhattan. Si stiracchiò sul letto, fece cadere la coperta sudicia e si alzò per andare a lavorare. In bagno la pioggia tamburellava sul coperchio del condizionatore e il rumore si sentiva in tutto l'appartamento. Mahogany accese il televisore per coprirlo e si disinteressò della trasmissione. Andò alla finestra. La strada sei piani di sotto era piena di traffico e di
gente. Dopo una faticosa giornata di lavoro tutta New York era diretta verso casa: per giocare, per fare l'amore. La gente usciva a fiumi dagli edifici e si tuffava nelle automobili. Qualcuno era nervoso per la giornata trascorsa in un ufficio poco aerato, altri, miti come agnelli, avrebbero percorso le strade accompagnati da un'incessante processione umana fino ad arrivare a casa propria. Altri ancora in quel preciso istante stavano affollando i convogli metropolitani senza notare le scritte che imbrattavano tutti i muri, sordi al mormorio delle loro stesse voci e al gelido rombo nelle gallerie. Mahogany si compiaceva di pensarci. Dopo tutto lui non faceva parte delle masse. Poteva starsene alla finestra e osservare mille teste dall'alto sapendo di essere un eletto. Ovviamente anche lui doveva osservare le sue scadenze come ogni uomo della strada. Il suo lavoro però non era insensato e ripetitivo ma piuttosto una specie di sacra missione. Doveva vivere e dormire e cagare come gli altri. Però non era spinto da necessità finanziarie, bensì dalle esigenze della storia. Alle proprie spalle aveva una lunga tradizione più antica della stessa America. Era un cacciatore della notte: come Jack lo Squartatore, come Gilles de Rais, un'incarnazione vivente della morte, una larva dal volto umano. Un cacciatore del sonno che risveglia il terrore. Le persone che passavano sotto di lui non potevano conoscere le sue fattezze; né si sarebbero soffermate a guardarlo. Ma il suo sguardo passava su di loro e sceglieva dalla processione solo i frutti più maturi, giovani e sani, che avrebbero avuto l'onore di cadere colpiti dal suo sacro pugnale. Talvolta desiderava svelare la propria identità al mondo, ma avvertiva il peso delle responsabilità. Non poteva aspettarsi di diventare famoso. La sua era una vita segreta e solo l'orgoglio lo spingeva a desiderare un riconoscimento. In fondo, pensava, il manzo rende forse onore al macellaio cadendo in ginocchio davanti a lui? Nel complesso era soddisfatto. Essere parte di quella grande tradizione gli bastava, avrebbe dovuto bastargli per sempre. Di recente, tuttavia, erano state fatte alcune scoperte. La colpa non era stata sua, ovviamente. Nessuno avrebbe potuto incolparlo. Ma erano tempi difficili. La vita non era facile come dieci anni prima. Naturalmente lui era invecchiato e quindi si stancava e gli impegni gli pesavano sempre di più. Era un eletto, godeva di un privilegio difficile da accettare.
Si chiese allora se non fosse giunto il momento di cominciare ad addestrare un giovane a svolgere le sue mansioni. I Padri avrebbero dovuto essere consultati, ma presto o tardi si sarebbe trovato un sostituto e sarebbe stato uno spreco assurdo non trasferire le sue conoscenze a un apprendista. C'erano tante gioie che poteva insegnare a un altro. I trucchi della sua arte straordinaria. Il modo migliore per appostarsi, tagliare, spogliare, dissanguare. Come individuare la carne più adatta. Il sistema più efficace di eliminare i residui. Tanti dettagli, tanta esperienza accumulata. Mahogany andò in bagno e aprì l'acqua della doccia. Mettendosi sotto il getto si osservò. La pancetta, i peli grigi sul petto cascante, le cicatrici e i brufoli che spiccavano ovunque sulla sua pelle chiara. Stava invecchiando. Tuttavia, quella sera, come ogni altra sera, aveva un compito da svolgere... Kaufman tornò in ufficio di corsa, abbassò il bavero e si scrollò dai capelli le gocce di pioggia. L'orologio sopra l'ascensore segnava le sette e sedici. Avrebbe continuato a lavorare fino alle dieci, non di più. L'ascensore lo lasciò al dodicesimo piano, agli uffici della Pappas. Attraversò tristemente il labirinto di scrivanie deserte e macchine incappucciate fino a raggiungere la sua piccola zona che era ancora illuminata. In fondo al corridoio c'erano le pulitrici che chiacchieravano, per il resto non c'era nessuno. Si sfilò il soprabito, lo scrollò per eliminare le gocce di pioggia e lo appese. Poi sedette davanti alle pile di pratiche che da tre giorni tentava di evadere. Per concludere gli sarebbe bastata un'altra sera di lavoro, ne era certo, e riusciva a concentrarsi meglio senza il rumore incessante delle dattilografe e il ticchettio delle macchine per scrivere. Addentò il suo panino integrale al prosciutto con maionese doppia e si mise al lavoro. Intanto si erano fatte le nove. Mahogany era vestito, pronto per il turno di notte. Indossava il solito abito semplice con la cravatta marrone dal nodo impeccabile, i gemelli d'argento (dono della prima moglie) che stringevano i polsini della camicia perfettamente stirata, i radi capelli unti di brillantina, le unghie curate e il viso arrossato dall'acqua di colonia. La borsa era pronta. Gli asciugamani, gli strumenti, la cotta di maglia. Si guardò allo specchio. Avrebbe tranquillamente potuto passare per un
uomo di quarantacinque-cinquant'anni. Guardandosi in faccia pensò di nuovo alla sua missione. Doveva soprattutto muoversi con cautela. Ci sarebbe sempre stato qualcuno a osservarlo, ad assistere alla sua prestazione e a giudicarlo. Doveva apparire innocente, non destare sospetti. Se solo avessero saputo, pensò. Le persone che camminavano, correvano e lo superavano per strada, che lo scontravano senza scusarsi, che gli rivolgevano sguardi di sufficienza, che sorridevano della sua forma così inadatta all'abito che indossava... Se solo avessero saputo che cosa faceva, che cos'era e che cos'aveva nella borsa... Cautela, disse tra sé e spense la luce. L'appartamento era buio. Raggiunse la porta e l'aprì avvezzo com'era a muoversi nell'oscurità. Felice di trovarsi al buio. Le nubi di pioggia erano sparite del tutto. Mahogany, percorse Amsterdam Street per prendere la metropolitana sulla 145esima Strada. Stasera sarebbe tornato sull'AVENUE OF THE AMERICAS, la sua linea preferita e spesso quella che fruttava di più. Giù per le scale, in mano il gettone per il biglietto. Superata la sbarra automatica. Ora aveva nelle narici l'odore delle gallerie. Non quello delle gallerie profonde, ovviamente. Quelle avevano un odore molto particolare. Ma anche l'aria elettrica e stantia di una linea così superficiale possedeva qualcosa di rassicurante. Nel labirinto circolava il respiro rigurgitato di un milione di viaggiatori mescolandosi con quello di creature molto più antiche; esseri con la voce soffice come la creta e un appetito abominevole. Quanto gli piacevano! L'odore, il buio, il frastuono. Osservò con sguardo critico i suoi compagni di viaggio sulla banchina. Valutò se inseguire qualche corpo, ma ne vide così pochi che se lo sarebbero meritato. I brutti, gli obesi, i malati, gli affaticati. Corpi rovinati dagli eccessi e dall'indifferenza. Da vero professionista ne era disgustato, ma capiva la debolezza che corrompe anche i migliori. Si attardò a quella fermata per più di un'ora gironzolando tra le banchine mentre i convogli andavano e venivano, andavano e venivano e con loro la gente. Il livello qualitativo era davvero sconcertante. Gli sembrava di dovere aspettare ogni giorno più a lungo prima di trovare carne degna di essere presa in considerazione. Ormai erano quasi le dieci e mezzo e non aveva visto una sola creatura ideale per essere macellata. Si convinse che non importava, che aveva ancora tempo. Presto sarebbe-
ro uscite le folle dai teatri. Tra queste in genere riusciva a rimediare uno o due corpi belli sodi. L'intellighenzia ben nutrita con ancora in mano i biglietti d'ingresso che parla di arte. Sì, avrebbe certamente trovato qualcosa. In caso contrario — c'erano infatti notti in cui non riusciva proprio a trovare niente di adatto — avrebbe dovuto recarsi in centro e bloccare una coppietta o qualche atleta appena uscito da una delle palestre. Tra quella gente trovava sempre materiale ottimo, ma con gli esemplari sani sussisteva sempre il pericolo di resistenza. Ricordava di avere catturato due maschi negri un anno prima o poco più, che avranno avuto una quarantina d'anni tra tutti e due, forse padre e figlio. Gli avevano opposto resistenza con i coltelli ed era finito in ospedale per sei settimane. Era stato uno scontro difficile che l'aveva fatto dubitare delle proprie capacità. Ma soprattutto si era chiesto che cos'avrebbero fatto di lui i suoi signori se fosse rimasto ferito a morte. Sarebbe stato riconsegnato alla sua famiglia nel New Jersey e avrebbe avuto una degna sepoltura cristiana? Oppure la carcassa sarebbe stata scaraventata nel buio e usata per i loro scopi? Gli cadde lo sguardo su una copia dello New York Post che qualcuno aveva abbandonato sul sedile accanto al suo: "La polizia cerca il killer". Non riuscì a trattenere un sorriso. Ogni pensiero di fallimenti, debolezze e morte svanì all'istante. In fondo era lui quell'uomo, quel killer, e stasera non l'avrebbero catturato di certo. Non contava forse sull'approvazione delle più alte autorità? Nessun poliziotto poteva fermarlo, nessuna corte di giustizia giudicarlo. Le stesse forze dell'ordine che si davano tanto da fare per catturarlo sottostavano ai suoi signori proprio come lui. Sperava quasi che qualche mezza calzetta d'un poliziotto lo fermasse e lo portasse trionfalmente davanti a un giudice solo per vedere le facce quando dall'oscurità sarebbe giunta la notizia che Mahogany era un uomo protetto, al di sopra di ogni legge. Ormai le dieci e mezzo erano passate da un pezzo. Gli spettatori dei teatri avevano cominciato a uscire col contagocce, ma per il momento non aveva visto niente di promettente. Del resto voleva lasciare passare la grande folla; avrebbe inseguito uno o due individui alla fine. Aspettava il momento opportuno come ogni cacciatore saggio. Alle undici Kaufman non aveva ancora finito e l'ora in cui aveva deciso di staccare era passata da un'ora. Ma l'esasperazione e la noia gli rendevano più difficile il lavoro e le colonne di cifre cominciavano a confondergli-
si davanti agli occhi. Alle undici e dieci buttò la penna sulla scrivania e si dichiarò sconfitto. Si strofinò gli occhi rossi con le parti interne dei polsi fino a vedere striature di tutti i colori. — Vaffanculo — esclamò. Non diceva mai parolacce in pubblico, ma trovava gratificante poter dire vaffanculo tra sé una volta ogni tanto. Uscì dall'ufficio con il soprabito umido sul braccio e si diresse verso l'ascensore. Aveva le membra stanche e riusciva a malapena a tenere aperti gli occhi. Fuori faceva più freddo di quanto si fosse aspettato e l'aria fresca lo svegliò un poco. Raggiunse la fermata della metropolitana sulla 34esima Strada. Un espresso per Far Rockaway. Sarebbe stato a casa in tempo di un'ora. Né Kaufman né Mahogany lo sapevano, ma all'incrocio tra la 96esima e Broadway la polizia aveva arrestato un uomo che doveva essere il killer della metropolitana. Era stato preso su uno dei convogli diretti verso nord. Un ometto di origini europee, brandendo un martello e una sega, aveva aggredito una giovane donna sulla seconda carrozza e l'aveva minacciata di tagliarla in due nel nome di Geova. Era improbabile che sarebbe stato in grado di mettere in opera la minaccia, comunque non ne ebbe la possibilità. Mentre gli altri passeggeri (compresi due marines) stavano a guardare, la potenziale vittima aveva sferrato un calcio nei testicoli al malintenzionato che aveva lasciato cadere il martello. Lei l'aveva raccolto e gli aveva fracassato la mandibola e lo zigomo destro prima che intervenissero i marines. Quando il convoglio si era fermato sulla 96esima la polizia aveva arrestato il macellaio della metropolitana. La carrozza era stata invasa da una marea di uomini che strillavano come ossessi e se la facevano sotto dalla paura. Il macellaio giaceva in un angolo con la faccia fracassata. L'avevano portato via trionfanti. Dopo l'interrogatorio la donna se n'era andata con i marines. Era un utile depistaggio, anche se Mahogany non venne a saperlo. La polizia impiegò buona parte della notte a identificare l'uomo soprattutto perché gli era letteralmente impossibile parlare a causa delle ferite alla mandibola. Appena alle tre e mezzo del mattino seguente un certo capitano Davis entrando in servizio riconobbe l'uomo: tale Hank Vasarely, fioraio del Bronx in pensione. Risultò che Hank veniva arrestato frequentemente per minacce e comportamenti osceni, il tutto nel nome di Geova. Ma l'ap-
parenza inganna: non era più pericoloso di Babbo Natale. Non era il macellaio della metropolitana. Quando la Polizia se ne rese conto Mahogany era già all'opera da alcune ore. Alle undici e un quarto Kaufman salì a bordo dell'espresso che proseguiva fino a Mott Avenue. Nella sua carrozza c'erano altri due passeggeri. Una donna di colore di mezza età che indossava una giacca viola e un ragazzo dalla pelle acneica con lo sguardo fisso sulla scritta "mangiami il culo" e gli occhi spiritati. Kaufman si trovava a bordo della prima carrozza. Aveva davanti a sé un viaggio della durata di trentacinque minuti. Lasciò calare le palpebre sugli occhi cullato dal rumore ritmico del treno. Era un viaggio noioso e si sentiva stanco. Non vide che le luci della seconda carrozza si spegnevano né scorse il volto di Mahogany affacciato alla finestrella in fondo alla carrozza in cerca di altra carne. Alla 14esima Strada scese la donna di colore. Non salì nessuno. Kaufman socchiuse brevemente gli occhi e lanciò uno sguardo al marciapiede deserto, poi tornò a dormicchiare. Le porte si chiusero con un sibilo. Si sentì sospeso in quella zona tiepida tra il sonno e la veglia e alla sua mente cominciò ad affacciarsi un abbozzo di sogno. Era una sensazione piacevole. Il convoglio ripartì e si tuffò rumoreggiando nella galleria. Forse nel subconscio Kaufman si accorse che la porta tra la prima e la seconda carrozza era stata aperta. Forse avvertì l'improvviso odore di galleria e si rese conto che il rumore delle ruote per un attimo si era fatto più forte. Ma decise di non badarci. Forse sentì perfino il tafferuglio quando Mahogany sopraffece il ragazzo dagli occhi spiritati. Ma il rumore era troppo distante e la promessa del sonno lo tentava. Continuò a sonnecchiare. Per qualche strano motivo sognò sua madre. Vide che sorrideva dolcemente e tagliava rape in cucina. Nel sogno lui era piccolo e osservava dal basso il volto sereno di lei che lavorava. Zac. Zac. Zac. Riaprì gli occhi di soprassalto. Sua madre svanì. La carrozza era deserta, il ragazzo sparito. Per quanto tempo aveva dormito? Non ricordava la fermata della Quarta Strada Ovest. Si alzò tutto assonnato e perse quasi l'equilibrio per un sobbalzo del treno. Sembrava avanzare a una velocità notevole. Forse il conducente non vedeva l'ora di tornare a casa e di cacciarsi sotto le coperte con la moglie. Correvano da matti, tanto che si sentì terrorizzato.
Sulla finestra tra le carrozze qualcuno aveva tirato una tenda che prima era stata aperta, se ne ricordava bene. Si preoccupò un po'. Magari aveva dormito a lungo e gli addetti al controllo non si erano accorti di lui? Forse la fermata di Far Rockaway era già passata e il treno era diretto verso il deposito dove lo tenevano durante la notte? — Vaffanculo — esclamò ad alta voce. Doveva andare a informarsi dal conducente? Gli sembrava così stupido dover chiedere: dove siamo? A quell'ora della notte magari era probabile che gli rispondesse con una sfilza d'insulti... Poi il convoglio cominciò a rallentare. Una fermata. Sì, una fermata. Il treno sbucò dalla galleria e Kaufman scorse la luce fioca della fermata sulla Quarta Strada Ovest. Non aveva perso nessuna fermata. Dov'era andato allora il ragazzo? O aveva infranto la regola esposta sulla parete in base alla quale era vietato passare da una carrozza all'altra mentre il treno era in marcia o era andato nella cabina del conducente. Probabilmente in quell'istante era tra le gambe del conducente, pensò Kaufman arricciando il labbro. Non sarebbe stata la prima volta. In fondo quella era la Reggia delle Delizie e tutti avevano il diritto a un po' d'amore al buio. Kaufman si strinse nelle spalle. Che cosa gliene importava, di dove fosse andato il ragazzo? Le porte si chiusero. Nessuno era salito. Il treno ripartì sferragliando e le luci si abbassarono; per raggiungere una certa velocità c'era bisogno di più energia. Kaufman avvertì di nuovo il desiderio di dormire ma l'improvvisa paura di essersi perso gli aveva fatto entrare troppa adrenalina nel sistema e lo rendeva nervoso. Aveva anche i sensi più svegli. Nonostante lo stridio delle ruote sui binari sentì il rumore di una stoffa che veniva lacerata nella carrozza vicina. Che qualcuno si stesse strappando la camicia di dosso? Si alzò afferrando uno dei sostegni sospesi dal soffitto per non perdere l'equilibrio. Il finestrino tra le due carrozze era completamente oscurato, ma lui lo guardò lo stesso corrugando la fronte quasi si aspettasse di riuscire a perforarlo con lo sguardo. Il convoglio avanzava ondeggiando. Ora correva di nuovo.
Un altro rumore di qualcosa che veniva strappato. Magari uno stupro? Spinto da un'improvvisa curiosità attraversò la carrozza in movimento fino a raggiungere l'estremità nella speranza che la tenda che gli impediva la visuale fosse lievemente spostata. Continuava a osservare il finestrino tanto che non notò le macchie di sangue che aveva calpestato. Finché... ...scivolò. Abbassò lo sguardo. Vide il sangue quasi prima con lo stomaco che con gli occhi della mente e il panino integrale al prosciutto gli tornò praticamente in bocca. Sangue. Aspirò diverse boccate di aria viziata e distolse lo sguardo... tornò a scrutare il finestrino. Continuava a pensare sangue. Niente riusciva a togliergli di mente quel pensiero. Ormai solo uno o due metri lo separavano dalla porta in fondo alla carrozza. Doveva guardare. Aveva la scarpa macchiata di sangue e una striscia arrivava fino alla porta, egualmente doveva guardare. Non poteva farne a meno. Mosse ancora due passi fino alla porta ed esaminò attentamente la tenda in cerca di un difetto della stoffa: sarebbe bastato un filo tirato. Trovò un forellino. Vi incollò l'occhio. Il suo cervello si rifiutò di accettare quello che gli occhi videro nell'altra carrozza. Gli sembrava assurdo, un'immagine inventata. La ragione gli suggeriva che non poteva essere reale ma il corpo sapeva che lo era. S'irrigidì terrorizzato. Gli occhi non volevano chiudersi su quella scena raccapricciante. Stette a guardare mentre il treno avanzava sferragliando, il sangue gli defluì dalle estremità e la testa prese a girargli per mancanza di ossigeno. Luci violente lo abbagliarono impedendogli la vista su quell'atrocità. Poi svenne. Era privo di conoscenza quando il treno si fermò in Jay Street. Non sentì l'annuncio del conducente che avvertiva i passeggeri di cambiare treno per proseguire. Del resto se l'avesse sentito sarebbe rimasto sorpreso. Nessun treno terminava la corsa in Jay Street; la linea proseguiva fino a Mott Avenue passando dalla pista dell'Acquedotto e dall'aeroporto J.F.K. Si sarebbe chiesto che razza di treno fosse quello. Ma lo sapeva già. La risposta l'aveva vista penzolare nella carrozza seguente. La verità gli aveva sorriso soddisfatta da dietro una cotta di maglia insanguinata. Quello era il Convoglio di Mezzanotte.
Quando si è svenuti si perde la cognizione del tempo. Potevano essere trascorsi alcuni secondi o forse ore intere prima che Kaufman tornasse a sbattere le palpebre e si concentrasse sulla nuova situazione. Si trovò sdraiato sotto un sedile vicino alla parete vibrante della carrozza, celato alla vista. Per il momento era stato fortunato, pensò: il movimento ondulatorio del treno doveva averlo fatto rotolare lì sotto. Pensò alla scena raccapricciante che aveva visto nella Carrozza Due e si trattenne per non rigettare. Era solo. Non c'era nessun addetto della metropolitana (magari era stato assassinato?) e non aveva modo di chiedere aiuto. E il conducente? Era forse morto nella cabina di guida? Il convoglio correva in una galleria sconosciuta, una galleria priva di fermate, correva dunque verso la distruzione? E comunque, se non si sarebbe schiantato, a bordo c'era pur sempre il macellaio che continuava a colpire a una porta di distanza dal punto in cui giaceva ora. In ogni caso stava andando incontro a morte sicura. Il rumore era assordante, soprattutto giacendo a terra. Kaufman avvertì che i denti gli vibravano e aveva perso ogni sensazione alla faccia; gli doleva perfino il cranio. Pian piano recuperò le forze. Tese cautamente le dita e poi strinse i pugni per rimettere in circolazione il sangue. Quando recuperò l'uso delle mani anche la nausea tornò a farsi sentire. Non riusciva a togliersi di mente la scena terrificante che gli si era presentata nella seconda carrozza. Aveva già visto fotografie di morti ammazzati, ovviamente, ma quelli non erano omicidi qualsiasi. Si trovava sullo stesso convoglio del famigerato macellaio della metropolitana, il mostro che appendeva per i piedi le vittime nude e rasate. Quanto tempo sarebbe passato prima che il killer varcasse quella porta e uccidesse anche lui? Era certo che, se non il boia, l'avrebbe ucciso la tensione. Sentì un movimento dietro la porta. Agì d'istinto. Si nascose meglio sotto il sedile appallottolandosi e rivolse il viso cadaverico verso la parete. Poi si coprì la testa con le mani e chiuse forte gli occhi come un bambino che ha paura del lupo mannaro. Sentì il sibilo della porta che veniva aperta. Click. Pfff. Un filo d'aria salì dalle rotaie. Aveva uno strano odore che Kaufman non conosceva: ed era più fredda. Gli parve un'aria primeva, ostile e misteriosa. Lo fece rab-
brividire. La porta si richiuse. Click. Ora il macellaio era vicino, Kaufman lo sapeva. Magari si trovava a pochi centimetri da lui. Gli guardava la schiena in quel preciso istante? Ora si chinava brandendo il pugnale per snidarlo come una chiocciola dal guscio? Non accadde nulla. Non avvertì un respiro sul collo. Nessuno gli squarciò la schiena. Kaufman sentì soltanto uno scalpiccio di piedi vicino alla testa e poi lo stesso rumore che si allontanava. Trattenne il respiro fino a quando non si sentì scoppiare i polmoni, poi buttò fuori l'aria in un sibilo. Mahogany era quasi deluso che l'uomo addormentato fosse sceso sulla Quarta Strada. Aveva sperato di sistemarne ancora uno quella sera per avere qualcosa da fare mentre scendevano. Ma quello se n'era andato. Del resto la potenziale vittima non gli era parsa molto in forma, pensò tra sé; probabilmente un ragioniere ebreo e pure anemico. La carne non poteva essere di qualità. Mahogany attraversò la carrozza e raggiunse la cabina del conducente. Vi avrebbe trascorso tutto il tempo che restava. Cristo, pensò Kaufman, adesso fa fuori il conducente. Sentì aprirsi la porta della cabina. Poi la voce del macellaio, bassa e roca. — Ciao. — Ciao. Si conoscevano. — Finito? — Finito. Kaufman rimase molto sorpreso dal tenore della conversazione. Finito? Che cosa significava: finito? Non sentì le parole che seguirono a causa di un improvviso sferragliamento. Non riuscì più a trattenersi: doveva guardare. Si srotolò con estrema cautela e lanciò un'occhiata in fondo alla carrozza. Vide soltanto le gambe del macellaio e la porta della cabina di guida. Maledizione. Voleva rivedere in faccia il mostro. Poi sentì una risata. Calcolò i rischi della situazione: la matematica del panico. Se fosse rimasto dov'era, prima o poi il macellaio l'avrebbe visto e ne avrebbe fatto
polpette. D'altro canto muovendosi rischiava di essere visto e inseguito. Che cos'era peggio: stare fermo ad aspettare la morte come un sorcio in trappola o fuggire e andare al Creatore là, in mezzo alla carrozza? Kaufman prese una decisione di cui egli stesso si stupì: scelse di muoversi. Uscì da sotto il sedile spostandosi impercettibilmente e senza scollare lo sguardo dalla schiena del macellaio. Quando fu allo scoperto si diresse verso la porta muovendosi a carponi. Ogni passo era un tormento, ma il macellaio sembrava troppo coinvolto nella conversazione per girarsi. Kaufman raggiunse la porta. Si alzò in piedi lentamente tentando al contempo di prepararsi alla scena che lo aspettava nella Carrozza Due. Afferrò la maniglia; fece scorrere la porta. Il rumore metallico delle ruote sui binari aumentò e una zaffata fetida che non poteva avere origini terrene lo colpì. Certamente il macellaio avrebbe avvertito il rumore o l'odore... certamente si sarebbe girato... Invece no. Kaufman passò attraverso lo spiraglio che aveva aperto e penetrò nella carrozza insanguinata. Si sentì sollevato e automaticamente prestò un po' meno attenzione a come si muoveva. Non richiuse bene la porta e questa cominciò ad aprirsi per gli scossoni del convoglio. Mahogany sporse il capo dalla cabina per scoprire l'origine del rumore. — Che cosa diavolo succede? — volle sapere il conducente. — Non ho chiuso bene la porta, niente di grave. Kaufman sentì che il macellaio attraversava la carrozza. Si appiattì contro la parete in preda al panico rendendosi conto d'un tratto di avere l'intestino pieno. La porta fu richiusa dall'esterno e i passi tornarono ad allontanarsi. Salvo, almeno per tirare un altro respiro. Kaufman aprì gli occhi tentando di proteggersi dal truce spettacolo. Non poteva ignorarlo. Tutti i suoi sensi ne erano rimasti colpiti: l'odore di viscere, la vista dei cadaveri, il liquido che avvertiva al tatto sul pavimento, lo scricchiolio dei sostegni mobili per il peso dei corpi e perfino il sapore dell'aria salata come il sangue. Era chiuso con la morte in quel piccolo vano, proiettato nell'oscurità. Ma ora non avvertiva nausea. Solo un senso di rigetto. Si scoprì perfino a guardare i cadaveri con una certa curiosità. Accanto a sé vide i miseri resti del ragazzo brufoloso che era stato nella
Carrozza Uno. Il cadavere era appeso per i piedi e oscillava seguendo il movimento del treno, all'unisono con i suoi tre compagni: un'oscena dance macabre. Le braccia penzolavano mollemente dalle spalle su cui erano state praticate incisioni di quattro o cinque centimetri per snodare meglio l'articolazione. Ogni parte anatomica del ragazzo dondolava come ipnotizzata. La lingua, dalla bocca aperta. La testa, dal collo inciso. Perfino il pene oscillava sull'inguine depilato. Dalla ferita al capo e dalla giugulare tagliata il sangue continuava a colare in un secchio nero. Nel complesso era una scena ordinata: un lavoro ben fatto. Di fianco a quel corpo erano appesi i cadaveri di due donne bianche e quello di un uomo di pelle più scura. Kaufman inclinò il capo per guardarli in faccia. I volti erano piuttosto privi di espressione. Una delle ragazze era molto bella. Dedusse che l'uomo doveva essere stato portoricano. Tutti i cadaveri erano completamente depilati. Nell'aria restava ancora l'odore acre della rasatura. Kaufman si alzò in piedi scivolando lungo la parete. In quel momento uno dei cadaveri femminili si voltò di spalle. Non era preparato a questo spettacolo truce. La schiena era stata tagliata dal collo ai glutei e la carne era stata spostata per esporre le vertebre. Il trionfo finale dell'arte del macellaio: brandelli di umanità appesi, rasati, dissanguati, squarciati, aperti come pesci e pronti per essere divorati. Davanti a tanta perfezione gli venne quasi da sorridere. Si sentì tentare da uno sprazzo di follia che gli prometteva l'indifferenza più totale nei confronti del mondo. Tremava in modo incontrollabile. Avvertì che le corde vocali si apprestavano a produrre un grido. Era spaventoso: eppure se avesse gridato in breve sarebbe stato ridotto come le creature che vedeva lì appese. — Vaffanculo — disse a voce più alta di quanto avrebbe voluto, poi si staccò dalla parete e si incamminò tra i cadaveri ondeggianti osservando le ordinate pile di vestiti e altri oggetti personali disposte sui sedili accanto ai rispettivi proprietari. Il pavimento era appiccicoso di bile che si stava asciugando. Benché avesse gli occhi semichiusi vedeva fin troppo bene il sangue nei secchi: era denso e scuro, e in qualche punto cominciava a rapprendersi. Lasciatosi alle spalle il ragazzo riuscì a scorgere la Carrozza Tre. Doveva soltanto superare la prova di quelle atrocità. Si fece coraggio e proseguì tentando di non pensare alla scena e di concentrarsi sulla porta oltre la qua-
le c'era il mondo normale. Aveva superato la prima delle donne. Si disse che gli mancava ormai solo qualche metro, non più di dieci passi, anche meno se fosse avanzato con sicurezza. Ma si spensero le luci. — Oh, Cristo! — esclamò. Il convoglio sobbalzò e Kaufman perse l'equilibrio. Barcollando nel buio più completo cercò un sostegno per non cadere e si trovò tra le braccia il cadavere cui era più vicino. Non fece in tempo a ritrarsi che già affondava le mani nella carne tiepida e le dita si stringevano al muscolo della schiena sfiorando le vertebre della colonna. Contro la guancia avvertì la coscia scorticata. Gridò. Le luci si accesero. E quando si riaccesero e smise di gridare sentì il rumore del macellaio che si avvicinava. Lasciò il cadavere. Si era macchiato di sangue il viso contro la coscia. Si sentiva come un indiano pronto a combattere. Il grido lo aveva fatto tornare in sé. D'un tratto avvertì un'ondata di forza. Non ci sarebbe stato un inseguimento lungo tutto il treno, di questo era certo: niente vigliaccherie, non ora. Sarebbe stato uno scontro primitivo, tra due esseri umani, faccia a faccia. Non avrebbe risparmiato nessun colpo, si sarebbe adoprato per atterrare il nemico. Era questione di vita o di morte, pura e semplice. La maniglia cigolò. Kaufman si guardò intorno con occhio vigile in cerca di un'arma. Il suo sguardo si fermò sulla pila dei vestiti del portoricano. Scorse un coltello tra gli anelli di brillanti artificiali e le catene di finto oro. Un coltello con la lama lunga, lucidissimo, che probabilmente era stato l'orgoglio di quell'uomo. Allungò la mano oltre il corpo muscoloso e prelevò il coltello. S'impugnava a meraviglia: si sentì elettrizzato. La porta si aprì e comparve il volto del boia. Kaufman guardò Mahogany da dietro i cadaveri. Non gli parve particolarmente spaventoso: un cinquantenne qualsiasi un po' sovrappeso con una calvizie incipiente. Aveva la faccia grossa e gli occhi infossati. La bocca era piccola e le labbra sottili. Anzi, sembrava una bocca femminile. Mahogany non riusciva a capire da dove fosse sbucato quell'intruso, ma sapeva che era stata un'altra svista, un'altra prova del fatto che non era più quello di una volta. Doveva eliminare immediatamente quella creatura im-
perfetta. Certamente non mancavano che due o tre chilometri alla fine della linea. Doveva ammazzare l'ometto e appenderlo per i piedi prima di giungere a destinazione. Entrò nella Carrozza Due. — Lei era quello addormentato — esclamò riconoscendo Kaufman. — L'avevo vista. Kaufman non parlò. — Avrebbe dovuto scendere. Che cosa pensava di fare? Nascondersi per riuscire a sfuggirmi? Kaufman rimase in silenzio. Mahogany impugnò la mannaia che portava appesa alla vecchia cintura di cuoio. Era insanguinata come la cotta di maglia, il martello e la sega. — A questo punto — riprese — non mi resta che farla fuori. Kaufman brandì il coltello. Rispetto agli strumenti del macellaio sembrava piccolo. — Vaffanculo — disse. Mahogany ridacchiò davanti all'ingenuo tentativo di difesa dell'ometto. — Lei non avrebbe dovuto vedere: non è per quelli come lei — spiegò avvicinandosi di un altro passo. — Questo è un segreto. Ah, uno di quegli invasati, pensò Kaufman. Gli sembrava già di capire qualcosa di più. — Vaffanculo — ripeté. Il macellaio corrugò la fronte. Non gli piaceva l'indifferenza che quell'ometto ostentava davanti alla sua opera, alla sua reputazione. — Tutti dobbiamo morire, prima o poi — spiegò — lei dovrebbe essere contento di non essere cremato come gli altri: io la posso usare. Per nutrire i padri. In tutta risposta Kaufman contorse il viso in una smorfia. Ormai quel sacripante schifoso non gl'incuteva più paura. Il macellaio staccò la mannaia dalla cinta e la brandì. — Un lurido ebreuccio come lei — disse — dovrebbe essere grato di poter tornare utile a qualcuno, come carne, non può aspirare a nulla di più. Senz'altro preavviso il macellaio si lanciò su di lui. La mannaia fendette l'aria ma Kaufman riuscì a indietreggiare e schivò il colpo. La lama gli squarciò la manica del soprabito e andò a conficcarsi nello stinco del portoricano. Il colpo mozzò la gamba per metà e il peso del corpo allargò ulteriormente la ferita. La carne della coscia sembrava una bella bistecca succulenta.
Il macellaio fece per estrarre l'arma dalla ferita e in quel preciso istante Kaufman lo colpì. Scagliò il coltello mirando all'occhio di Mahogany, ma per un errore di calcolo la lama andò a conficcarsi nel collo. Trapassò la colonna vertebrale e rispuntò dall'altro lato macchiata di sangue. Un colpo netto. Pulito. Da parte a parte. Mahogany si sentì trafiggere il collo dalla lama e gli parve di soffocare, quasi avesse inghiottito un ossicino di pollo. Produsse un suono ridicolo, come un pigro colpo di tosse. Un filo di sangue gli spuntò sulle labbra tingendo come un rossetto la sua bocca femminile. La mannaia si schiantò rumorosamente a terra. Kaufman estrasse il coltello. Dalle due ferite sgorgarono fiotti di sangue. Mahogany cadde in ginocchio, lo sguardo fisso sull'arma che lo aveva ucciso. L'ometto lo guardava con aria alquanto passiva. Diceva qualcosa, ma Mahogany non sentiva; era come se si trovasse sott'acqua. D'un tratto non ci vide più. Pensò con nostalgia che non avrebbe visto né udito mai più. Quella era la morte: l'aveva raggiunto, non c'era alcun dubbio. Al tatto distingueva ancora la stoffa dei pantaloni, tuttavia, e le chiazze calde sulla pelle. La vita lo abbandonava in punta di piedi lasciandolo avvinghiato all'ultimo dei sensi... poi si accasciò e le mani e la vita e la sua sacra missione rimasero schiacciate sotto il peso della carne grigia. Il macellaio era morto. Kaufman aspirò avide boccate d'aria viziata e afferrò uno dei sostegni per mantenersi in piedi. Le lacrime gl'impedirono di vedere la carneficina. Passò qualche tempo: non avrebbe saputo dire quanto; aveva la mente persa in un sogno di vittoria. Poi il treno rallentò. Udì e avvertì che venivano azionati i freni. I cadaveri appesi furono sospinti in avanti per inerzia, le ruote sudate stridettero sui binari. Kaufman ora moriva dalla curiosità. Si sarebbe trovato nel mattatoio sotterraneo in cui il macellaio aveva raccolto tutti i trofei della sua carriera? E il conducente che aveva riso con fare beffardo davanti al massacro, che cos'avrebbe fatto quando il treno si fosse fermato? Ormai poteva accadere di tutto, ma lui si sentiva in grado di affrontare qualsiasi situazione, di guardare e di vedere. Dall'altoparlante uscì la voce roca del conducente. — Siamo arrivati, amico. Sarà meglio che torni al tuo posto. "Torni al tuo posto"? Che cosa significava?
Il convoglio ormai avanzava a passo di lumaca. Fuori dai finestrini era buio come prima. Le luci tremolarono, poi si spensero. Questa volta non si riaccesero. Kaufman rimase immerso nell'oscurità più totale. — Usciremo tra mezz'ora — disse ancora attraverso l'altoparlante la voce così simile a quella che di solito annuncia le fermate. Il convoglio si fermò. Il rumore delle ruote sui binari e il sibilo dell'aria cui Kaufman aveva finito per abituarsi d'un tratto tacquero. Sentiva soltanto il fruscio dell'altoparlante. Non vedeva assolutamente nulla. Poi un soffio. Le porte si aprivano. Nella carrozza penetrò un odore. Era un odore talmente caustico che Kaufman d'istinto si coprì il volto con la mano. Rimase in silenzio, la mano sulla bocca, per un tempo che gli parve interminabile. Se non vedi il male... non lo senti... non ne parli. Poi davanti a un finestrino scorse un bagliore. Vide il contorno della porta. La luce aumentava gradualmente d'intensità. Ben presto ce ne fu abbastanza da permettergli di vedere il corpo del macellaio accasciato ai suoi piedi e i cadaveri giallastri appesi. Sentì anche un sussurro dall'oscurità fuori del treno, un insieme di rumori lievi come mormorii di scarafaggio. Nella galleria c'erano esseri umani che si avvicinavano al convoglio strascicando i piedi. Ora Kaufman vedeva i loro contorni. Alcuni reggevano torce che proiettavano luci scure e opache. Il rumore forse era quello dei piedi sulla terra umida, o forse delle lingue schioccanti, o di entrambi. Kaufman non fu ingenuo com'era stato un'ora prima. Poteva forse illudersi di ignorare le intenzioni delle creature che si avvicinavano al treno? Il macellaio aveva lavorato per procurare carne a questi cannibali che, come commensali dopo avere udito il gong della cena, si apprestavano a consumare il pasto in quella carrozza ristorante. Si chinò e raccolse la mannaia del macellaio. Il rumore era sempre più forte. Indietreggiò allontanandosi dalla porta aperta solo per scoprire che anche quella dietro di lui era aperta e che anche da lì si sentiva il misterioso scalpiccio. Si appiattì contro un sedile e stava per nascondersi per terra quando vide comparire da dietro la porta una mano sottile e fragile, quasi trasparente. Non riuscì a distogliere lo sguardo. Non che fosse terrorizzato come quando aveva visto la carneficina dietro il finestrino. Desiderava semplicemente guardare.
Quell'essere entrò nella carrozza. La luce delle torce portate dalle creature alle sue spalle impedì a Kaufman di vederlo in faccia, ma il contorno era chiaramente visibile. Non aveva niente di particolare. Aveva due braccia e due gambe come lui; la forma del capo non presentava anomalie. Il corpo era piccolo e lo sforzo per entrare nella carrozza lo fece ansimare. Più che di un fenomeno psicotico sembrava trattarsi di un caso geriatrico; generazioni di mangiatori di uomini in letteratura non l'avevano preparato alla vista di un essere così terribilmente vulnerabile. Dietro il primo essere salirono a bordo altre creature simili, anzi entravano da tutte le porte. Kaufman era in gabbia. Soppesò la mannaia impugnandola saldamente pronto ad affrontare quei mostri vetusti. Nella carrozza era stata portata una torcia che ora illuminava i volti dei capi. Erano completamente calvi. La pelle stanca era tesa sui teschi e appariva lucida, con chiazze di decadenza e malattie; in alcune zone della carne non restava che una massa nera purulenta attraverso la quale s'intravedevano le ossa degli zigomi e le tempie. Alcuni corpi erano completamente nudi, flaccidi, sifilitici, quasi privi di sesso. I seni erano vuote sacche pendule; i genitali raggrinziti fino a sparire. Ancora peggio dei nudi erano quelli vestiti di qualche brandello. Kaufman non tardò a capire che le stoffe marce appese alle spalle e ai fianchi erano di pelle umana. Non una, ma dieci buttate una sopra l'altra come patetici trofei. I primi elementi di questa grottesca processione ora avevano raggiunto i cadaveri e carezzavano con le gracili mani i corpi rasati dimostrando di provare un piacere quasi sensuale. Le lingue guizzavano dalle bocche e spruzzi di saliva colpivano la carne. Gli occhi pulsavano per la fame e l'eccitazione. Dopo qualche tempo uno dei mostri scorse Kaufman. Gli occhi della creatura si fermarono per un istante su di lui. Sul volto comparve un'espressione interrogativa, una parodia di perplessità. — Tu — disse. La voce era morta come le labbra da cui usciva. Kaufman sollevò leggermente la mannaia e fece un rapido calcolo delle probabilità di sopravvivenza che gli restavano. Nella carrozza c'erano una trentina di quelle creature, all'esterno molte altre. Ma sembravano così deboli, e non avevano armi a parte la pelle e le ossa. Il mostro parlò di nuovo con voce abbastanza modulata. Doveva essere
quello che restava di un uomo che era stato colto e di aspetto piacente. — Vieni al posto dell'altro, sì? La creatura lanciò un'occhiata al corpo inerte di Mahogany. Evidentemente aveva afferrato la situazione al volo. — Vecchio — aggiunse riportando lo sguardo liquido su Kaufman, scrutandolo attentamente. — Vaffanculo — esclamò Kaufman per tutta risposta. La creatura abbozzò un sorriso, ma aveva quasi dimenticato come si faceva e il risultato fu una smorfia che scoprì una bocca piena di denti limati a punta. — Ora dovrai farlo tu per noi — spiegò con quella smorfia grottesca. — Non possiamo vivere senza cibo. Passò la mano sulle natiche di uno dei cadaveri. Kaufman non rispose. Rimase a guardare con disgusto mentre il mostro infilava le unghie tra i glutei palpando il muscolo tenero. — Noi siamo schifati quanto te — riprese la creatura. — Ma siamo costretti a mangiare questa carne, se no moriamo. Dio sa se ho voglia di mangiarla... Tuttavia quella cosa aveva l'acquolina in bocca. Kaufman riuscì a recuperare la voce. Era bassa più per la confusione che per la paura. — Ma chi siete? — chiese pensando all'uomo con la barba che aveva visto alla tavola calda. — Siete malformazioni di qualche tipo? — Siamo i padri della città — rispose la cosa. — E le madri e le figlie e i figli. I creatori, i legislatori. Questa città l'abbiamo costruita noi. — New York? — chiese Kaufman. La Reggia delle Delizie? — Prima che tu nascessi, prima che tutti i vivi nascessero. Mentre parlava la creatura passava le unghie sotto la pelle del cadavere squarciato staccando il sottile strato elastico dal muscolo succulento. Dietro a Kaufman gli altri mostri avevano staccato i cadaveri dai sostegni e carezzavano seni e muscoli lisci con analoghe espressioni di piacere. Anche loro avevano cominciato a scuoiarli. — Tu ce ne porterai di più — riprese il padre. — Più carne per noi. L'altro era debole. Kaufman lo ascoltava incredulo. — Io? — esclamò. — Io dovrei dare da mangiare a voi? Ma chi credete che sia? — Devi farlo per noi, e per quelli più vecchi di noi. Per quelli nati prima
che qualcuno pensasse alla città, quando l'America non era che bosco e deserto. Puntò l'esile mano verso l'esterno. Lo sguardo di Kaufman seguì il dito. Fuori dal treno c'era ancora qualcosa che non aveva notato; una creatura più grande di qualsiasi essere umano. I mostri si fecero in disparte per lasciare passare Kaufman, per permettergli di andare a vedere di che cosa si trattasse, ma lui non riuscì a schiodare i piedi dal pavimento. — Vai — lo incoraggiò il padre. Kaufman pensò alla città che aveva amato. Quelli erano veramente i suoi vecchi, i filosofi, i creatori? Doveva crederlo. Forse qualcuno in superficie (burocrati, politici, autorità) conosceva l'orribile segreto e consacrava la propria vita a proteggere quelle creature mostruose nutrendole come i selvaggi che sacrificano gli agnelli per darli ai propri dei. Questo rituale aveva un elemento orribilmente familiare. Gli faceva tornare in mente qualcosa, ma non nella sua mente cosciente, bensì nel suo io più antico e profondo. Non riusciva più a comandare i piedi con il cervello. Lo spinse a muoversi un istinto di adorazione. Attraversò il corridoio di corpi e scese dalla carrozza. La luce delle torce bastava appena a illuminare debolmente la profonda oscurità. L'aria sembrava compatta, tanto era densa dei miasmi di quella terra antica. Ma Kaufman non sentì alcun odore. Chinò il capo; non poté fare altro per evitare di svenire di nuovo. Era lì davanti a lui; il precursore dell'uomo. L'americano primevo che aveva abitato quella terra prima di Passamaquoddy o dei Cheyenne. Gli occhi di quell'essere, pur se ne aveva, erano su di lui. Tremava. Batteva i denti. Sentiva i rumori della creatura: scricchiolii, scoppiettii, singhiozzi. Si spostò lievemente nell'oscurità. Il rumore, quando si muoveva, incuteva timore. Come una montagna che si mettesse a sedere. Kaufman sollevò il volto e, senza pensare perché e percome, cadde in ginocchio nella merda davanti al Padre dei Padri. Aveva vissuto tutti i giorni della sua vita in preparazione di questo evento; ogni momento si era avvicinato di più a questo attimo imprevedibile di sacro terrore.
Se la caverna fosse stata abbastanza illuminata da permettergli di vedere tutto quell'essere, forse il suo cuore tiepido sarebbe esploso. Invece lo sentì soltanto battere più forte. Era un gigante. Senza testa e senza arti. Senza una sola parte antropomorfa, senza un organo che avesse un senso, senza sensi. Se somigliava a qualcosa, forse era come un branco di pesci. Mille bocche che si muovevano all'unisono, sbocciavano, fiorivano e si aggrinzivano ritmicamente. Era iridescente, come la madreperla, a momenti più profondo di qualsiasi colore che Kaufman conoscesse o avrebbe saputo menzionare. Questo riusciva a vedere, ed era comunque più di quanto avrebbe desiderato. L'oscurità nascondeva molte parti che si muovevano e si agitavano. Ma non ne poteva più. Distolse lo sguardo e proprio in quel momento qualcuno dal treno lanciò un pallone che andò a fermarsi davanti al Padre. O almeno aveva pensato che si trattasse di un pallone prima di vederlo da vicino e rendersi conto che era invece una testa umana, la testa del macellaio. La pelle del viso era stata strappata via a strisce. Luccicava coperta di sangue davanti al suo Signore. Kaufman non resse a quella vista e tornò sul treno. Gli sembrava di piangere con tutte le parti del corpo eccetto gli occhi. Erano rimasti scottati dalla scena che aveva visto e facevano evaporare le lacrime. Sul treno gli esseri avevano già cominciato il pasto. Vide che uno si prendeva un tenero bocconcino azzurro, l'occhio di una donna. Un altro rosicchiava una mano. Ai piedi di Kaufman giaceva il cadavere decapitato del macellaio che sanguinava tuttora profusamente dal punto in cui la testa era stata staccata a morsi. Davanti a lui c'era il piccolo padre che gli aveva parlato prima. — Ci obbedirai? — chiese dolcemente, nello stesso tono in cui uno intima a una vacca di seguirlo. Kaufman teneva lo sguardo incollato sulla mannaia, il simbolo della mansione del macellaio. Le creature stavano abbandonando la carrozza e si portavano dietro i corpi mezzi sbocconcellati. Man mano le torce si allontanavano il treno ripiombava nell'oscurità. Ma prima che ogni luce sparisse il padre prese tra le mani il viso di Kaufman costringendolo a girarsi per specchiarsi nello sporco vetro del finestrino. Era un'immagine pallida, ma Kaufman capì subito di essere cambiato. Più bianco di quanto un uomo vivente possa mai essere, coperto di sangue e sporcizia.
Continuando a tenergli la faccia il padre gli infilò l'indice in bocca e poi giù per la gola. L'unghia lo graffiava. Kaufman si sentì soffocare ma non aveva più alcuna forza di volontà per respingere l'aggressore. — Obbedisci — sentenziò la creatura. — In silenzio. Troppo tardi Kaufman si rese conto delle intenzioni del mostro. D'un tratto si sentì afferrare saldamente e strappare la lingua dalla radice. Per lo spavento lasciò cadere la mannaia. Tentò di gridare, ma dalla bocca non gli uscì alcun suono. La gola gli si riempì di sangue. La carne si lacerò. L'agonia lo sopraffece. Poi il mostro gli tolse la mano di bocca e gli portò davanti agli occhi le dita scarlatte e umide di saliva tenendo la lingua tra il pollice e l'indice. Kaufman era senza parole. — Obbedisci — ripeté il padre e si cacciò in bocca la lingua di Kaufman, masticandola con evidente soddisfazione. Kaufman cadde in ginocchio e rigettò il panino integrale col prosciutto. Il padre si allontanava già nell'oscurità trascinando i piedi; gli altri esseri erano spariti per un'altra notte nelle loro tane. Dall'altoparlante uscì uno scricchiolio. — A casa — annunciò il conducente. Le porte si chiusero con un sibilo e il contatto elettrico fu ripristinato. Le luci si accesero, si spensero, poi si accesero di nuovo. Il treno prese a muoversi. Kaufman giaceva per terra con il viso inondato di lacrime di sconfitta e di rassegnazione. Si disse che sarebbe morto dissanguato lì dove giaceva. Del resto non aveva importanza. Tanto il mondo era un covo di corruzione. Il conducente lo svegliò. Aprì gli occhi. Il viso che lo guardava era nero, non ostile. Sorrideva. Kaufman tentò di dire qualcosa, ma aveva la bocca incollata dal sangue rappreso. Scosse concitatamente il capo tentando di sputare una parola. Ma produsse soltanto gemiti. Non era morto dissanguato. Il conducente lo sollevò e gli parlò come si parla a un bimbo di tre anni. — Hai un lavoro, amico: sono molto contenti di te. Il conducente si era inumidito di saliva le dita e le strofinava sulle labbra di Kaufman tentando di sciogliere il sangue rappreso. — Hai molto da imparare, prima di domani sera... Molto da imparare. Molto da imparare. Condusse Kaufman fuori dalla carrozza. Si trovavano a una fermata che
non aveva mai visto. Era piastrellata di bianco e assolutamente immacolata. Il Nirvana degli addetti alle pulizie della metropolitana. Le pareti non erano insudiciate da scritte. Non c'erano cancelli automatici, ma non c'erano nemmeno passeggeri. Quella linea espletava un solo servizio: Il convoglio di mezzanotte. Una squadra di addetti stava già pulendo il sangue dai sedili e dal pavimento della carrozza. Qualcuno spogliava il cadavere del macellaio per prepararlo al trasporto nel New Jersey. Tutt'attorno a Kaufman c'era gente che lavorava. Da una grata sul soffitto filtravano fasci di luce dell'alba. Nella luce danzavano particelle di polvere. Kaufman stette a guardare affascinato. Non aveva visto nulla di simile fin da quando era stato bambino. Meravigliosa polvere. Sempre uguale, eterna. Il conducente intanto era riuscito a scollargli le labbra. La ferita era troppo grave perché potesse muovere la bocca, ma così almeno riusciva a respirare meglio. E il dolore stava già diminuendo. Il conducente gli sorrise, poi si rivolse agli altri addetti. — Vorrei presentarvi il sostituto di Mahogany. Il nostro nuovo macellaio — annunciò. Gli altri lo guardarono. Sembravano deferenti. Kaufman ne fu sconcertato. Alzò lo sguardo verso la luce del sole che ora inondava la stazione. Fece un cenno con il capo per indicare che voleva salire in superficie, all'aria fresca. Il conducente annuì e lo condusse su per una scala ripida, attraverso un passaggio e poi all'aperto. Era una giornata splendida. Il cielo luminoso sopra New York era striato di sottili nubi rosa e l'aria aveva l'odore del mattino. Strade e viali erano praticamente deserti. In lontananza qualche taxi attraversava ogni tanto un incrocio; il motore era come un ronzio sommesso. Un corridore passò tutto sudato sul marciapiede opposto. Ben presto quelle stesse strade deserte si sarebbero riempite di gente. La città ignara si sarebbe dedicata alle proprie occupazioni abituali: non avrebbe mai saputo su che cosa era stata edificata o a che cosa doveva la propria esistenza. Senza esitare Kaufman cadde in ginocchio e baciò l'asfalto sudicio con le labbra insanguinate tacitamente giurando eterna fedeltà al segreto. La Reggia delle Delizie accettò senza convenevoli quel gesto di adorazione.
Titolo originale: The Midnight Meat Train (1984) FILM ALLE UNDICI John Skipp John Skipp è metà della coppia di scrittori dell'orrore Skipp e (Craig) Spector, specialisti del ritmo splatterpunk perché sono stati i primi a introdurre in questo genere l'elemento più tipico, il rock 'n' roll. Skipp e Spector sono noti membri di The Splat Pack e di norma scrivono a quattro mani; inoltre sono musicisti e inseriscono nei loro lavori gli elementi migliori della cultura rock: l'energia e il confronto. In opere quali Maledizione fatale (Vampiri sulla metropolitana) del 1986, The Scream (il rock è proprio una musica diabolica) del 1988 e nel Book of the Dead (la migliore antologia sugli zombie) del 1989, la prosa di Skipp e Spector procede a ritmo serrato. La loro narrativa è cadenzata, cinematica e socialmente impegnata e si occupa dei temi più svariati, dall'incubo urbano alla recente (e tuttora reale) negazione delle libertà personali in America. Skipp e Spector — meglio noti come I ragazzi — sono inoltre gli splatterpunk più appassionati. Quello che scrivono viene direttamente dal cuore, dagli sbalzi di umore e dalle loro teste matte; fortunatamente hanno cervelli ed emozioni che funzionano all'unisono. Ecco per esempio come Skipp descrive lo spirito splatterpunk — il brano è tratto dall'articolo di Jessie Horsting comparso su Midnight Graffiti nel 1988 e intitolato "Lo Splat Pack: i giovani autori dell'orrore vuotano le budelle": "L'azione di questo gruppo di scrittori dell'orrore è simile a quella di attori come Richard Pryor nel monologo comico. È tutta gente che non ha paura di parlare del cazzo e che non teme di dare scandalo o di sembrare demente, ma che anzi, lo fa apposta. Si tratta più di un atteggiamento che di un esercizio per vedere quanto sangue e quante schifezze si riescono a concentrare in una pagina. L'idea di base è annientare il paranormale e presentare un prodotto credibile, organico e sconvolgente. Stiamo cercando di scuotere i sonnambuli. La cultura americana del ventesimo secolo in un certo senso tenta di trasformare la gente in tanti piccoli fannulloni buoni." La tematica del fannullone viene affrontata in modo diretto nel racconto che segue, un raro assolo di John Skipp che volge uno sguardo scuro e adi-
rato alla sindrome della moglie abusata. Ma quel che è più importante è che "Film alle undici" costituisce una risposta seria all'accusa di misoginia spesso mossa agli splatterpunk. Nel suo articolo peraltro durissimo "Waiting for the Barbarians" (In attesa dei barbari) comparso sul numero invernale del 1989 di Journal Wired, Lucius Shepard purtroppo si associa a tali critiche scontate affermando che gli splatterpunk dovrebbero "smetterla di sgozzare donne dal seno troppo prosperoso e preoccuparsi invece di tagliare quelle gole che meritano di essere tagliate." In questo racconto le gole tagliate sono certamente quelle giuste. Ma, come sottolinea ironicamente Skipp, dove e quando si cessa di sgozzare? Cominciò proprio come un qualsiasi Giovedì d'Inferno. Si svegliò nel suo letto alle otto di mattina. L'aria era pesante, calda e sudata. Dale giaceva nudo accanto a lei e russava. Almeno nel sonno non stringeva i pugni. Sentì il cigolio della zanzariera davanti alla porta di casa che veniva aperta e poi richiusa. Piccoli passi si allontanarono sul selciato e scomparvero nel mondo. Nikki era salva: almeno per ora. E Dottie Neff era sola. Con lui. Permise ai dolori della giornata di tornare gradualmente a installarsi nel suo corpo e tentò di ricomporre con la memoria quello che poteva. Il sonno aveva inserito una pausa tra un Mercoledì d'Inferno e la giornata che stava per cominciare, ma la dolce luce del mattino ben presto fugò ogni effetto benefico e i dolori cominciarono a farsi sentire a uno a uno senza seguire un ordine particolare. Quel mattino il primo a farsi vivo fu il dolore al capo che partiva dalla mascella, dalle tempie e da dietro gli occhi. Quando il cervello prese a lavorare anche il resto del corpo si svegliò: il braccio sinistro slogato, i capezzoli doloranti, la vulva in fiamme. Era distrutta. Ancor prima di muoversi aveva davanti a sé tutto l'inventario. Poi le venne in mente il povero Buzz Royer che le ricordò il suo piano e il dolce sapore della libertà tornò a scaldarla e a perseguitarla. Ovviamente non serviva a fugare l'Inferno: quando si muoveva i dolori aumentavano subito. — Oh, Dio — gemette, ma sottovoce. Nell'ora che sarebbe seguita aveva molto da fare e non voleva certo rischiare di sveglia-
re Dale. Non con quel sapore così vicino. Non quando gli era così vicina. Portò faticosamente i piedi giù dal letto. Il resto li seguì e nuda, traballando, Dottie si avviò verso la porta aperta. La sera prima non si era curato di chiuderla prima di buttarsi a capofitto a fare, l'odio con lei. Nikki, come al solito, aveva sentito tutto. Ma per l'ultima volta giurò Dottie in silenzio. Te lo prometto, tesoro. Oggi ci diciamo addio... Attraversò il corridoio ciabattando e si diresse verso la metà posteriore della casa. C'era uno specchio grande sulla porta del bagno in fondo al corridoio. Si vide e non riuscì a distogliere lo sguardo. La donna che la guardava dallo specchio aveva trentadue anni, era alta un metro e sessantasette e pesava settantasei chili. Aveva grandi occhi castani con piccole pupille circondati da lividi gonfi e scuri. In testa aveva una zazzera informe di capelli ispidi color fango. Il suo corpo bianco era privo di tono, floscio e molle. Questa donna infatti non aveva nulla di positivo eccetto... Eccetto il fatto di essere pronta. E che a ogni passo che faceva la sua certezza sembrava crescere... 17 giugno cara oprah winfrey, non so come cominciare questa lettera, non ho mai scritto a una star grande come te! vedi, non pensavo di avere qualcosa di abbastanza importante da dire, ma guardo sempre il tuo programma che mi commuove tanto, sei così coraggiosa e forte e divertente, vorrei tanto essere come te. per me sei la donna più fantastica del mondo, davvero. il problema è che non ti somiglio affatto, io di coraggio non ne ho. la cosa più coraggiosa che abbia mai fatto e scriverti questa lettera, e ci scommetto che non troverò la forza di spedirla. sai, ho dei problemi seri, per lo più la colpa e mia, lo so, ma non so proprio come fare, quando penso a quanto la mia vita si è incasinata, a volte mi pare che non ci sono speranze, è davvero troppo difficile, mi capisci? ma poi guardo il tuo programma e recupero qualche speranza, vedo tutte quelle donne che risolvono problemi incredibili perché sono oneste e sincere e vorrei tanto farcela anch'io, ma non ci riesco. a volte ho proprio paura, per esempio quando per due giorni avevi come
ospiti i violentatori o quella gente che scrive libri di assassini, e a volte mi diverte, come quando avevi invitato burt reynolds o mel gibson e quell'uomo di colore, altre volte poi mi fai riflettere, come quando intervistavi shirley maclaine. era roba talmente difficile che non sapevo cosa pensare! ma quasi sempre lo spettacolo mi fa piangere, (non che io abbia bisogno di aiuto, grazie tante!) è solo che vedo la mia vita e cose che mi aiutano a capire quello che mi sta succedendo e non so perché, ma di solito mi confonde le idee ancora di più. ti scrivo oggi perché hai di nuovo intervistato quella dottoressa susan forward. sai, quella che ha scritto gli uomini che odiano le donne e le donne che li amano? non avevo mai sentito la parola misigonia, ma non me la dimenticherò perché il mio ragazzo è proprio così, mi demoralizza e non mi lascia avere amici, quando voglio essere carina e mi compro un vestito nuovo o mi trucco, cambio pettinatura o cose simili lui dice sempre ma che cosa puntini vuoi? giuro che a volte mi fa impazzire. il problema è che credo che potrei affrontarlo, ma ho il cervello che non funziona tanto bene, il dottore, himmler, si chiama, dice che ho attacchi al cervello, al lobo frontale, per questo i pensieri girano in tondo come matti, le medicine che mi fa prendere sono molto efficaci, 1600 mg di litio e 500 mg di una nuova sostanza chiamata tegretol che secondo lui frena le convulsioni, lo stesso però non riesco ad avere il controllo della situazione, e poi ho un ragazzo che è ancora più incasinato di me. lui va da un dottore diverso e prende un sacco di percodan e uno sciroppo per la tosse che credo si chiami hycutus e so solo che c'è dentro tanta codeina e lo fa diventare così cattivo e pazzo che spesso quando comincia ho paura che mi voglia ammazzare. la cosa più tremenda è che ho una bambina, si chiama nichole, ma io la chiamo nikki. ha appena sei anni e non capisce che cosa succede, ma so che odia dale e credo che odi anche me perche gli permetto di vivere qui e io lo butterei fuori, ma ho paura che tornerebbe e mi picchierebbe ancora di più e magari farebbe male anche a nikki, credo che morirei se le facesse male. vedi allora in che situazione mi trovo, non so cosa fare, non so neanche perché ti scrivo, ma se so che sei dalla mia parte potrò fare qualsiasi cosa, forse ti chiedo troppo, dato che sono una persona insignificante, ma se venissi al tuo spettacolo un giorno giuro che dirò tutto e forse qualcuno capirà quanto sto male e mi aiuterà e forse altre donne che si trovano nella mia situazione potrebbero risolvere i loro problemi, è la parte più bella del tuo
spettacolo, ti fa scoprire che non sei solo, è la cosa più bella che si può dare a una persona. ti ammiro, oprah, e spero che leggerai questa lettera, se non puoi rispondere non importa, capisco che hai tanto da fare, ti auguro di essere felice e grazie per quello che mi hai dato. ti abbraccio, dorothy abigail neff. CONTRASSEGNARE COME: DOCUMENTO A Dopo avere rigettato, prese le sue pastiglie cominciò a riprendere il controllo della situazione. Avvertì una forza fresca che le scendeva lungo la schiena. L'avvertiva nei movimenti sempre più sicuri, nella sensazione di possedere un'iniziativa propria e di non essere trascinata da altri. Faceva appello a parti del suo corpo che non aveva usato da tempo. Ma esistevano ancora. E funzionavano. Si esaminò nello specchio del bagno. I lividi sul viso erano grandi e scuri. Un'immagine ideale per il telegiornale del Canale 8, ne era sicura. Un'immagine vale mille parole... ...questo naturalmente le ricordò il povero Buzz Royer, con le sue pupille color scarafaggio durante quegli ultimi istanti sullo schermo. C'era un qualcosa nel modo in cui aveva schiuso le labbra per mandare giù la Morte: non come un'invasione, ma come la lingua di un'amante... ...e poi tornò nel bagno e l'orologio andava avanti. 8:11. Ora di muoversi. La prima parte della sua vita non era stata male. Papà era direttore delle vendite della York Caterpillar e guadagnava cinquantamila dollari l'anno. Mamma era immersa fino ai suoi stupidi capelli vaporosi nei club di giardinaggio e nelle attività della chiesa. Le avevano voluto abbastanza bene, mantenendosi però sempre a una certa distanza. Le avevano insegnato a comportarsi bene, a essere obbediente, pulita e, soprattutto, a sorridere sempre. Il profitto scolastico di Dottie era sempre stato mediocre, non molto buono, ma nemmeno particolarmente scarso. Intelligenza ne aveva, ma faticava a trovare l'entusiasmo. La cosa più importante era riuscire a essere carina, non smuovere le acque e sorridere sempre. C'erano sempre amici e c'erano feste, e prima o poi sarebbe anche comparso un uomo che si sareb-
be preso cura di lei con stile. Ma poi, circa un anno dopo la maturità, le droghe leggere avevano preso piede; il tempo aveva cominciato a scivolare su un sentiero bagnato di vino da quattro soldi, carissima neve colombiana e giochi. Erano i primi anni settanta e la potente controcultura del decennio precedente era esplosa. La ribellione della classe media, sesso, droga e rock 'n' roll, non era che un resto archeologico ma i nobili valori erano scomparsi, morti e sepolti o proiettati nello strato di ozono. Era un'epoca vuota per gli americani bianchi: e mentre alcuni rimediarono alla situazione con un nuovo e coraggioso cinismo, tutti quelli come Dottie si abbandonarono alla mediocrità senza avere la più pallida idea di che cosa stesse accadendo. Fingi. Vai in giro. Non ti preoccupi del domani, tutto si risolve da sé. Non ha senso costruire. Dammi solo un'altra dose. I suoi genitori reagirono buttandola fuori di casa dopo i torcimenti di mani e le grida d'uso. Negli anni che seguirono percorse a ritroso i passi del padre vendendo pretzels, scarpe colorate e gli ultimi grandi poster, passando da un grande magazzino all'altro. Le luci si spegnevano, e così pure la sua anima; benché si sentisse rodere da una costante insoddisfazione, la vita andava avanti. Quando conobbe il suo unico grande amore aveva quasi ventisette anni. Lui si chiamava Barry Strasbaugh, era alto e magro e aveva un naso che somigliava a un grande cetriolo sottaceto; ma con lei era dolce e poi aveva un impiego fisso ed era certa che non avesse altre donne. Il fatto più importante era che non aveva tentato di farla cambiare. L'aveva presa per quella che era. Questo era il dono più grande. Lei l'aveva accettato e in cambio gli aveva dato tutto il suo amore. Era seguito un anno di relativa felicità e il sogno non si era infranto che dopo il matrimonio, quando, incinta da circa cinque mesi, aveva deciso per la prima volta di tenere il figlio. Allora non era riuscita a trattenersi dal bere, fumare e imbottirsi di pastiglie, e lui aveva cominciato a perdere la pazienza. Il fatto che lui non fosse costretto a cambiare nulla delle sue abitudini non gli era parso importante. In fondo era lei, a essere incinta. Quando nacque Nichole, Barry strillava sempre e Dottie aveva fatto un passo importante: aveva cominciato a bere tequila, vodka e gin. La piccola Nikki era davvero minuscola — nata di otto mesi, pesava meno di due chili e mezzo — i medici erano stati incerti sulla sua sopravvivenza. Tuttavia, dopo tre settimane in ospedale senza alcuna assicurazione, devastanti dal punto di vista finanziario, la loro bambina fu messa in libertà nel mondo
del dolore. Barry fu gentile ad aspettare che nascesse la bambina prima di cominciare a malmenare Dottie. A quel punto non aveva altro da fare. Non che la situazione migliorasse, ma perlomeno aveva trovato un modo per tenere occupate le mani quando non era impegnato a bere, giocare a carte con gli amici o collaudare carri armati alla Bowen-McLaughlin. Il matrimonio resistette per quasi tre anni. In quel periodo lei finì all'ospedale sette volte: due lievi commozioni cerebrali, una leggermente più grave, una costola fratturata, una brutta distorsione alla caviglia, un'ulcera gastrica e un ricovero piuttosto lungo al Three Northeast, il reparto psichiatrico dell'ospedale di York. Fu durante questo soggiorno che Barry levò le tende una volta per tutte imponendo la presenza malaticcia di Nikki ai pazienti genitori di Dottie. Sotto le cure esperte del dottor Himmler (un nome che davvero non gli si addiceva) Dottie trascorse sei settimane d'inferno. Ricordava poco o nulla della degenza, solo qualche flash che poteva benissimo avere sognato. Ricordava lunghe serie di domande e risposte prive di senso. Ricordava riunioni all'Alcolisti Anonimi e incontri con sacerdoti. Ricordava che le avevano praticato iniezioni nei piedi. Ricordava diversi luoghi strani: una bidonville in cui venivano ricostruite le porte distrutte, una stanza in cui molti giovani si muovevano disordinatamente, un ambiente contraddistinto da pareti bianche e da un moto ondoso continuo. Ricordava di essersi svegliata con un dolore acuto al retto e poi il vuoto. Alla fine le era stato diagnosticato un disturbo mentale irregolare. Non era stata una bella notizia. Ma il dottor Himmler aveva trovato la soluzione ideale per lei: altri farmaci. Le aveva inoltre fatto assegnare il sussidio di disoccupazione attraverso il centro di Igiene Mentale della Pennsylvania che copriva tutte le spese di alloggio, vitto, medicine e visite mediche. Quando era uscita dall'ospedale era stata in uno stato mentale passivo, libera da ogni brutta abitudine a parte il fumo e incapace di concentrarsi per più di tre minuti alla volta. Col tempo tutto passa, e il tempo di Dottie sembrava dilatarsi all'infinito. Quando sei mesi dopo riprese a bere e a pensare, nessuno rimase particolarmente sorpreso. Pur non riuscendo a trovare un lavoro fisso o a mantenerlo quando lo trovava, una serie di lavori neri di pulizia le permise di continuare a bere margarite e a comperare ogni tanto un vestito per Nikki. Per qualche tempo la vita le parve di nuovo quasi sopportabile. E poi, una sera alla Gaslight Tavern, conobbe Dale. E l'Inferno riprese
davvero... 20 luglio cara oprah, è passato un po' di tempo da quando ti ho scritto, intanto le cose sono molto peggiorate, a volte dale prende fino a dodici percodan in un colpo e quando non mi picchia è a letto svenuto, è stato licenziato dalla borg warner e i soldi che prendo dallo stato non bastano per mantenerci tutti, qualche volta cerca di scroccare soldi a qualcuno, ma i suoi parenti e amici l'hanno abbandonato da tempo, proprio come i miei, non è strano, è solo difficile. sto pensando a qualcosa di importante da scrivere, qualcosa della mia storia che sia diverso da tutte le storie tristi che senti, ma non ci riesco, se avessi qualcosa di particolare forse non sarei così incasinata. no, forse mi sbaglio, sto qui a scriverti e d'un tratto ho capito, non sono una persona qualsiasi perché la gente qualsiasi non cade così in basso, io sono molto particolare in un senso strano, sono uno sbaglio di dio. sono il casino più incasinato del mondo. tutti hanno un angelo custode, capisci? e vivono la loro vita e ogni volta che sono sul punto di precipitare lui li salva, li aiuta, ti carezza sulla testa e dice è tutto a posto, dottie, hai fatto qualche sbaglio ma ti voglio bene lo stesso. tu di sicuro hai ancora il tuo. è ovvio, ti guardo sullo schermo e capisco che sai perché esisti, ridi e piangi e fai le domande giuste e riunisci milioni di persone cinque volte la settimana per aiutarci a ricordare perché dio ci ha creati, e la vocina dell'angelo che ti dice nell'orecchio: su, vieni, abbiamo da fare! io il mio angelo l'ho perso e adesso non so cosa fare, mi sembra di essere andata da una parte e lui dall'altra e quando me ne sono accorta ero in un luogo selvaggio a migliaia di chilometri da lui e non sapevo come tornare perché non si può tornare indietro, tutti mi hanno sempre detto che non si torna indietro e io non posso fare a meno di crederci perché sono completamente persa. cosa posso pensare? senti, forse si sapeva già dall'inizio che l'avrei perso, forse ho dato l'esempio di quello che non si deve fare, capisci? mi sento come un soldato che va in guerra e sa che va a morire e sa che non può tornare indietro e capisce solo che da qualche parte c'è un quadro più gran-
de e che lui sarà uno dei particolari, uno dei cadaveri ammucchiati in un angolo di un libro di storia che qualcuno farà leggere ai suoi figli perché loro non facciano lo stesso sbaglio, perché non perdano l'angelo e non lo lascino andare via finché non è ora di morire e poi se ne vola via per sempre, credi che sia così? io non lo so. a dire il vero forse non lo saprò mai. non riesco a fare a meno di pensare che se fossi invitata al tuo programma e cinquanta milioni di persone mi guardassero forse il mio angelo custode mi vedrebbe e tornerebbe da me. ma non ho avuto il coraggio di mandarti la prima lettera e di sicuro non ti spedirò neanche questa, a volte penso che non rivedrò il mio angelo custode finché non muoio e così mi vien voglia di morire prima, capisci? io no. ho le convulsioni al cervello, come si fa a pensare con le convulsioni al cervello? forse non ho sbagliato di molto, in fondo, che ne pensi? un abbraccio, cara oprah, e scusami, tanti saluti, dorothy abigail neff. CONTRASSEGNARE COME: DOCUMENTO B I preparativi più impegnativi erano stati compiuti per lo più la sera precedente, prima che Dale arrivasse a casa barcollando e la violentasse e la picchiasse. Aveva preparato tutto: le montagne di vestiti sparsi in giro, i giornali scompaginati, la mobilia da quattro soldi e la moquette che costituivano la sua casa. Più una cosetta da niente... Sarebbe stata soprattutto questione di strategia e programmazione. Sì, i tempi erano essenziali; i tempi e l'acquisto di tre bombolette di gas liquido per accendini. Poi le restava soltanto da vestirsi. E da fare una telefonata. E da portare a termine l'operazione. S'infilò il prendisole verde e i lisi pantaloni corti che aveva lasciato nel salotto la sera precedente. Per le scarpe non c'era che l'imbarazzo della scelta vicino alla porta di casa. Optò per i sandali marron. Mentre se li infilava si disse Questi sono gli abiti che avrai addosso quando morirai. Il pensiero non la preoccupava quanto riteneva che avrebbe dovuto. Buffo. Le tornò in mente Buzz Royer con il suo vestito nero e la ridicola cravatta a righe e la testa pelata. S'impietosì, ma ben presto ricordò che quell'uomo era morto come aveva vissuto. Se era stato un paz-
zo, certamente non si poteva affermare che non fosse stato coerente: non aveva tentato di cambiare, prima di andarsene. Sperava di riuscire a essere almeno altrettanto onesta. Percorrendo tutta Lehman Street rimase sorpresa di vedere quanto tutto fosse luminoso. Non solo il sole, che da dieci giorni continuava a bruciare la terra inaridita raggiungendo temperature da record, ma tutto: il verde e il marrone brillanti degli alberi e dell'erba, il bianco e il mattone delle case lungo la strada e le auto e i fiori di tutti i colori, il cielo bianco e azzurro... le pareva che le avessero tolto uno spesso filtro scuro dagli occhi. Si sentiva quasi euforica. In fondo alla pizzeria "Jim & Nina" c'era un telefono pubblico. Il grande condizionatore d'aria sulla parete muoveva inutilmente l'aria di quarantatré gradi, ma il ronzio che produceva era più che sufficiente a impedire alla cameriera di ascoltare la conversazione. Dottie estrasse dalla tasca posteriore dei calzoni un pezzo di carta umidiccia, infilò una moneta nella fessura e compose il numero. Dopo sette squilli una voce maschile la informò che era collegata con la segreteria del Canale 8. — Vorrei segnalare un incendio — annunciò lei. 7 agosto cara oprah, se stai leggendo questa mia sono certamente morta, non sentirti in colpa, io non mi sento in colpa, la morte non può essere molto peggio della vita che ho vissuto, anzi, ho la sensazione che sarà molto meglio. volevo solo farti sapere che cosa è successo perché voglio che tu mi capisca, forse potrai fare un programma senza di me, ma almeno potrai raccontare la mia storia alla gente e altri non avranno bisogno di ripetere la mia esperienza solo per far sapere al mondo che non ce la fanno più. tutto è cominciato ieri mentre guardavo la tele, di mattina guardo sempre il 2 che trasmette da baltimora. alle nove vedo te, poi alle dieci phil donohue (mi è simpatico, ma meno di te, forse perché non è una donna, a volte mi sembra che mi parli con sufficienza e per questo mi basta dale.) be', poi alle 11 viene la ruota della fortuna, pat sajak è fantastico, mi fa morire dal ridere, così guardo fino alle 11:30 e poi di solito si sveglia dale, mangia qualcosa e torna a schiantarsi sul letto. ma ieri, proprio quando trasmettevano il giro di premio, hanno interrotto
il programma con un tg speciale, forse l'avrai saputo anche tu. un certo buzz royer si e sparato in bocca davanti alla tv nazionale a una conferenza stampa, non so se l'hai visto, io l'ho trovato fantastico. sai, c'era quel poveraccio e si vedeva che soffriva dentro, credo che l'avevano beccato che rubava al governo, era tesoriere di stato, o roba simile, be', comunque si vedeva subito che era nella merda fino al collo. era lì, dietro un piccolo podio, e d'un tratto ha tirato fuori una pistola da una busta di carta e tutti si sono messi a gridare e lui se la ficca in bocca e poi senti un rumore tremendo e lui scompare dietro il podio e poi era tutto finito e non avevo neanche avuto il tempo di pensarci. ma sai cosa ho pensato dopo? ho pensato lo saprei fare anch'io. era finito così presto, la parte più brutta dev'essere stata la conferenza stampa, adesso che ci penso, parlare con tutta quella gente come se dopo avrebbe bevuto qualcosa con loro fingendo di non sapere che era già tutto finito, mancava solo lo sparo. per tirare il grilletto gli è bastato un secondo e poi era tutto finito, sai, era proprio sparito, per questo era finito, e allora ho pensato: se è così facile, perché non lo faccio anch'io? il problema è nikki. ma non posso fare a meno di pensare che sarà più felice con il suo vero padre, o forse con i miei genitori, o magari se qualcuno la adotta, almeno non dovrà più stare con dale e con me. e almeno saprò di averla messa al sicuro da dale. cristo, se tu avessi visto come mi trattava dale quando ci siamo conosciuti, mi avevano avvertito, ma io non volevo crederci perché mi sembrava tanto un buon ragazzo, andavamo a bere insieme e alle feste e poi tornavamo a casa e facevamo l'amore e parlavamo per ore e ore. allora mi ascoltava, credo che fosse come me, così sconvolto dall'idea che qualcuno potesse volergli bene che avrebbe dato qualsiasi cosa solo per stare con me. almeno io mi sentivo così. ma poi, quando è stato sicuro che fossi sua, tutto è cambiato, era come se avesse paura di stare senza di me, paura che potessi piacere a qualcun altro (ha ha!), paura che lo lasciassi, e poi ha cominciato a non potere più bere se no vomitava e a portarsi sempre dietro la boccetta di sciroppo per la tosse, non hai mai visto uno che se ne sta lì a buttare giù sciroppo per la tosse? prima è divertente, ma poi capisci che è tremendo. è come diceva quella dottoressa, questione di avere stima di sé. proprio come quelli che mangiano troppo, i ladri, gli adulteri e perfino i violentato-
ri e gli assassini che ho visto nel tuo programma, alla fin fine è sempre lo stesso problema, se dale avesse stima di sé non se la prenderebbe con me, ma non ne ha, e credo che la persona che odia di più, dopo di me, è lui, e se solo riuscisse ad ammetterlo, forse non dovrebbe più odiare nessuno. ovviamente se io avessi stima di me non lo sopporterei. forse dovrei dirti che dale faceva il cantante, dicono che era bravo, ma aveva smesso quando ci siamo conosciuti, diceva che sarebbe diventato famoso, ma non se ne era mai andato da qui. e dopo ha cominciato a perdere i capelli e gli faceva male la schiena e credo che si sia stancato e basta, ma qualcosa dev'essere cambiato da quando ha deciso di smettere, perché tutti dicono che da quel momento ha cominciato a essere incasinato. be', comunque, domattina me ne vado seguendo l'esempio del vecchio buzz royer. dale e tutti gli altri possono cavarsela da soli, non do la colpa a lui o a qualcun altro, nasci, le cose succedono e prima o poi muori, funziona così. ti voglio tanto bene, oprah, ti faccio i miei più cari auguri, spero di incontrarti di là ma dubito che noi due finiremo nello stesso posto, sai cosa dicono del suicidio, no? credo però che se quella che sento è la voce del mio angelo, lui mi sta dicendo che è ora di andare. ciao. tanti saluti, dorothy abigail neff. CONTRASSEGNARE COME: DOCUMENTO C Dale Snyder si svegliò per il fumo e il calore. Aveva il cervello annebbiato. Dapprima si allarmò: spalancò gli occhi slavati rossi, bianchi e azzurri, si mise a tossire, cadde dal letto di schiena. Pesava ottanta chili, distribuiti su un metro e ottantadue. Colpì duramente il pavimento. Nonostante l'effetto delle droghe avvertì un dolore tremendo. — DOTTIE! — strillò sollevandosi sulle mani e sulle ginocchia. Avvertì punte di vetro incandescente in gola. — DOTTIE! MA COSA DIAVOLO STA SUCCEDENDO? Nessuna risposta, solo alcune voci confuse che provenivano da una delle stanze. Dale si alzò in piedi a fatica, si guardò intorno e valutò con mente confusa le possibilità di sopravvivenza che gli restavano. Fino a quel momento la situazione non sembrava troppo grave. Nella stanza non c'erano fiamme, ma da sotto la porta filtrava una certa quantità di fumo. Occhieg-
giò per un istante le finestre aperte. Capì che per salvarsi gli sarebbe bastato uscire di lì. Prima però voleva controllare le altre stanze. C'erano buone probabilità, pensò, che Dottie avesse combinato qualche pasticcio. Non cucinava mai, quindi il problema doveva essere stato un altro. Probabilmente aveva vuotato un portacenere nella spazzatura o forse era svenuta con la sigaretta accesa. Quale che fosse la causa, quella puttana avrebbe avuto modo di pentirsene, su questo non esisteva alcun dubbio. Gli capitarono tra i piedi le mutande che si era tolto la sera prima e se le infilò di sghimbescio. Non voleva che i pompieri lo trovassero con le palle al vento, se fossero venuti. Leggermente rincuorato si avviò verso la porta barcollando. La maniglia era a temperatura ambiente. Almeno qualcosa di positivo. La strinse con la mano sudata e la girò. La porta si aprì senza opporre resistenza. L'idea che lei avesse tentato di bruciarlo vivo scomparve dalla sua mente con la stessa rapidità con cui vi si era affacciata... ...ed era costretto ad ammettere di avere la testa piuttosto confusa da qualche tempo, a quell'ora del mattino era addirittura un miracolo che fosse in grado di pensare, di camminare, e pur sapendo che era assurdo non riusciva a togliersi di testa il pensiero che tutto questo fosse opera sua, che lei avesse tramato qualcosa, che sarebbe stato meglio se l'avesse uccisa davvero, la sera precedente, o la sera prima ancora, o magari un anno fa, invece di picchiarla soltanto, avrebbe fatto meglio ad ascoltare quella voce che non stava mai zitta... ...si trovò nel corridoio dove la situazione era più grave di quanto si fosse aspettato, o meno, a seconda dei punti di vista. Tra la porta di casa e l'uscita posteriore non c'era niente di particolare, solo fumo, mentre nella cucina si vedevano lingue di fuoco che proiettavano ombre sinistre. E la parete del salotto bruciava. Rimase lì, indeciso, a sciogliersi al caldo. Ora sentiva più chiaramente alcune voci provenienti dall'esterno. Forse erano i vigili del fuoco. Forse erano maiali. Fu sorpreso di sentire voci femminili, ma al giorno d'oggi non si sa mai. Poi scoppiarono a ridere e sentì la sigla e non ci vide più dalla collera. Era la stramaledetta TV. La stramaledetta TV e Dottie probabilmente era svenuta davanti all'apparecchio, buttata sul vecchio divano marrone con le grandi tette al vento, la bocca spalancata e il cervello già di per sé inutile totalmente annebbiato
dal fumo. Al solo pensiero gli sembrava di impazzire. Era strano. Sapeva benissimo che avrebbe dovuto correre a salvarla, portarla via di peso, la parte buona di lui aveva le idee ben chiare in proposito, immaginava già perfino la medaglietta di latta di Cittadino Modello appuntata su un cuore che batteva per la giustizia. Ma dentro di sé sentiva anche un'altra voce che scivolava più agilmente sulla codeina e sul percodan. Era la voce che gli descriveva nei minimi dettagli che aspetto avrebbe avuto la faccia di Dottie se fosse stata spinta nel fuoco. Avrebbe avuto le palpebre chiuse, ovviamente, ma era disposto a scommettere che, sotto, le palle degli occhi avrebbero cominciato a sfrigolare da matti quando quei due pezzetti di pelle si fossero carbonizzati. I capelli intanto sarebbero bruciati producendo fiamme multicolori e con tutto il lardo che aveva nelle guance il fuoco sarebbe stato davvero difficile da spegnere. Un bello spettacolo... ...e la parte buona gli diceva di chiudere il becco, gli ricordava perché non l'aveva uccisa ancora e non si era sfogato su quella puttanella di sua figlia; era a causa della legge, che tendeva a prendere in mano le cose. La legge poteva rovinarti la vita. La legge poteva entrarti in casa da un momento all'altro. E a parte ogni pretesa di moralità, la legge era un motivo sufficiente per fare il bravo ragazzo e continuare a sorridere. Ma le immagini erano troppo nitide. Provò a pensare alle proprie mani e a quello che sarebbe accaduto loro se lui l'avesse tenuta nel fuoco a lungo. Ustioni, molto semplice. Gravi ustioni. Forse avrebbe fatto meglio a spingerla nel fuoco con un calcio, ma d'altro canto non sarebbe stato divertente. Bisogna poter vedere, toccare con mano... Reagì più per istinto, che come conseguenza diretta di un pensiero logico. Proseguì lungo la parete che non era in fiamme e si affacciò sul salotto per capire che cosa stesse accadendo. Non riuscì a credere ai propri occhi. Dottie non stava bruciando sul divano benché questo ardesse come una torcia. Non era nemmeno addormentata. Era lì, in piedi, davanti alla porta di casa aperta, divisa dall'esterno dalla sola zanzariera. Nella sinistra stringeva la borsetta. Nella destra impugnava la sua pistola... ...e non erano arrivati, non erano ancora arrivati, era passato quasi un quarto d'ora e i giornalisti del Canale 8 non erano comparsi. Aveva corso
per tre isolati per rientrare dopo essere stata da "Jim & Nina" e aveva controllato che Dale stesse ancora dormendo, poi aveva irrorato di gas liquido alcuni punti strategici della casa. Il primo fiammifero era stato il più difficile da accendere, ma una volta dato il via sarebbe stato impossibile fermare le fiamme. Per questo ora in casa faceva un caldo spaventoso. Per questo sperava ardentemente che arrivassero presto. Non udì i passi alle proprie spalle finché non fu troppo tardi. Tra lo scoppiettìo del fuoco e le risate di Oprah Winfrey, non era riuscita a sentire. Una forza la fece girare prima che potesse pensare di girarsi da sola. L'illusione che aveva avuto di avere sotto controllo la situazione svanì all'istante. Quando il suo ragazzo si mise a gridare... ...poi cominciò a picchiarla, manrovesci sulla faccia, come al solito. Cadde contro la porta che cedette e andò a sbattere con la nuca sul gradino di cemento prima che lui riuscisse a riafferrarla; la borsa volò nel giardino. Produsse un brutto rumore, cadendo, e il suo sguardo si perse nel vuoto, ma lui non si pose nemmeno il problema che avrebbe potuto non sentire quello che le diceva. — MA CHE COSA FAI? — strillò. Si chinò su di lei e la colpì alla bocca con la mano con cui teneva la pistola. Avvertì come un cedimento e se ne stupì: non aveva mai tolto denti prima di allora, né prodotto ferite così gravi. Lei tossì; una goccia di sangue gli finì sulla lingua; il sapore non era male. — MI SENTI, PUTTANA? — strillò ancora e lei tentò di metterlo a fuoco. Ora lui sorrideva, non poteva più farci niente. Aveva esagerato e non poteva più tornare indietro, così si abbandonò ciecamente alla mercé di quella voce che non voleva tacere, la voce che diceva dài, forza, ora... ...quando il camioncino frenò stridendo davanti alla casa. Dottie lo scorse dal basso. Un'immagine che si faceva spazio a fatica nel nulla. Vide le parole CANALE 8 sul lato del veicolo, due figure che uscivano di corsa, la videocamera sulla spalla di una... ...e capì che quello era il momento che aveva tanto atteso, o forse no, non aveva più la pistola in mano e sentiva in gola qualcosa di duro e tagliente, e la parte del suo cervello che non era già tormentata da nuovi spasmi avvertì un'improvvisa sensazione di vuoto quando qualcuno la rimise
in piedi e i suoi occhi tornarono a non vedere nulla... ...e Dale fece due più due. Il risultato non fu quattro, ma molto di più. Per la prima volta in assoluto pensò che magari Dottie non era proprio scema come aveva sempre creduto o che aveva voluto fargli credere di essere. Forse aveva percepito per un istante che cosa ci voleva per diventare famosi. Dai fuoco alla casa. Vengono i giornalisti. Muori in pubblico. È nata una star. — Fantastico! — esclamò. — Davvero fantastico! Maledetta figlia di puttana. Mi senti? Era il suo momento. Bastava soltanto concludere. L'aveva trascinata in casa, dove le fiamme aumentavano. Aveva ancora in mente le belle immagini di lei. Scorse una bomboletta di gas per accendini e la scena fu completa. Lasciò cadere Dottie. Raccolse la bomboletta. La irrorò per benino. Con un calcio la spinse nel fuoco. Lei si alzò di scatto incendiandosi. Fece una piroetta e crollò ai suoi piedi. Lui la voltò con il piede. Il viso era in fiamme; l'unica parte buia era la bocca nera aperta che gridava. — Aah! — esclamò lui. — Finalmente! Poi con un calcio la mandò a finire in giardino. La telecamera riprese tutto. Si soffermò sul corpo in fiamme che arrancava per terra. La porta si riaprì e l'ometto magro, pelato, pazzo, in mutande bianche uscì barcollando. Brandiva una pistola, gridava qualcosa che il microfono non riuscì a captare. Prese la mira e sparò; la pancia incendiata parve esplodere. Ma il corpo continuava ad avanzare carponi. Ora che era abbastanza vicino si capiva che era una donna. Tese la mano verso l'obiettivo proiettando lunghe dita di fuoco. Allora l'uomo sparò ancora e la testa della donna esplose in tanti frammenti bruciacchiati. La prospettiva della telecamera si allontanò mentre l'operatore balbettava cristo, cristo. Troppo tardi. Ora l'uomo correva. Aveva uno sguardo acceso e strillava trionfante: — EH NO! IO MI CHIAMO DALE SNYDER, E SONO FAMOSO...! Poi si mise a cantare puntando la pistola verso l'obiettivo.
La telecamera fu spostata e lui sparò di nuovo. CONTRASSEGNARE COME: DOCUMENTO D Due cose: Quando il dolore sparì, dall'altra parte trovò l'angelo che l'aspettava. La carezzò sulla testolina e le disse è tutto a posto, Dottie. Hai fallo qualche sbaglio ma ti voglio bene lo stesso. Poi la rispedì indietro a riprovarci. Fino a quando non avesse capito. E nel frattempo, all'Inferno, alle undici veniva proiettato un film: naturalmente erano stati praticati numerosi tagli. Per non spaventare i bambini. E gli animi docili. Titolo originale: Film at Eleven (1988) ROSSO Richard Christian Matheson Probabilmente l'ha già sentita ripetere così spesso che non ne può più, ad ogni modo riecco la solita presentazione. Richard Christian Matheson è un ragazzo fantastico, scrittore prolifico, figlio del leggendario Richard Matheson, maestro della carta stampata, del cinema e della televisione. Bene. Detto ciò vediamo che cosa scrive di lui Ellen Datlow, redattrice per la narrativa dell'Omni Magazine: "Richard Christian Matheson ha uno stile elegante ma parsimonioso; senza dubbio è il maestro contemporaneo del racconto breve dell'orrore. Nei suoi racconti l'orrore assale il lettore alle spalle e continua a lungo a riecheggiare nella sua mente, anche dopo che il racconto è finito". Tutto questo è verissimo, ma la Datlow si è dimenticata di sottolineare che R.C. è anche uno dei più dotati scrittori/produttori di Hollywood. Matheson ha scritto e/o prodotto oltre trecento puntate di programmi televisivi americani come Simon and Simon, L'incredibile Hulk e Amazing Stories (ed è autore, consulente letterario e/o regista di oltre venti serie televisive prime-time tra cui: Quincy, Hunter, Stingray e A-Team). Ma aspettate, c'è di più. Oltre a lavorare per la televisione R.C. ha ideato e prodotto la versione cinematografica di diversi testi teatrali per registi del calibro di Steven Spielberg (Three O'clock High), da cui risulta evidente che è desti-
nato a diventare un personaggio di rilievo anche nell'industria cinematografica. Nonostante l'enorme mole di lavoro Matheson riesce a sfornare a ritmo continuo racconti e narrativa forte, opere esemplari di orrore contemporaneo che compaiono regolarmente sulla stampa alternativa e tradizionale. Mi chiedo quando trovi il tempo per dormire. Tra gli appassionati di orrore R.C. è noto soprattutto per i racconti brevi, molti dei quali riflettono chiaramente i valori degli splatterpunk. Queste piccole gemme sono scritte in uno stile condensato di cui non si vedevano esempi validi dagli anni '50 e '60, dai tempi di Fredric Brown (un altro genio del racconto breve nel cui classico del 1954, "Answer", un personaggio chiede a un supercomputer nuovissimo se esiste un Dio; il cervellone risponde: "Ora sì"). Non si può dire che Matheson sia uno splatterpunk. Forse in passato fu definito così per la sua amicizia con alcuni dei più importanti autori splat (compreso David J. Schow), ma ora afferma senza mezzi termini di non fare parte del gruppo The Splat Pack, tuttavia continua a scrivere opere affini agli splatterpunk come "Goosebumps", "Where There's a Will" (scritto in collaborazione con il padre) e "Rosso" (incluso nella presente antologia). Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo di persona sa che R.C. è un uomo buono e sincero. Queste emozioni sono riflesse nel racconto "Rosso", ma non si confonda la sensibilità con il sentimentalismo. Benché "Rosso" sia probabilmente il racconto meno esplicito e più sottile di questa raccolta, il risultato finale è come una bomba a orologeria che vi scoppierà nella testa. Continuava a camminare. Il caldo era afoso e schiacciante. Si asciugò la fronte. A sei o sette metri scorse ancora qualcosa. Grazie a Dio. Forse sarebbe riuscito a completare l'opera. Accelerò il passo. Respirava a fatica. Proseguì penosamente ricordando la promessa fatta a se stesso di non fermarsi prima di avere finito. Forse aveva sbagliato, a chiedere che gli fosse concessa quella grazia, ma gli era sembrato l'unico modo in cui poteva sperare di porre fine al suo tormento. Egualmente poteva essere stato uno sbaglio. Quando si fermò si sentì svenire. Contorse il volto in una smorfia di dolore e raccolse quello che giaceva ai suoi piedi; lo depose nel grande sacco di canapa, si pulì le mani e proseguì. Il peso era aumentato, si sentiva un po' meglio. Aveva trovato quasi tutto nei primi due chilometri. Ancora soltanto un altro mezzo chilometro, tanto per convincersi, per essere più sicuro.
Per non impazzire. Era un incubo per lui pensare di essersi allontanato tanto senza accorgersi di nulla. Si avvinghiò più forte al sacco e proseguì. Le figure che lo aspettavano si facevano sempre più grandi, più vicine; erano in piedi, con le braccia conserte. Attorno a loro si era radunata una folla. Tutti protestavano. Avrebbero dovuto aspettare. Vide qualcosa a un paio di metri di distanza, deglutì e si avvicinò. Era tutto sparso in giro; chiuse gli occhi e si sforzò di non visualizzare la scena. Ma la immaginò tutta, nei minimi particolari. Gli parve di sentirla dentro di sé. Erano suoni orribili, che non riusciva a cacciare dalla mente. Prima di riuscire a ricomporre tutto non avrebbe avuto pace. Ne era più che sicuro. Dopo, forse, sarebbe riuscito a trovare requie. A tirare avanti. Si chinò e raccolse quello che poteva, poi proseguì scrutando in lontananza. Il sole picchiava forte. Si sentiva la camicia inzuppata sotto le ascelle e sulla schiena. Procedette in direzione delle figure in attesa e di nuovo si fermò avendo scorto qualcosa tra sé e loro. Aveva perso la forma, ma sapeva che cos'era stato e rimase come impietrito. Depose il sacco e si sedette lentamente incrociando le gambe sull'asfalto infuocato. Teneva lo sguardo fisso. Fu scosso da un fremito improvviso. Un uomo di aspetto grave gli si avvicinò e raccolse con delicatezza l'oggetto, lo sistemò nel sacco e richiuse l'apertura. Convinse l'uomo in lacrime a rialzarsi, e lui annuì in silenzio. Insieme si avviarono verso gli altri che guardavano gli orologi e davano segni d'impazienza. — Ma non ho finito — protestò l'uomo. La voce si spezzò e gli occhi divennero caldi e gonfi. — Vi prego... impazzirò... ancora solo qualche minuto? All'uomo dall'aspetto grave quello che stava accadendo non piaceva affatto. Prese una decisione. — Mi spiace, signore. Dal quartier generale mi hanno autorizzato a concederle solo la mezz'ora che aveva richiesto. Non posso fare di più. Deve capire che questa è una strada molto trafficata. L'uomo si divincolò ma non riuscì a liberarsi. Gridò e implorò. Due donne di mezza età assistevano alla scena con un certo disagio. — Chiunque abbia dato quest'autorizzazione andrebbe denunciato — osservò una di loro scuotendo il capo con fare perplesso. — Il disgraziato è sull'orlo di un esaurimento nervoso. È una vergogna! L'altra spiegò di avere saputo che a tutti faceva una gran pena quel povero diavolo la cui figlioletta si era avvicinata al paraurti posteriore dell'auto e vi era rimasta impigliata quando lui, senza accorgersene, quel mat-
tino era partito per andare al lavoro. Osservarono l'uomo dell'ordine che sorreggeva il padre disperato e lo aiutava a salire sulla Gazzella afosa. Poi l'ufficiale sollevò il sacco; sull'asfalto cadde qualche goccia rossa; lo depose delicatamente nel bagagliaio accanto ai resti del triciclo. Si sentì il suono dei clacson e a un cenno del poliziotto il traffico riprese mentre l'uomo veniva portato via. Titolo originale: Red (1986) UNA VITA NEL CINEMA Mick Garris "Una vita nel cinema" di Mick Garris apparve per la prima volta su Silver Scream, una raccolta originale di racconti sul cinema curata da David J. Schow. Che l'attenzione di Schow cadesse su Garris fu di grande rilevanza per lui. Meglio ancora, segnò una strada; Mick non soltanto consegnò a Schow il manoscritto per Silver Scream durante la proiezione in anteprima di Hellraiser, ma, come dice il titolo del racconto, la vita di Garris è il cinema. Quando incontrai Mick per la prima volta nel 1980, lui lavorava per la Avco-Embassy (la vecchia società di Joseph E. Levine, ora scomparsa) su Scanners di David Cronenberg. Diventammo amici; in seguito Garris andò alla Universal, e fu grazie a lui che ebbi l'incarico di promuovere il primo dei film di Conan (esordio della mia occasionale attività di promotore di libri di orrore, fumetti, fantascienza nei convegni; anche se in ritardo, grazie Mick). Garris poi si ritrovò a lavorare con registi del calibro di Steven Spielberg in The Goonies e John Landis per l'uscita in sole videocassette di Prossimamente, un compendio di trailers di film di fantascienza e orrore della Universal. A quell'epoca Mick apparve anche, insieme con sua moglie Cinzia, nel video di Michael Jackson, Thriller, nelle vesti di uno degli zombie creati da Rick Baker. Sfortunatamente, proprio quando Garris divenne redattore di Amazing Stories, l'antologia per la TV di Spielberg, ci perdemmo di vista. E per di più per nessuna ragione in particolare; alle volte queste cose succedono e basta. A ogni modo, non fu una bella cosa da parte mia perché poco dopo non mi feci vivo per congratularmi con lui per i successi della sua carriera.
