Heinrich Harrer
Sette Anni Nel Tibet Sieben Jahre in Tibet © 1997
Premessa Tutti i nostri sogni cominciano in gioventù...
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Heinrich Harrer
Sette Anni Nel Tibet Sieben Jahre in Tibet © 1997
Premessa Tutti i nostri sogni cominciano in gioventù... Da bambino le imprese degli eroi dei nostri giorni mi entusiasmavano molto di più delle materie scolastiche. Gli uomini che erano andati a esplorare nuove terre o che con fatica e abnegazione si erano preparati a diventare campioni di qualche sport, i conquistatori delle grandi vette: questi erano i miei modelli, e imitarli era lo scopo che mi prefiggevo. Mi mancavano però i suggerimenti e la guida di consiglieri esperti, così persi molti anni prima di rendermi conto che non si devono inseguire più obiettivi nello stesso momento. Tentai di praticare diversi sport senza raggiungere quel successo che mi avrebbe potuto appagare. Alla fine decisi di concentrarmi sui due che ho sempre amato per il loro stretto legame con la natura: lo sci e l'alpinismo. Trascorsi quasi tutta la mia infanzia sulle Alpi e occupai la maggior parte del mio tempo libero dalla scuola arrampicando d'estate e sciando d'inverno. La mia ambizione veniva stimolata da piccoli successi, e nel 1936, dopo duri allenamenti, riuscii a guadagnarmi un posto nella squadra olimpica austriaca. Un anno più tardi vinsi la gara di discesa ai campionati mondiali studenteschi. Nel corso di queste competizioni sperimentai l'ebbrezza della velocità e la stupenda soddisfazione di una vittoria, per ottenere la quale avevo dato tutto ciò che avevo dentro. Ma battere avversari umani ed essere apprezzato dal pubblico non mi appagavano. Cominciai a pensare che l'unico obiettivo stimolante fosse quello di misurarmi con le montagne. Così per molti mesi mi esercitai sulle pareti rocciose e sui ghiacciai, fino a sentirmi pronto, al punto che nessun precipizio mi sembrasse ormai insuperabile. Questo non vuol dire che io non abbia avuto le mie difficoltà da affrontare: ho dovuto pagare un tributo alla mia inesperienza. Una volta precipitai per più di cinquanta metri, e solo per miracolo non ci lasciai la pelle: naturalmente incidenti più lievi sono successi di continuo. Il ritorno alla vita universitaria era sempre per me un grande strazio. Ma Heinrich Harrer
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non avrei dovuto lamentarmi. Ebbi l'opportunità di studiare ogni sorta di opere sull'alpinismo e sui viaggi, e, non appena lessi questi libri, cominciai a concepire, via via sempre più distintamente e determinatamente, il desiderio di realizzare quello che rappresenta il sogno di tutti gli alpinisti: fare parte di una spedizione nell'Himalaia. Come osava un ragazzo sconosciuto, quale io ero, trastullarsi con sogni così pretenziosi? Perché, per riuscire a raggiungere l'Himalaia, o si era veramente ricchi o si apparteneva alla nazione i cui figli, in quel momento, ancora avevano la possibilità di essere mandati in servizio in India. Per uno che non fosse né britannico né facoltoso c'era una sola strada. Si doveva sfruttare una delle rare opportunità aperte anche agli outsider e fare qualcosa che rendesse impossibile trascurare le proprie richieste. Ma quale tipo di performance poteva permettermi di entrare a far parte di questo ristretto gruppo? Ogni vetta alpina era stata scalata molto tempo prima, anche i peggiori crinali e le più dure pareti rocciose avevano ceduto di fronte all'incredibile abilità e audacia degli alpinisti. Ma un attimo! C'era ancora un precipizio invitto, il più alto e il più pericoloso di tutti: la parete settentrionale dell'Eiger. Questi 2063 metri di roccia a picco non erano mai stati scalati fino in cima. Tutti i tentativi erano falliti, e molti uomini avevano perso la vita nel provarci. Un bel po' di leggende erano cresciute intorno a questa mostruosa parete montana, e alla fine il governo svizzero aveva proibito agli alpinisti di scalarla. Nessun dubbio che questa fosse l'avventura che andavo cercando. Se fossi riuscito ad aprirmi un varco attraverso le difese vergini della parete settentrionale dell'Eiger, avrei avuto il legittimo diritto, per come stavano le cose, di essere scelto per una spedizione nell'Himalaia. Meditai molto sull'idea di tentare questa impresa pressoché senza speranza. Come nel 1938, insieme con i miei amici Fritz Kasparek, Anderl Heckmaier e Wiggerl Vòrg, io sia riuscito a scalare la terribile parete è stato descritto in molti libri. Dopo questa avventura in autunno proseguii il mio allenamento, avendo sempre in testa la speranza di essere invitato a far parte della spedizione nel Nanga Parbat, programmata per l'estate del 1939. Sembrava però una speranza vana, visto che l'inverno era passato e non era successo niente. Altri erano stati selezionati per esplorare la fatale montagna nel Kashmir. A questo punto non mi rimaneva altro da fare che firmare, a malincuore, Heinrich Harrer
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un contratto per prendere parte a un film sullo sci. Le riprese erano quasi terminate quando ricevetti una telefonata inaspettata. Era il tanto desiderato invito a far parte della spedizione nell'Himalaia, che sarebbe dovuta partire entro quattro giorni. Non ebbi bisogno di rifletterci. Stracciai il contratto senza un istante di esitazione, tornai a casa, a Graz, trascorsi una giornata a preparare la mia roba e il giorno dopo ero in viaggio verso Anversa, passando per Monaco, con Peter Aufschnaiter, il leader della spedizione tedesca nel Nanga Parbat, Lutz Chicken e Hans Lobenhoffer, gli altri membri del gruppo. Fino a quel momento c'erano stati quattro tentativi di scalare quella montagna di 8125 metri, tutti falliti. Erano costati molte vite umane, così si era deciso di cercare una nuova via per salire. Questo sarebbe stato il nostro compito, mentre la scalata vera e propria era prevista per l'anno successivo. Nel corso della spedizione nel Nanga Parbat cedetti alla magia dell'Himalaia. La bellezza mozzafiato di queste gigantesche montagne, l'immensità di terre che dominano dall'alto, la singolarità della popolazione dell'India: tutto ciò creò come un incantesimo nella mia mente. Da allora sono passati molti anni, ma in tutto questo tempo non sono mai stato capace di tagliare per sempre con l'Asia. Come tutto ciò sia successo, e a che cosa abbia portato, è quello che tenterò di raccontare in questo libro, e siccome non ho alcuna esperienza come scrittore, mi limiterò a esporre i fatti.
Campo di prigionia e tentativi di evasione Alla fine di agosto del 1939 ebbe termine il nostro viaggio di ricognizione. Avevamo davvero trovato una nuova via per dare la scalata a quella cima, e stavamo aspettando a Karachi l'arrivo del piroscafo che doveva riportarci in Europa. La nave era in ritardo, e le nubi della seconda guerra mondiale si addensavano sempre più minacciose. Chicken, Lobenhoffer e io decidemmo allora di sottrarci comunque alla rete che la polizia segreta già cominciava a tenderci. A Karachi rimase soltanto Peter Aufschnaiter, che aveva preso parte al primo conflitto mondiale e si rifiutava di credere allo scoppio di un secondo. Avevamo intenzione di attraversare l'Iran, per poi raggiungere di lì la Heinrich Harrer
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nostra patria. Senza difficoltà riuscimmo a liberarci dei nostri «osservatori», e con una macchina sgangherata, dopo alcune centinaia di chilometri di deserto, raggiungemmo Las Bela, un piccolo principato a nordovest di Karachi. Ma là ci attendeva una brutta sorpresa: all'improvviso ci trovammo sorvegliati da otto soldati, con il pretesto che avevamo bisogno di protezione personale. Praticamente eravamo stati arrestati, nonostante la Germania e il Commonwealth britannico non fossero ancora in guerra. Accompagnati da questa scorta, tornammo ben presto a Karachi, dove rivedemmo il nostro Peter Aufschnaiter. Due giorni dopo l'Inghilterra dichiarò guerra alla Germania. Da allora tutto filò liscio come l'olio: non erano passati cinque minuti, che venticinque soldati indiani, armati fino ai denti, fecero la loro comparsa nel giardino del caffè dove eravamo seduti per prelevarci. Un furgone della polizia ci portò in un campo di prigionia circondato da filo spinato, già predisposto. Si trattava però di un semplice «campo di transito», perché dopo soli quindici giorni fummo portati nel grande campo di prigionia di Ahmadnagar, nei pressi di Bombay. Eccoci dunque ammassati sotto le tende e in baracche, fra le continue e agitate discussioni degli altri «ospiti». No, questo mondo differiva troppo da quello delle chiare, solitarie vette dell'Himalaia. Decisamente non era l'ambiente adatto a un uomo amante della libertà. Cercai quindi subito di darmi da fare, per preparare la via e l'occasione a un tentativo di fuga. Non ero, naturalmente, il solo a rimuginare simili propositi. Con l'aiuto di compagni anche loro intenzionati a evadere, furono messi insieme bussole, soldi e carte topografiche sfuggiti al controllo. Trovammo perfino il modo di sgraffignare alcuni guanti di pelle e una cesoia per tagliare il filo spinato. La sparizione di quest'ultima dal magazzino degli inglesi provocò una severa inchiesta, conclusasi però senza risultato. Convinti tutti della fine ormai prossima della guerra, continuavamo a rimandare l'esecuzione dei nostri piani, quando un giorno, all'improvviso, fummo trasportati in un nuovo campo. Un lungo convoglio di automezzi ci doveva scortare fino a Deolali. In ogni camion diciotto prigionieri con un solo soldato indiano di guardia, il cui fucile era assicurato al cinturone da una catena, affinché nessuno glielo potesse strappare. In testa, al centro e alla fine della colonna, molti autocarri erano occupati da sentinelle armate. Mentre eravamo ancora ad Ahmadnagar, Lobenhoffer e io avevamo già stabilito di fuggire, prima di essere trasferiti in un altro campo, dove Heinrich Harrer
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sarebbero potute sorgere nuove difficoltà per realizzare i nostri piani. Prendemmo quindi posto all'estremità dell'autocarro. Ci arrise la fortuna, perché la strada era piena di curve e spesse nuvole di polvere di tanto in tanto ci avviluppavano completamente. Questa circostanza ci doveva offrire l'occasione di saltare a terra inosservati e di scomparire nella giungla. Che la nostra guardia ci potesse pizzicare era improbabile, se non altro per il fatto che il suo compito principale pareva essere quello di sorvegliare il camion che ci precedeva. Ed ecco finalmente il grande momento. Saltammo giù, e io mi ero già nascosto in un cespuglio a una ventina di metri dalla strada, quando, con mio grande spavento, tutta la carovana si fermò. Fischi acuti, un vocio confuso e l'agitato correre delle guardie non lasciavano dubbi su quanto era accaduto. Lobenhoffer doveva essere stato scoperto, e poiché era lui che portava il sacco da montagna con tutto l'equipaggiamento, non mi rimase altro da fare che rinunciare al mio tentativo di fuga. Approfittando della confusione generale rioccupai il mio posto sull'autocarro, senza attirare l'attenzione dei soldati. Soltanto i miei compagni sapevano, ma loro naturalmente tacquero. Vidi allora anche Lobenhoffer: con le mani alzate davanti a una selva di baionette. Ero sconvolto: troppo grande era stata la delusione. Il mio povero amico non aveva alcuna colpa dell'accaduto. Per saltare giù dal camion più facilmente aveva tenuto in mano il sacco da montagna, il cui contenuto sobbalzando aveva fatto rumore. La nostra guardia se ne era accorta, e Lobenhoffer era stato ricatturato prima ancora di poter raggiungere la giungla protettrice. Imparammo da questa avventura una lezione amara, ma utile: in qualsiasi tentativo di evasione ognuno dei fuggitivi deve portare con sé un equipaggiamento completo. Nello stesso anno fummo trasferiti nuovamente. La ferrovia ci portò ai piedi dell'Himalaia, nel più grande campo di prigionia dell'India, a pochi chilometri da Dehra Dun. Un po' più in alto della città si trovava il soggiorno montano di Mussoorie, luogo di villeggiatura estiva degli inglesi e degli indiani benestanti. Il nostro campo era formato da sette grandi complessi, ciascuno circondato da un doppio recinto di filo spinato. Intorno vi erano altri due reticolati, e nel corridoio intermedio passavano sempre di guardia le sentinelle. Questa era per noi una situazione del tutto nuova. Finché eravamo rimasti segregati nei campi della pianura indiana, i nostri piani di evasione Heinrich Harrer
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avevano sempre avuto lo scopo di raggiungere una delle colonie portoghesi neutrali. Ma qui, qui avevamo davanti a noi niente meno che l'Himalaia. Che attrazione, per un alpinista, il pensiero di giungere attraverso i suoi passi fino al Tibet, che gli stava dietro le spalle! Quale meta finale pensavamo poi al confine giapponese, alla Birmania o alla Cina. Una simile evasione doveva però essere preparata con grande meticolosità. A quel tempo erano svanite anche le nostre speranze di una rapida fine della guerra, perciò mi dedicai sistematicamente a organizzare la nuova avventura. Una via di fuga attraverso l'India, densamente popolata, non si poteva prendere in considerazione, se non altro per il fatto che sarebbero stati assolutamente indispensabili molto denaro e la perfetta conoscenza della lingua inglese. Era quindi naturale che mi decidessi per lo spopolato Tibet e per l'Himalaia. Anche nel caso in cui il mio piano non fosse riuscito interamente, il rischio sarebbe stato compensato da un breve periodo di libertà fra i monti. Per prima cosa imparai un po' di indostano, di tibetano e di giapponese, per potermi far capire dagli indigeni. Poi divorai tutti i libri di viaggi che potei scovare nella biblioteca del campo e che trattavano dell'Asia, soprattutto delle regioni che probabilmente avrei dovuto attraversare. Ne trascrissi alcune parti e copiai le carte geografiche più importanti. Peter Aufschnaiter, anch'egli approdato a Dehra Dun, possedeva ancora il diario e le mappe del Nanga Parbat. Peter si dedicò con grande zelo a elaborare la spedizione, e con vivo senso di altruismo mi offrì tutti i suoi schizzi. Da parte mia, feci due copie di ognuno, una per la fuga e l'altra di riserva nel caso che l'originale fosse andato perduto. Altrettanto importante era però, dato il tipo di evasione progettata, mantenermi fisicamente il più allenato possibile. Dedicai perciò, quotidianamente, molte ore allo sport. Indifferente se il tempo fosse buono o cattivo, assolsi puntualmente il compito che mi ero imposto. E non poche notti rimasi sveglio per spiare e studiare le abitudini delle guardie. Mi preoccupava soprattutto un'altra difficoltà assai grave: avevo troppo poco denaro. Benché avessi già venduto tutto ciò che non mi era strettamente indispensabile, i soldi ricavati erano senz'altro insufficienti anche per le più modeste esigenze della vita nel Tibet, a prescindere del tutto dal denaro occorrente per la corruzione e i regali, che in Asia sono di rigore. Ciò nonostante continuavo a lavorare di buona lena e con metodo, e parecchi compagni che non progettavano una fuga mi furono di grande Heinrich Harrer
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aiuto nei preparativi. Nei primi tempi del mio internamento non avevo firmato alcuna dichiarazione di impegno concernente le licenze dal campo, per non sentirmi vincolato dalla mia parola d'onore nel caso si fosse presentata all'improvviso una buona occasione di evadere. Qui a Dehra Dun però lo feci, in quanto le «gite» si limitavano comunque alle immediate vicinanze del campo. In un primo tempo avevo progettato di fuggire da solo, per non essere obbligato a una solidarietà che avrebbe forse potuto pregiudicare le mie chance. Ma un giorno il mio amico Rolf Magener mi raccontò che un generale italiano aveva la mia stessa intenzione. Il suo nome non mi era sconosciuto, perciò Magener e io, una notte, scivolammo attraverso i reticolati fino alla sezione vicina, dove erano sistemati quaranta generali italiani. Il mio futuro compagno di fuga si chiamava Marchese ed era il tipico italiano. Aveva poco più di quarant'anni, figura slanciata, maniere affabili, ed era vestito, in base ai nostri parametri, in modo elegante. Ma fu soprattutto la sua costituzione fisica a farmi un'impressione favorevole. Ci si intendeva per il momento piuttosto maluccio. Lui non parlava tedesco, io non conoscevo l'italiano ed entrambi avevamo assai scarse conoscenze dell'inglese. Con l'aiuto di un amico le nostre conversazioni si svolgevano in un francese piuttosto incerto. Marchese mi raccontò della guerra in Abissinia e di un suo antecedente tentativo di evasione da un campo di prigionia. Per fortuna la questione del denaro non rappresentava per lui, che riceveva lo stipendio di un generale inglese, un problema. Aveva inoltre la possibilità di procurare per la nostra fuga oggetti che io non sarei mai stato in grado di ottenere. Ciò di cui invece aveva bisogno lui era un compagno che conoscesse l'Himalaia. Ci accordammo quindi in breve tempo, convenendo che io mi sarei addossato l'intera responsabilità del piano di evasione, mentre egli avrebbe provveduto al denaro e all'equipaggiamento. Parecchie volte sgattaiolai attraverso i reticolati per discutere con Marchese i singoli particolari, divenendo in questo modo un vero specialista nel superare gli ostacoli di filo spinato. Varie erano le possibilità di fuga, ma un sistema mi sembrava per il nostro caso il più indicato e promettente. I due recinti paralleli che circondavano il campo erano collegati, ogni ottanta metri, da un tetto di paglia a forma di cono che serviva alle sentinelle per proteggersi dal caldo sole indiano. Se Heinrich Harrer
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avessimo potuto scalare uno di questi tetti, avremmo superato di colpo entrambi i reticolati. Nel maggio 1943 tutti i nostri preparativi erano terminati. Denaro, provviste, bussole, orologi, scarpe e una piccola tenda facevano ormai parte del nostro equipaggiamento. Una notte, finalmente, decidemmo di osare. Sgusciai, come già tante altre volte, attraverso i recinti di filo spinato per raggiungere la sezione dove stava Marchese. Là era pronta una scala che avevamo fatto sparire durante un piccolo incendio scoppiato di recente nel campo. La appoggiammo al muro di una baracca e attendemmo nell'ombra. Era quasi mezzanotte, e dopo dieci minuti ci sarebbe stato il cambio della guardia. Lentamente, ma impazienti, le sentinelle camminavano su e giù. Passarono parecchi minuti prima che giungessero al punto da noi prescelto. In quel momento sorse la luna, che illuminò le piantagioni di tè. Le grandi lampade elettriche gettavano la loro breve, duplice ombra. Ora o mai più! Entrambe le sentinelle avevano raggiunto la massima distanza possibile da noi, quando mi raddrizzai e, afferrata la scala, mi lanciai verso il filo spinato. Dopo averla appoggiata sulla parte superiore del reticolato, vi salii e tagliai i fili destinati a impedire la scalata del tetto di paglia. Marchese, armato di una lunga pertica biforcuta, teneva aperta la breccia, per permettermi di arrivare sul tetto. Era stato convenuto che Marchese mi avrebbe seguito subito, mentre io con le due mani avrei dovuto tenere aperto il passaggio per lui. Ma egli non veniva: rimase indeciso per alcuni spaventosi secondi, ritenendo che per lui fosse ormai troppo tardi... e le sentinelle stavano avvicinandosi. Udivo già i loro passi. Allora non gli lasciai più il tempo di riflettere, e afferratolo sotto le ascelle lo issai con uno strattone sul tetto. Strisciando ci portammo dalla parte opposta e con un grande salto piombammo nella libertà. Tutto ciò non si era svolto molto silenziosamente, e le sentinelle si allarmarono. Ma mentre le loro prime fucilate tagliavano l'aria notturna, la fitta giungla ci aveva già inghiottiti. La prima cosa che fece Marchese fu abbracciarmi e baciarmi furiosamente, ma non era quello il momento per le effusioni di gioia. Razzi traccianti si innalzarono verso il cielo, e vicini segnali di fischietto svelarono che eravamo già inseguiti. Conoscendo bene la giungla intorno al campo, per averla studiata con cura durante le mie gite esplorative, ci Heinrich Harrer
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mettemmo a correre a perdifiato. Di rado ci servimmo delle strade, e aggirammo con estrema cautela i pochi villaggi che incontrammo lungo la via. Da principio i nostri sacchi da montagna non ci diedero fastidio, ma presto cominciarono a pesarci. In uno dei villaggi udimmo il rullo dei tamburi degli indigeni, e la nostra fantasia ci fece subito pensare a un allarme. Ed ecco una nuova difficoltà che in paesi abitati da bianchi non si può neppure immaginare. In Asia il sahib viaggia sempre accompagnato da servi e non porta mai neppure il più piccolo bagaglio. Come dovevamo dare nell'occhio noi due europei che attraversavamo a piedi la regione, carichi come muli!
Marciare di notte, nascondersi di giorno Decidemmo dunque di camminare di notte, perché gli indù hanno paura di avventurarsi nella giungla quando fa buio, a causa delle bestie feroci. Molto tranquilli non lo eravamo neppure noi, perché sui giornali avevamo letto spesso di tigri e di pantere che assalivano gli uomini e li divoravano. Alle prime luci dell'alba ci nascondemmo esausti in un avvallamento del terreno, dove ci fermammo tutto il giorno. Fra dormire e mangiare trascorse un'interminabile giornata sotto un sole rovente. Non vedemmo anima viva, se non in lontananza un pastore che per fortuna non si accorse della nostra presenza. Il peggio era che ciascuno di noi possedeva soltanto una bottiglia d'acqua che doveva bastare per un giorno intero. Nessuna meraviglia quindi se la sera, spossati dallo stare seduti e sempre vigili, non riuscivamo quasi più a controllare le nostre reazioni nervose. Volevamo procedere con la maggior rapidità possibile, e le notti ci sembravano troppo corte. Dovevamo trovare la strada più breve che attraverso l'Himalaia ci portasse nel Tibet, e questo ci sarebbe costato in ogni caso settimane di faticose marce, prima di poterci sentire al sicuro. Comunque, già la sera dopo la nostra fuga superammo il primo crinale, in cima al quale ci fermammo per una breve sosta. Mille metri sotto di noi brillavano le innumerevoli luci del campo di prigionia. Alle dieci si spensero di colpo, e soltanto i riflettori intorno al campo davano ancora un'idea della sua estensione. Era la prima volta nella mia vita che sentivo veramente che cosa volesse dire essere libero. Godemmo di questa meravigliosa sensazione, pur Heinrich Harrer
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pensando con dolore ai duemila prigionieri che dovevano continuare a vivere dietro i reticolati. Ma neppure qui avevamo il tempo di abbandonarci ai nostri pensieri. Dovevamo far presto e scendere nella vallata dello Jamuna, che ci era completamente sconosciuta. In una delle sue valli laterali, giunti a una stretta gola, non potemmo infatti proseguire e fummo costretti ad attendere il mattino. Il luogo era così deserto che ne approfittai per tingere di nero la mia barba e i miei capelli biondi. Mescolando del permanganato di potassio con un po' di colore marrone e di grasso conferii anche alle mie mani e alla mia faccia una tinta scura che mi faceva assomigliare in certo qual modo a un indù. Ciò era molto importante, perché se fossimo stati scoperti ci saremmo potuti far passare per pellegrini diretti al sacro Gange. Il mio compagno era già di natura abbastanza scuro da non dare nell'occhio, almeno a distanza. Non dovevamo naturalmente permettere che ci scrutassero più a fondo. Questa volta ci rimettemmo in cammino prima ancora che fosse scesa la sera. Presto fummo però costretti a rammaricarci della nostra decisione, perché d'un tratto ci trovammo davanti a dei contadini che piantavano riso. Mezzi nudi, stavano nell'acqua fangosa fino alle ginocchia e guardavano sbalorditi i due uomini carichi di roba. Con la mano ci indicarono un villaggio appollaiato sull'altura: evidentemente l'unica via di uscita dalla gola. Per evitare domande imbarazzanti continuammo quanto più rapidamente possibile il cammino nella direzione indicata. Dopo ore di salite e discese raggiungemmo finalmente il fiume Jamuna. Frattanto era scesa la notte. Il nostro piano prevedeva di costeggiare lo Jamuna fino al suo affluente Aglar e lungo questo di raggiungere lo spartiacque. Da lì non poteva essere lontano il Gange, che doveva condurci alla grande catena dell'Himalaia. Fino a quel momento avevamo camminato perlopiù a caso: solo di rado, lungo i corsi d'acqua, ci eravamo potuti servire di sentieri battuti da pescatori. Quella mattina Marchese era molto stanco. Gli preparai dei fiocchi di avena con acqua e zucchero, e dietro reiterate mie insistenze ne mangiò un po'. La regione purtroppo era quanto mai inadatta per un bivacco: vi brulicavano enormi formiche che morsicavano in profondità la carne. E poiché, malgrado la grande stanchezza, non riuscivamo a dormire, le ore non passavano mai. Verso sera mi sembrò che il mio compagno si fosse ripreso, e sperai che le sue condizioni fisiche fossero migliorate. Anch'egli era fiducioso di Heinrich Harrer
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poter affrontare gli strapazzi della marcia notturna. Ma poco dopo la mezzanotte crollò. Purtroppo non era in grado di sopportare un così prolungato sforzo fisico. Il mio severo allenamento sportivo mi fu allora di molto aiuto, perché spesso mi caricavo sulle spalle anche il suo zaino. Sopra ciascuno avevamo steso dei sacchi di iuta, come usavano qui, perché altrimenti il nostro equipaggiamento avrebbe destato subito dei sospetti. Le due notti seguenti risalimmo il corso dell'Aglar, guadandolo ogni volta che la giungla o immensi blocchi di pietra franati ci ostruivano il passaggio. Una volta, mentre stavamo riposandoci nel letto del fiume, passarono alcuni pescatori, senza accorgersi della nostra presenza. Un'altra volta, avendo incontrato di nuovo dei pescatori senza possibilità di nasconderci ai loro sguardi, chiedemmo loro, in indostano, alcune trote. Il nostro travestimento doveva essere abbastanza buono, perché quegli uomini non solo ci vendettero i pesci senza mostrare alcuna diffidenza, ma ce li cucinarono anche. Alle loro domande curiose fummo in grado di rispondere senza destare sospetti. A un certo punto si misero a fumare le loro orribili sigarette indiane, intollerabili per un europeo. Perfino Marchese, fumatore incallito, che non potendo resistere alla tentazione ne aveva chiesta una, dopo alcune boccate cadde svenuto. Per fortuna il suo malessere fu passeggero, e potemmo riprendere la nostra fuga. Più tardi ci imbattemmo in alcuni contadini che portavano in città del burro. Eravamo nel frattempo diventati più arditi, e li fermammo per pregarli di vendercene un po'. Uno di loro fu subito d'accordo, ma quando versò il burro ancora fuso dal suo vaso nei nostri, con quelle sue mani sporche e sudate, ci venne quasi da vomitare per il disgusto. Finalmente la valle si allargò, e il nostro cammino ci condusse attraverso campi di riso e di grano. Diventava però sempre più difficile trovare un buon nascondiglio per il giorno. Una volta fummo scoperti già di primo mattino e, poiché i contadini ci fecero domande troppo indiscrete, la miglior risposta ci parve quella di caricarci in fretta sulle spalle i nostri sacchi e prendere il largo. Non avevamo ancora trovato un buon nascondiglio, quando incontrammo otto uomini che con ripetuti richiami ci costrinsero a fermarci. Sembrava che la fortuna ci avesse abbandonati. Alle loro incessanti domande io rispondevo sempre che eravamo dei pellegrini provenienti da una provincia molto lontana. Dovevamo aver superato bene l'esame, perché dopo un po' quella gente ci lasciò proseguire Heinrich Harrer
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in pace. Non potevamo quasi crederci, e per parecchio tempo ci sembrò di sentire dietro di noi dei passi che ci inseguivano. Non era dunque stata una cattiva idea quella di «rinnovare» nel nostro ultimo nascondiglio il mio colore! Ma quella giornata sembrava stregata, e le emozioni si susseguivano. Alla fine giungemmo alla dolorosa conclusione che se anche avevamo attraversato uno spartiacque, eravamo tuttavia ancora nella regione fluviale dello Jamuna. E questo rappresentava una perdita di tempo di almeno due giorni. Così salimmo ancora. Arrivammo poi nei pressi di fitti boschetti di rododendri, che sembravano così spopolati da lasciar presagire una giornata tranquilla e la possibilità di una lunga dormita. Ma ben presto apparvero dei pastori e fummo costretti a trasferirci. Anche questa volta addio sonno. Le notti seguenti attraversammo regioni poco popolate. Dovevamo apprendere abbastanza presto perché quel luogo era così deserto: non c'era acqua. Soffrivamo a tal punto la sete, che una volta commisi un grosso errore che avrebbe potuto comportare gravi conseguenze. Scorsi una piccola pozza d'acqua e imprudentemente mi lanciai su quel liquido tanto desiderato, bevendone avidamente lunghe sorsate. Orribili gli effetti. Era una di quelle pozze d'acqua nelle quali i bufali, fuggendo il calore, sono soliti sollazzarsi per ore, e il cui contenuto principale non è pertanto acqua, ma urina! Ebbi una crisi di tosse e dovetti vomitare. Passarono parecchie ore prima che mi rimettessi da quel «ristoro». Poco dopo questo incidente la sete divenne così intollerabile da non poter proseguire: dovemmo sdraiarci, benché fosse ancora notte fonda. Alle prime luci dell'alba, scendendo da solo i ripidi pendii, andai a cercare dell'acqua, che trovai. I tre giorni e le tre notti seguenti furono leggermente migliori. Attraversammo foreste di conifere aride, ma fortunatamente deserte. Solo molto di rado scorgemmo qualche indù. Dodici giorni dopo la nostra evasione venne finalmente il grande momento: giungemmo alle rive del Gange. Neppure il più pio indù poté mai essere così emozionato alla vista del fiume sacro. La sua importanza non era per noi di carattere religioso, bensì molto pratico. Ormai avremmo potuto seguire la strada dei Pellegrini, risalire il Gange fino alla sua sorgente e diminuire gli strapazzi della marcia. Così almeno pensavamo. Non volevamo, giunti a questo punto, correre più alcun rischio. E ciò significava camminare soltanto di notte. Le nostre provviste erano nel frattempo paurosamente diminuite. Il Heinrich Harrer
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povero Marchese non era che pelle e ossa, tuttavia tenne duro. In quanto a me, mi sentivo per fortuna relativamente in forza e disponevo ancora di sufficienti riserve. Tutte le nostre speranze erano riposte nelle botteghe di tè e di viveri che avremmo trovato ovunque lungo la strada dei Pellegrini. Alcune di queste erano aperte fino a tarda notte, e un piccolo lumino a olio permetteva di riconoscerle. Dopo aver verificato il mio travestimento mi diressi alla volta di una di esse, ma non ero neppure ancora entrato che già ne fui scacciato con male parole. Mi si riteneva evidentemente un ladro. Benché assai spiacevole, il fatto in sé aveva anche il suo lato buono per il futuro: il mio travestimento era perfetto! Nella bottega successiva, appena entrato, misi in mostra tutto il mio denaro. Ciò fece una buona impressione. Poi raccontai che dovevo acquistare viveri per dieci uomini, per rendere plausibile la quantità di farina, zucchero e cipolle che intendevo comprare. I bottegai si interessarono più alle mie banconote che alla mia persona, e così, carico di provviste, me ne andai. Passammo una buona giornata. Finalmente potevamo saziarci, e la strada dei Pellegrini ci sembrò una vera passeggiata. Ma la nostra gioia non doveva durare a lungo. Durante la nostra sosta successiva fummo scoperti da uomini in cerca di legna. A causa del gran caldo Marchese era mezzo nudo. Era diventato così magro che gli si potevano contare le costole, e sembrava veramente un uomo malato. Naturalmente suscitammo sospetto, perché ci riposavamo all'aria aperta, lontano dalle usuali locande dei pellegrini. Gli indù si offrirono di ospitarci nella loro casa, ma rifiutammo per ovvie ragioni, prendendo come pretesto il cattivo stato di salute di Marchese. A quel punto se ne andarono, ma furono ben presto di ritorno. E questa volta non ci fu più alcun dubbio: ci avevano riconosciuti come fuggiaschi e tentavano di ricattarci. Raccontarono di un inglese che con otto soldati era alla ricerca di due evasi e che aveva promesso loro una buona ricompensa se fossero riusciti a procurarsi informazioni. Ma se avessimo dato loro del denaro, avrebbero taciuto. Non mi feci scoraggiare e sostenni di essere un medico del Kashmir, mostrando come prova la mia cassetta dei medicinali. Fu più efficace il gemere autentico del povero Marchese o la mia commedia? Fatto sta che essi scomparvero di nuovo. Le ore seguenti le passammo con la costante paura di vederli riapparire, accompagnati Heinrich Harrer
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magari da qualche pubblico ufficiale. Nulla accadde, per fortuna. In tali condizioni però le giornate non solo non erano un riposo, ma addirittura si rivelavano più massacranti delle notti. Non per i muscoli, bensì per i nervi in continua agitazione. A mezzogiorno la nostra borraccia era di solito vuota, e le ore pomeridiane, per la sete e la paura, erano interminabili. Ogni sera Marchese continuava eroicamente a marciare, e tutto procedeva bene fino a circa mezzanotte. A quel punto aveva bisogno di almeno due ore di sonno, prima di poter riprendere il cammino. Verso l'alba facevamo un bivacco, e dai nostri rifugi riuscivamo a scorgere la grande strada dei Pellegrini e il quasi ininterrotto fiume di devoti. Costoro erano spesso vestiti nelle maniere più strane, ma noi li invidiavamo lo stesso. Beati loro: non avevano alcun motivo di nascondersi da nessuno. Ogni anno, cioè soltanto nei mesi estivi, dovevano essere circa sessantamila i pellegrini che percorrevano quella strada... Ed eravamo felici di crederlo.
Strapazzi e privazioni: tutto invano Dopo una lunga marcia raggiungemmo verso mezzanotte la città santa di Uttar Kashi. Nei suoi stretti vicoli perdemmo ben presto l'orientamento. Marchese si sedette perciò con i sacchi in un angolo buio, mentre io tentai di ritrovare la giusta direzione. Attraverso le porte aperte dei templi si vedevano ardere lampade davanti a immagini di dei dai grandi occhi spalancati, e spesso con un rapido salto mi dovevo nascondere, per evitare di essere visto dai monaci che da un santuario passavano all'altro. Avevamo perduto più di un'ora, quando finalmente, dall'altra parte della città, ritrovammo la giusta via. Come avevo letto in molti libri, dovevamo tra non molto valicare la cosiddetta «frontiera interna». Questa corre a una distanza di centoduecento chilometri parallela al vero confine del paese, e per circolare nel territorio fra le due linee di demarcazione tutti - a eccezione della popolazione ivi residente - devono possedere un passaporto. Poiché ne eravamo privi, si rendeva necessaria la massima cautela per non incappare in qualche stazione di polizia o nelle pattuglie. La vallata che stavamo risalendo era man mano sempre più spopolata. Durante il giorno non incontravamo difficoltà a trovare dei punti dove Heinrich Harrer
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sostare, spesso anzi potevo abbandonare senza preoccupazioni il nostro nascondiglio per rifornirci d'acqua. Una volta osai addirittura accendere un piccolo focherello e cucinare fiocchi d'avena: fu questo il primo pasto caldo dopo due settimane. Ci trovavamo a un'altezza di circa 2000 metri, e di notte incontravamo spesso accampamenti di bhutia, i mercanti tibetani che d'estate esplicano il loro piccolo commercio nel Tibet meridionale e d'inverno si recano in India. Molti di essi trascorrono la stagione calda in piccoli villaggi situati oltre i 3000 metri, dove coltivano orzo. Questi accampamenti hanno una caratteristica piuttosto spiacevole: sono custoditi da cani tibetani assai forti e aggressivi, di media grandezza e dal pelo lungo. Noi li vedevamo qui per la prima volta. Una notte giungemmo in uno di questi villaggi bhutia che sono abitati soltanto d'estate. Faceva una certa impressione, con le sue case basse, i cui tetti, ricoperti da assicelle, sono tenuti fermi da grosse pietre. Subito dietro il villaggio ci attendeva però una sorpresa sgradevole: la regione appariva devastata, come dopo un'inondazione, e lungo il vorticoso torrente, causa della catastrofe, cercammo invano un ponte. Guadarlo era impossibile. Rinunciammo a ulteriori ricerche e decidemmo di nasconderci in osservazione, giacché non potevamo credere che la strada dei Pellegrini si interrompesse all'improvviso in questo punto. Infatti di prima mattina i pellegrini apparvero, e con nostra grande sorpresa attraversarono il torrente proprio là dove per molte ore di notte avevamo cercato invano un passaggio. Purtroppo non ci fu possibile scorgere in quale modo ciò avvenisse, perché un bosco ci impediva la visuale. Altrettanto strano e inspiegabile ci parve il fatto che già a metà mattinata l'afflusso dei pellegrini si interrompesse. La sera seguente rinnovammo il nostro tentativo di attraversamento nel medesimo punto. Impossibile! Finalmente mi balenò un'idea: si doveva trattare di un torrente che convogliava l'acqua dei ghiacciai. Questi torrenti vengono alimentati dalla neve e dal ghiaccio, e la massima quantità d'acqua scorre durante il giorno fino a tarda notte, ma di primo mattino il livello è molto basso. Era così, infatti. Allorché, alle prime luci dell'alba, ci ritrovammo davanti al torrente, vedemmo emergere dall'acqua i tronchi d'albero di un ponte primitivo. Senza perdere l'equilibrio passammo sull'altra riva. Purtroppo ci furono altri corsi d'acqua che fummo costretti a superare con Heinrich Harrer
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non minore fatica. Avevo appena finito di attraversare l'ultimo, quando sentii un grido: Marchese scivolando era caduto nell'acqua. Per fortuna riuscì ad aggrapparsi a un tronco d'albero, altrimenti la corrente lo avrebbe trascinato via e sommerso. Quando tutto bagnato ed esausto rimise piede sulla terraferma non ci fu verso di convincerlo a proseguire. Malgrado le mie insistenze di venire con me almeno fino al bosco vicino, egli mise ad asciugare la sua roba e cominciò ad accendere un fuoco. Per la prima volta mi pentii di non aver dato retta alle sue ripetute preghiere di proseguire da solo: sempre avevo insistito che dovevamo fuggire insieme. Mentre continuavamo a discutere ci si parò davanti un indù, che scorgendo indumenti e oggetti europei distesi in terra incominciò a rivolgerci un sacco di domande. Soltanto allora Marchese capì il pericolo della nostra situazione. In fretta mise tutto nel sacco, ma avevamo fatto solo pochi passi, quando un secondo indù di bell'aspetto, seguito da dieci uomini robusti, venne verso di noi. In un inglese impeccabile costui ci chiese di mostrargli i passaporti. Facendo finta di non capire, dicemmo di essere pellegrini provenienti dal Kashmir. Dopo aver riflettuto qualche istante, egli prese una decisione molto intelligente, ma che per noi significava la fine. Disse che due kashmiriani abitavano in una casa vicina: se fossimo stati in grado di conversare con loro, ci avrebbe permesso di proseguire il nostro viaggio. Quale disdetta infernale aveva fatto sì che due kashmiriani dovessero trovarsi proprio allora in quella regione? Avevo scelto quella provenienza proprio perché era molto raro incontrare in quel luogo nativi del Kashmir. I due uomini ai quali aveva alluso l'indù erano stati fatti venire quali tecnici per i danni causati dalle inondazioni. Quando ci trovammo al loro cospetto, capimmo subito che era giunto il momento in cui saremmo stati smascherati. Come eravamo d'accordo di fare in un caso del genere, Marchese e io cominciammo a parlare in francese. Subito intervenne l'indù nella medesima lingua, invitandoci ad aprire i sacchi da montagna. Quando vide la mia grammatica inglese-tibetana ci intimò di farci riconoscere. Convenimmo di essere fuggiaschi, ma senza svelare la nostra nazionalità. Il colloquio proseguì in inglese. Benché poco dopo ci trovassimo seduti in una stanza confortevole a bere del buon tè, io mi sentivo disperato. Era il diciottesimo giorno della nostra fuga, e tutte le fatiche e le rinunce erano state sopportate invano. L'uomo che ci aveva interrogati era l'ispettore forestale superiore del principato di Heinrich Harrer
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Tehri Garhwal. Aveva frequentato le scuole superiori in Inghilterra, Francia e Germania, aveva studiato economia forestale e conosceva perfettamente le tre lingue. Sorridendo si rammaricò della sua presenza, ma essendogli stata fatta la denuncia doveva compiere il proprio dovere. Quando oggi ripenso al gioco di circostanze che portarono al nostro arresto, devo proprio dire che fu ben più che normale sfortuna quello che ci capitò. Ma neppure per un minuto perdetti la speranza di riuscire a evadere di nuovo. Marchese però era in un tale stato di esaurimento, che mi dichiarò che non avrebbe più preso parte al mio nuovo tentativo. Amichevolmente mi cedette la maggior parte del suo denaro. Approfittai di quella sosta forzata per rimpinzarmi a dovere, perché durante gli ultimi giorni avevamo camminato quasi senza nutrirci. Il cuoco dell'ispettore forestale mi portava continuamente altro cibo e io ne facevo sparire sempre la metà nel mio sacco. La sera non era ancora calata quando, con il pretesto di essere molto stanchi, chiedemmo di poter andare a dormire. La porta della nostra stanza fu chiusa a chiave, e sulla veranda davanti alla finestra l'ispettore fece collocare il suo letto, per impedirci anche quella via di fuga. Appena si fu allontanato un momento facemmo finta, secondo quanto era stato convenuto in precedenza, di venire alle mani. Marchese urlava e imprecava, un po' a voce alta, un po' a voce bassa, e sembrava davvero che fosse scoppiata una violenta lite. Nel frattempo, con il sacco in spalla, saltai attraverso la finestra sul letto dell'ispettore e mi precipitai verso l'estremità della veranda. Si era fatto buio, e dopo aver atteso alcuni secondi, finché le sentinelle avessero doppiato l'angolo della casa, mi lanciai da un'altezza di quattro metri, in mano il pesante sacco. Il terreno non era molto duro e il contraccolpo non fu troppo violento. Rimessomi dalla caduta, dopo pochi istanti, saltato il muro del giardino, scomparvi nel bosco folto e nero. Ero libero. Intorno a me il silenzio. Malgrado l'emozione non potei trattenermi dal sorridere, pensando a Marchese che nella sua stanza, come convenuto, continuava a recitare la commedia, o all'ispettore che nel suo letto davanti alla finestra montava la guardia. Senza sapere come, mi ritrovai all'improvviso in mezzo a un gregge di pecore. Prima che potessi ritirarmi fui afferrato ai pantaloni da un cane, che si staccò da me soltanto perché gliene rimase in bocca un lembo. Preso dalla paura, mi precipitai lungo il primo sentiero che mi capitò sotto i Heinrich Harrer
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piedi, ma mi accorsi ben presto che saliva troppo ripidamente. Allora feci dietrofront, aggirai il gregge di pecore e continuai lungo un'altra strada. Poco dopo mezzanotte mi resi conto che mi ero smarrito di nuovo. Ancora una volta fui costretto a ritornare sui miei passi, correndo per un paio di chilometri: il mio vagabondare mi aveva fatto perdere quattro ore preziose, e già cominciava ad albeggiare. A un angolo della strada scorsi un orso a una distanza di venti metri, ma per mia fortuna continuò a trotterellare incurante della mia presenza. Fattosi giorno, mi nascosi, benché la regione sembrasse deserta. Ma io sapevo che prima di giungere al confine tibetano dovevo incontrare un villaggio. Solo al di là di questo vi era la libertà. Marciai tutta la notte successiva e raggiunsi un'altitudine di circa 3000 metri. Cominciai a meravigliarmi di non aver ancora scorto il villaggio. Secondo le mie carte doveva trovarsi sull'altra riva del torrente, e un ponte ne avrebbe dovuto segnare il passaggio. Con nuovo vigore e senza preoccuparmi continuai a camminare anche a giorno fatto. Questa fu la mia disgrazia. All'improvviso mi trovai davanti alle case del villaggio e a un gruppo di persone gesticolanti come forsennati. Il luogo era stato disegnato male sulle mie carte, e a causa dei miei due smarrimenti notturni i miei inseguitori erano riusciti a raggiungermi. Fui subito circondato, e l'intero villaggio mi guardava con curiosità e stupore. Mi invitarono ad arrendermi spontaneamente e venni condotto in una casa per rinfrescarmi. Qui incontrai per la prima volta i veri nomadi tibetani, che con le loro greggi di pecore portano sale in India, ricevendo in cambio orzo. Qui mi fu offerto il tè tibetano al burro con tsampa, una sorta di farina d'orzo arrostito che costituisce l'alimento principale di questo popolo, del quale più tardi anch'io mi sarei nutrito per anni. Quella volta però tanto il mio stomaco quanto il mio intestino protestarono energicamente contro tale cibo. Passai due notti in quel villaggio, il cui nome è Nelang. Benché progettassi nuovi tentativi di fuga e ne intravedessi anche qualche possibilità, mi sentivo per la prima volta troppo stanco e scoraggiato per tradurli in realtà. Il viaggio di ritorno, a paragone delle fatiche finora sopportate, fu un piacere. Le mie spalle non erano più gravate da pesi e ricevevo un vitto buono e regolare. Incontrai di nuovo Marchese, che in qualità di ospite dell'ispettore forestale si era trattenuto nella sua casa. Venni invitato Heinrich Harrer
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anch'io. Chi potrebbe descrivere la mia sorpresa quando, pochi giorni dopo, vidi comparire altri due evasi dal nostro campo e riconobbi in uno di questi il mio vecchio compagno di spedizione Peter Aufschnaiter? L'altro era un certo padre Calenberg. Nel frattempo avevo ricominciato a occuparmi seriamente di un nuovo tentativo di fuga. Strinsi amicizia con un indù della nostra guardia, che cucinava per noi e mi sembrava degno di fiducia. Gli affidai le mie carte geografiche, la bussola e il denaro, ben sapendo che l'imminente perquisizione avrebbe reso impossibile introdurre di nuovo nel campo le mie cose. Mi accordai con l'indù: nella prossima primavera sarei venuto a riprendermi tutto, e lui si sarebbe fatto dare una licenza a maggio per attendere il mio arrivo. Mi giurò solennemente che avrebbe mantenuto la parola datami. Il ritorno al campo di prigionia fu un amaro viaggio che sopportai soltanto nella speranza di un prossimo tentativo d'evasione. Marchese, ancora sofferente, fece il viaggio a cavallo. Ci fu anche una piacevole interruzione: fummo cortesemente invitati dal maharajah di Tehri Garhwal, che si dimostrò un gradevole anfitrione. Poi, di nuovo in cammino verso i nostri reticolati di filo spinato. Tutta questa avventura lasciò una traccia su di me. Un giorno, passando durante il ritorno al campo nei pressi di una fonte calda, vi feci un bagno. A un certo punto mi rimasero tra le dita intere ciocche di capelli. Il colore che avevo usato per sembrare un indù si era rivelato nocivo per il mio cuoio capelluto. Dopo questa depilazione involontaria e tutte le fatiche sostenute non pochi dei miei camerati stentarono a riconoscermi al mio arrivo al campo.
Una mascherata rischiosa «Avete tentato una coraggiosa evasione. Sono dolente di dovervi punire con ventotto giorni di arresto» disse il colonnello inglese che ci prese in consegna al campo. Avevo assaporato la libertà per trentotto giorni, ora ne dovevo scontare ventotto in isolamento, la punizione prevista per i tentativi di fuga. Ma poiché da parte inglese non si lesinava un certo riconoscimento cavalleresco al «coraggioso tentativo», non fui trattato con la consueta severità. Scontata la mia pena, appresi che Marchese aveva subito il medesimo Heinrich Harrer
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castigo in un'altra sezione del campo. In seguito trovammo il modo di scambiarci le nostre esperienze. Il generale italiano promise che per il mio prossimo tentativo mi avrebbe prestato di nuovo il suo aiuto, ma lui non sarebbe fuggito. Senza perdere neppure un giorno, cominciai subito a disegnare nuove carte geografiche e a valorizzare le esperienze fatte. Ero convinto che il mio tentativo questa volta sarebbe sicuramente riuscito. Tutto preso dai miei preparativi, l'inverno passò presto, e la «stagione della fuga» mi trovò perfettamente pronto. Questa volta volevo partire prima, per attraversare il villaggio di Nelang quando ancora non era abitato. Per niente sicuro che l'indù al quale avevo affidato le mie cose me le restituisse, mi ero procurato nuovamente gli oggetti più importanti. Una commovente prova di solidarietà nel campo rappresentarono gli aiuti finanziari dei miei compagni di prigionia, benché ognuno avesse bisogno del proprio denaro. Non ero il solo a voler evadere. I miei due migliori amici, Rolf Magener e Heins von Have si preparavano a loro volta. Entrambi parlavano correntemente l'inglese, e scelsero di percorrere la strada che attraverso l'India portava al confine con la Birmania. In un precedente tentativo d'evasione con un altro compagno, Have era quasi giunto in Birmania, ma poco prima del confine erano stati arrestati. In un secondo tentativo il suo amico ebbe un incidente mortale. Anche altri prigionieri, tre o quattro si diceva, accarezzavano piani di fuga. Alla fine si formò un gruppo di sette persone e fu stabilito di tentare tutti insieme l'evasione, perché i tentativi singoli avrebbero acuito la vigilanza e reso più difficile la fuga degli altri. Portata a termine l'evasione, ciascuno avrebbe potuto seguire il proprio piano. Peter Aufschnaiter, che questa volta aveva per compagno il salisburghese Bruno Treipel, e i berlinesi Hans Kopp e Sattler, come me, volevano dirigersi verso il Tibet. Data fissata: il 29 aprile 1944, dopo la colazione di mezzogiorno. I partecipanti dovevano camuffarsi da operai incaricati di aggiustare i reticolati. Simili gruppi si vedevano di frequente, perché le formiche bianche rodevano i numerosi pali che circondavano il campo e le riparazioni si succedevano senza interruzione. Le squadre erano composte da indù, con un inglese che li sorvegliava. All'ora convenuta ci incontrammo in una piccola capanna nei pressi di un corridoio di filo spinato perlopiù non sorvegliato, come avevamo avuto modo di constatare. Alcuni compagni esperti di make-up ci trasformarono, Heinrich Harrer
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in un baleno, in indù dalla pelle scura. Have e Magener ricevettero divise da ufficiali inglesi. A noi «indù» furono rapate le teste, che vennero coperte da un turbante. Malgrado la serietà della situazione, non si poteva fare a meno di ridere l'uno dell'altro, vedendoci conciati a quel modo: sembrava che ci recassimo a un ballo in maschera per carnevale. Due di noi portavano una scala, che già la notte precedente era stata collocata nel corridoio privo di sorveglianza. Avevamo anche rubato un rotolo di filo spinato. Gli oggetti personali erano nascosti tra le ampie pieghe delle nostre tuniche e in fagotti. Ciò non avrebbe dato nell'occhio, perché gli indù sono sempre carichi di pacchi e pacchetti. Perfetti erano i nostri due «ufficiali inglesi». Muniti di rotoli di disegni, giocavano arrogantemente con i loro bastoncini. Attraverso un buco praticato precedentemente nel reticolato passammo uno dopo l'altro nel corridoio che separava le varie sezioni del complesso. La distanza da lì alla porta principale era di circa trecento metri. Nessuno si accorse di noi. Soltanto una volta ci fermammo, e gli «ufficiali» ispezionarono con grande cura il reticolato, avendo scorto davanti all'ingresso il sergente inglese che stava passando in bicicletta. Le sentinelle sull'attenti salutarono gli ufficiali e non degnarono noi poveri coolie neppure di uno sguardo. Il nostro settimo compagno, Sattler, che aveva abbandonato la sua baracca un po' in ritardo, arrivò correndo, nero come il diavolo, recando in mano un secchio di pece, e ci raggiunse quando già eravamo usciti dal portone. Non appena fuori dalla visuale delle guardie ci gettammo nei boschetti per liberarci dei nostri travestimenti. Sotto portavamo il vestito kaki, tenuta obbligatoria durante le uscite autorizzate. Senza molte parole ci congedammo a vicenda. Have, Magener e io corremmo di conserva ancora alcuni chilometri, poi anche noi ci separammo. Volevo seguire la stessa strada del mio primo tentativo. Mi misi rapidamente in marcia per mettere la maggiore distanza possibile tra me e il campo fino al mattino seguente. Questa volta volevo mantenere rigorosamente il mio proposito di camminare soltanto di notte e di nascondermi alle prime luci del giorno. Non volevo correre rischi! I quattro compagni che, come me, avevano fissato come loro meta il Tibet, rimasero uniti e si servirono, con eccessiva audacia, della via maestra che attraverso Mussoorie conduce nella valle del Gange. Io optai invece, come la prima volta, per la strada che attraversava la valle dello Jamuna e dell'Aglar. Nel corso della prima notte dovetti guadare non meno di quaranta volte l'Aglar. Ciò nonostante all'alba sostai Heinrich Harrer
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esattamente nello stesso luogo che nell'anno precedente avevo raggiunto dopo quattro giorni. Da soli, in certe condizioni, si va più in fretta! Felice di essere libero, ero soddisfatto della mia impresa, nonostante fossi coperto di ferite e graffiature e avessi consumato un paio di scarpe da tennis nuove. Scelsi il mio primo rifugio fra i massi di pietra del letto del fiume. Non avevo ancora tolto dal sacco le mie cose, che un'orda di scimmie mi scoprì e, strillando forte, mi bersagliò con zolle di terra. Frastornato dal loro strepito, non mi accorsi che d'un tratto trenta indù venivano correndo lungo il letto del fiume. Li vidi soltanto quando furono nelle immediate vicinanze del mio nascondiglio. Non so neppure oggi se fossero pescatori di passaggio o inseguitori lanciati sulle nostre tracce. In ogni caso non potei credere ai miei occhi, quando li vidi passare a una distanza di pochi metri da me. Tirai un sospiro di sollievo ma, reso guardingo dall'incidente, mi rimisi in marcia solo a notte fonda, risalendo l'Aglar. La sosta successiva si svolse senza agitazioni: potei riposare bene e rinfrancarmi. La sera mi misi in cammino un po' troppo presto, e dopo alcune centinaia di metri spaventai una donna indù che attingeva acqua. Con un grido di terrore lasciò cadere il suo recipiente di terracotta e si mise a correre verso le case vicine. Non meno spaventato di lei deviai verso una valle laterale. La strada era ripida, e benché sapessi che anche per quella strada sarei giunto alla mia meta, mi rendevo conto che quella diversione mi avrebbe causato una perdita di molte ore. Fui costretto a scalare il Nag Tibba, una montagna di oltre 3000 metri che nella sua parte superiore è completamente spopolata e coperta di fitti boschi. Alle prime luci dell'alba, piuttosto stanco, mi trovai per la prima volta in vita mia di fronte a una pantera. L'unica mia arma era un lungo coltello che il fabbro del campo aveva forgiato appositamente per me e che avevo fissato a un bastone. La pantera era pronta per il balzo, posizionata sopra il grosso ramo di un albero, a un'altezza di cinque metri da terra. Mi fermai un attimo a riflettere sulla migliore cosa da fare, poi, domata la paura, proseguii il mio cammino. Non avvenne nulla. Ma solo a ripensarci mi sento rabbrividire. Fino a quel momento avevo seguito la cresta del Nag Tibba, e alla fine mi ritrovai di nuovo lungo la direttrice principale. Dopo pochi chilometri, ecco un'altra sorpresa: nel bel mezzo del sentiero erano distesi alcuni uomini che russavano. Erano Peter Aufschnaiter e tre altri compagni del campo! Dopo che li ebbi svegliati, insieme trovammo un nascondiglio, Heinrich Harrer
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dove ci raccontammo l'un l'altro le nostre avventure, non senza ammirare la bellezza del paesaggio. Eravamo tutti in ottima forma e pienamente convinti che saremmo riusciti a giungere nel Tibet. Dopo questa giornata trascorsa in compagnia dei miei amici, mi fu assai duro continuare il cammino da solo. Rimasi però fedele alla mia risoluzione, e dopo essermi staccato da loro raggiunsi nella stessa notte il Gange. Era il quinto giorno della mia evasione. Appena giunto nei pressi della città santa di Uttar Kashi, della quale ho già parlato in occasione del mio primo tentativo di fuga, dovetti lottare per la mia vita. Non appena oltrepassata una casa, due uomini mi corsero dietro. Mi precipitai come una belva inseguita attraverso campi e cespugli, giù verso il Gange, e mi nascosi fra blocchi di pietra franati. Silenzio: ero sfuggito ai miei inseguitori. Solo dopo parecchio tempo osai però uscire sotto la chiara luce della luna. Era un vero piacere camminare lungo una strada che già conoscevo, e la gioia di procedere così speditamente mi fece dimenticare il peso che gravava sulle mie spalle. I miei piedi erano feriti, ma le soste mi ristoravano: spesso dormivo dieci ore di fila, senza svegliarmi neppure una volta. Senza incidenti arrivai così alla casa colonica del mio amico indù, al quale avevo affidato tutti i miei beni. Era maggio, e avevamo convenuto che in tale mese mi avrebbe atteso ogni giorno a mezzanotte. Decisi di non entrare subito e nascosi prima il mio sacco da montagna, perché un tradimento era sempre possibile. La luna splendeva alta nel cielo sopra la casa colonica. Dopo essermi nascosto nell'ombra della stalla, lo chiamai sottovoce due volte per nome. Ed ecco aprirsi la porta: mi corse incontro, si gettò a terra e mi baciò i piedi. Lacrime di gioia gli rigavano il volto. Mi fece subito entrare in una stanza appartata, chiusa da un grosso chiavistello con lucchetto. Illuminato l'ambiente con una torcia, aprì un cassettone, all'interno del quale giaceva tutta la mia roba, cucita con cura in sacchetti di lana. Commosso per la sua fedeltà, lo ricompensai a dovere. Poi feci onore ai cibi che mi preparò. Lo pregai quindi di procurarmi per il giorno seguente viveri e una coperta di lana. Mi portò tutto e mi regalò in aggiunta un paio di pantaloni di lana tessuti a mano e uno scialle. La giornata seguente la passai dormendo nel vicino bosco, e di sera andai a prendere la mia roba. Il mio amico mi servì un lauto pranzo e mi accompagnò per un tratto di strada. Volle portare anche una parte del mio Heinrich Harrer
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bagaglio, ma era troppo debole per farlo. Lo pregai quindi di ritornare a casa sua, e dopo un cordiale addio fui di nuovo solo. Era passata da poco la mezzanotte, quando feci un incontro piuttosto spiacevole: un orso, drizzato sulle zampe posteriori in mezzo al sentiero, mi si parava davanti con un cupo brontolio. Tenendo puntata verso il suo cuore la mia lancia primitiva, camminai all'indietro, e alla prima svolta della strada accesi in fretta e furia un fuoco. Tornai sui miei passi tenendo in mano un tizzone ardente che facevo roteare a mo' di clava, ma l'orso era scomparso. Più tardi, nel Tibet, appresi che gli orsi sono aggressivi soltanto di giorno, di notte anche loro hanno paura. Camminavo ormai da dieci giorni, quando feci il mio ingresso nel villaggio di Nelang, che un anno prima mi era stato fatale. Questa volta vi giunsi con un mese di anticipo sui nomadi: il villaggio era deserto. Grande fu poi la mia gioia allorché incontrai nuovamente i miei quattro compagni del campo! Mi avevano sorpassato mentre mi ero fermato dal mio amico indù. In una casa aperta piantammo il nostro quartier generale e dormimmo tutta la notte. Purtroppo Sattler fu colpito dal mal di montagna, e non sentì più dentro di sé la forza necessaria per sopportare le inevitabili fatiche. Decise di ritornare, ma promise di nascondersi per due giorni, per non compromettere la nostra fuga. Kopp, che l'anno precedente insieme con il lottatore Kràmer era giunto, seguendo la stessa strada, fino al Tibet, si accompagnò a me. Dovettero comunque passare ancora sette lunghi giorni di marcia prima di poter raggiungere il passo che costituisce il confine tra l'India e il Tibet. Questo ritardo fu causato da un nostro brutto errore di calcolo: una volta lasciata Tirpani, punto di sosta delle carovane, ci eravamo diretti verso la più orientale delle tre vallate che si aprivano davanti a noi. Dovemmo presto costatare di esserci sbagliati. Per orientarci, Aufschnaiter e io salimmo in cima a un monte che prometteva un'ampia vista d'insieme. Da lì scorgemmo per la prima volta di fronte a noi il Tibet, ma eravamo troppo stanchi per goderci quel paesaggio tanto desiderato, e a un'altitudine di 5600 metri soffrivamo anche di mancanza d'ossigeno. Con grande disappunto constatammo la necessità di ritornare a Tirpani, pur essendo il passo a portata di mano. Il nostro errore ci costò tre giorni in più di marcia e un profondo scoramento. Maledicendo la sorte avversa ritornammo alla triforcazione delle vallate. I nostri viveri erano molto Heinrich Harrer
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scarsi, e temevamo che non sarebbero bastati per farci resistere fino al prossimo luogo abitato. Da Tirpani in poi il cammino fu più agevole, in leggera salita attraverso prati senza neve, lungo una delle sorgenti del Gange. Una settimana prima questa era ancora una rapida fiumana che con immenso fracasso precipitava a valle, ora invece si era tramutata in un ruscelletto silenzioso che serpeggiava attraverso prati preannuncianti la primavera. Nel giro di poche settimane su tutta la zona circostante si sarebbe steso un fitto manto erboso, e i molti bivacchi, riconoscibili dalle pietre annerite, ci avrebbero fatto immaginare le carovane che nella buona stagione si snodavano attraverso i passi dall'India al Tibet. Un gregge di pecore montane attraversò la nostra strada. Con gli eleganti salti del camoscio si involarono ai nostri sguardi, senza essersi accorte di noi. Purtroppo scomparvero anche per i nostri stomaci affamati. Volentieri ne avremmo vista una cuocere nella nostra marmitta, per darci finalmente la possibilità, per una volta, di placare la fame. Ai piedi del passo stabilimmo il nostro ultimo bivacco in India. Anziché ristorarci con le sognate fette di carne, arrostimmo sulle pietre un po' di gallette con la nostra ultima farina mescolata ad acqua. Faceva molto freddo, e solo un muro di pietre ci proteggeva, scarsamente, dal tagliente vento dell'Himalaia, che saliva dalla vallata. Il 17 maggio 1944 giungemmo finalmente in cima al passo dello Tsangchokla. Giorno memorabile! In base alle carte sapevamo di essere a un'altitudine di circa 5300 metri. Qui non poteva arrestarci più nessun inglese, e per la prima volta godemmo in pieno l'immensa gioia della libertà. Non sapevamo neppure lontanamente come ci avrebbe trattato il governo tibetano, ma non essendo il nostro paese in guerra con il Tibet potevamo sperare in un'accoglienza ospitale. Il confine sul passo era segnato da mucchi di pietre e da banderuole sacre che devoti buddhisti avevano consacrato ai loro dei. Benché facesse molto freddo, sostammo a lungo, anche per riflettere sulla nostra situazione. Non avevamo alcuna conoscenza della lingua, possedevamo pochissimo denaro e soprattutto eravamo vicini a morire d'inedia. Dovevamo quindi raggiungere nel più breve tempo possibile un luogo abitato. Ma sin dove ci riusciva di spingere lo sguardo non vi erano altro che montagne e vallate deserte. In modo molto vago le nostre carte geografiche ci indicavano la presenza di villaggi in questa regione. Heinrich Harrer
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La nostra meta finale, come ho già detto, era la frontiera giapponese, distante migliaia di chilometri. L'itinerario previsto ci doveva condurre dapprima al sacro monte Kailash, e da lì, lungo il corso del Brahmaputra, finalmente nel Tibet orientale. In base alle esperienze di Kopp, che nella sua fuga dell'anno precedente era giunto nel Tibet, dal quale però era stato poi espulso, le indicazioni delle carte erano abbastanza accurate. Dopo una discesa assai ripida riuscimmo a raggiungere il corso dell'Optchu, dove ci fermammo. Sporgenti pareti rocciose fiancheggiavano la vallata come un canyon. Questa era totalmente deserta, e soltanto un palo di legno attestava il passaggio di esseri umani. Il versante opposto, che dovevamo scalare per raggiungere l'altopiano, era fatto di rocce friabili. Prima che ci fossimo arrivati era scesa la notte, e di nuovo dovemmo accontentarci di un bivacco gelido. Già negli ultimi giorni tutto il nostro combustibile si era ridotto ad alcuni rami di biancospini raccolti strada facendo. Qui non c'era nemmeno quel poco, così fummo costretti a utilizzare sterco di vacca, laboriosamente raccolto.
Il Tibet non vuole stranieri La mattina seguente arrivammo nel primo villaggio tibetano: Kasapuling. Era formato da sei case che sembravano abbandonate, e quando bussammo alle porte niente e nessuno si mosse. Scoprimmo più tardi che tutti gli abitanti erano indaffarati nei campi a piantare l'orzo. Piegati in due, mettevano ogni singolo grano nel terreno con la regolarità e la velocità di una macchina. Li guardavamo con sentimenti analoghi a quelli che probabilmente avranno agitato Colombo, quando in America si trovò davanti ai primi indiani. Ci avrebbero accolti amichevolmente o ostilmente? Per il momento non si curavano affatto di noi. Udivamo solo le grida di una vecchia donna che sembrava una strega, ma neppure quelle avevano per oggetto le nostre persone. Avevano lo scopo di scacciare le molte colombe selvatiche che si precipitavano sui grani appena seminati. Fino a sera nessuno ci degnò di uno sguardo. Considerata la situazione, decidemmo di piantare il nostro accampamento nelle vicinanze di una casa. Quando sul fare della notte la gente ritornò dai campi, tentammo di trattare con loro. Offrimmo del denaro, chiedendo di comprare una pecora o una capra. Il loro atteggiamento era però decisamente ostile: non Heinrich Harrer
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volevano venderci nulla. Poiché le frontiere del Tibet non sono sorvegliate, tutta la popolazione è educata a respingere gli stranieri e a rifiutare, sotto minaccia di severe pene, di vendere loro qualsiasi cosa. Non ci rimase quindi altra scelta che intimidirli, se non volevamo morire di fame. Minacciammo di impadronirci di un animale con la violenza senza pagare nulla, qualora non avessero voluto vendercene uno. Poiché nessuno di noi quattro aveva un aspetto gracile, il metodo ebbe successo. Era notte fonda, quando finalmente ci fu ceduto, per una somma enorme, il più vecchio caprone che avevano potuto scovare. Ciò nonostante nessuno di noi protestò, perché era comunque nel nostro interesse guadagnarci l'ospitalità di questo villaggio. Macellammo il caprone in una stalla e dopo mezzanotte addentammo come cani affamati i pezzi di carne semicotti. Il giorno seguente lo dedicammo al riposo e all'esplorazione del luogo. Le case, costruite in pietra, erano coperte da un tetto piatto, sul quale veniva messa a essiccare la legna da ardere. I tibetani che abitavano qui non assomigliavano a quelli che avremmo conosciuto più tardi nell'interno del paese. Il commercio con l'India e l'animato traffico carovaniero nella stagione estiva li aveva rovinati. Erano sporchi e di pelle scura, i loro occhi fessi gettavano sguardi inquieti, senza alcuna traccia di quella gaiezza per la quale il loro popolo era famoso. Controvoglia si dedicavano al loro lavoro quotidiano: evidentemente si erano stabiliti in questa regione desolata perché, all'epoca delle carovane, con i prodotti dei campi potevano guadagnare molto denaro. Quelle sei case al confine costituivano anche, come potei assodare in seguito, l'unico villaggio o quasi che non possedesse un monastero. Indisturbati, abbandonammo la mattina seguente il luogo inospitale. Eravamo abbastanza riposati e Kopp, che negli ultimi giorni era ammutolito, ricominciò ad allietarci con le sue battute di spirito berlinesi. Attraverso numerosi campi scendemmo in una piccola valle. Risalendo il pendio dalla parte opposta per raggiungere il successivo altopiano sentimmo come non mai il peso dei nostri sacchi. Questa stanchezza fisica non era altro che la reazione alle delusioni riservateci finora dal paese tanto agognato. Anche quella notte dovemmo passarla all'interno di un'orrida depressione del terreno che non ci riparava neppure dal vento impetuoso. Fin dall'inizio della nostra peregrinazione ci eravamo suddivise le Heinrich Harrer
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singole incombenze. Attingere acqua, accendere il fuoco, preparare il tè erano compiti assai duri con quel freddo intenso. Ogni sera vuotavamo i nostri sacchi, per adoperarli come scaldini per i piedi. Allorché quella sera intrapresi la solita operazione, assistemmo a un piccolo scoppio: i miei fiammiferi per lo sfregamento si erano incendiati, indizio che ci trovavamo ormai nel clima asciutto dell'altopiano tibetano. Alle prime luci del giorno esaminammo un po' più da vicino il luogo dove avevamo passato la notte: la forma circolare e le pareti verticali dimostravano che quella depressione era stata fatta dalla mano dell'uomo. Probabilmente era destinata in origine a catturare bestie selvatiche. Dietro di noi l'Himalaia, dominato dalla regolare piramide di neve del Kamet, di fronte una regione sempre montuosa e piena di burroni. Verso mezzogiorno arrivammo nel villaggio di Dushang. Di nuovo poche case e di nuovo la stessa inospitalità riservataci a Kasapuling. Né denaro, né buone parole ci servirono per ottenere qualche cosa. Peter Aufschnaiter sciorinò invano tutte le sue conoscenze linguistiche, acquisite con uno studio assiduo di anni. Anche la nostra mimica non sortì alcun effetto. Quale compenso vedemmo qui per la prima volta un vero monastero tibetano, o meglio ciò che ne rimaneva: grandi buchi scuri nelle pareti d'argilla, rovine di giganteschi edifici. Qui dovevano vivere un tempo centinaia di monaci. Ora invece soltanto pochi dimoravano in una casa più moderna, ma non riuscimmo a vederli. Sopra una terrazza, davanti al monastero, bene allineate e colorate di rosso, campeggiavano molte tombe. Delusi, ci ritirammo nella nostra tenda, piccola oasi accogliente in un mondo interessante, ma incomprensibilmente ostile. Neppure a Dushang vi era alcuna autorità alla quale poterci rivolgere per ottenere un permesso di soggiorno o un'autorizzazione di transito. Ci lagnavamo però troppo presto, perché l'autorità era già in marcia. Quando, il giorno seguente, lasciammo il villaggio, Aufschnaiter e Treipel formavano la retroguardia, mentre Kopp e io marciavamo in testa. All'improvviso udimmo un rumore di sonagli. Due uomini armati a cavallo di pony venivano verso di noi, e una volta fermatisi ci intimarono nel dialetto locale di ritornare in India per la strada che avevamo battuto. Sapendo che a parole avremmo ottenuto ben poco, con gesti energici respingemmo gli uomini sbalorditi. Per fortuna non fecero uso delle armi, supponendo certo che fossimo armati anche noi. Dopo qualche debole tentativo di trattenerci si allontanarono. Raggiungemmo così indisturbati Heinrich Harrer
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l'abitato successivo, che sapevamo essere la sede del governatore distrettuale. La contrada da noi attraversata era priva d'acqua e arida, senza tracce di vita. Il suo centro, la piccola città di Tsaparang, era abitato soltanto nei mesi invernali, e quando ci recammo dal governatore ci fu detto che stava facendo i bagagli, essendo in procinto di trasferirsi a Shangtse, sua residenza estiva. Ci stupimmo non poco nel riconoscere in lui uno dei due uomini armati che ci avevano ingiunto di ritornare sui nostri passi. Il suo atteggiamento non era proprio amichevole, e soltanto con molta fatica ottenemmo che ci cedesse un po' di farina in cambio di medicinali. La piccola farmacia che portavo nel mio sacco fu la nostra salvezza, e mi rese buoni servigi anche in seguito. Alla fine il governatore ci mostrò una grotta dove avremmo potuto passare la notte, ripetendoci ancora una volta di abbandonare il Tibet e di ritornare da dove eravamo venuti. Se ci fossimo sottomessi ai suoi ordini, egli ci avrebbe procurato viveri e mezzi di trasporto. Rifiutammo la sua offerta e cercammo di spiegargli che il Tibet, in quanto stato neutrale, ci doveva accordare asilo. Ma né la sua competenza, né la sua intelligenza erano sufficienti per capire tale semplice argomento. Gli proponemmo allora di far decidere il nostro caso da un funzionario monacale che risiedeva a Thòling, a soli otto chilometri di distanza. Tsaparang era veramente una «curiosità». Dai libri, studiati al campo, avevo appreso che qui era stata fondata la prima missione cattolica del Tibet. Il padre gesuita portoghese Antonio de Andrade aveva dato vita nel 1624 a una comunità cattolica e sembra che avesse costruito qui anche una chiesa. Cercammo le tracce o i resti di questo edificio cristiano, ma non scoprimmo nulla: soltanto innumerevoli grotte testimoniavano l'antica grandezza di Tsaparang. Alla stregua delle nostre esperienze personali non stentammo a immaginare quanto dovesse essere stato difficile per il povero padre Antonio stabilire la sua missione qui. Nel corso delle nostre esplorazioni scorgemmo una porta di legno che ci suscitò meraviglia. Apertala, retrocedemmo spaventati: i giganteschi occhi di un immenso Buddha dorato ci fissavano immoti. Il giorno seguente ci recammo a Thòling, per parlare con il monaco. Là ci incontrammo di nuovo con Aufschnaiter e Treipel, che avevano preso un'altra strada. Insieme andammo alla ricerca dell'abate del monastero, il funzionario che stavamo cercando, ma anch'egli rimase sordo alle nostre Heinrich Harrer
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preghiere di lasciarci proseguire verso oriente. Accettò di venderci provviste soltanto se avessimo promesso di tornare a Shangtse, situata sulla strada che conduce all'India. Non ci rimase altra scelta che accettare la sua proposta, perché non avevamo nulla da mettere sotto i denti. Oltre a costui vi era anche un'autorità laica a Thòling, ma la trovammo ancora meno accomodante. Rifiutò qualunque colloquio e ci aizzò perfino contro la popolazione. Dovemmo pagare a caro prezzo un po' di burro rancido e di carne guasta. Pochi fasci di legna ci costarono una rupia. L'unico buon ricordo che riportammo da Thòling fu il quadro del suo monastero dagli acuminati tetti dorati scintillanti al sole, situato sopra un terrazzo sovrastante le acque del Sutlej. È il più grande monastero del Tibet occidentale, ma sembra vuoto e abbandonato, perché vi soggiornano ancora soltanto venti monaci su duecentosessanta. Dopo la nostra promessa di dirigerci verso Shangtse, ci vennero dati quattro asini per il trasporto del nostro bagaglio. Da principio rimanemmo sorpresi nel vedere che ci lasciavano partire senza alcuna scorta, accompagnati soltanto da un asinaio. Ma ben presto ci rendemmo conto che l'usuale metodo di sorveglianza nel Tibet era il più semplice del mondo: si permetteva la vendita di viveri agli stranieri soltanto dietro esibizione di un permesso. Viaggiare con quattro asini non era proprio un divertimento: per guadare il Sutlej impiegammo un'ora buona, perché le bestie erano molto ricalcitranti. Dovemmo pungolarle di continuo per riuscire a raggiungere il villaggio successivo prima che facesse notte. Questo si chiamava Phywang ed era abitato da poche persone. Ma volgendo lo sguardo ai pendii, si scorgevano anche qui, come a Tsaparang, centinaia di grotte. Passammo la notte lì. Shangtse distava ancora un'intera giornata di marcia, e il mattino seguente potemmo goderci la magnifica vista dell'Himalaia, quale compenso per la monotonia della regione che stavamo attraversando. Durante il nostro cammino ci imbattemmo per la prima volta nel kyang, una specie di onagro, che vive nell'Asia centrale e incanta tutti i viaggiatori con l'eleganza dei suoi movimenti. Si nutre dell'erba dei prati e gli uomini lo lasciano vivere in pace. Unico suo nemico, il lupo. Per me queste belle bestie indomite rappresentano da allora il simbolo della libertà. Anche Shangtse era un villaggio di sei case di mattoni di fango seccato e di zolle d'erba. Non fummo accolti con maggiore ospitalità. Di nuovo Heinrich Harrer
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incontrammo lo scortese funzionario di Tsaparang, che vi si era appena trasferito per il suo soggiorno estivo. A nessun costo voleva permetterci di proseguire verso l'interno del Tibet, ma ci diede la possibilità di scegliere di ritornare in India o via Tsaparang oppure a occidente attraverso il passo di Shiphi. Soltanto se avessimo scelto una di queste strade avrebbe acconsentito a venderci viveri. Scegliemmo naturalmente l'itinerario attraverso il passo di Shiphi, in primo luogo perché non lo conoscevamo, poi per la speranza di trovare una qualche via di uscita. Pur potendo comprare burro, carne e farina in quantità, ci sentivamo piuttosto depressi, in quanto non ci rallegrava molto la prospettiva di finire di nuovo dietro il filo spinato. Treipel, disgustato, non voleva più intraprendere alcun tentativo per rimanere in questo paese ostile. Approfittammo comunque di quella giornata per mangiare finalmente a sazietà. Aggiornai il mio diario e curai la neurite che mi ero preso durante le marce notturne. Ero deciso a fare l'impossibile per evitare il campo di prigionia, e Aufschnaiter era d'accordo con me. Il mattino seguente conoscemmo il vero volto del governatore distrettuale. Avevamo cucinato della carne in una casseruola di rame e Aufschnaiter ne doveva essere rimasto leggermente intossicato, perché non si sentiva affatto bene. Allorché mi recai dal funzionario per pregarlo di prolungare il permesso di soggiorno, si mostrò più scortese che mai. Scoppiò una violenta discussione, e alla fine ottenni soltanto che mettesse a nostra disposizione un cavallo per Aufschnaiter oltre a due yak per il trasporto dei bagagli. In tale occasione venni per la prima volta a contatto con uno yak. È la tipica bestia da soma tibetana, e può vivere soltanto a questa altitudine: è una specie di bove dal pelo lungo, il cui addomesticamento richiede molta abilità. Le femmine sono molto più piccole del maschio e danno ottimo latte. Il soldato che ci scortava da Shangtse in poi aveva ricevuto per noi un salvacondotto, in base al quale potevamo acquistare dovunque tutti i viveri che volevamo. Era anche previsto che a ogni fermata potessimo cambiare gratuitamente i nostri yak. La temperatura di giorno era fresca e piacevole, senza sbalzi, le notti invece erano molto fredde. Il nostro accompagnatore, oriundo di Lhasa, era cortese, e si dava volentieri importanza quando ci fermavamo in Heinrich Harrer
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qualche luogo abitato. Anche la popolazione si mostrava più gentile durante qualche sosta prolungata: evidente effetto del salvacondotto. Attraversando il distretto di Rongchung facemmo per alcuni giorni la strada percorsa da Sven Hedin e, siccome ero un grande ammiratore di quell'esploratore, ricordai compiaciuto le sue descrizioni. Il paesaggio non era molto mutato: una sequela di altopiani e di gole profonde. Talvolta queste erano così strette che ci si sarebbe potuti far sentire dall'altra parte, eppure erano necessarie molte ore per giungere al lato opposto. Questo faticoso e incessante su e giù che raddoppiava il nostro cammino ci rese di cattivo umore, e ciascuno seguiva in silenzio i propri pensieri. Ciò nonostante camminavamo abbastanza velocemente, e per il vitto non avevamo preoccupazioni. Una volta, desiderando variare un po' i nostri pasti, provammo a pescare. Non avendo avuto fortuna con l'amo, ci spogliammo ed entrammo nell'acqua del limpido ruscello per cercare di afferrare qualche pesce con le mani. Purtroppo sembravano preferire altri passatempi a quello di finire nella nostra padella. Ci avvicinavamo sempre più alla catena dell'Himalaia e quindi purtroppo anche al confine indiano. La temperatura si era fatta più mite, perché ci trovavamo a minore altitudine. Proprio qui il Sutlej trova la sua strada attraverso l'Himalaia. I villaggi in questa regione assomigliavano a piccole oasi, e intorno alle case orti e albicocchi animavano il paesaggio. Dodici giorni dopo aver abbandonato Shangtse, il 9 giugno, giungemmo al villaggio di frontiera di Shiphi. Già da tre settimane vagavamo per il Tibet. Avevamo visto molto, ma soprattutto ci eravamo arricchiti di un'amara esperienza: senza un permesso di soggiorno la vita qui era impossibile. Passammo ancora una notte nel Tibet, distesi romanticamente sotto gli albicocchi, i cui frutti purtroppo non erano ancora maturi. Con il pretesto di avere bisogno di una bestia da soma per il mio viaggio in India, mi riuscì di acquistare per ottanta rupie un asino. Nel territorio interno del Tibet l'acquisto mi era stato sempre rifiutato, ma per la realizzazione dei miei nuovi progetti l'animale mi era indispensabile. Il nostro accompagnatore a questo punto ci lasciò, portando con sé le sue bestie. Sorridendo ci disse che forse ci saremmo ritrovati un giorno a Lhasa, dove c'erano belle ragazze e si trovava buona birra. Una strada a tornanti ci portò al passo di Shiphi, e quindi al confine. Nessuna guardia di frontiera: né tibetana, né indiana. Nulla, se non i soliti mucchi di pietre con Heinrich Harrer
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banderuole sacre e il primo segno della civiltà: una pietra miliare con la scritta «Simla 200 miglia». Eravamo di nuovo in India. Ma nessuno di noi aveva intenzione di trattenersi a lungo in questo paese ospitale, dove ci attendeva un campo di prigionia circondato da filo spinato.