Ora Mick Garris è membro a tutti gli effetti della comunità cinematografica di Hollywood. È stato il regista di Critters (1988), ha scritto il testo originale di La mosca II, e al momento è impegnato nella regia di Psycho IV. Inoltre sta anche incrementando la sua carriera di narratore: il racconto "Joy" è apparso nel numero di aprile 1990 di Midnight Graffiti. I suoi progetti imminenti comprendono il film Red Sleep tratto da un soggetto scritto dallo stesso Garris insieme con Christian Matheson, che sarà diretto da John Landis. Tutto questo per dire ehe con una esperienza acquisita a così caro prezzo possiamo credere che l'ambiente frenetico ritratto da Mick in "Una vita nel cinema" sia autentico. Si tratta di un racconto sugli effetti speciali, sul disperato tentativo di mettere a segno il colpo grosso, e su una bambina mutante divoratrice di escrementi che va ben al di là di quello che ci si potrebbe aspettare da chi ha battezzato la sua società: Produzioni dei ragazzi perbene. Ma con quella sua bambina, simile al proprio sé, Garris ha inventato un potente simbolo dell'autodegradazione che si cela sotto la brillante, luccicante facciata della Fabbrica dei Sogni hollywoodiana. Per non dir niente poi dei mostri che girano nell'ambiente. Un mostro come figlio magari era la peggior disgrazia per quella donna messicana, ma per me sarebbe potuta essere la miglior fortuna che mi potesse capitare. Preferirei molto di più mostrarvelo anziché raccontarvelo, ma non è così che vanno le cose in questa città. Si sentono tutte quelle stronzate sull'essere tanto bravi come nell'ultimo film, e tutti quei pistolotti sull'industria con la I maiuscola, ma quelle sono leggende masturbatone sulla vecchia Hollywood. Se sei in gamba ti mettono in piedi il tuo secondo film prima ancora che esca il primo. Sei sempre bravo come nei tuoi ultimi due film. O almeno così si suppone. È iniziata con la scuola di cinema. Non avevamo i soldi perché io potessi andare all'USC e usare tutte le attrezzature che Steven e George le avevano donato, ma vinsi ugualmente una borsa di studio per l'UCLA. Quindi mi potevo dare da fare, no? È stato grandioso! Voglio dire, immaginate soltanto avere a disposizione tutta quella attrezzatura senza spendere una lira! Certo, la gran parte del lavoro di studio doveva essere fatta su video, ma la tesi veniva sempre girata su pellicola, con suono sincronizzato e persino i titoli ottici. Ho girato la mia a 35 mm e su Dolby stereo.
Un grosso vantaggio della scuola di cinema sono i contatti con gli agenti. Tu fai un buon film o scrivi un buon soggetto? Persino la porta della Century si apre improvvisamente per te. E come i cani quando annusano una cagna in calore. Prova a fare un film per conto tuo, e anche se è I predatori dell'arca perduta, nessuno lo vorrà vedere se non viene da una scuola di cinema. Così stanno le cose. Mi ci è voluto un anno e mezzo per finire di girare Mondi senza voci, ma ne è valsa la pena. Sono andato a ficcarmi in posti incredibili, costruito scene strane, fantastiche che riproducevano qualsiasi paesaggio di sogno che vi siate mai immaginati (e molti di voi non si potrebbero neanche immaginare, sono sicuro), ho costruito una colonna sonora per orchestra interamente originale, e alla fine ne è uscito il mio capolavoro di 24 minuti. Se ci sapete fare con luci, manipolazione, composizione e gettate via gli obiettivi per le zumate, la regia è facile. Dopo aver messo i diritti del film a mio nome, e non sotto quello della scuola (non avrebbero fatto soldi con il mio talento), l'ho presentato a vari festival sparsi per il mondo e ho cominciato a raccogliere riconoscimenti. Primo posto all'AFI Fest, primo posto al Festival del cinema USA, menzione d'onore a Seattle (che si fottano. Chi se ne frega di Seattle?). E poi imparo a procurarmi gli appuntamenti. Gente della ICM, William Morris, CAA, l'intera lista che mi telefona. I giovani rampanti si danno più daffare, ma sono quei vecchi scoreggioni di ebrei che hanno i giusti contatti con i clienti. Può darsi che non vi faccia piacere pranzarci assieme, ma sono loro che sanno come fare un affare, garantito. Presto ho imparato che è l'agente, non l'agenzia che fa la differenza. I vecchi non vogliono mai prendersi nuovi clienti, ma qualcuno di loro lo si può convincere. Prima o poi. Tutti volevano una cassetta del mio film — Figuriamoci! Ho girato in Panavision, passato settimane intere allo stereo-mix e questi ci vogliono dare un'occhiata tra una telefonata e l'altra su uno schermo da 19 pollici. So bene che questi bastardi rotti in culo hanno tutti delle sale di proiezione, quindi ho insistito perché proiettassero il film a 35 mm. Con garbo e tatto, ma su questo sono stato inflessibile in modo che si rendessero conto che avevano a che fare con un artista. Be', ho avuto il fior fiore di tutti quei puzzoni. Sulle prime ho fatto un paio di errori, come tutti del resto. Uno di questi bastardi del 10 per cento si era tutto infervorato per procurami un incontro per Miami Vice; come se
io potessi mai prendere in considerazione quella merda per la televisione. Un altro insisteva che il sequel di un film poteva accelerare le cose. Bene. Fai Scuola di polizia 7 e Hollywood allarga le gambe. Poi, chissà? Hardbodies 4 forse! Così alla fine ho raggiunto un accordo col vecchio Rosen della CAA. Intendiamoci, uno ne farebbe anche a meno di veder mangiare questo pagliaccio sdentato, ma è uno che sa come muovere i suoi miseri quarantacinque chili. A noi non interessano i piani di sviluppo, mi dice, noi siamo qui per fare film. Niente TV, niente via cavo. Solo lungometraggi. Su miei soggetti. Niente opzioni. Prima si paga e poi si gira. Ho appuntamenti un po' in tutti gli studios in uffici ai piani alti, con Sean e Mike e Len e Jeffrey e tutti i pezzi grossi, e scopro quanto sia semplice tutto questo. Sia ringraziato il cielo per quella scuola di cinema. Questi qua amano parlare di quale immenso vuoto abbiano lasciato Preston Sturges e Alfred Hitchcock e di come non ci sia mai stato un equivalente americano di Ladri di biciclette, e tutte quelle cagate mastodontiche su cui sono stato bocciato in Storia del cinema 101. Allora io parlo di Carpenter, Dante, Hopper e i miei idoli. A loro piace, ma solo se discuti Poltergeist e non Lifeforce, Halloween e non La cosa. La misura suprema dell'arte sono gli incassi. Quindi io espongo i miei film e ascolto le loro reazioni. Mi danno i loro "pareri", e io mi eccito tutto per qualche loro idea, come se migliorasse sensibilmente la storia e senza di loro io non ci sarei mai arrivato. Poi faccio marcia indietro, rifletto un attimo sui loro "suggerimenti", e gli spiego perché quelle idee non funzionerebbero. Questi ne traggono un'impressione di scambio reciproco, che sono disponibile ad ascoltare i loro suggerimenti, ma sono anche abbastanza forte da difendere le mie idee. Gli piaccio. Il mio compito è di incantarli, poi tocca a Rosen fare il figlio di puttana. Ma va bene così, ci è abituato. Gli piace. Lui tratta e ritratta, fa in modo che gli studios si azzuffino per avermi, il prezzo sale alle stelle e io ottengo di girare il mio film a Burbank. Ora, quella sì che è un'esperienza. All'UCLA sono tutti supereccitati per avere una particina nel film (va a dirgli che andrà su cavo e ti potrai scopare tutte quelle smorfiose che si spogliano gratis per la telecamera). Tutti lavorano venti ore al giorno solo per far parte del tuo film. Impegno, creatività, motivazione: ognuno vuol dare una mano. Ma l'esperienza in uno studio è tutt'altra cosa. Innanzi tutto ci sono i sin-
dacati; non ho mai visto tanta gente a fare così poco. Tu levi una spina e un elettricista del sindacato te la deve rimettere. Stai per girare la scena cruciale che con il cameraman (scusate, l'operatore cinematografico) hai impiegato le ultime tre ore a mettere su, e l'assistente di regia ferma tutto per la pausa mensa. Naturalmente quando si riprende tutti stanno a cazzeggiare in giro, e quindi non si incomincia in tempo, ma guai a farli fermare un po' di più, che si va in straordinario. E poi ci sono i ventisette autisti di squadra assegnati alla produzione che se ne stanno seduti sui loro culi quadrati nelle station wagon con l'aria condizionata ad aspettare, a duemilacinquecento dollari a settimana, nel caso qualcuno avesse bisogno di una Mr. Pepper dietetica allo spaccio degli studios. Ma questo è il meno. Tutte 'ste cazzate le posso capire. Questa gente si mantiene così, fanno il loro lavoro, e vengono pagati. Quei damerini degli account executives sono i peggiori. Voglio dire, sul set anch'io porto la cravatta; quando ancora puoi entrare a Disneyland con un biglietto ridotto, e radersi è un'occasione per sognare a occhi aperti, sei disposto a tutto pur di dirigere da una posizione di potere. Ma questi cazzoni coi loro Armani e sigari e voci dolci sono la ragione per cui la gran parte dei film che si vedono in giro sono merda. Ecco come la pensano. Che cosa intendete voi per "buono"? Qualità? Perfetto. Voi e io pensiamo allo stesso modo. Ma "buono" per questi qua vuol dire "conosciuto". Buono è il successo di qualcun altro. Non sia mai. detto che tu faccia qualcosa di unico, con una visione originale. No, quelli vogliono il "sentimento" di E.T., il "dinamismo visivo" di Guerre stellari, il "ritmo" di Un poliziotto a Beverly Hills, l'"attrattiva" di Top Gun, e altre cazzate del genere. Tutto quello che sanno vendere è quello che hanno già venduto. E anche quello non molto bene. Così non appena andiamo in lavorazione preproduzione cominciano le lotte. Loro vogliono i bozzetti, e io non lavoro con i bozzetti. Per farli contenti assumiamo un grafico bozzettista, ben sapendo che non guarderò mai quei fottuti cartelloni una volta che andiamo sul set. Poi c'è da fare il cast. Oh Signore, non vi potete immaginare i nomi che vorrebbero per il mio film. Se fosse per me, ma, credetemi, non lo è, farei lavorare tutti sconosciuti. Vorrei mostrare i personaggi che ho creato, non attori famosi in quei ruoli. E invece niente. Scrivo il ruolo dello scienziato ispirandomi a un mio vecchio insegnante di biologia, e quelli vogliono Tom Cruise. Tom vaffanculo Cruise che fa un biogenetista! E per fare l'assistente sociale vogliono Kelly Le Brock... ma dovrebbero dar credito al
marito produttore. Alla fine non ha nessuna importanza chi voglio io, perché tra le spese e la posizione dei nomi sui cartelloni e i problemi dello studio, nessuno è più disponibile. A meno di non andare a pescare al fondo della lista. Città di merda. E poi, naturalmente, c'è lo zampino, straordinariamente creativo, del dott. Flotsam, il nostro stimato produttore. Lui ha "sviluppato" questo "pacchetto" e il suo massimo impegno sta nel portare i Tangerine Dream per le musiche. E di questo gli viene fatto merito. Per questo dovrebbero fargli un occhio nero! Il film esige un'intera orchestra, e mi toccano tre fottuti programmatori di sintetizzatoli che non sanno neanche parlare inglese. In qualche modo arriviamo alla produzione. Una volta che il carrozzone si muove non c'è più modo di fermarlo. ILM sta già girando plates per gli effetti speciali, i giornali cominciano a ronzarci attorno, i damerini rompono le palle con la diffusione, le recensioni e il boom annunciato. Non hanno la minima idea di come si faccia un film. Tutto quel che posso dire è Abbiate fiducia in me. So cosa sto facendo. Vi piacerà quando sarà montato. Ma naturalmente questo non gli basta. Si incaponiscono sulle recensioni e allo stesso tempo ti fanno le pulci sui tempi e il budget. E questo non è Howard e il destino del mondo o Ishtar — questo di cui stanno parlando è un miserabile film da dieci miliardi! D'accordo, ammetto di essere un po' un tiranno sul set. Ma vorrei vedere! Ne va del mio nome. Scritto e diretto da. Me. Nessuno vede il nome del contabile. Nessuno si interessa dello sceneggiatore, o dell'operatore cinematografico, o dell'atmosfera, o di quello che si occupa dell'effetto notte. A nessuno gliene frega un cazzo dei costumi. Dunque, sì. Se deve essere fatto, deve essere fatto bene... anche se questo vuol dire più tempo e più soldi. Che cosa potrebbero fare, sostituirmi dopo venti giorni su trentacinque di lavorazione? Quindi può darsi che un paio di attrici si mettano a piangere... è la prestazione che conta, non come l'hai ottenuta. L'unica cosa che tutti possono giudicare è quel che sta sullo schermo. E gli attori! Quelli farebbero qualsiasi cosa! A meno che non siano dei "nomi", s'intende. Allora quelle fottute prime donne non ti danno neanche un capezzolino così. Non si è mai vista gente meno disponibile. Non ho mai avuto in mente di vincere una gara di simpatia; volevo semplicemente fare il mio film. Alla fine lo abbiamo fatto. Il budget non è stato superato poi di tanto; voglio dire, non è stato un Cancelli del cielo, o roba del genere. Però quelli si sono fregati la mia parte, come vuole il Sindacato dei registi. Le preno-
tazioni per l'anteprima sono state soddisfacenti, anche se non come speravamo, ma soddisfacenti. E in ogni caso non era un film fatto per le masse. Questo è un film sofisticato e loro lo vanno a dare in anteprima ai manovali arrapati e alle loro ragazze sdentate di Long Beach. Intelligente. Dunque allo studio lo montano di nuovo e naturalmente sputtanano tutto quanto e vanno a sperimentare il loro aborto a San Diego... la mia città! Grazie, ragazzi. In qualche modo i sindacati scoprono la furbata di San Diego e ci crocifiggono. Voglio dire, ci spaccano in due e ci cavano le interiora. Non c'è niente di meglio per quella gente che spandere merda sugli artisti. Se ne sanno così tanto su come si fa un film, perché non li fanno loro! Al diavolo i critici. Se mai vi capitasse di incontrare un critico, non ci vorreste andare a cena assieme neanche con quello. Tant'è per gradire. In quattro grandi centri viene disertato, non ne fanno pubblicità in TV, né alla radio, giusto qualche annuncio sui supplementi settimanali dei giornali che nessuno paga. Lo danno nella saletta da cinquanta posti dello Herpes Cineplex, e anche Rosen non risponde più alla mie telefonate. L'unica mia consolazione è che ha distrutto la carriera di Annamarie Longine. Ha ottenuto una parte in una sit-comedy, ma dopo tre settimane era già fuori. L'hanno messa contro Cosby, e io me la sono goduta. Okay, la Warner Bros e similari mi cacciano a pedate. E allora? Ci sono sei o sette altre "major". Sì, d'accordo, salvo che con il solito balletto di dirigenti ti può capitare che il dirigente assegnato al tuo film sia alla Universal la settimana dopo; la sua donna va a letto con un Vip della Universal che ora è alla Tri-Star fino a quando suo suocero lo nomina dirigente alla Disney per evitare che se ne vada in giro a raccontare quell'episodio nel suo jet privato col protagonista del loro nuovo film. Così quel vecchio culo viene protetto e io sono segato nel bel mezzo della carriera. La CAA mi caccia via, altro che piani di sviluppo e, prima che me ne renda conto, sto tastando il terreno intorno a New World, Atlantic, New Line e altre indipendenti. Mi sto sbattendo questa principessina ebrea di quarantatré anni che fa l'agente e che vuole che la chiami "mammina". Dovreste vedere i segni delle unghie che mi lascia sulla schiena. Ha un ufficio senza segretaria a Pacoima, a casa di dio nella Valley, ma il telefono non squilla mai. Mai. Non vale la pena versarle addosso i miei preziosi fluidi corporali. Ops, scusate, sprecare del tempo con lei. Mi fa alcuni favori: mi procura appuntamenti con Rehme e Corman e gli
altri ragazzi. Io ci vado, con la cravatta e tutto, e ogni volta è la stessa musica: — Mi dispiace. Il dottor Corman è dovuto scappare per un impegno all'ultimo momento. Ha incaricato personalmente il dottor Nessuno coi brufoli di terzo livello di ascoltare la sua tiritera. Inutile a dirsi, i miei tiri non andavano mai a segno. La cosa irritante è che questa gente è sempre lì che assume registi debuttanti, tipi che al massimo hanno girato i filmini per il compleanno dei bambini prima di arrivare a beccarsi dieci miliardi con questi thrilling dove la gente viena fatta a pezzi come col tritaverdure, e che fanno dai sessantacinque miliardi in su. Io ho fatto un vero film, per la miseria, e me lo sono preso nel culo. A questo punto il mio appartamento in un condominio sulla spiaggia è di nuovo in vendita. Stessa cosa per la mia Porsche. Ho incontrato Rebecca in un corridoio da DEG; credo che entrambi stessimo cercando di fottere lo stesso produttore. Il suo sogno era quello di passare dalle telenovelas ai film; credevo che andasse sul grande schermo solo per fare film a luci rosse, ma chi sono io per dire così? Se mi andavo a sistemare nell'appartamento di Rebecca in West Hollywood significava potermi liberare di "mammina" come compagna di letto, ma tenerla sulla corda come agente. Inoltre Rebecca aveva un'automobile. Ero arrivato al punto di pensare che lavorare a una sit-com per la TV non fosse poi così male. Mi ero preso tante di quelle porte in faccia che tutto sommato "Charles in Charge" cominciava a sembrarmi piuttosto divertente. Dovevo uscire, andare da qualche parte, qualunque parte. Allontanarmi dalla TV. Rebecca era andata a un colloquio di lavoro, e così saltai sul bus per il centro città. Il centro di Los Angeles non ha alberi d'arancio, limousines o stelle del cinema, niente di cui vorreste mandare una cartolina a vostra madre. Ci sono solo grattacieli di uffici e un vivace quartiere al cento per cento latino con case fatiscenti: venditori di strada che strillano in spagnolo, ritmi salsa che gracchiano da diffussori scassati da due lire, negozietti, enormi, fantastici vecchi cinematografi ora cadenti e ammuffiti, che danno tre successi in lingua spagnola per due dollari, ventiquattro ore al giorno. Assomiglia molto di più a Città del Messico che a una metropoli nordamericana. Tutto quello che posso fare è girovagare e osservare, masticando un churro mentre i poliziotti fanno circolare gli ubriaconi. Sorseggiando un fresco succo di frutta esotica mentre qualche pappone ammazza di botte la
sua puttana in un androne maleodorante. Mi piace questo posto; la strada è come un grande schermo a trecentosessanta gradi. Una delle cose che mi piacciono di più sono i verdi, traballanti espositori di riviste all'angolo di ogni strada. Sono carichi di strani giornaletti comici per adulti, romanzetti rosa strappalacrime, e riviste di lotta libera incredibilmente sanguinarie... roba davvero forte. E costano quasi niente... e valgono ogni centesimo. Anche se non conoscete lo spagnolo, come me. Ma stavolta trovai molto più che lottatori mascherati e bendati. La vecchia dello stand teneva nell'ombra una cesta, che faceva dondolare con un piede. Vidi la coperta attraverso l'intreccio della cesta; lei s'accorse che stavo guardando e si parò davanti alla cesta. — Muchacho? — domandai, perché non avevo nient'altro da dire. — Muchacha. Come se me ne fregasse qualcosa se era un bambino o una bambina. Un neonato è un neonato, no? Tanto assomigliano tutti ad Alfred Hitchcock. Poi la bambina cominciò a piangere, questo strano suono simile a un vagito. Lanciai uno sguardo furtivo da sopra la rivista Santo. Il pianto si fece più forte, ma la vecchia non si muoveva. Continuava a guardarmi come se ce l'avesse con me o che cosa. Non posso farne a meno; io osservo le cose. Tutte le volte. Suppongo di essere un ficcanaso... ma mostratemi un regista che non sia un voyeur e io vi mostrerò un manovale della TV. Lo gnaulìo della bambina, simile a quello di un gatto, dopo un po' era diventato un vero e proprio grido primitivo, e anche la vecchia non poteva più fare finta di niente. Si prende in braccio la bambina e solleva la camicia, liberando una tetta che subito cade giù fino all'altezza dell'ombelico. Solleva delicatamente il bordo della coperta e ficca un capezzolo gocciolante incredibilmente lungo in quell'avida bocca. Si volta a guardarmi mentre la osservo, e i nostri sguardi si intrecciano. Non riesco a distogliere gli occhi e lei mi sfida con la sua faccia sgradevole. Finalmente la bambina ha fatto il pieno e si stacca dal seno. Quel verme gocciolante del suo capezzolo torna su e viene subito nascosto sotto la camicia, schizzando gocce di lattosio sul viso della bambina. Mentre lei le asciugava il viso, la vidi per la prima volta. Quella non era una umana. Non sapevo cosa fosse, ma era niente che avessi mai visto prima. Aveva un aspetto viscido, era completamente senza capelli, la pelle scura e gommosa. Era più simile a un essere umano di qualsiasi altro animale, ma solo di poco. Era come se fosse stata bruciata o
simili, salvo che la sua pelle era umida, untuosa. Le labbra erano simili a quelle di un pesce, grosse e spalancate, che aspiravano come un grasso riccone che tira un Avana molle e bagnato. Tentai di guardarla meglio, ma la vecchia la riparava continuamente dal mio sguardo, coprendola con la coperta e impedendomene la vista con la sua circonferenza. Cercai di assumere l'aria il più possibile premurosa, una maschera tutta tenerezza e apprensione. Dovevo vedere questa bambina più da vicino. Era inutile parlare, quella non sapeva l'inglese, e lo spagnolo per me è ostrogoto. Ma mi avvicinai con mani caritatevoli per toccare la bambina. Sulle prime la vecchia era esitante e sulla difensiva, ma quando vide che non avevo intenzione di fare del male o prendermi gioco della cosa, mi lasciò sollevare la coperta, tenendomi gli occhi fissi in volto. Da vicino, con tutto il tempo per osservarla, quel mostro di bambina era incredibile. Mi resi subito conto che ero tornato in pista. E se la si giudicava come un neonato vero, quella era una bambina. Nel portafogli avevo i soldi per l'affitto di Rebecca e li diedi alla donna. Non so bene perché, suppongo che volessi solo toccarla. Quella cosa avrebbe prodotto la storia più incredibile che si fosse mai vista; tutto mi attraversò la mente nel breve spazio di tempo che ci vuole ai fasci di luce per lampeggiare tutt'attomo al tendone del Million Dollar Theatre: tutte quelle parole che mi erano state cacciate in gola dai critici e nelle riunioni sui progetti di sviluppo. Sentimento, Storia. Personaggio. Tutte quelle stronzate. Volevo solo prendere in braccio quella cosa, toccarne con mano l'autenticità. Ma non me ne fregava niente di fare un'altra storia di una vita di lattice. Mondi senza voci mi aveva raffreddato sugli effetti speciali. Questa cosa qui era vera, e quello era ciò che dovevo mostrare al mondo. Nessun effetto speciale prodotto dall'arte di Rob Bottin avrebbe potuto competere con il battito di un cuore, l'autenticità del sangue che scorre in quella creatura viscida, dal colore degli occhi cangiante, che si contorceva nella coperta tra le mie braccia. Questo neonato era il mio prossimo film. Non riuscivo a immaginare quanto avesse; come si fa a dire l'età di un qualcosa che non si è mai visto prima? Non poteva avere più di due mesi. Quando si accorse che un'altra persona la stava tenendo in braccio, i suoi occhi si fissarono sui miei ed entrambi restammo paralizzati. Gli occhi fangosi sembravano sobbollire come vasche per l'idromassaggio, schiarendosi e mutandosi in azzurro, poi diventarono così chiari che giuro che si poteva
vedere il cervello di dietro. Sentivo il battito del cuore far increspare la pelle sotto le mie dita mentre ne fissavo la corteccia, ascoltandone in lontananza lo gnaulìo e vedendovi musica. Non come note musicali, ma come musica tout court. Non so come altrimenti spiegarlo, a meno di non paragonarlo ai viaggi con l'LSD di cui il mio patrigno mi parla in continuazione. Questa sorta di contatto con gli occhi sembrò sfinire la bambina, e i suoi grandi occhi si riempirono nuovamente del color fango e poi, lentamente, si chiusero. Quando sollevai di nuovo lo sguardo, Mamacita se l'era battuta. Non che mi importasse. Aveva avuto l'opportunità di scaricare il mostro e l'aveva colta al volo. Se avessi dovuto vendere quelle riviste sui lottatori agli angoli delle strade ai contadini probabilmente avrei fatto altrettanto. Ma io avevo avuto fortuna. Avevo tra le braccia questo tesoro incredibile: mi era stata data una seconda opportunità per stupire il mondo intero. E l'affitto di un mese per la camera ammobiliata di Rebecca a West Hollywood sarebbe servito per pagare il letto della vecchia per almeno cinque anni. Soltanto più tardi mi resi conto che era stata lei a fare l'affare migliore. Rebecca rimase scioccata, ma anche affascinata dalla lumachina nella cesta di vimini in cucina. Decisi di lasciare i dettagli della storia a più tardi... specialmente la parte riguardante il denaro per l'affitto. Ne avrei parlato quando l'arabo si fosse fatto vivo per riscuoterlo. — Dicevi di aver sempre desiderato un bambino — le dissi. Lei non sembrò divertita. Ma sapevo come prenderla. Non avrebbe avuto nessun problema ad avere a che fare con il mostro sapendo che ci sarebbe stata una parte per lei da più di diecimila dollari al giorno. Presto scoprimmo quanto fosse semplice prendersi cura e dare da mangiare al piccolo mostro; succhiava da tutto e qualsiasi cosa che gli veniva infilata tra quelle disgustose piccole labbra. Una volta Rebecca si era chinata sopra di lei per vederla meglio e quella piccola ciucciona andò subito a cercarle il seno sotto la camicetta. La incitai per scherzo ad allattarla, ma il suo senso dell'humour aveva dei limiti. La chiamai Asta. Diedi il benservito a mammina e presi a bussare a tutte le porte. Mi feci largo tirando al rialzo, infastidendo, pagando bustarelle, infilandomi in tutte le riunioni, da quelle della inconsistente Troma, alla più muscolare Paramount. Dapprima era sempre con funzionari di serie C, come prima; gli
studios vanno cauti. Accedere alle riunioni è relativamente facile; non vogliono chiudere la porta a qualcuno che potrebbe fare un grande film per un altro, e poi non essere in grado di farlo tornare indietro. Il tizio che alla Warners può fare un flop con THX 1138 potrebbe andare alla Fox a fare Guerre stellari. La porta è chiusa, ma non a chiave. A ogni modo, ho avuto appuntamenti coi figli di questi magnati fatti da sé negli altri studios e si parla sempre di "Sentimento", "Storia", "Carattere" e si proiettano cagate di successo e poi io tiro fuori L'idea. Ed è sempre la stessa reazione: — Sì, ma è già stato fatto. Il bambino sfortunato in realtà è più un Film-della-settimana, non le pare? Ma sarei felice di metterla in contatto con i nostri responsabili della TV — e con questo di solito s'intende finita la riunione. Ma io non mollo. Di nuovo ci mettiamo a discutere di Elephant Man e Mask ed E.T., e tutte quelle altre stronzate mutanti strappalacrime, e i miei occhi si inumidiscono di compassione e tenerezza. Quelli cominciano a sentirsi a disagio. Gli spiego come L'idea potrebbe essere realizzata con poca spesa, e quanto abbia imparato dall'ultima esperienza. Poi alzo le spalle come se fosse evidente che non c'è niente da fare, dico grazie ed esco fuori come uno che è distrutto. Ma loro non possono vedere che ho il sorriso sulle labbra. Prima che la porta si richiuda faccio finta di accorgermi della scatola che avevo lasciato nella sala d'attesa, come se me ne fossi dimenticato. E prima che il foruncoloso dottor Tale dei Tali fletta il bicipite per la telefonata successiva, la raccolgo e mi giro verso di lui con Asta tra le braccia sotto la copertina da neonato. — Oh, a proposito... lo vuole vedere? Naturalmente lui è troppo occupato, e non si rende assolutamente conto che ciò di cui sto parlando è reale, e non vede l'ora che me ne vada fuori dai coglioni. Questi appuntamenti inutili non finiscono mai. Ma io non gli do la possibilità di rispondermi. Gli piombo addosso, gli metto la cosa sotto il naso, e tiro via la coperta. Il tipo si bagna i pantaloni. Vuole sapere se l'ha fatta quello di Nightmare a Elm Street parte terza, e devo ripetere centomila volte che no, questa è vera. Quelli non mi credono. Gliela metto più vicina, così vicina che possono sentire l'acre puzzo di urina che emana dalla sua pelle, e li invito a toccarla. Tutti quelli cui ho chiesto hanno sempre declinato l'invito. È incredibile quanto rapidamente abbia accesso ai superiori. M'incontro con il capo del figlio, poi la sua capa, poi il capo di lei e infine approdo al-
l'atmosfera rarefatta dell'ufficio all'ultimo piano di Paparino in persona. A questo punto Rosen mi chiama di nuovo; ha sentito la storia del bambino con la pelle come il tabacco, e vorrebbe fargliela vedere a qualcuno delle major. Non ce l'ho con lui per avermi scaricato; dopo tutto io ero veleno. E a Rosen non frega assolutamente nulla dei buoni rapporti o di essere mio amico. È un uomo d'affari. Giusto. Lui mi mena l'uccello e io gli stringo il suo e tutti e due veniamo spandendo dollari. Lui sa che io so che lui può fare un sacco di soldi con me e quindi gli do carta bianca. È la vecchia storia, e lui fa in modo che gli studios s'accapiglino per aggiudicarsi la storia della bambina. Grazie al cielo. Ci mettiamo d'accordo a Culver City. Sono scrittore, produttore e regista; nessun credito, ma non mi lamento. Vogliamo tenere il budget basso, girare in qualche stato del sud che vada bene per lavorarci e finalmente posso inserire nel cast i miei attori sconosciuti, ma in gamba e così getto a Rebecca un bell'osso, tre volte il suo compenso abituale. Ora che sono anche produttore, mi rendo conto di quanto sia saggio tenere i costi bassi, così è più difficile per le case di produzione nascondere i profitti, se il film va bene. Tengo comunque i cachet al di sotto della media e quasi tutto quello che avanza è per me. Avevo già deciso che non avrei fatto vedere la bambina agli attori e alla troupe prima di girare la scena della nascita. Sapevo che la spontaneità delle loro reazioni ne avrebbe fatto un piccolo capolavoro. Non vedevo l'ora. Il testo piaceva a tutti, anche a quelli che la menavano con il Sentimento, la Storia e il Personaggio. Ma aspetta che vedano il mostriciattolo. Temevo che nei tre o quattro mesi di preproduzione Asta crescendo potesse diventare una bambina normale. Poteva essere che il suo aspetto di mostro fosse solo una fase della crescita. Ogni mattina andavo a controllarla sotto la sua copertina col fiato sospeso. Ma la cosa non cambiava. Comunque avevo davvero imparato un sacco di cose dalla mia ultima esperienza con la Warners. Questa volta ero preparato: mi ero fatto amico di tutti gli attori e della troupe, lasciavo che dessero suggerimenti e facevo finta di prenderli in considerazione prima di rifiutarli e fare a modo mio. A loro piace molto. Tutto va per il meglio. Abbiamo un giorno o due di ritarda sulla tabella di marcia, ma stiamo sotto il budget, così i soliti account in tiro sono contenti. Sono entusiasti della stampa e del battage e di quello che loro chiamano Il look dello spettacolo.
Non potrei essere più euforico. Nelle pause mi sbatto Cindy, la stella che io ho lanciato, nella mia roulotte mordicchiandole i seni di gomma e siringandola con il mio liquido seminale. Ma l'eccitazione maggiore è per la scena della nascita in programma per il lunedì della quarta settimana. Tutti chiedono di vedere il pupazzo, chi l'ha fatto, quando si può vedere il povero pupazzetto. Ma io mi limito a sorridere sornione. B day. L'appuntamento è per le sette, ma io arrivo sul set un'ora prima. Asta ha fatto un po' i capricci, ma adesso è tranquilla. Sta bene e ha mangiato abbastanza; la tengo in una cesta che una volta conteneva i biscotti Snookie. Tutti sono eccitati per la grande scena. Riprenderemo Asta per tre settimane, ma questo è il suo debutto. Ho intenzione di riprendere il mostriciattolo in continuazione per paura che possa cambiare durante la lavorazione. Le scene che le fanno da sfondo non sono molte, quindi è relativamente facile girare le scene una dietro l'altra. Dunque abbiamo imbottito il ventre di Cindy Starlet quasi quanto il suo chirurgo plastico ha fatto con le tette; sta sdraiata sulla schiena con un grande rigonfiamento. Per maggior realismo ha preso lezioni sul metodo Lamaze alla clinica. Qualunque che possa funzionare. Rebecca è in un angolo e sta studiando la linea. E molto sexy nella divisa da infermiera. Non sospetta niente di me e di Cindy. Non che avesse qualche importanza se lo sapesse; ora mi posso permettere un appartamento. Wilmos ha appena finito di mettere a posto le luci. Mi precipito fuori e torno con la cesta, e la tengo riparata dagli sguardi mentre raggiungo la mia postazione. Anch'io compaio nella scena nelle vesti del ginecologo che fa nascere la cosa, per cui ho tutto sotto controllo. Mi sono persino concesso un significativo primo-piano. Sono leggermente sorpreso che Cindy non indossi nulla sotto la camicia dell'ospedale. Mi fa l'occhiolino, ben sapendo che io sono l'unico nella posizione da poterlo sapere, e io le do una tiratina al suo ciuffetto. Lei cerca di far finta di niente di fronte agli altri. Poi metto Asta sul tavolo, ancora sotto la copertina. Nessuno, all'infuori di me, l'ha vista, e mi sento il cuore battere forte attraverso lo stetoscopio che mi pende dalle orecchie. Sistemo la bambina tra le gambe di Cindy (mi piace infilarle cose tra le gambe). Sono l'unico che può vedere Asta, e mi diverto a vederla trascinarsi viscidamente verso le parti intime di Cindy. Cindy cerca di non reagire
alla pressione umidiccia e palpitante. Poi le labbra della piccola mendicante sembrano aver scovato qualcosa che assomiglia a un capezzolo là sotto, e comincia a ciucciare. — Silenzio! Si gira! — Cindy riesce a mala pena a respirare... ma non manda all'aria la ripresa. — Velocità — non posso credere a quello che solo io vedo, ma riesco a trattenere il riso, e provo a staccarla dal bottoncino felice di Cindy. — Registrala. — A posto! Okay, Cindy... azione! E la macchina da presa si avvicina lentamente e inesorabilmente al tavolo. Cindy e io abbiamo del sudore spruzzato sulla fronte e le sopracciglia; m'accorgo che Rebecca mi ha visto infilare la mano sotto le lenzuola di Cindy. Ma quando la macchina da presa è in funzione non fa storie. È perfetto. Dramma, tensione, Cindy mi fa davvero credere che sta avendo un parto difficile. Forse quelle stronzate del metodo non sono poi così male; probabilmente là sotto stava davvero dilatandosi. La macchina da presa adesso è proprio sopra di noi, lei sta spasimando dal dolore e io lotto eroicamente per salvare il bambino. Gli effetti speciali fanno uscire fiotti di fluido dalle pompe sistemate sotto il lettino, e io sollevo Asta dalle gambe di Cindy direttamente in faccia alla macchina da presa. Asta si era comportata magnificamente, lasciandosi andare a quel lungo e debole tremolio, e ammutolendo tutti quelli che si trovavano sulla scena. Feci girare per due minuti in più, e quando finalmente gridai — Taglia! — gli attori e la troupe insieme scoppiarono in un fragoroso applauso spontaneo. Mi inchinai, tenendo in braccio la cosa di fronte a loro, e Hollywood salutò il mio ritorno con un tripudio. Quando fui sicuro che non c'erano stati movimenti di cinepresa né problemi coi suoni, non c'era alcuna ragione per sfidare il destino. La presa era stata perfetta, e non ne avremmo fatta una seconda per prudenza. Feci sgomberare gli imbambolati e mi preparai a fare i primi piani. Asta non dava alcun problema sotto le luci. Se ne stava là, quasi in attesa di istruzioni. Vilmos mi chiese se intendevo usare un pupazzo sotto le luci mentre lui le preparava, e da suprema testa di cazzo io gli risposi di no. Nessun pupazzo avrebbe avuto la stessa qualità riflettente della strana pelle della bambina. E in più sembrava che non le desse fastidio. Bene, non so come si fosse sparsa la voce così in fretta, ma quelli dell'assistenza sociale erano sul set prima ancora che finissimo di girare i pri-
mi piani. Erano furiosi e gridavano all'abuso di minore. Pare ci sia qualche norma che proibisca di far stare i bambini per più di trenta secondi sotto le luci, inoltre sul set devono essere presenti in ogni momento un assistente sociale, un'infermiera e un insegnante, o qualche altra stronzata del genere. Io gli dico che non c'è nessun bambino, che sono effetti speciali. O uno stunt. Quelli vogliono vedere dov'è lo stunt. Sì, certo, un mostro stuntman... A quel punto urliamo tutti, e allora l'assistente di regia chiama una pausa e tutti quanti sono ben felici di svignarsela.. Quando sto per venire a pugni con quella stronza dell'assistente sociale, il secondo assistente di regia mi batte leggermente sulla spalla. Quello che mi sussurra rende vano ogni litigio. Dopo avergli staccato a morsi la testa per essersi intromesso, lo spingo da parte e mi precipito al lettino del parto, ora al buio, dove si trova Asta. Cerco di mettermi tra lei e la troia col vestito grigio, ma quella mi è subito dietro, in attesa di verde. Glielo concedo. Perché il mostriciattolo non si muoveva, né respirava, né mangiava o mandava odore, né viveva. In testa avevo i fuochi d'artificio: suicidio, spari e cacofonia. Ma me ne stavo là immobile, la faccia come un muro vuoto e svaporato di "te l'avevo detto". Mentre la donna tentava di interpretare quel piccolo troncone che si andava rapidamente plastificando, mi voltai lentamente per guardarla negli occhi, e con tutta la mia forza dissi con un fil di voce. — Dunque questo è davvero qualcosa di sua competenza? Entrambi ci voltammo a guardare: evidentemente no, uno stupido pupazzo con la pelle di gomma. Ricordo di essere rimasto impressionato da come sembrava finto quando le luci erano spente; privo della vita sembrava uno scarto di Ghoulies o roba del genere. — Ecco il vostro bambino — gongolai e quella s'allontanò tutta incazzata, persino delusa. Dichiarai conclusa la giornata e mentre tutti si preparavano al secondo giorno di riprese, io presi il piccolo corpo e mi ritirai nella mia roulotte. Cindy mi stava aspettando, tutta sorridente e maliziosa per il servizietto sotto le lenzuola. La cacciai fuori. E lei mise su un'aria tutta seccata e ferita, ma che vada a farsi fottere. Questa era la fine della mia carriera. Chiusi a chiave la porta e misi il mostriciattolo sul tavolo per esaminarlo. La cosa adesso sembrava ridicolmente finta, la pelle che si seccava e che assomigliava al rivestimento interno di un tubo di gomma, c'era persino la polvere bianca del borotalco.
Gli occhi non vedevano, non avevano anima, semplici finestre di vetro di una stanza buia. Prima che me ne rendessi conto Rebecca stava bussando alla porta, ma io semplicemente la ignorai. Lei smise presto, non doveva essere così incazzata come m'immaginavo. Presi a gridare contro quel piccolo sacco di merda sul tavolo scaraventandolo a terra. Adesso mi dispiace, ma dovete pensare allo stress cui ero sottoposto. Quel piccolo pezzo di merda era la chiave a tutto quello per cui avevo lavorato per così tanto tempo e duro, e ora andava tutto in fumo. Cazzo! Il suicidio era sempre una valida alternativa, ma sono troppo codardo per tirare un grilletto, e non abbastanza codardo per non cercare di fare in fretta. Ma mentre fissavo quei piccolo mucchietto schifoso, mi venne in mente un'alternativa più semplice. Avevamo già la ripresa più importante. La ripresa fondamentale era già là. Potevo usare tutto quel che avevamo girato. Eravamo già approdati a una buona scena, stringata, e il pubblico non se ne poteva accorgere. Se si girava con cura, forse uno di questi maghi degli effetti speciali avrebbe potuto aiutarmi a cavare fuori il resto del film. A guardare la cosa ora che la fiamma vitale s'era estinta, la differenza tra un essere vivente e il lattice era evidente, ma non c'era altra soluzione. Chiudemmo la produzione per alcune settimane e nel frattempo mandavamo telegrammi d'emergenza a Stan Wiston e Chris Walas e altri senza tessera sindacale. Quando il giorno dopo gli mostrai la bambina, tutti erano del parere che fosse bella, ma un po' semplicistica nel disegno. Tutti volevano sapere chi l'aveva fatta, e perché non avevo interpellato loro. Spiegai loro che l'avevo fatta io stesso sulla base di un sogno che avevo avuto, ma mi occorreva qualcuno che l'articolasse e manipolasse meglio di quanto avrei potuto fare io. Doveva avere esattamente lo stesso aspetto, solo con più vita. Dopo i maghi, ci rivolgemmo a un tipo del posto, texano, che ci costava un terzo dei grandi e che era disponibile a lavorare trenta ore al giorno per la gloria. In sala di proiezione, mentre attendevo di vedere la scena della nascita, trattenevo il respiro. C'erano tutti i grandi papaveri per i giornali; sapevano che era il momento più importante del film. Fino a quel momento l'avevo solo visto alla moviola. Ma era perfetto. Tutto perfettamente a fuoco, nessun errore, e la bambina era fantastica. Incredibile. Quando gli account rimasero tutti a bocca aperta per la sorpresa, io cominciai a respirare normal-
mente. A quel punto tutti ormai credevano che la cosa fosse un effetto speciale, ed erano quasi contenti di chiudere la produzione per un paio di settimane per mantenere lo stesso livello qualitativo. Tutto quel che dovevamo fare era agganciarli con lo spezzone con la bambina vera, e quelli si sarebbero bevuti il surrogato di gomma. Alla sera tornai a casa sentendomi quasi rilassato. Appartamento nuovo, mancavano ancora i mobili: solo il letto, un impianto hi-fi VCR, e un televisore per le proiezioni. E una cesta di vimini con dentro Asta. Una volta che il clone di lattice fosse terminato, mi ero ripromesso di dare alla cosa una sepoltura decente nel retro... ma solo se il pupazzo di gomma era perfetto. Il giorno seguente non dovevo girare, e così mi feci la mia maratonina di film: It's Alive, Rosemary's Baby, e Tabù IV, che mi fece addormentare, ma con una selvaggia erezione. Era un'eccitazione che non passava con il sonno, al contrario pulsava con il mio battito cardiaco, fino a quando a tarda ora si aprì la porta. Aprii gli occhi. Inaspettate e deliziose Rebecca e Cindy entrarono con un fascio di luce che attraversava le sottili, diafane camicie da notte che indossavano. Per quanto poco probabile, sembravano essere amiche del cuore e diventarono anche più amichevoli quando si unirono a me nel letto. Le nostre acrobazie assomigliavano a una lettera a Penthouse, e comprendevano tutte le combinazioni erotiche che vi sareste mai potuti immaginare... e sei o sette altre. Era un sollievo che non avevo più avvertito dai giorni della preproduzione. Avevo una bocca davanti e una dietro, e le due messe assieme mi portarono al più devastante orgasmo stringi-sfintere della mia vita. Ma alla seconda dose mi risvegliai, il mio migliore amico che pompava come un matto e gli occhi rovesciati all'indietro in un rapimento estatico. Mentre le vampate dell'orgasmo si placavano, riacquistai gradatamente coscienza. Riaprii gli occhi alla realtà... e per poco non vomitai. Quella larva schifosa di una bambina era arrivata dalla cesta di vimini fino in mezzo alle mie gambe, impalata con la bocca sulla mia verga divina talmente a fondo che dovevo averle fertilizzato direttamente lo stomaco. La cosa succhiava voracemente il mio fluido fino a ridurmi completamente a secco. La sua pelle era di nuovo viscida, unta e viva, e la sentivo strisciare affamata sulla mia carne. A inala pena cosciente alle quattro del mattino, e inebriato dalla forza dell'orgasmo, mi riusciva solo di fissare quella mostruosità che mi stava di-
vorando attraverso gli occhi gonfi e incollati. Quel formidabile risucchio s'allentò non appena si rese conto che non c'era più linfa, allora io tentai debolmente di allontanarla. Ma quella non si mosse neanche; disgustato raccolsi tutta la mia forza e la scagliai violentemente contro il muro spiaccicando quel pezzo di merda che colò giù appiccicoso e senza vita. Mi alzai in piedi, la testa che pulsava a ogni battito del cuore, e attraversai intontito la stanza seguendo il mio membro ancora sollevato, fino a trovarmi proprio sopra Asta. C'era un traccia di sangue sul muro, quasi a indicare il mucchietto viscoso che giaceva a terra. Senso di colpa, disgusto e orrore mi traboccarono dallo stomaco e fuoriuscirono dalla bocca sopra il mucchietto morto. Prima con le luci del set e ora, letteralmente, con le mie mani avevo di nuovo ucciso quella cosa. Mi infilai le mutande, raccolsi quell'orrendo mucchietto in un sacchetto di plastica e lo portai fuori in cortile. La luna non c'era, il che mi stava bene, e così presi quello schifio e lo seppellii in profondità dietro al grill per il barbecue. Con le bolle sulle mani mi precipitai nella casa spoglia. Rimasi a letto tutto il giorno seguente, a pensare solo al mostriciattolo. Non c'era alcuna innocenza. Quella non era una bambina, un infante. Nei mesi in cui l'avevo tenuta non c'era stato alcun segno di crescita o maturità o cambiamento. La cosa è quella che è, non quella che deve diventare. Quello che è non lo so, ma presto avrei fatto una supposizione colta. Tutto quel che so è che quel giorno mi sentivo più abbattuto di quanto non lo fossi mai stato... la mia estasi era stata legata a filo doppio con un'enorme revulsione. Ero stato fottuto dal fantasma di un bambino-mostro. Niente di raccomandabile. E poi ci si è messo anche quel cesso fottuto. So che potrebbe apparire prosaico da questo punto di vista, ma c'entra e come. Quando ho cercato di tirare l'acqua, ci fu solo un gorgoglio e io mi resi conto immediatamente che quel dannato arnese stava giocando con la sua roba. Abbassai il coperchio e chiamai l'idraulico. Me ne dimenticai fino a quando non dovetti andarci di nuovo quel pomeriggio. Pronto per scaricarmi, alzai il coperchio, solo per vedere quella fottuta di Asta contorcersi nella tazza del cesso e sganasciarsi il suo pasto. Tentai di tirare l'acqua e spedirla ai leggendari alligatori delle fogne, ma la piena tornò indietro spandendo acqua lurida sul pavimento del bagno. Di nuovo in preda a rabbia, umiliazione e disgusto le feci uscire le budella, disfai quel piccolo corpo contorto, e lo ammazzai per la terza volta. Che grande, fottuta impresa! Sarebbe ritornata... non importa quante volte,
o a che distanza o a che profondità seppellissi la cosa. La vecchia messicana aveva saputo fin dall'inizio che ero la sua salvezza. Me ne sono reso conto adesso. A tutt'oggi devo avere annientato il piccolo mostro due dozzine di volte, ma quello continuerà a tornare. Per nutrirsi. Mi chiedo solo per quanto tempo la sua ultima ospite abbia nutrito e allattato il piccolo parassita che si era impossessato di lei e la controllava. E come dare a un gatto randagio una ciotola di latte, non ce lo si scolla più di dosso, quel bastardo. La mia lussuria nel possederla era stata la cosa più vicina all'amore che avesse mai avuto e ora le nostre sorti erano intrecciate. Accoppiati. Per tutta la vita. Ritorna tutti i giorni dopo che io l'ho uccisa, per nutrirsi dei miei rifiuti corporali, le mie cellule, la mia essenza. Mi deruba della mia saliva, si nutre dei miei escrementi, risorge con i miei spermatozoi. Che dio mi assista se non mi succhia pure il sangue. Nei mesi trascorsi da quando abbiamo girato la scena della nascita il sonno è stato solo una lontana vaghezza che mi coglie di sfuggita. Il telefono squillava prima che lo staccassi e molta gente è venuta fino alla mia porta prima di rinunciare a cercarmi. Ogni volta che allento le difese quella torna a saccheggiarmi. Esausto, mi assopisco un attimo e so che mi risveglierò per trovarla che mi divora, il mio sesso sprofondato nella sua zona femminile, un'altra appendice viscida dietro e dentro di me, che prende senza mai sprecare nulla, neppure le lacrime. Questa cosa vivrà finché io vivrò. Forse di più. Dovevo impossessarmi del piccolo stronzo per sfruttarlo. Fu l'emozione più grande che abbia provato, e ora la sto pagando. Conosco un solo modo per porre fine al tormento. Non so perché abbia rimandato così a lungo. Asta può anche essere indistruttibile, ma io no. Ho solo un rimpianto. So che non farò mai più un altro film. Titolo originale: A Life in the Cinema (1988) MENO DI ZOMBI Douglas E. Winter Douglas E. Winter è un tipo elegante, con gli occhi che brillano ogni volta che si nomina Dario Argento. Non estranea ai mondi dell'orrore e dello splatter, la narrativa di Winter, le sue interviste e le critiche sono ap-
parse in riviste come Harper's Bazaar e Saturday Review e quotidiani come il Washington Post e il Philadelphia Inquirer. Winter si fece notare come il primo vero critico di Stephen King, e il suo studio critico-bibliografico Stephen King: The Art of Darkness è da tutti considerato il testo più autorevole sul soggetto. Doug è anche l'autore di una più ampia antologia critica dell'orrore, Faces of Fear, un denso racconto intitolato "Splatter: a Cautionary Tale" che mescola censura, politica e film truculenti, e il curatore dell'eccellente antologia dell'orrore In principio era il male. La professione ufficiale attiene alla giurisprudenza (è un avvocato dello studio Bryan, Cave, McPheeters e McRoberts), ma non fatevi trarre in inganno da questa apparente contraddizione. Corre voce che Winter abbia trattato in tribunale cause relative a disastri aerei, e si sa bene a che cosa corrisponda il grado zero in quelle tragedie. A ogni modo Douglas E. Winter negli ambienti convenzionali è uno stimato professionista che coltiva un ostinato interesse per i film splatter (da cui il suo amore per Dario Argento; ogni tanto ci scambiamo le cassette dei nostri film "succosi" favoriti) e si oppone tenacemente all'idea che lo splatterpunk sia un genere o un movimento. — Per quanto mi riguarda — dice Doug — neanche l'orrore è un genere. L'orrore è un'emozione. Similmente Doug non vuole essere annoverato tra gli esponenti dello splatterpunk. Infatti, come mi ha scritto in una lettera, "'Meno di zombi' è stato scritto come un racconto anti-splatterpunk, non in senso negativo, ma nel senso in cui ho usato il concetto di 'anti-orrore', cioè una critica dell'orrore, che prosegue il dibattito su quale strada debba imboccare l'orrore... piuttosto che definirne le origini". Winter usa l'intrigante termine "anti-orrore" per ricordarci che la parola orrore è di per sé restrittiva; l'anti-orrore, infatti, prende in esame e contesta proprio quelle convenzioni alle quali il racconto dell'orrore si è piegato. In un racconto come "Meno di zombi" si ha a che fare con anti-orrore a tutta forza. Al di là dell'evidente parodia di "Meno di zero" di Bret Easton Ellis (molto ben riuscita, con la diabolica ed eccitante riproduzione dello stile di Ellis), "Meno di zombi" è una triste conferma della fondamentale mancanza di umanità dell'umanità. I giovani protagonisti di questo inquietante morality tale di Douglas Winter illustrano uno dei fondamenti dello splatterpunk: che i vecchi orrori sono consunti, irrilevanti. I vecchi mostri non sono più poi così importanti. I veri mostri siamo noi.
La gente ha paura di vivere nelle strade di Los Angeles. È l'ultima cosa che dico prima di risalire in macchina. Non so perché continuo a ripetere questo. Ho incominciato, e adesso non riesco più a smettere. Non m'importa più di niente. Non che non ho più diciott'anni e che l'estate è finita, e sta piovendo e i tergicristalli vanno avanti e indietro, avanti e indietro, e Skip e DJ e Deb tra poco si siederanno di nuovo con me. Non del sangue caldo e appiccicoso schizzato sui miei jeans mentre me ne stavo in piedi nel vicolo a osservare. Non della macchia sul maglione spiegazzato e umido che indosso, un maglione che solo ieri sera era tutto bello e pulito. Tutto questo sembra non aver senso in confronto a quell'unica frase. Pare sia più facile sentire che la gente ha paura di vivere che Skip dire: — Tutto questo è autentico — o quella canzone che continuano a mandare per radio. Nient'altro sembra importare al di fuori di quelle dieci, anzi undici parole. Non la pioggia o il vento freddo, che sembravano sospingere l'auto sulla strada fino a quel vicolo, o l'odore di marijuana e sesso che ancora ristagnano nell'abitacolo. La conclusione di tutto ciò è che i vivi sono morti e i morti vivi, ma quella gente, viva o morta, ha ancora una fifa boia. È un fine settimana, sabato sera, e la festa da questo Schuyler, o Wyler, non vale niente e nessuno sa dove sia la festa di Lana e non c'è nient'altro da fare che andare in un club o al cinema o al Beverly Center, ma non c'è nessun gruppo che valga la pena e abbiamo già visto tutti i film e al Beverly Hills c'eravamo stati la sera prima, così continuiamo a girare su e giù in collina sopra il Sunset e Skip dice che dobbiamo procurarci una dose. DJ si fa un'altra pista e si frega gengive e denti con un dito e chiede a Skip quello che è capitato a quel suo amico, Michael, e Skip dice: — Sul serio? — e DJ ride e Skip inserisce la cassetta Festa di compleanno e alza il volume e Nick Cave comincia a urlare. Mi accendo una sigaretta e mi viene in mente qualcosa, un sogno forse, una corsa per le strade di Los Angeles, e passo la sigaretta a Skip e lui tira su una boccata e la passa a Jane e Jane tira su una boccata e hi ripassa a Skip. DJ se ne accende una lui e proprio lì davanti c'è un cartellone che dice: QUI IL TUO MESSAGGIO e sotto c'è uno spazio vuoto. Un'auto è ferma al semaforo più avanti, una Ferrari argento, e quando mi accosto, mi volto e vedo due tipi con gli occhiali da sole e uno mi guarda e io lo guardo e querlo comincia a tirar giù il finestrino e io riparto in fretta verso la
città, lasciandomi le colline alle spalle. Piove più forte e i marciapiedi sono vuoti e luccicano come specchi neri e io ripenso alla scorsa estate e faccio due svolte sbagliate e mi ritrovo sul Sunset. Estate. Non c'è molto da ricordare dell'estate scorsa. Notti in posti come il Darklands, Sleepless, Cloud Zero, La fine. Svegliarsi a mezzogiorno e guardare Videomusic. Una Lamborghini bianca parcheggiata davati alla Tower Records. Il concerto degli Swans, DJ che piscia nello spazio tra due file di poltrone al Roxi, nel bel mezzo di Children of God. Una prostituta con il braccio rotto che mi fa cenno sul Santa Monica e mi chiede se mi voglio divertire. Colazione da Gaylords, Mimosas con Perrier-Jouet. Pranzo con mia madre al Beverly Wilshire e poi subito all'aeroporto per prendere il diretto per Boston. Cena con Deb e i suoi genitori da R.T., corifena annerita, insalata di Cobb, acqua Evian, e io che palpo Deb sotto il tavolo mentre suo padre parla dei Dodgers. Il nuovo album degli S.P.K. A Palm Springs con Skip per il ponte della festa del lavoro, completamente fatto a osservare una lucertola sul tronco di una palma per tutto il pomeriggio. Jane che abortisce. Enormi cartelloni di Mick Jagger che sorride sull'Hollywood Boulevard come il teschio di un cadavere in decomposizione. Clive che viene incastrato, guida senza patente e possesso di droga, e suo padre che lo tira fuori e gli compra una nuova Mercedes 380 SL. Ascoltare i leggendari Pink Dots a Radio AM. e, sì, certo, quella cosa con gli zombi. Guido io, fino alla casa di Jane. Non c'è nessuno. Jane si è dimenticata il codice di sicurezza e Skip le suggerisce di provare con l'anno, di solito è l'anno, e lei compone uno nove otto nove sul telecomando e la lucina rossa diventa verde e il cancello si apre e noi possiamo entrare. Attraversiamo la sala buia per raggiungere la cucina e c'è un messaggio sul tavolo con il numero di telefono di un albergo dove sua madre e suo padre, o sua madre con l'amante, sono in vacanza. C'è una pila di giornali non letti e una lattina di Diet-Coke e una scatola vuota di crackers e poi le tre videocassette. "Vediamo" dice Skip, e prende le videocassette e va in sala dove attacca con la vodka e cerca di accendere la TV. Io siedo sul pavimento con DJ e Jane, e i suoi genitori hanno uno di quegli apparecchi con lo schermo enorme, quarantacinque pollici forse, con almeno due videoregistratori in cima, e Skip trova i tasti giusti e il primo nastro comincia a scorrere. Io penso che sia stato DJ a procurarsi i nastri, o forse Jane; per un po' era sta-
ta a Claremont e aveva un amico che conosceva un tizio che aveva il fratello che lavorava in un negozio di videocassette, uno studente in storia del cinema, e questo le metteva da parte le cassette non appena ne usciva una nuova, e Jane probabilmente se l'era scopato e così aveva avuto le cassette, e quindi noi ce le stavamo guardando tutte e tre di seguito, distesi sul pavimento di quella sala dal soffitto alto con mobili antichi e una riproduzione di Lucien Freud e Jane continua a dirci che lei ha già visto quei tre film, anche se non è vero. Skip siede col telecomando in mano e non dice una parola, continua a schiacciare il tasto di svolgimento per saltare subito alle scene migliori, e il primo si chiama L'alba dei morti viventi e proprio all'inizio la testa di questo zombi viene fatta saltare in aria da uno sparo di fucile e a quest'altro zombi viene mozzata la testa e l'altro film si chiama semplicemente Zombi e l'ultimo non me lo ricordo molto bene eccetto la scena dove il dottore fa fuori la ragazzina, uno zombi pure lei, e le appoggia la pistola proprio contro la testa e il sangue, con brandelli di carne e di cervello, schizza dappertutto nella cabina di un ascensore e per un attimo si vede il vuoto dove prima si trovava il cervello, e subito dopo questa scena io mi giro verso Jane, ma lei non mi guarda, lei guarda Skip e DJ e credo che sappia bene quello che vuole. Non lo sappiamo forse tutti? Un'ora dopo la vodka è finita, e anche la birra, e la televisione è su MTV e Jane è sdraiata sul pavimento della sala dei suoi genitori che fissa il soffitto mentre DJ la sbatte per la terza volta. Skip è al telefono nella camera di Jane che cerca di procurarsi una dose da uno spaccia del centro, e dopo un po' anch'io sono lì con lui e guardo un poster dei Doors e un poster degli Smiths e lo sento dire — Sta bene — un sacco di volte prima di sbattere giù il telefono e volgere lo sguardo verso di me e guardare i poster e dire: — Tempi strani, e strani modi — e poi comincia a sorridere e a me pare di avere capito. Il telefono suona e risponde Skip ed è Deb. Skip sospira e mi fa cenno di andare al telefono e io dico ciao e lei mi risponde ciao e mi chiede che cosa voglio per Natale e se può parlare con Jane. Le rispondo che non lo so e che Jane non può venire al telefono in questo momento e lei dice che sta bene così, sta arrivando, di non andarcene che lei sarà qui a minuti e io rispondo okay e a tra poco e lei a tra poco. Osservo Skip frugare nei cassetti di Jane. S'infila un pacchetto di sigarette e un accendino nelle tasche e mi mostra una foto Polaroid di Jane quando era una bambina, in piedi di fronte a una ricca torta di compleanno con otto candeline bianche e azzurre,
sorridente, e non gli dico che sono io quello accanto a lei, quel bambinetto biondo con i capelli tagliati a spazzola e gli spessi occhiali neri, in ogni caso non è la fotografia che sta guardando, sta guardando me, e mi dice: — Tu sei un culo — e subito dopo la sua mano è sulla fibbia dei miei jeans e mi sta tirando verso il letto, sopra di lui. Dopo, ci fumiamo un paio di sigarette e io seguo Skip al piano di sotto. DJ ha scovato da qualche parte un'altra bottiglia di birra ed è seduto sul divano a guardare MTV. Jane è ancora sdraiata sul tappeto a guardare il soffitto, e chiude le dita della mano destra formando un pugno, e le distende, e poi ancora le chiude a pugno. Skip le si avvicina e tira giù la cerniera dei jeans e dice che Deb sta arrivando e se qualcuno sa come procurarsi della roba. La mano destra di Jane s'appiattisce e poi si chiude ancora a pugno e poi si rilascia, e guarda in su Skip e dice — E allora? — e DJ, distogliendo lo sguardo dal televisore, dice: — Allora che cosa? Scorre un altro video. Un altro. E poi un altro ancora. Love and Rockets non ha nessuna storia nuova da raccontare quando Deb arriva. Indossa una camicetta di seta e una gonna di pelle marrone che ha comprato da Magnin alla Century City. "Ti amo" dice a tutti e a nessuno. Bacia DJ sulla guancia e fa la lingua a Skip e Skip fa finta di non vederla e continua a scoparsi Jane. Mi fa ciao e io le rispondo ciao e lei si prova i miei occhiali da sole. Attraversa la stanza e comincia a rovistare in un raccoglitore di CD. Prende un vecchio album di Brian Ferry, lo mette giù, ne prende un altro di This Mortal Coil. Dice: — Posso mettere questo? — e siccome nessuno le risponde lo infila nel lettore e preme alcuni tasti e alza il volume dello stereo. DJ guarda MTV e anche Skip guarda MTV mentre si scopa Jane e Jane continua a guardare il soffitto e io cerco di non guardare Deb. Lei canta con Elizabeth Fraser, dondolandosi avanti e indietro in una specie di danza. — Ho sognato — canta — che tu mi sognavi — poi si siede di fronte al caminetto e sfila una canna da una tasca della gonna e mi toglie gli occhiali da sole e mi fa l'occhiolino e guarda a lungo la canna prima di accenderla. È la volta di Canto della sirena e c'è un momento di silenzio e Skip si stacca da Jane con un suono che è caldo e umido. "Il prossimo" dice, e guarda prima Deb e poi me. Sogno, ma sogno di me. Mi vedo passeggiare per le strade del centro di Los Angeles e la giornata è nuvolosa e il sole va via e comincia a piovere e
io mi metto a correre e mi vedo cominciare a correre. Nel mio sogno sono io che inseguo me stesso, supero il grande Sheraton, il Bonaventura, l'Arco Tower e per un minuto penso che sto per prendermi, ma le strade sono scivolose, e io cado una volta, due, e quando mi rialzo non vedo nessun'altro all'infuori di questo ragazzino sul lato opposto dell'incrocio e quando guardo di nuovo mi accorgo che sono io, più giovane a ogni passo, più giovane, a circa quindici anni. Si volta e riprende a correre e ora ha tredici anni e corre e io lo rincorro e adesso ha undici anni e diventa più giovane a ogni passo, più giovane e più piccolo, e ora ha nove anni e ha otto anni e ha sette anni e l'ho quasi acciuffato e lui ha sei anni e s'infila in quel vicolo e io gli sono proprio dietro e lui ha quattro anni ed è un vicolo cieco e lui ha tre anni e riesce appena a stare in piedi e io lo raggiungo e lui ha due anni e lo sollevo tra le braccia e sono al fondo del vicolo e lui ha un anno e io sono sul balcone di casa, la casa dove sono cresciuto a Riverside, e lui ha sei mesi e io busso alla porta e sento dei passi all'interno e mia madre viene alla porta e io non vedo l'ora di vederla e lui è solo un neonato e diventa sempre più piccolo e sta scomparendo e la porta si apre e mia madre si affaccia e lui è sparito e io pure sono sparito e poi non c'è più nulla. Niente di niente. È mezzanotte. Sta ancora piovendo. I genitori di Jane stanno a Flotlands nell'appartamento accanto a quello di quell'attore francese della nuova sitcom della CBS e il suo cane abbaia e noi saliamo sull'auto e Skip mi mostra la sua agendina e mi indica la strada. Guido in direzione di Westwood e svolto a destra in Beverly Glen e da qualche parte in collina mi fermo a un negozio di alcolici per prendere le sigarette e una bottiglia di Freixenet e poi torno al volante e mi dirigo verso Mullholland e la Valley e poi imbocco la superstrada Ventura e guardo Skip e lui è come se stesse sorridendo, la sua mano sinistra che batte il tempo sulla coscia e va proprio a tempo, uno due tre quattro, uno due tre quattro, ma io non conosco la canzone della radio, non l'ho mai sentita prima. Guardo nello specchietto retrovisore e vedo che Deb è completamente sopra Jane e vedo che DJ le sta osservando e vedo che Deb ha infilato la lingua nella bocca di Jane e guardo Skip e mi accorgo che lui mi sta guardando mentre io osservo DJ che osserva Deb e Jane e ancora non so il titolo di quella canzone. Skip mi batte sulla spalla e siamo quasi arrivati all'uscita della superstarda e lui si è appena messo qualcosa in bocca che manda giù con l'ultima
sorsata di Freixenet. Fa cadere la bottiglia nera sul pavimento e apre il palmo verso di me come per dire: — Ne vuoi? — e io guardo le pilloline gialle e mi domando se possa prendere del Valium. La musica si alza col suono delle chitarre, sembrano i Cult, e Skip batte il tempo delle chitarre elettriche percuotendo con sempre maggior forza il vetro del finestrino, e sul vetro si formano come delle tele di ragno e lui colpisce ancora una volta il finestrino e quello va in pezzi e lui mi mostra la mano. Ha le nocche coperte di taglietti, ma non sanguina, e la canzone finisce e parte la pubblicità e lui torna ad abbassare il volume. Andiamo in un posto dove fanno il chili, il Lone Star di Hidden Hills, e ci sediamo per un caffè e aspettiamo un po' perché è presto e poi torniamo all'automobile. La Valle alle due del mattino. Il Van Nuys Boulevard che si estende molto di più di quanto sapessi. La luna è curva e luccicante e io mi fermo in un parcheggio e per qualche ragione Skip pare nervoso e per due volte passiamo davanti al teatro vuoto e io gli chiedo perché e lui continua a chiedermi se davvero mi va di fare questo e io continuo a rispondergli di sì. Jane sta cercando di pescare qualcosa nella borsetta e Deb sta dicendo: — Voglio vedere — e DJ cerca di ridere e non appena esco dall'auto e guardo la fila nell'oscurità glielo dico di nuovo. Il centro commerciale non è una Galleria, non è neanche un centro commerciale, è semplicemente un ferro di cavallo concavo, una curva di negozietti, il cinema, una drogheria, una pizzeria, un club di karate e un sacco di vetrine vuote con dei segni di vernice bianca e vecchi giornali e cartelli stampati con sopra scritto: SPAZIO COMMERCIALE. C'è un bambino paffuto seduto su una chaise longue di fronte al cinema, con un paio di Vuarnet che legge The Face e che prende 10 dollari da tutti quelli che vogliono entrare. DJ lo paga e Deb mi prende la mano ed entriamo e la hall è piena di poster spiegazzati e vetri in pezzi e vernice versata e Skip mi fa cenno e mi indica una scritta a mano che dice: CLUB DEI MORTI. Il ridotto assomiglia a un attico ed è buio e ingombro di mobili. Qualcuno nel retro, forse il gestore, sta trattando a suon di dollari con due poliziotti. Fa un cenno a Skip e Skip a me e ci fa entrare e questa ragazza nell'angolo mi fa l'occhiolino e abbozza un sorriso, rossetto bianco e lingua che spunta fuori leccando tutt'attorno, e lei conosce Skip e dice qualcosa che non riesco a sentire e Skip le fa il gesto dell'ombrello. Nella sala le luci sono accecanti e mi ci vuole un po' per abituarmici. Il
posto è affollato, ma troviamo ugualmente un tavolo e cinque sedie e DJ ordina un giro, quattro birre Corona e un Jack Daniels, liscio, per Deb. Stanno suonando Black light trap e il bar è pieno di ragazzi che si sforzano di sembrare interessati a tutto fuorché a quel che sta per succedere: nessuno guarda Jane, che non è un granché. Qualcuno guarda Deb e altri ancora guardano queste altre ragazze che fumano sigarette al garofano in piedi o sedute a piccoli gruppi. Skip indica il suo amico Philip che sta in piedi verso il fondo con gli occhiali da sole e una maglietta nera della Bauhaus. Mi alzo dal tavolo e vado al bancone del bar e poi fuori con Philip e sta piovendo e sento Shriekback che canta che tutti facciamo i nostri errori e mi libero di Philip e poi vado al bagno e chiudo a chiave la porta e mi fisso allo specchio. Qualcuno bussa alla porta e io ci metto un piede contro e dico: — Arrangiati — e tiro fuori tre piste e me le faccio e bevo dal rubinetto e decido che devo tagliarmi i capelli. Dentro al teatro fa caldo e io tengo la bottiglia di Corona sulla faccia, appoggiata alla fronte. C'è un uomo seduto al tavolo accanto al nostro che tiene gli occhi chiusi talmente forte che gli lacrimano. La ragazza che siede con lui si tira il cavallo dei jeans Guess e beve un California Cooler. Avrà quattordici anni. Quando l'uomo riapre gli occhi si guarda il Rolex e guarda il palco e guarda la ragazza e per qualche oscuro motivo mi sento risollevato. Questo è quando parte la musica e le luci s'abbassano e qualcuno, qua e là, applaude e la musica riprende forte, qualcosa di Skinny Puppy, e alla fine finalmente è il momento dello spettaccolo. C'è una serie di teleschermi allineati sul palcoscenico e guardo su e stanno proiettando su uno schermo dopo l'altro ed è solo un videoclip, di sessanta secondi o giù di lì, da uno dei film che abbiamo visto, una brutta copia di una copia di una copia pirata con i sottotitoli in qualche lingua straniera, spagnolo forse, e ci sono zombi in libertà in un centro commerciale e Skinny Puppy ci sta dando dentro e la voce del cantante sta latrando e lo spezzone del film salta e ora è la volta di un porto in Oriente, lo si riconosce dagli alberi, e questo filmato è tratto dalla televisione, da un telegiornale dell'estate scorsa, prima che smettessero di parlarne, prima che venissero fuori le liste, e questi soldati stanno passando al setaccio un paese e gli edifici sono in fiamme e l'aria è satura di fumo e stanno andando di casa in casa e fanno saltare le porte e sparano all'interno e ora c'è una catasta di morti ed è in fuoco e ora viene quella pubblicità, quell'annuncio per il servizio di volontariato, una delle due cose, e il ministro della Sanità sta dicendo che i morti sono vivi,
stanno tornando in vita, ma noi li uccidiamo di nuovo, va bene così, è okay e qualcuno mi ha detto che lui è morto, tutta quella gente è morta e ora il nastro salta di nuovo e i colori continuano a susseguirsi fino a che l'immagine non si fissa e c'è un modello di test. Skip dice: — È tutto — e compare una nuova immagine e poi quella musica, davvero metallica, più simile a muzak, ed è un video, un homevideo, qualcosa girato con una videocamera portatile forse, e la scena si svolge in un garage, o una cantina, solo muri spogli, di cemento grigio delle ombre cominciano a muoversi sul muro e poi esce il primo sul palcoscenico. La musica è cessata e non c'è altro che silenzio e una specie di fischio, il nastro fischia e l'immagine sembra sfuocarsi, sparisce, e poi torna a fuoco e lei fissa l'obiettivo. È giovane, bionda, alta e abbastanza carina, e porta una felpa di Benetton e jeans 501 stinti ed è difficile credere che sia morta. — Questo è autentico — mi dice Skip, e si volta verso DJ e Deh, e Jane dice: — Roba vera. — C'è silenzio nel club, eccetto che per il sibilo del nastro, e sul nastro la ragazza fissa a lungo l'obiettivo, senza che niente succeda. Il pavimento dietro di lei è ricoperto di sacchetti dell'immondizia e qualcosa che assomiglia a carta di giornale e c'è una brandina di legno e c'è un tavolo da lavoro e mi chiedo come mai c'è una sega elettrica sul tavolo e sembra proprio calda e io avvicino la mia Corona, ma la bottiglia è vuota e allora mi guardo attorno in cerca della cameriera, ma tutti guardano gli schermi e allora faccio lo stesso anch'io. Compare questo tizio con un rotolo di corda e ha un cappuccio nero e lei lo vede o lo sente e comincia a girarsi verso di lui e inciampa, e le gambe sono intrappolate, ha delle catene alle caviglie, e ora c'è un altro tizio con un paio di occhiali da sci e le si sta avvicinando da dietro e ha una catena e qualcosa che assomiglia a una imbracatura di cuoio, e io guardo Deb e Deb mi guarda e ora stanno colpendo la ragazza con la catena e lei cade a terra e quelli la colpiscono ancora e ancora e ora la corda è attorno al collo e l'imbracatura è sulla sua faccia e io guardo Deb e Deb si sta toccando e torno a guardare il video e le stanno tagliando i vestiti e ora la feriscono e io guardo Deb e Deb mi guarda e si allunga per toccarmi e ora le avvolgono la corda intorno al collo e la mano di Deb si sta muovendo sulla mia gamba e ora il primo tizio è scomparso e la mano di Deb si muove e ora è ricomparso e Deb me lo stringe e ha un martello e lo ruota una volta, lo ruota una seconda volta e Deb stringe più forte e adesso la corda viene fissata in alto e qualcuno fra gli spettatori dice: — Sì, proprio così — e Skip mette il braccio attorno a Jane e se la avvicina a sé e dice: — Tutta roba vera — e ora stanno stratto-
nando la corda e il nodo scorsoio si stringe e i piedi sono staccati da terra e la mano di Deb si muove e stringe e io le dico di rallentare e lei smette e mi dice di tenere un momento e io ci provo e torno a guardare lo schermo e ora hanno una serie di ganci e la mano di Deb si muove più veloce e ora hanno un pene finto e più veloce e gli stanno infilando dei chiodi e più veloce, più veloce, più veloce e ora hanno un ragazzo, più veloce, un ragazzino nudo, più veloce, hanno una torcia elettrica, più veloce, ora hanno un martello pneumatico, e più veloce, e ora hanno e ora hanno e ora hanno e ora hanno e ora hanno e ora l'immagine è scomparsa e la mia patta è tutta bagnata e Deb mi si avvicina per darmi un tovagliolo. Sono le quattro e si sta facendo freddo; siamo ancora seduti nel club e Skip ha tirato su un filino dal mio pullover dicendomi che se ne vuole andare. I Clan of Xymox sfuma nei Block ed è una vita meravigliosa, canta la voce del gruppo, è una vita meravigliosa, me-ra-vi-glio-sa. Jane sta vomitando nell'angolo e le luci sono basse e rosse e per un momento penso che sembrano sangue. DJ sta girato a osservare due ragazzi che si baciano in bocca nella penombra, al di là del palco, dando gran sorsate a un'altra Corona. Deb si è appartata per farsi con questo tizio dell'USC, biondo coi colpi di sole e abbronzato, e con un pullover Armani bianco. Skip mi dice che dovremmo andarcene subito adesso. La musica finisce ed è fumo, risate, vetri rotti, il rumore di Jane che sputacchia e poi il complesso dal vivo gironzola sul palco e si chiamano Tre, ma sono in quattro. Il bassista ha la mano destra rotta e Skip dice: — Il bassista ha la mano destra rotta — e si sfila una sigaretta al garofano dal taschino. Il complesso di quattro elementi di nome Tre comincia a suonare una versione metal veloce di "I Am the Walrus"e Deb è ora di fronte a me e mi bacia e dice a Skip che è pronta e Skip dice che dobbiamo andare e DJ tira Jane per il braccio e Jane è ancora piegata in due e mi chiedo se sia il caso che le chieda se si sente bene e i miei occhi incontrano quelli di Skip e lui mi fa un cenno verso l'uscita e quello che viene dopo è che siamo fuori. Skip dice che Jimmy ha una videocamera e allora io guido fino da Jimmy, ma Jimmy, qualcuno ricorda, o è morto o è alle Bermuda, così andiamo da Toby e viene alla porta questo ragazzotto negro con su solo le mutande bianche e una erezione. Una lampada di lava gorgoglia rossa nel soggiorno dietro di lui. — Toby ha da fare — dice il negro e chiude la porta. Imbocco la Hollywood Freeway per Western Avenue, ma non va bene e
finisco in centro ed esco, un'uscita qualsiasi e vedo lo Sheraton Grande e vedo il Bonaventure e vedo la Arco Tower e penso che sia l'ora di correre. Skip mi dice di fermarmi, ma non va ancora bene e volto l'angolo e ora va bene e così mi fermo e Skip scaraventa Jane fuori della porta e lei va a finire a faccia in giù nella ghiaia e fa rumori come se stesse per vomitare ancora. — Potevi anche non farlo — dice qualcuno, ma non so chi. DJ si siede sul sedile posteriore e ritira il braccio da attorno a Deb e si stringe nelle spalle e guarda in basso verso Jane. Skip comincia a ridere ed è come se soffocasse e alza il volume della radio ed è il single dei New Order e Jane si sta trascinando lontano dalla macchina. Skip sta tirando fuori qualcosa da sotto la giacca e il suo sportello sbatte e io controllo lo specchietto retrovisore. Per un momento guardo il riflesso degli occhi di Deb e non dico altro. L'auto è ferma nel mezzo della strada, all'imboccatura del vicolo, e ora mi rendo conto che è il vicolo del mio sogno, un posto nascosto, perfetto, e Jane si trascina lontano dall'auto e Skip le si avvicina, con calma, e c'è qualcosa nella sua mano, qualcosa di lungo e tagliente che luccica al bagliore dei fari e la sua ombra striscia sul muro di mattoni del vicolo e a me sembra di avere appena visto tutto questo. Skip le è sopra e vedo Jane che comincia a dirgli qualcosa e Skip scuote la testa come per dire no e poi si china verso di lei e lei se ne sta a guardare e lui la accoltella una volta, e poi di nuovo, e lei rotola sulla schiena e lui le colpisce il viso e lei non batte ciglio, non si muove, e ora lo sportello posteriore sbatte e DJ e Deb sono scesi dall'auto e percorrono il vicolo e quando arriviamo là Skip ci fa vedere il coltello, un grosso arnese militare, e Jane sanguina dalle braccia e dalle mani e un po' anche dal collo e DJ dice: — Fai come nel film — e Skip: — Questo è il film. — Guarda DJ e Deb e me e poi Jane e infila il coltello nel suo stomaco e il suono è delicato e lei a inala pena si muove e non c'è per niente tanto sangue e allora lui le infila ancora il coltello nello stomaco, e poi nella spalla e questa volta lei si scuote tutta e inarca la schiena e a me sembra che stia gemendo e il sangue gorgoglia, ma non è molto rosso, non è per niente rosso. Deb dice: — Oh — e Skip getta via il coltello e Jane rotola sullo stomaco e a me sembra che stia cominciando a piangere, solo un po', e si guarda attorno nel vicolo, ma non c'è niente, bidoni dell'immondizia e carta straccia e la carcassa bruciata di una RX-7 e trova un mattone e glielo getta contro e lei
si raggomitola come un bambino e DJ raccoglie il mattone e glielo getta addosso e Deb raccoglie il mattone e lo getta pure lei e poi viene il mio turno e io raccolgo il mattone e lo getto e la colpisco alla testa. Per un po' la prendiamo a calci e poi lei comincia a strisciare e non c'è ancora molto sangue e comunque non è del colore giusto, quasi nero suppongo, e non luccica molto ed è come se gocciolasse anziché sprizzare tutt'attorno, ed è quasi al fondo del vicolo e la strada finisce e c'è il cordolo del marciapiedi, un marciapiedi e un muro e c'è una luce da qualche parte che illumina verso il basso e lei si trascina ancora per un po'. La testa è nel rigagnolo sotto il marciapiedi e Skip guarda e dice: — Questo è autentico — e tira Jane per i capelli e la testa si piega all'indietro e la bocca è aperta e lui la trascina in avanti e poi le spinge la faccia contro il cordolo del marciapiedi e l'arcata superiore dei denti va a mordere il cordolo, le labbra tirate in un sorriso, e sembra il sorriso dell'istantanea, Jane a otto anni, e la testa è appesa là per quei denti di sopra e io guardo Skip e DJ e Deb e Deb guarda in basso e anche lei sta sorridendo e Skip dice: — Autentico — e appoggia lo stivale sulla nuca di Jane e spinge una volta, due e quel sorriso s'ingrossa in un bacio, un bacio totale al cemento, e alla fine ci sale sopra con tutto il suo peso e il suono è come qualcosa che non ho mai udito. Il suono viene dalla radio. Ascolto la radio, riecheggia per tutto il vicolo, pezzo dopo pezzo. Siedo sul cordolo del marciapiedi con Skip e DJ e Deb e DJ si fuma l'ennesima sigaretta e i mozziconi si moltiplicano fra i suoi piedi e ce ne sono almeno sette o otto e siamo qui da un'ora e ormai è quasi giorno e siamo stati ad aspettare, ma ora è tempo di andare. — Okay, Jane — dice Deb e si alza in piedi e col piede spinge Jane dicendo: — Dobbiamo andare. — Skip è in piedi e DJ è in piedi e Deb guarda il suo Swatch e dice: — Alzati — e poi: — Ti puoi alzare adesso. — Continua a sollecitare Jane col piede e Jane non si muove e Skip sta asciugando il coltello e guarda Jane e allora mi pare di sapere. No, lo so davvero. Sono sicuro di sapere. — Torna anche lei, no? — dice Deb e guarda Skip e DJ e poi me. — Bret? — mi domanda, e incrocia le braccia e ora è seria. — Lei torna con noi o no? — dice Deb. — Voglio dire, torniamo tutti, no? — Skip si rimette in tasca il coltello e DJ finisce le sigarette e io mi alzo e lei ripete: — No? — La gente ha paura delle strade di Los Angeles. — È l'ultima cosa che dico quando mi allontano da Skip e DJ e Deb e torno alla macchina. Non
so perché continuo a dire questa cosa. È qualcosa che ho iniziato e che adesso non riesco a frenare. Nient'altro mi sembra che importi. Siedo davanti al volante dell'automobile e osservo i tergicristalli muoversi avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro e la città si confonde, sfuocata, sotto le sottili righe nere. Voglio dire che la gente ha paura di qualcosa e non riesco a ricordare che cosa e può darsi che non sia nulla, può darsi che non sia un sogno e io sto correndo dietro a qualcosa e nel mio sogno sto correndo e la radio è accesa e cerco di ascoltare, ma stanno suonando la canzone che io non conosco. Il tergicristallo va avanti e indietro. Gli sportelli si aprono e si richiudono e poi io metto in moto e mi allontano. Titolo originale: Less Than Zombie (1989) TRANSITI VELOCI Wayne Allen Sallee Karl Edward Wagner, celebre curatore della serie I migliori racconti di horror dell'anno della DAW Books, una volta scrisse: "Wayne Allen Sallee non è un altro clone di King/Barker/Jason/Freddie. È uno scrittore originale, che intinge la penna nel dolore. Non si può fare a meno di chiedersi fin dove potrà arrivare". Fino a ora, molto lontano. Collaboratore estremamente prolifico di riviste di horror (Grue, New Blood, 2 A.M.), Sallee ha scritto più di 700 poesie e una valanga di racconti (d'accordo, in realtà sono una settantina circa, sta bene?). E Wagner ha perfettamente ragione di sottolineare che la penna di Sallee è intinta nel dolore; il dolore è il tema ricorrente, la giustificazione logica fondamentale della maggior parte dei racconti di Sallee. Non mi credete? Va bene, eccovi due titoli di altrettante opere di Sallee: Il dettaglio del dolore e Sorriso di dolore. E che dire del fatto che Sallee porta un orologio con le parole: SCONFIGGE IL DOLORE sul quadrante? Forse dovrei anche ricordare che Sallee ha avuto esperienza diretta della sofferenza; Wayne poco tempo fa è stato investito da un'auto (come dice lui: "Il braccio con cui scrivo sembrava una sacca di pelle piena di pezzetti e frammenti"). Ora ci credete? Wayne Allen Sallee vive a Chicago e spesso usa questa enorme città ventosa cresciuta a dismisura come sfondo della sua narrativa. Analogamente ai migliori esponenti dello splatterpunk, lui tende a mettere a fuoco
gli orrori del mondo reale. I suoi personaggi sono padri, compagni di stanza, ragazzi comuni. Ma quando questa gente comune è messa a confronto con situazioni autentiche, sconvolgenti, ed è avvolta in un'atmosfera inquietante, le soluzioni di Sallee tendono a saltare alla stratosfera. Sallee ha scritto una certa quantità di racconti simili allo splatterpunk comprendente "Threshold" su bambini mutanti e "Lullaby and Goodnight". Ma "Transiti veloci" pare proprio il genere di racconto che gli aficionados di Sallee s'attendevano da lui. Parte della Trilogia di Dennis Cassady (che si conclude con "Prendi il treno A" e "Sanguinare tra le linee"), "Transiti veloci" tratta degli effetti che improvvisi scoppi di violenza urbana possono avere su un testimone innocente. E in questo scandagliare le profondità più riposte delle patologie umane Sallee dimostra di conoscere a fondo il potenziale di follia insita in ciascuno di noi. A proposito, Sallee mi dice che quello che lui pratica è "orrore psicologico". Ma gli sta anche bene che lo si chiami splatterpunk. Grazie, Wayne! Grazie! Aspettando il treno per Douglas nell'ultimo giorno dell'estate di San Martino, Dennis Cassady vide la donna mentre veniva lentamente e inesorabilmente accoltellata a morte nel campo sotto la banchina. Per diversi minuti era rimasto là in piedi, senza rendersene conto, domandandosi solo se prendersi un paio di giorni di vacanza il prossimo fine settimana per fare un salto a Falton Ridge e vedere quel che rimaneva delle World Series alla TV a grande schermo (dato che, non prendiamoci in giro, se anche vivesse fino a novant'anni suonati, la possibilità di vedere le partite allo stadio di Wrigley Field... diavolo, per i lupetti una fuga a meta ai playoff sarà sempre come per un quattordicenne brufoloso, con la mano sprofondata nei pantaloni, sbavare di fronte alla fotografia della Playmate del mese) e non la notò fino a che non ebbe guardato lungo i binari per vedere se arrivava il treno. La donna non aveva emesso un solo grido. Lui stava in piedi dietro a un cartellone pubblicitario di una marca di sigarette. Il cartellone mostrava una donna con belle labbra rosse e unghie smaltate in tinta che guardava un pacchetto di sigarette attraverso un binocolo. Sotto la scritta diceva: È VERO. L'HAI TROVATO. Con un brivido improvviso di attrazione morbosa, che gli scivolò lungo la schiena come un cubetto di ghiaccio in un giorno afoso, si rese conto che la visuale era perfetta. I jeans della donna — sicuramente doveva essere sui venticinque anni —
i suoi jeans erano tirati giù fino al ginocchio e il sangue scorreva in rivoli sottili lungo una coscia. I lampioni di Western Avenue emettevano una luce violetta sul campo, simile a quella foschia che si vede al tramonto, d'estate, quando sta per piovere, e questa faceva apparire il sangue livido e oleoso. I seni erano grandi, ma Cassady non riusciva a capire se fosse bella: il volto era contratto in una smorfia di terrore, gli occhi spalancati, le narici dilatate, i capelli biondi arruffati e insudiciati. E tutto faceva da contorno al pozzo nero della bocca da cui non proveniva alcun suono. Lo sguardo di Cassady tornò alle gambe spalancate e alle cosce perfette, erano davvero belle, se non fosse stato per quell'orrendo rivolo di sangue che assomigliava molto a un disegno del dottor El Marko di una vena varicosa di qualche vecchia matrona. Il brivido che aveva provato all'inizio diventò più forte, si sentiva come se tutto il suo corpo stesse per addormentarsi. Lo percorreva a ondate, come quando era stato ipnotizzato da Massie e il suo amico Frank Haid si era seduto là vicino e si era messo a ridere. L'ipnotizzatore, extraordinaire — così si definiva lui stesso, in realtà non era altro che un buffone da quattro soldi con un tuppè cotonato — aveva detto a Cassady: — Ti sta venendo sonno. Senti un brivido tra le dita, un brivido negli alluci... — e stronzate simili. Il tipo sembrava un finocchio, e Cassady aveva finito per rimanere ipnotizzato e "diventare" Neil Diamond che baciava qualche anziana signora e si faceva scorrere il filo del microfono su e giù sulla patta. Ma questa volta non si stava per addormentare. Era insieme eccitato e incuriosito da quello che stava succedendo sotto di lui, da quello che ne stava venendo fuori. Si sentiva allo stesso modo di quelle persone che, conducendo vite noiose, quando gli capita di assistere a un incidente, rallentano e si trattengono sulla scena di una rapina in una drogheria di Haddon Street solo per sapere quante volte quell'immigrato polacco di cinquant'anni è stato colpito dopo che gli hanno vuotato la cassa, e poi vedere la propria faccia al telegiornale delle cinque. Non c'era affatto bisogno di vedere la sua faccia al telegiornale, proprio per niente. Cassady si ricordò quella canzone di Don McLean che lui e Sara ascoltavano quando erano al liceo. Sento il brivido tremante di una notte insonne... Solo che la ragazza della canzone aveva capelli castani che ricadevano sparsi sul cuscino.
Il campo sottostante stava per diventare la prima fase di un progetto di cui Cassady non sapeva nulla. All'estremità del campo c'era una baracca dipinta di verde cedro con scritto sopra a caratteri tridimensionali MYERS E FIGLI, WINNETKA. Oltre la baracca il passaggio sopraelevato monolitico della linea Burlington Northern correva sotto la sopraelevata a sinistra distante circa sei metri; le due sezioni di traversine escludevano quasi del tutto la vista del campo. Cassady udì sotto di sé l'uomo grugnire. E il rumore di un'auto con la batteria scarica che qualcuno tentava di mettere in moto. Forse la donna avrà fortuna e la batteria si scaricherà per davvero, pensò Cassady, e non dovrà finire in un centro per aborti di Division Street a dire al medico di turno: — Sì, era il mio ragazzo e... sì, lo so, sarei dovuta venire prima, ma... — Si vergognava — avrebbe concluso il medico. — È così? Bene, ma adesso non si preoccupi, metta solo i piedi in queste staffe. Il gettito non le farà troppo male. La gente che lavorava nell'edificio sul lato sud della sopraelevata, dalle nove alle sei e trenta, formava come dei quadri animati. La luce della luna inondava diverse finestre del terzo piano; Cassady riusciva a vedere un flaconcino di crema per le mani Jergens, una specie di sentinella in miniatura che pareva fissarlo dal davanzale della finestra. Il silenzio della notte fu rotto da un autobus della CTA semideserto con una scritta pubblicitaria: NESSUNO LO FA MEGLIO. I NOTIZIARI DI CANALE 2 ALLE 5, 6 E 10 che passò rombando a circa tre metri dalle due figure nel campo. Gli occhi del guidatore rifletterono l'oscurità impassibile delle finestre dell'edificio, mentre guardavano fissi in avanti verso i quartieri signorili del nord. L'uomo... Signore! Cassady non lo aveva quasi notato prima d'allora... aveva guardato su quando l'autobus era passato fischiando. Aveva una faccia piena, non sbarbata, con ciuffi di barba bianca. Ampie spalle che spuntavano dalla camicia a scacchi i cui lembi sudici ciondolavano dalla patta aperta dei jeans Wrangler. L'uomo indossava un paio di scarpe da basket rosse Keds che producevano scricchiolii quando spostava il suo peso sulle tracce di pneumatico nel fango. Aveva denti storti. Cassady era affascinato dalla chiarezza con cui vedeva le cose. Era come se fosse seduto in una poltrona in sesta fila all'esterno al teatro Hub, protetto dall'oscurità, a riempirsi la bocca di pop-corn mentre la protagonista di qualche filmaccio veniva fatta a pezzi dall'assassino di un filmaccio con sottotitoli in spagnolo. La donna scalciò contro l'uomo, che stava ancora guardando verso la
strada. Lui si piegò in avanti, con un grido. Più di sorpresa che di rabbia. La donna barcollò, i pantaloni ancora calati alle ginocchia. I due si muovevano come in una pavana di ubriachi, l'uomo che cercava di riguadagnare l'equilibrio, annaspando, la donna che cercava di voltarsi, la sua bocca ora assomigliava a una ferita aperta. Più tardi Cassady avrebbe ricordato tutto quel che era seguito come se accaduto con una crudele lentezza, quasi che il campo fosse invisibilmente inondato di glicerina. Tutto quello che seguì, tutto — il flettersi dei muscoli, la carne straziata, lo sbattere di palpebre, i polmoni che si gonfiano e contraggono inalando l'aria e lanciando il grido — tutto accadde al rallentatore, sequenze separate di un grande film. Quasi poteva vedere se stesso respirare al rallentatore. L'uomo si fece avanti di nuovo, d'improvviso con un coltello in pugno Cassady ripensò a un coltello a serramanico che una volta gli aveva mostrato suo padre, un poliziotto di Monroe Street in pensione; quando aveva premuto un bottoncino era sbucata fuori come per caso una lama di quindici centimetri in grado di lacerare ugualmente carne e ossa, infilala nella schiena di qualcuno, snnik! e gli affetti il midollo spinale come fosse burro. Di nuovo udì il ronzio del proiettore del film allo Hub. La donna indietreggiò di tre passi prima di cadere a terra cori un tonfo umido. Un lampione vicino all'angolo lampeggiò un paio di volte e poi si spense. Il braccio dell'uomo calò in sequenze brusche e interrotte, come se uno spezzone di film venisse fatto rallentare e poi riprendere a una velocità spasmodica, o forse la scena sotto di lui era stata girata male e poi inviata in tutta fretta per ricavare ogni singolo profitto possibile. L'enorme coltello lacerò per due volte il braccio destro della donna. Sangue, di un ricco colore rosso rubino alla luce del lampione, rifluì attraverso la camicetta. Una terza pugnalata, questa volta accompagnata da un raccapricciante suono di risucchio (come se il coltello si fosse infilato esattamente nella ferita lasciata dalla prima pugnalata), e il sangue color rubino schizzò in tutte le direzioni, ebbe l'effetto di un innaffiatoio quando si apre l'acqua mettendo un dito sull'estremità. L'uomo ne era inzuppato, pantaloni e camicia striati qua e là da rigagnoli luccicanti, e l'eiaculazione di sangue lo rese ancora più eccitato. Allora, soltanto allora, la donna urlò. Era il suono di qualcosa di intrappolato, come quando un bambino, in campeggio con i genitori, gironzolando, va a finire su una trappola per volpi che si chiude intorno alla sua gambina, frantumandogli le tenere ossa. Come un coniglio che fissa la
bocca di un fucile. Una madre che risponde adirata al telefono alle due del mattino, e comincia a dire: — Non potrebbe almeno chiamare se... — ed è interrotta da un funzionario di polizia. Le braccia della donna si avvolsero spasmodicamente intorno al petto cercando di ricacciare indietro la vita. Quando il suo grido risuonò lungo le strade, nei rigagnoli e nei vicoli, l'uomo la colpì con un pugno sotto l'occhio destro, e Cassady udì il setto nasale spezzarsi. Un suono smorzato, come quello di un pretzel quando viene spezzato in due dentro la bocca. La pelle cominciò a gonfiarsi, scurendole l'ombretto che già da alcuni minuti si era sciolto e colava. Non per le lacrime, ma per lo sputo dell'uomo. Questi l'afferrò per i capelli e la strattonò violentemente in avanti, dopodiché, con indifferenza, le fece ricadere la testa all'indietro con un sordo crack. Tutto questo, naturalmente, accadeva al rallentatore, la luce della luna inondò i capelli biondi della donna quando la testa ricadde all'indietro, e Cassady ripensò a un verso di una poesia di Richard Lovelace: Scuoti la testa e disperdi il giorno... Che assurdità... La donna gridò ancora. Il suono colpì la coscienza di Cassady con la stessa intensità della sua radiosveglia quando al mattino partiva sui dischi caldi della WBBM. Dopo l'attacco dei Go-Goers o di Toni Basii che canta di Mickey, se ancora tratteneva qualche pensiero di sogno, questo scompariva immediatamente non appena immergeva le lenti a contatto morbide nell'acqua gelida e se le infilava per guardare in faccia la realtà: riflesso nello specchio del bagno di uno squallido bilocale il volto di un uomo di ventisette anni che sembrava più vecchio di quanto non fosse. Cassady fissò lo specchio di fronte a sé e vide il coltello sollevato in aria. Questo sta realmente succedendo! pensò. La posso ancora salvare! Indietreggiando, veloce e in silenzio, oltrepassato il cartellone del Creepshaw — che qualche coglione di un Rembrandt aveva ritoccato col pennarello in modo che dalla bocca di E. G. Marshall non usciva più uno scarafaggio, ma un gigantesco pene nero — oltrepassato anche il tabellone azzurro degli orari di partenza e di arrivo dei treni per Douglas, arrivò finalmente al telefono e l'uomo non lo aveva seguito e il telefono era freddo nella sua mano e sulla panchina di legno vicino a lui erano incise sigle come: DOMINIO DEI RE LATINI e lui faceva il 911 e... Tutto ciò accadeva in poco più di tre secondi nella mente di Dennis Cassady. Ma lui rimaneva immobile dove si trovava, come un cadavere nella
tomba. Aveva un bisogno incontrollabile di urinare. L'uomo vibrò il colpo direttamente dentro la bocca della donna. Lentamente... Dio! Sempre così lentamente. Giù, diritto, come il tuffo di un nuotatore olimpico. Vibrò il colpo e Cassady poté vedere le vene del polso dell'uomo sporgere, tanto teneva stretto il coltello. Le nocche bianche. Come gli occhi di lei, bianchi e spalancati, quello che era stato colpito viola, come se fosse disegnato nell'orbita. Vibrò il colpo di coltello e apparvero immagini di quella trasmissione, 60 minuti, sulle riprese al rallentatore, quella sequenza della goccia di latte con la telecamera che riprende ogni millesimo di secondo e la goccia che cade così leggiadra in un piatto e il latte che schizza tutt'intorno formando una piccola corona e una minuscola sfera rimane in bilico sopra un centro vuoto con una sottile lingua che la tira verso il basso. Cassady si sarebbe ricordato più tardi di avere sognato il suono che il coltello fece quando aveva squarciato la lingua della donna. Era come il suono del gettito d'aria del dentista quando è dentro la bocca e si ha voglia di deglutire. Sangue violetto sgorgò da quello strazio mutilato che un attimo prima era stata la bocca della donna. L'odore del sangue riempì l'aria e arrivò fino alla bocca di Cassady. Sapeva di rame, e della sua bile, in fondo alla gola. La donna fece un suono soffocato, come se avesse un accesso di tosse. Un altro, convulso. L'uomo le aprì la gola da orecchio a orecchio. Il volto sorridente. Il vento raccolse l'odore acre di cetrioli e cipolle proveniente dal Wendy della 28a strada. Fiotti di sangue nero affiorarono alle orbite della donna che teneva ancora lo sguardo fisso: oh Dio, perché non poteva violentarmi e masturbarsi di fronte a me senza uccidermi? L'uomo ripose il coltello nella cintura in una fondina invisibile, la lama che sogghignava malvagiamente, e... Si allontanò. Semplicemente s'allontanò a piedi. Erano trascorsi venti minuti, secondo l'orologio al neon Seiko in fondo all'isolato. Il treno arrivò parecchi minuti dopo che le scarpe da basket rosse s'erano dapprima ridotte a una capocchia di spillo rossa e poi erano scomparse nel nulla dell'oscurità. Cassady percorse l'ultima carrozza con passo dinoccolato, l'impermeabile lungo fino alle caviglie che sbatteva sui sedili. Fu sorpreso che fosse affollata, piena di residenti dei sobborghi, tutti azzimati e ligi agli ordini del governatore Thompson: A causa di uno sciopero delle ferrovie, lasciate il lavoro un po' prima o rimanete un po' più a lungo, in modo da prolungare l'ora di punta e auspicabilmente ecc. ecc. E auspica-
bilmente sarò rieletto nel 1987 era quello che non aveva detto nello spot televisivo. E dunque, nessun dubbio, tutti che s'accalcano sul treno delle 7.03 a Cicero-Berwyn. Cassady per poco non inciampava su un rospo di uomo che se ne stava praticamente appollaiato sulle porte. Sottile, una specie di spaventapasseri, con un abito a tre pezzi. Spalle spioventi, ginocchia nodose e caviglie che si toccavano, sopracciglia che sporgevano sopra la montatura di plastica nera dei grandi magazzini Sear. I muscoli del collo protendevano da un colletto che calzava male, tenuto insieme da un piccolo farfallino. Un uomo d'affari di Cermak Road che aveva lavorato fino a tardi. Odorava di acqua di cologna Brut 33. Nell'ultimo sedile, vicino alla cabina del guidatore, una negra incinta teneva lo sguardo fisso sui tetti che sfilavano proprio sotto il livello degli occhi. Un ragazzino con enormi occhi marroni e una maglietta di Walter Peyton le sedeva accanto e le tirava la felpa stinta di color azzurro contendendo l'attenzione della madre ai sudici quartieri popolari. I loro vestiti odoravano di svendita speciale di capi fuori serie da Zayre e le facce avevano scritto a chiare lettere Diciottesima e Hayne in ogni triste ruga, così pure nello sporco sotto le unghie delle dita. Cassady riuscì a trovare un posto a sedere al fondo della carrozza. Si sistemò accanto a un uomo con stivali da lavoro che leggeva (quasi sicuramente con non poca difficoltà, pensò) il nuovo romanzo di Robert Ludlum. Di fronte a lui sedevano due anziane signore, una con un fazzoletto rosso scuro avvolto intorno alla testa, entrambe con la faccia sprofondata nel National Inquirer. — Santo cielo, quel principe Andrea, che si fa vedere assieme a quell'attricetta... Koo che è apparsa nuda in quei filmacci — disse il fazzoletto rosso; era avvolto così stretto intorno alla testa che le sopracciglia erano tirate all'indietro verso la fronte, come Mr. Spock in Star Trek. Si portò la mano rugosa alla guancia per la costernazione: — Dove si andrà a finire in questo mondo? Ma si guardi un po' attorno, signora, e veda, pensò Cassady, veda un po' se a qualcuno importa qualcosa che una donna venga fatta a pezzi in una sera come questa, e tutti voi le siete passati proprio accanto e io l'ho persino vista mentre accadeva. Nessuno di voi s'è nemmeno preso la briga di guardare fuori del finestrino. Troppo presi dalle vostre stramaledette vite e i vostri stramaledetti problemi. Qualcuno avrebbe potuto vedere il... il suo... corpo.