Nuovo passaggio clandestino del confine Il mio piano era di cogliere insieme con Kopp la prima occasione utile per ritornare nel Tibet. Eravamo convinti che i piccoli funzionari finora incontrati non fossero semplicemente in grado di prendere una decisione nel nostro caso. Questa volta volevamo rivolgerci subito a un'autorità superiore. A tal fine ci saremmo dovuti recare a Gartok, capitale del Tibet occidentale e sede del governatore. Scendemmo quindi per la grande e ben curata strada commerciale fino al primo villaggio indiano, Nangia. Poiché venivamo dal Tibet e non dalle pianure indiane ci potevamo trattenere senza destare sospetti. Ci presentammo come soldati americani, e dopo aver comprato viveri freschi passammo la notte nel pubblico albergo di sosta delle carovane. Poi ci separammo. Aufschnaiter e Treipel scelsero la strada commerciale lungo il Sutlej, Kopp e io spingemmo il nostro asino in una valle laterale, che in direzione nord conduceva a un passo attraverso il quale si raggiungeva il Tibet. Stando a quanto risultava dalle nostre carte dovevamo attraversare anzitutto la valle dello Spiti, che era disabitata. Ero molto soddisfatto di avere come compagno Kopp, un uomo abile e pratico, di carattere allegro e sempre pronto a porgere aiuto. Per due giorni risalimmo il fiume Spiti, poi imboccammo una valle laterale che avrebbe dovuto portarci oltre l'Himalaia. Questa regione non era purtroppo segnata sulle nostre mappe. Dagli indigeni apprendemmo di aver già oltrepassato il confine presso un ponte chiamato Sangsam. Durante tutto il percorso, a destra, il magnifico Riwo Phargyul, una cima di quasi 7000 metri. Avevamo rimesso piede sul suolo tibetano in uno dei pochi punti nei quali il paese si stende oltre la cresta dell'Himalaia. Presto risorsero in noi le preoccupazioni, benché qui nessuno ancora ci conoscesse e nessun funzionario scortese avesse potuto allarmare la Heinrich Harrer
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popolazione. Ci spacciammo per pellegrini che si recavano al santuario del monte Kailash. Il primo villaggio da noi raggiunto si chiamava Karak ed era formato da due case. Il seguente, Dotso, era più grande. Ci imbattemmo qui in una quantità di monaci, più di cento, intenti a raccogliere legname da trasportare attraverso i passi sino a Tashigong per un ingrandimento del monastero locale, il più importante della provincia di Tsurubyn, il cui abate era allo stesso tempo il più alto funzionario civile. Quando lo incontrammo fece sorgere in noi la paura che il nostro viaggio fosse ormai giunto a una fine prematura. Ma quando ci interrogò affermammo di essere l'avanguardia di un reparto europeo in possesso di credenziali del governo centrale di Lhasa. Sembrò crederci, e sollevati riprendemmo il nostro cammino. Assai faticosa fu la salita al passo chiamato dai tibetani Bùd Bùd. Doveva essere alto almeno 5700 metri, perché l'aria rarefatta ci dava un po' di fastidio, e la gelata lingua di un ghiacciaio senza nome lambiva un buon tratto del versante opposto. Per strada incontrammo dei bhutia, che si recavano verso l'interno. Eccezionalmente cortesi, ci invitarono perfino a prendere una tazza di tè al burro rancido presso il loro fuoco. Poiché avevamo piantato la nostra tenda nelle loro vicinanze, ci portarono di sera un ottimo purè di ortiche. La regione era completamente spopolata, e negli otto giorni seguenti solo una volta ci imbattemmo in una piccola carovana. Un incontro mi è rimasto impresso: era un nomade, un bel giovane avvolto nella sua lunga pelliccia di pecora, con una treccia di capelli, come usano tutti i tibetani che non sono monaci. Costui ci condusse alla sua tenda nera, fatta di pelli di yak, dove lo attendeva sua moglie, un'allegra creatura che rideva sempre, o così almeno sembrava. Nella tenda scoprimmo un tesoro che ci fece venire l'acquolina in bocca: un magnifico prosciutto di camoscio. Con buon garbo e per poco prezzo ce ne vendette una parte. Ci pregò soltanto di non parlare della sua cacciagione, perché altrimenti sarebbe stato punito. Uccidere un essere vivente, uomo o animale che sia, contravviene ai precetti religiosi del buddhismo, e la caccia è di conseguenza proibita. Poiché il Tibet si fonda su un sistema feudale, uomini, animali e paese appartengono al Dalai Lama, le cui prescrizioni sono legge per tutti. Fui in grado di farmi capire abbastanza bene da questo piacevole compagno, e la sensazione che il mio bagaglio di conoscenze del linguaggio locale stesse crescendo mi diede grande soddisfazione. Per il Heinrich Harrer
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giorno seguente combinammo di andare a caccia insieme, e nel frattempo approfittammo della loro generosa ospitalità. Il nomade e sua moglie furono i primi tibetani allegri e cortesi incontrati, e per questo motivo li ricordammo per lungo tempo. Il massimo della loro ospitalità fu l'offerta di una bottiglia di birra d'orzo: era una bibita torbida e lattiginosa che non aveva nulla a che fare con ciò che in Europa chiamiamo birra. L'effetto fu però il medesimo. Il mattino seguente andammo a caccia in tre. Il giovane tibetano aveva un fucile antidiluviano ad avancarica e nella tasca portava pallini di piombo, polvere e miccia. Allorché avvistammo il primo gregge di pecore selvatiche, con una pietra focaia si diede da fare per accendere la miccia. Eravamo assai curiosi di vedere come avrebbe sparato quel suo pezzo da museo. D'un tratto ci fu una detonazione simile al tuono - bum, bum! -, e quando si dissipò il fumo, di pecore non ce n'era più neppure l'ombra. Poi vedemmo gli animali galoppare in lontananza. Non volendo rientrare a mani vuote, ci mettemmo a raccogliere cipolle selvatiche, che crescono dovunque sui pendii e costituiscono un gustoso contorno all'arrosto di selvaggina. La moglie del nostro amico doveva essere abituata alle sconfitte venatorie dello sposo. Quando ci vide ritornare senza preda, si mise a ridere di gusto. Prudentemente aveva preparato un arrosto con la cacciagione dei giorni precedenti, e mentre sorvegliava la cottura senza alcuna timidezza si liberò della sua immensa pelliccia, rimanendo mezza nuda. In seguito osservammo spesso la stessa naturalezza. Molto a malincuore ci staccammo da questa simpatica coppia. Ben provvisti di carne fresca e ben riposati riprendemmo la marcia. Per strada incontrammo spesso, come punti neri, yak selvaggi che pascolavano in lontananza sui pendii. La loro vista eccitò purtroppo il nostro asino, che diventò sempre meno docile: a un certo punto si mise a fuggire attraverso un largo ruscello, e prima che riuscissimo a riacciuffarlo si era già sbarazzato della sua soma. Tra maledizioni e imprecazioni alla fine lo riprendemmo. Poi, mentre mettevamo ad asciugare le nostre cose al sole, scorgemmo all'improvviso due figure. Riconoscemmo subito la prima dal suo passo regolare e lento da alpinista: era Peter Aufschnaiter, accompagnato da un portatore. Un simile incontro in una regione desolata potrà sembrare strano, ma bisogna sapere che determinate valli e certi passi costituiscono da secoli i passaggi obbligati, e tutti avevamo scelto la via di solito battuta. Heinrich Harrer
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Dopo calorosi saluti, Aufschnaiter cominciò a raccontare le sue avventure. Si era separato il 17 giugno da Treipel, che con il denaro rimastogli aveva acquistato un cavallo, sul quale da «inglese» si era diretto verso l'India. Aufschnaiter si era nel frattempo ammalato, e dopo essersi ristabilito aveva seguito il nostro itinerario. Per strada aveva appreso gli ultimi avvenimenti della guerra, e benché in questo angolo remoto vivessimo come in un altro mondo, ascoltammo con grande interesse le novità. Dapprima Aufschnaiter si rifiutò di raggiungere con noi Gartok, immaginando che saremmo stati di nuovo espulsi. Preferiva e riteneva più prudente raggiungere direttamente i nomadi del Tibet centrale. Alla fine però partimmo insieme, e da quel giorno Aufschnaiter e io rimanemmo sempre uniti. Sapevamo che, se tutto fosse andato bene, avremmo impiegato cinque giorni per arrivare a Gartok. Dovemmo superare ancora una volta un alto passo, il Bongrù. Le nostre soste non rappresentavano un piacere: faceva davvero freddo, di notte, a oltre 5000 metri! Spesso si verificarono anche piccoli incidenti. Una volta Kopp, per guadare un fiume, si era tolto le scarpe, avvolgendole nei pantaloni, ma d'un tratto una gli era caduta nell'acqua. La corrente se la trascinò via, e tutte le ricerche risultarono vane. Quante maledizioni! Per fortuna io possedevo un paio di scarpe tibetane di ricambio, troppo piccole però, perché qui era molto difficile trovare numeri che potessero portare gli europei. Kopp aveva purtroppo piedi anche più grandi dei miei: gli diedi allora la mia scarpa militare sinistra, e io proseguii il cammino zoppicando, per metà tibetano, per metà europeo. Un grazioso diversivo ci fu offerto un'altra volta da un combattimento fra asini selvatici, probabilmente per guadagnare le grazie di una femmina. Le due bestie facevano volare zolle di terra, ed erano così accanite e infervorate nella lotta che neppure si accorsero della nostra presenza. Con le froge frementi le femmine ballonzolavano intorno ai combattenti, e ogni tanto la scena era fittamente avvolta da una nuvola di polvere. Dopo aver attraversato i due passi, ci lasciammo di nuovo alle spalle l'Himalaia. Non me ne staccai però con dispiacere, perché si giungeva finalmente in regioni più calde. La nostra strada ci aveva condotti attraverso quella provincia nella quale l'anno seguente uno dei più grandi alpinisti tedeschi, Ludwig Schmaderer, avrebbe perso la vita. Fuggito dal nostro stesso campo con il suo amico Paidar e intento a seguire le nostre Heinrich Harrer
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tracce, fu assassinato in questo luogo a tradimento. Paidar si salvò, ma solo per trovare la morte, più tardi, in un'ascensione sul Grossglockner. La popolazione di questa regione non è tipica né del Tibet, né dell'India. E una razza mista: vive secondo precetti lamaistici, ma per via del commercio è legata piuttosto all'India. Scendendo verso la valle dell'Indo incontrammo molte carovane che trasportavano sugli yak lana destinata all'India. Belle le bestie, prestanti i giovani uomini, che malgrado il freddo intenso stavano a torso nudo. Non parvero interessarsi a noi e indisturbati proseguimmo il nostro viaggio. Per cinque giorni risalimmo il corso dell'Indo prima di raggiungere Gartok. Il paesaggio era incantevole, vi risplendevano tutti i colori in un'ineffabile armonia. Sullo sfondo lucenti vette nevose. Una lontana tormenta, scatenatasi sull'Himalaia proprio durante la nostra traversata, irradiava i suoi vivi bagliori. Il primo villaggio al di là dell'Himalaia è Tashigong, alcune case a mo' di baluardo intorno a un monastero circondato da un fossato. La gente ci accolse anche qui con atteggiamento ostile, ma non ne fummo turbati. Questa volta eravamo arrivati proprio nella stagione in cui i mercanti indiani affluivano nella zona per acquistare lana, e senza difficoltà potemmo comprare da loro una discreta quantità di viveri. Durante tutta la nostra marcia fummo fermati ripetutamente da agiati tibetani a cavallo, curiosi di sapere quali fossero le nostre mercanzie. Poiché viaggiavamo senza servi e con un asino carico, non potevamo spacciarci che per commercianti. Del resto ci rendemmo presto conto che ogni tibetano, ricco o povero, è un negoziante nato, la cui grande passione è costituita dal barattare e dal mercanteggiare. Due giorni prima di raggiungere Gartok arrivammo con il cuore in gola a Gar Gunsa, residenza invernale del governatore del Tibet occidentale. Benché avessimo appreso dai carovanieri che in questa stagione l'ufficio non funzionava ancora, avevamo tuttavia paura di essere trattenuti. Le nostre apprensioni si mostrarono però infondate: l'ufficio, piccolo ma assai pulito, era vuoto. Di tanto in tanto ci accompagnavamo alle carovane, che dalla provincia indiana di Ladakh portavano a Lhasa albicocche secche. Questi viaggi duravano molti mesi, e raggiungevano Lhasa poco prima dell'anno nuovo tibetano, una grande festa che si celebra circa otto settimane dopo il nostro capodanno. Le carovane erano accompagnate da giovani uomini di Lhasa che, armati di spade e fucili, le dovevano proteggere dagli assalti dei Heinrich Harrer
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banditi. Si trattava perlopiù di trasporti governativi, e i conducenti di queste carovane erano muniti di passaporti che li autorizzavano a requisire gratuitamente yak e cavalli da sella. Prima ancora di giungere a Gartok facemmo amicizia con uno di questi tibetani, e il suo prezioso documento con il sigillo di Lhasa destò in noi grande invidia. Alla vista di quelle ricche carovane la nostra miseria ci pesava ancora di più. Il nostro piccolo asino spesso si accucciava con tutta la sua soma, e non c'era verso di farlo rialzare neppure con colpi e pedate. Si rimetteva in piedi soltanto quando ne aveva voglia. Spesso si sbarazzava addirittura di tutti i bagagli, mettendosi poi a correre baldanzoso e prepotente. Poco prima di Gartok passammo una serata molto «nutriente» sotto una tenda calda. Una comitiva che si recava a Lhasa era così entusiasta dei giochi di prestigio che Kopp sapeva fare con le carte che, volendo assistere ancora una volta alla sua rappresentazione, fummo invitati ad andare nella loro tenda. Durante questi variegati incontri con le carovane mi veniva sempre in mente padre Desideri, al quale duecento anni prima era riuscito di arrivare insieme a una di queste indisturbato fino a Lhasa. Per noi il problema doveva essere di soluzione assai più difficile!
Gartok, la residenza del viceré Dalle nostre letture conoscevamo Gartok come «capitale del Tibet occidentale, residenza del viceré», e i libri di geografia ci avevano insegnato che si trattava della «città più alta del mondo». Ma vedendola non potemmo fare a meno di sorridere. Alcune tende di nomadi disseminate in una gigantesca pianura, alcune capanne di fango ricoperte da zolle erbose: ecco Gartok. Tranne pochi cani vagabondi, nessuna anima viva. Piantammo le nostre tende sulla riva del fiume Gar, un affluente dell'Indo. Finalmente si avvicinarono alcuni curiosi, dai quali apprendemmo che nessuno dei due alti funzionari era presente, e che quindi potevamo essere ricevuti soltanto dal sostituto del secondo viceré. Lo stesso giorno chiedemmo udienza. Già per entrare in quell'ufficio amministrativo fummo costretti a chinarci, perché non c'erano porte, ma soltanto un angusto passaggio, davanti al quale ondeggiava una tenda unta Heinrich Harrer
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e bisunta. Giungemmo in un ambiente buio, le cui finestre erano ricoperte da carta. Abituatici all'oscurità, scorgemmo seduto nella posizione del Buddha un uomo dall'aspetto intelligente e distinto. Al suo orecchio sinistro pendeva un orecchino di circa quindici centimetri di lunghezza, quale segno del suo rango. Oltre a lui c'era nella stanza anche una donna, che più tardi si rivelò essere la moglie del funzionario assente. Dietro a noi si formò una folla di bambini e servi, desiderosi di vedere più da vicino gli stranieri. In forma molto cortese fummo invitati a prendere posto, e subito ci vennero offerti formaggio, burro, tè e carne essiccata. L'atmosfera era cordiale e ci aprì il cuore. Anche la conversazione procedeva abbastanza bene, con l'aiuto di un dizionario inglese-tibetano e sottolineata da gesti. Le nostre speranze rifiorirono, ma prudentemente non approfittammo di questo primo incontro per esporre tutte le nostre preoccupazioni. Raccontammo solo di essere dei fuggiaschi tedeschi, accennando alla nostra intenzione di chiedere ospitalità al Tibet neutrale. Il giorno seguente portai in dono al funzionario qualche medicinale. Molto soddisfatto, mi chiese come si dovevano usare, e annotò con cura le mie spiegazioni. Fu allora che osammo chiedergli se poteva munirci di un passaporto. Non rifiutò direttamente, ma ci disse di attendere il ritorno del suo superiore, che si trovava in pellegrinaggio al monte Kailash. Sarebbe arrivato entro pochi giorni. Nel frattempo stringemmo sempre più amicizia con il suo rappresentante. Io gli regalai una lente ustoria, un oggetto che nel Tibet è molto utile. La ricompensa non si fece attendere. Un pomeriggio giunsero alle nostre tende portatori carichi di burro, carne e farina. Con un seguito di servi arrivò pure il funzionario per restituirci la visita. Quando vide l'interno delle nostre tende, si stupì di come anche degli europei potessero condurre una vita così semplice. Man mano però che si avvicinava il ritorno del suo superiore, decresceva visibilmente la sua cortesia, ed egli finì quasi con l'ignorarci. Gli cominciava a pesare la responsabilità. Le cose peggiorarono anzi a tal punto che non voleva neppure più venderci i viveri. Ma anche qui non mancavano mercanti indiani che per denaro sonante fossero pronti a venirci in aiuto. Una mattina udimmo il tintinnio di sonagliere che annunciava l'arrivo al villaggio di un'interminabile carovana di muli. In testa cavalcavano soldati, Heinrich Harrer
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seguiti da una schiera di servi e serve, e appresso, dignitosamente a cavallo, membri della nobiltà tibetana, i primi che vedevamo. Dei due viceré, che nel Tibet si chiamano garpòn, era quello di rango più elevato che faceva qui il suo ingresso trionfale. Lui e sua moglie portavano splendide vesti di seta, e alle cinture preziosamente trapunte erano fissate le rivoltelle. Accorse tutto il villaggio per non perdere nulla dello spettacolo. Il pio garpòn, subito dopo il suo arrivo, si recò in solenne processione al monastero, per ringraziare gli dei del suo felice ritorno dal pellegrinaggio. L'agitazione generale contagiò anche noi. Aufschnaiter compilò una breve lettera, con la quale chiedevamo un'udienza. Poiché la risposta non giungeva e non resistevamo più dall'impazienza, decidemmo nelle ultime ore del pomeriggio di andare dal garpòn. La sua casa non differiva sostanzialmente da quella del suo rappresentante, soltanto il mobilio interno era più ricco e più confortevole. Il garpòn, un alto funzionario, riveste per la durata delle sue funzioni ufficiali il quarto grado di nobiltà. Sono a lui sottoposti cinque distretti, amministrati da nobili del quinto, sesto e settimo rango. Porta tra i capelli, raccolti in un rocchio, un amuleto d'oro, del quale però può fregiarsi soltanto nel periodo della sua reggenza a Gartok. A Lhasa egli appartiene al quinto rango. Tutti i nobili del Tibet sono suddivisi in sette classi, la prima delle quali è occupata dal solo Dalai Lama. Tutti i dignitari civili portano i capelli pettinati all'insù, i monaci hanno la testa rapata e i tibetani comuni portano i capelli annodati in lunghe trecce. Ed eccoci al cospetto di questo uomo potente. Gli esponemmo dettagliatamente il nostro caso, e il garpòn ci ascoltò con estrema cortesia. Non poté fare a meno di sorridere qualche volta per la nostra scarsa conoscenza della lingua, e il suo seguito rise talora di gusto. Ma questo servì a riscaldare l'atmosfera e contribuì a rendere il colloquio più amichevole. Il garpòn promise di esaminare attentamente il nostro caso e di consigliarsi al riguardo con il rappresentante del suo collega. Alla fine dell'udienza ci invitò a prendere un tè preparato all'europea e ci mandò poi dei regali nelle nostre tende. Eravamo pieni di speranze. Il ricevimento seguente fu più formale, ma non meno cordiale. Il garpòn stava seduto su un alto seggio, accanto a lui, un po' più in basso, il rappresentante dell'altro garpòn. Sopra un tavolo basso una pila di lettere, scritte su carta tibetana. Il garpòn ci comunicò di poterci dare passaporti e Heinrich Harrer
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mezzi di trasporto soltanto per la provincia di Ngari: in nessun caso eravamo autorizzati a spingerci nell'interno del Tibet. Dopo un rapido consulto gli proponemmo di rilasciarci un passaporto sino al confine con il Nepal. Dopo qualche titubanza annuì e ci promise anche di inviare una lettera al governo centrale di Lhasa, per esporre i nostri desideri. Ma ci avvertì nel contempo che la risposta sarebbe potuta arrivare soltanto dopo alcuni mesi. Non volevamo però attendere qui tanto tempo, perché non intendevamo rimandare il nostro piano di spingerci verso oriente e di continuare a qualunque costo il nostro viaggio. Poiché il Nepal era un paese neutrale e si trovava sulla strada da noi scelta, potevamo essere paghi del successo delle nostre trattative. Il garpòn spinse la sua gentilezza fino a pregarci di rimanere ancora qualche giorno suoi ospiti, finché ci avesse trovato bestie da soma e un accompagnatore. Dopo tre giorni ci fu consegnato il passaporto, nel quale l'itinerario era prescritto come segue: Ngakhyù, Sersok, Mòntse, Barga, Togchen, Lùlung, Samsang, Truksum, Gyabnak. Ci stava inoltre scritto che eravamo autorizzati a richiedere due yak. Particolarmente importante la clausola secondo la quale la popolazione era obbligata a venderci provviste ai prezzi locali, mentre gratuitamente ci dovevano essere forniti il combustibile e i servi per la cucina. La vigilia della nostra partenza il garpòn organizzò un banchetto in nostro onore, durante il quale mi riuscì di vendergli il mio orologio. Dovemmo quindi dargli la nostra parola d'onore che uscendo dalla sua provincia non ci saremmo diretti a Lhasa. Finalmente prendemmo congedo da Gartok. Quando il 13 luglio ci mettemmo in cammino formavamo una carovana di proporzioni decenti. I nostri bagagli erano portati da due yak, spinti da un nomade; seguiva il mio piccolo asino, che si era rimesso bene in salute, carico soltanto del nostro samovar. Il nostro accompagnatore, un giovane tibetano di nome Norbu, era a cavallo. Noi tre europei seguivamo, meno feudalmente, a piedi.
Un altro viaggio faticoso Eravamo in cammino da settimane. Durante l'intero primo mese non incontrammo alcun abitato di qualche importanza, soltanto tende di nomadi e singoli tasam lungo la strada, cioè stazioni di sosta delle Heinrich Harrer
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carovane, dove si può cambiare gli yak e trovare ricovero. In uno di questi tasam mi riuscì di barattare il mio asino con uno yak. Ero molto orgoglioso di tale scambio, perché avevo moltiplicato il peso vivo del mio patrimonio. La mia gioia però non durò a lungo, in quanto il mio yak si dimostrò così intrattabile e ricalcitrante che me ne sarei liberato molto volentieri. Più tardi infatti potei scambiare la mia bestia pesante con uno yak giovane, più piccolo. Ma poiché questo era altrettanto ostinato, gli facemmo, secondo l'uso del paese, un buco nel setto nasale per passarvi un anello di ginepro, al quale era fissata una corda. Così si poteva condurre più facilmente l'animale, che chiamammo Armin. Il paesaggio era molto variegato e di notevole bellezza. Le pianure erano alternate da colline verdeggianti e piccoli passi, e spesso fummo costretti a guadare ruscelli impetuosi e ghiacciati. A Gartok c'erano state alcune grandinate, ora invece le giornate erano belle e calde. La barba di tutti e tre era cresciuta lunga e fitta, e ci proteggeva dai raggi del sole. Già da tempo non avevamo visto più dei ghiacciai, ma quando ci avvicinammo al tasam di Barga ci apparve un'intera catena di montagne coperte di neve. Alto svettava il Gurla Mandhata, di 7728 metri; meno appariscente, ma tanto più famoso, il sacro monte Kailash, di circa 6714 metri, solitario nella sua maestosa bellezza e isolato dalla rimanente catena dell'Himalaia. Alla sua vista i nostri tibetani si gettarono a terra e pregarono. Questo monte è l'alta sede degli dei secondo i buddhisti e gli induisti, il cui più grande desiderio è di recarvisi in pellegrinaggio almeno una volta nella vita. I fedeli percorrono spesso migliaia di chilometri per raggiungerlo. Molti, gettandosi a terra, misurano con il loro corpo la lunghezza del percorso, restando in viaggio per degli anni. Vivono nel frattempo di elemosina e sperano di ottenere come premio del loro pellegrinaggio una più alta incarnazione nella seconda vita. Da tutti i punti cardinali confluiscono qui i sentieri dei pellegrini. Nei punti dai quali si scorge il monte per la prima volta si elevano giganteschi cumuli di pietre, cresciuti attraverso gli anni, indizi di una fede primitiva. Perché ogni pellegrino che vede per la prima volta il Kailash, seguendo un'antica usanza, vi aggiunge qualche nuova pietra. Anche noi avremmo fatto volentieri la strada che porta al Kailash, ma lo scortese impiegato del tasam ce lo impedì e ci costrinse a proseguire, affermando che più tardi non avrebbe potuto garantire le bestie da soma. Per altri due giorni potemmo goderci la vista dei due ghiacciai. Noi alpinisti eravamo attratti, Heinrich Harrer
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più che dal Kailash, dall'inviolato Gurla Mandhata, che in tutto il suo splendore si specchiava nel lago Manasarovar. Presso la sua riva piantammo le nostre tende, incapaci di smettere di ammirare l'indescrivibile bellezza del monte, che sembrava emergere dall'acqua. Senza dubbio questo è uno dei più bei luoghi al mondo. Anche il lago è ritenuto sacro, ed è circondato da molti piccoli monasteri, all'interno dei quali i pellegrini trovano ricovero e possono compiere le loro devozioni. La strada intorno al lago viene percorsa dai pellegrini strisciando a terra, e la sua acqua viene portata a casa in recipienti, che vengono conservati come reliquie ricche di benedizioni. Tutti i viandanti fanno un bagno in quell'acqua gelata. Pure noi lo facemmo, sebbene non per fede. In quell'occasione mi capitò un brutto incidente: nuotai per un buon tratto lontano dalla riva, giungendo all'improvviso in un punto paludoso, dal quale riuscii a liberarmi soltanto con uno sforzo tremendo, perché i miei compagni non si erano accorti della mia disperata lotta con il pantano. Eravamo giunti qui in anticipo sul grande afflusso dei pellegrini, perciò incontrammo perlopiù mercanti. Ma scorgemmo anche non poche figure sospette: questa regione infatti gode fama di essere l'eldorado dei banditi. La tentazione di compiere le loro imprese qui, in vicinanza dei mercati, è più grande che altrove. Il mercato di maggior importanza è Gyanyima. Centinaia di tende formano là un campo gigantesco, dove si baratta, si compra e si vende. Marciammo parecchie ore verso oriente lungo il lago, credendo di passeggiare su un lungomare. L'incanto della bella natura ci fu però guastato dalle intollerabili zanzare, dalle quali ci liberammo solo dopo aver abbandonato il lago. Sulla strada che conduce a Togchen incontrammo una carovana lussuosa: si trattava del nuovo governatore distrettuale che da Lhasa si recava a Tsaparang per assumervi le sue funzioni. Quando fummo fermati, il nostro accompagnatore tibetano, con il quale non eravamo riusciti a fare veramente amicizia, si irrigidì in un profondo inchino, con il cappello in mano e un palmo di lingua fuori in segno di saluto. Egli spiegò la ragione della nostra presenza: le armi già pronte vennero rinfoderate, e ci furono benignamente offerte frutta secca e noci. Della nostra signorilità europea non vi era evidentemente più traccia. Vivevamo infatti come nomadi, dormivamo da tre mesi perlopiù a ciel sereno e il nostro tenore di vita era peggiore di quello della popolazione Heinrich Harrer
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indigena. Le nostre piccole tende non ci offrivano che un riparo precario, cucinavamo all'aria aperta con qualsiasi tempo, mentre i nomadi potevano stare comodamente seduti al caldo sotto le loro spaziose tende. Ma se il nostro aspetto esteriore era miserando, lo spirito era alto e alacre. Solo pochi europei avevano messo piede in queste regioni da noi attraversate, perciò sapevamo che ogni nostra osservazione sarebbe potuta essere, un giorno, preziosa. Credevamo ancora di rientrare in breve tempo a contatto con la civiltà. I pericoli e gli strapazzi comuni avevano approfondito i vincoli della nostra amicizia, ciascuno aveva imparato a conoscere i meriti e le debolezze degli altri, sicché tutti e tre ci aiutavamo a vicenda a superare i momenti di depressione. Attraversando passi poco elevati arrivammo alla regione delle sorgenti del Brahmaputra, che i tibetani chiamano Tsangpo. Questa contrada non assume soltanto un'importanza religiosa per il pellegrino dell'Asia, ma è anche geograficamente di grande interesse, perché qui nascono le sorgenti dell'Indo, del Sutlej, del Karnali e del Brahmaputra. Secondo i tibetani, che sono soliti dare un significato religioso-simbolico a tutto, i nomi di questi fiumi sono collegati a quattro bestie sacre: il leone, l'elefante, il pavone e il cavallo. Per i quattordici giorni seguenti ci fu di guida lo Tsangpo. Alimentato da forti corsi d'acqua provenienti dal vicino Transhimalaia e Himalaia, questo fiume si gonfia a vista d'occhio, e quanto maggiore è il suo volume d'acqua, tanto più calmo è il suo corso. Il tempo mutava intanto di continuo. Nel giro di pochi minuti si passava dal caldo al gelo. Grandine, pioggia e sole si alternavano, e una mattina trovammo la nostra tenda sepolta sotto la neve, ma in poche ore il caldo sole la sciolse. I nostri indumenti europei non erano adatti a proteggerci dai costanti sbalzi della temperatura, e grande era la nostra invidia per le pratiche pellicce di pecora dei tibetani, fissate alla cintola, con lunghe e ampie maniche che fanno le veci di guanti. Benché i bruschi mutamenti del tempo ci facessero soffrire, camminavamo svelti. Le nostre soste erano determinate dai tasam. Di tanto in tanto si scorgeva l'Himalaia, e il maestoso panorama della catena delle sue vette era impareggiabile, superiore a tutte le bellezze della natura che avevo visto fino ad allora. I nostri incontri con i nomadi divennero sempre più rari, e gli unici esseri viventi che scorgemmo lungo la riva destra dello Tsangpo furono gazzelle e kyang. Ci stavamo avvicinando a Gyabnak, Heinrich Harrer
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l'ultima località menzionata dal nostro passaporto. Qui terminava anche la sfera giurisdizionale del nostro amico di Gartok. A toglierci dall'imbarazzo di prendere una decisione circa ciò che si sarebbe dovuto fare, il terzo giorno della nostra sosta arrivò senza fiato un messo da Tradùn, che ci invitò a recarci là nel più breve tempo possibile. Due alti funzionari di Lhasa volevano parlare con noi. Il commiato da Gyabnak non ci causò pena: benché fosse la sede di un monaco-funzionario della provincia di Bongpa, il luogo era costituito da un'unica casa, e la prima tenda di nomadi si trovava a un'ora di cammino. Ci mettemmo quindi subito in moto. Passammo la notte in una regione deserta, popolata solo da kyang. Il giorno seguente lo ricorderò sempre come uno dei più belli della mia vita. Durante la marcia, dopo qualche tempo, scorgemmo emergere in grande lontananza le minuscole torri dorate di un monastero. Al di sopra si elevavano grandiose pareti di ghiaccio, risplendenti nel sole mattutino. Comprendemmo che dovevano essere i giganteschi «ottomila» dell'Himalaia: Dhaulagiri, Annapurna e Manaslu. Sopraffatto da tanta bellezza, perfino Kopp, che non era un alpinista, rimase entusiasta. Poiché Tradùn con le sue cuspidi filigranate giaceva all'altra estremità della pianura, godemmo per molte ore il superbo spettacolo di quei giganti. Neppure la necessità di dover guadare il gelido Tsachu riuscì a incrinare il nostro stato euforico.
Un monastero rosso dai tetti dorati: Tradùn Scendeva la sera mentre entravamo in Tradùn: gli ultimi raggi del sole morente imporporavano magicamente i tetti dorati del monastero rosso. Dietro alla collina, protette dal vento, si nascondevano le case del luogo, costruite come al solito con riquadri di argilla secca. Trovammo l'intera popolazione riunita che ci attendeva in silenzio. Fummo subito condotti in una casa che era già stata preparata per noi. Non appena liberatici dai nostri pesi entrarono parecchi servi, per pregarci cortesemente di andare dai loro padroni. Pieni di curiosità ci recammo alla casa dei due alti funzionari. Attraverso una bisbigliante folla di impiegati e di addetti penetrammo in un ambiente spazioso, dove sopra alti troni sedevano uno accanto all'altro un monaco ben pasciuto e sorridente e il funzionario civile di pari grado. Heinrich Harrer
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Più sotto avevano preso posto un abate, il monaco-funzionario di Gyabnak e un commerciante nepalese. Questi parlava un po' l'inglese e doveva fungere da interprete. Per noi avevano preparato un divano fatto di cuscini, in modo che non avessimo bisogno di sedere a gambe incrociate come i tibetani. Ci offrirono del tè con pasticcini e per il momento non ci rivolsero alcuna domanda. Alla fine ci chiesero di mostrare loro i passaporti, che tutti esaminarono con molta attenzione. Dopo un lungo e opprimente silenzio, i due funzionari cominciarono a esternare i loro dubbi: eravamo veramente tedeschi? Era semplicemente poco credibile che fossimo prigionieri di guerra evasi da un campo di prigionia britannico e molto più probabile che fossimo inglesi o russi. Ci fecero andare a prendere i nostri bagagli, il cui contenuto venne disteso nel cortile della casa e minuziosamente esaminato. La loro maggiore preoccupazione si rivelò essere il dubbio che possedessimo armamenti o una stazione radio, e fu veramente difficile persuaderli del contrario. Le uniche cose del nostro bagaglio che eccitarono il loro interesse furono una grammatica tibetana e un libro di storia. Il nostro passaporto precisava che volevamo recarci nel Nepal. Soddisfatti della prospettiva, ci promisero ogni aiuto, invitandoci a partire subito il giorno seguente e a scegliere l'itinerario attraverso il passo di Korela, che in due giorni ci avrebbe fatto raggiungere il Nepal. Ma tutto ciò non corrispondeva alle nostre intenzioni. Volevamo a tutti i costi rimanere nel Tibet, ed eravamo ben decisi a lottare per spuntarla. Insistemmo perché ci venisse accordato diritto d'asilo, battendo il tasto della neutralità del Tibet e paragonando la sua situazione a quella della Svizzera. I funzionari però non vollero sentire ragioni e si richiamarono cortesemente, ma fermamente, alle precise indicazioni dei nostri passaporti. Noi però non eravamo meno ostinati di loro. Durante i mesi della nostra permanenza nel Tibet avevamo imparato a conoscere un po' meglio la mentalità degli asiatici, e sapevamo che non bisognava darsi subito per vinti. Tutta la conversazione proseguì nella massima tranquillità, e mentre venivano servite continuamente tazze di tè, ci raccontarono, modestamente, di trovarsi in viaggio per l'esazione delle imposte e di non essere, a Lhasa, funzionari di grado così elevato come sembrava a Tradùn. Avevano infatti con sé venti servitori e una grande quantità di bestie da soma, e ciò li faceva apparire perlomeno dei ministri. Alla fine ci congedammo, dichiarando che ci saremmo fermati a Tradùn Heinrich Harrer
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ancora per un po'. Il giorno seguente si presentò da noi un servo con un invito a pranzo dai bònpo, nome che nel Tibet viene dato a tutte le persone di rango elevato. Ci attendeva un magnifico piatto di pasta alla cinese. Dovevamo aver destato veramente l'impressione di essere affamati, perché la quantità di cibo era enorme. A un certo punto non ne potevamo più, ma loro insistevano affinché ne mangiassimo ancora, e in quell'occasione apprendemmo che nel Tibet è segno di buona educazione ringraziare prima di essere sazi. Fummo non poco sorpresi nel vedere con quanta abilità maneggiassero i loro bastoncini: riuscivano a portarsi alla bocca perfino un solo chicco di riso. L'atmosfera divenne sempre più cordiale, e spesso risuonarono forti risate da entrambe le parti. Alla fine fu offerta anche della birra, il che contribuì ad alzare ancora di più il tono di allegria. Notai che i monaci non ne avevano bevuta. A poco a poco la conversazione toccò il nostro problema, e apprendemmo che avevano deciso di chiedere per noi un'autorizzazione di soggiorno al governo centrale di Lhasa. Ci dissero di comporre subito un'istanza in lingua inglese, alla quale i due funzionari avrebbero aggiunto la loro lettera. Ci mettemmo subito a redigere lo scritto, e in nostra presenza la petizione fu accompagnata dal documento ufficiale già preparato. Il plico, cerimoniosamente sigillato, venne consegnato a un messo che partì subito alla volta di Lhasa. Non potevamo quasi credere a tanta cortesia, che ci avrebbe permesso di restare a Tradùn fino a quando fosse giunta la risposta. Poiché le esperienze da noi fatte con gli impiegati subalterni non erano state soddisfacenti, chiedemmo che il permesso ci venisse confermato per iscritto. Oltremodo felici e contenti del nostro successo, ci ritirammo finalmente nella casa assegnataci. Eravamo appena giunti, che la porta si spalancò per lasciar passare una lunga processione di servi carichi di farina, riso e tsampa, nonché di quattro pecore macellate. Non sapevamo che cosa ciò dovesse significare, finché il capo del villaggio, che aveva accompagnato i servi, ci fece intendere che si trattava di un regalo dei due funzionari. Non volle ascoltare i nostri ringraziamenti, e congedandosi questo tibetano grassottello ci disse alcune parole della cui saggezza avremmo approfittato per lungo tempo: «Nel Tibet non esiste la fretta degli europei. Dovete imparare a prendere tempo e a pazientare, per arrivare prima alla meta». Di nuovo soli fra le nostre mura domestiche e colmi di ammirazione per Heinrich Harrer
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i doni ricevuti, non potevamo credere al fausto evolversi della nostra sorte. La nostra istanza di soggiorno era in viaggio, ed eravamo provvisti di viveri per mesi. Sopra le nostre teste, anziché una sottile tela, c'era un tetto solido, e una serva - purtroppo non più giovane e bella - accendeva il fuoco e andava a prendere l'acqua. Eravamo così riconoscenti che avremmo voluto ricambiare in modo tangibile le gentilezze dei bònpo. Non avevamo da offrire loro se non alcuni medicinali, ma speravamo di poter prima o poi dimostrare la nostra gratitudine in qualche altro modo. Come a Gartok, anche qui potemmo apprezzare la cortesia della nobiltà di Lhasa, della quale avevo letto alte lodi nei libri di sir Charles Bell. Poiché supponevamo di dover attendere mesi prima di ricevere la risposta del governo di Lhasa, cominciammo a pensare a come avremmo potuto passare il tempo. Volevamo in ogni caso fare escursioni nella regione dell'Annapurna e del Dhaulagiri, nonché nelle pianure settentrionali del Changtang. Dopo qualche tempo ci venne a far visita l'abate, l'aiuto del quale era stato richiesto dal capo del villaggio. Ci comunicò che il permesso di soggiorno a Tradùn era stato approvato a condizione che non ci allontanassimo dal luogo per più di una giornata. Potevamo fare escursioni ovunque, a patto che fossimo di ritorno prima di sera. Nel caso non ci fossimo attenuti a tale disposizione, l'abate sarebbe stato costretto a denunciare questa disobbedienza a Lhasa, dove ciò non avrebbe certo avuto un effetto favorevole sulla decisione che doveva essere presa nei nostri confronti. Ci accontentammo di brevi escursioni sulle montagne vicine. Ci attirava in modo particolare un monte isolato alto oltre 7000 metri. Era il Lungpo Kangri, e spesso stavamo seduti su uno dei suoi promontori per disegnarne le forme bizzarre. Si elevava appartato nel Transhimalaia, al pari del Kailash, e spiccava in modo particolare. Verso sud potevamo ammirare i giganti dell'Himalaia, benché le cime fossero distanti più di cento chilometri. Un giorno, essendo la tentazione divenuta troppo forte, Aufschnaiter e io decidemmo di esaminarli un po' più da vicino: ci ponemmo come obiettivo di raggiungere il monte chiamato Tarsangri. Per trovare una strada adatta, dovevamo però anzitutto attraversare lo Tsangpo, che qui era già molto largo, ma i battellieri che facevano il servizio di traghetto avevano ordine di rifiutarci il passaggio. Fummo quindi costretti a raggiungere la riva opposta a nuoto. La forte corrente era sul punto di trascinare via il fagotto dei vestiti che Heinrich Harrer
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Aufschnaiter teneva sopra la testa, quando riuscii ad afferrarlo ancora in tempo. La salita proseguì poi senza difficoltà, e dalla cima della montagna potemmo godere la meravigliosa vista di un paesaggio montuoso le cui cime per quasi tutti gli alpinisti sono soltanto dei nomi. Non possedendo una macchina fotografica, dovemmo limitarci a fare degli schizzi. Ritornammo a casa senza essere disturbati, perché tutti si mostrarono soddisfatti che non fossimo fuggiti. Poiché Tradùn era uno dei più grandi centri di smistamento del traffico commerciale, il luogo sembrava uno scalo ferroviario. Giornalmente si accumulavano qui montagne di sale, tè, lana, albicocche secche e molti altri articoli. Quasi sempre, dopo uno o due giorni, quei depositi venivano ritrasportati da altre carovane a dorso di yak, muli o pecore. La gente cambiava in continuazione, quindi non ci mancavano le distrazioni. Il mese di agosto ci portò frequenti piogge, emissari del monsone in India. In settembre il tempo volse al bello, e spesso ne approfittammo per andare a pesca o per acquistare dai nomadi burro e formaggio. Con tutta la popolazione riuscimmo ben presto a stringere relazioni amichevoli, e spesso scambiammo i nostri medicinali con insalata fresca o altri contorni per i nostri pasti. Ci affermammo anche come medici, e il successo ci arrise specialmente nel curare ferite e coliche. La monotonia della vita veniva interrotta di tanto in tanto dalla visita di alti funzionari. In modo particolare mi è rimasto impresso nella memoria l'arrivo del secondo garpòn a Gartok. Molto prima che di lui e del suo seguito si potesse avere il minimo sentore, vennero alcuni soldati per annunciarne l'arrivo. Poi giunse il suo cuoco, che cominciò subito a preparare il pasto, e solo il giorno dopo arrivò il garpòn stesso, con la carovana principale e il suo seguito di trenta servi e serve. Tutto il villaggio, noi compresi, corse ad accoglierlo. L'alto personaggio e la sua famiglia cavalcavano muli riccamente bardati, e gli anziani del villaggio accompagnavano, tenendo le redini degli animali, ogni membro della famiglia agli alloggi che gli erano stati assegnati. Più che il garpòn ci fece impressione sua figlia. Era la prima donna ben curata che vedevamo dal 1939, e ci parve molto bella. Le sue vesti erano di seta pura, le sue unghie smaltate di rosso. Forse aveva esagerato con la cipria, il rossetto e la matita per le labbra, ma esalava comunque un aroma di freschezza e pulizia. Alla nostra domanda se fosse la più bella fanciulla di Lhasa, diede modestamente una risposta negativa, ritenendo che ve ne Heinrich Harrer
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fossero di molto più belle. Dopo un giorno questa eletta compagnia ripartì, e ci sentimmo proprio infelici. Qualche tempo dopo il nostro villaggio accolse un nuovo ospite. Un funzionario del governo del Nepal, con il pretesto di fare un pellegrinaggio a Tradùn, venne a trovarci. Riportammo l'impressione che volesse convincerci ad andare nel Nepal a tutti i costi. Disse che nella capitale Katmandu avremmo trovato buona accoglienza e lavoro, e tutto si sarebbe svolto facilmente, in quanto il viaggio sarebbe stato organizzato dal governo, che già aveva messo a disposizione per tale scopo trecento rupie. Tutto ciò era attraente, forse troppo attraente, perché noi conoscevamo bene il potere degli inglesi in Asia. Non accettammo la sua proposta. Erano intanto trascorsi tre mesi. La nostra impazienza aumentava, il che influiva negativamente sui nostri nervi: scoppiavano frequenti contrasti. Kopp dichiarò ripetutamente che avrebbe accettato volentieri l'invito a recarsi nel Nepal. Aufschnaiter, come al solito, aveva progetti personali. Infatti acquistò quattro pecore, come bestie da soma, per recarsi nel Changtang. È vero che tutto ciò era contrario al nostro piano iniziale di attendere la lettera da Lhasa, ma ormai ognuno dubitava della possibilità di ricevere una risposta favorevole. Aufschnaiter fu il primo di noi a perdere la pazienza. Un pomeriggio si mise in moto con le sue quattro pecore cariche e andò a piantare la sua tenda ad alcuni chilometri dal villaggio. Lo aiutammo nel trasporto, ed eravamo intenzionati a fargli visita il giorno seguente. Anche Kopp cominciò a impacchettare la sua roba, e le autorità locali gli promisero un mezzo di trasporto, molto soddisfatte della sua decisione di recarsi nel Nepal. Il comportamento di Aufschnaiter piacque loro meno. Da quel giorno furono dislocate alcune sentinelle davanti alla nostra porta. Ma già ventiquattro ore dopo riapparve, con nostra grande sorpresa, Aufschnaiter con i suoi bagagli. Le sue pecore erano state assalite dai lupi, che ne avevano divorate due. Tale circostanza lo costrinse al ritorno, e per quella sera fummo di nuovo in tre. Il giorno seguente Kopp prese congedo da noi, salutato da tutta la popolazione. Dei sette che erano evasi dal campo di prigionia e dei cinque che si erano recati nel Tibet, restavamo soltanto io e Aufschnaiter. Eravamo però proprio noi due gli unici alpinisti del gruppo, e perciò, sia fisicamente che spiritualmente, eravamo anche i più adatti a sopportare la dura e solitaria vita di questo paese. Heinrich Harrer
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Nel frattempo eravamo giunti alla fine di novembre e il traffico delle carovane era molto diminuito. Il monaco-funzionario di Gyabnak ci mandò alcune pecore e dodici carichi di sterco di yak per il riscaldamento. Fu una fortuna, perché la temperatura era scesa a 12 °C sotto lo zero.
Una lettera ci proibisce di proseguire Malgrado l'inverno, eravamo più che mai decisi ad andarcene da Tradùn, con o senza lettera. Facemmo quindi una scorta di approvvigionamenti e acquistammo un secondo yak. Ma nel bel mezzo dei nostri preparativi l'abate venne a comunicarci che era giunta per noi la tanto attesa lettera. Ciò che temevamo si era avverato: ci proibivano di proseguire verso l'interno del Tibet. La lettera non ci fu mostrata, ci ingiunsero soltanto di non prendere la strada più breve per raggiungere il Nepal, ma di dirigerci verso l'interno del Tibet fino a Kyirong. Da lì c'erano soltanto otto miglia sino al confine con il Nepal e sette giornate di marcia fino alla capitale Katmandu. Per questo viaggio ci misero a disposizione bestie da soma e servi. Accettammo senza esitazioni, perché l'itinerario ci conduceva per un altro tratto all'interno del paese, e per noi era meglio mantenerci nella legalità il più a lungo possibile. Il 17 dicembre abbandonammo Tradùn, dove avevamo soggiornato per più di quattro mesi. Il veto di recarci a Lhasa non suscitò in noi alcuna animosità contro i tibetani, perché tutti sanno quanto sia difficile per gli stranieri senza passaporto restare all'interno di una qualsiasi nazione. Il fatto che i tibetani ci avessero dimostrato la loro ospitalità con regali e mezzi di trasporto comprovava la loro superiorità rispetto a quanto sono soliti fare gli altri paesi in simili occasioni. Benché allora non apprezzassi la nostra buona sorte come invece faccio oggi, Aufschnaiter e io eravamo comunque grati alle autorità di averci risparmiato otto mesi di prigionia dietro il filo spinato. A questo punto partimmo. Ci accompagnavano due servi, uno dei quali portava, impacchettata come fosse una sacra reliquia, il nostro bene più prezioso, la lettera del governo al funzionario distrettuale di Kyirong. Mentre noi procedevamo a cavallo, i nostri due yak erano condotti da un mulattiere. La nostra carovana anche a distanza si presentava assai bene: dimostrava che erano in viaggio persone ragguardevoli, ben diverse dai tre Heinrich Harrer
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vagabondi malridotti che alcuni mesi prima, in direzione contraria, avevano valicato l'Himalaia. La strada verso Kyirong ci condusse di nuovo attraverso lo spartiacque dell'Himalaia in direzione sudest. Lo Tsangpo era ormai gelato quando lo oltrepassammo, e le notti sotto la tenda si rivelarono freddissime. Dopo una settimana raggiungemmo Jongkha, il villaggio che una densa nuvola di fumo sopra le case ci aveva segnalato già da lontano. Finalmente un villaggio degno di tal nome! Intorno a un monastero si ammassavano circa cento case costruite con mattoni di argilla, circondate da campi coltivati. Jongkha era situata alla confluenza di due ruscelli che, sotto il nome di fiume Kosi, attraverso l'Himalaia scendevano verso il Nepal. L'agglomerato era circondato da un muro alto circa una decina di metri, e dietro a questo giganteggiava una magnifica montagna, alta più di 6000 metri, che gli indigeni chiamavano Chogulhari. Era Natale quando entrammo a Jongkha, il nostro primo Natale fuori del campo di prigionia. Ci fu assegnato un buon alloggio, così comodo da farci rimanere stupiti. La foresta distava soltanto due giorni di marcia, sicché la legna non era più una rarità preziosa e poteva essere raccolta in abbondanza per qualsiasi costruzione supplementare e per tutti gli usi domestici. Un bidone trasformato in stufa riscaldava piacevolmente il nostro ambiente. La sera accendemmo le lampade tibetane al burro, e per solennizzare la ricorrenza facemmo rosolare un bel cosciotto di montone. Come dovunque nel Tibet, anche qui non c'erano alberghi pubblici. A ogni viaggiatore veniva assegnato un alloggio privato dalle autorità. Tale assegnazione avveniva a rotazione, in modo che la popolazione non ne fosse troppo gravata, e ciò faceva parte del sistema di tassazione statale. Benché non avessimo previsto un lungo soggiorno a Jongkha, ci fermammo un mese a causa delle abbondanti nevicate. Poiché l'Himalaia era molto vicino, nevicava fitto per giorni interi, e ogni comunicazione era interrotta. Approfittammo della nostra permanenza per riposare e prendere parte, come spettatori, ad alcune cerimonie del monastero e alle rappresentazioni di un gruppo di danzatori provenienti da Nyenam. Vivevano qui parecchi funzionari nobili, con i quali facemmo ben presto amicizia. Ormai parlavamo correntemente il tibetano, e lunghe discussioni ci aiutarono ad apprendere molti usi e costumi del paese. La notte di San Silvestro del 1944 passò silenziosa, senza essere celebrata, ma i nostri Heinrich Harrer
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pensieri volarono più che mai verso le nostre case lontane. Appena possibile facevamo escursioni nei dintorni. C'erano molte caverne di pietra arenaria, vere miniere di ritrovamenti, all'interno delle quali scoprimmo vecchie statue di divinità in legno e in terracotta, nonché pagine di testi religiosi tibetani. Probabilmente si trattava di offerte portate in dono ai santi che avevano vissuto in quelle grotte. Il 19 gennaio la strada si rivelò sufficientemente sgombra da permetterci di partire in compagnia di una grossa carovana di yak. In testa c'erano animali non carichi, che segnavano la pista, arando per così dire la neve profonda e dimostrando di trarne molta soddisfazione. La regione era intersecata da numerose vallate e burroni, e nei primi due giorni oltrepassammo non meno di dodici ponti sul fiume Kosi. Il mio yak, proveniente dalle pianure settentrionali del Changtang, non era abituato ai ponti, e si rifiutava con grande energia di porvi piede ogni volta che dovevamo oltrepassarne uno. Soltanto con l'aiuto dei carovanieri riuscivamo, spingendolo da dietro e tirandolo in avanti, a farglieli attraversare. Già quella volta mi sconsigliarono di portarlo a Kyirong, perché d'estate non avrebbe sopportato il clima caldo. Io però non volevo separarmi dall'animale, non avendo mai rinunciato ai progetti di fuga. Durante tutto questo tempo il mio termometro segnò imperterrito 30 °C sotto lo zero. La scala, del resto, finiva lì, e il mercurio non poteva scendere più in basso. Una volta, in un burrone, sopra una parete, scoprimmo un'iscrizione cinese, che suscitò in me grande interesse: era una testimonianza della campagna militare cinese contro il Nepal del 1792, quando un'intera armata aveva percorso migliaia di chilometri per giungere alle porte di Katmandu, dove furono dettate le condizioni. Grande impressione ci fece un monastero tra le rocce in prossimità del villaggio di Longda. Duecento metri sopra la valle stavano appollaiati sulla roccia, come nidi di uccelli, templi rossi e un numero infinito di celle claustrali. Nonostante il pericolo di valanghe, Aufschnaiter e io non fummo in grado di trattenerci dall'arrampicarci lungo la superficie rocciosa fino in cima, da dove godemmo una magnifica vista dell'Himalaia. Vi incontrammo monaci e suore, dai quali apprendemmo che il monastero era stato fondato da Milarepa, il celebre santo e poeta tibetano che qui era vissuto nell'undicesimo secolo. Il monastero porta il nome di Trakar Taso. Heinrich Harrer
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Data la bellezza del paesaggio, ci proponemmo di ritornarvi, ma per il momento ci affrettammo a raggiungere la carovana. La neve cadeva sempre più di rado, e rapidamente raggiungemmo il limite boscoso, superato il quale piombammo in un clima addirittura tropicale. I vestiti invernali regalatici dal governo divennero intollerabili. Così arrivammo alla nostra ultima tappa prima di Kyirong, il villaggio di Drothang. Ricordo che i suoi abitanti avevano enormi gozzi, una particolarità che si vede raramente nel Tibet. Impiegammo una settimana per raggiungere Kyirong, che, quando le strade sono in buone condizioni, dista solo tre giorni di marcia da Jongkha, e può essere raggiunto in una sola giornata da un veloce messaggero.
Kyirong, «villaggio della felicità» Kyirong significa letteralmente «villaggio della felicità», e merita veramente questo nome. Non cesserò mai di averne nostalgia, e se potessi scegliere il posto nel quale finire i miei giorni, questo sarebbe Kyirong. Mi costruirei una casetta in legno di cedro rosso e devierei l'acqua di uno degli innumerevoli ruscelli che scendono dalle montagne per irrigare il mio giardino. Vi attecchirebbero quasi tutti gli alberi fruttiferi, perché il luogo, benché a oltre 2700 metri sul livello del mare, giace quasi a cavallo del 28° parallelo. Quando vi arrivammo, in gennaio, il termometro segnava qualche linea sotto lo zero, ma la temperatura non scende mai, anche nel più rigido inverno, al di sotto dei 10 °C. Se le stagioni sono simili a quelle delle nostre Alpi, la vegetazione è subtropicale. Qui si potrebbe sciare tutto l'anno, e d'estate scalare una serie di montagne tra i seimila e i settemila metri. Il villaggio era formato da circa ottanta case ed era la sede di due governatori distrettuali, alla cui giurisdizione appartenevano trenta villaggi dei dintorni. Come apprendemmo in seguito, eravamo i primi europei a raggiungere Kyirong, e la popolazione assistette al nostro ingresso con grande stupore. Di nuovo ci fu assegnato il nostro alloggio, questa volta, però, presso uno dei contadini facoltosi. La casa aveva fondamenta regolari, sulle quali si innalzava una costruzione in legno; il tetto era coperto da tegole, tenute ferme da pietre. Somigliava alle case tirolesi, e tutto il villaggio sarebbe potuto benissimo essere uno dei nostri villaggi Heinrich Harrer
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alpini, eccetto che nella parte superiore, sormontata, anziché da camini, da variopinte banderuole sacre. Queste hanno sempre cinque diverse tonalità di colore, ognuna delle quali simboleggia un singolo aspetto della vita tibetana. A pianterreno c'erano le stalle per le mucche e i cavalli, che un grosso soffitto di legno separava dal primo piano, dove si trovavano le stanze abitate dalla famiglia. Vi si poteva arrivare soltanto dall'esterno, per mezzo di una scala posta nel cortile. Grosse federe riempite di paglia sostituivano letti e sedie, e accanto a queste c'erano piccoli tavolini bassi. I membri della famiglia tenevano i loro vestiti all'interno di cassettoni variopinti, e davanti all'immancabile altare di legno intagliato ardevano le lampade a burro. Un immenso caminetto aperto, il cui fuoco era alimentato da legno di quercia, costituiva d'inverno il punto di riunione di tutta la famiglia. Seduti per terra in cerchio, lì i membri della casa bevevano il loro tè. La stanza assegnataci era abbastanza piccola, tanto che dopo poco tempo fui costretto a trasferirmi nel vicino fienile. Mentre Aufschnaiter proseguiva la sua incessante lotta con i ratti e le cimici, io dovetti vedermela con topi e pulci. Non riuscii a sconfiggerli, ma per quanto ciò fosse sgradevole, mi sentivo ampiamente ricompensato dalla meravigliosa vista dei ghiacciai, che sembravano vicinissimi e si ergevano maestosi sopra boschetti di rododendri. Benché avessimo a nostra disposizione un servo, preferivamo, per ragioni igieniche, cucinare da soli. La legna ci veniva fornita gratuitamente, e le nostre spese, che si limitavano all'acquisto di viveri, erano quindi irrisorie. L'alimento principale in questa regione era la tsampa, l'impasto di farina di orzo mescolato a burro: qui imparammo anche a prepararlo. Riuscimmo presto ad abituarci a questo cibo, meno però al tè al burro. Quello tibetano è un modo di preparare il tè assai strano per gli europei. Dalla Cina viene importato, sotto forma di mattoni pressati, il tè, che consiste soprattutto di gambi e cascami. I tibetani lo fanno bollire per ore, ottenendo una brodaglia scura. Durante la cottura viene aggiunto molto sale e un po' di soda. Una volta cotto, viene filtrato e messo in un recipiente. Poi si aggiunge, secondo la quantità e la qualità desiderate, il burro, e il tutto viene mescolato finché diventa un'emulsione. Il burro, conservato per mesi e addirittura anni in otri di pelle di yak, è purtroppo quasi sempre rancido. Perciò il sapore di questo tè al burro è per gli europei, soprattutto all'inizio, assolutamente nauseante, e io feci molta fatica ad abituarmici. Anche i Heinrich Harrer
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tibetani preferirebbero l'aggiunta di burro fresco anziché guasto, perché si tratta della loro bevanda nazionale, e giornalmente arrivano a berne perfino sessanta tazze. Accanto ai due alimenti principali, la tsampa e il tè, la popolazione consuma anche riso, grano saraceno, granturco, patate, carote, cipolle, fagioli e ravanelli. La carne è una rarità. Poiché Kyirong è un luogo sacro, le bestie non vengono uccise. La carne faceva la sua comparsa sulla tavola solo se veniva portata da qualche altra regione, o se, come spesso accadeva, orsi e pantere aggredivano un animale e lasciavano qualche avanzo della loro preda. Mi sembrò una contraddizione il fatto che ogni autunno attraversassero il villaggio circa quindicimila pecore, per finire nei mattatoi del Nepal, e che per il passaggio di questo bestiame Kyirong esigesse il pagamento di una tassa. Subito all'inizio del nostro soggiorno ci presentammo ai funzionari distrettuali. Il nostro salvacondotto era già stato consegnato dal servo, e i bònpo pensarono che avremmo proseguito subito per il Nepal. Non essendo però questa la nostra intenzione, dicemmo loro che ci saremmo fermati volentieri per un po' di tempo a Kyirong. Accettarono la nostra decisione senza opporsi, e su nostra richiesta ci promisero di riferirla al governo di Lhasa. Facemmo anche visita al rappresentante del Nepal, e di nuovo questo paese ci fu descritto in termini entusiastici. Intanto però avevamo appreso che Kopp, dopo pochi giorni di permanenza nella capitale, era stato rispedito al campo in India. Non ci fecero quindi più alcuna impressione né le lusinghe, né le promesse di trovare a nostra disposizione automobili, biciclette e cinema a Katmandu. A causa delle strette relazioni commerciali con il Nepal, in questa regione quasi non circolava moneta tibetana: la valuta dominante era la rupia nepalese. La popolazione era poi di razza mista: a Kyirong vivevano moltissimi meticci tibetani-nepalesi, chiamati katsara, che non sono neppure lontanamente simpatici e allegri come i tibetani di razza pura, e anche per questo motivo non vengono rispettati né dai tibetani, né dai nepalesi. Non potevamo certo sperare di ottenere un permesso di soggiorno dal governo di Lhasa, e se ci fossimo diretti verso il Nepal avremmo corso il rischio di essere deportati in India. Decidemmo così di prolungare il nostro soggiorno in questo villaggio incantato, per rimetterci in forze ed elaborare un nuovo piano di fuga. Non potevamo prevedere che ci saremmo fermati qui quasi nove mesi. Heinrich Harrer
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Non soffrivamo di noia. Passavamo le giornate o prendendo appunti sui nostri grossi diari circa gli usi e i costumi dei tibetani, o dedicandoci all'esplorazione dei dintorni. Aufschnaiter, che era stato segretario, a Monaco, della fondazione Himalaia, approfittò dell'occasione per disegnare diligentemente mappe. Mentre sulla nostra carta speciale della regione non erano segnate che tre località, noi ne registrammo più di duecento. Così non solo ci godevamo la nostra libertà, ma impiegavamo anche utilmente il tempo. Le nostre escursioni, inizialmente limitate ai dintorni immediati, si spinsero a poco a poco sempre più lontano. La gente si era abituata a vederci, e nessuno pertanto ci infastidiva. Naturalmente ci attraevano soprattutto le montagne, ma ci interessavano molto anche le sorgenti calde intorno a Kyirong. Ce n'erano molte, la più calda delle quali sgorgava nella giungla di bambù presso la riva del gelido fiume Kosi. L'acqua scaturiva quasi bollente dal terreno, e anche in superficie manteneva una temperatura costante di circa 40 °C. Si potevano fare veri e propri bagni termali, tuffandosi alternativamente nell'acqua fredda del Kosi e nell'acqua calda della fonte. In primavera ferve qui una vera e propria stagione balneare. A frotte vi sì recano i tibetani, capanne di bambù e cabine crescono come i funghi, e un animato movimento regna in questo luogo di solito deserto, distante due ore da Kyirong. Uomini, donne e bambini sguazzano nudi nella vasca, e ogni segno di pudicizia provoca forti risate. Il soggiorno presso queste fonti costituisce un periodo di vacanza. La gente ci viene con armi, bagagli e barili di birra, per trattenersi una o due settimane in una delle capanne. Neppure i nobili si privano di questo divertimento borghese, e arrivano con numerosa servitù. Ma tutto il traffico dura poco, perché d'estate, nel momento del disgelo, il fiume inghiotte la fonte. A Kyirong feci anche la conoscenza di un monaco che aveva studiato all'istituto di medicina di Lhasa. Era molto rispettato, e poteva vivere comodamente con le provviste che gli venivano date a titolo di onorario. I suoi metodi di cura erano molto vari. Uno consisteva nel premere sulla parte malata un sigillo sacro, e in casi di malattie isteriche aveva anche successo. In casi gravi praticava buchi nella pelle con un ferro rovente. Io stesso fui testimone una volta di una simile operazione, che risuscitò un moribondo dal coma, ma a molti dei suoi pazienti la cura risultava invece fatale. Questo metodo drastico era impiegato anche per guarire gli animali Heinrich Harrer
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domestici. Poiché a mia volta godevo fama di essere un mezzo medico e mi ero sempre interessato a tutto quello che riguardava la medicina, ebbi lunghe conversazioni con il monaco. Egli mi confessò che conosceva molto bene i limiti del suo sapere, ma non se ne preoccupava troppo e non aveva mai incidenti spiacevoli, anche perché cambiava spesso villaggio. Poiché poteva finanziare i suoi pellegrinaggi solo grazie alle sue dubbie cure, anche la sua coscienza lo lasciava tranquillo.
Il nostro primo capodanno nel Tibet A metà febbraio festeggiammo il nostro primo capodanno nel Tibet. Nella terra del Dalai Lama il computo degli anni è determinato secondo le fasi lunari, e questi hanno una doppia denominazione, la prima che si riferisce a un animale e la seconda che si riferisce a un elemento. La festa di capodanno, accanto all'anniversario della nascita e della morte del Buddha, è il più grande avvenimento dell'anno. Già durante la notte precedente fummo svegliati dalle cantilene dei mendicanti e dei monaci erranti che andavano di casa in casa per raccogliere le offerte. Al mattino, pini appena abbattuti, ornati con banderuole sacre, vennero fissati sui tetti delle case, testi religiosi furono solennemente recitati e tsampa fu offerta agli dei. Nei numerosi templi la popolazione portò in dono un po' di burro, finché gli enormi recipienti di rame ne furono ricolmi. Soltanto in quel momento, secondo i fedeli, gli dei sono appagati e pronti a garantire favori per il nuovo anno. Inoltre, in segno di speciale rispetto, vennero stese sciarpe di seta bianca intorno alle statue dorate, che i fedeli toccavano ritualmente con la fronte. Poveri e ricchi, tutti intervennero pieni di fervore e senza dubbi interiori per sacrificare agli dei e impetrarne la benedizione. È difficile trovare un popolo che al pari di questo, senza alcuna eccezione, sia così attaccato alla sua religione e cerchi di vivere quotidianamente secondo le prescrizioni. Ho sempre invidiato molto i tibetani per la loro fede semplice, mentre io per tutta la mia vita ho cercato una strada. Benché in Asia abbia trovato la via della meditazione, non sono comunque riuscito a trovare la risposta finale agli enigmi dell'esistenza. Ho però imparato a considerare gli eventi del mondo con calma e a non farmi sballottare dalle circostanze in un mare di dubbi. In attesa dell'anno nuovo la gente non pregava soltanto. Per sette Heinrich Harrer
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giorni il popolo danzava, cantava e beveva sotto i benevoli occhi dei monaci. In ogni casa si teneva un pranzo solenne, a uno dei quali prendemmo parte anche noi. Nella nostra casa purtroppo la gioia festosa fu turbata da una tragedia. Un giorno mi chiamarono per condurmi nella stanza della sorella minore della nostra padrona di casa. La sua camera era sprofondata nell'oscurità, e soltanto quando due mani calde di febbre mi afferrarono mi accorsi di essere vicino al letto della malata. Allorché i miei occhi si furono abituati al buio, indietreggiai per lo spavento: la fanciulla, due giorni prima sana e bella, era irriconoscibile. Anche senza essere medico mi resi subito conto che aveva il vaiolo. L'infezione si era ormai estesa anche alla laringe e alla lingua: solo balbettando riuscì a dire che sapeva di dover morire. Come meglio potei le feci coraggio, poi mi allontanai rapidamente per lavarmi e disinfettarmi. La sua fine era imminente, speravo soltanto che non scoppiasse un'epidemia. Anche Aufschnaiter andò a vederla e confermò la mia diagnosi. Due giorni dopo morì. Questa circostanza ci fornì la triste occasione di conoscere anche le cerimonie di un funerale tibetano. Il pino riccamente adornato, simbolo della festività, fu rimosso dal tetto, e già il giorno seguente, alle prime luci dell'alba, il cadavere, avvolto in bianche tele, fu trasportato da un becchino di professione, che si caricò la salma sulle spalle. Anche noi seguimmo il corteo, composto soltanto da tre persone. Non lontano dal villaggio, su una collinetta riconoscibile come «cimitero» già da lontano a causa degli avvoltoi e delle cornacchie che si levavano in volo, uno degli uomini fece a pezzi il cadavere con un'ascia. Il secondo, lì accanto, mormorava preghiere e percuoteva un piccolo tamburo. Il terzo scacciava gli avidi uccelli e offriva di tanto in tanto agli altri due uomini birra o tè per ristorarli. Le ossa del cadavere vennero spezzettate, in modo che potessero essere divorate dagli uccelli e del cadavere non rimanesse traccia. Benché tutto il procedimento possa sembrare assai barbaro, la cerimonia trae le sue origini da profonde motivazioni religiose. I tibetani desiderano che del loro corpo, privo di valore senza anima, non rimanga nulla dopo la morte. I cadaveri dei nobili e dei lama vengono bruciati, ma secondo l'uso popolare le esequie consistono nel fare a pezzi la salma, e soltanto i cadaveri dei pochissimi che non possono permettersi tale spesa vengono gettati nel fiume, dove i pesci assumono la funzione degli avvoltoi. Se qualche povero muore di una malattia contagiosa, viene sepolto da persone Heinrich Harrer
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pagate dal governo. Per fortuna il vaiolo non si diffuse, e solo poche persone morirono. Nella nostra casa regnò il lutto per quarantanove giorni, poi fu rimessa sul tetto l'asta con le banderuole sacre. Per questa cerimonia comparvero molti monaci, che pregarono accompagnati dai loro strumenti particolari. Tutto ciò naturalmente costa molto, perciò quando qualcuno muore i tibetani vendono le gioie o i beni del defunto, per poter pagare con il ricavato i riti dei monaci e l'olio usato per alimentare le molte lampade a burro. Durante tutto questo tempo continuammo le nostre escursioni quotidiane, e la magnifica neve ci fece venire in mente l'idea di costruirci due paia di sci. Aufschnaiter andò a prendere due tronchi di betulla, che sgrossammo e asciugammo al fuoco della nostra stanza. A mia volta cominciai a confezionare bastoni e cinghie. Con l'aiuto di un falegname i tronchi si trasformarono in due paia di decenti sci. Sulla fiamma incurvai a dovere le punte e pressando il legno con alcune pietre conferii alle assicelle la necessaria tensione. Molto soddisfatti del nostro lavoro, attendevamo con impazienza l'occasione buona per mettere alla prova le nostre creazioni. Senonché, come un fulmine a ciel sereno, ci venne data la notizia che i bònpo volevano vederci. Ci vietarono di abbandonare Kyirong, consentendoci soltanto brevi escursioni nei dintorni immediati. Alle nostre energiche rimostranze risposero con sottigliezza che la Germania era uno stato potente, e nel caso ci fosse capitato qualche incidente sulle montagne il governo tedesco avrebbe protestato a Lhasa, il che avrebbe procurato loro un pesante castigo. I bònpo non furono toccati dalle nostre proteste e fecero del loro meglio per cercare di convincerci che orsi, pantere e cani selvaggi rappresentavano per noi un grave pericolo. Sapevamo che la loro ansia per la nostra salute non era sincera, e pensammo che fossero stati spinti a adottare una simile decisione dalle richieste degli abitanti che, superstiziosi come erano, temevano che con le nostre escursioni potessimo suscitare la collera degli dei delle montagne. Per il momento non potemmo fare altro che sottometterci. Nel corso delle settimane seguenti ci attenemmo scrupolosamente alle disposizioni, ma poi non riuscimmo più a resistere alla tentazione di provare gli sci, tanto più che la neve e i bianchi pendii sembravano farci l'occhiolino. Un giorno ricorremmo a uno stratagemma. Nei pressi di una sorgente termale, distante solo mezz'ora dal villaggio, preparai una specie Heinrich Harrer
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di accampamento provvisorio. Dopo alcuni giorni, quando la gente si fu abituata alla mia assenza, andai a prendere di notte gli sci e sotto la luce lunare li trasportai su un pendio. Il giorno seguente, alle prime luci dell'alba, Aufschnaiter e io, attraversato il limite boscoso, ci abbandonammo alla gioia dello sciare in mezzo all'Himalaia. Entrambi eravamo stupiti della nostra abilità dopo una così lunga interruzione. Non fummo scoperti, e poco tempo dopo facemmo una seconda prova, ma questa volta gli sci si ruppero e fummo costretti a nascondere i resti per non destare sospetti. Gli abitanti di Kyirong non scoprirono mai che avevamo «cavalcato» sulla neve, come da queste parti chiamano lo sciare. Nel frattempo era ritornata la primavera: il lavoro nei campi incominciava, e ben presto su tutta la zona dominò il verde smagliante dell'erba. Come nei paesi cattolici, anche qui le campagne vengono benedette dai sacerdoti. Una lunga processione di monaci, seguiti dalla popolazione, fece il giro del villaggio, portando sulle braccia i centootto volumi della Bibbia tibetana, accompagnati da preghiere e musica sacra. Purtroppo con l'aumento della temperatura al mio yak diminuirono le forze. Aveva la febbre, e un veterinario del luogo dichiarò che avrebbe potuto giovargli solo la bile di orso. Più per non contraddire il «dottore» che per convinzione comprai a caro prezzo la bile, e non mi meravigliai che la cura non sortisse alcun effetto. Allora il veterinario mi consigliò bile di pecora e muschio, e io sperai di cuore che l'esperienza che i tibetani dovevano pur avere potesse salvare il mio yak. Ma dopo alcuni giorni fui costretto a far macellare il mio povero Armin, per approfittare almeno della sua carne. Per tali necessità vi era un macellaio che, al pari di un appestato, doveva vivere ai margini del villaggio. Nelle sue vicinanze si trovavano anche le fucine dei fabbri, il cui mestiere è considerato dai tibetani il più umile in assoluto. Il macellaio riceve in pagamento le gambe, la testa e le interiora dello yak. Il modo di uccidere l'animale fu rapido, e mi parve più umano dei metodi europei. Aperta con un taglio fulmineo la pancia, vi cacciò dentro la mano, che di colpo staccò l'arteria cardiaca principale. La morte fu istantanea. Poiché durante tale procedimento l'animale, con le gambe legate, giace sul dorso, il sangue si ferma nella cavità addominale, e per toglierlo basta svuotare quest'ultima. La carne tagliata a pezzi fu da noi affumicata sul fuoco, pronta a fornirci l'alimento base di cui avremmo avuto bisogno in Heinrich Harrer
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caso di fuga. All'incirca nello stesso periodo a Jongkha scoppiò un'epidemia che causò numerosi morti. L'ufficiale distrettuale, la sua giovane e incantevole moglie e i loro quattro figli fuggirono a Kyirong per scampare al pericolo. Sfortunatamente i bambini portarono con sé i germi della malattia, una sorta di dissenteria, e uno per uno ne furono colpiti. A quel tempo avevo ancora con me un po' di yatren, che era riconosciuto come il miglior rimedio per la dissenteria, e lo offrii alla famiglia. Fu un notevole sacrificio da parte mia e di Aufschnaiter, dato che avevamo tenuto le ultime dosi per noi stessi in caso di bisogno. Sfortunatamente la cura non fece effetto, e tre dei bambini morirono. Non avevo più yatren per il quarto, che si ammalò dopo gli altri, ma eravamo determinati a salvarlo a qualsiasi costo. Proponemmo ai genitori di mandare in tutta fretta un messaggero a Katmandu con un campione delle sue feci per trovare la medicina adatta a curarlo. Aufschnaiter a questo scopo scrisse una lettera in inglese, per l'ospedale, ma non fu mai spedita. Il bambino venne infatti preso in cura dai monaci, che arrivarono al punto di chiedere l'aiuto di un lama reincarnato proveniente da una regione lontana. Tutti i loro tentativi si rivelarono infruttuosi, e dopo dieci giorni il bambino morì. Per quanto la cosa fosse triste, ci assolse, in ogni caso, da qualsiasi vergogna, perché se l'ultimo bambino fosse stato guarito, saremmo stati considerati responsabili della morte degli altri. Si ammalarono anche i genitori dei bambini e molte altre persone, ma tutti guarirono. Durante la malattia mangiarono abbondantemente e bevvero grandi quantità di alcolici, e ciò potrebbe essergli servito per sentirsi meglio. I bambini invece avevano rifiutato il cibo, e le loro forze erano rapidamente venute meno. In seguito diventammo davvero amici dell'ufficiale distrettuale e di sua moglie, che, nonostante fossero disperati per la perdita dei loro bambini, si consolarono almeno un po' grazie alla loro fede nella reincarnazione. Si trattennero per qualche tempo a Kyirong in un eremo, e spesso avemmo occasione di andarli a trovare. Il padre si chiamava Wangdùla ed era un uomo di idee progressiste e al passo con i tempi. Era ansioso di acquisire conoscenze, e spesso si faceva dire da noi molte cose sulla vita al di fuori del Tibet. Aufschnaiter, dietro sua richiesta, gli disegnò una mappa del mondo che lo circondava. Sua moglie, che aveva ventidue anni, era una tipica bellezza tibetana e parlava correntemente l'hindi, che aveva imparato Heinrich Harrer
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in India all'epoca della scuola. Formavano una coppia davvero felice. Molti anni dopo ricevemmo ancora loro notizie: avevano avuto un tragico destino. Gli era nato un altro figlio, e la donna era morta di parto. Wangdùla impazzì dal dolore. Fu uno dei più piacevoli tibetani che io abbia mai incontrato, e la sua triste storia mi ha sempre commosso molto.
Preoccupazioni senza fine Nel corso dell'estate i bònpo vollero rivederci. Questa volta ci invitarono energicamente a porre un limite alla nostra permanenza. Nel frattempo avevamo appreso dai commercianti nepalesi e dai giornali che la guerra era finita. Sapevamo che gli inglesi, dopo la prima guerra mondiale, avevano sciolto i campi di prigionia indiani soltanto a due anni dalla fine delle ostilità. Non avevamo alcuna intenzione di perdere la nostra libertà ed eravamo ben decisi a rinnovare il nostro tentativo di raggiungere il Tibet interno. Il fascino che questo paese esercitava su di noi cresceva sempre più, ed eravamo pronti a fare tutto il possibile per continuare l'esplorazione. Le nostre nozioni linguistiche erano ormai buone e avevamo accumulato molta esperienza. Che cosa ci avrebbe potuto impedire di continuare il nostro viaggio? Entrambi eravamo alpinisti, e mai più ci si sarebbe presentata un'occasione così favorevole per fare schizzi dell'Himalaia e dei territori dei nomadi. Avevamo perduto la speranza di ritornare presto in patria: volevamo raggiungere, attraverso le pianure settentrionali, la Cina, per trovarvi forse lavoro. Poiché la guerra era finita, il nostro disegno originario di raggiungere le linee giapponesi non aveva più alcuno scopo. Promettemmo quindi ai bònpo di lasciare Kyrong in autunno, se in cambio ci avessero concesso libertà di movimento. Ci venne accordata, e da quel giorno le nostre escursioni mirarono soltanto a trovare in quel territorio un passo nevoso, attraverso il quale, senza toccare Jongkha, poter raggiungere l'altopiano tibetano. Durante queste spedizioni estive imparammo a conoscere la fauna della regione. Incontrammo una grande varietà di animali, comprese alcune specie di scimmie che dovevano essere emigrate qui dal Nepal attraverso la profonda vallata del fiume Kosi. Per un certo tempo le pantere massacrarono ogni notte buoi e yak, e gli abitanti del villaggio tentarono di Heinrich Harrer
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catturarle usando le tagliole. Fummo quindi costretti a usare grande prudenza nelle nostre peregrinazioni, e per precauzione ero solito portare in tasca una tabacchiera piena di paprica, come mezzo di difesa contro gli orsi. L'orso è pericoloso soltanto di giorno, perché solo in quel momento può assalire l'uomo. Alcuni taglialegna avevano profonde cicatrici in faccia, e uno era stato addirittura accecato da una zampata. Di notte, per mettere in fuga un orso, basta una fiaccola accesa. Al limite del bosco trovai una volta sulla neve fresca profonde orme, che non sapevo spiegarmi, ma potevano anche essere state lasciate da piede umano. Persone dotate di maggiore immaginazione di me le avrebbero anche potute attribuire all'Abominevole Uomo delle Nevi. Sempre preoccupato di mantenermi in forma, facevo molto esercizio. Aiutavo i contadini nei lavori campestri o nel battere il grano; spaccavo legna e tagliavo rami dai resinosi pini silvestri per farne torce. Anche i tibetani, a causa del clima e delle dure condizioni di vita, sono persone fisicamente forti e resistenti che amano misurare le proprie capacità in gare sportive. Ogni anno si tiene a Kyirong una vera festa sportiva della durata di parecchi giorni. Corse di cavalli, tiro con l'arco, corsa campestre, salto in alto e salto in lungo sono le competizioni principali. I più forti si misurano inoltre nel sollevare e nel portare, per un determinato tratto, una pesante pietra. Anch'io contribuii al divertimento degli spettatori prendendo parte a qualche gara. Nella corsa ero vicino alla vittoria, essendo in testa fin dalla partenza, ma non avevo fatto i conti con i metodi locali. Nell'ultimo e più ripido tratto uno dei concorrenti mi raggiunse e mi afferrò il fondo dei pantaloni. Ne fui così meravigliato che mi fermai. Era proprio ciò che voleva quella canaglia. Mi sorpassò e giunse al traguardo prima di me. Non avevo previsto un simile trucco, e fra le risate generali mi venne assegnata la coccarda riservata al secondo arrivato. Nel Tibet si dedicano agli esercizi sportivi soltanto gli uomini. Le donne, che non sono ancora emancipate, si accontentano di preparare i rinfreschi e di versare la birra. A Kyirong del resto c'erano anche altre distrazioni. D'estate passavano quotidianamente le carovane. Dopo la raccolta del riso nel Nepal, donne e uomini giungevano qui per barattare il riso, che trasportavano in cesti, con sale. Il sale è uno dei più importanti articoli d'esportazione del paese e lo si Heinrich Harrer
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estrae dai laghi privi di scarico del Changtang. Per mesi e mesi viene trasportato a dorso di yak o di pecore sino al confine, dove avviene il vantaggioso scambio con il riso, essendo il primo di valore superiore. Il trasporto da Kyirong al Nepal è possibile soltanto per mezzo di coolie, dato che i sentieri conducono attraverso strette gole, e talvolta si devono addirittura tagliare gradini nelle rocce per trovare un passaggio. Gran parte dei portatori è costituita da donne nepalesi, che hanno gambe grosse e muscolose e si fregiano di rozzi ornamenti. Una volta, guardando come i nepalesi andavano in cerca di miele, assistemmo a uno spettacolo curioso. A seguito di una prescrizione ufficiale del governo, ai tibetani è vietato raccogliere miele, perché la loro religione non permette che si tolga il nutrimento alle api. Ma poiché anche qui, come dovunque, si ama eludere le leggi, i tibetani, compresi i bònpo, pagano a tale scopo volentieri un piccolo tributo. Lasciano quindi ai nepalesi il privilegio di raccogliere il miele e comprano poi da loro il «frutto proibito». Questa raccolta del miele è un'impresa molto rischiosa, perché le api nascondono volentieri i favi sotto i dirupi di gole assai profonde. Vengono calate lunghe scale di bambù, e gli uomini, sospesi in aria, scendono spesso fino a settanta o ottanta metri di profondità. Sotto scorre il Kosi, e uno strappo della corda significherebbe morte certa. Nuvole di fumo tengono lontane le api, mentre gli uomini raccolgono i favi. Con una seconda corda, munita di contenitori, viene poi tirata su la preda. Condizione fondamentale per la riuscita dell'impresa è la perfetta sincronia dei movimenti, perché grida o segnali sarebbero soffocati dal rumoreggiare del fiume. Quella volta il lavoro di undici uomini durò una settimana, e il prezzo del miele non giustificò neppure lontanamente i pericoli ai quali si erano esposti. Rimpiansi molto di non avere una macchina da presa per filmare questo spettacolo raro e interessante. Passate le intense piogge estive, cominciammo a esplorare sistematicamente le lunghe vallate. Spesso, provvisti di viveri, materiale da disegno e bussola, rimanevamo assenti per giorni interi. Talora vivevamo in cascine alpestri con i pastori che, come da noi, custodivano durante i mesi estivi il bestiame sui pascoli montani. Mucche e femmine di yak pascolavano a centinaia sui verdi prati in mezzo a questo mondo di ghiacciai. Spesso aiutai a fare il burro: affinché il latte si rapprenda più rapidamente si gettano nelle enormi botti pezzi di ghiaccio, forniti dalle Heinrich Harrer
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vicine montagne. In tutte le capanne abitate si trovano cani molto aggressivi. Quasi sempre sono legati a catene e proteggono di notte, con il loro furioso abbaiare, il bestiame da pantere, lupi e cani selvaggi. Assai robusti di natura, la loro dieta abituale, fatta di latte e di carne cruda, conferisce loro una forza straordinaria, il che li rende particolarmente pericolosi. Più di una volta feci incontri molto spiacevoli. Un giorno, al mio arrivo, un cane, strappata la catena, mi si lanciò contro, saltandomi alla gola. Lo respinsi, ma mi diede comunque un morso nel braccio, e riuscii a liberarmene soltanto dopo un'aspra lotta. Avevo il vestito a brandelli, ma il cane giaceva inanimato a terra. Con i rimasugli della mia camicia mi fasciai le ferite, delle quali porto ancora oggi le profonde cicatrici. Le mie ferite guarirono presto mediante costanti bagni nelle sorgenti termali, che in questa stagione sono più frequentate dai serpenti che dai tibetani. Più tardi il pastore proprietario del cane mi disse che non fui il solo a uscire male dalla battaglia. Il cane si era rifugiato in un angolo e aveva rifiutato il cibo per una settimana. Durante le nostre escursioni trovammo quantità enormi di fragole selvatiche, ma proprio nei punti dove vi erano le più belle abbondavano le sanguisughe. Dai libri letti sapevo che queste creature sono il flagello di molte valli dell'Himalaia, e qui dovetti convincermi personalmente come non ci si possa salvare facilmente da loro. Si lasciano cadere dagli alberi su uomini e animali e si introducono attraverso tutte le aperture dei vestiti, perfino attraverso gli occhielli delle scarpe, per succhiare il sangue. Se si strappano dalla pelle, la perdita di sangue è ancora maggiore di quando le si lascia in pace, perché quando sono sazie si staccano da sé. Alcune vallate sono talmente infestate da sanguisughe che le persone che le attraversano non possono in alcun modo proteggersi da loro. Non so con quale criterio scelgano le vittime, ma spesso sono riuscito a salvarmi da loro camminando velocemente. Gli animali a sangue caldo di queste regioni hanno spesso addosso dozzine di questi parassiti attaccati ai loro orifizi. Il modo migliore per tenerle lontane è quello di indossare calzini e pantaloni imbevuti di sale. Il bilancio delle nostre escursioni, ricco di materiale geografico, si rivelò assolutamente deficitario riguardo una voce assai importante: non trovammo alcun passo adatto alla nostra fuga. Senza mezzi tecnici tutti i passaggi erano impraticabili per noi, gravati come eravamo dai nostri pesanti fardelli. Nessuno dei due era entusiasta di Heinrich Harrer
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rifare il noto cammino attraverso Jongkha. Inviammo perciò un'altra richiesta alle autorità nepalesi per sapere se saremmo stati estradati o no. La risposta non arrivò mai. Avevamo ancora circa due mesi di tempo prima di essere costretti a lasciare Kyirong, e ci servimmo di quei giorni per completare i nostri preparativi. Al fine di incrementare il nostro capitale, prestai il mio denaro, al normale tasso di interesse del trentatré per cento, a un mercante. Me ne pentii più tardi, perché il mio debitore tardava a restituirmi i soldi, mettendo pertanto a repentaglio la nostra partenza. I legami d'amicizia con questa popolazione pacifica e laboriosa si erano fatti più stretti. Come nelle nostre campagne, neppure qui lavoravano secondo un orario fisso: approfittavano invece di ogni minuto di luce, dal mattino fino al calar del giorno. La manodopera è assai scarsa nelle zone coltivate, e fame e miseria sono pertanto sconosciute. I molti monaci, che non si dedicano ad attività manuali ma si occupano soltanto della salvezza delle anime, vengono mantenuti dalla comunità. I contadini godono di un vero benessere, e nei loro guardaroba sono riposti i vestiti dei giorni festivi di tutta la famiglia. Le donne tessono le stoffe e fanno confezionare gli abiti in casa. Non esiste una polizia nel vero senso della parola, ma i colpevoli vengono sempre condannati pubblicamente. Le punizioni sono piuttosto drastiche, ma sembrano essere commisurate alla mentalità della popolazione. Mi raccontarono di un uomo che aveva rubato una lampada dorata al burro da uno dei templi di Kyirong. Fu dichiarato colpevole del reato, e quella che noi avremmo considerato una sentenza disumana fu portata a compimento. Gli furono pubblicamente mozzate le mani, e il suo corpo mutilato ma ancora vivo fu avvolto in una pelle di yak bagnata. Quando smise di sanguinare, venne gettato in un precipizio. Non abbiamo mai visto pene così spietate. Con il tempo sembra che i tibetani siano diventati più indulgenti. Mi ricordo di essere stato presente a una pubblica fustigazione, che pensai non fosse abbastanza severa. I condannati erano un monaco e una suora che appartenevano alla Chiesa buddhista riformata, che impone il celibato. La suora invece aveva abitato insieme al monaco e aveva avuto un figlio da lui, che aveva ucciso appena nato. Entrambi furono denunciati e messi alla gogna. La loro colpevolezza fu annunciata pubblicamente, e furono condannati a un centinaio di frustate ciascuno. Durante la fustigazione gli abitanti implorarono le Heinrich Harrer
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autorità di concedere loro la grazia, offrendo in cambio regali in denaro. Ciò produsse una riduzione della sentenza, e sospiri di sollievo si sparsero tra la folla degli spettatori. Il monaco e la suora furono esiliati dal distretto e privati del loro stato religioso. La simpatia che la popolazione aveva mostrato nei loro confronti fu per noi inconcepibile. I peccatori ricevettero numerosi regali in denaro e viveri, e lasciarono Kyirong con i sacchi pieni per iniziare il loro pellegrinaggio. La setta buddhista riformata, alla quale appartenevano queste due persone, domina nel Tibet, ma proprio nella nostra regione c'erano numerosi monasteri retti da altre regole. Monaci e suore potevano vivere coniugalmente, e i figli rimanevano nel monastero. Costoro coltivavano i loro campi, ma non venivano mai investiti di uffici governativi, riservati soltanto ai membri della riformata «Chiesa gialla». La supremazia dell'ordine monastico nel Tibet è assoluta, e si può confrontare solo con una severa dittatura. I monaci diffidano di ogni influsso esteriore che possa mettere in pericolo la loro dominazione. Sono abbastanza intelligenti da non ritenere illimitato il loro potere, ma puniscono chiunque lo metta in dubbio. Infatti alcuni monaci non vedevano di buon occhio i nostri contatti con la popolazione, perché il nostro atteggiamento libero da ogni pregiudizio avrebbe potuto dar loro da pensare. Erravamo di notte nei boschi senza essere molestati dai demoni, scalavamo le montagne senza accendere prima i fuochi sacrificali, e ciò nonostante non ci succedeva nulla. In alcune zone però avvertivamo una riservatezza accentuata, che era da ascrivere soltanto all'influenza dei lama. D'altronde costoro ci attribuivano poteri sovrannaturali, essendo convinti che le nostre escursioni avessero motivazioni particolari. Ripetutamente ci domandarono quali fossero le nostre relazioni con uccelli e ruscelli. Nessun tibetano fa un passo senza uno scopo preciso: perciò le nostre peregrinazioni e le nostre soste nel bosco o sulle rive di ruscelli dovevano significare per loro «commercio con gli spiriti».
Drammatica partenza da Kyirong L'autunno era arrivato, e il nostro diritto di permanenza volgeva alla fine. Ci dava grande tristezza dover abbandonare questo paradiso, ma erano passati diciotto mesi dalla nostra partenza da Dehra Dun, e benché la Heinrich Harrer
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guerra fosse ormai finita, la nostra situazione non era mutata, non essendo riusciti a ottenere il permesso di soggiorno. Per giungere a Kyirong avevamo percorso circa ottocento chilometri, senza contare quelli fatti nel corso delle nostre escursioni. Non c'erano dubbi sul fatto che dovessimo partire. E poiché per antica esperienza sapevamo che una sufficiente provvista di viveri era fondamentale, a venti chilometri dal villaggio, sulla strada verso Jongkha, costruimmo un nascondiglio, all'interno del quale depositammo: tsampa, burro, carne essiccata, zucchero e aglio. Come era già successo quando eravamo evasi dal campo di prigionia, fummo costretti a portare tutte le cose con le nostre sole forze, non avendo alcun mezzo di trasporto. Allorché abbondanti nevicate annunciarono un inverno precoce, le cose divennero per noi ancora più difficili. Il nostro bagaglio aveva già raggiunto il massimo peso previsto, e ora dovevamo deciderci anche per una seconda coperta. L'inverno era naturalmente la stagione meno adatta per attraversare gli altopiani dell'Asia centrale, ma non avevamo facoltà di scelta: non potevamo rimanere più a lungo a Kyirong. Per un certo periodo di tempo ci trastullammo con l'idea di andare segretamente nel Nepal settentrionale, ma abbandonammo il piano, perché le guardie di frontiera nepalesi erano note per la loro severità. Una volta pronto il nostro deposito, ci mettemmo a costruire una lampada portatile. Gli abitanti del villaggio si accorsero subito che stavamo progettando qualcosa, perché la sorveglianza si intensificò e non cessò neppure un istante. Senza interruzione si aggiravano intorno a noi le spie: non ci rimase quindi altra soluzione che fare una passeggiata in montagna per poter lavorare in pace. Con la copertina del mio libro di storia e con carta tibetana costruimmo una specie di lampada, all'interno della quale mettemmo un pacchetto di sigarette riempito di burro per alimentare la fiammella. Avevamo assolutamente bisogno di una piccola fonte di luce, perché di nuovo ci eravamo prefissi di camminare soltanto di notte, almeno finché non fossimo usciti dalle zone abitate. Attendevo ancora la restituzione del denaro prestato, e quando il rimborso fu promesso da lì a pochi giorni decidemmo di agire. Per ragioni tattiche doveva partire per primo Aufschnaiter, con il pretesto di fare un'escursione. Il 6 novembre 1945 il mio compagno lasciò il villaggio sfacciatamente, in pieno giorno, portando sulle spalle il sacco colmo di provviste. Se ne andò con lui anche il mio cane, ricevuto in dono Heinrich Harrer
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da un nobile di Lhasa: era un animale di razza tibetana dal pelo lungo e di media grandezza, al quale entrambi eravamo molto affezionati. Nel frattempo tentai di farmi restituire il denaro, ma non ebbi fortuna. Il mio debitore era diventato diffidente e me lo voleva restituire soltanto dopo il ritorno di Aufschnaiter. Del resto, non ci si poteva stupire che sospettassero qualcosa. L'autorizzazione dataci era ormai scaduta, e se ci fossimo preparati a partire per il Nepal non sarebbero state necessarie da parte nostra tante precauzioni. I bònpo stessi avevano una gran paura di venir puniti da Lhasa, se fossimo riusciti a penetrare nell'interno del paese, perciò ci aizzarono contro la popolazione intera, che a sua volta temeva l'autorità locale. Incominciò allora una febbrile ricerca di Aufschnaiter e io fui sottoposto a ripetuti interrogatori per rivelare dove fosse andato. I miei deboli tentativi di spiegare tutta la faccenda come un'innocua escursione rimasero infruttuosi. Io stesso dovetti fermarmi ancora un giorno per rientrare in possesso di almeno una parte del mio denaro. Rinunciai a recuperare il resto, che mi sarebbe stato restituito solo dopo il ritorno di Aufschnaiter. La sera dell'8 novembre decisi di andarmene, se necessario anche con la forza: ormai ogni mio passo era sorvegliato. Intorno e all'interno della casa erano state disposte spie che non mi perdevano di vista. Attesi fino alle dieci di sera, nella speranza che andassero a dormire, ma non sembravano intenzionate a farlo. Allora ricorsi a un trucco. Finsi una crisi di pazzia furiosa: urlai che il loro comportamento mi rendeva intollerabile la permanenza e che sarei andato a dormire nel bosco. Davanti a loro incominciai a riempire il mio sacco. Spaventate accorsero la contadina che mi dava ospitalità e sua madre, comportandosi in modo commovente. Mi si gettarono ai piedi e mi supplicarono di non allontanarmi, perché altrimenti sarebbero state frustate e avrebbero perso la casa e i diritti di cittadinanza. Non si meritavano un simile trattamento da parte mia. La vecchia madre mi mise al collo una sciarpa bianca come segno di devozione e di preghiera, e quando si accorse che tutto ciò non mi smuoveva dal mio proposito mi offrì dei soldi. Una simile offerta non era affatto offensiva, perché in qualsiasi parte del Tibet la corruzione è il mezzo usuale per ottenere qualcosa. Le due donne mi facevano veramente pena. Dissi loro buone parole e cercai di persuaderle che per la mia scomparsa non avrebbero avuto nulla da temere. Purtroppo però le loro grida e lamentele avevano fatto accorrere tutto il villaggio: dovevo agire Heinrich Harrer
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senza perdere più tempo, se non era già troppo tardi. Ancora oggi vedo le loro imburrate facce mongole con gli occhi che fissano la mia finestra sotto la luce delle torce. Arrivarono ansimando anche i due capi del villaggio, con un messaggio dei bònpo, che mi invitavano ad attendere sino al mattino seguente, nel qual caso sarei poi potuto andare dove volevo. Sapevo bene che non si trattava che di un'astuzia, e non diedi loro ascolto. Allora si allontanarono subito, per andare a chiamare i loro superiori. La contadina si aggrappò di nuovo alle mie gambe, dicendo tra le lacrime che mi aveva sempre trattato come un figlio e supplicandomi di non causarle tanto dolore. I miei nervi erano tesi fino a spezzarsi. Ormai doveva succedere qualcosa. Deciso a tutto, mi misi in spalla il mio sacco e uscii dalla casa. Rimasi sorpreso dal fatto che la folla radunata davanti alla porta non mi opponesse alcuna resistenza. Cupamente, in coro, la gente ripeteva: «Adesso se ne va, adesso se ne va». Ma nessuno si muoveva. Senza dubbio dovevano essersi resi conto che ero pronto a tutto. Alcuni giovani si gridarono l'un l'altro di trattenermi, ma io procedetti indisturbato attraverso la folla, che invece di fermarmi mi fece largo. Fui molto contento quando, uscito dalla luce delle torce, giunsi nel buio. Feci di corsa un tratto della strada che conduce al Nepal, per sviare eventuali inseguitori. Poi, dopo aver aggirato il villaggio, raggiunsi ancora prima dell'alba il nostro deposito. Aufschnaiter mi aspettava seduto al margine della strada, e il mio cane mi corse incontro festoso. Camminammo ancora per qualche chilometro in cerca di un buon nascondiglio per il giorno.
Al di là del passo di Chakhyungla verso il lago Paiku Per l'ultima volta stabilimmo il nostro bivacco nella boscaglia: molti anni dovevano passare prima che ci capitasse ancora una simile occasione. Già la notte seguente risalimmo la valle molto al di là del limite del bosco. Conoscevamo i sentieri alpini grazie alle nostre numerose escursioni, e il lumicino faceva il suo dovere. Ciò nonostante ci smarrimmo parecchie volte. Una volta Aufschnaiter scivolò su una lastra di ghiaccio, per fortuna senza farsi male. Con particolare cautela dovevamo attraversare gli stretti ponti di legno a cavallo del fiume. Il ghiaccio li aveva ridotti a lastre di Heinrich Harrer
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vetro, e benché avessimo sulle spalle quaranta chili fummo costretti a bilanciarci come fossimo equilibristi. Di giorno trovavamo sempre bei posticini nascosti, ma faceva un po' troppo freddo per riposare a quella temperatura. La valle si restringeva a tal punto che neppure alcuni benefici raggi di sole vi potevano penetrare: perciò attendevamo sempre impazienti la notte, per poterci riscaldare di nuovo, con la marcia, le membra assiderate. Ma un bel giorno non riuscimmo a proseguire: eravamo giunti davanti a una parete rocciosa che sembrava farsi beffe di qualsiasi tentativo di scalata. Un sentiero quanto mai pericoloso vi si addentrava sperdendosi. Che fare? Tentare lo stesso, con il nostro grave peso sulle spalle, a grande altezza sopra il fiume? Era una follia! Decidemmo di ritornare sui nostri passi per cercare di guadare il fiume, che qui si divide in parecchi bracci, in qualche punto. La stagione purtroppo non era molto adatta per un simile bagno ai piedi: eravamo già di mattina a una temperatura di 15 °C sotto lo zero, e faceva così freddo che la terra e le pietre congelandosi si attaccavano alle piante dei piedi, quando per guadare il fiume ci toglievamo scarpe e calze. Era piuttosto doloroso staccare poi dalle piante dei piedi tutto ciò che appiccicandosi per il gelo aveva formato una massa compatta, prima di poter infilare di nuovo le scarpe. E davanti a noi sempre nuovi bracci d'acqua! Decidemmo di passare la notte sul posto per osservare dal nostro nascondiglio, il giorno seguente, come le carovane riuscissero a superare questo difficile passaggio. Infatti, subito dopo il sorgere del sole, scorgemmo una carovana. Si fermò davanti alla parete rocciosa e - non potevamo credere ai nostri occhi - i coolie, uno dopo l'altro, con i loro pesanti fardelli sulle spalle, si arrampicarono, al pari di camosci, lungo il sentiero roccioso che aveva spaventato noi esperti alpinisti, mentre gli yak, con i carovanieri in groppa, guadarono i ruscelli ghiacciati. Tutto procedeva nel migliore dei modi. Decidemmo di provare ancora, e dopo un giorno che non sembrava finire mai, giunse finalmente la notte. La luna splendeva chiara e con la sua luce ci facilitò la pericolosa ascensione meglio di quanto avrebbe potuto fare la nostra lanterna. Tuttavia l'impresa era estremamente faticosa, e vi avremmo rinunciato se non avessimo visto con i nostri occhi come i coolie avevano attraversato la parete. Da quel punto in poi procedemmo senza difficoltà; dovevamo soltanto essere prudenti quando incontravamo carovane in sosta o tasam lungo la Heinrich Harrer
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strada. In certe occasioni ci accadde anche di sentirci chiamati da qualcuno. In quei casi ci affrettammo sempre ad allontanarci senza dare alcuna risposta. Una volta ci avvicinarono due tibetani per chiederci indicazioni sulla strada, ma sembravano avere più paura di noi di quanto noi ne avessimo di loro. Dopo altre due notti di marcia oltrepassammo Jongkha e ci ritrovammo in un territorio sconosciuto. Il nostro obiettivo successivo era il Brahmaputra, che costituiva il problema più serio per il nostro itinerario. Come guadarlo? Speravamo che fosse ancora ghiacciato. Avevamo solo una vaga conoscenza della strada che portava al fiume, ma ci auguravamo che ciò non costituisse un serio ostacolo. La cosa migliore da farsi era quella di andare avanti più velocemente possibile ed evitare tutti i posti nei quali ci saremmo potuti imbattere in funzionari governativi. Poco dopo aver oltrepassato Jongkha sostammo all'interno di una grotta dove trovammo migliaia di piccoli idoli d'argilla. In passato il posto doveva essere stato un eremo. La notte seguente ci inerpicammo di nuovo in direzione di un passo. Ma avevamo sopravvalutato le nostre forze: ancora prima di raggiungere il colle fummo costretti a fermarci. Nessuna meraviglia del resto, perché eravamo esausti a causa non solo degli strapazzi, ma anche dell'aria rarefatta che si respirava a un'altitudine superiore ai 5000 metri. Ci stavamo nuovamente avvicinando allo spartiacque dell'Himalaia. Sul passo trovammo i soliti mucchi di pietre e le banderuole sacre, i segni della fede tibetana. Per la prima volta ci imbattemmo anche in un chòrten, la tomba di un lama venerato come santo. Al pari di un cupo monito questa si elevava nel paesaggio coperto di neve che si estendeva a perdita d'occhio. La vista dalla cima del passo di Chakhyungla si rivelò deludente, perché era incastrato fra le altre montagne. Comunque potevamo essere fieri di questa scalata, perché eravamo sicuramente i primi europei ad averlo attraversato. Ma faceva troppo freddo per sentire orgoglio o soddisfazione! In questa solitudine bianca, nella quale raramente si sarà smarrito un essere umano, corremmo il rischio di camminare anche di giorno. Procedevamo bene. Il terribile gelo del nostro ricovero notturno ci fu ricompensato il mattino con una vista incantevole. Il gigantesco lago Paiku, di un azzurro profondo, si stendeva ai nostri piedi, e dietro si ergeva tra la neve il rosso pietrame di montagne isolate. L'intero altopiano era Heinrich Harrer
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circondato da una risplendente catena di ghiacciai, dei quali conoscevamo perfino due nomi: il Gosanthain, di 8012 metri, e il Lapchi Kang, un po' più basso. Entrambi attendevano ancora i loro scalatori, come del resto tanti altri giganti dell'Himalaia. Benché le nostre dita fossero quasi congelate, con pochi tratti disegnammo nel nostro libro di schizzi le loro forme. Con una bussola traballante Aufschnaiter fece i rilevamenti dei picchi più importanti e ne tracciò le altezze, che un domani ci sarebbero potute servire. Procedendo lungo la riva del lago in questo paesaggio di sogno incontrammo un rifugio per carovane mezzo crollato, e fummo costretti a pernottare ancora una volta sulla neve. Eravamo stupiti noi stessi nel costatare con quanta disinvoltura riuscissimo a sopportare l'altitudine e come fosse rapida la nostra marcia nonostante i pesi che ci gravavano le spalle. Meno bene stava il nostro cane. Coraggioso, teneva il passo, benché fosse ridotto a uno scheletro: suo unico nutrimento erano le nostre feci. Fedele, di notte si accucciava sopra i nostri piedi, riscaldandoceli: vantaggio reciproco, perché il termometro segnava 22 °C sotto lo zero. Quale fu la nostra gioia quando, il giorno seguente, ci imbattemmo in una traccia di vita! Ci veniva incontro lentamente un branco di pecore, accompagnate da pastori avvolti in grosse pellicce. Essi ci indicarono la direzione per trovare un abitato, e la notte stessa giungemmo nel villaggio di Trakchen, un po' discosto dalla via carovaniera. Era ormai tempo di riprendere contatto con i nostri simili, essendo privi di viveri, anche a costo di essere arrestati! Questo piccolo agglomerato meritava almeno il nome di villaggio. Era formato da circa quaranta case, costruite come al solito al riparo del vento ai piedi di una collina, sulla quale si elevava un monastero. Questo villaggio, più importante di Gartok, è senza dubbio il più alto dell'Asia, e forse del mondo intero. Anche qui gli abitanti ci presero per indù e ci vendettero senza difficoltà delle provviste. Ci riposammo una notte e un giorno e accontentammo tanto il nostro stomaco, quanto quello del cane. Evitammo un incontro con l'autorità locale, anche perché il bònpo, ignorandoci, aveva chiuso il suo «palazzo». Probabilmente voleva evitare eventuali responsabilità. Bene o male ci vedemmo costretti ad acquistare una pelliccia di pecora, perché i nostri vestiti non erano all'altezza dei rigori dell'inverno tibetano. Heinrich Harrer
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Dopo un lungo mercanteggiare comprammo anche uno yak: era il nostro Armin IV, ed era destinato a distinguersi dai suoi predecessori per un comportamento anche peggiore. Di nuovo in marcia attraverso regioni deserte, dal bacino del Paiku ci dirigemmo oltre il passo di Yagula. Dopo tre giorni scorgemmo dei campi, appartenenti a un villaggio piuttosto grande, Menkhap Me. Ci presentammo come indù, secondo le positive esperienze fatte, e comprammo paglia per il nostro yak e tsampa per noi stessi. La gente viveva qui in condizioni molto dure. I loro campi di orzo e piselli erano disseminati di pietre, esigevano un lavoro faticoso e davano un raccolto molto scarso. Ciò nonostante tutti erano affabili e allegri, e di sera, seduti in loro compagnia, bevemmo insieme il chang, la birra tibetana d'orzo. Sui pendii intorno al villaggio si trovavano alcuni piccoli monasteri, ai quali la gente, malgrado la propria difficile esistenza, provvedeva con vera religiosità e premura. Tutt'intorno scoprimmo rovine grandiose, testimonianze di un passato glorioso. Non potemmo accertarci se il declino fosse dovuto a guerre o a cambiamenti di clima.
Uno spettacolo indimenticabile: il monte Everest Eravamo in cammino da un'ora, quando scorgemmo dinanzi a noi l'immensa piana di Tingri e dietro a questa, nella chiara luce del mattino, la più alta montagna del mondo: l'Everest. Rimanemmo senza respiro, pieni di stupore e di entusiasmo, come quando ci si trova davanti a qualcosa di veramente unico. Pensammo alle molte spedizioni nel corso delle quali uomini valorosi avevano perso la vita tentando invano di raggiungere la cima. Benché vinti dall'emozione, non dimenticammo di fare in fretta e furia qualche schizzo del colosso, perché dal nostro angolo visuale non era certamente stato visto da alcun europeo. Staccatici a stento da questo panorama meraviglioso, riprendemmo il cammino verso la nostra successiva meta, il passo di Kora, di oltre 5600 metri, puntato verso nord. Prima di incominciare la scalata, pernottammo nel piccolo villaggio di Khargyu, situato ai suoi piedi. Questa volta non riuscimmo così facilmente a spacciarci per indù, perché qui si erano già visti molti europei. Nelle vicinanze infatti si trovava il villaggio di Tingri, dove tutte le spedizioni inglesi che erano dirette all'Everest noleggiavano i Heinrich Harrer
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portatori. Ci esaminarono con attenzione, domandandoci poi se ci eravamo già presentati al bònpo di Sutso. Realizzammo che la grande casa che avevamo visto in quel posto doveva essere la dimora di un funzionario. L'avevamo già notata, perché stava isolata sopra una collina. Per fortuna nessuno ci aveva visti passare. Ma ora bisognava essere prudenti. Senza rispondere alle ripetute domande, raccontammo di nuovo la favola del pellegrinaggio. La gente si acquietò e ci indicò gentilmente la strada che dovevamo prendere, che secondo il loro punto di vista era abbastanza buona. Nel tardo pomeriggio raggiungemmo la cima del passo. Finalmente sarebbe ricominciata la discesa: eravamo veramente stanchi di doverci inerpicare senza tregua. Noi ne eravamo contenti, il nostro yak un po' meno. All'improvviso diede un balzo, fece dietrofront e si mise a galoppare in senso inverso. E noi appresso! Ma il correre in quell'aria rarefatta ci dava fastidio, mentre il nostro yak, seppur carico di ottanta chili, se la godeva un mondo. Raggiunta l'altura, lo vedemmo pascolare pacificamente sotto di noi. Maledicendo tutti gli yak del mondo, scesi il pendio per catturarlo. Con un trucco riuscii a riprenderlo e riportarlo su. Ma giunti quasi all'altezza del passo, si rifiutò di nuovo di proseguire e non ci rimase altro da fare che obbedire alla sua volontà. Per la notte trovammo riparo dietro una roccia. Non era possibile accendere il fuoco a causa delle violente raffiche di vento, così fummo costretti a mangiare farina asciutta di tsampa e carne cruda. Unica nostra consolazione il monte Everest, che nella rossa luce del crepuscolo ci mandava il suo saluto. Il mattino seguente Armin ricominciò a «creare». Allora gli legammo una corda alle corna, tirandocelo dietro attraverso il passo. Non divenne più docile, e quando, stanco di calciare, prendeva la rincorsa, ci faceva spesso cadere. Ne avevamo abbastanza di Armin IV, e decidemmo di scambiarlo alla prima occasione con un altro animale. La nostra chance arrivò presto. Entrati nel villaggio successivo, feci quello che pensavo fosse un buon affare e lo scambiai con un vecchio cavallo traballante. Eravamo felicissimi, e proseguimmo il cammino con rinnovato entusiasmo. Lo stesso giorno giungemmo in una larga valle, tagliata da un'acqua verde, sulla quale danzavano lastre di ghiaccio: era lo Tsangpo. Ciò infranse il nostro sogno di trovarlo ancora ghiacciato e di attraversarlo camminando sul ghiaccio. Ma non ci lasciammo scoraggiare: sulla riva Heinrich Harrer
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opposta scorgemmo alcuni monasteri e un gruppo di case, quindi ci doveva essere qualche mezzo di comunicazione. Pensavamo a un traghetto, e mentre lo stavamo cercando ci imbattemmo nei piloni di un ponte di corda sospeso sul vuoto. Un segno della Provvidenza! Avvicinatici constatammo però che il ponte poteva essere un mezzo di passaggio per noi, ma non per il nostro cavallo. Gli animali dovevano passare a nuoto il fiume. Soltanto gli asini venivano trasportati a spalla dai coolie attraverso il ponte oscillante. Il nostro cavallo non si lasciò persuadere a entrare nell'acqua, né con le buone, né con le cattive. C'eravamo ormai abituati alle bestie ricalcitranti. Sospirando me ne tornai indietro al villaggio per tentare di annullare lo scambio. Mi costò soldi e lusinghe riprendermi indietro Armin, ma alla fine ci riuscii. Non mostrò né gioia né sconforto rivedendomi ancora. Era già buio, quando arrivai di nuovo al ponte. Ormai era troppo tardi per tentare di passarlo, perciò legai lo yak a un palo vicino alla capanna trovata nel frattempo da Aufschnaiter. Vi passammo una notte calda. La popolazione era abituata a commercianti e viaggiatori di passaggio, e non fece caso alla nostra presenza. Il mattino seguente perdonai ad Armin tutte le sue canagliate. Dopo diversi tentativi riuscii finalmente a spingerlo in acqua: si dimostrò un provetto nuotatore. Le onde lo sommersero varie volte, la corrente lo fece deviare, ma non perse la calma. Continuò a nuotare, e una volta giunto sull'altra riva si arrampicò lungo una scarpata e si scosse diligentemente l'acqua di dosso. Passammo le ultime ore della giornata in un villaggio assai interessante, chiamato Chung Rivoche. Un celebre monastero con parecchi templi, le cui porte d'ingresso erano adorne di scritte cinesi, si ergeva sul pendio roccioso sopra il fiume. Vecchie mura di qualche fortezza cingevano il villaggio e il monastero. Sulla riva del fiume salici annosi. D'estate, quando i loro verdi rami toccano l'acqua, il paesaggio deve avere un aspetto idilliaco. In quel momento fu invece qualcosa d'altro ad attrarre la nostra attenzione: un gigantesco chòrten, alto più di venti metri, testimoniava la santità particolare del luogo. Intorno a questo una quantità di mulini di preghiere - riuscii a contarne ottocento -, i cui tamburi giravano incessantemente: vi erano applicate le strisce con le formule delle orazioni, che senza posa impetravano la benedizione degli dei. Era importante che rimanessero sempre in movimento, e a tale scopo vidi un monaco che aveva il compito di controllare e ungere gli assi intorno ai Heinrich Harrer
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quali ruotavano. Nessun fedele che passasse faceva a meno di muoverli. Vecchietti e vecchiette sedevano spesso tutto il giorno davanti a questi tamburi giganteschi, alti parecchi metri: li facevano girare con devozione e supplicavano gli dei di concedere a loro e a chi li manteneva un più alto grado di reincarnazione. Altri fedeli portavano con sé piccoli mulini portatili quando si recavano in pellegrinaggio. Non mancavano mulini girati dal vento sui tetti, e anche l'acqua veniva messa spesso a servizio della devozione religiosa. Questi mulini di preghiere e l'ingenuo modo di pensare che attestano sono tipici del Tibet tanto quanto i mucchi di pietre e le banderuole sacre che avevamo incontrato sui passi montani. Avevamo trovato un ottimo ricovero per la notte, ed essendo rimasti affascinati da tutte le cose interessanti che avevamo visto, decidemmo di fermarci. Non avemmo da pentircene, perché ricevemmo la visita, molto interessante, di un tibetano. Aveva vissuto ventidue anni in una missione cristiana in India, ma ora la nostalgia lo aveva spinto a ritornare a casa sua. Come noi aveva oltrepassato da solo i passi malgrado l'inverno tibetano, ma dove aveva potuto si era accodato alle carovane. Ci mostrò delle riviste illustrate inglesi, all'interno delle quali per la prima volta vedemmo fotografie di città bombardate e leggemmo alcuni particolari sulla fine della guerra. Benché le notizie fossero disastrose, questo incontro inaspettato ci mise di nuovo in contatto con il nostro mondo. Ciò che ci fu raccontato non fece che rafforzare in noi la risoluzione di proseguire verso l'interno dell'Asia. Avremmo voluto invitarlo a venire con noi, ma non gli potevamo offrire né protezione, né comodità. Comprammo da lui alcune matite e un po' di carta per poter continuare i nostri diari. Poi, preso congedo, ripartimmo.
Un rischio seducente: vedere Lhasa La nostra via si allontanava ora dallo Tsangpo. Di nuovo attraverso un passo raggiungemmo in due giorni Sangsang. Eravamo ritornati sulla strada carovaniera da Gartok a Lhasa, dalla quale, esattamente un anno prima, avevamo deviato per andare a Kyirong. Anche a Sangsang c'era un bònpo, ma proprio in quel momento si era ritirato in un monastero per le meditazioni. Il suo sostituto ci rivolse una quantità di domande, ma ci trattò con estrema cortesia. Ci accorgemmo che il buon trattamento che i Heinrich Harrer
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due funzionari di Tradùn ci avevano a suo tempo riservato doveva aver fatto scuola, come esempio per le altre autorità. Probabilmente la notizia era giunta fino a Sangsang, perché costui cercò di imitarli. Per nostra fortuna non sapeva che eravamo lì illegalmente. Del resto le preoccupazioni non ci mancavano certo. Stavamo per prendere una grave decisione. Ci erano rimaste solo ottanta rupie e una piccola moneta d'oro, perché ci eravamo dovuti rifornire di viveri e acquistare un quinto Armin. I prezzi salivano man mano che ci avvicinavamo alle città, ed era inutile sperare di poter arrivare con il nostro poco denaro sino al confine cinese. Dovevamo coprire ancora migliaia di chilometri prima di raggiungere la Cina. Ma fino a Lhasa i nostri soldi sarebbero stati sufficienti. Ecco di nuovo il fascinoso nome della «città proibita». E la possibilità di raggiungere l'oggetto dei nostri sogni era ormai a portata di mano. Un irresistibile desiderio si impadronì di noi, e la nuova meta ci parve meritare ogni sacrificio. Già al campo di prigionia avevamo letto tutti i libri su Lhasa che eravamo riusciti a trovare. Non erano molti, e tutti erano stati scritti da inglesi. Apprendemmo che nel 1904 una spedizione punitiva britannica, costituita da un piccolo esercito, aveva raggiunto la capitale, e che negli ultimi vent'anni molti europei l'avevano visitata. Da allora il mondo ha conosciuto solo superficialmente Lhasa, e per gli esploratori nessuna meta è più attraente della casa del Dalai Lama. E noi, così vicini, non avremmo dovuto cercare di raggiungerla? Per quale altra ragione avevamo superato con astuzie e stratagemmi ogni sorta di difficoltà, c'eravamo spinti fino al limite della resistenza umana e avevamo imparato a parlare la lingua tibetana? Più ci pensavamo, più ci convincevamo, e «Verso Lhasa!» divenne il nostro motto. Le passate esperienze ci avevano insegnato che era molto più facile trattare con gli alti funzionari che con i loro sottoposti. Sentivamo che sarebbe andato tutto bene se fossimo riusciti a raggiungere Lhasa. Cominciai a pensare a un brillante esempio da imitare, quello di padre Johann Grùber, che si introdusse a Lhasa nascosto in una carovana più di trecento anni prima e che fu ospitato con estrema cortesia. La meta era dunque fissata, non così la via per raggiungerla. Attraente si snodava davanti a noi la strada carovaniera con i suoi tasam, percorrendo la quale avremmo raggiunto Lhasa in poche settimane. Ma avremmo corso il rischio di essere scoperti e arrestati. Anche aggirando Shigatse, per grandezza la seconda città del Tibet, avremmo incontrato molte Heinrich Harrer
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amministrazioni distrettuali, e ognuna di queste poteva rappresentare la nostra rovina. Troppo grande il rischio. Decidemmo perciò di attraversare le pianure settentrionali, il Changtang. Erano abitate soltanto da nomadi, e con costoro ci saremmo potuti intendere più facilmente. Poi, pensavamo, avremmo potuto raggiungere Lhasa da nordest. Da quella direzione era assai poco probabile che arrivassero stranieri, pertanto sarebbe stato più facile introdurci nella città. Già quarant'anni prima era stato questo il piano di Sven Hedin, abortito poi per la caparbietà di alcuni funzionari locali. Il fatto di non essere riuscito a raggiungere Lhasa gli potrà essere dispiaciuto molto, ma gli ha comunque permesso di esplorare regioni fino a quel momento sconosciute. Non avevamo mappe o informazioni sull'itinerario che volevamo percorrere: dovevamo andare verso l'ignoto e pensare soltanto a mantenere la direzione di nordest. Per strada avremmo potuto incontrare dei nomadi e chiedere loro indicazioni. A Sangsang non confidammo ad alcuno i nostri progetti: dicemmo solo di voler andare a vedere le saline che si trovavano a nord. La gente era inorridita all'idea, e tentò di dissuaderci. Quel territorio era così inospitale che solo dei pazzi ci sarebbero voluti andare. Ma il nostro inganno ebbe il piacevole risultato di sviarli dal sospetto che volessimo raggiungere Lhasa. Il nostro piano, in effetti, era molto pericoloso, e le bufere di vento gelido che investivano Sangsang ci fecero capire quello che ci aspettava. Ciò nonostante il 2 dicembre 1945 partimmo. Ci eravamo fatti amici alcuni sherpa. Erano tibetani, ma vivevano perlopiù nel Nepal e si erano fatti un nome come guide e portatori nel territorio dell'Himalaia. Erano soprannominati «le tigri dell'Himalaia». Ci diedero preziosi consigli e ci aiutarono nella scelta del nuovo yak, mentre fino a quel momento eravamo sempre stati imbrogliati. E fin dall'inizio della nostra marcia constatammo il buon comportamento del nostro nuovo Armin. Il suo carico era assai pesante, perché avevamo stabilito, come principio, di portarci appresso viveri per almeno otto giorni. Gravi preoccupazioni ci diede l'imminente passaggio di un fiume. Si trattava questa volta del Raka Tsangpo. Ma quando vi giungemmo, lo trovammo per fortuna gelato, e fummo in grado di attraversarlo anche con il nostro animale. Tutta la giornata risalimmo una vallata in leggera ascesa. Proprio al tramonto del sole e quando il freddo si era già fatto intenso, scorgemmo, come dietro ordinazione, una nera tenda di nomadi, al riparo di un basso muro di pietre, chiamato lhega. Questi recinti si trovano Heinrich Harrer
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disseminati in tutto il Tibet, perché i nomadi che li costruiscono intorno alle loro tende mutano di continuo i pascoli. I lhega servono anche a proteggere il bestiame dal freddo e dagli assalti dei lupi. Giunti in vicinanza della tenda, due cagnacci si avventarono contro di noi abbaiando furiosamente. Impressionato dallo strepito, uscì dalla tenda un nomade, che si mostrò molto cortese quando gli chiedemmo ospitalità per la notte. Ci vietò recisamente l'ingresso nella tenda, ma ci portò un po' di sterco di yak per accendere il fuoco. Fummo quindi costretti a stabilirci all'addiaccio, ma, dopo aver trovato sui pendii della legna per alimentare meglio il fuoco, riuscimmo a riscaldarci a dovere. Ciò nonostante quella notte non riuscii a dormire. Mi sentivo gravare sullo stomaco una sensazione simile a quella provata ai piedi dell'Eiger e del Nanga Parbat. In quei momenti ci si domanda se quanto si ha in animo di intraprendere non sia una folle sopravvalutazione delle proprie forze. La calma ritorna solamente quando, superato il punto morto, si ricomincia ad agire. È certo un bene che non si sappia ciò che ci attende. Se avessimo avuto anche solo un pallido sentore di quello a cui saremmo andati incontro, saremmo immediatamente ritornati sui nostri passi. Ma davanti a noi si stendeva una terra incognita che nessuno conosceva e che anche sulle carte geografiche era segnata in bianco. Il giorno seguente, raggiunta la cima del passo, rimanemmo stupiti di non vedere davanti a noi una discesa, bensì un altopiano. Avevamo raggiunto il più alto pianoro dell'Asia, venendo dall'India. Il passo formava lo spartiacque del Transhimalaia. Ci trovavamo a un'altitudine di circa 5400 metri, e avevamo l'impressione di avere davanti a noi l'infinito. L'immenso altopiano ricoperto di neve era schiaffeggiato da un vento gelido. In lungo e in largo nessun essere vivente. Trovai una specie di consolazione nel vedere piccoli mucchi di pietre, una testimonianza del fatto che d'estate passavano qui carovane dirette ai laghi di sale. E quei mucchi di pietre, come un filo teso fra viandante e viandante, innalzavano una voce agli dei dalla solitudine di questa regione senza confini. Le notti seguenti bivaccammo in lhega abbandonati, trovando però sempre abbastanza sterco di yak da accendere il fuoco. Evidentemente d'estate vivevano qui molti nomadi e passavano le carovane, quando i pendii, ora coperti di neve alta, erano rivestiti di verde. Tutto ci faceva intendere che l'inverno era la stagione meno opportuna per intraprendere un simile viaggio. Heinrich Harrer
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E venne un giorno in cui la fortuna ci arrise di nuovo. Incontrammo una tenda e ricevemmo una cordiale accoglienza da una coppia di nomadi con un figlio, che si erano stabiliti in quel luogo da molto tempo. A causa delle forti nevicate di otto settimane prima, non erano quasi mai usciti dalla tenda. Molti capi del loro bestiame, yak e pecore, erano morti di fame. Il resto degli animali si aggirava apaticamente intorno alla tenda o raschiava con gli zoccoli la neve per trovare un po' di nutrimento. Simili nevicate abbondanti erano una rarità per il clima asciutto dell'Asia centrale e costituivano una catastrofe inattesa. Avemmo l'impressione che anche i nostri ospiti fossero contenti di rivedere facce umane. Era la prima volta che venivamo accolti con tanta cortesia e invitati a passare la notte sotto una tenda di nomadi. Eravamo stati scambiati per indù, quindi non avevamo suscitato alcuna diffidenza nei nostri confronti. C'era carne in abbondanza, perché si erano dovuti macellare molti animali. Per pochi soldi potemmo comprare un cosciotto di yak, dal quale tagliammo via un bel pezzo per metterlo subito a cuocere nella nostra marmitta. Poi, comodamente seduti, ci rilassammo al caldo del fuoco. Quando appresero dove volevamo dirigerci si mostrarono spaventati. Ci sconsigliarono vivamente di proseguire. Ma dalla conversazione risultò che sulla nostra strada avremmo incontrato ancora altre tende di nomadi, e questa informazione rafforzò il nostro proposito. Partiti il giorno seguente, fummo sorpresi da una tormenta di neve. Camminare con le nostre calzature assolutamente inadeguate divenne ben presto una tortura. La crosta superiore della neve era infida, e noi e il nostro yak vi sprofondavamo. In alcuni punti si trovavano anche ruscelli che scorrevano sotto la neve, e spesso fummo costretti ad attraversare acqua freddissima, che sentivamo ma non riuscivamo a vedere. Le nostre scarpe e i nostri calzettoni furono presto ricoperti da uno strato di ghiaccio. Fu una giornata sfiancante, e riuscimmo a percorrere solo pochi chilometri. Prima di sera fummo veramente contenti di incontrare un'altra tenda di nomadi. I suoi abitanti non vollero accoglierci nella loro cerchia, ma con molta cortesia piantarono per noi una piccola tenda fatta con pelli di yak. Quando mi levai le scarpe alcune dita dei piedi mostrarono evidenti segni di congelamento, ma con un forte e lungo massaggio il sangue tornò finalmente a circolare. Le difficoltà incontrate e i primi sintomi di congelamento ci diedero molto da pensare. Con Aufschnaiter discussi a lungo se continuare il Heinrich Harrer
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viaggio o no. Potevamo anche ritornare, e pensavamo seriamente di farlo. Eravamo preoccupati per il nostro yak, che non aveva mangiato quasi nulla per giorni, e sapevamo che a queste condizioni non sarebbe sopravvissuto per molto tempo. E noi non potevamo pensare di andare avanti senza il nostro animale. Finalmente si giunse al compromesso di tentare di proseguire la marcia ancora per un giorno e di prendere poi la decisione definitiva. Attraverso una regione montuosa dolcemente ondulata giungemmo il giorno seguente a un passo, al di là del quale - meraviglia! - non trovammo più neve. La Provvidenza aveva deciso per noi.
Tra amichevoli nomadi Ben presto scorgemmo una tenda di nomadi, dove trovammo buona accoglienza. Anche il nostro yak poté finalmente godersi la succosa erba di un buon pascolo. La tenda era occupata da una donna, che subito ci offrì una bollente tazza di tè al burro: per la prima volta lo bevvi con gusto. La giovane donna aveva un aspetto pittoresco: sulla nuda pelle portava una lunga pelliccia di pecora; nelle sue lunghe e nere trecce brillavano conchiglie, monete d'argento e vari altri ornamenti di poco prezzo, provenienti dall'estero. Ci raccontò che i suoi due mariti si erano allontanati per radunare il loro bestiame: millecinquecento pecore e moltissimi yak. Eravamo stupiti. Anche qui, tra i nomadi, vigeva dunque la poliandria? Soltanto più tardi, a Lhasa, apprendemmo tutte le complicate motivazioni che nel Tibet permettono la simultanea esistenza della poliandria e della poligamia. Ritornati i due mariti, ci salutarono con molta cordialità. Venne servita una lauta cena: da bere c'era il latte acido, specialità che da quando avevamo lasciato Kyirong non avevamo più potuto gustare. Poi ci sedemmo intorno al fuoco, e fummo messi in guardia sulla durezza della strada che dovevamo percorrere. La conversazione fu animata e punteggiata di scherzi e battute, come sempre accade quando una giovane donna è l'unica rappresentante del suo sesso fra alcuni uomini. Il giorno seguente, ben riposati, ci rimettemmo in marcia. Eravamo contenti di esserci lasciati alle spalle la solitudine del paesaggio coperto di neve e di scorgere di nuovo tracce di vita. Branchi di capre selvatiche Heinrich Harrer
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sfilavano sui declivi e talvolta ci venivano tanto vicino che con una pistola ci saremmo potuti facilmente procurare un buon arrosto. Ma ci mancava la pistola. Di nuovo attraversammo un passo e poi una valle selvaggiamente frastagliata. Vi erano molte grotte naturali, ma non avevamo voglia di esaminarle più da vicino, perché un vento gelido ci frustava la faccia e ci penetrava nelle ossa. Non ci tranquillizzò neppure la magnifica vista di imponenti ghiacciai, i quali, ergendosi al limite dell'altopiano, rompevano l'uniformità del paesaggio che ci circondava. Fummo ben contenti di scorgere, al calar della sera, un'altra tenda di nomadi. Era gente particolarmente affabile e decidemmo subito di fare un giorno di sosta. Abitava nella tenda una giovane coppia con quattro bambini paffutelli. Benché lo spazio fosse ristretto, ci cedettero il posto migliore vicino al fuoco. Fatta subito amicizia, avemmo occasione di osservare per un'intera giornata la vita e l'attività dei nomadi. D'inverno gli uomini non sono molto occupati, ed eseguono parecchi lavori domestici: cuciono suole per le scarpe, tagliano corregge e con i loro fucili antidiluviani vanno a caccia. Le donne raccolgono lo sterco degli yak, portando spesso sulle spalle, avvolto in un mantello, il loro ultimo nato. Di sera il bestiame viene radunato e si munge il poco latte che d'inverno danno le femmine degli yak. Come si può facilmente immaginare, i nomadi adottano i metodi di cottura più semplici. D'inverno mangiano quasi soltanto carne, più grassa possibile, e pur non sapendo nulla di metabolismo o di calorie, per istinto scelgono l'alimentazione più confacente ai climi freddi. Vengono cucinate anche varie zuppe, perché la tsampa, il nutrimento principale delle regioni agricole, diventa qui una rarità. Questi nomadi, per vivere, devono anche utilizzare nel modo migliore le risorse che offre loro la natura. Per dormire si stendono l'uno accanto all'altro sopra pelli di montone, coprendosi con le pellicce che si sono tolte, per non perdere nulla del calore individuale. Al mattino come prima cosa viene riattizzato il fuoco mediante un mantice, e subito si comincia a far bollire il tè. Il fuoco è al centro della vita familiare e non si spegne mai. Il fumo esce da un'apertura del tetto della tenda. Come in ogni casa di contadini, anche sotto le tende dei nomadi è facile trovare un piccolo altare. È perlopiù molto primitivo: una cassa, sulla quale è collocato un amuleto o una piccola statua del Buddha. Il ritratto del Dalai Lama non Heinrich Harrer
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manca mai. Sull'altare arde una lampada a burro, e d'inverno, a causa del freddo e dell'aria rarefatta, la sua fiammella si vede appena. Il più grande avvenimento dell'anno nella vita dei nomadi è il mercato del bestiame di Gyanyima, dove portano le loro greggi e vendono una parte delle pecore scambiandole con orzo. Poi comprano i necessari utensili domestici, aghi per cucire, stoviglie di alluminio e variopinti ornamenti per le donne. Con rammarico ci congedammo dalla cortese famiglia. Avremmo voluto fare qualcosa per ripagare l'ospitalità di questa gente. Regalammo loro gomitoli di filo colorato e un po' di paprica, che era tutto ciò che avevamo. Le nostre marce da allora coprirono per un po' da venti a trenta chilometri al giorno, a seconda che incontrassimo o no delle tende. Spesso fummo costretti a passare la notte all'addiaccio. In quei casi tutta la nostra energia era impiegata per raccogliere sterco di yak e andare a prendere acqua, e anche parlare ci costava fatica. Ci facevano soffrire soprattutto le nostre mani: erano sempre dure dal gelo, perché non avendo guanti le ricoprivamo soltanto con calzini, che poi dovevamo togliere per poter lavorare. Una volta al giorno cucinavamo carne e dalla stessa marmitta prendevamo a cucchiai il brodo. Il punto di ebollizione, a causa dell'altitudine, era così basso, e la temperatura esterna raffreddava così presto i cibi, che potevamo permetterci di fare questo senza scottarci la lingua. Cucinavamo sempre solo di sera: ciò che avanzava lo riscaldavamo al mattino. Una volta in marcia, durante le ore diurne non ci fermavamo mai. Non potrò mai dimenticare la triste lunghezza di quelle notti. Talvolta non ci si poteva addormentare, e per ore rimanevamo appiccicati l'uno all'altro sotto la comune coperta, per non gelare. Spesso il vento soffiava con tale violenza che dovevamo rinunciare a piantare la tenda: allora ci mettevamo la tela sulle gambe per avere meno freddo. Raggomitolato nelle pieghe dormiva il nostro cane; soltanto lo yak non si curava del freddo e pascolava tranquillamente poco lontano da noi. Non appena ci riscaldavamo un po', si risvegliavano alla vita anche le innumerevoli cimici che avevano scelto di eleggere domicilio sopra di noi, e paurosamente si moltiplicavano. Un vero tormento! Senza alcun riguardo si nutrivano del nostro sangue. E non potevamo mai liberarcene, perché era del tutto impossibile spogliarsi con quella temperatura. Dopo la prima metà della notte, ormai sazie, ci lasciavano in pace. Finalmente si poteva Heinrich Harrer
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dormire. Ma dopo poche ore, ecco il freddo dell'alba penetrare attraverso le nostre coperture e svegliarci dal sonno. Tremanti rimanevamo stretti l'uno all'altro, sperando che il sole si facesse vedere. Se vi era anche solo una minima prospettiva, prima di alzarci aspettavamo che i raggi del sole raggiungessero i nostri corpi. Il 13 dicembre arrivammo a Labrang Trova, una «località» formata da una sola casa. La famiglia alla quale apparteneva se ne serviva come magazzino, e viveva nelle vicinanze sotto una tenda. Quando chiedemmo loro il motivo ci risposero che la tenda era molto più calda. La conversazione ci svelò che eravamo giunti da un bònpo. Il funzionario non era in casa, ma suo fratello lo sostituiva. Naturalmente non mancò di farci domande, ma si accontentò della favoletta del nostro pellegrinaggio. Per la prima volta confessammo di voler raggiungere Lhasa, anche perché eravamo ormai abbastanza lontani dalla via carovaniera. L'uomo scosse spaventato la testa e cercò di farci capire che la strada migliore e più rapida era quella che passava per Shigatse. Ma io avevo già pronta la risposta: avevamo scelto la via più faticosa proprio per rendere più meritorio il nostro pellegrinaggio. Rimase impressionato dalla nostra spiegazione e ci diede molti buoni consigli. Due erano le alternative: un itinerario era assai difficile e conduceva, attraverso molti passi, a una regione spopolata. Il secondo era più facile, ma attraversava purtroppo la regione dei khampa. Ecco di nuovo il nome che avevamo già udito pronunciare misteriosamente da molti nomadi. Il nome «khampa» indicava un abitante della provincia più orientale del Tibet, chiamata Kham. Ma questo nome non veniva mai pronunciato senza un'intonazione di paura e di avvertimento. Alla fine capimmo che la parola era sinonimo di «predone». Senza tener conto degli avvertimenti, scegliemmo la strada più facile. Passammo due notti presso la famiglia del bònpo. Purtroppo non come ospiti sotto la tenda, perché i tibetani, orgogliosi della loro razza, non ritenevano noi miserabili indù degni di un tale onore. Il fratello del bònpo però, come uomo, ci impressionò molto. Era serio e di poche parole, ma se diceva qualcosa era certo assennata. Anch'egli divideva la moglie con il fratello e viveva delle sue bestie. La famiglia sembrava benestante, perché già la tenda era più grande di quelle normali dei nomadi. Qui potemmo rifornirci di viveri, e senza difficoltà fu accettato in pagamento denaro contante. Heinrich Harrer
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Un pericoloso incontro con i predoni khampa Eravamo in marcia da un certo tempo quando ci venne incontro un uomo che ci colpì subito per il suo abbigliamento particolare. Parlava anche un dialetto diverso da quello dei nomadi di questa regione. Mostrandosi molto curioso ci domandò da dove venivamo e dove andavamo. Gli raccontammo la nostra abituale storiella del pellegrinaggio. Senza infastidirci ci lasciò e proseguì il suo cammino. Capimmo di aver fatto la nostra prima conoscenza con un khampa. Alcune ore dopo scorgemmo in lontananza, su piccoli cavalli, due uomini vestiti nella stessa maniera. Inquieti affrettammo il passo. Faceva già molto buio, quando avvistammo una tenda. Fu grande la nostra gioia, vedendo che si trattava di una famiglia di nomadi. Fummo accolti gentilmente, accesero apposta in nostro onore un fuoco e ci obbligarono a comprare carne. Più tardi venimmo a sapere che ciò derivava da una superstizione. Il nomade vuole avere nella sua tenda soltanto carne delle proprie bestie: allo straniero assegna un fuoco separato, ma non gli offre latte. Come dovunque, alcuni seguono con rigore il pregiudizio, altri meno. Di sera cominciammo a parlare dei predoni. Erano qui un vero flagello. Il nomade che ci offriva asilo viveva da abbastanza tempo nella regione per conoscerne le imprese. Con orgoglio ci mostrò un fucile Mannlicher, per il quale aveva pagato un patrimonio a un khampa: cinquecento pecore! Ma le masnade di predoni dei dintorni consideravano questo pagamento come una sorta di tributo, e da allora lo avevano sempre lasciato in pace. Ci furono anche raccontati molti particolari circa la vita dei khampa. Vivevano a gruppi di tre o quattro tende, partendo dalle quali intraprendevano le loro ruberie. Gli uomini, armati di fucili e di spade, si presentavano davanti a una tenda di nomadi, vi penetravano ed esigevano spavaldamente un buon pasto. Il nomade impaurito cercava di accontentarli come meglio poteva. Quei galantuomini si riempivano lo stomaco e le tasche, e trascinandosi appresso uno o due capi di bestiame scomparivano. L'operazione si ripeteva ogni giorno in una diversa tenda, finché una regione era completamente depredata. A quel punto se ne andavano, per stabilire il loro quartier generale da qualche altra parte, dove il gioco ricominciava. I nomadi si erano arresi al loro destino, perché Heinrich Harrer
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essendo quasi sempre disarmati si trovavano indifesi di fronte alla prepotenza del numero, mentre il governo in questi territori lontani era del tutto impotente. E se ogni tanto a un funzionario distrettuale riusciva una spedizione punitiva, egli ne ritraeva molto utile, perché tutta la preda gli apparteneva. Il castigo inflitto allora ai predoni era inumano. Quasi sempre venivano tagliate loro le braccia. Ma nessun khampa se ne era mai lasciato impressionare. Ci furono raccontate molte storie sulla crudeltà con la quale spesso i khampa avevano barbaramente ucciso le loro vittime. Non risparmiavano né pellegrini, né monaci o suore. Una notizia ben poco confortante! Che cosa non avremmo dato per poter comprare un Mannlicher! Ma non avevamo denaro. Per opporci alle eventuali aggressioni non possedevamo neppure l'arma più primitiva. I paletti da tenda che portavamo con noi non avevano impressionato neppure il cane pastore. Non eravamo in uno stato d'animo particolarmente brillante, quando il giorno seguente riprendemmo il cammino. La nostra diffidenza si accrebbe, quando scoprimmo un uomo con un fucile che cercava di nascondersi ripetutamente dietro una collinetta. Ma continuammo a camminare nella nostra direzione e lo perdemmo di vista. La sera ci fermammo nei pressi di un gruppo di tende. Bussammo alla prima: ne uscì una famiglia di nomadi che, spaventata, si oppose al nostro ingresso, indicandoci le altre tende. Non potevamo fare altro che tentare. Rimanemmo non poco stupiti quando, nella seconda tenda, trovammo un'accoglienza addirittura affettuosa. Ci aiutarono a scaricare, cosa che i nomadi non avevano mai fatto. All'improvviso ci si illuminò la mente: erano khampa! Eravamo come topi in trappola. Facemmo buon viso a cattivo gioco nella speranza di poterci trarre d'impaccio con prudenza, gentilezza e diplomazia. Non appena seduti accanto al fuoco, la tenda si riempì di gente. Tutti accorsero dalle tende vicine, uomini, donne, bambini e cani, per vedere gli stranieri. Avemmo un bel da fare per tenere riunite le nostre cose. Quella gente era sfacciata e curiosa come gli zingari. Udita la nostra storia del pellegrinaggio, ci consigliarono in modo assai caloroso uno degli uomini come esperta guida per arrivare nel modo più rapido a Lhasa. Costui voleva condurci lungo una strada un po' a sud rispetto al nostro itinerario, che a suo dire era molto più facile da percorrere. Aufschnaiter e io ci Heinrich Harrer
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scambiammo una rapida occhiata. L'uomo era robusto e massiccio, e alla cintola portava un'enorme spada. Non ispirava certo fiducia, ma accettammo la sua proposta e combinammo anche il compenso. Non c'era nient'altro da fare, anche perché se li avessimo irritati avrebbero anche potuto sgozzarci subito. A poco a poco i visitatori se ne andarono, e noi ci preparammo per andare a letto. Uno dei nostri anfitrioni voleva assolutamente usare il mio sacco come guanciale, e faticai non poco a tenerlo presso di me. Probabilmente sospettavano che vi fosse dentro una pistola. Il sospetto mi giovò, e cercai anzi di rafforzarlo con il mio comportamento. Finalmente si rassegnò. Per prudenza rimanemmo svegli tutta la notte. Benché fossimo molto stanchi non avemmo bisogno di lottare con il sonno, perché la donna khampa contribuiva a tenerci svegli con le sue ininterrotte preghiere. Mi sovvenne che forse stava pregando in anticipo per chiedere perdono per il crimine che suo marito intendeva commettere contro di noi il giorno dopo. Con gioia vedemmo spuntare l'alba. All'inizio sembrò tutto tranquillo. In cambio di uno specchietto da tasca comprammo cervella di yak, che cucinammo come prima colazione. Poi incominciammo a prepararci per la partenza. Sempre in agguato, quegli individui seguivano ogni nostro gesto, e divennero quasi aggressivi quando, uscendo dalla tenda, passai ad Aufschnaiter il nostro bagaglio. Li tenni però a bada e caricammo il nostro yak. Con gradita sorpresa constatammo che della nostra guida non vi era neppure l'ombra. Tutti i membri della famiglia ci consigliarono di non fare a meno di scegliere la via a sud, perché avremmo certo incontrato tende di nomadi diretti anche loro a Lhasa in pellegrinaggio. Promettemmo di fare così e partimmo di corsa. Dopo alcune centinaia di metri, mi accorsi che il mio cane non ci seguiva. Era solito venirci dietro senza essere chiamato. Voltatici, scorgemmo due uomini e un ragazzo che ci seguivano. Presto fummo raggiunti. Ci raccontarono di essere anche loro diretti verso le tende dei pellegrini e ci indicarono lontane colonne di fumo. Ci insospettimmo vivamente, perché non ci era mai capitato di osservare colonne di fumo salire dalle tende. Quando chiedemmo del cane ci risposero che era rimasto nella tenda. Uno di noi lo poteva andare a prendere. Il piano era chiaro come il sole. La nostra vita era in pericolo. Avevano trattenuto il cane per dividerci, non avendo il coraggio di affrontare entrambi nello stesso momento. E là dove salivano le colonne di fumo ci attendevano Heinrich Harrer
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probabilmente i loro compagni, che essendo in maggior numero ci avrebbero facilmente fatti fuori. Nessuno avrebbe più saputo nulla di noi. Ora sì che ci pentivamo di non aver dato retta ai moniti dei nomadi. Fingendo la massima indifferenza procedemmo ancora un po', per consigliarci a vicenda. I due uomini ci erano ormai a destra e a sinistra, mentre il ragazzo avanzava alle nostre spalle. Indossavano doppi mantelli di pelle di pecora, come sono soliti fare i predoni, per proteggersi dalle coltellate, e portavano lunghe spade appese alla cintola. Le loro facce erano atteggiate alla massima innocenza possibile. Qualcosa doveva succedere. Aufschnaiter ritenne che dovessimo come prima cosa cambiare direzione, per non cadere ciecamente in trappola. Detto fatto. Senza smettere di parlare, facemmo improvvisamente una brusca conversione. I khampa, disorientati, si fermarono, ma poco dopo ci raggiunsero e ci sbarrarono la strada, chiedendoci bruscamente quali fossero i nostri progetti. «Andare a prendere il cane» rispondemmo energicamente. Il nostro atteggiamento risoluto li intimidì. Si accorsero che eravamo pronti a tutto e ci lasciarono andare. Dopo averci seguiti per un po' con gli occhi, in tutta fretta proseguirono il cammino, probabilmente per andare ad avvertire i loro complici. Quando fummo vicini alle tende, la donna ci portò il cane legato a una corda. Dopo un breve saluto proseguimmo in fretta, naturalmente in senso inverso al cammino fatto il giorno prima. Andare incontro ai khampa senza armi avrebbe significato morte certa. Dopo una marcia forzata raggiungemmo ancora in serata la famiglia cortese che ci aveva dato ospitalità in precedenza. Non si mostrarono meravigliati delle nostre avventure. Ci raccontarono che la regione dove erano piantate le tende dei khampa si chiamava Gyak Bongra ed era assai temuta. Dopo le nostre esperienze non ci parve vero di poter passare di nuovo una notte tranquilla. Il giorno seguente studiammo il nostro nuovo itinerario. Non ci rimaneva altra soluzione che scegliere la via difficile attraverso territori disabitati. Comprammo dai nomadi ancora un po' di carne, perché probabilmente per almeno una settimana non avremmo incontrato anima viva. Per non dover ritornare fino a Labrang Trova, ci inerpicammo lungo una ripida salita per abbreviare il cammino. Sboccammo proprio lungo la via da noi scelta. A metà strada ci voltammo per osservare il paesaggio, ma Heinrich Harrer
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con spavento scorgemmo, sebbene ancora lontani, due uomini che seguivano le nostre tracce. Nessun dubbio che fossero khampa. Avevano probabilmente visitato la famiglia di nomadi per domandare in quale direzione fossimo andati. Che fare? Nessuno di noi due disse una parola. Più tardi confessammo entrambi di aver avuto la medesima idea: far pagare la nostra vita a caro prezzo. Dapprima cercammo di camminare più in fretta, ma dipendevamo dal nostro yak, che si muoveva come una lumaca benché lo pungolassimo di continuo. Ci voltavamo senza posa, ma era difficile stabilire se la distanza fra noi e i nostri inseguitori diminuisse o no. Realizzammo di essere pesantemente handicappati dalla nostra mancanza di armi. Per difenderci dalle loro spade avevamo solo paletti di tenda e pietre. A passo veloce percorremmo ancora un buon tratto, stimolati dalla paura e senza più fiato. Data un'occhiata alle nostre spalle, vedemmo che i due uomini si erano seduti. Raddoppiammo allora i nostri sforzi per raggiungere la schiena del monte. Allo stesso tempo cercammo un nascondiglio, che in caso di bisogno ci sarebbe potuto servire come riparo per sostenere meglio la lotta. I due uomini si erano di nuovo alzati, e sembrava che si consultassero. Poi li vedemmo tornare sui loro passi. Facemmo un sospiro di sollievo e battendo il nostro yak affinché si affrettasse cercammo di raggiungere quanto più rapidamente possibile l'altro versante del monte. Quando fummo in cima, comprendemmo perché i due uomini avessero preferito tornare indietro. Davanti a noi si stendeva il paesaggio più sconsolato che avessi mai visto. Un mare di vette nevose, una successione di colline basse e alte, distese infinite di neve, non un albero, non un filo d'erba. In lontananza il Transhimalaia, e, come una carie di dente nel suo mezzo, il Selala, il passo che avevamo preso in considerazione come possibilità di ritirata. Era diventato famoso grazie a Sven Hedin, e conduceva a Shigatse. I khampa avevano davvero smesso di inseguirci? Per sicurezza continuammo a marciare anche a notte fatta. Per fortuna non faceva buio. La neve brillava nella luce lunare, ed era così chiaro che si riconoscevano perfino le lontane catene montuose.
Fame, freddo e un regalo di Natale inaspettato Non dimenticherò mai quel pomeriggio. Spirito e corpo furono Heinrich Harrer
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sottoposti a uno sforzo inenarrabile. L'irrealtà di questa regione doveva diventare la nostra salvezza dai khampa. Ma ci imponeva anche nuovi problemi. Era un bene che non avessi più il mio termometro: avrebbe segnato anche qui 30 °C sotto lo zero, perché era la temperatura più bassa che poteva registrare. Ma qui il freddo era ancora maggiore. Anche Sven Hedin, quasi nella stessa regione e nella stessa stagione, registrò 40 °C sotto lo zero. Per ore e ore marciammo calpestando la neve inviolata. Lungo il cammino ognuno di noi pensava alle proprie cose. Io ero tormentato da visioni di accoglienti e confortevoli camere, deliziosi cibi cotti e fumanti bevande calde. Abbastanza curiosa fu l'evocazione di una banale tavola calda di Graz, di quando ancora ero uno studente, che quasi mi fece impazzire. I pensieri di Aufschnaiter invece andavano in tutt'altra direzione. Egli nutriva oscuri piani di vendetta contro i predoni e si riprometteva di tornare indietro con un vero e proprio arsenale di armi. Guai a tutti i khampa! Così ciascuno cercava a suo modo di sconfiggere una profonda depressione. Di nuovo avevamo perso tempo, e la nostra meta rimaneva lontana. Se avessimo potuto proseguire dalla tenda dei predoni senza essere bloccati, saremmo già stati lungo la strada settentrionale dei tasam. Verso mezzanotte, probabilmente - i nostri orologi si erano da tempo trasformati in carne e tsampa -, ci fermammo. Durante la lunga marcia non avevamo incontrato esseri viventi, tranne una volta un leopardo. Non c'era alcuna traccia di animali, di uomini, né di qualsiasi genere di vegetazione. Era fuori discussione trovare materiale per fare un fuoco. D'altra parte non avremmo neanche avuto le energie sufficienti, poiché è una vera arte quella di accenderne uno con lo sterco di yak. Scaricato il nostro animale, ci mettemmo subito sotto le coperte. Avevamo tirato fuori dal nostro sacco un po' di tsampa e un cosciotto di montone per sfamarci. Ma appena messo in bocca il cucchiaio con la farina asciutta, entrambi lanciammo una maledizione. Il cucchiaio si era incollato alle labbra e alla lingua per il freddo intenso, e riuscimmo a staccarlo soltanto con vivo dolore e a costo di qualche brandello di pelle. Scoraggiati e annichiliti dalla fatica cademmo in un sonno profondissimo. Poco ristorati ripartimmo di buon mattino. Il nostro yak, che inutilmente aveva cercato qualche filo d'erba, mangiava ora per disperazione neve, perché il giorno precedente non aveva trovato neppure un po' d'acqua. Heinrich Harrer
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Tutte le sorgenti incontrate si erano trasformate in bizzarre cascate di ghiaccio. Procedevamo con grande fatica, mettendo i piedi nelle orme del nostro valoroso yak, senza alzare lo sguardo. Perciò credemmo di essere vittime di un miraggio, quando, nel pomeriggio, all'improvviso, scorgemmo in lontananza lungo l'orizzonte, assai distintamente, tre carovane di yak che attraversavano il paesaggio nevoso. Si muovevano con estrema lentezza e ogni tanto si arrestavano, ma non sparivano. Dunque non erano un'allucinazione. Ciò ci infuse nuovo coraggio. Raccolte tutte le nostre energie, raggiungemmo dopo tre ore il posto di sosta delle carovane. Erano in quindici fra uomini e donne e avevano già piantato le tende. Furono non poco sorpresi nel vederci, ma ci accolsero amichevolmente, invitandoci a entrare in una tenda per riscaldarci accanto al fuoco. Apprendemmo che, di ritorno da un pellegrinaggio e da un viaggio di affari sul monte Kailash, erano diretti a casa loro presso il lago Nam. I funzionari distrettuali avevano consigliato anche a loro di scegliere questo itinerario difficile, per aggirare la regione infestata dai khampa. Erano accompagnati da cinquanta yak e da circa duecento pecore. La maggior parte del loro gregge era stata barattata con altri beni, e sarebbero stati una buona preda per i predoni. Perciò i tre gruppi si erano uniti. Invitarono anche noi a continuare il viaggio insieme con loro: ogni rinforzo era un vantaggio di fronte ai khampa. Che gioia sedere di nuovo accanto al fuoco e mangiare una minestra calda. Questo incontro insperato ci parve un segno della Provvidenza. Poiché sapevamo quale grande debito di riconoscenza avevamo contratto con il nostro bravo Armin, pregammo il capo della carovana di permetterci di caricare i nostri bagagli, dietro adeguato compenso, sopra uno dei suoi yak liberi, per concedere un po' di riposo al nostro. Marciammo da allora in poi con i nomadi, e durante le soste piantavamo la nostra piccola tenda accanto alle loro. Ciò rappresentava ogni volta un problema. Il vento ci strappava i teli dalle mani e durante la notte dovevamo uscire dalla tenda per fermare le corde strappate, mentre i pali sfondavano il tetto. Solo le tende di pelli di yak resistono a simili bufere, ma sono così pesanti da formare già di per se stesse il carico completo di un animale. Giurammo che, se un giorno avessimo dovuto riattraversare il Changtang, ci saremmo forniti di tre yak, di un mulattiere, di una tenda da nomadi e di un buon fucile. Heinrich Harrer
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Per il momento dovevamo lottare con la dura realtà. Potevamo invero già essere soddisfatti di aver trovato buona accoglienza presso questi nomadi. Ci disturbava soltanto la grande lentezza della marcia. A paragone delle nostre marce forzate quotidiane di prima, questa era una passeggiata. I nomadi si mettono in cammino di buon'ora, percorrono da quattro a sei chilometri, poi piantano le tende e lasciano pascolare il loro bestiame. Al calare della sera gli animali vengono legati a dei pali in prossimità delle tende, per difenderle dagli assalti dei lupi e permettere loro di ruminare in pace. Solo allora capimmo le fatiche che avevamo imposto al nostro Armin! Come facevano i tibetani quando passavamo le nostre giornate a scalare le montagne intorno a Kyirong, così anche il nostro animale doveva averci preso per pazzi. Durante le lunghe soste dedicammo molto tempo ad aggiornare i nostri diari, molto trascurati negli ultimi tempi, e incominciammo a chiedere informazioni ai membri della carovana circa la strada per giungere a Lhasa. Li interrogammo singolarmente, e a poco a poco dai colloqui apprendemmo i nomi di una serie di località. Questo aveva grande importanza per noi, che non volevamo certo passare il nostro tempo chiedendo ai nomadi la strada da un posto all'altro. Decidemmo perciò di staccarci dalla carovana quanto prima. Era il 24 dicembre quando, preso congedo, ci rimettemmo in cammino da soli. Il primo giorno, freschi e ben riposati, attraverso monti e valli percorremmo più di venti chilometri. A tarda sera ci trovammo davanti a una pianura, dove erano disseminate molte tende, i cui abitanti sembravano stare molto in guardia. Prima ancora che ci fossimo avvicinati ci vennero incontro alcuni uomini dall'aspetto selvaggio e bene armati, che ci ingiunsero di tenerci alla larga e di andare al diavolo. Ci fermammo, alzando le mani vuote, per dimostrare che non avevamo armi, dichiarando allo stesso tempo di essere innocui pellegrini. Nonostante il tempo passato insieme alla carovana, dovevamo apparire in condizioni compassionevoli. Dopo che si furono brevemente consultati fra loro, il proprietario della tenda più grande ci invitò a pernottarvi. Potemmo riscaldarci al fuoco, ci fu subito offerta una fumante tazza di tè al burro e ognuno di noi ricevette - rara leccornia - un panino di farina bianca. Benché fosse duro come la pietra, questo piccolo regalo della vigilia di Natale nel selvaggio Tibet assunse per noi un significato maggiore rispetto a qualsiasi cenone natalizio al quale avessimo partecipato a casa nostra. Heinrich Harrer
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L'uomo che ci ospitava all'inizio ci trattò con durezza. Quando gli raccontammo per quale strada avevamo intenzione di giungere a Lhasa, ci avvertì, senza mezze parole, che se non eravamo stati uccisi fino a quel momento, ciò sarebbe avvenuto certamente nei prossimi giorni, perché la regione era piena di khampa. Senza armi eravamo una preda molto facile. Egli disse ciò con il suo tono fatalistico, come quando si parla di una realtà ineluttabile. Lo pregammo di darci un consiglio. Egli ci propose di nuovo la via attraverso Shigatse, che potevamo raggiungere in una settimana. Ma noi non volevamo saperne. Ci pensò su e poi ci suggerì di andare dal bònpo del territorio, che aveva la sua tenda a una distanza di pochi chilometri verso sud. Questo funzionario avrebbe potuto fornirci una scorta, se proprio volevamo attraversare le regioni infestate dai predoni. Quella notte avevamo parlato per così tanto tempo che non eravamo riusciti a pensare al Natale nelle nostre case. Alla fine fummo d'accordo di fare un tentativo e di andare a visitare il bònpo. Dopo alcune ore raggiungemmo la sua tenda, ed egli ci accolse gentilmente, mettendo anche una tenda a nostra disposizione. Poi chiamò il suo collega, e il colloquio a quattro ebbe inizio. Questa volta rinunciammo alla nostra tavoletta di essere pellegrini indù. Ci facemmo subito riconoscere come europei, chiedendo energicamente protezione contro i banditi, tanto più che viaggiavamo con autorizzazione del governo. Con una sfacciataggine più unica che rara gli mostrai il passaporto rilasciatoci a suo tempo dal garpòn di Gartok. (Questo documento aveva una sua storia. Noi tre avevamo tirato a sorte per decidere chi avrebbe dovuto tenerlo, e aveva vinto Kopp. Ma quando ci lasciò io ebbi un'ispirazione e glielo ricomprai. E adesso era giunto il momento di sfruttarlo.) I due funzionari esaminarono il sigillo, e quel pezzo di carta sembrò incutere loro grande rispetto. Si erano convinti che era nostro diritto stare nel Tibet. Ci chiesero soltanto dove fosse rimasto il terzo uomo. Con seria compunzione dichiarammo che, essendosi ammalato, era andato in India attraverso Tradùn. Fummo stupiti noi stessi nel costatare che il nostro bluff era riuscito. I bònpo infatti, tranquillizzatisi, ci promisero una scorta che, sostituita a distanze determinate, ci avrebbe accompagnato fino alla via carovaniera settentrionale. Questo sì che era un ottimo regalo di Natale! Adesso finalmente ci sentivamo pronti a celebrare la festività. A Kyirong avevamo tenuto da parte un po' di riso per l'occasione. Lo preparammo e invitammo i due Heinrich Harrer
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bònpo a dividerlo con noi. Essi vennero portando ogni sorta di prelibatezze con sé e passammo una felice e amichevole serata insieme. Il giorno seguente fummo «consegnati» da un nomade alla tenda successiva. Il nostro viaggio somigliava a una staffetta, con noi al posto del testimone. Una volta affidatici a un'altra persona la scorta faceva ritorno. Con la nostra guida successiva facemmo grandi progressi, e anche se quell'uomo non rappresentava un'assicurazione sulla vita contro i banditi, faceva pur sempre comodo qualcuno che conoscesse bene la strada. Nostri fedeli compagni erano il vento e il freddo. Sembrava che al momento non potesse esistere altro se non bufere e temperature di 30 °C sotto lo zero! Soffrimmo molto a causa dell'inadeguatezza dei nostri vestiti, e fu una fortuna riuscire a ottenere un vecchio mantello di pelle di pecora da un nomade. Mi stava stretto e mancava di mezza manica, ma mi era costato solo due rupie. Le nostre scarpe erano in uno stato miserevole e non potevano durare molto a lungo. Guanti non ne avevamo proprio. Aufschnaiter aveva sintomi di congelamento alle mani, mentre io avevo problemi con i piedi. Sopportammo le nostre sofferenze con sorda rassegnazione e radunammo tutte le nostre energie per portare a termine la nostra quota giornaliera di chilometri. Saremmo stati veramente felici di passare un po' di giorni in un'accogliente tenda di nomadi. Anche la vita di costoro, dura e afflitta dalla povertà come era, spesso ci sembrava seducente e lussuosa. Ma non era il caso di fermarci, se volevamo raggiungere Lhasa prima che le nostre provviste finissero. E poi? Be', preferivamo non pensarci. Spesso, per fortuna a grande distanza, scorgevamo dei cavalieri, i cui strani cani rivelavano che si trattava di khampa. Queste creature erano meno pelose dei normali cani tibetani, magre, veloci come il vento e incredibilmente feroci. Per grazia di Dio simili incontri ci furono risparmiati. Durante tale viaggio a tappe forzate, facemmo la scoperta di un lago gelato, non registrato da nessuna carta geografica. Aufschnaiter ne fece uno schizzo, e gli indigeni ci dissero che si chiamava Yòchab, nome che significa «acqua sacrificale». La sua posizione era magnifica, ai piedi di una catena di ghiacciai che stavamo aggirando in ampio arco già da una settimana. Anche qui la cima più alta era un «trono degli dei», e portava il nome di un dio particolarmente potente: Jo Gya Kang. Prima di arrivare Heinrich Harrer
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alla strada principale incontrammo alcuni briganti armati di moderni fucili europei, contro i quali neppure il nostro coraggio avrebbe potuto aiutarci. Comunque sia, i banditi ci lasciarono stare, senza dubbio perché sembravamo così miserevoli e scalcagnati. Ci sono momenti nei quali anche la povertà esteriore ha i suoi vantaggi. Dopo cinque giorni finalmente raggiungemmo la tanto celebrata strada carovaniera. Ce l'eravamo immaginata come una vera e propria strada che, una volta raggiunta, avrebbe posto fine a tutte le miserie della nostra marcia. Si può immaginare il nostro disappunto quando non riuscimmo a scorgere neppure la traccia di un sentiero! Il paesaggio non differiva in nulla da quello attraversato da noi nelle ultime settimane: vi erano soltanto alcune tende vuote per le eventuali soste delle carovane, ma nessun altro segno di organizzazione. L'ultima tappa fu da noi percorsa in compagnia di due robuste amazzoni. Dopo averci indicato la carovaniera, si congedarono da noi. Rassegnati ci ritirammo in una tenda vuota e accanto al fuoco ci dedicammo a un breve bilancio. In complesso potevamo dirci soddisfatti: avevamo ormai superato la parte più difficile del viaggio e ci trovavamo lungo una strada molto battuta che portava a Lhasa. In quindici giorni avremmo potuto raggiungere la capitale. Ma dovevamo essere felici di essere così vicini alla nostra meta? Allo stato dei fatti, le nostre fatiche ci avevano ridotti allo stremo delle forze, e non eravamo più in grado di gioire. A parte i sintomi di congelamento e la mancanza di denaro e di cibo, non sentivamo nient'altro che ansia. Eravamo preoccupati soprattutto per i nostri animali. Il mio fedele cane era ridotto a pelle e ossa. Avevamo poco cibo per tenere in vita noi stessi, e non potevamo darne più di tanto a lui. Le sue zampe erano in uno stato così pietoso che non riusciva a tenere il nostro passo e spesso dovevamo aspettarlo per ore prima che ci raggiungesse mentre noi facevamo una sosta. Lo yak stava un po' meglio. Non aveva avuto, nel corso delle ultime settimane, abbastanza erba da mangiare, ed era paurosamente emaciato. È vero che ci eravamo lasciati la neve alle spalle dopo aver superato il lago Yòchab, ma l'erba era scarsa e asciutta, e c'era poco tempo per farlo pascolare. Il giorno seguente di nuovo in marcia. Il fatto che fossimo lungo una strada carovaniera e che non fossimo in condizioni peggiori rispetto a Marco Polo quando si era diretto verso l'ignoto contribuì a innalzare il nostro morale. La carovaniera sulla quale ci trovavamo era stata Heinrich Harrer
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originariamente aperta dal governo per il trasporto dell'oro nel Tibet occidentale. Più tardi, divenuto maggiormente animato il commercio in tutto il paese, la strada aveva assunto la funzione di alleggerire l'itinerario meridionale che costeggiava lo Tsangpo. Durante la prima giornata sulla carovaniera non incontrammo anima viva. Non si distingueva in nulla dalle nostre tappe peggiori: una violenta bufera di vento e di neve accompagnata da fitta nebbia rendeva la nostra marcia un inferno. Fortunatamente il vento ci soffiava alle spalle e ci spingeva avanti. Se ci avesse soffiato in faccia, non saremmo riusciti a muovere un passo. Il nostro Armin era quasi allo stremo delle forze, e fummo tutti e quattro ben contenti quando alla sera vedemmo tende lungo la strada. Nel mio diario ho ricordato questa giornata con le seguenti parole: 31 dicembre 1945. Forti tempeste di neve con nebbia (la prima da quando siamo nel Tibet). Temperatura: 30 °C sotto lo zero. La più faticosa giornata del nostro viaggio. Il carico dello yak scivolava continuamente giù, e nel rimetterlo a posto le mani quasi ci si congelavano. Ci siamo smarriti una volta, ma dopo due chilometri ci siamo accorti dell'errore e siamo ritornati sui nostri passi. Verso sera abbiamo raggiunto la stazione di Nyatsang. Otto tende. Una di queste è abitata dal bònpo del tasam con la famiglia. Accoglienza cordiale.
Il provvidenziale salvacondotto Questo era dunque il nostro secondo San Silvestro nel Tibet. A considerare ciò che avevamo raggiunto finora, c'era da perdere il coraggio. Eravamo ancora viaggiatori «illegali», due vagabondi stracciati e mezzi morti di fame, costretti a nascondersi, sempre diretti verso una meta immaginaria che sembrava impossibile da raggiungere: Lhasa, la città proibita. In simili ricorrenze si diventa volentieri un po' sentimentali, si è inclini a considerare gli eventi passati, e i pensieri volano verso la patria e la famiglia lontane. Ma la lotta per la vita esigeva tutte le nostre forze psichiche e fisiche, e non avevamo tempo per i sogni. Per noi una serata passata in una tenda calda era più importante che non, nella tranquillità Heinrich Harrer
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delle nostre case, ricevere in regalo la macchina da corsa dei nostri sogni. Quindi festeggiammo a modo nostro la notte di San Silvestro. Volevamo fermarci un po' più a lungo per ristorare noi e le nostre bestie. Il vecchio salvacondotto aveva fatto il suo dovere. Il funzionario del tasam si rivelò subito cordiale, ci mise a disposizione un servo e ci mandò acqua e sterco di yak per accendere il fuoco. Dopo aver mangiato ci mettemmo a dormire. Era già tardi la mattina seguente quando, facendo colazione, sentimmo movimento e agitazione davanti alle tende. Era arrivato il cuoco di un bònpo, con in testa un cappello di pelle di volpe, per annunciare l'arrivo del suo signore e preparare tutto per una degna accoglienza. L'arrivo di un bònpo poteva assumere anche per noi grande importanza, ma eravamo da abbastanza tempo in Asia per sapere che «alto signore» è un concetto molto relativo. Per il momento non ci eccitammo. Ma le cose si misero subito bene. Il bònpo giunse a cavallo in mezzo a una schiera di servi: era un commerciante al servizio del governo. Aveva l'incarico di accompagnare un carico di zucchero e di stoffe di cotone a Lhasa. Naturalmente anch'egli volle farci subito alcune domande, ma con rispettosa compunzione gli esibimmo la nostra lettera. Anche stavolta produsse il consueto effetto. La seria faccia ufficiale scomparve, ed egli ci invitò subito a unirci al suo seguito. Rinunciammo alla nostra giornata di riposo e incominciammo a preparare i bagagli, perché la carovana voleva fare qui solo una breve sosta per mangiare. Scorgendo il nostro Armin tutto pelle e ossa, un carovaniere scosse la testa e ci fece infine la proposta di caricare la nostra roba, dietro un piccolo compenso, sopra uno yak del tasam, per lasciare trotterellare libero il nostro animale. Ma ora ci si doveva affrettare. Il bònpo e i suoi servi ricevettero cavalli freschi. Cambiati gli yak, le nuove bestie con il loro carico si misero subito in moto. Ci costò non poca fatica, stanchi e sfiniti come eravamo, marciare per venti chilometri fino alla tappa successiva. Il mio povero cane era troppo stanco per seguirci, così lo lasciai al tasam: per lui era meglio che morire lungo la strada. Marciando con la carovana facemmo ogni giorno lunghi percorsi, beneficiando sempre della protezione del bònpo, perché dovunque fummo accolti senza difficoltà. Soltanto a Lhòlam un funzionario del tasam concepì a nostro riguardo dei sospetti: ci rifiutò il combustibile per accendere il fuoco e chiese ostinatamente che gli Heinrich Harrer
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mostrassimo il passaporto emesso da Lhasa. Gli avremmo volentieri fatto tale piacere. Comunque avevamo almeno un tetto sulla testa, e questo per il momento era già abbastanza. Poco dopo il nostro arrivo scorgemmo aggirarsi intorno alle tende delle figure sospette. Le riconoscemmo subito come khampa. Eravamo però troppo stanchi per occuparcene, anche perché nei nostri sacchi c'era ben poco da rubare. Solo quando, avvicinatisi alla nostra tenda, pretesero di dormire con noi, protestammo assai energicamente. Ed essi scomparvero. La mattina seguente constatammo con grande spavento che il nostro yak era sparito. Eppure lo avevamo solidamente legato a un palo la sera prima. Benché Aufschnaiter e io cercassimo dovunque, di Armin nessuna traccia. Ma erano spariti anche i furfanti, quindi non c'era alcun dubbio che lo avessero rubato. La perdita dello yak era per noi un problema molto serio. Ci precipitammo nella tenda del funzionario del tasam, e con ira gli gettai davanti ai piedi la sella e la coperta. Era colpa sua se avevamo perduto il nostro yak. Eravamo molto affezionati ad Armin V, l'unico rappresentante della sua razza che ci aveva serviti veramente bene. Comunque, con Armin il destino non era stato crudele: avrebbe potuto pascolare a suo agio, e nella sua mente il ricordo delle fatiche sostenute sarebbe ben presto svanito. Non avevamo tempo di piangere la sua perdita. I nostri bagagli erano già in viaggio da ore, perché la carovana si metteva in moto sempre prima dell'alba, per tenere il passo con il bònpo che procedeva a cavallo. Malgrado la nostra tristezza, ci risultò piacevole poter camminare liberamente e non essere continuamente trattenuti dal pungolare l'animale e dall'eterno raddrizzare il carico. Già da alcuni giorni ci avvicinavamo a un'immensa catena di montagne. Sapevamo che era la catena del Nyenchen Thangla. Un unico passo dà accesso al versante opposto, e lì passa la pista che conduce a Lhasa. La regione era dolcemente collinosa e completamente deserta. Non vedemmo neppure dei kyang. Il tempo era molto migliorato: era sereno, e l'aria era così trasparente che si poteva scorgere a portata di mano la nostra meta, distante ancora una decina di chilometri. Eravamo però letteralmente sfiniti, e avevamo la sensazione di consumare le nostre ultime riserve. La sera, nel tasam di Tokar, crollammo, abbattuti dalla fatica. Da qui aveva inizio la salita della montagna. La stazione successiva Heinrich Harrer
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sarebbe stata raggiunta solo in cinque giorni. Non osavamo pensare a come avremmo fatto. In ogni caso facemmo il possibile per comprare una sufficiente quantità di carne. Le giornate sembravano senza fine, e le notti ancora di più. Stavamo attraversando una regione pittoresca oltre ogni dire. Incontrammo anche uno dei più grandi laghi del mondo, il Nam, o Tengri Nor. Per farne il giro sembra che ci vogliano undici giorni. Quasi quasi neppure lo vedemmo. Avevamo sempre desiderato vedere uno dei grandi laghi senza emissari del Changtang. Ora stava davanti a noi, e nulla riusciva a scuoterci dalla nostra apatia. La salita in quell'aria rarefatta ci aveva completamente esauriti, e l'altitudine di 6000 metri intorpidiva il nostro cervello. Di tanto in tanto gettavamo un'occhiata stupita ai colossi la cui vetta sovrastava le altre. Finalmente eccoci in cima al passo di Guring. L'inglese Littledale, nel 1895, l'aveva attraversato, unico europeo prima di noi. Sven Hedin l'ha segnato sulle sue carte stimandone un'altezza di circa 6000 metri e descrivendolo come il passo più alto della catena del Transhimalaia. Non credo di errare se dico che è il più alto passo del mondo che sia attraversato tutto l'anno.
Banderuole sacre lungo la strada dei Pellegrini Di nuovo trovammo i tipici mucchi di pietre, sopra i quali ondeggiavano le più variopinte banderuole sacre che avessi mai visto. Accanto, scolpite nella pietra, una serie di iscrizioni, espressione indelebile della gioia di molte migliaia di pellegrini che, dopo le fatiche del loro viaggio, erano giunti a questo passo che apriva loro la strada alla più santa delle città. Ed ecco giungere in gran folla tutti quei pellegrini che avevano visto la meta del loro ardente desiderio e ritornavano di nuovo verso la loro patria lontana. Quante volte questa strada avrà udito i pellegrini mormorare senza posa la più usuale formula mistica buddhista, «Om mani padme hum», per mezzo della quale essi chiedono protezione dai gas velenosi, come chiamano i tibetani la mancanza di ossigeno. Quanto sarebbe meglio che tenessero la bocca chiusa! Dovunque, sul fondo dei burroni, bianche carcasse di animali precipitati testimoniavano la pericolosa natura del percorso. I carovanieri ci raccontarono che quasi ogni inverno molti pellegrini perdevano la vita in tormente di neve su questa montagna. Heinrich Harrer
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Ringraziammo Dio del tempo buono, perché già nei primi giorni dovemmo superare un dislivello di 2000 metri.
Il Potala, la residenza del Dalai Lama a Lhasa, come si presenta ai pellegrini che entrano in città dalla porta occidentale.
A bordo di una barca in pelle di jak sul Brahmaputra (in tibetano, Tsangpo). Heinrich Harrer
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Un paesaggio classico dell'altopiano del Tibet: i monti coperti di neve, un villaggio di poche case e banderuole sacre su tutti i tetti.
Pellegrini lungo la strada per Lhasa: molti ne misurano la lunghezza con il corpo. Tutto il loro bagaglio è dato da bastoncini di incenso e da un sacco di tsampa.
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Un monaco, rivolto verso la città, suona il mezzogiorno dal tetto della scuola di medicina sul Chagpori, il monte di Ferro.
Un monaco mendicante, in pellegrinaggio da quindici anni. Porta un berretto di pelliccia d'orso sul capo, ghirlande ricavate da ossa umane sulle spalle e, appesi all'arma, i tipici amuleti magici.