Diavolo, nessuno che manco lo guardasse. Verso il fondo della fila, da qualche parte, un ragazzo teneva il volume del suo walkman Sony troppo alto, e John Cougar cantava di Jack e Diane che ingollavano panini al chili fuori di un fast-food. Va bene così, piccolo Jacky. Cassady chiuse gli occhi. ...dico, ehi, Diana, andiamo all'ombra di un albero... Che ne diresti di una metropolitana elevata, piccolo Jacky, può fare al caso tuo? Cassady quasi sentiva il suono dei suoi pensieri. Avvertì un desiderio smodato di ridere, forte e senza motivo. Il riso di un matto. Che cosa avrebbe potuto fare, in ogni caso? ...oh, sì, la vita continua... Stai dicendo a me, piccolo Jacky? Il cervello di Cassady era come un buco nero, all'infuori della canzone ogni singola percezione dei sensi — il freddo metallo su cui poggiava la mano, l'odore di una pipa tre sedili più in là, persino i commenti delle due vecchie — veniva risucchiata nel cervello e trascinata in un vortice oscuro alla velocità del pensiero. Era come quando stai camminando lungo una strada, e magari pensi alla tua ragazza, e non ti accorgi nemmeno che stai camminando o che le gambe salgono e scendono a ogni cordolo di marciapiedi e svolti a destra senza guardare i cartelli e sai soltanto che quando lei porta quella fascia per i capelli rossa ti fa impazzire. Fuori della sua niente, edifici nell'ombra sfrecciavano a rotta di collo. Il pavimento della carrozza vibrava con il ritmo delle rotaie di sotto. A eccezione della spia seduta accanto a lui, che sbirciava continuamente da sopra la spalla, e delle due pazze di fronte, tutti sedevano con lo sguardo perso nel vuoto e le teste che sobbalzavano a tempo con i movimenti della carrozza, come i barattoli di birra vuoti nell'acqua di Oak Street Beach, gli occhi che fissavano indifferenti la propria immagine riflessa sui finestrini romboidali di fronte a sé, inondati dall'oscurità della notte. Dentro la sua mente, Cassady vedeva la faccia della donna e la faccia dell'uomo, con il ghigno contorto, grottescamente sproporzionate come se uno sbattitore avesse frullato insieme le loro facce, facce da baraccone con sguardi maliziosi come quelle all'entrata della Galleria notturna di Rod Serling. ...molto dopo che la febbre del vivere era finita. Va al diavolo, piccolo Jack.
Il treno fece un suono sibilante mentre rallentava alla Central Park Station, riscuotendo l'attenzione di Cassady così bruscamente come quando il bastone del poliziotto s'abbatte sull'ubriaco disteso sulla panchina del parco e lo risveglia dal suo torpore avvinazzato. Cassady s'accorse cha stava fissando i cartelli Vita in questi Stati Uniti che tappezzavano la carrozza, forniti dal Reader's Digest per il vostro piacere di leggere. Fu uno di quel pugno di persone che erano o abbastanza povere, o abbastanza stupide da scendere dal treno in un quartiere come quello che si dispiegava sotto di lui in una decadenza bidimensionale; slogan di gang — VICE LORDS, GANGSTER NERI — spruzzati in colori carnevaleschi su ogni edificio con saracinesche. Rimase da solo in piedi con le mani aggrappate alla ringhiera, il legno ruvido sotto le dita, e lasciò che il vento, che gli portava l'odore di rame del sangue fino al naso da oltre venti isolati più a est, gli soffiasse gentilmente tra i capelli. Si guardò il palmo delle mani. Erano mani forti, capaci, le unghie ben curate. Prese a esaminare una pellicina sulla mano destra, proprio sotto le nocche, la conseguenza di una disattenzione col rasoio mentre si radeva. La grattò metodicamente, come un vecchio che appuntisce un bastoncino, fino a quando una squama si sollevò. Fissò l'orribile pelle rossa di sotto. Tirando la pelle con l'altra mano osservò una gocciolina di sangue salire in superficie. Il sangue era denso: Cassady avvertì un'acuta punta di nausea pulsare lentamente nel naso. Chiazze nere s'incollarono all'angolo degli occhi e lo stomaco si gonfiò. Ora stava scendendo i gradini a due alla volta, con questo stupido pensiero che ogni volta che poggiava i piedi a terra, sui gradini di cemento, le calze gli scivolavano sempre di più dai polpacci. Sentì la gola farsi tutta gommosa e si rese conto che di lì a poco avrebbe vomitato, come quella volta che aveva tracannato una bottiglia di Yukon Jack in risposta alla sfida di Vic Raciunas e aveva regalato alla Pacer del suo amico d'allora un nuovo set di fodere per i sedili. Era successo davanti al Lorenzo, un locale greco di Halsted dove il proprietario chiamava tutti i clienti "amico mio" e l'intero isolato puzzava di gyros. Cassady ebbe voglia di imprecare per trovarsi là in quel momento. Armeggiò per trovare la chiave della porta d'ingresso, la vescica che premeva sempre di più. Il sangue spuntò di nuovo dalla squama. La luce diffusa nell'entrata la faceva apparire come bava sulla bocca di un bambino. Si vomitò tutto addosso. Il giorno dopo pioveva. Cassady vomitò diverse altre volte nella mattinata; il sapore della bile gli rimase in bocca. Lo sentiva ogni volta che rut-
tava. Si era messo alla finestra a osservare con sguardo vacuo la vita che pulsava in Cullerton e Ridgeway. Facce che indugiavano nei portoni, tenuti asciutti dalle forme sfreccianti del giorno prima, in attesa che smettesse di piovere per riprendere i loro traffici quotidiani. Un vecchio ricurvo, la pioggia che pareva appiattirlo al suolo, attendeva paziente l'autobus per Ogoden Avenue osservando bonariamente due giovani che non sapevano che cosa fosse l'artrite reumatoide e giocavano a spruzzarsi nelle pozzanghere. Il cielo non aveva orizzonti: era una scodella di grigio fumo riversata su ogni cosa, e mentre il pomeriggio finiva in una serata precoce, la pioggia s'infittì, lacerando la coltre di alberi, strappando le ultime foglie autunnali e schiacciandole a terra in mucchi privi di vita. In mezzo a tutto ciò Cassady sedeva e osservava la pioggia tamburellare contro il vetro della finestra e scavare rigagnoli nella sua faccia riflessa. Dietro di lui al televisore Quasar, che aveva acquistato appena uscito l'estate prima a Maxwell Street, Eddie Haskell diceva che i Beaver sono dei nanerottoli. Teneva in mano uno scarafaggio. Da parecchio tempo lo stringeva tra l'indice e il pollice, le zampe che penzolavano fiacche. Cassady lo sollevò al livello degli occhi, e l'insetto incontrò il suo sguardo con una certa aria sdegnata. Lo aveva visto mentre si trascinava in cucina. Ti ricorda qualcuno che conosci? domandò una voce sconosciuta. NO! La mente di Cassady superò quella voce oscura e gli occhi gli si chiusero stretti. Quando li riaprì, un milione di anni dopo che il ghigno beffardo del coltello era diventato insopportabile, vide che aveva strappato via una zampetta dello scarafaggio. La sua posizione non era mutata. La zampetta sul suo dito destro sembrava una ciglia finta da donna. Poi Cassady scagliò con forza l'insetto dietro di sé. Lo udì schantarsi a terra. Che sanguini fino alla morte, pensò. Le quattro e trenta. Canale 7 diede il miglior resoconto della morte della donna. Una bionda spumeggiante e voluttuosa leggeva dal suggeritore che il nome della vittima era Quita McLean... "Quita" dal nome della protagonista di un romanzetto rosa che sua madre aveva letto. Avrebbe compiuto ventitré anni e la sorella diceva che piangeva sempre quando i cuccioli morivano bruciati nell'incendio della stalla in Lad: un cane. La telecamera inquadrò un uomo anziano che non riusciva a smettere di piangere. Dopo un'interruzione per la pubblicità, riapparve la bionda per riferire della situazione degli ostaggi in qualche ambasciata europea. Una donna era stata rilasciata perché aveva detto ai terroristi di essere incinta. Chissà
se una rivelazione del genere avrebbe impedito che Quita McLean fosse prima stuprata e poi ammazzata? Cassady andò in cucina, prese una bottiglia di Seagram pensando che a essere fortunato avrebbe rimediato un'insufficienza epatica. Con la coda dell'occhio, la mano ancora sulla bottiglia, vide l'amico zoppicare a zig-zag verso la salvezza di una scatola di patatine fritte vuota. Armato di una forchetta incrostata presa dal lavandino, Cassady si fece avanti e lo infilzò in pieno. Suonò come un taco spezzato in due. Poi lo scalciò fuori dai piedi. Quando venne il momento del giochetto milionario di Feudo familiare Cassady era buttato sulla poltrona del soggiorno come una bambola di pezza gettata via. Una molla arruginita spuntava dallo schienale e ogni volta che Cassady sospirava quella era sul punto di traffiggergli la scapola. La bottiglia era vuota sul pavimento, accanto a lui, e lui sognava. "...come i Beaver". "Mamma, mamma, Denny stava di nuovo giocando con le mie Barbie!" cantilenava Jenet, la sorella più grande, con voce simile a un disco rotto, come del resto era tuttora. Erano seduti a cena e sua madre, no era Barbara Billingsley, la mamma di Beaver — no, non lo era affatto; questo sogno stava diventando complicato — voltò la testa di scatto. Indossava un grembiule rosa, e una collava di perle le pendeva dal collo. Al grembiule mancavano diversi bottoni. Dalla sedia dove era seduto, di fronte a sua madre, che ora lo stava fissando da dietro una fortezza di teflon, Cassady pensava che non riusciva a ricordare di aver mai visto June Cleaver indossare un grembiule nello sceneggiato di prima... Suo padre sbirciò da sopra l'angolo del giornale. "Le ha tolto tutti i vestiti, mamma!" insisteva quella stupida rompiscatole. Perché non la finiva? "Non è vero, non è vero!" Cassady cominciò un suo disco rotto, ma suo padre si era già alzato in piedi e incombeva sulla sua sedia come un orco, la cintura slacciata rapidamente, che sibilava aspra mentre strisciava attraverso i passanti dei pantaloni. La pancia piena di birra ricadde in avanti per la forza di gravità, ora che la cintura non la tratteneva più e per poco non si afflosciò sulle sue patate. La cintura fece un suono secco quando colpì Cassady sulla schiena, proprio nel punto in cui la molla della poltrona andava a toccare... Checca! Stupida checca! Denny la checca gioca con Corky il ritardato! Le parole venivano ripetute in cantilena da diverse voci maschili, di chi non riusciva a veder perché intento a scrostarsi il fango dagli occhi. Sentì il sapore di fango in bocca. Sbatté le palpebre e nessun altro era là eccetto Sara Dunleavy, e quello sì che era strano perché non l'aveva più vista dai
tempi del college, molto tempo dopo che lui e Jimmy Corcoran avevano lasciato il quartiere. — Sara! — strillò la sua voce di bambino. — Mi fanno male, Sara! — si sentì a disagio per l'esilità della sua voce. — Vieni qui — disse lei consolandolo e cullandogli la testa, che si staccò dalla molla arruginita. Si risvegliò di soprassalto nell'oscurità. Cielo! Che razza di incubo era mai quello! Se ne ricordò alcune parti, proprio come certi pezzi di canzoni che tornano continuamente in mente (molto dopo che la febbre del vivere era finita) mentre si cammina per le strade o si aspetta un treno locale. Sara, Corky, perfino un vago ricordo di suor Veronetta che gli faceva recitare la preghiera del Signore all'asilo di St. Vitus. E le bambole... Merda... annusò l'aria. Aveva l'odore di... no, non si era sbagliato, aveva l'odore di erba. Erba umida, come l'interno della sacca di un tagliaerba dopo che si è tagliata l'erba umida di rugiada o di pioggia. Ma era più di quello. Sentì l'odore di qualcosa in putrefazione. Lo scarafaggio? Fuori era buio... quanto aveva dormito? E Cassady si sporse per accendere la lampada. La luce baluginò sotto un paralume che raffigurava una veduta panoramica delle cascate del Niagara, e lui urlò. L'urlo di Cassady risuonò attraverso le pareti sottili e il pavimento nudo, ma Audrey e Willis Fenton, che stavano guardando Magnum P.I. al piano di sotto, non udirono nulla. Perché l'urlo in realtà non c'era mai stato; era un singhiozzo che gli era affiorato in gola, con estrema pacatezza. Era il suono che aveva fatto la donna un attimo prima che l'uomo facesse partire il suo fendente nella bocca. E lei era là, sdraiata sul divano del soggiorno. Era nuda. Ed era morta. La pelle era diventata verde come il formaggio, come una persona che aveva ricevuto massicce dosi di chemioterapia per la cura di un tumore. Gli occhi erano spalancati, entrambi sprofondati nelle orbite, le mucose e le membrane che rotolavano da una parte e dall'altra, come uova preparate malamente, lasciando pus secco sui bordi delle palpebre. Un occhio fissava ballonzolante il soffitto, l'altro era puntato a sinistra, sopra il televisore, che crepitava per gli effluvi. I capelli erano bianche e brulicavano di vermi. La pelle tesa intorno alle labbra, un ghigno mortale di cuoio secco. C'era fango rappreso sulle gengive e le guance. I denti spruzzati di sangue. Le mani ad artiglio... Cassady sentì una fitta acuta in mezzo alle gambe. In un primo momento
pensò di aver urinato. Un dolore gli percorse i testicoli. Acuto e istantaneo come quando gli capitava di andare sulla sua bicicletta a dieci rapporti coi pantaloncini troppo stretti e muoveva le gambe troppo veloci. Guardò in basso. Ci fu un movimento sotto i pantaloni. I testicoli si ritrassero. Cassady si slacciò i pantaloni in vita. Uno scarafaggio delle dimensione di una moneta da mezzo dollaro era avvinghiato ai suoi peli pubici, come una mosca imprigionata in una tela di ragno. Le zampe spingevano affannosamente all'indietro: a ogni giro sulla pelle sotto l'ombelico di Cassady si formavano delle bollicine color carne, mentre lo scarafaggio si avvinghiava sempre di più. Guardò su verso Cassady e l'ombra delle antenne disegnò una grande V sul suo petto. Cassady gridò ancora. Questa volta per davvero. Si svegliò marcio di sudore freddo. Tremando. Era sera, la lampada era spenta. Alla televisione c'era un dibattito, Barbara Walters che intervistava Bruce Willis sul suo ruolo in Moon lighting. Dennis Cassady non si mosse dalla sua poltrona per ore. Sedeva come chi è agli ultimi stadi di senilità, occhi vacui e vacanti, labbra che tremolano. Più tardi avrebbe raccontato a Sara cosa gli era capitato. Le avrebbe detto ogni cosa. Ma quella sera rimaneva seduto. Grattò la pellicina sulla mano. La fece sanguinare. Titolo originale: Rapid Transit (1985) MENTRE LEI ERA FUORI Edward Bryant Edward Bryant non è uno scrittore splatterpunk, il suo primo racconto apparve nel secondo volume dell'antologia di fantascienza, Dangerous Visions, curata da Harlan Ellison, e in seguito scrisse parecchia fantascienza. Negli ultimi tempi, però, questo taciturno capellone di Denver, Colorado, si è definitivamente convertito all'orrore. Tra i nove libri e le centinaia di racconti scritti da Edward Bryant c'è la narrativa apparsa nelle raccolte prodromiche dell'orrore Cutting Edge, Dark Forces, e Book of the Dead comprendente il decantato racconto A
Sad Last Love at the Diner of the Damned. Bryant inoltre è specializzato nel recensire narrativa dell'orrore per riviste come Locus e Mile High Futures, un lavoro questo che, come dice lui stesso "alle volte può essere irritante". Bryant ha anche lavorato nel cinema e in televisione (come attore in The Laughing Dead, I morti ridenti, del regista S. P. Somtow, e come sceneggiatore per l'ultimo Twilight Zone). "Mentre lei era fuori" proviene chiaramente da questo settore dei media. Qui, infatti, abbiamo il capovolgimento satirico di uno stereotipo particolarmente offensivo, che continua ad alimentare innumerevoli film splatter e truculenti. Curiosamente "Mentre lei era fuori" si basa anche su un episodio realmente accaduto, come ci racconta lo stesso Bryant: In una torrida mattinata di giugno parcheggiai in un centro commerciale di Denver, La città di Cenerentola. Sicuramente a causa del caldo eccessivo, mi ritrovai a fumare di rabbia alla vista di una vecchia carcassa che teneva lo spazio di tre automobili. Intravedendo la possibilità per un piccolo scherzo di fantasia, che appagasse il mio desiderio, lasciai una nota sotto il tergicristallo che diceva: — Caro imbecille, grazie per aver occupato tutto lo spazio disponibile. P.S. Peccato per il contatore della benzina e per il serbatoio. — A circa venti passi da questa mia piccola vendetta, mi voltai e tornai indietro per strappare il post scriptum. Insomma me la sono fatta sotto. Prendetevela con me, quella era vita vera. In "Mentre lei era fuori" viene trattato un altro aspetto della vita vera, e si tratta di un aspetto particolarmente inquietante: il ruolo della donna nei film dell'orrore. Nonostante alcune recenti eccezioni, come il film del 1990, Blue Steel, dove una recluta della polizia, Jamie Lee Curtis, la forte e complessa protagonista, è invischiata in una inquietante relazione con un mostro pluriomicida, i film dell'orrore solitamente ritraggono la donna nei termini più smaccatamente superficiali. Vittime, oggetti sessuali, odiose rompiscatole/streghe ammaliatrici, da Frankenstein a Ghostbusters 2 questo stereotipo femminile viene riproposto con un'insistenza deprimente. Ecco perché "Mentre lei era fuori" è così divertente; qui abbiamo un esempio di splatterpunk usato come accusa anti-sessista. Con il suo panorama domestico fin troppo scontato e il suo epilogo di morti ammazzati, "Mentre lei era fuori" e il suo autore hanno completamente rovesciato i cliché del film dell'orrore. Proprio nei suoi orientamenti più maschilisti. Donne, questa storia è per voi.
Quel che le aveva detto suo marito fu la goccia di troppo. — Cristo — aveva borbottato Kenneth con aria disgustata dal soggiorno. Afferrò una bottiglia di Budweiser con una mano rossa e nodosa, il telecomando nell'altra. Era l'ora della sera in cui generalmente si lasciava andare al maggior numero di stereotipi. — Giuro davanti a Dio che ogni mese per tre settimane ci hai un pannolino tra le gambe. SN le balle. Della Myers si morse la lingua per non rispondergli. SPN, pensò. L'aveva chiamata così l'insegnante delle gemelle prendendo il caffè dopo la riunione coi genitori che Kenneth aveva bigiato. Sindrome pre-vacanze di Natale. Le costò un grosso sforzo non afferrare il telefono cellulare della Northwestern Bell e fracassarlo sulla testa a Kenneth con un unico, violento colpo catartico. — Esco. — E allora? — fece il marito. — Oggi è giovedì. No, non può essere "meccanica dell'automobile" per signore. Autodifesa? — Scosse la testa. — No, quella è al martedì. Un nuovo corso, cara? Magari una terapia di gruppo? — Vado alla Southeast Plaza. Devo prendere delle cose. — Prendi gli assorbenti extra — disse il marito. Sghignazzò e alzò il volume col telecomando. La ESPN stava dando qualcosa che assomigliava vagamente ai tennis di gruppo, in diretta da qualche caldo paese del terzo mondo. — Carta da regalo — ribatté lei. — Vado a prendere della carta da regalo e del nastro. — C'erano anche dei paesi del quarto mondo? si chiedeva. Accettavano rifugiati politici dall'America? — Ti spiace mettere a letto le bambine alle nove? — C'è Stallone sulla HBO alle nove — rispose Kenneth. — Le spedisco a letto alle otto e mezzo. — Bene. — Non aveva voglia di discutere. — Ci racconto una bella favola prima di dormire. — Fece una pausa. — La principessa sul pisello. — Bene. — Della scrollò le spalle nel lungo cappotto di piumino d'oca. E ancora fece del suo meglio per non abboccare. — Gli ho promesso un biscotto al cioccolato a testa con il latte. — Cristo, Della! Perché non adottiamo il dentista? O magari gli bonifichiamo un tanto al mese direttamente dal conto? — Un biscotto a testa — ripeté lei implacabile. Kenneth alzò le spalle apparentemente rassegnato.
Prese le chiavi della Subaru. — Non starò via molto. — Fai solo in modo di ritornare per la colazione. Della gli puntò gli occhi addosso. E se non tornassi? Una volta gliel'aveva detto per davvero. Kenneth aveva sorriso e le aveva chiesto se per caso non voleva scappare con gli zingari, o magari unirsi ai pirati. La tentazione era di rispondere sì, porca miseria, sì, proprio così. Ma c'erano le gemelle. Della aveva l'impressione che i pirati non si portassero dietro i bambini. — Non ti preoccupare — disse. Non saprei dove andare. Ma non lo disse ad alta voce. Della si voltò e salì dalle gemelle per dare la buona notte. Naturalmente tutt'e due volevano andare con lei al centro commerciale. Ciascuna temeva che lei non le avrebbe preso l'articolo più in voga del momento nei reparti di giocattoli — la piccola Emme Enne, la bambola menomata dalla nascita. C'era stata una corsa per accaparrarsi le MN, ma Della aveva già comprato il regalo per le gemelle. — Papà vi racconterà una favola — promise loro. Le due non sembrarono impressionate. — Voglio vedere Babbo Natale — disse Terry, con l'insistenza ostinata di una bambina di cinque anni. — L'avete visto tutt'e due, Babbo Natale. Non ricordi? — Ho dimenticato delle cose. E voglio di nuovo dirgli della Emme Enne. — Anch'io! — disse Tammy. Con Tammy era sempre un "anch'io". — Magari questo fine settimana — concesse Della. — Papà si ricorderà dei biscotti? — chiese Terry. Prima di uscire dalla porta principale, Della tirò fuori dall'armadietto della cucina la scatola dei biscotti e la mise su un gradino della scala dove Kenneth non poteva non inciamparvici. — Ciao — gridò. — Portami qualche bella cosa dal Plaza — le rispose lui. E la sua sola altra risposta fu quella di alzare il rumore della folla dallo Zambo del nord o che altro diavolo di posto. Veniva giù nevischio, che cominciava a gelare sulle strade. Della era contenta di aver preso la Subaru. Dall'inizio dell'inverno non aveva ancora avuto occasione di usare l'auto con la trazione integrale, ma in una sera come quella si sentiva rassicurata dall'averla. La Southeast Plaza era una baraonda. Così sotto al Natale il parcheggio, di solito semivuoto, era strapieno. Della volle fare un tentativo e fece un
giro nelle file più vicine alle entrate del centro commerciale. Se era fortunata avrebbe potuto reagire con prontezza alle luci di retromarcia di qualcuno, e aggiudicarsi il posto cinque secondi dopo. Ma ciò non avvenne. Passò in rassegna la seconda fila, la terza. Poi... là! Si mosse senza neanche pensare, avendo visto un posto vuoto subito dietro a un furgoncino azzurro metallizzato. Sterzò a sinistra la Subaru. E dovette pestare forte sui freni. Qualche imbecille aveva parcheggiato una chiatta enorme, una vecchia Plymouth, in diagonale in modo da occupare due posti. La Subaru scivolò e si fermò col muso a mezzo centimetro dal paraurti da dinosauro della Plymouth. In preda a choc e rabbia improvvisa, Della notò che la cromatura era butterata di ruggine. Le luci di posizione della Subaru la illuminavano di riflesso. Le sfuggì un'imprecazione, il genere di linguaggio che di solito pensava soltanto, in silenzio. Poi in retromarcia si tolse dallo spazio tagliato a metà e riprese la ricerca di un posto. Alla fine quel che Della riuscì a rimediare fu un posto nel perimetro più esterno del parcheggio. Era rassegnata a scarpinare per mezzo chilometro nella poltiglia di neve sciolta. Non si era messa gli stivali. L'acqua ghiacciata s'infiltrò nei mocassini e le inzuppò i piedi. — Merda — esclamò. — Merda merda e merda! Il percorso più breve per attraversare il parcheggio l'aveva portata vicino alla Plymouth che monopolizzava i due posti. Della si fermò un attimo a osservare il vecchio pachiderma. Era di color oro sporco con i resti di una capote che veniva via a pezzi come le squame di uno scalpo scabbioso. Al bagliore del lampione notò che le portiere erano tempestate di buchi di ruggine. Strano. Nell'aria secca del Colorado una simile corrosione era improbabile. Incuriosita, diede un'occhiata alla targa. Era ricoperta di neve sporca. Fissò la vecchia auto enorme e s'accorse della rabbia che montava in lei. Non era soltanto irritata. Un'autentica, genuina, profonda irritazione. Che razza di imbecille può occupare due spazi in una serata infame come questa ad appena due settimane da Natale? Qualcuno che guidava una Plymouth dei vecchi tempi, non molto ben tenuta, ovviamente. Senza neanche pensarci su, Della tirò fuori dalla borsa il suo block-notes a spirale. Lo sfogliò fino ad arrivare a una pagina vuota, dopo la lista della spesa per il giorno dopo, e tolse il cappuccio al pennarello dalla punta fine
(che avrebbe dovuto scrivere dappertutto, e con una neve così sarebbe stato meglio per lui) e scarabocchiò un messaggio: CARO IMBECILLE, FANTASTICO CHE TU ABBIA OCCUPATO DA SOLO DUE PARCHEGGI IN UNA SERA COME QUESTA. HAI MAI SENTITO PARLARE DELLA GIOIA DEL CONDIVIDERE? Si fermò a pensare e poi aggiunse: UN AMICO PREOCCUPATO Della piegò il pezzo di carta più che poté, per proteggerlo dal bagnato, e poi lo infilò sotto il tergicristallo dalla parte del guidatore. Non avrebbe ottenuto nulla — sicuramente quello era il tipo di automobilista che di solito parcheggia abusivamente nei posti riservati ai portatori di handicap... ma la fece sentire meglio. Della proseguì verso l'entrata del centro commerciale e s'accorse che stava sorridendo. Comperò alcuni rotoli di carta metallizzata per i regali degli adulti — dando per scontato che alla fine avrebbe regalato a Kenneth quel che gli aveva comperato — e un bel po' di carta decorata con la torta alle fragole per i regali delle bambine. Della decise di non badare a spese — si era resa conto di essere stanca — e scelse un pacco di nastri già infiocchettati anziché il solo rotolo di nastro. Comprò anche una confezione di assorbenti interni. Della gironzolò ancora un po' per il centro commerciale, dando un'occhiata ai negozi di calzature se per caso avessero qualcosa di blu in saldo, un paio di scarpe da indossare alla festa per collaboratori e consorti dell'ufficio di Kenneth. In realtà quel che desiderava erano degli stivali nuovi. Ma per quelli c'era ancora tempo, fino a dopo le feste quando i prezzi sarebbero calati. Comunque non c'era niente che le piacesse. Sapeva che avrebbe dovuto comprare un regalo per la famiglia di Kenneth in Nebraska. Non poteva aspettare ancora molto per spedire il pacco. Al diavolo. Capì che stava semplicemente perdendo tempo per non tornare a casa. Forse aveva davvero bisogno di una terapia di gruppo, pensò. Non c'era alcun gusto al pensiero di trascorrere un'altra notte dormendo accanto a Kenneth, ad ascoltare il suo russare interrotto solo dallo sfrega-
mento dei denti. Pensò che il suono delle mascelle di Kenneth che sfregavano l'una contro l'altra era come sentire la registrazione della deriva dei continenti a velocità aumentata. Guardò l'orologio. Le nove passate da poco. Inutile aspettare ancora. S'abbottonò il bavero del cappotto e s'unì ai fiotti di clienti che uscivano fuori nella neve. Della vide, mentre passava accanto alla vecchia Plymouth, che qualcosa non era più uguale a prima. Che c'è che non va in questo quadro? Era il bigliettino. Non c'era più. Probabilmente era scivolato via da sotto il tergicristallo con il vento e l'acqua. Forse la carta sottile del block-notes semplicemente si era sciolta. Non aveva più voglia di scrivere un altro messaggio. Dimenticò quell'irritante chiatta pronta per lo sfasciacarrozze e proseguì verso la sua automobile. Della fece scaldare la Subaru per trenta secondi (al corso di meccanica dell'automobile avevano detto di non lasciare scaldare il motore per molto tempo, come lei una volta riteneva necessario) e poi innescò la retromarcia. L'abitacolo fu inondato dalla luce. Diede un'occhiata allo specchietto retrovisore e distolse immediamente lo sguardo. Un occhio chiaro, abbagliante le rispose. Un altro tremolava nello specchietto laterale. — Santo cielo — mormorò trattenendo il respiro. — Sono tutti fuori i pazzi stasera. — Pigiò il pedale della frizione con un piede, il freno con l'altro e attese che l'auto dietro di lei si togliesse. Non accadde nulla. Gli abbaglianti sullo specchio aumentarono di intensità. — Dannazione. — Della lasciò la Subaru in folle e scese dall'auto. Si riparò gli occhi e li tenne socchiusi. Il muso dell'auto dietro di lei aveva qualcosa di familiare. Era la Plymouth color oro. Due sportelli che non aveva visto scattarono, si aprirono e poi si richiusero sbattendo. Le luci si spensero all'improvviso e Della sbatté le palpebre, tentando di riabituarsi alla debole illuminazione al vapore di mercurio del lampione, a un paio di lunghezze d'auto. Avvertì un brivido di inquietudine nel ventre e si voltò verso l'auto. — Ho una pistola — disse una voce. — Davvero. — Sembrava una voce maschile e giovane. — Punto prima alla tua fica.
Qualcun'altro ridacchiò, con voce sottile e stridula. Della rabbrividì. Non poteva capitarle una cosa del genere. Non era possibile, nel modo più assoluto. Gli occhi si stavano riabituando, le ombre abbacinanti scorrevano ai limiti della sua visione periferica e svanivano. Di fronte a lei vide tre figure, poi una quarta. Non vide alcuna pistola. — Che diavolo credete di fare? — li apostrofò. — Non stiamo facendo niente, per il momento. — Quello, vide, era il nero. Si trovava alla sinistra del ragazzino bianco che aveva sostenuto di avere una pistola. I due erano affiancati da un altro ragazzo, che pareva cinese o vietnamita, da una parte, e da un giovane dai bei lineamenti scuri, latini, dall'altra. Tutti e quattro dovevano essere sui diciotto o vent'anni appena compiuti. Quattro ragazzi. Che rappresentavano quattro gruppi etnici. Della cacciò indietro un risolino che pensò fosse il primo passo verso l'isteria. — E allora, ragazzi? Vi volete meritare un'attestazione in tolleranza? Magari vendendo abbonamenti alle riviste? — Della si pentì subito di averlo detto. Suo marito la prendeva sempre in giro per quel suo vizio di fare la saputella. — Che donnina divertente — commentò il latino. — Semplicemente andiamo d'accordo. — Diede un'occhiata alla sua sinistra. — Stai ridendo Huey? Il nero scosse la testa. — Fa troppo freddo. Sto gelando qua fuori. Non sono abbastanza vestito. — A quello si rimedia facilmente — gli rispose il bianco. E a Della disse: — Vinh, Tomas, Huey e io abbiamo tutti gli stessi interessi, non è vero? — Ascolta... — Della cominciò a dire. — Chuckie — disse il nero che ora Della presupponeva fosse Huey — andiamo a sbatterci via di qui, okay? — Chuckie? — fece Della. — Zitta! — le intimò Chuckie. E rivolto a Huey: — Sentite, siamo venuti qua per una vacanza, giusto? La parola d'ordine è divertirci. — Poi proseguì con Della: — Senti, ci stavamo divertendo, finché ti abbiamo vista infilare quel bigliettino sotto il tergicristallo. — Gli occhi gli scintillavano al bagliore della lampada a vapore. — Non mi va di prendermi osservazioni da una zoccola perbene solo perché ci ha le mestruazioni. — Ma, per la miseria — sibilò Della disgustata. Decise che la pistola
non ce l'aveva sul serio. — Fottiti! — Il fumo emesso dalla Subaru l'avvolgeva tutta. — Me ne vado, ragazzi. — Qualcosa che non va qui, signorina? — domandò una nuova voce. Tutti si voltarono. Era una delle guardie di sorveglianza ingaggiate dal centro commerciale, corpulenta per la giacca imbottita di pelliccia e il cappello simile a un colbacco. La mano era appoggiata casualmente sulla fondina non slacciata al suo fianco. — No, se questi teppistelli spostano la loro chiatta e mi lasciano uscire — rispose Della. — E allora, che ne direste, ragazzi? — disse la guardia. Ma ora c'era davvero un fucile, una pistola scura, nelle mani di Chuckie, e la puntava sulla faccia della guardia di sorveglianza. — Adesso — cominciò Chuckie — questa doveva essere una vacanza, ma che cazzo. Niente testimoni, mi pare. — Per l'amor di Dio — fece la guardia, cominciando a indietreggiare. Chuckie sorrise e lanciò uno sguardo ai suoi amici. — Ricordate quella guardia del centro commerciale di Tucson? — Rivolto verso Della, aggiunse: — Quasi tutte queste società di ingaggia-maiali non gli danno nessun arnese. Norme sulla responsabilità e cazzate del genere. Peccato. — Sollevò il fucile di proposito. La guardia cercò lo stesso la sua pistola. Chuckie gli sparò in faccia. Dalla nuca schizzò fuori della poltiglia rossa che andò a macchiare il nevischio mentre il corpo dell'uomo ondeggiava avanti e indietro, fra gli spasmi. — Per la miseria — fece Chuckie esasperato. — Ne abbiamo già abbastanza. Rilassati. — Si chinò sulla sua vittima e deliberatamente puntò e sparò, puntò e sparò. Il secondo colpo colpì l'occhio sinistro della guardia. Il terzo gli fracassò i denti. Gli occhi di Della riprendevano ogni cosa come se fossero una cinepresa. Tutto avveniva al rallentatore e lei si sentiva intorpidita. Tentò di aumentare la velocità delle cose. Senza pensarci, si girò e s'avviò verso lo sportello dell'auto. Sapeva di non avere speranza. — Chuckie! — E allora? Dove credi che possa andare? L'abbiamo bloccata. Ne piazzo uno tra i suoi tergicristalli e ce ne possiamo andare a prendere un paio di cestelli di birra, e magari ce la facciamo anche per l'ultimo spettacolo in qualche altro centro commerciale. Della lo udì sparare ancora una volta. Niente perforò la sua nuca. Stava
ancora disfacendo la testa di quella guardia. S'infilò nel posto di guida della Subaru sbattendo lo sportello e pigiò con forza il bottone della chiusura automatica delle porte, per quel che poteva servire. Della inserì la trazione integrale. A quello Chuckie non aveva pensato. Ingranò la prima, diede gas, e lasciò andare la frizione. La Subaru protestò appena mentre i pneumatici anteriori artigliavano e rimbalzavano al di là della barriera di cemento di circa quindici centimetri. La barriera stridette lungo tutta la parte inferiore del telaio. Poi anche le ruote posteriori superarono la barriera e la Subaru scodinzolò per qualche istante. Non sterzare troppo, pensò. Ma era una preghiera. La Subaru si raddrizzò e Della accelerò lungo la via di servizio nel perimetro esterno del centro commerciale, facendo schizzare la poltiglia di neve in entrambi i lati. E adesso? pensava. Devono aver sentito gli spari. Il parcheggio doveva brulicare di poliziotti. Ma nel frattempo... I fari, chiari e accecanti, colpirono i suoi specchietti. Della pigiò l'acceleratore a tavoletta. Tutto ciò era folle! Quelle cose non capitano alle persone... le persone normali. Il sangue della guardia giurata del centro commerciale sulla neve era sufficientemente reale. Nel retrovisore ci fu un lampo poco al di sopra del faro sinistro, poi un altro. Era uno sparo, realizzò Della. Le stavano sparando. Era proprio come in TV. Si sentì prudere lo scalpo della nuca. Avrebbe sentito qualcosa quando la pallottola le perforava la testa? Le gemelle! Kenneth. Li voleva vedere tutti, essere al sicuro con loro. In qualsiasi posto tranne che lì! Della girò violentemente il volante, ignorando il segnale di stop e rendendosi subito conto che la strada d'accesso era senza uscita. Poteva andare a destra o a sinistra, e allora andò a destra. Pensava che fosse la direzione di casa. Non fu una buona scelta. Le luci erano tutte dietro di lei ora; davanti a sé non c'era nient'altro che oscurità. Tentò di ricordarsi che cosa ci fosse dietro al centro commerciale in quel lato. C'erano delle case in costruzione, finite e non. Ci doveva pur essere un supermercato 7-Eleven, una stazione di servizio, qualcosa. Ma non c'era, e poi il selciato finì. Dapprima la strada si fece improvvisamente più accidentata, con le buche che si spalancavano più profonde. Poi l'asfalto striato di fanghiglia finì. La Subaru rimbalzò sulla ghiaia; una trentina di metri più in là, la ghiaia diventando sporcizia mal li-
vellata. Più propriamente la superficie di sporcizia poteva essere definita fango. Davanti a lei comparve una barriera di legno, le strisce catarinfrangenti e la neve luccicavano alla luce dei fari. Era proprio come in TV, pensò Della. Diede gas al motore e si piegò di lato, anche con il cruscotto, quando la Subaru investì la barriera. Udì un tremendo crack e i vetri in frantumi dei finestrini schizzarono tutt'attorno a lei. Sentì l'auto virare. Tentò di mettersi a sedere diritta, ma l'auto girava su se stessa troppo velocemente La Subaru fece un ultimo giro e andò a sbattere definitivamente contro un basso boschetto di giovani pini. Il motore tossì e si bloccò. Della premette il tasto della luce. Sentiva la fragranza penetrante degli aghi di pino schiacciati invadere con la neve l'abitacolo attraverso lo spazio dove c'era stato il finestrino. Il motore bofonchiò quando lei girò la chiave d'accensione, ma non partì. Della s'arrischiò a dare un'occhiata in giro. I fari della Plymouth erano visibili, ma l'auto era più lontana di quanto lei non avesse osato sperare. La dimensione dei fari non aumentava e continuavano a puntare in alto facendo un angolo acuto. Probabilmente la pesante Plymouth aveva slittato nella fanghiglia, era uscita di strada e s'era impantanata per il meglio. Provò ancora con la chiave, e di nuovo il motore non rispose. Udì qualcos'altro... voci che si avvicinavano. Della estrasse la chiave d'accensione e lanciò uno sguardo attorno all'abitacolo al buio. C'era qualcosa che poteva usare? anche solo qualcosa? Non nel vano portaguanti. Sapeva che là dentro non c'era nient'altro che il libretto d'istruzioni e un pacco grande di gomme da masticare senza zucchero alla menta. Le voci s'avvicinavano. Della tastò sotto il cruscotto e tirò la levetta d'apertura del cofano. Poi abbassò il finestrino e strisciò fuori nell'oscurità. Non era così sconvolta da dimenticarsi che le luci si sarebbero spente se avesse aperto lo sportello. Almeno uno dei ragazzi aveva una torcia elettrica. Il fascio di luce tremolava e danzava sulla neve mentre quello avanzava. Della raggiuse incespicando il bagagliaio della Subaru. A tastoni trovò la cassetta degli arnesi. Con l'altra mano trovò la chiave a croce. Poi s'allontanò dall'auto. Avrebbe voluto avere un fucile. Avrebbe voluto sapere usare un fucile. Era una cosa programmata per un vago futuro una volta terminato il corso di meccanica dell'auto e quello di autodifesa e quando avesse avuto di nuo-
vo il tempo di seguire qualche altro corso serale. Non era che, aveva ricordato a se stessa, fosse diventata paranoide. Semplicemente voleva essere meglio attrezzata per vivere in città. I sobborghi non erano la città per Kenneth, ma per una ragazza del Montana rurale sì. Lei non se l'aspettata questo. Si piegò. Il naso le diceva che il nascondiglio che aveva trovato era un rigoglioso cespuglio di salvia. Si trovava forse a una ventina d metri dalla Subaru. I ragazzi non facevano nessun tentativo di rubare. Li sentiva parlare fra di loro mentre il fascio della torcia saltellava tutt'attorno alla sua auto in panne. — Dunque lei è là dentro col cervello tutto versato sul volante? — diceva Tomas, il ragazzo latino. — Sei un ottimista? — gli rispose Chuckie. Sghignazzò, un riso stridulo. — No, non è qui, razza di stronzo. Questa qua è una tosta. — Poi aggiunse: — Ehi, guardate là! — Che stai facendo? — Intervenne Huey. — Non ci abbiamo tempo per quello. — Non essere troppo sicuro. Magari lo possiamo usare. Che cosa aveva trovato? si domandava Della. — Ora fare che cosa? — chiese Vinh. Aveva un po' di accento. — Poni che questo è l'Ovest — disse Huey. — Supponi che noi siamo uomini delle montagne, proprio come nei film. — Giusto — fece Chuckie. — Scovatela. C'è fango. C'è neve. Quanto lontano può andare? — Ci sono delle tracce — esclamò Tomas. — Punta là la torcia. Deve essere piuttosto vicina. Della si voltò. Abbracciò la cassetta degli attrezzi, attenta a non farla tintinnare o sbattere, e fuggì nella notte. La braccarono alcuni minuti più tardi. O poteva essere stata un'ora. Non riusciva in alcun modo a leggere l'ora sul suo orologio. Tutto quel che sapeva è che aveva corso; aveva corso nel tentativo di girare attorno a dove poteva avere la possibilità di farcela fino alle luci distanti del centro commerciale. Mentre correva aveva sentito il cespuglio artigliarle i jeans e il fango e il nevischio che tentavano di risucchiarle le scarpe. Lei si sforzava di immaginare le forme nell'oscurità sovrastata dalle nuvole, valutando ogni forma oscura come un potenziale nascondiglio.
— Ehi, bella — fece Huey proprio in faccia a lei. Della balzò indietro, fintò lateralmente, e andò a sbattere rovinosamente contro una staccionata di legno. Le assi cedettero solo leggermente. Sentì una lunga scheggia infilarsi nel cappotto di piumino d'oca e trafiggerle la spalla. Ritraendosi, sentì la scheggia sollevarsi e staccarsi dall'asse. La torcia scattò in alto, il fascio di luce dapprima l'abbagliò, poi discese a illuminarle la parte superiore del busto. Dalle loro voci si rese conto che tutti e quattro erano là. Della voleva liberare una mano per strappar via la scheggia dalla spalla. Tuttavia continuò a tenere in braccio la cassettina degli arnesi. — Hey — fece Chuckie — che c'è in quella roba? I gioielli di famiglia per caso? Della rimase muta. Si era già messa in un bel guaio per la sua mania di dare rispostine argute. — Facci vedere — disse Chuckie. — Mostraci cos'hai, dolce Della. Lei fissò la sua faccia invisibile. Chuckie ridacchiò. — La patente, cara. Nella borsetta. Nella macchina. Merda, pensò. — Brutta foto — Chuckie. — Ci pensiamo noi a conciarti la faccia in modo che rassomigli alla foto. — Di nuovo quella risatina orrenda. — Nel frattempo facci vedere cos'hai nella scatola, okay? — Gioielli, tu pensare? — domandò Vinh. — No, non credo — disse il suo capo. — Ma può anche darsi che stesse facendo un deposito in banca o roba del genere. — Rivolto a Della: — Ci hai abbastanza belle cose per noi, forse ci puoi comperare. Non c'era scampo, pensò Della. Quelli vogliono tutto. I soldi, gli anelli, l'orologio. Tentò di deglutire, ma la gola era troppo secca. La mia vita. — Apri la scatola — le intimò Chuckie, adesso con voce minacciosa. — Apri la scatola — disse Tomas. Huey gli fece eco. I quattro presero a cantilenare: — Apri la scatola, apri la scatola, apri la scatola. — Va bene — urlò lei. — La apro. — Quelli smisero il coro. Qualcuno ridacchiò. Le mani si muovevano lentamente, il cervello galoppava. Fallo, pensò. Ma attenzione. Fa molta attenzione. Col palmo teneva su la chiave a croce sotto alla cassettina. Con la mano libera sganciò la fibbia e sollevò il coperchio rivolto verso i quattro. Nessuno di loro, pensava, poteva vedere all'interno, sebbene ora il fascio di luce fosse puntato sul coperchio della cassettina. Della vi infilò la mano dentro, il più deliberatamente possibile, tentando
di non tradire nulla di quanto aveva intenzione di fare. Dipendeva tutto da ciò che stava in cima. Le sue dita nude toccarono l'acciaio freddo della chiave inglese. Le dita si strinsero intorno al manico. — Mi sto rompendo le palle — disse Tomas. — Fottiamola e facciamola finita. Ora! Tirò su la chiave inglese, piegò il polso verso l'alto e lanciò l'attrezzo circa mezzo metro sopra il cerchio della torcia elettrica. Lo lanciò proprio come le aveva insegnato suo padre a lanciare la palla da baseball. Non le era mai piaciuto molto il baseball. Ma ora... La chiave colpì qualcosa e Chuckie strillò. La torcia cadde a terra sulla neve. Della richiuse velocemente la cassetta e partì con uno scatto tra Chuckie e quello che credeva fosse Huey. Il ragazzo negro fece per tuffarsi, ma scivolò, finendo a faccia in giù nel nevischio. Della vide con la coda dell'occhio Tomas che saltava verso di lei, ma col piede davanti andò a finire sulla nuca del ragazzo a terra, schiacciandogli la faccia nel fango. Il grido di Huey si smorzò in un borbottio; Tomas imprecò e cadde in avanti, roteando le braccia per fermarsi. Tutto ciò a cui Della poté pensare mentre guadagnava l'oscurità fu: Avrei dovuto prendere la torcia elettrica. Udì quello che credeva fosse Vinh ridere: — Cazzo, ragazzi, forte. Proprio come Moe e Curley e quell'altro. — Vuoi stare zitto! — fece la voce di Chuckie. Pareva irritato e dolorante. — Stai zitto, stronzo. — Il timbro della sua voce era talmente stridulo che si spezzò. — In piedi, coglioni. Prendete quella troia. Pietre e bastoni, pensò Della. Stava impazzendo? Ne aveva tutte le ragioni. Mentre correva, e inciampava, nella notte, Della sentiva la lunga scheggia muoversi con il movimento dei muscoli della spalla. Solo il sentirla, non il dolore, ma soltanto la sensazione fisica di intrusione le dava la nausea. Devo fermarmi, pensava. Devo prendere il fiato. Devo pensare un attimo. Della scivolò sulla riva di un fossato e si ritrovò a muoversi in una corrente di acqua gelida e poco profonda. Acqua. Le fece scattare qualcosa. Incurante del gelo che le inzuppava le scarpe e non le faceva più sentire i
piedi, si voltò e continuò contro corrente, tentando di sciabordare il meno possibile. Questo, le pareva di ricordare, aveva funzionato nella Capanna dello zio Tom, come anche in un sacco di brutti film di fuga dalla prigione. E poi i ragazzi erano uomini di montagna di non molta esperienza. Non erano cercatori di piste indiani. Quest'espediente doveva eliminare il problema delle tracce. Quando le sembrava di aver percorso almeno cento metri, sentendosi i piedi di piombo e venendole a mancare l'equilibrio, Della s'arrampicò fuori dell'acqua e si trascinò su per il fianco del fossato. Si ritrovò in un boschetto di pini, molto simile a quello in cui la Subaru aveva terminato la sua sbandata. Quanto meno gli aghi pungenti dei sempreverdi le fornivano un po' di riparo dal vento della prateria che aveva iniziato a sollevarsi. Udì dei rumori dal fosso. Era musica. Le ricordò le gemelle. — Che cazzo state facendo? — la voce di Chuckie. — È un tributo, compagno. Un gesto — Vinh. — È il suo radio-registratore. Della riconobbe il nastro. Musica rap. Run DMC, i Beastie Boys, uno di quei gruppi là. — Cristo, non l'ho fatto apposta — Tomas. — È colpa di quella dannata troia. — Be', è morto — disse Chuckie, — e per lui non c'è più niente da fare. Ora spegni quella merda. Qualcuno ci potrebbe sentire. — Chi ci sentire? — chiese Vinh. — Nessuno può sentire qui. Solo noi e lei. — E lì il punto. Lei ci può sentire. — E allora? — intervenne Tomas. — Noi abbiamo una pistola. Abbiamo la luce. Lei non ha nient'altro che quella stupida scatola. — Noi avevamo Huey — ribatté Chuckie. — E ora non c'è più. Cristo, spegnete 'sto cazzo di registratore. — Okay — la voce di Vinh sembrava astiosa. Ci fu un sonoro clic e l'eco del rap svanì. Della s'accucciò contro la ruvida corteccia del tronco di pino, abbracciando la scatola degli arnesi. Il ragazzo è morto, pensò. E allora? Rispose il suo buon senso. Ti avrebbe uccisa, forse anche violentata, seviziata prima di premere il grilletto. Anche gli altri devono morire. No. Sì, ribatté il suo lato pratico. Non hai scelta. Sono loro che hanno cominciato.
Io ho messo il biglietto sotto il tergicristallo. Andiamo, seriamente: quello era inoffensivo. Questi qua vogliono ammazzarti. Prima ti vogliono seviziare, poi ti mettono la pistola in bocca e... A Della venne voglia di piangere, di urlare. Sapeva che non poteva farlo. Era assolutamente necessario mantenere i nervi saldi ora. Terry, pensò. Tammy. Vi voglio bene. Dopo un po' si ricordò anche di Kenneth. Anche a te. Non molto, ma un pochino. — Diamo un sguardo qua sopra — disse la voce proveniente dal fossato, quella di Chuckie. Della udì il rumore del loro raspare sul terreno bagnato mentre s'arrampicavano su dall'acqua. Puntato sulla neve che cadeva il fascio della torcia elettrica assomigliava a quello di un proiettore alla prima di un film. Della indietreggiò nascosta dal pino e lentamente raggiunse una zona dove gli alberi erano più fitti. I cespugli intricati la riparavano. — E adesso? — fece Tomas. — Ci dividiamo — Chuckie gesticolò; il fascio di luce della torcia elettrica oscillava di qui e di là ampiamente. — Tu vai nel mezzo. Vinh e io ai lati. — E allora perché non dai a me la luce? — domandò Tomas. — L'ho rubato io l'arnese. È mio. — Cazzo, potrei anche passarle oltre. Chuckie rise. — Huei, svegliati, coglione. Senti il suo odore, la senti, qualcosa. Credimi. Tomas disse qualcosa che Tomas non riuscì a capire, ma il tono era perplesso. — Ora, si fa come dico io — Chuckie tagliò corto. La luce si spostò alla sinistra di Della. Udì il cigolio della scarpe bagnate che si avvicinava. Evidentemente Tomas aveva guadato per un po' il fossato. Quello o il nevischio stava riscuotendo il suo pedaggio. Tomas non avrebbe potuto fare meglio con un radar. Venne diritto dove si trovava lei. Della pensò che il ragazzo fosse a tre metri, un metro e mezzo, dall'altra parte del pino. La chiave a croce era di quelle a tre bracci, con la forma a croce. Afferrò l'acciaio nero del braccio più lungo e tirò indietro il braccio. Non appéna avvertì un movimento dietro al tronco, lo scagliò in avanti con la forza dell'isteria, mirando alla testa. Tomas barcollò all'indietro. Il braccio tagliente della chiave lo aveva colpito sotto il naso, ripiegando la cartilagine sulla faccia. Circa un terzo
dell'arnese era affondato nella carne. — Unh! — Cercava di urlare, ma tutto quel che riusciva a pronunciare era: — Unh, unh! — Tomas? — Chuckie gridava, — Che cazzo stai facendo? La luce della torcia tremolò attraverso il boschetto. Della intravide Tomas che barcollava all'indietro con la chiave infilata nella faccia, come se stesse portanto qualche orrendo arnese di Halloween. — Unh! — fece Tomas ancora una volta. Sbatté contro un albero, poi scivolò lungo il tronco fino a trovarsi seduto sulla neve. La luce di nuovo attraversò quella parte del boschetto e Della vide che gli occhi di Tomas fissavano spalancati, scuri e vuoti. Il sangue scorreva alla fine dei bracci perpendicolari della chiave. — La vedo! — gridò qualcuno. — Credo che abbia beccato Tomas. È un demonio! — Vinh. — E allora bloccala! Della udì spezzare rami e arbusti accanto a lei. Aprì di scatto la cassetta di plastica, ma le dita erano gelate e il contenitore rovinò a terra. Tentò di acchiappare gli arnesi mentre cadevano nella fanghiglia e nel buio. Le sue dita si posarono su qualcosa, una cosa. Il manico pareva buono. Era il giravite dall'impugnatura di legno, quello aguzzo con la cima con la scanalatura. Il suo istruttore di meccanica delle auto aveva approvato. Impugnatura isolata, aveva detto, bella asta d'acciaio forgiato. Lo si poteva usare per far leva sul cerchione per fare uscire una gomma. Non ebbe neanche il tempo di sollevarlo che Vinh le fu addosso. Braccia e gambe avvinghiate attorno a lei come anguille. — L'ho presa! — strillò. — Chuckie, vieni qui e sparale. Rotolarono nel nevischio viscido e fangoso. Della riuscì a liberare un braccio. Quello buono. Quello con il giravite. Non era neanche da pensare di chiedergli gentilmente di mollare la presa, di avvertirlo, o semplicemente di mirare a farlo desistere. L'istruttore di autodifesa aveva inculcato in tutti i partecipanti al corso la regola fondamentale: — Fai quello che puoi, fai quello che devi fare. Niente regole, niente scuse. Con tutta la sua forza, Della gli conficcò il giravite alla base del cranio. Spinse e avvitò l'arnese fino a che non sentì le nocche affondare nei capelli ispidi. Vinh urlò, un lamento acuto e doloroso che si spezzò e frantumò quando il sangue gli fuoriuscì a fiotti dal naso e dalla bocca, schizzando sul collo di Della. Braccia e gambe del vietnamita s'irrigidirono e s'allenta-
rono mentre il corpo vibrava spasmodicamente come in preda a una crisi. Della lo allontanò da sé e si rimise in piedi. Le narici erano piene di quell'odore che Della ricordava dal cestino dei pannolini dei bambini Sapeva che doveva recuperare il giravite, stringere forte il manico e girarlo fino a sfilarlo dalla testa di Vinh. Ma non poteva. Tutto quel che riusciva a fare a questo punto era voltarsi e scappare di corsa. Di nuovo di corsa. E sperare che il sopravvissuto dei quattro non la prendesse. Ma Chuckie aveva la luce, e Chuckie aveva anche la pistola. Aveva l'impressione che Chuckie non fosse nello spirito di lasciar perdere. Chuckie l'avrebbe scovata. Gliela avrebbe fatta pagare per la perdita dei suoi amici. Ma se doveva pagare, pensò Della, il prezzo sarebbe stato alto. I prezzi, scoprì presto, sono soggetti a cambiamenti senza preavviso. Con un solo inseguitore rimasto, Della pensò che sarebbe stato possibile scappare. Forse non facilmente, ma ora non c'era più il fuoco incrociato di occhi-spia, né gli assalitori si potevano alleare. Questo era solo un ragazzo rimasto, anche se era uno psicopatico che portava una pistola carica. Della tremava. Era per la fatica, si rese conto. L'interminabile rincorsa adrenalinica tra fuga e lotta. Probabilmente si trattava anche di choc per avere appena ucciso due esseri umani. Non voleva dover pensare alla momentanea vista del sangue uscire a fiotti dalle estremità luccicanti della chiave a croce, la sensazione avvertita quando il giravite con l'estremità a fessura si infilò nel cervello di Vinh. Ma non poteva imporsi di dimenticare queste cose. Era come se qualcuno le dicesse di non mungere, per nessuna ragione, una mucca viola. Della tentò. No, pensò. Non pensarci del tutto. Pensò di fare a pezzi la mucca viola con una sega elettrica. Poi udì la voce di Chuckie. Il ragazzo era ancora distante, che cercava qua e là praticamente a casaccio nel boschetto di pini. Della s'irrigidì. — Sono carine, Della cara. Glielo darò. — Ridacchiò. — Terry e Tammy. Cristo tu e tuo marito non potevate metterci un po' più d'immaginazione. No, pensò Della. Avevamo troppa immaginazione. Tammy e Terry erano semplicemente i soli due nomi su cui ci trovavamo d'accordo. I nomi di compromesso. — Sai una cosa? — Chuckie alzò la voce. — Ora che so dove abitano, potrei andare fin là a dare un salutino. Loro non saprebbero niente di quello che è successo, di quello che è capitato alla loro mammina mentre era
andata al grande magazzino. Oddio! pensò Della. — Vuoi che gli porti qualche messaggio? — Fottuto bastardo! — Gridò senza neanche pensarci. — Siamo suscettibili, eh? — Chuckie scese attraverso la neve bagnata nella sua direzione. — Su, andiamo, Della cara, vieni fuori dagli alberi. Della non rispose nulla. S'accovacciò dietro a un mucchio di sterpaglia e rami secchi. Stava perfettamente immobile. Chuckie stava ugualmente immobile, a non più di sei metri. Fissava direttamente il suo nascondiglio, come se potesse vedere nella notte attraverso la boscaglia. — Ascolta — cominciò. — Questa faccenda sta diventando vera, capisci, noiosa. — Fece una pausa. — Possiamo rimanere qua fuori tutta la notte, sai? Tutti i miei amici se ne sono andati, ed è grazie a te, signora. Chi cazzo ti credi di essere? Clint Eastwood? Della suppose si trattasse di una domanda retorica. Chuckie si raschiò profondamente la gola e scaracchiò a terra. Si fregò cauto la base della gola con la mano libera. — Mi hai fatto male, Della cara, credo che mi hai spaccato la clavicola. — Ridacchiò. — Ma non ce l'ho su con te. Infatti... — fece una pausa, pensieroso. — Ascolta, mi è venuta un'idea. Hai presente i drughi, come in quel film? Arancia meccanica, pensò. Della non rispose. — La fine è cretina, ma l'inizio una figata. — La personalità di Chuckie sembrava aver raggiunto uno stadio maniacale. — Bene, i miei compagni non ci sono più. Ho bisogno di un'altra gang, e tu vai benissimo, Della cara. Io voglio che ti unisca a me. — Dammi un attimo di respiro — sussurrò Della nell'oscurità. — No, dico sul serio — riprese Chuckie — tu sei un vero killer. Davvero. Tu e io saremmo perfetti. Potremmo calmare questa spumeggiante erezione e divertirci per bene. Che ne diresti? Dice sul serio, pensò lei. C'era una nota di totale sincerità nella sua voce. Si sforzò di trovare una qualche risposta. — Ho due figlie — disse alla fine. — Ce le portiamo con noi — rispose Chuckie. — Mi piacciono i bambini, ho sempre badato ai miei fratellini e alle mie sorelline. — Fece una pausa. — Ascolta, scommetto che sei in rotta con tuo marito. Della non disse nulla. Sarebbe stato come fuggire per diventare un pirata. O no? Chuckie si raschiò la gola e scaracchiò di nuovo — Sssììì, lo so io. Una
volta che ci prendiamo le bambine, lui lo possiamo fare fuori. Ti piacerebbe? Posso occuparmene io, o tu se lo vuoi. Sei tu a scegliere. Sei pazzo, pensò. — Io lo voglio — si sorprese a dire ad alta voce. — E allora vieni fuori che ne parliamo. — Tu mi vuoi uccidere. — Ehi — rispose — ti ucciderò se non ti decidi a venir fuori. Io ho pistola e torcia elettrica, ricordi? In questo modo possiamo imparare ad aver fiducia l'uno nell'altro fin dall'inizio. Non ti voglio ammazzare. Solo parlare. — Okay. — Perché no, pensò. Prima o poi avrebbe trovato il modo di arrivare fin qui e ficcarmi una pistola in bocca e... Della si alzò in piedi, ma forse, solo forse... L'angoscia le attanagliava le ginocchia. Chuckie piegò la testa per guardare nella sua direzione. — Lascia gli arnesi. — L'ho già fatto. Quelli che non ho usato. — Già — fece Chuckie. — Quelli che hai usato, li hai usati proprio bene. — Abbassò la luce della torcia. — Ecco qui, non voglio che t'inciampi e cadi e magari ti rompi l'osso del collo. Della raggirò la catasta di sterpaglia e s'avviò lentamente verso di lui. Teneva le mani sui fianchi. Non riusciva a vedere se ci aveva la pistola. Si fermò quando si trovò a un metro. — Che notte infernale, eh? — disse Chuckie. — Non sarebbe bello entrare in qualche posticino al caldo e prenderci un caffè. — Teneva la luce in modo che il fascio era diretto verso l'alto tra loro due. Della riuscì a scorgere i suoi lineamenti sottili, stravolti dal dolore. Immaginò che lui potesse vedere i suoi. — Volevo solo andare al negozio per comperare alcune cose. Chuckie scoppiò a ridere. — Capita, la sfiga. — E adesso? — domandò Della. — È l'ora dello spettacolo dell'orrore. — Mostrò ferinamente i denti mentre ritraeva le labbra in un sorriso. — Supponi, per così dire, che ti abbia raccontato delle frottole. — Tirò su la mano, c'era del metallo che luccicava. — Era quel che pensavo — disse lei, con una sensazione di freddo distacco. — Ehi, Huey, laggiù, hai bisogno di aiuto? — Fece un cenno col capo verso un punto al di là della sua spalla. — Huey? — Chuckie sembrò sconcertato soltanto per un secondo, mentre gettava un'occhiata di fianco. — Huey è...
Della saltò con tutta l'energia che le era rimasta nelle gambe. Le dita si chiusero intorno al polso della mano con la pistola. — Cristo! — Chuckie strillò, quando la spalla di lei andò a schiantarsi contro la zona porosa dove la sua clavicola rotta premeva contro la pelle. Capitombolarono sulla terra dicembrina. Chuckie di sotto. Della con le gambe avvinghiate attorno a lui come per tirare stretto verso di sé un amante. Sprofondò il mento sulla sua clavicola e lui di nuovo strillò. Kenneth l'aveva sempre presa in giro per il suo mento appuntito. Dalla pistola partì un colpo. Il lampo fu abbacinante, la detonazione le ferì le orecchie. Neve bagnata scivolò giù dai rami di pini soprastanti, una bella fetta andò giusto a finire nella bocca aperta di Chuckie. Quello prese a soffocare. Poi la pistola passò nelle mani di Della. Si divincolò da lui, rimettendosi in piedi, e indietreggiando furiosamente per allontanarsi dalla sua presa. Lo fissò lungo la canna d'acciaio blu inclinata verso il basso. Il capitano dei pirati stava sforzandosi di mettersi in ginocchio. — Torniamo a quanto si era detto prima, ti va? Mi piacerebbe, non disse per poco. Della tirò il grilletto. Ancora. E ancora. — Dove diavolo sei stata? — le chiese Kenneth non appena ebbe chiuso la porta di ingresso dietro di sé. — Sei stata via per quasi tre ore. La osservò più da vicino. — Della, cara, ti senti bene? — Non chiamarmi in quel modo — rispose lei — per cortesia. — Aveva sperato di avere un aspetto migliore, più normale. Non tutto arruffato. Dopo aver parcheggiato la Subaru nella rampa accanto alla casa, per diversi minuti aveva tentato con lo sputo e i Kleenex di aggiustarsi il mascara. Il trucco che aveva con sé era rimasto nella borsetta e non aveva idea di dove quella fosse. Probabilmente l'aveva trovata la polizia; tre volanti con le sirene spiegate le erano passate accanto puntando nella direzione opposta, mentre lei risaliva dalla Southeast Plaza. — I vestiti — Kenneth gesticolò. Non si mosse da dove si trovava. Della si guardò in basso. Aveva cercato di eliminare il fango con la neve e uno straccio del bagagliaio. C'era anche del sangue, un po' di Chuckie e il resto degli altri due, Tomas e Vinh. — Cara, c'è stato un incidente? Rientrata a casa, aveva osservato per un po' il lato guida della Subaru. Perlomeno l'auto funzionava ancora; prima doveva essersi solo ingolfata.
Ma l'assicurazione non sarebbe stata contenta. Tutta la fiancata doveva essere ridipinta. — Una specie. — Sei ferita? Come tocco finale, si era sentita una lenta vischiosità tra le gambe mentre risaliva il vialetto di accesso. Fantastico. Non vedeva l'ora che i crampi si facessero più forti. — Ferita? — Scosse la testa. No. — Come stanno le bambine? — Ah, sono a letto. Sono andato a vederle mezz'ora fa. Stavano dormendo. — Bene. — Della udì delle sirene in lontananza, che si facevano sempre più forti avvicinandosi al vicinato. Probabilmente la polizia aveva trovato la sua patente nella tasca di Chuckie. Di quella si era dimenticata. — Bene — fece Kenneth. Era evidente che non sapeva bene a quel punto se essere arrabbiato, premuroso o strafottente. — Che cosa mi hai portato dal negozio? Della teneva la mano destra nella tasca della sua giacca. Avvertì il corpo solido, il manico freddo della pistola. Fuori il volume delle sirene aumentava. Toccò il grilletto. Ritrasse la mano dalla tasca e puntò la pistola contro Kenneth. Lui le rispose con uno sguardo stranito. Le sirene passarono oltre. Dalla finestra Della intravide un'ambulanza sfrecciare a tutta velocità. L'intensità del suono diminuì fino a raggiungere un silenzio tanto distante quanto il sogno che le era folgorato nella mente. Della tirò il grilletto e il clic parve riecheggiare in tutta la casa. Scioccato Kenneth continuò a fissare il tamburo della pistola e poi gli occhi di lei. Era tutto sotto controllo. Aveva contato le pallottole. Proprio come nei film. — Credo — disse Della a suo marito — che dovremmo parlare un po'. Titolo originale: While She Was Out (1988) L'UOMO DELLA CASA DELLA CARNE George R.R. Martin In qualche altro punto di questo libro troverete il mio saggio Fuorilegge, che postula la nozione che lo splatterpunk sia sempre esistito (anche se sot-
to nome diversi, naturalmente). Un degno esempio di tale teoria sono gli scritti del 1960 di Harlan Ellison, che nei racconti proto-splat "Un ragazzo e il suo cane" e "Non ho bocca e devo urlare" mostrano chiaramente le attitudini e la crudezza che in seguito saranno tipiche della fiction splatterpunk. Ma lo splatterpunk è infinitamente flessibile, e potrebbe essere rintracciato persino nella science fiction degli anni Settanta. George R.R.Martin è, secondo me, uno dei migliori e più validi scrittori del momento (anche se, ancora una volta, si tratta di uno che vuole che vi dica che non è assolutamente uno splatterpunk. La produzione di Martin apparve per la prima volta verso la metà degli anni Settanta, e da allora egli si è guadagnato un gran numero di credenziali decisamente degne di nota. Nel campo della carta stampata, i suoi lavori comprendono alcuni storici romanzi di vampiri (il premiato Fevre Dream, una canzone d'amore sui vecchi battelli fluviali alimentati a vapore), antologie di materiale di prim'ordine (Songs the Dead Men Sing), classici racconti brevi ("Sandkings", vincitore del premio Nebula) e bizzarre serie antologiche (Wild Cards, i libri sull'universo alternativo). Il romanzo di George Nightflyers è stato anche adattato in un film (e per la verità... pessimo). E poi la televisione; i suoi copioni sono apparsi nella nuova serie di Ai confini della realtà, come in The hitchhiker di HBO, anche se egli deve la massima notorietà televisiva al cult-show "La bella e la bestia" (con Linda Hamilton e Ron Perlman; George finì per fare il supervisore di produzione dello show). Per quanto riguarda "L'uomo della Casa della carne", va detto che si tratta di un lavoro profondamente sentito, nonché di uno dei racconti più tenebrosi della raccolta. Martin lo propose originariamente a Harlan Ellison, perché lo includesse in Dangerous Visions volume secondo; questi lo rifiutò, ma in seguito mi disse di essersene pentito. Comunque siano andate le cose, "L'uomo della Casa della carne" si muove su diversi livelli. Da un lato è uno scomodo quadretto sulla rapacità dell'essere umano nel campo dello sfruttamento economico; dall'altro, uno stanco e prostrato addio ai concetti infantili di innocenza e amore romantico. "L'uomo della Casa della carne" merita di emergere dalla relativa oscurità in cui si è trovato sinora. Si tratta di una valida lezione di storia, di un esempio lampante di come non tutto lo splatterpunk valido debba necessariamente essere stato scritto dopo la pubblicazione dei Libri di sangue. Spero vi piacerà: sono certo che non lo dimenticherete.
1 Nella Casa della carne La prima volta arrivarono dritti dai campi minerari, Trager e gli altri, i ragazzi più adulti, i quasi uomini che facevano lavorare i corpi accanto al suo. Cox era il più grande del gruppo, quello che aveva visto più cose, e disse che Trager sarebbe dovuto venire anche se non ne aveva voglia. Poi uno degli altri si mise a ridere e disse che Trager non avrebbe neppure saputo che cosa fare, ma Cox-il-capo lo spintonò finché non si zittì. E quando arrivò il giorno di paga, Trager seguì gli altri verso la Casa della carne, intimorito ma anche impaziente, e dati i soldi a un uomo al piano terra prese la chiave di una stanza. Entrò nella penombra della camera, tremante e nervoso. Gli altri erano andati in altre stanze, lo avevano lasciato da solo con lei (no: quella; non "lei", ma "quella" si ricordò, e lo dimenticò subito dopo). In una misera stanzetta grigiastra con un'unica luce smorta. Trager puzzava di sudore e di zolfo, come tutti quelli che camminavano per le strade di Skrakky, ma era inevitabile. Sarebbe stato meglio fare prima un bagno, ma in camera non c'era. Solo un lavandino, un letto matrimoniale con dei lenzuoli dall'aspetto sporco anche in quella luce fioca, e un corpo. Se ne stava là nuda, fissando nel vuoto, respirando piano. Le gambe erano spalancate: pronte. Era sempre così, si chiese Trager, oppure era stato l'uomo di prima a lasciarla a quel modo? Non sapeva dirlo. Sapeva come farlo (sì, lo sapeva, aveva letto i libri che gli aveva dato Cox, ed era possibile vedere dei film e cose simili) ma non sapeva un granché di tutto il resto. Forse, solo, come comandare i corpi. In quello era bravo, il più giovane gestore di Skrakky, ma non poteva essere che così. Lo avevano costretto a entrare nella scuola per gestori di corpi quando era morta sua madre e lo avevano fatto imparare, e lui lo aveva fatto. Ma questo, questo no, non l'aveva mai fatto (ma sapeva come farlo: sì, sì, lo sapeva); era la sua prima volta. Raggiunse lentamente il letto e si sedette accompagnato da un coro di molle scricchiolanti. La toccò, e la carne era calda. Chiaro. Non era un vero e proprio cadavere, no davvero; il corpo era abbastanza vivo, sotto quei pesanti seni biancastri batteva un cuore, e poi respirava. Solo il cervello era andato, strappato via e rimpiazzato con un synthabrain per morti. Adesso era carne, un altro corpo comandato da un gestore, come il gruppo in
cui lavorava Trager, tutti i giorni sotto quel cielo color zolfo. Non era una donna. Quindi non importava che Trager fosse solo un ragazzino con la faccia di rospo e la mascella forte, che puzzava di Skrakky. A lei (no: a quella, okay?) non sarebbe importato, non poteva importarle. Fattosi più baldanzoso, eccitato e deciso, il ragazzo si tolse la tuta da gestore di corpi ed entrò nel letto con quella carne femminile. Era molto eccitato; le mani gli tremavano mentre l'accarezzava, studiandola. La pelle era molto bianca, i capelli neri e lunghi, ma neppure quell'adolescente avrebbe potuto dire che era bella. La faccia era troppo piatta e larga, la bocca spalancata, le braccia molli e piene di grasso. Sui seni enormi, tutto attorno ai grassi capezzoli scuri, l'ultimo cliente aveva lasciato l'impronta dei denti, dove l'aveva morsa. Trager toccò più volte incerto quei segni, seguendone il contorno con un dito. Poi, vergognandosi delle proprie esitazioni, afferrò un seno, lo strizzò forte, e pizzicò il capezzolo finché, immaginò, una donna vera avrebbe urlato di dolore. Il corpo non si mosse. Ancora strizzando, le montò sopra e prese l'altro seno in bocca. E il corpo rispose. Si tirò su verso di lui, rigido, e le sue braccia carnose si avvinghiarono alla schiena foruncolosa di Trager per tirarlo a sé. Lui emise un gemito e allungò la mano in mezzo alle cosce. Era calda, bagnata, eccitata. Fu preso da un tremito. Come facevano a farglielo fare? Riusciva realmente a eccitarsi anche senza mente, oppure le avevano messo dentro dei sistemi di lubrificazione, o cos'altro? Poi non gli importò più. Annaspò e trovò il pene, lo mise dentro, spinse. Il corpo lo avvinghiò con le gambe sulla schiena e tirò a sé. Non era male, per niente, anzi meglio di quanto Trager avesse mai fatto da solo, e per qualche oscura ragione si sentiva orgoglioso che fosse così bagnata ed eccitata. Bastarono pochi altri colpi; era troppo nuovo a una cosa simile, troppo giovane, troppo bramoso per durare a lungo. Pochi colpi furono sufficienti... ma anche per lei. Vennero assieme, con un rossore che le attraversava la pelle mentre si incurvava contro di lui e si dibatteva muta. Subito dopo rimase nuovamente immobile come un cadavere. Trager era svuotato e soddisfatto, ma gli era rimasto un po' di tempo, ed era deciso a metterlo a frutto. La esplorò completamente, infilando le dita ovunque entrassero, toccandola dappertutto, mettendola bocconi, guardando tutto. Il corpo si muoveva come carne morta.
La lasciò come l'aveva trovata, nel letto a faccia in su e con le gambe spalancate. In omaggio alla Casa della carne. L'orizzonte era un muro di fabbriche, solo fabbriche, enormi, eruttanti e che emettevano ombre rosse tremolanti, in quel cielo color zolfo. Il ragazzo sedeva là in mezzo. Con le cinture chiuse, sedeva in cima alla sua automacina, al secondo piano di una mostro meccanico di metallo corroso tinto di giallo, con zanne selvagge in diamante e duralluminio: negli occhi tre immagini contemporaneamente. Chiari, robusti e palpabili, vedeva davanti a sé il cruscotto, lo sterzo, l'indicatore del carburante, la leva lucente per le benne, le grosse spie che lo avrebbero avvisato se fosse incorso qualche problema nel gigantesco serbatoio che aveva sotto i piedi, il freno di servizio e quello d'emergenza. Ma non era tutto qui, quello che vedeva. Arrivavano degli echi, confusi e indistinti; le immagini sovrapposte di altre due cabine di controllo, quasi identiche alla sua, dove mani di corpi si muovevano goffamente sopra agli strumenti. Trager mosse quelle mani, lentamente e con attenzione, mentre un'altra parte della sua mente teneva le proprie, quelle vere, ben ferme. Il controller per i corpi, appeso alla cintura, ronzò leggermente. Dall'altra parte, due altre automacine si mossero, affiancandolo. Le mani cadavere afferrarono i freni; le macchine si bloccarono. Si fermarono tutte sul bordo del grosso pozzo, vecchi e malconci giganti pronti a tuffarsi nel buio. Il pozzo diventava sempre più grande, e ogni giorno venivano scavati nuovi strati di roccia e di minerale. Una volta qui c'era una montagna, ma Trager non lo ricordava più. Il resto fu facile. Adesso le automacine erano allineate. Muovere la squadra all'unisono era facile: quello, qualunque gestore di corpi decente poteva farlo. Era quando dovevi far fare cose diverse a più corpi che le cose diventavano più difficili. Ma un buon gestore sapeva fare anche quello. Per un veterano una squadra di otto non era una cosa fuori dal mondo; otto corpi collegati a un singolo controller, comandati da una sola mente e otto synthabrain. I corpi erano tutti sintonizzati su uno stesso controller, uno solo; il gestore che lo indossava e che pensava i loro pensieri nelle immediate vicinanze, poteva far muovere quei cadaveri come se fossero un suo secondo corpo. O come il proprio. Se ne era in grado. Trager controllò velocemente la maschera e le cuffie, poi toccò l'alimentatore, ingranò, mise in funzione le lame al laser e le trivelle. I corpi echeggiarono le sue mosse, e il crepuscolo di Skrakky fu attraversato da alcuni
lampi di luce. Anche se indossava le cuffie, Trager poteva sentire il sibilo terribile delle benne che aumentavano e diminuivano di giri. La bocca inghotti-roccia dell'automacina era addirittura più larga dell'altezza dell'automezzo. Brontolando e sibilando, Trager e la sua squadra di corpi scesero nel pozzo in formazione perfetta. Prima di raggiungere le fabbriche dall'altra parte della pianura, avrebbero estratto intere tonnellate di metallo, che sarebbero state fuse, rifinite e processate, mentre la roccia meno preziosa sarebbe stata ridotta in polvere e sparata nell'aria già irrespirabile. Al tramonto, là in fondo all'orizzonte, avrebbe consegnato acciaio finito. Era bravo come gestore, pensò Trager mentre gli automezzi iniziavano a scendere. Ma quello nella Casa della carne... quella donna era un'artista. La immaginò là sotto da qualche parte, che osservava ognuno dei suoi cadaveri tramite ologrammi e circuiti psi, spingendoli tutti al massimo per soddisfare i propri clienti. E quella sua scopata così perfetta, era stato solo un colpo di fortuna, oppure era sempre così brava? Ma, come, come faceva a muovere una dozzina di corpi senza nemmeno essere vicina, fargli fare cose diverse, tenerli tutti eccitati, stare dietro ai bisogni e ai ritmi di ogni cliente, con così tanta precisione? L'aria alle sue spalle era nera e ingolfata di polvere di roccia, gli orecchi pieni di fischi e l'orizzonte era un rosso muro luccicante, sotto al quale delle formiche gialle strisciavano e mangiavano la roccia. Ma Trager mantenne l'erezione per tutta la pianura, mentre l'automacina gli tremava sotto i piedi. I corpi appartenevano alla Compagnia; li tenevano in un apposito deposito. Ma Trager aveva una stanza, una fetta di spazio tutto suo, in un magazzino d'acciaio e cemento fatto di mille altre fette. Conosceva solo alcuni dei suoi vicini, ma sapeva tutto di loro; erano gestori di corpi. Era un mondo fatto di bui corridoi silenziosi e di porte chiuse in eterno. Il salone all'entrata, tutto aria e plastica, era un posto polveroso e deserto dove nessuno degli inquilini si radunava mai. Le sere erano lunghe, le notti eterne. Trager aveva acquistato dei pannelli-luce ausiliari per la propria stanza, e quando erano tutti accesi la luce era talmente forte che i suoi rari visitatori strizzavano gli occhi e se ne lamentavano. Ma arrivava sempre il momento in cui non riusciva più a leggere, e allora doveva spegnerli e il buio tornava ancora una volta. Suo padre, morto molto tempo prima e che lui a malapena ricordava, a-
veva lasciato un sacco di libri e di nastri, e Trager li aveva conservati. Tutte le pareti ne erano piene, e ce n'erano grosse pile ai piedi del letto e su entrambi i lati della porta del bagno. A volte, ma raramente, usciva con Cox e gli altri, per bere, scherzare e andare in cerca di vere donne. Li imitava più che poteva, ma si sentiva sempre fuori posto. Così, trascorreva la maggior parte delle serate in casa, leggendo e ascoltando musica, ricordando e pensando. Quella settimana pensò a lungo prima di spegnere i pannelli, e i suoi pensieri furono spaventosamente confusi. Il giorno di paga si stava avvicinando nuovamente, e Cox gli avrebbe detto di tornare con loro alla Casa della carne, e sì, sì, voleva andarci. Non era andata male, era stato divertente; per una volta si era sentito sicuro di sé e virile. Ma era troppo facile, comodo, sporco. Doveva esserci qualcosa di più, certo. L'amore, di qualunque cosa si fosse trattato. Doveva essere meglio con una vera donna, sì, e non ne avrebbe trovate in un posto come quello. Non ne avrebbe trovata una nemmeno fuori, ma tanto in quel caso non avrebbe mai avuto il coraggio di provarci. Ma doveva, doveva farlo, altrimenti che razza di vita avrebbe mai avuto? Si masturbò sotto le coperte, quasi senza accorgersene, mentre decideva di non tornare nella Casa della carne. Ma pochi giorni dopo Cox gli rise in faccia, e Trager dovette seguirli. Sentiva che in qualche modo avrebbe provato qualcosa. Stavolta, una camera e un corpo diversi. Grasso e nero, con i capelli lucidi e arancioni, meno attraente del primo, se possibile. Ma Trager era pronto e voglioso, e stavolta durò più a lungo. E anche stavolta la performance fu stupenda. Il ritmo del corpo era identico al suo, colpo su colpo, vennero assieme e gli sembrò che conoscesse esattamente i suoi desideri. Altre visite; due, tre, sei. Ormai era un habitué della Casa, come gli altri, e aveva smesso di preoccuparsene. Cox e gli altri lo accettavano in un modo strano, quasi con compassione, ma almeno il suo disprezzo verso di loro era aumentato. Lui era meglio di loro, pensava. Poteva farsi valere nella Casa, guidare i suoi corpi e l'automacina bene quanto loro, e continuava a pensare e sognare. Al momento opportuno se li sarebbe lasciati tutti dietro, avrebbe abbandonato Skrakky, sarebbe divenuto qualcuno. Loro sarebbero rimasti clienti di Case per tutta la vita, ma Trager sapeva di poter fare di meglio. Lo sapeva. Avrebbe trovato l'amore. Non ne trovò nella Casa, ma il sesso migliorò sempre più, finché fu per-
fetto come inizio. A letto con i corpi, Trager non rimaneva mai deluso; faceva tutto ciò di cui aveva letto, sentito parlare, sognato. I corpi indovinavano i suoi pensieri prima che lui li formulasse. Quando lo voleva lento, erano lenti. Quando invece, forte, veloce e brutale, lo aveva così: in modo perfetto. Usava ogni loro orifizio; loro sapevano sempre quale offrirgli. La sua ammirazione per il gestore della Casa crebbe mese dopo mese, finché divenne quasi adorazione. Forse esisteva un modo per incontrarla, pensò infine. Ancora ragazzo, ancora inguaribilmente naïf, era certo che l'avrebbe amata. Poi l'avrebbe portata via dalla Casa, su un mondo pulito e privo di corpi, dove avrebbero potuto essere felici assieme. Un giorno, in un momento di debolezza, lo disse a Cox e agli altri. Cox lo guardò, scosse la testa e fece una smorfia. Qualcuno ridacchiò, poi tutti insieme iniziarono a sghignazzare. — Che idiota che sei Trager! — disse infine Cox. — Questo gestore di merda non esiste! Non dirmi che non hai mai sentito parlare di un circuito di feed-back?! Gli spiegò tutto, in mezzo alle risate; come ogni corpo fosse collegato a un controller posto nel letto, come fosse ciascun gestore che vi andava a comandare la propria carne, e perché i non-gestori trovassero le donne delle Case gelide e immobili. E il ragazzo capì improvvisamente perché il sesso fosse sempre stato così perfetto. Trager era un miglior gestore di quanto avesse mai pensato. La notte, da solo in camera e immerso in quella luce bianca e torrida, si diede un sguardo dentro. E si voltò da parte, schifato. Era bravo nel suo lavoro, e ne era orgoglioso, ma per il resto... Era colpa della Casa, si disse. Là dentro c'era una trappola, una trappola che poteva rovinarlo, distruggere vita, sogni e speranze. Non ci sarebbe più tornato; era troppo facile. L'avrebbe fatta vedere a Cox, a tutti loro. Avrebbe scelto la via difficile, corso i rischi, provato dolore se ce n'era bisogno. E forse la gioia, forse l'amore. Si era spinto anche troppo oltre, nell'altra. Trager non tornò alla Casa della carne. Forte, risoluto e superiore, se ne tornò nella sua stanza, Là, mentre gli anni scorrevano, lesse e sognò, aspettando che la vita iniziasse. 2 Quando avevo ventun anni Josie fu la prima. Era bella, lo era sempre stata, sapeva di esserlo; e saperlo l'aveva formata, l'aveva resa ciò che era. Era uno spirito libero. Era aggressiva, sicura
di sé, una vincente. Come Trager, aveva solo vent'anni quando s'incontrarono, ma aveva vissuto più di lui, e sembrava conoscere tutte le risposte. Lui se ne innamorò subito. E Trager? Quel Trager prima di Josie, di anni prima nella Casa della carne? Adesso era più alto, con le spalle larghe, con muscoli e grasso, spesso triste, silenzioso e riservato. Comandava una squadra di sei corpi nei campi minerari, più di Cox, più di tutti loro. La notte leggeva; a volte in camera sua, altre nell'ingresso. Si era dimenticato da molto tempo di esserci andato per incontrare qualcuno. Equilibrato, serio, tutto d'un pezzo; così era Trager. Non sfiorava nessuno e nessuno sfiorava lui. Persino le torture erano terminate, anche se dentro rimanevano le ferite. Trager quasi non lo sapeva; non vi badava mai. Aveva trovato il suo equilibrio. Con i suoi corpi. Ma... non completamente. Dentro di lui, il sogno. Qualcosa che continuava a credere, che si faceva sentire, che premeva. Era ancora abbastanza forte per tenerlo lontano dalla Casa, dalla vita vegetale scelta da tutti gli altri. E a volte, nelle tristi notti solitarie, diveniva ancora più forte. Allora Trager si alzava dal letto vuoto, si vestiva, e camminava per ore nei corridoi con le mani infilate a fondo nelle tasche, mentre nelle viscere qualcosa si agitava, graffiava e si lamentava. Ogni volta, prima che le passeggiate terminassero, decideva di fare qualcosa, di dare una svolta alla propria vita il giorno seguente. Ma quando il domani arrivava, i corridoi grigi e silenziosi erano per metà dimenticati, i demoni spariti, e c'erano sei automacine roboanti e ondeggianti da dover guidare nel pozzo. Veniva inghiottito dalla ruotine, e sarebbero passati mesi prima di provare ancora quelle sensazioni. E poi Josie. Si incontrarono così: Era un campo nuovo, ricco e non ancora scavato, una vasta distesa di roccia rotta e detriti che ricoprivano la pianura. C'erano delle collinette fino a qualche settimana prima, ma la lance della Compagnia avevano livellato sistematicamente l'area con mine nucleari, e adesso era giunto il turno delle automacine. La squadra di Trager era stata la prima, e all'inizio la novità lo aveva reso euforico. Il vecchio pozzo ormai era quasi esaurito; ma qui c'era un nuovo terreno con cui misurarsi, massi e frammenti di rocce spezzettate, pezzi grossi come guantoni da baseball che ti arrivavano addosso sibilando, in mezzo a quel vento polveroso. Aveva l'aria di essere divertente, e pericoloso. Trager, che indossava un giacchetto in pelle, maschera, occhiali e cuffie, guidava le sue sei macchine e i corpi con grande
orgoglio, riducendo in polvere i massi, aprendo la strada per le altre macchine, lottando metro dopo metro per ottenere più minerale possibile. E un giorno, improvvisamente, qualcosa nella coda dell'occhio attirò la sua attenzione. Su un'automacina guidata da un corpo si accese una luce rossa. Trager allungò la mano, si concentrò, poi altri cinque corpi lo fecero. Sei macchine si fermarono, ma un'altra luce divenne rossa. Poi un'altra, e un'altra ancora. Poi l'intero cruscotto, poi tutti e dodici. Una delle macchine era in panne. Bestemmiando, guardò sul campo in direzione della macchina in questione, adoperando un corpo per tentare di farla ripartire. Le luci rimasero rosse. Lanciò il segnale di richiesta di un tecnico. Quando il tecnico arrivò — su una lancia monoposto che sembrava una goccia di metallo nero butterato — Trager si era liberato dalle cinture, era sceso dai pioli metallici sul lato dell'automacina, e aveva attraversato le rocce per raggiungere quella in panne. Stava per iniziare a salire quando arrivò Josie; si incontrarono ai piedi di quel mostro in metallo giallo, all'ombra dei suoi cingoli. Era una veterana dei campi, capì subito Trager. Indossava una tuta da gestore, cuffie, grossi occhiali, e il viso era ricoperto di grasso per evitare l'abrasione della polvere. Ma era comunque molto bella. Aveva i capelli color castano chiaro e corti, con una frangia scarruffata dal vento. I suoi occhi, quando alzò gli occhiali, erano verde chiaro. Prese immediatamente il comando della situazione. Con fare indaffarato, si presentò, fece alcune domande, quindi aprì un vano per le riparazioni ed entrò, nelle viscere del motore, nell'odore del campo minerario e del carburante. Non gli ci volle molto; dieci minuti, forse, e poi fu di nuovo fuori. — Non entrare — gli disse, spostando i capelli dagli occhiali con un movimento della testa. — Hai un problema alla valvola. I reattori si stanno spegnendo. — Ah — disse Trager. La mente era tutt'altro che rivolta alla macchina, ma doveva impressionarla, dire qualcosa d'intelligente. — Scoppierà? — chiese, e non appena lo ebbe detto seppe di non essere stato affatto intelligente. Certo che non sarebbe scoppiato; i reattori nucleari in panne non lo fanno, e lui lo sapeva. Ma Josie sembrò meravigliata. Sorrise — fu la prima volta che vide quel suo sorriso così singolare — e sembrò vederlo, vedere lui, Trager, non solo un gestore di corpi. — No — disse. — Si fonderà. Qua fuori non diventerà nemmeno caldo, visto che ci sono degli schermi montati nelle paratie. Ba-
sta non entrare. — Bene. — Silenzio. Che dire adesso? — Che devo fare? — Far lavorare il resto della squadra, credo. Questa qui dovrà essere smantellata. Avrebbe dovuto essere tirata a nuovo molto tempo fa. Da quel che ho visto, hanno già fatto un sacco di riparazioni. È stupido. Si rompe una volta, due, tre... e continuano a mandarla fuori. Dovrebbero capire che c'è qualcosa che non va. Dopo così tanti fallimenti, è un'illusione bella e buona pensare che la prossima volta funzionerà. — Direi — disse Trager. Josie gli sorrise nuovamente, chiuse il coperchio e iniziò a voltarsi. — Aspetta — disse lui. Gli uscì di bocca prima che potesse fermarlo, quasi contro la sua volontà. Josie si voltò, inclinò le testa e lo fissò con aria interrogativa. E Trager attinse una forza improvvisa da quell'acciaio, dalle pietre e dal vento; sotto quel cielo sulfureo i suoi sogni sembravano meno impossibili. Forse ci siamo, pensò, forse. — Uh... mi chiamo Greg Trager. Ci vediamo stasera? Josie sorrise. — Certo. Passa a trovarmi. — Gli diede l'indirizzo. Trager tornò nell'automacina dopo che lei se ne fu andata, esultando in tutti i sei corpi, adesso vispi e pieni di vita, ingoiando roccia e con una sensazione molto vicina alla gioia. Il bagliore rosso scuro sull'orizzonte sembrava quasi un'alba. Quando arrivò a casa di Josie vi trovò altre quattro persone, suoi amici. Era un party come tanti. Josie ne dava un sacco e Trager — da quella sera in poi — non ne perse uno. Josie gli parlava, ridevano assieme, lo apprezzava, e improvvisamente la sua vita non fu più la stessa. Con lei, vide parti di Skrakky mai viste prima, fece cosa mai fatte: rimase in mezzo ai gruppi di persone che si radunano nelle strade la notte, nel vento polveroso e in quella orribile luce gialla tra i palazzi in cemento privi di finestre, se ne rimase lì a scherzare e ridere fino a perdere la voce, mentre dei meccanici sporchi di grasso sfrecciavano accanto a rumorose motrici gialle, avanti e indietro, su e giù. Percorsero a piedi assieme, gli Uffici sotterranei, stranamente silenziosi, bianchi e puliti, i corridoi ad aria pressurizzata e condizionata, dove abitavano e trascorrevano tutta la vita i dipendenti della Compagnia, i reclusi dal mondo e gli scribacchini. Girarono assieme per i rec-mall, quelle grosse e tozze costruzioni così simili a un magazzino da fuori, ma pieni di luci colorate, sale giochi, posti
di ristoro, negozi di nastri, e bar infiniti dove si ritrovavano a bere i gestori di corpi. Andarono alle palestre dei dormitori, dove videro gestori meno esperti di lui far scagliare l'uno contro l'altro corpi dai pugni goffi. Rimase seduto con lei e i suoi amici, e svegliarono taverne buie e calme con le loro chiacchiere e risate, e una volta Trager vide qualcuno che assomigliava molto a Cox fissarlo dall'altra parte della sala, e lui sorrise e si fece più vicino a Josie. Notava a malapena gli altri, le persone di cui si circondava Josie quando uscivano per una delle loro passeggiate; sei, otto, a volte dieci. Trager si diceva che erano lui e Josie a uscire, e che gli altri erano venuti con loro. Molto, molto di rado, le cose si mettevano in modo tale che rimanevano soli, a casa di lui o di lei. Allora iniziavano a parlare. Di mondi distanti, di politica, di corpi e della vita su Skrakky, dei libri che entrambi leggevano, di sport, giochi o amici comuni. Il loro era un bel rapporto. Trager parlò molto con Josie. E non le disse mai niente. L'amava, naturalmente. Lo sospettò fin dal primo mese, e presto ne fu certo. L'amava. Sì, era questo che aveva aspettato per tanto tempo, ed era arrivato, proprio come lui si aspettava. Ma assieme all'amore... l'agonia. Non riusciva a dirglielo. Ci aveva provato una dozzina di volte; ma le parole non erano mai uscite. E se lei non lo avesse ricambiato? Le sue notti erano sempre solitarie, nella piccola stanza con le luci bianche, i libri e il suo dolore. Adesso era più solo che mai; la pace della sua ruotine, della sua vita-a-metà con i corpi era ormai andata, cancellata. Di giorno guidava le grandi automacine e i corpi, faceva a pezzi la pietra e fondeva il minerale, mentre ripassava mentalmente le parole che avrebbe detto a Josie. E sognava quelle che lei gli avrebbe detto. Anche lei era in difficoltà, pensava. Aveva avuto altri uomini, certo, ma non li aveva amati: amava lui. Ma neanche lei riusciva a dirglielo. Quando lui ce l'avrebbe fatta, trovato le parole e il coraggio di dirle, allora tutto sarebbe andato per il verso giusto. Ogni giorno se lo diceva, e scavava in fretta e a fondo il suolo. Ma tornato a casa, quella sicurezza spariva. Allora, preso dal terrore, capiva che si stava ingannando. Era solo un amico, tutto qui, non ci sarebbe mai stato niente di più. Perché raccontarsi bugie? Aveva già avuto abbastanza avvisaglie. Non erano stati amanti, e non lo sarebbero stati mai; le poche volte che aveva trovato il coraggio di toccarla, lei gli aveva sorriso e
si era allontanata con un pretesto, e Trager non era mai stato certo del tutto che lo avesse rifiutato. Ma ne aveva l'impressione, e durante la notte lo rodeva dentro le viscere. Adesso camminava nei corridoi ogni settimana, accigliato, disperato, desideroso di poter parlare con qualcuno ma senza sapere come. E tutte le vecchie ferite si riaprivano e riprendevano a sanguinare. Fino al giorno seguente. Quando se ne tornava alle macchine e alla speranza. Doveva credere in se stesso, lo sapeva, se lo diceva a voce alta. Doveva smettere di compiangere la propria sorte. Doveva fare qualcosa. Lo avrebbe fatto. E lei lo avrebbe amato, urlava il giorno. E lei si sarebbe messa a ridere, rispondeva la notte. Trager le stette dietro per un anno, un anno di dolore e speranza, il primo veramente vissuto. Su questo le paure notturne e le voci diurne concordavano; adesso era vivo. Non avrebbe mai più fatto ritorno alla vita vuota di prima d'incontrare Josie; non sarebbe mai tornato nella Casa. In questo, per lo meno, c'era riuscito. Poteva cambiare, e un giorno sarebbe stato abbastanza forte da dirglielo. Josie e due amici passarono a trovarlo quella sera, ma i due dovettero andarsene presto. Per un'ora o due rimasero soli, parlando di niente in particolare. Alla fine arrivò il momento di andarsene. Trager disse che l'avrebbe accompagnata a casa. Lungo i corridoi le tenne il braccio attorno alla schiena e la guardò in volto, osservando i giochi di luce sulle sue guance mentre passavano dalla luce al buio. — Josie — iniziò a dire. Si sentiva bene, convinto, affettuoso, e le parole uscirono. — Ti amo. E lei si fermò, si allontanò e fece un passo indietro. La bocca le si aprì appena, e nei suoi occhi balenò qualcosa. — Oh, Greg — disse. Piano. Con tristezza. — No, Greg, no, non farlo, no. — E scosse la testa. Tremando leggermente e balbettando parole silenziose, Trager le porse la mano. Josie non la prese. Le toccò dolcemente la guancia, e senza dire una parola lei si allontanò. Poi, per la prima volta in vita sua, Trager iniziò a tremare. E le lacrime fecero la loro comparsa. Josie lo portò in camera sua. Seduti sul pavimento, uno di fronte all'altra, iniziarono a parlare, senza mai sfiorarsi.
J: ...lo sapevo da tanto... ho tentato di scoraggiarti, Greg, ma non volevo uscirmene fuori di punto in bianco e... non ti volevo ferire... sei una brava persona... non prendertela... T: ...me l'aspettavo... che non sarebbe mai potuto... ho mentito a me stesso... volevo crederci, anche se non era vero... mi spiace, Josie, mi spiace, mi spiacemispiacemispiacemispiace... J: ...temevo che saresti tornato a essere com'eri... non farlo, Greg, promettimelo... non puoi mollare... devi continuare a credere... T: perché? J: smetti di credere, e non hai più niente... sei morto... puoi fare di meglio... sei un bravo gestore... vattene da Skrakky, trovati qualcosa... qui non c'è vita... qualcuno... ce la farai, ce la farai, continua a credere, continua a credere... T: ...io... io ti amerò per sempre, Josie... per sempre... come potrei trovare qualcuna ...non ci sarà mai più nessuna come te, mai più... sei speciale... J: ...oh, Greg ... c'è un sacco di gente... guardati attorno... apriti... T: (risata) ...aprirmi?... è la prima volta che parlo con qualcuno... J: ...parlami ancora, se ne hai bisogno... io posso capirti... ho già avuto abbastanza amanti, vogliono tutti portarmi a letto, meglio restare amici... T: ...amici... (risate)... (lacrime)... 3 Promesse di un giorno che verrà Il fuoco si era già spento da tanto, e Stevens e il guardaboschi se n'erano andati, ma Trager e Donelly erano ancora seduti attorno alle ceneri, al limitare della zona ripulita. Parlavano sottovoce per non svegliare gli altri, ma le loro parole rimanevano sospese a lungo nell'agitata aria notturna. La foresta ancora intatta, nera dietro alle loro spalle, era completamente immobile; la selvaggina di Vendalia era fuggita via per il rumore provocato durante il giorno dal gruppo dei buzztruck. — ...un'intera squadra di sei buzztruck in movimento. Me ne intendo abbastanza per dirti che non è affatto facile — stava dicendo Donelly. Era un giovane pallido e timido, simpatico ma impacciato in tutto ciò che faceva. Nelle ostinate parole di Donelly, Trager udiva echi di se stesso. — Te la caveresti bene nell'arena. Trager annuì, pensoso, gli occhi fissi sulle ceneri mentre le muoveva con un bastoncino. — Sono venuto su Vendalia proprio pensando a quello. Sono andato una volta a vedere gli scontri dei gladiatori, una sola. Ma mi è
bastata per cambiare idea. Avrei potuto farlo, certo, ma l'idea di fondo mi disgustò. Qui, be', la paga non è nemmeno paragonabile a quella che prendevo su Skrakky, ma il lavoro, be', almeno è pulito. Capisci che voglio dire? — Più o meno — disse Donelly. — Però, vedi, non è come se ci fossero delle persone vere nell'arena. È solo carne. Tutto quel che devi fare è rendere morti quei corpi proprio come le loro menti. È questo il modo più logico di vedere la cosa. Trager fece una risatina. — Tu usi troppo la logica, Don. Dovresti sentire di più. Ascoltami: la prossima volta che sei a Gidyon va' a dare un'occhiata ai gladiatori. È brutto, troppo brutto. Tutti quei corpi che si trascinano attorno con asce, spade e palle chiodate, che si infilzano e fanno a pezzi l'un l'altro. E il pubblico, il modo in cui gioisce a ogni colpo. E come ridono: Don, ridono. No. — Scosse la testa, di scatto. — No... Donelly non era tipo da abbandonare una discussione. — Ma perché no, Greg? Non ti capisco. Tu saresti bravo, il migliore. Ho visto come fai lavorare la tua squadra. Trager alzò lo sguardo e fissò brevemente Donelly, mentre il giovane si sedeva e rimaneva in attesa. Gli tornarono in mente le parole di Josie: apriti, sii aperto. Il vecchio Trager, quello che viveva da solo e senza amici, rinchiuso in un dormitorio per gestori su Skrakky, era ormai sparito. Era cresciuto, cambiato. — C'era una ragazza — disse lentamente, misurando le parole. Aprendosi. — Su Skrakky, Don, c'era una ragazza che amavo. E, be', non funzionò. È per questo che sono qui, credo. Sto cercando qualcun'altra, qualcosa di meglio. È tutto collegato, sai? — S'interruppe, cercando di pensare le parole giuste. — Questa ragazza... Josie, io volevo che mi amasse, capisci? — Le parole facevano fatica a uscire. — Che mi ammirasse, cose del genere. Sì, potrei far combattere i corpi nell'arena, certo: ma Josie non amerebbe mai una persona che fa un lavoro simile. Adesso lei non c'è più, è vero, ma... la persona che sto cercando, non potrei mai trovarla facendo il gestore di corpi in un'arena. — Si alzò di scatto. — Non so. È questo che è importante per me. Josie, una come lei, un giorno. Presto, spero. Donelly sedeva in silenzio, mordicchiandosi le labbra senza guardarlo, la sua logica divenuta improvvisamente inutile. Mentre Trager, i corridoi ormai molto distanti, s'incamminava da solo nel bosco. Era un gruppo che lavorava in rapida successione; tre gestori, un guarda-
boschi e tredici corpi. Ogni giorno facevano indietreggiare la foresta, con Trager in prima fila che lanciava la propria squadra di sei e relativi buzztruck, contro la foresta di Vendalia, i suoi rovi neri, i grigi e duri ironspike dai rami spezzati e bitorzoluti: contro quella foresta ostile e intricata. Rispetto alle automacine che guidava su Skrakky, i buzztruck erano più piccoli, più veloci; se ne stavano sospesi in aria, ed erano più complessi e impegnativi. Trager ne guidava sei con le mani dei corpi, e un settimo con le proprie. Davanti alle lame ululanti e a quelle al laser, la muraglia della foresta si abbatteva giorno dopo giorno. Donelly lo seguiva, alla guida di tre laminatoi di dimensioni gigantesche, che trasformavano gli alberi abbattuti in tavole per Gidyon e le altre città di Vendalia. E poi passava Stevens, il terzo gestore, che con un lanciafiamme bruciava i mozziconi degli alberi e scioglieva le rocce; quindi le pompe allo sterco che preparavano il terreno appena ripulito per la semina. Il guardaboschi era il caposquadra. Si trattava di una procedura scientifica. Un lavoro pulito, duro, impegnativo; durante il giorno Trager ne godeva i vantaggi. Era diventato più magro, quasi atletico; il volto gli divenne solcato e abbronzato, sempre di più sotto il sole cocente e brillante di Vendalia. I suoi corpi erano quasi una sua appendice, tanta era la facilità con cui li muoveva e gli faceva pilotare i buzztruck. Come un uomo comune comanda una mano, o un piede. Talvolta la sua padronanza era tanta, gli echi così chiari e forti, che Trager non si sentiva più un gestore a capo di una squadra, ma piuttosto un uomo con sette corpi. Sette corpi robusti che cavalcavano i caldi venti della foresta. Esultava nel loro sudore. E anche le sere, a fine lavoro, non erano male. Qui Trager aveva trovato una specie di pace, si sentiva nel posto giusto, come mai prima, su Skrakky. I guardaboschi di Vendalia, inviati avanti e indietro a rotazione da Gidyon, erano gente in gamba e amichevole. Stevens era un uomo magro e cordiale che spesso smetteva di scherzare, abbastanza a lungo per poter parlare di cose serie. Trager lo aveva sempre trovato divertente. E poi Donelly, il giovane un po' impacciato, dalla voce calma e logica, che era diventato suo amico. Era un buon ascoltatore, ben disposto verso il prossimo, compassionevole, e il nuovo Trager appena apertosi era un buon parlatore. Negli occhi di Donelly brillava qualcosa di molto simile all'invidia, quando Trager parlava di Josie ed esorcizzava la propria anima. E Trager sapeva, o credeva di farlo, che Donelly era lui stesso, il vecchio Trager, quello di prima di incontrare Josie che non riusciva a trovare le parole. Col tempo però, dopo giorni e settimane di parole, Donelly trovò le pro-
prie. E allora Trager ascoltò, condividendo il dolore di un altro. E ciò lo fece sentire bene. Stava rendendosi utile; stava dando a qualcuno un po' della propria forza; qualcuno aveva bisogno di lui. Ogni sera accanto alla brace i due uomini si scambiavano sogni. E tessevano un arazzo fatto di promesse e menzogne. Ma le notti continuavano ad arrivare. E come sempre erano i momenti peggiori; erano le ore delle lunghe passeggiate di Trager. Se Josie gli aveva dato molto, si era però anche presa qualcosa: la sua curiosa indifferenza di un tempo, il trucco del nonpensare, quello che teneva a bada la sua mente. Su Skrakky, non era raro che camminasse nei corridoi; ma la foresta lo conosceva di gran lunga meglio. Dopo che le parole erano terminate, dopo che Donelly se n'era andato a dormire, era allora che accadeva, che Josie veniva a trovarlo nella solitudine della sua tenda. Un migliaio di notti se ne rimase steso con le mani dietro la nuca a fissare il telo in plastica, mentre riviveva la notte in cui glielo aveva detto. Mille volte le toccava la guancia, e mille volte la vedeva ritrarsi. Ci ripensava, vi si opponeva, e perdeva. Quindi, preso dall'irrequietudine, si alzava e usciva. Attraversava la zona ripulita ed entrava nella foresta silenziosa, spostando dei rami bassi e calpestando il sottobosco; camminava finché non trovava dell'acqua. Allora si sedeva, accanto a un lago soffocato dai rifiuti o un torrente che gorgogliava lento nella luce lunare. Lanciava delle pietre nell'acqua, scagliandole a tutta forza nel buio, per udirle cadere nell'acqua. Sedeva per ore, a tirare sassi e pensare, finché finalmente riusciva a convincersi che il sole sarebbe sorto. Gydion; la città, il cuore di Vendalia, e tramite essa di Slagg, Skrakky, New Pittsburg e tutti gli altri mondi dove c'erano corpi, quelli inospitali in cui essi dovevano lavorare al posto degli uomini. Grandi torri di metallo nero e argento, strutture aeree fluttuanti che riflettevano la luce solare e luccicavano fioche durante la notte, l'enorme e indaffarato astroporto dove i cargo atterravano e decollavano comandati da bacchette invisibili, magazzini dai pavimenti puliti, tavole di ironspike che luccicavano di un grigio chiaro: Gydion. La città con il marciume. La città dei corpi. Del mercato della carne. I cargo trasportavano carichi di uomini, criminali, rifiuti della società e
piantagrane di una dozzina di mondi, pagati in contanti con moneta vendaliana (e circolavano voci ancora peggiori, di navi di linea svanite misteriosamente durante alcune tappe turistiche). E le alte torri erano ospedali e lazzeretti, dove uomini e donne morivano e venivano poi fatti risorgere. E lungo tutti i marciapiede in ironspike c'erano negozi dei venditori di corpi e Case della carne. Quelle di Vendalia erano molto famose. Garantivano la bellezza dei corpi ospitati. Trager sedeva di fronte a una di esse, sull'altro lato di una larga strada grigia, sotto il tendone di un caffè all'aperto. Sorseggiava un vino agrodolce, pensando a come il periodo di ferie fosse volato via troppo in fretta, e cercando di impedire ai propri occhi di posarsi sull'altro lato della strada. In bocca il vino era caldo, e i suoi occhi erano molto irrequieti. Su e giù per la strada, tra lui e la Casa, un viavai di sconosciuti. Gestori abbronzati di Vendalia, Skrakky, Slagg; grassi mercanti, turisti dall'aria ottusa provenienti dai Mondi Puliti come la Vecchia Terra e Zephyr, e dozzine di punti interrogativi i cui nomi, mestieri e destinazioni Trager non avrebbe mai saputo. Seduto là, mentre beveva il vino e osservava quello spettacolo, Trager si sentiva completamente tagliato fuori. Non poteva toccare quella gente, né raggiungerla; non avrebbe saputo come farlo, non era possibile, non avrebbe funzionato. Avrebbe potuto alzarsi, entrare in strada e afferrarne uno, e nemmeno allora si sarebbero fatti toccare. L'uomo si sarebbe liberato dalla presa e sarebbe andato via. Tutto il periodo di ferie era andato così, tutto; aveva girato tutti i bar di Gydion, tentato un migliaio di contatti e niente si era messo in moto. Il vino era finito. Trager guardò il bicchiere senza entusiasmo, lo girò in mano. Poi, di scatto, si alzò e pagò il conto. Le mani gli tremavano. Erano passati così tanti anni, pensò mentre attraversava la strada. Josie, pensò, perdonami. Trager fece ritorno al campo nella foresta, e i suoi corpi fecero volare i buzztruck come se fossero usciti di senno. Ma fu stranamente silenzioso davanti al fuoco, e la notte non parlò con Donelly. Finché, offeso e confuso, Donelly lo seguì nella foresta. E lo trovò accanto a un languido torrente, nero come la morte, seduto sulla riva e con davanti ai piedi una pila di pietre da scagliare. T: ...sono entrato... dopo tutto quello che avevo detto, tutte le promesse...
sono entrato... D: ...non prendertela... ricorda che cosa mi hai detto... continuare a credere... T: ...ci credevo, CI CREDEVO... non era difficile... Josie... D: ...dici che io non dovrei mollare, e nemmeno tu... ripeti a te stesso tutto quel che mi hai detto, le parole che ti disse Josie... tutti trovano qualcuno... se continuano a cercare... se smetti, sei finito... quel che ci vuole... essere aperti... avere il coraggio di cercare... smetti di compiangerti... me lo hai detto centinaia di volte... T: ...cazzo, è molto più facile dirlo a te che a me stesso... D: ...Greg... non sei un uomo da Case della carne... un sognatore... meglio di loro... T: (sospirando) ...sì... è dura, però... perché faccio questo a me stesso?... D: ...meglio essere com'eri?... niente dolore, niente vita?... come me?... T: ...no... no... hai ragione... 4 Il pellegrino, avanti e indietro Si chiamava Laurel. Non era per niente simile a Josie, salvo in una cosa. Trager l'amava. Bella? Trager non ne era convinto, almeno all'inizio. Era troppo alta, diversi centimetri più di lui, un po' troppo piazzata, e ancora di più goffa. I capelli erano la cosa migliore; rosso-castani d'inverno e dai riflessi biondi durante l'estate, lisci e lunghi oltre le spalle e che giocavano col vento. Ma non era bella, non come lo era stata Josie. Però, stranamente, lo divenne di più col passare del tempo, forse perché stava dimagrendo, forse perché Trager se ne stava innamorando e la vedeva con occhi diversi; o forse ancora perché lui le disse che lo era, e dirglielo l'aveva fatta diventare tale. Proprio come Laurel che gli disse che era saggio, e tale convinzione diede a Trager la saggezza. Qualunque fosse il motivo, Laurel divenne davvero molto bella quando Trager la conobbe un po' meglio. Aveva sei anni meno di lui, era acqua e sapone, innocente, e timida laddove Josie era stata aggressiva. Era intelligente, romantica, un'idealista; era meravigliosamente fresca e bramosa; dolorosamente insicura e piena di bisogni impellenti. Era nuova di Gydion, appena arrivata dall'entroterra di Vendalia, una studentessa in silvicoltura. Trager, in ferie ancora una volta, stava visitando il college della scuola forestale, per salutare un insegnante con cui un
tempo aveva lavorato. Si incontrarono nel suo ufficio. Trager aveva davanti a sé due settimane in una città di sconosciuti e Case della carne; Laurel era sola. Lui le mostrò la luccicante decadenza di Gydion, sentendosi tranquillo e sofisticato, e di conseguenza lei ne rimase impressionata. Due settimane passarono in fretta. Arrivò l'ultima sera. Trager, improvvisamente impaurito, la portò nel parco accanto al fiume che attraversava Gydion, e si sedettero sulla piccola banchina in roccia che lo fiancheggiava. Vicini, senza toccarsi. — Il tempo passa troppo in fretta — disse lui. Aveva un sasso in mano. Lo scagliò sull'acqua, di piatto e con forza. Pensieroso, Trager l'osservò rimbalzare e affondare. Poi la guardò. — Sono nervoso — disse, ridendo. — Io... Laurel, non mi va di partire. La sua faccia era impescrutabile (diffidente, forse?). — Eh sì, è una bella città — disse Laurel. Trager scosse violentemente la testa. — No, no! Non la città, tu. Laurel, io credo che... oh be'... Laurel sorrise per lui. Gli occhi le brillavano ed erano molto felici. — Ho capito — disse. Trager non riusciva a crederci. Allungò una mano e le toccò una guancia. Lei girò la testa e gliela baciò. Si sorrisero. Trager tornò al campo nella foresta per licenziarsi. — Don, Don, devi conoscerla — urlò. — Visto? È possibile... ce l'ho fatta; basta continuare ad avere fede, continuare a provare; mi sento bene in modo osceno! Donelly, freddo e logico, gli regalò un sorriso, lo stesso per una morte come per un'esplosione di gioia. — E adesso che farai? — chiese un po' goffamente. — L'arena? Trager rise. — Non proprio; lo sai che cosa ne penso. Ma qualcosa del genere. C'è un teatro vicino all'astroporto, che mette in scena delle pantomime con dei corpi come attori. Mi hanno assunto. La paga è pessima, ma almeno starò vicino a Laurel. È l'unica cosa che conta. La notte dormivano ben poco. Parlavano, se ne stavano abbracciati e facevano l'amore. Era una gioia, un gioco, una scoperta gloriosa; tecnicamente mai all'altezza della Casa, ma a Trager non importava affatto. Le insegnò a essere aperta. Le disse ogni suo segreto e desiderò averne ancora altri. — Povera Josie — diceva laurel la notte, il suo corpo caldo attaccato a
quello di lui. — Non sa che cosa si è persa. Sono fortunata. Non esiste un'altra persona come te. — No — diceva Trager. — Io sono fortunato. Ne discutevano, in mezzo alle risate. Donelly si trasferì a Gydion e si unì al teatro. Senza Trager, il lavoro nella foresta non era più divertente, disse. Passarono un sacco di tempo assieme, tutti e tre, e Trager era raggiante di gioia. Voleva dividere i propri amici con Laurel, e le aveva già parlato molte volte di Donelly. E poi voleva che lui vedesse com'era felice, vedere che frutti poteva dare credere in qualcosa. — Mi piace — disse Donelly sorridendo, la prima notte dopo che Laurel se ne fu andata. — Bene — rispose Trager, annuendo. — No — disse Donelly. — Greg, mi piace veramente. Passarono un sacco di tempo assieme. — Greg — disse Laurel una notte a letto. — Credo che Don... mi stia dietro...capisci cosa intendo. Trager si voltò e si appoggiò con la testa sul gomito. — Oh mio Dio — disse. Sembrava preoccupato. — Non so cosa fare. — Devi fare attenzione — disse Trager. — È molto vulnerabile, e probabilmente sei la prima donna che gli sia mai interessata. Non essere troppo dura con lui. Non deve passare quello che ho passato io, capisci? Il sesso non fu mai all'altezza di quello nella Casa della carne. E dopo un po' Laurel iniziò a chiudersi. Adesso erano sempre di più le volte che, dopo aver fatto l'amore, lei si metteva a dormire. Le notti in cui parlavano fino all'alba erano ormai sparite. Forse non gli era rimasto più molto da dirsi. Trager notò che Laurel aveva la tendenza a finire per lui le sue storie. Era quasi impossibile tirarne fuori una che non le aveva ancora raccontato. — Ha detto così? — Trager scese dal letto, accese una luce e si sedette, accigliato. Laurel tirò su il lenzuolo fino al mento. — Be', e tu che cosa gli hai detto? Lei esitò. — Non posso dirtelo. È una cosa tra me e Don. Mi ha detto
che non è leale che io ti dica tutto quel che succede tra noi due. E ha ragione. — Ragione! Ma io ti dico tutto. Non ti ricordi cosa... — Sì, ma... Trager scosse la testa. La voce perse parte della rabbia. — Che succede Laurel, eh? All'improvviso mi è venuta paura. Io ti amo, ricordi? Com'è possibile che tutto cambi così in fretta? Il viso di Laurel si raddolcì. Si sedette e allungò le braccia; le coperte le caddero dai seni morbidi e pieni. — Oh Greg — disse. — Non preoccuparti. Io ti amo e lo farò sempre. È solo che... credo di amare anche lui. Mi capisci? Trager, calmatosi, si gettò nelle sue braccia e la baciò con trasporto. Poi, d'improvviso, si staccò. — Ehi — disse, con un finto tono di biasimo per nascondere la voce tremante — e chi ami di più? — Te, naturalmente: te. Sorridendo lui tornò a baciarla. — So che lo sai — disse Donelly. — Credo dovremmo parlarne. Trager annuì. Erano nel retro del teatro. Tre dei suoi corpi si fermarono dietro di lui e incrociarono le braccia, come a guardia. — Va bene. — Guardò dritto Donelly, e il suo viso — sorridente fino a quando non iniziarono le parole dell'altro — divenne improvvisamente serio. — Laurel mi ha chiesto di fare finta di non sapere niente. Dice che ti senti in colpa. Ma fingere è stato molto duro, Don. Credo sia ora che entrambi vuotiamo il sacco. Donelly abbassò gli occhi celeste chiaro al suolo, e infilò le mani in tasca. — Non voglio ferirti — disse. — E allora non farlo. — Ma nemmeno fingere di essere morto. Non lo sono. Anch'io l'amo. — Tu dovresti essere mio amico, Don. Ama qualcun altro. In questo modo non potrai che farti del male. — Ho più cose in comune con lei, di te. Trager rimase a fissare nel vuoto. Donelly alzò gli occhi verso di lui. Poi, imbarazzato, tornò ad abbassarli. — Non so. Oh, Greg. Lei ama di più te, me lo ha detto. Non avrei mai dovuto aspettarmi qualcosa di più. Mi sento come se ti avessi pugnalato alle spalle. Io... Trager lo guardò. Poi rise sommessamente. — Oh cazzo! Non dirmi co-
sì. Ascolta, Don, non lo hai fatto; dai, non parlare così. Direi che se tu la ami, è così che doveva andare, capisci? Spero solo che tutto si risolva per il meglio. Più tardi, quella notte stessa, a letto con Laurel: — Sono preoccupato per lui — le disse. Il suo volto, un tempo abbronzato, era grigio come la cenere. — Laurel? — disse. Ma senza convinzione. — Io non ti amo più. Mi spiace, ma è così. A suo tempo sembrava vero, ma adesso è quasi un sogno. Non so nemmeno se ti ho mai amato veramente. — Don — disse lui, impietrito. Laurel divenne rossa. — Non dire niente di cattivo sul suo conto. Sono stanca di sentirtelo buttar giù. Non fa che dire cose buone su di te. — Oh, Laurel. Ma non ricordi? Le cose che ci siamo detti, che abbiamo provato? Sono la stessa persona a cui hai detto quelle cose. — Sono cresciuta — disse Laurel, impassibile e senza versare una lacrima, spostando i capelli biondo-rossicci. — Lo ricordo perfettamente, solo che non mi sento più a quel modo. — Non farlo — disse lui. Allungò un braccio verso di lei. Lei indietreggiò. — Toglimi le mani di dosso. Te l'ho detto Greg, è finita. Adesso devi andartene. Sta arrivando Don. Fu peggio che con Josie. Mille volte peggio. 5 Divagazioni Cercò di continuare al teatro; era un lavoro che gli piaceva e aveva degli amici. Ma era impossibile. Donelly era lì ogni giorno, sorridente e amichevole, a volte Laurel veniva a trovarlo dopo lo spettacolo e se ne andavano assieme, a braccetto. Trager restava a guardare, cercando di non badarci. Mentre quella cosa nelle sue viscere urlava e lo dilaniava. Si licenziò. Non li avrebbe più rivisti. Avrebbe conservato il proprio orgoglio. Il cielo era pieno delle luci di Gydion e di risate, ma scuro e calmo nel parco. Trager era in piedi accanto a un albero, gli occhi fissi sul fiume, le brac-
cia conserte. Era una statua. Sembrava che non respirasse nemmeno. Anche gli occhi erano immobili. Piegandosi vicino al muretto, uno dei corpi iniziò a battere finché la pietra non si ricoprì di sangue e le mani divennero due masse informi di carne maciullata. Il rumore dei colpi era monotono e sordo, a parte l'osso che ogni tanto grattava sulla pietra. Lo fecero pagare prima, prima ancora di entrare nella cabina. Poi rimase seduto lì per un'ora mentre la cercavano e si mettevano in contatto. Alla fine, però, finalmente: — Josie... — Greg — disse lei, con il suo inconfondibile sorriso. — Avrei dovuto immaginarlo. Chi altri avrebbe potuto chiamarmi da Vendalia? Come stai? Le raccontò tutto. Il suo sorriso svanì. — Oh, Greg — disse. — Mi dispiace. Ma non farti abbattere. Continua a tener duro. La prossima volta andrà meglio. È sempre così. Quelle parole non gli bastavano. — Josie — disse — coma vanno le cose lì? Ti manco? — Oh, certo. Va tutto abbastanza bene. È il solito vecchio Skrakky. Resta dove sei, che stai meglio. — Allontanò lo sguardo dallo schermo, poi tornò. — Devo andare, prima che la tua bolletta diventi enorme. Sono contenta che mi hai chiamata: tante cose. — Josie... — iniziò a dire Trager. Ma lo schermo era già nero. A volte, di notte, non ce la faceva proprio. Allora andava allo schermo di casa e chiamava Laurel. E, invariabilmente, gli occhi di lei divenivano più stretti ogni volta che vedeva chi era. E poi riattaccava. E Trager sedeva nella stanza buia a ricordare come un tempo il suono della sua voce l'avesse resa molto, molto felice. Le strade di Gydion non sono il posto ideale per passeggiare da soli di notte. Sono molto illuminate, anche nelle ore più tarde, e piene di uomini e corpi. E ci sono Case della carne, lungo tutte le strade e i marciapiedi in ironspike. Le parole di Josie avevano perso il loro potere. Nelle Case, Trager abbandonò i sogni e trovò una facile consolazione. Le serate sensuali con Laurel e il sesso inesperto del periodo adolescenziale erano ormai cose di ieri; Trager prendeva le sue compagne nelle Case con forza e in fretta, quasi brutalmente, fottendole con una forza muta e selvaggia, fino all'ine-
vitabile orgasmo perfetto. A volte, ricordando il teatro, le faceva recitare delle scenette erotiche per entrare nell'umore giusto. Notte. Agonia. Era nuovamente nei corridoi, i bassi e bui corridoi dei dormitoli per gestori su Skrakky; ma adesso essi erano contorti e tortuosi, e Trager aveva da tempo perso la strada. L'aria era piena di una putrida nebbia grigia, che andava facendosi più spessa. Presto, temeva, avrebbe quasi reso impossibile vedere. Continuava a camminare, avanti e indietro, su e giù, ma c'erano sempre corridoi, e tutti non portavano in nessun luogo. Le porte erano dei lugubri rettangoli neri, senza pomelli, chiuse in eterno per lui, alla maggior parte delle quali passava accanto senza pensare. Una volta o due però, si fermava, davanti a quelle da cui filtrava della luce. Ascoltava, e dentro c'erano suoni, e allora iniziava a bussare selvaggiamente, ma nessuno rispondeva. Allora se ne andava, in mezzo alla nebbia che si faceva più fitta e scura e che sembrava bruciargli la pelle, porta dopo porta e dopo porta ancora, finché non iniziava a piangere e i piedi erano stanchi e insanguinati. E allora, là in fondo, giù per un corridoio senza fine davanti ai suoi occhi, scorgeva una porta aperta. Da essa usciva una luce così calda e viva che bruciava gli occhi, una musica allegra e il suono di gente gioiosa. Allora Trager si metteva a correre, anche se i piedi erano in preda al dolore e i polmoni bruciavano della nebbia che respirava. Correva, correva finché raggiungeva la stanza con la porta aperta. Solo che quando la raggiungeva, era la sua, ed era vuota. Una volta, durante il breve periodo passato assieme, erano andati nel bosco e avevano fatto l'amore sotto le stelle. Dopo lei gli si era rannicchiata accanto, e lui l'aveva carezzata con dolcezza. — A che pensi? — le aveva chiesto. — A noi due — disse Laurel. Fu attraversata da un brivido. Il vento era teso e freddo. — A volte ho paura, Greg. Ho tanta paura che ci accada qualcosa, qualcosa che rovini tutto. Voglio che tu non mi lasci mai. — Non preoccuparti — le aveva detto lui. — Non lo farò. Adesso, ogni notte prima che sopraggiungesse il sonno, si torturava con quelle parole. I bei ricordi lo lasciavano a mani vuote e in preda alle lacrime, quelli cattivi con una rabbia silenziosa. Dormiva con al fianco un fantasma, una bellissima presenza sovrannatu-
rale, l'involucro di un sogno morto. Da cui si risvegliava ogni mattina. Li odiava. Si odiava, per questo. 6 Il sogno di Duvalier Il suo nome non ha importanza, e nemmeno il suo aspetto, Quel che importa è che lei esistette, che Trager provò ancora una volta, e che si forzò di farlo, di crederci e di non mollare. Ci provò. Ma mancava qualcosa. Di magico? Le parole erano le medesime. Quante volte si può dirle, si chiese Trager, dirle credendoci, come la prima volta in cui si sono pronunciate? Una volta, due, tre forse? Oppure un centinaio? E quelli che le dicono cento volte, sono davvero più bravi ad amare? Oppure solo a mentire a se stessi? Non sono piuttosto persone che hanno rinunciato molto tempo prima al sogno, che ne usano il nome per qualcos'altro? Disse le parole, tenendola stretta, cullandola e baciandola. Disse le parole con esperienza, maggiore e più incisiva, e più morta di ogni convinzione. Disse le parole e tentò, ma ormai non riusciva più a dar loro un significato. E lei le disse a lui, e Trager si rese conto che non avevano più alcun significato. Si dissero un'infinità di volte le cose che ciascuno dei due voleva sentirsi dire, ed entrambi seppero che stavano fingendo. Ci provarono veramente. Ma quando lui allungò la mano, come un attore prigioniero del proprio ruolo e destinato a recitare in eterno la stessa parte, quando allungò la mano e le toccò la guancia... la pelle era liscia, dolce e piacevole. E bagnata di lacrime. 7 Echi — Non voglio ferirti — disse Donelly, espirando rumorosamente e con l'aria colpevole, finché Trager non si sentì in colpa per aver ferito un amico. Le toccò la guancia e lei si ritrasse. — Non avrei mai voluto farti del male — disse Josie, e Trager divenne triste. Lei gli aveva dato così tanto; lui l'aveva fatta solo sentire in colpa. Sì, era ferito, ma un uomo più forte non glielo avrebbe mai fatto sapere.
Le toccò la guancia, e lei gli baciò la mano. — Mi spiace, io no — disse Laurel. E Trager si sentì perso. Che cosa aveva fatto? Dove aveva sbagliato? Come aveva potuto rovinare tutto? Lei era sempre stata così certa. Avevano condiviso così tanto. Le toccò la guancia, e lei pianse. Quante volte puoi dirle, echeggiò la sua voce, dirle e crederci, come ci hai creduto la prima volta che le hai dette? Il vento era tetro e carico di sabbia, il cielo pulsava dolorosamente di tremule luci scarlatte. Nel pozzo, nel buio, c'era una giovane con occhiali da lavoro, maschera, capelli corti e risposte. — Si rompe, una volta, due, tre, e continuano a mandarla fuori — disse. — Dovrebbero capire che c'è qualcosa che non va. Dopo così tanti fallimenti, è pura illusione pensare che la prossima volta funzionerà. 8 Trager, raggiunta la maturità Il corpo del nemico è grosso e nero, il torso pieno di muscoli, prodotto di mesi d'allenamento, la cosa più enorme che Trager si sia mai trovato innanzi. Avanza sulla segatura in modo lento e goffo, in una mano ha una grossa spada luccicante. Trager lo osserva avvicinarsi, standosene seduto in cima a una sedia su un bordo dell'arena di combattimento. L'altro gestore di corpi è guardingo, cauto. Il corpo comandato da Trager, un biondo robusto, è in piedi e attende, le palle chiodate appoggiate nella segatura zuppa di sangue. Trager lo muoverà con la giusta velocità e perizia al momento giusto. Il nemico lo sa, e anche il pubblico. Il corpo nero alza improvvisamente la spada e si lancia di corsa in avanti, sperando di sfruttare la velocità per raggiungere la preda. Ma il corpo di Trager non è più lì, quando il colpo sferrato dal nemico fende l'aria. Seduto comodamente sopra all'arena, i piedi sporchi di sangue e segatura — Trager/il corpo — impartisce il comando/ruota le palle chiodate, e le grosse sfere s'innalzano lentamente, quasi con grazia. Poi si abbattono sulla nuca del nemico, mentre cerca di riprendersi e voltarsi. Un fiotto di sangue e cervella schizza fuori improvviso, e il pubblico esulta. Trager fa uscire il corpo dall'arena, poi si alza per ricevere gli applausi. È la sua decima uccisione. Presto il campionato sarà suo. Sta stabilendo un tale record che ormai nessuno può negargli un match.
Lei è meravigliosa, è la sua donna, il suo amore. Ha i capelli corti e biondi, il corpo molto magro, grazioso, quasi atletico, con le gambe slanciate e i seni piccoli e sodi. Gli occhi sono verde chiaro e sono sempre accoglienti. E nel suo sorriso c'è una strana innocenza erotica. Lo aspetta a letto, aspetta il suo ritorno dall'arena, lo aspetta vogliosa, allegra e dolce. Quando lui arriva, lei è seduta, gli sorride, le lenzuola ammucchiate attorno alla vita. Dalla porta lui ammira i suoi capezzoli. Avvertito il suo sguardo, lei timida si copre i seni e arrossisce. Trager sa che è solo finta modestia, che sta giocando. Raggiunge il letto, si siede, allunga la mano per toccarle la guancia. La sua pelle è molto morbida; si strofina sulla mano di Trager mentre lui la accarezza. Poi Trager gliela sposta, le dà un bacio gentile su ciascuno dei seni e uno-molto-meno sulla bocca. Lei ricambia il bacio, con ardore. Le loro lingue danzano. Fanno l'amore, lui e lei, lentamente e sensualmente, in un abbraccio stupendo che continua all'infinito. I due corpi si muovono con lo stesso ritmo in modo impeccabile, conoscendo ciascuno i bisogni dell'altro. Trager spinge, e il suo altro corpo riceve il colpo. Allunga la mano, e l'altra è lì ad attenderla. Vengono assieme (sempre, immancabilmente, entrambi gli orgasmi innescati dalla mente del gestore) e un rossore vivo le attraversa i seni e i lobi degli orecchi. Si baciano. Dopo un po' lui le parla, parla al suo amore, alla sua donna. Bisogna sempre parlare dopo; l'ha imparato molto tempo fa. — Sei fortunata — le dice a volte, e lei gli si rannicchia accanto e gli copre di piccoli baci il petto. — Molto fortunata. Là fuori ti raccontano menzogne, amore mio. Ti insegnano a credere in uno stupido sogno scintillante, e ti dicono di crederci e di cercarlo, e che per te, per tutti, ne esiste uno. Ma non è vero nulla. L'universo non è leale, non lo è mai stato, allora perché dirtelo? Tu rincorri quel fantasma e perdi, e loro ti dicono "la prossima volta", ma sono solo stronzate, solo vuote stronzate. Nessuno trova mai quel sogno, tutti non fanno che ingannarsi, ingannarsi per poter continuare a crederci. È solo una bugia a cui aggrapparsi, che le persone disperate si raccontano l'un l'altra, sperando di convincersi. Ma poi non può più parlare, perché i baci di lei sono scesi, sempre più in basso, e adesso lei lo prende dolcemente nella propria bocca. E Trager sorride all'amata e le accarezza dolcemente i capelli. Di tutte le belle e crudeli bugie che ti raccontano, la più cattiva è quella chiamata amore.
Titolo originale: Meathouse Man (1976) UNA VOLTA TANTO Rex Miller Rex Miller, come Clive Barker prima di lui, è rimasto praticamente sconosciuto fino alla pubblicazione del suo primo libro. Slob (1987) ha fatto conoscere ai lettori Jack Eichord, un investigatore di Chicago specializzato negli omicidi compiuti da psicopatici, che poi ritornerà come l'eroe della serie di romanzi come Frenzy, Stone Shadow e Slice. Slob fu un avvenimento: niente di meno che Harlan Ellison ("Slob fa veramente scintille") e Stephen King ("da leggere tutto d'un fiato") gridarono alla nascita di un nuovo, grande talento. Il romanzo segnò anche una svolta: con un libro esplicitamente violento/sessuale, Rex Miller si era impossessato dei canoni dell'horror splatterpunk per innestarli nel romanzo tradizionale poliziesco. E, cosa più importante, Slob presentò il mondo del serial killer Daniel "Chaingang" Bunkowski, quasi duecentocinquanta chili di peso, amante dei bambini. Stupratore, cannibale, esilarante da cima a fondo, Chaingang diventò immediatamente un cult sensazionale, attingendo direttamente dalla vena di Freddy Krueger-Jason Voorhes. Numerosi racconti di Chaingang (come "Dolce pesca" e "L'uomo più fortunato del mondo") servirono solo a attizzare il fuoco; ora Bunkowski è divenuto così popolare che ha persino un suo fumetto (la serie Chaingang, prodotta dalla Northstar Productions); e per di più, dopo averlo ucciso in Slob, sembra che Miller non abbia avuto altra scelta se non quella di far resuscitare Chaingang in Slice. Eppure tutta la notorietà dei romanzi ha fino a ora oscurato lo scrittore. È evidente che Rex Miller non è sensazione da una notte. Per vent'anni è stato dj e famosa star radiofonica in città come St. Louis, Chicago, New York e Los Angeles. Nel 1966 Miller fu la voce nazionale delle automobili Dodge e vanta una lunga lista di agenzie di tutto rispetto e di credito come speaker indipendente. Ha scritto e prodotto incisioni per Pat Boone; alcuni suoi racconti sono apparsi in numerose antologie e nell'Alfred Hitchcock's Mystery Magazine e, dal 1971, è proprietario e gestore della Rex Miller's Killer Collectibles and Vintage Videos, una prospera ditta di vendita per corrispondenza specializzata in articoli da collezionismo di personaggi famosi e altri souvenir (dove si può ordinare di tutto, dal video I Walked With a Zombie fino all'anello dell'occhio mistico di Capitan Midnight).
Rex Miller si è dato da fare. Tuttavia è ancora conosciuto soprattutto per le sue opere con Chaingang ed Eichord, racconti tipicamente brutali, di ritmo pressante, e decisamente poco adatti agli schizzinosi. Miller non è per la commedia: ecco perché Una volta tanto è una prelibatezza. Durante il lavoro di raccolta delle opere per Splatterpunk, io e Rex abbiamo avuto diverse conversazioni divertenti; è uno dei ragazzi più simpatici con cui si può desiderare di parlare al telefono. In questa storia di voodoo, stitichezza, e riunioni di ex liceali, Miller ci dimostra che sa scrivere anche con spirito. Preparatevi a un nuovo giro per la serie humour da bagno. La giovane infermiera, girandosi e invitandolo con un gesto a seguirla per il corridoio, disse: — Ora il dottore può riceverla. Vuole accomodarsi da questa parte, signor Bryant? — Lui poggiò la copia stropicciata del People su una pila di Sport Illustrato, si alzò compiacente e si avviò lungo il corridoio della clinica. Bubba Bryant non era certo il tipo che le donne guardavano due volte. In effetti nessuno, uomo o donna, passava più tempo a guardare Bubba di quanto non fosse strettamente necessario. Bubba era un caso grave di persona grassa e ributtante, e lo era stato per tutta la vita. Aveva cinquantasette anni. Ed era ancora Bubba. Celibe. Aveva vissuto con sua madre e suo padre fino a che prima papà, poi mamma, erano morti, e ora viveva da solo nella sua casetta. — E così sei venuto, amico — disse il dottore dai capelli grigi, con una cordialità apparentemente sincera. — Sono secoli che non ci vediamo! — Si, lo so. Che mi dici, Ronald... voglio dire, dottore? — Non molto, Bubba. Ti chiamano ancora Bubba? — Uhm uhm — fece lui, timidamente. Anche se ormai nessuno lo chiamava più tanto. Aveva problemi con la vita sociale — così diceva sempre sua madre. Bubba era un lupo solitario. — Sai... — Il dottore prese una cartella dall'infermiera e riempì un modulo mentre lui parlava. — Guardavo la lista degli appuntamenti stamattina e ho visto Bubba Bryant e ci ho pensato un po' su, sai, e poi mi sono reso conto — Bubba Bryant? Il Bubba con cui andavo a scuola? — Rise. — Che cosa ti è successo? — Non molto. Ho vissuto in città per tutta la vita. — Guardò in basso, verso i grossi piedi. — Come mai non ti abbiamo mai visto alle riunioni degli ex liceali? Ci
divertiamo un sacco. Devi venire quest'anno. Sarà un grande quarantesimo anniversario. Vengono proprio tutti. Gente da New York, dalla California. Jimmy Dale Potter viene dalle Hawaii. Devi venire, Bubba. — Gli piaceva prendere in giro Bubba a scuola. Lui non aveva nessuna voglia di rivedere la vecchia banda. Li odiava tutti. — Va bene. Ci proverò. — Be', qual è il problema? Siediti. Sputa il rospo. — Grazie. Be', è da una settimana circa che non riesco ad andare di corpo. — Ah, ah. Bene. Bene, ti sistemeremo. Ma il dottor Ronald Ross non sistemò affatto Bubba. Gli prescrisse delle medicine che costavano moltissimo, lo prese un po' in giro e gli addebitò una visita in clinica, ma senza risultato. Quarantotto ore più tardi Bubba non era ancora riuscito a farla e cominciava a preoccuparsi. — Bubba? — La voce del dottore al telefono era forte. — La diga non è scoppiata, eh? — Come? — Non sei ancora riuscito ad avere un movimento intestinale? — Nossignore. — Be', Bubba, puoi venire — vediamo — domani alle tre e mezzo, e facciamo qualche lastra. Mi suona come un intoppo. — Rise, poco professionalmente. Dopo tutto, quello era sempre Bubba Bryant. — Forse dovremo entrare per cercare di sfondarlo. — Fa differenza quello che mangio? — No, a questo punto. Quant'è, nove giorni circa? Io direi di andare avanti e macellare il vitello grasso, se vuoi. Il pomeriggio seguente il dottor Ross palpò il colori di Bubba Bryant, sondò i misteri dei suoi recessi più intimi, lo stimolò e lo frugò, e finalmente giunse a una conclusione sconcertante. — Bubba, tu non sei bloccato. — Eh? — Non c'è nessun blocco fisiologico che si possa osservare. La conclusione è che tu potresti avere un piccolo spostamento psicologico di una qualche natura. E c'è sempre la possibilità di un problema di dieta, alla tua età. Sei anche sovrappeso di trenta chili, vecchio mio. Ti prescriviamo una dieta ricca di fibre. Fibre. Molta acqua. Ti prescriverò anche il più forte lassativo che io conosca. Lavoreremo insieme, Bubba, e OTTERREMO un risultato.
— Va bene. Ma non ci fu alcun risultato. Ed erano passati tredici giorni dal suo ultimo movimento. Bubba Bryant era molto preoccupato. Aveva dato per scontato di liberarsi con regolarità, giorno più, giorno meno. E ora, per tredici giorni, niente. Era veramente allarmante. Il pasto serale di Bubba, il tredicesimo giorno, consistette in un semolino, un quarto di tazza di spinaci bolliti, mezza scodella di brodo vegetale, un cucchiaio di sciroppo idrolitico con un po' d'acqua e due delle potenti pasticche che Ross chiamava Poopalotz. Alle dieci di sera non aveva sentito ancora nessun richiamo della natura, gli stava venendo fame ed era veramente impaurito. Uscì di casa e trovò una pizzeria ancora aperta. Ordinò due combinazioni extra-super-de-luxe con tripla mozzarella, salsiccia quadrupla e tutto il resto eccetto le acciughe. Roba pronta da mandar giù. Pagò 29,80 dollari iva inclusa. Bubba si fermò al 7-Eleven e si prese quattro quarti di birra per buttar giù la pizza, andò a casa e si strafogò come se quello fosse il suo ultimo pasto. Tutto o niente. La mattina successiva, la mattina del quattordicesimo giorno, Bubba si svegliò bagnato fradicio — non stava male, aveva solo tanta paura — e uscì al sole. Non sentiva succedere NIENTE nella sua grossa corporatura. Nessuna sensazione di riempimento. Nessun disagio. E nessun impulso di andare al bagno. Girovagò senza meta per mezza giornata. Nel primo pomeriggio si trovò nel ghetto, e passò davanti a un negozio che non aveva mai visto prima. Entrò, guardandosi attorno, senza sapere cosa stesse facendo ma sentendosi proprio come a casa sua. — Ti posso aiutare? — domandò una vecchia di colore. — No signora. Sto soltanto... — Voleva dire dando un'occhiata. — Dando un'occhiata? — suggerì lei. — Ah ah. — Abbassò lo sguardo, vergognosamente. — Che problema hai? — Eh? — Cosa ti affligge, ragazzo? — Niente. — Fece per uscire. L'insegna sulla vetrinetta delnegozio diceva madame CRUT. CANDELE DI GIBB. Era un negozio di candele. Candele nere. Radici dall'aspetto curioso e altra roba. Bottigliette con etichette strane. — Torna qui — disse lei, e Bubba si voltò. Lei piegò l'indice a uncino e Bubba, timidamente, obbedì.
— Quanti soldi hai, ragazzo? — Non lo so — rispose lui. — Guarda. Lui tirò fuori i soldi e li contò. — Circa ottanta dollari, e qualche spiccio. — È quanto costa questo vasetto. Ottanta dollari e qualche spiccio. Qui. Dammeli. — Lui le tese i soldi e lei gli dette un vasetto anonimo di una sostanza polverosa. — Prendi questo. Prendine un cucchiaio ogni notte a mezzanotte. Non due cucchiai, non un cucchiaio e mezzo. Esattamente un cucchiaio, capito? — Si signora. — Fallo tutte le notti per tre notti. — Sembrò aver finito di dire ciò che doveva, così Bubba si mise il vasetto in tasca e tornò a casa. A mezzanotte in punto prese un cucchiaio di quella roba. Sapeva di merda e ne risputò fuori la maggior parte. Le due notti successive seguì esattamente le indicazioni della vecchia. La mattina del diciassettesimo giorno di stitichezza Bubba versò tutta la polvere contenuta nel vasetto nel frullatore e ci si fece un cioccolato al malto. Ci fu una sorta di periodo di gestazione. Il diciassettesimo, diciottesimo, diciannovesimo e la mattina del ventesimo giorno Bubba rimase per lo più a letto. Sentiva i liquidi del suo corpo seccarsi, ridursi, evaporare; sentiva che il suo sistema vitale stava chiudendo i battenti. Sapeva che stava per morire. Bubba tenne la casa in penombra e al fresco e rimase a letto il più possibile, cercando di non pensare a niente. Tenendo gli occhi chiusi. Lasciando che succedesse qualsiasi cosa dovesse succedere. Il pomeriggio del ventesimo giorno Bubba si svegliò dal sonnellino con un dolore. No. Non un dolore. Un disagio. Una sensazione nelle viscere. Una pressione. Era una sensazione talmente sconosciuta, e si chiese se non dovesse chiamare un'ambulanza. Sarebbe stato il grande casino? Ma immediatamente identificò la sensazione. Doveva andare AL BAGNO. Oddio! Era ora. Corsa nel bagno e fece appena in tempo a calarsi le mutande. Oh Dio mio nell'alto dei cieli e dolce Gesù era ora era ora oh, oh, oh, sì, SÌ-SÌ-SÌ ERA MEGLIO CHE FARE SESSO AAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH HHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH. Finalmente Bubba fece la cacca, e non fu bello, fu spettacolare. Bubba
guidò il banana express marrone. Bubba fu di nuovo padrone di sé. Bubba era rosso per quel successo. Bubba Bryant era un uomo felice. Passò una magnifica giornata. Chiamò il dottore. Sarebbe andato alla quarantesima riunione degli ex liceali — ci potevano contare! Cercò di chiamare Madame Gibb ma non riuscì a trovare il numero. Camminò per tutto il ghetto cercandola, ma sembrava che lei si fosse ritirata dagli affari. Quando finalmente ritrovò il negozio, questo sembrava vuoto. Si era trasferita. E poi, senza nessun presentimento, la mattina del ventunesimo giorno, dopo il sonno più riposante della sua vita, si svegliò con una terribile sensazione, brutta come il più brutto mal di pancia che avesse mai avuto. Era il tipo di cosa che avrebbe spinto un bambino urlante dalla mamma, il tipo di dolore che in genere precede un'appendicite perforante. Un brutto mal di stomaco. E di nuovo riuscì a tirarsi giù le mutande e sedersi sulla tazza appena in tempo. Rumble grumble rrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrruuuuuuuuuuuummmmmmmmmmmmmmmmmbbbbb bbbbllllllleeeee e uscì, tuonando, ruggendo, ribollendo in quel canale prima intasato, la superlocomotiva banana marrone era IN ORARIO WWWWWHOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOWHHHHHHHHHHHOOOOOOOOOOOOOOOEEEEEEEEEEEEEEEEE E! ALLLLLLLLLLIXLLLIXLLLLL ABBBBOOOOOOOOOOOAAAAAAAAARRRRRRRRRRRDDDDDD DDDDD! POW! Venne fuori in una valanga ribollente, sgusciante, squittendo oh mio Dio le dimensioni di quella IMMENSA COSA MOSTRUOSA più grande di qualsiasi altra cosa non uno stronzo ma un escremento orribile, pauroso, da un altro mondo, infernale, e tutto ciò che riuscì a fare fu tirarsi su mentre quello usciva, con i crampi, ruggendo, con una mano che cercava lo sciacquone mentre quella cosa continuava a uscire e si costrinse a girarsi per guardare e quasi svenne cadendoci sopra quando vide la cosa che aveva tirato fuori da dentro di sé. La maggior parte del giorno successivo la passò a pulire il bagno. La mattina del ventiduesimo giorno si trascinò fuori dal letto prima che suonasse la sveglia e corse per diversi isolati fino a un campo pieno di erbacce dove si ergeva una casa disabitata. Quando la cosa lo assalì lui era arrivato all'interno. Lo scaraventò in terra e fuori dalla finestra, non cento banane Chiquita, ma fu una montagna marrone d'orrore quella che venne fuori scoppiando, fluendo, crescendo, il dolore come per partorire cento porco-
spini, WHAM! Passò la giornata nelle erbacce puzzolenti e quella notte filò a casa e si lavò per bene. Quella notte dormì di nuovo come un bambino. La mattina del ventitreesimo giorno non sarebbe voluto andare. A mezzogiorno dondolava come una caricatura di un cowboy con le gambe arcuate. Ma in qualche modo arrivò alle sette della sera e — con indosso il suo vestito migliore — Bubba arrivò appena in tempo alla sua vecchia scuola. Non poteva più ignorare quel rombo. Tutto ciò che riuscì a fare fu aprire di scatto le porte del liceo e urlare ai suoi ex compagni di classe: — Ciao a tutti, è arrivato Bubba! Con il volto in un bagno di sudore ma aperto in un enorme sorriso, Bubba si girò su se stesso, si calò i calzoni e riempì la palestra del suo liceo con il suo più intimo e sincero sentimento per i suoi ex compagni di scuola. Titolo originale: Reunion Moon (1990) IL BARACCONE DEGLI ORRORI Nancy A. Collins Nancy A. Collins è nata nelle campagne dell'Arkansas nel 1959. A casa non c'era molto da fare eccetto leggere, guardare la televisione, farsi mettere incinta o diventare un'adolescente alcolizzata. Lei ha optato per la lettura. Nel 1982 si è trasferita a New Orleans dopo aver trascorso un anno a Memphis, nel Tennessee. Il suo primo romanzo, Sunglasses After Dark, è stato pubblicato dalla Onyx Books della NAL nel 1989. Sunglasses è stato candidato per il premio Bram Stoker per gli Scrittori di Horror Americani e ha fatto guadagnare a Nancy un posto nel ballottaggio del Premio John W. Campbell nel 1989. Il suo secondo romanzo, Tempter, è stato pubblicato dalla Onyx nell'autunno del 1990. Attualmente sta lavorando alla continuazione di Sunglasses, intitolata provvisoriamente In the Blood. Ha adattato "Il baraccone degli orrori" in un atto unico per le produzioni teatrali di Off-Broadway Screamplay, presentato a New York alla fine del 1990. Vive con suo marito, Dan, il loro gatto, Funky Butt eccetera eccetera. Preferisce ancora leggere. Questa è la biografia di Nancy Collins inviatami con la scheda di parte-
cipazione per Splatterpunk. Anche se certamente focalizza i punti essenziali, c'è spazio per espanderla. Per esempio, Sunglasses after dark è un intelligente romanzo di vampiri che ha provocato un'immediata sensazione, sia per i suoi creativi ghirigori narrativi sia per righe come "La lama le impalò l'occhio destro, seppellendosi nella morbidezza spugnosa dei suoi lobi frontali, raggiungendo da destra l'emisfero sinistro del cervello." Inoltre, Funky Butt potrà essere il nome di un gatto, ma la Funky Butt Hall è anche il locale di New Orleans dove è nato il jazz. E infine, al momento Nancy A. Collins guida la minuscola falange di donne scrittrici di splatterpunk. O meglio, quasi-splatterpunk. Nella lettera di accompagnamento inviata assieme alla biografia, la Collins ha scritto anche: "Se mi considero una splatterpunk... no, in realtà... Credo che possiate dire che sono d'accordo con la filosofia di Joe Lansdale: io mi considero una scrittrice, e lascio che siano gli altri a preoccuparsi di che tipo di scrittrice io sia". Bene, bene. Ma il coro di lodi — sempre crescente — che al momento ruota attorno alla Collins è dovuto in parte alle budella che sprizzano in Sunglasses. Ciò è dovuto al fatto che attualmente sono poche le donne che scrivono horror esplicito, mentre la maggior parte di loro producono lavori singoli (Jay Sheckley, con "Bargain Cinema", Elizabeth Massie e il suo "Hooke on Buzzer", e "Cannibal Cats Come Out Tonight" di Nancy Holder). Eppure la Collins sembra incline a continuare a produrre su questo filone. Dopo In the Blood e Temper uscirà Necrophiles, una storia di drogati ossessionati dalla morte (il contributo della Collins al Book of the Dead, vol. II). E poi c'è il suo recente — e assolutamente sopra la media — racconto Rant ("Le interiora rosso porpora si sparsero sul tappeto come festoni colorati"). In ogni caso, Nancy Collins mi dice che i suoi scritti si dividono in due grandi categorie "gotici meridionali e altra roba." Il che potrebbe scatenare fantasie di una qualche razza incrociata tra Flannery O'Connor e Fangoria. E non è una cattiva descrizione per questo "Il baraccone degli orrori". Il mio hobby sono i fenomeni da baraccone. Alcuni li chiamano "gente speciale". Anch'io li chiamavo così, finché l'Uomo-Foca (che allora aveva settant'anni) non mi rise in faccia. Ci sono voluti quindici anni passati a gironzolare attorno a tende disordinate e roulotte dei pochi luna park che girano ancora per le zone più rurali per guadagnarmi abbastanza fiducia tra questa gente per poterli fotografare. Difendono gelosamente le loro vite private, i loro veri io. Nel par-
co dei divertimenti, guardare gratis non esiste. Sapete, io sono un fotografo. Due estati fa feci amicizia con Fallon, un puntaspilli umano divenuto il capo del luna park. Non c'è molto da scrivere sulla famigliola di Fallon. C'è il solito nano, la donna cannone, e il punk pieno di spilloni. Il loro grande acquisto, comunque, è Rand Holstrum, l'Uomo Più Brutto del Mondo. Rand soffre di acromegalia. È una malattia che distorce le ossa e la carne che le ricopre. Una malattia che genera mostri. Rand Holstrum è nato normale, come ogni altro bambino. Ha fatto il militare in Corea e ha sposato la sua fidanzatina delle superiori. È padre di due meravigliosi bambini assolutamente normali. E poi la sua testa aveva cominciato a cambiare. L'acromegalia gli ha infettato la parte sinistra del viso, contorcendo le ossa facciali come delle assi di pino non levigate. La carne, in quella parte del viso di Rand, assomiglia a un pallone d'acqua riempito fino a scoppiare. La parte superiore della fronte sporge come un bambino che emerge dalla cervice della madre, con il peso che preme contro la tempia abominevole. La carne paffuta e tumescente della guancia ha ingoiato da tempo l'occhio sinistro, sigillandolo dietro a un muro di ossa e carne. Il naso è di forma e dimensioni del doppio pugno di un uomo, ormai inutile per respirare. Le labbra sono innaturalmente spesse e continuamente spaccate. La mandibola è seriamente malformata e i denti gli sono stati tolti da parecchio. Per lui parlare diventa sempre più difficile. I capelli sono ancora neri, anche se la superficie della cute è triplicata, dando l'impressione che abbia la rogna. Ma queste deformità, da sole, non avrebbero fatto di Rand Holstrum il fenomeno da baraccone di successo che è oggi. Mentre la metà sinistra del viso è una massa ripugnante e contorta di ossa e cartilagine, come una maschera di cartapesta creata da un bambino mentalmente disturbato, l'altra metà è quella di un intelligente e piacente uomo sulla tarda cinquantina. Questo è ciò che fa abboccare i pesci. È una delle visioni più ributtanti che potreste mai sperare di vedere. Se la sua malattia fosse stata totale, Rand Holstrum sarebbe stato solo un altro fenomeno da circo. Ma data la natura bifronte del suo male, è diventato una delle poche "celebrità" rimaste tra gli orrori da baraccone in un'epoca di gente alla ricerca di brividi e "persone speciali". Quando sentii che il luna park di Fallon era arrivato in città afferrai la
macchina fotografica e mi presi un giorno di permesso. Il terreno era poco più grande di un pascolo per le mucche, punteggiato di catapecchie d'alluminio che servivano come sale per gli spettacoli. Tutto puzzava di fieno fresco, paglia stantìa e concime. Ero già eccitato nel momento in cui uscii dalla macchina. I caravan AirStream che ospitavano i componenti del luna park erano a qualche centinaio di metri dietro al neon intermittente e alle macchine per la molatura del viale centrale. I veicoli erano silenziosi, e le loro armature erano ripiegate all'indietro come giganteschi uccelli metallici con le teste riparate sotto le ali. Riconobbi il caravan di Fallon dall'immagine sbiadita delle Quattro Stelle sul fianco. Mentre mi avvicinavo al blocco di scorie che fungeva da scalino per scendere dall'entrata principale del caravan, la porta si aprì di scatto, gettandomi a terra. Un uomo anziano vestito di poliestere color mirtillo volò dall'interno del caravan, atterrando a qualche metro da dove ero stato scagliato io. — Maledetto prevertito bastardo! — La rabbia e il liquore ingarbugliavano la voce di Fallon. — Non voglio vedere più la tua faccia, capito? Va' a vendere i tuoi mostri da qualche altre parti! L'uomo anziano si rialzò con eccessiva dignità, spolverandosi i pantaloni con le mani livide, chiazzate. Gli tremava il mento e le labbra erano compresse in una linea esangue. Il suo parrucchino brizzolato da grandi magazzini gli era scivolato sulla fronte. — Te ne pentirai, Fallon! Quanto tempo ancora pensi che Holstrum rimarrà in giro? Una volta che il buono pasto se ne sarà andato, andrai in giro a chiedere l'elemosina per farti aiutare dal vecchio Cabrini! — Col cazzo! Ora fila prima che chiami gli scaricatori! Il vecchio sembrava matto abbastanza da strappare la testa di un pollo vivo a morsi. Fece finta di ignorarmi, camminando nella direzione opposta con il suo passo strano, contorto, le mani nodose chiuse a pugno nelle tasche. — Cosa cavolo...? — Controllai per assicurarmi che il mio flash fosse sopravvissuto all'urto. — Scusami, fratello. Non mi ero accorto che tu fossi fuori. — Fallon troneggiò su di me, con la mano piena di cicatrici protesa per aiutarmi ad alzarmi. Era ancora in canottiera e pantaloni della tuta, la sua "uniforme" fuori orario. Fallon era sui cinquanta avanzati, ma ne dimostrava di più. È il risultato
di trentacinque anni nei luna park. Specialmente nel tipo di lavoro in cui era specializzato Fallon. Per anni era stato un puntaspilli, infilzandosi spiedi nella carne per far divertire gli altri. I segni del suo lavoro si indovinavano nella pelle flaccida degli avambracci, nel doppio mento cascante sul collo, le ragnatele tra pollice e indice, l'incavo sotto la lingua, la cartilagine delle orecchie. Le ossa del viso erano lunghe e pesantemente raggrinzite intorno agli occhi e alla bocca, le guance segnate da vene rotte come foglie d'edera. Da giovane i capelli erano del colore del rame, ma gli anni avevano sbiadito la loro vitalità, lasciandoli di un arancione pallido. Con il naso bulboso e le sopracciglia nodose, Fallon non sarebbe mai sembrato bello, ma la sua è il tipo di faccia che la macchina fotografica ama di più. Le crepe nella bocca di Fallon si approfondirono. — Vieni dentro. Ti racconterò tutto. L'interno del caravan di Fallon era una massa confusa di carte vecchie, biancheria sporca e lenzuola stropicciate. Mi sedetti sulla sedia assemblata al tavolo da cucina pieghevole mentre Fallon si dava da fare per trovare due bicchieri puliti. — Mi sa che vorresti sapere cos'era tutto quel casino. — Tentò di suonare indifferente. Se non lo avessi conosciuto bene, ci sarei cascato. — A vedere come sei caduto col culo sulla teiera, non posso dire che ti biasimo. — Mi mise di fronte un bicchiere e ci versò una dose generosa di whisky. Anche se erano passate da un pezzo le tre del pomeriggio, per Fallon era ora di colazione. — Quello che hai appena visto non era altro che Harry Cabrini, uno dei pezzi più schifosi del giro, il che, credimi, dovrebbe dirtela lunga! — Fallon scolò il bicchiere con uno scatto deciso del gomito. — Chi è Cabrini? Che fa? Fallon sibilò tra i denti e si versò un altro goccetto nel bicchiere. — Vende fenomeni. — Eh? — Misi giù il mio whisky senza averlo toccato. — Cosa vuol dire "vende"? — Esattamente quello che ho detto. — Fallon si era appoggiato contro il bancone della cucina, con le braccia conserte. Quasi si abbracciava da solo. — Come credi che trovino la strada per entrare nel giro? Vengono da soli quando sentono che in città è arrivato un luna park? Be', alcuni fanno così. Ma la maggior parte di questi fenomeni non possono dire la loro su dove vanno a finire. La maggior parte li vendono i genitori. È così che Smidgen è entrato nello spettacolo. Non vede i suoi da quando governava Eisenhower. A volte vengono venduti dai dottori che li curano. È così che
Rand ci è entrato. Prima di essere l'Uomo Più Brutto del Mondo era stato parcheggiato in qualche ospedale pubblico dimenticato da Dio. Poi quel portantino ha sentito dire che cercavo un buon protagonista e ha combinato per farmi incontrare Rand. Gli ho pagato un bel po' per quel privilegio. Ma non me ne sono mai pentito. Sono sicuro che lui non l'ha vista come una "vendita". Più come una ricerca di talenti, mi sa. — E tu hai comprato... fenomeni? — Ehi ragazzo, non farla sembrare schiavitù! È più come pagare una parcella a un intermediario. Io, ai miei, do stipendi decenti e loro sono liberi di andare e venire come gli piace! I tempi degli schiavi sono passati da un pezzo. Ma Cabrini... Cabrini è di un'altra pasta. — Fallon sembrava aver morso un limone. — Cabrini non ha agenti. È uno schiavista... almeno, questa è la mia opinione. Forse mi sbaglio. Ma i tipi che trova Cabrini... c'è qualcosa di sbagliato in loro. La maggior parte di loro è idiota. O peggio. Una volta qualche anno fa ho fatto lo sbaglio di comprare un poveraccio da lui, e da allora mi ha sempre perseguitato. Vuole che gli compri quei mostri viventi! Di' che comprerei guai! Guarda, guarda da solo se non ho ragione. — Fallon si piegò e da un ammasso di vestiti sporchi e di contratti tirò fuori una polaroid. — Ha lasciato qui una delle sue maledette fotografie. — Me la porse senza guardarla. Riuscivo a capire perché. In tutti gli anni che avevo passato a fotografare carne martoriata dalla genetica e dalla malattia, niente mi aveva preparato alla creatura infernale intrappolata nella foto. Il mostro, nudo e bianco come una medusa sembrava più un primate mutante senza peli che un qualcosa nato dall'accoppiamento di una donna e un uomo. Il pube glabro e non sviluppato indicava che quella cosa malformata era un bambino. — Come ha trovato un mostro così giovane? — Il bisbiglio di Fallon gli si soffocava nella gola. — La maggior parte di loro, a quell'età, è nelle cliniche dello stato o in scuole speciali. Dov'è sua madre? E come fa ad averne più di uno? Dopo aver lasciato il caravan di Fallon feci un salto da Rand. Vado sempre a trovare Rand Holstrum quando posso. Non so mai quando potrei avere un'altra occasione per fotografarlo. Rand non è più giovane come una volta, e il suo male è instabile. Gli hanno detto che potrebbe morire senza alcun preavviso. Nonostante le prognosi dei dottori, lui rimane gioviale e amante della vita come sempre. Ho decine di fotografie di Rand. Per me hanno un fascino speciale.
Guardandole in sequenza, posso tracciare la furia della sua malattia. È come se Rand fosse una tela vivente, la quintessenza di un lavoro ancora in corso. Rand era nel baraccone degli orrori, a prepararsi per lo spettacolo della sera. Aveva ancora la giacca dello smoking, un regalo di sua figlia. Con lui c'era la moglie, Sally. Rand stese una mano per salutarmi. Era un gesto puramente simbolico. L'acromegalia si era diffusa anche lì, contorcendogli i polsi fino a trasformargli le mani in poco più di manopole da presa di carne e sangue. — Ti ricordi di mia moglie, vero? — ansimò lui. Sally Holstrum era di aspetto decente, come di solito le donne del luna park. Mi fece un cenno con la testa mentre montava con un martello lo schermo di rete metallica che proteggeva Rand dalla folla mentre era in mostra. I polli a volte diventano fastidiosi, e una bottiglia di birra ben piazzata poteva rivelarsi fatale per suo marito. Rand pescò il portafoglio, tirandone fuori un paio di foto piene di impronte da farmi vedere. Randy, il figlio degli Holstrum, era vestito con toga e cappello, con un diploma stretto in mano. June, la preferita di Rand, era vicino a suo marito, con un marmocchio in braccio. — Adesso Randy fa il dentista... Ha anche un praticante... Sheboygan... La piccola Dee Dee riesce a dire... l'alfabeto... — impastò Rand. — Il tempo vola — feci eco io. — Oh, mi è capitato di incrociare un tizio oggi, un certo Hany Cabrini... Sally fermò il lavoro che stava facendo e si voltò a guardarmi. — Cabrini è qui? — Era qui. Fallon lo ha buttato fuori dal suo ufficio. Non so se è ancora in giro o no... — Farebbe meglio a non esserci! — sputò lei, roteando enfaticamente il martello. — Se trovo quella palla di merda a girare di nuovo intorno a questa tenda, gli faccio vedere dove mettono le noci di cocco le scimmie... — Dài, Sally... — Non dirmi "dài Sally", Rand Holstrum! Il tuo problema è che sei troppo buono! Anche con la gente che non merita più di quello che daresti a un cane per la strada! Rand rimase in silenzio. Sapeva fare di meglio che discutere con Sally. — Lo sai cosa ho pescato a fare quel pazzo bastardo? — Ricominciò ad agitare con vigore il martello. — Ritornavo da Burger King e ho trovato quel folle che prendeva le misure della faccia di Rand!
— Non era niente... sono stato misurato altre volte, Sal... — Si, da dottori. Che affari deve fare una carogna come Harry Cabrini per fare una cazzata del genere? Rand ammiccò con l'occhio buono nella mia direzione. In quel momento uno dei facchini entrò nella tenda con una confezione di cibo pronto presa da uno di quegli schifosi fast-food locali. Il grasso del cibo aveva già reso semilucida la busta di carta. — Ecco la roba per lei, signor Holstrum. — Rand pagò il facchino mentre Sally tirava fuori il frullatore. — Vai a cambiarti i vestiti, amore. Non vuoi che quello bello smoking che ti ha regalato June si sporchi, vero? — fece Sally mentre faceva cadere gli hamburger uno per uno nel cestello del frullatore. Rant brontolò, acconsentendo, e marciò via per cambiarsi. La malformazione della mascella e la perdita dei denti ha fatto sì che per Rand la masticazione sia un ricordo del passato. Tutto quello che mangia deve essere liquefatto. — Ci vediamo più tardi, Sal... — Certo amore. Fammi sapere se vedi Cabrini che continua ad aggirarsi nei dintorni. — Sta tranquilla. Me ne andai proprio mentre le lame rotanti di acciaio inossidabile cominciavano a prendere vita, tritando la mezza dozzina di hamburger in una zuppa di proteine. Avevo mentito a Sally. Non intendevo farlo, ma alla fine era stato proprio così. Nel luna park cadde il crepuscolo, e, con esso, cominciò la vita. Quando il cielo si oscurò da cobalto a blu notte e vennero accesi i neon, le giostre da quattro soldi e le attrazioni sul viale acquistarono un alone di magia. Gli zoticoni arrivarono per guardare e staccarsi dai contanti guadagnati tanto duramente. L'aria era impregnata dell'odore di zucchero filato, pannocchie di granturco, coni di zucchero, scarichi diesel e vomito. La musica registrata urlava dagli impianti di diffusione, residuati bellici della seconda guerra mondiale. I motori che facevano girare le giostre col giro della morte ruggivano come animali in cattività che fanno tremare le loro catene, pronti a liberarsi. Le risate urlate della gente sulle giostre echeggiavano in ogni gola. Le immagini, i suoni e gli odori del luna park innescavano un'ondata di nostalgia per giorni che sembravano più semplici, se paragonati alla vita che
vivevo in quei giorni. Sorpassai una scolaresca raggruppata accanto all'ottovolante. Cercavano tra la segatura gli spiccioli caduti dalle tasche dei frequentatori della giostra, anche se rischiavano di buscarle dalle mani dei facchini e di farsi vomitare addosso dalla gente sull'ottovolante. Io sorrisi, ricordandomi di come andassi io stesso a cercare centini e monetine nella segatura. E allora lo vidi. Sgusciava dentro e fuori dalla folla come un uccello che si apre un varco alla ricerca di pesciolini. Aveva le mani calcate nelle tasche. Il parrucchino gli scivolava sulla testa come un uovo fritto nel piatto. Il vestito era di una taglia di troppo, e tutto ciò che impediva ai pantaloni di cadere era una vistosa e spessa cintura di pelle bianca. Aveva i mocassini intonati. Esitai un momento, incerto su cosa avrei dovuto fare. Si dirigeva verso il parcheggio. Io esitai. L'immagine del bambino-mostro contorto mi si presentò davanti agli occhi e lo seguii. Cabrini entrò in un camion chiuso di seconda mano che una volta era appartenuto a una catena di prodotti da forno: sul fianco del camion si vedeva ancora il profilo sbiadito di una bambinetta con le gote rosse e i boccoli biondi intenta a divorare una fetta di pane bianco spalmato di burro. Fu facile seguire Cabrini dal campo del luna park fino a un parcheggio per roulotte decrepito a venti miglia di distanza. Abitava in una casa mobile abbastanza spaziosa in uno spiazzo pieno di erbacce e giornali in decomposizione. Incerto su ciò che avrei dovuto fare, optai per un approccio diretto. Bussai al telaio della porta. All'interno ci fu un trambusto, poi il suono di qualcosa che veniva buttato a terra. — Chi cazzo è? — Signor Cabrini? Signor Harry Cabrini? — Si, sono Cabrini... E tu chi sei? — Signor Cabrini, mi chiamo Kevin Malone. Un certo signor Fallon mi ha detto che lei aveva qualcosa... qualcosa che mi interessa. — Silenzio. — Signor Cabrini? La porta si aprì per quanto permetteva la catenella di sicurezza. La faccia di Cabrini, in primo piano, sembrava quella di una cicogna, come i suoi movimenti. Il naso era un grosso becco proteso che gli oscurava la bocca dalle labbra sottili e le ossa piatte degli zigomi. Il parrucchino dei grandi magazzini era sparito, rivelando un cranio liscio macchiato color verdastro e dei ciuffi grigi a livello delle orecchie. Cabrini studiò me, poi la macchi-
na fotografica che tenevo appesa al collo. Brontolò, più a beneficio suo che mio, poi chiuse la porta. Un momento dopo lo udii armeggiare con la catenella e la porta si aprì di scatto. Aveva di nuovo il parrucchino — sempre leggermente fuori posto — e mi fece cenno di entrare. — Andiamo, accidenti. Non c'è ragione di far entrare con te tutte le dannatissime zanzare di questo paese. L'interno del caravan non era certo come me lo aspettavo. La sezione frontale, normalmente riservata alla sala da pranzo e all'angolo cottura era stata privata di tutti i mobili a eccezione del frigorifero e della dispensa. Erano spariti il mobile con bar incorporato, il divisorio delle stanze di truciolato, i pannelli di finta quercia, e la moquette smorta. Al loro posto c'era un tavolinetto di formica, un paio di sedie da cucina stile Esercito della Salvezza e uno dei tavoli da lavoro meglio equipaggiati che io abbia mai visto. Il resto era un labirinto di legno, da tavole nuove di due per quattro a montagne di segatura. In un angolo, accanto a un mucchio di vestiti di poliestere, notai una spartana branda militare. — Tu sei il tizio che fa le foto ai mostri — disse incolore. — Filippo, l'Uomo Foca, mi ha parlato di te. — E Fallon mi ha parlato di te. La schiena di Cabrini si irrigidì. — Sì? Be', che vuoi? Non ho mica tutta la notte... Io presi la giacca e ne tirai fuori la polaroid che aveva lasciato nel caravan di Fallon. — Una foto. Solo una. Ti pago. — Parlare con lui mi dava la nausea, nonostante ciò mi trovai a dirgli quelle parole. Dal momento in cui avevo visto quella foto avevo saputo che dovevo aggiungerla alla mia collezione. Lui mi guardò negli occhi, e fu come essere squadrato da un serpente. Poi sorrise, e fu tutto ciò che riuscii a fare anch'io per trattenermi dal ridurre il suo viso in poltiglia. — Okay. Cento sacchi. Altrimenti, tela. A quel colpo il mio conto in banca tremò, ma pescai due da cinquanta dal portafogli. Cabrini li intascò con la facilità di un congiurato e mi fece cenno di seguirlo nello stretto corridoio che portava al retro del caravan. Dal corridoio si diramavano due camere da letto e un bagno. Buttai uno sguardo in quella che doveva essere la camera più grande e vidi quattro o cinque contenitori ammucchiati nel buio. Cabrini chiuse rapidamente la porta, indicando che la seconda, quella più piccola, era la camera che cercavo.
La stanza odorava di feci umane stantìe e cibo andato a male. Feci uno sforzo per trattenermi dal vomitare per la puzza. Cabrini scosse le spalle. — Che ci posso fare? Sono idioti. Proprio come animali. Non puliscono mica dietro di loro. Non parlano. Cagano dove e quando gli gira. Ce n'erano tre. Due bambine e un maschietto. Erano seduti, stretti insieme su un materasso nudo e macchiato sul pavimento sporco. Le loro deformità erano sorprendentemente simili: schiene gobbe, braccia contorte, gambe piegate, casse toraciche distorte posate sopra le pelvi. Le dita piegate su loro stesse, come quelle di primati. Erano pallidi, con gli occhi così rientrati nelle orbite da sembrare creature cieche, abitanti in una caverna. Le loro sembianze erano quelle di una bambola di cera tenuta troppo vicina a una fiamma libera. Avevano i capelli unti e sporchi delle loro stesse feci. La cosa strana era che le loro membra, benché contorte in angoli innaturali, erano di proporzioni normali. Quei bambini contorti sembravano piccoli nativi di un qualche bizzarro pianeta di gravità elevata, con i dorsi compressi in metà dello spazio necessrio per una crescita normale. Ma ciò che veramente mi sconvolse fu lo sguardo di paura animale sui loro volti rovinati. Mi ricordai di Slotzi, Testa di Spillo; nonostante la sua seria deficienza, le piaceva cantare e ballare ed era affezionata e curiosa in una maniera infantile e disarmante. Era bloccata in un'eterna infanzia, e il suo sviluppo mentale era fermo tra i tre e i cinque anni di età. Paragonata al trio di mostri di Cabrini, Slotzi era materiale da Premio Nobel. Una cosa era certa: quei bambini mostruosamente contorti non avevano mai riso, né avevano mai conosciuto gioia o amore nelle loro brevi vite. Senza pensare a fondo cosa stessi facendo, regolai la messa a fuoco e controllai il flash. E feci la mia fotografia. Cabrini chiuse la porta, spingendomi di nuovo nella sala. Lo fissai, cercando di dare un senso a ciò che avevo visto. — Quei bambini... sono parenti? Cabrini scosse la testa, mandandosi quasi il parrucchino sul viso. — Droga. — Droga? La voce di Cabrini prese il tono di una cantilena di presentazione. — LSD. Marijuana. Eroina. Crack. Chi lo sa? O forse una medicina sperimentale come quel talidomide negli anni Sessanta. Sono nati tutti nello stesso anno. Sono finiti in una casa di cura. Fino a che non li ho trovati. Eravamo di nuovo nella sala centrale, tra il legno e la segatura. Cabrini
mi guardava con un sorriso spiacevole che gli contorceva le labbra. Distogliendo lo sguardo, mi trovai a fissare un mucchio di carte sparpagliate sul tavolo da lavoro. In mezzo c'erano diversi abbozzi dettagliati del viso di Rand Holstrum. Cabrini portò una caraffa di plastica da latte piena di liquoraccio fatto in casa e poggiò due bicchieri Dixie sul tavolo da lavoro. — Non ricevo molte visite da queste parti. Ma credo che ti meriti qualcosa da bere gratis, per i tuoi cento sacchi. — Un lampo bianco scivolò nelle tazze e sulla panca. Mi aspettavo quasi di vederlo mangiare il legno, sibilando come acido. Per quanto disprezzassi Cabrini e ciò che rappresentava, lo trovavo perversamente inquietante. Per quindici anni avevo attivamente cercato di conoscere le vite segrete dei fenomeni da baraccone. Avevo ascoltato storie raccontate da uomini con troppi arti, donne con la barba, creature deambulanti negli sfocati confini tra i due sessi. Avevo parlato del più e del meno con gente che si guadagnava da vivere mostrando le proprie differenze ai curiosi per un dollaro a testa. Mi rendevo conto che entro la fine del secolo il loro stile di vita sarebbe scomparso e nessuno avrebbe conosciuto le loro storie. Harry Cabrini — venditore di bambini/mostri — comprendeva una parte importante, anche se sgradevole, di questa storia. — Sai, ho incontrato un bel po' di tipi come te in questo mestiere. Gente che fa le foto. — Davvero? — Sorseggiai il liquido chiaro e mistificante del bicchiere di plastica. Mentre lo mandavo giù mi bruciava la gola. — Sì. Alcuni erano dottori o gente dei giornali. Altri erano artisti. — Sogghignò. — Erano come te. Pensavano che io sono sporco, però mi pagavano per l'onore di vedere i miei bambini! Mi trattate tutti come se non fossi nient'altro di una specie di tenutario di un bordello. Ma cos'è che attira te, signor Artista? — Gettò indietro la testa ridendo, quasi scaraventando via il parrucchino. — Dove li hai trovati quei bambini? Smise di ridere, con gli occhi acuti e pericolosi. — Non sono cazzi tuoi. Tutto quello che vuoi sono le foto dei mostri. Perché vuoi sapere da dove vengono? Vengono da gente normale, timorata di Dio. Come tutti. Proprio come me e te. — Si versò una seconda dose di liquido. Mi domandai in che condizioni fossero le budella di Cabrini. — Il giro di mostri sta finendo, sai. Sta morendo dai tempi della guerra. — La voce di Cabrini si fece nostalgica. — La gente ne sa di più su come i mostri diventano mostri.
Prima pensavano che fossero i peccati dei genitori fatti carne, e che per questo non avevano anima. Che non erano come gente vera. Cavolo, proprio adesso che March di Dimes si è liberato di quelli che attraevano di più i polli. Non mi fraintendere. Ci sarà sempre gente che vuole guardare: io penso che li fa sentire bene. Non fa niente che le cose vadano veramente male, almeno puoi camminare per strada senza che la gente si senta male, no? Ma chi vuole pagare per vedere i nani? Lillipuziani? Donne cannone? Uomini puntaspilli? Certo, sono ripugnanti, ma si vedono gratis a WalMart ogni giorno della settimana! No, bisogna avere qualcosa che gli faccia veramente paura! Li sorprenda! Gli faccia schifo! Qualcosa che li faccia dimenticare che stanno guardando un altro essere umano! Roba grossa, capisci? — Ehm, sì. — Una volta mi è capitato di leggere di quei tizi in Europa. Durante quella che chiamavano l'Età Buia. Questi tizi si chiamavano Maestri dei Mostri. Suona bene, eh? Comunque, questi Maestri dei Mostri, quando i tempi si facevano duri e non c'erano dei buoni mostri in giro, loro rapivano i bambini... Qualcosa dentro di me si gelò. Cabrini era in piedi proprio accanto a me, ma io mi sentivo anni luce di distanza. — ...e li mettevano in queste gabbie speciali, così crescevano tutti storti. E gli facevano mettere queste maschere speciali così le facce crescevano in un certo modo, perché la carne dei bambini è tenera, sai... Davanti ai miei occhi sfrecciarono immagini di bambini contorti nella tortura, forme astratte come bonsai umani. Riconobbi la bolla che cresceva nella mia gabbia toracica per paura. L'adrenalina mi montava, e il suo messaggio principale era di uscire di lì, subito. Lo sguardo mi si posò sul mucchio posato sul tavolo da lavoro. Per quanto folle, Cabrini era un genio quando si trattava di lavori manuali. Vidi la maschera di cuoio parzialmente completa annidata tra schizzi e diagrammi; era un duplicato quasi perfetto del volto di Rand Holstrum. Ma era così piccola. Troppo piccola perché potesse portarla un adulto... — ...gli davano da mangiare farina d'avena e non gli parlavano mai, così crescevano come danneggiati di cervello, quelli che non morivano. Ma ai re e ai papi e merda del genere non gliene fregava niente. Compravano mostri a quintali! Mostriciattoli! — Cabrini rise di nuovo. Ora beveva direttamente dalla caraffa. — Allora non avevano luna park. Ma non importa. Ci sarà sempre il baraccone degli orrori. Ce li porteremo con noi do-
vunque andremo. — Si batté una tempia con un dito malfermo. Il parrucchino cadde e atterrò sul pavimento, rimanendo lì tra la segatura e gli scarti di cuoio come una tarantola morta. E in quel momento si sporse, fendendo l'aria con uno dei suoi attrezzi per tagliare il cuoio che aveva afferrato dal bancone. Nei suoi occhi, nei denti ingialliti che mostrava, c'era qualcosa di selvaggio. Il re Cicogna era diventato un cane selvaggio. Tentennai all'indietro, sbucciandomi gli stinchi contro un mucchio di assi di legno. Ero appena sfuggito a un colpo della lama ricurva nel petto. Imprecando incoerentemente, Cabrini mi seguì. Il coltello mi sfrecciò a pochi millimetri dal naso. Udii le grida angosciose e soffocate dei bambini idioti che provenivano dall'altra stanza mentre gettavo il liquido del mio bicchiere in faccia a Cabrini. Lui urlò e lasciò andare il coltello, nascondendosi gli occhi. Cabrini roteò all'indietro, cadendo, nella sua traiettoria cieca, sul tavolo della cucina. Io mi diressi verso la porta, senza osare guardare indietro. Anche dopo aver preso la fuga da un po', riuscivo ancora a sentire Cabrini che urlava. — Accidenti a te! Accidenti a te, maledetto, sporco mostro! Titolo originale: Freaktent (1990) CRUCIFAX AUTUMN CAPITOLO 18: IL CAPITOLO CENSURATO Ray Garton Ray Garton non può essere definito un vero splatterpunk, e come Joe R. Lansdale resiste attivamente a tale etichetta. È un atteggiamento con il quale mi trovo d'accordo: entrambi gli scrittori sono così prolifici in così tanti altri settori che dovrebbero rifiutare di essere imprigionati in un singolo subgenere (come testimonia ampiamente l'ultimo romanzo di sesso e suspense di Garton, Trade Secrets). È facile però capire come inizialmente Garton fosse associato al resto del Branco Splat: i suoi due temi preferiti erano insistere sull'erotico (Un argomento che continua a esplorare) e distruggere gli Avventisti del Settimo Giorno (anche se ora Ray dice di aver lasciato la "fase avventista" dietro di sé). Queste sono delle ossessioni gemelle in cui Garton è particolarmente abile in maniera divertente e sorprendente a un tempo, come dimostra nel racconto breve "Sinema" del 1988 (che descrive l'inesorabile rela-
zione tra un insegnante della Scuola del Sabato, un assassino pedofilo, e un ragazzino di nove anni particolarmente immorale). Recentemente Garton è diventato un romanziere d'effetto crescente; uno dei suoi libri più conosciuti è il popolare Ragazze vive (1987), in cui un redattore di una casa editrice di Manhattan sì sente attratto da un vampiro che lavora in uno spettacolo di spogliarello a Times Square. Ma, a mio avviso, Crucifax Autumn rimane il suo lavoro più maturo. Crucifax Autumn venne pubblicato in edizione ridotta a copertina rigida dalla Dark Harvest, nel 1988. Esaminando nei dettagli l'influenza di uno strano, carismatico tipo di nome Mace, simile a Charles Manson Pied Piper, che tiene sotto controllo un gruppo di adolescenti molto contemporanei e molto sbandati, Crucifax Autumn miscela il sovrannaturale con un pungente commento sociale. La morale del romanzo è che non la musica rock, non la droga, o la TV, ma i genitori stessi sono responsabili delle azioni dei loro figli. Forse una lezione semplicistica, ma sempre necessaria. Sfortunatamente, quando Crucifax Autumn venne distribuito in formato tascabile per il mercato di massa dalla Pocket Books (sempre nel 1988), non solo la parola Autumn era scomparsa dalla copertina (lasciando che il libro si intitolasse semplicemente Crucifax) ma l'editore tagliò — cioè, censurò — anche numerose sequenze cruciali. Qui, finalmente ripresa, è una di tali omissioni. Credo che sottolinei pienamente le capacità insolitamente potenti di Garton nel miscelare l'orrido e il sensuale. E non è un caso che questo capitolo soppresso ritragga anche il primo aborto splatterpunk... mediante cunnilingus. Jeff e Lily hanno unito le loro forze per trovare la loro amica, Nikki, che si è impelagata con una pericolosa setta capeggiata da un uomo misterioso di nome Mace. Nikki è giovane, incinta, e nei pasticci. Percorrono le fogne — la sola via che conoscano per raggiungere la roccaforte di Mace — mentre Mace riporta al suo covo un ospite molto speciale... Il reverendo era rigidamente seduto sul sedile anteriore del camioncino mentre, sotto di lui, i pneumatici stridevano sulle curve del Beverly Glen. I tergicristalli si agitavano e, al volante, Mace ghignava nell'oscurità, gettando di tanto in tanto un'occhiata a Bainbridge. Il reverendo sentiva le creature ai suoi piedi, tre, che gli premevano contro le caviglie e gli si arrampicavano sulle scarpe. Ce n'erano altre dietro; squittivano quando il camioncino curvava bruscamente.
Bainbridge aveva la bocca secca, tipico dei vecchi, e non riusciva a smettere di tremare mentre pregava freneticamente per essere liberato da colui che, ne era certo, era il cortigiano del diavolo. Se non il diavolo in persona. — Cosa... cosa ne... ne farai di me? — chiese, con la voce come il gracidìo di una rana. — Farti? — Mace rise. — Niente. Ti porto solo a una festa. — Perché io? Perché vengo messo così alla prova? — Chiuse gli occhi e strillò su un'altra curva. — Non vieni messo alla prova. Mi dispiace che tu la prenda così. Perché non pensi a me come a... ah, che ne dici di un conoscente? Non amici, ancora... — chiocciò, — solo conoscenti. Ma poi noi... — Tu sei malvagio. Questa è una prova, per saggiare la mia fede! — Il reverendo strinse di più gli occhi; avrebbe voluto coprirseli con le mani, ma aveva paura di muoversi a causa delle bestioline ai suoi piedi. Mace scoppiò in una risata grassa e piena, e dette allegramente un pugno sul cruscotto. — Bianco e nero — disse. — Per voi, gente, tutto è bianco e nero, buono e cattivo. Tu sei bianco e io sono nero, tutto nero, malvagio fino al midollo, eh? Ma, Reverendo, tu vivi in un mondo grigio, non lo sai questo? Non c'è nero, né bianco, solo grigio. Tu dici che io sono malvagio, ma quei ragazzini vanno pazzi per me, Reverendo: io li faccio felici. Allora, questo è male? Farli felici? Eh? Io non credo. E adesso, tu. Tu dovresti essere buono, tutto bianco, ma tu hai insidiato una ragazzina e adesso è incinta e tu non vuoi che lei faccia quello che vuole con il bambino che sta crescendo nella sua pancia. Ah! Questa è bontà? Vedi? Siamo tutti grigi. Alcuni sono più scuri di altri, forse qualcuno è proprio tutto nero, ma ti giuro una cosa, Reverendo, nessuno... nessuno è completamente bianco. Respirando profondamente e irregolarmente, Bainbridge disse: — Satana usa la verità per dire bugie, e, ci hanno detto che riesce a confondere anche i migliori, e io non ascolterò... — Io. Non sono. Satana. — Ora il suo tono era molto serio, quasi minaccioso. — Io non vengo dall'inferno o dal paradiso. Io vengo dal... nulla. E tu mi hai portato qui. Tu. Il tuo amico parroco. Tutte le tante, tante mammine e i tanti paparini di questa valle. — Per un attimo guidò in silenzio, poi aggiunse: — In questo universo non c'è posto per gli spazi vuoti, Reverendo. Io sono venuto a riempire gli spazi che voi avete creato. Bainbridge strinse le dita nel grembo e continuò a pregare...
La mano spinse bruscamente indietro la testa di Jeff mentre una voce roca gridava: — Lasciateci soli! Lasciateci soli! — Jeff vide il pipistrello alzarsi sul suo viso, lo vide arrestarsi in aria prima di scendere, e levò di colpo il braccio, scacciandolo con la mano; sentì Lily afferrarsi al suo cappotto mentre schizzavano fuori dall'apertura, evitando per pochi centimetri il pipistrello mentre scendevano lungo la passerella in una corsa esitante e vacillante, con le mani che schiaffeggiavano i muri, i piedi che strusciavano sul cemento sporco. — Andate via! — gridò la voce mentre il pipistrello sbatteva contro il muro una volta, una seconda, e ancora. I passi li seguirono per qualche metro, poi si arrestarono. Non si guardarono indietro, e continuarono a correre, oltrepassando un'altra sezione e un'altra ancora, mentre i loro ansimi riecheggiavano nell'oscurità. La passerella sulle acque della fogna curvò a sinistra, poi a destra, mentre i loro piedi risuonavano con un clangore sordo su un'altra asse di metallo. — Aspetta, aspetta! — ansimò Lily, tirando il cappotto di Jeff. Quando Jeff si voltò e le illuminò il volto con la torcia vide le sue lacrime. Lily gli si accucciò tra le braccia. — Che... che cos'era quello? — chiese. — Non lo so. Un barbone, credo. Ho sentito che qui sotto ce ne vivono tanti. — Ma cos'era quell'apertura nel... — Shh! Nel silenzio l'acqua picchiettava gocciolando e gli scarichi della fogna defluivano. E da qualche parte, nell'oscurità, si sentiva della musica. — Cosa? — chiese Lily. — Hai sentito? Lei ascoltò per un momento. — Da dove viene? Jeff guardò il muro di fronte a sé e rimase ad ascoltare. Confuse con la musica c'erano delle voci indistinte, delle risa, venivano dalla sua destra, dalla direzione verso cui erano diretti. — Andiamo — disse lui, prendendola per mano e conducendola lungo la passerella, con la torcia che risplendeva davanti a sé. In alto vide due topi, che però si allontanarono rapidamente dalla vista prima che Lily potesse individuarli. Mentre si avvicinavano la musica si faceva più forte, le voci e le risate
più distinte, anche se erano ancora deboli come ombre. — Sembra una festa — sussurrò Jeff. Più si avvicinavano, più le voci si facevano chiare e forti; la musica era stata sostituita da una voce acuta e veloce che Jeff riconobbe come quella di un disc jockey radiofonico. Qualcuno che ascoltava la radio. — Vieni qui prima che... — Ah ahhhhh... — ...mi un altro di quei... La musica riattaccò: Robert Palmer. Più si facevano forti, più era difficile dire esattamente da dove venissero le voci e la musica. Fino a che non trovarono l'apertura. Si capiva che il buco era stato scavato nel muro abbastanza di recente perché c'era ancora qualche mattone e dei detriti sparpagliati lungo la passerella. — Qui dentro — sussurrò Jeff, facendo luce con la torcia nell'apertura dai contorni irregolari. — Che cos'è? La luce illuminò muri bagnati, scuri, pile di scatoloni, tubature contorte collegate con fili volanti, e una rampa di scale di metallo. In cima ai gradini brillava una luce debole, opaca. Jeff si avvicinò all'orecchio di Lily e sussurrò: — Fai molto piano. Si spinse con cautela nell'apertura, poi angolò la luce perché Lily vedesse dove metteva i piedi. Con Jeff davanti di un passo, salirono lentamente e silenziosamente per la rampa, e Jeff spense la torcia; il chiarore sovrastante era sufficiente per vedere. Mentre salivano con attenzione le scale, cercando di non far rumore con i piedi sui gradini di metallo, le voci si cristallizzarono, diventando chiare e distinte. Una voce maschile: — Hai sentito? Una voce femminile: — Si, veniva da lassù. Un'altra voce maschile: — La porta? C'è Mace? Arrivati alla fine della rampa si accucciarono e dal pavimento vicino qualcosa sbatté rumorosamente: passi su un'altra rampa metallica. — Sono tornato! — La voce era forte, profonda, esplosiva: era Mace. Gli rispose un coro di saluti e Jeff fu sorpreso dal numero di voci che udì. Salì gli ultimi gradini mani e piedi, sbirciando dalla fine della rampa. Una volta lì c'era stata una porta, ma ora erano rimasti solo i cardini. La
stanza che si vedeva era spaziosa; si capiva che originariamente era stata divisa in due: la parte restante del muro si proiettava fino a tre quarti dal centro della stanza, poi terminava in un'estremità irregolare e spaccata, dove era stato buttato giù. Il pavimento era costellato di mattoni e pezzi di intonaco rotto. Nel muro spaccato c'erano tre aperture, oltre le quali brillavano barre di luce soffice, che tagliavano l'oscurità fumosa e polverosa. Oltre il muro, nella luce fioca, Jeff riuscì a distinguere qualche movimento. Vide un paio di lanterne a cherosene sopra alcuni scatoloni di legno. Le voci mormoranti erano spezzate di tanto in tanto da uno scoppio di risa o da uno strillo acuto. Il Reverendo Bainbridge scendeva da una scala a chiocciola; Mace era a un passo dietro di lui, con in mano una lanterna. — E ho una visita — disse Mace. Una volta scesi dalla scala, Mace rimase accanto al reverendo e alzò la lanterna, illuminando il volto dell'ometto. — Questo è il Reverendo James Bainbridge — disse Mace. — Qualcuno di voi forse già lo conosce. Vieni dentro, Reverendo. Bainbridge sembrava terrorizzato e si mosse come un uccellino mentre seguiva Mace verso il centro della stanza, sparendo oltre il muro. Dalla scala a chiocciola arrivò un rumore soffocato e, quando i suoi occhi si voltarono verso quel suono, Jeff chiuse la bocca contro il gemito terrorizzato che gli sfociava dal petto. Le creature che lo avevano inseguito dalla palestra abbandonata si aggiravano attorno alla base della rampa di scale, annusando il pavimento, gli occhi scintillanti al chiarore della lanterna. Improvvisamente Jeff si sentì la gola impastata d'ovatta e, di riflesso, poggiò la mano su quella di Lily, provando il bisogno di toccare qualcuno, per rassicurarsi di non essere solo. — Togliti il cappotto, Reverendo — disse amabilmente Mace. — Mettiti a tuo agio. Qui siamo molto informali. Erano fuori dalla vista, nascosti dal muro, eppure Jeff riusciva a sentire i loro movimenti sopra la musica e le voci soffocate. — Nikki! — gemette Bainbridge, come soffrendo. — Dio mio, Nikki... — poi, rabbioso: — che cosa le avete fatto? Lily strinse la mano di Jeff. — Io non le ho fatto niente — disse Mace. Jeff sentì Lily irrigidirsi accanto a lui, e la vide fissare intensamente il muro a tre metri di distanza.