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Il monastero Tashilhunpo nei pressi di Shigatse, la seconda città del Tibet, residenza del Panchen Lama.
Filatrici di lana al lavoro.
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Alcuni membri della Chiesa rossa dei bòn: diversamente dai componenti della Chiesa gialla riformata, che impone un rigido celibato, vivono insieme con le loro famiglie nei monasteri.
Giganteschi strumenti a fiato, nell'aspetto simili a telescopi, annunciano minacciosi l'arrivo del dio-re.
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Il mercato della paglia davanti all'ingresso di un antico tempio cinomaomettano a Lhasa.
I monaci accompagnano con i piatti le danze religiose per la festa di capodanno.
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Alcuni nobili - in primo piano i quattro ministri del governo - assistono alle cerimonie festive sotto il Potala.
Anche in esilio si sacrifica alle divinità.
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Un monaco-soldato che, durante i festeggiamenti per il capodanno, è responsabile della tranquillità e dell'ordine pubblico. A dimostrazione della sua autorità porta una grossa asta di legno e una frusta.
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Monaci danzanti alla festa per il Piccolo capodanno nel quartiere di Shò ai piedi del Potala. Indossano maschere in legno dipinte e «soprabiti» in ossa umane o avorio.
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Un monaco riempie le lampade al burro: nel Tibet lo si faceva con una preziosa brocca in oro e argento, mentre in esilio può bastare anche un semplice bollitore in alluminio.
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A Gyantse c'è uno dei più grossi chòrten del Tibet. Ha cinque piani ed è in granito. I singoli gradini contengono numerose cappelle decorate con statue. All'interno una sorta di scala a chiocciola conduce fin sotto il tetto.
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L'Oracolo di stato poco prima di cadere in trance, momento in cui lascia che il dio prenda possesso di lui e risponda alle domande dei rappresentanti del governo.
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Durante la fuga del 1951 la portantina del dio-re viene accompagnata da una processione alla rocca di Gyantse.
Un funzionario del Dalai Lama conversa con un soldato khampa.
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Prima che i cinesi entrassero nel paese, vennero reclutati diecimila nuovi soldati tibetani.
Il Dalai Lama nel monastero Dungkhar nei pressi di Chumbi nel 1951.
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Wangdula, il mio miglior amico a Lhasa. Più tardi divenne un leader comunista.
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Heinrich Harrer e il Dalai Lama in una fotografia recente. Oltrepassata la cresta, ci trovammo davanti a un paesaggio del tutto nuovo. Erano scomparse le lievi colline del Changtang. Ripida e brusca la montagna si interrompeva, e in gole profondamente incassate rumoreggiavano le acque che defluivano verso la piana di Lhasa. I mulattieri ci raccontarono che da un determinato punto, proprio davanti Heinrich Harrer
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alla città, si potevano perfino vedere le vette ghiacciate che ora stavamo attraversando. Tanto vicina era ormai la città proibita! La prima parte della discesa si effettuò attraverso un ghiacciaio. Una volta di più ammirai gli yak, che con incredibile sicurezza trovavano la loro strada sul ghiaccio. Mentre ci trascinavamo avanti con passo malfermo, non potei fare a meno di pensare a come sarebbe stato molto più facile scivolare lungo queste superfici lisce e prive di crepe con un paio di sci. Immaginai che Aufschnaiter e io fossimo le uniche persone che avessero parlato di sci lungo la strada dei Pellegrini che porta a Lhasa. Malgrado la nostra stanchezza ci attirò una serie di cime di 6000 metri, e rimpiangemmo di non avere con noi le nostre piccozze, perché sarebbe stato facile scalarne una. Durante questa marcia fummo raggiunti da una giovane coppia. Venivano da lontano, e come noi volevano raggiungere Lhasa. Si unirono volentieri alla carovana, e continuando a camminare iniziammo a conversare. La loro storia assomigliava a quella di Giulietta e Romeo, in versione tibetana. La donna, giovane e bella, con le guance rosse e le trecce nere e fitte, viveva allegra e contenta in una tenda di nomadi del Changtang con i suoi mariti - tre fratelli -, e dirigeva l'economia domestica. Una sera era venuto un giovane straniero a chiedere asilo per la notte. Da quel momento tutto cambiò. Dev'essere stato il classico «colpo di fulmine» reciproco. Segretamente si erano accordati, e già il mattino seguente avevano abbandonato insieme la tenda. Non pensarono neppure ai pericoli di una fuga attraverso la pianura invernale. Felicemente erano arrivati fino a lì, e a Lhasa volevano iniziare una nuova vita. La giovane donna mi è rimasta impressa come un raggio di sole in quei giorni bui e pesanti. Una volta durante la sosta mise la mano nella sua tasca interna e sorridendo offrì a ciascuno di noi un'albicocca secca. Questo piccolo dono fu per noi prezioso tanto quanto il panino di farina bianca che il nomade ci aveva dato la notte di Natale. Nel proseguire potei valutare quanto fossero forti e resistenti le donne tibetane. La giovane teneva con disinvoltura il nostro passo e portava, come ogni uomo, il suo sacco. Non aveva bisogno di preoccuparsi per l'avvenire, perché a Lhasa si sarebbe messa a servizio e, data la sua robusta costituzione, si sarebbe guadagnata facilmente da vivere. Marciammo per tre giorni senza vedere una sola tenda. Quand'ecco in Heinrich Harrer
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lontananza un'immensa colonna di fumo alzarsi verso il cielo. Si trattava del fumo di focolari o di un incendio? Avvicinandoci trovammo la soluzione dell'enigma: era il vapore di sorgenti calde. Presto avemmo davanti agli occhi un quadro di inaspettata bellezza naturale. Parecchie sorgenti erompevano dal terreno e, fra le nuvole di vapore che le avvolgeva, un meraviglioso geyser si lanciava fino a quattro metri d'altezza. Eravamo sopraffatti da tanta bellezza. Il nostro primo pensiero fu quello di fare un bagno. La giovane donna, che rendemmo partecipe del nostro progetto, si mostrò addirittura indignata. Noi però non ci facemmo caso. L'acqua scaturiva calda dalla terra, ma a causa della temperatura esterna di 10 °C sotto lo zero veniva raffreddata a un calore sopportabile. Ingrandimmo una delle pozze naturali fino a ridurla a un bacino abbastanza spazioso. Che gioia! Da quando avevamo lasciato le sorgenti calde di Kyirong non eravamo più riusciti a lavarci, men che meno a fare un bagno. Ma sedendo ora nel bel mezzo dell'acqua bollente, la temperatura fredda dell'aria fece immediatamente ghiacciare i nostri capelli bagnati e la barba. Nel ruscelletto di scarico della sorgente, piacevolmente caldo, nuotavano numerosi grossi pesci. Ci arrabattammo inutilmente nel tentativo di catturarli - avremmo potuto facilmente cuocerli nell'acqua calda della sorgente - ma non ci riuscimmo, così, ben rinfrescati, ci affrettammo per raggiungere la carovana. Passammo la notte sotto una tenda insieme con i mulattieri. Quella volta fui colpito da un brutto attacco di sciatica. Avevo sempre considerato questo acciacco come proprio della vecchiaia, e non mi sarei mai sognato di farne così presto la conoscenza. Probabilmente ne ero stato colpito in seguito a tutte le notti passate all'addiaccio. Una mattina non fui più in grado di alzarmi: avevo dolori insopportabili. Con spavento mi domandai come avrei potuto proseguire in quelle condizioni. Stringendo i denti tentai di fare alcuni passi e constatai che, seppure sforzandomi molto, vi riuscivo. Da allora i primi chilometri ogni mattina furono per me particolarmente faticosi. Il quarto giorno dell'attraversamento del passo sboccammo in una gigantesca pianura. Stanchi morti raggiungemmo di sera la stazione di sosta di Samsar. Finalmente un nuovo tasam, case solide, un monastero e un castello. È questo uno dei più importanti punti di incontro delle cinque principali strade carovaniere del Tibet, e vi ferve un intenso traffico dal principio alla fine dell'anno. Le stazioni di sosta delle carovane sono Heinrich Harrer
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strapiene, e numerosi yak e cavalli servono per il cambio. Il nostro bònpo era qui già da due giorni. Ma pur essendo un rappresentante del governo dovette attendere cinque giorni per il cambio delle bestie da soma. Egli ci procurò un alloggio, del combustibile e un servo per accendere il fuoco. Potemmo ammirare un'organizzazione che non ci saremmo aspettati di trovare in questo immenso paese impervio. Annualmente erano in viaggio enormi carichi a dorso di yak, molte migliaia di chilometri venivano percorse, eppure tutto procedeva sempre regolarmente. Non potendo proseguire da soli, in quanto non possedevamo più il nostro yak, approfittammo della giornata per fare un'escursione. Non lontano da Samsar si scorgevano salire al cielo bianche nuvole di vapore: anche qui esistevano dunque delle sorgenti calde. Ne fummo attirati. Uscendo dalla città attraversammo per chilometri campi incolti, segno che la popolazione aveva abbandonato l'agricoltura per dedicarsi al trasporto di mercanzie. Le sorgenti calde si rivelarono un vero miracolo della natura. Davanti a noi ribolliva un lago: la sua acqua sembrava nera, eppure riversandosi in un ruscello scorreva del tutto limpida. Trovato un punto piacevolmente caldo, entrammo nel ruscello, avvicinandoci sempre più al lago. Il calore aumentava man mano. Aufschnaiter fu il primo a non sopportarlo più, ma io mi costrinsi a rimanere nell'acqua per curare la mia sciatica. Possedevo ancora un pezzo di sapone che mi ero portato da Kyirong. Lo posi a portata di mano sulla riva. Una radicale insaponatura doveva rappresentare il momento più bello del bagno. Purtroppo non mi ero accorto che una cornacchia mi stava osservando già da tempo. All'improvviso avanzò e con un fulmineo colpo di becco si portò via il mio tesoro. Imprecando tentai di correrle dietro, ma battendo i denti per il freddo mi rituffai subito nell'acqua calda. Nel Tibet le cornacchie sono ladre tanto quanto le gazze in Europa. Sulla via del ritorno vedemmo per la prima volta un reggimento tibetano: cinquecento soldati facevano manovre. La popolazione non è di solito entusiasta di queste esercitazioni militari, perché i soldati hanno il diritto di requisire ciò che vogliono. Sono accampati in tende ben allineate, ma anche se gli abitanti del luogo non sono obbligati ad acquartierarli, devono però mettere a loro disposizione animali da trasporto e cavalli da sella.
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Il nostro compagno per la notte: un forzato con le catene ai piedi Nel nostro ricovero ci attendeva una sorpresa: ci avevano dato come compagno di camera un uomo che aveva catene alle caviglie e poteva fare solo passi brevi. Sorridendo, con la più grande naturalezza possibile, ci raccontò di essere un predone assassino, che era stato condannato a Lhasa a duecento colpi di frusta e a portare per tutta la vita una catena ai piedi. La prospettiva di passare una notte con lui ci fece venire la pelle d'oca. Ci si metteva dunque allo stesso livello degli assassini? Ma ben presto ci fu chiaro che nel Tibet un forzato non è un proscritto. L'uomo non era bandito dalla società, prendeva parte alla conversazione generale e viveva di elemosine. E non viveva male. Senza posa mormorava le sue preghiere, certo non per pentimento, ma per suscitare compassione. Si era sparsa la notizia che eravamo europei, e continuamente dei curiosi venivano a vederci. Fra gli altri anche un giovane monaco, che accompagnava un trasporto per il monastero di Dreprung e doveva ripartire il giorno dopo. Quando apprese che avevamo soltanto pochi bagagli e desideravamo ardentemente proseguire, ci offrì uno yak libero della sua carovana. Non si interessò affatto di sapere se avessimo un'autorizzazione di viaggio. La nostra riflessione era stata esatta: man mano che ci si fosse avvicinati alla capitale, le difficoltà sarebbero diminuite. Si riteneva ovvio che stranieri addentratisi tanto nel paese fossero muniti di un passaporto da parte del governo. Ciò nonostante ogni volta che ci si fermava in una località, cercavamo di ripartirne al più presto, perché poteva sempre capitare che qualcuno volesse vedere il nostro permesso. Accettammo subito l'offerta del monaco. Profondendoci in ringraziamenti prendemmo congedo dal nostro bònpo, e poco dopo mezzanotte ci mettemmo in moto. Attraversata la regione di Yangpachen, giungemmo in una valle laterale che sfociava nella piana di Lhasa. Quasi a Lhasa! Venivamo sopraffatti dall'emozione ogni qualvolta si sentiva pronunciare il nome della città proibita. Nessun pellegrino della più lontana provincia poteva sentire maggior desiderio di noi di giungere alla città santa. Già ora eravamo più vicini a Lhasa di quanto fosse riuscito a Sven Hedin. Per due volte, quasi nella medesima regione, aveva tentato Heinrich Harrer
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di arrivarci, ma ogni volta era stato trattenuto nel Changtang dalla scarpata del Nyenchen Thangla. Noi due, miserabili vagabondi, avevamo dato meno nell'occhio della sua carovana, e le nostre astuzie e le nostre conoscenze linguistiche ci erano state di valido aiuto. Avevamo da percorrere ancora una distanza di cinque giorni di marcia, e non sapevamo se ci sarebbe riuscito di penetrare nella città. Già di prima mattina la nostra carovana era giunta alla località successiva, Dechen, dove avremmo dovuto fare un giorno di sosta. Quanto mai pericoloso per noi. I due funzionari distrettuali che vi risiedevano difficilmente si sarebbero lasciati turlupinare dalla nostra vecchia lettera. Il nostro amico monaco non era ancora arrivato, perché si poteva permettere il lusso di non correre a precipizio. Nessun dubbio che si fosse messo in viaggio all'incirca nel momento in cui noi avevamo raggiunto Dechen. Prudentemente ci mettemmo a cercare un posto dove passare la notte, e di nuovo ci arrise la fortuna. Facemmo conoscenza con un giovane tenente che di buon grado ci offrì il suo alloggio, dovendo ripartire a mezzogiorno. Il soldato aveva riscosso nei dintorni i tributi pagando i quali i giovani potevano evitare di svolgere il servizio militare. Osammo chiedergli se poteva trasportare con la sua carovana il nostro carico, che rappresentava la soma di un solo yak, naturalmente dietro compenso. Acconsentì subito, e qualche ora dopo, a cuore leggero, uscimmo dal villaggio in coda alla carovana. Ma ci eravamo rallegrati troppo presto. Superate le ultime case, qualcuno ci chiamò, e quando ci girammo ci trovammo di fronte a un uomo distinto in un prezioso abito di seta. Il bònpo! Ci chiese cortesemente, ma con tono deciso, da dove venivamo e dove eravamo diretti. Solo la presenza di spirito avrebbe potuto salvarci. Servilmente gli dicemmo che stavamo facendo una breve passeggiata e non avevamo con noi i nostri documenti. Al ritorno gli avremmo sicuramente fatto visita. Il trucco funzionò, e proseguimmo in fretta. Più ci avvicinavamo a Lhasa, più andavamo incontro alla primavera: i campi erano ricoperti di verde, gli uccelli cinguettavano, le pellicce ci pesavano. Ed eravamo soltanto alla metà di gennaio. Lhasa distava soltanto tre giorni di marcia. Per tutto il giorno Aufschnaiter e io camminammo da soli, e solo di sera ci congiungemmo con il tenente e la sua piccola carovana. In questa regione ogni tipo di Heinrich Harrer
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animale veniva usato come mezzo di trasporto: asini, cavalli, mucche e muli. Gli yak si vedevano raramente, non avendo i contadini sufficienti pascoli. Dovunque la gente era affaccendata a irrigare i campi, perché altrimenti durante le tempeste primaverili il vento strapperebbe le preziose zolle di humus. Spesso occorrono generazioni prima che le continue irrigazioni rendano il suolo fertile. Qui non c'è abbastanza neve da proteggere i semi d'inverno, e i contadini non possono fare più di un raccolto. Anche a 5000 metri si possono trovare campi coltivati, ma non vi attecchisce che l'orzo, e i contadini sono mezzi nomadi. Viceversa ci sono regioni nelle quali l'orzo matura già in sessanta giorni. La valle di Tolung, che appunto stavamo attraversando, ha un'altitudine di 4000 metri, e vi crescono carote, patate e senape. L'ultima notte prima di giungere a Lhasa la passammo in una casa di contadini. Non somigliava affatto alle casette di legno, molto particolari, di Kyirong. Il legname qui è raro, e i muri sono fatti di cubi d'argilla o di erba e sono privi di finestre. All'interno non c'è mobilio, se si eccettuano piccoli tavolini e giacigli. La luce penetra o attraverso la porta o attraverso il comignolo nel soffitto della stanza. L'uomo che ci ospitava apparteneva a una delle più benestanti famiglie di contadini della regione. Secondo il sistema feudale essi amministrano la proprietà del loro padrone, e dipende da loro far sì che oltre alle consegne d'obbligo rimanga ancora qualcosa da cui trarre profitto. Due figli lo aiutavano, il terzo si preparava per entrare in un monastero. Avevano mucche, cavalli, alcune galline e maiali, i primi che vidi nel Tibet. Ma non si dava importanza al loro allevamento: non venivano nutriti e si alimentavano soltanto di rifiuti e di quello che trovavano nei campi. In questa casa di contadini la nostra notte fu inquieta. Il giorno seguente avrebbe deciso il nostro futuro. Consideravamo la situazione sotto tutti i punti di vista, e il tema di ogni nostra conversazione era Lhasa. Dei successi riportati fino a quel momento potevamo essere contenti. Ma ora? Denaro non ne avevamo più, quindi come avremmo potuto vivere? E il nostro aspetto! Assomigliavamo più a banditi del Changtang che a europei. I nostri abiti erano a brandelli. Su calzoni macchiati e una camicia stracciata portavamo l'unta pelliccia di pecora coperta di fango, che già da lontano rivelava i duri strapazzi ai quali era stata esposta. Ai piedi avevamo solo frammenti di scarpe indiane da soldato. No, l'aspetto non deponeva certo a nostro favore. E le nostre barbe! I tibetani, come tutti i Heinrich Harrer
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mongoli, non hanno quasi peli sul corpo. Noi invece portavamo una barba incolta, come un bosco selvaggiamente cresciuto. Perciò eravamo spesso considerati dei kazaki, una razza dell'Asia centrale, i cui appartenenti erano emigrati a frotte, durante la guerra, dall'Unione Sovietica nel Tibet. Avevano attraversato con famiglie e greggi, predando, il paese, e l'esercito tibetano aveva cercato di spingerli quanto più rapidamente possibile verso l'India. I kazaki sono spesso di pelle piuttosto bianca, hanno occhi chiari e una barba normale. Non c'era quindi da meravigliarsi se ci avevano creduti di tale razza, respingendoci molte volte quando chiedevamo asilo sotto le tende. Comunque non eravamo in grado di mutare lo stato delle cose. Non avevamo alcuna possibilità di farci belli per Lhasa. Anche se avessimo avuto denaro, non avremmo trovato vestiti, perché non ce n'erano. Ma avevamo superato tanti pericoli e ostacoli, che il nostro aspetto non ci spaventava. Da quando avevamo abbandonato Nangtse - così si chiamava l'ultimo villaggio incontrato - ce l'eravamo dovuta cavare da soli, perché il tenente aveva proseguito subito fino a Lhasa. Combinammo perciò con il nostro contadino il trasporto del bagaglio sino al villaggio successivo. Ci mise a disposizione una mucca e un servo, e dopo averlo pagato ci rimasero soltanto una rupia e una moneta d'oro cucita nel mio mantello. Se non ci fosse riuscito di far trasportare i nostri bagagli, ne avremmo fatto a meno. Tranne i nostri diari, i nostri schizzi e le nostre mappe, non contenevano niente di pregevole. Nulla ci avrebbe più trattenuto.
Risplendono al sole i tetti dorati del Potala Il 15 gennaio 1946 partimmo per l'ultima tappa. Dalla regione di Tolung sfociammo nella larga valle del Kyi Chu. Doppiammo un angolo e vedemmo brillare in lontananza i tetti dorati del Potala, la residenza invernale del Dalai Lama, il più famoso monumento di Lhasa. Questo momento ci compensò di tutto ciò che avevamo passato. Per l'emozione ci saremmo inginocchiati e come pellegrini avremmo toccato con la fronte la terra. Da Kyirong avevamo percorso quasi mille chilometri, avendo sempre davanti agli occhi la visione di questa città favolosa. La marcia era durata settanta giorni, con cinque soli giorni di sosta. Ne risultava una Heinrich Harrer
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media di circa quindici chilometri al giorno. Quarantacinque giorni del nostro viaggio erano stati spesi nell'attraversamento del Changtang, sostenendo fatiche improbe, lottando con la fame, il freddo e i pericoli. Che importanza aveva tutto ciò di fronte alla vista dei pinnacoli dorati? Paure e strapazzi erano ormai dimenticati: soltanto dieci chilometri ci separavano dal raggiungimento della nostra meta. Ci fermammo nei pressi di uno dei tumuli che i pellegrini innalzavano per segnalare il punto dal quale per la prima volta avevano scorto la città santa. Il nostro servo nel frattempo diceva le sue preghiere, perché Lhasa rappresenta per i tibetani ciò che Roma è per i fedeli cattolici. Raggiungemmo poi Shingdongka, l'ultimo villaggio prima di Lhasa. La nostra guida si rifiutò di andare oltre, ma ormai niente avrebbe più potuto scoraggiarci. Andammo subito a cercare il bònpo, e freddamente gli raccontammo di essere l'avanguardia di un grande e potente personaggio straniero in viaggio verso Lhasa e di dover raggiungere la città il più velocemente possibile per preparargli un alloggio. Il bònpo ci credette e ci mise subito a disposizione un asino e una guida. Ancora qualche anno dopo, nelle eleganti riunioni a Lhasa o nei ricevimenti ufficiali alla presenza di ministri, l'episodio suscitava l'ilarità generale. Il fatto è che i tibetani sono molto orgogliosi del sistema adottato per tenere lontani gli stranieri. Noi invece avevamo infranto la vigilanza con uno stratagemma non solo degno di considerazione, ma anche molto comico. E ciò era tutto a nostro vantaggio, visto che ai tibetani piace molto ridere. Durante gli ultimi dieci chilometri di strada ci mescolammo a una fiumana di pellegrini e di carovane. Nei punti importanti e propizi c'erano chioschi che esponevano dolciumi, panini bianchi e altre leccornie che ci fecero venire l'acquolina in bocca. Ma non avevamo denaro. L'ultima rupia l'avevamo data alla nostra guida. Man mano che ci avvicinavamo alla città, ne riconoscevamo le caratteristiche, ammirate tanto spesso sui libri, senza avere mai sognato di poterle un giorno vedere con i nostri occhi. Quello doveva essere il Chagpori, il monte sul quale si trova una delle due celebri scuole di medicina. E qui davanti a noi Dreprung, il più grande monastero del mondo, dove vivono circa diecimila monaci. Si tratta di una vera e propria città, con molte case di pietra e centinaia di guglie dorate sovrastanti gli oratori. Eravamo ancora a circa due chilometri dal monastero, e per un'ora continuammo ad ammirarlo. Un po' più in basso sono situate le terrazze Heinrich Harrer
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del monastero di Nechung, che da secoli custodisce il più grande mistero del Tibet, la reincarnazione di un nume tutelare buddhista, il cui oracolo misterioso guida le sorti dello stato ed è interrogato dal governo prima di ogni decisione importante. Ogni passo originava in noi nuove impressioni: ecco grandi praterie cinte da salici verdeggianti, il soggiorno prediletto dei cavalli del Dalai Lama. Poi incrociammo un lunghissimo muro di pietra, che per quasi un'ora accompagnò il nostro cammino. Apprendemmo che dietro a questo si eleva il palazzo d'estate del dio-re. Poco dopo scorgemmo la casa della rappresentanza diplomatica inglese, che si cela al margine della città dietro numerosi salici. La nostra guida voleva lasciarci, dando per scontato che fosse quella la nostra direzione, e soltanto con fatica riuscimmo a persuaderla a proseguire. Per un istante pensammo invero di rivolgerci agli inglesi: troppo grande era la nostra nostalgia della civiltà e ardente il nostro desiderio di parlare con europei. Ma il ricordo del campo di prigionia era ancora presente nelle nostre menti, e pensammo che, dopo tutto, eravamo nel Tibet, ed erano i tibetani quelli ai quali dovevamo chiedere ospitalità. Non potevamo credere che nessuno ci trattenesse o ci infastidisse. Solo di quando in quando si voltava per guardarci un cavaliere, riccamente vestito, in sella a un animale bello e ben nutrito, del tutto diverso dai piccoli cavalli del Tibet occidentale. Più tardi ci fu svelato l'enigma: nessuno avrebbe nutrito sospetti anche se fossimo stati riconosciuti come europei, perché mai nessuno era riuscito a raggiungere Lhasa senza un passaporto. Sempre più poderoso si ergeva il Potala davanti a noi. Non vedevamo ancora nulla della città. Giaceva nascosta dietro le colline che sorreggevano il palazzo e la scuola di medicina. Poi vedemmo una porta monumentale sormontata da tre chòrten, che congiunge le due colline e allo stesso tempo dà accesso alla città. I nostri nervi erano tesi, sembravano spezzarsi. Quasi ogni libro che parlava di Lhasa riferiva che qui si trovavano le sentinelle a guardia della città santa. Il cuore ci batteva forte mentre ci avvicinavamo. Ma non successe nulla. Alcuni mendicanti stesero la mano. Nessun soldato, nessun controllo. Ci mescolammo a un gruppo di passanti e lungo una larga via attraversammo senza incidenti il portale. La guida ci spiegò che il gruppo di case alla nostra sinistra costituiva soltanto uno dei sobborghi. Percorremmo di nuovo un tratto Heinrich Harrer
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attraverso prati incolti, sempre più verso il centro. Nessuno di noi due apriva bocca. Guardavamo e guardavamo ma non potevamo persuaderci di essere nel bel mezzo della città proibita. Ancora oggi non riesco a trovare le parole giuste per esprimere l'emozione di allora. Eravamo sopraffatti. I nostri sensi, atrofizzati dai lunghi strapazzi, non erano più capaci di elaborare le impressioni che da ogni parte ci investivano.
Due vagabondi chiedono vitto e alloggio Fummo presto davanti al ponte dal tetto turchino, da dove per la prima volta vedemmo le guglie dorate della cattedrale di Lhasa. Lento calava il sole, immergendo la scena in una luce irreale. Tremanti di freddo ci mettemmo a cercare un alloggio. Ma a Lhasa non è così semplice entrare in una casa, come nel Changtang in una tenda. Probabilmente saremmo stati subito denunciati. Ma bisognava tentare comunque! Nella prima casa trovammo un servo che neppure ci ascoltò. Provammo allora nella seconda: non c'era che una serva, le cui grida fecero accorrere la sua padrona, che con le mani alzate ci supplicò di proseguire. Se ci avesse dato ospitalità, sarebbe stata frustata. Non ci poteva entrare in testa che le disposizioni del governo fossero così severe, ma non volevamo procurare noie a quella donna, e ce ne andammo. Errando di strada in strada ci trovammo quasi all'altra estremità della città, dove giungemmo nei pressi di una casa più elegante e spaziosa di tutte le altre, con stalle per cavalli nel cortile. Preso lo slancio, entrammo. Subito ci trovammo di fronte a dei servi, che volevano scacciarci con grida e improperi. Ma non ci lasciammo intimidire, e come nulla fosse scaricammo il nostro asino. La guida, che si era ormai accorta che c'era qualcosa che non andava, aveva fretta di andarsene. Lo pagammo e l'uomo se ne andò, facendo un sospiro di sollievo. I domestici erano disperati vedendo che volevamo fermarci. Gridavano e pregavano, supplicavano e imploravano di risparmiare loro la severa punizione che gli avrebbe inflitto il padrone al suo ritorno. Ci era tutt'altro che simpatico dover conquistare con la forza l'ospitalità, ma non ci muovemmo. La folla accorse attirata dalle grida, e la scena mi ricordò la mia partenza da Kyirong. Le nostre orecchie erano però sorde. Stanchi morti e affamati ci sedemmo accanto ai nostri miserabili fagotti, in terra. Heinrich Harrer
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Ci era perfettamente indifferente ciò che sarebbe accaduto. Volevamo solo sederci, riposare, dormire. Le grida e le imprecazioni cessarono quando la folla vide i nostri piedi gonfi, coperti di vesciche. Persone semplici e di buon cuore come tutti i tibetani, provarono pietà per noi. Una donna prese l'iniziativa e portò una brocca di tè al burro. Era la stessa che poco prima ci aveva supplicati di lasciare la sua casa. A quel punto tutti ci portarono qualcosa: tsampa, provviste, perfino combustibile. La gente voleva farsi perdonare la sua inospitalità. Come lupi ci buttammo sui cibi, e in quel momento dimenticammo tutto. D'un tratto ci sentimmo apostrofati in inglese. Alzammo gli occhi e, benché ormai buio, riconoscemmo nel tibetano riccamente abbigliato che ci aveva parlato un membro delle classi più nobili. Stupiti e felici gli domandammo se non fosse, per caso, uno dei quattro aristocratici che avevano fatto i loro studi a Rugby. Rispose negativamente, ma soggiunse di aver vissuto molti anni in India. Gli raccontammo in breve le nostre vicende, dichiarandogli di essere tedeschi in cerca di ospitalità. Dopo aver riflettuto qualche istante, ci disse di non avere la facoltà di accoglierci in casa senza l'autorizzazione del magistrato municipale, dal quale però si sarebbe recato immediatamente per chiedere il permesso. La folla che ci attorniava e che si era trattenuta bisbigliando rispettosamente gli fece largo. Dopo la sua partenza apprendemmo che era un importante bònpo a capo dell'amministrazione per gli impianti elettrici. Non osavamo dare troppo credito a ciò che ci aveva detto, ciò nonostante cominciammo a prepararci per la notte. Mentre stavamo ancora riscaldandoci al fuoco e conversando con i curiosi che andavano e venivano, si avvicinarono dei servitori, che ci pregarono di seguirli, perché il signor Thangme, il «grande capo dell'elettricità», ci invitava a casa sua. Lo chiamavano rispettosamente ku-ngò, che vuol dire «altezza», e ne prendemmo subito nota. Thangme e la sua giovane moglie ci accolsero con molta cortesia. Cinque bambini, con le bocche spalancate, ci guardavano meravigliati. Il ku-ngò aveva buone notizie per noi: il magistrato gli aveva permesso di alloggiarci per una notte. In seguito tutto sarebbe naturalmente dipeso dalla decisione del Consiglio dei ministri. Di questo però per il momento non ci curammo. Dopo tutto eravamo a Lhasa, e una nobile famiglia ci aveva concesso la sua ospitalità! La nostra stanza era già stata preparata, Heinrich Harrer
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ed era molto comoda e pulita. Una piccola stufa elargiva beneficamente il suo calore. Da sette anni non vedevamo una stufa! Nell'aria c'era inoltre un buon profumo di legno di ginepro, un grande lusso, perché tale combustibile veniva portato a Lhasa a dorso di mulo per molte settimane. Facemmo non poca fatica, con i nostri vestiti stracciati, a sederci su quel pulitissimo letto coperto di tappeti. Ci venne servita una ricca cena cinese, alla quale, benché intimiditi, facemmo molto onore. Tutti ci stavano intorno e ci facevano un sacco di domande. Non potevano credere che d'inverno avessimo attraversato il Changtang e la catena del Nyenchen Thangla per giungere fin qui. Anche la nostra conoscenza della lingua tibetana suscitava grande stupore. Ma come ci sentivamo miserabili in questo ambiente civilizzato. Tutte le nostre cose, indispensabili nel corso del viaggio, persero immediatamente la loro importanza, e fummo contenti di potercene liberare. Stanchi morti e frastornati ci mettemmo finalmente a dormire. Ma non riuscivamo a prendere sonno. Per troppe notti avevamo dormito sulla dura terra protetti, per ripararci un po' dal freddo intenso, soltanto dalla nostra pelliccia e da una coperta sbrindellata. Ora avevamo letti soffici e camere calde e accoglienti, ma i nostri corpi non erano in grado di abituarsi così repentinamente al cambiamento, e i pensieri ruotavano come mulini a vento nelle nostre teste. Tutto ciò che avevamo passato ci tornò in mente: il campo di prigionia e le avventure e la durezza dei ventuno mesi della nostra fuga. E pensavamo ai nostri compagni e all'ininterrotta monotonia delle loro vite, perché nonostante la guerra fosse finita da un pezzo i prigionieri non erano ancora stati liberati. Ma, a questo proposito, noi potevamo davvero considerarci liberi? Prima ancora del nostro risveglio, vedemmo accanto al nostro letto un domestico con tè dolce e pasticcini. Poi ci portarono acqua calda per lavarci, e sottoponemmo le nostre barbe alla lama del rasoio. Il nostro aspetto era migliorato, ma i nostri lunghi capelli non contribuivano certo a renderci rispettabili. Venne chiamato un musulmano che godeva fama di essere il miglior parrucchiere. Il risultato fu piuttosto esotico, ma destò viva ammirazione. La questione della pettinatura non preoccupa i tibetani: o hanno la testa rapata, o portano i capelli acconciati in trecce. Thangme si fece vedere soltanto verso mezzogiorno. Era stato al ministero degli Esteri e ci portava buone notizie. Non saremmo stati estradati agli inglesi. Per il momento potevamo rimanere a Lhasa. Ci si Heinrich Harrer
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chiedeva soltanto di non abbandonare la casa che ci ospitava fino al ritorno del reggente, che si era recato per la meditazione a Taglung Tra. Thangme ci fece comprendere che si trattava di una misura precauzionale al fine di proteggerci da monaci fanatici. Il governo avrebbe provveduto a fornirci vitto e indumenti. Eravamo più che contenti. Da mesi eravamo in cammino, e la prospettiva di alcuni giorni di riposo ci sorrideva. Con entusiasmo ci precipitammo sopra un cumulo di giornali vecchi. Meno entusiasti fummo delle notizie apprese. Tutto il mondo era in ebollizione, e la nostra patria attraversava tempi assai duri. Le illustrazioni mostravano prigionieri di guerra tedeschi adibiti a lavori forzati in Inghilterra e in Francia. Lo stesso giorno ricevemmo la visita di un ufficiale mandato dal magistrato cittadino. Lo accompagnavano sei agenti di polizia, piuttosto sporchi e poco fidati. Con grande cortesia ci chiese di esaminare i nostri bagagli. Restammo stupiti dell'esatto lavoro delle autorità, perché quell'incaricato era già in possesso di una precisa relazione da Kyirong e stava confrontando i dati del nostro itinerario. Osammo domandare se davvero sarebbero stati puniti tutti i funzionari i cui distretti avevamo attraversato. Ci rispose che il caso sarebbe stato portato davanti al Consiglio dei ministri, e che sicuramente i bònpo avrebbero ricevuto un castigo. Ne fummo molto dispiaciuti, e per metterlo di buonumore gli narrammo in quale modo eravamo riusciti a evitare gli incontri e quante volte avevamo ingannato con qualche trucco le autorità. Poi toccò a noi ridere di cuore, quando ci raccontò che la sera precedente, al nostro arrivo, aveva creduto a un'invasione di Lhasa da parte dei tedeschi. Tutte le persone alle quali avevamo rivolto la parola, chiedendo asilo, si erano precipitate dal magistrato. Era opinione generale che le truppe tedesche stessero per entrare in città...
Il tema delle conversazioni a Lhasa In ogni caso eravamo al centro della cronaca di Lhasa. Tutti volevano vederci, volevano sentire con le proprie orecchie le nostre avventure, e poiché ci era vietato uscire incominciarono le visite. La moglie di Thangme aveva il suo bel da fare, e fu costretta a prendere il suo migliore servizio da tè. Così fummo iniziati al cerimoniale di simili ricevimenti. Il Heinrich Harrer
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valore e la bellezza del servizio da tè sono un omaggio al rango dell'ospite. Il servizio consiste di tazze di porcellana poste su un piattino di metallo, spesso d'oro o d'argento, e munite di un coperchio dello stesso materiale del piattino. In casa di Thangme c'erano ogni giorno ospiti assai ragguardevoli. Egli stesso era un nobile del quinto grado, e poiché qui si bada molto all'etichetta, non aveva ricevuto fino a quel momento che visite di rango uguale o inferiore. Ora però erano i gradi più alti i primi a volerci vedere. Venne prima di tutti, con sua moglie, il figlio del noto e celebre ministro Tsarong. Avevamo già letto molto riguardo a suo padre. Questi, in origine di umili condizioni, era diventato il favorito del tredicesimo Dalai Lama, aveva ottenuto alte cariche e per la sua abilità e intelligenza aveva acquisito un grande patrimonio. Quando il Dalai Lama, quarant'anni fa, dovette fuggire in India per salvarsi dai cinesi, Tsarong gli aveva reso grandi servigi. Era poi stato ministro per molti anni, e in qualità di primo favorito aveva praticamente detenuto il potere di un reggente. Più tardi un nuovo favorito, Khùnpela, aveva preso il suo posto, ma egli aveva conservato grado e onori. Adesso apparteneva alla nobiltà del terzo grado e dirigeva la zecca. Suo figlio aveva ventisei anni, era stato educato in India e parlava correntemente l'inglese. Conscio della sua nobiltà portava nei capelli l'amuleto d'oro, al quale aveva diritto quale figlio di un ministro. Ma non sempre i gradi di nobiltà sono collegati alla nascita: possono essere acquisiti anche per meriti. Mentre i domestici servivano il tè, la conversazione ferveva. Era incredibile quanto fosse varia la sua cultura. Particolarmente lo interessava tutto ciò che riguardava la tecnica. Ci chiese informazioni sulle più recenti conquiste e ci raccontò di essersi costruito da solo una radio e di avere piantato sul tetto un generatore, messo in moto dal vento. Eravamo infervorati in una questione tecnica inglese, quando sua moglie ci interruppe ridendo, per fare a sua volta delle domande. Yangchenla era una delle bellezze di Lhasa, vestita con molto gusto e assai curata. Non le erano sconosciuti rossetto, cipria e matita per le labbra. Non era affatto timida: lo dimostrava il modo vivace con il quale incominciò a interrogarci in tibetano. Con rapidi gesti ed esclamazioni di stupore continuamente ci interrompeva, ridendo di tutto cuore quando le raccontammo in quale maniera avevamo turlupinato i bònpo con la nostra vecchia lettera senza Heinrich Harrer
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valore. Ammirò molto il nostro parlare tibetano, ma già in lei osservammo un divertito compatimento, mostrato del resto anche dai più ragguardevoli personaggi. Più tardi alcuni amici ce ne spiegarono la ragione: parlavamo il peggiore dialetto dei nomadi e dei contadini che si potesse immaginare. Si divertivano un mondo a sentirci parlare, ma tutti erano troppo cortesi per correggerci. Prima che la giovane coppia se ne andasse, era fiorita una buona amicizia. Molto graditi ci furono i doni che avevano portato con sé: biancheria, pullover e sigarette. Ci invitarono anche a dir loro di che cosa avessimo bisogno. Il figlio del ministro promise di interporre per noi i suoi buoni uffici e ci fece pervenire più tardi un messaggio di suo padre, nel quale era espresso l'invito di andare ad abitare da lui non appena fosse stata presa una decisione favorevole riguardo alla nostra posizione. Tutto ciò suonava molto consolante. Le visite si succedevano. Poco dopo venne il fratello del ministro Surkhang, un generale dell'esercito tibetano che era disperatamente ansioso di imparare tutto il possibile su Rommel. Ci parlò con entusiasmo del generale tedesco e ci disse che le sue scarse nozioni dell'inglese gli erano bastate per leggere tutte le notizie che lo riguardavano sui giornali. A questo proposito Lhasa non è affatto isolata. Attraverso l'India giungono tutti i giornali del mondo, e ci sono anzi alcune personalità cittadine abbonate a «Life». I quotidiani indiani arrivano regolarmente, anche se con una settimana di ritardo. Vennero monaci-funzionari che ci portarono regali. Alcuni di loro diventarono poi i miei migliori amici. Ricevemmo anche la visita di un membro della rappresentanza diplomatica cinese e di un funzionario della legazione britannica del Sikkim. Un particolare onore costituì la visita di Kùnsangtse, comandante in capo dell'esercito tibetano, che voleva vederci assolutamente una volta, prima della sua partenza per la Cina e l'India alla testa di una delegazione. Egli era il fratello minore del ministro degli Esteri, un uomo straordinariamente intelligente e informato. Anch'egli ci assicurò che la nostra richiesta di soggiorno avrebbe certamente avuto esito positivo. A poco a poco cominciammo a familiarizzare con il nuovo ambiente. L'amicizia con Thangme e sua moglie divenne sempre più cordiale e affettuosa. Eravamo custoditi e nutriti, e ognuno si rallegrava del nostro appetito. Ma evidentemente quale reazione ai duri strapazzi e alle continue Heinrich Harrer
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rinunce la nostra salute lasciava molto a desiderare. Aufschnaiter fu colpito da un attacco di febbre, e la mia sciatica mi diede un bel po' di problemi. Thangme chiamò subito il medico della legazione cinese, che aveva studiato a Berlino e a Bordeaux. Ci visitò secondo il metodo europeo e ci prescrisse alcune medicine. Il discorso cadde naturalmente anche sulla politica, ed egli profetizzò che nei prossimi vent'anni tutto il potere del mondo sarebbe rimasto concentrato nelle mani degli Stati Uniti, dell'Unione Sovietica e della Cina.
I poveri fuggitivi vengono viziati È probabile che nessun altro paese al mondo si sarebbe curato di due poveri fuggiaschi con tanto interesse come il Tibet. Il pacco degli indumenti, dono del governo, era arrivato con le scuse per il ritardo, dovuto al fatto che, a causa della nostra altezza maggiore della media dei tibetani, non avevano potuto trovare nulla di pronto nei magazzini. Vestiti e scarpe furono quindi fatti su misura. Contenti come bambini ci levammo di dosso i nostri stracci per sostituirli con roba nuova. Il taglio non era proprio quello di un'alta sartoria, ma facevamo comunque la nostra figura. Il tempo libero dalle numerose visite lo dedicavamo all'aggiornamento dei nostri diari e dei nostri appunti. Ben presto facemmo amicizia anche con i figli di Thangme. Di mattina, quando ci alzavamo, erano quasi sempre già andati via, perché frequentavano scuole private, dove si trattenevano tutto il giorno sotto la sorveglianza dei maestri. Di sera ci mostravano i loro compiti, e ciò mi interessava molto, perché volevo imparare la scrittura tibetana. Aufschnaiter se ne stava occupando già da tempo, e me ne aveva insegnato i primi rudimenti durante la nostra peregrinazione. Mi ci vollero però anni prima di scrivere e leggere correttamente il tibetano. La difficoltà non consiste nell'imparare le singole lettere, ma è costituita dal combinarle per formarne le sillabe. Molti segni sono derivati da una delle millenarie scritture indiane, e la lingua tibetana assomiglia più all'hindi che non al cinese. Ci si serve dell'inchiostro di Cina per scrivere sopra una carta molto consistente, somigliante alla pergamena. A Lhasa viene prodotta con carta vecchia una qualità inferiore, ma nel Tibet ci sono anche cartiere celebri, specialmente nelle regioni in cui cresce il ginepro. Ne vengono inoltre importati a dorso di yak ogni Heinrich Harrer
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anno migliaia di carichi dal Nepal e dal Bhutan, dove viene fabbricata nello stesso modo. Ho spesso assistito alla sua fabbricazione presso le rive del Kyi Chu. Si stende uno strato di pasta liquida sopra delle tele, tese entro cornici di legno. Nell'aria asciutta dell'altopiano la pasta si solidifica in poche ore, e la carta pronta viene staccata dal supporto. La superficie non è naturalmente molto liscia, e anche gli adulti incontrano spesso non poca difficoltà a scrivere su tale carta. Ai bambini si preferisce perciò dare tavolette di legno per i loro esercizi. Scrivono con inchiostro più liquido e penne di bambù: la scrittura può poi venir cancellata con una pezzuola umida. I figli di Thangme spesso dovevano rifare i loro esercizi circa venti volte prima che risultassero esatti. Dopo poco tempo fummo considerati membri della famiglia. La moglie di Thangme veniva spesso da noi per raccontarci le sue piccole e grandi preoccupazioni. Si conversava del più e del meno, ed era molto soddisfatta quando le facevamo complimenti per il suo bell'aspetto. Come a tutte le donne, anche a lei piaceva vestirsi elegantemente e truccarsi. Era molto orgogliosa dei suoi gioielli. E che gioielli! Un giorno, come segno di grande fiducia, ci fece entrare nella sua stanza per mostrarceli. Conservava i suoi preziosi in una cesta, messi in bell'ordine in cassettine o avvolti in fazzoletti di seta: magnifici diademi di coralli, turchesi e perle, anelli, orecchini di brillanti e piccoli amuleti tibetani che si portano appesi a una collana di coralli. Molte donne li portano tutto il giorno, perché contengono un talismano che credono le protegga dalle disgrazie. La nostra padrona di casa si rallegrò molto per la nostra ammirazione. Ci raccontò che ogni marito ha l'obbligo di comprare per la moglie gioielli in rispondenza del suo rango. Se suo marito fosse salito di grado, lei avrebbe dovuto ricevere subito altri preziosi più ricchi ancora. Una magnifica istituzione che piacerebbe a non poche donne europee! Ma non basta avere denaro. Il solo denaro non dà il diritto di portare gioielli di pregio. Non ha importanza tanto il valore intrinseco delle pietre, quanto l'esecuzione del lavoro. Vedemmo più tardi pezzi che valevano certamente una cinquantina di milioni. Il valore approssimativo delle gioie della moglie di Thangme poteva aggirarsi intorno ai dieci milioni. Yangchenla, la moglie del figlio di Tsarong, ci disse che non usciva mai di casa senza essere accompagnata da un domestico, perché spesso accadeva che i ladri si avvicinassero a una signora distinta e la depredassero. Heinrich Harrer
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Ospiti nella casa paterna del Dalai Lama Erano passati nel frattempo otto giorni. In conformità al divieto di uscire di casa non ci eravamo mossi, quindi non avevamo visto nulla della città. Fu per noi una grande sorpresa quando, un giorno, si presentarono dei servi per consegnarci un invito dei genitori del Dalai Lama. Dovevamo seguirli subito. Poiché ci sentivamo legati dalla nostra promessa di non abbandonare la casa, chiedemmo consiglio al nostro anfitrione. Thangme si mostrò spaventato dalle nostre esitazioni. Nulla esisteva di superiore a un tale invito. Soltanto una chiamata del Dalai Lama o del reggente si sarebbe potuta considerare più importante. Nessuno avrebbe osato trattenerci o farci più tardi delle rimostranze. Al contrario, sarebbe stata una grande offesa il nostro minimo ritardo. Su questo punto eravamo quindi tranquilli. Ma poi ci prese una forte ansia. Era questo un buon auspicio per il nostro futuro? Emozionati ci preparammo per la visita. I vestiti nuovi, regalatici dal governo, e le scarpe tibetane videro per la prima volta l'esterno. Eravamo presentabili. Thangme ci diede in fretta alcune bianche sciarpe di seta, insegnandoci come le dovevamo offrire durante il primo saluto. Avevamo osservato questa usanza già a Kyirong, e l'avevamo poi vista ripetutamente anche tra il popolo minuto: ogni visita, ogni preghiera a una persona di rango più elevato viene accompagnata dall'offerta di sciarpe bianche. Sono di varia fattura, e la loro qualità dipende dal rango dell'offerente. Dal giorno del nostro emozionante ingresso in città era questa la prima volta che ci trovavamo di nuovo in strada. La casa dei genitori del Dalai Lama non era molto lontana. Vi dava accesso un portone gigantesco, dove eravamo attesi dai guardiani, che si inchinarono rispettosamente al nostro passaggio. Attraversato un grande giardino con aiuole di ortaggi e adorno di bei gruppi di salici, entrammo nel palazzo. Fummo accompagnati al secondo piano. Si aprì una porta, e dopo rispettosi inchini ci trovammo davanti alla madre del dio-re. Nella grande e chiara sala era assisa su un piccolo trono, circondato da servi: un'imponente figura di donna, piena di nobiltà e dignità. Non potevamo provare la devota venerazione che ogni tibetano sente al cospetto della «Grande Madre», ma fummo comunque impressionati dalla solennità del momento. Heinrich Harrer
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La Grande Madre ci accolse con un sorriso cordiale, e fu visibilmente compiaciuta quando, con un rispettoso inchino, le presentammo le sciarpe sulle braccia tese, come ci aveva insegnato a fare Thangme. Le accettò e le porse subito ai suoi servi. Poi, con un'espressione radiosa, ci diede la mano, contrariamente all'uso tibetano. In quel momento entrò il padre del Dalai Lama, un signore piuttosto anziano, di bell'aspetto. Di nuovo inchini, di nuovo offerta cerimoniosa delle sciarpe. Ma anch'egli si comportò affabilmente e ci strinse la mano. Di tanto in tanto in quella casa si ricevevano visite di europei, e i genitori del dio-re conoscevano perciò le usanze europee e ne andavano anche un po' orgogliosi. Poi tutti si sedettero e venne servito il tè, prima al padre, poi alla madre e da ultimo a noi. L'aroma del tè ci sorprese. Era di qualità e preparazione differenti dal solito tè tibetano. Curiosi ne domandammo la ragione, e così facendo rompemmo il ghiaccio. Entrambi ci raccontarono della loro patria: Amdo. Vivevano là da semplici contadini, prima che il loro figlio minore fosse riconosciuto quale incarnazione del Dalai Lama. Amdo si trova già in Cina, nella provincia di Qinghai, ma i suoi abitanti sono quasi tutti tibetani. Hanno portato con sé a Lhasa la bevanda della loro patria. Il tè di Amdo non viene preparato con il burro, bensì con latte e un po' di sale. Anche il dialetto delle due simpatiche persone ricordava la loro patria: tutt'e due parlavano male il tibetano delle province centrali. Fungeva da interprete il fratello quattordicenne del Dalai Lama, perché essendo venuto a Lhasa già in tenera età aveva imparato rapidamente a parlare il tibetano puro. Solo con i genitori usava il dialetto di Amdo. Durante la conversazione osservammo i nostri ospiti. Entrambi facevano un'ottima impressione. La loro origine modesta si rivelava con simpatica naturalezza, ma i loro gesti e il loro comportamento mostravano una nobiltà innata. Era un grosso salto quello dalla loro piccola casa di contadini in una lontana provincia al palazzo che ora abitavano e ai vasti poderi che erano adesso di loro proprietà. Ma sembravano aver superato senza danni l'improvviso mutamento delle loro condizioni di vita. La Grande Madre era di una nobile semplicità, e sembrava essere molto più intelligente del padre, al quale forse la nuova gloria aveva dato un po' alla testa. E poi c'era il figlio quattordicenne, Lobsang Samten. Vivace, sveglio e pieno di curiosità, ci investì con le sue numerose domande e volle apprendere ogni particolare delle nostre vicende. Il suo «divino» fratello, Heinrich Harrer
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ci disse, lo aveva incaricato di fargliene un'esatta relazione. Fummo molto soddisfatti di sapere che il Dalai Lama si fosse interessato a noi, e avremmo voluto saperne di più. Apprendemmo che il nome «Dalai Lama» non veniva usato dai tibetani. Deriva dal mongolo, e tradotto significa «Oceano di saggezza». Di solito egli è chiamato «Gyalpo Rinpoche», che significa «Onorevole re». I genitori e i fratelli si servono di una forma più intima, quando parlano del giovane dio-re: «Kundùn», vale a dire «Presenza». I Grandi Genitori hanno in tutto sei figli. Il più grande, molto prima della scoperta del Dalai Lama, era stato anch'egli riconosciuto come incarnazione di un Buddha e ricopriva la dignità di lama nel monastero di Tagtsel. Anche a lui ci si rivolgeva con l'appellativo di «Rinpoche», comune a tutti i lama incarnati. Il secondo figlio, Gyalo Tòndrup, frequentava una scuola in Cina. Il quattordicenne Lobsang Samten era destinato alla carriera del monaco-funzionario. Il Dalai Lama, allora di undici anni, aveva anche due sorelle. Più tardi la Grande Madre ha dato alla luce un'altra incarnazione, Ngari Rinpoche. Quale madre di tre incarnazioni era, nella vita buddhista, un'assoluta eccezione. Tale visita fu l'inizio di una cordiale relazione con questa donna semplice e intelligente, e durò finché la fuga davanti ai comunisti cinesi non mandò tutto in frantumi. La nostra amicizia non aveva nulla a che fare con la venerazione sovrannaturale che circondava la Grande Madre. Ma anche se ero un po' scettico rispetto alle cose metafisiche, non mi potei tuttavia sottrarre al potere della personalità e della fede che essa irradiava. Solo a poco a poco ci fu chiaro quale grande distinzione rappresentasse questo invito. Non va dimenticato che in tutto il Tibet nessuno, tranne la sua famiglia, ha il diritto di rivolgere la parola al giovane dio-re, a prescindere da alcuni camerlenghi personali che hanno il grado di abati. Eppure, nel suo isolamento, estraniato dal mondo, il giovane Dalai Lama si era interessato personalmente della nostra sorte. Prima che ci allontanassimo ci venne chiesto quali fossero i nostri desideri. Ringraziammo dicendo che non ne avevamo, perché non volevamo apparire immodesti. Ma a un cenno venne una serie di servitori con sacchi di farina e tsampa, un carico di burro e magnifiche coperte di lana. «Per desiderio personale di Kundùn» disse sorridendo la Grande Madre, mettendo in mano a ognuno di noi un biglietto da cento sang con tanto garbo che non ci sentimmo affatto umiliati. Heinrich Harrer
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Dopo molti ringraziamenti e profondi inchini uscimmo dalla stanza. Quale segno di particolare amicizia Lobsang Samten, in rappresentanza dei suoi genitori, ci rimise intorno al collo, quando ci inchinammo, le sciarpe bianche. Poi egli stesso ci accompagnò in giardino per mostrarci le serre e le scuderie con i superbi cavalli di Siling e di Ili, particolare orgoglio di suo padre. Mentre stavamo conversando, mi pregò di iniziarlo al sapere occidentale. Ciò corrispondeva ai miei più segreti desideri, perché spesso avevo considerato la possibilità di guadagnarmi la vita istruendo i figli dei nobili. Carichi di regali e accompagnati da servi ritornammo alla casa di Thangme. Eravamo nelle migliori condizioni di spirito, perché speravamo che davvero tutto si sarebbe risolto in nostro favore. Eravamo ansiosamente attesi. Dovemmo raccontargli tutto ciò che era successo, e ci accorgemmo che i più intimi erano già informati fino nei minimi dettagli del grande onore toccatoci. Eravamo saliti di molto nella considerazione generale! Consegnammo le provviste che ci erano state donate alla nostra graziosa padrona di casa, quale piccolo contraccambio per il trambusto e le spese dei numerosi ricevimenti che le avevamo causato con la nostra presenza. Rifiutò energicamente, affermando che doveva a noi l'onore di aver ricevuto persone così altolocate in casa sua. E quando il giorno dopo si presentarono i fratelli del Dalai Lama, si nascose per la grande emozione e riapparve soltanto allorché tutta la casa fu piena di visite e il giovane lama, benedicendo, imponeva a tutti la sua mano. Il venticinquenne Rinpoche aveva lasciato il suo monastero per vederci. Facemmo così la conoscenza con il nostro primo alto lama incarnato. Si è soliti designare tutti i monaci del Tibet come «lama». In verità portano questo titolo solo le incarnazioni e pochi altri monaci che si sono distinti per il loro modo di vivere ascetico o per miracoli compiuti. Tutti i lama hanno il privilegio di impartire la benedizione e vengono venerati come santi.
Il ministero degli Esteri del Tibet ci concede libertà di movimento Dieci giorni dopo il nostro arrivo giunse dal ministero degli Esteri la risposta che potevamo muoverci liberamente. In pari tempo ci venne fatto Heinrich Harrer
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dono di due magnifici cappotti di pelle di montone, lunghi fino a terra. Per ognuno di questi erano state usate sessanta pelli. Eravamo molto felici del nostro successo. Purtroppo soffrivo ancora di forti dolori sciatici. Lo stesso giorno andammo a passeggio, senza dare affatto nell'occhio, in virtù dei nostri indumenti tibetani. Quante cose da vedere! La città interna è tutta un immenso emporio di merci. Le botteghe sono disposte senza interruzione una accanto all'altra, e chi non possiede un negozio espone le merci sopra un banco in strada. Vetrine nel nostro senso del termine non ci sono. Ogni apertura nel muro è già un nuovo ingresso in un altro negozio, magari di proporzioni assai minuscole. Si incontrano qui, accanto a magazzini dove si può comprare di tutto, dall'ago per cucire alla scarpa di gomma, eleganti negozi di stoffe e sete, rivendite speciali di generi alimentari: oltre ai prodotti indigeni, corned beef americano, burro australiano e whisky inglese. Non c'è nulla che non si possa acquistare o ordinare: prodotti di Elizabeth Arden, creme di bellezza, matite per le labbra, ciprie, rossetti; merci americane avanzate dall'ultima guerra sono esposte fra cosce di yak e forme di burro. Macchine per cucire, apparecchi radio e grammofoni si possono ordinare, e si può scegliere per il futuro ricevimento il più recente disco di Bing Crosby. E dovunque contrattazioni, risa e grida della folla variopinta. Mercanteggiare è un piacere, e si cerca di prolungare quanto più è possibile tale divertimento. Qui si può vedere un nomade che scambia una coda di yak con tabacco da naso, e accanto a lui una nobile signora, accompagnata da una schiera di servi, che sceglie per ore, rovistando fra monti di broccati e sete. Le donne nomadi non sono meno esigenti, quando scelgono stoffe di cotone indiano per nuove banderuole sacre. Le vesti del popolo sono solitamente confezionate di nambu, un'indistruttibile stoffa di cotone, tessuta da artigiani in casa, di circa venti centimetri di altezza. Se ne fanno delle grosse balle, esposte davanti ai negozi, di colore bianco candido o azzurro-viola, perché per la tintura si usa in genere indaco con rabarbaro. Il nambu bianco è portato quasi esclusivamente dagli asinai, dato che l'assenza di qualsiasi tinta è un segno di povertà. Poiché non si conosce l'uso del metro, si misura la stoffa a braccia. Grazie alle mie lunghe estremità mi riuscì sempre di fare acquisti molto vantaggiosi. Benché i cappelli di fabbricazione locale siano molto più pittoreschi dei feltri di origine europea, i tibetani preferiscono questi ultimi a causa della Heinrich Harrer
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loro ampia tesa: proteggono meglio dai raggi solari. La tintarella qui non è in voga. Il governo, mediante certe prescrizioni, cerca di opporsi al dilagare delle mode straniere. Non per interferire con la libertà personale del singolo, bensì a salvaguardia del vecchio costume nazionale, veramente bello. Le donne portano di rado il cappello: hanno conservato l'uso di acconciarsi le chiome con il loro diadema triangolare, talvolta molto prezioso. I funzionari e la loro servitù osservano le prescrizioni ufficiali. La fantasia ha ancora sufficiente margine, e con la combinazione delle stoffe e dei colori ognuno può conferire al proprio abbigliamento una nota personale. Accanto ai cappelli europei il tibetano predilige anche gli ombrelli. Se ne trovano di tutte le qualità, dimensioni e tinte, e servono perlopiù a ripararsi dal sole. I maggiori acquirenti sono i monaci con le loro teste rasate, perché, tranne che nelle grandi cerimonie, non portano alcun copricapo. Sbalorditi e confusi per le molte impressioni di un traffico non più visto da anni, ritornammo a casa. Eravamo attesi dal segretario della rappresentanza diplomatica inglese. Era un caro amico di Thangme, e non veniva da noi in veste ufficiale. Ci disse che, avendo già sentito parlare molto di noi, gli interessava apprendere di persona soprattutto notizie circa il nostro itinerario e le nostre peripezie. In qualità di incaricato del suo governo era stato una volta a Gartok, e conosceva quindi abbastanza bene la regione da noi attraversata. Questa nuova conoscenza risultò per noi assai preziosa. Avremmo voluto mandare, dopo tanto tempo, notizie alle nostre famiglie, che ormai non potevano che considerarci dispersi. Soltanto la legazione inglese aveva contatti con il mondo. Il Tibet non faceva parte della federazione postale internazionale, e la sua amministrazione postale era piuttosto complicata. Il segretario ci incoraggiò a presentare direttamente la nostra richiesta, e subito il giorno dopo ci recammo alla sede della legazione. L'avevamo già vista al nostro ingresso a Lhasa: era situata fuori della città in mezzo a una specie di parco. Servitori in livrea rossa ci condussero dapprima in giardino. Vi faceva la sua passeggiata mattutina il radio-operatore Reginald Fox. Dimorava già da molti anni a Lhasa, era sposato con una tibetana e aveva quattro incantevoli bambini dai capelli biondi e dai grandi e scuri occhi a mandorla. I due maggiori vivevano come alunni interni in un istituto in India. Heinrich Harrer
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Fox era l'unico uomo a Lhasa che possedesse un generatore di sicura efficienza, e accanto alla sua attività per la rappresentanza britannica si occupava di caricare tutti gli accumulatori delle radio di Lhasa. Attraverso il radiotelefono aveva rapporti diretti con l'India ed era noto e apprezzato per la sua grande abilità. Nel frattempo i servitori ci avevano annunciato, e fummo condotti al primo piano in una veranda soleggiata, dove era stata preparata una ricca colazione. Ed ecco apparire il capo della legazione britannica, Hopkinson, che dopo un cordiale saluto ci invitò a prendere posto e a partecipare a un vero breakfast inglese. Da quanti anni non ci eravamo più seduti su delle sedie? In silenzio, facemmo girare i nostri occhi lungo la stanza: ci sembrava di essere in qualche modo di nuovo a casa nostra. Sorridendo il cordiale anfitrione seguì i nostri sguardi, evidentemente partecipe dei sentimenti che ci agitavano. Notando che affascinati fissavamo la biblioteca, ce la mise gentilmente a disposizione. Presto cominciammo a parlare liberamente. Hopkinson evitò con molto tatto la domanda che nel nostro intimo tanto ci preoccupava: eravamo per lui ancora prigionieri di guerra? Alla fine chiedemmo con tutta franchezza se i nostri compagni erano ancora dietro il filo spinato. Ci rispose che non lo sapeva, ma promise che si sarebbe informato in India. Egli parlò poi apertamente della nostra situazione, ci raccontò di essere stato informato della nostra evasione e del nostro viaggio e ci lasciò capire di aver saputo dal governo tibetano che saremmo ritornati presto in India. Non fummo molto entusiasti di questa prospettiva, e Hopkinson ci chiese allora se ci sarebbe potuto interessare trovare lavoro nel Sikkim, dove aveva buone relazioni. Gli dichiarammo con tutta sincerità che avremmo preferito restare nel Tibet. Dopo aver fatto onore alla colazione che era stata preparata per noi, lo pregammo di permetterci di mandare qualche notizia a casa nostra. Il diplomatico ci promise di farlo tramite la Croce Rossa. Più tardi ci fu possibile inviare di tanto in tanto una lettera attraverso la legazione britannica. Quasi sempre fummo però costretti a servirci della complicata posta tibetana. Mandavamo la lettera in doppia busta, con affrancatura tibetana, al confine. Là avevamo un uomo che, eliminata la prima busta, apponeva sulla seconda un francobollo indiano e la inoltrava. Se si aveva fortuna la lettera raggiungeva l'Europa in quattordici giorni, l'America in venti. Nel Tibet la posta funziona mediante corrieri che si danno il cambio Heinrich Harrer
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ogni sei chilometri e mezzo. Su tutte le linee principali ci sono piccole casette, dove attende la nuova staffetta. Questi corrieri postali portano una lancia munita di campanelline, per segnalare il loro ufficio. La lancia serve in caso di bisogno come arma e le campanelle mettono in fuga di notte le bestie feroci. Esistono cinque francobolli diversi stampati dalla zecca e venduti negli uffici postali tibetani.
Visite importanti a Lhasa Molto soddisfatti della nostra visita e nella speranza che gli inglesi si persuadessero della nostra innocuità ritornammo in città. A un certo punto fummo fermati da alcuni servi, che ci dissero che il loro padrone desiderava vederci. Quando gli chiedemmo chi fosse costui, ci risposero che si trattava di un monaco, alto funzionario governativo, uno dei quattro Trùnyi Chemo nelle cui mani è concentrata l'autorità su tutti i monaci del Tibet. Fummo condotti in un'ampia casa signorile, scrupolosamente pulita e ben protetta. I servi erano tutti monaci. Un signore anziano e simpatico ci salutò con cordialità e ci offrì tè e pasticcini. Dopo le usuali frasi di cortesia la conversazione ebbe inizio, e presto capimmo il motivo che aveva spinto il nostro anfitrione a interessarsi di noi. Disse di sapere che il suo paese era arretrato e che gente come noi si sarebbe potuta rendere molto utile, benché non tutti fossero della stessa opinione. Per questo motivo avrebbe interposto per noi i suoi buoni uffici. Nel frattempo volle sapere quali fossero stati i nostri studi e quale fosse stata la nostra professione in patria. Dopo tanto tempo trovammo di nuovo un uomo che si intratteneva con noi sui nostri studi. Particolare interesse suscitò il fatto che Aufschnaiter fosse un agronomo. In questo campo nel Tibet non c'erano esperti. E che possibilità c'erano in questo grande paese! Il giorno seguente facemmo visita a ognuno dei quattro ministri di gabinetto. Detentori del potere supremo, questi uomini sono responsabili solo di fronte al reggente. Tre sono dignitari civili, il quarto è un monaco. Tutti provengono dalle più nobili famiglie e conducono un tenore di vita assai elevato. A chi fare la prima visita? Riflettemmo lungamente. Giusto sarebbe stato incominciare dal ministro-monaco, ma decidemmo di saltare il Heinrich Harrer
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protocollo e recarci anzitutto dal più giovane. Surkhang, di trentadue anni, aveva fama di essere il più evoluto dei quattro, e speravamo di trovare in lui, più che in altri, spirito aperto e comprensivo. Ci venne incontro affabilmente, salutandoci con franca cordialità. Si stabilì subito una reciproca simpatia. Ci stupimmo di come fosse bene informato su quanto avveniva nel mondo. Ci invitò a un pranzo principesco, e quando ce ne andammo ci parve di conoscerlo da anni. Il secondo ministro al quale facemmo visita si chiamava Kabshòpa, ed era un signore corpulento. Sembrava molto compreso della sua dignità e ci accolse con una certa sufficienza. Comodamente seduto sul suo trono, ci fece avvicinare per ricevere il nostro devoto saluto, poi ci invitò benignamente a prendere posto su due sedie di fronte a lui. Fummo quindi investiti da un torrente di parole. Nei punti più importanti si schiariva la voce, e subito si precipitava un servo con una piccola sputacchiera d'oro. Sputare, a Lhasa, è assolutamente lecito, anche nella buona società, e ogni tavolino è fornito di piccoli vasetti. Ci fu impossibile capire quest'uomo nel corso del nostro primo incontro. Ci mantenemmo perciò del tutto passivi, rispondendo con cortesia alle sue gentilezze e bevendo il tè con contegno esemplare. Poiché Kabshòpa supponeva che non conoscessimo il tibetano, aveva pregato il figlio di suo fratello di fungere da interprete. La sua conoscenza della lingua inglese era il motivo principale della sua assunzione al ministero degli Esteri, e più tardi ci incontrammo spesso con lui. Era uno dei tipici rappresentanti della giovane generazione, aveva studiato in scuole indiane e aveva molti progetti per modernizzare il Tibet, anche se non aveva ancora osato discuterli in presenza dei monaci conservatori. Quando rimanemmo soli osservò che Aufschnaiter e io avevamo la sfortuna di essere venuti con alcuni anni di anticipo nel Tibet. Quando lui e alcuni degli altri giovani aristocratici sarebbero diventati ministri, avremmo certo avuto molto da fare. Preso congedo da Kabshòpa, trovammo nell'anticamera una schiera di postulanti che con facce impaurite e molti regali attendevano di essere ricevuti in udienza. Il ministro-monaco residente lungo il Lingkhor - la strada dei Pellegrini, lunga otto chilometri, che gira intorno a Lhasa - ci ricevette con maggiore semplicità. Non era più giovane e portava una barbetta bianca, della quale era molto orgoglioso, visto che nel Tibet le barbe sono una rarità. Heinrich Harrer
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Sembrava di mente molto illuminata e prudente, e al contrario dei suoi colleghi si astenne da qualsiasi dichiarazione. Si chiamava Rampa, ed era uno dei pochi funzionari-monaci di origine nobile. Lo sviluppo della situazione generale gli doveva causare molte preoccupazioni segrete, perché si interessò molto delle nostre opinioni sulla politica sovietica. Nelle antiche scritture, ci disse, si leggeva una profezia: una grande potenza del Nord muoverà guerra al Tibet, distruggerà la religione e imporrà la sua egemonia al mondo. La nostra ultima visita fu riservata a Pùnkhang, il più vecchio dei quattro ministri. Era un omino piccolo, con grosse lenti davanti agli occhi miopi. Questo particolare rappresentava qualcosa di eccezionale per il Tibet, perché le lenti erano aborrite come «usanza straniera». A nessun funzionario era lecito portarle, e anche nella vita privata non erano viste di buon occhio. Il nostro ministro aveva ricevuto un permesso particolare dal tredicesimo Dalai Lama, ma poteva portarle soltanto in ufficio. Nel corso delle cerimonie ufficiali la sua scarsa vista lo rendeva completamente inerme. Pùnkhang ci ricevette in presenza di sua moglie: benché per rango sedesse più in alto di lei, si capiva a prima vista che in quella casa era la donna a portare i pantaloni. La signora quasi non lo lasciò parlare, assalendoci con domande di ogni genere. Pùnkhang ci mostrò la sua cappella privata. Egli discendeva da una famiglia che aveva generato un Dalai Lama, e ne era molto orgoglioso. Tra i molti santi ci indicò una figura che rappresentava il dio-re uscito dalla sua stirpe. Nel corso del tempo feci anche la conoscenza dei figli di Pùnkhang. Il maggiore era governatore di Gyantse. Ma più interessante di lui era sua moglie, una principessa del Sikkim di discendenza tibetana. Era una delle più belle donne che avessi mai visto, ed emanava l'indescrivibile fascino proprio delle asiatiche, plasmato dall'antichissima civiltà orientale. Nello stesso tempo era anche molto intelligente, colta e assolutamente moderna, anche perché aveva studiato in una delle migliori scuole di tutta l'India. Fu la prima donna nel Tibet a rifiutarsi di sposare i fratelli del marito, perché ciò non era conforme ai suoi principi. Nei discorsi questa donna uguagliava con facilità le più intelligenti signore europee. Si interessava di politica, cultura e di tutti i fatti del mondo. L'ho sentita spesso parlare di parità dei diritti per le donne, ma il Tibet è ancora molto lontano dal raggiungere una simile conquista civile. Heinrich Harrer
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Prima di congedarci da Pùnkhang lo pregammo di patrocinare la nostra richiesta di soggiorno. Al pari dei suoi colleghi ci promise il suo appoggio particolare. Ma eravamo da troppo tempo in Asia per non sapere che qui non viene mai pronunciato un «no» chiaro. Essendo sempre possibile un'espulsione, cercammo di premunirci da tutti i lati e tentammo perciò di metterci in contatto con la rappresentanza diplomatica cinese. L'incaricato d'affari ci ricevette con la ben nota cortesia cinese, e ci promise di inoltrare subito al suo governo la nostra domanda per soggiornare in Cina e trovarvi lavoro. Ci sforzavamo di convincere tutti della nostra assoluta innocuità. Non di rado, infatti, accadeva che alcuni stranieri ci rivolgessero la parola durante le nostre passeggiate e ci facessero domande assai strane. Una volta un cinese ci fotografò di nascosto. Una macchina fotografica a Lhasa era una rarità, e questo fatto suscitò in noi apprensione. Eravamo venuti a sapere che in città si aggiravano individui di ogni specie che mandavano informazioni all'estero. Forse anche noi eravamo considerati agenti al servizio di una potenza straniera. Se gli inglesi si erano potuti convincere che eravamo persone inoffensive, altre nazioni invece avrebbero potuto attribuirci chissà quali intenzioni. Non avevamo ambizioni politiche di nessun genere, e non aspiravamo che a una cosa sola: asilo e lavoro, in attesa di poter tornare in patria. Nel frattempo aveva fatto la sua comparsa la primavera, benché fossimo ancora ai primi di febbraio. Lhasa è situata a sud del Cairo, e ad alta quota i raggi del sole sembrano notevolmente più forti. Eravamo ormai stanchi dell'inattività, delle numerose visite e dei molteplici inviti, dove venivamo guardati come bestie rare. Lavorare di nuovo, fare dello sport: ecco cosa volevamo. Ma tranne un piccolo spazio adibito alla pallacanestro, non c'era alcun campo sportivo. I giovani tibetani e cinesi accettarono con piacere la nostra offerta di prendere parte agli incontri. Tutte le volte che lo permetteva la mia sciatica, insegnai loro le regole e le astuzie del gioco. C'era anche un'installazione di docce, la nostra vera attrattiva, ma il prezzo era esorbitante: dieci rupie. Si pensi che per un tale prezzo si può comprare una pecora! La tariffa proibitiva si spiegava con il fatto che, per riscaldare l'acqua, il proprietario doveva usare sterco di yak essiccato, che qui era molto raro e doveva quindi essere trasportato da lontano. Ci fu raccontato che alcuni anni prima esisteva perfino un campo di calcio: erano state organizzate undici squadre che si contendevano il Heinrich Harrer
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primato. Un giorno, proprio durante una partita, si abbatté una forte grandinata. Causò gravi danni, e il gioco del calcio fu proibito. Forse il reggente approfittò dell'occasione per evitare un divertimento che non vedeva di buon occhio, forse fu la Chiesa a temere di perdere una parte della sua influenza. La popolazione infatti interveniva con entusiasmo alle partite, e per assistervi arrivavano perfino monaci da Sera e da Dreprung. La grandinata fu comunque spiegata come un castigo degli dei per quel frivolo sport, e il calcio fu soppresso. Quando ci raccontarono questa storia domandammo se esistevano veramente lama capaci di impedire le grandinate e di provocare la pioggia. Nel Tibet ci si crede fermamente. In tutti i campi coltivati si elevano monacelli di pietra sormontati da una coppa, nella quale viene bruciato incenso, quando minaccia tempesta. E qualche villaggio ha addirittura il proprio «creatore del tempo», un monaco che gode fama di essere uno scongiuratore di particolare abilità. Costui soffia in una grande conchiglia, producendo onde sonore che hanno un effetto simile a quello provocato dalle nostre campane che, specie nelle regioni alpine, vengono suonate quando si avvicina un temporale. Nel Tibet naturalmente non si riconosce alcuna spiegazione fisica del fenomeno: tutto è magia e gioco degli dei. Avemmo occasione di ascoltare una simpatica storia risalente ai tempi del tredicesimo Dalai Lama. Anch'egli, naturalmente, aveva il suo «creatore del tempo» di corte, che era il più famoso mago del mondo. La sua specialità era quella di proteggere il giardino estivo del dio-re quando si avvicinava una tempesta. Un giorno cadde una pesante grandinata che distrusse tutti i fiori e rovinò tutti i frutti che stavano maturando. Il mago fu convocato alla presenza del Buddha Vivente, che sedeva brontolante sul suo trono e ordinò al tremante «creatore del tempo» di fare immediatamente un miracolo, altrimenti sarebbe stato rimosso dall'incarico e punito. L'uomo si prostrò ai suoi piedi e chiese un setaccio, anche uno qualsiasi. Poi chiese al Dalai Lama se sarebbe stato soddisfatto nel caso che l'acqua versata nel setaccio non ne fosse uscita. Il dio-re annuì e miracolo! - l'acqua versata nel setaccio non ne uscì fuori. La reputazione del mago fu salva, e gli fu permesso di conservare il suo ben pagato lavoro. Nel frattempo ci scervellavamo senza posa per trovare il modo di guadagnarci da vivere, se ci fosse stato accordato il permesso di soggiorno. Per il momento eravamo trattati con estrema generosità: per ordine del Heinrich Harrer
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ministero degli Esteri ricevevamo interi carichi di tsampa, farina, burro e tè. E rimanemmo gradevolmente sorpresi il giorno in cui il nipote di Kabshòpa ci consegnò a nome del governo cinquecento rupie. Nella nostra lettera di ringraziamento ci dichiarammo pronti a lavorare per il governo in cambio di vitto e alloggio.
La generosa ospitalità di Tsarong Nel corso delle ultime tre settimane avevamo goduto dell'ospitalità di Thangme. Accettammo quindi riconoscenti l'invito del ricco Tsarong a trasferirci in casa sua, perché Thangme aveva cinque figli e aveva bisogno della nostra stanza. Egli ci aveva accolti come poveri vagabondi e ci aveva dimostrato una sincera amicizia. Non abbiamo mai dimenticato la sua gentilezza. Ogni capodanno era lui che riceveva la prima sciarpa bianca, e più tardi, ai festeggiamenti di Natale in casa mia, fu sempre lui il primo e il più gradito ospite. Tsarong ci assegnò una spaziosa stanza con mobilio europeo: tavolo, sedie, letti e magnifici tappeti. Accanto c'era un piccolo bagno. In quella casa trovammo anche qualcosa di cui avevamo sentito molto la mancanza: un gabinetto chiuso. A questo proposito il Tibet non è molto evoluto. Ci si deve abituare a una totale disinvoltura. Nelle abitazioni si trovano costruzioni in mattoni sopraelevate, accessibili attraverso alcuni gradini, al di sopra delle quali ci sono aperture...: questo è il massimo del comfort. La mattina andavamo a prendere in cucina l'acqua calda per lavarci. La cucina era un ambiente vastissimo a qualche metro di distanza dall'edificio principale. Nel mezzo del pavimento formato da terra battuta si drizzava un grande focolare d'argilla. Al fuoco, mantenuto giorno e notte, provvedeva un servo, che nelle ore in cui venivano preparati i pasti azionava un enorme mantice. Lhasa si trova a quasi 3700 metri di altitudine: la mancanza di ossigeno e la qualità del combustibile, sterco di yak, rendono necessario un aiuto artificiale, affinché si sviluppi un buon fuoco. Tsarong poteva permettersi il lusso di avere parecchi cuochi. Il capocuoco aveva lavorato per molti anni nel migliore albergo di Calcutta e conosceva la cucina europea. Non faceva soltanto degli arrosti squisiti, era Heinrich Harrer
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anche un pasticciere di prim'ordine. Un altro cuoco era stato mandato in Cina, dove aveva imparato tutte le specialità della cucina cinese. A Tsarong faceva molto piacere sorprendere i suoi ospiti con piatti sconosciuti. Ci suscitò meraviglia costatare che in tutte le cucine delle famiglie distinte le donne sono adibite soltanto a lavori ausiliari. I pasti dei tibetani sono suddivisi in modo differente che da noi. La mattina si beve tè al burro, e poi più volte durante la giornata. Ho sentito dire che a Lhasa ci sono persone che ne bevono giornalmente fino a duecento tazze, ma si tratta probabilmente di un'esagerazione. Due sono i pasti principali, uno alle dieci di mattina e uno la sera dopo il tramonto. Il primo, consistente di tsampa e contorni, lo consumavamo nella nostra stanza. La sera eravamo di solito invitati di Tsarong. L'intera famiglia sedeva allora intorno a un grande tavolo, molte erano le portate e questo pasto rappresentava il punto culminante della giornata: tutti riuniti commentavamo i fatti del giorno. Dopo la cena passavamo nel soggiorno. I suoi molti tappeti, gli stipetti e le figurine lo facevano sembrare un po' troppo carico: qui fumavamo e bevevamo birra. Tsarong possedeva una magnifica radio, che permetteva di ascoltare tutte le stazioni della terra con grande chiarezza: sul «Tetto del mondo» non ci sono disturbi. Poi ascoltavamo gli ultimi dischi o ammiravamo un apparecchio fotografico, una macchina da presa, un microscopio. Una sera ci mostrò perfino un teodolite! Tsarong maneggiava con facilità tutti questi strumenti. Penso che avesse più hobby di qualsiasi altro in città. Faceva anche raccolta di francobolli e manteneva una fitta corrispondenza con tutte le parti del mondo, aiutato da un figlio che conosceva molte lingue. Possedeva una ricca biblioteca e una bella raccolta di libri occidentali. Per la massima parte erano doni, perché tutti gli europei che venivano a Lhasa erano suoi ospiti e gli lasciavano spesso un libro come ricordo. Per noi era una vera fortuna abitare in una casa così ricca, fra persone tanto evolute. Tsarong era un uomo eccezionale. Ripetutamente aveva cercato di introdurre riforme nel paese, e se qualche grosso problema era in discussione, il governo lo convocava sempre per ascoltare il suo parere. L'unico ponte di ferro del Tibet era opera sua. Lo fece costruire e mettere insieme in India. Poi venne smontato e trasportato pezzo per pezzo a dorso di yak e per mezzo di coolie fino a Lhasa. Tsarong era un tipico self-made man dell'ultima generazione, e con le sue capacità sarebbe stato una Heinrich Harrer
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personalità ragguardevole anche nei paesi occidentali. Suo figlio George - aveva conservato il suo nome di alunno dei tempi in cui studiava in India - seguiva le orme paterne. Già al nostro primo incontro con lui ci avevano stupito la sua cultura e versatilità. Era un fotografo appassionato. E le sue fotografie erano davvero artistiche. Una sera ci stupì mostrandoci un film a colori girato da lui stesso. Si era procurato un generatore che gli forniva la corrente necessaria alla proiezione. Avremmo potuto credere di trovarci in un cinema europeo, se il generatore non avesse fatto tante bizze e non fossimo stati costretti a intervenire ripetutamente per rimetterlo in moto. Gli inviti di Tsarong e i libri che ricevevamo in prestito da lui e dalla legazione britannica costituivano l'unica nostra distrazione serale. Non esistevano cinema o teatri a Lhasa, men che meno locali pubblici. La vita mondana si svolgeva soltanto nelle case private. Durante il giorno eravamo intenti a raccogliere impressioni e a non lasciarci sfuggire nulla di interessante. Eravamo ossessionati dalla non infondata paura che un giorno o l'altro sarebbe potuto arrivare il decreto di espulsione. Niente per il momento ce lo faceva supporre, ma la nostra diffidenza era sempre all'erta: non pensavamo di poter davvero contare sul supporto dei nostri amici in una simile occasione, per quanto generosi si fossero dimostrati. C'era stata più volte raccontata una storia che suonava come un monito. Il governo tibetano aveva pregato un insegnante inglese di istituire a Lhasa una scuola secondo il modello europeo, offrendogli un contratto pluriennale. Dopo sei mesi, disgustato dall'opposizione dei monaci, aveva abbandonato il paese.
Il Tibet non conosce la fretta Ogni giorno continuavamo a fare visite e visite. Ce n'erano così tante da restituire! Ci facemmo così un'idea molto precisa della vita familiare delle classi alte. Una cosa soprattutto destava a Lhasa la nostra invidia, se pensavamo alle città europee: qui si aveva sempre tempo. La peggiore malattia del nostro secolo, l'eterna fretta, non aveva ancora fatto la sua comparsa nel Tibet. Nessuno lavorava intensamente, negli uffici tutto procedeva con calma. I funzionari e gli impiegati andavano a lavorare verso le undici del mattino, e tornavano a casa nelle prime ore del Heinrich Harrer
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pomeriggio. Se uno di loro era impedito o aveva ospiti, mandava semplicemente un servo da un suo collega per farsi sostituire. Le donne non sanno ancora nulla dell'emancipazione e dell'uguaglianza dei diritti, e credo siano felici della vita che fanno. Per ore e ore si dedicano a farsi belle, infilano perle, scelgono stoffe nuove e studiano il modo di eclissare alla prossima occasione l'una o l'altra delle signore. Non si occupano dei lavori domestici, che sono tutti affidati ai servi, ma come segno della loro dignità girano per casa con appeso alla cintola un grosso mazzo di chiavi. A Lhasa anche la più piccola cosa viene tenuta sotto chiave. Poi c'era il mah-jong. Un tempo veniva giocato da tutti con vero furore, giorno e notte, e ci si dimenticava dei doveri dell'ufficio, della casa, della famiglia. La posta era spesso molto alta e tutti giocavano. Vi si dedicava segretamente anche la servitù, che spesso perdeva in qualche ora i risparmi di una vita. A un certo momento il governo ne fu impensierito, proibì il gioco, confiscò le pedine del mah-jong e condannò a gravi pene - sia pecuniarie sia di lavoro forzato - i contravventori. Quanto più alto era il grado dell'individuo colto in flagrante, tanto maggiore era il castigo. E il provvedimento ebbe ottimo successo. Forti furono le lamentele, ci si dolse del divieto, ma ognuno vi si sottomise. Il potere della gerarchia era illimitato. Dopo che il mah-jong fu proibito, divenne gradualmente evidente come tutto il resto fosse stato abbandonato nel corso dell'«epidemia». Per il sabato - la domenica nel Tibet è un giorno come gli altri - si trovarono altri passatempi: scacchi, halma, sciarade e indovinelli. Dovetti imparare naturalmente anch'io il mah-jong, per avere pace. Capii che poteva diventare veramente una passione. Solo in occasioni particolari, in giorni di festa o nei grandi ricevimenti, si continuava a giocarlo. Un giorno facemmo un incontro del quale ci rallegrammo molto. Ritrovammo una vecchia conoscenza: era il soldato di Shangtse che a suo tempo ci aveva accompagnato alla frontiera indiana. Prendendo allora congedo da noi, ci aveva detto: «Arrivederci a Lhasa!». E l'incontro si era avverato. Lo trovammo nella piccola bottega dove spesso compravamo pasticcini. Ci raccontò che era diventato un corriere del governo e aveva già sentito parlare molto di noi. Ma come soldato semplice non poteva osare di venirci a trovare in casa del ministro Tsarong. Lo invitammo a prendere il tè in un locale, il cui proprietario, un grasso Heinrich Harrer
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musulmano, si rallegrò molto dell'onore che gli facevamo. Con orgoglio ci raccontò di essere oriundo del Kashmir, dove aveva imparato l'arte culinaria in una distinta casa inglese. I suoi prodotti erano famosi a Lhasa, ma per noi avevano sempre un sapore di burro rancido. I tibetani accorrevano da lui a frotte ed egli guadagnava molto. Da musulmano credente andava spesso con tutta la famiglia in pellegrinaggio alla Mecca e a Medina, e mi parve cosa degna di rilievo che qui gli abitanti di una città santa finanziassero la visita a un'altra.