Mace disse: — Sei qui perché lo vuoi, vero Nikki? Debolmente: — Si. — L'avete drogata! — abbaiò il Reverendo. — Ah, sarà su di giri, ma ti assicuro che non è stata drogata, Reverendo. Qui nessuno è stato drogato e nessuno è qui contro la sua volontà. Nikki... perché non esci dalla piscina? — Io me la porto via — disse il reverendo, con la voce tremante. — Non credo che voglia andarsene. — Chiamo la polizia. — Reverendo, vorrei che conoscessi tre miei ottimi amici. Gli agenti Peter Wyatt, Jake Margolin e Harvey Towne. — Delle profonde voci maschili, confuse e malsicure, salutarono il reverendo. Uno di loro rise. — Ora sono fuori servizio, ma se pensi di aver bisogno di un poliziotto, sono sicuro che uno di loro sarebbe più che lieto di aiutarti. Dopo una lunga pausa, il reverendo sussurrò: — Avevo ragione. — Sembrava che la sua voce avesse perduto qualcosa — il senno, la speranza, forse entrambi — lasciando dietro di sé un suono vuoto e disperato. — Tu... tu sei... malvagio. Mace rise e disse — Vieni, Nikki. Il reverendo scongiurò: — Nikki, Nikki, ma cosa ci fai qui? — Diglielo, Nikki. Perché sei venuta? — Perché Mace mi... aiuterà con il mio... problema. — Digli quale problema. — Il mio... il mio bambino. — Oh Dio, Dio caro, non farlo, Nikki. — Bainbridge sembrava prossimo alle lacrime. Lily si poggiò una mano sulla bocca e si strinse forte a Jeff. — Nikki — continuò il Reverendo, e ora la sua voce era un sibilo disperato, — pensaci, pensa a quello che stai per fare. — Non posso tenerlo. Io... non posso. Io... non ho finito la scuola, mia... mia madre mi... mia madre... — Ma è... Nikki, è un... un... — ingoiò un singhiozzo — un peccato, un peccato orribile, un crimine morale! — Nikki — disse Mace, — il reverendo ti ha mai menzionato che quello che faceva a te era peccato? — Mmmm. Diceva che Dio avrebbe — ridacchiò — capito. E perdonato. — Ma questo è un omicidio!
— Sì. E qual è il termine per quello che hai fatto tu, Reverendo? — Rumore di passi, movimenti affrettati. — Adulterio? — La voce di Mace si fece dolce. — Fornicazione? — Ancora più dolce. — Forse... stupro? Jeff e Lily si voltarono l'uno verso l'altra. Lui vide negli occhi di lei la consapevolezza che provava anche lui: il Reverendo Bainbridge era il padre del bambino di Nikki. Lily nascose il viso tra le mani e scosse lentamente la testa. — È questo che hai fatto, Reverendo? — sussurrò Mace. — L'hai toccata così...? Così? Nikki mugolò, sospirò. — L'hai toccata — no, no, stai giù Nikki — l'hai toccata qui, Reverendo? Gli occhi di Lily bruciavano per la paura per la sua amica; sembrava pronta a sfrecciare nella stanza, oltre il muro. — No! — gridò Bainbridge. — Fermati! Fermati immediatamente! Mace rise. Nikki sussultò estasiata. Il Reverendo singhiozzò. Le voci sembravano più quiete, più attente a ciò che stava accadendo dall'altra parte del muro. — È questo che hai fatto? — sibilò Mace, con la voce untuosa, le labbra che schioccavano. — È stato così? — Io me ne vado! — urlò Bainbridge, strusciando i piedi sul pavimento. — Nikki, se tu solo volessi... — Qualcosa sibilò annaspante e rauco e Bainbridge ingoiò quanto stava dicendo con un singulto. Jeff riconobbe quel suono... Lily fece per alzarsi, ma Jeff le mise una mano sulla spalla e la tenne fermamente giù. Alla loro estremità della stanza non c'erano lanterne; dall'altra parte, a eccezione di qualche figura che si muoveva nell'oscurità fumosa, tutti erano dietro al muro. Se avesse fatto piano, Jeff pensò che la mancanza di luce dalla loro parte avrebbe potuto nasconderlo a sufficienza fino a farlo arrivare accanto al muro per poter guardare attraverso una di quelle aperture. Jeff si voltò verso Lily, si portò un dito alla bocca e le sussurrò all'orecchio: — Rimani qui. Lei gli rivolse un'occhiataccia, e inclinò la testa. Jeff avanzò nella stanza, muovendosi carponi, con i piedi che scricchiolavano appena sul pavimento, troppo piano per essere udito sopra la musi-
ca e il lieve brusìo delle voci. Mentre si avvicinava al muro, Jeff udì i leggeri mormoni di piacere di Nikki che si facevano regolarmente più forti, più intensi, udì Mace sussurrare e sghignazzare. Tra le voci si udivano schiocchi e lappate. Parlando con tono deliberatamente malevolo, Mace sussurrò: — È questo... che hai fatto... prima di piantare... il tuo seme in lei... Reverendo? Avvicinandosi al muro, Jeff sentiva come una cinghia di ferro che gli rendeva ogni respiro più difficile, stringendogli il cuore nella cassa toracica. Aveva la nuca madida di sudore. Quando raggiunse il muro, Jeff sbirciò cautamente oltre il bordo dell'apertura alla sua destra, afferrando immediatamente con un'occhiata i dettagli di ciò che stava avvenendo dall'altra parte. Sulla destra c'erano due chitarre appoggiate al muro, e tra alcuni amplificatori c'erano delle percussioni, una tastiera, e quattro delle oscure creature si arrampicavano sugli strumenti, annusandoli con curiosità. Oltre agli strumenti, in un angolo sudicio, Jeff vide ciò che sembrava un generatore. A circa due metri dagli strumenti c'era in effetti una piscina in cui si muovevano delle figure nell'oscurità. Alla sinistra di Jeff, Mace era in piedi nella parte bassa della piscina, di fronte al muro, con la sua figura alta e magra che si ergeva dall'oscurità sottostante. Distesa davanti a lui su due materassini dall'aspetto morbido, c'era Nikki, con le gambe aperte, nuda, a eccezione di una camicia blu aperta sul davanti. Ai suoi lati brillavano due lanterne, che facevano sembrare pallida la sua pelle. Aveva i capezzoli scuri ed eretti, e tra i seni c'era una croce nera di forma curiosa, attaccata a un cordino che le girava attorno al collo. Sul seno e sullo stomaco le brillavano delle scie di saliva. Il reverendo era in piedi accanto al suo viso, e alcune delle creature erano rannicchiate tra lui e Nikki: due di loro erano in piedi sulle zampe anteriori come guardie, con i denti scoperti e gli occhi minacciosi. Mace sorrise a Bainbridge, con le labbra e il mento bagnati; passò le mani sul corpo di Nikki, carezzandole e spremendole delicatamente i suoi seni pieni, facendole scivolare poi le dita tra le gambe. — Hai fatto questo, Reverendo? — sussurrò Mace, chiudendo le labbra su un dito bagnato e leccando gli umori. — O eri troppo ansioso di scopartela? Mace si fece avanti e lentamente, con lussuria, fece scivolare la lingua tra le labbra carnose della vagina di Nikki, muovendo la testa su e giù, su e giù, leccandola poi verso l'alto fino alla pancia, ai seni, succhiando rumo-
rosamente. Il respiro di Nikki era ansimante per i mugolii di piacere. — No! — Il reverendo scattò, ma aveva la voce debole. — Smettila, smettila immediatamente! Mace alzò la testa e ronzò: — Ti ricorda qualcosa, Reverendo? — poi premette a fondo il viso nella massa di pelo scuro tra le gambe di Nikki. Il corpo di lei si irrigidì, la testa le si piegò all'indietro, circondata dai capelli castani e brillanti, con la bocca che si apriva, si chiudeva, poi si apriva di nuovo mentre guardava in alto verso il Reverendo e sorrideva lentamente, mormorando — ...E... così... bello... Bainbridge borbottò freneticamente delle preghiere a fior di labbra. Il movimento nella piscina si placò. La musica continuava. L'acqua attorno a loro oscillava mentre Bainbridge si lamentava. Improvvisamente Nikki arcuò la schiena, e strinse le mani ai bordi dei materassini sotto di lei; emise uno strano gorgoglìo dalla gola e il piacere sul suo viso divenne improvvisamente confusione e paura. Le mani di Mace le scivolarono sul corpo, sullo stomaco; le sue lunghe dita le tennero i seni a coppa, pizzicarono i capezzoli mentre Nikki risucchiava aria in un lungo, disperato respiro. Jeff si rese conto che stava trattenendo il fiato, digrignando i denti fino a provare dolore alla mascella, e lentamente rilasciò il respiro. C'era qualcosa di sbagliato, di assolutamente sbagliato... Nikki sollevò i glutei dal materassino, premendosi su Mace mentre la testa di lui si contorceva e si girava, si piegava, sussultava, con i capelli che gli ricadevano sulle spalle sfregando le cosce di lei. La lingua di Nikki si protese rigidamente fuori dalla bocca nel tossire. Qualcosa scricchiolò dietro a Jeff e lui si voltò di scatto per vedere Lily che gli si avvicinava rapidamente. Pensando che lei non avrebbe dovuto vedere ciò che stava accadendo dietro al muro, lui agitò la mano perché tornasse indietro, ma lei continuò ad avvicinarsi, con occhi e bocca spalancati per la paura mentre si accovacciava dietro di lui e sbirciava oltre le sue spalle, con la mani aggrappate ai fianchi appena sopra la vita. Il corpo di Nikki si contorse, la testa sussultò avanti e indietro mentre la testa di Mace continuava a muoversi tra le gambe. Mace emise un profondo lamento dal petto mentre lei continuava a tossire, con il pugno destro che affondava nel materassino. Lily si strinse saldamente ai fianchi di Jeff e lui la udì ansimare. Lo stomaco di Nikki si mosse.
Jeff sbatté gli occhi diverse volte, incerto su quanto aveva visto. Si mosse di nuovo, si scurì, si inarcò poi si appiattì di nuovo. Il Reverendo alzò la voce: — Benché io cammini nella valle all'ombra della morte... L'intero corpo di Nikki si scosse. — Non avrò paura perché tu sei con me... Lei tossì di nuovo e gli sputi schizzarono dalla bocca finendo su di lei mentre lo stomaco le si alzava, si abbassava, si rialzava e lei apriva e chiudeva i pugni. — Il tuo bastone, la tua verga mi danno conforto... Gli occhi di Mace rotearono per fissare il Reverendo, poi allontanò il viso da Nikki, sghignazzando... — Tu imbandisci davanti a me una tavola alla presenza dei miei nemici... ...ma dalla sua bocca alla vagina di Nikki c'era qualcosa che filava... — Tu mi ungi il capo con l'olio... ...qualcosa di lungo, spesso e bagnato, con strisce scure di materia viscosa che filavano mentre si allungava sempre di più... — Il mio calice si riempie di b... bontà e m... misericordia... C'erano dei pezzi scuri attaccati mentre la cosa fuoriusciva da Nikki, rivestiti da una sottile membrana che filava, filava, filava... Il reverendo indietreggiò incerto, uscendo dalla visuale di Jeff, sbattendo contro il muro, balbettando: — Vade retro, Satana! Vade retro, Satana, vade retro! Nikki emise un rutto orribile mentre si sedeva sul materassino, poi ricadeva di nuovo. Con un rumore di carne martoriata, la lingua di Mace uscì da Nikki, arricciandosi verso l'alto come un serpente. Dalla punta pendeva un tocco viscido color rosso e nero, che gocciava, gelatinoso, avvolto attorno a un involto poggiato all'estremità della lingua di Mace. — Oh, Dio — balbettò il reverendo — Gesù caro, Padre Misericordioso che sei nei Cieli! Nel guardare Jeff si sentiva stordito, con la testa leggera, come se in qualche modo fosse scivolato negli incubi di qualcun altro. Spinse indietro Lily, cercando di tenerla lontana dal muro, ma lei si sporse di nuovo in avanti. Improvvisamente il grumo scuro di materia viscosa, che si avvicinava alla bocca spalancata di Mace, cadde nel buio e toccò terra con un tonfo umido, lasciandosi dietro l'ammasso della grandezza di una noce che Mace
succhiò sorridendo, tenendolo tra i denti mentre faceva una smorfia in direzione del Reverendo Bainbridge. Sollevò una delle lanterne e la tenne all'altezza della testa, illuminandosi il viso e il piccolo oggetto pallido che aveva in bocca. I suoi piccoli occhi, leggermente bombati... Le braccine minuscole... Quando si rese conto di cosa fosse quel grumo, lo stomaco di Jeff si contorse. La gola si tese e cercò di spingere indietro Lily, pensando Gesù Cristo questo non sta acccadendo veramente, non sta, non sta accadendo! — Nikki? — sussurrò Lily. Jeff si girò verso di lei e scosse rabbiosamente la testa, cercando di dirle di stare zitta. — Nikki? — ora la voce era più forte, roca e secca, e Jeff le premette le palme contro la bocca, allungando il collo per guardare Mace. Sogghignando, Mace chiuse i denti con uno scricchiolìo molle sul piccolo cranio a forma di bolla del feto, e dal mento gli colò un fluido scuro mentre cominciava a masticare rumorosamente, ridendo, carezzando le cosce tremanti di Nikki. Poi accaddero molte cose contemporaneamente: Jeff udì il corpo del Reverendo che scivolava sul muro e cadeva a terra con un gemito sommesso. Nikki girò la testa da un lato e vomitò. Lily si staccò da Jeff gridando Nikkiiiii! Nella piscina ci fu un mormorio sorpreso di voci e Mace sollevò gli occhi, scrutando oltre l'apertura del muro e posando lo sguardo direttamente verso Jeff, con il mento bagnato, le mascelle ancora in funzione. Jeff si staccò dal muro così rapidamente che quasi cadde. Si voltò e spinse Lily, annaspando un: — Corri! — mentre sentiva lo stridore e il raspare dei piccoli artigli sul pavimento di cemento che si avvicinavano al muro. — Corri, corri! — Ma Nikki... — Vattene, accidenti! — Le afferrò il braccio e la tirò via, inciampando su un pezzo di intonaco. Mentre rotolavano giù per le scale nella cantina, Jeff udì il rumore vizioso di denti in movimento dietro di loro, girò la torcia, fece un passo falso e per un istante rimase in aria, mani e piedi scomposti; poi toccò il pavimento con un grugnito, e un dolore pungente lungo la spalla. Sopra, delle grida.
Dei passi frettolosi. Un altro urlo acuto di Nikki, che ora suonava diverso, vuoto, rassegnato. — Tirati su — gridò Lily, afferrandogli un braccio. — Tirati su, Gesù Cristo, tirati su! Jeff ruotò sulla schiena, il raggio della torcia puntò verso l'alto, riflettendosi in una dozzina di occhi dorati che brillavano ai piedi della scala. Lily tirò, annaspando. — Subito, subito, subito! — e Jeff fece forza su mani e ginocchia, quasi strisciando, passando attraverso l'apertura nel muro, afferrandone i bordi, issandosi in piedi mentre anche Lily passava strisciando. Gli artigli raspavano sul cemento dietro di loro, i denti scattavano, e gli squittii gutturali emessi dalle creature gli mandavano nelle vene frammenti di ghiaccio mentre lui cadeva nel buco, quasi rotolando oltre il bordo della passerella, nel flusso veloce dell'oscurità sottostante. Davanti a lui c'era Lily, che gli tirava le maniche, balbettando: — Tirati su, dai Jeff per favore adesso tirati su... Lily girò gli occhi verso l'apertura alle sue spalle, si spalancarono e lei gridò indietreggiando, e sopra le sue urla, sopra i rumori della fogna, Jeff li sentì avvicinarsi dall'apertura e cominciò a strisciare, con la torcia che tagliava l'oscurità, lasciandoseli alle calcagna. Scalciando, sperando di colpirli, Jeff riuscì ad alzarsi, facendo scivolare la mano sinistra sul muro bagnato alla ricerca di qualcosa a cui afferrarsi. Mentre correva verso Lily vide il viso di lei contorto in una maschera d'orrore mentre agitava le braccia, gridando: — Gesù, oh Dio, ti sono proprio dietro... Jeff si voltò di scatto e scalciò contro il cemento, buttandone giù tre dalla passerella, poi scalciò di nuovo per colpire gli altri che gli si avvicinavano correndo. Una delle bestie si alzò sulle zampe posteriori, sibilò e si gettò in aria verso di lui con le zampe divaricate. Jeff cercò di saltare indietro ma perdette l'equilibrio, frustò l'aria con le braccia e cadde, sprofondando nella corrente delle acque della fogna. Lily gettò un urlo acuto. Jeff si dimenò nel liquame, boccheggiando, ancorò i piedi al fondo e si aggrappò al bordo della passerella, cercando di tenere la torcia al sicuro sopra la testa. — Esci da qui, Lily! — urlò. — Trova un tombino ed esci!
— No, accidenti, dammi... — Vai! Io vengo subito! — Mise le braccia sulla passerella e fece per tirarsi su mentre i passi di Lily si allontanavano. Il liquame gli arrivava alla vita, intorno a lui si muovevano grumi scuri che gli si appiccicavano alla giacca, e l'odore rancido gli riempiva le narici e la gola. Qualcosa lo afferrò per la giacca e lui guardò in basso, accorgendosi che una delle creature gli si era aggrappata con i denti, le narici piatte che soffiavano, gli incisivi che gli strappavano la stoffa. Jeff non poté trattenere un grido che gli sconquassò il petto mentre, oscillando precariamente per la forte corrente, abbassava di colpo il manico della torcia, colpendo la creatura tra gli occhi. L'animale cadde giù. Jeff cercò di nuovo di tirarsi su, e davanti a lui apparvero improvvisamente un paio di stivali neri. — Aiuto! — esclamò senza guardare verso l'alto. — Aiuto, per favore! Una grande mano gli afferrò il braccio e lo tirò fuori dal liquame senza sforzo, poggiandolo sui piedi. — Sei il benvenuto, se resti — disse gentilmente Mace. Jeff sussultò e fece un passo indietro. Il mento di Mace era ancora scuro e gocciolante; tra i denti aveva pezzetti carnosi. Jeff gli puntò contro la torcia come se fosse un fucile. — È morta? — gracchiò Jeff. — L'hai ammazzata? — Nikki? No, certo che no. Sta bene. Ho fatto solo quello che lei voleva. Un altro passo indietro. Dietro a Mace tre delle creature annusavano l'aria intorno; una di loro si strofinò contro la sua caviglia come un gattino. — Se rimani — continuò Mace — forse c'è qualcosa che vuoi, qualcosa che io posso... Jeff si allontanò di parecchi passi. — Che cosa sei? Il sorriso di Mace era impregnato di tanto calore che per un momento Jeff si sentì confuso, pensando che forse scappar via non era la cosa giusta da fare, che forse Mace dopotutto non era così cattivo, perché sembrava sincero, leale... Ma sui denti, sulle labbra, aveva ancora avanzi sanguinolenti e scuri, e Jeff ricordò immmediatamente quello che aveva visto dentro, quello che Mace aveva fatto. Jeff non capiva ancora, ma ricordava...
— Che cosa sono io? — Ripeté pensoso Mace, asciugandosi il mento con il dorso della mano. — Io sono... un amico. È tutto. Solo un amico. Jeff si girò e si incamminò in direzione di Lily. — Ricordatelo — chiamò Mace mentre Jeff trovava il tombino aperto e vedeva il viso di Lily che scrutava dalla strada piovosa sovrastante. Afferrò le maniglie e cominciò a salire. — Ricordatelo, perché presto avrai bisogno di un amico. Avrai bisogno di un amico. — Con un ridacchiare fesso, echeggiante, Mace aggiunse: — Fratellone. Titolo originale: Crucifax Autumn: Chapter 18. The Censored Chapter (1988) ESCRESCENZE Richard Christian Matheson Cosa?? Un altro racconto di R.C. Matheson? Be', dato che "Rosso" è di sole 650 parole circa, ho pensato che fosse più prudente offrire a Richard una seconda opportunità, per fargli dimostrare cosa è capace di fare quando si dilunga un po'. E poi, "Rosso" è fondamentahnente un tentativo serio di farvi scappar via. "Escrescenze" è tutto al contrario. Su Rolling Stone ci hanno visto giusto definendo Richard Christian Matheson "uno dei pochi autori pieni di risorse, di vera paura, che aiutano a creare una nuova sensibilità nella fiction dell'orrore, coraggiosa, paurosa e impietosa come il mondo moderno stesso." Ciò che apparentemente non sapevano era che R.C. è conosciuto sia per le sue commedie sia per i suoi horror. Con le sue sceneggiature e i suoi lavori di produzione, Matheson ha lavorato con giganti della comicità come Mel Brooks e Goldie Hawn, esercitando una piega ironicamente nera che R. C. descrive come "uno humor dell'aberrazione dei personaggi, un horror psicologico che diverte piuttosto che inorridire." Comunque sia, io definirei "Escrescenze" come una corsa sulle montagne russe, con un pizzico di satira. E ora, reggetevi forte. E non abbiate paura. I racconti dell'orrore non vi possono fare realmente del male. O si? ...e così fu in quella serata folle, illuminata dalla luna. La fetida creatu-
ra scomparve inesplicabilmente così come era stata generata. E nonostante il signor Edworthy non avrebbe mai detto alla buona gente di Frankshire che oscena angoscia avesse sofferto, non avrebbe mai dimenticato. Perché in quella sperduta frazione, all'estremità della costa scozzese, il male era entrato non solo nel corpo di un uomo, ma nella sua anima. Il Male che, grazie a Dio, era finalmente scomparso. O almeno questo è ciò che credeva Edworthy. Fino a che improvvisamente non sentì quel rosicchiare orrido e affamato. Quello che aveva imparato a temere. E i compaesani impauriti sentivano le sue urla torturate mentre accendevano le torce e si incamminavano sulla strada bianca che portava alla fattoria di Edworthy. Ma non parlarono mai più di ciò che trovarono. Dimenticarono in fretta, come si fa con gli incubi. Andy chiuse l'antologia e rabbrividì. Non male, quel racconto horror. Davvero non male. Cade la notte era una raccolta terrificante che racchiudeva storie veramente snervanti, incluse alcune del miglior horror che avesse mai letto. Quella del confessionale infestato dallo spirito del prete morto da tempo lo aveva veramente scosso. E quella sull'uomo cannone del circo che mangiava le sue vittime curiose era di un fascino sorprendente. Ma era l'ultima, "Il destino di Edworthy", che stava cominciando a gelarlo davvero dalla paura. Mentre scivolava sotto le coperte, mise la raccolta sul comodino e spense la luce. Coprendosi, rabbrividì. Cristo, aveva veramente la pelle d'oca per tutto il corpo. Questi scrittori di horror erano sorprendenti. Sapevano esattamente cosa serviva per far accapponare la pelle. E una volta preso il via, le loro frasi, i loro aggettivi erano come acido che corrode la mente. Quando uno di quei racconti funzionava, saltava letteralmente fuori dalle pagine. Andy notò che il suo stomaco era un po' teso e sorrise. Quale tributo migliore per lo scrittore di "Il destino di Edworthy". Un povero lettore, steso nel buio, con gli occhi spalancati, lo stomaco contratto dai nervi.
Strana maniera di guadagnarsi da vivere, pensò. Prendendo fiato, cercò di svuotare la mente dalle immagini terrificanti create da quel racconto. Mentre lo faceva, si grattò distrattamente il dorso della mano sinistra e sentì qualcosa. Accidenti alle zanzare, mugugnò, grattandosi la protuberanza simile a un pizzico appena sopra le nocche. Devono essere entrate dalla finestra del bagno. Stava quasi per alzarsi a chiudere la finestra, ma, grattando più forte, gli si spalancarono di colpo gli occhi. Si muoveva. Sotto la pelle, la protuberanza si era incamminata verso l'alto, in direzione del polso, come una smagliatura che dal fondo del calzino raggiunge la punta. Accese rapidamente la luce e gli si contorse lo stomaco mentre guardava il lento movimento di risalita fino al polso. Nel camminare la protuberanza spingeva la pelle verso l'esterno, gonfiandogli leggermente l'avambraccio, come se Andy avesse in corpo una bolla d'aria vagante. Nel risalire ancora più su verso il braccio di Andy, il movimento verso l'alto lasciava una scia rossa, che gli faceva rizzare i peli del braccio. Per un momento fu troppo impaurito per muoversi; alla fine raggiunse il telefono e cominciò a formare il numero del suo dottore. Ma fu fermato dalla sensazione dell'escrescenza che gli risaliva sul braccio sinistro e attraversava le spalle prima di riscendere per il braccio destro, verso la mano. Sconvolto, Andy lasciò cadere il ricevitore e si precipitò verso l'armadio per guardarsi allo specchio a figura intera. Alzò lentamente il braccio destro e gli si seccò la bocca. Lì, al centro del palmo, c'era l'escrescenza, che pulsava debolmente, scuotendosi come un animale in trappola. Nel silenzio di tomba, guardò la cosa continuare a girovagare sotto la pelle delle palme, correndo da una parte all'altra a casaccio. Come se aspettasse impazientemente qualcosa. Ma cosa, si chiese, decidendo di provare a toccarla. Riusciva a vedere come gli tirava la pelle, ma non era sicuro di quanto fosse grande. Sentendosi in procinto di perdere le capacità mentali, piegò con cautela la mano sinistra e la lasciò sospesa sul palmo destro. Tirando un respiro profondo, affondò verso l'escrescenza, cercando di afferrarla con la mano sinistra. Ma quella si era già spostata e lui restò a guardare in preda al panico
mentre cominciava a risalirgli per il braccio destro. Al suo passaggio lasciava una traccia di circa due centimetri di pelle rossa e gonfia. In preda all'angoscia, Andy la afferrò di nuovo mentre saliva oltre il gomito. Ma si spostava troppo velocemente per lui, e ora scendeva sulla schiena. Istericamente, si percosse la spalla, cercando di impedire all'escrescenza di muoversi ancora. Ma anche se riusciva a sentire la protuberanza sotto la mano, questa scivolò via rapidamente e cominciò a serpeggiargli sul petto. E, in quel momento, cominciò ad accadere qualcosa di nuovo. Mentre Andy sfrecciava nella camera da letto, strappandosi di dosso la camicia del pigiama, provò un'agonia stritolante e mordente sulle zone dove si era mossa l'escrescenza. Guardandosi nello specchio della toeletta, vide lividi nodosi dove prima c'erano state le strisce di tessuto infiammato. E mentre l'escrescenza gli trapassava il petto, lui percepì un bruciore tortuoso sul busto. La cosa sembrava segargli la carne. Sapeva che non c'era modo di guidare fino al pronto soccorso. In qualche modo la cosa lo avrebbe fermato, e lui tremò al pensiero di cosa avrebbe fatto se solo ci avesse provato. Il dolore lancinante ritornò improvvisamente; l'escrescenza gli correva sul corpo ancora più selvaggiamente. Annaspando, corse in cucina e tirò via un cassetto, ma nel farlo la protuberanza gli scivolò attorno alla vita nuda come un mulinello: in pochi secondi gli attraversò la schiena e si sistemò sulla spina dorsale, dove ricominciò a torturarlo. Mentre saliva per la colonna vertebrale, Andy riusciva a sentirla spremere e fare in pezzi il tessuto spugnoso, cercando di raggiungere le diramazioni nervose. Urlando dal dolore, Andy si gettò sul pavimento e rimase sdraiato sulla schiena, premendo forte, cercando di schiacciare l'escrescenza. Così facendo sentiva che questa si portava all'interno del rivestimento spinale, divorando i nervi. Mentre il bozzo continuava a infilarglisi in corpo, facendo festa con le polpose giunture nervose, scavando la pelle, appena a un centimetro sotto l'epidermide, il viso di Andy si fece rosso fuoco. Urlava, ma non usciva alcun suono. Allungato completamente sul pavimento della cucina, guardò giù e vide l'escrescenza che risaliva lentamente una gamba per arrivare agli organi interni.
Per un istante aprì la bocca per la repulsione mentre la protuberanza si fermava un attimo, esattamente sopra l'appendice e gli intestini, poi cominciava di nuovo a pulsare. Per la prima volta si accorse che stava diventando più grande, mentre ingeriva la sua carne viva per nutrirsi. Andy aveva voglia di vomitare. L'escrescenza cominciò a rosicchiargli gli intestini, e il suo urlo di terrore ricominciò. Per la prima volta, adesso sapeva di che aveva bisogno quella cosa per sopravvivere. Mentre quella continuava a banchettare dentro di lui, Andy si sforzò di rimettersi in piedi, barcollando verso il cassetto della cucina, raggiungendolo. Dal suo interno tirò fuori un grosso coltello da macellaio che brillò sotto la luce fluorescente. Ma in pochi secondi, come se lo avesse visto, l'escrescenza si mosse. E questa volta Andy gridò, attanagliandosi le mani sul volto e tremando. In qualche modo l'escrescenza gli aveva raggiunto il viso e ora gli distorceva i lineamenti, facendosi strada sotto la pelle, divorando ciò che potevi. Impugnando saldamente il coltello, Andy barcollò verso il bagno annesso alla camera da letto e si guardò allo specchio. L'escrescenza era immobile sulla guancia destra. Solo che ora era molto più grande: le dimensioni di un uovo. E mentre Andy la fissava insistentemente, quella ruotò sotto la superficie della pelle livida, mostrando la parte opposta... Gli incisivi si distinguevano appena sotto lo strato di pelle, ma senza dubbio stavano ricominciando a muoversi. E, mentre lo facevano, lui sentì immediatamente il dolore. L'escrescenza lo stava consumando. Andy riusciva a sentire il rumore della carne del viso che veniva devastata, mentre il bozzo insaziabile continuava a crescere con ogni singolo pezzo strappato che mangiava. E anche se gli urli lo facevano tremare, non esitò. Puntò il coltello direttamente sul viso e cominciò a colpire quella mostruosità che però evitava i colpi, quasi potesse prevedere ogni mossa. Il viso gli sanguinava copiosamente dai tagli profondi, e Andy rimase a guardarsi attraverso quel lago di rosso che gli copriva gli occhi per individuare il punto dove sarebbe ricomparsa l'escrescenza.
Urlò perché se ne andasse, e improvvisamente sentì di avere qualcosa in bocca, che la riempiva come una vescica gonfia. E nonostante cercasse di urlare, l'escrescenza coprì tutto, attaccandosi alla lingua. Andy spalancò la bocca e ci mise dentro il coltello. Sbirciando la sua immagine nello specchio, cominciò ad affondare il coltello in bocca, convulsamente, colpendo l'escrescenza e facendola sprizzare fluido. Aveva un sapore acre, che colò giù per la gola di Andy, mentre lui continuava a colpirla. Poi accadde. Improvvisamente l'escrescenza era sparita, e Andy riusciva a vedere solo le selvagge mutilazioni della bocca, che gocciava la sua umidità sanguinolenta giù per la camicia. Si cercò addosso, ma non riuscì a vedere o sentire l'escrescenza da nessuna parte. Per un attimo, il dolore era svanito. Inesplicabilmente la cosa si era fermata, e ora era tutto calmo. O almeno questo era ciò che pensava Andy. Fino a che improvvisamente il dolore gli ricominciò sulla testa. La fronte iniziò a gonfiarsi orribilmente, facendolo sembrare un qualche essere primitivo e terrorizzato. La fronte continuò a emergere e il dolore attanagliante aumentò tutt'intorno, concentrandosi attorno al cranio. Poi, in un flash accecante, lui capì cosa stava accadendo, mentre sentiva che la cosa gli discendeva lungo il cervello urlante. E anche se i vicini sentivano gli urli echeggiare per le strade, nessuno chiamò la polizia prima che fosse decisamente troppo tardi. Era un pomeriggio caldo e la campagna si cullava piacevolmente sotto il cielo estivo. Mentre potava amorevolmente i garofani, il campanello attrasse la sua attenzione. Sbadigliando si avvicinò alla bicicletta del postino. Il postino suonò ancora una volta il campanellino agganciato al manubrio, e sorrise. — Un sacco di roba oggi per lei, signor McCauley. Il vecchio sorrise con naturalezza. Mentre si faceva più vicino, trasse un respiro profondo, guardando i bei fiori che sbocciavano in abbondanza davanti alla sua pittoresca casa di campagna. Gli insetti ronzavano attorno al giardino colorato. — Conti da pagare, senza dubbio — chiocciò il vecchio, accettando la
manciata di buste. — Credo che ce ne sia una dal suo agente negli Stati Uniti, signore. Le sopracciglia del vecchio si alzarono per l'interesse, e cercò tra le buste. In pochi secondi l'aveva aperta. Mentre leggeva la lettera, il postino lo guardò con aria inquisitrice. — Ha venduto quel romanzo dell'orrore, vero? Il vecchio scosse la testa, con un sospiro rilassato. — No, quegli editori di New York ancora non hanno fatto un'offerta definitiva. Il postino sembrò deluso. Il vecchio lo sbirciò con un'occhiata. — Però ci sono delle buone notizie. Sa quel mio racconto che lei odia così tanto? Hanno richiesto di ristamparlo in un'altra antologia. — Quante volte sono, con questa? — Più di duecento — rispose l'uomo, sul punto di voltarsi e riprendere il sentierino verso casa. — "Il destino di Edworthy" non mi ha mai fatto venire escrescenze — disse il postino. — Lei è fortunato — disse sorridendo il vecchio mentre ritornava ai suoi fiori canticchiando una canzone. Titolo originale: Goosebumps (1987) ADDIO, OSCURO AMORE Roberta Lannes A differenza di molti degli altri scrittori di questa antologia, non ho mai incontrato Roberta Lannes (abbiamo solo chiacchierato al telefono). Ma ho ricevuto da lei una breve nota assieme al contratto che mi autorizzava a ristampare "Addio, oscuro amore" (apparso per la prima volta nella gratificante antologia Cutting Edge, edita da Dennis Etchison, del 1986). La Lannes faceva osservazioni interessanti sia sul suo racconto sia sulla fiction splatterpunk: eccovi un estratto di quella nota, datata 10 gennaio 1990. "Addio, oscuro amore" è stato scritto prima che fosse coniato il termine splatterpunk per descrivere il genere di orrore intessuto dei suoi opinabili eccessi. Certo è che il sesso esplicito e la violenza del mio racconto lo qualificano come estremo, ma non eccessivo. Lo splatterpunk, con la sua
caratteristica gratuità di sangue, viscere, interiora e sesso esplicito intende disgustare e gratificare gli istinti più bassi del lettore. Io scelgo di usare gli estremi quando questi possono spingere un racconto nel regno della piena sensualità, dell'esperienza. Descrizioni accurate, usate con parsimonia, riescono dove l'eccesso soffoca e quindi sottrae al corpo del lavoro. Il soggetto di "Addio, oscuro amore" è penetrante, e merita quindi di essere trattato come importante, piuttosto che come un mero veicolo per risucchiare il lettore a provare un'esperienza di valore sconvolgente. Io scelgo invece di creare nel mio lavoro il potere che solo l'esperienza personale potrebbe altrimenti evocare. Non sono una splatterpunk. Una stilista esplicitamente narrativa, sì. Una snob letteraria, forse. Sigh. Un altro scrittore che non è splatterpunk. Ah, bene. Le opere della Lannes erano apparse anche nelle antologie Lord John Ten e Fantasex e nelle fanzine Iniquities e Fantasy Tales. Prima di vendere questo genere, la Lannes aveva pubblicato su riviste letterarie e antologie specializzate in poesia. Attualmente sta lavorando a un romanzo intitolato The Glass Tomb. Mi ricordo ancora la sorpresa provata leggendo "Addio, oscuro amore" in uno squallido pomeriggio d'inverno su un treno tra Tarrytown e Philadelphia, in Pennsylvania. Nel suo piccolo (perché è senz'altro più un frammento che un pezzo completo), l'"Addio" è veramente distruttivo. Riesce a far essere eccitante la necrofilia (dal punto di vista di una donna!) mentre risolve con soddisfazione l'oltraggio morale che la Lannes ovviamente prova verso un tabù sociale particolarmente primario e complesso. Un'ultima cosa: comunque decida di descriverlo la Lannes, "Addio, oscuro amore" è anche, indubbiamente, una bestiolina malata. Marla fece scorrere le dita sulla piega della vestaglia di ciniglia e la aprì anteriormente, poi si piegò sul letto dove giaceva il corpo, immobile, assolutamente morto. Si fece scivolare la vestaglia dalle spalle. Cadendo sul pavimento, questa fece un suono soffocato, come quello di un'ala di cigno che sbatte nell'aria. Lei guardò in basso il suo seno, poi guardò la forma che ingrigiva lentamente. Afferrandosi un capezzolo, con l'altra mano toccò il corpo e la stupenda erezione che si ergeva oltre la spessa fascia elastica. Strinse con la mano quell'asta mentre manipolava il capezzolo fino a farlo rizzare. Il respiro divenne un ansito, mentre saltava sul cazzo duro come un sasso modellandosi, toccandosi, eccitandosi. Le sue dita scesero fino alla vagina, divisero le labbra, trovarono la punta carnosa. Da toccare. Da stuzzicare. Vi-
brante per l'impazienza. Sentì il suo corpo che sprofondava verso l'orgasmo. — No, no — sussurrò. — Non in questo modo. Lo lasciò, e si tirò su, ritirando la mente dai luoghi che aveva visitato. Si obbligò a pensare all'esterno, alla fermata dell'autobus dove altra gente stava aspettando che la vita ricominciasse, scambiandosi bugie e occhiate caute. Ascoltò le loro voci distanti. Rumori di motori. Udì il suo orologio da polso. La radio che suonava piano nella stanza di fronte. Musica. Che suonava. Lontano. Calmante. Un grido. Il bambino. Il bambino della signora Lopez. Maria sorrise. Così perfetto. Così nuovo. Così... ma no. Afferrò più saldamente l'erezione. Lussuriosa. Riusciva solo a volere. Lo montò. Spinse l'asta color bietola verso l'apertura del suo calore e vi si tuffò sopra. Orgasmo. Ancora e ancora. Cavalcandolo. Un ghiacciolo implacabile nel suo gelo contro il suo tepore vivente. Improvvisamente il tanfo acido di urina la colpì. Ormai non si poteva ignorare. I ricordi dei gabinetti pubblici nei parchi, in città, sulle passeggiate delle navi, alla stazione degli autobus. Fetido. Freddo. Muri grigi e scuri con rotoli bianchi di carta igienica appesi, disegni fecali come il tentativo di un artista folle di lasciare un segno. Perché lì? Perché aveva sempre voluto farlo lì? Lì. Allora. I giorni migliori. Quella volta che l'aveva portata alle corse. Era caldo, c'era il sole. Lei aveva il vestito estivo nuovo che le aveva comprato lui. Rosa. Attillato. Lui aveva vinto per lei un peluche a forma di piovra, le aveva comprato lo zucchero filato, era salito sulle montagne russe con lei. Quando si erano imbattuti in due uomini con cui lavorava, lui l'aveva presentata come "la mia donna". Loro le avevano sorriso e gli avevano detto che era magnifica. Una doccia fredda. Quel giorno lui l'aveva guardata. Guardata veramente. Come se la vedesse per la prima volta. Le aveva fatto sperare che le cose potessero cambiare. Forse. Un giorno. Si rivide com'era allora, fece una smorfia, si guardò in quel momento, in quel posto, impalata sul suo cazzo senza vita, estatica. Una volta tanto, faceva le cose a modo suo. Il bussare alla porta la fece saltare. Lei si gelò. Le venne un crampo a un piede. Non riusciva a sentire voci,
nessun suono se non il suo respiro stravolto. Come un colpo di pistola, un altro bussare. Non poteva essere una cosa importante. Non c'era nessuno. Il panico la consumava. Lei strinse i denti. Poi, in silenzio, i passi segnarono la ritirata dello sconosciuto, chiunque fosse. Maria sospirò, rilassandosi. Dal profondo di lei salì un'angoscia sottile, quasi un dolore leggero, che spezzò quella fame lussuriosa, serpeggiandole su fino alla gola, fino a che tra le labbra non le passò un grido sottile. Le sue amiche. Dov'erano adesso? Una volta lui le aveva accolte, aveva goduto delle loro risa, della loro calda compagnia. Poi, una per una, gliele aveva proibite. Lei non aveva mai visto gli amici di lui. Erano una parte del suo mondo, un mondo che, come diceva lui, era meglio che lei non conoscesse. Un mondo di cui lei non si permetteva mai di essere curiosa. Dopotutto, lei aveva qualcuno che l'amava, qualcuno che la proteggeva. Le sue amiche no. Lei aveva lasciato che lui divenisse il suo mondo, e si era lasciata essere quella parte del mondo di lui che poteva essere. Poi era venuto il giorno in cui aveva capito che lui l'aveva protetta troppo bene. Si staccò da lui e si alzò. Camminò attorno al letto, rimettendosi la vestaglia, guardandolo. Il volto era ancora bello, anche nella morte. Gli occhi azzurri che la fissavano spalancati. Le narici aperte. Il naso aquilino. Le labbra piene, socchiuse. Invitanti. Lei mise il viso vicino al suo. Riusciva a sentire l'odore familiare dell'alcol. Pungente. Coprì le labbra con le sue. La sua lingua cercò gli angoli caldi, familiari. Lui assorbì il calore di lei, ma non lo trattenne. Lei lo carezzò e sentì il ruvido della barba che gli cresceva sulle guance fredde. La luce ambrata e ambigua delle antiche ombre giallastre dava alla stanza un'atmosfera da sogno. Sola ora, accanto a lui, lei aveva il suo sogno. Il sogno che aveva sempre avuto troppa paura di riconoscere, anche a se stessa, per così tanto tempo. Il sogno di poter scegliere. Un altro uomo, uno qualsiasi, ma non lui. Lei non sapeva quando era scattato il suo amore, la sua lussuria, il suo bisogno di lui. Quando il suo arrivo l'aveva fatta sussultare. Quando l'odore di lui l'aveva fatta allontanare. Quando il suo tocco l'aveva nauseata. Ma quando tutto ciò era cambiato, era cambiata anche lei. Lentamente. Inesorabilmente. E, alla fine, irrimediabilmente, completamente. Ciò che c'era fra di loro non sembrava più dolceamaro, elettrico. Lei si era resa conto
che lui combatteva una battaglia, e lei era il suo inconsapevole nemico. Era stato lui, vittorioso, sabotatore, astuto, brutale, incessante. Un esercito formato da una sola persona, in una guerra senza causa politica, senza provocazioni, senza ragione. Un giorno era giocherellone, amichevole. Il giorno dopo era crudele. E per tutti i giorni successivi, fino a che qualcosa in lei aveva trasformato la sua devozione in un seme d'odio. Il seme si era moltiplicato in una manciata, un secchio, un barile, fino a che niente aveva potuto più contenerlo. Fino a quel giorno. Lui le aveva lasciato i suoi soldi, i suoi possedimenti, ma ora non erano importanti per lei. Voleva qualcun altro. Un qualsiasi uomo che l'amasse teneramente, apertamente, con gentilezza. Un uomo lo avrebbe fatto. Adesso poteva scegliere. Si lasciava dietro le catene. La sua morte era il permesso finale. Le lasciava la sua vita. Che lei avrebbe adorato. Lo guardò, dura. In lei fluì un nuovo potere. — Non mi dirai più che nessun altro può avermi. E non ti sentirò mai dir bugie: che nessun altro, se non te, mi può far venire. Rimase in ginocchio accanto al suo viso, lasciando che la vestaglia si aprisse. Le sue dita andarono allo spacco tra le gambe, dividendo le labbra tumide, toccandosi la carne rigonfia all'interno. Le dita si muovevano veloci, affamate. L'altra mano sollevò un seno fino alla bocca. La lingua serpeggiò sul capezzolo, stuzzicandolo fino a farlo diventare rosso e duro. — Guardami... — La sua voce era un sussurro gutturale. Lei si cullò sulle dita, mugolando. Cadendo all'indietro sul letto, esausta, annaspò, strozzandosi. L'aveva rovinata. Rimase qualche minuto fino a far rallentare il respiro. Poi si tirò su sopra un cuscino e raggiunse il pacchetto di sigarette sul comodino. Ne accese una. Soffiò il fumo sul viso di lui. Mentre aspirava voluttuosamente, giocò con le piccole cicatrici che aveva sullo stomaco e sul petto. Girando il mozzicone tra le dita, premette la parte accesa nella carne che ricadeva rugosa e umida dalla mascella di lui. La sigaretta si spense con un suono profondo. In quell'istante si ricordò di una sera dopo una lunga giornata sulla spiaggia. Lei si era scottata di brutto, aveva le vesciche. Lui era così preoccupato. Le aveva passato dell'olio, delle compresse fredde. Tutta la notte, fino a che finalmente si era addormentata, le aveva tenuto un cubetto di ghiaccio tra le labbra gonfie, sussurrandole parole dolci per calmarla. La mattina successiva, prima che fosse completamente sveglia, era su di lei, a prendere quello che, come diceva, gli era dovuto. Il dolore...
— È bello? Tu mi dicevi che il dolore e il piacere sono così vicini. Così vicini. Fa lo stesso effetto anche a te? Bastardo! Cosa ne sapevi? Tu volevi solo marchiarmi a vita, così che nessun altro mi avrebbe voluta. Volevi esserne sicuro, vero? Tu mi amavi. Facendomi male. Sapendo che avrei dovuto mentire a tutti quelli che le scoprivano. Sapendo che le bugie sarebbero state inutili perché chiunque avrebbe potuto dire cos'erano. Sapendo che nessuno avrebbe sospettato di te. No. Solo Maria, la strana, poteva far questo a se stessa. Ah! Si accese un'altra sigaretta. L'impianto dell'aria condizionata ansimò, poi sbuffò una volta prima di ronzare di nuovo. La sua scura mole rugginosa nella finestra faceva filtrare all'interno i rumori della strada. Lei aveva spesso immaginato che fosse un'immensa radio che trasmetteva la musica della città. Il battere sordo. I gemiti. Il fischio del vento. Il ruggito dei motori. Lo scrosciare della pioggia. Le sirene. L'unica musica che riusciva a capire. Lui l'aveva chiamata strana, stupida. Non aveva mai capito niente. Lei gli bruciò una guancia. I peli friggevano. E puzzavano. Riusciva a sentire l'autobus che si fermava. I freni strillarono. Tutti i bugiardi, gli stupratori, gli imbroglioni, le carogne, i maniaci al telefono, gli importuni, gli accomodanti, i veri pazzi là fuori. Impacchettati per viaggiare verso i loro inferni personali. E presto altri ne sarebbero arrivati. In piedi nella loro rabbia senza fine, a nascondere la loro delusione, celando false speranze dietro ai sorrisi della TV. Dopotutto, cos'altro c'era nel mondo? Che cosa? A una a una, lei fece delle piccole bruciature sul petto di lui fino a che cominciò a prendere forma un cuore. La ferita, come il soffiare di un gatto lontano, la calmava. Richiudendosi la vestaglia, lei guardò giù alla forma di cuore tatuata tanto tempo prima sul suo stomaco. Non sorrise. Non era bello, per lei. Né lo sarebbe stato per qualsiasi altro. Lui lo sapeva. Gli spense la sigaretta sull'ombelico. Cominciava a puzzare. Come merda. Come verdura in scatola andata a male. Come muffa e piscio e sudore e vomito e nausea. Aveva i conati di vomito. Accese la fiamma dell'accendino per farla bruciare come una torcia. Con la punta della fiamma gli toccò un occhio. Si aspettava quasi che si chiudesse, per riflesso. Invece si gonfiò e scoppiò. Trattenne il fiato. La fiamma bruciò lentamente tutto l'occhio, lasciando un pozzo nero profondo e fumoso. Cominciò con l'altro occhio. In preda ai conati di vomito, lasciò perdere.
Era giunto il momento. Andò in cucina e trovò un grosso coltello da macellaio, una scatola di candele profumate, e sei resistenti buste per l'immondizia. Accese prima le candele, sistemandole per tutta la stanza. L'odore di lui sembrò attenuarsi. Poi si mise attentamente a smembrare il cadavere. Cercò di fare un lavoro pulito. Era molto più difficile di quanto avesse creduto. Per arrivare fino all'osso doveva poggiarsi sul coltello con tutto il suo peso. Riempì le sei buste con il corpo, ora più facile da portare, le lenzuola del letto, e la sua vestaglia. Annodò le estremità. In cucina lavò il coltello e lo rimise dove l'aveva trovato. Poi si fece una lunga doccia bollente, si asciugò, si vestì, riempì tre valigie e cominciò a sistemare. Passò di stanza in stanza, ricordando. Erano piene di memorie, molto belle. Le tendine che le aveva portato, proprio quelle che voleva. Il divano e la poltroncina che aveva visto nel catalogo Sears che lui voleva tanto. Sul lavandino c'era la sua spazzola, ancora piena dei suoi morbidi capelli castani, tendenti al grigio. Il paio di occhiali da lettura che lui portava per leggere la Guida TV. Lei adorava guardare la TV insieme a lui. Andò al telefono e chiamò un taxi. Si maledì per essere troppo giovane per guidare. Fra pochi mesi avrebbe avuto sedici anni. Allora sarebbe tornata per prendere la macchina di lui. Fino ad allora, avrebbe dovuto pazientare. Finalmente trascinò le sei sacche, una per una, alla porta di servizio. Aprì la porta é le sistemò sul vicolo. Chiuse a chiave la porta, fissando in basso le sei sacche nere e brillanti, legate accuratamente. Si allontanò pensosamente. Davanti casa risuonò il clacson del taxi. — Be', credo che sia proprio ora di dirci addio, paparino. Grazie di tutto. — Scosse le spalle. — Grazie per niente. Lasciò che il taxista le prendesse le valigie. Rimase davanti alla porta di casa cercando di ricordare com'era stato amarlo. Non provò nulla. Chiuse a chiave la porta e si incamminò verso il mondo che l'aspettava. Titolo originale: Goodbye, Dark Love (1986) A TUTTO GAS Philip Nutman
Mentre mettevo insieme questo libro, ho richiesto agli scrittori che vi hanno contribuito delle informazioni bibliografiche per poter tratteggiare queste introduzioni. Una delle migliori è arrivata da Philip Nutman, di cui cito la risposta (completa): All'età di ventisette anni, Philip Nutman è il più giovane scrittore di splatterpunk di questo libro. Nato a Londra, in Gran Bretagna, è cresciuto a Bath, l'antica città occidentale dove viene ambientato "A tutto gas", ma è ritornato a Londra adolescente, dove ha lavorato per la BBC. Ha cominciato a scrivere in giovane età, ha pubblicato per la prima volta a quindici anni e ha alle spalle dieci anni di giornalismo. Come corrispondente inglese della pubblicazione Fangoria ha intervistato la maggior parte dei più importanti scrittori e registi del genere, ha passato troppo tempo a farsi spruzzare di sangue sui set cinematografici, e ha visto più film dell'orrore di quanti ne voglia ricordare. "A tutto gas" è il suo terzo lavoro di fiction pubblicato in antologia. Wet Work, un romanzo basato sul romanzo breve Book of the Dead, è stato pubblicato nel 1991 dalla Berkley Books, e Heatwave, il copione di un film noir contemporaneo, è sotto opzione a Hollywood. L'unico suo cruccio è di non saper cantare, non saper suonare la chitarra, e non poter mai apparire all'apertura dell'Aerosmith al Madison Square Garden. Philip Nutman ha una certa intensità laconica (se è possibile una simile contraddizione) che mi ricorda alternativamente una nobiltà inglese o un mandarino cinese; forse quest'ultima impressione è dovuta ai suoi capelli, lunghi e fini, pettinati all'indietro. Mi ricordo abbastanza chiaramente il nostro primo incontro nel 1986 per la Convention Mondiale di Fantasy a Providence, nel Rhode Island. Ci eravamo addentrati in conversazione al bar dell'albergo, e le ore erano volate via mentre chiacchieravamo di musica, film, degli articoli di Phil su Fangoria (il primo suo lavoro che aveva attratto la mia attenzione) e la mia allora brillante carriera di giornalista cinematografico. Da allora siamo rimasti amici. Una delle poche gioie dell'invecchiare è vedere i talenti più giovani che crescono e si fanno più forti. Phil sta decisamente crescendo. Mentre le credenziali di Nutman come giornalista vanno al di là di ogni critica — detto per inciso, potrebbe anche essere un buon attore caratterista, una vocazione che Phil ha già soddisfatto interpretando parti in film di basso costo come Death Collector — io prevedo per lui cose più grandi e migliori
nel campo della fiction. "A tutto gas" dovrebbe convincere anche voi. "A tutto gas" è un esame serio e approfondito della gioventù bruciata inglese. Per estensione, le figure dei personaggi di Rivers e Hurst inquadrano anche un'area molto specifica di anomia adolescenziale senza scopo: io so di avere vissuto notti così. E, curiosamente, Phil afferma che l'esperienza psichica qui descritta è effettivamente autobiografica. Sono contento che tu sia ancora in giro per scriverci su, amico. Il viaggio non è tanto per una destinazione specifica quanto un certo status mentale. (Henry Miller) La velocità uccide, proprio come me. (Graffito anonimo) Mentre Rivers tirava il grilletto, disse: — Voglio ammazzarlo quel bastardo. L'alto adolescente era in piedi, immobile, accanto alla finestra aperta, e in quell'istante, Hurst si rese conto che aveva sempre pensato a Rivers in termini di movimento: in gara sulle loro biciclette sportive truccate, a spingere fino al massimo qualsiasi motocicletta gli capitasse sotto mano, a sfuggire alla giustizia. Era come se Rivers avesse paura della stasi, consapevole che restare nella stessa posizione troppo a lungo voleva dire invitare uno stato mentale simile a quello di un morto vivente. Come il suo cognome, Stafford Rivers fluiva come un fiume, muovendosi costantemente in avanti, erodendo tutto ciò che lo circondava con un'energia incessante. Era stato questo, si rese conto Hurst, ad attrarlo verso quel ragazzo di estrazione operaia il primo giorno che si erano conosciuti, due ragazzi di undici anni ingabbiati in divise scolastiche nere e scomode, in piedi nel campo giochi della Scuola Secondaria Ralph Taylor, come compagni appena giunti in una prigione di massima sicurezza. A quel tempo, aveva pensato che fosse quell'atteggiamento di Rivers, prima-attacca-poi-chiedi, ma ora doveva ammetterlo: quel ragazzo fluiva. Non c'erano altre parole per descriverlo. A eccezione di quel momento. — Merda — disse Rivers. — Mancato. Hurst si alzò dal letto per guardare fuori, verso il giardino, mentre dallo stereo da poco prezzo si levava la fine di "Wish you were here". Rivers non aveva mancato il colpo, solo che non aveva ammazzato la cornacchia
al primo tentativo, e l'uccello si dimenava sul terreno infestato dalle erbacce. Non disse nulla — Staff era troppo arrabbiato per conversare — e andò a cambiare la musica. — Quella puttana da una botta e via si merita un cazzotto in bocca. Fottuta cagna. Hurst selezionò "Overkill" dei Motorhead dalla pila disordinata di album, decidendo che era un accompagnamento più adatto alla tensione della stanza del sensuale allucinamento acustico dei Pink Floyd. Rivers ricaricò il fucile ad aria .22. — Se quella vacca mi doveva mettere le corna, perché trovare una testa di cazzo come Tully? La domanda era senza risposta. E Tully era una testa di cazzo. Tanto meglio per una serata divertente. Rivers aveva saputo la verità su Philippa e Tully ritornando a casa dal lavoro, il suo ultimo giorno come apprendista idraulico si era saputo poi, licenziato per i suoi abituali ritardi. Le cose arrivano sempre in trio, pensò Hurst mentre guardava la pagina tre del calendario appeso sulla libreria, che conteneva alcune riviste porno e romanzi di guerra di Sven Hassel. Miss Settembre 1979 sorrideva ebete, con addosso il suo seno della quinta misura. Che altro ancora? Forse sarebbe dovuto restare a casa ad ascoltare Jimi Hendrix e a ubriacarsi. Nah, quella non era una scelta: Jamie, il suo fratellino col moccio al naso, sarebbe stato nella sua stanza a fare a pezzi la sua macchina per scrivere pretendendo di essere quel cazzo di Ernest Hemingway, ascoltando Rush fino alla nausea. No, venerdì sera significava una sola cosa: lo Show violento di Rivers e Hurst, due diciassettenni con un biglietto di sola andata per l'oblio, a bere, fumare droga, rovinare le feste, "tirare" una macchina per una corsa, a volte entrare in un cinema per qualche ultimo spettacolo se davano un film dell'orrore, e spesso commettere vandalismi per terminare i festeggiamenti notturni. Rivers cominciò a fare su e giù, agitando il fucile mentre il sole morente d'autunno gettava un'aurea eburnea sulla stanza, e il respiro si faceva ansimante con l'aumentare della rabbia. Hurst non aveva mai visto Staff così incazzato, nemmeno quando aveva perso quella lite con Barry Marshall. Aveva già fatto un buco nella porta, e il fucile ad aria compressa rendeva nervoso Hurst. — Datti una calmata, Staff. La stavi per scaricare. — 'fanculo. — Una pausa. — Troia! Tully! — Sputò quel nome come un bolo di muco.
Rivers si avviò verso la porta e sparì nel corridoio scuro. Hurst lo sentì scendere per le scale coperte di linoleum, con le sue Doc Martens misura quarantaquattro che pestavano il legno scricchiolante. Quando si rese conto che Staff non sarebbe ritornato, lo seguì. La casa dei Rivers era un vecchio rudere terrazzato che urlava per essere riparato. Metà degli attacchi della luce non avevano lampadine, non c'era riscaldamento centrale, il cadente portone della casa si piegava sui cardini, e l'intonaco era rivestito da uno strato di sporcizia. Le scale scricchiolavano quando si scendeva, e dai muri fuoriusciva un odore umido. — Abbassate un po' quell'aggeggio — disse la signora Rivers mentre girava l'angolo. Se per acquistare fascino la casa avesse avuto bisogno di un fantasma, lei lo era. Usciva raramente, e cercava sempre di trattenerlo in conversazione, bene raro nel dormitorio che Staff chiamava casa. Quando lo vide lei sorrise: la signora Rivers, che sembrava più vecchia dei suoi quarantasette anni, aveva un debole per Hurst ed era compiaciuta che suo figlio avesse un amico proveniente dal miglior quartiere della città. — Ciao, Alex, tesoro, come stai? — Bene, signora Rivers. Lei rimase sulla soglia di casa, con una sigaretta tra le dita ingiallite, i bigodini di plastica rosa tra i capelli. La stessa, vecchia signora Rivers, irrimediabilmente sciatta: macchie di cibo sulla camicetta, mascara sciolto intorno agli occhi, whisky da quattro soldi nell'alito. Staff uscì con passo pesante attraverso il cucinotto ingombro verso l'estremità della sala, ignorando la madre mentre si dirigeva in giardino. — Dove stai andando? — Sta' zitta, vecchia vacca — mormorò tra sé. Alex sorrise per una lunga pratica. Se anche la signora Rivers aveva sentito suo figlio, non sembrò curarsene, e riversò la sua attenzione sulla sua bottiglia e su Sentieri. Mentre emergeva dalla porta di cucina, Staff si piegò sulla cornacchia che ancora si muoveva, tirò fuori dalla tasca dei jeans sgualciti un accendino, facendolo volteggiare in aria mentre Alex si avvicinava, e poi bruciò le zampe dell'uccello. La cornacchia gracchiò dal dolore, cercando di scansare la fiamma. Dopo un minuto così, Staff si alzò in piedi, puntò il fucile alla testa dell'uccello e tirò il grilletto con una leggera smorfia sul viso, gli occhi azzurri che brillavano da dietro la massa di capelli lunghi e unti. Un liquido biancastro fuoriuscì dal cranio devastato dell'uccello, spiaccicandosi al suolo come sperma sporco, misto a sangue.
— Cosa vuoi fare? — Staff era più calmo adesso, e la sua attenzione era rivolta al cadavere della cornacchia. — Trovare un po' d'erba da Dawson. Farmi una pinta di birra al Five Bells. Forse andare a vedere un ultimo spettacolo. Credo che stasera diano Cane di paglia. Sai, Peckinpah. Staff sbuffò, girandosi verso Alex, con una smorfia sulle labbra. — Io ho un'idea migliore. — Poggiò il piede destro con forza sul cadavere dell'uccello, e le ossa fragili come fuscelli si ruppero all'assalto delle Martens con le punte d'acciaio, mentre lui seppelliva lentamente la cornacchia nel terreno ghiacciato. — Andiamo a rovinare la festa a Tully. Jamie Hurst guardò il quadro di Poe Il corvo sulla scrivania, in cerca di ispirazione. Niente. Aveva la mente vuota, e il saggio incompiuto su Giuda, l'oscuro di Hardy gli stava di fronte, contrassegnato da note in inchiostro rosso; il silenzio della casa non faceva nulla per alleviare la tensione che lo attanagliava come un lottatore di sumo. L'ansia gli sconquassava la concentrazione. Si era sentito strano tutto il giorno da quando si era svegliato fradicio di paura per un incubo che non riusciva a ricordare chiaramente. Solo un senso di velocità, di essere fuori controllo, gli occhi arancioni e brillanti di una grossa bestia che gli si avventava contro nel buio. Aveva creduto che fosse un sogno d'ansia più che una premonizione, il suo subconscio rispondeva alla pressione antecedente agli esami, e poi l'idea che la sua vita gli stesse sfuggendo di mano era stupida. Aveva accuratamente pianificato i suoi anni futuri e tutto andava come previsto: ottenere l'attestato, poi il sesto anno e il diploma di maturità, che portava all'università e a una laurea in inglese. Oltre a ciò, confidava in una carriera di giornalista che lo aspettava, e forse — solo forse — un romanzo o due. Ma mentre si scervellava sul saggio letterario, non riusciva a dissipare la sensazione di premonizione che aleggiava per la stanza come un drappo muschioso in una villa gotica. Rabbrividì. Piantala. L'unica cosa storta era un po' di febbre — l'inizio di un raffreddore che aveva combattuto per tutta la settimana — e una fantasia iperattiva. È ora di cambiare scenario. Si alzò dalla scrivania. L'attività terrena di mettere via la spesa poteva
aiutarlo. Il venerdì era la serata del bridge della madre, e lei aveva lasciato la spesa nel corridoio perché stava facendo tardi. Il venerdì segnava anche la sparizione di Alex per il weekend con Staff Rivers, di cui Jamie non si fidava. C'era qualcosa di irritante negli occhi azzurri di Rivers. I loro movimenti lenti e sospettosi indicavano che le iridi cerulee nascondevano un segreto. Ma era l'effetto che aveva Rivers su suo fratello che disturbava maggiormente Jamie. Alex, il fratello distante, di norma giudizioso, in compagnia di Rivers diventava una merda, spingendo Jamie a sentirsi come Abele di fronte a Caino ogni volta che la madre non c'era, cioè spesso. Nonostante la pensione della ditta, l'unico lascito del padre defunto, crescere due figli giovani con un altro sul punto di cominciare l'università era stato per la madre uno sforzo tremendo. Aveva sacrificato la sua vita sociale e aveva sostenuto il peso di due lavori, lasciando i ragazzi a passare le ore dopo la scuola con vicini indifferenti ai loro bisogni. Star da solo non era una novità per Jamie; infatti, lo preferiva alla fastidiosa presenza di Alex che, non appena appariva la madre, faceva leva sui sentimenti di lei. Come Rivers, c'era qualcosa di freddo dietro agli occhi di Alex, una barriera che Jamie non riusciva a penetrare. Ma in quel momento desiderava che Alex fosse a casa a sentire i dischi di Hendrix a volume alto nella sua stanza. Qualsiasi cosa era meglio di quel silenzio innaturale. Sollevò i sacchetti della spesa dal corridoio, dirigendosi verso la cucina pulita. Il silenzio sembrava più profondo, più vuoto, mentre cominciava a scartare il cibo, e canticchiò Draw the Line per rompere quel terribile senso di annientamento. Avrebbe voluto che quella non fosse la notte del bridge, avrebbe voluto che la mamma fosse in casa per poter vedere insieme la TV. Perché, non riusciva a razionalizzarlo. Aveva quindici anni, per gridare a squarciagola, non un bambinetto. Quando era ritornata con la spesa lui era stato riscaldato da un senso di rassicurazione, anche se era rimasta solo un momento perché Dot Wicking, il suo compagno a bridge, l'aspettava fuori, in macchina. Come avrebbe potuto dirle che aveva paura (di cosa?) che non voleva che se ne andasse, che non poteva affrontare la notte da solo? La sensazione innaturale nella casa gli logorava i nervi come carta vetrata sulla pelle. — Non c'è nessuno qui se non noi, terrorizzati — disse a voce alta e si sforzò di ridere mentre metteva un coscio d'agnello nel frigorifero.
Prese un cartone di uova. E poi accadde. Un minuto era in piedi in mezzo alla cucina; il minuto dopo sentì il vento freddo che gli colpiva il viso e non riuscì a vedere. Oscurità. Poi un odore di gas di scarico, una rapida accelerata, e una vampata di adrenalina per la sensazione simile a quella di andare a gran velocità sulla sua bicicletta. (Tirala!) Freddo, buio, eccitante. La paura gli attanagliò la schiena con la disperazione di un uomo spazzato via. (Fallo! Dai, avanti!) Poi cambiò. Scintille. Dei colpi. La sensazione di volare attraverso l'oscurità. Due visuali — entrambe senza senso — che convergevano. Scosse la testa per schiarirla. (Cosa?...) E si rese conto di aver fatto cadere le uova, una dozzina, grandi, per tutto il pavimento. La nausea lo travolse dalle budella. Saltò quel massacro di uova verso il lavandino, in preda ai conati di vomito. Una volta. Due. Tre. Non venne su niente; non mangiava da ore. Lo assalì il quarto conato, facendogli male dentro, ma non fu per quello che annaspò. Quando guardò la finestra, gli occhi si spalancarono vedendo il suo riflesso. Il riflesso di Alex. Non il suo. Alex lo guardò di rimando, con gli occhi profondi socchiusi come quelli di un cobra. Jamie aggrottò le ciglia all'illusione ottica. (No, non è vero.) E poi c'era il suo viso che lo guardava. Oh, Dio, sto cedendo. Sentì la stanza roteare. Poi l'oscurità lo travolse, mentre sveniva. — Sedici. — Inflazione — disse Alex — o furto alla luce del sole? Staff si sedette accanto a lui sulla panchina, con una evidente smorfia di disinteresse sul viso stravolto.
— È un furto a quel prezzo — replicò Dawson. — Domanda e offerta. Sapete quanta gente hanno pizzicato questo mese? Non ce n'è molta in giro. Ma se non volete... — Che ne pensi? — Alex si voltò verso Staff. Rivers brontolò e si accese una Marlboro. Ne sapeva anche troppo sull'essere pizzicati. — Pagalo. Alex tirò fuori una manciata di banconote sgualcite. Dawson prese i soldi rimanendo in piedi. — È roba buona. Alex afferrò la busta tesa, e nel farlo si guardò intorno. Era quasi buio, e gli ultimi bagliori del tramonto si fermavano sull'orizzonte con le loro dita. Un uomo che portava a spasso il cane stava dall'altra parte del parco giochi, e quello che aveva detto Dawson era vero: ne avevano pizzicati troppi. Meglio stare in guardia. — Ci vediamo la prossima settimana — disse Dawson mentre si allontanava verso la macchina, una Mini Morris verde. — Lunedì. Esame di storia. — Alex non riusciva a resistere alla tentazione di indagare; mancava un mese al primo esame trimestrale dell'ultimo anno, e la maturità di Dawson scivolava via. L'altro adolescente fece un sorrisetto cattivo, schioccandogli le dita. — Dilettante — disse Staff, allungando la mano mentre espirava il fumo. Alex tirò fuori un pacchetto di Rizla dalla giacca di pelle. — Chi ci andava da Tully? — Dei cazzoni di King Edwards. E qualche puttanella delle superiori... — rispose Staff, prendendo le cartine. — Chi se ne frega? Voglio solo vedere che faccia fa quando arriviamo. Alex ridacchiò. — Probabilmente tempo che arriviamo si sarà bevuto anche il cervello. — Bene — ruttò Staff. — Forse cadrà da quelle fottute scale. Finì di pulire lo spinello, lo passò ad Alex. La fiamma del suo Zippo sputacchiava nel vento nonostante la protezione a coppa delle mani. Aspirò profondamente. A Staff Tully non era mai piaciuto. Nessun motivo particolare, solo una crudeltà verso certi ragazzi con cui era andato a scuola — o con cui andava a scuola, nel caso di Alex — e l'accento e le spiritosaggini da collegiale di Tully erano sufficienti per catalogarlo come stronzo numero uno nella classifica di Staff. In genere i pregiudizi dell'amico erano infondati, una casualità che Alex trovava divertente. Ma, se Alex doveva essere onesto,
c'era un sacco di gente che non gli piaceva senza una ragione apparente, anche se ce n'era altra che odiava per il modo in cui lo trattava. Tossì mentre passava lo spinello a Staff. — È buona. — La droga gli sguazzava nelle arterie, facendolo pensare in fretta. Sorrise, contento. Fumare da solo non risolveva molto, ma farsi una canna con un amico rimetteva tutta quella merda noiosa nella giusta prospettiva. Guardò in alto sulla collina verso la Scuola Secondaria Ralph Taylor, i suoi esterni in stile vittoriano che si ergevano immobili contro l'oscurità mentre l'ultimo spicchio di sole si perdeva all'orizzonte. In quel momento di pensieri, con la droga che gli roteava nel cervello, sentì il tempo comprimersi, contrarsi, piegarsi all'indietro su se stesso. Sì, la Scuola Secondaria Ralph Taylor, quella tristezza gotica, era stata il crogiolo in cui avevano forgiato la loro amicizia. Il primo giorno di scuola alla Ralph Taylor, una scuola secondaria esclusivamente maschile con mille e duecento allievi divisi in due sedi, Alex trovò Stafford Rivers intimidente, come la maggior parte delle altre cose. Non era per il modo violento con cui Staff calciava il pallone sul campo o per il suo vocabolario pieno di parolacce: era la sua capacità di saltare addosso a uno stronzo e di far sputare merda a quel piantagrane che aveva fatto mettere da parte Alex, tutto il suo ossuto metro e quarantacinque. Ma pochi minuti dopo aver messo gli occhi addosso a Rivers, così fluidamente controllato e rassicurante mentre calciava in aria il pallone Webley, Alex aveva scoperto di avere altri di cui preoccuparsi. Preoccuparsi veramente. Come Marc Hougan. Se c'era un metodo per misurare gli psicopatici in erba, allora Hougan otteneva punteggio otto. All'età di undici anni, quel ragazzino dai capelli neri con gli occhi crudeli come quelli di un dobermann bastonato, era alto uno e sessantatré, aveva spalle larghe e una propensione alla lotta. Hougan significava guai con la g maiuscola. Alex conosceva la storia, avendo passato la maggior parte dei sei anni precedenti cercando di evitare il carattere violento dell'altro ragazzino mentre erano alla Scuola Primaria Newbridge. Ma in quel luminoso e assolato giorno di settembre, l'ombra di Hougan gettò un'improvvisa nuvola nera sulle sue speranze di un domani migliore. Neanche la reputazione di Alex alla Newbridge era stata buona; timoroso di alcuni insegnanti e cauto con gli altri bambini, alla maggior parte dei quali non piaceva, era spesso assente. Si comportava così in parte per non dover affrontare il terrore delle lezioni di matematica della signora Bergen, in parte a causa delle continue risse con i bambini della proprietà Weston.
Avendo a suo credito almeno una rissa ogni quindici giorni, era considerato un reietto, e ciò rendeva più facile a Hougan tormentare proprio lui. Le madri che riaccompagnavano i figli a casa evitavano quel ragazzino iroso, infelice, in ultima analisi incompreso che cercava di dare un senso alla morte di suo padre, avvenuta quando aveva cinque anni, e all'ingiustizia del rifiuto dei suoi compagni più grandi. Ma tutto quello che Alex voleva era essere accettato; tutto quello che sua madre, che aveva lungamente sofferto, voleva era che lui fosse come suo fratello, Julian, di tredici anni più grande, il ritratto di una pietà docile e studiosa, o quel santarellino di suo fratello minore, Janie, che non piangeva mai, popolare sia tra gli insegnanti sia tra i bambini. La settimana prima che Alex cominciasse la scuola secondaria, si era quasi prostrata in gionocchio, scongiurandolo di non fare ritardi, di evitare i guai, e comportarsi bene. Alex, stanco di fare a pugni, aveva acconsentito, desideroso di essere popolare come quel mocciosetto, Jamie, ma desideroso soprattutto di compiacere sua madre. Eppure Hougan, una maledizione vivente forgiata da un padre brutale, sembrava essere un'ombra costante alle sue calcagna. Quella mattina Alex era in piedi nel campo giochi, e guardava Rivers e il suo amico Evans che calciavano la palla tra di loro, pensando a Newbridge e come era in passato. Poi Evans gli aveva passato la palla. Sorpreso l'aveva stoppata, mandandogliela indietro con un movimento rapido del piede... ...solo per trovarsi a faccia in giù sull'erba sintetica con le mani sbucciate, un ginocchio contuso, e una gamba dei pantaloni strappata. Aveva guardato in alto, stupito. "Hurst". Hougan aveva pronunciato il suo nome con una smorfia, poi gli aveva sputato vicino alla testa. Evans e gli altri ridevano. Eccetto Rivers, che guardava freddamente tutti e due, con gli occhi che si rimpicciolivano lentamente. "Dammi la palla." Hougan si era avvicinato ad Alex, che aveva ancora le mani dolenti per la caduta, e il ginocchio che sanguinava. "La palla." "No" aveva detto piano Rivers. Hougan aveva ghignato, sardonico, poi lo aveva caricato. La rissa era durata trenta secondi, e i due ragazzi si erano picchiati a tutta forza, pugni, piedi e ginocchia che si pestavano in movimenti confusi prima che il signor Palmer, l'insegnante pazzo di musica la cui magrezza celava la forza, era apparso a separarli, prendendo Hougan per l'orecchio quando non si era fermato. Rivers aveva il naso sanguinante, ma Hougan aveva il labbro superiore tagliato.
"Nomi" aveva chiesto Palmer. "Stafford Rivers." "Stafford Rivers, signore!" Rivers si era rifiutato di ripetere il suo nome. "Tu?" Hougan restava in silenzio. "Nome, ragazzo." "Marc Hougan" fece lui, puntualizzando con un bolo di sangue sputato verso i piedi dell'insegnante. "Il famigerato Hougan, eh? Ci avevano avvertito su di te." Palmer aveva rivolto la sua attenzione a Hurst. "Tirati su, ragazzino." Due minuti più tardi, a pochi secondi dall'inizio ufficiale della giornata, Alex era in piedi fuori dell'ufficio del preside, e ai suoi lati c'erano Hougan e Rivers. Nessuno parlava o guardava gli altri. In quel momento aveva capito che non sarebbe cambiato niente. Era lo stesso, come era sempre stato, e sembrava mettersi solo molto peggio. Se doveva sopravvivere per i cinque anni successivi, avrebbe avuto bisogno di un alleato. In piedi nel corridoio grigio che puzzava di disinfettante, con lo stomaco contratto dal nervosismo, decise che Rivers sarebbe stato quell'alleato — non importava quanto gli sarebbe costato tirarlo dalla sua parte — inconsapevole del fatto che il legame fra di loro si stava già formando in virtù del Fato. Dopo aver rollato un paio di grossi spinelli, Staff era calmo. Seduto sulla poltrona consunta, maciullava una lattina vuota di birra, mentre Alex era disteso sul letto con una bottiglia di Guinness in una mano, uno spinello nell'altra. Sì, Ralph Taylor. Che strano e lungo viaggio era stato. Clint Eastwood, nei panni di Dirty Harry, lo guardava dal muro. Dai, muoviti, teppista, che sto a posto per tutto il giorno! Forse per tutta la notte, pensò. Staff era perduto nei suoi pensieri, con il viso come una maschera di sabbia, la sua espressione mutevole mentre il vento di quei pensieri gli forgiava gli angoli dei suoi zigomi alti, della bocca grande. Alex gettò la cenere sul linoleum crepato. I Pink Floyd suonavano di nuovo, questa volta il motivo di Dark Side of the Moon. Sì, la notte. Staff non parlava da quasi un'ora. Cominciò "Money" e Alex cominciò a giocherellare con le chiavi, esaminandole con fascino languido e fisso. L'anello era un contenitore di plastica con dentro due foto. Da una parte c'era una piccola fotografia di una
veduta notturna di New York, con l'Empire State Building che sembrava incompleto senza King Kong a cavalcioni; l'altra raffigurava un cranio con delle ossa incrociate, sotto il quale si leggeva l'iscrizione: VIVI IN FRETTA, MUORI GIOVANE. Avrebbe voluto vivere a New York, un giorno, gustare tutto ciò che prometteva. Le grandi città della Gran Bretagna al confronto sembravano insignificanti; anche a Londra mancava qualcosa se paragonata alla Grande Mela di cui aveva tanto letto. Ma poi qualsiasi posto era meglio di Bath, credeva, provando nient'altro che disgusto per la cittadina del West Country in cui aveva trascorso tutta la vita; New York gli appariva come un'immensa Disneyland per adulti. Okay, Bath aveva più di duemila anni di storia e di cultura, ma questo non significava niente se si avevano diciassette anni, e si era senza soldi, e quando il futuro sembrava promettente come una vecchia foto in bianco e nero tenuta nella tasca posteriore; sbiadita e spiegazzata. Staff gli mise paura alzandosi improvvisamente in piedi, dirigendosi alla porta. Riapparve un attimo dopo, lanciando un casco nero ad Alex, che si versò la Guinness su una gamba dei Levi's. Staff rise: — Ce ne andiamo. — Alzò il mazzo di chiavi che aveva in una mano, il casco rosso nell'altra. — Sulla moto di Brian? Sei pazzo scocciato. Ti farà sputare merda quando ti trova. Staff rise, questa volta asciutto. — Non lo saprà mai. La vecchia è sbronza fino al midollo e non ci sentirà mettere in moto la Belva. Andiamo. Andare a cento all'ora per la strada ti snebbierà il cervello. Era sparito prima che Alex potesse obiettare. Merda, e perché no? Erano già le otto meno un quarto, ora di fare qualcosa. Se Staff voleva rischiare una scazzottata con suo fratello, bene, non era un problema suo. Sì, la Belva, cioè la moto di Brian Rivers. Una Kawasaki Z1000 rossa; adesso si ragiona. Mille cc pulsanti, quattro cilindri rombanti, a quattro tempi. Sempre meglio che prendere l'autobus fino da Tully. La Capri gialla aveva sei anni e cominciava ad arrugginirsi attorno ai parafanghi, ma ad Harry Bledsoe non gliene fregava un cazzo. Però non era felice, mentre guardava il motore ancora una volta, pulendosi le mani macchiate d'olio su una pezza sporca, consapevole che Gibbson, l'Hitler della Carpenter & Figli, Frutta e Verdura (all'ingrosso) stava avanzando verso di lui. Infatti, Harry non era felice, punto e basta. Il figlio più piccolo era a letto con la varicella, sua moglie, Kathy, aveva un diavolo per capello perché era quel periodo del mese, e la Capri non andava co-
me doveva. Di recente si era fatto controllare la macchina, che secondo il meccanico era risultata perfettamente in salute. Un paio di candele nuove e la sostituzione di una cinghia di una ventola che ancora sarebbe potuta durare, ma nonostante il meccanico gli avesse assicurato che il motore era in buono stato considerata la cifra sul contachilometri, era tutta la settimana che la Capri non partiva bene, emettendo un rumore consumato ogni volta che girava la chiavetta, e risvegliandosi solo all'ottavo o al nono tentativo. Per aggiungere il danno alle beffe, Hopkins era assente per malattia, e Harry lavorava in doppi turni perché gli scadeva la rata del mutuo e aveva una famiglia di cinque persone da sfamare. Era stanco e appallato, voleva andare a casa ma non poteva perché erano le otto meno un quarto e doveva fare altre tre ore. Harry odiava il lunedì e amava il venerdì — la sera del pub, l'unica volta in cui Kathy acconsentiva che lui uscisse a sbronzarsi — ma stavolta c'era una grana grande come un sacco di merda formato Big Ben. Chiuse il cofano della macchina mentre Gibbons arrivava dietro di lui. Non aveva idea di cosa c'era che non andasse. Ancora soldi da spendere. — Muovi il culo, Harry. La consegna per Bristol doveva essere partita un'ora fa. — Sì, sto andando. — Gettò lo straccio da una parte mentre si voltava verso il camioncino Bedford completamente carico. Un viaggio a Bristol era l'ultima cosa che desiderasse, e sembrava che i suoi piani di staccare presto e prendere una lattina o due di Sam Smith al pub Queen's Head prima che chiudesse si stessero trasformando inesorabilmente nel solito percorso del cazzo senza una quattro ruote motrici. — E stavolta non ti scordare la fattura. — No, non me la scorderò, George — disse Bledsoe mentre apriva la portiera del furgoncino, aggiungendo un silenzioso: "Vatti a fottere una pecora". Staff riavviò la Z1000 e la Belva tornò in vita rombando, con tutti i suoi 1000 cc di massima ingegneria giapponese. Alex salì a cavalcioni sulla grande moto, tenendosi ben saldo alla sbarra del sellino. Staff si voltò. — Andiamo! — gridò, mandando su di giri il motore. Staff abbassò la visiera e la Belva perfetta partì per Landsdown View. Non appena raggiunsero l'inizio della strada, Staff premette con forza sul clacson, e il rimbombo echeggiò dai muri di mattoni mentre si infilavano
nel tunnel sotto la ferrovia e Staff frenava all'ultimo momento raggiungendo l'innesto con la Lower Bristol Road, con i freni che stridevano a mo' di protesta. Di fronte a loro c'erano gli edifici della Hermann Muller, con le luci ancora accese mentre gli addetti alle pulizie lavoravano negli uffici. C'erano entrati per farsi due risate qualche settimana prima, dopo aver bevuto fino a tardi, e avevano rubato un paio di sedie dalla sala del consiglio d'amministrazione, gettandole nel fiume Avon che scorreva dietro all'industria. Staff sapeva sempre cosa fare quando la serata era fiacca. Sì erano proprio divertiti a sfondare la finestra dei bagni degli uomini, arrampicarsi, e sbattere nel buio fino a che non avevano trovato gli uffici. Staff aveva scansato la sedia di una segretaria e aveva pisciato in un cassetto della scrivania, infradiciando un mucchio di pratiche del personale. Si, quella bravata aveva salvato bene una notte noiosa. In quella serata invece si profilava una rissa, con la Kawasaki che rotolava via come un eccitante sogno meccanizzato. Passò un'ondata di traffico, gli ultimi pendolari che tornavano a casa per il weekend. Quando anche l'ultima macchina sparì, Staff mise in marcia la moto, accelerando con lo stile di un motociclista in autostrada. In pochi istanti si accodarono alle macchine. La strada curvava a destra e la visibilità era limitata. Questo non gli impedì di sorpassare, scalare di marcia, aumentare il ruggito del motore mentre continuava a far salire il tachimetro, scalando poi in quarta mentre scivolava oltre la Hillman Avenger. Alex guardò l'automobilista allarmato, un tipo grasso, stile uomo d'affari, che tirò fuori le dita mentre loro sparivano. Sì, sarebbe stata una bella notte. Lo sentiva giù per le palle fino alla punta dei capelli, col corpo che gli vibrava all'unisono con la potente motocicletta. Guardò sopra la spalla di Staff: il tachimetro segnava settanta, ed erano in una zona con il limite di cinquanta miglia orarie. Roba grossa. Staff continuava ad accelerare, spingendo la moto a superare altre macchine. Più avanti sulla destra le case lasciavano il posto alle industrie, mentre sulla sinistra cominciava il muro di pietra che sosteneva le rotaie della linea ferroviaria della British Rail, che raggiungeva Londra a est e Bristol a ovest, la direzione verso la quale erano diretti. Lì il limite di velocità era sessanta. E loro erano a ottanta. Guidala questa Belva! Se avesse potuto vedere il viso di Staff si sarebbe accorto che il suo amico stava sorridendo, un sorriso mesto, irritante, carico di aggressività. Staff portò la moto a novanta, tentato di mandarla a tutto gas, con le macchine dietro di loro che recedevano rapidamente. Non c'era traffico contrario
mentre raggiungevano l'entrata della città. I lampioni terminarono, tuffandoli in una striscia di oscurità, la linea ferroviaria che spariva in un lungo tunnel, le industrie sostituite sulla destra dalla massa scura, silenziosa e lenta del fiume Avon. Il motore della moto ronzava con soddisfazione quasi sensuale mentre tagliava l'oscurità, un diavolo tuonante e selvaggio venuto dall'inferno. Ubriaco di droga e di velocità, tutta quella perfezione per la testa che lavorava e i movimenti oliati, Alex non aveva timori sulle capacità di Staff di controllare la moto. Guidava motociclette da quando aveva tredici anni, al di sotto del limite legale d'età, ma allora la legalità non spiccava nella visione del mondo di Staff: un po' di traffico di droga qui, qualche scasso là — erano solo bazzecole di violazione della legge, ma lui credeva che se si vuole qualcosa, bisogna prendersela; se bisognava fare soldi, occorreva trovarli in qualsiasi maniera; se c'era una moto abbastanza invitante da essere guidata, allora bisognava spingerla al massimo, portarla fino alla linea rossa, e oltre. Al diavolo le leggi e le regole. Alex sentì il suo amico piegarsi nel vento e si abbassò il più possibile. Non c'era né passato né futuro (Dio salvi i Sex Pistols!), solo il presente — e quello era un urlo immenso e palpitante di velocità e di buio. Si avvicinarono al semaforo nel punto dove la Upper e la Lower Bristol Road convergevano e allungarono per un miglio di carreggiata dritta a doppia corsia. Il semaforo era verde, e la Belva schizzò via a cento miglia all'ora. Alex tossì nel casco. Sì, così era. Corriamo. Veloce, furiosa, esilarante corsa. Tutti i pensieri sull'esame dell'ultimo anno, sui saggi, gli insegnanti, la casa e la noia, erano scomparsi. C'era solo quella sensazione di velocità. Il telefono suonò quando Jamie stava finalmente cominciando a rilassarsi dopo il panico di quello svenimento. Si alzò dal divano nel soggiorno debolmente illuminato, barcollò appena, residuo delle vertigini per lo svenimento che gli erano esplose in testa, e raggiunse la cornetta al quinto squillo. Non c'era nessuno. Balle. Lo odiava, non sapere chi cercava di chiamare, il tono schernitore del suo ronzìo elettrostatico. Si sedette accanto al telefono, tremando incontrollabilmente, con il cuore che gli batteva a martello. Cosa c'è che non va in me? Quando il telefono suonò di nuovo saltò, afferrandolo mentre saltava
sulle ginocchia per la reazione a metà del secondo squillo. Una scossa. L'eco di una voce. Ancora scosse. — Non la sento. Sembrò che la voce dicesse — Alex. — Poi le scosse svanirono, seguite da un click. Silenzio. Disturbato solo dal ticchettare dell'orologio del nonno nel corridoio. Guardò la carta da parati floreale color pesca e si sentì male. Il ritmo assunse un aspetto ipnotico; i fiori roteavano, mischiandosi ritmicamente. Arrivò la visione. Gli rotolò sopra con l'implacabilità di uno tsunami, una sensazione devastante che gli partiva dal petto, spingendo via l'aria dai polmoni mentre le costole gridavano per l'agonia e lui le sentiva scheggiarsi. Quando arrivò alla testa, il suo mondo stava cadendo a pezzi, la stampa floreale si frammentava, le foglie cadevano, i petali si sparpagliavano in un vortice di emozioni... e stava volando all'indietro nell'aria fredda, nera, con le braccia che battevano indietro selvaggiamente (Oh Dio!) con le gambe che pompavano il nulla, si sentì scaraventato nel buio, in alto, verso l'alto, in avanti. Tutto quello che riusciva a vedere era il buio e una massa di arance. Poi rotolare ruzzolare l'impatto che rompeva le ossa e qualcosa dentro di lui scoppiò qualcos'altro gli colpì la spina dorsale, devastante (Oh Dio mio!) la pelle lacerata, i muscoli contorti, gli organi spaccati mentre vedeva stelle costellazioni galassie nebulose svelarsi in una maestosità celestiale mentre la vista gli esplodeva (OH DIO! IL DOLORE!) in un turbinio di rosa pulce sangue porpora e poi... Niente. Aspirò una profonda boccata d'aria (non riesco a respirare!) gridare come un neonato che aspira il suo primo assaggio di ossigeno — No! Perse l'equilibrio e cadde sulla poltrona tenendo ancora in mano il te-
lefono, tirandolo giù dal tavolo, mentre la suoneria tintinnava forte al contatto con il pavimento. Quando raggiunsero la rotatoria, Rivers suonò il clacson della Belva, uno scoppio lungo, forte, lamentoso, mentre curava la moto con la tenerezza di un amante al primo appuntamento, facendola girare due volte intorno all'aiuola prima di dirigersi lontano da Keynsham e di nuovo verso le luci smorte di Bath. In quarta, a ottanta all'ora. Quinta, e il tachimetro segnava novantacinque. Il miglio di strada se lo mangiarono in pochi secondi. Alex vide il semaforo rosso in lontananza mentre Staff diminuiva la velocità, decelerando rapidamente. Avanti, cambia. Settanta... sessanta... cinquanta... Avanti! Il semaforo diventò verde. Sì, spingila. Come leggendogli nel pensiero, Staff girò forte il gas, con la Belva che si lamentava per protestare. Tagliarono il semaforo a settanta, sterzando a destra, prendendo il ponte a dosso dove la Upper Bristol Road tagliava il fiume Avon con un sobbalzo che gli sollevò lo stomaco. La Belva che scivolava sull'asfalto cadendo nella curva a destra in una sferzata dolce come seta. Davanti a loro c'era la Lower Weston; sulla collina sovrastante, Newbridge. Ancora avanti c'era il centro città, e sembrava che Staff si stesse dirigendo proprio lì, prima di finire sulla Sion Hill e da Tully. Gli occhi di Alex si strinsero inconsciamente al pensiero di quella testa di cazzo rintontita. Philippa aveva fatto la scelta sbagliata. Qualsiasi cosa avesse in mente Staff, sarebbe stata una festa che Tully non avrebbe dimenticato. Alle nove meno dieci di sera Harry Bledsoe era incazzato. Il viaggio da Bath gli aveva preso quasi un'ora a causa del traffico intenso, aumentato da un tamponamento a tre fuori Keynsham. Ma ora era a Kingswood e finalmente, in dieci minuti circa, avrebbe raggiunto il magazzino Forbes. Si domandò come stava il piccolo Markie. Quando Harry era uscito, la mattina, quel povero ragazzino sembrava essere in punto di morte, con la varicella al massimo. Avrebbe chiamato Kath appena arrivato nel cortile, per sapere come stava quel ragazzino di quattro anni che sembrava tutto
sua madre. Sposare Kath era stata la migliore mossa che lui avesse fatto e in quel momento, seduto nel camioncino davanti a un semaforo di Kingswood, tutto ciò che desiderava era essere a casa con la sua donna, seduto di fronte alla TV con i bambini a letto a dormire, felice sapendo che il piccolo Markie stava bene. L'autobus dietro di lui suonò il clacson e lui ingranò la marcia del camioncino, muovendosi lentamente perché la strada era stretta, il traffico ancora pesante. — Vengo a casa presto, amore — disse, sorridendo. Dopo un'ora di guida intorno alla città, verso le nove arrivarono alla Sion Lane e videro una macchina della polizia davanti alla casa di Tully. Staff abbassò il motore della Belva, esitando, poi lo spense. La musica alta rotolava nell'aria fresca della notte mentre Alex sollevava la visiera del casco, scrutando la strada alla ricerca dei Ragazzi in Blu. Staff sganciò il cavalletto della moto, si tolse il casco e si voltò verso Alex con espressione scontenta. Aveva avuto anche troppi incontri spiacevoli con quei porci. — Vado a vedere che succede. Alex smontò, poggiando il casco sul sellino. Staff brontolò. Mentre Alex si avvicinava alla casa la musica cessò, con Solsbury Hìll di Gabriel interrotto a metà coro, e un fievole suono di voci indignate seguito da un momento di silenzio. Fece una pausa, poi continuò verso la casa isolata, con i tacchi degli stivali che rimbombavano sul selciato. Quando fu a circa duecento metri dalla casa vide arrivare una seconda macchina della polizia dall'altra parte della strada a ferro di cavallo. Si nascose nei cespugli di fronte alla casa più vicina, osservando i due poliziotti scendere dalla macchina e dirigersi con i loro piedi piatti verso i colleghi, che uscivano in quel momento dal giardino con tre adolescenti tra di loro. Uno dei ragazzi era Alan Birch, di King Edwards, uno spacciatore che nel giro della droga faceva apparire Dawson il dilettante che era. Guardò di nuovo verso la strada. Staff non era in vista. I due poliziotti fecero avanzare i due ragazzi, che Alex non riconobbe, a passo di ranocchia verso la macchina. Tully e un piccolo gruppo di ragazzi, tra cui Philippa, apparvero al cancello del giardino e parlarono con il poliziotto più anziano, ma non riuscì a sentire cosa dicessero. Continuarono a parlare. Tully sembrava seccato. Il poliziotto scosse la testa, posando una mano pesante sulla spalla del basso adolescente, gesticolando verso
l'altra macchina. Philippa fece per protestare, un uccellino biondo e delicato che improvvisamente si ritrova con le ali tarpate. Tully si voltò, le prese la mano, disse qualcosa, e si avviarono con il poliziotto, con gli altri ragazzi in piedi con in viso espressioni perdute e confuse. Saltò dietro al bordo del ligustro mentre le macchine di pattuglia si allontanavano e si avviavano per la collina, oltre la moto. Una volta in cima, arrischiò un'altra occhiata verso la casa, ma Philippa e la folla erano scomparsi. Staff non si vedeva e lui corse di nuovo verso la Belva. — Ehi — sibilò. Staff apparve da dietro un alto muro di un giardino che limitava una grande casa moderna. — Sembra come se... — Ho visto. — Il viso di Staff era una maschera di frustrazione. Mentre si avvicinava a una Metro verde parcheggiata lì vicino gettò una sigaretta in un tombino. Con un balzo afferrò un ramo basso, tirandolo giù con tutto il suo peso. Questo si ruppe con uno schiocco sordo e lui lo scagliò verso il parabrezza della macchina. Ancora. E ancora. Quando il ramo fece poco di più che rompere un tergicristalli, lui lo gettò da una parte, riprendendo l'assalto, sferrando calci alla carrozzeria. Nella casa si accese una luce. — Andiamo. Staff era sulla Belva prima che le parole gli fossero uscite di bocca, con il piede che scalciava sulla messa in moto con un forte movimento verso il basso. La motocicletta riprese vita, e mentre Staff sgassava il casco di Alex finì nel rigagnolo. Partì prima che Alex si fosse piazzato bene, e l'amico quasi cadde indietro per la rapida accelerazione. Non si fermò alla fine della strada e Alex quasi lo perdette di nuovo, riuscendo a rimanere in sella solo aggrappandosi alle spalle di Staff mentre voltavano bruscamente a destra. Staff ingranò la quarta mentre la Cavendish Road scendeva rapidamente accanto al campo da golf, e Alex si reggeva stretto mentre la Belva affrontava la discesa. Si dirigevano verso il pub Hat & Feather sulla Walcott Street; Alex intuì la loro meta quando attraversarono la Landsdown Road, quasi arrotando un pedone mentre rombavano giù per il pendio verso la fine della Paragon, con la sua fila di case stile georgiano coperte di nero per il monossido che
essudavano tutto il fascino bombardato di Dresden. Staff rimase in silenzio mentre parcheggiavano la Belva fuori del Ristorante Hong Kong Garden, con gli occhi azzurri che sprizzavano rabbia mal contenuta mentre si toglieva il casco. Alex abbozzò una smorfia ma Staff distolse lo sguardo, avviandosi verso le porte doppie a battuta del pub. L'Hat era un bar mal gestito, pieno di chiazze e di segatura, in una zona della città che i padri sembravano aver dimenticato. A solo un minuto a piedi dalle vetrine eleganti di Broad Street, Walcot era un angolo oscuro di povertà, droga, e prostitute occasionali. L'Hat era un posto di merda, un luogo di ritrovo per i perduti, gli emarginati, i dimenticati, quelli che non entravano nell'immagine ordinata di Bath di impiegati statali, segretarie, commesse di negozi, e benestanti. In una notte qualsiasi si potevano trovare un paio di spacciatori, una banda di motociclisti, gruppi di hippy che bevevano pinte di birra, agivano liberamente, parlavano dei loro sogni consumati come gli sgabelli del bar che scricchiolavano sotto il peso di quegli ubriaconi professionisti. Staff spinse le porte per aprirle e scomparve. L'Hat era la loro seconda casa. Lì venivano accettati con il resto di quella gioventù disillusa che sorbiva birra e ascoltava il juke-box. Gli Stranglers, i Pistols, Iggy, gli Slits — nel jukebox c'erano tutti. Il pub però non era un paradiso nichilistico, era un nesso tra generazioni, un rifugio dell'ultima erba mobile hippy spazzati via dal vento del '67, quelli che avevano professato di avere le risposte, e la generazione neutra il cui credo era a me non importa. Ad Alex piaceva quel posto e sentì allentare un po' della sua frustrazione mentre entrava nel baccano di 1969 degli Stooges. Staff si fece largo tra la massa dei giocatori verso il bar. L'odore della Flower Best Bitter, una chiara da poco prezzo, e dei superalcolici stagnava tra gli habitué come una nuvola di alitosi. Staff ordinò una pinta di Skol e una Guinness mentre Alex svicolava verso l'angolo più lontano verso Joe il Fumoso, un habitué dell'Hat, attento a non urtare il gruppo di skinhead accanto alla finestra. Il bar era quel tipo di posto in cui una mossa sbagliata poteva fruttarti un cazzotto in bocca. Staff lo raggiunse. Vedendo che aveva gli occhi ancora scintillanti di rabbia, Alex si concentrò sulla Guinness. Meglio non parlare fino a che Staff non si fosse raffreddato. Rivers sospirò dopo aver mandato giù metà della sua pinta. — E adesso? Alex si accese una sigaretta. — Andiamo a vedere l'ultimo spettacolo. — Andiamo! Me ne frego di vedere quel film del cavolo. Ci sono altre
cose. — Non so. — Era vero, non aveva affatto idee oltre a quella di farsi di brutto guardando violenza in celluloide. Staff brontolò. — Abbiamo la Belva. Pensa a qualche posto dove andare. — Bristol? — Naah. — L'autostrada? — No — disse di nuovo Staff. — Che puttana! — E piantala — disse Alex, infastidito. — Dacci un taglio. — 'Fanculo, non era mica la tua ragazza. — Va bene, però... — Senti, sono incazzato, va bene? — Lo so — disse Alex dopo un attimo, battendogli sulla spalla. — Scordati di Tully. Ci scommetto che sta alla polizia a convincere quei porci che non ne sapeva niente della droga di Birch. Staff annuì, guardando gli skinhead. Alex mise giù il bicchiere. — Devo fare un goccio d'acqua. Il bagno degli uomini era sul retro, dalla parte opposta. Iniziò a farsi strada attraverso la calca, evitando i corpi per quanto poteva, particolarmente oltrepassando un gruppo di punk rapati a zero che bevevano con un paio di ragazzi della banda dei Bristol Angels. Improvvisamente, a pochi metri dalla porta del bagno, si arrestò. In piedi proprio di fronte a lui c'era una figura che riconobbe immediatamente, anche se vedeva quel tizio solo di schiena. Quella figura gli aveva tormentato i sogni per troppi anni. Hougan. Tutto il suo metro e ottantacinque di statura gli bloccava l'entrata al bagno, e il piantagrane dai capelli neri stava parlando con un paio di ragazzine minorenni. Merda! Alex si gelò. Non c'era modo di raggiungere il bagno senza toccarlo, dato che in quell'angolo i giocatori erano ben stretti. Anche se erano due anni che non incontrava il suo nemico, più di dieci anni di guai gli avevano instillato una risposta pavloviana: Hougan significava guai, Hougan significava dolore. Inconsciamente si portò le dita alla mascella, toccandosi la cicatrice di cinque centimetri sotto il mento, un regalino di Hougan sul campo da rugby della Ralph Taylor. L'ansia lo prese alle gambe, e perse lo stimolo di pisciare.
— Hai fatto presto — disse Staff mentre tornava. Alex scosse le spalle. — Ho un'idea — Staff sorrise mestamente. — Facciamo una scappata al Circolo, vediamo cosa cucinano. Forse lì c'è Alison. — Alex scosse di nuovo le spalle, prendendo la sua pinta. L'idea non lo attraeva, e per quanto riguardava Alison... Per due anni avevano passato la maggior parte dei venerdì sera al Circolo, il Club della Gioventù Cristiana di S. Stephen, in parrocchia, un incubo vittoriano di palazzo nella terra di nessuno di Walcot. Ci erano andati dietro invito di Adam Gibson, il figlio del reverendo, e dopo una settimana o poco più era diventato un punto fisso della loro vita. Quando sei minorenne e hai problemi a farti servire nei pub, cosa si può fare se non divertirsi da sé? E il Circolo era diventato quel divertimento. Una volta esaurite le possibilità della sala principale — skateboard, calcio, fare l'altalena dai balconi — avevano scoperto gli angoletti bui dell'edificio, luoghi dove poter giocare altri giochi, come fumare erba nell'appartamento vuoto del custode, gettare gavettoni dal tetto alla gente di sotto, infilare le dita tra le cosce umide e vogliose delle ragazze del coro, coperti dall'oscurità della cantina. Per la gente con la mente distorta il Circolo era un festino di tentazioni adolescenziali. Allora era divertente, ma ora Alex sentiva di essere cresciuto ben oltre i confini del Circolo, di essersi laureato al mondo reale di sesso, droga e rock'n'roll. Passare al Circolo avrebbe voluto dire dissotterrare un vecchio amico per cercare tra le sue ossa alla ricerca di nuove idee. Ma Staff mise giù il bicchiere vuoto e si diresse verso la porta prima che Alex potesse obiettare. Era a duecento metri circa sulla Walcot Street quando Alex finì la birra e si fece largo a forza attraverso i giocatori, felice di mettere strada tra lui e lo spettro di Hougan. Dato che il Circolo non era lontano dal pub, Staff ovviamente non si sarebbe disturbato a prendere la moto. Alex gli corse dietro. La tazza di tè era rimasta intatta sul tavolo mentre Jamie era seduto con la testa tra le mani. A differenza della tazza, la sua mente era vuota. Non aveva idea di quanto tempo avesse trascorso seduto lì sulla sedia con il telefono in mano come una corda di salvataggio gettata a un uomo in acque agitate, ma alla fine aveva trovato la forza di arrivare in cucina dove si era fatto una tazza di tè, pensando che una bevanda calda lo avrebbe risvegliato dal suo stupore.
Lo fece, e poi perse l'interesse. Il terrore gli attanagliava lo stomaco, come frutta candita digerita male. Si sentiva perduto. Alex. Una vaga immagine del fratello, teso, accigliato, gli arrivò nello spazio bianco dei suoi non-pensieri. C'era qualcosa che non andava. Mentre si allungava per afferrare la visione, per sentirla, l'immagine si dissipò, danzò intangibilmente a distanza. Era andata. Si svegliò di scatto quando il braccio gli scivolò dal tavolo e si rese conto di essersi appisolato. L'orologio sul camino segnava la 10.05; era rimasto addormentato per quaranta minuti. No, non addormentato, da qualche parte tra i due stati di coscienza, come quel tipo nel libro di King, La zona morta. Lui era stato nella zona morta, uno stato di niente, nuotando su correnti fuori da lui. Si era sentito così già una volta, da bambino. Non si ricordava con chiarezza, ma mentre si sforzava, si riattivò un circuito perduto, un circuito che aveva riposato a lungo, bruciato da un sovraccarico di input. Alex. Àlex era la chiave. Alex si era arrampicato sul tetto della capanna del giardino, per atteggiarsi. Jamie era stato intontito tutto il giorno; poi, quando Alex aveva cominciato a salire sui rami dell'albero, aveva saputo che il fratello sarebbe caduto molto prima che il metallo ondulato cedesse, gettando Alex nel letto di fiori sottostante. Lui lo aveva saputo. Come? Non ne aveva idea. Perché non si era ricordato di cosa era successo quel giorno? Ricordava il resto: Alex portato all'ospedale da un vicino di casa; la madre arrabbiata e depressa — arrabbiata con Alex perché si era arrampicato, depressa per non avere una macchina e dover dipendere dal vicino — Alex con la gamba ingessata per sei settimane, Jamie geloso perché suo fratello non sarebbe dovuto andare a scuola. Invece di sollevarlo dall'ansia, quel ricordo inaspettato gli rinfocolò la tensione, con il terrore come frutta candita che diventava cocci di vetro per l'apprensione — tagliente, penetrante — che gli rivoltava lo stomaco. Quell'impressione, una ragnatela sottilissima di conoscenza a priori, lo
raggiunse di nuovo come una catena di sensazioni; odori, tocchi, suoni, tutti sconosciuti eppure terribilmente familiari. Buio. Polvere. Pietra fredda. Eco. Voci in una cantina. La voce di una ragazza. Ridacchiante. Ubriaca. (noia, noia, noia) (puttana) Cercò di amplificare le sensazioni. (...non mi piaci...) Cercò di vedere. (Gibson... sgualdrina...) Ma tutto ciò che riusciva a percepire erano frustrazione, tracce di sensazioni, brandelli di pensieri. (...nnata perdita... tempo... venerdì...) L'input sensoriale saltò, sostituito da un'oscurità schiacciante, freddo e dolore travolgenti. (DOLORE DOLORE DOLORE) Il mondo volava in pezzi. Erano ormai le dieci e quaranta e si sentiva male di nuovo. Ebbe i conati di vomito fino a che la gola non gli fece male, forzandosi di bere il tè freddo per alleviare il dolore. C'era qualcosa che non andava con Alex. E stava per succedere qualcosa di peggio. (Cosa?) Ma come poteva trovare suo fratello prima che (Cosa?) fosse troppo tardi? Alex svitò il tappo della bottiglia di sidro, ne bevve una lunga sorsata, poi la passò a Staff. Alison Gibson, la sorella di Adam, ridacchiava mentre si sedeva nella vecchia sedia a rotelle in mezzo alla cantina cullandosi in grembo una bottiglia di Bacardi da mezza pinta quasi vuota. Lui aggricciò il naso dal disgusto. La ragazza era quasi fuori di sé dal bere. — Mi annoio — disse lei. — Benvenuta tra noi — rispose Staff. Alex riusciva a vedergli solo il viso nell'oscurità della cantina, dato che
l'unica luce proveniva dalle finestrelle lungo il muro lontano, accanto al soffitto, luce arancione dei lampioni sulla strada. Non era sufficiente per vederci, ma era scura abbastanza per i segreti degli adolescenti; e Alison ne aveva molti. Alcuni lui li conosceva: aveva perso la verginità a tredici anni e a sedici aveva già avuto tre storie con uomini sposati (tra cui un membro anziano della chiesa) e rubava regolarmente i cosmetici dal supermercato. Lei gli aveva raccontato un bel po' di cose la mattina che lui si era infilato nella parecchia per scoparsi quella stupida proprio sotto il naso del reverendo Gibson. Lei gli aveva fatto anche il suo primo bocchino sul tetto della sala parrocchiale una notte d'estate. Dopo quell'episodio erano usciti insieme per un po' — la madre di Alex era deliziata dal fatto che il figlio uscisse con la figlia del reverendo — ma si era stancato presto dell'infedeltà di lei. Alison era una sgualdrina, pura e semplice. Non ne aveva mai abbastanza, e lui avrebbe voluto una relazione fissa e monogama, almeno per un po'. Staff bevve a lungo dalla bottiglia di Bulmers, poi gliela ripassò. Alison puntò il dito alla bottiglia di rum. Per diverse sorsate nessuno parlò, e lui decise che era ora di pisciare. Alex dette la bottiglia a Staff, ruttando mentre lasciava la stanza dirigendosi verso il gabinetto oltre la porta accanto. Mentre si svuotava la vescica, si sentì la testa leggera, come se si fosse fumato un altro spinello, e pensò di rollarne uno appena raggiunto Staff. Ma mentre entrava, già prima che i suoi occhi si abituassero all'oscurità, i grugniti eccitati di Alison gli rivelarono una passione ubriaca. Avvicinandosi, vide che Staff aveva alzato il vestito rosso della ragazza fino alla vita, e la mano destra lavorava sotto le mutande mentre si baciavano con la lingua. Alison stava cercando di slacciargli la cinta. Alex prese il sidro, ruttando. Alison mugolò. — Non restartene lì da una parte — mormorò lei mentre Staff smetteva di baciarla in bocca, raggiungendole il collo. Alex si fece più vicino. Lei si sporse verso di lui, gli trovò la guancia, lo toccò delicatamente. — Baciami — disse, poi si lamentò di nuovo mentre Staff le muoveva le dita dentro e fuori dal sesso. Alex si avvicinò, e le due lingue si incrociarono. Pensieri del passato — Alison che gli faceva un bocchino all'ultima fila del cinema, che gli apriva le gambe sul pavimento della parrocchia — si misero a fuoco, un misto di disgusto ed eccitazione che gli si scontravano dentro. Le girò dietro e lei cercò di baciargli la bocca ma non riuscì a raggiungerlo. Lui le passò la lingua su un orecchio, sentendola tremare mentre la circondava con le braccia, le stringeva il seno con le mani e lei si appog-
giava indietro contro il suo petto. Staff le tolse le mutande, agitando ancora le dita dentro e fuori dal suo corpo, più violentemente, più velocemente. Alison boccheggiò. — Più piano. Staff non se ne curò. Con la cinta slacciata, lei cercò di tirargli fuori il cazzo. — No, lentamente — disse lei. Lui borbottò. Le mani di Alex erano sotto il maglione di lei, e le massaggiavano i seni larghi. Glieli strinse forte. Alison squittì come un maiale battuto. — Non... — Sshhh. Vide che Staff prendeva la bottiglia di sidro, e poi lei gridò forte quando lui sostituì le dita con il collo di vetro. Cominciò a divincolarsi tra le braccia di Alex, ma le braccia di lui rimanevano immobili. Mesi di esercizi ai pesi gliele avevano ingrossate e rafforzate; e lei non riusciva a sciogliersi dalla sua presa. — No, no — mi fai male! Staff le ficcò dentro la bottiglia. Fuori. Dentro. Fuori. Dentro. Alison urlò di nuovo e Alex sentì le lacrime di lei che gli si spiaccicavano sul dorso delle mani. Provò disgusto e frustrazione. E una scintilla di piacere. Le toccava quello che si era meritato, quella troietta accalappia cazzi. Si rese conto che a parlare era l'alcol e la droga, non il suo vero io. La sua lucidità mentale guizzò, mentre una parte segreta e malata di lui si ergeva da un luogo oscuro. Alison piangeva copiosamente, mormorando: — nononononononononono — senza fermarsi. — La sedia a rotelle — disse Staff, togliendo la bottiglia. Alex esitò. Questo è sbagliato. Ma la sua metà oscura contrattaccò quel pensiero, vomitando tutti gli anni in cui era stato snobbato dalle ragazze: quelle di Newbridge che lo prendevano perennemente in giro; quelle degli anni della sua prima adolescenza; un torrente di rifiuti e umiliazioni. Frances Clarke, figlia dell'insegnante che aveva fatto dei suoi giorni a Newbridge una tale miseria, facendo la
spia perché lui aveva rubato un libro della biblioteca, con il suo accento delle classi alte che gli risuonava nelle orecchie. Il libro l'ha preso Hurst. Frances e la sua amica inseparabile Melanie, quel porcellino grasso, che lo prendevano in giro, dicendogli che non sarebbe mai stato niente, che non valeva niente, che nessuna ragazza avrebbe... — La sedia a rotelle — disse con forza Staff. Alex ubbidì. Si sentiva come Alex il Balordo di Arancia Meccanica che stava per fare il vecchio dentro-fuori-dentro-fuori. Strattonò Alison fino alla sedia mentre Staff faceva strada. — NO! — Chiudi quella bocca, cazzo. Alex barcollò fino a davanti, tenendole le mani mentre Staff si portava dietro di lei. Alison aveva il culo proteso dallo schienale della sedia. Staff si tirò giù i jeans, con il cazzo eretto, puntato nell'oscurità come un bastone da rabdomante, alla ricerca cieca del buco. La rabbia di Alex si allungò come un elastico al punto di rottura — poi scartò indietro in un impeto di lucidità. Questo è... sbagliato. I pensieri si schiarirono. Non voleva fare parte di quella... brutalità. Si sentì male dalla paura, mentre Staff afferrava la bottiglia del Bacardi. — Staff, non... — Tienila! Impossibilitata a vedere, allarmata da quello scambio di battute, Alison si divincolò con nuova lena. Staff si piegò su di lei, tappandole la bocca con una mano, soffocando le sue grida. — Staff, no, questo è... — Cosa? — Sbagliato. Staff si fermò. — Stai diventando un bigotto? — No, non è... non è giusto! — Vaffanculo. Staff abbassò la bottiglia, afferrando i fianchi di Alison, pronto a penetrarla. La paura divenne una nuova creatura. Alex non poteva — non voleva — aiutare il suo amico. Quella creatura si chiamava sfida e lui le lasciò andare le mani. Lei si divincolò e Staff perse l'equilibrio. Quando alzò le mani
per colpirla, Alex balzò in avanti. — Non farlo! Afferrò le braccia di Staff, spingendo indietro l'amico. Lottarono per un breve istante, poi Staff se lo scrollò di dosso. — Va bene, va bene. Alex gli prese un braccio. — Ho detto va bene, accidenti a te! Alison giaceva spompata accanto alla sedia, singhiozzando ad alta voce, profondamente, tirandosi la gonna sulle gambe. Alex guardò Staff, e il ragazzo, più alto, lo guardò di rimando, con le scarne luci provenienti dalla finestra che gli illuminavano le linee di tensione attorno alla bocca. — Va bene — disse con inaspettata dolcezza, distendendo il braccio. — Hai ragione. — Alex lo lasciò andare, non convinto dal cambiamento d'umore. Poi il viso di Staff si aprì come un pavimento rotto, e la bocca si allargò in un gran sorriso. — Hai ragione. — Si tirò su i jeans, spingendo dentro con difficoltà la sua erezione, il membro che puntava come un dito accusatore. — Andiamo — disse. Alison singhiozzava forte. Quando la nausea lo travolse Jamie era alla fine della West Lea Road. Barcollò fino a un muretto per sorreggersi mentre la sensazione gli correva dalla bocca dello stomaco, trapassandolo. Non veniva su niente — non c'era niente da tirare fuori. (Alex... non...) La sensazione svanì istantaneamente come era arrivata, ma aspettò fino a che non fu certo di poter camminare diritto. Doveva trovare Alex. Alex era in pericolo. (Dove?) (...sbagliato...) Jamie non ne aveva idea. Tutto ciò che sapeva era che doveva allontanarsi da quella casa. Con il passo lento di un sonnambulo continuò a camminare, dirigendosi verso Newbridge Hill come se una forza gravitazionale lo spingesse verso il fiume. Era irrazionale allontanarsi dalla strada che lo avrebbe portato a casa dei Rivers, l'unico posto dove pensava di poter trovare Alex, ma nien-
te sembrava razionale. L'istinto gli prese la mano e lui affrettò il passo. Elfman mise la mano sul braccio di Bledsoe. — Grazie per avermi aspettato, Harry. — Di niente. — Bledsoe prese la fattura dal capo magazziniere. Erano le undici e sette, e da qualche parte lì vicino una sirena della polizia tagliò la notte di Bristol. Desiderava essere a casa, con una birra in mano, i piedi che si riscaldavano davanti alla stufa a gas, non in piedi, a sedici miglia da Bath. Ma almeno il lavoro era fatto. La casa lo chiamava. — Ci vediamo la prossima settimana — disse Elfman. L'alito del capo magazziniere puzzava di birra e lui pensò "almeno tu te ne sei fatta una stanotte". Eppure c'era una bottiglia di Pils che lo aspettava in frigo e Kath aveva sempre un piatto di tramezzini pronto per il suo ritorno. Bledsoe scivolò nell'abitacolo, accendendo il motore mentre Elfman lo salutava con la mano. La Broad Street era deserta mentre si dirigevano verso la Paragon, calmi ora dopo la lite. Staff non gli parlava da mezz'ora, apparentemente vergognandosi del suo comportamento. Prima che lasciassero il Circolo Alex si era accertato che Alison fosse abbastanza coerente da capire la sua minaccia. Se dici qualcosa farò in modo che tuo padre riceva le foto. Fottersi quanti più uomini poteva avere sottomano per Alison non era abbastanza. Doveva conservare delle tracce visive, fotografandoli dopo l'orgasmo con una Polaroid. Ma anche questo non l'aveva soddisfatta. Stanca di quella galleria di organi, aveva cominciato a usare l'autoscatto per conservare le prove dei suoi rapporti dove lei era la star dello spettacolo. Ma, come un diario segreto, scritto con la speranza perversa che qualcuno lo legga, un tale confessionale diventava valido solo quando qualcuno lo leggeva. Lei aveva commesso un errore quando aveva mostrato ad Alex i suoi lavori artistici, pensò. Era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso; lui aveva smesso di uscirci insieme la settimana successiva, non prima però di averle rubato diverse fotografie da far girare per la scuola, inclusa una scattata clandestinamente al signor Dixon, il guardiano della chiesa, mentre si masturbava sul divano della parrocchia. Convinto che lei non avrebbe detto nulla se ne andarono, con un silenzio imbarazzato tra di loro. Quando uscirono dalla sala, Staff si mosse in dire-
zione dell'abbazia e del centro città, cercando di camminare per smaltire la rabbia, la frustrazione e la colpa, ritornando in sé mentre l'ondata di droga e alcol si dissolvevano. Alex lo conosceva abbastanza bene da rendersi conto che Staff non era uno stupratore. Si sentiva solidale con il suo amico, che camminava a testa bassa, le spalle ingobbite come se portassero un peso tremendo. Erano legati da una noia disperata e dalla tacita consapevolezza che il futuro aveva poco in serbo per loro. Specialmente per Staff. Una madre alcolizzata, un padre distante. Qualifiche senza valore. Ora poi era senza lavoro, con pochi soldi, e niente ragazza. Anche se Alex stava studiando per la maturità e per poter iscriversi all'università, non aveva nessun desiderio di andare in un'altra cittadina per studiare per altri tre anni. E poi cosa? Una carriera? E come cosa? Ragioniere? Impiegato statale? Sì, con una casa con tre camere da letto, un mutuo gravoso, una moglie e tre figli. Grandioso. Si sarebbe svegliato una mattina per ritrovarsi cinquantenne, un uomo d'affari sovrappeso, come tutti gli altri. Staff sarebbe vissuto in una casa popolare con una moglie, dei figli e la fedina penale sporca. Questo se vivrai abbastanza a lungo, pensò. Staff lo faceva pensare a "La mia generazione" — spero di morire prima di invecchiare. Prigione, morte, o una casa popolare. C'era differenza tra le tre cose? Quando raggiunsero l'inizio della Broad Street Staff si voltò. — Grazie. Ero fuori fase. — Non pensarci. — Alex si accese una sigaretta. Arrivarono al vicolo che tagliava la Paragon, con i suoi gradini ripidi che gli ricordavano quelli dell'Esorcista, dove il prete muore lottando contro il demone e la sua crisi mistica. Alex non credeva in nulla. La sua vita era una lunga strada diritta, né mattoni gialli né pavimentazioni d'oro, solo una distesa annebbiante di liscio asfalto nero misurato in nascita, scuola, lavoro, morte. Bath era antica, sarebbe rimasta per centinaia di anni. Ma lui sarebbe scomparso da un pezzo, morto a cinquant'anni per un attacco cardiaco o crepato di noia molto prima di allora. Thackeray poteva anche aver scritto "E per quanto riguarda Bath, tutta la storia è andata, si è bagnata e ha bevuto lì", ma Alex provava la sensazione di essere sommerso da quel peso culturale, una cultura in cui lui non trovava posto. Defoe aveva avuto ragione quando aveva descritto la città come un luogo che portava a commettere il peggiore di tutti gli assassinii — ammazzare il tempo. Non c'è Dio, senza dubbio, pensò Alex mentre scendevano i gradini. Ag-
grottò le ciglia mentre Staff si fermava sul selciato. — Cosa... Staff gli fece un cenno secco. — Guarda lì. A cinquecento metri, quasi nascoste dalle ombre gettate dal forno abbandonato, due figure si battevano dentro e fuori dalla luce dei lampioni come ballerini ubriachi. — Questo potrebbe essere interessante — disse Staff. Si avvicinò, osservando attentamente. Alex gli tenne dietro. I due erano mal assortiti — uno alto, grande, potente, l'altro circa uno e sessanta, di costituzione delicata; e la scontava tutta. Il tizio alto stava spingendo il bassetto, giocandoci, tenendoselo lontano con le braccia più lunghe. Il piccoletto cercò di scalciare, attirandosi per tutta risposta un pugno, che lo mandò a schiantarsi contro il forno. Alex tirò un sospiro tra i denti stretti. Hougan. — Staff — disse. Lui si voltò, annuendo. — Ho visto. Alex sentì la rabbia montargli da dentro le viscere come una fiammata. La stessa vecchia solfa, la stessa pantomima; un suono di pugni, una danza di dolore. Hougan teneva il tizio più piccolo — era sempre un tizio più piccolo, pensò — nel palmo della mano, intrappolato, arrabbiato, con la cautela gettata al vento. Era sempre la stessa solfa: stuzzicava qualcuno fino a che questi rispondeva, causava all'altro tanto dolore finché questi non perdeva il controllo, poi scattava per uccidere. Hougan stava sbattendo il bassetto contro le porte, e il rumore della testa di quel tizio che colpiva il legno era abbastanza forte perché Alex lo sentisse. Ricordi dolorosi che arrivavano a ogni colpo: Hougan che lo pestava a sorpresa sul viso a Newbridge. Hougan che gli tendeva un agguato in un giorno fradicio di pioggia mentre tornava a casa. Hougan sospeso per aver sbattuto la testa di un ragazzino più grande sul campo da gioco. Hougan che scattava su di lui sul campo da rugby, dandogli un calcio in faccia, e simulando un incidente. Alex portato all'ospedale: dieci punti e un'otturazione per il dente traballante. Hougan portò un gancio alla testa dell'altro. Quando il pugno gli toccò il viso ci fu uno schianto, e il piccoletto rimbalzò dal muro mentre il sangue
gli colava dal naso fatto in pezzi; un cazzotto allo stomaco e l'oppositore andò rapidamente giù. Alex guardò Staff, con l'espressione dura. — Facciamoci quel bastardo. Staff annuì. Hougan sovrastava il corpo caduto, pronto a scatenare i piedi. L'altro ragazzo, appena cosciente, alzò inefficacemente una mano. Hougan tirò indietro il piede con lentezza deliberata, assaporando ogni ruga di paura del viso del ragazzo, inconsapevole del fatto che Alex e Staff lo avvicinavano dall'altra parte della strada. Vedendo che stava per dare un calcio sulla testa al ragazzo, si affrettarono. Hougan si voltò mentre Staff si gettava su di lui, e caddero insieme quando il suo pugno destro si scontrò con lo sterno di Hougan. Hougan strisciò verso le gambe del ragazzo che aveva atterrato, portandosi dietro Staff ma senza essere in grado di sgusciare via mentre tutto il peso di Staff gli atterrava sul corpo. Staff lo colpì allo stomaco, ma Hougan si vendicò con il pugno sinistro, colpendo Staff su un lato della testa. Staff vide le stelle, e il dolore gli corse giù per il collo. Hougan gorgogliò con la furia di un orso arrabbiato, cercando di scrollarsi di dosso Staff mentre arrivava Alex. Alex esitò. Un errore. Hougan chiuse le gambe a forbice, incastrando Alex tra le ginocchia, e mandandolo ad atterrare pesantemente sulla spalla sinistra, col casco che volava. Lui urlò. Staff, nonostante le campane che gli suonavano in testa, afferrò Hougan da dietro, attorno al viso. Hougan grugnì. Alex gridò — Fattelo! — scalciando con il piede destro alle palle di Hougan. Lo mancò, e il piede andò a sfregargli l'anca. Staff si alzò in piedi e calciò. Il piede colpì il petto di Hougan, ricacciando indietro il ragazzo, mandandogli la testa a sbattere sul selciato. — È mio! — urlò Alex, tuffandosi mentre portava giù il pugno destro come un pistone, spiaccicando il naso di Hougan per tutta la faccia. Il dolore al braccio sinistro era intenso, ma non intenso come la rabbia incontenibile che gli esplodeva nella mente. L'animale impaurito e ferito dentro di lui emerse a denti scoperti, gli artigli sfoderati, mentre anni di paura e di dolore gli fluivano fuori in un'ondata di adrenalina. Lo colpì ancora. Ancora. E ancora. Tutto si ammantò di una nebbia rossa e non sentì o si accorse che la mascella di Hougan si rompeva, che i denti saltavano. Né sentì Staff gridargli
di smettere. Abbassò il pugno per la quinta volta, colpendo Hougan sulla guancia sinistra e sbattendogli la testa in un angolo innaturale; il collo scrocchiò. Nel profondo di Alex, in quel posto malato e segreto, una voce cominciò a ridere di isteria folle. Urlò — Sei un fottuto bastardo, fottuto bastardo — mentre Staff lo schiaffeggiava con forza, facendolo scendere dal petto di Hougan, su cui era a cavalcioni. Alex balzò in piedi, con la mente presa su una folle lunghezza d'onda, brandendo il pugno. — Ne vuoi un po'? Vieni, stronzo! Staff, scuotendo la testa, guardò Alex come se lo vedesse per la prima volta. Alex fece per scalciare Hougan ma Staff lo afferrò. — È morto! Schiaffeggiò Alex per la seconda volta. Alex si gelò d'improvviso, poi scosse la testa. — Cosa dici? — È morto. Gli hai spezzato il collo. Gesù, Alex, è dannatamente morto. Alex fissò in basso verso Hougan. Il viso sembrava fatto di diversi chili di carne per cani. — Dio... Dio, o Gesù, Dio... nonononono, Dio, no, Gesù... Cominciò a dondolarsi avanti e indietro, e perse la voce. Staff guardò verso la strada. Dall'estremità del Beaufort Hotel si avvicinava una macchina. — Andiamo — disse Staff. — Aiutami. Cominciò a trascinare il corpo nel vicolo buio accanto al forno. Alex stava ancora dondolando, con le braccia raccolte sul petto. Il ragazzo semisvenuto mugolò. — Andiamo! Alex inciampò. — Merda. — Staff tirò il corpo di Hougan oltre il campo di luce. La macchina era più vicina. — Alex! Alex si scosse lentamente. — Quell'altro! Alex sembrava ebete. Staff si avvicinò al ragazzo malmenato. — Vieni, stupido coglione! La macchina era quasi su di loro.
Staff afferrò il ragazzo semicosciente, allontanandolo dalla porta. Alex ora capiva, e il panico sostituiva lo shock. Si abbassò, prese le gambe del ragazzo e aiutò il suo amico a portare il giovane intontito nel buio mentre la macchina li oltrepassava. Il ragazzo mugolò ancora. — Cosa facciamo... — Ce ne andiamo, cavolo — scattò Staff, prendendo Alex per un braccio mentre si fermava per raccogliere i caschi. La macchina non si era fermata. Alex esitò, mentre Staff gli dava il casco rosso. Guardò il vicolo con l'espressione di un bambino confuso. — Muoviti. Prese il casco. Jamie era giù per la Upper Bristol Road vicino al fiume quando il suo braccio sinistro cominciò a formicolargli, spilli e aghi che gli correvano dalla spalla al polso. Si fermò. La strada lì era buia come la pece; l'unica luce proveniva dagli alti lampioni color arancio dall'altra parte del fiume, dove la Lower Bristol Road diventava strada statale. Una immobilità di tomba si addensava sui campi aperti e sul cantiere navale, eppure Jamie sentiva l'aria danzare, elettrica. Si sedette sul muretto, massaggiandosi il braccio. (via di qui) Aveva seguito una bussola interna con la fede cieca di un pellegrino non vedente, la mente una tabula rasa, libero da direzioni conscie. Ora la bussola girava vorticosamente, una spirale vertiginosa di confusione. (muoviti) Il pensiero era debole, gli arti di piombo. Sapeva che il suo viaggio era quasi concluso. Qualsiasi strada non tracciata lui stesse percorrendo, la sua destinazione era dall'altra parte del fiume, e non aveva controllo sugli avvenimenti che stavano per accadere. Era un marinaio alla deriva in un mare psichico con una barca senza timone, in quel momento sospeso in un cambiamento di marea. Poi la bussola smise di vorticare e lui si incamminò. Staff guidò la Belva giù fino alla Queen Square, osservando attentamente i limiti di velocità. Ad Alex sembrava che si stessero muovendo a passo di lumaca. Hougan era morto.
Non sentiva niente. Niente rimorso, panico, nessun residuo della nausea che aveva provato mentre si avvicinavano alla moto, quando il suo stomaco aveva improvvisamente eseguito una capriola in avanti, espellendo in un fiotto caldo Guinness e sidro sul selciato. Vuoto. Aveva la testa innaturalmente leggera e chiara. Lo aveva ucciso. Alex rise silenziosamente mentre Staff si dirigeva verso la Lower Bristol Road. L'orologio nell'abitacolo segnava le undici e trentacinque e Harry affrontò dolcemente una curva. Dal suo sedile alto vedeva il rettilineo di un chilometro illuminato come una striscia di neon tra le siepi irregolari e le scure terre coltivate. Quando uscì dalla curva il semaforo era verde e lui accelerò, desiderando che rimanesse verde. Sbadigliò. Accidenti, avrebbe portato a casa il camioncino. Se lo avesse riportato al deposito non sarebbe arrivato a casa prima di mezzanotte, se poi quella dannata Capri intendeva portarcelo. L'ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era passare il suo tempo sotto il cofano cercando di farla andare se non voleva partire. Casa. Tramezzini e birra. Cazzo, avrebbe fatto la Lower Bristol Road. Con quella strada sarebbe stato di fronte al fuoco in dieci minuti. Alex alzò la visiera del casco e bussò sulle spalle di Staff. Lui andava ancora piano e quel ritmo irritava Alex. — Punta verso Bristol — gridò. Staff annuì. La casa di Staff aveva poca attrattiva per Alex, e la casa di sua madre sembrava ad anni luce di distanza. Non puoi tornare di nuovo a casa. Aveva lasciato i confini sicuri e noiosi dei suburbi della classe media, con la mente, se non con il corpo. Non era più Alex Hurst, era Alex il Balordo. Aveva gustato la rara prelibatezza della vecchia ultra violenza ed era
rinato. Hougan era andato, e così le vecchie paure. Avvertiva un cambiamento anche in Staff. Erano stati nel fuoco e ne erano emersi indenni. Puntò il pugno davanti al viso di Staff, imitando il gesto di un'accelerata. Lui annuì con entusiasmo. A tutto gas. Il legame tra di loro ora era più forte, inscindibile, due spiriti male accoppiati per classe sociale eppure emozionalmente uniti, un paio di gemelli siamesi. Staff portò la Belva a settantacinque e Alex sorrise. Niente aveva importanza. Solo la velocità, gli uomini, e la macchina fusi in un ménage a tre di movimento rombante e accelerato. Le case lasciarono il posto alle industrie e presto le industrie avrebbero lasciato il posto al lungo rettilineo nero prima della statale. Si sentì euforico. Com'era quella battuta del film di James Cagney? "In cima al mondo". Sì, in cima al mondo, mamma. Alex rise. La coscienza di Jamie si fratturò non appena mise piede sul ponte a dosso. Un attimo guardava avanti, quello successivo stava paradossalmente guardando se stesso verso il basso da una grande altezza, un figuretta quasi mangiata dal buio, osservando l'estremità del ponticello verso il semaforo. Quella visione spaccata durò un secondo, un'eternità, poi si sentì cadere dal cielo, scendere a velocità incredibile, con il corpo che gli si precipitava contro. Udì il fruscio di enormi ali di cuoio che battevano nel cielo notturno, antiche e innaturali ali mai toccate dal tempo. Gridò mentre qualcosa gli sferzava il corpo, un lamento acuto che per un istante gli perforò le orecchie. Silenzio. Totale. Immobile. Carico di strane promesse. La paura e l'ansia erano svanite, l'immobilità era una sensazione inimmaginabile sino a un attimo prima, e gli toccava le estremità di tutti i nervi, di ogni molecola. Era quasi finito. Harry sfregò una mano contro gli occhi stanchi mentre si immetteva sulla statale a ottantacinque miglia all'ora. Il sonno gli strisciava sulle spalle. Sbadigliò. Mezzo miglio al secondo semaforo, poi la Lower Bristol Road. Il sema-
foro era rosso. Frenò, sperando che scattasse il verde. Jamie vide il camioncino Bedford arrivare dalla statale mentre udiva il potente rombo di una motocicletta dietro di lui, molto distante, ma che si faceva più forte a ogni secondo. Il semaforo diventò verde e il camioncino accelerò. Il rombo della motocicletta aumentò. Harry vide la moto che si avvicinava a quella che sembrava Velocità Supersonica Cinque. Un secondo prima il faro era una piccola orbita ciclopica gialla; quello dopo, molto più grande. Quel pazzo bastardo deve andare a cento, pensò, trattenendo uno sbadiglio. La luce traballò improvvisamente. Una traccia di scintille volò come lucciole impazzite. Il faro si piegò ad angolo verso il camioncino. Prima di riuscire a urlare, Harry venne scagliato contro la cintura di sicurezza, con la testa che frustava all'indietro mentre la moto urtava contro il motore del camioncino. Harry urlò. Jamie spalancò gli occhi. La notte esplose con il rumore assordante di centoventi chili di moto che si fondevano frontalmente con una tonnellata e mezzo di camion. Al momento dell'impatto la Belva andava a 113 miglia; il camioncino a 89; uno scontro a una velocità totale di 202 miglia orarie. L'alta velocità diventò una corsa al rallentatore e Jamie osservò con chiarezza innaturale tutti i dettagli dello spappolamento dei corpi. Il passeggero della moto si alzò sulla testa del conducente e si spiaccicò in uno schizzo rosso, come un pomodoro troppo maturo scagliato contro un muro. Brandelli di muscoli, frammenti di arti protesi all'infuori, l'impatto del corpo frantumò il parabrezza. La moto si contrasse su se stessa mentre la griglia del motore sembrò inghiottirla completamente, sorridendo con un gran ghigno da lupo mentre uomo e macchina diventavano muscoli e metallo, budella e motore. Il camioncino distorto continuò la corsa per duecento metri, correndo sul marciapiede alla sinistra di Jamie e dirigendosi verso il muro mentre il metallo raschiava l'asfalto, scavando dei solchi nella carne scura della terra prima di arrestarsi a un solo metro dalla pietra, tracciando i suoi movimen-
ti con le scintille. Il silenzio discese improvvisamente con la solennità finale di un sipario che conclude l'ultimo atto. 19 settembre 1980 La notte prima c'era stata una brutta gelata e i fiori sulle tombe stavano morendo. Jamie si strinse di più la cinta del cappotto attorno alla vita, soffiandosi sulle mani, desiderando di aver portato i guanti. Il cimitero era deserto, anche se era mezzogiorno. Persino gli uccelli sugli alberi erano silenziosi; l'unico rumore era un rombo sommesso di camion sulla Rush Hill. — Be', Alex, come ci si sente? Le sue parole fluttuarono nell'aria autunnale e si sentì cosciente. Se quello fosse stato un film di Brian de Palma, pensò, Alex sarebbe apparso davanti a lui uscendo dalla tomba. Ma era impossibile. Quando la polizia e gli addetti all'ambulanza erano arrivati sulla scena, non c'erano corpi; Alex aveva cessato di esistere, e i suoi resti mortali erano stati sparpagliati su una vasta area dalla forza dell'impatto. Se non fosse stato per il fatto che Stafford Rivers era riconoscibile — anche se si era schiantato nel blocco motore con tale forza che i medici avevano impiegato tre ore per estrarre il corpo martoriato — la polizia avrebbe impiegato dei giorni per identificare il passeggero della moto. Alex era stato l'incubo del patologo, una minuta segatura umana. Niente combaciava. La parte più grande del suo corpo era una sezione della gabbia toracica e della colonna vertebrale, ma a cosa poteva essere attaccata? Non c'erano arti. Solo frammenti di ossa, lembi di pelle, tracce di muscoli, una manciata di denti, e pezzi di cranio. Suo fratello si era vaporizzato. Non c'era stato abbastanza da seppellire, e quel poco rimasto aveva riempito solo due bustine di plastica. Alex non sarebbe diventato cibo per i vermi, nemmeno i brandelli che ne restavano; era stato cremato, tutti e sette i chili. Ma la madre aveva insistito per una lapide, e un'incisione, da elevare accanto al tumulo del padre. Jamie era sorpreso dalla propria reazione alla morte di Alex. Non aveva provato niente allora e non provava niente adesso, fissando la tomba di cemento grigio con su scritto il nome del fratello. Forse negli anni a venire ci sarebbe riuscito, almeno questo era quello che diceva il dottore. Ma ne dubitava. Nonostante avesse voluto bene ad Alex nella maniera tacita dei fra-
telli maschi, aveva provato un gran sollievo dopo che il caos del funerale si era esaurito. Si aspettava che dopo la cerimonia la casa fosse tetra; invece sembrava come se l'appartamento di tre camere fosse stato ristrutturato. Lui, Jamie Hurst, era rinato. Alex, se ne rendeva conto, aveva gettato un'ombra sulle loro vite, e con il suo trapasso le nuvole temporalesche si erano spaccate, fluttuando via mentre un nuovo sole splendeva cocente. L'ombra, comunque, ammantava ancora la madre. Jamie non pensava che se ne sarebbe mai andata. Lei si era abituata troppo a portare il nero per cambiare il suo guardaroba. Un anno dopo quel giorno e lei era ancora sotto tranquillanti, nonostante Julian fosse tornato a vivere con loro, avendo lasciato il suo lavoro sulla piattaforma petrolifera del Mare del Nord. Jamie, d'altro canto, era aumentato di forza. Aveva passato gli esami a gonfie vele ed era sul punto di iscriversi ad Oxford. A gennaio aveva venduto il suo primo racconto a una prestigiosa rivista letteraria ed era a metà strada della bozza del suo primo romanzo, duecento pagine scritte nel calore bianco dell'estate precedente. Ora la vita aveva un senso. Jamie capiva come si doveva essere sentito Saul sulla strada per Damasco; era cieco e ora riusciva a vedere, anche se non con gli occhi di un diciassettenne. No, lui vedeva il mondo attraverso gli occhi di un anziano toccato da una conoscenza arcana. Una volta si era sentito eclissato nell'oscurità che il fratello attirava attorno a sé; ora si sentiva bagnato di luce, battezzato in una grazia inimmaginabile prima dell'incidente, mai toccato dai colpi e dagli strali dell'adolescenza. Alex aveva vissuto il suo sogno oscuro — vivi in fretta, muori giovane — e ora era la volta di Jamie. Là dove suo fratello aveva fallito — o dove era riuscito, a seconda del punto di vista — lui sarebbe riuscito a modo suo. Solo un dubbio lo assillava, una domanda che forse sarebbe stato meglio lasciare senza risposta. Cosa era successo quella notte, e perché? Quando la moto aveva colpito il camioncino, era rimasto impalato per un millennio — in realtà meno di un minuto — poi si era allontanato, senza provare alcuna sensazione simile a quella che dovremmo provare nell'istante della morte violenta: shock, orrore, perdita. Naturalmente, non avrebbe potuto sapere in nessun modo che si trattava di Alex. Infatti, non lo aveva saputo, quella consapevolezza terribile e liberatoria era arrivata successivamente. Eppure Jamie aveva saputo a qualche livello profondo, a qualche livello primordiale, rettile di coscienza.
Si era allontanato, inconsapevole del fatto che c'era un uomo cieco intrappolato nell'abitacolo che urlava silenziosamente in una muta agonia, con le corde vocali recise dal parabrezza schiantato, e mentre Jamie traversava il fiume, sentiva una parte di lui — forse l'innocenza — che svaniva su ali sovrannaturali, aveva udito l'agitarsi di una membrana di pelle che si era levata verso il cielo nero. La sola sensazione che gli attanagliava il cuore era una pace indescrivibile. Una volta arrivato a casa, ancora in uno stato di sonnambulismo, era andato direttamente a letto, cadendo in un sonno senza sogni, un quieto riposo di un bambino non toccato dalle paure terrene e dai terrori della coscienza adulta. Si era svegliato la mattina successiva con il suono del campanello e, alcuni secondi più tardi, con l'urlo di sua madre. Il mondo di Jamie era cambiato. Alex era vissuto in una falsità bugiarda intessuta da coloro che erano imprigionati dal loro stesso timoroso isolamento. Finché il prato sarebbe stato tagliato con cura, le tendine stampate a fiori attaccate diritte, finché gli assegni non fossero ritornati protestati, non ci sarebbe stato nessun suicidio di adolescenti, niente incesto, alcolismo, violenza, abuso di droga, carestia o guerra, eccetto che nei giornali. La classe media era troppo intelligente e troppo stupida per lasciare che tali mali la toccassero. Ma Jamie avrebbe esplorato la menzogna, provando la sua maschera interpretando i ruoli della narrazione, cercato la verità, per quanto brutta. E se ci fosse stato un prezzo da pagare, arrivato il momento avrebbe spontaneamente dato al traghettatore i suoi soldi e avrebbe traversato il fiume un'ultima volta, sicuro nella consapevolezza che aveva percorso strade note solo a pochi eletti: i sognatori, i pazzi, gli impazienti. Starnutì. Stava arrivando il suo solito raffreddore invernale e il fresco di settembre non incoraggiava una permanenza al freddo. — Arrivederci, Alex. — La voce di Jamie era forte contro la tranquillità del cimitero. Mentre si voltava notò una cornacchia che lo guardava dall'alto dei rami di una vecchia quercia. L'uccello gracchiò, arruffando le piume. Pagati completamente i suoi ultimi rispetti, Jamie si incamminò per l'erta verso Rush Hill e la scuola. Quando non fu che un puntino nel paesaggio la cornacchia volò, arcuandosi verso il cielo limpido, le ali come un'apostrofe nera nella distesa vasta, impersonale, cerulea. Per: Piers Locke, con ringraziamenti per la Newcastle Brown
Alice Cooper per "Sotto le ruote" e "Ho diciott'anni" La cosa più paurosa di questa storia è che è vera, in un certo senso. I vecchi fantasmi sono spariti: lunga vita ai nuovi demoni. Londra, gennaio 1990. Titolo originale: Full Throttle (1990) LA CITTÀ DEGLI ANGELI J.S. Russell J. S. Russell non esiste. Vi stupisce, dunque, che abbia l'introduzione più corta del libro? In realtà, "J. S. Russell" è lo pseudonimo di un giovane sudcaliforniano che si occupa professionalmente di saggistica, sotto altro nome. "La città degli angeli", apparsa per la prima volta nel volume "Autunno 1990" di Midnight Graffiti, è la sua prima uscita professionale di fiction. Al momento, Russell ha un certo numero di altri racconti che circolano tra varie pubblicazioni horror, quindi forse, quando questa raccolta Splatterpunk verrà pubblicata, il suo nome vi sarà già familiare. Altrimenti, "La città degli angeli" dovrebbe imprimervi bene in mente il nome d'arte di Russell. Permanentemente. Perché questo è un racconto che prende il più sfruttato dei cliché della fantascienza — la storia del dopo-olocausto — e lo scompone nella più disgustosa forma immaginabile. A proposito, questo racconto mi ha fatto ridere. Ridere forte. Più di una volta. D'altra parte, non dimenticatevi la sacchetta per il vomito. Se c'è un racconto in Splatterpunk che focalizza questa controversia, è questo. Infatti, è un'idea carina. Sapete quella persona così ostinata nella vostra vita, quella assoluta testa dura che rifiuta di convincersi che dallo splatterpunk uscirà mai qualcosa di buono? Dategli "La città degli angeli". Spiegategli dolcemente che è un'escursione in un argomento estremamente serio. Una volta che ha cominciato a leggere, sorridete molto.
Poi sedetevi e aspettate il divertimento. Porquah mormorò: — Voglio masticarmi un culo nuovo. Ripeteva quella frase da ore, da quando Demodisk ci aveva tanto riso sopra accanto alla struttura crollante dell'osservatorio. Demo all'inizio aveva cercato di correggerlo: — Voglio farmi un culo nuovo, stronzo. Farmi. Farmi — ma quel sorriso di merda si era fatto solo un po' più evidente e si era battuto sul petto con un tonfo sordo, dicendo di nuovo: — Voglio masticarmi un culo nuovo! Una volta che Porquah si fissa un'idea in mente non c'è verso di fargliela cambiare. Come l'altro giorno con quel bambino. Eravamo arrivati al vecchio segnale di Hollywood, a parte il fatto che tutto quello che ne resta è H O L Y, e troviamo questa ragazzina nera col figlio che vivono nei resti di una stamberga DWP nascosta tra gli alberi. A Viridiana non importa molto se è carne nera, e si accarezza la ragazza dalla fica alle poppe prima che Demo e io siamo riusciti a farci drizzare il cazzo. Be', Demo, lui dice che non è molto schizzinoso e pensa che una vagina è una vagina così la palpeggia un po' e va a ficcarlo in quel nuovo buco. Io penso di metterglielo in bocca, ma vedo che ha i denti spezzati e quasi nerastri e cazzo se i denti cariati non hanno un brutto effetto. Così lascio Demo a farsi la sua scopata e vedo Porqy e Viridiana che si litigano il ragazzino. È una cosina nera e magra, ma urla e strepita come un razzo che arriva dal cielo. Porqy prende la cosa per i piedi e Viridiana la tiene per la testa e stanno per giocare un triste gioco di tira e molla. Io arrivo e l'afferro a metà come per prenderla in consegna e cavolo, solo per dispetto, Viridiana torce quella testa urlante e sentiamo uno schiocco secco, pulito. Viridiana fa tutta la pentita e contrita, ma sotto ai suoi occhi vedo il sorriso. Porquah è tutto triste e pronto a tagliare in due Viridiana con il suo fucile ad aghi 9mm che si porta sempre dietro, ma proprio allora Demo ritorna tutto sorridente e canticchiante, rimettendosi il cazzo insanguinato nei pantaloni, e dice: — Cuociamoli — e tutti si preparano. Porqy ha questa passione per le palle, dice che sono la "parte più migliore" il che va bene perché nessuno di noi ci è mai andato matto. Sono giorni che il vecchio Porqy parla di palle di bambini, strepitando su come se ne procurerà un paio. — Immagino — dice — che dovrebbero essere più tenere. Più saporite, come l'agnello, o il granturco nano.
Come dico io, una volta che il Porqmeister si fa venire un'idea in quella sua testa a forma di proiettile, non c'è verso di viverci accanto finché non la mette in pratica. Quindi, addirittura prima che io sia riuscito a mettere una pentola d'acqua a bollire il vecchio Porqy tira via le palle da quella cosina morta e se le ficca in bocca come fagioli alla gelatina. Sono dei mucchietti, proprio, e crudi, ma Porqy se li mastica piano piano, assaporandone ogni pezzetto. Dal mento gli scende una striscia di fluido scuro, ma Porqy lo sfiora appena con il piccolo scroto marrone e schiocca le labbra. — Porcaccia mia madre — dice. — Sono più saporite delle tette. Nel frattempo Demo sta sgranocchiando la madre, sbuffando e borbottando e tagliandola a pezzi con quel suo coltello mostruoso, e mentre Viridiana sta affettando il piccoletto lui tira per terra vicino a noi qualcosa di rosa e peloso sgocciolante di sangue. — Qualcuno vuole mangiarsi una fichetta? — dice e si scompiscia dalle risate. Be' quel Demo è un tipo proprio strano, senza dubbio, e io e Porqy cominciamo a rotolarci per terra, ululando come cani incazzati. Ma Viridiana è tutta offesa o cose del genere e bofonchia cose tipo che lei non ha mai mangiato una fica prima d'ora o anche peggio. Poi Demo, lui raccoglie quel pezzo di carne e se lo ficca in bocca e comincia a lamentarsi in mezzo alle labbra pelose, dice che è un chiacchierone. Be', questo è troppo anche per la vecchia e gelida Viridiana e lei comincia a ridere insieme a tutti noi. Così facciamo a fette la carne e ci cuociamo la cena e ci sistemiamo per la notte, perché il giorno sta sbiadendo come un vecchio paio di jeans. Stavamo seduti tutti buoni a guardare il cielo che diventava porpora come una grossa e vecchia lilia che cresce tra le rovine della città. Demo e Viridiana e Porquah potranno anche essere la mia famiglia adesso, ma dormire è ancora buffo. Ho dormito di schiena e mi sono svegliato con Viridiana e Demo che si avvicinavano al mio Sbirulino, e dormire di pancia è praticamente un invito aperto a Porqy perché ti faccia il culo. Così rimasi sveglio, aspettando che gli altri si appisolassero per primi. Sapevo che Porqy stava pensando perché era dalla cena che non diceva una parola e si grattava la testa e fissava il vuoto ancora più stupidamente del solito. Alla fine, credo, aveva abbattuto un muro nella testolina perché aveva cominciato a blaterare qualcosa di buffo sulle donne incinte e i bambini non ancora nati e roba del genere. Dopo un po' Demo si era scocciato e aveva detto: — Sputa il rospo, Porquah, e dicci dove vuoi arrivare. Porqy si fa tutto buono per un minuto e fissa per terra. — Mi domanda-
vo soltanto — dice — se le palle di quel bambino erano così tenere, non sarebbero ancora meglio appena sfornate? Io fissai Demo, e vidi Viridiana bofonchiare tra sé. — Voglio dire — continuò Porqy — se solo potessimo trovare una donna incinta, potremmo tirar fuori il bambino proprio dalla pancia e ci scommetto che non c'è niente di più saporito di quelle pallette di bambino. Porqy ci guardò come un ragazzino che se l'è appena fatta nei calzoni e non sa cosa accadrà. Viridiana si era appoggiata contro un albero quasi sonnecchiando, con le braccia strettamente conserte contro il suo grosso petto. Aprì gli occhi e si piegò in avanti, scombinando i capelli radi di Porqy con la sua mano a tre dita. — Còsa diavolo c'è di sbagliato in te, Porqy? — chiese, tirando fuori quel tono da tutore. — Dove, in nome di Ronald Reagan, troveremo una donna incinta? Porqy annuì e apparve ammansito, ma per due giorni di seguito tutto quello che gli sentimmo dire fu un gran parlare di palle di bambino. Così in un certo senso fu un sollievo quando cominciò a parlare di mangiarsi un culo nuovo. Ma dopo un giorno e mezzo di quello, quasi mi mancava tutto quel blaterare di palle. Mi è sempre piaciuto parlare di cibo. Il Dottoperaio ce lo aveva dato per certo ma io già lo sapevo che stava peggio. Il viso di Porqy era tutto gonfio e rosso, e si spellava sulle guance e sulle braccia con lunghe strisce brillanti. Si lamentava anche delle ginocchia, di come scrocchiassero e scricchiolassero a ogni passo, e in effetti sembrava che lì dentro avesse dei cocci di marmo che rimbalzavano l'uno sull'altro. Viridiana ora trasudava da tutte le parti. Poi le pustole sul viso e sul collo cominciarono a colare grigio e bianco e quella grossa macchia rossa in mezzo alle gambe sembrava diventare un po' più grande e puzzare molto più di rancido ogni giorno che passava. Alla fine, la vidi a un lato del campo con la camicia arrotolata sopra il seno e lei si punzecchiava e si stuzzicava quelle sue grosse poppe imprecando come un marinaio con lo scolo. La chiamai per nome e quando si voltò vidi che si stava toccando un liquido denso e dall'aspetto vischioso che le colava dai capezzoli. Non avevo mai visto niente di quel colore uscire da un corpo umano prima di allora, ma a lei non dissi niente. Lei mi guardò con quello sguardo triste, da cane bassotto e vidi che avrebbe avuto voglia di piangere ma cercava sempre di far vedere come fosse più forte di tutti noi. Non riuscivo a pensare a nien-
t'altro da fare, così me ne andai. Io stesso avevo cominciato a gocciolare in posti strani, e la verità era che era più che spiacevole. Solo Demo sembrava ancora in forma, ma sapevo che faceva male anche a lui, più che altro all'interno. Si comportava sempre più da predatore, e diceva stupidaggini o si dimenticava i nostri nomi o anche come chiamare l'erba o il cielo. Ogni tanto gli occhi gli si facevano più selvaggi e cominciava a mangiare le cose morte e decomposte che si trovavano sempre sotto i piedi. Ma poi tornava in sé ed era sempre lo stesso buffone che ci faceva divertire così tanto. Comunque, il Dottoperaio — neanche lui aveva un bell'aspetto, con quella porcheria che gli colava dall'orbita vuota dell'occhio — usò quel suo scanner e ci disse che probabilmente era solo questione di giorni ormai. Credo che anche gli altri lo sapessero, ma il vecchio Porqy non voleva ammetterlo. Parlava ancora di mangiarsi i culi quando afferrò il Dottoperaio e fece per mordere un pezzo dello stomaco dell'uomo. Si prese solo un pezzetto di carne prima che lo tirassimo via, e il Dot non fece resistenza. — Noi angelini dobbiamo restare uniti — disse, saltellando verso il suo carrellino da golf. — Questi sono tempi interessanti per tutti noi. Viridiana era incazzata nera e disse che era ora di farsi Porqy, ma Demo e io la dissuademmo. Ammettemmo solo che d'ora in poi avremmo dovuto prendere un po' più alla lettera quello che diceva Porqy. Decidiamo quella mattina che ci saremmo diretti proprio in centro. Immaginavamo che ormai non facesse nessuna differenza così potevamo anche andare a vedere com'era il centro della vecchia città. Io cercavo di ricordarla da prima, ma era tutto così annebbiato e distante. Pensavo alle autostrade e i negozi e la gente gentile e il rumore e i messicani che vendevano arance e noccioline agli angoli delle strade e pensavo che tutto era scomparso. Raccontavo di palme alte e nude, avrei sempre voluto sapere il nome esatto di quegli alberi, ma non l'ho mai saputo e ora non lo saprò mai. Mi ricordo quel giorno e quell'orribile flash brillante e il vento che bruciava. Era curioso il fatto che quando era arrivato era sembrato così naturale, così inevitabile. Mi ricordo che prima ci pensavo, come una cosa astratta, cercando di immaginare il dopo, pensando che sarebbe stato romantico e avventuroso, come in qualche bel vecchio film con le macchine a scontro e strani vestiti di pelle. A volte, quando mi costringo a pensare al passato, non riesco a credere
che sono trascorsi a malapena due anni. Sembrano decenni o secoli e mi sento come se fossi l'uomo più vecchio nella storia della Terra. E poi ripesco quella vecchia patente di guida della vecchia California e penso alla strana fotografia e mi ricordo: sono io. Mi rendo conto di avere trent'anni e che non ne festeggerò mai trentuno. E a volte, di notte, quando non sto proprio dormendo ma, come in sogno, vedo il volto della mia Janey. Più di tutto desidero poterla sentire ancora, che mi monta sopra, o semplicemente guardarla mentre rideva per uno di quei programmi alla TV. Non riesco a credere quanto mi mancano quei vecchi e stupidi programmi, ora che non ci sono più. Poi vedo quella banda intorno a lei in cucina, sento le sue urla mentre entrano in lei da tutte le parti. E poi la stanno tagliando a pezzetti con un coltello elettrico, ridendo e ballando nel sangue come Gene Kelly nella pioggia. E penso quando le cose cambiano, cambiano e tutto qui. Non c'è senso o ragione e le lacrime sono solo altra acqua salata. Non c'è ritorno, nessun modo di non far suonare la campana, né vita per i morti. E sono contento che sia solo una questione di giorni. Avreste mai pensato che quell'idea del cavolo di palle di bambino sarebbe stata la morte di Porqy? Dalle ombre sul terreno capivamo di essere vicini al centro. Ne avevo sempre sentito parlare, ma non ci avevo mai creduto prima. Erano dappertutto però, i contorni anneriti di gente in piedi proprio al piano zero, con i corpi vaporizzati, le ombre bruciate per sempre nel cemento spaccato. Demo, scemo come sempre, tirò fuori il flash e fece delle ombre con le mani, facendo sì che i contorni avessero cazzi e tette e parlassero come Topolino. Era divertente, devo ammetterlo, ma nessuno rise troppo. La fine era troppo vicina e ci sentivamo tutti veramente male. Mi pizzicava la pelle tanto che mi sembrava che le formiche o gli scarafaggi si arrampicassero su ogni centimetro del mio corpo, mordendo e pungendo durante la marcia. Anche alcune parti di me erano diventate tipo funghi, e avevo paura di scoppiare come un vecchio pomodoro se qualcuno premeva troppo forte. Porqy correva come un cono gelato nel sole del deserto. La pelle del viso e delle braccia era caduta tutta e i muscoli rosa e i tendini brillavano come fegato nella vetrina di un macellaio. Aveva il respiro veramente ansimante e camminava come un cane a tre zampe con un giradito, rantolando
e delirando di donne incinte. Voltammo per quella che poteva essere stata una volta la Sunset Boulevard quando Porqy la vide, distesa in terra in una pozza di Elvis-solo-sacosa. Sentivo le ossa che gli schioccavano nelle gambe mentre correva verso di lei. Io feci per fermarlo ma Viridiana mi trattenne e scosse la testa. Io rimasi a guardare mentre Porqy rigirava quel cadavere e scavava nella pancia rigonfia con i suoi artigli incrostati. Ci fu un lieve rumore di rottura, come un enorme passaggio di vento, mentre le sue dita rompevano la carne annerita liberando i gas gorgoglianti all'interno. Un sottile spruzzo di color magenta scuro sprizzò dalla pelle decomposta inondando le guance spellate di Porquah. Porqy non sembrò notarlo, però, e pescò manciate di vischiosità dal dorso, setacciando il tessuto corrotto, credo, alla ricerca di un qualche segno di un feto. Afferrò un oggetto piccolo e tondeggiante — un rene devastato, forse — e se lo ficcò in bocca, masticando felice. — Palle — lo sentii dire attraverso una boccata di grigio — palle di bambino, yum yum. Improvvisamente spalancò gli occhi e cominciò a rigettare con un rumore che sembrava il risucchio di una fogna. Poi smise e ricadde con il viso nel corpo devastato. Quel corpo si spiaccicò come un cetriolo ammuffito non appena Forqy ci cadde sopra, e sapemmo che il vecchio Porqy era assolutamente morto. Immaginai di lasciarlo lì, col naso sepolto in quello che una volta avrebbe potuto essere un dolce cespuglio, ma Viridiana, di tutti, ebbe una buona idea per il funerale. Demo tagliò via le palle di Porqy e le bollimmo su un focherello. Io e Demo ce ne dividemmo metà e lasciammo l'altra per Viridiana. Mangiammo in quel silenzio innaturale e io pensai che, dovunque fosse, Porquah ne sarebbe stato toccato. Gli occhi erano pronti a scoppiarmi via dalla testa e avevo la lingua in bocca come un ceppo di legno scheggiato. Trovammo un campo di fiori selvatici mutanti e ci meravigliammo alla vista dei colori fluenti e surreali che scintillavano nel sole calante. Le nubi sottili sembravano damasco contro il cielo serico, color malva, e per un istante pensai di ricordare qualcosa su cosa fosse la bellezza. Demo era fuori di sé in uno dei suoi raptus folli, ma ora non importava. Guardai Viridiana e non so cosa fu — forse la luce debole, forse solo il modo in cui piegava la testa — ma per un attimo pensai di vedere come
doveva essere stata da piccola, tutta carina e brillante e piena di sogni. Mi avvicinai a lei e le misi una mano sulle spalle, sentendo le ossa che si frantumavano sotto il mio tocco. Per un secondo sembrò cauta, ma poi mi fissò negli occhi e sembrò capire. Ci togliemmo i vestiti, cercando di lasciare tutta la pelle che potevamo, e giacemmo in quel letto dai colori soffici. Lei era un casino gocciolante e gommosa e il mio aspetto non doveva certo essere un granché migliore, ma lei aprì le gambe e io le montai sopra e la penetrai. Scivolai dentro un po' più di quanto sembrasse normale o naturale e non mi preoccupai molto per i rumori di risucchio che facevamo entrambi, ma fu bello e sembrava giusto, nel modo in cui è sempre stato e sempre dovrebbe essere. Viridiana emetteva dei rumori lamentosi e credo che fossero di felicità. Io sono sempre stato alquanto silenzioso durante una scopata, ma piaceva anche a me. Alla fine chiusi gli occhi e pensai a Janey e a cosa era stato e credo di non essermi mai sentito così bene. Rotolai via da lei proprio mentre Demo ci si avvicinava, con qualcosa di ingombrante in mano. Rimase in piedi proprio sopra la testa di Viridiana, squadrandola da capo a piedi con quel suo sorriso a trentadue denti, e le sparò due chiodi proprio negli occhi con un qualche fucile pneumatico. Doveva andare a batteria ed Elvis-solo-sa-dove l'aveva trovato. Quando accadde Viridiana non emise un suono. Smise solo di respirare mentre delle lacrime cremisi le fluivano dalle orbite correndole giù sulle guance. Io guardai Demo, ma lui si limitò a sogghignare di più. Io mi alzai e gli battei scherzosamente sulla nuca e lui sghignazzò, ma sentii che qualcosa gli si muoveva nel cranio e non lo feci più. — Credo che l'abbiamo inchiodata tutti e due, eh? — fece lui. Io risi e ce ne andammo in direzione dell'oceano, verso il sole calante, in decomposizione. Quel Demo è un dritto, ve lo dico io. Titolo originale: City of Angels (1990) FUORILEGGE Paul M. Sammon Scrivere di se stessi è sempre rischioso. Quindi permettetemi di ristampare una biografia pubblicitaria redatta (tra le altre cose) dalla Houston As-
sociation of Film and Television e pubblicata sul bollettino informale distribuito da tale organizzazione ai professionisti locali mentre io ero a Houston, per lavorare a Robocop 2. Paul M. Sammon è una rarità giornalistica: non solo è uno scrittore molto pubblicato, ma è anche (e simultaneamente) un cineasta di professione. Come giornalista, Sammon ha scritto centinaia di articoli sulla storia della cinematografia, assieme a recensioni di film per diverse pubblicazioni come Omni, il Los Angeles Times, l'American Cinematographer, Cahiers du Cinema, e Cinefantastique. / suoi racconti difiction sono apparsi su Twilight Zone Magazine, e in The Year's Best Horror Stories, XIV serie. Sammon ha anche in serbo due libri di prossima pubblicazione: Blood and Rockets, una guida definitiva ai migliori film di fantascienza, fantasy e horror disponibili in videocassetta, e Splatterpunk, una raccolta di racconti dell'horror "estremo". Come regista, Sammon ha scritto, prodotto, realizzato e diretto decine di film promozionali, pubblicitari e documentari per la sua casa di produzione, la Awesome Productions Inc.; tra i lavori a cui ha partecipato ci sono anche film come Platoon, Dune e Robocop. Inoltre, Sammon ha lavorato come pubblicista e/o consulente promozionale praticamente per tutti i maggiori studi di Hollywood, girando il mondo per dare lezioni e per apparire pubblicamente in produzioni come Velluto blu, F/X, Conan il barbaro. L'ultima fatica di Sammon si realizza proprio a Houston; qui è supervisore alla grafica computerizzata e pubblicistica di Robocop 2, e apparirà in un certo numero di scene in questa produzione. Paul Sammon funge anche da coproduttore americano della serie, prodotta dalla televisione giapponese, "Hello! Movies", il programma di intrattenimento più popolare di questo tipo in Giappone, giunto alla sua quarta stagione di programmazione sull'Asahi Broadcasting Network. Infine, Sammon ha recentemente co-scritto il copione per il cortometraggio Stereotypes. Girato a Mosca, dove Sammon ha trascorso tre settimane per scrivere la sceneggiatura assieme a un collaboratore russo, Stereotypes ha il primato storico di essere la prima coproduzione russoamericana di un film animato. Così ora sapete. Probabilmente più di quanto volevate. Comunque, "Fuorilegge" è il mio tentativo di produrre la prima grande panoramica sullo splatterpunk. Ho cercato di documentare dettagliatamen-
te le origini dello splatterpunk, le superstar, le opere importanti. Sta a voi decidere se ci sono riuscito. E, a proposito: Paul M. (sta per Michael) Sammon potrà anche essere una "rarità giornalistica" ma è anche, e più enfaticamente uno splatterpunk. 1 GLI SPLATTERPUNK Si dice che nel momento in cui si dà un nome a una cosa, la si uccide. Ecco perché, a dispetto di tutto ciò che state per leggere, dovete tenere a mente una cosa: Quella che segue non è una definizione. Un esame, sì. Una valutazione, senz'altro. Ma non una cassa da morto. Avendo stabilito questo, cominciamo con una dichiarazione: Negli ultimi anni, è diventato chiaro che lo splatterpunk occupa una posizione importante e preminente nel genere della fiction dell'orrore. Splatterpunk? Cosa diavolo è lo splatterpunk? Rimuoviamo innanzitutto i limiti che la società e il cosiddetto buon gusto impongono alla fiction. Tutti i limiti. Aggiungete una salutare dose di shock e l'influenza dei film shock o da pattumiera che dir si voglia, la TV della notte, e le corde urlanti delle chitarre del più grande gruppo di heavy metal del mondo. Infine, mescolate il tutto con una forte coscienza di cultura popolare. Insaporite con un atteggiamento non testardo. Servite con qualcuno dei migliori scritti attuali del settore. E non tremate mai. Mai. Gli scrittori che fanno parte dello splatterpunk non hanno semplicemente rinnovato l'horror; hanno rinnovato la letteratura. Inserendovi le influenze di altri mezzi di comunicazione, enfatizzando senza paura l'onestà, il coraggio e la qualità, il buon splatterpunk non solo crea prosa immediata (fiction per il momento), ma prosa che resiste (fiction per il domani). Pensate a questo, allora, come a una specie di fermo immagine, che congela un istante nel tempo. Un arresto splatter sull'orlo della voragine, se volete. Creata perché chi guarda la corsa si possa fermare un momento a valutare i progressi dei partecipanti sul terreno. State per conoscere coloro che non rispettano le regole, gli innovativi
impegnati ad avanzare ben oltre le barriere. Artisti soli ed emarginati, in un momento in cui la società scoraggia attivamente qualsiasi cosa fuori dalla norma. Questi non sono scrittori "accettabili". Sono, in una parola Fuorilegge. 2 SEMI DI RIVOLTA Quando nel 1986, fu coniato il termine splatterpunk, per descrivere una certo tipo di fiction aggressivamente esplicita, l'ambiente dell'horror era già in tumulto. E lo splatterpunk, o almeno come esso si definisce attualmente, aveva già più di dodici anni. Già dall'apparizione, nel 1971, del romanzo di William Peter Blatty L'esorcista (con la sua profanità, il vomito, e le ragazzine che si masturbavano con i crocifissi) la fiction dell'orrore è cresciuta in misura esponenziale nell'accettazione della critica e in popolarità. La pubblicazione nel 1974 di Carrie, di Stephen King (e la sua seguente e straordinaria carriera) spinse l'horror in overdrive; a quanto pareva, c'erano romanzi dell'orrore dappertutto (per lo più robaccia). Nel campo correlato dei film dell'orrore, gli psicopatici, gli zombi, i grossi tizi con maschere da hockey, macellavano tutti assieme la psiche americana. E alla natura sempre più visualmente esplicita dei film dell'orrore corrispondeva un analogo aprirsi della letteratura horror. Nel 1971 Casa infernale, di Richard Matheson, narrava di una piccola banda di cacciafantasmi che cadeva preda di un'orgia di espliciti desideri carnali. Nebbia, del 1975, scritto dal brillante scrittore inglese James Herbert, dettagliava clinicamente le numerose atrocità dovute alla fuga di un gas nervino, che conduceva la popolazione di una cittadina inglese all'isteria omicida. Stephen King portò il legame racconto/film a una maggior esplicitezza, includendo una scena in cui migliaia di scarafaggi fuoriuscivano dalla bocca di un cattivo riccone nella sua sceneggiatura per il film Creepshow, diretto da George Romero nel 1982. Comunque, nonostante questi rombi minacciosi, gli ambienti horror tradizionali (rappresentati dal romanziere/curatore Charles L. Grant, un moderato) rifiutavano di riconoscere l'ovvio, e continuava a predicare la ponderatezza. La buona letteratura dell'orrore, insistevano, doveva prendere da
modello le fatiche di Poe e Blackwood e Lovecraft, scrittori i cui segni di riconoscimento erano l'ellitticismo e la suggestionabilità. Tutto il resto era immondizia sensazionalistica, robaccia di infimo ordine. Poi cominciarono ad apparire lavori come I libri di sangue di Clive Barker, del 1984, e il racconto del 1986 di Craig Spector Maledizione fatale; con loro arrivò la rappresentazione dei peggiori incubi dell'horror tradizionale. Era fiction dell'orrore implacabilmente di confronto; era viscerale fino all'estremo, conteneva sesso e violenza espliciti, si accentrava su set grotteschi. Prendete questo esempio dal racconto di Barker "Macelleria mobile di mezzanotte", che si trova nel volume 1 dei Libri di sangue: Accanto a sé vide i miseri resti del ragazzo brufoloso che era stato nella Carrozza Uno. Il cadavere era appeso per i piedi e oscillava seguendo il movimento del treno, all'unisono con i suoi tre compagni: un'oscena danse macabre. Le braccia penzolavano mollemente dalle spalle su cui erano state praticate incisioni di quattro o cinque centimetri per snodare meglio l'articolazione. Ogni parte dell'anatomia del ragazzo morto ondeggiava ipnoticamente. La lingua, pendeva dalla bocca aperta. La testa si cullava sul collo affettato. Persino il membro del ragazzo oscillava di quà e di là sull'inguine maciullato. La ferita alla testa e la giugulare aperta pulsavano ancora sangue in un secchio nero. L'intera visione aveva una certa eleganza: un lavoro benfatto... Ma, non era preparato all'ultimo orrore. La carne della schiena della donna era stata completamente sezionata dal collo al sedere e i muscoli erano stati spellati per far fuoruscire le vertebre luccicanti. Era il definitivo trionfo dell'opera del Macellaio. Nonostante l'esame al microscopio della carne abusata fatto da Barker, i lettori imparziali dei Libri di sangue si resero presto conto che si era levata una nuova ed eloquente voce nel campo dell'orrore, una voce capace di analisi esistenziale, di humour nero, di prosa dura ma con stile. La visione di Barker era implacabilmente, impietosamente onesta; racconto per racconto, bisognava riconoscere che le scene shoccanti di sesso e brutalità che si trovavano nei Libri di sangue (e in Maledizione fatale) erano spinte dal-
l'assoluto rifiuto di distaccarsi dalla realtà. Anche se faceva male. Pochissime persone sembrarono notarlo. Qui la questione non era la qualità o l'intenzionalità; era l'esplicità. La controversia levata dai Libri di sangue (e ci fu un immediato allarme sotterraneo associato a queste opere) diventò il catalizzatore che finalmente spezzò l'ormai tenue alleanza tra le forze conservataci e candide che si opponevano all'horror. Interminabili dibattiti scissionistici sull'incompatibilità esistente tra l'horror "calmo" e quello "esplicito" ribollivano nei congressi del fine settimana e nelle pagine della posta dei giornali di categoria. Pubblicazioni specializzate come Fangoria, originariamente concepite per sfruttare sulla carta stampata i film dell'orrore più espliciti, aggiunsero legna al fuoco recensendo e incoraggiando i romanzi di horror più duri del genere. Alla fine il confronto si fece politico, e gli oltraggiati fautori dell'horror vecchia maniera serrarono i ranghi contro quegli scrittori (solitamente più giovani) che preferivano esplorare acque veramente sconosciute. Quindi, quando uno scrittore nascente di nome David J. Schow ideò il termine splatterpunk per definire le forme di espressione più oltraggiose (e coraggiose) della fiction di genere horror, la battaglia e le linee di conflitto erano già ormai chiaramente segnate. Eppure, sotto il fumo e i clamori si nascondeva una considerevole quantità di ignoranza e di dubbio. Cos'era lo splatterpunk, cos'era in realtà? Chi lo praticava? C'era un manifesto? Quali erano le opere essenziali? Ci doveva essere qualcosa che spiegasse tutto questo, dopotutto c'era un vero e proprio movimento splatterpunk là fuori. O no? 3 NON C'È UN MOVIMENTO: PROBLEMI PER QUESTO LIBRO La cosa più interessante del movimento splatterpunk è che non c'è. Non che questo lo si capisca sfogliando i vari saggi al riguardo. Per esempio, un sarcastico articolo del Village Voice dal febbraio '90 titolava: "Ancora budella: lo splatterpunk lascia il suo marchio", e l'autore, Richard Gehr, ci dice che nelle file dello splatterpunk ci sono personaggi esagerati come John Skipp, Craig Spector, Joe R. Landsdale, Ray Garton, Rex Miller, David J. Schow, Robert R. McCammon, e altri, e Clive Barker è il loro santo patrono.
Ah, davvero? Gehr non deve aver chiamato le stesse persone che ho sentito io. Prima le sorprese. Per esempio, David J. Schow (l'uomo che ha inventato il termine) ha declinato l'offerta di essere incluso in Splatterpunk. La sua decisione è giunta in forma di nota che enumerava una serie di ragioni per ricusare: nessuna, a mio avviso, sembrava particolarmente convincente. In ogni caso, mi dispiace l'assenza di David J. Schow da questa categoria. Eppure, poco dopo aver cancellato il suo nome dalla lista degli autori potenziali, questo disappunto è stato sopraffatto dalla ripetuta litania che ho sentito da un certo numero di altri scrittori, quelli che avevano accettato di essere inclusi nel libro. Il problema era che mentre curavo Splatterpunk e parlavo con gli scrittori che avrebbero potuto potenzialmente contribuire con un racconto, la maggior parte (ma non tutti) degli scrittori "esagerati" menzionati da Gehr nel suo articolo continuavano a rispondere cose tipo: "Certo, puoi ristampare (e qui serviva il titolo). Ma quello è solo uno dei racconti che ho scritto, va bene? Voglio che sia perfettamente chiaro che io non sono uno splatterpunk. Io faccio un sacco di altre cose. Credo che essere etichettato come splatterpunk sia molto pericoloso. Certo, quella è una storia estrema, esagerata, ma ne ho scritte altre che non lo sono...". E così via. Ecco un esempio molto specifico, inviatomi da Roberta Lannes, autrice di "Addio, oscuro amore", un potente racconto breve che tratta di incesto, necrofili, e vendetta: "Addio, oscuro amore" è stato scritto prima che fosse coniato il termine splatterpunk per descrivere il genere horror intessuto dei suoi opinabili eccessi. Certo è che il sesso esplicito e la violenza del mio racconto lo qualificano come un racconto estremo, ma non eccessivo. Lo splatterpunk, con la sua caratteristica gratuità di sangue, viscere, liquami e sesso esplicito intende disgustare e gratificare gli istinti più bassi del lettore. Io scelgo di usare le situazioni estreme quando queste possono spingere un racconto nel regno della piena sensualità, dell'esperienza. Descrizioni accurate, usate con parsimonia, sono utili là dove l'eccesso soffoca e quindi sottrae corpo al lavoro. Non sono una splatterpunk.