Nuovamente minacciati di espulsione Il 16 febbraio 1946, a un mese dal sospirato arrivo a Lhasa, il nostro destino era ancora incerto: non avevamo lavoro ed eravamo preoccupati per il nostro futuro. Proprio in quel giorno venne da noi Kabshòpa, quale inviato del ministero degli Esteri. La sua espressione ufficiale ci tolse ogni dubbio. Ciò nonostante il messaggio fu da noi risentito come un fiero colpo. Il governo non ci aveva concesso il permesso di soggiorno, e dovevamo essere subito rispediti in India. Una simile eventualità era sempre rientrata nei nostri calcoli, ma ora eravamo davanti al fatto compiuto, ed eravamo disperati. Protestammo subito, ma Kabshòpa, stringendosi nelle spalle, ci disse che dovevamo rivolgerci in alto loco. Quale immediata reazione alla triste notizia andammo alla ricerca di tutte le carte del Tibet orientale che si potevano trovare a Lhasa. Di sera, rabbiosamente chini su quelle mappe, cominciammo a studiare gli itinerari e a fare nuovi piani. Una sola cosa era certa: mai più dietro il filo spinato! Piuttosto saremmo fuggiti di nuovo e avremmo tentato la sorte in Cina. Avevamo un po' di denaro, un buon equipaggiamento e potevamo provvederci di viveri in qualunque momento. Ma la mia sciatica non era migliorata. Purtroppo non erano serviti né i medicamenti, né le iniezioni prescrittemi dal medico della legazione britannica, chiamato da Aufschnaiter. Doveva questa mia maledetta sciatica mandare in fumo i miei progetti? Ero disperato. Il giorno seguente, malgrado i miei dolori, mi recai dalla famiglia del Dalai Lama. Forse poteva servirci una sua raccomandazione. La Grande Madre e Lobsang Samten promisero infatti di raccontare tutto al giovane Heinrich Harrer
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dio-re, persuasi che avrebbe detto una buona parola in nostro favore. Ciò infatti avvenne, e benché il giovane Dalai Lama non possedesse ancora un potere esecutivo, la sua benevolenza ci fu certamente utile. Aufschnaiter intanto, in città, stava correndo da un conoscente all'altro, per mettere in movimento tutte le leve. Affinché nulla rimanesse intentato, compilammo poi un'istanza in lingua inglese diretta al ministero degli Esteri: AL MINISTERO DEGLI ESTERI DEL TIBET 17 febbraio 1946 Ieri Kabshòpa Se Kusho ci è venuto a fare visita per trasmetterci l'invito del governo tibetano di lasciare Lhasa al più presto e di ritornare in India. In risposta a questa ingiunzione ci permettiamo di esporre il nostro caso come segue: Nel maggio 1939, quali alpinisti, siamo arrivati dalla Germania in India, con l'intenzione di ritornare nell'agosto dello stesso anno nel nostro paese. Il 3 settembre 1939, il giorno dello scoppio della guerra, fummo arrestati e internati in un campo di prigionia. Nell'anno 1943 fu pubblicata sui giornali una convenzione fra i governi del Tibet e dell'India, che si riferiva al trasporto delle merci dall'India in Cina via Tibet, con l'esplicita dichiarazione che non doveva trattarsi di materiale bellico. Da questo accordo abbiamo tratto la convinzione che il Tibet si considerava in questa guerra uno stato neutrale: per questo motivo ci siamo decisi a sopportare inenarrabili fatiche pur di raggiungerlo. La neutralità del Tibet ci fu inoltre confermata da mr Hopkinson, capo della rappresentanza diplomatica inglese a Lhasa, che ci assicurò, nel corso della nostra recente visita, che non avrebbe proposto al governo tibetano di rispedirci in India. Secondo le convenzioni internazionali vige la norma che prigionieri di guerra che riescano a raggiungere un territorio neutrale vi trovino asilo e rimangano sotto la protezione di quel paese fino a che divenga possibile il loro rimpatrio. Questa norma è osservata da tutti i governi del mondo, e nessun paese neutrale rispedirà mai in prigionia simili profughi. Come abbiamo appreso, i tedeschi in India non sono stati Heinrich Harrer
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ancora rimpatriati, e rispedirci in quel paese equivarrebbe a rimandarci in prigione. Nel caso in cui il nostro soggiorno nel paese del governo tibetano dovesse apparire in contraddizione con il suo atteggiamento tradizionale rispetto agli stranieri - come ci ha accennato ieri Kabshòpa Se Kusho -, ci permettiamo di richiamare l'attenzione sul fatto che il governo tibetano si è trovato indotto negli anni passati a fare alcune eccezioni. Nel caso però che tale deroga fosse stata accordata a stranieri in considerazione della loro professione o per altre ragioni, pensiamo di poter beneficiare anche noi di tale concessione. Siamo profondamente grati al governo tibetano per la bontà dimostrataci e l'ospitalità che ci fu concessa ovunque nel paese, e siamo sinceramente dolenti di causare imbarazzo. D'altro canto però il governo tibetano vorrà rendersi conto senza dubbio che, essendo riusciti a raggiungere il Tibet e avendo recuperato la nostra libertà, ci tornerebbe molto sgradito ripiombare nella prigionia, nella quale abbiamo penato per quasi cinque anni. Perciò rivolgiamo al governo tibetano la nostra fervida preghiera di lasciarci usufruire del medesimo trattamento che altri governi neutrali accordano ai prigionieri evasi e di autorizzarci a rimanere su questo suolo, fino a quando sarà possibile il nostro rimpatrio. Peter Aufschnaiter Heinrich Harrer Come se tutto congiurasse contro di noi, la mia sciatica peggiorò all'improvviso a tal punto che non mi potei più muovere. I dolori erano intollerabili e dovevo rimanere a letto. Tra gemiti e spasimi mi scervellavo per trovare una via d'uscita, mentre Aufschnaiter si scorticava i piedi per andare in cerca d'aiuto. Che giorni infernali! Il 21 febbraio si presentarono alcuni soldati con l'intimazione di fare subito i nostri bagagli, perché avevano l'ordine di scortarci fino in India. Partenza il giorno seguente di buon mattino. Ecco la fine di tutte le nostre speranze. Ma come mi potevo mettere in viaggio? Non potevo neppure fare due passi per affacciarmi alla finestra. Disperato, tentai di dimostrare la mia situazione al tenente. Mi guardò con l'aria di chi non può fare Heinrich Harrer
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niente. Come tutti i soldati del mondo non sapeva fare altro che obbedire agli ordini, e non era autorizzato ad accettare spiegazioni. Con un certo garbo lo pregai di riferire ai suoi superiori che potevo abbandonare Lhasa solo se fossi stato trasportato. I soldati se ne andarono. Subito ci recammo da Tsarong, per chiedere aiuto e consiglio. Ma non conosceva alcuna via d'uscita, perché a un ordine del governo non era possibile opporsi in nessun modo. Soli nella nostra camera maledicemmo la mia sciatica. Se non fossi stato malato, nulla ci avrebbe potuto trattenere. Quella notte stessa saremmo fuggiti. Meglio fatiche, miseria e pericoli che la più comoda vita dietro il filo spinato. Non sarebbe stato tanto facile farmi spostare il giorno dopo: mi proposi di opporre resistenza passiva. La mattina seguente non avvenne nulla: niente soldati, niente notizie. Assai inquieti mandammo un servo a informare Kabshòpa. Venne egli stesso, molto imbarazzato. Aufschnaiter cominciò a trattare. Si poteva forse arrivare a un compromesso? Ci era venuto il sospetto che alla fin fine in questa faccenda ci fosse lo zampino degli inglesi e che fossero stati loro ad aver chiesto la nostra estradizione. Il Tibet era un paese piccolo ed era nei suoi interessi mantenere buoni rapporti con le altre nazioni. Valeva la pena di correre il rischio di dispiacere alla potente Inghilterra a causa di due prigionieri di guerra tedeschi? Aufschnaiter propose di chiedere al medico inglese, in quel momento capo della rappresentanza diplomatica, di attestare il mio stato di salute. Kabshòpa accettò con evidente piacere questa proposta, avvalorando il nostro sospetto. Durante la giornata venne a visitarmi il medico, che ci informò che il governo tibetano aveva rimesso al suo giudizio la decisione circa la nostra partenza. Mi prescrisse di nuovo iniezioni, che neppure stavolta giovarono. Più sollievo mi procurò un dono di Tsarong: un po' di ovatta termogena. Mi proposi però fermamente di superare la mia malattia. Questa disavventura non doveva far naufragare tutti i nostri piani. Con tutta la mia forza di volontà mi costrinsi a fare ogni giorno un po' di esercizi. Un lama mi aveva consigliato di muovere con le piante dei piedi un bastone. Stavo quindi seduto per ore e ore sulla sedia e facevo rotolare il bastone in qua e in là, benché i dolori fossero inenarrabili. A poco a poco cominciai a migliorare: potei finalmente andare in giardino, dove mi riscaldavo al sole primaverile come un vecchio invalido. Heinrich Harrer
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Incomincia l'anno «Fuoco-Cane» La primavera era nel suo massimo fulgore. Il 4 marzo era cominciata la più grande festa tibetana, il capodanno, che sarebbe durato tre settimane. Purtroppo però non vi potevo prendere parte. Udivo soltanto in lontananza il rullo dei tamburi e le trombe, e dal trambusto che regnava in casa comprendevo quanta importanza si attribuisse a tale solennità. Tsarong e suo figlio venivano ogni mattina in nuovi e sontuosi abbigliamenti di seta e di broccato a farmi visita, affinché li ammirassi. Aufschnaiter naturalmente andava dappertutto, e di sera mi faceva un'esatta relazione delle cose che aveva visto. Questa volta si celebrava l'inizio dell'anno «Fuoco-Cane». Il 4 marzo (o una data vicina, dato che il capodanno tibetano è flessibile, come la nostra Pasqua) il magistrato della città consegna il potere nelle mani dei monaci. Ciò sta a simboleggiare la restituzione da parte del potere temporale delle sue funzioni alla religione, dalla quale ne fu in origine investito. Incomincia quindi un regime severo e temuto. Viene fatta anzitutto una scrupolosa pulizia. Lhasa è in questo periodo celebre proprio per questo, il che di solito non si potrebbe affermare. Nello stesso tempo viene proclamata una specie di pacificazione generale. Ogni contrasto cessa: gli uffici chiudono i battenti, ma il mercanteggiare e il trafficare nelle strade è più animato che mai, tranne quando vanno in giro le processioni. Tutti i delitti, tutte le infrazioni, perfino il gioco d'azzardo, vengono puniti durante questo periodo con particolare severità. I monaci sono a tale riguardo inesorabili e molto temuti, perché più di una volta è avvenuto che qualcuno sia morto sotto la rigorosa flagellazione, la pena usuale. In simili casi tuttavia interviene il reggente, che sa trovare i responsabili. In tutto questo tripudio la nostra faccenda pareva caduta nel dimenticatoio. Noi naturalmente ci guardavamo bene dal farci notare. Comunque dovevo anzitutto guarire. Poi avremmo anche potuto pensare a prendere i provvedimenti necessari e tentare di realizzare la progettata fuga in Cina. Ogni giorno prendevo il sole in giardino e mi rallegravo del calore che man mano aumentava. Grande fu la mia sorpresa quando, una mattina, al Heinrich Harrer
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mio risveglio, scoprii che tutta la magnificenza primaverile era coperta di neve. Una simile nevicata in ritardo era una rarità per Lhasa. La città infatti giace così profondamente nell'interno dell'Asia che la raggiungono solo poche precipitazioni atmosferiche. Anche d'inverno la neve non vi si conserva a lungo, perché la posizione meridionale della città e la forte irradiazione solare a causa dell'altitudine la fanno sciogliere rapidamente. Anche quel giorno la neve scomparve molto presto e contribuì a rendere tollerabili le tempeste di sabbia. L'umidità teneva unite sabbia e polvere, in modo che non potessero volteggiare nell'aria. Queste bufere si presentano puntualmente ogni primavera e rallegrano il paese per circa due mesi. Raggiungono la città nelle prime ore del pomeriggio. Già da lontano si scorgono queste gigantesche nubi nere che con immensa rapidità si avvicinano. Primo a scomparire è il Potala: è questo il segno che spinge ognuno a barricarsi in casa. Il movimento nelle strade cessa, i vetri delle finestre tintinnano, le bestie al pascolo volgono la coda in direzione del vento e attendono con pazienza di potersi rimettere a pascolare. I numerosi cagnacci che si incaricano di ripulire la città si accovacciano in un angolo. Di solito non sono così docili. Aufschnaiter tornò a casa un giorno con il cappotto tutto sbrindellato: era stato attaccato dai cani, che avevano appena finito di divorare la carcassa di un cavallo. Questo periodo delle tempeste di sabbia è il più penoso di tutto l'anno. Anche standosene seduti in casa la sabbia ti finisce dappertutto, dato che a Lhasa non ci sono doppie finestre. L'unico lato positivo è che queste tempeste segnano davvero la fine dell'inverno. Ogni giardiniere sa che ormai non deve più temere il gelo. I prati lungo i canali si tingono di un verde tenero, e la «capigliatura di Buddha», il famoso salice piangente davanti all'ingresso della cattedrale, comincia a fiorire. I teneri rami pendenti con i delicati fiorellini gialli giustificano in primavera tale nome poetico. Ora che ero in grado di fare qualche passo, mi sarei reso volentieri utile in qualche modo. Nel giardino di Tsarong c'erano centinaia di giovani alberi fruttiferi, ma non avevano mai dato frutti. Con George mi misi a praticare sistematicamente innesti. Nel Tibet non si conosce questa operazione e non esiste neppure il termine corrispondente. I nostri amici la chiamarono «maritaggio», e questa qualifica sollevò pazze risate. Un piccolo popolo felice con il suo umorismo infantile. I tibetani ridono volentieri e approfittano perciò di ogni occasione. Se qualcuno scivola o Heinrich Harrer
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inciampa echeggiano risa a non finire. Queste risate non sono però mai maligne. Nessuno è al riparo da beffe o motteggi. Poiché non ci sono giornali, i tibetani prendono in giro le persone mediante versi e canzoncine satiriche, e non ne sono immuni nemmeno gli alti personaggi. Talora il governo proibisce una canzoncina più pepata delle altre, ma si è abbastanza intelligenti da non punire nessuno. Non la si sente allora più in pubblico, ma più di prima in privato. Il Barkhor ha a capodanno il suo periodo di massimo splendore. La strada gira intorno alla cattedrale e vi si svolge tutta la vita cittadina. Qui c'è la maggior parte dei negozi, qui iniziano e finiscono tutti i cortei religiosi e le parate militari. Di sera, specie nei giorni festivi, le persone pie convergono verso il Barkhor, fanno una specie di pellegrinaggio mormorando preghiere, e molti devoti misurano, stendendosi a terra e rialzandosi, il tratto che percorrono. Ma il Barkhor mostra anche una faccia meno pia. Le donne eleganti ci vanno per mostrare le loro nuove acconciature e civettano un po' con i giovani nobili. Anche le «belle» della città esercitano là la loro professione. In una parola il Barkhor è il centro della vita commerciale e sociale, nonché dei pettegolezzi. Il quindicesimo giorno del primo mese tibetano mi sentii in grado di assistere alle festività che in quel giorno toccano il culmine. Ha luogo una grandiosa processione, alla quale prende parte personalmente anche il Dalai Lama. Tsarong aveva promesso di riservarci dei posti a una finestra di una delle sue case che si affacciano sul Barkhor. I nostri posti erano purtroppo al pianterreno, perché durante la processione è vietato a chiunque trovarsi in una posizione al di sopra delle teste degli alti signori che passano. Del resto è vietato in genere che le case abbiano più di due piani, essendo considerato un delitto fare concorrenza alla cattedrale o addirittura al Potala. La norma viene strettamente osservata, e le casette smontabili in legno che i nobili collocavano per la stagione calda sui loro tetti piatti scomparivano con incredibile rapidità quando il Dalai Lama o il reggente prendevano parte a una processione. Mentre la folla variopinta si riversava nelle strade noi sedevamo alla nostra finestra con la moglie di Tsarong, un'amichevole anziana signora che ci aveva sempre viziati. Con il suo tono familiare ci spiegò questo spettacolo per noi del tutto nuovo. Dalla terra sorgevano misteriose armature, alte spesso più di dieci metri. Heinrich Harrer
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Subito dopo il tramonto del sole vi venivano collocate alcune figure di burro, confezionate dai monaci con un lavoro di mesi. Ci sono a tale scopo nei monasteri dei reparti speciali, nei quali monaci particolarmente abili, veri artisti nel loro genere, modellano e scolpiscono con infinita pazienza, usando burro di vari colori, figure e motivi ornamentali, veri capolavori di filigrana, che per una notte vengono combinati sulle armature in modo da formare autentiche rarità. Ognuno cerca di superare l'altro, perché la piramide più bella riceve un premio dal governo. Da decenni la gara viene vinta dai monaci del monastero di Gyù. Centinaia di queste piramidi fiancheggiano la strada per la quale passa la processione e testimoniano con la loro magnificenza lo spirito di sacrificio delle nobili e ricche famiglie di Lhasa. Una simile torre costa un mucchio di quattrini, e spesso si devono mettere insieme più famiglie per pagare una piramide. L'intera facciata dell'anello interno del Barkhor scomparve dietro torri triangolari variopinte. Una folla immensa si accalcava davanti a esse, ed era un vero problema vedere qualcosa. Cominciò a imbrunire, e si sentirono rulli di tamburi e fanfare. Avanzarono i reggimenti di Lhasa per formare i cordoni che dovevano contenere la folla ai lati e lasciare libera al centro la strada. Rapidamente calò la sera, ma subito furono accese un mare di luci che illuminarono tutto a giorno. Migliaia di tremolanti lampade a burro, e nel mezzo anche alcune a petrolio, che gettavano luce abbagliante. Sopra i tetti sorgeva la luna, perché il quindicesimo giorno di ogni mese nel Tibet c'è la luna piena. Tutto era pronto, la grande festa poteva avere inizio. Un silenzio sepolcrale e pieno d'attesa avvolse la moltitudine.
Un dio alza, benedicendo, la mano Il grande momento era arrivato. Le porte della cattedrale si aprirono e lentamente uscì il Dalai Lama, il giovane dio-re, sorretto a sinistra e a destra da due sacerdoti. Devota la folla si inchinò immediatamente. Il cerimoniale rigoroso esigerebbe che la gente si gettasse a terra, ma era impossibile farlo a causa della mancanza di spazio. Migliaia di persone curvarono invece la schiena, come un campo di grano sciabolato dal vento. Nessuno osava alzare gli occhi. Lento e compassato il Dalai Lama iniziò il suo giro intorno al Barkhor. Si fermò continuamente davanti alle figure di Heinrich Harrer
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burro, ammirandole. Era accompagnato da un brillante corteo di alti dignitari e nobili, seguito, esattamente secondo il rango, da tutti i funzionari del paese. Riconoscemmo anche il nostro amico Tsarong, che seguiva a poca distanza il Dalai Lama. Al pari di tutti i nobili, teneva nella destra un fumante bastone di incenso. La folla era silenziosa, sopraffatta dall'emozione. Si udivano soltanto gli strumenti dei monaci: oboe, tube e cembali. Sembrava una visione di un altro mondo: vi regnava un'atmosfera stranamente irreale, alla quale neppure noi, scettici europei, riuscimmo a sottrarci. Nel giallo tremolio delle molte lampade le figure di burro sembravano acquistare vita. Strane corolle chinavano le testine in un immaginario alito di vento, pieghe di seriche vesti si muovevano frusciando, una maschera di demone torceva la bocca. Poi il dio-re alzò benedicendo la mano. Siamo anche noi preda di questo sogno conturbante? La luna piena, simbolo del mondo ultraterreno, al quale è dedicato tutto questo grandioso omaggio, sorride dalla sua altezza. Il Buddha Vivente si stava avvicinando. Passava ora sotto la nostra finestra. Le donne, profondamente chine, non osavano respirare. La folla era irrigidita. Emozionati ci nascondemmo dietro di loro, volendo sottrarci a questo misterioso potere che con il suo fascino ci stava avvincendo. Non è che un bambino, mi dicevo e mi ripetevo. Un bambino che rappresenta la meta della fede di migliaia di persone, compendio delle loro preghiere, nostalgie e speranze. Che sia Lhasa o Roma, una sola cosa li unisce tutti: il desiderio di trovare Dio e di servirlo, al di sopra di tutto ciò che divide gli uomini. Chiusi gli occhi e ascoltai il mormorio delle preghiere, la musica solenne, l'incenso che in nuvole odorose saliva al cielo. Il Dalai Lama nel frattempo aveva finito il suo giro ed era di nuovo scomparso nel grande Tsug Lag Khang. I soldati al suono di una marcia si ritirarono ordinati. Come ridestata da un sonno ipnotico la folla in quel momento passò dall'ordine al caos. Il trapasso fu così rapido che era difficile capacitarsene. Urla, gesti selvaggi: si investivano e si calpestavano a vicenda. Quelli che prima pregavano e piangevano devotamente, estaticamente sprofondati, si erano mutati in ossessi. I monaci-soldati entrarono subito in azione. Costoro erano individui giganteschi, con spalle imbottite e facce annerite, affinché l'effetto pauroso fosse più efficace. All'impazzata facevano Heinrich Harrer
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mulinare i loro bastoni sulla folla. I santi di burro erano in pericolo! Come pazzi tutti volevano appressarsi alle piramidi. Ma nonostante la gragnuola di colpi, i battuti ritornavano, come se fossero posseduti da demoni. Erano gli stessi che poco prima umilmente si inchinavano davanti a un bambino? Adesso accettavano colpi e frustate come una benedizione. Fiaccole di pece fumosa cadevano sulle loro teste, urla di dolore, qui un volto bruciato, là i gemiti di un calpestato! Era tarda notte. Dopo questa esperienza non riuscivo a prendere sonno. Scena dopo scena mi scorreva davanti agli occhi un sogno impressionante. Il mattino dopo le strade erano vuote, le figure di burro erano state allontanate, non rimaneva alcuna traccia dell'umiltà e dell'estasi della notte precedente. Al posto delle gigantesche armature c'erano di nuovo chioschi e bancarelle. Le variopinte figure dei santi si erano sciolte: avrebbero alimentato le lampade a burro o sarebbero state conservate come medicina benedetta. Molta gente venne a farci visita. Attratti dalle festività di capodanno i tibetani si riversavano da ogni parte nella città, nomadi dagli altopiani e abitanti delle province occidentali. C'erano fra questi anche persone conosciute durante il nostro lungo viaggio. Non era difficile trovarci, perché eravamo ancora l'argomento principale della città, e perfino i bambini sapevano dove abitavamo. Alcuni ci portarono anche doni: carne essiccata, che nel Tibet è una specialità. In questa occasione apprendemmo anche che tutti i funzionari attraverso i cui distretti eravamo passati erano stati severamente censurati dal governo, alcuni addirittura condannati a pene pecuniarie. Fummo molto umiliati di aver causato simili dispiaceri a persone che ci avevano accolto amichevolmente. Ma sembrava che non ci serbassero rancore. Infatti incontrammo un bònpo che avevamo turlupinato con il nostro vecchio salvacondotto, ma egli ne rise e si rallegrò di rivederci. Tuttavia le feste di questo capodanno non dovevano passare senza incidenti. Al Barkhor era accaduta una disgrazia, e presto ogni altro tema di conversazione fu soppiantato: tre uomini erano morti. Ogni anno vengono eretti alti pennoni per le bandiere, consistenti di molti e pesanti tronchi d'albero legati insieme. Questi devono essere trasportati a Lhasa da grandi distanze, e, cosa incredibile, ciò viene fatto con la sola forza delle braccia, venti coolie per albero. Avviene in un modo Heinrich Harrer
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così primitivo che quando vi assistetti per la prima volta ne rimasi sconvolto e indignato. Mi ricordò i barcaioli del Volga. Circa venti uomini erano legati alla cintura da una corda e trascinavano un immenso tronco, cantando in coro le loro lente nenie e avanzando di pari passo. Ansanti e in un bagno di sudore non potevano soffermarsi per pigliare fiato, perché il capofila non lo permetteva. Questo lavoro massacrante rappresenta una parte delle loro tasse, un tributo da sistema feudale. Ogni villaggio che si trova sull'itinerario fornisce il cambio di uomini. Le monotone nenie che cantano mentre trascinano i loro tronchi servono a distrarli dalla fatica del loro lavoro. Io invece pensavo che avrebbero fatto meglio a conservare il fiato. La fatalistica rassegnazione con la quale si prestavano a questi lavori massacranti mi ha sempre fatto infuriare. Nato in un'epoca moderna, non potevo capire perché la gente del Tibet si opponesse così rigidamente a ogni forma di progresso. Doveva pur essere possibile fare simili trasporti in modo differente. A che scopo i cinesi avevano inventato migliaia di anni prima la ruota? Il traffico e il commercio, tutta la vita pubblica del Tibet avrebbe potuto prendere uno slancio inimmaginabile, il benessere sarebbe potuto aumentare. Ciò nonostante il governo non voleva la ruota. Più tardi, quando diressi costruzioni di argini fluviali, feci parecchi ritrovamenti, che mi dimostrarono che i tibetani molti secoli prima avevano conosciuto e usato la ruota. Scavammo inoltre centinaia di grossi blocchi di pietra che potevano essere stati trasportati là solo con mezzi tecnici dalle cave distanti molti chilometri. Se i miei operai dovevano trasportare un simile masso soltanto per pochi metri, lo spaccavano prima in otto parti. Mi convincevo sempre più che il Tibet aveva avuto un tempo il suo periodo di grande splendore. Ne faceva testimonianza un alto obelisco di pietra dell'anno 763 d.C. In quell'occasione gli eserciti tibetani si erano spinti fino alle porte della capitale imperiale, dove avevano dettato ai cinesi i termini della pace, che li obbligava a un tributo annuo di 50.000 rotoli di seta. E il Potala? Anche questo doveva risalire a tempi di splendore, seppure a un'epoca diversa. Nessuno oggi potrebbe pensare di costruire un palazzo simile. Chiesi una volta a uno scalpellino che lavorava alle mie dipendenze perché non si facessero più costruzioni simili. Indignato, mi rispose che il Heinrich Harrer
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Potala era opera degli dei, perché mani umane non avrebbero mai potuto edificare una tale meraviglia. Spiriti ed entità soprannaturali avevano creato quel portento in alcune notti. Quello che colpiva era la stessa indifferenza al progresso e all'ambizione che caratterizzava gli uomini costretti a trascinare i tronchi. Il Tibet dalla gloria militare e dalla potenza si era rivolto sempre più alla religione. Forse così era più felice... Torniamo ora alla storia di prima. Quando i tronchi pesanti sono stati trasportati a Lhasa, vengono legati con corregge di pelle di yak per formare un grosso pennone, alto venti metri. Vi si fissa quindi una bandiera, sulla quale sono impresse formule di preghiere. Contrariamente alle bandiere europee, la stoffa viene fermata, mediante chiodi, da terra fino in cima lungo il pennone. Probabilmente in questa occasione i tronchi erano troppo pesanti, e schiantarono le corregge mentre veniva drizzato il palo, uccidendo tre uomini e ferendone molti altri. Tutto il Tibet rimase sconvolto per questo triste presagio, e la gente profetizzò un nero futuro per il paese. Si immaginarono catastrofi naturali, terremoti e inondazioni. Si parlò di guerra con gli occhi paurosamente rivolti alla Cina. Ciascuno era vittima della superstizione, perfino i nobili di cultura inglese. Ciò nonostante i feriti furono portati non dai loro lama, bensì alla legazione britannica, dove c'era un ospedale con un certo numero di letti a disposizione dei tibetani. Il medico inglese aveva molto lavoro: ogni mattina c'era una coda di gente che aspettava davanti alla sua porta, e di pomeriggio faceva le sue visite in città. I monaci tolleravano in silenzio questa ingerenza nella loro sfera d'azione, perché i successi del medico non potevano essere ignorati. La politica del governo riguardo alla medicina rappresenta un capitolo oscuro nella storia del moderno Tibet. Il dottore della legazione britannica e quello della cinese erano gli unici medici qualificati per una popolazione di circa tre milioni e mezzo di abitanti. I dottori troverebbero qui un vasto campo di lavoro, ma il governo non consentirebbe mai agli stranieri di esercitare nel Tibet la loro professione. Tutto il potere è concentrato nelle mani dei monaci, e questi criticano aspramente anche i funzionari che si rivolgono al medico inglese.
I nostri primi incarichi ufficiali Heinrich Harrer
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Fu un gran giorno che lasciava bene sperare per il nostro avvenire quello in cui Aufschnaiter fu invitato ad andare da un alto funzionario-monaco, che lo incaricò della costruzione di un canale di irrigazione. Eravamo felici. Il primo passo per un'esistenza sicura a Lhasa era fatto, ed erano stati i monaci a spianarci la via! Aufschnaiter iniziò subito i lavori di misurazione. Lo volli aiutare, dato che non aveva a disposizione personale qualificato. Me ne andai perciò al suo posto di lavoro presso il Lingkhor. Mi attendeva una scena indescrivibile, unica al mondo. Centinaia, anzi migliaia di monaci nelle loro tonache rosse stavano accoccolati dedicandosi a un'occupazione per la quale noi cerchiamo di solito un posto isolato e solitario. Non potevo certo invidiare ad Aufschnaiter il suo posto di lavoro. Senza guardare né a sinistra né a destra iniziammo il lavoro in gran fretta, per abbandonare al più presto quel luogo. Aufschnaiter procedeva bene, e già dopo quattordici giorni fu in grado di incominciare lo scavo. Gli vennero assegnati centocinquanta operai, e noi cominciammo a sentirci dei grandi imprenditori. Ma non avevamo ancora alcuna idea dei metodi di lavoro di questo paese. Nel frattempo mi ero cercato anch'io un'occupazione. Il giardino di Tsarong era ancora il posto più adatto per un malato, e studiavo di trovare un modo per contribuire al suo abbellimento. Poi mi venne l'idea buona: installarvi una fontana. Dopo aver preso le misure e fatto i disegni, preparai un bel progetto. Tsarong ne rimase entusiasta. Egli stesso scelse i servi che mi dovevano aiutare, mentre io, seduto comodamente al sole, dirigevo i lavori. Ben presto fu pronta la canalizzazione sotterranea e scavata una vasca. Tsarong stesso non volle rinunciare a prendere parte alla cementazione, tanto più che da quando aveva diretto la costruzione del grande ponte di ferro era diventato un esperto di lavori in calcestruzzo. Sul tetto della sua casa fu posta una cisterna, destinata ad alimentare la fontana. Pompare l'acqua per riempire il serbatoio si dimostrò purtroppo abbastanza faticoso. Ma facendo di necessità virtù, la pompa a mano servì ad allenare i miei muscoli. Finalmente ecco il grande momento: per la prima volta la fontana lanciò verso il cielo il suo alto zampillo, con grande gioia di tutta la casa. La fontana, l'unica nel Tibet, divenne da allora in poi la grande attrazione dei Heinrich Harrer
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famosi ricevimenti in giardino organizzati da Tsarong. Le molte idee e l'inconsueta attività ci avevano quasi fatto dimenticare le nostre preoccupazioni. Un giorno Thangme ci portò un giornale pubblicato in lingua tibetana, per mostrarci un articolo che parlava di noi. Ci precipitammo sul foglio con immensa curiosità. In modo molto simpatico vi si narrava come eravamo riusciti a spingerci attraverso le montagne fino a Lhasa, e perché adesso chiedevamo asilo e protezione al pio e neutrale Tibet. Righe così amichevoli non potevano che esercitare un effetto favorevole sull'opinione pubblica, e noi speravamo che ne sarebbe risultato un appoggio alla nostra richiesta. Il giornale sarebbe stato un foglietto senza importanza in Europa: usciva una volta al mese a Kalimpong, in India, con una tiratura di circa cinquecento copie, e l'editore faceva fatica a venderle tutte. Tuttavia a Lhasa era abbastanza diffuso, proprio in quei circoli che soprattutto ci interessavano, e alcuni esemplari giungevano addirittura ai tibetologi di tutto il mondo.
Feste sportive alle porte di Lhasa Le festività di capodanno non erano ancora terminate, anche se le grandi cerimonie erano ormai finite. A quel punto però incominciavano le feste sportive al Barkhor, di fronte al Tsug Lag Khang. A me, vecchio sportivo, tutto ciò interessava in modo particolare. Ogni giorno mi recavo ai giochi all'alba, perché le gare avevano inizio nelle prime ore del mattino. Con molta abilità ci eravamo conquistati un posto a una finestra al secondo piano della legazione cinese, da dove potevamo assistere ai giochi nascosti dietro una tenda. Soltanto così si poteva eludere il divieto di sedere, in presenza del reggente, più in alto del pianterreno. Il reggente troneggiava dietro una tenda di mussolina all'ultimo piano del Tsug Lag Khang, mentre i quattro ministri di gabinetto erano affacciati alle finestre. Per prime si tennero le gare di lotta. Non posso giudicare se si trattasse di lotta greco-romana o lotta libera. Vigevano comunque regole particolari. Per vincere un incontro basta che il lottatore avversario tocchi il terreno con una qualunque parte del corpo che non siano i piedi. Non esistono né una programmazione né incontri preliminari. Un tappeto di feltro viene steso in terra e dalle molte migliaia di spettatori si presentano coloro che hanno intenzione di prendere parte alla gara. I combattenti indossano Heinrich Harrer
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soltanto un minuscolo perizoma e tremano di freddo. Sono uomini muscolosi e ben piantati. Muovono selvaggiamente le braccia davanti al naso dell'avversario per infondergli paura e ostentare la loro forza. Della lotta però non hanno la minima idea: un professionista di questo sport li sconfiggerebbe facilmente. Gli incontri sono brevi e le coppie si succedono con rapidità. Non si osserva mai un vero impegno per conseguire la vittoria. Non esiste alcun premio particolare per il vincitore. Entrambi, vincitore e vinto, ricevono una sciarpa bianca. Si inchinano davanti al bònpo che si degna di consegnargliela, si gettano tre volte a terra per fare omaggio al reggente e se ne vanno via insieme, amici come prima. Poi ci fu la gara di sollevamento pesi. I concorrenti devono sollevare una pietra pesante e liscia, che deve aver già visto centinaia di capodanni. Dopo averla sollevata devono girare con essa intorno all'albero delle bandierine. Pochi sono quelli che ci riescono. Frequenti risuonano le risa se uno ha sopravvalutato le proprie forze. Poi, all'improvviso, si sente un lontano galoppo di cavalli. Il sollevamento della pietra cessa all'istante. Incomincia la corsa dei cavalli. Gli animali arrivano avvolti da una pesante nuvola di polvere. Non esiste un percorso segnato. Soldati-monaci con colpi di bastone ricacciano la folla che imprudente e curiosa ingombra la strada. Ma all'ultimo momento sono gli stessi cavalli galoppanti che tengono lontana la gente. Queste corse, come molti degli altri eventi, sono difficili da comprendere. I cavalli, che sono senza cavaliere, in massa vengono lasciati liberi alcuni chilometri prima della città e si precipitano tra due ali di spettatori verso la meta. Possono correre soltanto cavalli allevati nel Tibet, e ognuno porta il nome del suo proprietario segnato sopra un panno messogli sulla groppa. È in gioco l'onore della scuderia. Naturalmente, se partecipa anche un cavallo del Dalai Lama o di qualche ministro, è chiaro che questo deve essere il vincitore. Se a qualche outsider dovesse venire in mente di essere più veloce di uno dei cavalli del governo, prima del traguardo sarebbe bloccato da alcuni servi. La folla eccitata grida, si agita e segue con spasmodica attenzione la corsa, mentre i nobili, quasi tutti proprietari di uno dei cavalli, mantengono il loro contegno dignitoso. Non si è ancora dissipata la nuvola di polvere sollevata dai cavalli, che già arrivano i primi concorrenti della corsa a piedi. Anche a questa gara può prendere parte chiunque, dai vecchi ai bambini. Corrono scalzi, con i piedi sanguinanti e pieni di vesciche: le facce tirate e l'affanno dimostrano Heinrich Harrer
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che non si sono mai allenati. Molto prima di giungere al traguardo, lungo il percorso di otto chilometri, numerosi corridori si ritirano: le loro sofferenze suscitano al massimo le beffe degli spettatori. Appena scomparsi gli ultimi concorrenti, ecco il nuovo numero del programma. Questa volta i cavalli che giungono galoppando sono montati e vengono salutati da grida di giubilo. I cavalieri portano costumi storici e frustano vigorosamente gli animali perché si prodighino al massimo. Gli spettatori inquieti rumoreggiano e gesticolano. All'improvviso un cavallo si adombra e un cavaliere vola in mezzo alla folla, che però non appare affatto turbata da simili inezie. Questa prova segna la fine delle gare al Barkhor. Tutti i vincitori si presentano con in mano una tavoletta di legno, sulla quale è segnato il numero del loro arrivo al traguardo. I giudici di campo assegnano, quale premio, sciarpe bianche e colorate, ma la folla non applaude: questa usanza è sconosciuta. Chiuse le gare al Barkhor, i giochi equestri si svolgono poi sopra un vasto prato fuori della città. Di nuovo ci mischiammo alla calca di quella folla immensa, e ben contenti accettammo l'invito di un nobile di recarci nella sua tenda. Queste tende, allineate secondo il rango dei loro possessori, sono fatte di preziose stoffe di seta e di broccato, tutte ornate di lussuose gale. Se si aggiungono a queste le ricche vesti degli uomini e delle donne si ottiene una vera sinfonia di colori. I funzionari civili, dal quarto rango in su, portano abbigliamenti di luminosa seta gialla, completati da grandi cappelli a forma di piatto, orlati di volpe azzurra. (Queste volpi azzurre sono importate da Amburgo! I tibetani non apprezzano quelle del loro paese.) Non solo le donne, ma anche gli uomini fanno a gara ad apparire vestiti con il massimo lusso possibile. Il loro asiatico gusto per lo sfarzo li ha messi in contatto con molte parti del mondo. Le volpi azzurre vengono da Amburgo, le perle coltivate dal Giappone, le turchesi via Bombay dalla Persia, i coralli dall'Italia e l'ambra da Berlino e Kònigsberg. Io stesso ho scritto, in seguito, non poche lettere in tutte le parti del mondo, quando qualche nobile voleva procurarsi una cosa o l'altra. La pompa e lo sfarzo sono in questi ambienti un bisogno. Il popolo invece non conosce lusso alcuno, ma si rallegra di vedere i propri padroni coperti di gioielli e di stoffe rare, e tanto più ne esalta la potenza. Le grandi feste sono soprattutto un'esibizione del potere e del fasto, e gli alti dignitari sanno ciò che devono al popolo. Quando poi, l'ultimo giorno Heinrich Harrer
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della festività, i quattro ministri di gabinetto scambiano i loro preziosi copricapo con i capelli orlati di rosso dei loro servi, per dimostrare così, per un istante, la loro uguaglianza con il popolo, gli alti clamori, il giubilo e l'ammirazione non hanno limiti. Ma torniamo ai giochi equestri. È la manifestazione più popolare, nella quale rivive la tradizione delle antiche grandi parate militari. Allora i signori feudali erano obbligati a presentare in determinate occasioni al sovrano le loro truppe, per dimostrarne il costante grado di efficienza in caso di guerra. Tutto ciò non esiste più, ma molti particolari di questi giochi ricordano ancora il periodo guerresco sotto l'influsso dei mongoli, delle cui abilità equestri si raccontano anche oggi mirabilia. Avemmo occasione di ammirare alcune incredibili prove di abilità da parte dei cavalieri tibetani. Ogni famiglia aristocratica sceglie, per competere in questi giochi, i suoi migliori rappresentanti, affinché trionfino possibilmente i propri colori. Le prove sono costituite da gare equestri e dal tiro a segno. Il mio stupore fu immenso quando li vidi all'opera. Quasi in piedi sulla sella, mentre il loro cavallo passa galoppando davanti a un bersaglio appeso, i cavalieri agitano il loro fucile ad avancarica con la miccia accesa sopra il capo e tirano ad angolo retto sul bersaglio. Subito scambiano il fucile con arco e frecce - a meno di venti metri dal prossimo obiettivo da colpire -, e già la folla si entusiasma con alte grida perché il bersaglio è stato centrato. È inverosimile con quanta abilità i tibetani maneggino le armi e con quanta rapidità ne avvenga la sostituzione. In queste feste il governo tibetano mostra di nuovo la sua esemplare ospitalità, anche rispetto agli stranieri. Per tutte le rappresentanze estere sono piantate magnifiche tende d'onore. Servi e ufficiali di collegamento si preoccupano dei desideri degli ospiti. Vidi in questa occasione soprattutto un gran numero di cinesi. Risaltano subito, anche se appartengono alla stessa razza dei tibetani, che non hanno gli occhi così spiccatamente a mandorla; i loro lineamenti sono più raffinati e le loro guance sono tendenti al rossiccio. I ricchi costumi del passato hanno in molti casi ceduto il passo ai vestiti europei, e molti cinesi, a questo riguardo non tanto conservatori come i tibetani, portano occhiali. Sono perlopiù commercianti che vivono a Lhasa e possono mantenere con la loro patria vantaggiose relazioni d'affari. I cinesi vivono qui volentieri, e vi si trasferiscono spesso stabilmente. Ciò ha un motivo particolare: la Heinrich Harrer
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maggior parte di loro sono accaniti fumatori di oppio, e nel Tibet, dove il fumare di per sé è malvisto, non esiste un esplicito divieto di fumare oppio. Talvolta anche qualche tibetano, sedotto dall'esempio dei cinesi, si abbandona al piacere dell'oppio. Anche in questo caso però si afferma il potere autoritario del governo: non c'è alcun pericolo che l'oppio diventi un vizio nazionale. La vigilanza delle autorità è troppo stretta. Esse considerano un vizio anche il fumo del tabacco e lo sorvegliano attentamente, e anche se a Lhasa si trovano tutte le qualità di sigarette del mondo, negli uffici, in strada, nelle cerimonie il fumo è severamente proibito. Quando i monaci tengono il potere durante il periodo di capodanno la vendita di sigarette è addirittura proibita. Questo è il motivo per il quale tutti i tibetani annusano tabacco. Popolo e monaci si servono di misture preparate da loro stessi, come stimolanti. Ognuno è orgoglioso della propria miscela, e se due tibetani si incontrano, come prima cosa si scambiano una presa di tabacco. E questa è anche un'occasione propizia per mostrare l'eleganza delle tabacchiere: se ne possono ammirare di tutte le fatture, dall'economico corno di yak alla preziosa bottiglietta di giada montata in oro. Con voluttà si cospargono l'unghia del pollice di tabacco e poi, veri specialisti in materia, la aspirano facendo uscire dalla bocca vere nuvole di polvere, senza fare neppure un solo starnuto. Se qualcuno starnutiva violentemente, come capitava spesso a me, suscitava l'ilarità di tutti i presenti. A Lhasa ci sono anche molti nepalesi. Riccamente vestiti e corpulenti, ostentano anche da lontano il loro benessere. In virtù di un vecchio trattato costoro sono esenti da tasse (è la conseguenza di una guerra perduta dal Tibet), e hanno la stoffa per avvantaggiarsi ampiamente di questo privilegio. Proprietari dei più bei negozi del Barkhor, sono commercianti raffinati, con un sesto senso per i buoni affari. Le loro famiglie rimangono quasi sempre nel Nepal, dove anche loro ritornano di tanto in tanto. In questo differiscono dai cinesi, che sposano volentieri donne tibetane, conducendo una vita coniugale esemplare. Nelle feste ufficiali la rappresentanza diplomatica nepalese forma una macchia di colore di particolare risalto. Le loro vesti superano perfino la generale magnificenza dei colori degli abiti tibetani, e le divise rosse dei soldati gurkha, le loro guardie del corpo, si notano anche da lontano. Questi gurkha si sono conquistati una certa reputazione a Lhasa. Sono gli unici che osano contravvenire al divieto di pesca. Quando il governo Heinrich Harrer
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tibetano viene a conoscenza di qualche infrazione, fa pervenire alla legazione nepalese una solenne protesta. Ciò dà inizio a una piccola commedia. I contravventori devono naturalmente subire una punizione, giacché la legazione ci tiene molto ai buoni rapporti con il governo. Ma quasi sempre non sono immuni da colpe neppure gli stessi alti funzionari: anche molti nobili di Lhasa non disdegnano un piatto di pesce. Dopo una formidabile lavata di capo i poveri colpevoli vengono condannati alla fustigazione. Ma la pena non fa male a nessuno. A Lhasa nessuno oserebbe andare a pescare. Nell'intero Tibet c'è un solo luogo dove si può pescare. È situato presso lo Tsangpo, in mezzo a un deserto sabbioso. Il grano non vi attecchisce, e l'assoluta mancanza di pascoli impedisce l'allevamento del bestiame. L'unica risorsa è quindi la pesca, e per questo motivo la legge ha concesso una deroga. Gli abitanti di questo villaggio sono comunque considerati esseri inferiori, esattamente come i macellai e i fabbri. Anche i musulmani costituiscono per il loro numero una parte importante della popolazione di Lhasa. Posseggono una propria moschea e godono di piena libertà religiosa. È questa una delle più belle caratteristiche del popolo tibetano, in quanto, malgrado la teocrazia dei monaci, nessuno ha mai tentato di convertire gli infedeli, e la tolleranza religiosa ha sempre regnato sovrana. I musulmani sono perlopiù immigrati dall'India, e si sono qui completamente assimilati con i tibetani. In osservanza al loro zelo religioso essi hanno preteso dapprima che le loro mogli tibetane abbracciassero l'islamismo, ma il governo a quel punto è intervenuto nella questione, permettendo alle tibetane le nozze con un musulmano solo alla condizione di non abiurare. Donne e fanciulle di questi matrimoni misti portano ancora i loro costumi tibetani con i bei grembiuli a strisce variopinte, mentre usano il velo dell'Islam solo simbolicamente, come copricapo. Gli uomini spiccano per i loro fez e turbanti. Anch'essi sono per la maggior parte commercianti e mantengono buone relazioni con l'India, soprattutto con il Kashmir. La festa equestre è un'ottima occasione per contemplare i differenti gruppi etnici che formano la popolazione di Lhasa. Vi si possono incontrare anche lhadaki, bhutanesi, mongoli, sikkimesi, kazaki e via dicendo. Vanno segnalati in modo particolare gli hui-hui, maomettani cinesi della provincia di Kuku-Nor, ai quali appartengono i macelli che si trovano in un quartiere eccentrico al di là del Lingkhor. I buddhisti non li Heinrich Harrer
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vedono di buon occhio, perché uccidono gli animali, ma anche a loro è concesso avere un proprio tempio. Benché tanto differente per razza, religione e costumi, la popolazione di Lhasa partecipa in perfetta armonia alle festività di capodanno. Perfino le tende dei due grandi rivali, gli inglesi e i cinesi, che si disputano il favore del Tibet, sono fraternamente vicine. I giochi equestri e le gare di tiro sono conclusi da una gara fra nobili. Viene teso una specie di schermo colorato, sul quale vengono appesi anelli di pelle concentrici, con in mezzo dischi neri di circa quindici centimetri di diametro. A una distanza di trenta metri il tiratore prende posizione e scaglia con l'arco una freccia sul bersaglio. Durante la traiettoria queste frecce emettono uno strano sibilo che si sente anche da lontano. Ebbi occasione di esaminarne una: anziché di una punta, la freccia è munita di un bottone di legno bucherellato, e l'aria che durante il volo passa attraverso i buchi produce quelle strane modulazioni. Con questa arma i tiratori in gara colpivano con tanta sicurezza che ogni freccia centrava il dischetto interno. Anche i nobili ricevevano in premio una sciarpa bianca. Terminata la festa, i nobili e i notabili tornano in città in magnifici cortei, fra ali di persone che senza invidia ammirano lo sfarzo dei semidei. Tutti sono soddisfatti: occhi e orecchie hanno avuto il loro godimento, e il cuore dei credenti gioisce ancora a lungo del misticismo delle grandi cerimonie e dell'apparizione del dio-re. La vita riprende quindi il suo corso normale: i negozianti riaprono le loro botteghe e ricominciano il loro mercanteggiare con l'abituale sete di guadagno. I giocatori di dadi riappaiono agli angoli delle strade, e i cani, che durante il «periodo della pulizia» si erano trasferiti al di fuori del Lingkhor, ritornano in città. Per quanto ci riguardava, io e Aufschnaiter sembravamo dimenticati. L'estate si avvicinava, la mia sciatica migliorava, della nostra espulsione nessuno parlava. Ero sempre in cura dal medico inglese, ma nelle belle giornate potevo ormai lavorare in giardino. E gli incarichi non mancavano. Si era sparsa la voce che erano opera mia i miglioramenti apportati al giardino di Tsarong e la costruzione della fontana. E tutti i nobili, uno dopo l'altro, volevano avere qualcosa di simile. I tibetani amano i loro giardini. Su ogni pezzetto di terra vengono coltivati fiori, e spesso si trovano collocati in strani recipienti: in vecchie brocche, in scatole di conserva, in bicchieri e tazze rotte. In ogni casa, in ogni stanza i fiori sono l'ornamento preferito. Heinrich Harrer
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Aufschnaiter era molto occupato: sovrintendeva alla costruzione del suo canale, il primo del Tibet scavato secondo le regole tecniche. Dalle prime luci dell'alba fino a sera stava al suo posto di lavoro, facendo un po' di pausa soltanto nei giorni delle feste solenni. Si poteva ritenere una circostanza fortunata il fatto che suoi committenti fossero i monaci. Perché se anche la nobiltà civile ha grande autorità nell'amministrazione del paese, la decisione finale, in tutte le questioni, spetta a una ristretta cerchia di monaci.
L'ordine degli tsedrung Fui perciò molto contento quando, un giorno, gli tsedrung mi mandarono a chiamare. Gli tsedrung sono monaci-funzionari che costituiscono una specie di ordine. Poiché vengono severamente educati allo spirito di solidarietà, il loro potere è molto superiore a quello delle autorità civili. Tutti i domestici del Dalai Lama appartengono a questo ordine. I camerlenghi, i suoi maestri e le persone addette alla sua custodia sono alti tsedrung. Il Dalai Lama prende inoltre parte alle loro riunioni quotidiane obbligatorie, che servono a curare lo spirito di solidarietà. Tutti i monaci di tale ordine sono stati severamente educati. La loro scuola si trova nell'ala orientale del Potala, e i maestri provengono per tradizione dal celebre monastero di Mindroling, a sud dello Tsangpo, noto per gli studi dei testi tibetani e della grammatica. Ogni giovane tibetano può andare a scuola dagli tsedrung, ma l'ammissione nell'ordine è molto difficile. Esiste una prescrizione secolare che ne limita il numero dei membri: non ci possono mai essere più di 175 tsedrung. Questo numero limitato era osservato anche per i funzionari civili, sicché in totale c'erano nel Tibet sempre solo 350 pubblici ufficiali. Con l'introduzione di alcuni nuovi dicasteri tale numero fu aumentato negli ultimi tempi. Quando il giovane scolaro-monaco raggiunge il diciottesimo anno di età, dopo aver superato l'esame, e naturalmente con un po' di protezione, può diventare uno tsedrung. Allo stesso tempo gli viene assegnato il rango più basso e può, secondo le sue capacità, salire fino al terzo. Gli tsedrung portano l'usuale tonaca rossa, con sopra il segno del loro rango. I giovani Heinrich Harrer
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scolari tsedrung provengono perlopiù dal popolo, e costituiscono un sano contrappeso alla nobiltà ereditaria. Il loro campo di attività è molto vasto, giacché non vi è carica governativa che non abbia due titolari: un laico e un monaco. Questo comune esercizio dell'autorità è considerato un'assicurazione contro un'eventuale dittatura del singolo, il pericolo che incombe sempre in un sistema feudale. Era il primo ciambellano del dio-re, dal titolo altisonante di Drònyer Chemo, che mi aveva mandato a chiamare. Mi propose di riordinare il giardino degli tsedrung. Era per me un'occasione assai propizia. Mi fece infatti capire che anche nel giardino del Dalai Lama erano necessarie innovazioni, e se fossero stati soddisfatti del mio lavoro avrei potuto trovare un impiego. Accettai subito. Mi furono messi a disposizione molti operai, e con tutto lo zelo possibile mi misi all'opera. Non mi rimase quasi più tempo per dare le lezioni di inglese e di matematica che impartivo ad alcuni giovani nobili. Quali potevano ancora essere i nostri timori? Ci venivano affidati incarichi dalle più alte gerarchie dei monaci-funzionari. Non era questo un segno che si erano ormai abituati alla nostra presenza e che la si tollerava? Ma ancora una volta fummo subito disingannati. Un giorno venne a farci visita un alto funzionario del ministero degli Esteri, Kyibub, l'ultimo dei quattro tibetani che molti anni prima aveva studiato a Rugby. Il suo incarico gli era visibilmente penoso. Con molte scuse e grande rammarico ci comunicò che il medico inglese mi aveva dichiarato in grado di partire e che pertanto il governo attendeva la nostra immediata partenza. Quale prova mi mostrò una lettera del medico inglese. Vi si leggeva che, anche se non ero perfettamente guarito, il viaggio non rappresentava più un pericolo per la mia vita. Per Aufschnaiter e per me fu come una mazzata in testa. Tuttavia riprendendoci cercammo cortesi e rassegnati di fare intendere i nostri argomenti: la mia malattia sarebbe potuta peggiorare alla prima occasione, anche per un minimo sforzo. E che cosa sarebbe avvenuto di me, se durante un viaggio tanto faticoso all'improvviso non fossi più stato in grado di muovere un passo? Oltretutto in India cominciava ora il periodo del grande caldo. Nessuno che avesse vissuto per tanto tempo nel sano clima di Lhasa avrebbe potuto sopportare senza danno un simile mutamento. E cosa ne sarebbe stato dei nostri lavori? Li avevamo iniziati per incarico delle più alte sfere e volevamo terminarli a qualunque costo. Heinrich Harrer
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Avremmo indirizzato al governo una nuova petizione. Nel nostro intimo però ci eravamo rassegnati a dover partire quanto prima per l'India, dove i nostri compagni stavano ancora dietro il filo spinato, benché si fosse ormai nell'aprile del 1946. Ma da quel giorno nessuno parlò più di un ordine di espulsione, per quanto aspettassimo di riceverlo da un momento all'altro. A Lhasa non eravamo più considerati stranieri. In strada non suscitavamo più commenti o stupore, i bambini non ci segnavano più a dito e le visite che ricevevamo non erano motivate dalla curiosità, bensì da sentimenti amichevoli. Anche la legazione britannica sembrava convinta della nostra innocuità, perché, anche se Delhi aveva chiesto la nostra estradizione, ciò era evidentemente avvenuto senza darvi un particolare rilievo. E le sfere ufficiali del Tibet ci assicuravano che eravamo benvisti. Ci eravamo ormai abituati a questo stile di vita. Guadagnavamo ora abbastanza da non dipendere interamente dall'ospitalità di Tsarong. Il nostro lavoro ci dava molta gioia e il tempo passava in un baleno. L'unico punto nero era la mancanza di lettere da casa. Non avevamo ricevuto più notizie da due anni: sicuramente ci ritenevano morti. D'altronde ci consolavamo considerando che la nostra situazione era più che tollerabile e che avevamo buoni motivi di essere soddisfatti: un tetto sulla testa e nessuna preoccupazione materiale. Non ci mancavano gli ultimi ritrovati tecnologici europei: la frenesia occidentale era davvero molto lontana. E spesso scuotevamo il capo sentendo alla radio le ultime notizie. Non ci incoraggiavano certo a ritornare in patria. Molta distrazione nella nostra vita ci procuravano i frequenti inviti delle famiglie nobili. Era sempre ragione di stupore per noi l'ospitalità e la scelta dei cibi prelibati che in tali occasioni venivano offerti.
L'ultimo nato della Grande Madre Tutti i ricevimenti ai quali finora avevamo assistito furono eclissati dalla prima riunione ufficiale cui presi parte nella casa paterna del Dalai Lama. Ci capitai veramente per caso. Stavo lavorando nel giardino, perché anche qui mi era stato dato l'incarico di fare qualche innovazione, quando la Grande Madre mi fece chiamare, per invitarmi ad abbandonare il lavoro e a unirmi ai suoi ospiti. Un poco turbato contemplai la brillante società Heinrich Harrer
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riunita nel salone: circa trenta nobili, abbigliati delle loro vesti migliori. Appresi la ragione del ricevimento: si festeggiava la nascita di un nuovo erede, venuto al mondo tre giorni prima. Imbarazzato borbottai i miei auguri, offrendo una sciarpa bianca che in fretta mi ero fatto prestare. Ma la Grande Madre sorrise benevola. Di nuovo dovetti ammirarla: come se nulla fosse successo, muovendosi di qua e di là si intratteneva vivacemente con i suoi ospiti. È sbalorditivo con quale rapidità nel Tibet le donne si rimettano dopo ogni parto. Non vi si dà proprio una grande importanza. Non esistono medici, e le donne si aiutano a vicenda. Ogni donna è orgogliosa di avere una prole numerosa, allatta sempre da sola e con una costanza encomiabile: non è raro che bambini di tre o quattro anni si attacchino ancora al seno. Le donne dei nomadi e dei mendicanti, mentre lavorano, portano il neonato nella tasca interna della loro pelliccia di pecora, e se il bambino ha fame si procura da solo il nutrimento. Poveri o ricchi, tutti nel Tibet adorano i bambini e li vezzeggiano molto. Ma purtroppo le malattie veneree esigono un tributo quasi da ogni famiglia e perciò, specialmente nelle città, la mortalità infantile è molto alta. Quando in una famiglia nobile nasce un bambino, gli viene assegnata subito una domestica particolare, che non deve abbandonarlo né di giorno, né di notte. La nascita di un bambino viene sempre festeggiata in modo grandioso, ma non c'è niente che assomigli al nostro battesimo, e non esistono padrini. Il nome (o meglio i nomi, dato che ogni bambino ne riceve parecchi) viene scelto da un lama dopo aver fatto l'oroscopo e averlo collegato con i nomi dei santi. Ma se il bambino supera una grave malattia è buona norma cambiargli il nome. Quando un giorno feci visita a un amico adulto, appena guarito da una grave dissenteria, rimasi stupito di scoprire che gli era stato dato un altro nome. La festa in onore dell'ultimo fratello del Dalai Lama assunse un aspetto assai allegro e veramente luculliano. Sedevamo sopra cuscini intorno a piccoli tavoli, ciascuno secondo il suo rango e il rispetto che gli era dovuto. Per due ore si susseguirono sempre nuove portate: arrivai a contarne quaranta, poi smisi Ci voleva un vero allenamento per poter fare onore a tutte le leccornie fino all'ultima. I camerieri mettono i piatti uno dopo l'altro sul tavolino, servono e sparecchiano silenziosi. I cibi locali carne di pecora e di yak, pollo e riso - si alternano con squisitezze di tutte le parti del mondo. Quando poi alla fine giunge l'inevitabile zuppa di pasta non si è più capaci di mandarla giù. Benché tutti siano stanchi per la fatica Heinrich Harrer
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del mangiare, alcuni ospiti vogliono giocare, così il tempo trascorre in un lampo. Di nuovo vengono serviti altri piatti, se possibile anche più ricchi dei precedenti, e di nuovo si è occupati per ore a muovere le mascelle. Poi si beve in grandi quantità chang, perché i cibi molto piccanti fanno venire sete. Chi trova la birra troppo leggera riceve whisky o porto. L'atmosfera si riscalda e l'anfitrione si rallegra se i suoi ospiti si lasciano andare. Ubriacarsi non è una vergogna: lo si ritiene un coefficiente del buonumore generale. La festa si interruppe subito dopo il banchetto. Servitori e cavalli erano pronti a riaccompagnare a casa gli invitati: il massimo dell'ospitalità. Ci congedammo con molti ringraziamenti, e ciascuno ricevette una sciarpa bianca. Da tutte le parti fioccavano gli inviti, e ci voleva un orecchio ben allenato per distinguere gli inviti sinceri da quelli formali.
L'amicizia con Lobsang Samten Aufschnaiter e io fummo spesso ospiti di questa casa, e con Lobsang Samten strinsi ben presto una sincera amicizia. Era un giovane molto simpatico, all'inizio della sua carriera di monaco-funzionario. Lo attendeva un avvenire brillante, soprattutto per la sua posizione di fratello del Dalai Lama. Un giorno avrebbe goduto di grande autorità come intermediario tra suo fratello e il governo. Ma il peso di tale onore gettava già la sua ombra: non poteva scegliere liberamente le sue relazioni, da ogni passo che muoveva si traevano illazioni. Se in un'occasione ufficiale andava in casa di un alto funzionario, un silenzio rispettoso avvolgeva al suo apparire tutte le persone, e ognuno, compresi i ministri di gabinetto e il governatore, si levava in piedi per fargli omaggio quale fratello del dio-re. Tutto questo ossequio avrebbe facilmente potuto far montare la testa a un giovane, ma Lobsang Samten conservò il suo carattere modesto. Spesso mi parlava del suo giovane fratello, che viveva una vita solitaria all'interno del Potala. Spesso avevo notato che nei ricevimenti tutti gli ospiti si nascondevano allorché appariva l'esile figura del Dalai Lama che passeggiava sul tetto del Potala. Lobsang me ne diede una commovente spiegazione. Il giovane dio-re possedeva una serie di ottimi binocoli, ricevuti in dono, e spesso si svagava osservando dal tetto la vita e il movimento dei suoi sudditi. Perché il Potala era per lui una prigione Heinrich Harrer
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dorata. Molte ore delle sua giornata le passava studiando e pregando in quei tetri ambienti. Ore libere e passatempi erano strettamente limitati. Perciò, se le persone convenute a una festa allegra si sentivano osservate, scomparivano con la maggior fretta possibile dalla sua visuale, non volendo rattristare il cuore del giovane sovrano, condannato a non conoscere simili distrazioni! Lobsang Samten era il suo unico amico e confidente e aveva sempre libero accesso alle sue stanze. Già ora egli fungeva da intermediario fra il mondo esterno e il dio-re, dovendo riferire al fratello tutto ciò che accadeva al di fuori del palazzo. Così appresi che il Dalai Lama si interessava molto della nostra attività e che con il suo binocolo aveva spesso seguito i miei lavori di giardinaggio. Lobsang mi raccontò anche che il fratello si rallegrava molto del suo prossimo trasferimento nella residenza estiva del Norbulingka. La buona stagione gli rendeva ancora più pesante la permanenza nel Potala, ed egli desiderava ardentemente potersi muovere liberamente all'aperto. La stagione delle tempeste di sabbia era ormai finita, e i peschi erano in fiore. Sulle vicine cime l'ultima neve rimasta risplendeva abbagliante alla calda luce del sole, formando quel peculiare incanto proprio della primavera che avevo già visto nello scenario montano delle nostre case lontane. Un giorno fu ufficialmente dichiarato l'inizio della stagione estiva, segnato anche dal passaggio all'abbigliamento leggero. Nessuno aveva il diritto di togliersi le pellicce quando voleva. Ogni anno, dopo aver considerato tutti i presagi, veniva fissato un giorno a partire dal quale i nobili e i monaci potessero indossare i loro vestiti estivi. Avrebbe anche potuto fare un caldo insopportabile, o un freddo intollerabile. Non importava. Gli abiti estivi dovevano essere indossati solo a partire da quel giorno. La stessa cosa si ripeteva in autunno, quando venivano tirati nuovamente fuori i vestiti invernali. Continuavo a sentire gente che si lamentava che il cambio fosse avvenuto troppo presto o troppo tardi, persone che si sentivano soffocare e altre che morivano di freddo. Il cambiamento di stagione è accompagnato da una cerimonia che dura per ore. I servitori portano sulle spalle in un fagotto i nuovi abbigliamenti. Tra i monaci le cose procedono con maggiore semplicità: essi scambiano soltanto il cappello orlato di pelliccia che portano nelle cerimonie religiose con un copricapo di cartone a forma di piatto. L'aspetto della città muta di colpo, quando tutti compaiono vestiti in modo differente. Heinrich Harrer
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C'era comunque un'altra occasione per un cambio di vestiti, e cioè quando tutti i funzionari con una processione solenne e spettacolare accompagnavano il Dalai Lama nel giardino estivo. Aufschnaiter e io attendevamo con gioia e ansia questa processione. Non si sarebbe presentata in quell'occasione la possibilità di vedere da vicino il Buddha Vivente?
La processione al Norbulingka Il sole sfolgorava, il tempo era magnifico, e tutta la città si incamminava attraverso la porta occidentale dei chòrten, per formare due ali lungo il percorso di tre chilometri fra il Potala e il Norbulingka. Ci voleva davvero molta abilità per assicurarsi un buon posto in quella calca pericolosa. Chi aveva gambe per camminare si era messo in moto, da vicino e da lontano. Già questo costituiva un variopinto spettacolo, e una volta di più mi rammaricai di non possedere una macchina da presa. Ma il film sarebbe dovuto essere a colori, per fissare questo movimentato quadro di tutte le tinte. Era un giorno di festa per giovani e vecchi, la festa dell'inizio dell'estate, e io ero contento per quel ragazzo che si stava trasferendo dalla sua buia prigione in un incantevole giardino estivo. Poteva godere di poca luce del sole nella sua vita. Per quanto l'architettura renda il Potala sontuoso e imponente dall'esterno, come abitazione è tetra e scomoda. Non è difficile immaginare che tutti i Dalai Lama abbiano sentito il desiderio di evadere da quelle pareti prima possibile, perché la residenza estiva del Norbulingka era stata incominciata già dal settimo Dalai Lama, ma fu ultimata soltanto dal tredicesimo. Questo monarca fu un grande riformatore e insieme un uomo di spirito moderno. Per primo decise di fare arrivare a Lhasa tre automobili. Qualcosa di inaudito per quei tempi! Smontate, i singoli pezzi erano stati trasportati da yak e da coolie attraverso le montagne, e a Lhasa un meccanico, che aveva imparato il mestiere in India, li aveva ricomposti. Quest'uomo era poi divenuto l'autista del dio-re, e mi raccontava spesso con molta malinconia delle sue tre macchine, conservate in una baracca. Si trattava di due vecchie Austin e di una Dodge che avevano fatto sensazione sul «Tetto del mondo»: ora piangevano la morte del loro Heinrich Harrer
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padrone e arrugginivano con onore. Ridendo si racconta ancora a Lhasa come il tredicesimo Dalai Lama si fosse servito delle sue auto per ruggire segretamente dal palazzo invernale. In autunno egli prendeva parte in gran pompa alla processione del ritorno dalla residenza estiva, ma poi saliva su una delle sue macchine per farsi ricondurre in segreto e rapidamente al Norbulingka. Udimmo in lontananza suoni di trombe e rulli di tamburi: la processione si stava avvicinando. Tra la folla serpeggiò un mormorio, ma subito dopo regnò un silenzio devoto, quando apparve la testa del corteo. L'avanguardia era costituita da un esercito di monaci-servitori. Solennemente portavano chiusi in fagotti gli oggetti personali del Dalai Lama, ognuno avvolto in un panno di seta gialla. Il giallo è il colore della Chiesa lamaista riformata, chiamata brevemente anche «Chiesa gialla». Una vecchia leggenda narra perché fu prescelto a simbolo tale colore. Tsongkhapa, il grande riformatore del buddhismo nel Tibet, al suo ingresso nel monastero di Sakya, era l'ultimo della fila dei novizi. Quando arrivò il suo turno per vestire gli abiti di cerimonia, i rossi cappelli del costume attuale erano esauriti. Per dargli comunque un copricapo, si afferrò il primo cappello a portata di mano. Era per caso di colore giallo. Tsongkhapa non se ne separò più, e il colore giallo divenne il simbolo della Chiesa riformata. Anche il Dalai Lama portava nei ricevimenti e nelle cerimonie un berretto di seta gialla, e questo era il colore di tutti i suoi oggetti personali. È un privilegio che spetta soltanto a lui. A quel punto vedemmo sfilare servitori che portavano grandi gabbie, nelle quali erano rinchiusi gli uccelli preferiti del dio-re. Qua e là un pappagallo lanciava una parola tibetana di benvenuto, e la devota moltitudine accoglieva il grido con un sospiro estasiato, quasi fosse un messaggio personale del sovrano. A una certa distanza i servi erano seguiti da monaci con stendardi decorati con testi religiosi. Poi avanzavano a cavallo musicanti che indossavano un antico costume variopinto e suonavano strumenti antiquati, ai quali strappavano suoni stranamente lamentosi. I tamburi non erano battuti a tempo; ma il tutto veniva allestito con gran rumore e spettacolarità. Ed ecco giungere gli tsedrung, anche loro a cavallo, disposti esattamente secondo il loro grado. Dietro di loro alcuni servi conducevano i cavalli preferiti del Dalai Lama, magnificamente adorni: i finimenti erano di color giallo, tutte le parti metalliche e le selle Heinrich Harrer
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di oro puro, le gualdrappe di pesante broccato russo. Come se i cavalli avessero saputo quale tesoro essi stessi rappresentavano, avanzavano consci e focosi, ammirati dalla folla ammutolita. Dietro questi venivano i più alti signori del paese, i gradi superiori che avevano l'alto ufficio di servire personalmente il sovrano: camerlenghi, coppieri, maestri e tutti i dignitari che fungevano da intermediari fra il governo e il popolo. Gli ultimi di costoro erano tutti monaci con il grado di abate: gli unici, oltre ai genitori e ai fratelli, che potevano rivolgere la parola al Dalai Lama. Erano fiancheggiati da figure gigantesche: le guardie del corpo del dio-re, uomini scelti con cura secondo statura e aspetto. Nessuno di loro aveva un'altezza inferiore ai due metri. Uno, a quanto mi si raccontò, misurava addirittura due metri e quaranta! Erano dei veri giganti con le spalle imbottite e lunghe fruste in mano. Le uniche voci umane in questo silenzio sepolcrale provenivano da loro: nella tonalità di bassi profondi senza posa ordinavano alla gente di retrocedere e di levarsi il cappello. Senza dubbio si trattava di un elemento del cerimoniale, perché tutti stavano già rispettosamente ai margini della strada, a capo scoperto e chino, le mani unite. Molti si erano gettati a terra. Seguiva poi solennemente il comandante in capo dell'esercito tibetano, con la spada sguainata in posizione di saluto. La sua divisa color kaki faceva un effetto stranamente modesto in mezzo allo splendore delle vesti di gala, alle sete e ai broccati colorati. Ma poiché le particolarità della sua divisa erano prerogativa della sua fantasia personale, egli indossava spalline e decorazioni di oro massiccio. In testa portava un elmetto contro il sole. Ed ecco avvicinarsi il palanchino di seta gialla, lucente al sole come oro, del Buddha Vivente. Lo reggevano trentasei uomini in vesti di seta verde, con piatti copricapi rossi. Il contrasto dei vivaci colori - giallo, verde e rosso - era affascinante. Sopra la portantina, un enorme ombrello di pavone in una gamma infinita di tinte, retto da un monaco. L'intera scena sembrava uscita da una favola orientale da lungo caduta nel dimenticatoio.
Vogliamo vedere il Dalai Lama La folla intorno a noi si era irrigidita in un profondo inchino, nessuno osava alzare lo sguardo. Aufschnaiter e io dovevamo proprio dare Heinrich Harrer
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nell'occhio, perché ci eravamo inchinati solo leggermente: volevamo vedere a tutti i costi il Dalai Lama! All'improvviso, vicinissima al cristallo del palanchino, una faccia sorridente ci guardò: lineamenti pieni di grazia e di dignità, un sorriso da fanciullo. Anch'egli era dunque curioso di vederci: sentimmo il suo sguardo trattenersi su di noi. Lentamente, con ritmo armonico e solenne, il palanchino si allontanò. Ho saputo più tardi che i trentasei portatori si erano esercitati per settimane, sotto la direzione di un nobile del quarto grado, con un palanchino costruito esattamente sul modello dell'originale, prima di raggiungere la perfetta sincronia dei movimenti. Il centro spirituale della processione era passato, seguiva adesso il potere civile. In sella a magnifici cavalli i quattro ministri di gabinetto fiancheggiavano il palanchino. Dietro di loro, in una seconda portantina altrettanto lussuosa, sorretta però da un minor numero di uomini, il reggente, Tagtra Gyeltsap Rinpoche, soprannominato «la Tigre di Roccia», un anziano signore di settantatré anni. Muto, guardava dritto davanti a sé senza un sorriso né un segno all'indirizzo della folla. Severo procuratore del dio-re, aveva tanti amici quanti nemici. Il silenzio del popolo era quasi opprimente. Dietro di lui cavalcavano i rappresentanti delle «tre colonne dello stato», gli abati dei monasteri di Sera, Dreprung e Ganden. Anch'essi indossavano sopra la tunica la veste gialla, che però era di lana, e sulle teste rapate portavano cappelli piatti di cartone dorato. Seguiva poi la nobiltà mondana, secondo il grado di ognuno. Ciascun gruppo aveva un abbigliamento uniforme: spiccavano particolarmente i vari copricapi. Un effetto grottesco facevano i piccoli berretti bianchi della bassa nobiltà: coprivano soltanto il nodo dei capelli in mezzo alla testa, e venivano tenuti fermi da un nastro allacciato sotto il mento. Ero ancora tutto intento a guardare, quando mi colpì il suono di una musica familiare. Nessun dubbio: l'inno inglese! A metà strada dal palazzo d'estate aveva preso posto la banda delle guardie del corpo, e vi stava ora passando davanti il palanchino del Dalai Lama. Così, per rendere onore al sovrano, essi intonarono God Save the Queen. L'avevo sentito suonare meglio, ma mai aveva suscitato in me tanta meraviglia. Come appresi più tardi, si trattava di una travisata imitazione dei costumi europei. Il direttore della banda, che insieme ad altri ufficiali, per istruirsi, aveva prestato servizio nell'esercito inglese in India, aveva notato che l'inno veniva suonato nelle occasioni solenni, e l'aveva introdotto nel Tibet. Benché Heinrich Harrer
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esistesse anche un testo locale, non l'ho mai sentito cantare con parole tibetane. Finito l'inno che, tranne alcune stonature degli ottoni, dovute probabilmente alla mancanza di ossigeno, fu suonato abbastanza bene, la banda si mise in coda al corteo. Era il turno degli zampognari, che intonarono canzoni scozzesi. La musica tibetana, che potei ascoltare in varie occasioni, non conosce le armonie, ma le sue melodie sono piacevoli anche per le nostre orecchie. Si alternano i motivi tristi e allegri, e il ritmo varia spesso molte volte in un brano. Il corteo solenne scomparve attraverso le ampie porte del parco. Vi si svolse ancora una cerimonia piuttosto lunga, che si concluse con un banchetto ufficiale per tutti i funzionari. La folla si disperse. Si tornò di nuovo al lavoro o, visto che si era già all'aperto, si sfruttò la bella giornata per un picnic. Per la gente uno dei più importanti avvenimenti dell'anno era ormai passato un'altra volta. Tuttavia si tentò di prolungare ancora un po' la festa. Le mogli dei nobili e dei mercanti facevano mostra dei loro nuovi cappelli estivi, civettavano un po' e si procuravano argomenti di conversazione per un lungo tempo a venire. I nomadi smontavano le loro tende; sudati nelle calde pellicce di pecora, volevano solo vedere questo corteo festivo. Poi sarebbero tornati nel loro più freddo paese, il Changtang. Come nel Tibet non si sarebbe preteso da nessuno che si recasse in pellegrinaggio in India durante l'estate, allo stesso modo nessun nomade veniva a Lhasa nel corso della stagione calda. La città, infatti, è a «soltanto» 3700 metri di quota, e i nomadi, che abitano in media a un'altitudine di circa mille metri superiore, non sono abituati a un simile caldo. Tornammo a casa profondamente impressionati da tutto ciò che avevamo visto. Non avremmo potuto vedere un esempio migliore della distribuzione dell'autorità nel Tibet di quella processione che c'era passata davanti, con il Dalai Lama e il reggente a occupare i posti più importanti, e gli altri gradi che si assottigliavano progressivamente verso il basso davanti e dietro di loro. Naturalmente i monaci marciavano davanti, a testimoniare il significato del loro potere nell'ordinamento dello stato. In seconda fila veniva la nobiltà. La religione è il cuore dell'edificio dello stato. I pellegrini provenienti Heinrich Harrer
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dalle più remote parti del Changtang sopportano ogni sorta di privazione pur di assistere a questa splendida manifestazione della loro fede religiosa, e se la ricordano per sempre nel corso della loro dura e solitaria esistenza. La vita quotidiana dei tibetani è guidata dai precetti religiosi. Mormorano in continuazione le loro orazioni; i mulini di preghiere girano senza posa; le banderuole sacre campeggiano sui tetti delle case e sui passi montuosi; la pioggia, il vento, tutti i fenomeni naturali, le cime solitarie delle montagne perennemente innevate sono testimonianza dell'universale presenza degli dei, la cui rabbia si manifesta con le grandinate e la cui benevolenza è dimostrata dalla fecondità e dalla fertilità della terra. La vita delle persone è regolata dalla volontà divina, i cui unici interpreti sono i lama. Prima di intraprendere qualsiasi cosa, è necessario considerare i presagi. Gli dei devono essere incessantemente pregati, placati o ringraziati. Lampade votive spuntano ovunque, nelle case dei nobili e nelle tende dei nomadi: la stessa fede li infiamma. L'esistenza terrena non ha un alto valore nel Tibet, e la morte non fa paura. Gli uomini sanno che torneranno ancora in vita, e sperano in una forma più elevata di esistenza, che ci si guadagna con una religiosa condotta in questa vita. La Chiesa è il più importante organismo esistente, e anche i monaci più semplici sono rispettati dalla gente, che li chiama con il titolo di kusho, un epiteto altrimenti attribuito alla nobiltà minore. In ogni famiglia almeno un figlio è destinato alla vita monastica, in ossequio alla Chiesa e per riservargli una buona base di partenza. In tutti questi anni non ho mai incontrato nessuno che esprimesse il minimo dubbio sulla verità degli insegnamenti di Buddha. Ci sono, è vero, molte sette, ma le loro differenze sono solo esteriori. Nessuno può chiudere il proprio cuore davanti al fervore religioso che riempie tutti i tibetani. Dopo un po' che si è nel paese, a nessuno è più possibile uccidere una mosca senza pensarci. Io stesso, in presenza di un tibetano, non avrei mai osato schiacciare un insetto soltanto perché mi infastidiva. L'atteggiamento delle persone a questo riguardo è veramente toccante. Se durante un picnic una formica ti cade sui pantaloni, viene gentilmente presa e posata in terra. Una catastrofe avviene quando una mosca cade in una tazza di tè. Deve essere a tutti i costi salvata dall'annegamento, perché potrebbe anche essere la reincarnazione di una nonna defunta. In inverno i tibetani rompono il ghiaccio nelle pozze per salvare i pesci prima che si congelino e muoiano, e in estate li salvano quando le pozze si sono Heinrich Harrer
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asciugate. Bambini, mendicanti e servi dei nobili passano ore nell'acqua e ne pescano tutti gli esseri viventi. Queste creature vengono raccolte in secchi o tinozze fino a quando possono essere riportate nelle loro acque. Nel frattempo i loro salvatori hanno fatto un'opera buona per la loro anima. Oppure si va di casa in casa e si vendono i «salvati» ai benestanti, in modo che anch'essi possano prendere parte a questa opera altamente proficua. Più vite uno può salvare, più è felice. Non dimenticherò mai un'esperienza che ho fatto con il mio amico Wangdùla. Andammo un giorno insieme all'unico ristorante cinese di Lhasa, e lì vedemmo un'oca correre nel cortile, apparentemente in attesa di essere messa in padella. Wangdùla prese velocemente una banconota di grosso taglio dal suo portafoglio e comprò l'oca dal padrone del ristorante. Poi chiamò il suo servo e fece portare l'animale a casa sua. In seguito, per molti anni ho visto la fortunata creatura ondeggiare con il suo passo caratteristico nello spazio che le era stato riservato e godersi una pacifica vecchiaia. Tipica di questo atteggiamento nei confronti di tutte le creature viventi fu un'ordinanza fatta affiggere in tutte le parti del paese che si rivolgeva a persone occupate in opere edili: questo è successo durante i tre anni che il giovane Dalai Lama ha passato in meditazione. Furono inviati messi in tutte le direzioni: in ogni angolo del paese, fin nell'ultima cascina contadina, doveva risuonare la disposizione. Veniva fatto notare che i vermi e gli insetti sarebbero potuti facilmente rimanere uccisi durante tali opere, perciò fu genericamente proibita la costruzione di edifici. Più tardi, quando ero impegnato nei miei lavori di fortificazione, vidi con i miei occhi i coolie stare attenti a ogni singola vangata che facevano nel terreno e tirare fuori con le mani qualsiasi forma di vita. Da questo principio consegue il fatto che nel Tibet non esiste la pena di morte. L'omicidio è considerato il crimine più atroce, ma gli assassini vengono solo fustigati e incatenati con ceppi di ferro alle caviglie. È anche vero però che la fustigazione è a volte più disumana della pena di morte, per come la punizione viene portata a termine. La vittima spesso muore tra dolori atroci dopo che il castigo è stato inflitto, ma i precetti religiosi non sono stati infranti. I criminali condannati a passare la vita in catene sono o rinchiusi nella prigione statale di Shò, o mandati presso un governatore distrettuale che è responsabile per loro. Il loro destino è sicuramente migliore di quello dei forzati che rimangono in prigione, ai quali è Heinrich Harrer
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concesso lasciare la cella solo nei giorni che celebrano la nascita e la morte di Buddha, quando possono chiedere l'elemosina nel Lingkhor incatenati ad altri prigionieri. Il furto e gli altri reati minori sono puniti con pubbliche frustate. Un'asse viene messa intorno al collo del colpevole, sulla quale viene scritta la colpa, e costui deve stare per un certo numero di giorni alla gogna. Qui gente caritatevole si avvicina e gli dà da mangiare e da bere. Quando predoni o banditi vengono catturati sono generalmente condannati all'amputazione di una mano o di un piede. Rimasi esterrefatto quando vidi come venivano sterilizzate le ferite che erano state inflitte. L'arto veniva immerso nel burro bollente e tenuto lì per un po'. Ma anche una simile punizione non serve da deterrente. Un governatore mi raccontò di criminali che offrirono le loro mani per la punizione con un gesto impudente, e dopo poche settimane ripresero le loro attività criminose. A Lhasa simili barbare forme di punizione sono ormai state interrotte. Le punizioni per i reati politici sono molto severe. La gente parla ancora dei monaci di Tengyeling, che quarant'anni prima avevano tentato di accordarsi con i cinesi. Il loro monastero fu demolito e i loro nomi infamati per sempre. Nel Tibet non esistono tribunali organizzati. Le indagini sono solitamente affidate a due o tre persone appartenenti all'aristocrazia, ma la corruzione è purtroppo molto frequente: sono pochi i nobili che godono fama di integrità morale. Le somme ricevute come tangenti sono considerate da molti una delle prerogative del sistema feudale. Se un imputato pensa di essere stato ingiustamente condannato, può fare appello al giudizio del Dalai Lama. Se allora viene dimostrata la sua innocenza, riceve la grazia; in caso contrario la sua pena viene raddoppiata. A Lhasa il magistrato cittadino esercita funzioni permanenti di giudice, tranne che nei ventuno giorni che seguono al capodanno, quando tutta l'autorità è affidata ai monaci. Il magistrato è assistito da una coppia di funzionari civili, che sono sempre molto impegnati, perché oltre ai pellegrini molti pessimi soggetti transitano per la capitale. Un'eccezione è costituita dai katsara, di sangue misto tibetano e nepalese. Questi hanno autorità competenti proprie, occupate per metà da tibetani e per metà da nepalesi. Tali uffici curano allo stesso tempo i rapporti diplomatici tra i due paesi.
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Siccità e l'oracolo di Gadong Dopo il trasferimento del Dalai Lama nel Norbulingka l'estate avanzò a grandi passi. Era una stagione meravigliosa a Lhasa. Il termometro non superava mai i 35 °C, e le notti erano piacevolmente fresche. Ma il clima asciutto portava anche svantaggi. Le precipitazioni però erano rare, e ben presto tutti attesero con grande ansia la pioggia. C'era in verità una serie di pozzi in pietra intorno a Lhasa, ma quasi ogni anno inaridivano. Allora la popolazione doveva andare ad attingere l'acqua dal fiume Kyi Chu, che discende freddo e pulito dai ghiacciai. Il fiume è naturalmente ritenuto sacro, ciò nonostante vi vengono talvolta calati dei cadaveri. Ma sono i pesci che provvedono alla loro rapida scomparsa. Quando i pozzi della città stavano per inaridire e i campi d'orzo erano secchi, il governo emanava ogni anno uno strano decreto: ciascun abitante della città santa doveva bagnare le strade fino a nuovo ordine. Allora incominciava un'attività piuttosto singolare: chiunque avesse mani e piedi correva con secchi e brocche al fiume per portare in città il prezioso liquido. I nobili mandavano i loro servi, ma poi toglievano loro di mano le brocche, per partecipare personalmente con entusiasmo alla battaglia dell'acqua. Perché non solo le strade, ma anche i passanti venivano diligentemente innaffiati! Poveri e ricchi, vecchi e giovani, tutti erano in strada, e non vigeva più alcuna differenza: tutti prendevano parte alla festa acquatica. Maligni getti d'acqua venivano lanciati dalle finestre, dai tetti scorrevano ruscelletti, vecchie pompe venivano riesumate e proiettavano d'un tratto in faccia all'uno o all'altro il loro zampillo. In quei giorni i bambini se la godevano: era permesso ciò che di solito era proibito. Naturalmente bisognava fare buon viso a cattivo gioco, perché se uno si offendeva facilmente e cominciava a protestare, diveniva subito la vittima designata e non si salvava più dai «pompieri» prepotenti. Era una vera festa popolare. I negozi erano semichiusi e chi aveva da fare una commissione in città o al Barkhor ritornava a casa tutto inzuppato. Io ero naturalmente uno dei bersagli preferiti, perché «Henrigla il tedesco» non doveva avere sulla sua persona neppure un millimetro asciutto. Mentre nelle strade ferveva la battaglia dell'acqua, l'oracolo di Gadong, il più famoso mago della pioggia del Tibet, veniva convocato nel giardino Heinrich Harrer
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del Dalai Lama. Qui erano radunate le più alte autorità del governo, sotto la presidenza del dio-re. Davanti al pubblico in attesa il monaco cadeva in trance: fremiti percorrevano le sue membra contratte, e suoni rauchi e gemiti gli uscivano dalle labbra. In quel momento uno dei monacifunzionari supplicava in modo solenne l'oracolo di far venire la pioggia, perché un cattivo raccolto avrebbe procurato un grave danno al paese. I movimenti dell'oracolo divenivano sempre più estatici, e il suo mormorio incomprensibile si trasformava in piccole urla. Un segretario ne ricavava il vaticinio, lo trascriveva rapidamente su una tavoletta e la consegnava al Consiglio dei ministri. Il corpo del medium, abbandonato dalla divinità, cadeva privo di coscienza e veniva portato via. Dopo una simile performance tutta Lhasa attendeva ansiosa la pioggia. E pioveva davvero! Che si credesse ai miracoli o si cercasse una spiegazione razionale, rimaneva indiscutibile il fatto che sempre dopo un tale spettacolo la pioggia cadeva. Per i tibetani non c'erano dubbi: durante lo stato di trance le divinità protettrici erano entrate nel corpo del mago e avevano esaudito le preghiere del loro popolo. Ho cercato tutte le spiegazioni possibili, ma nessuna mi ha convinto, e per me il mistero è rimasto inspiegabile. Mi sono chiesto se forse l'intenso lavaggio delle strade poteva aver causato evaporazione, o se la pioggia monsonica si poteva essere estesa agli altopiani tibetani. La legazione britannica ha installato una stazione meteorologica, e dopo esatte misurazioni ha registrato una media annuale di 35 centimetri di pioggia: la quantità maggiore si verifica regolarmente nello stesso periodo dell'anno. Più tardi Aufschnaiter installò un manometro a colonna d'acqua lungo il corso del Kyi Chu e registrò un aumento del livello del fiume quasi sempre nello stesso giorno dell'anno. Se avesse seguito i metodi del mago della pioggia, si sarebbe anch'egli potuto ergere al rango di un oracolo di successo. Secondo informazioni generali, la regione intorno a Lhasa doveva aver avuto in passato precipitazioni più abbondanti. Esistevano grandi foreste, che avevano reso il clima fresco e ricco di piogge. Ma l'eccessivo disboscamento aveva fatto gravi danni. Lhasa, con le sue piantagioni artificiali di salici e pioppi, era come una verde oasi in mezzo alla valle del Kyi Chu, priva di alberi. Nelle nostre escursioni trovammo spesso vecchi tronchi d'albero smozzicati, testimonianze dell'antica foresta. Come dev'essere stata bella Heinrich Harrer
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questa regione un tempo! Uno dei nostri molti progetti presentati al governo si occupava appunto dell'istituzione di una scuola di silvicoltura per la formazione di personale da adibire all'amministrazione forestale. L'acquisto di combustibile è per Lhasa un vero problema. La legna deve essere trasportata da molto lontano, ed è piuttosto cara. Questo lusso se lo possono permettere soltanto i ricchi. Di solito per fare il fuoco si usa lo sterco di yak. Quando giungono le grandi carovane della lana dal Changtang e piantano le loro tende ai margini della città, donne e bambini vi accorrono con grandi ceste. Tra grida, risa e contrasti si tenta di acchiappare, per così dire, al volo lo sterco degli yak. La stessa gara si ripete ogni sera, quando i molti cavalli di Lhasa vengono spinti ad abbeverarsi al fiume. Lo sterco, ancora fluido, viene appiccicato alle pareti, e dopo pochi giorni, asciutto, può servire ad accendere il fuoco. Nel silenzio dell'alba si vede librarsi sulla città una spessa nube azzurra, come il fumo di molte fabbriche. Si tratta soltanto delle fitte nuvole provenienti dai mucchi di concime che ardono. Le prime brezze mattutine le spingono verso i monti e le disperdono.
La vita quotidiana a Lhasa Invitati da tutte le parti, spesso interrogati per dare consigli, sempre al centro dell'attenzione generale, imparammo a conoscere la vita di Lhasa sotto ogni aspetto: istituzioni ufficiali e condizioni familiari, opinioni e costumi. Ogni giorno imparavamo qualcosa di nuovo, molte cose persero il loro aspetto misterioso, non poche però rimasero impenetrabili. Una cosa era certamente cambiata nella nostra situazione: non eravamo più estranei. Anche noi facevamo parte della città. Eravamo ormai in piena stagione balneare. Nei giardini lungo il fiume ferveva la vita: grandi e piccoli si divertivano nell'acqua bassa dei bracci del Kyi Chu. La ricetta per una giornata felice era semplice: un vestito colorato, una brocca di chang e un po' di cibarie. I nobili naturalmente piantavano tende ricamate, e più di una signora che aveva studiato in India si pavoneggiava nel suo moderno costume da bagno. Si sguazzava un po' nell'acqua e poi si passava il tempo mangiando e giocando ai dadi. Non si chiudeva mai la giornata senza aver reso grazie, per i bei momenti Heinrich Harrer
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trascorsi, agli dei, facendo ardere l'incenso sulle rive del fiume. Fui molto ammirato per la mia abilità di nuotatore. I tibetani non sanno nuotare bene, perché l'acqua del fiume è troppo fredda perché ci si possa esercitare. Quelli che potevano nuotare erano solo in grado di tenersi a galla. Ora invece avevano un esperto a loro disposizione. Fui invitato da tutte le parti, naturalmente con il pensiero recondito che così si sarebbe potuto assistere a un mio spettacolo. Ciò rappresentava costantemente un castigo per me e la mia sciatica. L'acqua raggiungeva al massimo una temperatura di 10 °C. Non molto spesso, per compiacere il mio pubblico, mi decidevo a fare un tuffo in acqua. Ma qualche volta la mia presenza si rivelò molto opportuna: così, ad esempio, riuscii a salvare tre persone che stavano per annegare, perché nel fiume c'erano alcuni punti pericolosi, dove si erano creati gorghi e correnti. Un giorno ero ospite del ministro degli Esteri Surkhang e della sua famiglia nella tenda piantata presso la riva del fiume. L'unico suo figlio di secondo letto, Jigme, il cui nome significa «Senza paura», passava qui le sue vacanze. Frequentava una scuola in India, dove aveva imparato anche un po' di nuoto. Stavo nuotando a dorso, lasciandomi spingere dalla corrente, quando d'un tratto udii un grido e scorsi parecchia gente sulla riva che con gesti agitati indicava l'acqua. Doveva essere successo qualcosa: nuotai rapidamente a riva e mi precipitai verso la tenda. In quel momento riemerse da un gorgo il corpo di Jigme, per sparire nuovamente subito dopo. Senza riflettere molto saltai in acqua. Anch'io fui afferrato dal vortice, ma ero più forte del giovane Jigme e potei afferrarne il corpo privo di sensi e trascinarlo a riva. Le mie esperienze quale maestro sportivo mi furono molto utili: praticata la respirazione bocca a bocca, il ragazzo dopo poco tempo riaprì gli occhi con grande gioia del padre e degli spettatori sbalorditi. Il ministro, fra lacrime di riconoscenza, non cessava di ripetere che suo figlio senza il mio aiuto sarebbe certamente morto. Avevo salvato una vita umana, e ciò mi valse grande considerazione. A causa di questo episodio le mie relazioni con la famiglia divennero più strette e mi trovai all'improvviso davanti a una delle più strane situazioni familiari, una rarità anche per il Tibet. Il ministro aveva divorziato dalla prima moglie. La seconda era morta e gli aveva regalato un figlio, Jigme. Ora egli divideva con un nobile di grado inferiore la moglie di costui. E nel contratto di nozze Jigme era Heinrich Harrer
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previsto come terzo marito, perché Surkhang non voleva alla sua morte lasciare soltanto alla vedova l'intero patrimonio. Analoghe situazioni bizzarre si trovano in molte famiglie. Venni a conoscenza di un caso veramente grottesco: la madre era cognata della propria figlia. Nel Tibet esistono sia la poligamia che la poliandria, ma in maggioranza i tibetani sono monogami. Se un uomo possiede parecchie mogli, la situazione si differenzia sostanzialmente dall'harem orientale. Di solito egli sposa parecchie sorelle. Ciò avviene soprattutto in case che non hanno un erede maschio, in modo che il patrimonio resti sempre in famiglia. Era questo il caso del nostro amico Tsarong: aveva sposato tre sorelle, e per concessione speciale del Dalai Lama ne portava il nome patronimico. Malgrado queste situazioni spesso strane, i divorzi non sono così frequenti come da noi. A ciò contribuisce molto la mentalità dei tibetani, che non esagerano i loro sentimenti. Se più fratelli si dividono la moglie, è sempre il maggiore che funge da padrone in casa: gli altri hanno diritti soltanto quando egli si assenta o ha qualche altra relazione. Nel Tibet c'è abbondanza di donne. Gli uomini, per la maggior parte, vivono in celibato come monaci, perché ogni villaggio ha il suo monastero. I figli illegittimi non hanno diritto all'eredità, che spetta soltanto ai figli della padrona di casa. E al riguardo ha ben poca importanza quale dei fratelli ne sia il padre. Il punto essenziale è che il patrimonio rimanga in famiglia. Il Tibet non conosce le preoccupazioni del sovrappopolamento. Da secoli il numero degli abitanti è rimasto stazionario. Ciò dipende non soltanto dalla poliandria e dal molto diffuso monachesimo, ma anche dalla mortalità infantile. Secondo la mia valutazione l'età media dei tibetani è di trent'anni. Ai miei tempi nell'intero Tibet fra i funzionari vivevano un unico settantenne e due sessantenni. In molti libri sul Tibet avevo letto che il padrone di casa offre all'ospite la propria moglie o la propria figlia. Se mi fossi aspettato un simile dono grazioso, sarei rimasto molto deluso. Qualche volta avviene che per scherzo venga offerta una giovane serva, ma le fanciulle non si concedono con tanta facilità: vogliono prima essere corteggiate. Ci sono naturalmente dappertutto donne di facili costumi, e anche a Lhasa ci sono bellezze che sanno trarre vantaggi materiali dalle loro grazie. Ancora qualche anno fa i matrimoni venivano conclusi soltanto per mediazione dei genitori. Oggi avviene invece molto spesso che i giovani Heinrich Harrer
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riservino a se stessi la scelta. Ci si sposa presto: a sedici anni le donne, a diciassette o diciotto gli uomini. La nobiltà ha le sue leggi severe: è permesso sposare soltanto chi è dello stesso rango. Fra consanguinei invece ci si può sposare soltanto dopo la settima generazione. Solo il Dalai Lama può concedere una deroga a tale norma. In casi particolari egli può elevare al rango di nobili anche meritevoli uomini del popolo, affinché sangue fresco entri nelle circa duecento famiglie nobili del paese che costituiscono l'aristocrazia. Annunciato il fidanzamento ufficiale, la fanciulla comincia a prepararsi per le nozze. Il corredo, soprattutto vesti e gioie, varia secondo la posizione della famiglia. Il giorno delle nozze, prima dell'alba, la sposa si reca a cavallo nella sua nuova casa. Là, nella cappelletta, un lama benedice l'unione. Non si conosce l'uso del viaggio di nozze. Ha invece luogo una grande festa che, secondo le possibilità finanziarie, dura da tre a quattordici giorni. Gli invitati non se ne vanno neppure di notte. La giovane sposa si adegua alla nuova situazione, ma diventa padrona di casa soltanto dopo la morte della suocera. I divorzi sono rari e devono essere autorizzati dal governo. Per gli adulteri vigono pene molto drastiche, ad esempio il taglio del naso. Ma io non ho mai assistito a una simile punizione. Mi fu mostrata una volta una vecchia donna priva del naso, a quanto si diceva colta in flagrante. Ma poteva benissimo trattarsi di una conseguenza della sifilide.
Medici, guaritori e indovini Sfioro così un tema che per il Tibet è purtroppo molto serio. Casi di malattie veneree sono a Lhasa molto frequenti, ma come a tutte le altre, neppure a queste si annette importanza. Quasi sempre vengono trascurate e il medico viene chiamato quando è troppo tardi. L'antichissimo rimedio, il mercurio, è conosciuto dai monaci delle scuole di medicina. Quanto si potrebbe fare per il futuro del Tibet, se si cercasse di migliorare le condizioni sanitarie e igieniche! La chirurgia è completamente sconosciuta. Aufschnaiter e io tremavamo al solo pensiero di un'appendicite. Ogni dolore sospetto ci metteva in allarme. Sembrava assurdo dover morire di appendicite nel ventesimo secolo. I tibetani non conoscono operazioni sul corpo umano, a parte l'incisione di ascessi. È Heinrich Harrer
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ignota anche l'ostetricia. L'unica cosa che ha una certa attinenza con la chirurgia è l'attività di coloro che sezionano i cadaveri, i domden. Spesso costoro riferiscono ai parenti, interessati di conoscere la causa della morte di un loro congiunto, o a studenti di medicina, se in un cadavere hanno potuto costatare qualcosa di anormale. Le scuole di medicina sono purtroppo ostili a ogni forma di progresso. La dottrina di Buddha e dei suoi apostoli è legge suprema, che non può essere messa in discussione. Il sistema fissato viene tramandato da secoli. Sono particolarmente orgogliosi della norma secondo la quale qualsiasi malattia è costata bile dal ritmo del polso. Ci sono due scuole di medicina, la più piccola situata sul Chagpori, o monte di Ferro, la più grande in città. Ogni monastero invia un certo numero di giovani intelligenti in una di queste scuole. Lo studio dura da dieci a quindici anni. Gli insegnanti sono vecchi monaci dotti, che spiegano le antiche teorie ai novizi, seduti in terra con una tavoletta sulle ginocchia. Spesso illustrazioni a colori sono esposte sulle pareti. Ebbi occasione di assistere una volta a una lezione: il maestro, con l'ausilio di rappresentazioni grafiche, spiegava le manifestazioni tossiche prodotte dall'ingestione di una certa pianta. Agli allievi venivano mostrate figure della pianta, i fenomeni da essa provocati nell'organismo umano, gli antidoti e la relativa reazione. L'insegnamento procedeva insomma a base di diagrammi illustrativi. L'astronomia fa parte della medicina, con la quale è strettamente collegata. Nelle scuole l'annuale calendario lunare viene combinato secondo vecchi libri. Le eclissi del sole e della luna vengono puntualmente registrate, e se ne traggono le previsioni del tempo, mensili e annuali. In autunno tutta la scuola, maestri e alunni, va sulle montagne per raccogliere radici ed erbe medicinali. I giovani attendono con impazienza questo periodo: si divertono, anche se il lavoro non manca. Ogni giorno viene spostato il campo, e alla fine gli yak, con i pesanti carichi delle erbe raccolte, vengono condotti a Tra Yerpa. Questo è uno dei luoghi più santi del Tibet, dove esiste un tempio all'interno del quale viene fatta la cernita delle erbe da essiccare. D'inverno poi i monaci più giovani devono polverizzarle. Messa la polvere in sacchetti di pelle, ognuno contraddistinto da un diverso cartellino, vengono conservati dal rettore della scuola di medicina. Queste scuole sono in pari tempo le farmacie del paese: ognuno può procurarsi gratuitamente, o dietro un piccolo regalo, Heinrich Harrer
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consigli e medicine. La distribuzione rappresenta per gli scolari l'istruzione pratica. Nel riconoscere erbe e radici e i loro effetti salutari i tibetani sono davvero molto progrediti. Io stesso mi sono affidato non poche volte alla loro scienza. Le loro pillole non hanno mai particolarmente giovato alla mia sciatica, ma spesso ho evitato la febbre grazie alle loro tisane. L'abate della scuola di medicina in città è nello stesso tempo l'archiatra del Dalai Lama. Una carica molto onorifica, ma anche piuttosto pericolosa. Quando morì il tredicesimo Dalai Lama all'età di soli cinquantaquattro anni, l'abate di quel tempo fu oggetto di ogni sorta di sospetti, e poté considerarsi fortunato di essersela cavata con la sola perdita del suo rango, senza subire la pena della fustigazione. Se nelle città e nei monasteri ci si può far vaccinare contro il vaiolo, contro le altre epidemie si è inermi, e la mortalità è di conseguenza molto forte. Il clima fresco e l'aria pura sono la salvezza del Tibet, perché la sporcizia imperante e le deplorevoli condizioni igieniche renderebbero inevitabile una catastrofe. In ogni occasione non abbiamo mancato di rilevare l'importanza e l'urgenza di riforme sanitarie e, almeno nelle nostre menti, era abbastanza sviluppato un progetto per la canalizzazione di Lhasa. Il maggiore nemico è la superstizione. Più che nei monaci della scuola di medicina, che somigliano più a guaritori che a dottori, il popolo ha fiducia nell'imposizione delle mani e in coloro che pregano per la guarigione. Spesso i lama ungono i loro pazienti con la propria saliva santa; oppure tsampa e burro vengono mescolati con l'urina degli uomini santi per ottenere una specie di emulsione che viene somministrata ai malati. Più innocui sono i timbri intagliati nel legno, immersi in acqua santa, che vengono premuti sulla parte malata. Sono particolarmente ricercate, come amuleti contro malattie e pericoli, piccole statuette degli dei che i lama hanno confezionato con l'argilla. Ma niente ha maggior valore curativo di un oggetto appartenuto al Dalai Lama. Quasi ogni nobile mi ha mostrato con orgogliosa compiacenza una reliquia del tredicesimo Dalai Lama, cucita accuratamente in piccoli sacchetti di seta. Tsarong, in qualità di suo ex favorito, possedeva molti oggetti personali del Dalai Lama. Una cosa che mi ha sempre suscitato meraviglia è il fatto che anche Tsarong e suo figlio, educato in India, persone dunque illuminate e amanti del progresso, persistessero in tale superstizione. La fiducia dei tibetani nella virtù protettiva degli amuleti è illimitata. In Heinrich Harrer
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viaggio o in guerra, se ne hanno uno con sé tutti si sentono immuni da qualunque pericolo. Talvolta io addussi argomenti contrari, ma mi fu sempre risposto che si accettava qualsiasi scommessa a dimostrazione, ad esempio, del fatto che il possesso di un talismano rendesse invulnerabili ai proiettili. Una volta posi direttamente la seguente domanda: «Se voi appendete al collo di uno dei molti cani randagi un amuleto, nessuno potrà tagliargli la coda?». Tutti mi risposero convinti che ciò non sarebbe stato possibile. Per tatto e in considerazione dell'ospitalità di cui godevo mi sono sempre astenuto dal fare una prova per dimostrare il contrario. Non volevo certo ledere in alcun modo le loro convinzioni religiose. Molti uomini e donne vivono di vaticini e di oroscopi. Completano il quadro di Lhasa le vecchie donnette che, accovacciate lungo la strada dei Pellegrini, per un piccolo obolo predicono il futuro. Domandano l'anno di nascita, fanno un piccolo calcolo con il loro rosario, e l'interrogante, consolato dalle loro parole misteriose, si rimette in cammino. Piena fiducia godono le profezie dei lama e delle incarnazioni. Non si fa un passo senza interrogare il destino. Se si va in pellegrinaggio o si prende possesso di un nuovo ufficio, ci si fa sempre indicare la data più favorevole. Esisteva allora a Lhasa un lama particolarmente celebre, le cui udienze e visite venivano fissate con molti mesi di anticipo. Era solito recarsi con i suoi discepoli di luogo in luogo per ottemperare a tutti gli inviti, e riceveva tanti regali che tutta la sua schiera ne poteva vivere comodamente. Godeva di una tale reputazione, che perfino Fox, il radio-operatore inglese, che da anni soffriva di gotta, attendeva ansiosamente la sua visita. Ma il suo turno non arrivò mai, perché il vecchio lama morì prima. In origine un semplice monaco, costui fece dopo vent'anni di studio i più brillanti esami in uno dei maggiori monasteri, e visse poi alcuni anni da eremita, ritirandosi in uno dei tanti eremi che si trovano nel paese. I monaci si recano in questi luoghi solitari e deserti per dedicarsi alla meditazione, e alcuni vi si fanno murare dai loro discepoli, vivendo per anni solo di tsampa e tè. Anche il nostro monaco divenne famoso per la sua vita esemplare. Non mangiava mai cibi per la cui produzione fosse necessario distruggere vite: rifiutava perfino le uova. Si diceva che non avesse bisogno di sonno e non usasse mai il letto. Gli vennero attribuiti anche dei miracoli: sembra che un giorno il suo rosario abbia incominciato a bruciare a causa della forte irradiazione della sua mano. Con le offerte Heinrich Harrer
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che gli affluivano fece costruire la più grande statua d'oro di Buddha, da lui donata alla città. Nel Tibet viveva una sola incarnazione femminile. Il suo nome, interpretato, significava «Scrofa Saetta». La vidi spesso alle cerimonie o al Barkhor. Era allora una fanciulla di circa sedici anni, che non dava nell'occhio, portava l'abbigliamento monacale e studiava a Lhasa. Era però la donna più santa del Tibet, e la gente, non appena appariva, le chiedeva di essere benedetta. Più tardi visse, come badessa, nel monastero maschile presso il lago Yamdrok. A Lhasa correvano senza posa voci e storie su suore e lama santi, e io avrei voluto volentieri controllare la veridicità dei miracoli. Ma non era conveniente offendere i sentimenti religiosi della gente. I tibetani erano felici nelle loro convinzioni, e allo stesso tempo così nobilmente discreti e tolleranti che nessuno fece mai il tentativo di convertire Aufschnaiter e me. Noi a nostra volta osservavamo i loro usi e costumi, visitavamo i loro templi e donavamo le bianche sciarpe di seta, come era prescritto dall'etichetta.
L'Oracolo di stato Come la popolazione chiede consiglio e aiuto riguardo alle preoccupazioni della vita quotidiana agli indovini e ai lama, così il governo interroga l'Oracolo di stato prima di prendere gravi decisioni. Pregai una volta il mio amico Wangdùla di condurmi a una consultazione ufficiale, e di prima mattina ci recammo a cavallo al monastero di Nechung. Dell'onore di fungere da Oracolo di stato era investito allora un monaco diciannovenne. Le sue origini erano modeste, ma già durante gli esami aveva suscitato grande scalpore per le sue attitudini medianiche. Benché non avesse tanta pratica quanta ne possedeva il suo predecessore, che aveva anche contribuito alla scoperta del Dalai Lama, ci si aspettava molto da lui. Mi sono domandato spesso se la facoltà di mettersi con grande rapidità in un profondo stato di trance davanti a molte persone derivasse soltanto dalla sua inaudita capacità di concentrarsi o dipendesse dall'ingestione di droghe o da altri espedienti. Per fungere da oracolo, il monaco deve essere in grado di separare il suo spirito dal corpo, affinché il dio del tempio ne Heinrich Harrer
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possa prendere possesso e parlare per suo tramite. In quel momento egli diventa in virtù della sua facoltà medianica la manifestazione del dio. Questa è la convinzione dei tibetani, e anche Wangdùla ne era fermamente convinto. Parlando dell'argomento avevamo percorso gli otto chilometri fino al monastero di Nechung. Una musica cupa e lugubre proveniente dal tempio colpì le nostre orecchie. Entrando, lo spettacolo era pauroso. Da tutte le pareti maschere e teschi ci lanciavano i loro ghigni terrificanti, l'aria pregna d'incenso mozzava il respiro. Il giovane monaco era appena uscito dai suoi appartamenti privati, scortato fino alla tetra navata del tempio. Aveva sul petto un rotondo specchio di metallo. Alcuni servi lo ricoprirono di variopinte vesti seriche e lo accompagnarono al suo trono, per poi ritirarsi. Oltre alla cupa e semplice musica non si sentiva alcuna voce. Il medium cominciò a concentrarsi. Lo osservai attentamente: non mi sfuggì neppure la più lieve contrazione dei suoi lineamenti. Sembrava che la vita a poco a poco lo abbandonasse: ora stava quasi immobile, il volto contratto in una rigida maschera. Poi, all'improvviso, come colpito dal fulmine, il corpo si incurvò violentemente. Gli astanti trattennero il fiato: il dio ne aveva preso possesso. Il medium era scosso da tremiti che man mano diventavano più forti, la sua fronte era piena di sudore. Gli si avvicinarono allora alcuni servi e gli imposero un'enorme e fantastica tiara, così pesante che doveva essere sostenuta da due uomini. Sotto quel peso l'esile figura del monaco sprofondò fra i cuscini del trono. Non ci si può meravigliare del fatto che i medium non vivano a lungo, pensai. L'immenso sforzo fisico e psichico di tali sedute consuma le loro forze. I tremiti aumentarono, il capo, troppo gravato, oscillò come fosse un pendolo, gli occhi uscirono dalle orbite. Il volto era turgido, e lo ricopriva un rossore malsano, fra i denti scricchiolanti si sprigionava un sibilo di suoni inarticolati. All'improvviso il medium balzò in piedi, i servi tentarono di sostenerlo, ma, sfuggito loro di mano, il giovane monaco si mise a girare in una strana danza estatica al ritmo delle note lamentose degli oboe. I suoi gemiti e il digrignare dei denti erano gli unici rumori che si sentivano nel tempio. Poi incominciò a battere selvaggiamente l'enorme anello che portava al pollice, sopra il lucente pettorale: il tintinnio che produceva superava il cupo rullio dei tamburi. Si mise a danzare su un piede solo, malgrado il peso della corona. Alcuni servi gli riempirono le mani di chicchi d'orzo, che egli lanciò tra la folla impaurita. Tutti Heinrich Harrer
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curvarono la schiena, e in quel momento temetti di essere considerato un intruso. Il medium si agitò come ossessionato. Forse era la mia presenza che lo disturbava nell'interrogare il dio. Poi sembrò calmarsi. Alcuni servi lo tennero stretto, e un ministro di gabinetto gli si avvicinò. Sul capo curvo sotto il peso della corona il funzionario pose una sciarpa di seta e cominciò a porre le domande preparate dal Consiglio dei ministri. La nomina di un governatore, la ricerca di un'alta incarnazione, guerra o pace, tutte queste domande vennero sottoposte all'Oracolo per la risposta degli dei. Spesso una domanda doveva essere ripetuta parecchie volte, finché l'Oracolo si metteva a borbottare. Mi sforzavo di ricavare da quei suoni inarticolati delle parole comprensibili, ma era impossibile. Mentre il rappresentante del governo, devotamente chino, tentava di capire, un monaco piuttosto anziano trascriveva le risposte. Era un compito che aveva già assolto centinaia di volte, avendo servito come segretario anche l'Oracolo defunto. Non potei liberarmi dal sospetto che il vero Oracolo fosse proprio il segretario. Le risposte da lui trascritte, malgrado l'ambiguità, suggerivano comunque una linea da seguire e bastavano a sollevare il gabinetto dalle responsabilità più gravi. Se un oracolo forniva costantemente risposte sbagliate, si tagliava corto: veniva deposto dalla sua carica. Era questa una misura che logicamente non potei mai capire. Non era il dio che parlava per bocca del medium? Ciò nonostante questo posto ufficiale era piuttosto ambito, perché l'Oracolo di stato assumeva il rango di dalama, corrispondente al terzo grado della nobiltà, ed era il capo supremo del monastero di Nechung, con tutti i benefici che ne discendevano. Le ultime domande poste dal rappresentante del governo rimasero senza risposta. Aveva perso le forze il giovane monaco o era corrucciato il dio? Alcuni monaci si avvicinarono al medium in preda a convulsioni, porgendogli piccole sciarpe di seta. Con mani tremanti egli vi fece dei nodi. Queste sciarpe vengono messe al collo dei postulanti, e assumono il valore di amuleti che proteggono da ogni pericolo. Ancora una volta l'Oracolo cercò di fare alcuni passi di danza, poi crollò svenuto e venne portato fuori del tempio da quattro monaci. Molto impressionato abbandonai il luogo sacro e mi trovai nella luce abbagliante del sole. La mia mente di europeo non sapeva darsi una spiegazione logica. In seguito ho spesso preso parte a simili interrogazioni dell'Oracolo, ma non sono mai riuscito a trovare la soluzione dell'enigma. Heinrich Harrer
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Ho incontrato spesso l'Oracolo di stato nella vita quotidiana. Non mi sono mai potuto abituare a sedere con lui alla stessa tavola e a vederlo mangiare la sua zuppa di pasta come tutti gli altri nobili. Quando ci incontravamo in strada, mi levavo il cappello, ed egli mi salutava sorridendo con un breve cenno del capo. Aveva allora i lineamenti di un uomo giovane della sua età, e non ricordava affatto la rossa e gonfia faccia, tesa in una smorfia estatica, di un medium. Il giorno di capodanno lo vidi trascinarsi attraverso le vie di Lhasa. A destra e a sinistra lo sostenevano due servi, e ogni trenta o quaranta metri cadeva esausto sulla sedia che alcuni portatori tenevano sempre pronta. Tutti retrocedevano, e il popolo si godeva silenzioso lo spettacolo demoniaco. Ancora in un'occasione l'Oracolo di stato svolge un ruolo importante: durante la cosiddetta Grande processione, quando cioè il Dalai Lama viene trasportato in città per visitare la cattedrale. Questa cerimonia è così chiamata per distinguerla dalla normale processione, che ha luogo quando il sovrano si trasferisce nella residenza estiva. Di nuovo tutta Lhasa è in piedi, non si trova un posto. Su ogni spiazzo libero viene piantata una tenda. Monaci-soldati muniti di frusta tengono lontana la folla curiosa. Questa tenda occulta ancora agli occhi del popolo il grande mistero: il dalama di Nechung vi si prepara per cadere in trance. Lentamente si avvicina nel suo palanchino, retto da trentasei portatori, il dio-re. La musica dei monaci accompagna il corteo solenne: trombe, tube e tamburi segnano il culmine della cerimonia. A un certo punto il Dalai Lama giunge davanti alla tenda dell'Oracolo. In quel momento, con passo vacillante, ne esce il monaco posseduto dal dio. Il suo volto è di nuovo tumefatto, suoni sibilanti erompono dalle labbra, il peso della tiara quasi lo schiaccia a terra. Gesticolando selvaggiamente respinge i portatori, e afferrate le stanghe del palanchino se le mette in spalla e corre fra le due ali del popolo in silenzio, mentre il carico reale paurosamente traballa. Servi e portatori gli corrono appresso e cercano di aiutarlo. Dopo circa trenta passi il dalama cade svenuto. Una barella è già pronta: coperto da un panno il medium viene riportato nella tenda. Questo spettacolo dura pochi secondi, poi la processione si rimette ordinatamente in moto. Non ho mai appreso il vero significato di tale rito. Doveva forse rappresentare simbolicamente la sottomissione di un dio protettore al Buddha Vivente? Oltre l'Oracolo di stato e il mago della pioggia esistevano a Lhasa Heinrich Harrer
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almeno altri sei medium, fra questi perfino una vecchia donna che era ritenuta la manifestazione di una dea protettrice. Per piccole offerte era pronta a mettersi in trance e a far parlare la dea. Vi erano giorni in cui raggiungeva lo stato catalettico anche quattro volte. Ci sono anche oracoli che nello stato di trance riescono a torcere spade gigantesche formandone delle spirali. A Lhasa presso parecchi nobili trovai collocate davanti all'altare di casa tali spade. Ogni mio sforzo per giungere al medesimo risultato si dimostrò sempre vano. Interrogare l'oracolo è un uso risalente ai tempi prebuddhisti, quando gli dei esigevano sacrifici umani, ed è stato tramandato quasi invariato. Io stesso rimasi sempre profondamente emozionato da questa misteriosa e sinistra vicenda, pur essendo soddisfatto di non dovere far dipendere le mie decisioni dai responsi di un oracolo.
Un autunno allegro a Lhasa Quando arrivò l'autunno erano già passati molti mesi dal nostro arrivo a Lhasa, e io e Aufschnaiter ci eravamo completamente acclimatati. Questa era la migliore stagione dell'anno. I giardini in fiore, ai quali avevo così tanto lavorato, erano nel pieno del loro splendore, e gli alberi avevano appena cominciato a ingiallire. Frutta ce n'era in abbondanza: pesche, mele, uva delle province meridionali, magnifici pomodori e grosse zucche erano in mostra ai mercati. Era in questa stagione che i nobili davano le loro grandi feste, alle quali un'incredibile scelta di leccornie veniva offerta agli ospiti. Era il momento giusto per le escursioni, ma sfortunatamente nessun tibetano aveva intenzione di scalare una montagna per puro divertimento. Solo motivi religiosi spingevano i monaci a scalare in determinati giorni le cime circostanti, e i nobili mandavano con loro i servi, per rendere benigni gli dei accendendo in loro onore fuochi sacrificali d'incenso. Le alte montagne ventose risuonavano di preghiere e nuove banderuole sacre venivano issate sulle vette, mentre le impertinenti cornacchie volavano intorno in attesa di mangiare le offerte a base di tsampa. Ma ogni devoto è contento di ritornare in città dopo due o tre giorni. Viceversa, io e Aufschnaiter ci dedicammo con grande piacere a scalare tutte le vette dei dintorni. Non offrivano particolari difficoltà tecniche, che Heinrich Harrer
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ci sarebbero state gradite, ma ognuna ci donava uno splendido panorama. Verso sud potevamo vedere l'Himalaia, e vicino a noi svettava la catena del Nyenchen Thangla, che avevamo oltrepassato otto mesi prima mentre ci stavamo dirigendo verso Lhasa. Dalla città non si vedeva alcun ghiacciaio. La credenza secondo la quale nel Tibet si trova ovunque neve e ghiaccio è assolutamente falsa. Ci sarebbe piaciuto andare a sciare, ma se anche avessimo potuto ripetere il nostro esperimento di costruirci da soli due paia di sci, le distanze erano eccessive. Avremmo avuto bisogno di cavalli, tende e servi. Fare sport in una regione disabitata è un'attività molto costosa. Così dovemmo accontentarci di fare qualche scalata. Il nostro equipaggiamento non era esattamente professionale. Portavamo anfibi e altri articoli militari, venduti al Tibet da commercianti americani. Erano sufficienti per i nostri scopi. I tibetani non potevano fare a meno di meravigliarsi per la velocità con la quale completavamo i nostri giri. Una volta fui costretto ad accendere un falò con l'incenso perché i nostri amici ci vedessero dai tetti delle loro case. Altrimenti nessuno avrebbe creduto che avessimo raggiunto quella cima. Aufschnaiter e io eravamo soliti metterci una giornata a percorrere il cammino che i servi dei nostri amici facevano in tre giorni. Il primo tibetano al quale pensai di infondere un po' di entusiasmo per le arrampicate fu il mio amico Wangdùla, che era dotato di un'ottima capacità di resistenza. Più tardi altri amici ci accompagnarono, e tutti trassero grande godimento dal panorama e dai magnifici fiori montani che avevamo trovato. La mia escursione preferita era quella a un piccolo lago di montagna distante meno di una giornata di marcia da Lhasa. La prima volta che ci andai fu durante la stagione delle piogge, quando si aveva paura che le acque straripassero e sommergessero la città. Secondo una vecchia leggenda, questo posto è collegato da un canale sotterraneo a un lago misterioso che dicono esistere sotto la cattedrale. Ogni anno il governo era solito mandare monaci a rendere propizi gli spiriti del lago con offerte e preghiere. Anche i pellegrini si recavano nei suoi pressi e buttavano anelli e monete nell'acqua. Vicino a questo c'erano alcune piccole capanne in pietra dove si poteva trovare riparo. Io trovavo che il lago, con i suoi insignificanti innalzamenti del livello dell'acqua, non rappresentasse certo un pericolo per la sicurezza della città. Anche se fosse straripato, non avrebbe fatto alcun danno. Era un piccolo posto idilliaco, immerso nella Heinrich Harrer
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pace. Mandrie di pecore selvatiche, marmotte, volpi e gazzelle bighellonavano casualmente nei dintorni, e alti nel cielo gli avvoltoi barbuti volavano in cerchio. Per tutte queste creature l'uomo non era un nemico. Nessuno avrebbe osato cacciare nelle vicinanze della città santa. La flora che circondava il lago avrebbe attratto qualunque botanico. Meravigliosi papaveri gialli e blu crescevano sulle sponde. Questi sono una specie propria del Tibet, che altrove si possono trovare soltanto al giardino botanico di Londra. Queste spedizioni, però, non placavano il mio appetito di sport. Pensavo spesso al modo di trovare qualche variante. Un giorno mi venne l'idea di costruire un campo da tennis. Riuscii a interessare al mio progetto un certo numero di persone e cominciai a raccogliere adesioni e fondi per il Lhasa Tennis Club. L'elenco dei membri aveva un carattere spiccatamente internazionale. Vi figuravano indù, cinesi, sikkimesi, nepalesi e naturalmente molti giovani nobili di Lhasa. Questi erano rimasti dapprima esitanti, dato che a suo tempo il governo aveva proibito il gioco del calcio. Ma potei dissipare le loro preoccupazioni convincendoli che il tennis non era uno sport che attirasse spettatori e non poteva quindi causare difficoltà, né essere osteggiato dalla Chiesa. Del resto, anche la legazione britannica possedeva un campo da tennis, un prezioso appoggio morale per noi. Assunsi alcuni operai per far spianare presso il fiume un terreno adatto, e in un mese fu tutto pronto. Ero molto orgoglioso del mio lavoro. Avevamo ordinato reti, racchette e palline dall'India, e con una piccola festa d'inaugurazione venne dato l'avvio al Lhasa Tennis Club. Ci fu un'accanita competizione fra i bambini per diventare raccattapalle. Erano paurosamente maldestri, non avendo mai avuto una pallina fra le mani prima di quel momento. Ma quando invitammo membri della legazione britannica a giocare con noi, i soldati che facevano parte delle guardie del corpo della delegazione nepalese vennero e recuperarono le palline per noi. Era impressionante vederli correre nelle loro splendide uniformi. Presto riuscimmo a radunare un buon numero di giocatori piuttosto bravi. Senza alcun dubbio il migliore era Liu, il segretario della legazione cinese, seguito a ruota da Richardson, il capo della rappresentanza britannica, uno sparuto scozzese molto rigido nel suo lavoro. Aveva un grande hobby: il suo splendido giardino ricco di fiori e di piante. Quando Heinrich Harrer
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si andava a trovarlo, sembrava di trovarsi in mezzo a un giardino incantato. Le partite di tennis fornirono anche l'occasione di nuovi incontri mondani. Vennero spesso organizzate feste, ora al campo ora presso la legazione britannica, dopo le quali si beveva il tè e si giocava a bridge. Io consideravo questi incontri come le mie uscite sociali domenicali, e mi piaceva prendervi parte. Bastava vestirsi decentemente, immedesimarsi e provare per un momento la sensazione di essere improvvisamente tornati nell'ambiente di provenienza di ciascuno di noi. Anche il mio amico Wangdùla si misurò in questo campo. Si dimostrò un accanito giocatore di tennis e un eccellente compagno di bridge. Il nostro campo da tennis aveva anche un altro vantaggio: potevamo giocarvi tutto l'anno. Ma nella stagione delle tempeste di sabbia dovevamo stare attenti. Invece che con reti metalliche, avevamo chiuso il campo con alte tendine, così quando vedevamo le nubi che si avvicinavano al Potala, dovevamo essere pronti a tirarle giù prima che venissero spazzate via dalla tempesta. I tibetani hanno d'autunno i propri divertimenti tradizionali. Primo fra tutti è il lancio di aquiloni. Quando, cessate le piogge, la chiara aria autunnale invita la gente a uscire all'aperto, i bazar sono pieni di cervi volanti nei colori più smaglianti. Il gioco incomincia esattamente il primo giorno dell'ottavo mese tibetano. E non soltanto per i bambini come da noi: si tratta di una vera festa popolare, alla quale partecipano con molto entusiasmo anche i nobili. Sul Potala sale in aria il primo drago volante: a questo segnale in un baleno il cielo si riempie di aquiloni. Bambini e adulti stavano per ore sui tetti a far volare i loro aquiloni, con l'intensa concentrazione di un campione di scacchi o di tennis. Gli aquiloni venivano fatti volare per mezzo di lunghi e solidi fili di spago trattati con colla e vetro in polvere. Lo scopo del gioco è quello di incrociare il filo del tuo avversario e di tagliarlo passandovi attraverso. Quando questo succede si sentono urla di gioia provenire dai tetti. Gli aquiloni staccati cadono lentamente verso terra, e una volta toccato il suolo i bambini vi si avventano sopra. In quel momento l'aquilone appartiene a loro. Questo gioco viene praticato durante un mese in ogni ora libera, e cessa poi all'improvviso, come all'improvviso era incominciato. Un giorno, mentre mi aggiravo nel bazar ammirando gli aquiloni, fui fermato da un tibetano a me del tutto sconosciuto, che mi propose di acquistare un orologio. Si trattava invero di un catorcio completamente Heinrich Harrer
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arrugginito, senza quadrante. L'individuo mi disse che, essendosi rotto il meccanismo, non sapeva cosa farsene, ma che io, come europeo, avrei forse potuto ripararlo. Proprio per questo motivo potevo pagarlo quanto volevo. Preso in mano l'orologio, lo riconobbi subito: era l'orologio da polso di Aufschnaiter, che aveva venduto quando ancora eravamo nel Tibet occidentale, uno dei primi Rolex impermeabili, da lui usato durante la spedizione al Nanga Parbat. Aufschnaiter se ne era staccato con grande rammarico. Pensai che gli avrebbe fatto piacere ritrovarlo, anche se non funzionava più. Era comunque una sorpresa. Senza nutrire molte speranze, affidai l'orologio a un abile artigiano musulmano, che rimase entusiasta del meccanismo e riuscì a farlo rifunzionare. Lo regalai ad Aufschnaiter per il suo compleanno. Avreste dovuto vedere la sua faccia quando se lo ritrovò davanti! D'autunno pare che in tutti gli strati sociali del Tibet si ridesti il desiderio di attività fisica. Talvolta potei osservare i monaci-funzionari nelle loro ore libere nel giardino degli tsedrung. Il loro più grande divertimento consisteva in un gioco, all'apparenza molto primitivo, ma che richiedeva grande abilità. Lanciavano pietre rotonde per colpire un corno di yak che a circa trenta metri di distanza veniva collocato sul terreno come fosse un birillo. Quante più volte lo si rovesciava, tanto più denaro si vinceva. Ci provai parecchie volte, ma non posso affermare di aver avuto grande successo... In autunno si organizzano anche i grandi mercati di bestiame. Centinaia di cavalli vengono portati in città da Siling, che si trova nella Cina nordoccidentale, mediante carovane gigantesche. Per animali particolarmente belli vengono pagati prezzi molto elevati, perché gli aristocratici tengono molto ad avere nelle loro scuderie, ogni anno, un nuovo cavallo di razza. Naturalmente solo i ricchi se lo possono permettere. La gente comune, se cavalca, usa i pony tibetani, ma la nobiltà è tenuta a comprare buoni cavalli. Un ministro di gabinetto, ad esempio, deve essere accompagnato da almeno sei uomini in uniforme: quando cavalca, ogni nobile deve essere accompagnato da un certo numero di servi. Ogni nobile, secondo il suo grado e la sua posizione, possiede da due a venti cavalli. Ho visto cavalcare anche molte signore dell'aristocrazia. Portano gonne molto ampie che permettono loro di mettersi a cavalcioni sulla sella, e spesso accompagnano i mariti per settimane, quando vanno in Heinrich Harrer
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pellegrinaggio o vengono trasferiti dal governo. Grande importanza si attribuisce alla bellezza dei finimenti. In città tutti i funzionari devono usare le tradizionali selle di legno, fatte a guisa di culla. Ma per lunghi tragitti queste sono molto scomode, sia per l'animale che per il cavaliere, ragione per cui si preferisce in quelle occasioni servirsi delle selle di pelle. Nelle processioni poi si vedono meravigliose selle ornate d'oro e d'argento e preziose gualdrappe. Dai finimenti si può riconoscere subito il rango del cavaliere: se sul collo del cavallo ciondola una gigantesca nappa rossa il padrone è un nobile ragguardevole; se ne ciondolano due, appartiene a un rango molto elevato. Una giornata emozionante ci fu ancora ai primi di dicembre. Era stata predetta un'eclissi lunare, e i tetti delle case erano affollati, fin dalle prime ore della sera, di curiosi in attesa dello spettacolo. Quando l'ombra della terra coprì lentamente il disco lunare, si udì un mormorio generale. All'improvviso tutti cominciarono a battere le mani e gridare, per scacciare il cattivo demone che si poneva davanti alla luna. Finito l'oscuramento, tutti ritornarono allegri e contenti a casa, per celebrare la vittoria contro il demone, bevendo chang e giocando ai dadi.
Il mio ricevimento di Natale Ci avvicinavamo rapidamente al Natale, e io mi ero riproposto di fare una sorpresa ad amici e conoscenti: una vera celebrazione del Natale con l'albero e i regali. Avevo ricevuto così tanti inviti e così numerose dimostrazioni di simpatia, che volevo a mia volta contraccambiare con una festa. I preparativi mi tennero molto occupato. Il mio amico Trethong, figlio di un ministro defunto, mi prestò per un paio di giorni la sua casa. Assunsi servitori e cuochi pratici, mi procurai il vasellame necessario e comprai per i miei ospiti piccoli doni: lampadine tascabili, temperini, tavoli da ping-pong e giochi di società. Per il mio amico Tsarong e la sua famiglia pensai a qualche regalo particolare. L'attrazione principale era costituita da un albero di Natale. La signora Tsarong mi prestò un ginepro in un bel vaso, e io lo adornai con candeline, mele, noci e dolci: sembrava quasi un autentico albero di Natale. La festa, come usa a Lhasa, incominciò già nella mattinata. Wangdùla mi assisteva come cerimoniere, perché temevo di commettere qualche Heinrich Harrer
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errore di etichetta. Gli ospiti intervennero pieni di curiosità: gettavano occhiate furtive all'albero, meravigliati di vedervi allineati ai piedi dei pacchettini. Erano curiosi come i bambini alla vigilia di Natale. Trascorremmo la giornata mangiando, giocando e bevendo, e calata la sera pregai gli ospiti di passare nella stanza vicina. Wangdùla si infilò la sua pelliccia al rovescio, recitando la parte di Babbo Natale, mentre io accendevo le candeline dell'albero. Il grammofono suonava Stille Nacht, quando d'un tratto la porta si aprì e i miei ospiti stupiti si trovarono davanti all'albero. Liu intonò il canto, e alcuni che conoscevano la melodia dall'epoca dei loro studi in scuole inglesi cantarono in coro. Strana scena. Una riunione eterogenea nel cuore dell'Asia intorno a un albero di Natale, cantando le antiche canzoni di casa nostra. Mi ero sempre costretto a padroneggiare le mie emozioni, ma in quel momento non riuscii a trattenere le lacrime e fui sopraffatto da una dolorosa nostalgia. Non è questa, però, l'impostazione giusta, quando si deve vivere qui. Qui tutto è diverso, paese e gente; si deve trovare un atteggiamento interiore differente e tentare di cogliere il lato positivo di questi usi e costumi. L'allegria degli ospiti, la loro gioia per i regali e un po' di alcol mi aiutarono a superare la commozione. Giunta l'ora di congedarsi, i miei invitati non finivano di ripetere che il capodanno tedesco che avevo organizzato era piaciuto a tutti. Un anno prima erano stati due tozzi di pane bianco a sembrarci il più prezioso dono natalizio nel desolato Changtang. In quel momento invece in una cerchia di buone e brave persone sedevamo a una tavola riccamente imbandita. Non potevamo certo lamentarci della nostra sorte.
Un periodo di grande attività Senza festeggiamenti particolari entrammo nell'anno 1947. Aufschnaiter, terminata la costruzione del suo canale di irrigazione, aveva davanti a sé un nuovo grande incarico. Lhasa possedeva una vecchia centrale elettrica, edificata vent'anni prima da uno dei quattro alunni di Rugby. Ora era completamente trascurata, e non forniva quasi più energia. Nei giorni feriali bastava a malapena ad azionare le macchine della zecca e soltanto il sabato, giorno di riposo, c'era sufficiente energia per fornire luce ad alcune case private e alle abitazioni dei ministri. Heinrich Harrer
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Il Tibet provvede da se stesso alla propria moneta sia cartacea che metallica. L'unità è il sang, con la suddivisione decimale di sho e karma. Le banconote sono impresse su carta indigena, resistente, a colori e filigranata. Le cifre sono dipinte con molta abilità a mano, e tutti i tentativi di falsificazione sono finora abortiti per la difficoltà di imitarne il disegno. I biglietti sono molto appariscenti. Le monete sono coniate in oro, argento e rame, e portano gli emblemi del Tibet: montagne e leoni. Anche la bandiera nazionale e i francobolli mostrano, accanto a un sole levante, questi simboli. Poiché l'attività di questa piccola zecca era legata alla fornitura di energia elettrica, il governo si rivolse ad Aufschnaiter, affinché migliorasse e sviluppasse la vecchia centrale. Gli riuscì di convincere gli uffici competenti che in tale modo non si sarebbe conseguito un reale vantaggio, e che bisognava sfruttare invece la forza dell'acqua del Kyi Chu. La vecchia centrale elettrica era installata presso la stanca acquetta di un braccio secondario del fiume. Il governo temette inizialmente che gli dei avrebbero punito Lhasa, se l'acqua del fiume sacro fosse stata utilizzata per un simile scopo. Per merito di Aufschnaiter i ministri si convinsero di essere in errore, ed egli poté incominciare subito con le misurazioni. Per non dover fare ogni giorno il lungo cammino fino al cantiere, gli fu assegnata un'abitazione fuori della città, nel padiglione di una tenuta. Ci vedevamo ora più di rado. La mia attività di maestro mi tratteneva in città, e davo anche lezioni di tennis. I miei scolari grandi e piccoli facevano in genere buoni progressi, ma purtroppo la costanza non è una virtù tibetana. Da principio ogni cosa nuova li entusiasma, ma il loro interesse dopo poco tempo si esaurisce. Perciò i miei scolari cambiavano spesso, e ciò non mi soddisfaceva molto. I bambini dei nobili che istruivo erano tutti intelligenti e svegli, e per facoltà di comprendere non erano affatto inferiori ai nostri. Nelle scuole indiane gli alunni tibetani sono allo stesso livello di quelli europei. Non bisogna dimenticare che essi devono anche imparare la lingua dei propri insegnanti. Forse proprio grazie a questo handicap iniziale non è raro il caso che proprio essi siano i primi della classe. C'era un ragazzo di Lhasa che studiava al St Joseph College di Darjeeling che non solo era il migliore alunno della scuola, ma era anche un campione in tutti i giochi e gli sport. A parte le mie ore di insegnamento, le occupazioni per conseguire altri guadagni non mi mancavano. A Lhasa il denaro è proprio a portata di Heinrich Harrer
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mano: basta avere un po' di iniziativa. Avrei potuto ad esempio installare una latteria per la vendita di burro e latte o procurarmi in India una macchina per fornire ghiaccio da tavola. Erano ricercati orologiai, calzolai e giardinieri. Un vasto campo di possibilità di guadagno offriva anche il commercio, specie conoscendo la lingua inglese. Molti vivono della vendita di merci comprate nei bazar indiani. Non è necessaria una licenza, non vengono riscosse tasse. Molti rami sono esercitati senza alcuna concorrenza, e i prezzi vengono stabiliti a proprio piacimento. Ma noi non avevamo intenzione di fare i commercianti o di guadagnare denaro, volevamo trovare un lavoro che ci desse anche soddisfazioni. E soprattutto ci premeva renderci utili al governo, per giustificare l'ospitalità accordataci. Perciò eravamo molto contenti quando la gente si rivolgeva a noi: anche se eravamo considerati tuttofare, questo era un modo per dimostrare la nostra gratitudine. Talvolta però ci mettevano in grande imbarazzo, perché non sempre eravamo all'altezza come si riteneva. Un giorno, ad esempio, ricevemmo l'incarico di ridorare le statue in un tempio. Per fortuna trovammo nell'inesauribile biblioteca di Tsarong un libro di formule con una norma per trasformare polvere d'oro in porporina. Si dovettero far venire a tal fine parecchie sostanze chimiche dall'India, perché i nepalesi, maestri nell'arte della doratura e dell'argentatura, custodiscono gelosamente il segreto del loro procedimento. Il Tibet possiede grandi campi auriferi, ma in nessuna parte si sfruttano razionalmente i filoni. Da tempi immemorabili si continua nel Changtang a scavare con corni di gazzella nel modo più primitivo. Un inglese mi disse un giorno che probabilmente varrebbe la pena di sottoporre a un nuovo sfruttamento con metodi moderni il terreno già saggiato dai tibetani. Alcune province devono pagare anche oggi le loro imposte con pepite d'oro. Ma non si scava più di quanto sia assolutamente necessario, di nuovo per la paura di disturbare gli spiriti della terra e provocarne la vendetta. È soprattutto questa superstizione che impedisce ogni progresso. Molti grandi fiumi dell'Asia hanno la loro sorgente nel Tibet e trasportano con sé l'oro delle montagne. Ma soltanto i paesi limitrofi ne hanno incominciato lo sfruttamento, e solo in poche regioni, dove il setaccio dell'oro è davvero redditizio, viene praticato anche nel Tibet. Nel Tibet orientale scorrono fiumi nei quali sono scavate buche a forme di bacino. Là si raccolgono spontaneamente le pepite, e basta di tanto in tanto andarle a prendere. In linea generale è il governatore distrettuale che si Heinrich Harrer
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riserva il monopolio della raccolta a nome del governo. Mi sono sempre meravigliato che nessuno abbia mai pensato di approfittare di questi tesori per proprio conto. Se nei dintorni di Lhasa si nuota sott'acqua nei ruscelli, si vedono scintillare alla luce solare i pulviscoli d'oro. Ma la ricchezza giace inutilizzata, come in molte altre regioni di questo paese, in parte perché anche questo lavoro relativamente leggero sembra troppo faticoso per i tibetani. D'altronde nel Tibet si ama l'oro più che da noi, ma non tanto per il suo valore materiale, quanto quale mezzo d'espressione di lusso e prestigio. Tutti i gioielli sono magnifici lavori d'oreficeria, e nei templi sono ammassati patrimoni incalcolabili. Lampade a burro, alte un metro, sono d'oro massiccio. Immagini di dei, alte quattro piani e rivestite di lamine d'oro, e monumenti funerari di una sontuosità inconcepibile testimoniano sia la smania tibetana di sfarzo, sia la volontà di sacrificio. Gente povera spesso non esita a rinunciare all'unico anello che possiede per offrirlo al tempio: non vogliono soltanto rendere benigni gli dei, ma anche contribuire all'accumulo di tesori che per loro hanno un significato così grande. Analoga la situazione dello sfruttamento minerario: mica, ferro, rame, argento e altri metalli vengono inviati annualmente a Lhasa come tributo tradizionale delle province. Ma nessuno pensa a fondare un'industria o a sfruttare a proprio beneficio le ricchezze del terreno. Non si vuole provocare la collera degli spiriti della terra, e si temono i terremoti come castigo. Si preferisce far venire dall'India, a costo di un viaggio di settimane attraverso le montagne, le piastre di rame per la zecca, oppure si comprano vecchie molle di vagoni ferroviari per forgiarne spade. Invece di scavare il carbone dalle profondità della terra, si fa essiccare lo sterco degli yak e dei cavalli per ricavare il combustibile. Perfino il prezioso salgemma è lasciato dormire, perché i laghi privi di sbocco del Changtang forniscono sale a sufficienza. Ogni anno ne vengono portati migliaia di carichi nel Buthan, nel Nepal e in India, per scambiarli con riso. Si incontrano addirittura pozze di petrolio a cielo aperto, e la gente vi attinge il liquido per accendere le lampade fumose. Esiste forse qua e là qualche tibetano intraprendente che sogna di arricchirsi mediante lo sfruttamento di queste ricchezze, ma nessuno osa essere il primo. Sentono istintivamente che la serena pace della loro esistenza sarebbe finita, se stimolassero gli appetiti dei grandi vicini. Perciò investono piuttosto il proprio capitale nel commercio di cose e Heinrich Harrer
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prodotti meno conturbanti. Poco prima del secondo capodanno a Lhasa ricevemmo le nostre prime lettere da casa dopo tre anni. Le buste avevano viaggiato un anno intero: una portava perfino il timbro di Reykjavik, e aveva fatto il giro del mondo. Che sensazione sapere che ora, malgrado tutto, sussisteva un filo di collegamento fra il «Tetto del mondo» e la lontana patria mai dimenticata. Purtroppo il filo era molto tenue e la posta non funzionò mai in modo migliore. Le notizie dall'Europa non erano molto incoraggianti, e rafforzarono il nostro proposito di stabilirci per sempre a Lhasa. Nessuno di noi due aveva legami particolari nella vecchia patria. Gli anni passati in questo tranquillo angolo del mondo ci avevano riplasmati: avevamo imparato a capire questa gente e il suo modo di pensare, la lingua ci era diventata così confidenziale che non fungeva soltanto da necessario mezzo per farsi intendere, ma ci permetteva anche di prendere parte alle conversazioni, usando tutte le sfumature e i modi di dire convenzionali e complimentosi. Il nostro collegamento con il resto del mondo era stabilito da una piccola radio. Me l'aveva regalata un ministro, con la preghiera di comunicargli tutte le novità politiche, specie se si riferivano all'Asia centrale. Si provava una sensazione davvero irreale nel captare con tanta chiarezza le voci di tutte le nazioni del mondo. Non bisogna dimenticarsi che a Lhasa non c'erano dentisti con i loro trapani elettrici, ascensori, tram e stabilimenti industriali. In effetti non c'era niente che potesse provocare disturbi di ricezione. Iniziavo la giornata ascoltando le notizie, e già di prima mattina dovevo scuotere la testa e stupirmi che in tutto il mondo gli uomini dessero importanza a cose che in fondo non ne avevano. Che un'automobile avesse più cavalli della precedente, che l'oceano fosse stato sorvolato con due minuti di vantaggio sulla velocità del mese prima: com'era secondario tutto ciò! Muta il rapporto rispetto alle cose secondo il punto di vista di chi osserva. Qui la misura della velocità è rappresentata dal passo dello yak, e così è sempre stato, anche mille anni fa. Un'autostrada verso l'India avrebbe senza dubbio elevato il tenore di vita del popolo, ma il ritmo moderno sarebbe penetrato nel paese e l'avrebbe derubato della sua calma e serenità. Non si devono imporre a un popolo conquiste che sono ancora del tutto aliene al suo grado di sviluppo. Nel Tibet vige un bel proverbio: «Non si può giungere al quinto piano del Potala, se non si parte dal Heinrich Harrer
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pianterreno». La civiltà e il modo di vivere dei tibetani non compensano forse i progressi tecnici dei quali andiamo così fieri? Dove, nel mondo occidentale, esiste una cortesia così perfetta? Nessuno qui perde la «faccia», né qualcuno cerca di farsi notare. Anche avversari politici si trattano con rispetto e cortesia e si salutano amichevolmente incontrandosi in strada. Le mogli dei nobili sono colte e raffinate, il loro gusto nella scelta dei vestiti e delle gioie è esemplare: sono squisite padrone di casa. Si sarebbe trovato ovvio che noi due, celibi, avessimo accolto in casa una o più donne. I nostri amici tibetani ci proposero di prenderne almeno una in comune. In ore solitarie, per dire la verità, mi era venuta qualche volta l'idea di cercarmi una compagna. Ma per quanto più di una mi piacesse, non mi sono mai potuto decidere per un legame duraturo. Non c'erano sufficienti punti di contatto psichico, e tutto il resto non mi bastava per condurre la vita in comune con una donna. Volentieri avrei invitato a raggiungermi una donna della mia patria. Purtroppo mi mancavano i mezzi, e più tardi furono gli avvenimenti politici a impedirmelo. Vivevo dunque da solo, e questa circostanza si dimostrò di grande vantaggio quando entrai in contatto più stretto con il Dalai Lama. La cerchia dei monaci detentori del potere avrebbe probabilmente visto sotto una luce peggiore i nostri incontri, se fossi stato sposato. I monaci infatti vivono in rigoroso celibato, e ogni contatto con donne viene scrupolosamente evitato. L'omosessualità è invece un fenomeno assai diffuso: la si costata anzi con compiacimento, come prova del fatto che la donna non prende parte alla vita dei monaci. Avviene talora che qualche monaco si innamori e chieda di deporre la tonaca per sposare la prescelta. Ciò viene accordato senza difficoltà: chi è nobile per nascita torna a ricoprire lo stesso grado come funzionario civile, mentre il monaco di origine plebea perde il suo rango e trova il suo sostentamento nel commercio. Severamente puniti sono invece quei casi in cui qualche monaco mantiene rapporti con donne senza aver chiesto l'uscita dall'ordine. Malgrado la volontaria solitudine in cui vivevo, il tempo passava con incredibile rapidità. Le mie ore libere erano riempite da letture e da inviti. C'erano poi i regolari incontri fra Aufschnaiter e me, dato che non vivevamo più insieme. Lo scambio di idee era un'assoluta necessità per entrambi. Tuttavia non eravamo completamente soddisfatti della nostra Heinrich Harrer
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attività, e spesso ci sorse il dubbio che forse avremmo potuto mettere a maggior profitto il nostro tempo. Proprio nel campo dell'esplorazione ci sarebbe stato da fare moltissimo in questo paese ancora vergine. Spesso progettavamo di abbandonare Lhasa e di percorrere il paese come un tempo, quali poveri pellegrini da luogo a luogo, per conoscerlo come mai nessuno prima di noi. Aufschnaiter sognava di passare un anno presso il Nam, il grande lago misterioso, per osservarne il flusso e riflusso.
Gli stranieri e il loro destino nel Tibet Se anche il soggiorno a Lhasa a poco a poco non costituì più per noi un fatto sensazionale, ci era tuttavia chiaro che dovevamo ritenere una grande fortuna poter vivere in questo paese. Il governo ci incaricava spesso di tradurre lettere giunte da tutto il mondo e concernenti i più vari campi professionali, i mittenti delle quali chiedevano permessi d'entrata nel Tibet. Molti si offrivano di lavorare in cambio di vitto e alloggio, soltanto per poter conoscere il paese. Altre lettere provenivano da tubercolotici, che speravano che la purezza dell'aria tibetana potesse giovare alla loro salute o prolungare la loro vita. Questi malati ricevevano sempre una risposta, accompagnata regolarmente dagli auguri personali e dalla benedizione del Dalai Lama, spesso anche da un'offerta in denaro. Alle altre richieste non veniva mai risposto. E mai veniva concessa l'autorizzazione di entrata. Il Tibet faceva di tutto per rimanere isolato. Restava sempre il Paese Proibito, per quanto le offerte potessero essere allettanti. Gli stranieri che incontrai durante i cinque anni del mio soggiorno a Lhasa non furono più di sette. Nel 1947, dietro raccomandazione degli inglesi, fu invitato ufficialmente il francese Amaury de Riencourt, un giovane giornalista che si fermò tre settimane a Lhasa. Un anno dopo arrivò il celebre tibetologo Giuseppe Tucci, di Roma. Era quello il suo settimo viaggio nel Tibet, ma soltanto allora gli era riuscito di giungere fino a Lhasa. Il professore era riconosciuto come la massima autorità nel campo della storia e della civilizzazione del Tibet, e aveva tradotto numerosi libri tibetani e pubblicato numerosi suoi lavori. Egli meravigliava sempre i cinesi, i nepalesi, gli indù e i tibetani per la sua profonda conoscenza della storia dei loro paesi. Spesso mi sono incontrato con lui durante i ricevimenti, e Heinrich Harrer
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una volta, presenti numerosi tibetani, in una discussione svoltasi fra me e i miei amici, egli si schierò contro di me. Si discuteva della forma della terra. Nel Tibet vigeva l'opinione tradizionale che fosse un disco piatto, e io sostenni naturalmente la teoria della forma sferica. Le mie argomentazioni sembravano convincenti anche per i tibetani, e a maggior prova, davanti a tutti gli ospiti, pregai il professor Tucci di volerle confermare. Con mia grande sorpresa egli prese le parti dei dubbiosi, sostenendo che tutte le scienze erano costrette a rivedere costantemente le loro teorie, e un giorno si sarebbe magari potuta affermare l'opinione tibetana. Tali parole furono accolte con sorrisetti ironici, perché si sapeva che io insegnavo anche geografia. Il professor Tucci rimase a Lhasa otto giorni, e visitò anche il monastero di Samye, il più famoso del Tibet. Ripartì con un ricco bottino scientifico e molti preziosi libri della tipografia del Potala. Nel 1949 giunse a Lhasa un'altra visita interessante; i due americani Lowel Thomas senior e junior. Anche loro si fermarono otto giorni, prendendo parte ai quotidiani ricevimenti dati in loro onore. Furono ammessi anche alla presenza del Dalai Lama. Entrambi girarono un film e presero ottime fotografie del paese e degli abitanti. Il figlio scrisse con abilità giornalistica un libro che ebbe grande successo. Il padre, famoso radio-commentatore negli Stati Uniti, fece registrazioni su nastro per le sue trasmissioni. Li invidiai molto per il loro equipaggiamento cinematografico e fotografico, ma soprattutto per l'abbondanza di pellicole. Perché a quell'epoca, insieme con il mio amico Wangdùla, avevo acquistato una Leica, ma soffrivo sempre della mancanza di pellicole. I due americani mi regalarono un paio di pellicole a colori, le mie prime e uniche. La situazione politica aveva favorito la richiesta di entrata dei due americani. La minaccia del Tibet da parte dei cinesi, benché già storica, era di nuovo particolarmente attuale. Ogni regime in Cina, imperiale, nazionale o comunista che fosse, aveva sempre avuto mire imperialistiche sul Tibet, che considerava come una delle sue province. Questo atteggiamento era in netto contrasto con i desideri degli abitanti del paese dei lama, perché essi amavano la loro indipendenza, e ne avevano tutto il diritto. Il governo si era deciso a quel gesto per rendere chiara al mondo, attraverso l'attività giornalistica dei due americani, la volontà d'indipendenza del paese. Heinrich Harrer
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Oltre a questi quattro ospiti del governo arrivarono nel Tibet un ingegnere e un meccanico con incarichi professionali. L'ingegnere era inglese e lavorava per la General Electric Company. Aveva ricevuto l'incarico di fare l'installazione del macchinario nella nuova centrale elettrica. Egli lodò molto i lavori eseguiti da Aufschnaiter. Il meccanico, Nedbailov, era un russo bianco che si era aggirato nell'Asia fin dall'inizio della rivoluzione bolscevica. Era infine approdato allo stesso nostro campo di prigionia, Dehra Dun, e doveva essere rimpatriato in Unione Sovietica nel 1947. Per salvare la testa era fuggito nel Tibet, ma fu di nuovo arrestato subito dopo il confine, dato che il territorio era sotto il controllo inglese. Alla fine gli concessero di rimanere nel Sikkim, essendo un abile meccanico. Fu chiamato a Lhasa per riparare le macchine della vecchia centrale elettrica. Ma pochi mesi dopo il suo arrivo, i cinesi assalirono il Tibet e dovette fuggire un'altra volta. Si diceva che fosse approdato in Australia. Il suo destino era un'eterna fuga. Aveva la natura dell'avventuriero, e sembrò superare tutti i pericoli senza problemi. Oltre al suo lavoro amava molto l'alcol e le giovani donne: dell'uno e delle altre c'era abbondanza nella città santa. La proclamazione d'indipendenza dell'India determinò anche la sorte della legazione britannica a Lhasa. Il suo personale fu sostituito dagli indiani, e soltanto Richardson vi rimase fino al settembre 1950 perché non poté essere rimpiazzato da un altro funzionario che avesse la necessaria esperienza. Reginald Fox fu assunto come radio-operatore dal governo tibetano. Ebbe l'incarico di impiantare in tutti i punti strategicamente importanti delle stazioni radio, perché il pericolo di un'invasione da parte della Cina Popolare diventava sempre più minaccioso. Per Chamdo, punto cruciale nel Tibet orientale, occorreva un uomo di piena fiducia, e Fox ebbe il permesso di far occupare quel posto da un giovane inglese, Robert Ford. Lo conobbi fuggevolmente a Lhasa: era un giovane simpatico e un provetto ballerino. Fu lui a insegnare alla gioventù nobile di Lhasa la prima samba. Nei ricevimenti si ballava molto volentieri, perlopiù danze indigene simili agli step, talvolta anche un rapido fox-trot. I vecchi scuotevano la testa e trovavano un po' indecente che ballerino e ballerina si tenessero così stretti, come del resto da noi alcuni decenni fa, quando il valzer fece il suo ingresso trionfale. Ford partì poi con una numerosa carovana per Chamdo, e ben presto non Heinrich Harrer
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ci si poté intrattenere con lui che attraverso la radio. Era quello un posto assai solitario, a centinaia di chilometri da Lhasa. Non era facile viverci come unico europeo. Ma tutti i radioamatori del mondo intero facevano a gara per avere un colloquio con Robert Ford. A causa di queste comunicazioni Ford e Fox ricevettero una valanga di lettere e di regali da tutte le parti della terra. Disgraziatamente gli appunti di Ford concernenti tali conversazioni gli divennero fatali. Durante la sua fuga per salvarsi dai cinesi fu arrestato, e divenne oggetto dei più incredibili sospetti, per trovare un pretesto per la sua condanna. Lo si accusò di aver avvelenato un lama, e le annotazioni nel suo libretto di appunti furono interpretate come prova di spionaggio. Ancora oggi questo giovane simpatico e innocente è prigioniero dei cinesi. L'ambasciatore britannico a Pechino non è finora riuscito a farlo rimettere in libertà. Ancora un altro bianco ebbi occasione di incontrare durante i miei sette anni nel Tibet: l'americano Bessac, del quale parlerò in seguito.
In udienza dal Dalai Lama Quando giunse il mio secondo capodanno a Lhasa, presi parte a tutte le fasi della festa fin dall'inizio. Di nuovo affluirono in città decine di migliaia di persone, e Lhasa si trasformò in un grande accampamento. Si festeggiava l'inizio dell'anno «Fuoco-Maiale» e lo sfarzo delle cerimonie non fu inferiore rispetto all'anno precedente. A me naturalmente interessavano soprattutto quei riti ai quali non avevo potuto assistere un anno prima a causa della mia malattia. Ricordo ancora oggi nel modo più vivo la sfilata dei mille soldati in armature antiche. Questo costume risale a un evento storico. Una volta un esercito musulmano si era messo in moto per invadere Lhasa, ma durante la marcia straordinariamente faticosa era stato sorpreso da una terribile tormenta di neve ai piedi della catena del Nyenchen Thangla. I bònpo di quel territorio avevano portato le armature dei soldati assiderati in trionfo a Lhasa, e da quell'epoca queste vengono riesumate ogni anno e indossate da mille soldati tibetani che le offrono all'ammirazione della folla. Sfilano le vecchie bandiere, le cotte a maglie degli uomini e dei cavalli tintinnano, gli elmi con le iscrizioni urdu scintillano al sole, nelle strette vie echeggiano gli spari delle antidiluviane armi ad avancarica. Nel complesso un raro corteo medievale nell'antica Heinrich Harrer
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città. In questa cornice fa un effetto così autentico che potrebbe essere realtà, non reminiscenza storica. Con alla testa due generali appartenenti alla nobiltà, la truppa attraversa il Barkhor e prende posizione sopra una spianata ai margini della città. Là sono già in attesa decine di migliaia di persone radunate intorno a un immenso fuoco, dalle cui fiamme salgono al cielo le offerte sacrificali: immense quantità di burro e di grano. La moltitudine assiste affascinata, mentre i monaci gettano nelle fiamme teschi di morto e figure simboliche di spiriti maligni. Nello stesso tempo cupe cannonate si ripercuotono da monte a monte: da mortai incassati nel terreno i soldati sparano salve di saluto in onore di ogni vetta. Il punto culminante della cerimonia arriva quando l'Oracolo in trance si avvicina traballante al fuoco e dopo una breve danza crolla svenuto. È questo il segnale che libera la folla dal suo irrigidimento. In quei momenti la massa si sottrae a ogni controllo: gridando e gesticolando tutti si agitano come fanatici in estasi. Nel 1939 i membri dell'unica spedizione tedesca nel Tibet si salvarono, durante tale festa, solo a fatica dalla morte. Avevano cercato di filmare l'Oracolo avanzante in trance, e ne furono impediti dalla folla con una pioggia di pietre. Dovettero scappare, arrampicandosi sui tetti. Questo incidente non fu una manifestazione di odio politico e di xenofobia, ma scaturì soltanto dal fanatico sentimento religioso del popolo, che può talvolta provocare simili reazioni. Io stesso dovetti stare molto in guardia quando, in seguito, per incarico del Dalai Lama, dovetti fare alcune riprese cinematografiche della cerimonia, perché quasi ogni volta avvennero esplosioni di fanatismo estatico. In occasione delle feste di questo capodanno il grande ciambellano del dio-re ci comunicò che i nostri nomi figuravano nell'elenco delle persone invitate dal Dalai Lama. Nonostante lo avessimo visto già alcune volte ed egli ci avesse palesemente sorriso durante le processioni, eravamo tuttavia molto emozionati di presentarci al suo cospetto nel Potala. Sentivo che questo invito doveva assumere una grande importanza per noi: in effetti fu l'inizio di quel processo che mi condusse più tardi a un intimo contatto con il sovrano. Il giorno fissato indossammo le nostre pellicce e, comprate le più costose sciarpe bianche che avevamo potuto trovare in città, salimmo, in mezzo a una folla variopinta di monaci, nomadi e donne sontuosamente vestite, i molti gradini di pietra che conducono al Potala. Quanto più si Heinrich Harrer
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saliva, tanto più era impressionante la vista della città sotto di noi: soltanto da lì si potevano ammirare veramente i bei giardini e le case somiglianti a villette. Percorsa la via fiancheggiata da innumerevoli mulini di preghiere, che i passanti mantenevano in moto, attraverso il grande portone principale entrammo nel palazzo. Corridoi bui, con alle pareti dipinti che rappresentavano strani dei tutelari, conducevano attraverso i piani inferiori in un cortile, dove sboccavano giganteschi pozzi di luce, scavati nei muri di uno spessore da otto a dieci metri. Da questo cortile, ripide scale portavano ai piani superiori fino al tetto. Prudentemente, uno dopo l'altro, i visitatori salivano i gradini preoccupati di fare il minor rumore possibile. I giganteschi monaci-soldati non avevano bisogno di fare uso delle loro fruste per mantenere l'ordine. In alto era già radunata una folla immensa, perché durante il capodanno ogni tibetano ha diritto di ricevere personalmente dal Buddha Vivente la benedizione. Sul tetto c'erano anche molte piccole costruzioni con tetti dorati: gli appartamenti del Dalai Lama. In lunga fila, in testa alcuni monaci, i fedeli si dirigevano verso una porta, davanti alla quale i monaci-funzionari stavano tenendo la loro riunione quotidiana. Dopo i monaci eravamo di turno noi due. Entrati nella sala delle udienze, allungammo il collo per poter scorgere subito, al di sopra di quel mare di teste, il Buddha Vivente. Anch'egli, dimenticando per un istante la sua maestà, allungò il collo per vedere i due stranieri, dei quali aveva sentito parlare così spesso. Nella posizione del Buddha, lievemente chino in avanti, egli sedeva su un trono incorniciato da preziosi broccati. Per ore e ore i fedeli sfilavano davanti a lui ed egli li benediceva. Ai piedi del trono si accumulavano montagne di sacchetti pieni di soldi, rotoli di seta e sciarpe bianche a centinaia. Sapevamo che non ci era lecito porgergli personalmente le nostre sciarpe: un abate le avrebbe prese in consegna. Quando gli fummo proprio davanti non potei fare a meno di dare, contrariamente all'etichetta, una furtiva occhiata al suo volto. Un curioso sorriso da fanciullo illuminava i suoi chiari e bei lineamenti. Con la mano benedicente mi premette leggermente la testa, come faceva quando gli si prostravano davanti i monaci. Tutto avvenne con grande rapidità, un istante dopo ci trovammo già davanti al trono più basso del reggente. Anch'egli ci benedisse con l'imposizione della mano, poi un abate ci mise al collo una sciarpa rossa, un amuleto, e ci invitò a prendere posto su dei cuscini. Heinrich Harrer
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Vennero serviti riso e tè e, in conformità all'uso, gettammo a terra alcuni chicchi come offerta agli dei. Dal nostro angolo tranquillo potemmo poi osservare a nostro agio ciò che si svolgeva intorno a noi. Ancora migliaia di persone passarono davanti al giovane dio-re, per ricevere la sua benedizione. Devotamente curvi, con la lingua fuori. Nessuno osava alzare gli occhi. Una lieve carezza con una nappina di seta sostituiva l'imposizione della mano, riservata ai monaci e a noi. Seguimmo con lo sguardo la lunga fila che non accennava a finire: non ce n'era uno che non avesse portato un piccolo dono. Talvolta si tratta solo di una sciarpa sbrindellata. Poi giunsero pellegrini accompagnati da servi carichi di offerte. Tutti i doni venivano subito registrati dal tesoriere e, se utilizzabili, assegnati all'amministrazione domestica del Potala. Le molte sciarpe di seta venivano rivendute o assegnate come premio nelle gare sportive. Soltanto i sacchetti pieni di soldi che venivano deposti ai piedi del trono diventavano proprietà personale del Dalai Lama. Affluivano nella tesoreria del Potala, dove da secoli si accumulavano immense ricchezze, trasmesse in eredità da un'incarnazione all'altra. Ma ben più impressionante dei doni è la devota sottomissione sulle facce di questa gente. Per molti questo momento è il più importante della loro vita. Numerosi pellegrini hanno percorso migliaia di chilometri per giungere fin qui, si sono gettati nella polvere e hanno fatto lunghi tratti trascinandosi ginocchioni. Molti sono rimasti in viaggio mesi e anni, hanno patito freddo e fame per ricevere qui la benedizione. Il movimento automatico con la nappina di seta mi sembrò un misero compenso per tanta devozione, ma ognuno è raggiante di felicità se un monaco-funzionario gli mette al collo una sottile sciarpa di seta. Questa verrà conservata tutta la vita in uno scrigno, oppure, cucita in un sacchetto, sarà portata addosso nella ferma convinzione che preservi da ogni male. La qualità della sciarpa dipende dal rango di chi la riceve, ma ognuna ha il triplice nodo mistico. Le sciarpe annodate vengono preparate dai monaci-funzionari, e soltanto per i ministri e i più alti membri del clero il Dalai Lama fa i nodi personalmente in loro presenza. L'atmosfera nell'ambiente non molto vasto, che riceveva luce e aria soltanto da un'apertura nel soffitto, era opprimente. L'odore delle lampade a burro e le nuvole di incenso stringevano il petto, su tutti gravava un profondo silenzio, interrotto soltanto dal rumore delle scarpe strascicate. Heinrich Harrer
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Per quanto da lungo tempo avessimo desiderato vedere il dio-re, benché lo spettacolo fosse stato assai interessante sotto vari aspetti, facemmo un grande sospiro di sollievo quando la cerimonia ebbe termine. Probabilmente, eccettuata la folla impetrante la benedizione, tutti i presenti ebbero la stessa sensazione, non esclusi i più alti dignitari, che dovevano assistere in piedi per molte ore all'evento solenne. Ma questo faceva parte del loro alto ufficio, ed era considerato un onore particolare. Non appena l'ultimo pellegrino abbandonò la stanza, il Dalai Lama si alzò. Sostenuto da servitori si recò nei suoi appartamenti privati, mentre noi ci inchinavamo rispettosamente al suo passaggio. Al momento in cui ci apprestammo a uscire ci si avvicinò un monaco-funzionario, che consegnò a ciascuno di noi un nuovissimo biglietto da cento sang, dicendo: «Gyalpo Rinpoche ki sòre re», questo è un dono del nobile sovrano. Il gesto ci sorprese molto, tanto più quando ci venne riferito che nessuno aveva mai ricevuto un dono sotto simile forma. Era tipico di Lhasa il fatto che tutta la città ne fosse già informata prima ancora che l'avessimo potuto raccontare. Per molti anni conservammo quella banconota come talismano, e quando abbandonammo il Tibet dovemmo convenire che ci aveva portato fortuna.
Visitiamo il Potala Dopo l'udienza approfittammo dell'occasione per visitare insieme con gli altri pellegrini i molti recessi sacri del Potala. Edificato circa trecento anni prima dal quinto Dalai Lama nella sua forma odierna, il Potala è una delle più imponenti costruzioni del mondo. Già prima, sul medesimo monte, si elevava una fortezza dei re del Tibet, ma i mongoli l'avevano distrutta nel corso di una loro invasione. Migliaia di uomini e donne costretti a duro lavoro obbligatorio avevano poi trascinato pietra su pietra da chilometri di distanza, e abili scalpellini, senza mezzi tecnici, avevano fatto crescere dalle rocce questa costruzione gigantesca. La morte del quinto Dalai Lama sembrò mettere in forse il completamento dei lavori. Il reggente di allora, aiutato da alcuni intimi, tenne nascosta la morte del dio-re, perché da solo non avrebbe mai goduto di sufficiente autorità per far lavorare così duramente i sudditi. Per un certo tempo si proclamò che il sovrano era malato; poi si disse che il Dalai Heinrich Harrer
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Lama era sprofondato nei suoi esercizi di meditazione; per dieci anni si continuò nell'inganno, finché il palazzo fu terminato. Chi vede oggi tale grandiosità eccezionale può capire e perdonare quella mistificazione. Sul tetto del Potala trovammo anche la tomba del sovrano al quale il palazzo doveva la sua nascita. Le spoglie del quinto Dalai Lama riposano in un chòrten situato vicino a quelli degli altri re divini. Ce ne sono sette, e davanti a ognuno siedono monaci in preghiera, che da un tamburo sprigionano cupi suoni. Se si vogliono raggiungere le singole stupa, bisogna arrampicarsi su scale a pioli quasi verticali. Nell'oscurità che vi regna l'impresa è molto pericolosa, perché i pioli sono scivolosi per il fango accumulatosi nel corso degli anni. La più grande stupa è quella del tredicesimo Dalai Lama, che scende di parecchi piani nell'interno del Potala. Sembra che sia stata impiegata oltre una tonnellata d'oro per rivestire questa torre. Gli ornamenti d'oro con incastonate pietre preziose e perle, nonché i regali dei fedeli, costituiscono una ricchezza immensa. Tutto questo sfarzo dà un'impressione di pesantezza, ma corrisponde alla mentalità asiatica. Dopo i vari templi visitammo anche l'ala occidentale dell'edificio, che accoglie circa duecentocinquanta monaci. Namgyetratsang è il suo nome: è un edificio angoloso e stretto, poco invitante per un europeo. Ma uno sguardo attraverso le piccole finestre compensa tutta la tetraggine: la vista sul Chagpori e sul Kyi Chu dalle chiare acque è incantevole. Le case di Shò sono situate così in basso, che bisogna sporgersi molto per vederle. Quanto era bella Lhasa vista da lì, con le sue case a forma di cubo e i tetti piatti! Da lì non si notava la sporcizia accumulata nelle anguste strade. Sulla via del ritorno passammo davanti a un portone chiuso, che attirò la nostra attenzione per la sua grandezza. Era la porta che conduceva al garage che il tredicesimo Dalai Lama aveva fatto costruire per le sue macchine. Anche se le auto non venivano più usate, il loro acquisto denotava già un desiderio di progresso. I monaci conservatori sono poi naturalmente più forti di qualsiasi idea nuova, ed è questo il motivo principale per cui il Tibet è lo stesso di cento anni fa. L'ala orientale, con la scuola degli tsedrung e i vari edifici, non fu da noi visitata. Eravamo invitati a pranzo dal primo ciambellano. La sua abitazione, in relazione al grado che riveste, è situata alcuni piani al di sotto di quella del Dalai Lama. Numerosi funzionari e abati hanno nel Potala la loro abitazione, rispondente in quanto a comodità e posizione al Heinrich Harrer
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rango dei locatari. Negli anni seguenti ebbi spesso occasione di soggiornare nel Potala, come ospite di amici che vivevano dentro il palazzo. La vita in questa fortezza ecclesiastica ricorda quella di un castello medievale. Difficilmente qualche oggetto appartiene ai giorni nostri. Di sera, a una determinata ora, sotto la sorveglianza del gran tesoriere, vengono chiusi i molti portoni; i guardiani, muniti di piccole lampade a olio, fanno quindi un giro d'ispezione attraverso il palazzo per controllare se tutto è in ordine, e i loro appelli che echeggiano nei corridoi sono l'unico suono che rompe l'opprimente silenzio. Le notti sono lunghe e tranquille, perché nel Potala si va a dormire presto. In contrasto con la vita mondana della città, qui non si danno feste. Gli stupa dei defunti sovrani emanano un'atmosfera di morte, così tetra e solenne che tutto il palazzo fa l'effetto di un grande sepolcro. Mi fu facile capire perché il giovane dio-re si sentisse tanto felice quando poteva trasferirsi nella sua residenza estiva. Un fanciullo solitario, senza genitori e compagni di gioco, doveva condurre qui una vita molto triste. Nessun divertimento, se non le conversazioni con i suoi vecchi maestri e con gli abati. Unica sua distrazione le rare visite del fratello Lobsang Samten, che gli portava i saluti della famiglia e gli raccontava le novità della capitale. Dopo il pranzo dal ciambellano lasciammo il palazzo. Per strada incontrammo ansimanti portatori che trascinavano in barili l'acqua per la cucina del sovrano. La prendevano direttamente da una sorgente, circondata da un muro, ai piedi del Chagpori, alla quale hanno accesso soltanto i suoi cuochi, perché solo loro posseggono la chiave della porta. Ma molta gente, malgrado la grande lontananza, andava ad attingere l'acqua da un ruscelletto secondario, essendo ritenuta la migliore della città. Il Dalai Lama possiede un elefante, l'unico del paese, donatogli dal maharajah del Nepal, nella cui nazione ci sono molti religiosi che venerano il dio-re. Molti nepalesi entrano nei monasteri del Tibet e consacrano la loro vita alla religione. Formano piccole comunità, e sono considerati discepoli molto intelligenti. Quale espressione della devozione del Nepal erano stati regalati al Dalai Lama due elefanti, ma uno non aveva sopportato il viaggio attraverso l'Himalaia, benché il percorso di quasi mille chilometri fosse stato liberato dalle pietre e dai vari ostacoli, per facilitare il viaggio agli animali che, in quanto di proprietà del dio-re, Heinrich Harrer
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erano considerati sacri. Apposite stalle in ogni stazione di sosta accolsero l'elefante superstite, chiamato «Langchen Rinpoche», e nella parte settentrionale del Potala gli fu assegnata una dimora. Coperto di preziosi broccati, prendeva spesso parte alle processioni. Ogni cavaliere lo evitava descrivendo un ampio arco, perché i cavalli tibetani, quando scorgevano questo ignoto bestione nelle strette strade, si adombravano immediatamente. Durante le feste di capodanno il padre del Dalai Lama morì. Si era fatto tutto il possibile per la sua salute, quando si era ammalato. Monaci e sanitari avevano tentato qualsiasi rimedio per mantenerlo in vita. Avevano perfino confezionato un fantoccio, nel quale era stato magicamente immesso il male. Era stato poi gettato nelle fiamme, fra grandi cerimonie, presso il fiume. Questo trasferimento del male, un avanzo della religione bòn, è usato di frequente, ma non servì a salvargli la vita. Io avrei chiamato piuttosto il medico inglese, ma naturalmente la famiglia del Dalai Lama doveva sempre essere di esempio a tutti, e non poteva in una situazione critica allontanarsi dai costumi tradizionali. Il cadavere, come di consueto, fu portato in un luogo sacro fuori della città, fatto a pezzi e abbandonato agli avvoltoi. I tibetani non portano il lutto per i loro morti nel nostro senso della parola. Il dolore della separazione viene superato pensando alla prossima rinascita, e la morte non incute terrore ai buddhisti. Per quarantanove giorni vengono accese lampade a burro, poi nella casa del defunto ha luogo l'usuale cerimonia di preghiere, e del caso non si parla più. Vedovi e vedove dopo un breve periodo si possono risposare, e la vita riprende il suo corso normale.