I commenti della Lannes esemplificano, in un certo senso, tutto ciò che viene male interpretato sullo splatterpunk. Qui in sostanza s'innesca la diatriba allo splatterpunk-come-parolaccia, che include osservazioni sortite tradizionalmente da scuole di pensiero accademiche e conservatrici, enunciati che proclamano pedissequamente che lo splatterpunk è immondizia gratuita e analfabeta. Non capite male: la Lannes ha perfettamente diritto alle sue opinioni, anche se la qualità complessiva degli scritti qui riuniti ovviamente nega la sua tesi. Ma la risposta di Roberta è solo uno degli aspetti dei sentimenti evocati dalla parola splatterpunk, che ci portano alla prima domanda nel nostro tentativo di capire. Chi sono gli splatterpunk? Be', dopo parecchie telefonate, mi è stato chiaro chi non lo è (a titolo di cronaca, i soli quattro splatterpunk "ufficiali" sono Clive Barker — lui è un caso marginale, John Skipp, Craìg Spector e David J. Schow; più avanti troverete dettagli su questi quattro). Comunque, nonostante le loro proteste, c'è un interessante equivoco celato sotto il disagio che molti scrittori hanno provato nell'essere inclusi in questa antologia. A loro non interessava il fatto che molti dei loro lavori più espliciti venissero etichettati come splatterpunk, a patto che loro stessi non venissero definiti splatterpunk. In altre parole, si può scrivere un racconto splatterpunk senza essere uno splatterpunk. Perché hanno insistito su questa distinzione? Perché l'emozione principale che lo splatterpunk fa sorgere per prima non è la repulsione — come ci si potrebbe aspettare — ma la paura. Non solo l'antiquata e affascinante paura di Il guardiano sulla soglia di Lovecraft. Stiamo parlando di paure sociali, primarie ed essenziali. Paure che vi possono cacciare nei guai nel mondo vero, proprio qui, in questo momento. Paura di far male. Paura che ci facciano del male. Paura del linguaggio; paura del sesso. Paura dei nostri corpi; paura della nostra morte. Ovviamente, qualsiasi forma d'arte che riesca a suscitare tali emozioni porta in sé una carica potente. E questo è il vero valore dello splatterpunk: è riuscito a risensibilizzare il genere horror in modi che Lovecraft e Poe e King non si sognavano nemmeno. Oh, si: ho dimenticato di menzionare la paura gemella più associata a questa sindrome di io-non-sono-splatterpunk: la paura di commettere una
mossa compromettente per la carriera. Lo splatterpunk gode della reputazione di essere una letteratura per analfabeti, uno scontro nauseante e offensivo di suono e furia senza significato. Questa è, per essere moderati, una lettura scorretta del genere: peggio, suggerisce la stessa attitudine riscontrata in coloro che non hanno avuto bisogno di vedere L'ultima tentazione di Cristo per affermare che era un film blasfemo. Eppure una valutazione ragionata di racconti brevi come "Gentlemen" di Skipp e Spector, o "La notte che persero l'horror show" di Lansdale rivela presto la complessità, la maturità, e la profonda moralità che caratterizzano queste opere. Eppure il mito persiste: lo splatterpunk è immondizia da due soldi. Di conseguenza, il disagio provato da molti scrittori presenti in questa antologia è, perlomeno, comprensibile. Dopotutto, quale scrittore professionista dovrebbe'desiderare di essere associato con il tipo di opera che rompe così tanti tabù, che si suppone gratifichi i denominatori comuni più infimi, costellata di parole come scopare e merda e che celebra positivamente i massacri e la fornicazione? Chi? Be', come attestano i contenuti di Splatterpunk, semplicemente i più eccitanti tra gli scrittori che praticano la fiction oggigiorno (incidentalmente, persino l'articolo di Gehr sul Village Voice alla fine ha trovato una descrizione coi fiocchi dello splatterpunk: "Narrativa abietta"). Se ne deduce quindi che là fuori c'è una manciata di scribacchini che si rendono conto che ciò che viene liberamente definito come "splatterpunk" è molto più che scorreggiare a tavola. Questi sono un gruppetto di individui con idee simili, con talento e visioni vere, artisti cui nulla importa della censura e desiderosi di riflettere, attraverso l'oscuro specchio della loro narrativa, quello che i loro personali radar psichici hanno ritenuto essere la vera condizione umana: certo non un bello spettacolo. La cosiddetta trasgressività dello splatterpunk ovviamente impallidisce di fronte a ciò che ci facciamo l'un l'altro: per esempio, in politica a testimonianza citiamo le atrocità commesse dai Khmer rossi. Ma arriveremo più tardi a questi scrittori individuali. Come ho già detto, esiste solo uno sparuto gruppo di splatterpunk: Clive Barker, John Skipp, Craig Spector e David J. Schow. Gli altri solo a volte scrivono storie tipo splatterpunk. Ciò che è importante è comprendere che non c'è un vero e proprio movimento splatterpunk, che questo tipo di narrativa ha profondamente diviso l'ambiente dell'horror, e che c'è ancora molta confusione quando si parla di:
4 COS'È Lo splatterpunk è controverso, viscerale, e manca di educazione. È anche dolentemente onesto, e intrepido, e veramente sovversivo, anche se i suoi critici insistono col dire che lo splatterpunk è solo sesso (e budella). Ma ascoltiamo Clive Barker nella sua descrizione del suo intento artistico durante un'intervista alla rivista di cinema Film Threat, nel numero di giugno-luglio 1983: Non scrivo storie horror o faccio film horror per produrre un leggero brivido che può essere tranquillamente scrollato via, così che la gente possa chiudersi nel proprio bozzolo e andare a letto con sentimento. Scrivo horror e faccio film horror per disturbare veramente la gente, per sovvertirla, rivoluzionare le sue idee sullo status quo, sulla sessualità, sulla morte. Craig Spector espone le sue idee sovversive molto più succintamente: "Voglio che la gente rimanga sconvolta da quello che scrivo". La linfa vitale dello splatterpunk è formata dai succhi che spreme, sia in campo letterario sia fuori, e dal suo stimolo al dialogo. La cosa interessante è che questa bestia letteraria, temeraria, quintessenziamente liberale, fiorisce durante il mostruoso e menefreghistico conformismo degli anni di Nixon/Reagan. E le cose rilevanti sono il suo coraggio, e la sua chiarezza. Dichiarazioni altisonanti per una letteratura nota principalmente per la sua mancanza di limiti. Ma il fatto puro e semplice è che lo splatterpunk è una delle forme peggio interpretate della letteratura attuale, congniamente mal rappresentata o mal compresa, generalmente da una corrente di critici o di scrittori di horror tradizionale. E c'è molto, molto di più su questo argomento. Il richiamo dello splatterpunk nei confronti della sua platea più affezionata opera a due diversi livelli. Ovviamente, gli eccessi sessuali e fisici dello splat soddisfano i meno sofisticati, e la fame degli adolescenti per i frutti proibiti. Questo è lo splatterpunk come lo vede la maggior parte della critica, nudo, disadorno, che nutre il bambino — alcuni dicono l'animale
— che è dentro tutti noi. (Naturalmente, gli stessi critici non centrano il bersaglio. Lo splatterpunk non parla di viscere e sesso; questi sono semplicemente due strumenti usati per esprimere l'ideologia splatterpunk.) Eppure persino a livello semplicistico e "grossolano", lo splatterpunk consente la soddisfazione primaria di sfidare apertamente la figura e l'autorità dei genitori; è l'archetipo che, per tradizione, ci avverte che il sesso è brutto, che dicendo "scopare" si va all'inferno, che godere passivamente di scene di violenza (sia stampate sia sullo schermo) ci fa stare "male". Nelle sue punte più alte, questo primo livello di splatterpunk può essere catartico (o, per i più sofisticati, semplicemente divertente). Al peggio, lo splat di primo livello può essere contorto come nella mentalità malata che produce immondizia monodimensionale del genere della serie di Venerdì 13, dove la sola logica di ogni pellicola è quella di inventare omicidi sempre più spettacolari (che, ultimamente, vengono talmente tagliati dalla censura della Motion Picture Association of America che i registi potrebbero fare a meno di darsi tanto da fare.) Sfortunatamente, i Guardiani della Moralità che condannano il primo livello splatterpunk, tutto teso a soddisfare le oscure fantasie dei suoi appassionati, ignorano nel contempo le realtà quotidiane di questo tipo di pubblico. Perché è ovvio che per la maggior parte della gente, la vita è perlopiù in diretta contraddizione con le loro fantasie. Sappiamo per esperienza che guardare o leggere di sesso in genere culmina con l'eccitazione, la masturbazione o l'atto amoroso, non con la violenza o gli smembramenti; sappiamo che in genere leggere o guardare violenza esplicita finisce per scatenare risa nervose o semplice disgusto. Ovviamente la maggior parte di noi non reagisce a racconti come "La notte che non andarono all'horror show" emulando nella vita reale le azioni che ha letto. Dopotutto, quand'è stata l'ultima volta che avete violentato la vicina di casa o tagliato la gola a qualcuno dopo aver letto un racconto horror? Di conseguenza, la vera funzione del livello uno dello splatterpunk è quella di incrudelire un po' l'immaginazione. Passato il momento, potete tranquillamente posare il racconto e tornarvene alle vostre occupazioni (conoscendo gli appassionati dell'horror, comunque, probabilmente loro vorranno far condividere la loro stessa terribile esperienza a un amico raccomandandogli questo o quel racconto). Il secondo livello d'attrazione dello splatterpunk è di gran lunga più complesso, e opera in profondi contesti sociali e filosofici. Al suo meglio, lo splatterpunk è una letteratura di confronto, di rabbia e di disperazione,
che a volte strizza l'occhio al nichilismo ma è sempre cosciente di usare come materia prima materiale preso dal mondo reale. In questa arena, lo splat diventa politico e ammonitorio; e vi dice che ci sono degli orrori là fuori, dentro e fuori di voi, che vi possono veramente fare del male. Perciò, accidenti, fate qualcosa! Questo secondo livello di splatterpunk, secondo me, è il più grande pregio di questo tipo di letteratura. Facendoci conoscere gli aspetti più sconfortanti del mondo vero rispecchiandoli nelle strutture horror tradizionali, lo splatterpunk di secondo livello sfida il lettore con una moltitudine di preoccupazioni molto verosimili. Questa "qualità di coscienza" può apparire come una satira sociale (come in "Jerry Kids Meet Wormboy" di David J. Schow, con il suo ministro alla Jerry Falwell che comanda un vero e proprio esercito di zombi), come una condanna dell'abuso sessuale (il racconto breve di John Skipp "Film alle undici"), o come un profondo disgusto morale per l'ipocrisia religiosa ("Sinema" di Ray Garton, in cui un insegnante dei corsi di recupero è in realtà un omicida pedofilo). Tanto meglio per gli appassionati dell'hard-core. Per coloro che sono appena approdati allo splatterpunk, sappiate che esso offre immaginazione sconfinata, energia, e un affascinante misto di cultura popolare; come pure filosofia, punti di vista diversi eccessi e libertà, il tutto legato con sesso e violenza espliciti. Ma, come ho già fatto notare, sarebbe un errore chiamare lo splat un movimento. Lo splatterpunk è un sottogenere, un mattone particolarmente temerario e interessante infisso nel muro arcuato della fiction fantastica. Si potrebbe andare oltre e avventurarsi a dire che gli splatterpunk sono una libera coalizione di anarchici, spinti da una cultura popolare pervasiva, scrittori che si sono trovati presi tutti insieme in una combustione letteraria spontanea. Si potrebbe dire che... Nooo. Lasciamo che lo dica Clive Barker. L'ha spiegato meglio di tutti nella pubblicità per Hellraiser, il suo primo film: "Non ci sono limiti". 5 COME È STATO CREATO IL NOME E COSA NE PENSA STEPHEN KING Il termine splatterpunk fu inventato dallo scrittore David J. Schow du-
rante una festa, nel 1986, dopo che lui stesso (The Kill Riff, Silver Scream, Lost Angels) e un certo numero di altri autori avevano partecipato a una tavola rotonda su "horror normale contro horror esplicito" alla World Fantasy Convention di Providence, nel Rhode Island. Era una discussioneimbalsamazione in parte seria, in parte faceta, applicata all'insieme dei lavori estremamente espliciti scritti da Schow e altri. E inizialmente questa esplicicità forniva agli esponenti dell'horror normale come Charles Grant — che è ancora all'avanguardia nel movimento antisplat — massicci elementi per dichiarare la propria insofferenza estetica (tra parentesi, Grant è un romanziere di gran talento, nonché curatore delle eccellenti antologie Shadows). Esaminiamo cosa aveva da dire sullo splatterpunk la rappresentanza dell'horror tradizionale. Stephen King dice che lo splatterpunk è "la coalizione horror più vitale e viscerale che operi oggi". Peter Straub (Storia di fantasmi, Mystery, Koko) in una recente chiacchierata telefonica che ho avuto con lui, ha detto che "finché lo scritto è buono, mi piace. Una parte dell'intento dello splatterpunk è di violare deliberatamente il lettore, di essere fondamentalmente offensivo. Oltraggiarlo. Questo è sempre stato il punto nascosto dell'horror, ed è uno dei punti di forza dello splatterpunk." Ma, come notavo in precedenza, non tutti coloro che sono coinvolti nell'horror tradizionale tollerano lo splatterpunk. La curatrice della Berkley Books, Susan Allison (che lavora con autori di best-seller dell'horror come Dean R. Koontz e F. Paul Wilson), è stata citata nel periodico Mystery Scene per questa frase: "Lo splatterpunk mi sembra spesso misogino, e preferisco non pubblicarlo se non è necessario". Non si può certo biasimare l'avversione della Allison per la misoginia, ma la sua dichiarazione suona sospettosa come una generalizzazione precipitosa. Sì, è vero che i personaggi femminili che si trovano nello splatterpunk sono occasionalmente spinti in situazioni pericolose (a proposito, succede anche agli uomini, a moltissimi di loro). A volte queste donne muoiono, o succede loro di peggio (ma anche agli uomini). Ma nella denuncia di misoginia della Allison ci sono due errori di base. Innanzi tutto, l'arte è costellata di donne che si trovano in situazioni pericolose. Queste scene sono riprese costantemente nella narrativa poliziesca. Nei romanzi d'amore. Nei western. Persino nei romanzi di Stephen King. Quindi mi sembra ingiusto puntare il dito solo sullo splatterpunk. E poi, piuttosto che correre il rischio di non essere in grado di pubblicare nulla, il punto critico su cui la Allison dovrebbe accentrare la sua attenzio-
ne non è la misoginia, ma la sindrome da "damigella in pericolo" delle opere letterarie in genere. Certo, questa è una bella trama che abbiamo utilizzato per millenni. Sì, è sempre un potente strumento di narrativa; ma è anche qualcosa su cui uno scrittore non dovrebbe ricadere così pigramente e misoginisticamente, con regolarità. Anche se probabilmente c'è qualcosa di vero nella dichiarazione della Allison — dopotutto, stiamo parlando di personalità umane, e nessuno sano di mente insisterebbe che tutti gli scrittori di splat sono capaci di risposte empatiche o illuminate quando si tratta di donne — lo splatterpunk migliore cerca di evitare questi cliché in maniera creativa. Il che ci porta ad alcuni esempi per sostenere il secondo punto, e al secondo errore insito nell'avversione della Allison. Per dirla tutta, l'uso che fa Susan Allison della parola misogino suggerisce un'estraneità di base al settore. Forse la Allison (e altri che, senza conoscere approfonditamente il campo, tirano fuori razionalmente questa risposta che fa venire il latte alle ginocchia) non ha letto lavori antimisogini hard-core come il racconto "Gentlemen" o il romanzo The Scream, entrambi di Skipp e Spector. Qui la maggioranza dei personaggi femminili non è soltanto perfettamente disegnata e resa in maniera simpatica (particolarmente Jesse Malloy, in The Scream), ma viene mossa in situazioni che comportano legami moralmente complessi e dolorosamente empatici con il mondo reale (un esempio lampante è la visita emozionalmente dolorosa di Malloy a una clinica sospetta di praticare aborti, che si rivela essere gestita da persone molto attive nel movimento per la vita). Parlare di misoginia significa anche ignorare la fiction di Edward Bryant. Anche se lei rifiura la definizione, Bryant ha però scritto opere di splatterpunk come "A Sad Last Love at the Diner of the Damned" e "While She Was Out". Ed entrambi i racconti sono costantemente quanto fermamente dalla parte delle donne. Questi non sono esempi isolati della sensibilità splatterpunk nei confronti delle donne: che mi dite di "Pamela's Get" di David J. Schow, uno studio intelligente e intenso dell'amicizia femminile? Comunque, la misoginia non è il solo punto negativo rinfacciato allo splatterpunk dagli ambienti horror. In una recente interfonata (gergo giornalistico per dire una intervista telefonica) che ho avuto con Charlie Grant, lo scrittore mi ha fornito di getto questa risposta:
Il movimento splatterpunk non fa niente che non sia stato fatto prima: è solo che lo fa più esplicitamente. Ciò che differenzia lo splatterpunk è l'energia, e quello che ci si fa. E la cosa buona dello splatterpunk è che alla fine verrà assorbito: e tutto il superfluo verrà gettato a mare. Incidentalmente, la loro tecnica di iniettare lo stesso tipo di esplicita violenza che si trova nei film in realtà è fallita; la maggior parte degli editori trovano che la gente che va a vedere film espliciti come Venerdì 13 comunque non legge libri; mentre l'inserimento di quel tipo di violenza nei libri scoraggia i lettori. Quindi, è una tecnica che sfida se stessa. Ma le cose stanno cambiando. Nel 1989, Skipp e Spector e io ci siamo messi a tavolino e abbiamo deciso che questo conflitto "horror normale-horror esplicito" ci stava sfuggendo di mano. Abbiamo deciso tutti che era un problema artificioso. Ma lo splatterpunk, comunque, è super. Be'... per avere il punto di vista contrario, ho intervistato anche Craig Spector, leggendogli le osservazioni di Grant. La risposta di Spector? Mi irrita immensamente che Charlie abbia detto che ci siamo messi a tavolino e ci siamo trovati d'accordo sul fatto che lo splatterpunk è super. Non l'abbiamo fatto, e non è vero. Fondamentalmente, credo che Charlie desideri che lo splatterpunk semplicemente si esaurisca e scompaia. D'altra parte, è ovvio che un elemento dello splatterpunk — la parola — è super. Ma l'estetica generale, il colore complessivo dello splatterpunk, non lo è. In ogni caso, questa diatriba "horror esplicito contro horror tranquillo" non è proprio il vero problema; il vero problema è: tu sei tradizionalista o no? Il commento conclusivo di Spector centra il punto focale del dibattito. L'implicito rifiuto di Grant delle rudi qualità dello splatterpunk, e l'accettazione ugualmente appassionata di Spector, è un esempio perfetto delle di-
visioni generazionali nell'arte. La semplice differenza cronologica tra Grant, Skipp e Spector (circa dodici anni; Skipp e Spector, sulla trentina, sono più giovani di Grant) ci dice molto di più di uno schedario pieno di teoremi. L'arte fuorilegge (una dizione in cui cade chiaramente lo splatterpunk) è generalmente terreno di caccia dei giovani (anagrafici o di cuore). Gli strumenti dell'arte fuorilegge sono sempre stati la sfida, la ribellione, il cambiamento. E in nessun altro luogo il cambiamento è stato tanto evidente quanto nelle correnti turbinanti della cultura popolare americana, prima e dopo la seconda guerra mondiale; solo una misera dozzina di anni, tra artisti, possono segnare la differenza tra essere hippy o essersi mummificati. Oltre all'ovvio fattore generazionale, cos'altro spiega questa diatriba iniziale tra splatter tranquillo e splatter esplicito? Be', mentre molti potrebbero dare per scontato che gli scrittori di successo di una letteratura che indulge nel terrore, nella violenza, e nell'accesa immaginazione siano le frange più liberali esistenti, è anche vero l'esatto opposto. Gli ambienti horror, come le loro controparti della fantascienza, sono fondamentalmente conservatori. Gli appassionati di fantascienza e di horror sono famosi per la loro resistenza ai cambiamenti: Spock non può morire, Jason deve indossare una maschera da hockey, e così via. Così non ci sorprende che la reazione dell'ambiente dell'horror allo splatterpunk sia stata, al meglio, un doloroso silenzio (e, fino a un certo punto, continua a esserlo). Al peggio, la reazione è di espressa repulsione verbale. (Incidentalmente, le mie sensazioni su questo dibattito "tranquillo contro esplicito" sono di una vecchia creatura tumorale su cui bisognerebbe sparare a vista. Dopotutto, il campo è talmente vasto che c'è abbastanza spazio per farci accampare entrambi gli eserciti; comunque la maggior parte dell'horror si colloca tra i due estremi.) Ma ritorniamo all'origine della parola splatterpunk. Oltre a essere il risultato del dibattito tra le due fazioni, la parola era ovviamente un riferimento di Schow al culto "cyberpunk" allora di moda, creato dai romanzi e dai racconti di scrittori di fantascienza come William Gibson e Bruce Sterling. Il cyberpunk raffigura in genere la gioventù urbana, altamente qualificata ma alienata, che si muove entro complessi giochi di potere contro uno sfondo decadente, intricatamente realizzato come un film nero futuristico. Questi personaggi flirtano anche con il nichilismo; sono stanchi del mondo, disperati, e assumono straordinarie quantità di droghe esotiche. Sesso come capita e violenza sono un dato di fatto comu-
ne (anche se mai così ben dettagliati come nei lavori splatterpunk). Ma, cosa più importante, i cyberpunk adottano un'attitudine rivoluzionaria, celando il loro disgusto per la corruzione politica, etica e interpersonale degli anni Ottanta attraverso una barriera di fantascienza ad alta tecnologia imbottita di informatica. In questa combinazione di agit-prop giovanile con una punta di malessere socio-spirituale, con la sua ossessione per la cultura popolare, il cyberpunk rassomiglia molto allo splatterpunk; in tutti gli altri aspetti, non gli somiglia affatto. In ogni caso, questa storia di Schow e del cyberpunk è diventata la linea ufficiosa oltre che di parte per la nascita della parola splatterpunk. Ma il vero influsso su questa parola, e sulle tematiche splatterpunk ha più a vedere con elementi di più largo respiro della cultura popolare americana; lo splatterpunk non è solo debitore al trito romanticismo di William Gibson. Potrei forse suggerire che potrebbero — o dovrebbero — esserci state altre tre influenze nella mente di Schow, altri tre stimolanti ugualmente potenti che l'hanno portato al termine splatterpunk? Una di tali influenze devono essere stati i film "splatter", termine coniato nel 1984 dallo scrittore John McCarty per descrivere quel tipo di film che cominciarono con opere come Festa di sangue di H. G. Lewis e La notte dei morti viventi di Romero, e che presto inclusero di tutto, da Suspiria di Dario Argento e L'aldilà di Lucio Fulci a Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato (si trovano un sacco di italiani, qui...). I film splatter sono sostenuti da una subcultura entusiasta. Questo gruppo ha le proprie pubblicazioni (Shock Xpress, Psychotronic Video, Gorezone), congressi (Il Weekend degli orrori di Fangoria) antologie a tema (Silver Scream di David J. Schow) e le ultime "cause celebre" (film come Nekromantik, Street Trash e Henry, pioggia di sangue). Del tutto casualmente, oggigiorno i film splatter mostrano un interessante effetto ping-pong. Barker ha scritto e diretto Hellraiser e Cabal, Skipp e Spector hanno preparato la sceneggiatura per Nightmare 5 e hanno collaborato a quella di Classe 1999. Schow ha scritto Leatherface: Non aprite quella porta III. Questo significa che lo splatterpunk è passato da un influsso cinematografico alla carta stampata e di nuovo al cinema. Questo non solo sottolinea il fatto che lo splatterpunk è un fenomeno multimediale, ma rende evidente che, in alcuni casi, i film splatter sono splatterpunk. E che ne dite del punk rock, il secondo influsso? Nella seconda metà degli anni Settanta, in Inghilterra esplose un movimento musicale chiamato punk rock. Rispecchiando la disperazione che
gran parte della gioventù britannica provava nei confronti della stagnazione morale ed economica del paese, il punk si estese ben presto in America. Era guidato da complessi come i Sex Pistols e i molto contestati Fear, e veniva eseguito con riti a cui partecipava anche il pubblico, come danze violente, un comune modo di vestire (magliette stropicciate, taglio di capelli all'indiana, spille da balia nel naso, nelle orecchie, o sul petto). Il punk rock era un rabbioso grido di protesta con una spolverata di una ben specifica filosofia. Non c'è futuro, dicevano i punk. La vecchia musica rock è senza senso, blanda, ormai assorbita dal sistema. Il sesso è ridicolo, e il mondo è gestito da vecchi stronzi potenti e imbattibili che ci hanno lasciato senza scelta. Tutto ciò che vediamo, dicevano i punk, è un grigio vuoto di repressione economica, razziale e artistica. E allora vaffanculo, amici! Il punk era rumoroso e maleducato, sommerso da tonnellate di atteggiamenti stereotipati, e sollevava moltissima attenzione attorno a sé, proprio come lo splatterpunk. Naturalmente, il punk ormai è bell'e che morto. E il rock' and' roll in genere è attualmente la maggiore influenza dello splatterpunk (è interessante, comunque, che oggi ci siano complessi di rock/splatter; nel 1989 gruppi tipo i Gward si presentavano sul palco con indosso maschere dell'orrore e si esibivano, come parte del programma, vomitando: un ulteriore esempio della cultura splatter che si ripiega su se stessa). E infine, e per questo potrei attirarmi addosso parecchie critiche, la terza influenza culturale sullo splatterpunk è data dalla videopornografia. Considerate questo: ci sono sempre stati romanzi d'amore, ma ci sono voluti film come Gola profonda e le attitudini sociali permissive degli anni Settanta per permettere a vasti gruppi di persone un facile accesso alle scopate su pellicola. E all'inizio degli anni Ottanta, quando il porno si è spostato dai cinema ai salotti attraverso videocassette e videoregistratori, i film per adulti hanno registrato una tale impennata da essere ancora il genere più proficuo nei negozi di videonoleggio. Questo tipo di influenza economica significa che un sacco di gente guarda altra gente che scopa, che lo ammetta o no. Quindi la domanda si trasforma, per quanto riguarda la diffusione del videoporno, da Perché lo splatterpunk deve includere sesso esplicito? a Come non poteva il sesso esplicito infiltrarsi nello splatterpunk? E infine, c'è un certo richiamo sovversivo nella sessualità esplicita; lo splatterpunk non è nient'altro che sovversivismo. E, cosa interessante, ci sono stati degli spostamenti verso direzioni opposte. Un recente movimen-
to video sotterraneo, attraverso film brevi come Fingered di R. Kern, o Thrust in Me di Nick Zedd, ha fuso sesso esplicito e violenza in un intero subgenere: lo splatterporn. Così sono nati lo splatterpunk e le sue tematiche: attraverso il cyberpunk, i film splatter, il punk rock, e i video per adulti. 6 ARTIFATTI E INFLUENZE Arrivati al dunque, ci si accorge che lo splatterpunk è in realtà solo una parola nuova per un vecchio atteggiamento, che non conosce limiti, non si piega a nessun dio, non riconosce confini. Il che logicamente ci porta alle sue radici più profonde. Nella seconda parte di questo saggio, ho fissato la nascita dello splatterpunk nel 1971, data di pubblicazione di L'esorcista. Può sembrare sorprendente, dato che il termine stesso fu coniato alla fine degli anni Ottanta e i suoi autori più in vista hanno seguito le sue strade a cominciare da quello stesso decennio. Comunque, L'esorcista (il romanzo) era tutto ciò che lo splatterpunk è oggi: esplicito, adulto, di confronto, e temerario (se fosse o meno letteratura è un altro discorso). Ma cosa più importante, l'America non aveva mai avuto un best-seller come quello, e l'influenza dell'Esorcista sulla cultura popolare per tutto il resto degli anni Settanta fu schiacciante. Quindi, per tracciare una semplice linea di demarcazione, fissare al 1971 la data di nascita dello splatterunk mi sembra evidentemente corretto. (Si potrebbe risalire al furore scatenato da Rosemary's Baby, ma persino lì, nonostante la sequenza dello stupro satanico, Polanski in genere optò per la suggestione più che per la franchezza.) D'altra parte, così come è sempre esistita un'arte fuorilegge, nello stesso senso ci sono sempre stati splatterpunk. Come ha sottolineato Clive Barker, lo splatterpunk è sovversivo, perché cerca attivamente di farti qualcosa, di scuoterti dalla tua abulia. L'Odissea di Omero non presenta solo un'intera isola di drogati (i mangiatori di loto), ma anche mostri giganteschi con un occhio solo che amano mangiare la gente (i ciclopi). Nel Quattordicesimo secolo, Dante (nella Divina Commedia) non si contentò di collocare all'inferno i suoi nemici politici; li fece cadere in pozze bollenti di escrementi. Il castello di Otranto di Horace Walpole del 1764, il primo romanzo gotico, e Il monaco di M. G. Lewis, del 1796, sono due famosi esempi di aberrazione artistica del Diciottesimo
secolo. E non ci dimentichiamo della Bibbia. Naturalmente questo giochetto potrebbe continuare. Vogliamo abbassare il tiro? Il ventesimo secolo ha movimenti e personalità artistiche inesauribili; perché mai l'horror, la fantascienza, o la fantasy, dovrebbero essere diversi? A seguito del traumatico cataclisma della prima guerra mondiale, l'espressionismo tedesco ha reinventato l'uso del chiaroscuro; si sono stati anche il dadaismo, il surrealismo, e Man Ray. Gli anni Trenta videro Celine, Dalì, Buñuel; i Quaranta reagirono alla seconda guerra mondiale con il film nero. Negli anni Cinquanta cominciavano veramente a ribollire le influenze che poi sarebbero culminate nello splatterpunk. William Burroughs di solito viene escluso dal discorso splatterpunk, ma non bisognerebbe farlo con l'uomo che creò Il pasto nudo (1959) e il dottor Benway ("E una volta mi sono trovato senza lo strumento uno e ho rimosso un tumore uterino con i denti"). William Gaines e gli E. C. Comics in genere vengono inclusi nella storia dello splatterpunk, e con buone ragioni, perché è facile capire che esercitarono un influsso chiave con i loro espliciti "racconti crudeli", divertentissimi, che si mascherano da storie di moralità. Poi c'è Robert Bloch, perennemente conosciuto come "l'autore di Psycho". Lo humour di Bloch non maschera mai completamente un'attrazione per la psicologia aberrante e la lurida epistemologia del vero crimine. Ed è stato Bob Bloch a fondere spettacolarmente il romanzo giallo con Ed Geim, (il perverso serial killer della realtà), l'ispirazione splatterpunk che fa sobbalzare i più freddi. L'influenza di Psycho sullo splat, sia attraverso i libri di Bloch sia attraverso il film di Hitchcock, è stata incalcolabile. Poi arrivarono gli anni Sessanta... wow! Droga, politica e rock'n'roll. Relazioni interpersonali. Lotta per quello in cui credi. La guerra in Vietnam. E televisione, televisione, televisione. Se gli anni Cinquanta avevano dato allo splatterpunk la materia base, gli anni Sessanta lo rinvestirono di credibilità. Con i suoi modi di vivere alternativi e il credo del fai-da-te, nello splatterpunk degli anni Novanta c'è più di una eco distante della controcultura dei Sessanta e non dimentichiamoci l'influenza della letteratura di quegli anni. Per esempio, il romanzo di Hubert Selby Jr. Ultima uscita per Brooklyn del 1964 è ferocemente energico e realistico e non scende mai a compromessi. Ritrae teppisti, omosessuali e
prostitute in scene visualmente esplicite di violenza urbana e di degradazione; chi può dimenticare lo stupro di massa di Tra-La-La? Gli anni Sessanta furono anche l'Età dell'Oro del cinema internazionale, e ho già fatto notare l'estremo influsso della cinematografia sullo splat. Quel decennio non solo fece conoscere agli americani Fellini, Bergman e Godard, ma ci regalò anche La notte dei morti viventi e Festa di sangue. Queste ultime erano meraviglie a basso costo che rinnegavano tutte le regole codificate; rispecchiavano le carneficine della guerra del Vietnam, entrata nelle case di tutti attraverso la televisione, Bava e i suoi compiici ci fecero cascare quegli sbudellamenti dritti in grembo. Poi c'è il fronte letterario. Molti critici dello splatterpunk non vogliono riconoscere che gli appassionati di questo settore particolarmente truculento possono avere una conoscenza della storia della fiction horror. Ovviamente, lo splatterpunk non è stato creato dal nulla. L'eredità di Poe, Hawthome, Blackwood, Hodgson, Lovecraft, Smith, Howard, Derleth e così via è riconosciuta da molti scrittori splat, e, in alcuni casi, viene anche richiamata. È solo che gli scrittori di splatterpunk credono che questa tradizione sia sopravvissuta alla sua pratica utilità. Prendete questa citazione di David J. Schow tratta da un articolo di Jessie Horsting: "Quelli dello splat: i giovani scrittori horror mostrano le interiora", pubblicato nell'edizione giugno 1988 di Midnight Graffiti: Una sorprendente quantità di scrittori horror è formata da accademici... Stephen King era professore, come pure Peter Straub e Dennis Etchison. Charlie Grant era un professore. Alan Ryan ha insegnato inglese per nove anni. Come T. E. D. Klein. Costoro hanno una tradizione completamente differente dalla nostra. Clive Barker ha detto che secondo lui il problema di questa letteratura è che gli scrittori non si addentrano mai abbastanza nella materia. E evidentemente sono in molti ormai a pensarla così. Non è sufficiente vedere l'ombra dietro la porta: la gente vuole vedere cosa fa ombra, che aspetto abbia e cosa ne viene fuori. Ma non saremmo qui a sporcare l'aula se loro non avessero costruito la scuola
Negli anni Sessanta c'erano un bel po' di scrittori che sporcavano l'aula. In racconti come "Non ho bocca e devo urlare", come pure "Un ragazzo e il suo cane", Ellison riprende volontariamente l'intera eredità dell'horror e della fantascienza e la getta, urlando e scalciando, nella "letteratura che conta" nei Sessanta. Infatti Harlan Ellison, con la sua rabbia selvaggia e creativa, la crudeltà della sua prosa, il coraggio, il suo insistente includere nell'emergente fiction dell'orrido i temi culturali del momento, può veramente essere considerato il padrino spirituale dello splatterpunk. Poi arrivarono gli anni Settanta. Oltre a libri come L'esorcista e Nebbia, c'erano omicidi di massa nella vita di tutti i giorni; vedi il caso di John Wayne Gacy. O film come Taxi driver. Il reverendo Jim Jones. Fumetti underground come Skull e Death Rattle. Il ritorno dei morti viventi (il secondo film di zombi di Romero, e un innegabile capolavoro di desensibilizzazione). Non aprite quella porta. David Cronenberg. Ecologia del delitto di Bava del 1971, il modello originale da cui è stato tratto il serial di cui Venerdì 13 è un esempio). E sempre, su tutto, l'ombra persistente di Stephen King (è sufficiente dire che King non solo ha reso legittima la letteratura horror, ma l'ha resa popolare — e redditizia). Negli anni Ottanta, l'esplosione della corrente horror come materia commerciale, il nuovo vigore del rock, la diffusa disponibilità — grazie al nuovo mezzo della videocassetta — di film truculenti prima difficili da vedere, l'opportunità mai avuta prima di provare e sintetizzare tutta la gamma dell'arte, della storia e dell'esperienza umana, fanno dello splatterpunk un incidente inevitabile che aspettava solo il momento di accadere. Anche se, come abbiamo visto, in primo luogo c'è sempre stata una qualche forma preesistente di mentalità splatterpunk. 7 CLIVE BARKER Come il surrealismo prima di lui, lo splatterpunk è una rivolta specifica contro un ambiente artistico: nel nostro caso, il racconto horror suggestivo, tradizionale, e moderato. In senso più ampio lo splat può essere visto anche come un esempio di anarchia causata da un periodo di repressione sociale, e, specificamente, il regime reazionario di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Arriva Clive Barker e lo scenario cambia. Incoraggiato dal successo commerciale di Stephen King (piuttosto che
dalla narrativa di Ramsey Campbell, ambientata a Liverpool) l'inglese Clive Barker, è arrivato sullo scenario dalla letteratura horror nel preciso momento in cui Margaret Thatcher rafforzava il suo potere nel paese. Per quanto riguarda il perché Barker è diventato famoso... be', per dirlo in termini crudi, è stato per il sesso e per la violenza. Eppure negli eccessi che descriveva si avvertiva la sua conoscenza della letteratura classica, unita a un evidente amore per i film-spazzatura e le tecniche teatrali tradizionali; i risultati sono stati I libri di sangue, Volume Uno, Due e Tre (1984). Ricordo ancora il senso di disagiata complicità che ho provato leggendo per la prima volta classici di Barker come "Rawhead Rex" (in cui un antico mostro mangia i bambini) e "Figli di celluloide" (un tumore parlante che arriva al cinema); ne sono stato turbato, ma anche elettrizzato. Qui, finalmente, c'era un autore che portava tutto alla luce del sole. E lo faceva con stile, razionalità, e con una grazia tutta europea. A un livello più superficiale, I libri di sangue non erano solo, be', più sanguinosi di ciò che era stato prima, ma erano anche imbevuti di un vero e proprio catalogo di diversioni deliziose, come creature ripugnanti che pisciavano in bocca ai preti, bande di creature bizzarre che picchiavano donne compiacenti, occhi lucidi che venivano fatti scivolare tra le cosce di Marilyn Monroe. Eppure se il solo grande talento di Clive Barker fosse stato quello di essere epicamente volgare, sarebbe stato facilmente scartato, come è accaduto ai suoi compatrioti Shaun Hutson (Slugs) o Guy N. Smith (The Sucking Pit). Ciò che elevava veramente I libri di sangue era una fervente immaginazione, una grande intelligenza, una visione del mondo sofisticata (e desolante), una sensualità veramente esplicita. Non è stato detto tutto su questo ultimo tratto. L'ovvio fascino esercitato su Barker dall'omosessualità, il sadomaso, la "pioggia dorata", e così via — cioè praticamente qualsiasi forma di "perversione" sessuale — riappare nella sua fiction tanto spesso da suggerire un manifesto nascosto. Rappresentata in maniera preminente come le sue scene di carneficine esplicite e fisiche, questa sensualità rampante è un problema costante, dagli amanti gay di "Sulle colline, le Città" (uno dei migliori racconti di Barker) agli zombi sadomaso e necrofili dei film Hellraiser ed Hellbound (e il racconto a essi ispirato "The Hellbound Heart"). Un esempio che unisce sia il tangibile senso della carnalità di Barker sia la sua libido surreale è "Jacqueline Ess". Scritto meravigliosamente, questo racconto penetra nel profondo e in più direzioni: il suo incapsulare la rab-
bia femminile dei nostri giorni, fornisce una solida substruttura per sostenere i suoi eccessi. Jacqueline Ess è una casalinga disperata — annoiata, frustrata, furiosa per la condiscendenza maschile che vede dappertutto attorno a sé — che si risveglia dopo un tentato suicidio per scoprire che qualsiasi cosa lei pensi diventa realtà. Questo nuovo potere viene esercitato in modi diversi, come per distruggere il suo lunatico marito (senza toccarlo con un dito) o far nascere seni femminili a un dottore arrogante. Alla fine, Jacqueline si uccide letteralmente con tenerezza: Lui si sdraiò accanto a lei, e la sensazione del corpo contro il suo non era spiacevole. Gli toccò la testa. Aveva i legamenti rigidi, muoversi le costava dolore, ma voleva attirargli il viso verso il suo. Lui entrò nel suo raggio visivo, sorridendo, e si scambiarono baci. Mio Dio, pensò lei, siamo insieme. E pensando di essere insieme, la sua volontà si fece carne. Sotto le labbra di lui le fattezze di lei si dissolsero, diventando il mare rosso che aveva sognato, e si infrangeva sul viso di lui, che si dissolveva; acque unite di pensiero e di ossa. I seni aguzzi di lei lo penetrarono come frecce: l'erezione di lui, acuita dai suoi desideri, la uccise di rimando con una sola spinta. Avvinghiati in un bagno d'amore si desiderarono estinti. E estinti furono. (Da Libro di sangue). Quanto sopra riportato non solo dimostra i doni poetici di Barker, ma mette a tacere il cliché che lo splatterpunk sia solo un'eiaculazione giovanile senza valore. Qui c'è all'opera un talento evocativo, di prima qualità, conscio delle sfumature e delle sottigliezze; Barker sa scrivere. (Ammirevolmente, crea costantemente forti personaggi femminili). Ma, naturalmente, ci sono sempre dei lati negativi. I libri di sangue e le successive fatiche di Barker, come Cabal, Hellraiser, Hellbound, Il mondo nel tappeto, Nightbreed e Il grande spettacolo segreto mostrano di tanto in tanto un'irritante inclinazione verso la creazione di personaggi di poco spessore. Forse è una conseguenza del furioso ritmo creativo di Barker; infatti è un autore eccezionalmente prolifico.
Eppure la sua fiction migliore mostra una tecnica sofisticata e un virtuosismo che regge il confronto con l'opera di altri suoi compatrioti come John Le Carré e Graham Greene. Densità, maturità, una moralità sapiente e complessa — sono tutti marchi di fabbrica di Barker/Le Carré/Greene. Ci sono altri raffronti da fare, meno evidenti. Per esempio, Graham Green ha sempre definito chiaramente il suo lavoro come "di intrattenimento" o "romanzo", classificazioni che indicano una narrativa da leggere per divertimento o per edificarsi. Barker stesso mi ha detto una volta che lui applica questa distinzione nel suo lavoro: "Macelleria mobile di mezzanotte", per esempio, è chiaramente di intrattenimento. "Jacqueline Ess", altrettanto chiaramente, non lo è. Di conseguenza, I libri di sangue hanno meritano il loro successo. Ma chi avrebbe potuto prevedere le conseguenze? Rendersi conto che Barker è passato nel giro di soli sei anni da una personalità cult alla celebrità internazionale la dice lunga sulla rapidità dei mezzi di comunicazione esistenti attualmente al mondo (che hanno segnato il destino dell'opera di Barker). La frase classica di Stephen King, "Ho visto il futuro dell'horror, e il suo nome è Clive Barker" è stato solo un'introduzione a una raffica di citazioni lusinghiere che ogni nuova opera di Barker offre quando fa la sua comparsa in qualsiasi libreria/cinema/buca delle lettere. Non ci sbagliamo: Clive Barker è attualmente lo scrittore di maggior successo commerciale che utilizza tecniche splatterpunk. Infatti, proprio come Stephen King, è diventato un po' un personaggio a sé, e ogni romanzo o racconto o film sorpassa quello precedente per fama e incassi. Gioco dannato (1985) che seguì I libri di sangue, e che fu il primo romanzo di Barker, è una storia faustiana dei tentativi di un ricco industriale di eludere un cacciatore di anime. Eppure, nonostante i suoi encomiabili scopi, la sua ambizione e lo stile fiorito, (incluso un prologo allucinante e denso d'atmosfera ambientato nella Varsavia dopo la seconda guerra mondiale) l'effetto totale di Gioco dannato fu minore della somma delle sue parti. Allora Barker fece abbassare la guardia alla comunità dell'horror con Il mondo in un tappeto (1987), un romanzo più lungo, più coerente e soddisfacente. Il mondo in un tappeto, che narra di un intero mondo nascosto nelle trame di un banale tappetino, (nonostante i suoi tocchi di grottesco), ricade però, più che nel romanzo horror diretto, nel genere della fantasy epica reso popolare da J.R.R. Tolkien, confondendo le aspettative di coloro che pregustavano un'altra esplorazione dei divertenti e truculenti scenari tracciati dai Libri di sangue.
La popolarità di Barker continuò la sua ascesa con un parallelo ampliarsi verso altri mezzi di comunicazione. A questo punto della sua carriera si spostò alla cinematografia, scrivendo, producendo e/o dirigendo Hellraiser (1987), Hellbound (1988) e Nightbreed (1990), progetti descritti come "I film violenti incontrano il Marchese de Sade". Da allora Barker ha tenuto in esercizio la sua vena letteraria, scrivendo il racconto "The Hellbound Heart" (1987) e il romanzo Cabal (1988). Il suo più sostanzioso Il grande spettacolo segreto (1989) è una favola fantasy/horror racconto/amore che tratta, come ha detto Barker, di "Hollywood, sesso e Armageddon". Nonostante la sua crescente notorietà e i segnali che potrebbero far supporre un progressivo esaurimento del suo spessore letterario, Clive Barker rimane un artista dalle risorse incredibili. In parole povere, è uno dei migliori scrittori di horror a dare grazia al genere; informato, intelligente, tecnicamente superiore, disciplinato e fantasioso. Per non dire infaticabile. E Barker era chiaramente il passo logico successivo nella scala che sostiene anche Stephen King. Perché mentre King è essenzialmente un conservatore letterario, che enfatizza la famiglia nucleare e tutte le altre virtù della classe media americana (incluso un amore quasi reazionario per cliché della narrativa horror come la casa infestata e la maledizione gitana), Barker è un artista rivoluzionario, attirato dagli emarginati (Il Boone, di Cabal), dalle figure marginali (Marty Strauss in Gioco dannato) e dai fuorilegge (Ezra Garvey in Madonna). Sì, Stephen King potrà portare il lettore fino al limite del pozzo dell'horror contemporaneo; Barker, con un urlo, ce lo getta dentro. Quindi ecco un autore che ha completato il percorso, e lo ha fatto con intelligenza, stile, creatività. Non solo, ma nel farlo Barker è riuscito a diventare schifosamente ricco. Che combinazione irresistibile! Ma altri talenti interessanti erano già in cammino. 8 JOHN SKIPP E CRAIG SPECTOR Non è giusto limitarsi ad asserire che lo splatterpunk è iniziato con Clive Barker, o che coloro che da allora in poi si sono definiti splatterpunk hanno semplicemente spiccato il volo dopo il suo successo. Infatti, lavori essenziali di splat come The Nightrunners (1987) di Joe R. Lansdale, o Maledizione fatale (1986) di Skipp e Spector sono stati scritti molto prima o
erano già in gestazione prima dell'emergere di Barker. Ma dato che la parola splatterpunk fu coniata dopo che Barker era divenuto nome di conoscenza comune, c'è stata una tendenza nella stampa popolare a etichettare coloro che sono arrivati dopo i Libri di sangue come ovvi imitatori di Barker. Niente potrebbe essere più distante dalla realtà. Questi scrittori avrebbero potuto emergere da soli in qualsiasi circostanza. Primi tra tutti questi talenti post-Barker sono John Skipp e Craig Spector, conosciuti insieme come "The boys" (i Ragazzi). Intensi, articolati, pronti a rischiare per i loro principi, Skipp e Spector sono, dopo Clive Barker, i membri di maggior successo e di maggior rilievo della comunità splatter. Ma uno dei pericoli che ci si assume accettando l'etichetta di splatterpunk è che essa impone una categorizzazione. Esprimendosi nella fanzine di film dell'orrore inglese Samhain (giugno-luglio 1989), ecco cosa dice Spector a proposito del termine splatterpunk: "E solo un'etichetta utile perché la gente si accorga di noi. Non ci sono definizioni rigide... perché questo ci limiterebbe. Siamo solo un pugno di persone che fanno schifezze e parlano tra di loro". (pag. 10). In tutta la loro produzione, Skipp e Spector hanno fatto ben più che parlare tra di loro. Il loro primo romanzo è stato Maledizione fatale del 1986, che, come i Libri di sangue, sembrò scaturire dal nulla (anche se i Ragazzi in effetti avevano già scritto un certo numero di racconti brevi molto prima — opere come il racconto The Long Ride del 1982, pubblicato in raccolta con altre storie di S. e S. in una nuova struttura in Dead Lines, pubblicato nel 1989). Veloce, furioso e divertente — e tecnicamente più che leggermente ambiguo — Maledizione fatale ritrae nei dettagli un vampiro molto moderno, di nome Rudy Pasko. Egli infesta la metropolitana di New York, una creatura egoista, vanesia, che alla fine verrà eradicata da un eterogeneo gruppo di abitanti di Manhattan. Una volta accettata la sua crudezza stilistica, diventa chiaro che Maledizione fatale è stato pubblicato per aggiornare il mito del vampiro, in primo luogo rifiutando di indugiare nelle regole letterarie che hanno sempre contraddistinto questo particolare simbolo (ricreare l'eleganza dei salotti del diciannovesimo secolo del Dracula di Bram Stoker comunque è sempre un problema; ne sono prova i romanzi di Anne Rice sul Vampiro Lestat). Più si legge, più diventa chiaro che Maledizione fatale voleva proporre qualcosa di più di una storia di paletti e crocifissi.
Skipp e Spector concentrano la loro attenzione sulla classe lavoratrice di Manhattan; qui non ci sono aristocratici, solo credibili individui di tutti i giorni. Maledizione fatale prende una ferma posizione contro il crimine, l'angoscia urbana, e la desensibilizzazione, non cede mai spazio alla violenza e rifiuta ogni forma di ipocrisia. Così facendo i Ragazzi hanno creato una visione cruda e perlopiù autentica dell'inferno di New York. Grazie al modo in cui viene raccontata questa storia — con energia e profanità, facendo grande uso delle tecniche cinematografiche — si finisce per avere l'impressione che Maledizione fatale sia stata stampato con l'amfetamina, anziché con l'inchiostro. La successiva fatica di Skipp e Spector fu la novelization del film (sempre sui vampiri) Ammazzavampiri. Ma per il loro secondo libro originale, The Cleanup (1987), i Ragazzi ritornarono a Manhattan. E divenne presto evidente che non solo il loro stile letterario era migliorato, ma che le tecniche stilistiche e le problematiche morali di Maledizione fatale non si erano limitate a un'unica opera meravigliosa. In altre parole, era chiaro che i Ragazzi avevano veramente qualcosa da dire. Come Jacqueline Ess di Barker, The Cleanup si accentra sull'esaudimento di desideri primari. Bill Rowe, il protagonista, è un musicista rock che comincia a invecchiare, a fare i conti con la sfortuna, e a doversi confrontare con la sua mortalità. Rowe, a cui vengono improvvisamente concessi degli enormi poteri paranormali da un misterioso sconosciuto di nome Christopher, comincia una crociata solitaria contro il crimine: la sua santa missione è di fare "piazza pulita" nelle sudicie strade di Manhattan. Sia Maledizione fatale che The Cleanup sono libri grandi e trasgressivi, popolati da personaggi credibili, e rivelano un eccitante ritratto "dal vivo" del ventre putrescente di New York. Con il loro terzo romanzo, The Scream (1988) che narra di un complesso rock satanico, i Ragazzi rinforzarono la loro crescente reputazione di primi splatterpunk del rock'n'roll. Nella loro narrativa si avverte un vero e proprio senso del ritmo: ci si può ballare, e, se si ascoltano le parole, si può anche tirar fuori qualcosa su cui riflettere. Il fatto che sia Skipp sia Spector siano veramente musicisti rock ha certamente qualcosa a che vedere con l'energia, lo stile, e gli atteggiamenti del loro lavoro: "Io amo il rock'n'roll — dice Skipp nell'intervista su Samhain. — Non è intrinsecamente buono o cattivo, è
una forza neutrale. La retorica di un gruppo non è tanto importante per me, quanto cosa fanno. Personalmente, non mi importa se un complesso parli di sacrifici satanici di gruppo o di succhiare gli occhi a qualcuno, è quando lo fanno veramente che ho qualche problema". La chiara differenziazione di Skipp tra un messaggio musicale e ciò che se ne fa è un punto critico per comprendere il lavoro suo e di Spector. Anche se si sentono a disagio con questa etichetta, i Ragazzi sono chiaramente i più moralisti degli splatterpunk; negli eccessi e le descrizioni ripugnanti della loro prosa c'è un intento mortalmente serio, una narrativa ricca di scelte morali, una celebrazione cumulativa del principio della vita. Questa è una cosa estremamente positiva, perché come Barker e le sue descrizioni esplicite della depravazione, se i Ragazzi avessero contribuito al filone splatter solo con chitarre Fender e amplificatori Pignose, sarebbero stati presto dimenticati. Questa qualità rockeggiante dello splatterpunk viene forse spiegata meglio dall'ottima critica pubblicata sull'opera di Skipp e Spector, un articolo che apparve nell'ormai scomparsa fanzine The Horror Show (una fanzine è una pubblicazione edita amatorialmente). L'articolo, "Misure estreme: la fiction di John Skipp e Craig Spector" era a firma di R. S. Hadji, e scavava con profondità incisiva, offrendoci tra le altre cose questa considerazione sui metodi stilistici dei Ragazzi: C'è dissonanza tra gli scritti di Skipp e Spector, che produce quella che assomiglia a una cacofonia e che in realtà rappresenta la musica disarmonica della vita. Piuttosto che imporre una ordinata visione del mondo, preferiscono lasciare che la narrativa si formi seguendo il suo ritmo naturale, abbracciando variazioni, contraddizioni e ambiguità. Questa celebrazione della diversità minaccia di sovraccaricare la sensibilità, e le energie sprigionate sono così intense da elevare la realtà a ciò che si potrebbe descrivere più accuratamente come iperrealtà. Qualcosa del genere si legge anche negli scritti di Skipp e Spector; l'apparizione di un demonio durante un concerto di heavy metal:
Quel volto era lì. Emerse della grandezza di un pallone aerostatico, con la pelle altrettanto spessa, che diveniva più spessa a ogni secondo. La testa non era ricoperta di sporcizia: la faccia stessa era sporcizia, viscosa come la superficie di una bolla di sapone. Era una forma enorme, che ingigantiva; traslucente, turbinante, che mutava un milione di volte al secondo come una creazione di humus e argilla, che ribolliva e sputava e rideva di una rabbia folle e ululante mentre diventata zigote, poi feto, poi neonato, poi bambino adolescente adulto e vecchio, contorta beffa inumana del mondo di cui, lottando, cercava di impossessarsi. The Scream è stato il terzo romanzo dei Ragazzi ed è generalmente considerato una delle loro opere minori. Non sono d'accordo; questo è il libro che Skipp e Spector erano destinati a scrivere. Il tema drammatico è altamente intelligente, le preoccupazioni tematiche sono stratificate ed encomiabili, e la qualità tecnica è anni luce avanti a Maledizione fatale (infatti, da questo punto di vista Skipp e Spector hanno cementato un caratteristico stile multisensoriale da molti invidiato). Focalizzando sul conflitto primario buono-contro-cattivo simbolizzato dai gruppi rock contrapposti (la Jake Hamer Band è composta da personaggi mezzi suonati ma dimostrabilmente umani e Buoni; gli Scream sono completamente suonati, a malapena umani, e molto Cattivi), The Scream è finora il lavoro più ambizioso di Skipp e Spector. Il folto cast di personaggi combatte tra droga, predicatori televisivi, responsabilità dei genitori, aborto, e il Primo Emendamento... il tutto per immergere il lettore in una rappresentazione sensuale, frenetica, veramente accurata del rock'n'roll di base e dell'esperienza di un concerto in un'arena. (L'errore primario di The Scream è strutturale; due buoni terzi del libro sono un crescendo verso uno scoppio di violenza attentamente orchestrato che avrà luogo al concerto di Rock Aid; dopo di che il libro scende di tono e ricomincia un altro crescendo verso un secondo catastrofico evento musicale. Uno sarebbe stato sufficiente.) La fatica successiva di Skipp e Spector era stata intitolata originariamente Nightmare New York ma alla fine venne pubblicata (all'inizio del 1989) come Deadlines. Era la loro prima raccolta di racconti brevi. Quello
stesso anno vide la luce anche il Book of the Dead, una delle migliori antologie originali dell'orrore del 1989. Lavorando questa volta come curatori di materiale scritto da altri, i Ragazzi ripresero il concetto dell'"universo condiviso" così familiare nelle antologie di fantasy e lo contorsero radicalmente; Book of the Dead è basato sui film dei Morti viventi di George Romero, e permette a un certo numero di autori (da Stephen King a Joe R. Lansdale) di scrivere, reinventare o altrimenti offrire un omaggio ai miti zombi presentati per primi nella trilogia di Romero. Crudo, come nelle intenzioni, ma sorprendentemente ben equilibrato e di buona qualità letteraria, Book of the Dead apre ai Ragazzi nuove, gratificanti prospettive; si capisce già in che direzione andrà il loro successivo lavoro editoriale. Book of the Dead contiene anche la migliore raccolta mai scritta degli obiettivi e delle tecniche di Skipp e Spector; non ci sorprende che sia stata creata dai Ragazzi stessi. Sottotitolata "Spingersi oltre il limite o la narrativa mangiacarne; nuove speranze per il futuro", questa introduzione generale al Book of the Dead tratta le influenze esercitate su Skipp e Spector e rivela il loro pensiero su cinema, televisione e violenza. "Spingersi oltre il limite" contiene anche spiegazioni ben motivate sull'importanza artistica della violenza esplicita. Ho già scritto del primo livello dello splatterpunk (puro effetto) e del livello due (problemi del mondo reale); permettetemi ora di presentarvi il livello tre (sensibilizzazione): ...il terzo livello: il livello della fusione e dell'integrazione. A questo punto, non si può rimanere distaccati; lo sconosciuto è diventato tangibile e persino troppo reale, non si può più minimizzarlo da una parte o negarlo dall'altra. Si vede il buco bagnato e le impronte bruciacchiate, si; ma oltre a questo — in una congiunzione essenziale, viscerale — riesci a capire come ci si sente esserne parte. The Bridge è il prossimo romanzo dei Ragazzi. Tratta di ecologia. E specificatamente, sono sicuro che tratterà del perenne cruccio dei ragazzi splatterpunk di spingersi oltre il limite. 9 NON SONO GLI STESSI
Il mito che tutti i racconti splatterpunk abbraccino le stesse tecniche, subtesti e preoccupazioni è duro a morire. La fiction di John Skipp e Craig Spector, Clive Barker, David J. Schow, Joe R. Lansdale, Ray Garton e così via, è ancora spesso e indiscriminatamente unita in un unico fascio; viene posta enfasi non necessaria sul loro cinetismo comune e sulla grandezza delle descrizioni (che sarebbe un punto valido, se non fosse l'unico punto su cui si fermano i critici). Eppure anche dalla lettura più superficiale dei racconti splatterpunk si intuisce la diversità tra stile e l'intento dei loro vari lavori. Forse il modo migliore per rendersi conto chiaramente dell'approccio complesso e chiaramente individualistico degli scrittori che operano in questo campo, bisogna confrontare il lavoro degli scrittori splat di maggior successo, i tre che ho appena citato: Barker, Skipp e Spector. Tutti e tre possono sottoscrivere una clinica (alcuni potrebbero dire maniacale) passione per i dettagli, e tutti e tre riescono a evocare lo stesso genere di eccitazioni che provate quando, sulle montagne russe, state per precipitare in picchiata sulle rotaie. Qui, finiscono le somiglianze. Prendete per primi i loro punti di vista. Come scrive Lawrence Person nel suo articolo su Nova Express: "Gli splatterpunk: le giovani pesti dell'horror" (una delle recensioni migliori al riguardo): "Nonostante la prosa di Barker sia affilata come un coltello, è spesso altrettanto fredda" (pag. 19). Fredda? Be', il "calore" non è certo una qualità che si associa a Clive Barker (eppure, la sua fiction migliore è rinfrescantemente libera da sentimento artificiale). Forse una ricerca critica più gratificante potrebbe essere indirizzata verso le visioni fondamentali di Barker, perché, a dispetto della sua immaginazione contorta, costumi da commedia nera, e una sessualità morbosametne feticistica, Clive Barker è essenzialmente nichilista. Come dice Lacey (un adolescente la cui anima viene trasferita in quella di un maiale) in "Pig Blood Blues": "Questa è la condizione della bestia — mangiare ed essere mangiato" (in I libri di sangue). In I libri di sangue (e, per estensione, nella maggior parte delle opere di Barker) i personaggi sono fondamentalmente mossi dall'appetito: potere (Whitehead in Gioco dannato), sesso (Jerome, in The Age of Desire), avidità (Shadwell in Il mondo nel tappeto). Inevitabilmente, la debolezza consuma. Nemmeno l'innocenza è una difesa; testimoni ne siano i bambini di-
vorati di Rawhead Rex. Questa nozione della vita come una semplice merendina nella catena alimentare dell'universo, di personalità inevitabilmente digerite dal nulla, riflette chiaramente il fascino che il pessimismo esercita su Barker. Nel suo universo quasi calvinista, il Male non solo trionfa, ma deve trionfare. Ora contrapponete il nichilismo di Barker con l'universo tradizionalmente morale di Skipp e Spector. Da Maledizione fatale fino a The Scream, l'etica di Skipp e Spector rimane coerentemente ebraico-cristiana — il bene vince sul male, e l'amore vince su tutti. La preferenza di Skipp e Spector per i miti delle religioni classiche si pone in marcato contrasto con l'entusiastica accettazione di Barker per il cuore dell'oscurità. Dove il climax di Barker, The Hellbound Heart (e il suo adattamento cinematografico Hellraiser) vede il personaggio di Frank fatto a pezzi dai cenobiti, il disparato gruppo di protagonisti di Maledizione fatale di Skipp e Spector (un sopravvissuto dei campi di concentramento, un giovane fattorino, ragazzo e ragazza di debole personalità, e così via) vincono il vampiro Rudy Pasko attraverso la forza della loro comune amicizia. Dove Barker, in Gioco dannato, vede il pericoloso multimilionario Joseph Whithead ripetere costantemente che "niente è essenziale", David, il predestinato, di "Gentlemen" di Skipp e Spector può ancora dichiarare appassionatamente: Una parte del mio cuore credeva sinceramente che lei un giorno si sarebbe svegliata rendendosi conto che nessuno avrebbe mai potuto amarla come me. Nessun altro avrebbe potuto essere tanto tenero, tanto compassionevole, tanto comprensivo. Nessun altro avrebbe sopportato con lei le sue tragedie e la sua follia, dedicandosi così generosamente e così completamente ai suoi bisogni (in Dead Lines, 1989). Qualsiasi cosa voi pensiate di questo passaggio, non è decisamente opera di un nichilista. Poi c'è la creazione dei personaggi. L'atteggiamento di Barker nei confronti delle sue creazioni "umane" è che esse sono fondamentalmente meno interessanti della creatura sinistra con cui inevitabilmente dovranno interagire. Normalmente è un mostro (dentro e fuori) a fungere da vero protagonista di Barker. Come ha affer-
mato Barker durante un'intervista con Tim Caldwell in Film Threat, "Mi piace l'idea di dare ai mostri lo status di eroi." Questa tematica trova la sua migliore dimostrazione nel film, diretto da Barker stesso, Cabal (1990, basato sul romanzo omonimo del 1988). Qui i soliti simboli di stabilità sociale (psichiatra, prete, poliziotto) vengono ritratti come disperatamente e follemente corrotti. Solo i grotteschi e affascinanti abitanti dell'ossario di Midiam vengono forniti di attraenti tratti umani ma in quel posto, per diventare cittadino, bisogna prima morire. Per stimolante che possa essere questa inversione dell'eroe classico (e Barker conosce i suoi classici: testimone ne sia il suo ricorrente affetto per le tragedie di vendetta giacobina), il pericolo sta nel dare vita ai mostri a scapito della gente. Sfortunatamente, di tanto in tanto Barker commette il peccato della doppia dimensione. È evidente più che in altre opere nei suoi film Hellraiser e Cabal: c'è qualcuno che ricorda i protagonisti umani di queste opere? Nessuno: la maggior parte di noi ricordano solo Pinhead e i Notturni. Nel complesso, quindi, i personaggi di Barker sono più passivi che attivi, obiettivi semoventi che arrancano verso un pozzo. E dato che la sua narrativa sembra spesso più evocativa che d'azione, più immaginistica che empatica, è giusto dire che l'arte di Barker deriva principalmente dal suo fertile intelletto e dalla sua invidiabile immaginazione. (Come ho già detto — e ci siamo di nuovo! — nessuno degli altri splattepunk ha il sorprendente dono di Barker per la creazione di stranezze veramente mozzafiato. A proposito vi ho detto che è anche lo scrittore più ovviamente urbano e sofisticato del gruppo?) Skipp e Spector, comunque, scrivono col cuore. Fortunatamente, i loro intelletti sono acuti, e la capacità dei Ragazzi di ritrarre personaggi credibili contro paesaggi urbani riconoscibili è uguagliata solo da Stephen King. Infatti, King sembra essere una delle loro influenze di base. Come ha dichiarato Skipp a Samhain (in un contesto alquanto frainteso: con l'aiuto di Skipp, ho corretto gli errori di trascrizione che si trovavano originariamente in questo testo): È stato l'Uomo del Maine a ispirarmi a cominciare a pensare seriamente di diventare uno scrittore. Un giorno, mentre scrivevo un romanzo politico, il mio buon amico Leslie Sternbergh entrò e cercò di convincermi a leggere L'ombra dello scorpione. Io dicevo "Nah,
questo tizio è un autore di best-seller, non può essere buono... solo un altro stronzo." Io ero così snob. Ma Leslie insisteva, dicendo: "No. Lo devi leggere. Tu gli assomigli un sacco". Alla fine ho ceduto e naturalmente lei aveva ragione, mi è piaciuto moltissimo, e ho scoperto che io e King potevamo fare a pezzi gli stessi tabù... e ho pensato: "Io posso farlo!" Ora sono veramente orgoglioso di King, e lo adoro. (Quindi i Ragazzi apparentemente condividono la predilezione di King per gli strumenti classici dell'horror; vampiri in Maledizione fatale, realizzazione dei desideri in The Cleanup, demoni in The Scream.). Come per King, molto del successo di Skipp e Spector proviene dai personaggi di fiction che creano nel loro lavoro. Dalla vulnerabile vittima di un abuso fisico, LeeAnn, di "Gentlemen", al confuso musicista rock Pete, in The Scream, Skipp e Spector continuano a forgiare tra i personaggi più intessuti e riconoscibilmente umani dello splatterpunk. Nonostante il persistente fascino dell'idea che il male sia uno spirito trascendente e immortale, (una tematica che comincia con Maledizione fatale e continua in linea retta fino all'aborto della prima bozza della sceneggiatura per Nightmare 5) Skipp e Spector si identificano chiaramente con i loro personaggi umani. E vogliono che anche i lettori vi si identifichino. Eppure, la linea di demarcazione più evidente tra Barker e Skipp e Spector è politica. Le fondamenta dei piani di Barker sembra essere la sessualità radicale, con il ricorrere continuamente a pratiche omosessuali e sadomaso. Tali icone di sadomasochismo o omosessuali come la fellatio, la pioggia dorata, defecazioni pubbliche e bondage appaiono regolarmente in lavori come Gioco dannato, "Sex, Death and Starshine", "Rawhead Rex" e The Hellbound Heart. La cosiddetta attività eterosessuale normale certamente non è assente dal lavoro di Barker (dopotutto, è la passione eterosessuale a fungere da combustibile per Hellraiser) ma certamente non è il suo pensiero dominante; quando si fa del sesso uomo-donna in un racconto di Clive Barker, molto spesso questo prende la forma di qualcuno che si fa fare un lavoretto da un cadavere (ancora "Sex, Death and Starshine"). È affascinante il fatto che queste tematiche "devianti" abbiano influenzato anche il senso del design grafico di Barker. Per spiegarmi, mi riferisco
al fatto che Barker è un artista oltre che uno scrittore, con un particolare talento nell'abbozzare, dipingere e disegnare (Barker stesso ha illustrato la copertina dei Libri di sangue pubblicati in Gran Bretagna). E nell'intervista a Film Threat già menzionata, Barker disse a Caldwell: "Le mie recensioni preferite di Hellraiser sono state quelle apparse su riviste alternative. Ci sono state delle magnifiche riviste di sadomaso che hanno scritto recensioni stupende... infatti... le pubblicazioni specializzate... (cioè, quelle di sadomaso) hanno influito moltissimo nella progettazione dei Cenobiti." Le tematiche di Skipp e Spector a loro volta includono l'approvazione della libera sessualità. Ma le loro politiche sono complesse, con una pianificazione totale che rispecchia il liberalismo dei tardi anni Sessanta. I Ragazzi abbracciano femminismo, droghe, armonia tra le razze e tolleranza sociale verso l'inconsueto, l'eccentrico, il particolare. Fondamentalmente, quindi, e in contrasto con Barker, il punto focale di Skipp e Spector sembra essere quello di un umanesimo funzionale. È interessante il fatto che spesso questo umanesimo venga enunciato con punti di vista multipli. Nelle loro opere Skipp e Spector presentano un numero così vasto di punti di vista disparati che l'effetto finale è quello di opzioni multiple. È come se i Ragazzi dicessero: "Guarda, potrai aver capito come siamo noi ma ricordati: là fuori ci sono un sacco di altre scelte". The Scream è una chiara dimostrazione di questa tattica. Lo spunto del romanzo potrà anche essere la storia di un complesso rock in grado di invocare i demoni e far apparire tra il pubblico zombi senza occhi, ma la sua attenzione si accentra sul vasto cast di personaggi umani (di tutto, da profughi disillusi del Vietnam a un fanatico drogato che, nella tattica tipica di Skipp e Spector di "adesso ti ribaltiamo tutti i tuoi preconcetti", viene salvato da un massacro attraverso l'Intervento Divino di niente di meno che Gesù S.S. Cristo). Ogni personaggio di The Scream riceve chiaramente quanto gli spetta, sia giusto che sbagliato, sia buono che cattivo. Questa molteplicità di credenze non solo ricorda il mondo reale (naturalmente), ma permette al lettore di compiere la propria scelta di carattere morale. O, come scrive R. S. Hadji in "Extreme Measures": A Skipp e Spector va il merito di non dare le risposte "diritte". O "contrarie". Loro praticano quel che predicano e lasciano tutte le opzioni aperte. Anche gli stronzi prendono la parola... e perché no? Skipp e Spector sono gli stessi uomini che hanno dedicato Maledizione fatale al
"Creatore, Che ci dà la Luce con cui vediamo più chiaramente il Buio". Ed è esattamente ciò che intendevano. Il loro Dio è un dio d'ambiguità e di contraddizione, e i suoi contratti sono personali. Nel suo articolo "Splatterpunk", Lawrence Person conclude con questi raffronti: Laddove l'opera di Barker è tenebrosa, quella di Skipp e Spector è farsesca; dove i personaggi di Barker sono tremolanti, quelli di Skipp e Spector sono vibranti. E laddove i Ragazzi inseriscono terrori riconoscibili nel tessuto della vita quotidiana (vampiri, demoni ecc), Barker crea nuovi, coraggiosi orrori e panoramiche che sorpassano di gran lunga le più orribili immaginazioni della gente (Nova Express). Si potrebbe anche dire che i Ragazzi sono profondamente immersi nella vita, mentre Barker è profondamente immerso nella morte. Non che uno dei due diversi atteggiamenti sia migliore dell'altro, particolarmente se si pensa all'infinita velocità di cambiamento e alla varietà dell'arte contemporanea. Ma ci sono forme radicalmente differenti di splatterpunk. Proprio come ci sono tipi radicalmente differenti di scrittori splatterpunk. 10 DAVID J. SCHOW La fascetta pubblicitaria sulla copertina di Lost Angels di David J. Schow (una raccolta di racconti brevi del 1990) strilla: "Cinque storie tenebrose del padre dello splatterpunk". Certamente non si può discutere questa rivendicazione di paternità dello splatterpunk dato che, come abbiamo visto, ha inventato lui la parola. E dato che il termine splatterpunk è breve, cattura, ed è decisamente commerciabile, ovviamente Schow sa riconoscere un buon strumento promozionale quando ne vede uno. Certamente è un diplomatico dei media. È Schow ad apparire continua-
mente nelle fotografie che ritraggono gli scrittori splatter. Schow ha infiammato gli articoli di Fangoria sulla sua produzione del film Leatherface, e Schow ha spiegato la filosofia splatterpunk a Midnight Graffiti. E stato Schow a essere intervistato nel "Numero speciale dedicato a David J. Schow" di Weird Tales, Schow a essere nominato "il padre dello splatterpunk". Eppure il fiuto per l'autopromozione può comportare dei pericoli. Nonostante una mole di lavoro considerevole e ricca di spunti differenti, David J. Schow probabilmente è più famoso — come lo ha descritto Lawrence Person nel suo articolo su Nova Express — come il "polemico capo" dello splatterpunk. Questa è una vergogna, perché è in realtà uno dei più dotati autori di horror esplicito. L'astuta familiarità di Schow con i media origina apparentemente dalla sudata esperienza guadagnata nei primi tempi della sua carriera. In questa fase ha scritto critiche ciriematografiche per pubblicazioni come Cinefantastique, ha riscritto anonimamente romanzi tratti da film di fantascienza, ha romanzato puntate di telefilm come Miami Vice. Nel campo dello splatterpunk, Schow ci ha regalato un romanzo (The Kill Riff, nel 1988), due raccolte di racconti brevi e novelle (Seeing Red e Lost Angels, nel 1990), un'antologia come curatore (Silver Scream, nel 1988) e una sceneggiatura (Leatherface: Non aprite quella porta III, nel 1989). Schow ha anche pubblicato diversi racconti brevi per riviste come Midnight Graffiti o la defunta Twilight Zone, come pure antologie come Book of the Dead. È stato anche coautore, insieme a Jeffrey Frentzen, di un libro sulla storia della televisione intitolato The Outer Limits Companion (forse che questa serie televisiva di successo sia stata una precoce influenza splatterpunk?) Stilisticamente, la narrativa di Schow è scritta con una prosa densa e stratificata che passa dall'esplicita crudezza al sentimentalismo melenso senza soffermarsi stabilmente su uno stile definito; nel complesso, il suo lavoro è sorprendentemente mutevole. Racconto per racconto, non si riesce a prevedere come affronterà il prossimo argomento. C'è una diversità tematica, una trama rigorosa, un'attenzione precisa al linguaggio. Una dolcezza insospettata. Risentimento, ambizione, oscurità, terrore. Tutte queste qualità si fondono nell'opera di Schow: per qualcuno che è stato soprannominato il padre dello splatterpunk. Schow sembra anche intento a confondere le aspettative della sua platea scrivendo fiction di qualità che si rifiuta di limitarsi all'esercizio superficiale dell'esplicita "carnografica". (Permettetemi qui una sorta di regressione. La parola carnogra-
fia è apparsa per la prima volta alla fine degli anni Ottanta in vari saggi su film e letteratura splatter. Significa violenza esplicita proprio come pornografia significa sesso esplicito. È una parola che adoro, e, nel migliore dei mondi possibili, la userebbe persino Dan Quayle. Probabilmente in maniera scorretta.) The Kill Riff, il primo — e sinora unico — romanzo di Schow, è un buon esempio di questa complessità cangiante. Superficialmente assomiglia a The Scream senza l'elemento soprannaturale. The Kill Riff sembra anche essere (non correttamente, si direbbe) un noioso discorso anti-rock scritto da Tipper Gore; quando una ragazza viene calpestata a morte durante un concerto heavy metal degli Whip Hand, suo padre, Lucas Ellington, comincia ad ammazzare sistematicamente gli elementi del gruppo musicale, uno dopo l'altro. Qui il soggetto sembra scontato. Eppure Schow cambia tono e atteggiamento così coerentemente che, come sottolinea Richard Gehr nel suo articolo "More Gore": "per un'opera così imbevuta di atteggiamenti rockettari, il nuovo horror è spesso curiosamente ambivalente, o ironico, a proposito della moralità della musica... (in The Kill Riff) Schow esce dai binari per ritrarre un certo incanto, una certa decadenza di sottofondo, poi lascia che questo padre incestuoso distrugga tutto" (The Village Voice, 6 febbraio 1990, pag. 57). Eppure, nonostante il soggetto (o forse a causa di questo trattamento meno che stereotipato) The Kill Riff non è stato un successo strepitoso. L'accoglienza relativamente tiepida del romanzo non ha comunque impedito a Schow di guardare avanti, o di innescare marce emozionali sempre nuove all'interno della struttura del suo lavoro. Paragonate questo brutto pezzo di "Jerry's Kids Meet Wormboy":.. Da quell'essere si era snodato un lungo cordone di intestini grigio-verdi, che si spalancò con avidità molle, poi fece un assurdo balzo in alto per mordere se stesso. I denti masticarono le stesse viscere dell'essere e una gelida pasta nera evacuò con una schifosa scoreggia. Splaat! (In Book of the Dead) con la sottile ironia di un ex predicatore televisivo che nomina suoi scagnozzi tra la sua congregazione defunta di zombi affamati di carne umana (sempre da "Jerry's Kids"):
Prima che divenisse sinonimo di oscenità, all'Onorevole Reverendo Jerry piaceva la commedia. E aveva elargito ai suoi diaconi senza nome gli appellativi di comici famosi. A mano a mano che le sue pecorelle si consumavano o venivano ritirate, la lista di Jerry diminuiva. In quel momento i diaconi in carica erano Moe, Curly, W.C. e Fatty. Ma proprio quando pensavate che Schow si concentri sulla satira e sullo spirito macabro, lui fa quello che sembrava impossibile, cambia completamente regime con uno stile ineccepibile. L'antitesi di "Jerry's Kids" si trova in "Monster Movies", una canzone affatto splatter (ma estremamente coinvolgente) d'amore per le creature della notte, una canzone di nostalgia dell'infanzia, e di romanticismo contemporaneo; per non parlare delle apparizioni personali, quando vedete la vostra prima lettera stampata in una rivista intitolata Famous Monsters of Finland: Sullo scaffale delle riviste della Hilltop Liquors, Jason scoprì che la sua vecchia lettera a Famous Monsters si era rivelata degna di essere stampata. Le gambe gli tremarono, e se le sentì cedere; era letteralmente la prima volta nella sua breve vita che qualcosa di così enorme prendeva forma intorno a lui nella vasta storia della stampa. Fu obbligato a portare la bicicletta a casa a piedi, fermandosi a ogni incrocio per voltare la pagina indietro, dove il suo nome appariva a grandi caratteri in grassetto, e assaporare le sue stesse parole, scritte con pazienza certosina mesi prima, ancora e ancora, fino a che ciò che aveva da dire sulla sua carta a quadretti del college non era stato purgato del benché minimo errore. (In Lost Angels). Questo è splatterpunk come lo conosciamo noi, imbevuto d'amore e di lirismo, che rifiuta di accettare che questo particolare tipo di letteratura sia puramente d'effetto, da analfabeti. Passando a una breve rassegna dell'opera di Schow troviamo due motivi ricorrenti. Uno è un costante fascino per i paesaggi di dubbia moralità di
Hollywood (inclusi i suoi personaggi perdenti di infima condizione), che risulta in racconti brevi ben descritti come Pamela's Get, The Falling Man e Graffiti (a proposito, questo non è il titolo di un racconto; ho deciso di chiamarlo Graffiti perché questa novella è preceduta solo da segni grafici che assomigliano a dei graffiti verniciati a spruzzo). I già menzionati Monster Movies, Red Light e Brass indicano una seconda tematica, più sentimentale: una fiducia quasi ossessiva nei poteri di redenzione dell'amore romantico eterosessuale. Eppure, ovviamente, Schow sembra essere identificato più con i suoi occasionali viaggi nell'esplicito; forse dipende dal suo soprannome di Padre dello splatterpunk. (Sfortunatamente, è anche chiaro che troppo è stato detto sull'attaccamento alla franchezza dello splatter, mentre il tratto comune degli splatterpunk è piuttosto l'entusiasmo spigliato: Schow, Barker e gli altri amano ciò che fanno). Comunque, le tonalità stilistiche ed emozionali fluttuanti della fiction di Schow dovrebbero sottolineare il fatto che la sua candidezza è semplicemente un altro strumento — anche se molto affilato — in una scatola di trucchetti estremamente capiente. Quindi, direttamente dopo le descrizioni esplicite di zombi che masticano le loro interiora c'è un magico senso dell'astuzia. Perfettamente accoppiata con le impietose descrizioni di massacri a catena c'è una tenerezza appassionata (che fa capolino persino nelle sue opere più aggressive). E tra i traguardi più importanti c'è il World Fantasy Award, ricevuto nel 1987 per il racconto breve Red Light, una sorta di variante moderna su The Girl With the Hungry Eyes di Fritz Leiber, in cui una giovane e attraente modella si accorge che lo stile di vita che le nutre l'anima gliela sta anche succhiando via. Schow ha curato anche Silver Scream (1988), tuttora la migliore antologia di racconti tratti da film horror mai realizzata. Punto. Al momento David J. Schow sta lavorando a un secondo romanzo, The Shaft. Dato che è uno degli splatterpunk più sorprendentemente romantici e versatili, il suo talento poliedrico e stratificato lo catapulterà probabilmente molto oltre le solite file degli scrittori horror di tutti i giorni. Loro sono i migliori; Schow scrive come un angelo. 11 I SOLITI SOSPETTI Il numero effettivo di scrittori che abbracciano senza timore l'etichetta di splatterpunk è molto esiguo. Oggigiorno quello che passa normalmente per
splatterpunk è generato da un gruppo più folto di scrittori i cui occasionali romanzi o racconti splatterpunk sono un sottoprodotto deviante della loro produzione usuale. Queste opere riflettono chiaramente l'atteggiamento splatterpunk, ma i loro autori resistono con veemenza all'etichetta di splatter. Per ragioni di chiarezza, i veri splatterpunk si sono autodenominati "il Branco Splat" (un riferimento satirico al "Branco Giovani" di Hollywood, composto da attori giovani, senza talento, strapagati e straconosciuti come Charlie Sheen e Rob Lowe). Al centro del Branco Splat in realtà ci sono solo Schow, Skipp e Spector (Clive Barker non si è mai allineato ufficialmente con questo gruppo). Come vi ho dimostrato, questi tre scrittori applicano esplicitamente le tecniche splatterpunk a film, letteratura e musica. Comunque, un certo numero di altri autori è scivolato dentro e fuori dalla sfera d'influenza dello splatterpunk, alcuni intenzionalmente, altri scalciando e urlando. Tra gli scrittori che vengono occasionalmente etichettati come splatterpunk — e che negano a tutta voce — ci sono Joe R. Lansdale, Ray Garton e Richard Christian Matheson. In ogni caso, per edificarvi e rendervi le cose più chiare, quello che segue è un rapido compendio di scrittori splatterpunk "di confine" e "non voglio essere splat". Più qualche sorpresa. MARK ARNOLD Pilgrims to the Cathedral, il contributo apportato da Mark Arnold all'antologia di racconti a tema cinematografici Silver Scream di Schow, è un racconto lungo, a volte confuso, ma nel complesso potente, che echeggia parecchio Al drive-in di Lansdale. Nel racconto di Arnold, la Zona è un cinema drive-in remoto e fatiscente, appena restaurato, che sta cercando di guadagnarsi pian piano una sua immagine. Inizialmente gli schermi cinematografici della Zona sono testimoni dell'emergere di tanta creatività, e creano magicamente capolavori sconosciuti come la collaborazione di sedici ore tra Alejandro Jodorowsky e David Lynch in Dune; i fortunati che frequentano la Zona riescono anche a vedere la versione di Roman Polanski di Shining e un adattamento di Cleopatra di Ed Wood Jr. Ma quando l'atteggiamento nazionale americano scivola all'indietro e comincia a consumare se stesso (nell'epoca economica di Reagan, per esempio), la Zona si fa sordida, e finisce in una spettacolare orgia di splat. Questa favola cine-politica contiene elementi sufficienti per diventare
immediatamente un classico. Altri lavori di Arnold includono un racconto per Book of the Dead 2 (sì, c'è un seguito), e, con Laura Simpson, una commedia-racconto splatterpunk intitolata Zooey and Koala Blue. I personaggi principali di Zooey sono (tra gli altri) David J. Schow, Clive Barker, John Skipp e Craig Spector, tutti invischiati in una caccia selvaggia nella Los Angeles notturna (accidentalmente, Zooey era stato originariamente proposto per questa antologia splatterpunk). Mark Arnold ha lasciato il segno come curatore di volumi come Elsewhere (voll. 1-3; il primo volume ha vinto un World Fantasy Award nel 1982) e Borderland. Allora si faceva chiamare Mark Alan Arnold. Suoi lavori non fiction sono apparsi nel New York Daily News, in Omni e nella defunta Twilight Zone Magazine. Arnold, un realista sociale con occhio attento alla cultura popolare e ai semi-perdenti alla deriva ai confini del Sogno Americano, continuerà sicuramente a far sentire la sua voce dal futuro. J G. BALLARD Scrittore britannico che si è associato alla New Wave della fantascienza nei tardi anni Sessanta, J(ames) G(raham) Ballard è quindi allineato allo splattepunk solo marginalmente. Ma i suoi scritti hanno in seguito sconfinato in una serie di generi diversi (i più correnti horror, biografie, avanguardia); in seguito, la sua ossessione per la follia e la realtà apparente (e il modo in cui la tecnologia e i media hanno contorto queste percezioni) lo indica come uno spirito affiliato allo splatterpunk. Se non un cugino di primo grado. Il romanzo breve di Ballard The Assassination of John F. Kennedy Considered as a Downhill Motor Race, del 1967, ruppe la disperazione nazionale in uno sbarramento di fantasia apparentemente casuale. Il suo romanzo Crash! del 1973 rimane un cult; è la storia di una vittima di un incidente d'auto in via di guarigione, che sviluppa un bizzarro feticcio sessuale per la geometria contorta degli incidenti di macchina (ecco un libro che anela di diventare un film di David Cronenberg). Il lavoro più splatterpunkiano di Ballard è il romanzo Condominium (Hìgh Rise) del 1975. Questa favola sociale di classi e privilegi illustra, passo dopo passo, la discesa di un gruppo nell'estrema barbarie. La cosa snervante è che questo regresso non viene mai spiegato; la cosa scioccante è che accade a normalissimi inquilini di un monolocale in un lussuoso
complesso residenziale (parlando di Cronenberg, il suo film They Came From Within del 1975, distribuito lo stesso anno come High Rise, presenta una trama molto simile). Le memorie romanzate di Ballard sono poi diventate il film L'impero del sole di Steven Spielberg. Invece, leggetevi Condominium. CHAS. BALUN Per tutto l'articolo, ho ripetutamente enfatizzato l'impatto fondamentale della cinematografia splatter sullo splatterpunk. Be', sin dai primi anni Ottanta, Chas. Balun è prolificamente ed entusiasticamente divenuto uno dei due critici cinematografici maggiormente associati al genere (l'altro è John McCarty). Uomo rude, e schivo, Balun ha inizialmente attirato la mia attenzione con un libretto pubblicato a sue spese (illustrato pure da lui; Chas. è un artista completo), intitolato The Connoisseur's Handbook of Horror. Poi è arrivato The Gore Score, uno dei primi compendi di film splatter a dedicarsi completamente al genere. E ciò che distingueva questo libriccino era un sistema di valutazione basato non solo sui meriti complessivi di un film ma sul suo grado di "umidità" (Gates of Hell di Fulci, per esempio, è quotato con un "dieci".) Poi Balun ha cominciato ad apparire in piccole fanzine e, in seguito, in pubblicazioni di maggiore diffusione come Fangoria. Altre fatiche di Balun includono la sua fanzine di film splatter Deep Red e il libro a esso ispirato, The Deep Red Horror Handbook. È autore di Horror Holocaust e del recente romanzo splatter Ninth and Hell Street (Westminster, CA: Chunkblow Press, 1989). Chas. Balun è ampiamente documentato in materia, e la sua critica mostra un interessante miscuglio del sentito entusiasmo di un fanatico stemperato dalla consapevolezza del critico sul basso livello che questi film possono raggiungere. Attualmente, come molti prima di lui, Balun sta cercando di saltare alla redazione di sceneggiature. Comunque la critica di Chas. mi trova sempre ben disposto, particolarmente per aver reso popolare il termine "fiotto di vomito" e la frase finale di un suo saggio: "Succhia le scoregge dai gatti morti". ROBERT BLOCH
Influenza basilare dello splatterpunk. Robert Bloch sta allo splatterpunk e agli anni Cinquanta come Harlan Ellison sta agli anni Sessanta e James Herbert ai Settanta. La maggior parte dello splatterpunk contemporaneo è nato dagli innumerevoli romanzi, racconti e sceneggiature di Bloch, o sviluppa comunque per l'opera dello scrittore un vero affetto; sono sicuro che sono pochi a non essere stati influenzati dal suo lavoro. Originariamente discepolo di H. P. Lovecraft, negli anni Trenta, Bloch cominciò a scrivere horror della vecchia scuola fino a Psycho — probabilmente la pietra miliare dell'intera scuola splatterpunk — cementando la sua reputazione di maestro dell'horror psicologico. Ma sin dagli inizi della sua carriera, Bloch ha sempre amato infrangere tabù; il suo primo racconto breve, The Feast in the Abbey creò scalpore per il modo in cui trattava del cannibalismo (inutile dirlo, il pubblico non era pronto per questo nel 1934!). In genere la fiction di Bloch finisce con una punzecchiatura macabra, una freddura, un finale a sorpresa; infatti molti dei suoi racconti sembrano storielle. "Sinceramente vostro, Jack lo Squartatore" è la sua preferita, come "Un giocattolo per Juliette"; entrambi si accentrano sulla figura di Jack lo Squartatore, un tema ricorrente in Bloch. È interessante notare che nonostante tutti, ma proprio tutti, abbiano sottolineato profonda influenza esercitata da Psycho sull'attuale cinematografia, pochissimi critici sembrano aver notato l'influenza ugualmente profonda che hanno avuto sui film splatter le altre versioni cinematografiche delle opere di Bloch. In realtà tale influenza è bivalente. Per primo è arrivato il bravo regista William Castle, che ha ostentatamente imitato e amplificato Psycho in diverse opere scioccanti degli anni Sessanta. Indovinate chi ha scritto due sceneggiature per lui? Robert Bloch, il cui The Night Walker aveva sequenze di sogni raccapriccianti e trucco di ustioni grottesco. Ma in Strait-jacket, interpretato da Joan Crawford, il gusto d'esplorazione di Castle e l'allegro raccapriccio di Bloch si uniscono perfettamente. E coloro che sono stati abbastanza fortunati da aver visto Strait-jacket nella prima versione del 1963 ricorderanno che il film suscitò un piccolo scalpore, principalmente dovuto alla scena di un assassinio con un'accetta in cui la testa di George Kennedy veniva tagliata su un congelatore. In secondo luogo, alla fine degli anni Sessanta e all'inizio dei Settanta, Bloch scrisse le sceneggiature di un certo numero di film antologici per la
Amicus, una compagnia inglese. Titoli come The House that Dripped Blood, Asylum e Torture Garden ritraevano immancabilmente soffocamenti, strangolamenti, roghi umani, defenestrazioni, decapitazioni, e così via (e ancora). Il fatto che questi fossero tutti essenzialmente film di serie B a basso costo teneva alla larga la censura; simultaneamente, film dopo film, sceneggiatura dopo sceneggiatura, Robert Bloch stava aprendo lentamente a spallate la porta della permissività cinematografica. Quindi, per la sua fiction di influenza, così come per il suo lavoro di vivida cinematografia, Robert Bloch viene qui nominato della carica di Splatterpunk Onorario. Ostinatamente, Bloch odia l'uso che si fa oggigiorno della violenza esplicita in cinematografia. Be', senti Bob... chi pensi gli abbia suggerito l'idea? EDWARD BRYANT Il recente ingresso dell'horror in una produzione rivolta principalmente alla fantascienza come quella di Edward Bryant segna una gradita nuova presenza nel settore. Edward ha iniziato come protetto di Harlan Ellison. Innanzi tutto è stato coautore con Ellison del libro Phoenix Whitout Ashes, romanzando la puntata pilota della serie "The Starlost" di Ellison, una serie canadese da lungo dimenticata (e orribile). In seguito Bryant ha contribuito all'antologia curata da Ellison Dangerous Visions. Più tardi si è staccato dall'ala protettrice di Ellison, scrivendo altri nove libri e centinaia di racconti e articoli, in genere con sapore fantascientifico. Recentemente Bryant ha conquistato una certa notorietà come sottile critico letterario per pubblicazioni come Locus. Anche se Bryant insiste ad affermare di non essere uno splatterpunk, il suo racconto "A Sad Last Love at the Diner of the Damned", che si trova nel Book of the Dead di Skipp e Spector, è uno dei migliori scritti di quell'eccellente antologia. Ambientata in un fast-food nel sud del Colorado, "Dinner of the Damned" si accentra su una bella cameriera, Martha Malinowski, e di come divenga oggetto del desiderio dei bifolchi all'interno del locale e dei morti viventi di fuori. Contorto, eccitante e cinematografico, Diner è un'opera potente. Bryant ci presenta all'inizio uno stuolo di personaggi ben delineati, poi intreccia la sua narrativa con un humor nero e attacchi laceranti all'etica del macho prima di terminare in un crescendo nero. È un finale che riesce a essere a un tempo disperato e ridicolo fino alla fine. "A Sad Last Love" diventerebbe un ottimo film; ho pensato a lungo
di includerlo in Splatterpunk. Ma questo onore alla fine è caduto su "Mentre lei era fuori", un ripudio astuto e impegnato dell'insultante stereotipo horror della donna come vittima ("Mentre lei era fuori" assomiglia di più al grave e terrificante racconto di Bryant "The Transfer", che si trova nell'antologia Cutting Edge di Etchison). Superficialmente, "Mentre lei era fuori" sconvolge in maniera intelligente il tradizionale film di suspense. Una giovane e frettolosa casalinga di ritorno da spese viene seguita da una banda di criminali che intendono violentarla e ucciderla; ma trattando perennemente con questi problemi lei stessa, ritorna a casa per confrontarsi con il suo vero problema: un marito cretino. Dietro all'assurdo scenario di Bryant c'è un senso di frustrazione e di impossibilità di scelta descritto in maniera acuta, ciò che qualsiasi donna sensibile deve provare nei confronti della società americana, violenta e ossessiva. Con "Mentre lei era fuori", "Diner of the Damned" e "The Transfer", Ed Bryant si sta costruendo una reputazione di miglior scrittore di storie di donne. Il fatto che una tale fiction femminista sia scritta da un uomo colpisce il mio senso dell'ironia e mi solletica a non finire: particolarmente perché lo splatterpunk viene costantemente accusato di essere scritto solo da giovani uomini agitati, di bassa statura intellettuale, ossessionati dal sesso. WILLIAM BURROUGHS Anche se durante tutto questo saggio ho cercato di concentrarmi su quegli autori liberamente conosciuti come "scrittori horror", è alquanto difficile ignorare l'influenza di certi autori al di fuori del regno dello splatterpunk, che però hanno decisamente lasciato il proprio segno nel settore. Scrittori come William Burroughs. A seconda dei critici che ascoltate, William Burroughs è uno stronzo egocentrico o una delle maggiori forze della letteratura americana. Io scelgo la numero due. Dal suo primo romanzo, Junk (scritto nel 1954 con il nome di William Lee) agli ultimi lavori come Queer e Mind Wars (pubblicati entrambi nel 1985), Burroughs in questo ordine: è stato una delle figure centrali del Movimento Beat dei tardi anni Cinquanta; ha influenzato innumerevoli musicisti di rock'n'roll, da Patti Smith a Lou Reed; ha invaso il mondo del cinema (Burrough ha interpretato una parte in Drugstore Cowboy del 1989, ha narrato il film di Witchcraft Through the Ages, altrimenti muto, e ha fornito a David Cronenberg il materiale per l'adattamento
del regista del controverso romanzo Il pasto nudo, del 1959). William Burroughs è forse conosciuto artisticamente soprattutto per il suo "collage" tecnico di paragrafi tagliati a casaccio. È stato anche tra i primi scrittori seri americani a incorporare avidamente gli aspetti popolari di film, televisione e rock nel suo lavoro (per non parlare del fatto che è stato un drogato per quindici anni e ha ucciso accidentalmente la moglie mentre, ubriaco, cercava di emulare Guglielmo Tell). Inoltre, Burroughs ha spazzato via energicamente tutti i tabù: i suoi libri pullulano di abusi fisici, crimine e sessualità contorta. Tra le opere più splatterpunk di Burroughs ci sono Nova Express (1964), un misto di fantascienza e horror realistico, e Cities of the Red Night (1980), un sorprendente pezzo di surrealismo in cui il mondo soffre di una piaga misteriosa; una delle sue invenzioni è il telescopio del tempo. NANCY A. COLLINS Con la pubblicazione, nel 1989, del suo primo romanzo Sunglasses after Dark, Nancy A. Collins è balzata in prima linea tra le donne scrittrici di opere splatterpunk. Sunglasses, che parla di Sonja Blue, metà vampira e metà cacciatrice di vampiri che rintraccia e distrugge coloro che l'hanno vampirizzata, mostra un talento viscerale e fantasioso; questo primo romanzo è sensuale, eccitante, perverso. La Collins condivide anche l'energia e l'immaginazione tipica della migliore fiction splatter; si tuffa direttamente nel sudicio. Come ha scritto David Kuehls in Fangoria, "Questo libro è maligno con la M maiuscola e selvaggio con una S maiuscola a caratteri di sangue!" (Maggio 1990, pag. 57). Secondo indiscrezioni la Collins strebbe scrivendo il seguito di Sunglasses, intitolato In the Blood. Ha anche pubblicato un racconto sul numero primavera 1990 "Psycho" di Midnight Graffiti (si intitola "Rant" ed è un racconto in prima persona di un folle che medita un parto cesareo con un coltello). E la Collins sarà presente nel Book of the Dead vol. 2, con "Necrophiles": questo tratta di tizi con l'ossessione della morte. Tenete d'occhio questa scrittrice. REGISTI Alcuni registi sembrano palpitare quando si spingono troppo oltre. Quel-
li le cui opere riflettono vari elementi dell'etica splatterpunk sono: David Cronenberg (Gemelli di sangue, Videodrome, La mosca); David Lynch (Velluto blu, Cuore selvaggio, Eraserhead); Tobe Hooper (Non aprite quella porta); George Romero (La notte dei morti viventi); Dario Argento (Inferno, Suspiria); Lucio Fulci (Zombie, L'aldilà, The Gates of Hell); Wes Craven (L'ultima casa a sinistra, Le colline hanno gli occhi, Nightmare); Herschell Gordon Lewis (Festa di sangue); Mario Bava (Blood and Black Lace, Black Sunday, Twitch of the Death Nerve); Ruggero Deodato (Cannibal Holocaust); John Waters (Pink Flamingos); Russ Meyer (Faster, Pussycat! Kill! Kill! Beyond the Valley of the Dolls); Sam Raimi (La casa I e II); Stuart Gordon (Re-animator, da H. P. Lovecraft); Brian De Palma (Le sue sorelle, Vestito per uccidere, Vittime di guerra); Paul Verhoeven (Robocop, Il quarto uomo, La carne e il sangue); Alfred Hitchcock (Psycho, Frenzy); Chuck Russell (The Blob, Nightmare III); Kathryn Bigelow (Il buio si avvicina, Blue Steel); Umberto Lenzi (E tu morirai nel dolore); Clive Barker (Hellraiser, Nightbreed); John Carpenter (Halloween, La Cosa, Fog); James Cameron (Terminator, Aliens); Lamberto Bava (Demoni); Ridley Scott (Alien); Frank Henenlotter (Basket Case, Brain Damage, Basket Case II); Luis Bunuel (Un Chien Andalou); Pier Paolo Pasolini (Salò); Pedro Almodovar (Matador) e Roman Polanski (Repulsion). CURATORI CHE HANNO ACCETTATO O HANNO CONTRIBUITO A PUBBLICARE SPLATTERPUNK Un certo numero di curatori professionisti hanno mostrato, direttamente o indirettamente, una certa preferenza per la fiction splatterpunk, pubblicando opere fondamentali di splatter. Così accettando il genere, hanno contribuito ad aumentare il profilo complessivo dello splat. Questi personaggi e le loro rispettive pubblicazioni includono: Jessie Horsting e Jim Van Hise di Midnight Graffiti; Alan Rodgers di Night Cry (ora defunta); Tappan King del Twilight Zone Magazine (anche questa defunta); David B. Silva di The Horror Show (come sopra); Ellen Datlow, curatore della fiction per Omni; Richard Chizmar di Cemetery Dance e Ed Gorman di Mystery Scene. HARLAN ELLISON
Prolifico scrittore di saggi, romanzi brevi e sceneggiature, Harlan Ellison è il padrino dello splatterpunk. Oltraggioso e aggressivo, Ellison raggiunse la fama nazionale negli anni Sessanta, un decennio che si confaceva perfettamente al suo rivoluzionario zelo per l'onestà e per il confronto intellettuale. Vincitori di sette Hugo Awards, tre Nebula, e un Edgar (all'ultimo conteggio, però), molti dei racconti di Ellison sono tramati con fili fantascientifici. In realtà, comunque, Ellison è un moralista e un fantasista il cui miglior lavoro è spesso cupo, oscuro, e adulto senza compromessi. Stilisticamente Ellison impiega di frequente le tecniche cinematografiche e (particolarmente nel suo periodo del Sessanta) fonde sesso e violenza estrema con rabbia bianca e calda. Degne di particolare nota splatterpunk sono opere come "Non ho bocca e devo urlare" (1967), su un gruppo di esseri umani intrappolati e torturati creativamene da un computer maligno; "L'ombra in caccia sulla Città sull'orlo del mondo" (1967), una storia di Jack lo Squartatore nel futuro; "Un ragazzo e il suo cane" (1969), sulle bande di adolescenti dopo l'olocausto; "Along the Scenic Route" (1969), in cui i pendolari di tutti i giorni vengono bloccati in un combattimento mortale; e "Il guaito dei cani battuti" (1973), l'incubo urbano spiegato da influenze demoniache. Ellison è anche un acuto (e brillante) critico sociale; alcuni dei suoi saggi migliori si trovano in The Glass Teat (1970), saggi sulla televisione; e Sleepless Nights in the Procustean Bed: Essays (1984), saggi su tutto il resto. L'impatto di Harlan Ellison sullo splatterpunk è incalcolabile. Un uomo che si è fatto da sé nel senso più positivo della frase; è, stato anche uno dei primi scrittori del genere a riconoscere l'importanza di promuoversi e della miriade di modi in cui i media possono essere piegati per servire meglio i propri scopi. Con la sua personalità colorata, intrepida e spesso grandiosa, e con la sua ottima reputazione e la sua creativa presenza nei mezzi di comunicazione come programmi televisivi (Ellison in genere è conosciuto per aver scritto le migliori sceneggiature per due delle più famose serie TV del genere, "Star Trek" e "The Outer Limits"), era quasi impossibile per gli scrittori nascenti degli anni Sessanta e Settanta non essere esposti — e, di conseguenza, influenzati — da Harlan Ellison. Ellison è tuttora attivo: scrive ancora, sempre con rabbia, e si difende ancora bene (una delle sue ultime raccolte è Angry Candy pubblicato nel 1988). Potesse continuare così nel XXI secolo. E oltre.
RAY GARTON Come Joe R. Lansdale, Ray Garton non può essere veramente definito uno splatterpunk. Quello che inizialmente lo ha fatto entrare in questa categoria sono stati libri come Ragazze vive (1987), con vampiri in uno spettacolo sexy di Times Square, e Crucifax Autumn (1988), uno dei migliori esami della situazione degli adolescenti di oggi che sia uscita nel campo dell'orrore. In entrambi i romanzi la violenza è intensa e il sesso esplicito (un problema ricorrente; Garton è uno dei pochi scrittori di horror attuali che capisce la differenza tra esplicito ed erotico). E all'inizio della sua carriera Garton intraprese una divertente e caustica crociata solitaria contro gli Avventisti del Settimo Giorno, vendetta personale per certe azioni che secondo Ray gli avventisti avevano diretto contro di lui nella sua città natale. (Per ulteriori dettagli, leggete l'illuminante intervista di Garton nel numero autunno 1988 di Midnight Graffiti.) Due di queste storie di avventisti sono "Sinema" e "Punishments", dove la satira raggiunge quasi livelli swiftiani (sono quasi rattristato dal dover dire che recentemente Ray si è lasciato alle spalle questa crociata). E Garton è ben consapevole dell'effetto che induce sui suoi lettori. Anche lui ha delle remore sul fatto di essere etichettato come splatterpunk e sugli scherzi controproducenti da superuomini che gli splatterpunk si giocano l'uno con l'altro. Nella rivista Gauntlet Garton spiega: Io mi censuro... È più che altro il risultato del movimento splatterpunk, in cui sono stato incluso così spesso. All'inizio infatti ho accettato con piacere questa inclusione, ma poi ho fatto qualche passo indietro e ci ho pensato un po'. Ho cominciato a pensare che un sacco di scrittori — me compreso — includono nelle opere un sacco di sesso vivido e violenza solo per il piacere di farlo, solo per sorpassare il loro ultimo libro, o il libro di qualcun altro, e stava diventando veramente disgustoso (numero 1 1990). Splatterpunk o no, il talento di Ray Garton si perfeziona a ritmo sorprendente. I recenti romanzi di suspence come Trade Secrets (pubblicato nel 1990 da Mark V. Ziesing) indicano una fiduciosa padronanza di narra-
tiva, personaggi e trama; gli sfondi sono credibili, i motivi chiari, e la parte forte molto, molto forte. E Garton non ha ancora compiuto trent'anni! Altri romanzi di Ray sono Seduction, che parla di un moderno succubo. Le ultime fatiche sono il racconto Lot Lizards, su autostoppisti vampiri, e Dark Channel, un romanzo horror della nuova generazione pubblicato dalla Bantam Books nel 1991. Lawrence Person, nel suo articolo su Nova Express, dice questo di Ray: "Garton diventerà senza dubbio uno degli scrittori di horror più importanti del prossimo decennio" (pag. 21). Sono d'accordo. JAMES HERBERT Altra influenza creativa di splat: James Herbert surclassa solo Clive Barker come scrittore di horror più popolare in Gran Bretagna. Il suo primo romanzo, I topi (1974), usa il simbolo di topi mutanti che si riversano sull'East End londinese per additare la negligenza e l'emarginazione di tutta una classe bassa della società inglese. Ma con Nebbia (1975), non solo Herbert riecheggia L'esorcista per la sua crudeltà esplicita, ma fissa uno standard per la moda splatterpunk che avrebbe trovato chiari riflessi negli anni Ottanta e Novanta. Nel suo lavoro veramente torcibudella, un gas nervino scivola lentamente sull'Inghilterra, lasciando al suo passaggio morte, pazzia e carneficine selvagge. Altri romanzi tipo splat di Herbert includono Il sopravvissuto (1976) in cui le anime senza pace di un disastro aereo vagano per la campagna circostante, The Spear (1978), The Dark (1980), The Jonah (1981) e Domain (1984), il seguito di I topi, questa volta ambientato contro lo sfondo di un olocausto nucleare. Come nel caso di Harlan Ellison, Herbert gode di molta considerazione tra i media (almeno nella nativa Inghilterra); non si può fare a meno di stupirsi del suo influsso su Clive Barker. E come Stephen King, Herbert culla la sua prosa in lingua e situazioni di tutti i giorni, assicurandosi la più vasta platea possibile. Un suo compatriota, il romanziere Ramsey Campbell, fa un'osservazione interessante nel suo saggio su Herbert nella Penguin Encyclopedia of Horror and the Supernatural. Secondo Campbell, Herbert condivide un dono unico con il regista splatter Dario Argento: (Suspiria, Inferno, Opera): "Le sue immagini di violenza sono potenti perché danno angoscia".
Se Harlan Ellison è stato il protosplatterpunk degli anni Sessanta, allora James Herbert è stato il re dello splat degli anni Settanta. ROBERTA LANNES Roberta Lannes, buona designer grafica e artista, ha variamente insegnato inglese, arte, giornalismo, composizione creativa e fotografia. Il suo racconto "Addio, oscuro amore" è apparso per la prima volta nel 1986 nella sofisticata antologia horror di Dennis Etchison Cutting Edge; continuerà, penso, a presentarsi come un miniclassico dello splatterpunk d'autore, anche se proprio non è un racconto breve. Più anedottico che drammatico, abbozzato nei personaggi e negli sviluppi di sottofondo, "Addio, oscuro amore" riflette però un profondo impatto emozionale. La sua "trama" descrive la vittima quindicenne di un incesto mentre deride, mutila e ha dei sistematici rapporti con il cadavere di suo padre appena morto. Attraverso questi rituali l'adolescente ricambia gli abusi di cui ha sofferto, liberandosi nella carne impotente e sempre più fredda dell'uomo. Questo frammento di vendetta necrofila ronza di immediatezza e di potenza sensuale. Moralmente, "Addio, oscuro amore" potrebbe essere giustificato come un esorcismo terapeutico, l'esaudire desideri degli impotenti. Ma per il suo sovrastrato di dettagli sessualmente espliciti (del tipo che in genere è riservato ai racconti per adulti), il suo franco esame dell'incesto e la sua ambiguità emozionale (dopotutto, la giovane protagonista riesce ancora a ricordare quando Papà era soltanto Papà), "Addio, oscuro amore" opera meglio come esplorazione dei limiti estremi della risposta sessuale umana. Proprio come lo splatterpunk con una coscienza sociale. JOE R. LANSDALE Se Mark Twain si fosse recato a Selma, in Alabama, e avesse trovato in programmazione al drive-in Non aprite quella porta, sarebbe potuto diventare come Joe R. Lansdale. Lansdale è un vero scrittore americano che predilige ambientazioni originali (del Texas orientale), con una voce autenticamente individuale. Mentre lo splatterpunk è stato classificato come genere che tratta la gioventù bruciata urbana, i personaggi di Lansdale abitano nelle strade polve-
rose delle città di provincia degli Stati Uniti, posti remoti e isolati dove l'ignoranza è la norma e la brutalità commessa a casaccio è il metodo interattivo più comune. Pur resistendo alla classificazione, la narrativa di Lansdale (per me, almeno) mostra tutti i lati positivi dello splatterpunk. C'è la prosa asciutta e parca, un coinvolgimento adulto con i temi sociali (inclusa una caratteristica volontà di affrontare il razzismo a testa bassa) e alcuni dei migliori dialoghi di qualsiasi genere. Per non parlare dello stupefacente senso contorto di Joe del cattivo gusto. Le prime influenze letterarie su Lansdale sono state di Flannery O'Connor e Chester Himes (l'autore della Harlem nera vissuto a Parigi che ha scritto All Shot Up e altre avventure di Ed Jones, lo scavatore di tombe). E Joe vi farà ridere; ha il più spontaneo senso dell'humour della fiction horror. Ma, di nuovo, Joe non è uno splatterpunk. Mentre alcuni dei racconti di Lansdale riflettono un atteggiamento profondamente splatter ("On the Far Side of the Cadillac Desert With Dead Folks") è ugualmente attaccato ai western ("The Magic Wagon"), alla fantascienza ("Tight Little Stitches in a Dead Man's Back") e al mistero ("Cold in July"). Eppure Lansdale ha prodotto un certo numero di racconti e romanzi paurosi che appartengono chiaramente alla scuola di pensiero dello splatterpunk. "La sera che non andarono all'horror show" comincia come un racconto falsamente semplice di fanatici annoiati un sabato sera ma raggiunge rapidamente livelli di razzismo, sessismo e omicidio tali che l'effetto complessivo è quello di aver ricevuto un calcio nello stomaco da uno stivale con la punta di ferro. Intensamente vivido, "The Night Runners" (1987) segue una giovane coppia che cerca di riprendersi dagli effetti di un vizioso stupro compiuto da una banda — e che cade nelle braccia del bizzarro Dio del Rasoio. Dead in the West (1986) è il romanzo western di zombi di Lansdale. Il libro (sinora) più compatto e veramente ispirato di Lansdale è Al drive-in del 1988, in cui migliaia di tipi comuni si riversano al drive-in Orbit per assistere allo spettacolo tutto horror del venerdì sera... e si accorgono di non poter uscire. Questa combinazione allucinante ed estremamente cinematica di L'angelo sterminatore e Il signore delle mosche fu seguita nel 1989 da The Drive-in II; Lansdale promette prossimamente un terzo volume Drive-in. Afferrate qualsiasi cosa abbia su il nome di Joe. Non ne rimarrete delusi.