La congiura dei monaci di Sera L'anno 1947 regalò a Lhasa una piccola guerra civile. L'ex reggente Reting Rinpoche, benché avesse abdicato volontariamente, sembrò risentire il desiderio del potere. Reting aveva ancora molti seguaci nel popolo e tra i funzionari, che intrigavano senza posa contro il reggente attuale. Volevano riaffidare il timone a Reting. Un modernissimo attentato, con una bomba a orologeria, doveva dare il via alla sommossa. La bomba fu portata come dono di uno sconosciuto in casa di un alto monacofunzionario, ma prima di essere consegnato al reggente l'ordigno esplose. Heinrich Harrer
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Per fortuna non ci furono vittime. L'attentato fallito condusse però alla scoperta della congiura, e il risoluto Tagtra Rinpoche agì con rapidità ed energia. Un piccolo esercito agli ordini di un ministro di gabinetto si presentò al monastero dove si trovava Reting, e l'ex reggente fu arrestato. Ma i monaci del monastero di Sera insorsero contro questa azione del governo, e nella città scoppiò il panico. I commercianti barricarono le loro botteghe e misero in salvo la merce. I nepalesi si ritirarono nell'edificio della loro rappresentanza diplomatica, che si trasformò ben presto in una specie di forziere, perché molti vi depositarono i propri valori. I nobili chiusero i portoni delle loro dimore e armarono i servi. L'intera città era in stato di allerta. Aufschnaiter, avendo visto le colonne dei seguaci di Reting in marcia, ritornò in fretta dalla sua villa in città. Organizzammo insieme la difesa della casa di Tsarong. Più della crisi politica si temeva che le molte migliaia di monaci del monastero di Sera potessero invadere la città e saccheggiarla. Ma di non minore diffidenza erano oggetto le truppe del governo, munite di armi abbastanza moderne ma incapaci di usarle. Le rivoluzioni militari non erano sconosciute nella storia di Lhasa. Con i nervi tesi si attendeva l'arrivo di Reting prigioniero. Ma già da tempo l'ex reggente era stato portato segretamente nel Potala. Ci si appigliò a tale astuzia per fuorviare i monaci rivoltosi, ben sapendo che essi avevano in animo di realizzare un piano di liberazione. Arrestato il leader della sommossa, la loro causa era praticamente persa. Nel loro fanatismo i monaci rifiutarono però di sottomettersi, e diedero inizio a una selvaggia sparatoria. Soltanto quando il governo, alcuni giorni dopo, fece bombardare con obici la città e il monastero di Sera, distruggendo numerose case, la resistenza fu infranta. All'esercito riuscì di sopraffare i monaci e a poco a poco l'ordine e la calma furono ristabiliti. Per diverse settimane le autorità furono impegnate a consegnare i colpevoli alla giustizia, e furono inflitte molte severe fustigazioni. Mentre i proiettili continuavano a sibilare nella città, si diffuse in un baleno la notizia della morte del reggente ribelle. Ogni sorta di voce circolò sulle circostanze della sua fine. Molti la ritennero un assassinio politico, ma la maggior parte suppose che Reting, essendo un lama, con l'aiuto della sua forza di concentrazione e di volontà, fosse riuscito a raggiungere rapidamente l'aldilà. All'improvviso la città si riempì delle più incredibili chiacchiere concernenti i miracoli attribuitigli e la sua forza Heinrich Harrer
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sovrannaturale. Si raccontava, ad esempio, che una volta, durante una passeggiata, avesse chiuso con le sue mani un vaso di coccio, dal quale stava per traboccare la minestra bollente di un pellegrino, come se l'argilla fosse ancora morbida e plastica. Il governo si disinteressò delle voci che circolavano. Soltanto pochi sapevano che cosa fosse realmente avvenuto. Il reggente ribelle si era anche creato non pochi nemici durante il suo governo. A un ministro che voleva fomentare una rivolta aveva fatto cavare gli occhi con una spada. Adesso aveva pagato per tutti i suoi crimini. Come sempre nelle crisi politiche, dovettero patire anche molti innocenti, e gli ultimi seguaci di Reting furono cacciati dai loro posti. Uno dei più influenti fra costoro si suicidò. Fu l'unico caso di morte volontaria di cui sentii parlare durante il mio soggiorno nel Tibet. Il suicidio contravviene ai precetti religiosi buddhisti, e soltanto chi è veramente disperato ricorre a una simile via d'uscita. Il governo non avrebbe certo condannato a morte quell'uomo - già la decisione di bombardare Sera gli era costata molto -, ma egli, temendo probabilmente il consueto castigo della mutilazione, ha voluto comunque sfuggire al suo destino. Poiché le carceri erano insufficienti, dovettero pensarci i nobili a tenere prigionieri i colpevoli. Nei mesi che seguirono si poté incontrare quasi in ogni casa un condannato con le catene ai piedi e un anello di legno intorno al collo. Soltanto il giorno dell'assunzione ufficiale del potere da parte del Dalai Lama viene concessa un'amnistia generale per i condannati politici e i criminali. I monaci del monastero di Sera erano fuggiti per la maggior parte in Cina. Molto spesso infatti sono i cinesi i fomentatori, quando nel Tibet scoppiano delle rivolte. Tutti i beni dei ribelli furono confiscati dal governo e messi pubblicamente all'asta. Le case e i villini di Reting Rinpoche furono demoliti, e i suoi splendidi alberi fruttiferi trapiantati in altri giardini. Il monastero era stato inesorabilmente depredato dai soldati, e ancora molte settimane dopo tali eventi apparvero nei bazar calici d'oro, broccati e altri oggetti preziosi. Il governo mise a disposizione di Aufschnaiter un cavallo delle stalle dell'ex reggente, che gli fece molto comodo per visitare i vari cantieri, dato che fino a quel momento ne aveva sempre dovuto chiedere uno in prestito. La vendita delle proprietà di Reting procurò alle casse dello stato alcuni milioni di rupie. Centinaia di carichi di stoffe di lana inglese, ottocento vesti di seta e di broccato, costituenti solo una piccola Heinrich Harrer
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parte del suo patrimonio, mi dimostrarono quanta ricchezza si possa accumulare nel Tibet. Reting proveniva dal popolo e aveva iniziato la sua carriera quando, ancora fanciullo, era stato riconosciuto come un'incarnazione.
Festività religiose in onore di Buddha Passati i disordini, mi rallegrai molto vedendo che lentamente la vita nella città si rifaceva normale. Il quarto mese dell'anno tibetano, che in quanto mese della nascita e della morte di Buddha è ritenuto sacro, cancellò con le sue cerimonie religiose ogni traccia della rivolta. Di nuovo affluirono a Lhasa migliaia di pellegrini, il Lingkhor fu teatro di magnifiche processioni e i fedeli misurarono con la lunghezza del loro corpo gli otto chilometri della strada circolare. La formula liturgica «Om mani padme hum» era sulle labbra di tutti i pellegrini. Qualunque fosse la loro posizione o il loro grado di nobiltà, tutti facevano penitenza. La sorella del Dalai Lama si inginocchiava accanto alla donna nomade, e anche se l'abbigliamento era diverso, identico era il fervore. Solo quando il compito quotidiano veniva assolto la grande differenza appariva ristabilita. I nobili erano attesi da un servo con il cavallo e da un lauto pasto. Le donne nomadi si avvolgevano più strettamente nelle loro pellicce e cercavano un posto riparato per passarvi la notte. Il giorno seguente ognuno riprendeva la prosternazione dallo stesso punto nel quale l'aveva interrotta. Certi fanatici misuravano il Lingkhor con la larghezza del loro corpo, per non dover distogliere mai gli occhi dalla città santa. Ma tra i fedeli c'erano anche non pochi «professionisti», che si facevano carico di questi esercizi espiatori per conto di persone benestanti e vivevano di carità. Costoro guadagnavano tanto che una volta all'anno facevano un'elargizione abbastanza importante al monastero da loro prescelto. Conobbi un uomo che da quarant'anni faceva giornalmente, ventre a terra, il giro del Lingkhor, ed era piuttosto conosciuto nel monastero di Sera per la sua generosità. La sua clientela era formata da molti nobili, ed egli si serviva, nei suoi esercizi, di un metodo particolare: fornito di guanti di legno con rinforzi metallici e di un grande grembiule di pelle, si buttava letteralmente sulla strada, approfittando dello slancio per arrivare più in là possibile. Heinrich Harrer
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Al quindici del quarto mese, giorno anniversario della morte di Buddha, il movimento giunse al culmine. Innumerevoli tende fiancheggiavano i margini della strada, e i mendicanti nomadi si assicuravano i posti migliori. Al primo raggio di sole incominciava la processione delle persone ragguardevoli: tutti i membri del governo, eccettuati il Dalai Lama e il reggente, facevano il giro dell'anello. Pregando passavano in mezzo a due fitte ali di spettatori. Li seguivano, carichi di pesanti sacchi, alcuni servi, che distribuivano tra la folla monete di metallo. Nessun mendicante restava a mani vuote. Non si trattava soltanto di bisognosi: vidi stendere la mano anche molti dei nostri manovali e operai. Questa distribuzione di elemosine dura tutto il giorno, e nessuno dei quasi cinquemila beneficiati sembra sentirsi umiliato. Tutti i ricchi, compresi i nepalesi, i musulmani e i cinesi, elargivano con generosità. Si distribuirono anche diversi generi alimentari e tsampa. Come sempre accade in simili feste, individui senza scrupoli escogitarono i trucchi più disparati per spillare quattrini. Un uomo, ad esempio, aveva appeso al muro di un giardino delle tabelle con scene dipinte in vari colori, e con voce cantilenante e monotona spiegava le illustrazioni. La folla accalcata ascoltava con interesse. Era la storia dell'eroe Kesar, che con le proprie mani aveva ucciso mille nemici. A racconto finito ciascuno dava il suo obolo. Poi gli ascoltatori cambiavano e il cantore ricominciava da principio. Oppure narrava una nuova leggenda, tratta dal passato del Tibet. Altri guadagnavano denaro scalpellando nella pietra formule di preghiere. I fedeli acquistavano volentieri quelle lastre di pietra, per deporle sui mani, tratti di muro che si vedono dovunque nel Tibet, molti dei quali hanno centinaia di anni e sono ricoperti di muschio ed erba. Altri, sormontati da mulini di preghiere, sono coperti da lavagne e da pietre con iscrizioni religiose. Se camminando si incontra uno di questi muri, lo si deve lasciare alla propria destra: soltanto i seguaci della religione bòn vi passano davanti in direzione opposta. Di tanto in tanto un ricco fa costruire a sue spese un mani per conquistarsi con questo sacrificio una rinascita migliore. In questo mese sacro è vietata la macellazione di animali. Non si trova quindi carne fresca, e tutti gli inviti vengono sospesi. La vita mondana si blocca, perché non si può offrire ai propri ospiti un trattamento troppo Heinrich Harrer
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modesto. Il popolo però si diverte a suo modo. La parte gioiosa della giornata si svolge sul pendio settentrionale del Potala, dove c'è un grande lago, nel cui centro, sopra un'isoletta, si trova il tempio dei serpenti. Il grande divertimento consiste nel farvisi trasportare, dietro un piccolo compenso, mediante un canotto di pelle di yak. Ci si distende poi sull'erba intorno al lago per rifocillarsi con qualche spuntino al sole. Subito dopo il mese sacro ricominciano i grandi ricevimenti. D'estate, nei bei giardini o presso le rive del fiume, le feste si prolungano spesso per giorni e settimane, e la buona società cerca di superarsi a vicenda con lauti pranzi, danze e giochi. Spesso rimasi stupito nel costatare che i nobili non si stancavano delle ininterrotte feste e degli incessanti inviti.
I primi incarichi governativi In autunno il governo ci diede l'incarico di disegnare una pianta di Lhasa. Aufschnaiter interruppe i suoi lavori e insieme incominciammo i rilievi e le misurazioni. Era la prima volta che il governo pensava a un simile progetto, perché fino a quel momento non erano mai state fatte carte topografiche della città. Agenti segreti indiani avevano invero riportato a casa, nel secolo scorso, alcuni schizzi, ma la pianta era stata disegnata a memoria e in modo inesatto. Ci tornò molto utile il teodolite di Tsarong, e con i nostri nastri per le misurazioni passammo di quartiere in quartiere, non lasciando inesplorato alcun angolo. Si poteva lavorare solo nelle prime ore del giorno, perché non appena ricominciava la vita nelle strade, eravamo circondati da una schiera di curiosi. Il governo ci aveva assegnato due agenti di polizia, non potendo noi da soli tener testa alla gente, ma non ci furono di grande aiuto. (Si trovava particolarmente interessante applicare l'occhio all'obiettivo contemporaneamente ad Aufschnaiter, seppure dalla parte opposta.) Non era certo un divertimento camminare nelle gelide ore del mattino, calpestando immondizia e fango: ci volle l'intero inverno prima che avessimo riunito tutti i dati necessari per la pianta. Poi dovemmo inerpicarci anche sui tetti, affinché Aufschnaiter potesse segnare negli schizzi i singoli blocchi di case, mentre io raccoglievo più di mille nomi di proprietari, tutti in lingua originale. Quando furono pronte le copie per il Dalai Lama e per tutti gli uffici Heinrich Harrer
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importanti, si scoprì a Lhasa un nuovo gioco di società: si imparò a leggere la carta topografica, e identificare la propria casa costituì un divertimento straordinario. Fin da allora il governo aveva in mente il progetto di creare la canalizzazione della città e di installare le condutture elettriche. Né Aufschnaiter né io avevamo conoscenza di simili lavori tecnici, ma il mio amico aveva una spiccata cultura matematica, acquisita durante i suoi studi di agronomia, e quando avevamo dei dubbi consultavamo i testi tecnici. Aufschnaiter ricevette già in quell'anno dal governo uno stipendio mensile in rupie, e io fui assunto stabilmente all'inizio del 1948. Ancora oggi sono fiero di quella lettera d'impiego. Alcuni mesi dopo l'udienza del Dalai Lama fui chiamato in piena notte al Norbulingka. Le acque del Kyi Chu minacciavano di inondare il palazzo estivo. Nella stagione dei monsoni il placido Kyi Chu si ingrossava improvvisamente, divenendo una precipitosa fiumana di quasi due chilometri di larghezza. Quando giunsi sul posto, incominciavano già a vacillare i vecchi sbarramenti, e sotto una pioggia dirotta, alla fioca luce delle lampade tascabili, i soldati della guardia del corpo cominciarono sotto la mia direzione a innalzare nuovi argini. Riuscimmo a rinforzare anche la vecchia diga, che resistette fino al mattino. Il giorno seguente feci comperare tutti i sacchi di iuta reperibili nel bazar, per riempirli di argilla e di pietre. Cinquecento tra soldati e coolie lavorarono con un ritmo per loro del tutto eccezionale, e riuscimmo a terminare il lavoro poco prima che l'argine vecchio cedesse. Nel frattempo fu convocato anche l'oracolo del tempo da Gadong, e il monaco fu in quei giorni mio vicino in una delle case del Norbulingka. Entrambi avevamo il medesimo compito: domare i flutti. Ma fu un bene non affidarsi soltanto all'oracolo e impiegare mille braccia in un lavoro necessario. Mentre la mia gente dava gli ultimi colpi di piccone, l'oracolo in trance si avvicinò all'acqua per eseguire la sua danza. Lo stesso giorno cessò la pioggia, le acque si ritirarono ed entrambi ricevemmo parole di lode dal Dalai Lama. Più tardi mi chiesero se non potevo, una volta per tutte, costruire un'opera per frenare le acque che ogni anno minacciavano il palazzo d'estate. Mi dichiarai subito disponibile, perché con l'aiuto di Aufschnaiter mi sentivo il coraggio di assumere una regolazione tecnica del corso del Heinrich Harrer
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fiume. I tibetani costruiscono i loro argini sempre con pareti verticali, e io mi ero accorto da molto tempo che era proprio questo il difetto principale. Tempestivamente, nella primavera del 1948, incominciarono i lavori, perché volevo che fossero terminati prima della stagione dei monsoni. Mi furono messi a disposizione cinquecento soldati e mille coolie, una maestranza assolutamente eccezionale per Lhasa. E un'altra grande novità fu introdotta in questa occasione: mi riuscì di convincere il governo ad assegnare a ogni lavoratore un salario giornaliero e a non impiegare i condannati ai lavori forzati. Regnò perciò sempre il buonumore al cantiere. Non si doveva naturalmente misurare il rendimento degli operai con il metro europeo. Una vanga era spesso manovrata da tre uomini: uno affondava la pala nella terra, mentre altri due tiravano la corda fissata al manico della vanga. La forza fisica dei nativi era di gran lunga inferiore a quella dei nostri operai. Mi guardavano strabiliati quando perdevo la pazienza, prendevo in mano una vanga e insegnavo loro come scavare. Per non parlare delle interruzioni e delle soste! Con un grido di spavento ogni tanto scoprivano sulla vanga un verme: tutti si fermavano per metterlo in tutta fretta in salvo. Ai lavori dell'argine presero parte anche molte donne: non erano inferiori per forza agli uomini. Tutto il giorno portavano sulle spalle ceste piene di terra, cantando monotone melodie per tenere il passo. Come dovunque, anche qui i soldati erano i più grandi corteggiatori, e senza tregua frasi spiritose volavano da un sesso all'altro. Il numero delle donne addette ai lavori era maggiore di quello degli uomini. Una volta, ad esempio, Aufschnaiter impiegò nei lavori trecento tibetane in confronto a pochi uomini. Occorre però ricordare che un quinto degli uomini vive nei monasteri. Lo scarso rendimento di questi lavoratori va probabilmente attribuito alla scarsa nutrizione: tsampa, tè al burro e un paio di ravanelli con paprica sono il loro alimento principale. Tuttavia sono contenti e allegri. Del resto non sono abituati a mangiare altro, perché la carne è troppo cara. Oltre ai soldati e ai coolie avevo a mia disposizione anche quaranta battelli di pelle di yak. Anche i battellieri esercitano un mestiere poco stimato, perché, come i lavoratori di pellame, hanno a che fare con la pelle di animali uccisi, e contravvenendo così ai precetti di Buddha sono considerati cittadini di rango inferiore. Ricordo a questo proposito un esempio drastico del modo in cui Heinrich Harrer
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vengono trattati. Una volta un Dalai Lama, per recarsi al monastero di Samye, si servì di un passo che i battellieri attraversavano costantemente per raggiungere il fiume. La via del passo, essendo stata calcata dal dio-re, divenne da allora in poi sacra: a nessun battelliere fu più lecito porvi piede. Con il loro battello sulla schiena dovevano fare un cammino molto più ripido e faticoso, con grande perdita di tempo. I canotti pesano più di cento chilogrammi, e i passi superano tutti i 5000 metri. Ci si può fare un'idea di quanto grande sia l'influsso esercitato dalla religione in questo paese, ove si pensi come le sue leggi fortemente incidano sulla vita quotidiana. Sempre mi impressionò la vista di quella gente che con il canotto sulle spalle passava con passo misurato. Lentamente essi risalivano il fiume, essendo impossibile remare controcorrente. Ogni battelliere possiede una pecora, che lo segue fedele e affezionata come fosse un cane. Come ammaestrata, essa salta nella barchetta spontaneamente non appena questa viene messa in acqua. I quaranta battelli adibiti ai miei lavori di fortificazione degli argini dovevano andare a prendere blocchi di granito da una cava presso il corso superiore del fiume. Non fu un'impresa facile. Le pareti dei canotti dovettero essere rinforzate mediante tavole di legno per poter trasportare le pietre. I battellieri però erano tra gli uomini più forti del paese, e il loro lavoro veniva pagato meglio. Non erano affatto umili come ci si sarebbe potuti aspettare da una classe disprezzata: tutti insieme formavano una specie di corporazione, e ne andavano fieri. Il caso volle che uno dei miei collaboratori fosse il bònpo di Tradùn. Doveva ogni sera pagare gli operai. Si ricordava benissimo di Aufschnaiter e di me, e spesso ricordammo quel tempo per noi tanto penoso. Solo oggi posso riderne. Quando lo avevamo incontrato a Tradùn, era accompagnato da venti servi, si trovava in viaggio d'ispezione e si era dimostrato molto cordiale nei nostri confronti. Chi avrebbe mai pensato che un giorno avremmo lavorato uno accanto all'altro e che io, più o meno, sarei stato il suo diretto superiore? Non riuscivo a capacitarmi del fatto che fossero passati quattro anni dal nostro incontro. Quattro anni che mi erano serviti a diventare un mezzo tibetano! Spesso mi sorprendevo a fare tipici gesti tibetani, che imitavo inconsciamente dopo averli visti centinaia di volte al giorno. Poiché i miei lavori erano destinati a proteggere il giardino del Dalai Lama, i miei superiori erano monaci del rango più alto, e anche il Heinrich Harrer
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governo si interessava molto della mia attività. Molte volte venne al cantiere l'intero Consiglio dei ministri con segretari e servi, e dopo averci fatto i complimenti per il nostro lavoro, davano a entrambi in dono sciarpe di seta e somme di denaro. Anche ogni operaio veniva ricompensato con soldi, e il resto di quella giornata era libero. In giugno l'argine fu pronto. Proprio in tempo, perché già il fiume cominciava a ingrossare. In quell'anno il flusso si manifestò particolarmente cospicuo, ma l'argine resistette. Nel settore inondato si piantarono poi dei salici, il cui verde tenero contribuì ad abbellire notevolmente il giardino d'estate.
Lavoro e feste nel giardino dei Gioielli Durante i lavori di protezione del giardino dei Gioielli fui spesso invitato a cena da alti monaci-funzionari e a passare la notte in casa loro. Ero senza dubbio il primo europeo a cui era permesso fermarsi nel Potala e nel giardino d'estate del dio-re. Fui perciò in grado di ammirare le splendide piantagioni del parco, alberi frondosi e conifere, trasportati da tutte le parti del paese, nonché le magnifiche mele, pere e pesche, destinate alla mensa del Dalai Lama. Una schiera di giardinieri curava le aiole, potava gli alberi e teneva puliti i viali. Per lavori più grossi si ricorreva ai soldati della guardia del corpo. Il parco è circondato da un alto muro, ma è accessibile a ogni visitatore. Alle porte stanno di guardia due uomini con il compito di controllare soltanto se i visitatori sono vestiti secondo la moda tibetana. A nessun cappello o abbigliamento europeo viene accordato l'ingresso, ed ero solo io a beneficiare di una deroga. Ma quando si tenevano feste nel giardino anch'io dovevo uniformarmi alla regola e indossare il cappello bordato di pelliccia. Le sentinelle facevano il saluto a ogni nobile a partire dal quarto grado, e anch'io ero oggetto di tanto onore. Nel mezzo del parco s'incontra un altro muro, alto e giallo, che cinge il giardino privato del Buddha Vivente. Vi danno accesso soltanto due porte guardate da soldati, e oltre al Dalai Lama possono oltrepassarle unicamente gli abati addetti alla persona del giovane sovrano. Neppure i ministri di gabinetto vi possono entrare. Tetti dorati sfavillano misteriosamente tra le fronde, e i lamenti dei pavoni domestici sono le sole voci che giungano all'esterno. Nessuno sa che cosa si svolga in questo Heinrich Harrer
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sacro santuario. Anche questo muro è la meta di molti pellegrini. Un sentiero conduce i devoti tutt'intorno nel senso delle sfere dell'orologio. A brevi intervalli sono incastonate nicchie per i cani, animali grandi e di pelo lungo, che abbaiano furiosamente se qualcuno si avvicina troppo. I guinzagli di pelle di yak li trattengono, ma quei sordi latrati sono una nota discordante in tanta pace. In seguito, quando mi fu concesso il privilegio di entrare in questo mistico giardino, feci, nei limiti del possibile, un po' di amicizia con quei bestioni. Tutta Lhasa attende ogni anno con gioia le rappresentazioni teatrali che d'estate si svolgono davanti a questo giardino interno sopra un immenso podio di pietra. Vi affluisce una grande folla, e chi non trova più posto vicino al podio si mette seduto all'ombra di questo magnifico parco. Per sette giorni si alternano, dall'alba al tramonto, le compagnie di attori. Tutti gli interpreti sono uomini, anche perché i soggetti sono solo di ispirazione religiosa. I teatranti provengono dal popolo e da tutti i mestieri, e dopo le recite ritornano alla loro vita abituale. Soltanto pochi raggiungono una fama tale da permettere loro di vivere della loro arte. I drammi rappresentati sono ogni anno gli stessi. Nello stile delle nostre opere liriche si recita cantando, e l'orchestra è costituita da tamburi e cembali. La musica serve soprattutto a dare il ritmo ai balletti. Soltanto i comici interrompono lo svolgimento operistico del dramma e recitano la loro parte parlando. I costumi, bellissimi e preziosi, appartengono al governo, e vengono sempre conservati in un apposito ambiente del Norbulingka. Una delle sette compagnie teatrali, quella di Gyumalungma, è celebre per le sue parodie. Era la sola che mi divertisse, e mi stupiva per la sua franchezza di linguaggio. Una valida testimonianza dell'umorismo e della sana forza di questo popolo è il fatto che esso può sentir canzonare le proprie debolezze e perfino le istituzioni della Chiesa, e ne ride cordialmente. Fra gli scoppi di ilarità degli spettatori si presenta, ad esempio, sulla scena un oracolo, che finge lo stato di trance e lo svenimento. Oppure uomini travestiti da suore imitano in modo comicissimo il finto fervore delle donne che pregano per denaro. Se poi si presentano sulla scena anche alcuni monaci e cominciano a civettare con le religiose, le risa non hanno fine. Perfino le alte gerarchie della Chiesa ridono a crepapelle. Anche il Dalai Lama assiste a queste rappresentazioni. Egli siede, nascosto da una tendina, al primo piano del suo padiglione, che all'interno Heinrich Harrer
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del muro giallo ha la facciata rivolta al palcoscenico. I funzionari siedono secondo il rango sotto tende lungo ambo i lati del podio. A mezzogiorno, recandosi a consumare in comune il pasto fornito dalla cucina del Dalai Lama, i funzionari sfilano sotto la finestra del loro sovrano. Poi si invitano a vicenda nelle loro case e nei loro uffici, dove la festa continua. Nel frattempo sul palcoscenico lo spettacolo procede senza soluzione di continuità, e ci sono molti spettatori che non abbandonano mai il loro posto. La sfilata di tutte le truppe stazionanti a Lhasa segna ogni giorno l'apertura e la chiusura degli spettacoli. Con le loro bande esse attraversano il giardino e presentano le armi al sovrano del paese dei lama. Di sera è questo il segnale della distribuzione delle ricompense agli attori. Vengono coperti di sciarpe bianche, nelle quali si trova annodato il denaro. Dalle dispense del sovrano escono carichi di tsampa, burro e tè, e un rappresentante del Dalai Lama consegna, a suo nome, a ogni attore una sciarpa bianca e una busta contenente soldi. Quando la stagione teatrale nel giardino d'estate è terminata, gli attori vengono invitati a recitare dai nobili ricchi e dai monasteri. Per un altro mese poi rappresentano i loro drammi in vari luoghi, assediati dal pubblico, che molto spesso deve essere disperso dalla polizia.
Nella mia casa personale: con tutti i comfort Durante l'ultimo anno la mia situazione personale era a poco a poco migliorata di molto. Ero diventato padrone di me stesso. Avevo anzitutto una casa personale, nella quale potevo vivere del tutto indipendente. Non dimenticai mai quanta gratitudine dovevo a Tsarong per avermi aperto la sua abitazione e avermi aiutato a stabilirmi qui. Da quando incominciai a guadagnare gli corrisposi anche un affitto. Negli ultimi tempi, da nobili che transitoriamente venivano trasferiti in altre province, mi furono fatte varie proposte di trasferirmi nelle loro case con giardino e una parte di servitù. Mi decisi finalmente per una delle case del ministro degli Esteri Surkhang, perché era uno degli edifici più moderni, naturalmente secondo i parametri tibetani. Aveva pareti massicce e una facciata di finestre con piccoli vetri, ma troppe stanze per quelli che erano i miei bisogni. Ma Heinrich Harrer
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risolsi il problema con estrema facilità. Scelsi soltanto alcune stanze e feci chiudere le altre. L'ambiente più soleggiato divenne la mia camera da letto. Vicino al letto, a portata di mano, collocai la mia radio, alle pareti appesi alcune fotografie delle Alpi svizzere, tratte da una rivista, giunta a Lhasa probabilmente insieme a una spedizione di orologi. Gli armadi e i cassettoni erano dipinti in vari colori e intagliati a somiglianza dei mobili rustici che si usano dalle mie parti. I vestiti d'estate dovevano essere custoditi con grande cura, perché le tarme e altri insetti erano un vero flagello. Tutti i pavimenti erano di pietra, e il mio domestico si sentiva molto fiero quando riusciva a farli brillare come specchi. Li spalmava di cera di candela, e con babbucce di lana ai piedi vi ballava sopra per ore. Così il lucidare costituiva per lui in pari tempo un divertimento. Tappeti colorati erano sparsi in tutta la casa. Sono generalmente molto piccoli, perché i soffitti delle stanze vengono sostenuti in genere da colonne che occupano molto spazio. Ci sono celebri tessitori di tappeti che si recano nelle case dei nobili per fabbricare sul posto e nella misura desiderata ogni pezzo. Seduti in terra, con davanti a sé un telaio di legno, annodano i fili colorati, ritorti a mano, secondo modelli classici: draghi, pavoni, fiori e i più vari motivi ornamentali nascono dalle loro abili mani. Questi tappeti sopravvivono a generazioni: il materiale è incredibilmente resistente, e i colori ricavati dalla corteccia del Bhutan da verdi gusci di noce e da essenze vegetali conservano a lungo la loro freschezza. Per il mio soggiorno mi ero fatto costruire una scrivania e un tavolo da disegno. Benché abilissimi nel riprodurre mobili e sculture tradizionali, i falegnami tibetani si mostrano altrettanto impacciati nel confezionare qualcosa di nuovo. L'attività creativa viene qui trascurata in tutte le professioni: né scuole, né iniziativa privata stimolano a intraprendere qualche tentativo. Nel soggiorno si trovava un altare, curato dal mio domestico con particolare attenzione. Ogni giorno le sette coppe venivano riempite di acqua fresca per gli dei, la fiammella della lampada a burro non veniva mai lasciata spegnersi. Vivevo nella costante paura di qualche furto, perché le immagini degli dei erano adorne di diademi d'oro con turchesi. Per fortuna i miei servi erano molto fidati, e in tutti questi anni non mi è mai sparito niente. Qualche preoccupazione mi causò l'installazione di una doccia. Alla fine, con un grosso bidone di benzina, mi confezionai un serbatoio d'acqua Heinrich Harrer
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con doccia, bucherellandolo da un lato, e collocai il tutto in un ambiente accanto alla mia stanza da letto. Poiché questa aveva un pavimento di pietra, la costruzione dello scolo fu molto facile: feci semplicemente un buco nella parete, il che, dato il sistema di costruzione senza cemento, non offrì alcuna difficoltà. Questa installazione igienica, per quanto primitiva, costituì un'attrazione per tutti i miei amici, che nel migliore dei casi conoscevano soltanto il bagno in una vasca di zinco o nel fiume freddo. Il tetto piatto della mia casa, cinto da un muro di pietra, sarebbe stato meravigliosamente adatto per i bagni di sole, ma sarebbe stato pretendere troppo. Nessuno vuole avere la pelle abbronzata, e ci si stupisce molto vedendo le illustrazioni delle riviste occidentali che mostrano così spesso gente che si sta abbronzando al sole. Come su tutti i tetti, in ogni angolo c'era un'asta con le banderuole sacre. Ne approfittai per fissare su una di queste l'antenna della mia radio. Un braciere per l'incenso e altre piccole nicchie portafortuna facevano parte di ogni casa, e io badai sempre scrupolosamente a che tutto rimanesse in perfetto ordine e nessuna delle consuetudini locali venisse lesa o trascurata. La mia casa divenne ben presto molto accogliente, e ogni volta era per me una gioia farvi ritorno dopo una giornata di lavoro o un ricevimento. Mi attendeva sempre il mio domestico Nyima con acqua e tè caldi: tutto era pulito, tranquillo e confortevole. Dovevo solo faticare continuamente per rimanere da solo, perché nel Tibet è consuetudine che i domestici si trattengano a portata di voce o senza essere chiamati entrino a brevi intervalli nella stanza del padrone per versare il tè. Nyima osservava le mie prescrizioni, ma mi era molto affezionato, sicché avveniva spesso che mi attendesse davanti al portone di casa, anche se lo avevo mandato a letto. Temeva che sulla via del ritorno potessi essere aggredito, ed era sempre armato di pistola e spada per difendermi a costo della vita. Il suo attaccamento mi commuoveva e mi disarmava. Gli avevo dato licenza di vivere sotto il mio tetto con la moglie e i figli, e anche in questa gente semplice potei osservare quanto fosse grande l'amore dei tibetani per i loro bambini. Se uno o l'altro si ammalava, a Nyima nessuna spesa sembrava eccessiva, pur di avere il miglior lama. Da parte mia facevo tutto il possibile per mantenere in salute la mia servitù, perché volevo vedere intorno a me facce allegre. Feci vaccinare e al caso curare tutti alla missione indiana, ma dovevo sempre accompagnarli di Heinrich Harrer
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persona, perché i tibetani non prendono quasi mai nota delle malattie degli adulti. Il governo mise a mia disposizione anche un soldato, come corriere, e uno stalliere. Da quando lavoravo al Norbulingka mi era permesso montare sempre un cavallo della scuderia del Dalai Lama. All'inizio doveva essere cambiato ogni giorno, perché il responsabile della scuderia doveva badare rigorosamente a che nessun cavallo si affaticasse troppo, pena il licenziamento. I cavalli conoscevano soltanto la vita tranquilla sui bei prati del Norbulingka, e si adombravano subito appena entravano in contatto con le strette vie e il traffico della città. Finalmente ottenni che mi lasciassero lo stesso cavallo per una settimana, e che fossero solo tre animali a darsi il cambio. Così ci si poté abituare a vicenda. I finimenti erano gialli, come tutto ciò che appartiene al Dalai Lama. In teoria, con questi cavalli che portavano i colori del dio-re, mi sarei potuto recare fin sul Potala o cavalcando fare il giro del Barkhor, cosa proibita perfino ai ministri. La stalla, la cucina e le stanze della servitù si trovavano in edifici secondari all'interno di un giardino circondato da un alto muro. A questo giardino dedicavo le mie cure con amore particolare. Essendo grande, potevo piantarvi molti fiori e ortaggi, formando deliziose aiole. C'era anche spazio sufficiente per giocare a badminton o a cricket su vasti campi erbosi. Vi collocai anche un tavolo per il ping-pong, gioco molto amato nel Tibet. In una piccola serra piantai legumi che mi diedero ben presto primizie per la mia tavola. Ogni visitatore doveva ammirare le mie piantagioni, perché ne ero molto fiero. Approfittando delle esperienze di Richardson, dedicai ogni mattina e ogni sera ai lavori di giardinaggio e molto presto le mie fatiche ricevettero un'evidente ricompensa. Già il primo anno raccolsi magnifici pomodori, cavolfiori, insalata e verze. Era incredibile come tutto crescesse in proporzioni eccezionali, senza che ciò andasse a discapito della qualità. Ma la spiegazione era molto semplice. L'essenziale era badare attentamente che le radici avessero sempre sufficiente umidità. L'aria asciutta e il sole semitropicale creavano poi un'atmosfera di serra che favoriva lo sviluppo. L'irrigazione non era una cosa molto semplice, perché non esistendo alcun condotto ad alta pressione non si potevano usare neppure degli idranti per l'innaffiamento. Si dovevano piazzare le aiole in modo da farvi passare una piccola vena d'acqua. Nei lavori di Heinrich Harrer
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giardinaggio mi aiutavano due donne, specie nel sarchiare, perché anche le erbacce crescevano rigogliose. Ma la fatica ebbe il suo premio: su una superficie di sedici metri quadrati raccolsi duecento chili di pomodori, alcuni dei quali pesavano quasi cinquecento grammi. Anche gli altri ortaggi crescevano bene. Credo che nessun vegetale europeo abbia problemi a svilupparsi rigogliosamente nel Tibet, benché l'estate sia molto breve.
Le onde della politica mondiale investono anche il Tibet Ma anche la pacifica vita della capitale tibetana fu turbata dagli eventi della politica mondiale. La guerra civile in Cina assumeva proporzioni sempre più allarmanti, e si temeva che anche fra i cinesi dimoranti a Lhasa potessero scoppiare disordini. Per dimostrare che il Tibet si sentiva indipendente dalla politica cinese, il governo decise di espellere i rappresentanti della Cina. Questa risoluzione colpì circa cento persone, e non c'era possibilità di ricorso contro il decreto di espulsione. Con astuzia tipicamente asiatica si attese l'ora in cui il radio-operatore cinese stava giocando a tennis per occupare la stazione trasmittente. Quando egli apprese l'ordine di espulsione non ebbe più la possibilità di mettersi in comunicazione con il suo governo. Per quattordici giorni venne chiuso anche l'ufficio postale e telegrafico, e nel mondo si sparse allora la voce che a Lhasa fosse scoppiata una nuova guerra civile. Era del tutto falsa. I cinesi espulsi dal paese furono trattati con particolare cortesia e invitati a numerosi ricevimenti di congedo. Gli fu permesso di cambiare il loro denaro tibetano al miglior corso in rupie, e furono messi a loro disposizione gratuitamente ricoveri per le soste e animali da trasporto. Una piccola scorta con bandiere e musica li accompagnò sino al confine indiano. Non capirono bene cosa fosse successo, e furono tutti molto dispiaciuti di doversene andare. La maggior parte di loro ritornò in Cina o a Formosa, alcuni raggiunsero direttamente Pechino, dove Mao Tse-tung aveva già stabilito la sede del suo governo. Il secolare conflitto fra il Tibet e la Cina ebbe così di nuovo inizio. La Cina comunista interpretò l'espulsione della rappresentanza diplomatica Heinrich Harrer
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come un affronto, e non come un gesto di neutralità. A Lhasa si era già allora pienamente convinti che una Cina comunista avrebbe rappresentato una pericolosa minaccia per l'indipendenza del paese e per la sua religione. Le risposte dell'Oracolo di stato e diversi fenomeni naturali furono interpretati come prove che i timori erano giustificati. La comparsa della grande cometa del 1948 fu ritenuta indice del pericolo incombente. Ai numerosi aborti degli animali domestici si diede il significato di cattivo augurio. Anch'io ero seriamente preoccupato, ma in base a freddi ragionamenti. L'avvenire dell'Asia era molto buio. Nello stesso anno il governo decise di inviare quattro alti funzionari in tutti i paesi del mondo. Per costoro era questo il grande avvenimento della loro vita. Senza alcuna preoccupazione avrebbero visto le meraviglie del vasto mondo. Con intelligenza si erano scelti nobili colti e molto evoluti, perché si voleva far vedere al mondo che nel Tibet non vivevano dei selvaggi. Capo della delegazione era il segretario del ministero delle Finanze, Shekabpa. Gli altri membri di questa piccola spedizione nel mondo erano il monaco Changkhyimpa, Pangdatsang, arricchitosi con il commercio, e il generale Surkhang, un figlio di primo letto del ministro degli Esteri. Gli ultimi due parlavano un po' di inglese e avevano una discreta conoscenza degli usi e costumi occidentali. Il governo provvide a fornirli di un guardaroba assai lussuoso. Per i ricevimenti ufficiali portarono con sé preziose vesti tibetane di seta, perché viaggiavano in qualità di delegati governativi, con passaporti diplomatici. Il giro ebbe inizio in India, da dove si trasferirono poi in Cina. Dopo un soggiorno prolungato in questo paese, attraverso le Filippine e le Hawaii giunsero a San Francisco. In America fecero parecchie soste, furono ricevuti da uomini di stato e visitarono numerose fabbriche, specie quelle che trasformavano materie prime tibetane. Simile il programma in Europa. Tutto il viaggio durò quasi due anni, e sempre assunse a Lhasa l'importanza di un avvenimento l'arrivo di una loro lettera. Al pari di un fuoco di fila si diffondevano in città le notizie inviate. In America i delegati rimasero profondamente impressionati dai grattacieli, in Europa furono affascinati da Parigi. Il loro viaggio ebbe buoni risultati: avevano stretto nuove relazioni commerciali per esportare la lana tibetana e portarono in patria una quantità di prospetti concernenti macchine agricole, telai tessili, cardatrici e via dicendo. Arrivò insieme Heinrich Harrer
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con i loro bagagli anche una jeep smontata con annessi e connessi. Fu riassemblata dall'autista del tredicesimo Dalai Lama. Fece una corsa di prova attraverso la città, ma poi con rincrescimento generale non la si vide più. Si seppe più tardi che metteva in moto le macchine della zecca. A più di un nobile sarà venuto probabilmente il desiderio di farsi un'automobile, ma i tempi non erano ancora maturi per una tale innovazione. Negli Stati Uniti la delegazione comprò anche numerosi lingotti d'oro, che vennero trasportati a Lhasa sotto la scorta di soldati armati. Il ritorno dei quattro delegati venne celebrato con innumerevoli feste e ricevimenti. Prima eravamo stati noi, Aufschnaiter e io, gli esperti per tutte le questioni concernenti la politica mondiale. Ora sedevamo nella cerchia degli ascoltatori attenti ed eravamo forse i più curiosi di conoscere quale svolgimento avessero preso le cose in quei paesi lontani. I quattro tibetani non si stancavano di raccontare delle gigantesche fabbriche, delle automobili, dei velivoli, del supermoderno e lussuoso transatlantico Queen Elizabeth, delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, e naturalmente delle varie avventure con donne bianche. Soprattutto li aveva divertiti durante il viaggio il fatto che nessuno fosse in grado di indovinare la loro provenienza: erano ritenuti ora cinesi, ora birmani, ora giapponesi o di altre nazionalità, ma mai tibetani. I loro racconti risvegliarono in me, dopo tanto tempo, di nuovo la nostalgia, perché avevano toccato anche una parte del mondo dove stava la mia casa. All'inizio del 1948 erano incominciati i rimpatri dai campi di prigionia indiani. Quanto mi sarebbe piaciuto andare in licenza per alcuni mesi in Europa! Ma era un desiderio ancora troppo costoso per me. Mentre quei quattro se la spassavano in giro per il mondo, la situazione politica in Asia era molto cambiata. L'Inghilterra aveva concesso l'indipendenza all'India e i comunisti avevano conquistato la Cina. Nel Tibet non si notava ancora alcuna ripercussione. A Lhasa si attribuiva maggiore importanza alla tradizionale visita del Dalai Lama ai monasteri, che non alla politica mondiale.
La visita del Dalai Lama ai monasteri Ogni giovane Dalai Lama, prima di essere dichiarato maggiorenne, deve fare visita ai monasteri di Dreprung e di Sera, dove deve dare prova di Heinrich Harrer
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maturità prendendo parte a una discussione religiosa. I preparativi di questo viaggio già da quattro mesi tenevano in agitazione tutta la città. La nobiltà naturalmente partecipava a tali visite, e i monaci di Dreprung avevano costruito un apposito palazzo, per accogliere degnamente il dio-re e il suo seguito. Come un gigantesco serpente, la solenne processione si snodava lungo gli otto chilometri che separano Lhasa dal monastero. In pompa magna, circondati da una schiera di servi, i nobili procedevano in sella a superbi cavalli. Soltanto il sovrano veniva portato su un palanchino. I quattro abati di Dreprung, con un brillante seguito, attendevano il divino visitatore presso la porta principale, per accompagnarlo fino al suo palazzo. Questa visita è il più grande avvenimento nella vita dei monaci della cittàmonastero, perché è molto raro che anche uno solo dei diecimila religiosi abbia la ventura di assistervi una seconda volta. Anch'io, in sella a un cavallo, mi recai lo stesso giorno a Dreprung, perché tra quei monaci contavo alcuni amici che mi avevano invitato per la durata delle festività. Avevo sempre avuto il desiderio di conoscere più da vicino una di queste città-monastero. Al pari di tutti gli altri pellegrini, avevo potuto fino a quel momento gettare solo qualche fuggevole occhiata ai templi e ai giardini. I miei amici mi condussero in prossimità di una delle molte case di pietra, identiche l'una all'altra, e mi assegnarono una dimora piuttosto spartana. Il monaco Tema, che era alla vigilia dei suoi esami finali e aveva già alcuni discepoli, mi fece da guida e mi spiegò la suddivisione e l'organizzazione della città-monastero. Non è possibile confrontare questa istituzione con una qualsiasi delle nostre. Dietro le mura di questi monasteri l'orologio del tempo sembra essere tornato indietro di migliaia di anni. Nulla può far ricordare che viviamo nel ventesimo secolo. I grossi e grigi muri delle case sembrano stare lì da millenni, e l'odore nauseabondo di burro rancido e di monaci che si lavano poco vi è penetrato profondamente. Ogni casa ha da cinquanta a sessanta inquilini, ed è suddivisa in ambienti piccolissimi. In ogni piano si trova una cucina. I pasti abbondanti e succulenti costituiscono l'unico piacere dei monaci. I più intelligenti però si consolano con la prospettiva di poter conseguire un giorno per mezzo di diligente studio un'alta posizione. La loro esistenza è del resto abbastanza spartana. La proprietà privata è un concetto sconosciuto. Al massimo i monaci possiedono una piccola lampada a burro, un dipinto religioso o una Heinrich Harrer
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cassettina di amuleti. Un semplice letto è l'unica concessione che si fa al comfort. L'obbedienza assoluta è la regola. Ancora fanciullo, lo studente entra nel monastero e immediatamente indossa la tonaca rossa, che non deporrà più per il resto della sua vita. I primi anni deve eseguire i lavori più umili e servire il suo maestro. Se si mostra intelligente e sveglio, impara a leggere e a scrivere, incomincia i suoi studi e viene ammesso agli esami. Ma solo pochissimi riescono a superare una tappa dopo l'altra: i più restano per tutta la vita dei servi. I prescelti, dopo trenta o quarant'anni di studi, devono possedere così profondamente la dottrina di Buddha, da poter essere ammessi agli esami finali: questi potranno aspirare ai più alti gradi della Chiesa. I monasteri sono nello stesso tempo università teologiche e istituti di cultura per tutte le istituzioni prettamente ecclesiastiche. I monaci-funzionari vengono istruiti per la vita pubblica nella scuola degli tsedrung nel Potala. Una volta all'anno hanno luogo nella cattedrale di Lhasa i pubblici esami finali. Da tutto il Tibet vi vengono ammessi soltanto ventidue candidati. Dopo difficili discussioni sotto la presidenza dei maestri personali del Dalai Lama, i cinque migliori vengono elevati al rango più alto. Gli altri diventano maestri e abati in monasteri più piccoli. Chi, dopo gli esami nella cattedrale, è dichiarato vincitore assoluto ha la facoltà di ritirarsi come eremita e vivere soltanto per la fede o di dedicarsi alla carriera negli uffici pubblici, raggiungendo talvolta perfino il posto di reggente. Ma questo avviene raramente, perché soltanto le incarnazioni possono esercitare quell'alta carica. È tuttavia possibile che anche un uomo del popolo - né nobile, né Buddha Vivente - attinga quegli onori. Ciò si verificò per l'ultima volta nel 1910, quando il tredicesimo Dalai Lama fuggì in India per salvarsi dai cinesi e dovette essere nominato un suo rappresentante. Ma la strada è lunga: sono necessari molti anni di solitaria vita monastica, e neppure l'accesso alla cattedrale costituisce una sicura speranza. I diecimila monaci del monastero di Dreprung sono suddivisi in gruppi, ciascuno con il proprio tempio e il proprio giardino. Là passano le prime ore del giorno dediti in comune a esercizi spirituali. Dalla cucina del monastero ricevono tè al burro e zuppa, e soltanto nelle ore pomeridiane ritornano nelle loro case, dove assistono alle lezioni impartite da maestri qualificati. Tuttavia rimane loro tempo sufficiente per passeggiare, per innocui giochi di società o per cucinarsi qualcosa per proprio conto. I Heinrich Harrer
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monaci infatti ricevono le razioni di viveri dai loro distretti natali, ed è già questo un motivo per raggrupparli secondo province. Così ci sono case dove vivono soltanto mongoli o nepalesi, o scolari originari di una determinata città, ad esempio di Shigatse. Entro il perimetro delle mura del monastero naturalmente non può essere ucciso alcun essere vivente. Ma il clima freddo esige che al vitto venga aggiunta anche un po' di carne, perciò i singoli comuni mandano provviste di carne di yak essiccata all'aria, e, a dire la verità, in qualche villaggio vicino si può anche trovare carne fresca. Oltre al vitto e all'alloggio i monaci ricevono anche una piccola paga, tratta dai regali del governo e dalle offerte dei pellegrini. Ma se un monaco spicca per doti speciali, trova sempre un mecenate nei circoli della nobiltà o fra i ricchi commercianti. Del resto la Chiesa dispone di abbondanti mezzi finanziari, perché la maggior parte delle proprietà terriere è nelle sue mani, e i redditi di gigantesche tenute affluiscono ai monasteri. Ognuno di questi ha anche i propri fornitori che provvedono a quanto è necessario. È difficile credere a quanto siano enormi le spese necessarie a mantenere un monastero e i suoi abitanti. Aiutai una volta un monaco mio amico nei suoi lavori contabili, concernenti le spese durante il mese del capodanno, che tutti i monaci passano a Lhasa. In quel periodo costarono al governo tre tonnellate di tè e cinquanta di burro, e ricevettero soldi per un valore complessivo di oltre settantacinque milioni di lire di allora. Le tonache rosse non sono sempre persone miti e colte. I più sono individui rozzi e insensibili, per i quali la frusta della rigida disciplina non è sufficiente. I peggiori si raggruppano nell'organizzazione non permessa, ma tollerata, dei dob-dob, monaci-soldati, riconoscibili dalla fascia rossa legata intorno al braccio nudo e dalla faccia annerita con fuliggine, per incutere spavento. Nella cintola portano un'enorme chiave, che serve all'occasione da manganello o da arma da lancio. Non di rado sono muniti anche di un affilato coltello, nascosto in tasca. Molti di loro sono terribili attaccabrighe. Già il loro incedere è provocatorio. È nota la loro smania di menare le mani, e tutti evitano di irritarli. Dalle loro file si costituì più tardi, per combattere i comunisti cinesi, un battaglione di volontari il cui coraggio divenne leggendario. Ma anche in tempi di pace trovano sufficienti occasioni per dare sfogo alle loro forze esuberanti, perché fra i dob-dob dei grandi monasteri domina un'eterna rivalità. L'aspetto più innocuo di questi antagonismi sono le gare di atletica leggera fra i monaci Heinrich Harrer
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di Sera e di Dreprung. Ci si mette un grande impegno, e l'allenamento dura a lungo. Il giorno della gara i dob-dob dei due monasteri si riuniscono sul campo sportivo e incitano con alte grida le loro squadre. I lottatori depongono la tonaca e si mostrano in corte mutandine ornate di campanelle. Poi lo spettacolo incomincia: corsa, lancio della pietra e una specie di salto in lungo e in profondità. A questo scopo viene scavata un'immensa fossa profonda parecchi metri. Da una sorta di trampolino i concorrenti si lanciano da un'altezza di quindici o venti metri; a turno salta un monaco di Dreprung e uno di Sera, ma viene misurata soltanto la differenza fra i salti. Quasi sempre è il monastero di Dreprung a riportare la vittoria: gode dell'appoggio del governo e possiede, in conseguenza del grande numero dei suoi monaci, una più vasta scelta di atleti. Memore del mio passato di istruttore sportivo, mi recai spesso a Dreprung, e sempre i monaci si rallegrarono quando prendevo parte agli allenamenti. È qui che ho visto gli unici atleti del Tibet che avessero muscoli ben sviluppati. Tutte le gare finiscono con un grande banchetto. I grandi monasteri di Dreprung, Sera e Ganden, le «tre colonne dello stato», hanno un ruolo fondamentale nella vita politica del paese. I loro abati, insieme con alti funzionari del governo, tengono la presidenza dell'Assemblea nazionale. Nessuna decisione è presa senza il consenso di questi monaci, che sono naturalmente interessati soprattutto al predominio dei loro monasteri. Molte idee moderne non si sono potute sviluppare proprio a causa della loro opposizione. Nei primi tempi anche Aufschnaiter e io eravamo per loro come una spina nel fianco. Ma quando si resero conto che non avevamo ambizioni politiche di alcun genere, che ci conformavamo agli usi e costumi del paese e ci facevamo carico di lavori che giovavano anche ai monasteri, la loro ostilità nei nostri confronti cessò. I monasteri sono, come ho già detto, le scuole superiori della Chiesa. Perciò tutti i lama - che nel Tibet sono più di mille - devono fare i loro studi in un monastero. Queste incarnazioni sono una costante attrazione per i pellegrini, che affluiscono a migliaia per ricevere la loro benedizione. Anche durante i sette giorni passati dal Dalai Lama a Dreprung le incarnazioni sedevano in tutte le cerimonie in prima fila. Una vera adunanza di dei! Ogni giorno, nei giardini del monastero, avevano luogo i famosi dibattiti fra il sovrano del Tibet e l'abate competente. È questo uno dei riti più intimi nella vita religiosa del lamaismo, e io non avevo mai Heinrich Harrer
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avuto la possibilità di assistervi. Ma un giorno, facendo colazione con Lobsang Samten, il fratello del dio-re mi domandò se non volessi andare con lui. Devo a questa cortesia inaspettata se ho potuto assistere a una scena alla quale non ha certo mai preso parte alcun uomo di un'altra religione. Ero accompagnato dal fratello del Dalai Lama, perciò nessuno mi impedì l'accesso al giardino recintato. Davanti a gruppi di alberi, lungo uno spiazzo coperto di ghiaia bianca, stavano accoccolati, uno vicino all'altro, forse duemila monaci nelle loro tonache rosse, mentre da un posto più elevato il Dalai Lama leggeva passi dei libri sacri. Per la prima volta udii la sua voce chiara, ancora infantile. Parlava senza alcun imbarazzo, con la sicurezza di un adulto. Era quella la sua prima apparizione in pubblico. Il ragazzo, all'epoca quattordicenne, aveva passato molti anni studiando, e adesso per la prima volta doveva dimostrare le sue capacità davanti a un uditorio critico. Molto dipendeva da questa prova. Anche se un insuccesso non poteva più mutare il prescritto corso del suo destino, doveva però risultare ora se sarebbe stato soltanto uno strumento nelle mani dei monaci o il loro signore. Non tutti i suoi predecessori si erano dimostrati così intelligenti come il quinto e il tredicesimo Dalai Lama. Molti rimanevano tutta la vita le marionette dei loro educatori, e i destini del paese stavano nelle mani del reggente. Dell'intelligenza di questo ragazzo si raccontavano già cose mirabili. Si diceva che gli bastava leggere una volta sola un libro per saperlo a memoria. Benché ancora tanto giovane, già si interessava di tutti gli affari dello stato e criticava o lodava le decisioni dell'Assemblea nazionale. Incominciato il dibattito, mi accorsi subito che non era stato sopravvalutato. Secondo la consuetudine anche il Dalai Lama si era seduto sulla ghiaia, perché la superiorità della sua alta nascita non esercitasse un influsso sui presenti. L'abate nel cui monastero avveniva la discussione gli stava davanti e sottolineava con i prescritti gesti le questioni da lui proposte. Pronte seguivano le risposte, e subito dopo un'altra domanda capziosa. Ma non era possibile mettere in imbarazzo il Dalai Lama. Con sorprendente facilità il dio-re dava le sue risposte chiare e precise, mentre un sorriso di sicurezza gli errava sul volto. Dopo un certo tempo le posizioni si invertirono. Ora era il Dalai Lama a porre le domande all'abate. In quel momento fu chiaro che tutto l'insieme Heinrich Harrer
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non era un ben studiato spettacolo per far apparire l'intelligenza del Buddha Vivente, ma che l'abate veniva effettivamente messo alle strette e faceva fatica a non uscire dalla discussione diminuito agli occhi dei suoi allievi. Concluso il dibattito il giovane dio-re riprese il suo posto sul trono, e sua madre, l'unica donna presente, gli porse del tè in una tazza d'oro. Egli mi lanciò di nascosto delle occhiate, quasi a sincerarsi del mio plauso. Ero molto impressionato da tutto ciò che avevo visto e ascoltato. Ammiravo soprattutto la presenza di spirito di questo Dio-Ragazzo di umili origini. Praticamente mi aveva persuaso a credere nella reincarnazione. In seguito ebbi ancora qualche volta occasione di assistere alle discussioni tra i monaci e i loro discepoli, ma allora le cose non procedettero sempre con tanta tranquillità. Gli ascoltatori prendevano partito ora per l'uno ora per l'altro, gli animi si riscaldavano e la discussione finiva non di rado in una vera e propria baruffa generale. A chiusura del dibattito religioso tutti insieme si misero a pregare: sembrava una litania, e durò a lungo. Poi il Dalai Lama, sostenuto da due abati, si ritirò nel palazzo. L'andatura da vecchio del ragazzo mi aveva sempre stupito, poi appresi che faceva parte delle regole del rituale e che ogni movimento era prescritto. Il passo lento e strascicato doveva imitare il portamento dei santi ed esprimere l'alta dignità del Dalai Lama. Avrei fatto volentieri alcune fotografie di questo episodio eccezionale, ma fu una fortuna che non avessi con me una macchina fotografica. Il giorno dopo infatti scoppiò una grande agitazione, quando il mio amico Wangdùla - a mia insaputa - tentò di fotografare il Dalai Lama durante il suo giro intorno ai monasteri. Una fotografia gli era già riuscita, ma un monaco zelante, che lo aveva osservato, lo denunciò. Wangdùla, citato davanti al segretario del reggente, fu sottoposto a un severo interrogatorio e condannato alla degradazione. Gli fecero notare che poteva dirsi fortunato, non essendo stato radiato dall'ordine dei monaci. La macchina fotografica gli venne confiscata. E pensare che Wangdùla era un nobile del quinto grado e nipote di un ex reggente! Tale avvenimento rimase il discorso del giorno per parecchio tempo nel monastero, ma Wangdùla non ne fu troppo afflitto. Conosceva fin troppo bene gli alti e bassi della carriera dei funzionari. L'episodio venne ben presto dimenticato. Una nuova cerimonia attrasse l'attenzione generale. Il Dalai Lama doveva fare il tradizionale sacrificio Heinrich Harrer
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agli dei sulla vetta del Gyambe Utse, un monte di circa 5600 metri, dietro il monastero di Dreprung. Di buon mattino la lunga carovana si mise in moto: si componeva di un migliaio di persone e di parecchie centinaia di cavalli. Prima tappa era un eremo a circa metà della salita. Due palafrenieri conducevano il cavallo del Dalai Lama. Lungo il percorso erano state organizzate molte stazioni di sosta, e sia il salire che lo scendere da cavallo era regolato da un determinato cerimoniale. In ogni luogo di sosta era eretto un trono coperto di tappeti, affinché il dio-re potesse degnamente riposarsi. Verso sera si giunse all'eremo, e dopo aver sacrificato dell'incenso in segno di ringraziamento per il felice arrivo, tutti si sprofondarono in esercizi spirituali. Erano state preparate delle tende e degli alloggi di fortuna per passare la notte. Il giorno dopo, prima dell'alba, il Dalai Lama e i più alti suoi dignitari in sella a yak si diressero verso la cima. I monaci avevano spianato già in precedenza una pista per questo pellegrinaggio. Arrivati sulla sommità, vennero recitate di nuovo preghiere, collegate con sacrifici agli dei. Nella valle, in basso, tutto il popolo attendeva l'istante in cui dalla vetta si sarebbe innalzata verso il cielo la colonna di fumo. Si sapeva che lassù il sovrano pregava per il bene dei suoi sudditi. Attraverso una scorciatoia io ero già giunto il giorno precedente sulla vetta, da dove ora assistevo da una certa distanza al rito solenne. Tutt'intorno stormi di cornacchie e di corvi si erano dati appuntamento, attirati dalle offerte di tsampa e di burro, e non aspettavano altro che il momento per gettarsi sugli avanzi. Per la maggior parte degli accompagnatori del Dalai Lama quella era la prima e certo anche l'ultima volta che si trovavano in cima a una montagna. I giovani sembravano gustare questa escursione e ammiravano il panorama. Ma i monaci e i funzionari più anziani, quasi tutti persone abbastanza grasse, non avevano occhi per le bellezze naturali. Sfiniti, gli alti dignitari si mettevano seduti, lasciandosi rifocillare dai loro servitori. Lo stesso giorno tutta la carovana ritornò al monastero, e alcuni giorni dopo il Dalai Lama si mise in viaggio per Sera, dove l'intera cerimonia con le relative discussioni doveva ripetersi come a Dreprung. I consiglieri del giovane sovrano si erano mostrati dapprima esitanti: onorare con una visita anche questo monastero, che solo pochi mesi prima si era ribellato al governo? Ma proprio in questa occasione si ebbe la prova che il Dalai Lama era superiore a tutti gli intrighi. Era commovente vedere come quei Heinrich Harrer
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monaci si sforzavano di manifestargli la loro devota sottomissione, di riceverlo con tutti gli onori e di superare le fastose accoglienze di Dreprung. Avevano levato dai forzieri i loro tesori secolari, i templi erano stati adornati sontuosamente, da tutti i tetti sventolavano nuove banderuole sacre, e le strade erano completamente pulite. Quando, dopo le sue visite a Dreprung e a Sera, il sovrano ebbe fatto ritorno al Norbulingka, una folla allegra e rumorosa invase le strade di Lhasa.
Scoperte archeologiche di Aufschnaiter La mia vita intanto si svolgeva con ritmo normale: ero al servizio del governo, traducevo notizie e articoli di giornali e di quando in quando costruivo qualche piccolo argine e qualche impianto di irrigazione. Regolarmente facevo visita ad Aufschnaiter, occupato al margine della città nella costruzione del suo canale. Durante tali lavori egli aveva fatto interessanti scoperte: nel corso degli scavi i suoi operai avevano portato alla luce frammenti d'argilla. Aufschnaiter li raccolse con cura e cominciò a unire i singoli pezzi. Ne risultarono magnifici vasi e brocche, di forme assai diverse da quelle attualmente in uso. Aufschnaiter promise ai suoi coolie una ricompensa per ogni ritrovamento, raccomandando di scavare con molta cautela e di chiamarlo non appena avessero rinvenuto qualcosa. Ogni settimana c'erano nuove scoperte: furono portate alla luce intere tombe con scheletri perfettamente conservati, vasi e pietre preziose. Il mio compagno aveva trovato pertanto una nuova occupazione per le sue ore libere: univa, attaccava, registrava e metteva in casse. Si muoveva ormai soltanto in epoche che risalivano a migliaia di anni prima. A buon diritto era fiero di questa sua raccolta, perché era la prima volta che si trovavano testimonianze di una tramontata civiltà del Tibet. Questa doveva essere molto antica, perché nessun lama sapeva spiegare i ritrovamenti o scoprire in vecchi libri accenni a un tempo in cui si erano seppelliti i morti, mettendo nelle tombe dei regali. Aufschnaiter voleva mettere a disposizione di un museo archeologico in India questi ritrovamenti, e quando durante l'invasione dei comunisti cinesi fummo costretti ad abbandonare Lhasa, prendemmo con noi le casse. Heinrich Harrer
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Aufschnaiter rimase allora a Gyantse e me le affidò, affinché ne curassi il trasporto fino in India.
Problemi agricoli del Tibet Qualche tempo dopo mi si presentò un'occasione insperata per uscire da Lhasa e conoscere una nuova regione del paese. Alcuni nobili mi avevano pregato di visitare i loro possedimenti terrieri per elaborare progetti tendenti a migliorarne le rendite. Ottenuta dal governo l'indispensabile licenza di assentarmi da Lhasa, visitai una dopo l'altra le loro tenute. Le condizioni che vi trovai ricordavano il Medioevo. Come mille anni prima l'aratro era costituito da un semplice spuntone di legno con una punta di ferro. Per i lavori agricoli ci si serviva dello dzo, un incrocio fra bue e yak, usato soprattutto come bestia da tiro. Lo dzo somiglia piuttosto allo yak, e il latte delle femmine è molto apprezzato per il suo alto contenuto di grasso. Un problema che i tibetani non riuscivano a risolvere era quello dell'irrigazione dei campi. La primavera era quasi sempre molto asciutta, ma nessuno approfittava dei ruscelli e dei fiumi ingrossati dal disgelo per deviarli verso i campi. Le tenute dei nobili sono di proporzioni gigantesche: per farne il giro bisogna cavalcare spesso giorni interi. A ogni proprietà appartengono migliaia di servi della gleba, ai quali non sono assegnati campi per le loro necessità e che per di più devono lavorare un certo tempo per il loro padrone. Gli amministratori, spesso soltanto servi di fiducia, spadroneggiano come piccoli re, perché il loro signore vive a Lhasa al servizio del governo e ha poco tempo di curarsi dei propri possedimenti. In cambio, per meriti speciali, costui viene ricompensato con sempre nuove donazioni di terre. Ci sono nobili che proprio per questo motivo hanno ricevuto in dono nel corso del tempo più di venti proprietà. Ma con altrettanta rapidità qualcuno può essere interamente espropriato, se cade in disgrazia. Allora tutto ciò che possiede diventa di nuovo proprietà dello stato. Ciò nonostante ci sono molte famiglie che già da secoli conservano i loro castelli e possedimenti e portano il nome della regione. I loro antenati hanno costruito queste fortezze spesso su promontori rocciosi, che dominano la vallata. Se si elevano sulla piana sono circondate da fossati, Heinrich Harrer
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naturalmente privi d'acqua. Antiche armi testimoniano ancora la bellicosità degli avi, che dovevano sempre rintuzzare gli assalti dei mongoli, che li minacciavano di mettere tutto a ferro e a fuoco. Per settimane passai così da una tenuta all'altra, e il cavalcare attraverso regioni sconosciute rappresentò per me una gradita distrazione dopo la vita a Lhasa. Che bellezza lasciarsi andare seguendo la corrente in un battello di pelle di yak lungo il corso dello Tsangpo! Non importava se fossi tornato a Lhasa un giorno prima o un giorno dopo. Spesso approdavo qua o là, quando mi attirava un vecchio monastero: avendo portato la mia Leica scattai molte fotografie di regioni e di abitanti. Purtroppo dovetti fare grande economia di pellicole, perché al bazar non se ne trovava il rifornimento per macchine del mio tipo.
Pattinaggio sul ghiaccio a Lhasa Quando ritornai a Lhasa, l'inverno aveva già fatto la sua comparsa. 1 tributari del Kyi Chu erano gelati, e questo ci fece venire una nuova idea. Con un piccolo gruppo di amici, di cui faceva parte anche il fratello del Dalai Lama, fondammo una società di pattinaggio. Non eravamo tuttavia i primi che nel Tibet si fossero dedicati a questo sport. Già la rappresentanza diplomatica inglese a Gyantse aveva praticato, con viva sorpresa degli indigeni, il pattinaggio. Ne raccogliemmo l'eredità, perché comprammo i pattini che gli inglesi prima di partire avevano regalato ai loro servi. Ciò che ci mancava ancora fu acquistato in India. I nostri primi tentativi furono assai esilaranti: avemmo spettatori assidui in buon numero. Gli uni avevano paura che qualcuno si potesse rompere la testa, gli altri erano impensieriti per il timore che cedesse il ghiaccio. Con grande spavento di molti genitori diventavano sempre più numerosi gli entusiasti che volevano imparare a pattinare. I circoli della nobiltà conservatrice, tendenzialmente contraria allo sport, non potevano capacitarsi che temerariamente ci mettessimo sotto i piedi un coltello per scivolarci sopra. L'unico svantaggio della nostra pista di pattinaggio era costituito dalla circostanza che già verso le dieci di mattina il ghiaccio cominciava a fondersi. Il sole, che qui è molto forte anche d'inverno, ci permise di dedicarci a tale divertimento solo nelle prime ore della giornata. C'era però un vantaggio: subito dopo si potevano sostituire i pattini con racchette da Heinrich Harrer
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tennis. Ci si riuniva poi, ora dall'uno ora dall'altro, per un piccolo picnic. Erano quelle le mie ore più belle: senza cerimonie e senza obblighi di etichetta, inevitabili nella vita sociale a Lhasa, potevo divertirmi con la gioventù tibetana.
Cameraman del Buddha Vivente Anche il Dalai Lama aveva sentito parlare da suo fratello del nostro sport. Purtroppo la pista di pattinaggio era situata in una posizione che non permetteva di osservare le nostre prodezze dal tetto del Potala. Ma il dio-re voleva comunque farsi un'idea di questo nuovo e divertente sport. Un giorno mi mandò la sua macchina da presa con l'incarico di girare per lui un film. Poiché non avevo mai fatto riprese cinematografiche, lo pregai di mandarmi anche le necessarie istruzioni, che studiai diligentemente prima di mettermi all'opera. Poi girai un cortometraggio che, per mezzo del ministero degli Esteri e della legazione britannica, feci sviluppare in India. Due mesi dopo era già nelle mani del Dalai Lama. Era riuscito molto bene. Questo cortometraggio segnò il primo contatto diretto fra me e il giovane sovrano del Tibet, e fu cosa strana che proprio un prodotto del ventesimo secolo desse inizio a un'amicizia che più tardi ci unì sempre più, al di sopra di tutte le convenzioni. Poco tempo dopo Lobsang Samten mi fece sapere che suo fratello desiderava che filmassi per lui varie cerimonie e solennità. Da allora in poi si stabilirono fra noi rapporti costanti. Suscitava sempre il mio stupore costatare con quanto interesse, malgrado i suoi studi faticosi, il dio-re si occupasse delle mie riprese cinematografiche, mandandomi in continuazione nuove e precise istruzioni. Una volta si trattava di un biglietto con poche righe, un'altra era Lobsang Samten che oralmente mi comunicava i suoi desideri. Una volta mi suggeriva la posizione che a suo avviso doveva beneficiare della miglior luce, un'altra mi segnalava che questa o quella cerimonia sarebbe iniziata all'ora fissata. Già allora potei accordarmi con lui affinché, durante il passaggio della processione, guardasse in una precisa direzione, dove, secondo quanto convenuto, mi sarei trovato io con la macchina da presa. Naturalmente cercavo di dare il meno possibile nell'occhio. E questa era anche la costante preoccupazione del giovane dio-re, perché attraverso i Heinrich Harrer
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suoi biglietti mi raccomandava spesso di non spingermi troppo avanti e di rinunciare piuttosto a un'inquadratura. Naturalmente era inevitabile che mi si vedesse. Ben presto però ognuno seppe che filmavo e fotografavo per ordine del Dalai Lama, e nessuno mi interruppe più. Perfino i temuti dobdob mi sgomberavano spesso la visuale, maneggiando le loro fruste, e si comportavano come agnellini quando li pregavo di mettersi in posa per me. Così mi riuscì di fare molte riprese eccezionali di feste religiose, come non aveva potuto fare nessuno prima di me. Avevo poi sempre con me la mia Leica, che mi permise di fare anche parecchie fotografie assai rare. Ma quasi sempre dovevo rinunciare alle scene più belle in favore del mio committente. Mi dispiacque soprattutto di non essere riuscito a scattare se non poche fotografie dell'Oracolo di stato in trance.
La cattedrale di Lhasa Feci molte belle fotografie della cattedrale. Lo Tsug Lag Khang, costruito nel settimo secolo, conserva la più pregevole statua di Buddha del Tibet. La storia dell'origine di questo tempio risale al celebre re tibetano Songtsen Gampo. Le due principesse sue mogli erano di fede buddhista. L'una, proveniente dal Nepal, fondò il secondo tempio di Lhasa, Ramoche, l'altra, una cinese, portò con sé la statua d'oro di Buddha. Alle due donne riuscì di convertire il re, che era di religione bòn, al buddhismo, che diventò così religione di stato. Il sovrano fece costruire, per la statua d'oro, la cattedrale. Questa purtroppo ha lo stesso difetto del Potala. Esternamente è un edificio meraviglioso e impressionante, internamente invece è tetra, spigolosa e poco accogliente. Vi sono accumulati tesori immensi, che aumentano giornalmente per le nuove offerte. Ogni ministro, ad esempio, quando entra in carica, deve comprare, per tutte le statue di santi, nuovi abbigliamenti di seta e di broccato, nonché offrire un calice d'oro massiccio. Incessantemente ardono centinaia di lampade a burro, che, estate e inverno, riempiono l'aria di fumo opprimente e di odore nauseabondo. Gli unici beneficiari delle ricche offerte sono i topi, che a migliaia lungo le pieghe delle pesanti vesti seriche delle statue vanno a gozzovigliare nelle coppe votive, colme di tsampa e di burro. Nel tempio regna l'oscurità, non vi penetra dal di fuori neppure un solo raggio di sole: soltanto le lampade a burro sugli altari diffondono la loro luce tremolante. Heinrich Harrer
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L'ingresso al sacro santuario è chiuso da una specie di sipario, formato da pesanti catene di ferro, che viene aperto soltanto in ore determinate. In uno stretto e buio corridoio scoprii una campana, pendente dal soffitto. Non potevo credere ai miei occhi quando ne decifrai l'iscrizione in rilievo: «Te Deum laudamus». Questa campana era probabilmente l'ultimo vestigio di una cappella che era stata edificata molti secoli prima a Lhasa da missionari cattolici, che non erano riusciti ad affermarsi ed erano stati costretti ad abbandonare il paese. Ma il profondo rispetto che nel Tibet si tributa a ogni religione deve aver convinto i tibetani a conservare la campana nella cattedrale. Avrei voluto apprendere qualcosa di più circa questa cappella dei cappuccini e gesuiti, ma ne era scomparsa ogni traccia. Quando cala la sera, la cattedrale si riempie di fedeli, e si forma una lunga coda di gente davanti all'altare di Buddha. Ognuno tocca umilmente con la fronte la statua, deponendo un piccolo dono. Un monaco versa nella palma della loro mano destra acqua benedetta, leggermente colorata di zafferano. Una metà viene bevuta, l'altra versata sul capo. Molti monaci si trattengono permanentemente nel tempio, avendo il dovere di custodire, sotto la sorveglianza di un alto funzionario, i tesori e di alimentare le lampade a burro. Una volta si fece il tentativo di installare nella cattedrale un impianto elettrico per illuminare meglio i corridoi e le cappelle. Ma a causa di un cortocircuito scoppiò un piccolo incendio: tutti gli addetti ai lavori vennero subito licenziati, e mai più si volle sentir parlare di luce artificiale. Davanti all'ingresso della cattedrale ci sono grandi lastre di pietra, lucenti come specchi e piene di avvallamenti, creati dalla millenaria prosternazione dei fedeli che rendono omaggio agli dei. Quando si vedono questi incavi e si osserva la devozione che traspare dai volti, si capisce perché una missione cristiana non abbia potuto attecchire nel Tibet. Un lama di Dreprung che si recasse in visita a Roma per convertire i cattolici riconoscerebbe l'inutilità della sua missione non appena vedesse i gradini delle sante scalinate consumati dalle ginocchia di innumerevoli pellegrini, e abbandonerebbe il Vaticano rassegnato. Il cristianesimo e il buddhismo hanno molti punti in comune: si basano sulla dottrina della felicità nell'aldilà e per la vita terrena predicano entrambe l'umiltà. Esiste però una grande differenza: nel Tibet nessuno è incalzato dal mattino alla sera dai richiami della «civilizzazione». Qui non si ha fretta, qui ci si può occupare delle cose della fede e raccogliersi tranquillamente in meditazione. La Heinrich Harrer
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Chiesa qui ha ancora nella vita dei singoli quella grande importanza che molti secoli fa aveva anche in Occidente. Come davanti alle nostre cattedrali, anche qui la porta del tempio è la dimora dei mendicanti. I poveri sanno molto bene che l'uomo è meditabondo e pietoso, quando si appresta a comparire al cospetto di Dio. Ma come dovunque la mendicità si deforma in mestiere. Allorché io costruii il mio argine, il governo intraprese il tentativo di assegnare lavoro agli sfaccendati che risultassero sani. Di oltre mille mendicanti settecento furono giudicati idonei al lavoro e adibiti alla costruzione: avrebbero avuto un salario e il vitto. Il giorno seguente ne comparve solo la metà, e alcuni giorni dopo non si presentò più nessuno. Il tentativo era miseramente fallito. Non mancanza di lavoro e miseria, né difetti fisici costringono costoro a mendicare, bensì soltanto pigrizia incallita. Nel Tibet si può vivere facilmente di elemosina: nessuno respinge un mendicante. Anche se riceve soltanto un po' di tsampa e una piccola moneta, il guadagno di due ore di «lavoro» gli basta per tirare avanti. Poi, appoggiato a un muro, sonnecchia al sole e continua a vivere. Dopo, una piccola partita ai dadi, e di notte cerca un angolo riparato in un cortile o in strada, avvolto nella sua sudicia pelliccia... Molti mendicanti sono affetti da malattie che certo suscitano pietà, ma essi ne fanno un affare e mettono in mostra le loro mutilazioni vere o finte per ricavarne un utile maggiore. Anche alle porte della città si aggirano schiere di mendicanti. I loro affari non vanno male, perché le strade sono molto frequentate, e quasi ogni pellegrino, nobile o commerciante, che viene in città o ne esce, butta una manciata di monete fra i poveri. Andavo spesso ad accompagnare o a ricevere amici che partivano per l'India o ne ritornavano, e potei costatare di persona le scene che si svolgevano in tali occasioni.
Ospitalità tibetana Una delle più interessanti consuetudini della vita tibetana è quella di incontrare o andare a trovare i propri amici. Quando qualcuno parte, i suoi amici fanno piantare, spesso a dieci chilometri di distanza dalla città, una tenda, per offrirgli un banchetto d'addio. Soltanto dopo gli si permette di proseguire il viaggio, ricoperto di sciarpe bianche e accompagnato dagli Heinrich Harrer
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auguri più affettuosi. Al suo ritorno lo si accoglie nello stesso modo, e a chi ha molti amici può capitare di essere ricevuto festosamente parecchie volte. Spesso egli scorge il Potala al ritorno già di prima mattina, ma sulla via che conduce a Lhasa lo attende una tenda dopo l'altra per dargli il benvenuto. Cala intanto la sera prima che egli entri in città. Nel frattempo la sua carovana si è trasformata in un imponente corteo, perché lo seguono tutti gli amici con i loro servi, ed egli rientra con la piacevole sensazione di non essere stato dimenticato. Se sono attesi degli stranieri, il ministero degli Esteri manda a incontrare l'ospite dei rappresentanti, che gli porgono il saluto ufficiale del governo e lo ospitano. Se arriva un nuovo ambasciatore, viene accolto con gli onori militari, e delegati del Consiglio dei ministri gli porgono le sciarpe di seta. In città attendono l'ospite i suoi servi e gli animali, alloggi predisposti e un cumulo di regali. Credo che non esista alcun altro paese al mondo dove il viaggiatore sia circondato da maggiori attenzioni e da più cordialità. Durante la guerra si smarrivano di frequente degli aeroplani nel tratto fra l'India e la Cina. È certo la più difficile linea aerea del mondo, perché sorvolare l'Himalaia mette a dura prova la resistenza e l'abilità dei piloti. Le carte di questa regione sono quasi sempre inesatte, e uno smarrimento può essere fatale ai piloti. Una notte si udì il rombo di motori sopra la città santa, il che suscitò grandi apprensioni. Due giorni dopo, giunse la notizia dal distretto di Samye che cinque americani erano atterrati nel Tibet dopo essersi paracadutati. Il governo li invitò a ritornare in India via Lhasa. I piloti saranno rimasti non poco stupiti quando, ancora a grande distanza dalla città, furono accolti cordialmente in una tenda con tè al burro e sciarpe bianche. Raccontarono poi a Lhasa di aver perduto completamente l'orientamento e di aver sfiorato con le ali del loro apparecchio le nevi del Nyenchen Thangla. Allora erano tornati indietro, ma poiché non avevano benzina sufficiente si erano dovuti decidere a sacrificare l'apparecchio. Tutti toccarono felicemente terra con il paracadute, a parte qualche slogatura e la rottura di un braccio. Dopo un breve soggiorno a Lhasa, gli americani ripartirono a cavallo per l'India, con una carovana del governo e circondati da tutte le attenzioni. Gli equipaggi di altri apparecchi americani, precipitati durante la guerra, non ebbero altrettanta fortuna. Nel Tibet orientale si trovarono soltanto i resti di due aeroplani, ma nessun uomo si era potuto salvare. Il governo, Heinrich Harrer
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fatti raccogliere i rottami, ordinò che fossero conservati in case le cui porte vennero sigillate. Un altro apparecchio era caduto a sud dell'Himalaia, in una provincia i cui abitanti sono semiselvaggi. Costoro non appartengono alla religione buddhista, vanno in giro quasi nudi e ogni tibetano conosce e teme le loro frecce avvelenate. Solo qualche volta essi escono dai loro boschi, per barattare pelli e muschio con sale e bigiotteria. In una di queste occasioni offrirono oggetti che non sarebbero potuti appartenere se non a un aereo americano. Ma questa fu l'unica notizia che di quella disgrazia ebbe il mondo. Tutte le ricerche furono vane.