Come ama dire, Lansdale ha un genere a sé. RICHARD LAYMON Scrittore che solo ora viene identificato con lo splatterpunk, (probabilmente a causa del suo scioccante "Mess Hall", apparso nel Book of the Dead) Richard Laymon in realtà ha già scritto più di una decina di romanzi e cinquanta racconti brevi di vario genere (del mistero, romantici, western e per giovani), molti sotto pseudonimo. Il suo primo romanzo splat è stato l'incalzante, orrido e triste La casa della bestia (1989). Infatti, Laymon si è guadagnato una certa reputazione per produrre lavori in cui sono pochi a sopravvivere... e quelli che rimangono avrebbero fatto meglio a morire. Tra gli altri suoi romanzi ricordiamo The Woods are Dark, Night Show, Flesh, Resurrection Dreams, The Stake e Funland del 1990 (in cui Laymon inventa una nuova e bizzarra variante del rituale per diventare fratelli di sangue; una vendicativa ragazza si taglia le labbra della vagina e invita un ragazzo con le mani insanguinate a infilare le dita dentro di lei per suggellare il loro patto). Laymon è anche un vivace appassionato del cinema splat; e questa influenza si riscontra molto chiaramente non solo in Mess Hall ma in Mop Up (in Night Visions 7), un racconto chiaramente influenzato da La notte dei morti viventi. Nonostante ciò, per quanto si adatti comodamente nella tradizione splatterpunk, Laymon è chiaramente ambiguo sull'uso del termine. In un'intervista allo storico dell'orrore Stanley Wiater, pubblicata in Fangoria, Laymon afferma questo: Non mi piace la parte punk che c'è, perché voi dipingete gente con i capelli all'insù e lame di rasoio nelle orecchie. Ora, se volete chiamarlo "nuovo horror del rock'n'roll", potrei essere d'accordo. Il mio vero problema con alcuni degli scrittori splatterpunk è che i loro personaggi principali sembrano essere spesso dei veri punk... Ma comunque non voglio essere identificato con un gruppo. E specialmente non con questo. (Maggio 1990.) RICHARD CHRISTIAN MATHESON
Figlio del famoso scrittore e sceneggiatore Richard Matheson (Tre millimetri al giorno), Richard Christian Matheson è a modo suo un talento unico. Scrivendo di lui nel The Twilight Zone Magazine, Edward Bryant lo ha definito "una minaccia artistica multipla, un po' nella tradizione di Clive Barker." In effetti, come Barker, Matheson è una forza riconosciuta nella cinematografia, nella televisione e nella letteratura contemporanea. A differenza di Clive, però, R.C. si è guadagnato anche una considerevole reputazione come maestro nel racconto breve, potente ed efficace. Anche se non è uno splatterpunk (ne diremo di più fra un momento), Matheson scivola facilmente tra i vari settori che lo hanno influenzato. Giovane affascinante e sorprendentemente bello, Matheson è principalmente scrittore e produttore televisivo e cinematografico: ha al suo attivo più di trecento produzioni in prima serata. A vent'anni era anche lo scrittore televisivo più giovane mai posto sotto contratto presso la Universal Studios. R. C. Matheson ha scritto sceneggiature per film quali Three O'Clock High (prodotto nel 1987 da Steven Spielberg) e It Takes Two della United Artists (1988). Ma è stata probabilmente la sua breve (veramente breve) narrativa ad assicurare a Matheson la carica di uno dei principali scrittori che popolano attualmente il campo dell'horror. Tipicamente asciutta e sintetica (ogni pezzo varia dalle tre alle cinque pagine) la prosa di R. C. osserva periodicamente elementi dell'orrore tradizionali prima di ritorcerli in forma attuale. In genere narra dall'interno. Come ha scritto Fangoria, "Matheson si interessa principalmente al mostro nella mente umana, più che all'uomo nero che dovrebbe far capolino da sotto il letto." Scars, una raccolta del 1987 di questi racconti brevi (pubblicata originariamente dalla Scream/Press, specializzata nel settore, e poi ristampata come un tascabile della Tor), è la vetrina delle abilità di Matheson. Scars contiene racconti notevoli come "Conversation Piece", "Dust" ed "Escrescenze" (commedia nera di prima classe, investita di una fisicità raschiante, come unghie passate su una lavagna). "Where There's a Will", scritto unitamente con il padre, Richard Matheson Senior, è stato classificato da Lawrence Person in Nova Express come "il suo racconto migliore e più splatterpunk". (Io non sono d'accordo). Più convenzionale del solito tono di R. C, "Where There's a Will" narra di un uomo che si sveglia in una tomba, scava per uscirne e — dopo aver trovato uno specchio — desidera non averlo mai fatto. Personalmente, credo che "Escrescenze" sia il racconto più ostentata-
mente splatterpunk di Matheson (una protuberanza striscia sotto la pelle di un ragazzo, scatenando un immaginabile terrore). Comunque, il racconto "Rosso" è splatterpunk "sottile" (se non proprio un ossimoro) e sempre il mio racconto breve preferito tra le opere di R. C. in circolazione. "Rosso" segue un uomo emozionalmente sconvolto mentre si trascina lungo l'autostrada, piangendo, raccogliendo oggetti dal suolo. Solo nelle ultime frasi capiremo che è un padre che ha accidentalmente ucciso la sua bambina con la macchina; e "le cose" che raccoglie sono le varie parti del corpo della piccola. Suggestivo più che esplicito, ricoperto da un malefico rigurgito retroattivo, "Rosso" si pone tra i lavori emozionalmente più devastanti di Matheson. Il primo romanzo di Christian Matheson è stato pubblicato dalla Bantam Books nel 1992. Intitolato Created By, è una storia di horror psicologico ambientata a Hollywood, un ambiente che R. C. conosce bene (Clive Barker, che aveva letto l'opera prima della sua uscita, ha definito Created By "la narrativa di un genio"). Per quanto riguarda altri progetti cinematografici, Matheson ha collaborato con la Warner Brothers e ha redatto sceneggiature per il registra Richard Donner, per il megaproduttore Joel Silver, e per Steven Spielberg. Ah — l'etichetta di splatterpunk. Originariamente R. C. era stato inserito nel gruppo splatter proprio all'epoca in cui il termine veniva inventato da David J. Schow. Ma dopo le recenti conversazioni che ho avuto con lui, Matheson non si è mai veramente creduto uno splatterpunk; a tutt'oggi, dice fermamente R. C, "non lo sono ancora diventato". Forse questa cattiva identificazione è nata nei primi giorni dello splatterpunk, quando il termine stesso veniva appioppato molto più facilmente (più per scherzo che per altro) e Matheson ha posato in alcune foto di gruppo con il Branco Splat. O forse è stato per la sua amicizia con David J. Schow. In ogni caso, la cattiva notizia è che Richard Christian Matheson non è uno splatterpunk. La buona notizia è che è uscito il suo primo romanzo, e che il successo di Richard nel campo della cinematografia è in continua espansione. Nel futuro prossimo, ci si potrebbe anche aspettare di vedere qualche film firmato da lui. Forse un'epica splatterpunk in 70 mm, in stereofonia? ROBERT R. McCAMMON Come Richard Christian Matheson, Robert R. McCammon è stato iden-
tificato con lo splatterpunk intorno al 1986/1987. Come Matheson, McCammon è stato ritratto in alcune foto di gruppo. E come Matheson, non è uno splatterpunk. Nativo di Birmingham, in Alabama, McCammon è un autore che scrive occasionalmente storie splatter (è anche uno scrittore che vende molto). "Eat Me", incluso nel Book of the Dead, è un tentativo comico eppure poetico che tratta di cannibalismo, zombi e sesso orale estremo. "Best Friends", da Night Visions 4, è in genere additato come la fatica più apertamente splatter di McCammon. Non è difficile capire perché: i demoni interni di un ragazzo gli entrano veramente dentro, e al culmine del racconto gli scoppiano fuori dal corpo scorrazzando per una corsia d'ospedale. Ma a mio modo di vedere, è "Nightcrawlers" a detenere il primato di maggior opera splatter di McCammon (apparso per la prima volta nell'antologia Masques di J. N. Williamson nel 1984, e ristampato in seguito in Blue World, una raccolta delle storie di McCammon pubblicata nel 1990). "Nightcrawlers" narra di un reduce della guerra del Vietnam di nome Price, alterato chimicamente durante la guerra, un uomo che ha delle allucinazioni così vivide che le sue visioni diventano veramente vive. Sfortunatamente, le allucinazioni di Price si accentrano sullo squadrone di morti che ha lasciato in Vietnam... di conseguenza c'è un pezzetto di guerra che sta per far ritorno a casa... Da un certo punto di vista questa storia è semplicemente un ulteriore esempio di proiezione di demoni interni; da un altro, è una scomoda metafora dell'enorme colpa americana creata dal disastroso coinvolgimento degli Stati Uniti nell'Asia sudorientale. Incidentalmente, Nightcrawlers fu adattato per la televisione nel 1985. Diretto da William Friedkin (L'esorcista) come un segmento continuo di venti minuti per la serie Ai confini della realtà della CBS (e trasmesso per la prima volta senza stacchi pubblicitari), Nightcrawlers è stato prodotto con accuratezza. Filmato come una vera opera cinematografica, con un ritmo incalzante e una coreografia impressionante, rimane uno dei film migliori o uno dei migliori adattamenti televisivi dell'horror degli anni Ottanta (ricordate la battuta, "Charlie è sotto tiro!") Il fatto che Nightcrawlers non sia ancora disponibile su cassetta è un vero delitto. Altri romanzi di McCammon includono Tenebre (una storia postolocausto che qualcuno dovrebbe veramente far diventare una miniserie televisiva) e The Wolf's Hour (lupi marinari nella Germania nazista). Il suo lavoro ai limiti dello splatter includono il romanzo epico They Thirst
(vampiri a Los Angeles) che vi raccomando caldamente; il racconto breve "He'll come Knocking at Your Door" (una storia avente sul tema della festa di Halloween, e che narra del prezzo che una famiglia deve pagare per il successo) e "Something Passed By" (un dono di fantascienza da fine del mondo dove può succedere letteralmente di tutto). JOHN MCCARTY John McCarty occupa una posizione unica nella critica cinematografica, perché è stato lui a coniare la frase "film splatter". Laddove Chas. Balun tende a essere più popolare e informale nelle sue critiche splatter, McCarty è il "John Simon, il Leonard Maltin, il Siskel e Ebert della carnografia", come l'ha definito Edward Bryant. McCarty ha coniato il termine nel suo Splatter Movies: Breaking the Last Taboo of the Screen del 1984. Il volume fu il pioniere del tentativo di definire e delimitare un genere cinematografico fino a quel momento indipendente. Come lo stesso McCarty ha puntualizzato nell'introduzione della sua The Official Splatter Movie Guide del 1989 (un compendio essenziale di più di quattrocento recensioni dei "più schifosi, pesanti e oltraggiosi film mai girati"): Qualche anno fa ho pubblicato un libro intitolato: Splatter Movies: Breaking the Last Taboo of the Screen. Uno dei miei obiettivi nello scrivere il libro era di dare a un genere che vedevo chiaramente evolvere un nome appropriato e definitivo che io e altri critici potessimo usare in modo da poter riconoscere tutti di cosa stavamo parlando (incluso il pubblico): qualcosa tipo film noir. Prima della pubblicazione del libro, nessuno (salvo George Romero, in un occasione) aveva mai usato quel termine. Oggi lo usano tutti — da Vincent Canby del New York Times a Siskel e Ebert alla rivista Fangoria, la bibbia degli appassionati di splatter. Congratulazioni, John. Missione compiuta (pag. IX). E anche Bravo! Non accade tutti i giorni che un critico introduca un termine di tanto impatto e richiamo. Riuscendo a offrire un commento coerente e valido sulle influenze primarie dello splatterpunk e diventando nel
contempo corresponsabile delle primissime origini del termine, McCarty si è assicurato un ruolo nella storia dello splatterpunk. REX MILLER La tradizione dei fuorilegge nell'arte, di cui lo splatterpunk è un sottoinsieme, si è riversata anche nei generi della fiction poliziesca e del crimine. Scrittori come James Ellroy (Il grande Hulli, Dalia nera), Jim Thompson (The Killer Inside Me) e Andew Vachss (Oltraggio, Blue Belle) hanno capovolto i romanzi del mistero accentrandosi impassibilmente sul brutto, il sordido e il patologico. Rex Miller appartiene a questa categoria; è anche uno dei più inibiti del gruppo. Il primo romanzo di Miller, Slob (1987), salutato con folle entusiasmo, narrava degli "exploit" brutali del pluriassassino di duecentotrenta chili di peso e amante dei bambini Daniel "Chaingang" Bunkowski. Rappresentazione mostruosa dell'idiozia primordiale, Chaingang violenta, mutila e uccide con abbandono terrificante, fino a che non viene fermato dal detective ex alcolizzato Jack Eichord, di Chicago. E anche se Miller aveva fatto morire Chaingang nel culmine di Slob, la popolarità del personaggio fu tale che Miller fu costretto a farlo risorgere nel romanzo Slice del 1990, in racconti come "Sweet Pea" e "The Luckiest Man in the World" e in una publicazione dalla tiratura limitata dei fumetti di Chaingang della Northstar Productions. Dopo Slob, Miller ha anche mantenuto le avventure di Jack Eichord, specializzato in psicopatici; Eichord è apparso come eroe di una serie di romanzi, come Frenzy e Stone Shadow. Miller ha cominciato a scrivere tardi; fino agli anni Ottanta, si è guadagnato da vivere principalmente come annunciatore radiofonico e come proprietario e gestore della Rex Miller's Collectibles and Vintage Videos, una prospera ditta di vendita per corrispondenza specializzata in articoli e oggetti da collezione di personaggi famosi. Di per sé, la sua produzione horror è poca, anche se i libri su Eichord contengono decisamente delle sfumature d'orrore. Nonostante ciò, gli scrittori dell'horror hanno considerato Miller uno di loro. Rex Miller scrive tipicamente prosa nuda e brutale, ovviamente influenzato da Hemingway; e, ovviamente, si diverte a vedere cosa riesce a combinare, specialmente nel settore sesso e violenza. "Una volta tanto", in cui Miller racconta il disagio delle riunioni di ex liceali cacandoci sopra, è una
fantasy di voodoo comico; speriamo che abbia altre storie come questa nella sua penna. PHILIP NUTMAN Philip Nutman proviene principalmente dalla critica cinematografica e dalla storia della cinematografia, dove l'entusiasmo per i film splatter è il suo tratto più evidente. Anche se Nutman ha iniziato lavorando per la BBC, questo giovane (ventisette anni) inglese ha inizialmente attirato l'attenzione su di sé con i suoi numerosi articoli, interviste e reportage dai set in riviste come Fangoria e Shock Xpress. Nutman sembra aver intervistato praticamente tutti. Dopo qualche anno di questa attività e di altre del genere (incluse delle parti in film di basso costo come Death Collector del 1990, disponibile presso la Raedon Video) Nutman è passato alla fiction. Il suo primo romanzo breve, "Wet Work", apparso nel Book of the Dead ritraeva una squadra d'attacco paramilitare che si rivela composta in realtà da zombie intelligenti. "A tutto gas" di Nutman è il suo primo racconto pubblicato, ma rappresenta un notevole ampliamento del genere letterario. Ambientato nella cupa e indifferente cittadina inglese di Bath, "A tutto gas" combina il paranormale con il banale, mentre due fratelli provano un legame psichico che ne lascerà uno morto e l'altro irrimediabilmente (e positivamente) alterato. Ciò che differenzia "A tutto gas" da "Wet Work" è il fatto che l'elemento soprannaturale è debole (e l'evento paranormale si basa su un'esperienza personale di Nutman). Inoltre, "A tutto gas" è un quadro accurato, deprimente e rabbioso della disperazione di cui sono vittima attualmente molti ragazzi inglesi. Nel delineare con movimento l'angoscia e il senso di inutilità della vita provato dagli adolescenti, "A tutto gas" continua un curioso filone inglese iniziato con l'opera di John Osborne, il "giovane arrabbiato" dei tardi anni Cinquanta, che è mutato negli atteggiamenti di rabbia e disperazione del rock punk della fine del Settanta. Tra gli elementi specificamente splatterpunk di "A tutto gas" c'è una scena di sesso a tre e uno stupro con una bottiglia dei protagonisti ubriachi che è tanto più scioccante per la sua scomoda plausibilità; chiunque abbia avuto una giovinezza selvaggia (incluso l'autore) sarà in grado di individuare questo e altri momenti di "A tutto gas" come reminescenze spiacevoli di quei momenti dei primi anni della nostra vita quando anche noi saremmo potuti andare — o siamo andati —
troppo oltre. Nutman ha scritto anche la sceneggiatura del film noir Heatwave e sta attualmente lavorando per espandere "Wet Work" in un romanzo. J.K. POTTER J. K. Potter è stato scambiato per uno splatterpunk a causa dei suoi prolifici contributi artistici per copertine e illustrazioni interne di varie opere legate al campo splatter. Queste includono riviste defunte come Night Cry (che aveva una politica di porte aperte verso la fiction splat), la casa editrice Scream/Press specializzata nel settore, e raccolte in volume di storie di Clive Barker e Joe R. Lansdale. In realtà, Jeff Potter è più un artista di grafica tradizionale, a cui è stato commissionato, tra l'altro, un prodigioso numero di illustrazioni horror e splatterpunk. Potter è uno dei migliori artisti del campo, ed è facile capire perché è tuttora tanto richiesto. La singolare tecnica di Potter di collage fotografico e aerografo e la sua ovvia erudizione nella storia della fotografia (nel suo lavoro si notano tracce di Diane Arbus), si uniscono a un'immaginazione veramente surreale. Potter ama contorcere la forma umana, e una delle sue creazioni che preferisco mostra una donna dalle lunghe gambe sormontate da una testa. Niente tronco né braccia... solo una testa. Non splatterpunk, ma abbondantemente culturale e gratificante. J.S. RUSSELL È ridicolo raccomandare un nuovo talento per la forza di un singolo racconto, per giunta il primo. Ma se J. S. Russell riesce a continuare nella direzione del suo "La città degli angeli" allora lo splatterpunk potrebbe contare presto una voce distintamente delirante. "La città degli angeli" si svolge in una Los Angeles radioattiva, due anni dopo la caduta di una bomba atomica... ma non aspettatevi la solita favola post-olocausto. Soffermandosi minuziosamente sui più evidenti effetti fisici e mentali della guerra nucleare, Russell ha rotto con la superficie immobile del vecchio mito "i sopravvissuti della guerra atomica che si uniscono insieme per formare una nuova società pulita", rivelando la melma rozza e cancerosa sottostante. Credetemi, questa è roba forte. È anche divertente. Russell utilizza un dialogo quasi farsesco e uno hu-
mour ultra-nero come, diciamo, Joe R. Lansdale; e nel farlo, Russell distorce completamente la nostra percezione di cosa sia, o non dovrebbe essere, divertente. A proposito, "J. S. Russell" è uno pseudonimo. Ma a chi importa il vero nome quando uno scrittore riesce dal nulla a produrre un istantaneo classico splatterpunk come "La città degli angeli"? WAYNE ALLEN SALLEE Inizialmente poeta (con più di settecento poesie pubblicate sinora!), Wayne Allen Sallee contribuisce anche prolificamente a piccole riviste (incluse Grue, New Blood, Portento e altre). Titolare di diversi lavori della vita comune nel ventre molle di Chicago (rintraccia evasi ed è corrispondente di cronaca) Sallee ha scritto un certo numero di racconti brevi rabbiosi e inflessibili che perforano la vena splatterpunk. Tra questi c'è "Rapid Transit" (1985), la prima opera fiction di Sallee; dopo aver assistito a un accoltellamento su una piattaforma della metropolitana, un giovane di nome Dennis Cassady comincia a precipitare nella psicosi. "Take the A-Train" (1986), seguito di "Rapid Transit", conclude la discesa nella follia di Cassady. "Bleeding Between the Line", pubblicato nel 1989, è direttamente collegato a "Rapid Transit" e a "Take the ATrain" e completa quella che Sallee definisce la "trilogia di Dennis Cassady" ("Bleeding Between the Lines" non ha assolutamente sesso esplicito né violenza, però: è fondamentalmente un discorso tra uno scrittore e il suo psichiatra). Nell'articolo di splatterpunk di Lawrence Person pubblicato su Nova Express, l'autore definisce lo stile di Sallee "senza compromessi" e lo paragona a quello di Harlan Ellison. Resta da vedere se il futuro della produzione fiction e romanzesca di Sallee darà ragione al paragone tracciato da Person. Nel frattempo è misura dei talenti di Sallee (e del suo impatto: c'è una scena particolarmente snervante di "Rapid Transit", quella di uno scarafaggio tra le gambe) il fatto che abbia suscitato una così grande impressione dai confini relativamente ristretti della piccola stampa. La raccolta di racconti brevi di Sallee, Running Inside My Skin, è stata pubblicata da Mark V. Ziesing nel 1991; nello stesso anno è apparso il racconto "The Holy Terror", pubblicato dalla stessa casa editrice. DOUGLAS E. WINTER
Douglas E Winter è un buon esempio di scrittore che ha esteticamente colmato il vuoto tra la fiction suggestiva e quella esplicita. Non splatterpunk (a proposito, darò volentieri una mancia a chiunque riuscirà a contare le volte che ho dovuto scrivere questa frase), Winter ha attirato inizialmente l'attenzione su di sé come primo critico serio di Stephen King (Stephen King: The Art of Darkness, 1984). Poi ha ampliato il suo spettro di critica per produrre un libro in cui offre una panoramica dei nuovi scrittori dell'horror (Faces of Fear, 1985), e ha continuato a produrre numerosi saggi su questo e altri soggetti (particolarmente valido è il contributo di Winter alla Penguin Encyclopedia of Horror and the Supernatural con l'articolo "Gli scrittori di oggi"). Le interviste e le critiche di Doug sono apparse in pubblicazioni quali Harper's Bazaar e Saturday Review, come pure su quotidiani come il Washington Post e il Philadelphia Inquirer. Ha anche curato una notevole raccolta di racconti dell'orrore intitolata In principio era il male (1988), che include racconti di scrittori come Stephen King, Peter Straub e Whitley Streiber. Eppure per qualcuno così ovviamente legato all'horror più tradizionale, Winter è anche un appassionato seguace del cinema non censurato e dello splatterpunk di qualità. Il suo primo racconto, "Splatter: A Cautionary tale" è un pezzo esplicitamente contro la censura che unisce politica, mentalità da caccia alle streghe e film viscerali (i sottotitoli dei capitoli sono altrettanti titoli di film splatter). "Less Than Zombie", il lavoro seguente di Winter, evidenzia un sorprendente balzo creativo. Con i ricchi e indifferenti adolescenti che prendono vita solo quando uno di loro diventa uno zombi, la storia funziona (su un livello) come una perfetta parodia del miniromanzo di Bret Easton Ellis Less Than Zero (1985). Su un altro livello "Less Than Zombie", oltre che sembrare una critica allo splatterpunk, è costellato di critica sociale per una società progressivamente desensibilizzata; nonostante impieghi tecniche splatter, "Less Than Zombie" rivolta implicitamente questi strumenti contro loro stessi. È interessante come Winter resista all'idea che lo splatterpunk sia considerato un genere o un movimento. Per ciò che può importare, io rifuggo l'idea che l'horror di per sé sia un genere. L'horror è un'emozione. E "Less Than Zombie" è stato scritto come una storia antisplat-
terpunk, non in senso negativo, ma nel senso che io ho usato il concetto di "antihorror" come una critica dell'horror, che continua il dialogo sulle direzioni che dovrebbe prendere l'horror... piuttosto che definire dove è stato. "Antihorror" è l'intrigante teoria di Winter secondo la quale la maggior parte di ciò che ora crediamo horror è diventato restrittivo; ciò che l'antihorror esamina e confronta sono esattamnete le stesse convenzioni a cui è dovuta soccombere la narrazione horror. Forse continuerà lui stesso a esplorare quest'area; in ogni caso, la carriera appena sbocciata di Winter nel campo della fiction è tutta da gustare. 12 QUALCHE ESEMPIO DI SPLATTERPUNK In questo saggio ho menzionato numerose opere splatterpunk, sia essenziali sia marginali. Per un vero spirito d'archivio, quella che segue è sia una ricapitolazione sia un'aggiunta a questo materiale. Sfogliando le opere elencate nelle pagine che seguono, il lettore capirà immediatamente di cosa tratta lo splatterpunk, molto di più che rileggendo semplicemente "Fuorilegge". Alcuni suggerimenti: di seguito sono elencate soltanto le opere letterarie. Avrei potuto catalogare tutti i principali film splatter essenziali, ma sarebbe stata una follia; quindi ho cercato di concentrarmi sul materiale stampato su carta. I lavori non menzionati nel testo di "Fuorilegge" o soltanto accennati rapidamente sono seguiti da un breve commento. Alcune di queste opere sono in formato tascabile, altre con copertina rigida; alcune sono prime edizioni limitate. Dove possibile, ho cercato di includere le edizioni più semplici da ottenere o più rappresentative di quella particolare elencazione. Siete avvisati, però: non tutti questi libri o queste riviste sono ancora in commercio o sono facili da reperire. Racconti brevi, articoli e saggi sono elencati individualmente, come pure i romanzi e le antologie. E infine, non tutti i lavori degli autori menzionati in "Fuorilegge" sono elencati in questo catalogo. In generale, ho cercato di includere solo gli articoli, i libri e le storie che contengono il vero spirito splatterpunk o che in
qualche maniera lo riflettono. Date un'occhiata e divertitevi. 1 "Along the Scenic Route" di Harlan Ellison. In The Essential Ellison, a cura di Terry Dowling (Omaha e Kansas City: Nemo Press, 1987). 2 "Best Friends" di Robert R. McCammon, in Night Visions 4 (Arlington Heights, Illinois: Dark Harvest, 1987). 3 Book of the Dead a cura di John Skipp e Craig Spector (New York, Bantam Books, 1989). Include "Wet Work" di Philip Nutman; "Mess Hall" di Richard Laymon; "On Going Too Far" di Skipp e Spector; "Eat Me" di Robert McCammon; "Meno di Zombi" di Douglas E. Winter; "Jerry's Kids Meet Wormboy" di David J. Schow, "Nel lontano deserto delle Cadillac con il popolo dei morti" di Joe R. Lansdale, e "A Sad Last Love at the Diner of the Damned" di Edward Bryant. (Wow!) Una delle antologie fondamentali dello splatterpunk. 4 "Un ragazzo e il suo cane" di Harlan Ellison. In Storie del pianeta azzurro, (Nord, Milano 1987). 5 By Bizarre Hands di Joe R. Lansdale (Shingletown, California: Mark V. Ziesing, 1989). Comprende "La sera che non andarono all'horror show", "Nel lontano deserto delle Cadillac con il popolo dei morti", "Tight Little Stitches in a Dead Man's Back" e "Hell Through a Windshield" (un saggio che ha costituito la base per il seguente romanzo di Lansdale: La notte del drive-in.) 6 Cabal di Clive Barker (id., Bompiani, Milano 1991). 7 "Cannibal Cats Come Out Tonight", di Nancy Holder. In Women of Darkness, a cura di Kathryn Ptacek (New York, Tor Books, 1988). Il padre violento di un ragazzino gli dice che "qui fuori, figlio mio, nel mondo cane mangia cane." Il ragazzo interpreta letteralmente, e crescendo diventa un omosessuale represso e una rock star cannibale a cui piacciono particolarmente le ragazze del coro. La storia è essenzialmente una commedia nera con correnti sotterranee serie. Holder è apparso in antologie di Charles Grant come Shadows 8, 9 e 10; speriamo che continui con la vena dei "Cannibal Cats", perché è un racconto acuto, ben scritto, e divertente. 8 Danza macabra di Dan Simmons (Interno giallo, Milano, 1992). Questo massiccio secondo romanzo di Simmons (che segue il popolare Il canto di Kali) delinea la guerra tra un gruppetto di vampiri psichici delle classi alte (che lavorano come produttori cinematografici, politici e
uomini d'affari) e dei cacciatori di vampiri di classe media (poliziotti e fotografi ritrattisti). Il legame che li unisce è un vecchio psichiatra ebreo sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti. Simmons bilancia argutamente gli orrori reali dell'olocausto con le ironiche manipolazioni mentali dei suoi personaggi di fiction; per esempio un vampiro (il produttore) usa il suo potere per costringere bellissime donne a fare del sesso lascivo con lui, in particolare quando sono incazzate. Splatterpunk marginale, ma i colpi di scena si susseguono in direzioni potenti e assolutamente inaspettate. Lo raccomando. 9 Cemetery Dance (periodico) P.O. Box 858, Edgewood, Maryland 21040, USA. Con la scomparsa del periodico The Horror Show, Cemetery Dance cerca di colmare il vuoto della fanzina primaria per la fiction innovativa dell'orrore. Il curatore, Richard Chizmar, ha già stampato lavori di autori del calibro di Joe R. Lansdale, David J. Schow e Richard Christian Matheson; Cemetery Dance sembra essere una pubblicazione, come Midnight Graffiti, dove lo splatterpunk trova dimora. E accennando allo spirito di P. T. Barnum, ricordatevi che Paul M. Sammon scrive regolarmene su Cemetery Dance per una rubrica cinematografica. 10 "La città degli angeli" di J. S. Russell. In Midnight Graffiti, autunno 1990, e in questa antologia. 11 "The Cleanup" di John Skipp e Craig Spector (New York, Bantam Books, 1986). 12 Clive Barker I libri di sangue come Ectoplasma, Infernalia, Voll. 1-3 e 4-6, Sonzogno, Milano 1990-1993. Volumi assolutamente essenziali per una biblioteca splatterpunk. 13 Connoisseur's Guide to the Contemporary Horror Film, di Chas. Balun (Westminster, California: pubblicato in proprio nel 1983). 14 "Crucifax Autumn" di Ray Garton (Airlington Heights, Illinois: Dark Harvest, 1988). Un capitolo in questa antologia. 15 Cutting Edge a cura di Dennis Etchison (New York: Doubleday, 1986). Oltre a "Addio, oscuro amore" della Lannes, altri racconti splat di questa eccezionale antologia includono "Muzak for Torso Murders", di Marc Laidlaw, e "They're Coming for You" di Les Daniels. 16 Gioco dannato di Clive Barker (Sperling & Kupfer, Milano 1988). 17 Dead in the West di Joe R. Lansdale (New York, Space & Time, 1986). 18 Dead Lines, di John Skipp e Craig Spector (New York, Bantam Books, 1989).
19 The Deep Red Horror Handbook a cura di Chas. Balun (Albany, New York: Fantaco Books, 1989). 20 "La notte del drive-in" di Joe R. Lansdale (Urania n. 1214, Mondadori, Milano 1993). 21 "Il giorno dei dinosauri" di Joe R. Lansdale (New York: Bantam Books, 1989). 22 "Eat Me" di Robert R. McCammon. In Book of the Dead a cura di John Skipp e Craig Spector (Urania n. 1224, Mondadori, Milano 1994). 23 "Emerald City Blues" di Steven R. Boyett. In Midnight Graffiti, autunno 1988, pagg. 16-24. Un pilota di F-18, che porta un carico di armi atomiche, passa attraverso una torsione dimensionale e riappare davanti al Regno di Oz. Ciao ciao, Uomo di latta. Una favola rabbiosa, cauta, eccezionalmente ben ricercata sugli orrori di una guerra nucleare. Nelle mani di Boyett, la distruzione di un simbolo infantile così intatto e innocente come il Regno di Oz è un colpo da maestro. Lo raccomando caldamente: Boyett ha contribuito anche al Book of the Dead con "Like Pavlov's Dogs" e a Silver Scream con "The Answer Tree". 24 The Essential Ellison a cura di Terry Dowling (Omaha e Kansas City: Nemo Press, 1987). Include: "Un ragazzo e il suo cane", "Along the Scenic Route", "Non ho bocca e devo urlare", "L'ombra in caccia nella Città sull'orlo del mondo" e "Il guaito dei cani battuti". Una panoramica storica inestimabile del primo Ellison. 25 L'esorcista di William Peter Blatty (Mondadori, Milano 1975). 26 "Extreme Measures: The Fiction of John Skipp e Craig Spector" di R. S. Hadji. Nella rivista The Horror Show, autunno 1988, pagg. 17-20. 27 Fangorìa (periodico), 475 Park Avenue South, New York, Stato di New York, 10016. 28 "Film alle undici" di John Skipp. In Silver Scream a cura di David J. Schow (Tor Books, New York 1988). In questa antologia. 29 Film Threat (periodico), P.O. Box 951, Royal Oak, Michigan 48068. 30 Nebbia di James Herbert (Classici Urania n. 148, Mondadori, Milano 1989). 31 "Il baraccone degli orrori" di Nancy A. Collins. Nella rivista The Horror Show, primavera 1990 e in questa antologia. 32 Gauntlet (periodico), Department GA2, 309 Powell Road, Springfield, Pennsylvania 19064. La rivista ha iniziato le pubblicazioni nel 1990. Il sottotitolo di Gauntlet è "esplorando i limiti della libera espressione", e questa è esattamente la funzione di questo periodico, che raccoman-
do. Nel primo numero (annuale), con l'esplicito intento di difendere i diritti del Primo Emendamento e manifestando nel contempo il tentativo di distruggerli (certamente una delle prime tematiche dello splatterpunk), Gauntlet include articoli, fiction e critiche di lunga portata di scrittori quali Ray Bradbury ("More Than One Way to Burn a Book"), Harlan Ellison ("Nackles"), George Carlin ("The FCC Cracks Down on Filthy Words"), Rex Miller ("Nasty Times") e Dan Simmons ("Determine Your Censorship Quotient"). Unendo l'arte tradizionale e materiale generico, il primo numero di Gauntlet includeva anche un'intervista con il fotografo Andres Serrano, il cui "Piss Christ" (insieme a una mostra itinerante del collega fotografo Robert Mapplethorpe) incensava tanto il senatore Jesse Helms che Helms ha compiuto un enorme sforzo per indebolire il Contributo Nazionale per l'Arte. Finora i miei articoli preferiti di Gauntlet però comprendono due paurose dichiarazioni su Donald Wildmon, l'ultraconservatore politicamente potente. La American Family Association di Wildmon è riuscita a far pressioni sulla Pepsi Cola perché non distribuisse uno spot avente per protagonista Madonna, a non far vendere Playboy ad alcuni grandi magazzini e a rendere in generale un inferno la vita di tutti gli abitanti di Tupelo, nel Mississippi (dove ha sede) come osano contraddire le convinzioni fondamentaliste di Wildmon. Mi è piaciuto molto anche Let the Darkness In, di Steve Rasnic lem, che esamina in maniera convincente, tra le altre cose, la schizzinosità americana sulle funzioni corporali. L'editore e curatore di Gauntlet, Barry Hoffman, mi dà l'idea di un vero patriota americano. Avremmo bisogno di più gente come lui. 33 "Gentlemen" di John Skipp e Craig Spector. In The Architecture of Fear, a cura di Kathryn Cramer e Peter D. Pautz (William Morrow, New York, 1987); si trova anche in Dead Lines (Bantam Books, New York, 1989). A mio modo di pensare, questo è il miglior pezzo di fiction breve di Skipp e Spector. Racconto che si incentra sugli abusi fisici contro le donne, "Gentlemen" si svolge principalmente in un sudicio bar di Manhattan (e nella sua toilette per signori). L'atmosfera è fumosa, i personaggi complessi, e l'imperativo morale mortalmente serio: coloro che accusano lo splatterpunk di misoginia dovrebbero leggere a forza questo racconto, un paragrafo alla volta. I Ragazzi hanno veramente qualcosa da dire qui. Nel frattempo hanno prodotto la loro fatica più irosa e più compassionevole. "Gentlemen" getta uno sguar-
do ravvicinato e brutale a un tratto testicolare particolarmente repellente, che dovrebbe essere stato castrato molto tempo fa. E la metafora centrale è furiosa, divertente e assolutamente brillante: l'etica del macho concettualizzata letteralmente come un pezzo di merda. 34 "Addio, oscuro amore" di Roberta Lannes. In Cutting Edge, a cura di Dennis Etchison (Doubleday, New York, 1986) e in questa antologia. 35 "The Gore Score" di Chas. Balun (pubblicato in proprio, 1985). 36 "Graffiti" di David J. Schow. In Midnight Graffiti, giugno 1988, pagg. 36-47; si trova anche in Seeing Red (TOT Books, New York, 1990). Uno dei migliori racconti di Schow. Un gruppo di punk senza meta di Hollywood si trova perseguitato da un comune amico morto, il pazzo Jocko. Dettagliato, tagliente e credibile: l'ambiente hollywoodiano è particolarmente ben riprodotto. Ancora una volta, la parola Graffiti è solo un'approssimazione visiva del titolo puramente grafico di Schow: nel titolo in realtà non viene usato alcun vocabolo. 37 Hellbound: Hellraiser Il del 1988, diretto da Tony Randel, da un racconto di Clive Barker. New World Pictures. Lo so, lo so: avevo detto che in questa lista non ci sarebbero stati titoli di film! Fatemi causa. Nonostante i suoi occasionali e divertenti lapsus e la trama frammentaria (risultato di tagli dell'ultimo minuto negli studi), Hellbound contiene uno dei test splatter più duri degli anni Ottanta. È la scena dove un patetico paziente affetto da disturbi mentali si colpisce ripetutamente sul corpo con un rasoio. Se riuscite a guardare questa scena, siete sopravvissuti a uno dei momenti indelebili del cinema carnografico. Pensavo che vi interessasse saperlo. 38 "The Hellbound Heart" di Clive Barker. In Night Visions 3 (Darle Harvest, Arlington Heights, Illinois, 1987). 39 Casa infernale di Richard Matheson (di prossima pubblicazione presso Mondadori — Interno Giallo). 40 "Hooked on Buzzer" di Elizabeth Massie. In Women of Darkness, a cura di Kathryn Ptaceck (Tor Books, New York, 19JJ8). Romanzo breve intenso che fonde fanatismo religioso, orgasmo ed elettricità, "Hooked on Buzzer" è uno di quei romanzi che in qualche modo è scivolato attraverso una fessura della conoscenza del pubblico. Da raccomandare. 41 Horror Holocaust di Chas. Balun (Fantaco Enterprises, Albanv, New York, 1986). 42 Hot Blood a cura di Jeff Gelf e Lonn Friend (Pocket Books, New York,
1989). Questo volume contiene "Punishments" di Ray Garton, "Footsteps" di Harlan Ellison e altri. Questa antologia di racconti horror a tema sessuale è una specie di volume guida americanizzato tipo Scared Stiff di Ramsey Campbell (con più autori). I colpi bassi di sesso variano da seduttivi a espliciti; "Punishments" di Garton è il migliore. 43 "Non ho bocca e devo urlare" di Harlan Ellison. In I Premi Hugo 19551975 (di prossima pubblicazione nei Classici Urania, Mondadori). 44 Inside the New Horror di Philip Nutman. In The Twilight Zone Magatine, agosto 1988. Il saggio di Nutman è una panoramica sull'emergere dei nuovi atteggiamenti della fiction horror, esemplificato dallo splatterpunk; Inside è stato anche tra i primi tentativi di splatterpunk a essere pubblicato da una rivista horror professionale. È storicamente importante: cita Schow, Skipp e Spector, Douglas Winter e altri. Nutman ha anche trovato una citazione inestimabile di J. G. Ballard, che afferma che molti di noi rifiutano di riconoscere "l'immensa presa che la violenza esercita sulla gente. Mi sembra che non sia salutare. Bisognerebbe guardare in faccia la realtà della natura umana: in questo modo si può fare qualcosa per migliorarla." Esatto. 45 Ti sputo in faccia: i film che mordono di Chas. Balun. In The Deep Red Horror Handbook, a cura di Chas. Balun (Fantaco Books, Albany, New York, 1989), contenuto in questa antologia. 46 Jacqueline Ess: testamento e volontà di Clive Barker. In Se mi tocchi ho un brivido (Longanesi, Milano 1991). 47 John Skipp e Craig Spector in Skipp & Spectors Excellent Adventures, intervista di John Martin e Angus MacKenzie. in Samhain, giugnoluglio 1989, pagg. 8-11. 48 Joy di Mick Garris. In Midnight Graffiti, primavera 1990. Narra i dettagli della mente sconvolta ma generalmente benigna di un folle, che finisce la giornata seppellendo un bambino... ancora vivo. 49 The Kill Riff, di David J. Schow (Tor Books, New York, 1988). 50 "Meno di zombi" di Douglas E. Winter. In Book of the Dead, a cura di John Skipp e Craig Spector (Bantam Books, New York, 1989) e in questa antologia. 51 A life in the cinema di Mick Garris. In Silver Scream, a cura di David J. Schow (Tor Books, New York, 1988) e in questa antologia. Attualmente Mick Garris è fondamentalmente uno sceneggiatore e regista: la sua fiction è fenomeno piuttosto recente. Ha diretto Critters 2 e Psycho 4 (mi suona come un gioco di splatterpunk) e ha scritto per la
televisione e per altri film. Basandosi su A Life in the Cinema e alla sua opera cinematografica — che include La mosca 2 — Mick è ovviamente solidale con gli atteggiamenti splatterpunk. Dovremo aspettare per vedere se questo si manifesterà in altri scritti. 52 Maledizione fatale di John Skipp e Craig Spector in Horror n. 14 (Mondadori, Milano 1991). 53 Ragazze vive di Ray Garton in Horror n. 3, (Mondadori, Milano, 1990). La migliore raccolta di racconti di Schow, a tema unificato "amore perduto amore trovato". Include Brass, Red Light, Pamela's Get, The Falling Man e Monster Movies. Orientate sui personaggi, intelligenti e accattivanti, queste storie vengono rappresentate sullo sfondo di una Los Angeles corrosivamente tagliata. Se Skipp e Spector sono i migliori osservatori splatterpunk della scena di New York, nessuno descrive Los Angeles come David J. Schow. 55 "L'uomo della casa della carne" di George R. R. Martin. In questa antologia. 56 Midnight Graffiti (periodico), 13101 Sudan Road, POway California 92064. 57 "Macelleria mobile di mezzanotte" di Clive Barker. In questa antologia. 58 Monster Movies di David J. Schow. In Lost Angels di David J. Schow (Onyx Books, New York, 1990). 59 Mop Up di Richard Laymon. In Nigh Visions 7 (Dark Harvest, Arlington Heights, Illinois, 1989). 60 More Gore: Splatterpunk Leaves Its Mark di Richard Gehr. In The Village Voice, 6 febbraio 1990, pagg. 57-58. 61 The "New" Horror di J. N. Williamson. In Masques III, a cura di J. N. Williamson (St. Martin's Press, New York, 1989). In questo breve saggio, Williamson (antologista e socio fondatore della Scrittori Horror d'America) traccia il suo pensiero sullo splatterpunk. "Al peggio" osserva Williamson "il 'nuovo' horror può essere orribile, o pieno di una certa belligeranza; di volgarità. Al meglio, è un uso meraviglioso della libertà americana di dire o fare che, lo scrittore lo spera ardentemente, farà allontanare per sempre dalle nostre vite tormentate gli incasinamenti sociali" (pag. 104). Nonostante un apparente disagio con la profanità (la frase di Williamson "il 'nuovo' horror può essere... pieno di... volgarità" è un ovvio esempio) e l'uso che lo splatter fa di droga, alcol e rapporti improbabili (lui obietta all'inserimento gratuito di questi elementi — dove l'abbiamo già sentita?) il minisaggio di
Williamson arriva a una valutazione tollerante e alquanto bilanciata dello splatterpunk. Lo fa su una base estetica e di libertà di scelta, facendo del "The 'New' Horror" una delle critiche più imparziali dello splatterpunk. 62 "Nightcrawlers" di Robert R. McCammon. In Blue World, di prossima pubblicazione presso Mondadori. 63 The Nightrunners di Joe R. Lansdale (Dark Harvest, Arlington Heights, Illinois, 1987) 64 "La sera che non andarono all'horror show" di Joe R. Lansdale. In Silver Scream, a cura di David J. Schow (Dark Harvest, Arlington Heights, Illinois, 1987), in By Bizarre Hands di Joe R. Lansdale (Mark v. Ziesing, Shingletown, California, 1989) e in questa antologia. 65 Nova Express, P.O. Box 27231, Austin, Texas 78755. 66 The Official Splatter Movie Guide di John McCarty (St. Martin's Press, New York, 1989). 67 "Nel lontano deserto delle Cadillac con il popolo dei morti" di Joe R. Lansdale. In Book of the Dead a cura di John Skipp e Craig Spector in By Bizarre Hands di Joe R. Lansdale e in "Il ritorno degli zombi", antologia horror n. 3 Mondadori, Milano 1994. Un western di zombie dell'era moderna, con cercatori di fortuna, evasi cattivi e suore vogliose. Veloce, divertente ed evocativo. La scena con la donna cannibale che balla nuda in uno squallido bar con ragazze in topless — con le mani tagliate e la bocca chiusa da una museruola così che non morda i clienti — è una piccola gemma. Nessuno se non Lansdale sarebbe mai riuscito a scriverla. 68 The Penguin Encyclopedia of Horror and the Supernatural a cura di Jack Sullivan (Viking, New York, 1986). Il volume include "Writers of Today" di Doug Winter. 69 "Pig Blood Blues" di Clive Barker. In Infernalia, Sonzogno, Milano 1991. 70 "Pilgrims to the Cathedral" di Mark Arnold. In Silver Scream, a cura di David J. Schow (Dark Harvest, Arlington Heights, Illinois, 1987). 71 In principio era il male a cura di Douglas Winter. Mystbooks, Mondadori, Milano 1990. Questa raccolta di storie horror perlopiù tradizionali contiene un certo numero di testi splatterpunk "marginali". Uno è "The Night Flier" di Stephen King, in cui un vampiro con la vescica piena va nel bagno degli uomini e piscia sangue. Ma il migliore rac-
conto splatter è "The Juniper Tree" una ristrutturazione complessa, nostalgica e assolutamente orripilante della famosa favola dei fratelli Grimm, in cui la dinamica centrale è composta da matinée cinematografiche e molestie omosessuali su bambini. Questa è veramente una delle fatiche più forti e più mature di Straub. Raccomandatissimo. 72 "L'ombra in caccia nella Città sull'orlo del mondo" di Harlan Ellison. In The Essential Ellison, a cura di Terry Dowling (Nemo Press, Omaha e Kansas City, 1987) e in Dangerous Visions, Mondadori, Milano 1991. 73 Psycho di Robert Bloch (Mondadori, Milano 1985). 74 "Punishments" di Ray Garton. In Hot Blood a cura di Jeff Gelf e Lonn Friend (Pocket Books, New York, 1989). Doloroso, patetico e carnale, "Punishments" delinea in un calando a spirale la relazione sessuale di un giovane innocente con una donna più anziana che si odia. Il personaggio femminile, in particolare, lascia un segno melanconico e spettrale. Molto forte, molto reale. Parte del canone anti-avventisti di Garton, e uno dei suoi migliori lavori brevi. 75 "Rant" di Nancy A. Collins. In Midnight Graffiti, primavera 1990, pagg. 44-48. 76 "Rapid Transit" di Wayne Allen Sallee. In questa antologia. 77 "Rawhead Rex" di Clive Barker. In Libro di sangue, Sonzogno, Milano 1993. 78 "Red Light" di David J. Schow. In Lost Angels di David J. Schow (Onyx Books, New York, 1990). 79 Samhain (periodico) 19 Elm Grove Road, Topsham, Exeter, Devon EX3, OEQ, Gran Bretagna. 80 Il sesso della morte di Ramsey Campbell Armenia editore, Milano 1992. Un compendio della fiction horror-erotica di Ramsey Campbell, un genere per cui non è molto conosciuto. Ramsey Campbell, uno degli scrittori horror tra i più rispettati, è conosciuto per i suoi toni mutevoli ed ellittici e le sue atmosfere pessimistiche; racconti come "Chez Lili" e "Il ritorno di Loveman" uniscono i classici effetti di Campbell con scene hard-core. Poco conosciuto dai fanatici dello splatterpunk, Il sesso della morte vale la pena di essere cercato. L'introduzione è di Clive Barker, e si accentra sul classico tema della morte e delle ragazze sole. 81 Sears di Richard Christian Matheson (Scream/Press, Los Angeles, 1987). 82 "Schow, David J. — Special Issue". In Weird Tales primavera 1990,
pagg. 14-25. 83 The Scream di John Skipp e Craig Spector (Bantam Books, New York, 1988). 84 Seeing Red di David J. Schow (Tor Books, New York, 1990). 85 Silver Scream a cura di David J. Schow (Tor Books, New York, 1988). Sono inclusi "Una vita nel cinema", di Mick Garris; "Sinema" di Ray Garton; "Son of Celluloid" di Clive Barker; "La sera che non andarono all'horror show" di Joe Lansdale; "Sirens" di Richard Christian Matheson; "Splatter: A Cautionary Tale" di Douglas E. Winter; "Film alle undici" di John Skipp; e "Pilgrims to the Cathedral" di Mark Arnold. Come il Libro di sangue e Book of the Dead, Silver Scream è un'altra raccolta fondamentale nella storia dello splatter. 86 "Sinema" di Ray Garton. In Silver Scream a cura di David J. Schow (Tor Books, New York, 1988). 87 Slice di Rex Miller (Onyx Books, New York, 1990). Chaingang ritorna in questa diretta continuazione del popolare Slob di Miller. Questa volta il killer da un quarto di tonnellata (che è sopravvissuto al tragico epilogo di Slob e si è rimesso in salute nelle fogne di Chicago) insegue Jack Eichord, il poliziotto che l'ha quasi ucciso. Più brutale del primo romanzo di Chaingang, Slice regala però al pluriassassino di Miller una nuova qualità: il cuore. Cosa verrà dopo: Chaingang innamorato? 88 Slob di Rex Miller (Signet Books, New York, 1987). 89 "Son of Celluloid" di Clive Barker. In Libro di sangue (Sonzogno, Milano 1993). 90 "The Splat Pack: Horror's Young Writers Spill Their Guts" di Jessie Horsting. In Midnight Graffiti, giugno 1988, pagg. 30-35. 91 "Splatter: A Cautionary Tale" di Douglas E. Winter. In Silver Scream a cura di David J. Schow (Tor Books, New York, 1988). 92 Splatter Movies: Breaking the Last Taboo of the Screen di John McCarty (St. Martin's Press, New York, 1984). 93 "The Splatterpunk: The Young Turks at Horror's Cutting Edge" di Lawrence Person. In Nova Express, estate 1988, pagg. 17-27. 94 Sunglasses After Dark di Nancy A. Collins (Onyx Books, New York, 1989). 95 "Take the A-Train" di Wayne Allen Sallee. In The Year's Best Horror Stories, Series XV, a cura di Karl Edward Wagner (DAW Books, New York, 1987). 96 "Threshold" di Wayne Allen Sallee. In New Blood, secondo numero.
Un bambino mutante viene tenuto in una cantina dai genitori, che lo addestrano per diventare un bizzarro gladiatore. Piuttosto simile al primo racconto di Richard Matheson padre, "Born of Man and Woman", ma con una decisa svolta splatterpunk. 97 "Waiting for the Barbarians" di Lucius Shepard. In Journal Wired, inverno 1989, pagg. 107-118. Shepard è stato etichettato come un "realista magico" e viene in genere associato con gli ambienti fantascientifici. A qualunque gruppo appartenga, opere come Life During Wartime e The Jaguar Hunter segnalano Shepard come una presenza adulta, di rilievo nel genere della fiction congetturale in genere socialmente ferma. (Infatti, tutto quello che riesco a digerire oggigiorno nel genere fantascienza sono persone come Shepard e William Gibson: Dio mi salvi dal diluvio di elfi, militaristi e varie riproduzioni di "Star Trek" che dominano attualmente la fantascienza!) "Waiting for the Barbarians" è un saggio che si incentra principalmente sul cyberpunk; lungo il cammino, Shepard tocca lo splatterpunk. Nonostante la sua brevità, è probabilmente l'occhiata più onestamente critica e chiara dello splat in cui io mi sia mai imbattuto. Devo dire che lo raccomando? Eccone un saggio: "Scrivere senza farlo diventare un atto di coscienza è essenziale per diventare un complice nella tragedia del tardo Ventesimo Secolo" (pag. 117). 98 "Il guaito dei cani battuti" di Harlan Ellison. In Biblioteca di Fantasy n. 4, Mondadori, Milano 1980. 99 Women of Darkness a cura di Kathryn Ptaceck (Tor Books, New York, 1988). Questa raccolta comprende "Hooked on Buzzer" di Elizabeth Massie e "Cannibal Cats Come Out Tonight" di Nancy Holder. 100 "The Yattering and Jack" di Clive Barker. In Clive Barker's Books of Blood vol. 1 (Sphere Books, Londra 1984; Berkley Books, New York, 1986). 101 The Year's Best Horror Stories, Series XIV a cura di Karl Edward Wagner (DAW Books, New York, 1986). In questo volume c'è anche "Rapid Transit" di Wayne Allen Sallee. 102 The Year's Best Horror Stories, Series XV a cura di Karl Edward Wagner (DAW Books, New York, 1987). Comprende "Take the ATrain", di Wayne Allen Sallee. 13 È UNA COPERTURA
Le ultime tre domande. Prima: innanzi tutto, perché Paul Sammon è stato attratto dallo splatterpunk? Be', non posso tirar fuori le solite ragioni. Per esempio: capisco profondamente lo straordinario piacere che c'è nel potere della trasgressione, nel portare le cose all'estremo. Una volta ero un musicista rock. E posseggo da una vita un amore e una familiarità con i generi dell'horror e della fantascienza, per non parlare di una conoscenza enciclopedica sbalorditiva della cinematografia. La verità però è qualcosa di assai più personale, e molto più privato. In genere, a me piace lo splatterpunk perché accetto l'idea che il male interessa enormemente tutti noi. In maniera specifica, so che il male non è solo personificato, ma casuale; capirete, il caos e il terrore sono stati i compagni della mia infanzia. Durante gli anni della mia formazione (fine Cinquanta e primi Sessanta) ho passato moltissimo tempo nelle Filippine, e sono cresciuto in diverse installazioni militari americane. Durante questo periodo mio padre lavorava per i servizi di spionaggio militari — per essere esatti, per l'Unità di Supporto di Controspionaggio della Marina — e tanta vicinanza a questo lavoro essenzialmente gratificante ma molto violento (per non parlare degli incontri giornalieri con il Terzo Mondo, dato che non ero un bambino che stava molto a casa) hanno forzatamente alterato la mia visione del mondo. Ho visto il mio primo cadavere prima di aver compiuto otto anni. A dodici ho visto i medici legali raccogliere il cervello di un suicida da un battiscopa. Prima di aver compiuto tredici anni ho assistito in prima persona agli effetti dell'oppio e dell'assuefazione ai barbiturici. A quindici anni avevo già sparato con una mitragliatrice Thompson, sapevo levarmi di torno gli adescatoli e avevo toccato la carne di persone annegate. In quei giorni le Filippine erano un paese aperto a tutto (lo sono ancora) e i discorsi che si facevano a tavola vertevano sulla prostituzione infantile, l'incesto e la morte su sedia elettrica. Ogni giorno assistevo alle conseguenze di quegli atti, specialmente per la gente che ne era coinvolta. Respiravo l'odore della loro merda, sparsa per paura o per la morte. Sentivo le loro bugie, le loro grida. Ascoltavo le loro risate. Il silenzio. Le lacrime. Inutile dirlo, quando finalmente ritornai a una comoda esistenza di classe
media negli Stati Uniti, provai un bel po' di shock culturale. (Perché gli americani non lasciavano le armi nei guardaroba dei ristoranti? I filippini lo facevano). Non importa. Quei giorni nelle Filippine mi sono rimasti dentro, e gliene sono grato. Mi hanno insegnato presto che la bestia umana è veramente capace di tutto, sia esso squallido o trascendentale. E così ho vissuto la mia vita. La sola esistenza per me è preziosa... so cosa portare con me nel buio. Come lo splatterpunk. Ecco perché lo adoro. Seconda domanda: in primo luogo perché curare un libro intitolato Splatterpunk o scrivere un saggio come "Fuorilegge"? Questa è facile da rispondere, brevemente e dolcemente. Il mio intento iniziale con "Fuorilegge" (un titolo che si riferisce allo spirito anarchico e al cosciente voltafaccia nei confronti dei limiti della legge e dell'ordine che, secondo me, è il cuore segreto dello splatterpunk) era semplicemente un tentativo di scrivere una panoramica informata e informativa sul soggetto. Ne sentivamo il bisogno da parecchio. Spero di esserci riuscito. E infine, lo splatterpunk è morente, o morto? Be'... forse ha ragione Charlie Grant. Forse lo splatterpunk è un genere morto. O forse muterà in qualche nuova forma d'arte, lasciando dietro di sé una distruzione pionieristica (già noto la frase "nuovo horror" dove prima si usava "splatterpunk"). Al contrario, la parola splatterpunk potrebbe entrare nella coscienza del pubblico come un virus sovversivo. Potrebbe continuare ad attaccare il corpus traditionis, continuare ad attrarre nuovi scrittori, e continuare a guadagnare terreno (anche se nel passato è successo che nel momento in cui un termine generico è entrato nella coscienza del pubblico, era stato già oltrepassato proprio dal gruppo che lo aveva ideato). Addirittura lo splatterpunk potrebbe diventare un giorno un'etichetta familiare per il pubblico come è oggi la tanto temuta "fantascienza". Chi lo sa? Una cosa è certa. La potenza che alimenta gli atteggiamenti splatterpunk — coraggio, energia, gioia, esplicità — stanno per morire come il rock'n'roll. O come l'umanità stessa.
Ciò che ha di meraviglioso lo splattepunk è che è continuo cambiamento. I migliori scrittori splatter — anche quelli che scrivono solo racconti tipo splatter — mostrano una crescita incredibile libro dopo libro, racconto dopo racconto. E questo smentisce il mito dello splatterpunk che attira solo un campo molto ristretto. In senso reale, lo splatterpunk è una letteratura mutante, una fiction in costante stato di flusso. E così deve essere. Herbert Read, uno dei maggiori fautori inglesi del movimento surrealista e modernista, ha scritto che "l'arte non è mai trasfissa. Il cambiamento è la condizione per cui l'arte rimane arte." Il che pone sotto una luce diversa le argomentazioni di Grant, non credete? E lo splatterpunk — o comunque sarà chiamato il prossimo anno — sarà sempre un genere di confronto. Potremmo citare numerosi esempi, citare capitoli e versi, riguardo alla natura dell'arte, essenzialmente di provocazione. Ma prendiamo per esempio niente di meno che Salman Rushdie, che potrebbe cominciare a spingerci verso una visione finale dello splat. Dopotutto, Rushdie è un uomo ben addentro agli aspetti controversi — per non dire pericolosi per l'esistenza — della letteratura. In quest'era in cui il Congresso americano cerca di sottrarre fondi a quegli artisti che ritiene possano essere "offensivi", in quest'età di minoranze ultraconservative che forzano le loro filosofie su una maggioranza troppo passiva, è edificante incontrare qualcuno con l'intelletto, l'equilibrio e l'integrità di Rushdie. Il passo seguente, tratto da un discorso di Harold Pinter all'Institute of Contemporary Art di Londra del 6 febbraio 1990 (quando Rushdie era ancora nascosto per salvaguardare la sua stessa vita dagli iraniani, infuriati per il suo libro I versetti satanici) è preso dalla lezione di Rushdie "Niente è sacro?". E mentre il testo si rivolge specificamente alle responsabilità del romanzo in genere, Rushdie avrebbe potuto scriverlo facilmente per lo splatterpunk. ...mentre il romanzo risponde al nostro bisogno di meraviglia e comprensione, ci porta anche notizie crude e sgradevoli. Ci dice che non ci sono regole. Non elargisce comandamenti. Siamo noi che dobbiamo farci le regole come meglio possiamo, e cambiarle durante il percorso. E ci dice che non ci sono risposte: o, meglio, ci dice che le risposte vengono più facilmente, e sono meno affidabili, delle domande. Se la religione è una risposta, l'ideo-
logia politica è una risposta, allora la letteratura è una domanda; la grande letteratura, che pone domande straordinarie, apre nuove porte nella nostra niente. Lo splatterpunk ha aperto una nuova porta nella casa della fiction dell'orrore. No, ce l'hanno sbattuta dentro. E gli attuali proprietari di quella casa, i gentili "arrivati" che si sono ingrassati e si sono fatti comodi e sicuri con i loro possedimenti, non ne sono molto contenti. Avrebbero dovuto saperlo. Perché ci sono sempre stati — e ci saranno sempre — dei fuorilegge. Los Angeles Marzo-maggio 1990 Per Luis Bunuel Titolo originale: Outlaws (1990) TI SPUTO IN FACCIA: I FILM CHE MORDONO Chas. Balun Nel mio saggio Fuorilegge sottolineo l'impatto dei film splatter sullo splatterpunk. Questo cinema "umido" e fecondo come Festa di sangue, La notte dei morti viventi, Non aprite quella porta, Suspiria, e praticamente tutto del regista italiano Lucio Fulci (Zombi II, Tu vivrai nel terrore!, L'aldilà, The Gates of Hell) ha ovviamente, e irrimediabilmente, influenzato i parametri dei racconti splatter. E allora i film che escono di questi tempi, montagne sanguinanti di bobine che stanno insidiosamente corrompendo un'intera nuova razza di protosplatterpunk? Il film di horror spinto, ad alto impatto emotivo, è diventato genere a sé, con una serie entusiastica di festival (il Weekend dell'Orrore di Fangoria), pubblicazioni specializzate (Gorezone), e fanzine (Shock Xpress) che sostengono avidamente questa folle subindustria evidentemente. Uno dei migliori giornalisti di questo settore chiazzato di sangue è Chas. Balun, il Joe Bob Briggs dei film splatter. L'opera di Balun apparve per la prima volta in brevi fanzine e, più tardi,
in periodici di larga diffusione (Fangoria). Sin dall'inizio si distinse dagli altri. Era una persona che non solo era versata nella materia ma che, ovviamente, amava quel mestiere. E ancor di più, Balun apprezzava l'indecenza presente in ciascuna di quelle atrocità cinematiche. Non parliamo nemmeno del sistema a Quattro Stelle. Certo, Balun valutava il merito globale di un film. Ma in un attacco di genio demente inventò anche il "Gorescore", che, come lo definì Balun stesso, "non si occupa di altro che della quantità di sangue, cervella, viscere, bava, muco, vomito e altri preziosi fluidi corporali assortiti versati, sparsi o gettati durante il corso del film." Secondo il sistema di valutazione di Balun, piccole gemme di depravazione come Doctor Butcher M.D. meritano un "dieci", mentre Voglia di tenerezza si prenderebbe un bello "zero". A parte il sistema di voto Gorescore (che è apparso in forma di libro pubblicato autonomamente e che riaffiora di tanto in tanto come misurazione standard), Chas. Balun ha operato come curatore sia per la fanzina di film splatter Deep Red sia per il libro compagno, The Deep Red Horror Handbook. E l'autore di Horror Holocaust e del recente romanzo splatter Ninth and Hell Streets. Nonostante la materia, Chas. Balun è un critico informato, che combina l'entusiasmo di un ammiratore con la ricerca di un accademico. "Ti sputo in faccia" illustra nei dettagli l'ultima stirpe di film splatter da vedere, e come tale funge da guida portatile per gente alla ricerca di emozioni forti — e dei loro confratelli spirituali, gli appassionati di splatterpunk — ovunque essi siano. Ogni scena ti guarda diritto negli occhi — e sputa! Africa: Blood & Guts (1972) Alcuni film non vengono concepiti per intrattenere una platea. Molti sono concepiti per essere dei clisteri... per entrarti dentro, profondamente, nelle parti morbide, e girarti sottosopra le viscere. In molti casi, il regista non cerca nuovi seguaci o appassionati: dai suoi spettatori vuole PAURA, REPULSIONE, RIBREZZO E REAZIONE. Non chiede di piacervi o di farvi piacere il suo lavoro. Ma lancia una sfida, forse persino un avvertimento, a qualsiasi spettatore potenziale: GUARDATE QUESTO FILM A VOSTRO RISCHIO E PERICOLO! Sono i film che rispecchiano maggiormente le caratteristiche di questo filone, illustrando fino a che punto possa arrivare il pubblico prima di "abbandonare la nave". Molte di queste opere sono deliberatamente volgari,
offensive e incredibilmente violente così da garantire quasi sempre la nascita di un culto. Sono film troppo volgari e crudi per essere ignorati. Non sono bestioline addomesticate, ammansite: sono selvaggi, pericolosi, e MORDONO! La produzione di horror contemporaneo, abituata da lungo tempo a essere classificata in categorie come "Delitti di bambini", "Conta i cadaveri", "Avvicinati e colpisci", "Taglia e gioca", "Splatter" ecc. ha creato un'altra genealogia bizzarra, spesso allarmante, che minaccia stupri cinematografici alla Du Champ, — "La sposa spogliata (e sviscerata) dai suoi fidanzati". Questi film dell'orrore, destinati a un pubblico d'elite disprezzati dalla critica ufficiale, riescono quasi sempre a colpire nel segno. Non si scusano e non si aspettano misericordia. Non vengono fatti prigionieri. Il registra non segue alcuna regola. Le convenzioni cinematografiche in genere vengono abbandonate a favore di un cinema-verità ridotto all'osso, che rende la platea complice dell'azione. Questi lavori sono quasi sempre spogli, minimalisti e da quattro soldi tanto da apparire degli anti-film; sono un grido primitivo e rabbioso dei cineasti piuttosto che un prodotto cinematografico certificabile da vendere sul mercato. In molti casi, questi film non possono essere distribuiti per la pubblica visione nelle sale. Alcuni sono semplicemente troppo esagerati, troppo oltraggiosi, perché offrono una tale paurosa sfilata di depravazione, perversione e sado-feticismo umano che nessuno, se non i più coraggiosi o i più folli, ne tentano la difesa. Film come Last House on Dead End Street, che presenta sequenze prolungate e disinibite di scudisciate, umiliazioni varie, torture e morti morbose, possono attendersi poca solidarietà dagli spettatori alienati da innocui e sicuri film splatter come Venerdì 13, Incubo a Elm Street o persino L'alba dei morti viventi o La casa. C'è una famigerata sequenza nel film Last House on Dead End Street che sfida praticamente ogni forma di commento critico. Una vittima, dopo essere stata dileggiata, ripetutamente umiliata e percossa, è costretta a inginocchiarsi davanti a una donna seminuda che ha una zampa di cervo che le esce dalla lampo dei jeans. Dietro di lei c'è un altro folle che le immobilizza la testa tra un paio di corna di cervo, piazzate a mo' di corna di diavolo. Questa sola scena è sufficiente per farvi strabuzzare gli occhi e spalancare la bocca finché... il ragazzo non viene costretto a copulare oralmente con lo zoccolo infernale in maniera particolarmente disgustosa. Ma il peggio deve ancora venire. Questi registi non sono certamente il genere di persona che viene invita-
ta a seminari di aspiranti talenti cinematografici e a cui viene chiesto di tenere una conferenza su "la metafora della cocaina". Questa è gente pericolosa, amici. Spesso però la reazione più immediata e universale del pubblico a questa sfacciata franchezza, a questa deliberata provocazione, è: "Perché sto guardando questa schifezza?" Infatti, molti di questi orrori nichilistici hanno costretto anche gli appassionati più convinti a riesaminare il loro senso della moralità. Forse il valore maggiore di film come I Spit on Your Grave, Maniac, I Hate Your Guts, o Henry pioggia di sangue è che provocano un esame di coscienza e ti costringono a tirar fuori una mano... per poi tagliartela. Questi film generano sempre una risposta estremamente carica nel pubblico, sia che vengano attaccati con veemenza, o difesi con riluttanza. Gli spettatori sono costretti a confrontarsi con sensazioni estremamente violente, anche se spesso ambivalenti, nei confronti del vero intento e dei propositi dei realizzatori di questo genere. Dato che i film dell'orrore possono essere prodotti a buon mercato con minimi mezzi, scantinati a poco prezzo come set, stelline senza nome e troupe cinematografiche inesperte, i registi spesso hanno l'opportunità di fare qualsiasi cosa vogliano, purché attraggano e mantengano l'attenzione della sala. Molti vengono incoraggiati a caricare i loro film con un'infinità di sollecitazioni e soggetti che incitano alla violenza per evitare il peggior crimine che ogni film di cassetta possa commettere in una società controllata dai media: essere ignorati. Siate blasfemi, perversi, violenti oltre misura, violate i tabù, ma, per l'amor di Dio, NON SIATE NOIOSI. Molti giovani registi ambiziosi, che più tardi sono riaffiorati come autori di successi più ortodossi, hanno accettato la sfida e nei loro primi lavori ci hanno presentato materiale rozzo, intransigente e penetrante destinato a essere denigrato e criticato, innalzato e vilipeso, ma mai ignorato. Il pubblico, a dire il vero, è rimasto sconvolto e disturbato da film come L'ultima casa sulla sinistra, Non aprite quella porta e I Spit on Your Grave... ma non ha mai dimenticato il film. Anche le critiche più rabbiosamente negative e virulente scritte su questi film spesso agiscono come un boomerang, e alla fine servono solo ad aumentare la curiosità e a informare il pubblico, stimolano le chiacchiere, alzano il profilo del film e migliorano il suo potenziale di marketing. Non aprite quella porta, I Spit on Your Grave e Basket Case hanno usufruito di revival in videocassetta grazie ad alcune critiche particolarmente avvilenti, anche se molto quotate, avanzate da vari critici giornalistici. Quando Rex Reed definì il film meravigliosamente cor-
rotto di Frank Henenlotter Basket Case come "il film più disgustoso che io abbia mai visto" non intendeva certo gridarlo ai quattro venti, una chiamata alle armi che sarebbe stata disseminata su tutte le videocassette e i manifesti del film come un importante riferimento di vendita. I cecchini superstar come Gene Siskel e Roger Ebert dovrebbero addirittura ricevere dei compensi sulle vendite per la loro involontaria promozione di film quali L'ultima casa a sinistra, I Spit on Your Grave e Venerdì 13. Ricordatevi le regole: NON BISOGNA ESSERE IGNORATI. In ogni caso, è stato forse un bene, dopotutto, che film come I Hate Your Guts, Last house on Dead End Street, Roadkill: The Last Days of John Martin o Nekromantik non siano mai caduti nelle mani sbagliate. C'è anche la possibilità, anche se esigua, che i critici che si avventano sui film "splatter" possano semplicemente avere un'idea sbagliata sul film, il genere e i suoi appassionati. I film difficili come Henry pioggia di sangue, di John McNaughton (1986) pongono un uguale dilemma morale sia ai critici sia agli appassionati che hanno un atteggiamento impassibile e imparziale nei confronti della morte violenta. L'omicidio viene presentato in termini alquanto prosaici e concreti: una specie di lavoro part-time integrato perfettamente con il resto della vita. E il protagonista, nonostante sia uno psicopatico pronto a scatenarsi e un killer spietato, è ritratto, nonostante tutto, come l'eroe di fatto del film. Certo, tortura e uccide donne, ma in realtà è un bravo ragazzo che ha sempre un momento per rivolgere un complimento a una cameriera timida e offrire sia un'amichevole partita a carte sia un orecchio solidale e attento ai meno fortunati di lui. È fieramente leale, insolitamente generoso e veramente timido e di buone maniere; cioè, quando non sta ammazzando qualcuno. Henry è in realtà quasi un'anomalia in questo subgenere tanto denigrato. È un film di grande effetto, pieno di scene girate professionalmente con la telecamera in movimento, puntualizzato da un montaggio intelligente e da effetti sonori e musica ossessivi, spronato da una sceneggiatura accattivante e provocante. Gli attori sono insolitamente bravi, a volte vulcanici, e la rappresentazione predominante e intrigante di Michael Rooker è sorprendentemente credibile. Henry è, per molti versi, un esempio cinematografico imbarazzante e pericoloso nel suo genere. Nonostante molti film si avvicinino raramente all'elevato livello di maestria presente in un'opera come Henry, pochi soffrono per la mancanza di esperienza tecnica. Infatti, questo è un aspetto della produzione di un film che permette, e a volte beneficia, di attitudini amatoriali, minimalistiche.
La maggior parte dei registi non ha bisogno di sentirsi dire di operare all'interno degli stretti confini delle produzioni tradizionali, e molti vengono apertamente incoraggiati ad "oltrepassare" deliberatamente le tradizioni tipiche del genere. Dato che la maggior parte di questi film hanno budget molto al di sotto delle poche centinaia di migliaia di dollari, il rischio è minimo; di conseguenza, molti produttori permettono alle loro troupe di seguire i loro istinti, sperando segretamente che il maniaco celato dietro alla telecamera possa sfornare un altro "classico" o un "capolavoro della mezzanotte". Nonostante ciò, molti di questi sforzi sembravano destinati a un fato molto più lontano, perduto in un qualche punto della zona intermedia tra la distribuzione e il mercato. Molti cauti distributori temono la reputazione che potrebbero guadagnarsi promuovendo attivamente un film i cui punti chiave includono umiliazione delle donne, torture feticistiche, mutilazioni ad animali, deviazioni sessuali e killer impuniti e sociopatici. I buoni produttori e gli specialisti del marketing hanno agilmente evitato molti degli elementi "di cattivo gusto" o inaccettabili della loro produzione montando delle campagne pubblicitarie che sono intelligentemente fuorvianti, apertamente illusone o schiettamente fasulle. La Jerry Gross e la Hallmark Productions sono due società che hanno spesso trasformato le avversità in vantaggi. Quando nessuno prestava attenzione a un polpettone indigeribile intitolato Day of the Woman, la Gross gli cambiò il titolo in I Spit on Your Grave e lo celò dietro a un'ingannevole campagna pubblicitaria che gridava alla "vendetta" e prometteva che "CINQUE uomini" sarebbero stati smembrati, fatti a pezzi e bruciati fino a diventare irriconoscibili. Non importava che fossero solo quattro e che nessuno fosse mai "smembrato" o "bruciato", perché nessuno sembrò notarlo e la versione video divenne un successo mostruoso. La Gross è responsabile anche di altri furti del genere, inclusa l'accoppiata del sonnolento Voodoo Blood Bath (1964), un comune bianco e nero, re-intitolato I Eat Your Skin con I Drink Your Blood (1972), come: "DUE GRANDI HORROR DI SANGUE PER FARVI CONTORCERE LE BUDELLA!" La Gross rimosse inoltre chirurgicamente grossi spezzoni dell'ambizioso e premiato documentario di Jacopetti e Prosperi, Africa addio (1967) trasformandolo nel summenzionato film. "Questa è la vera Africa! Dove nero è bello! Nero è brutto! Nero è brutale". La Hallmark promise anche di distribuire il materiale con diverse campagne d'effetto che gridavano "Può un film andare TROPPO OLTRE?", "SICURAMENTE IL PIÙ ORRIPILANTE MAI PRODOTTO" e "IL
PRIMO FILM CENSURATO CON UNA V PER LA SUA VIOLENZA." La Hallmark ha guadagnato punti con la geniale trovata di fornire al pubblico di Mark of the Devil un sacchetto per il vomito, un'esperienza cinematografica che, garantiva, avrebbe "rivoltato lo stomaco". Nonostante l'apparente sagacia di queste campagne, la Hallmark in realtà stava solo riciclando diversi concetti che altri avevano già impiegato. Il film Color Me Blood Red (1964) di Herschell Gordon Lewis avvertiva che occorreva "cercare di ricordare a voi stessi che è solo un film." Apparentemente la Hallmark pensava che avessero veramente raggiunto dei buoni risultati e quindi la frase "per evitare di svenire....continuate a ripetervi....è solo un film..." apparve su due dei suoi "house" film, L'ultima casa a sinistra (1972) e The House That Vanished (1974), e poi di nuovo sulla locandina di Don't Open the Window sempre della Hallmark, una riedizione americata di Let Sleeping Corpses Lie/Living Dead at the Manchester Morgue di Jorge Grau. Bene, bravi. Sacchetti per il vomito, avvertimenti per non svenire e per gli sforzi di stomaco, segnalazioni di "V" e sfide al pubblico si sono rivelati d'effetto nel passato, ma oggi, con l'abbondanza di brutture crude e dirette, sorge un problema promozionale più difficile. Come si fa a vendere/ingraziare/attrarre il pubblico perché veda Nekromantik (1988) di Jorg Buttgereit, un racconto contorto e mostruoso di sevizie su cadaveri, assassinii di lolite degeneri che fa sembrare un sadico come Ed Gain un tipo simpatico? STATE LONTANI DA QUELLA CASA ACCANTO AL LAGHETTO VICINO AL PARCO SULLA STRADA SENZA USCITA La maggior parte dei film più sconcertanti di oggi debbono almeno un breve cenno alla pellicola L'ultima casa a sinistra la quale, a sua volta, deve almeno lo stesso e forse molto di più al film di Ingmar Bergman La fontana della vergine (1960), vincitore dell'Academy Award. L'ultima casa ha fornito poi sia il modello che l'ispirazione per legioni di esperti dai budget inesistenti che hanno ripreso pedissequamente lo scenario di umiliazionesevizia-vendetta che aveva funzionato così bene nel film di Craven. Per i dieci anni che seguirono, nelle case della zona continuarono ad accadere cose bruttissime. L'ultima casa sulla sinistra II venne distribuito presto, ma con l'originale aveva in comune solo il nome. Era in realtà una manovra non tanto intel-
ligente per mascherare l'abbondanza di morti di Twitch of the Death Nerve di Mario Bava (1972, conosciuto anche come Carnage, Bay of Blood) per lo xenofobo pubblico americano. The New House on the Left (1977, anche The Night Train Murders), di nuovo senza alcun riferimento all'originale, fu un rivisitazione tedesca che narrava di uno stupratore assassino che tormentava e torturava le sue vittime a bordo di un treno. Non violentate Jennifer (1977), una produzione canadese, risultò essere un film di cassetta diretto dal cavallo da soma del genere, William Fruet (Funeral home, Spasms). Brenda Vaccaro (lei, dalla voce rauca come carta vetrata) caccia uno sciatto gruppo di idioti sbavanti condotti dall'irreprensibile Don Stroud, mentre il suo ragazzo frignante ed effemminato se la fa sotto dalla paura. Una delle produzioni più terrificanti nell'ambito dei film sul tema "l'inferno in casa" è senza dubbio Last House on Dead End Street (1977), un film profondamente scioccante e selvaggiamente misantropo. Diretto da un giovane studente di cinematografia di New York di nome Roger Watkins sotto la firma pseudonima di "Victor Janos", questa Last House è veramente infernale. Conosciuta anche più brevemente come Tunnel dell'orrore questo film è una versione vigorosa del solito stupro compiuto da negri con furia virulenta e rivoltante. Un aspro e rabbioso Terry Hawkins, fresco di un anno di galera per un reato minore di droga, vuole diventare produttore. "Voglio fare dei film" dice, "qualcosa di veramente particolare. Sono pronto per qualcosa che nessuno ha mai sognato. Gliela farò vedere; gli farò vedere cosa sa fare Terry Hawkins." E riesce bene a mantenere la sfida. Anche gli squallidi tipi del giro porno con cui ha avuto a che fare sono pronti per qualcosa di nuovo. Sono stanchi delle noiose cretinate contorte che dirige di solito, e chiedono "qualcosa di veramente diverso." E Terry tira fuori "qualcosa di veramente diverso", un film duro: anche se fa attenzione a camuffare le sue vere intenzioni sia alla troupe che al potenziale omicida, parte della sua promessa di "far vedere loro qualcosa che nessuno ha mai sognato." Ciò che segue è un'intensa, dettagliata cavalcata di crudeltà che include frustate selvagge, strangolamenti, assassinii, sezionamenti, trapanature e sesso simulato con zoccoli di animali. In una delle scene più atroci, un vero pezzo cinematografico veramente terrificante, da incubo, una donna viene legata a una sorta di tavolo operatorio e ripetutamente violentata da un'intero gruppo di straccioni ridacchianti e mascherati che la colpiscono ripetutamente sul viso con uno scalpello e le martorizzano le
gambe con una sega. Alla fine si accaniscono su di lei fino a sbudellarla, e le sue viscere lucide e brillanti vengono sollevate perché tutti possano ammirarle e applaudirle. Il film termina con prolungate umiliazioni, e infine la morte, del succhiazoccoli, che riceve, come colpo di grazia, una lobotomia con un Black & Decker. Proprio con lo stesso tocco di oltraggio morale represso, alla fine una voce fuori campo studiatamente cupa aggiunge questo commento: "Terence Hawkins (e altri) sono stati in seguito arrestati e stanno scontando una condanna di 999 anni nel penitenziario di stato". Comunque, fino a quel momento, il film non mostra assolutamente alcun senso di equilibrio morale. Last House on Dead End Street si dimostra particolarmente irritante per il modo in cui sfuoca i limiti tra la registrazione, l'incitamento e la partecipazione a un atto di violenza. Altri film, come Snuff di Michael e Roberta Findlay, Effects (1980) di Dusty Nelson, Special Effects di Larry Cohen e Videodrome (1983) di David Cronenberg hanno affrontato la materia in modo simile, ma nessuno è stato mai così pericolosamente diretto e preoccupante come Last House on Dead End Street. Non entrate in quella casa, del 1980, distribuito in un'ondata di film del genere "non rispondete/guardate/aprite", si distingue per essere, forse, il peggiore della serie. Il lavoro è insolitamente ben fatto, a volte addirittura notevole, e diretto magistralmente da Joseph Ellison. Si sarebbe forse rivelato un successo minore da "cult", se avesse evitato la sottocorrente sordida e fastidiosa dell'abuso sui bambini, che scappa fuori in continuazione dalle scene. Una madre malata punisce ripetutamene suo figlio tenendogli le braccia su un fornello acceso, e sapete una cosa? Lui finisce per crescere malato e godere nel dare fuoco alle ragazze nella sua camera da letto-forno crematorio rivestita d'acciaio. Molte delle morti lente e tortuose vengono presentate con dettagli duraturi e deliziosi; anche se questo nostro antieroe incendiario alla fine riceve la giusta punizione (stile Maniac), il senso di giustizia biblica è effimero. La scena conclusiva del film mostra un altro bambino maltrattato, che minaccia di ricominciare lo stesso circolo vizioso. Nonostante il suo lustro tecnico, una messa in scena agghiacciante e un trucco essenziale, è veramente troppo difficile ammettere di aver apprezzato un film che trae la sua ispirazione cinica dal cronico abuso sui bambini. Davis Hess, certamente uno dei più memorabili criminali dello schermo, nella serie delle Case evoca l'inferno in un ennesimo domicilio nel film La
casa sperduta nel parco di Ruggero Deodato. Qui Deodato merita un riconoscimento per l'intuizione nella scelta del cast; la troupe dell'italiano King John Morghen (detto il Cannibale), assieme a Hess, crea uno spaccato di patologia sociale a cui è difficile resistere. Morghen questa volta è un ritardato farfugliante e Hess continua a fare ciò che gli riesce meglio, rendendoci felici che sia soltanto un film... soltanto un film. A metà degli anni Ottanta diventò chiaro che tutte le cose più brutte che si potessero fare in una casa erano state fatte, e il sub-genere ricevette l'avviso di termine in forma di due sonnolenti, banali film presentati da Sean Cunningham, l'originale La casa e il suo patetico sequel La casa di Helen. EROI DELL'ORRORE PER LA GENERAZIONE DELL'ODIO Una manciata di psicopatici cinefili, specialmente quelli della scuola di annientamento automatico dei killer "a pioggia", come Michael Meyers o Jason Voorhees, sono riusciti ad attrarre uno stuolo fedele di seguaci in tutto il mondo che rispettano la logica rettile di protagonisti prima ammazza/poi fai le domande. Freddy Krueger, una volta pedofilo disgustoso e assassino, è ora un'istituzione di per sé, nonché il più famoso assassino comico del mondo. Krueger è adorato e venerato da milioni di persone, e riesce facilmente a generare succosi proventi a otto cifre trattando una vasta gamma di prodotti come film, video, TV, libri, dischi, poster, bambole, guanti, maschere, cappelli e figurine di gomme da masticare. Una vera Icona-Psico per gli anni Ottanta. Mentre Krueger e altri hanno dimostrato cosa ci vuole per elevare assassini di massa a passatempi nazionali, altri psicopatici del grande schermo non dovranno mai preoccuparsi di dover nominare un tesoriere per i club dei loro ammiratori. Mai. La fantasia violenta, infiammatoria e razzista di Robert A. Endelson, I Hate Your Guts (1977) (da non confondere con il lungometraggio di Roger Corman, The Intruder, del 1961), presenta un trio di evasi a caccia di neri le cui avventure vi faranno chiedere come ha fatto questo film a vedere anche solo la luce di un raggio di un proiettore... da qualsiasi parte... in qualsiasi momento. Ingannevolmente ben fatto, gioca come un calderone particolarmente disgustoso finché i tabù cominciano a sfaldarsi sotto la forza inarrestabile di uno tra i più virulenti e degradanti commenti incitanti al razzismo mai espressi in celluloide. E gli spasmodici epiteti non si limitano nemmeno alla famiglia di colore tenuta in ostaggio, perché tra i tre eva-
si ci sono sia un asiatico sia un ispanico, che alludono convenientemente a un odio razziale che non conosce limiti. Al di là del dialogo crudo e tagliente, I Hate Your Guts calpesta ancora altri piedi quando ritrae la morte, mediante frantumazione del cranio, di un ragazzo i cui sussulti agonizzanti vengono filmati fino all'ultimo spasimo. Nonostante il film si concluda con un ovvio accenno da poco prezzo alla morale (la polizia circonda la casa, ma lascia che la famiglia assediata si goda la sua vendetta), I Hate Your Guts rimane un lavoro cinematografico risibile, talmente sfruttato da risultare quasi impossibile da difendere. The Driller Killer (1979) di Abel Ferrara, rappresenta un pittore di New York, affatto carismatico, tenebroso e tutto preso di sé (interpretato da Ferrara con lo pseudonimo di "Jimmy Layne") che riesce facilmente ad allontanare da sé praticamente chiunque conosca — la ragazza, il padrone di casa, i vicini, il suo agente, e il suo pubblico — e poi, per divertimento, li trapana. Occasionalmente sanguinolento ma raramente esplicito, il film ha conquistato notorietà nel Regno Unito durante un'epurazione di "brutture video" splatter, quando fu dileggiato da molti dilettanti del giro praticamente come I Spit on Your Grave. Nel 1980, con Maniac, il consumato attore caratterista Joe Spinell si cimentò con un ritratto angoscioso di uno squallido individuo frignante che scotenna autostoppisti, ma la lurida, misogina incoerenza macellaia e piagnucolante del film scoraggiò presto molti potenziali amatori. Nonostante le manchevolezze di Spinell come autore (co-sceneggiò, produsse e interpretò il film) il lavoro contiene in effetti diverse sequenze di impressionante efficacia, intrise di un potere perverso e innegabile. Anche se né i fan né i produttori avevano mostrato molto interesse per un seguito, Spinell cercò molte volte, ma senza successo, di far risorgere il suo beneamato, misantropo personaggio, che degenerò poi nel Dandy Frank Zito. Dopotutto, quel tizio riusciva a strangolare, accoltellare, fare a pezzi e scotennare di giorno e poi finire senza sforzi in un appuntamento con una grossa bomba sexy (Caroline Munro) di notte. Un vero "Maniaco per tutte le Stagioni". In seguito Spinell produsse Mister Robbie: Maniac 2, una breve pellicola promozionale diretta da Buddy Giovinazzo (Combat Shock), che rassomigliava in maniera sorprendente a The Psychopath, un sonnolento film su un tormentato ospite di un programma per ragazzi che cerca vendetta contro i genitori che abusano dei propri figli. L'idea non prese mai piede, ma Spinell rifiutò di arrendersi. Anni dopo,
quando finalmente fu programmato l'inizio di una produzione su questo solitario eroe maniaco, un seguito quasi legittimo che Spinell aveva elaborato con il giovane regista texano Tom Rainone, Joe tirò le cuoia. Proprio tre giorni prima della sua trionfale ripresa. La vita è crudele. Molti altri registi si scostarono dal mito dell'assassinio psicopatico cinematografico e trassero invece ispirazione scorrendo giornali e riviste alla ricerca di titoli che urlavano: "Madre uccide il figlio e se stessa", "Figlio percosso e messo al forno", o "Strano suicidio sull'autostrada". Il regista Buddy Giovinazzo aveva già messo insieme un folto archivio di ritagli di giornale che riportavano i tragici problemi di molti reduci del Vietnam molto prima che il suo successo cult, Combat Shock, arrivasse davanti alle cineprese. Giovinazzo, un regista ferocemente indipendente e intraprendente, si impressionava davanti a titoli di giornale come "Reduce del Vietnam uccide moglie e figli", o "Sei morti dopo la rivolta dei reduci del Vietnam" e decise di fare qualcosa. "Queste storie" ha detto Giovinazzo "sembrano così banali. Non sappiamo niente sul perché accadono, né niente su queste persone." Per tutta risposta Giovinazzo scrisse, produsse e diresse American Nightmares, offrendo il film come tesi di laurea al College di Staten Island. In seguito Troma comprò il film, lo rieditò e ne distribuì una versione ridotta dal titolo di Combat Shock. Entrambe le pellicole offrono uno scenario crudo, disilluso e corrotto in cui un reduce disoccupato (interpretato convincentemente dal fratello di Buddy, Ricky) si autodistrugge violentemente in un crescendo estenuante e indimenticabile che comprende una famigerata sequenza in cui un bambino viene cotto in un forno, attenuata da Troma per assicurarsi solo una "R" alla censura. Il film di Giovinazzo rimane un'esperienza distruttiva, vivida e snervante che vi farà saltare i nervi molto prima che venga sparato l'ultimo colpo. È anche una visione unica, altamente carica, un grido feroce contro la guerra e i suoi ricordi, un'occhiata sconvolgente a un'apocalisse familiare. Nonostante Troma scegliesse di porre sottotono o ignorare semplicemente molte delle vere forze del film, promuovendolo come un "thriller d'azione e di avventura" (riproducendo sulle locandine inesistenti scene stile Rambo), dobbiamo complimentarci con Kaufman e la troupe per aver rischiato consapevolmente con un lavoro assolutamente non commerciale e senza compromessi che era già stato rifiutato da più di cinquanta festival cinematografici.
Un altro film ugualmente sconvolgente, Henry pioggia di sangue di John McNaughton, era stato buttato fuori praticamente da tutti eccetto che dai festival cinematografici, ma si guadagnò un titolo per notorietà e popolarità quando venne proiettato al Chicago Film Festival del 1986; da allora è apparso solo brevemente nelle fasce notturne televisive e messo in onda in alcune occasioni speciali. Molti potenziali distributori non sono stati in grado di venire a patti con la sua miscela incandescente di furia omicida, abusi sessuali, matricidi, incesti e torture e sono stati ulteriormente scoraggiati dall'attitudine freddamente distante e approssimativa nei confronti dell'anti-eroe titolare. E non c'è da stupirsene: paragonato ai vari relitti umani che fanno parte del suo vicinato, Henry è un tipo decente, persino accattivante. Con poche, notevoli eccezioni, naturalmente. Già dall'inizio Henry era destinato a suscitare grane. Non solo è liberamente basato sui racconti della vita vera di un certo Henry Lee Lucas, un bastardo osceno e senza denti che aveva affermato di aver ucciso più di trecento persone durante una furia durata dieci anni, ma sia McNaughton che il co-sceneggiatore Richard Fire hanno scelto di aggiungere altre spiacevolezze immaginarie per potenziare ulteriormente questa miscela esplosiva di fatti, feticismo e fantasia. Molti distributori, inizialmente interessati, improvvisamente desistettero quando il film si guadagnò dalla censura della MPAA una "X". Normalmente la MPAA fornisce al produttore del film incriminato una lista di suggerimenti e proposte di tagli da fare, ma chiaramente il caso di Henry li esasperò. Al film venne attribuita una "X" per il suo "tono generale" e la MPAA insistette che era impossibile tagliare il film per potergli attribuire una "R". Un McNaughton chiaramente frustrato spiegò nelle interviste successive che era come se "ogni frammento fosse putrido... come un ologramma o qualcosa del genere." McNaughton si appellò al giudizio della censura, sottomise di nuovo il film al giudizio della MPAA e venne ricompensato con un'altra "X". McNaughton venne di mala voglia costretto a dichiararsi d'accordo con la MPAA — il film non poteva essere tagliato per ricevere una "R". Dopo anni di alterchi, alla fine Henry venne scelto dalla MPI Home Video che progetta di distribuirlo nella sua forma originale e non censurata. In realtà, Henry si merita abbondantemente la sua "X". Proprio come si capisce dalla sua fama, non gira intorno alla tanto temuta "X", flirtandoci innocentemente: ci va pesante e se la merita tutta nel primo paio di minuti. Pochi, incluso il suo regista, potrebbero controbattere in buona fede la giu-
stizia del livello di censura proposto. Nonostante molta della violenza venga presentata fuori dallo schermo o dopo il fatto, sia l'intensità che l'impatto degli assassinii viene conservato pienamente. Le riprese lente, dettagliate, estenuanti, rivelano un panorama orrendamente contorto di carneficine umane: vittime strangolate, strozzate, uccise e poi fatte a pezzi. La maggior parte delle volte queste scene ripugnanti suggeriscono cose molto peggiori di ciò che ci viene mostrato. Nei momenti iniziali del film, la scena che segue un omicidio particolarmente vizioso e ripugnante la dice lunga sulla possibile crudezza delle immagini a venire. Si può desumere che questa è probabilmente la scena che ha fatto cadere in disgrazia il film: ed è un salto lungo. Dopo aver presentato un montaggio particolarmente ben fotografato e orchestrato di mutilazioni già avvenute, la cinepresa glissa lentamente da una stanza all'altra, rivelando una scena da rivoltare lo stomaco per la sua impareggiabile carica di violenza: una donna seduta su un water, braccia e gambe divaricate e legate, la biancheria intima fatta a pezzi, con una bottiglia conficcata in gola. Dei flashback sì inseriscono a mo' di commento nella scena e udiamo gli ultimi momenti di agonia della donna. È veramente una scena abominevole, e ci si sente come dopo aver ricevuto un cazzotto nello stomaco. È un colpo basso e improvviso che ti forza la bile su per la gola. Da quel punto in poi, farete meglio a tenervi pronti per il peggio... e Henry ve lo propone senza pietà, puntualmente. Nonostante la violenza, sia implicita sia esplicita, sia sufficiente per far guadagnare al film una certificazione di "X", proprio sotto la superficie ribollono costantemente altri elementi ugualmente infiammabili. In Henry, il sesso è sempre accoppiato con la violenza, l'abuso e la perversione. Praticamente ogni personaggio nel passato ha subito una qualche forma di violenza sessuale. La madre di Henry lo vestiva da femminuccia e lo costringeva a guardare mentre lei si scopava una lunga fila di spasimanti. "Era una puttana" spiega Henry "ma non gliene faccio una colpa. Non è quello che ha fatto, ma come lo ha fatto." Accidenti. Il compagno di stanza di Henry, Otis (Tom Towles) sbava dietro alla sua stessa sorella che, a sua volta, era stata violentata dal padre. La violenza è spesso esacerbata da queste correnti sessuali devianti, specialmente nel caso della sequenza più orripilante e sanguinolenta del film, l'assassinio di Otis, l'amico di Henry. Henry ritorna a casa per trovarlo di umore veramente rivoltante, fatto come una pigna e pronto a far porcate con la sorellina; il parossismo assassino che segue può essere paragonato
solo al prolungato, estenuante attacco con un coltello che precede il doppio omicidio in Suspiria di Dario Argento. Henry vi fa sentire l'acciaio che scivola nelle costole; l'angolo basso della cinepresa praticamente forza la partecipazione alla sequenza. Nonostante Henry abbia ampiamente dimostrato di essere uno psicopatico patentato, McNaughton sceglie di filmare a una sicura distanza morale e trattiene il giudizio, persino quando viene ucciso e smembrato dal suo migliore amico. McNaughton non offre scuse, e dà poco per spiegare quanto è successo. Anche se alla fine del film la conta dei omicidi da lui compiuti sale a due cifre, si continua a provare una specie di rispetto per Henry. Forse è qui il pericolo più grande del film. McNaughton ha disegnato il ritratto enigmatico e profondamente sconcertante di un assassino vizioso e imprevedibile che rappresenta chiaramente una minaccia per tutti, ma continua a rifiutare di condannarlo. Henry rimane un trionfo... del suo genere. Tradisce completamente il fatto di essere stato girato in 16 mm., in un mese e per meno di 125.000 dollari. I suoi valori tecnici e di produzione non temono critiche e da allora in poi il calibro dell'interpretazione non è stato mai più visto in un film di quel tipo. E Michael Rooker, che da allora ha partecipato a film come Otto uomini fuori e Mississippi Burning, ha creato il ritratto di uno psicotico cinematografico più indimenticabile e stratificato da quando Roberts Blossoms conciò qualcuno per le feste (le ha date di santa ragione) con il suo demone ispirato da Gain nel sottovalutato e raramente visto Deranged (1974). Henry, il film, è veramente un assassinio: un assalto frontale e incisivo che provoca la platea, più che incoraggiarla. Sinceramente, il più pericoloso film del genere esistente. Il celebre poeta mistico inglese William Blake disse che "la strada degli eccessi conduce al palazzo della saggezza". Non possiamo certo biasimarlo, il ragazzo. Fu quasi duecento anni prima che il regista tedesco Jorg Buttgereit filmasse Nekromantik (1988). Forse il film che scorre e fa male risponde meglio al gentile ammonimento di George Bernard Shaw, che diceva che: "È brutto sia ottenere più di ciò che hai contrattato sia ottenere meno". In entrambi i casi, Nekromantik potrebbe dimostrarsi il successore logico e veramente post-modernista di schifezze tabù nichilistiche come L'ultima casa a sinistra, Non aprite quella porta, la serie di Ilsa, la belva delle SS, e
Bloodsucking Freaks. Il problema con Nekromantik, però, è che è un film talmente schifoso che una difesa appassionata potrebbe essere equivalente ad avallare orge, smembramenti di cadaveri e battute suicide come elementi integrali di questo genere catarsi in atto. Buttgereit ha lanciato la moda del film assolutamente crudo e disperato: sono fauci nere spalancate che minacciano di ingoiarvi tutti interi. Se qualche genio del nuovo genere blatera di voler ripropone la famosa frase adulatoria detta da Stephen King su Clive Barker, giudicato "il futuro dell'horror" e conclude con "si chiama Jorg Buttgereit"... allora lascio perdere. Apparentemente Nekromantik è costruito su un concetto dannatamente semplice: scopati merce morta e ti ritroverai a essere un suicida qualsiasi, con un coltello nelle viscere e il cazzo insanguinato e appiccicoso che spunta tra le mutande. In realtà, Buttgereit ha ritratto un tenero amore romantico tra due potenziali necrofili che debbono accontentarsi della loro raccolta di parti umane racimolata in vari incidenti stradali fino a che non arriva roba grossa. Ma allora, dopo aver finalmente completato il tanto agognato ménage à trois pieno di vermi, il dolce odore della putrescenza si fa sentire rapidamente e la ragazza lascia la città con il signor Cibo per i Vermi e una doppietta. Il ragazzo, confuso dalla pena e perseguitato dalla solitudine, cerca sesso con i viventi ma scopre di non esserne più attratto. Per un po' l'omicidio diventa di rigore, fino all'epilogo masturbatorio, lamentoso e autodistruttivo. Molti degli elementi più untuosi del film sono tenuti relativamente sotto controllo dal trucco Play-Doh, mentre altre sequenze spesso si risolvono in colpi di scena risibili e offensivi, come dimostra la gratificante uccisione in scena e la scuoiatura dettagliata di un coniglio, mostrata due volte (una volta al reverse) per ottenere il massimo della repulsione. Nonostante il tono malevolo e nero del film, Buttgereit mostra un'astuzia calcolata che riesce a non far soccombere Nekromantik alla sua stessa volgarità. Durante una scena ripresa in un cinema in cui si proietta un misogino spezzone senza nome, il nostro piccolo eroe necrofilo è così abbattuto e schifato dall'azione che esce rapidamente dal cinema disgustato. Il film è anche considerevolmente illuminato e quasi redento da una chicca eccezionale alla fine. Molto dopo che l'ultima stilla di sangue si è seccata e incrostata sul membro morto, il nostro necrofilo non è ancora in grado di riposare in pace. Il film termina con l'agghiacciante immagine della scarpa a tacco alto di una donna che spinge una pala nella terra fresca della tomba, annunciando silenziosamente che, davvero: "la morte non è che il princi-
pio". Abbiamo paura di cosa potrebbe fare Buttgereit la prossima volta. Dopo Nekromantik, appare positivamente civilizzato persino il lurido grottesco cannibale urbano di Jim Van Bebber in Roadkill: The Last Days of John Martin... quasi. Van Bebber è un giovane e ambizioso cineasta dell'Ohio il cui primo lungometraggio di fiction, Dead Beat at Dawn, risultò alquanto promettente, sulla linea di un giovane Wes Craven, Tobe Hooper, o Sam Raimi. Se le brevi pellicole promozionali di Roadkill: The Last Days of John Martin e di Charlie's Family possono fungere da indicazione della strada che intende intraprendere, questo regista nel decennio che sta per arrivare sarà da tenere a mente. Roadkill è una discesa di quindici minuti, sorprendente, anche se orribile e demente, nell'inferno privato di uno deficente gonfio di birra che odia i furfanti, fa il finto tonto e passa dagli animali alla gente senza guardarsi indietro. John Martin vive in una topaia sporca e infestata dai ratti, adorna di carcasse di animali e di maschere di pelle umana, un frigo per la bumba e una televisione petulante che incita sempre soliloqui sputacchianti da un tizio che potrebbe insegnare qualcosa a Travis Bickle sulle "autoattenzioni morbose". Il film termina quando Martin passa dagli assassinii in strada a quelli "normali", smembrando e decapitando una vittima mentre cuoce la ragazza nuda della vittima stessa in un forno per il pollo sopra al fornello. Nonostante la durata relativamente breve, Roadkill mostra più viscere e palle di quanto abbiano fatto nel corso di anni altre fatiche del genere. Ha tutte le carte in regola per essere il Non aprite quella porta degli anni Novanta. In attesa di fondi per completare Roadkill, Van Bebber dirige Charlie's Family, un'occhiata dall'interno al clan dei Manson durante l'estate del 1969, quando "Helter Skelter" diventò qualcosa di più di una semplice canzonetta del "White Album" dei Beatles. Charlie's Family minaccia di diventare personale e ravvicinato, avventurandosi in un territorio proibito precedentemente ignorato dalle banali e sconcertanti fesserie dei media che condussero a film televisivi tanto tiepidi da sembrare la serie "La paurosa estate di Laverne e Shirley". Il regista Van Bebber sarà una piacevole novità in un genere divenuto obsoleto per i troppi film splatter "puliti e sobri" che gratificano e spadroneggiano con un falso senso del terrore sulla loro platea composta princi-
palmente di adolescenti. Non cercate di vedere uno dei film di cui vi ho parlato pensando tra di voi, con atteggiamento condiscendente, di essere un duro che ha visto di tutto. Non è così. E se persistete con la vostra delusione, potreste imbattervi in qualcosa che vi ricaccerà in gola quel risolino. I bastardi di questo genere dimostrano che la PAURA VERA non è morta. Titolo originale: I Spit in Your Face: Films That Bite (1989) FINE