Riorganizzazione dell'esercito e intensificazione delle pratiche religiose La situazione politica del paese peggiorava sempre più. I cinesi avevano già dichiarato solennemente a Pechino che ben presto avrebbero «liberato» il Tibet. Neppure a Lhasa ci si nascondeva la serietà della minaccia. I comunisti cinesi avevano sempre realizzato ciò che si erano proposti. Perciò nel paese dei lama si provvide ad accelerare al massimo la riorganizzazione dell'esercito. Ne fu incaricato il Consiglio dei ministri. Il Tibet ha un esercito permanente. Secondo il numero degli abitanti ogni luogo deve fornire un determinato numero di reclute. È questo uno degli obblighi nei confronti dello stato. Non si tratta di una coscrizione nel nostro senso della parola, perché lo stato si interessa soltanto del numero, non della persona. Il soggetto che deve adempiere ai suoi obblighi militari può «comprarsi» un sostituto, che deve entrare nell'esercito al posto suo. Non pochi di questi uomini rimangono poi militari per tutta la vita. Gli istruttori dell'esercito, avendo studiato in India, conoscevano le armi moderne. I comandi venivano impartiti in una lingua ibrida: un miscuglio di tibetano, hindi e inglese. Il nuovo ministro della Difesa però, fra le sue prime disposizioni, emanò un'ordinanza secondo la quale i comandi dovevano essere impartiti soltanto in tibetano. Al posto di God Save the Queen, furono composti testo e musica di un nuovo inno tibetano, che esaltava l'indipendenza del paese e la gloria del Dalai Lama. I posti intorno a Lhasa si trasformarono in campi di esercitazione per le truppe. Furono creati nuovi reggimenti, e l'Assemblea nazionale stabilì che i nobili e gli abbienti dovessero provvedere a rifornire e a equipaggiare Heinrich Harrer
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altri mille uomini. Fu lasciato alla loro iniziativa personale di entrare in servizio essi stessi o di mandare un sostituto. Vennero tenuti corsi per la formazione di ufficiali, ai quali presero parte tanto i laici quanto i monaci. La maggioranza dei tibetani si applicò con entusiasmo patriottico. Le divise dell'esercito sono d'estate di cotone kaki, d'inverno di lana di pecora indigena, colorata con gusci di noce verdi. Per il taglio corrispondono al costume abituale tibetano: una specie di mantella che serve in pari tempo da coperta, pantaloni lunghi e alti stivali. Il capo è protetto d'estate da un cappello ad ampie tese, d'inverno da un berretto di pelliccia. Le truppe in formazione chiusa hanno un aspetto estetico e marziale, ma naturalmente non si possono fare confronti con le truppe europee e americane. La disciplina è ottima, ma questo non può meravigliare, perché la maggior parte dei soldati è costituita da servi della gleba, abituati alla cieca obbedienza. In più costoro sanno di essere chiamati a difendere il loro paese e la loro religione, e ciò riempie tutti di orgoglio e di spirito bellico. Nei passati tempi di pace non ci si era curati troppo dell'esercito. Anche allora i singoli distretti avevano l'obbligo di provvedere coloro che erano destinati al servizio militare di viveri e di denaro. Ora però il governo riconobbe l'importanza di una buona organizzazione e pagò di tasca propria il soldo ai soldati e gli stipendi agli ufficiali. All'inizio non fu facile superare le difficoltà di un regolare servizio d'intendenza per tanti nuovi contingenti. Tutti i servizi di trasporto risultarono sovraccarichi, e spesso si dovettero far venire i cereali da depositi molto lontani. Questi magazzini, che vengono eretti nelle regioni dove cresce molto grano, sono grandi costruzioni in pietra senza finestre, all'interno delle quali l'aria penetra attraverso buchi di ventilazione. Le derrate possono esservi conservate per decenni senza danno, perché l'aria asciutta ne impedisce il deterioramento. Ora però si svuotarono assai presto, dovendosi trasferire i depositi in quei luoghi che avrebbero potuto costituire il fronte in caso di guerra. Il paese non era comunque minacciato da mancanza di viveri. Si potrebbe circondare il Tibet con un muro, e nessuno morirebbe di fame o di freddo, perché quanto occorre alla vita dei tre milioni di abitanti di questo paese gigantesco si trova all'interno di questo territorio. Le cucine collettive dei soldati fornivano dunque un rancio abbondante, il soldo era sufficiente anche per le sigarette e il chang, e le truppe erano soddisfatte. Heinrich Harrer
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La differenza fra ufficiali e soldati, anche nell'esercito tibetano, è facilmente riconoscibile dalle divise. Quanto più è alto il grado, tanto più numerosi sono i fregi d'oro massiccio. A questo riguardo non esiste un regolamento. Vidi una volta un generale che oltre alle sue spalline d'oro portava sul petto una quantità di scintillanti decorazioni. Probabilmente gli erano passate fra le mani troppe riviste illustrate estere, e secondo quanto aveva visto gli era venuta l'idea di decorarsi da solo, dato che nel Tibet non esistono medaglie. Il soldato tibetano riceve, in luogo delle medaglie, ricompense molto più pratiche. Dopo la vittoria egli ha diritto al bottino: perciò i saccheggi non sono una rarità. Soltanto le armi catturate devono essere consegnate. Un buon esempio di tale metodo è costituito dalle battaglie contro le orde dei predoni, alle quali ebbi più volte occasione di assistere. I bònpo locali possono rivolgersi al governo per invocare aiuto, se i banditi sono troppi. Allora vengono inviati piccoli distaccamenti militari per combatterli. Malgrado gli inesorabili metodi di lotta di tali masnade, questi incarichi sono molto ambiti, perché il soldato pensa soltanto alla ricca preda e non si preoccupa dei pericoli. Tale diritto al bottino ha già causato molti danni, e io stesso fui presente a un caso tragico, che costò la vita a parecchie persone. Allorché i comunisti cinesi occuparono il Turkestan, il console americano, Machiernan, un giovane suo compatriota, lo studente Bessac, e tre russi bianchi vollero fuggire nel Tibet. Attraverso la sua ambasciata in India il console chiese al governo tibetano il permesso di attraversare il territorio, e Lhasa inviò subito dei corrieri in tutte le direzioni, affinché i rafforzati posti di confine e le pattuglie non facessero difficoltà ai profughi. La piccola carovana doveva attraversare la catena del Kuen Lun e il Changtang. I cammelli si comportarono nel migliore dei modi, e alla carne fresca provvide la caccia ai kyang. Disgrazia volle che il corriere del governo arrivasse troppo tardi nel luogo nel quale l'americano e i suoi compagni avevano deciso di passare il confine. Prima ancora che fosse possibile stabilire un contatto o iniziare trattative, i soldati tibetani fecero uso delle armi. Probabilmente furono spinti a ciò non tanto dal loro senso del dovere, quanto dalla vista dei dodici cammelli carichi di roba. Il console americano e due russi furono uccisi sul colpo. Il terzo russo cadde ferito, e soltanto Bessac rimase illeso. Venne fatto prigioniero, e una scorta accompagnò lui e il ferito dal più vicino governatore. Il trattamento fu tutt'altro che cortese: i militari insultarono e minacciarono Bessac. Gli Heinrich Harrer
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zelanti soldati di confine si gettarono subito sulla preda per dividersela tra loro, e rimasero gradevolmente sorpresi nel trovare cose tanto preziose come binocoli e macchine fotografiche. Ma ancor prima che il trasporto si fosse messo in moto per raggiungere il bònpo successivo, giunse il messaggero con l'ordine di accogliere i due americani e i loro compagni come ospiti del governo. Ciò cambiò immediatamente le carte in tavola. I soldati tibetani, assai spaventati, si profusero in gentilezze. Ma non si poteva più rimediare all'accaduto, che era costato la vita a tre persone. Il governatore inviò un rapporto a Lhasa. Qui si rimase terrificati dalle notizie ricevute e ci si sforzò di esprimere in tutti i modi il più vivo rammarico del governo. Un medico che aveva studiato in India, carico di regali, fu mandato da Bessac e dal ferito. Si pregò entrambi di recarsi a Lhasa per testimoniare contro i soldati già arrestati. Un alto funzionario tibetano che parlava un po' d'inglese andò a incontrare a cavallo, come d'uso, i due ospiti. Mi accompagnai a lui, ben immaginando che avrebbe procurato un certo sollievo all'americano poter parlare delle sue vicende con un bianco, e speravo anche di convincerlo che il governo non aveva nessuna colpa e deplorava sinceramente il luttuoso avvenimento. Sotto una pioggia dirotta incontrammo il giovane Bessac: era un ragazzo alto, sotto il quale il piccolo cavallo tibetano quasi scompariva. Potevo comprendere benissimo il suo stato d'animo. La piccola carovana aveva viaggiato per mesi, sempre in fuga dai nemici ed esposta a ogni sorta di pericolo, e il loro primo incontro con gli abitanti del paese che avrebbe dovuto garantire loro asilo politico era costato la vita a tre dei suoi componenti. Sotto una tenda del governo erano preparati scarpe e abiti nuovi, e a Lhasa una casa con giardino, cuoco e servi attendeva gli ospiti. Per fortuna la ferita del russo, Vassiliev, non era mortale: abbastanza presto, con l'aiuto di stampelle, poté fare qualche passo. I due rimasero a Lhasa un mese, e io divenni nel frattempo buon amico di Bessac. Non sentiva alcun rancore per il paese dal quale era stato accolto tanto male, e come unica soddisfazione chiese che venissero puniti i soldati colpevoli di un simile crimine. Lo si invitò ad assistere alla loro punizione, affinché non gli potesse rimanere il sospetto di una finzione. Ma allorché vide la crudele fustigazione, fu lui stesso a chiedere che la pena fosse diminuita. Scattò anche numerose fotografie, pubblicate in seguito su «Life», per testimoniare all'opinione pubblica la buona fede del governo tibetano. A Lhasa si fece tutto il possibile per dare onorata sepoltura ai morti secondo Heinrich Harrer
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l'uso occidentale. Oggi, nel mezzo del Changtang, si vedono tre semplici croci di legno. La loro storia è tanto più tragica, giacché le vittime trovarono la morte quando già si credevano salve. Bessac fu ricevuto dal Dalai Lama e proseguì poi verso il confine con il Sikkim, dove lo attendevano i rappresentanti del suo paese. I tempi torbidi spinsero ancora altri profughi nel Tibet, ma tutti ebbero maggiore fortuna. Di nuovo una carovana di cammelli attraversò il Changtang: un principe mongolo con due mogli, una polacca e l'altra mongola. Ero pieno di ammirazione per queste due donne che avevano sopportato con coraggio un viaggio così tremendo, e il mio stupore crebbe di molto quando vidi i loro due incantevoli bambini, che avevano sopportato altrettanto bene la durezza del cammino. Rimasero a Lhasa sei mesi, poi si trasferirono in India. E ricordo un'altra fuga, che dimostra in maniera lampante la tragicità della nostra epoca. Centocinquanta russi bianchi erano fuggiti dalla loro patria e avevano percorso a piedi tutta l'Unione Sovietica. In viaggio da anni, avevano superato strapazzi e pericoli mortali. Quando giunsero a Lhasa ne erano rimasti in vita purtroppo soltanto venti. Il governo li aiutò come meglio poté: offrì vitto e alloggio e mise a loro disposizione mezzi di trasporto. Ma il destino volle che appena arrivati fossero costretti a proseguire subito per l'India, sempre inesorabilmente incalzati. Soltanto qualche tempo dopo lessi del felice arrivo di tutti e venti ad Amburgo, da dove volevano imbarcarsi per l'America per trovarvi finalmente, dopo tanto errare per il mondo, una nuova patria. È ovvio che il governo in tempi così critici volesse non soltanto mobilitare l'esercito del paese, ma apprestare anche tutte le difese interne. A tal fine bastò che si richiamasse alla religione, la più forte molla di tutti i sentimenti tibetani. Nuove ordinanze e nuovi funzionari vennero messi al servizio di questo programma. Immensi mezzi finanziari furono devoluti alla nuova organizzazione. Tutti i monaci ricevettero l'ordine di leggere la Bibbia tibetana, il Kangyur, in riunioni regolari. Dovunque vennero collocati nuovi mulini di preghiere, per impetrare aiuto e protezione dagli dei. Rari amuleti, di particolare influsso, furono tirati fuori da bacheche antichissime; si raddoppiarono i sacrifici; su tutti i monti si accesero fuochi, e sui picchi nuovi mulini di preghiere, mossi dal vento, lanciarono in tutte le direzioni le loro suppliche ai santi protettori del lamaismo. Fidenti nel potere della religione i tibetani speravano fermamente di Heinrich Harrer
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conservare l'indipendenza del paese. Nel frattempo radio Pechino lanciava messaggi in lingua tibetana promettendo che il Tibet sarebbe stato presto liberato. Più che mai la gente affluiva in folla alle cerimonie della Chiesa. L'inizio dell'anno 1950 oscurò tutta la pompa e l'inverosimile sfarzo delle cerimonie da me fino a quel momento viste. La popolazione dell'intero Tibet si accalcava in religioso entusiasmo nelle strette vie di Lhasa. Ma io non mi potevo liberare dall'opprimente sensazione che la loro commovente fede difficilmente avrebbe potuto intenerire gli dei dorati... Il Tibet fra non molto sarebbe stato strappato dalla sua serena pace, se non fossero pervenuti aiuti esterni. Di nuovo il Dalai Lama mi aveva pregato di riprendere le festività. Quattro settimane dopo il «Grande» capodanno si tiene una «Piccola» cerimonia di preghiera, della durata di dieci giorni, che per splendore supera forse la precedente. In questo lasso di tempo tutto incomincia a verdeggiare, e la città, nello smagliante splendore della primavera e della festa, offre un colpo d'occhio indimenticabile. Forse proprio a causa delle nere nuvole che in lontananza si addensano. Questa funzione religiosa si svolge nel quartiere di Shò. Dal Potala viene calata per librarsi sul quartiere, per due ore, una bandiera che è senza dubbio la più grande del mondo. Essa forma un gigantesco rotolo, e sono necessari cinquanta monaci per trasportarlo e svolgerlo nel luogo fissato. A Shò è eretta una casa apposita, per conservare quella bandiera, che è di seta pura e pesante: le più belle immagini degli dei, a vivaci colori, sono applicate sul magnifico sfondo. Quando dal Potala tutta lucente essa si libra sulla città, esce dal Tsug Lag Khang una festosa processione che si avvia verso Shò, dove dopo solenni riti si scioglie. Segue una strana festa da ballo: gruppi di monaci eseguono antichissime danze rituali. Mascherati e fregiati di preziosi ornamenti d'osso intagliato, piroettano al suono di tamburi. Il popolo contempla affascinato le figure enigmatiche. Talvolta si sente tra la folla un mormorio: qualcuno crede di aver scorto il Dalai Lama, che sta quasi cento metri sopra le loro teste e con il suo binocolo osserva dal tetto del Potala lo spettacolo. I fedeli continuano a inginocchiarsi sui gradini di pietra davanti alla bandiera. Già durante la festa questa viene lentamente ritirata e torna per un anno intero nell'oscurità.
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Tipografie e libri Il quartiere di Shò, ai piedi del Potala, è particolarmente noto perché vi si trova la tipografia di stato: un edificio alto e tetro, dal quale non giunge al mondo esterno alcun rumore. Non si sente lo strepito di macchine, soltanto le voci smorzate dei monaci risuonano nelle ampie sale. Sopra lunghi scaffali sono accatastati blocchi di legno che entrano in funzione solo quando viene ordinato di stampare un nuovo libro. I monaci devono incominciare a lavorare ricavandone piccole tavolette, dato che non esistono segherie. Ognuna delle lettere piene di ghirigori viene intagliata singolarmente nella tavoletta di betulla, e le matrici pronte vengono ammucchiate con la massima precisione. La stampa di un volume rappresenta un lavoro infinito: basti pensare che un'opera come la Bibbia tibetana, ad esempio, riempie spesso una sala intera. L'inchiostro da stampa è fatto a base di fuliggine, che i monaci ricavano in abbondanza dalla combustione dello sterco di yak. Molti di loro diventano neri dalla testa ai piedi. Alla fine si giunge all'impressione delle matrici sulla carta tibetana fatta a mano. I libri non vengono rilegati, ma sono costituiti da fogli sciolti, stampati da entrambi i lati, e vengono poi posti fra due coperchi di legno intagliato. I libri pronti si possono ordinare alla tipografia o comprare da uno dei librai del Barkhor. È uso avvolgerli a casa in stoffe di seta e custodirli con molta cura. Poiché sono sempre di contenuto religioso, vengono trattati con grande rispetto e collocati perlopiù sull'altare. In ogni casa benestante si trovano non solo tutti i volumi della Bibbia tibetana, ma anche gli oltre duecento volumi di commento. A nessuno verrebbe mai in mente di lasciare un volume incustodito sopra una sedia. Pochissimo sono invece stimati i nostri libri. Una volta trovai un prezioso libro sulla lingua tibetana in un posto davvero inconsueto. Le prime pagine erano state strappate. Portai via il libro e trascrissi le pagine mancanti da una copia identica, molto soddisfatto della mia trovata. Il prezzo dei libri tibetani dipende dalla qualità della carta. Il valore dell'edizione completa del Kangyur corrisponde al prezzo di un cavallo di razza o di una dozzina di yak. Oltre che a Shò, esiste una grande tipografia anche a Nartang, nelle vicinanze di Shigatse, e quasi ogni monastero possiede le matrici di Heinrich Harrer
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determinati libri sui santi locali e sugli annali della sua lamasseria. Tutta la cultura tibetana è ispirata dalla religione, come in tempi anteriori avveniva anche da noi. Le opere dell'architettura e della scultura, della letteratura e della pittura magnificano la fede e perseguono il fine di accrescere il potere della Chiesa. Non esiste ancora alcun divario fra religione e scienza, perciò il contenuto di tutti i libri è un miscuglio di norme religiose, di conoscenze filosofiche e di consigli tratti dall'esperienza. Poemi e canzoni sono soltanto scritti a mano su fogli volanti. Non esistono raccolte complete. Un'eccezione costituiscono le poesie del sesto Dalai Lama, che sono stampate e che anch'io potei acquistare nel bazar. Le ho lette molte volte, perché esprimono in forma compiuta il desiderio d'amore. Ma non a me soltanto piacevano in modo particolare quei versi di un prigioniero solitario, anche i tibetani amano le poesie del loro sovrano, da tempo defunto. Costui fu un personaggio molto originale nella serie dei Dalai Lama. Amava le donne e scendeva spesso sotto mentite spoglie in città. Ciò nonostante non ho mai sentito una parola di biasimo al riguardo, perché si attribuiva quel comportamento alla sua anima di poeta. Più di qualunque libro stampato sono preziosi i molti manoscritti, opera perlopiù di abili monaci. Non sono di carattere dotto: spesso sono soltanto raccolte di aneddoti, come ad esempio quella di Agu Thònpa, il più famoso comico tibetano. Egli commentò con molto umorismo la vita politica e religiosa del suo tempo, ed è ancora molto popolare. In ogni ricevimento vengono lette le sue storielle per divertire gli ospiti. Data la preferenza del popolo per la satira e le situazioni comiche, Agu Thònpa era considerato alla stregua di un classico della letteratura, e durante il mio soggiorno a Lhasa il migliore comico della città portava il suo nome. Ci sono poi certi libri che contengono esatte norme per disegnare e dipingere i tangkha, dipinti che rappresentano motivi religiosi e si possono trovare in ogni tempio o monastero, nonché nella maggior parte delle abitazioni particolari. Il loro pregio dipende dall'età e dall'esecuzione. Sono il ricordo del Tibet preferito dagli stranieri. Una specie di arazzi che riproducono episodi della vita degli dei, dipinti su seta preziosa. Gli uomini che li eseguono sono molto fieri della loro professione, che richiede una perfetta conoscenza dei libri in cui sono narrate le leggende. L'artista può lasciare libero corso alla fantasia nell'ornamentazione, ma rispetto alle figure degli dei deve attenersi alle precise prescrizioni e Heinrich Harrer
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proporzioni. Durante il lavoro la seta viene tesa all'interno di assicelle di legno, e l'opera finita viene incorniciata con broccato prezioso. Poiché trattano sempre motivi religiosi, i tangkha sono ritenuti oggetti religiosi e non possono essere venduti pubblicamente. A tale norma ci si attiene con molto rigore nel Tibet. Oggetti che comunque si riferiscano alla fede non vengono mai messi in commercio, e in caso di vendita il ricavo serve ad alimentare lampade a burro nei santuari o è distribuito sotto forma di elemosine. Ciò nonostante numerosi tangkha varcano il confine del Tibet, e spesso vengono pagati alti prezzi per il loro acquisto. Molte volte avevo esternato ai miei amici il desiderio di possedere uno di questi magnifici dipinti, ma nessuno me ne volle mai vendere uno. Poco prima della mia partenza però ne ricevetti alcuni in dono. Quando un giorno ne vidi uno particolarmente bello a Darjeeling, che desideravo aggiungere alla mia raccolta, dovetti sborsare un piccolo patrimonio. I tangkha più vecchi vengono conservati nel Potala o in altri templi, perché nessuno mai ne distruggerebbe uno, anche se logoro. D'altronde, i ricchi sostituiscono volentieri i vecchi con nuovi dipinti dai colori più freschi e smaglianti. Il Dalai Lama mi disse una volta che nel suo palazzo d'inverno oltre diecimila tangkha pendevano trascurati dalle pareti dei vari locali non utilizzati. Ed ebbi occasione di convincermene di persona. Ogni anno d'autunno tutte le case private e i templi, compreso il Potala, venivano ripuliti e ridipinti. È un lavoro assai pericoloso ridare la tinta alle alte mura del Potala, perciò ogni anno viene eseguito sempre dagli stessi operai. Sospesi lungo corde di peli di yak, attingono il colore da piccoli recipienti di argilla, si muovono come degli acrobati sulle sporgenze ornamentali dei cornicioni e ridanno nuovo splendore alle modanature. In molti punti, dove la pioggia non riesce facilmente a eliminare lo strato di colore, questo annuale restauro forma man mano una spessa crosta di calce. Ma il Potala, che nel suo abbagliante candore si erge sulla città, è un incanto per gli occhi. Mi rallegrò molto l'incarico datomi dal Dalai Lama di girare un cortometraggio su questo lavoro. Di nuovo potei fissare sulla pellicola qualcosa di unico al mondo. Già di buon mattino, fra una schiera di gioiose portatrici di recipienti pieni di colore, salii le molte scale. Tutto il colore per questa costruzione gigantesca viene trasportato da donne di Shò, e cento coolie devono lavorare quattordici giorni per far risplendere la mole nella sua nuova veste. Ebbi perciò sufficiente tempo per studiare le Heinrich Harrer
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prospettive, al fine di fare le migliori riprese possibili. Mi premeva soprattutto inquadrare bene gli operai che oscillavano appesi alle corde fra cielo e terra. A tale scopo ottenni l'autorizzazione di penetrare in tutti gli ambienti del palazzo. Quasi tutte le stanze erano molto buie, perché masserizie, mobili e arnesi ammonticchiati da secoli ostruivano le finestre, e dovetti faticare molto per avvicinarmi. Con grandi occhi mi fissavano dimenticate statue di Buddha. Sotto spessi strati di polvere scoprii molti e magnifici antichi tangkha. I musei di tutto il mondo sarebbero più che felici di possedere anche solo una minima parte dei tesori che qui dormono negletti. Ratti, topi e ragni ne sono oggi gli unici ammiratori. Nel sottosuolo il mio accompagnatore mi mostrò un'altra rimarchevole caratteristica di questo edificio senza uguali. Sotto le colonne che sorreggono la volta del tetto erano stati inseriti alcuni cunei. Questa specie di grattacielo si era abbassato nel corso dei secoli, e i migliori operai di Lhasa erano riusciti a rialzarlo solo dopo un immane lavoro. Mi parve questo un risultato tecnico addirittura incredibile per gente tanto inesperta. Il cortometraggio sulla dipintura del Potala riuscì bene, e come al solito fu mandato per lo sviluppo in India.
Costruisco un cinema per il Dalai Lama Al Dalai Lama doveva essere venuto il desiderio di vedere i miei film a regola d'arte. Perciò Lobsang Samten mi sorprese un giorno chiedendomi se mi sentivo in grado di costruire una sala di proiezione. Avevo imparato a Lhasa già da tempo che qui non si doveva mai rispondere con un netto rifiuto, anche se richiesti di fare qualcosa di cui non si sapeva niente. Aufschnaiter e io eravamo noti come «tuttofare», e avevamo risolto numerosi problemi. D'estate, ad esempio, avevo progettato la costruzione di un edificio scolastico per mille bambini, perché a Lhasa si cominciava a capire che la mancanza di un'educazione scolastica era una grave deficienza. Dopo aver riflettuto brevemente, chiesi che mi fossero dati i prospetti dei proiettori del Dalai Lama, non sapendo quale energia elettrica e quale lunghezza delle sale fossero necessarie. Dichiaratomi disposto a eseguire i lavori, mi fu dato l'incarico ufficiale dai monaci che erano i camerlenghi del Dalai Lama. Da allora in poi ebbi libero accesso al giardino del Norbulingka, che era precluso a chiunque. I lavori furono Heinrich Harrer
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iniziati nell'inverno 1949-50, quando cioè il giovane sovrano era già rientrato nel Potala. Esaminati tutti gli edifici, scelsi per la trasformazione una casa addossata al muro interno del giardino e non più adoperata dalla morte del tredicesimo Dalai Lama. Ebbi a disposizione i migliori artigiani di Lhasa e i soldati della guardia del corpo. Di donne non ci si poteva servire in questo caso, perché ciò avrebbe costituito una profanazione del recinto sacro. Feci costruire delle traverse di ferro per sostenere il soffitto privo di pilastri. L'ambiente aveva una lunghezza di venti metri e dovetti aggiungervi all'esterno una piccola costruzione un po' più alta per il proiettore. Vi si poteva accedere sia dall'esterno che dall'interno. A una certa distanza dalla sala costruii una casetta per il motore a benzina e il generatore della corrente. Ciò avvenne per espresso desiderio del Dalai Lama, il quale mi aveva fatto sapere che il motore doveva essere installato in modo che i suoi rumori non dessero disturbo per non infastidire troppo l'anziano reggente, visto che l'installazione di un cinema all'interno del Norbulingka era già di per sé un fatto sufficientemente rivoluzionario. Perciò costruii anche un piccolo ambiente per i tubi di scappamento, il che si dimostrò poi assai opportuno. Poiché non si poteva avere fiducia incondizionata nel motore, proposi di tenere pronta in caso di bisogno la jeep, per avviare il generatore. Il Dalai Lama fu subito d'accordo con me, e dato che ogni suo volere è legge, la jeep mi fu subito messa a disposizione. Un europeo difficilmente è in grado di capire quale importanza si annetta al più piccolo capriccio del dio-re. Per soddisfare un suo desiderio si mette in moto tutta la macchina governativa. Anzitutto si cerca di trovare l'oggetto desiderato a Lhasa. Se il tentativo fallisce, viene inviato in India un messo con passaporto speciale. Per tutto il viaggio costui inalbera una banderuola rossa, la cui vista ha lo stesso effetto che da noi la sirena dei pompieri. Tutti sanno che il messo, in cammino per incarico altissimo, ha molta fretta, e ognuno cerca di prestargli aiuto. Nei tasam lungo la via carovaniera egli riceve il cavallo più veloce, e il messaggero ha precedenza assoluta di fronte a qualunque viaggiatore, quale che sia la ragione della sua fretta. Spesso anzi viene preceduto da una staffetta che ne annuncia l'arrivo alle singole autorità. Questi messi, chiamati atrung, una volta in sella viaggiano senza soste. Il loro percorso giornaliero è di circa centoventi chilometri, senza contare i molti alti passi che devono superare a piedi. È vietato fermarsi, possono soltanto sonnecchiare un po' a cavallo: nessun tasam li accoglierebbe. La cintola del loro mantello è inoltre Heinrich Harrer
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sigillata con il timbro del governo, in modo che non se lo possano togliere. Ma questi atrung sono molto fieri della loro missione, trovano dovunque il massimo rispetto e da ogni bònpo ricevono vitto gratuito e doni in denaro. Una volta ottenuta la jeep, il problema più grosso fu quello di farla entrare in giardino: il portone del muro giallo era di alcuni centimetri troppo stretto. Il giovane sovrano seppe però trovare subito una soluzione pratica: diede ordine di allargarlo. Era questa una coraggiosa affermazione della sua volontà, dato che tutto il suo seguito era molto timoroso di introdurre innovazioni prima che il dio-re raggiungesse la maggiore età. Il buco nel muro giallo fu poi richiuso al più presto mediante un portone nuovo, per far scomparire ogni traccia e non suscitare le rimostranze degli spiriti reazionari. La forza di questo ragazzo consisteva proprio in questo: sapeva raggiungere il proprio scopo senza ledere i sentimenti dei suoi sudditi. La jeep ricevette così una sua casetta e si dimostrò una vera provvidenza, quando il motore si metteva a scioperare. L'autista del tredicesimo Dalai Lama mi aiutò nel mettere a punto l'impianto elettrico, e ben presto tutta l'installazione funzionò in modo impeccabile. Io stesso mi occupai di far sparire in giardino ogni traccia dei lavori di costruzione, e per mascherare le inevitabili devastazioni piantai nuove aiole di fiori, intramezzate da vialetti. Approfittai dell'occasione per ispezionare a fondo questo giardino a tutti rigorosamente precluso. Non potevo sapere che in futuro vi sarei entrato ancora molte volte in qualità di ospite. Intanto era arrivata la primavera, e il Norbulingka risplendeva in tutta la sua vaghezza. I peschi e i peri erano in fiore, i pavoni facevano la ruota muovendosi impettiti fra le aiole, e le corolle di centinaia di piante in vasi brillavano di smaglianti colori. In laghetti artificiali su piccole isole si elevava un tempietto che si poteva raggiungere attraverso un ponte. In un angolo del parco era installato un piccolo zoo. La maggior parte delle gabbie però era vuota: rimanevano soltanto pochi gatti selvatici e alcune linci. Prima si trovavano anche pantere e orsi, ma non erano potuti sopravvivere nella ristrettezza delle loro prigioni. Il Dalai Lama riceveva continuamente in dono animali delle più varie specie, soprattutto feriti, perché nel giardino dei Gioielli tutti venivano amorevolmente curati. Oltre ai templi, erano disseminati sotto gli alberi numerosi piccoli padiglioni. Ognuno serviva a uno scopo preciso: in uno il sovrano si ritirava per meditare, nell'altro per leggere, altri ancora fungevano da Heinrich Harrer
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stanza di studio per il Dalai Lama e da sala di riunione per i monaci. L'edificio più grande, alto parecchi piani, stava nel centro del giardino ed era per metà tempio, per metà abitazione del dio-re. Ma anche qui le finestre erano piccole, e mi sembrava assai esagerata la denominazione di «palazzo» per una casa così modesta. Soltanto il verde degli alberi lo faceva apparire più gioioso del Potala, somigliante piuttosto a una prigione. Anche il giardino era assai tetro. Gli alberi, mai potati, erano cresciuti selvaggiamente, e formavano una vera foresta che nessuno pensava di sfoltire. I giardinieri si lagnavano che tutte le loro cure per i fiori e gli alberi fruttiferi risultassero vane, perché nulla riusciva a svilupparsi senza aria e senza un raggio di sole. Mi avrebbe fatto piacere mettere un po' di ordine in questo giardino, che, benché custodito da tanti giardinieri, era privo di stile. Mi riuscì almeno di convincere il gran ciambellano a far abbattere qualche albero, e sorvegliai personalmente il lavoro dei taglialegna. I giardinieri, che abitavano in piccole casette all'interno del muro giallo, se ne intendevano poco: si occupavano soprattutto dei fiori da vaso che durante il giorno stavano all'aperto e di sera venivano trasportati in una specie di serra. Dal giardino interno una porta conduceva direttamente alle scuderie, che accoglievano i cavalli prediletti del Dalai Lama e un kyang addomesticato, ricevuto in dono. Gli animali vivevano qui in serena pace, custoditi da molti servi: erano grossi e grassi, perché il loro padrone non se ne serviva mai. I maestri e i domestici personali, il camerlengo e il coppiere del Dalai Lama alloggiavano al di fuori del muro giallo nel grande Norbulingka. Le abitazioni erano comode, e per i parametri tibetani straordinariamente pulite. Vi dimoravano anche i cinquecento uomini della guardia del corpo. Il tredicesimo Dalai Lama si era curato personalmente del benessere delle sue truppe, che sotto di lui avevano ricevuto divise secondo un taglio europeo. Egli stesso usava sorvegliare, da un padiglione appositamente costruito, le loro esercitazioni. Rimasi sorpreso dal fatto che portassero i capelli tagliati al modo occidentale, cosa eccezionale per il Tibet. Al tredicesimo Dalai Lama, durante il suo soggiorno in India, erano probabilmente piaciuti i militari inglesi, e aveva così organizzato i soldati della propria guardia del corpo secondo quel modello. Gli ufficiali vivevano in piccoli e graziosi bungalow circondati da aiole fiorite. Il servizio degli ufficiali e della truppa non era gravoso: consisteva Heinrich Harrer
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soprattutto nel montare la guardia e nel prendere parte a riviste e a processioni solenni. Molto prima che il Dalai Lama si trasferisse nella sua residenza estiva, avevo ultimato i miei lavori. Mi chiedevo se il cinema gli sarebbe piaciuto. Ma poiché Lobsang Samten sarebbe sicuramente intervenuto alla prima programmazione, ero sicuro di ricevere subito esatta relazione delle sue impressioni. Probabilmente il Dalai Lama avrebbe chiamato, per far funzionare il proiettore, l'operatore della rappresentanza indiana, che durante i suoi frequenti ricevimenti era solita presentare ai suoi ospiti film inglesi e indiani. In quelle occasioni potei osservare con quanto piacere infantile i tibetani seguissero le proiezioni, specialmente se si trattava di documentari di paesi lontani. Fui presente una volta al loro entusiasmo quando videro sullo schermo alcuni pigmei intenti a costruire i loro ponti di liane. Ma la loro ammirazione toccò il culmine quando furono proiettati i cartoni animati di Walt Disney. Quale sarebbe stata la reazione del loro sovrano? Era una bella e calda giornata primaverile, quando si incominciarono i preparativi per la processione. Fin dalle prime ore del mattino tutti erano affaccendati a innaffiare con le solite brocche d'acqua la strada che conduce al Norbulingka. Altri collocavano lungo entrambi i lati della strada, sopra una riga segnata con la calce, alcune pietre, per tenere lontani gli spiriti maligni (i tibetani credono che queste file di pietre impediscano ai demoni di attraversare la strada). Dalla città affluiva tanta folla che mi riuscì difficile trovare in quella calca un posto adatto per le mie riprese. Il mio servo, come sempre in simili occasioni, mi prestò un valido aiuto: era un gigante dalla faccia butterata, la cui sola vista incuteva paura. Egli trascinava la mia macchina da presa di qua e di là, facendomi largo attraverso la folla. Del resto aveva già dato prova del suo coraggio in una situazione molto pericolosa. Talvolta capitava che alcuni leopardi si smarrissero, giungendo fino nei giardini della città. Poiché è vietato uccidere tali bestie, si cerca di attirarle in trabocchetti o di catturarle con altre astuzie. Un leopardo si era introdotto una volta nel giardino dei Gioielli. Incalzato da tutte le parti e ferito da una fucilata a una gamba, era stato spinto in un angolo, dove soffiava selvaggiamente e si drizzava minaccioso contro chiunque volesse avvicinarglisi. Il mio servo, allora soldato della guardia del corpo, si lanciò Heinrich Harrer
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sulla fiera e la atterrò con le mani tenendola ferma, finché accorsero altri soldati con un sacco. L'uomo naturalmente riportò numerose ferite, ma il leopardo fu collocato nello zoo del Dalai Lama, dove ben presto morì. Allorché il Dalai Lama, passando in solenne processione trasportato sul suo palanchino, mi scoprì intento a riprendere la scena, mi sorrise. In segreto si sarà rallegrato del suo piccolo cinema. Soltanto a me poteva venire una simile idea. Non era forse ovvia trattandosi di un quattordicenne? Ma già uno sguardo rivolto alla faccia estasiata del mio servo bastò a ricordarmi che per tutti gli altri egli non era un ragazzo solitario, bensì una divinità. Mentre la processione si snodava lentamente, io mi spinsi attraverso la folla fino alla porta principale del giardino dei Gioielli. Volevo filmare il variopinto spettacolo dell'ingresso del Dalai Lama e fare possibilmente anche alcune fotografie delle scene più interessanti e tipiche. Già vi si trovavano i domestici degli alti funzionari in attesa di prendere in consegna i cavalli dei loro padroni. È proibito cavalcare nel Norbulingka: per questo motivo i cavalli vengono lasciati all'esterno, e i servi custodiscono per ore gli animali riccamente bardati, fino a che cioè le cerimonie non siano finite e i loro padroni possano rimontare in sella. Scomparsa la processione nel giardino, la folla si disperse in piccoli gruppi che cantando ripresero la via della città. Anch'io volevo ritornare, ma il mio cavallo era sparito. Ogni qualvolta mi avvicinavo al Norbulingka, i servi si precipitavano sull'animale non appena ne scorgevano i finimenti gialli. Benché io stesso avessi le massime attenzioni per i cavalli affidatimi, essi si davano una gran pena per custodire il mio animale e dargli da mangiare. Quando poi mi serviva dovevo mandare qualcuno a riprenderlo nelle stalle del Dalai Lama. Cavalli, asini e muli vengono nutriti perlopiù con piselli: l'avena cresce nel Tibet solo come erba selvatica. I nomadi danno alle loro bestie perfino carne essiccata per aumentarne il vigore e, come particolare leccornia prima dei grandi strapazzi, tsampa mescolata a burro e a foglie di tè. Gli stallieri del Dalai Lama formano una corporazione. In tutta la città sono screditati e temuti, e ne approfittano largamente. Dovunque giungano, chiedono ricchi banchetti, che il più delle volte finiscono in orge. Sono trattati in genere con molta cautela: perfino nelle case più nobili vengono accolti cortesemente, perché la storia del Tibet conosce molti episodi in cui un servo, in qualità di favorito del Dalai Lama, ha Heinrich Harrer
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raggiunto ricchezze e potenza. L'ultimo esempio fu l'ex stalliere Khùnpela, con il quale per caso vissi un anno intero nella stessa casa. Da bambino era venuto nel Norbulingka ed era stato notato dal Dalai Lama, perché si era molto addolorato a causa di un piccolo incidente. Gli era sfuggito di mano un vaso di fiori, che cadendo era andato in pezzi. Stravolto dall'accaduto, voleva togliersi la vita. Con grande fatica i monaci glielo impedirono, e riferirono l'episodio al Dalai Lama. Questi, commosso, fece chiamare il ragazzo, e dopo averlo incoraggiato gli assegnò un lavoro migliore, senza perderlo di vista. Khùnpela non lo deluse, dimostrandosi intelligente e di carattere schietto. Divenne in breve un prezioso aiuto nella realizzazione delle idee riformatrici del Dalai Lama. Si spinse sempre più in primo piano, e a poco a poco sostituì il favorito precedente, Tsarong. Fino alla morte del sovrano fu accanto a lui il più potente, anche se non ricevette mai né cariche, né titolo di nobiltà. Dopo la morte del tredicesimo Dalai Lama il favorito Khùnpela, benché fosse riuscito a mondarsi dell'accusa di averne causata la fine precoce, mossagli dall'Assemblea nazionale, fu tuttavia espropriato e bandito dalla città. Visse per molti anni in un piccolo e solitario villaggio della provincia meridionale di Kongpo. Quando l'inattività gli divenne intollerabile, fuggì in India, e soltanto durante il mio soggiorno a Lhasa fu graziato dal reggente. Imparai ad apprezzarlo, e molto spesso mi rammaricai che l'ex favorito, con le sue idee moderne, non riuscisse ad affermarsi. Fu Khùnpela, ad esempio, che venti anni prima aveva creato la zecca e modernizzato l'esercito.
Per la prima volta faccia a faccia con Kundùn Dopo aver filmato la scena nel Norbulingka, rimuginando dentro di me questi pensieri, cavalcai lentamente verso casa. Ero già arrivato quasi in città, quando fui raggiunto da un soldato molto agitato della guardia del corpo che, dicendomi che mi avevano cercato per tutta Lhasa, mi invitò a ritornare subito nel giardino d'estate. La mia prima supposizione fu che la sala di proiezione non funzionasse, perché la spiegazione che il sovrano ancora minorenne, superando tutte le convenzioni, potesse ordinarmi di andare da lui mi parve assurda. Tornai dunque indietro immediatamente e raggiunsi in breve il Norbulingka, ormai silenzioso. Alla porta del muro Heinrich Harrer
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giallo mi stavano aspettando un paio di monaci che, gesticolando vivacemente appena mi scorsero, mi fecero cenno di entrare nel giardino interno. Benché durante il periodo della costruzione del cinema avessi attraversato quella porta molto spesso, tuttavia mi sentii assai turbato. Mi venne subito incontro Lobsang Samten e mi mise in mano una sciarpa bianca. Ormai non c'era più dubbio: suo fratello mi voleva vedere. Mi diressi subito verso il cinema, ma prima che potessi entrarvi si aprì la porta dall'interno e io mi trovai al cospetto del Buddha Vivente. Malgrado la mia sorpresa, mi inchinai profondamente, porgendogli la sciarpa. Dopo averla presa con la sinistra, Il Dalai Lama mi benedisse con un gesto impulsivo della destra. Non era la cerimoniosa imposizione della mano, ma piuttosto la manifestazione sentimentale irrefrenabile di un fanciullo che finalmente era riuscito a far prevalere la propria volontà. Nella sala di proiezione attendevano a capo chino i tre abati ai quali erano affidate le cure del dio-re. Li conoscevo bene, e non mi sfuggì la freddezza con la quale risposero al mio saluto. Non erano certo d'accordo con questa mia invasione nei loro domini, ma non avrebbero mai osato opporsi apertamente al desiderio del Dalai Lama. Tanto più cordiale fu invece il giovane dio-re. Era raggiante e mi tempestava di domande. Mi faceva l'effetto di chi dopo anni in solitudine passati a pensare a ogni sorta di problema può finalmente parlare con qualcuno e trovare le risposte che da tempo lo angosciano. Non mi lasciava neppure tempo di riflettere prima di rispondergli. Mi spinse verso il proiettore, pregandomi di far girare un film che desiderava vedere già da tempo. Si trattava di un documentario sulla capitolazione giapponese. Aveva mandato gli abati nella sala degli spettatori, affinché fungessero da pubblico. Devo essergli sembrato troppo lento e impacciato con il proiettore, perché a un certo punto, respingendomi con impazienza, mise a posto lui stesso la bobina della pellicola, dimostrandosi così molto più pratico di me. Mi raccontò di essersi occupato dei proiettori già durante tutto l'inverno nel Potala, e di averne anche smontato e rimontato uno. Mi accorsi allora per la prima volta che amava approfondire le cose e non le accettava come fatti compiuti. E così, in seguito, come un buon padre che non vuole perdere la considerazione del proprio giovane figlio, spesi molte sere nel preparare argomenti dimenticati o nuovi. Con grande sollecitudine prendevo sul serio ogni sua domanda e la trattavo coscienziosamente. Heinrich Harrer
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Avevo capito che le mie risposte sarebbero state per lui la base della sua cultura e del suo atteggiamento rispetto al mondo occidentale. Già in questo primo incontro rimasi sorpreso del suo talento per tutte le cose tecniche: smontare e rimontare un proiettore a quattordici anni senza alcuna guida, non potendo leggere i prospetti in inglese, non era certamente un'impresa di poco conto. Durante lo svolgimento regolare del film il giovane sovrano si mostrò felice che l'impianto funzionasse bene e non lesinò parole di lode per il mio lavoro. Mentre sedevamo insieme nella cabina di proiezione, seguendo attraverso gli spiragli nella parete ciò che si svolgeva sullo schermo, mi afferrò spesso la mano stringendola per l'agitazione, proprio come avrebbe fatto qualunque ragazzo vivace. Benché si trovasse per la prima volta nella sua vita solo con un uomo bianco, non mostrava inibizioni o timidezze. Introdotta un'altra bobina, mi mise in mano il microfono pregandomi insistentemente di dire qualche parola. Nello stesso tempo osservava attraverso gli spioncini la sala illuminata dalla luce elettrica, dove i suoi maestri sedevano sopra i tappeti. Compresi come si sarebbe divertito nel vedere i volti meravigliati dei dignitosi abati, se all'improvviso, attraverso l'altoparlante, si fosse sentita una voce. Volendolo compiacere, invitai un pubblico inesistente a non andarsene, perché il film seguente avrebbe fatto vedere interessanti scene tibetane. Il Dalai Lama rideva di cuore per le facce sbalordite dei monaci, che si mostravano scandalizzati per il tono un po' scanzonato e privo di rispetto della mia voce. Parole così ardite non si erano mai sentite nell'ambiente del sovrano divino, che si divertiva moltissimo per la situazione, con il viso tutto illuminato dagli occhi lucenti. Affidò a me la presentazione di uno dei miei cortometraggi girati a Lhasa. Anch'io non ero meno curioso di lui, perché quel film rappresentava il mio primo tentativo. Potevo esserne soddisfatto, perché i difetti che un tecnico avrebbe subito avvertito non avevano qui alcuna importanza. Si trattava delle mie riprese della «Piccola» cerimonia di capodanno, e perfino i rigidi abati si dimenticarono della loro dignità, quando si riconobbero sullo schermo. Grande ilarità suscitò il primo piano di un ministro che si era appisolato durante la cerimonia. Le risa erano benevole, anche perché ognuno degli abati spesso doveva combattere per restare sveglio durante queste cerimonie interminabili. Tuttavia in qualche modo doveva essere giunta nei circoli aristocratici la notizia che il Dalai Lama aveva osservato con i propri occhi un momento di debolezza di un Heinrich Harrer
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suo ministro, perché dovunque comparissi in seguito con la mia macchina da presa i singoli personaggi si mettevano subito in posa. Il più soddisfatto delle proiezioni fu naturalmente lo stesso Dalai Lama, che sottolineava ogni scena con un commento. Gli chiesi poi licenza di proiettare un film girato da lui, ma modestamente mi replicò di non avere il coraggio di mostrare il suo lavoro da principiante inesperto dopo gli ottimi cortometraggi che avevamo visto. Tuttavia riuscii a persuaderlo, perché mi interessava molto vedere che cosa lo avesse indotto a fare le riprese. Non aveva naturalmente molti soggetti a sua disposizione. Le prime vedute prese dal tetto del Potala mostravano la vallata di Lhasa, ma le sequenze del paesaggio si svolgevano con troppa rapidità. Poi venivano alcune scene sfocate prese con il teleobiettivo: vi si vedevano nobili a cavallo e carovane che attraversavano il sobborgo di Shò. Quel cortometraggio era il suo primissimo tentativo, e lo aveva girato senza indicazioni e senza guida. Quando ritornò la luce, mi pregò di annunciare mediante il microfono la fine dello spettacolo. Poi aprì la porta che conduceva al cinema e, fatto segno ai suoi abati che potevano allontanarsi, li congedò con un cenno della mano. Di nuovo mi convinsi che il giovane dio-re non era una marionetta in mano altrui, ma sapeva imporre la propria volontà.
«Henrig, sei peloso come una scimmia!» Rimasti soli riponemmo le pellicole, e dopo aver ricoperto i proiettori con tela gialla ci sedemmo nella sala, attraverso le cui finestre la luce del sole rendeva più smagliante il magnifico tappeto. Era una fortuna che avessi ormai acquisito una grande pratica nel sedere a gambe incrociate, perché nell'ambiente del Dalai Lama non esistevano sedie, né cuscini. All'inizio mi rifiutai di sedere, perché sapevo che neppure i ministri se lo potevano permettere in presenza del dio-re. Nel cinema non c'era nemmeno un trono che potesse accentuare la differenza. Ma il Dalai Lama mi afferrò per la manica e mi tirò giù, ponendo fine al mio imbarazzo. Mi disse che da molto tempo aveva progettato questo incontro, ben sapendo di dover fare tale passo per apprendere qualcosa del mondo esterno. Immaginava che il reggente avrebbe manifestato la sua disapprovazione, ma non voleva cedere, e si era anche già preparato a Heinrich Harrer
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rispondere alle sue rimostranze. Era fermamente deciso a estendere il campo delle sue conoscenze al di là della scienza teologica, e gli sembrava che io fossi l'unica persona in grado di aiutarlo. Non sapeva che io fossi un maestro qualificato, e probabilmente anche se lo avesse saputo non sarebbe cambiato niente. Mi chiese la mia età, e fu sorpreso quando gli risposi che avevo soltanto trentasette anni. Come molti tibetani, anch'egli aveva ritenuto i miei capelli «gialli» come un indizio di vecchiaia. Con curiosità infantile studiava i miei lineamenti e mi prendeva in giro per il mio grande naso. Per quanto normale secondo i nostri criteri, aveva suscitato non poca sorpresa tra i tibetani, essendo i nasi mongoli molto piccoli. Finalmente scoprì i peli sul dorso della mia mano e ridendo di tutto cuore esclamò: «Henrig, sei peloso come una scimmia!». Mi venne subito in mente una buona risposta, perché conoscevo la leggenda secondo la quale i tibetani derivano la loro origine dall'incontro del dio Chenresig con una diavolessa. Chenresig aveva assunto l'aspetto di una scimmia prima di congiungersi con la diavolessa, e poiché il Dalai Lama è un'incarnazione di questa divinità, il raffronto non aveva nulla di offensivo. Questa mia osservazione scherzosa conferì subito alla nostra conversazione un tono familiare, liberando entrambi dalla nostra timidezza. Anch'io potei ora permettermi di osservarlo con più attenzione. La sua carnagione era molto più chiara di quella del tibetano medio, e in qualche sfumatura anche più bianca di quella dell'aristocrazia tibetana. I suoi occhi parlanti, poco a mandorla, scintillavano vivaci e non avevano nulla dello sguardo sospettoso di molti mongoli. Le sue guance erano infiammate per l'eccitazione, e non appena messosi a sedere cominciò a dondolarsi. Le orecchie erano un po' sporgenti: una delle caratteristiche che lo avevano fatto riconoscere come incarnazione del Buddha, come appresi più tardi. Portava capelli un po' più lunghi del normale, perché nel gelido Potala dovevano offrirgli qualche riparo dal freddo. Per la sua età era ben cresciuto, e avrebbe certo raggiunto la statura dei suoi genitori, che avevano figure imponenti. Purtroppo, a causa delle molte ore di studio e dell'eterno star seduto con il busto in avanti, si era abituato a tenersi curvo. Nobili e belle erano le sue mani dalle lunghe dita, che di solito teneva ferme. Osservai che spesso, sorpreso, seguiva con lo sguardo la mia mano, quando sottolineavo le mie parole con dei gesti. Già i miei parchi movimenti lo stupivano, perché i tibetani non gesticolano mai: anche questo è un segno della calma asiatica. Anche il Dalai Lama indossava la Heinrich Harrer
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rossa tonaca dei monaci, prescritta un giorno da Buddha, e nella forma esterna non si distingueva in nulla dagli altri monaci-funzionari. Il tempo passò in un baleno. Era come se si fossero rotti gli argini, e dal ragazzo dovesse ora fluire senza intralcio ciò che gli stava nel cuore. Con grande sorpresa constatavo quante nozioni non coordinate avesse raccolto leggendo libri e riviste. Soltanto della seconda guerra mondiale possedeva un'opera inglese in sette volumi, che si era fatto tradurre in tibetano. Era in grado di riconoscere i singoli aerei, i tipi di auto o di carri armati e i nomi di Churchill, di Eisenhower e di Molotov gli erano familiari. Ma poiché non aveva nessuno cui rivolgere le sue domande, gli mancavano spesso i collegamenti, ed era felice di aver finalmente trovato qualcuno che fosse in grado di dargli le informazioni e le spiegazioni richieste. Dovevano essere le tre del pomeriggio, quando entrò Sopòn Khenpo, l'abate che deve vegliare sulla salute fisica del giovane dio-re, per ricordargli che era ora di fare colazione. Mi alzai per andarmene, ma il sovrano mi fece sedere di nuovo e disse al suo precettore di ritornare più tardi. Molto timidamente tirò fuori dalla tasca un quaderno, la cui copertina era piena di disegni, pregandomi di esaminare i suoi esercizi di scrittura. Con mio grande stupore vidi su quelle pagine le lettere dell'alfabeto latino. Che versatilità, e che spirito di iniziativa! Il ragazzo non si dedicava quindi solo ai faticosi studi religiosi, ma nelle sue ore solitarie si ingegnava anche di occuparsi degli strumenti più moderni della tecnica occidentale e cominciava ad apprendere di propria iniziativa lingue straniere. Insistette affinché gli dessi subito una lezione di inglese. Annotava diligentemente con la sua graziosa calligrafia tibetana la pronuncia delle singole parole. Dopo circa un'ora riapparve Sopòn Khenpo, per ricordargli che doveva anche pensare a mangiare. Aveva in mano un vassoio con focacce, panini bianchi e formaggio di pecora, che mi offrì. Poiché cortesemente rifiutai, levò di tasca un panno bianco e vi avvolse i cibi, affinché me li portassi a casa. Ma il Dalai Lama non voleva interrompere la conversazione. Con voce carezzevole lo pregò di pazientare ancora un po'. Dopo aver guardato amorevolmente il suo pupillo, il monaco si dichiarò d'accordo e ci lasciò soli. Ebbi l'impressione che amasse il ragazzo di un amore veramente paterno, e devotamente si preoccupasse per lui. Questo abate canuto aveva rivestito la stessa carica sotto il tredicesimo Dalai Lama, ed era poi rimasto Heinrich Harrer
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in servizio: ciò costituiva un'evidente prova della sua dedizione. Il Dalai Lama mi propose di fare il giorno seguente una visita alla sua famiglia, che d'estate abitava nel Norbulingka, e di attendere là, finché egli non mi avesse fatto chiamare. Congedandomi strinse affettuosamente la mia mano, un gesto che probabilmente aveva visto sulle riviste, e con il quale mi voleva dimostrare la sua amicizia. Attraversando il giardino non potei capacitarmi di aver trascorso cinque ore con il dio-re del paese dei lama. Un giardiniere chiuse il cancello dietro di me e la guardia, che era stata cambiata più di una volta da quando avevo fatto il mio ingresso nel giardino, mi presentò le armi con un po' di sorpresa. Cavalcai lentamente verso Lhasa. Se non fosse stato per il fagottello che tenevo in mano, avrei ritenuto tutto un sogno. Quale dei miei amici avrebbe mai creduto al mio racconto di aver conversato faccia a faccia, per tanto tempo, con il Buddha Vivente? Con un sorriso di compatimento mi avrebbero ritenuto un povero pazzo.
Amico e maestro del Dalai Lama Ero proprio felice delle nuove prospettive che mi si stavano aprendo. Mi sembrava un compito veramente di immenso prestigio: istruire e informare delle cose del mondo questo ragazzo intelligente, sovrano di un paese grande come la Germania, la Francia e la Spagna messe insieme. La stessa sera mi misi a cercare riviste che contenessero particolari concernenti la costruzione degli aerei a reazione, perché a tale riguardo nel corso della nostra conversazione mi ero sentito spesso in grande imbarazzo, e avevo dovuto promettere che nel corso dell'incontro successivo avrei spiegato tutto con la massima precisione. In seguito presi l'abitudine di preparare sempre del materiale, per mettere un po' d'ordine nella confusa avidità di sapere del ragazzo. Ciò nonostante spesso il mio piano falliva, perché le sue domande riguardavano soggetti per i quali non mi ero preparato: rispondevo allora spiegando le cose come meglio mi riusciva. Ad esempio, per poter parlare della bomba atomica, dovevo spiegare gli elementi. Ciò richiedeva di nuovo una piccola trattazione circa i metalli. Ma la lingua tibetana non aveva parole corrispondenti, e ciò mi costringeva a entrare nei particolari, con le sue domande che non mi davano tregua. Heinrich Harrer
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La mia esistenza a Lhasa aveva trovato uno scopo. L'insoddisfatta sensazione di non avere un vero compito scomparì del tutto. Non abbandonai i miei incarichi precedenti: continuai a raccogliere notizie per il Consiglio dei ministri e a disegnare carte geografiche. Ma le giornate erano diventate troppo brevi, e lavoravo fino a tarda notte. Prendevo ora meno parte ai divertimenti, dovendo essere sempre pronto a qualunque chiamata del Dalai Lama. Agli inviti dei miei amici non intervenivo più di mattina, come d'uso, ma solo nel tardo pomeriggio. Ciò però non rappresentava per me una rinuncia, perché ero felice dei miei nuovi compiti. Le ore di lezione che davo al mio augusto scolaro erano spesso tanto istruttive per me quanto per lui. Il dio-re mi insegnò molte cose sulla storia del Tibet e sulla dottrina di Buddha. La sua competenza in questi campi era addirittura sbalorditiva. Talvolta le discussioni sulla religione si protraevano per ore, e il sovrano era fermamente convinto di riuscire a convertirmi al buddhismo. Mi raccontò che proprio allora stava studiando alcuni libri che tramandavano antichissime conoscenze riguardo ai metodi per separare il corpo dall'anima. La storia del Tibet era piena di storie che parlavano di santi capaci di far operare il proprio spirito a una distanza di centinaia di miglia, mentre il loro corpo era sprofondato in meditazione. Il giovane Dalai Lama era persuaso che in virtù della sua fede e con l'aiuto dei riti prescritti sarebbe stato in grado di operare in posti lontani, ad esempio a Samye. Appena avesse fatto sufficienti progressi, mi disse che mi avrebbe appunto mandato a Samye, dirigendomi da Lhasa. Ricordo di avergli risposto sorridendo: «Va bene, Kundùn, se ciò ti riesce, divento buddhista anch'io!».
Il Tibet minacciato dalla Cina Popolare Purtroppo non riuscimmo mai a fare questo esperimento. Già l'inizio della nostra amicizia fu oscurato dalle minacciose nubi degli avvenimenti politici. L'arroganza dei comunisti cinesi attraverso radio Pechino diventava sempre più violenta, e Chiang Kai-scek si era già ritirato con il suo governo a Formosa. L'Assemblea nazionale a Lhasa teneva una seduta dopo l'altra. Fu decisa e attuata l'organizzazione di nuove unità militari. A Shò ebbero luogo continue esercitazioni, manovre e riviste. Il Dalai Lama stesso benedisse le nuove bandiere consegnate alle truppe. Heinrich Harrer
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Molto da fare ebbe l'inglese Fox: incessantemente dovevano venire istruiti nuovi radio-operatori, perché ogni unità ricevette in dotazione almeno una trasmittente. L'Assemblea nazionale tibetana, lo strumento di tutte le decisioni importanti, si compone di cinquanta funzionari laici ed ecclesiastici. La presidenza è tenuta a turno da quattro abati dei monasteri di Dreprung, Sera e Ganden, ai quali sono aggiunti i quattro segretari civili alle Finanze e quattro funzionari-monaci. I membri dell'Assemblea nazionale, sia laici che ecclesiastici, provengono dai vari uffici governativi, ma non vi partecipa nessuno dei quattro ministri di gabinetto. La costituzione prevede che questi si trattengano in un ambiente vicino, dove devono essere loro sottoposte tutte le risoluzioni. Ma non hanno il diritto di veto. L'ultima decisione riguardo a tutte le questioni spetta al Dalai Lama, e finché questi non è maggiorenne, in sua vece al reggente. Naturalmente nessuno oserebbe discutere una proposta ratificata da un così alto consesso. La maggior influenza nell'Assemblea nazionale è esercitata sempre dai favoriti di coloro che detengono il potere. Fino a pochi anni prima, accanto alla piccola veniva convocata anche la grande Assemblea nazionale. Questa si componeva dell'intero corpo dei funzionari, dei rappresentanti delle associazioni artigiane dei sarti, scalpellini, falegnami e via dicendo. Questo parlamento di quasi cinquecento membri fu alla fine tacitamente soppresso, perché in pratica non aveva altro valore che di ottemperare alla lettera della legge, mentre in ultima analisi il potere del reggente era supremo. In quei tempi difficili l'Oracolo di stato veniva continuamente consultato. Le sue profezie erano sinistre, e non contribuivano certo a sollevare il morale del paese. Era solito dire: «Un potente nemico minaccia da nord e da est il paese dei lama». Oppure: «La nostra religione è in pericolo». Benché le sedute fossero rigorosamente segrete, le risposte dell'Oracolo trapelavano e venivano sussurrate in giro. Come sempre in tempo di guerra e di crisi, la città pullulava di voci e la potenza del nemico veniva esagerata fino all'inverosimile. Gli indovini facevano fortuna, perché non era in pericolo soltanto la sorte della città, ma anche il benessere dei singoli. Più che mai ci si rivolgeva per un consiglio agli dei, fidando nelle profezie e interpretando ogni evento come indizio favorevole. I più prudenti cominciarono a portare i loro averi verso sud o nelle lontane tenute. Ma il popolo credeva fermamente nell'aiuto degli dei, Heinrich Harrer
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ed era convinto che un miracolo avrebbe salvato il paese dalla guerra. L'Assemblea nazionale considerava le cose con maggiore realismo. Si capiva finalmente che la politica di isolamento rappresentava un grande pericolo. Era ormai tempo di avviare relazioni diplomatiche e di avvalorare davanti al mondo intero la volontà del Tibet di conservare la propria indipendenza. Le affermazioni della Cina che il Tibet era una delle sue province fino a quel momento non avevano ricevuto alcuna smentita ufficiale. I giornali e le radio di tutto il mondo avevano potuto parlare a loro piacimento del paese dei lama, senza alcuna reazione degli interessati. Difatti, in considerazione della sua politica di assoluta neutralità, il Tibet si era sempre rifiutato di contestare le notizie che venivano diffuse. Ora però si riconosceva il pericolo di un simile atteggiamento, si comprendeva l'importanza della propaganda. Radio Lhasa incominciò pertanto a fare ogni giorno trasmissioni in lingua tibetana, cinese e inglese. Il governo mandò delegati, funzionari-monaci e nobili che avevano imparato in India l'inglese, in missione a Pechino, Delhi, Washington e Londra. Ma non riuscirono a spingersi più in là dell'India, perché la titubanza del governo tibetano e gli intrighi delle grandi potenze impedirono ripetutamente la loro partenza. Il giovane Dalai Lama considerava senza odio e prevenzione la serietà della situazione. Ma il dio-re sperava ancora in una soluzione pacifica. Durante le mie visite mi accorsi quanto fosse vivo l'interesse del futuro sovrano per gli eventi politici. Ci incontravamo spesso da soli nella cabina di proiezione del piccolo cinema, e anche da minimi particolari potevo capire quanto piacere gli procurasse la mia visita. Qualche volta, raggiante di gioia, mi veniva incontro nel giardino tendendomi la mano in segno di saluto. Malgrado la cordialità e benché mi chiamasse suo amico, non dimenticavo però mai il rispetto dovutogli quale futuro sovrano del Tibet e mio attuale superiore. Mi aveva incaricato di dargli lezioni di inglese, di geografia e di matematica. Dovevo inoltre far funzionare il suo cinema e tenerlo informato sugli avvenimenti mondiali. Spontaneamente propose un aumento del mio stipendio, e anche se non poteva ancora impartirne l'ordine, bastava il suo desiderio. Passavo di sorpresa in sorpresa nel costatare la sua facoltà di comprendere le cose, la sua costanza e la sua diligenza. Se io, ad esempio, gli davo come compito la traduzione di dieci frasi, il dio-re ne traduceva Heinrich Harrer
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venti. Imparava con grande facilità le lingue, talento questo che avevo già osservato in molti tibetani. Non è raro che nobili e commercianti parlino, oltre la loro lingua materna, il mongolo, il cinese, il nepalese e l'hindi. È però un grande errore pensare che queste lingue siano simili. Basti un esempio: l'alfabeto tibetano non conosce la lettera «effe», sostituita dalla «erre». Nel cinese è il contrario. Perciò anche il mio augusto allievo incontrava le maggiori difficoltà nella pronuncia della «effe» in inglese. Poiché neppure il mio inglese era perfetto, ricorrevamo alla sua radio portatile per ascoltare ogni giorno le notizie in lingua inglese, che venivano trasmesse molto lentamente, per permettere agli ascoltatori di trascriverle. Avevo anche scoperto che in uno degli uffici c'erano alcuni libri inglesi in casse sigillate. Bastò un cenno perché lo stesso giorno li avessimo fra le mani. Per accoglierli costruimmo una piccola libreria all'interno del cinema. Il mio pupillo si mostrò felicissimo di questo rinvenimento, che per Lhasa rappresentava davvero un piccolo tesoro. Quando osservai lo zelo e la sete di conoscenza del giovane sovrano, mi vergognai pensando alla mia giovinezza. Una grande quantità di libri inglesi e di carte geografiche provenivano anche dall'eredità del tredicesimo Dalai Lama. Il loro stato impeccabile provava che nessuno li aveva mai sfogliati. Quel sovrano si era istruito durante i suoi viaggi di anni attraverso la Cina e l'India, e doveva le sue cognizioni riguardo al mondo occidentale alla sua amicizia con sir Charles Bell. Il nome di questo inglese mi era noto, avendone letto i libri in prigionia. Era un grande paladino dell'indipendenza del Tibet. In qualità di ufficiale di collegamento per gli affari politici del Sikkim, del Tibet e del Bhutan, aveva fatto conoscenza con il Dalai Lama durante la sua fuga in India, e da allora si era sviluppata una stretta amicizia fra questi due uomini maturi, protrattasi nel tempo. Sir Charles Bell fu certamente il primo bianco che ebbe relazioni dirette con un Dalai Lama. Il mio giovane allievo, che non poteva ancora intraprendere viaggi, non si interessava per questo meno della geografia mondiale, che ben presto divenne la sua materia preferita. Per lui disegnai gigantesche carte di tutto il mondo da appendere al muro, e mappe particolareggiate dell'Asia e del Tibet. Con l'aiuto di un mappamondo gli potei spiegare, ad esempio, perché radio New York trasmetteva con undici ore di differenza. Ben presto si sentì a suo agio dovunque nel mondo: il Caucaso gli era Heinrich Harrer
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altrettanto familiare dell'Himalaia. In particolar modo era fiero del fatto che le più alte montagne del mondo si trovassero sul suo territorio, e al pari di molti tibetani si meravigliò molto quando apprese che esistevano soltanto pochi paesi che per vastità superavano il suo regno.
Terremoto e altri cattivi presagi Il corso sereno delle nostre lezioni fu interrotto durante l'estate da un evento sinistro. Il 15 agosto un violento terremoto spaventò la città santa. Di nuovo un cattivo presagio! Non era ancora passata la paura causata dalla cometa, che l'anno precedente per giorni e notti con la sua coda luminosa si era vista in cielo. (I più vecchi ricordavano che dopo la comparsa dell'ultima cometa era scoppiata la guerra con la Cina.) Io ne avevo avuto notizia attraverso la radio prima della sua comparsa, perché alcuni aviatori avevano già osservato il fenomeno in Australia. Quando si presentò nel cielo di Lhasa, con il mio amico Wangdùla feci una passeggiata notturna, illuminata dal suo splendore, per godere il fantastico spettacolo. Il terremoto si verificò all'improvviso. Le case di Lhasa d'un tratto tremarono, e si udirono circa quaranta boati sordi e lontani provocati dal fendersi della crosta terrestre. Nel cielo sgombro di nubi apparve da oriente il rosso chiarore come di un immane incendio, e le scosse si susseguirono per molti giorni. Le trasmittenti dell'India diedero notizia di grandi mutamenti tellurici nella provincia di Assam, confinante con il Tibet. Intere valli e montagne erano state spostate, e lo Tsangpo, ostacolato nel suo corso dalle frane, era straripato causando immense distruzioni. Ma soltanto alcune settimane dopo si apprese a Lhasa quanto fosse più grave la catastrofe provocata dal cataclisma nel Tibet. L'epicentro doveva essersi trovato nella parte meridionale del paese. A causa dei movimenti sismici, monaci e religiose a centinaia erano rimasti sepolti nei loro monasteri costruiti sulle rocce, tanto che spesso non ci fu alcun sopravvissuto in grado di darne notizia al bònpo più vicino. Castelli spezzati a metà innalzavano le loro rovine verso il cielo. Persone come afferrate dalla mano di uno spirito erano scomparse negli improvvisi baratri apertisi nella terra. I cattivi presagi si moltiplicavano: furono partoriti animali mostruosi, il Heinrich Harrer
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capitello della colonna di pietra ai piedi del Potala venne trovato una mattina in pezzi a terra. Invano il governo inviò nei luoghi sinistrati alcuni monaci, affinché con le loro preghiere placassero gli spiriti maligni. E quando in una giornata perfettamente serena da una delle teste di drago della cattedrale cominciarono a cadere gocce d'acqua, tutta Lhasa fu colta dal panico. Per questi eventi si sarebbero potute trovare spiegazioni naturali, ma distruggere la superstizione dei tibetani avrebbe significato privarli di un elemento vitale. Quanto è grande lo spavento che può diffondere un cattivo presagio, tanto è profonda la fiducia che genera un auspicio favorevole. Il Dalai Lama fu tenuto al corrente degli avvenimenti di cattivo augurio. Benché naturalmente superstizioso come il suo popolo, era tuttavia curioso di conoscere la mia opinione al riguardo. I temi delle nostre conversazioni non difettavano mai, e il tempo a nostra disposizione era sempre troppo breve. Passava con me le sue ore libere, e soltanto pochi sapevano che anche questo tempo era da lui impiegato nello studio. Rispettava sempre strettamente il programma della sua giornata, e talvolta consultava spaurito l'orologio, perché sapeva di essere atteso in un padiglione dal suo maestro di religione. Per un caso venni a sapere con quanta esattezza osservasse anche l'orario dei nostri convegni. Un giorno, in cui sapevo che dovevano tenersi molte cerimonie, non mi aspettavo di essere chiamato a palazzo. Approfittai perciò dell'occasione per andare a fare con alcuni amici una passeggiata sul monte vicino. Per precauzione avevo istruito il mio servo a farmi un segnale di richiamo con uno specchio, qualora il Dalai Lama mi avesse fatto cercare. Infatti alla solita ora ecco il segnale. Ritornai di corsa in città. Presso il traghetto già mi attendeva il mio servo con il cavallo, ma nonostante mi fossi affrettato quanto più possibile, arrivai con dieci minuti di ritardo. Già da lontano mi corse incontro il Dalai Lama, e afferrandomi agitato le mani chiese: «Ma dove sei rimasto fino adesso? È tanto che ti aspetto, Henrig!». Gli chiesi perdono di averlo fatto stare in ansia, e soltanto allora compresi che cosa significassero per lui le ore passate con me. Quel giorno erano presenti, per caso, anche sua madre e il fratello minore, e io proiettai uno degli ottanta film che possedeva il Dalai Lama. Dopo la rappresentazione Sopòn Khenpo, il coppiere, portò un involto Heinrich Harrer
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particolarmente pieno di pasticcini per la madre del dio-re. Fu molto interessante per me vedere in quell'occasione madre e figlio vicini. Sapevo che dal momento in cui il ragazzo era stato riconosciuto come un'incarnazione di Buddha, la famiglia non aveva più avuto alcun diritto su di lui, né come figlio, né come fratello. La visita della madre aveva perciò un carattere quasi ufficiale: essa infatti portava il suo abito di cerimonia, ed era ornata di tutti i suoi gioielli. Congedandosi, si inchinò, e il Dalai Lama posò la mano benedicente sul suo capo. In questo gesto si manifestavano nel modo più evidente i rapporti di quelle due persone. Neppure la madre riceveva la benedizione con entrambe le mani, riservata soltanto ai monaci e agli alti funzionari. Quando rimanemmo soli, il Dalai Lama mi mostrò assai fiero il suo compito di matematica. Questa materia veniva un po' trascurata da entrambi, perché il giovane sovrano sapeva usare per i conteggi molto bene il pallottoliere, strumento adottato in tutto il Tibet. I tibetani raggiungono una sorprendente abilità nel servirsene, e io persi non poche scommesse, tentando di gareggiare in velocità con matita e carta. Il popolo, che non ha quasi mai a disposizione il pallottoliere, fa le operazioni con pezzi di argilla, noccioli di pesca e piselli. Per i calcoli molto semplici ci si serve del rosario, che ciascuno tiene sempre a portata di mano. Talvolta, ma molto di rado, venivamo disturbati durante le nostre riunioni. Una volta una guardia del corpo consegnò una lettera importante. L'individuo gigantesco si buttò a terra lungo disteso per tre volte e inspirando, secondo l'etichetta, rumorosamente l'aria, porse la lettera. Poi, indietreggiando, abbandonò la stanza e chiuse silenziosamente la porta. In occasioni simili mi rendevo conto fino a quale punto io contravvenissi al cerimoniale. La lettera era stata inviata dal fratello maggiore del Dalai Lama, abate del monastero di Kumbum, nella provincia cinese di Qinghai, dove i comunisti avevano già conquistato il potere. Cercavano ora, attraverso Tagtsel Rinpoche, di guadagnarsi il favore del Dalai Lama. Con la lettera il fratello del dio-re preannunciava il suo arrivo che, essendo egli già da lungo tempo in viaggio, doveva essere imminente. Lo stesso giorno feci una visita alla famiglia di Kundùn. La madre mi accolse con rimproveri. Al suo amore materno non era sfuggito l'attaccamento per me del figlio, che molte volte aveva guardato l'orologio Heinrich Harrer
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con preoccupazione a causa del mio ritardo. Io gliene spiegai il motivo e riuscii a convincerla di non aver agito con poco riguardo. Quando presi congedo, mi pregò di non dimenticare mai che la vita offriva a suo figlio ben poche gioie. Era forse un vantaggio che lei stessa si fosse potuta persuadere dell'importanza che avevano assunto per il Dalai Lama questi nostri incontri. Alcuni mesi dopo, infatti, tutta Lhasa sapeva dove mi recavo a cavallo ogni pomeriggio. Com'era da aspettarsi, i monaci avevano trovato da ridire sulle mie costanti visite. Fu allora la madre a intervenire energicamente, affinché il desiderio del figlio non venisse ostacolato. Un'altra volta, attraversando il portone del giardino interno, mi parve di riconoscere dietro una piccola finestra il Dalai Lama che spiava il mio arrivo. Mi sembrò anche che portasse un paio di occhiali, fatto strano perché non glieli avevo mai visti. Rispondendo alla mia domanda mi confessò di soffrire già da tempo di disturbi di vista, e che quindi per studiare era costretto a mettere gli occhiali, che gli erano stati procurati da suo fratello per mezzo della rappresentanza indiana. Forse si era rovinato gli occhi quando l'unica sua distrazione consisteva nel guardare Lhasa per ore attraverso il binocolo. Le lunghe letture e lo studio indefesso nell'oscurità del Potala non dovevano poi aver certo contribuito a migliorare la sua miopia. Quel giorno egli portava sulla tonaca monacale una corta giacca rossa. L'aveva disegnata lui stesso e ne era molto fiero. Ma non la poteva indossare che nelle ore libere. L'innovazione più importante erano le tasche, perché le vesti tibetane non ne avevano. Le doveva aver copiate o da riviste o dalla mia giacca, essendosi persuaso della loro utilità. Al pari di tutti i ragazzi vi riponeva il temperino, un cacciavite, dolciumi e cose simili, nonché matite colorate e penne stilografiche. Molta gioia gli procurava la sua collezione di orologi, che in parte provenivano dall'eredità del tredicesimo Dalai Lama. Ma il suo pezzo preferito era un orologio con calendario Omega, acquistato con i propri soldi. Fino alla maggiore età infatti egli poteva disporre soltanto del denaro che i fedeli collocavano come offerta ai piedi del suo trono. Un giorno avrebbe potuto usufruire dei tesori del Potala e del giardino dei Gioielli e in qualità di sovrano del Tibet sarebbe stato uno degli uomini più ricchi del mondo.
«Date il potere al Dalai Lama!» Heinrich Harrer
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Per la prima volta si fecero sempre più insistenti le voci che reclamavano che il Dalai Lama venisse dichiarato anticipatamente maggiorenne. In quei tempi difficili si preferiva avere sul trono un sovrano giovane, irreprensibile nella sua autorità, anziché essere nelle mani del seguito del reggente, che a causa della sua corruzione si era reso alquanto impopolare. Lo spettacolo di quei funzionari degenerati non era certo adatto a servire di esempio e a infondere coraggio a un popolo cui stava per essere imposta la guerra. Nello stesso tempo si verificò a Lhasa una cosa mai avvenuta prima: una mattina si videro le mura della strada principale che conduceva al Norbulingka tappezzate di manifesti con la scritta: «Date il potere al Dalai Lama!». E la richiesta era motivata con una serie di accuse rivolte ai favoriti del reggente. Questi manifesti formarono naturalmente nel mio successivo incontro con il Dalai Lama il tema principale. Ne era stato già informato dal fratello. Si riteneva che i monaci del monastero di Sera fossero gli ispiratori del movimento. Il Dalai Lama non era per nulla soddisfatto della piega che avevano preso le cose, non sentendosi ancora abbastanza maturo per essere all'altezza di un compito così difficile. Sapeva di dover imparare ancora molto. Non attribuiva pertanto grande importanza ai poster, mentre gli premeva molto di più che fosse osservato esattamente l'orario delle nostre lezioni. Lo preoccupava soprattutto una questione. Si chiedeva se avrebbe potuto sostenere nei paesi occidentali un confronto con allievi della sua età o se lo si sarebbe ritenuto un tibetano arretrato. Con tutta franchezza lo potei assicurare che era molto più intelligente della media e che quindi gli sarebbe stato facile acquistare in breve tempo una sapienza superiore a quella degli allievi europei. Non soltanto il Dalai Lama soffriva di simili complessi di inferiorità. I tibetani, parlando con me, dicevano spesso: «Noi non sappiamo nulla, siamo tanto stupidi!». Ma già questa loro affermazione dimostrava il contrario: non erano affatto di mente ristretta. Confondevano semplicemente cultura con intelligenza. Con l'aiuto della rappresentanza indiana mi riuscì di tanto in tanto di ricevere dei film a soggetto per il nostro cinema. Volevo rendere un po' più vario il programma e procurare una gioia al Dalai Lama. Come primo film proiettai Enrico V. Ero molto curioso di osservare quale sarebbe stata la reazione del giovane dio-re. Egli aveva concesso anche ai suoi abati di Heinrich Harrer
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assistere allo spettacolo, e quando la sala fu immersa nel buio vi entrarono di nascosto anche i giardinieri e i cuochi, in servizio entro il muro giallo. Il pubblico era accoccolato in terra sui tappeti, mentre il Dalai Lama e io sedevamo, come sempre quando si teneva una proiezione, sulla scaletta che conduceva al proiettore. Ininterrottamente gli traducevo a bassa voce il testo, e cercavo di rispondere a tono alle sue continue domande. Fu un bene che mi ci fossi preparato, perché non è tanto facile per un tedesco tradurre in tibetano l'inglese di Shakespeare. Un certo imbarazzo suscitarono nell'uditorio le scene d'amore. Infatti, quando rivedemmo noi due soli il film, le eliminai. Kundùn ne rimase semplicemente entusiasta. Si interessava molto della vita di uomini celebri e grandi. Non soltanto sovrani, ma anche generali e tecnici di valore destavano il suo desiderio di sapere, e non gli bastavano mai le notizie che gli fornivo. Volle ripetutamente vedere un documentario sul Mahatma Gandhi, che qui godeva di grande venerazione. Già da prima conoscevo i suoi gusti, perché riordinando un giorno le nostre pellicole, il sovrano mise da parte tutti i film comici e divertenti e mi pregò di scambiarli con altri. Gli piacevano soprattutto i film didattici, di guerra e di cultura. Una volta credetti di fargli cosa gradita procurandomi un film di cavalli particolarmente ben riuscito, ma dovetti costatare che i cavalli non lo interessavano molto. «Buffo» disse «che il mio corpo precedente amasse tanto i cavalli, che a me invece dicono così poco.» Si riferiva al tredicesimo Dalai Lama. Il giovane dio-re preferiva studiare il motore della jeep e smontare la sua Leica, recentemente acquistata. Ma non aveva ancora sufficienti cognizioni tecniche per dedicarsi a simili giochetti, e la conseguenza fu che dovetti prestargli la mia macchina fotografica. In questo periodo il Dalai Lama divenne visibilmente più alto, e come di solito avviene in quell'età si fece un po' impacciato e maldestro. Una volta lasciò cadere il suo fotometro, e ne fu così disperato che gli dovetti ricordare che essendo il sovrano di un grande regno se ne poteva comprare quanti voleva. La sua modestia era per me fonte di continua meraviglia. Il figlio di un ricco commerciante era certo più viziato di lui, ed egli aveva meno servi di non pochi piccoli nobili. Il suo modo di vivere era ascetico e solitario, e durante molti giorni gli era vietato mangiare e parlare. Suo fratello Lobsang Samten, l'unico che avrebbe potuto tenergli compagnia, nonostante fosse più vecchio, era molto meno intelligente di Heinrich Harrer
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lui. All'inizio il Dalai Lama aveva insistito affinché prendesse parte alle nostre lezioni, ma per Lobsang Samten questo obbligo rappresentava un martirio, tanto che mi pregò molto spesso di scusarlo con Kundùn. Mi confessò che delle nostre conversazioni capiva molto poco, e doveva sempre lottare con il sonno. Viceversa era molto più pratico in molte questioni di governo, e già all'epoca aiutava il fratello nell'esercizio dei suoi doveri ufficiali. Kundùn accettava con calma le frequenti scuse del fratello. Me ne stupii spesso, perché Lobsang Samten stesso mi aveva raccontato che da bambino era stato molto impulsivo. Adesso si mostrava invece troppo riflessivo e serio per la sua età. Ma quando rideva, lo faceva con esuberanza infantile, e gli scherzi innocui gli piacevano molto. Qualche volta, per burla, mi dava dei pugni, e di tanto in tanto mi prendeva in giro, palesando grande spirito di osservazione. Avevo, ad esempio, l'abitudine di appoggiare il mento sulla mano, quando non sapevo rispondere prontamente a una domanda. Allorché un giorno mi congedai senza aver dato risposta a una sua domanda, mi minacciò con il dito, dicendo scherzosamente: «Domani non appoggiare di nuovo il capo sulla mano, Henrig, ma spiegami subito tutto con la massima precisione!». Per quanto Kundùn fosse di mente aperta a tutte le idee occidentali, non poteva d'altronde fare altro che piegarsi agli usi secolari del suo alto ufficio. Ogni cosa proveniente dal possesso personale del Dalai Lama è ritenuta infallibile rimedio e mezzo protettivo contro malattie e spiriti maligni. Quando rientravo a casa tutti mi assalivano costantemente per avere qualche pasticcino o frutto della cucina del sovrano. E cedendone una parte colmavo di felicità i miei amici, che mangiavano subito quelle cose, convinti che non esistesse nessun mezzo preventivo migliore contro qualsiasi male. Tutto ciò era abbastanza ingenuo, ma scusabile. Non potevo invece giustificare il fatto che si bevesse l'urina del Buddha Vivente, rimedio particolarmente desiderato da tutti, ma offerto soltanto in casi speciali. Il Dalai Lama stesso scuoteva a tale proposito il capo, e non vedeva di buon occhio simili richieste. Ma da solo non poteva combattere tali usi e costumi, e in fondo non se ne preoccupava troppo. In India, del resto, era uno spettacolo giornaliero vedere la gente bere l'urina delle vacche sacre. Io sapevo con quanto ardore il giovane sovrano sperasse di liberare un giorno il suo popolo della superstizione più tenebrosa. Non avevano fine le Heinrich Harrer
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nostre conversazioni circa le future riforme. Avevamo già elaborato il nostro piano: da piccoli paesi neutrali, che non avevano interessi politici in Asia, si volevano far venire nel Tibet alcuni tecnici. Con il loro aiuto doveva essere attuata l'organizzazione scolastica e sanitaria, chiamando successivamente a farne parte tibetani a tale scopo istruiti. Al mio amico Aufschnaiter era riservato il compito maggiore: in qualità di agronomo c'era per lui tanto lavoro nel Tibet, che non gli sarebbe bastata l'intera vita per portarlo a termine. Il mio compagno stesso era entusiasta di tali progetti, tanto più che non desiderava di meglio che esplicare qui per sempre la sua attività. Da parte mia, dovevo dedicarmi alle cose della scuola: il mio sogno era quello di fondare un'università, con tutte le facoltà. Ma tutto questo era adombrato da un futuro alquanto incerto. Aufschnaiter e io eravamo dotati di spirito abbastanza preveggente per non abbandonarci a vane speranze. Era inevitabile l'aggressione del Tibet da parte della Cina Popolare. E allora non ci sarebbe più stato posto per noi, perché eravamo imperterriti fautori dell'indipendenza di questo piccolo popolo pacifico.
La quattordicesima incarnazione di Chenresig Quando eravamo ormai diventati intimi, chiesi a Kundùn se poteva raccontarmi qualche particolare riguardo al suo riconoscimento come incarnazione. Sapevo già che era nato il 6 giugno 1935 nei dintorni del grande lago Kuku-Nor. Ma quando gli porsi gli auguri per il suo compleanno, fui l'unico che lo fece. I compleanni individuali non hanno importanza nel Tibet: quasi non si conoscono, e non si festeggiano mai. Per il popolo è del tutto indifferente la nascita del suo sovrano. Il dio-re non rappresenta che un ritorno di Chenresig, o Avalokiteshvara, il dio della misericordia, uno dei mille e più Buddha Viventi che hanno rinunciato al Nirvana per aiutare l'umanità. Chenresig divenne il patrono del Tibet, e le sue reincarnazioni divennero i re di Bò, nome che i nativi danno al loro paese. Il sovrano dei mongoli Altan Khan, convertitosi al buddhismo, conferì alle incarnazioni di Chenresig il titolo di Dalai Lama, usato fino a oggi in tutto il mondo orientale. L'attuale Dalai Lama era la quattordicesima incarnazione. Il popolo scorgeva in lui, prima che il re, il Buddha Vivente, e le sue preghiere non erano indirizzate al sovrano, ma al Heinrich Harrer
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patrono. Non era facile per il giovane re adempiere a tutti i doveri che gli venivano imposti. Il Dalai Lama sapeva che si sarebbero pretesi da lui giudizi divini, che tutto quanto ordinava e faceva aveva il suggello dell'infallibilità e sarebbe entrato nella storia delle tradizioni del paese. Già adesso si sforzava di prepararsi al grave compito mediante severi studi teologici e raccogliendosi per settimane in profonda meditazione. Non era così sicuro di sé come invece era stata la tredicesima incarnazione. Tsarong mi aveva raccontato un aneddoto come tipico esempio dell'autorità del sovrano defunto. Voleva promulgare leggi nuove, ma incontrò l'accanita resistenza del suo governo, di tendenze conservatrici, che si richiamava alle dichiarazioni del quinto Dalai Lama rispetto alle medesime questioni. Allora il tredicesimo Dalai Lama rispose: «E chi era il quinto corpo precedente?». A tali parole i monaci gli si gettarono ai piedi. Quella risposta li aveva fatti ammutolire, perché come incarnazione egli non era soltanto il tredicesimo, bensì anche il quinto e tutti gli altri Dalai Lama. Un'incarnazione del dio della misericordia non poteva essere che buona! Alla mia domanda concernente la sua scoperta Kundùn non fu in grado di rispondere in modo soddisfacente. A quel tempo era ancora un bambino piccolo, e non poteva ricordarsi delle circostanze che avevano accompagnato la sua designazione. Quando si accorse del mio grande interessamento, mi consigliò di rivolgermi a qualche nobile che ne era stato testimone oculare. Uno dei pochi ancora in vita era Dzaza Kùnsangtse, l'attuale comandante in capo dell'esercito. Di buon grado mi narrò lo svolgimento di quegli avvenimenti tanto misteriosi. Già qualche tempo prima della sua morte nell'anno 1933, il tredicesimo Dalai Lama aveva fatto degli accenni riguardo alla sua rinascita. Dopo la sua morte, la salma fu posta sul cataletto nel Potala, nella tradizionale posizione del Buddha che guarda verso sud. Una mattina si trovò che il capo era rivolto a oriente. Fu interrogato subito l'Oracolo di stato, e anche il monaco in trance lanciò una sciarpa bianca in direzione del sole levante. Durante i seguenti due anni non si trovarono riferimenti che potessero dare qualche indizio. Il reggente si recò allora in pellegrinaggio presso un famoso lago, il Chò Khor Gye, per trovare un'ispirazione. Corre voce che chiunque guardi in quelle acque possa vedere una parte del proprio futuro. Purtroppo dista da Lhasa otto Heinrich Harrer
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giorni di marcia, e ciò mi impedì di trovare il tempo necessario per fare qualche fotografia di questo lago miracoloso e, perché no, per guardarci dentro a mia volta. Allorché il reggente, dopo molte preghiere, si avvicinò allo specchio del lago e spinse lo sguardo nelle sue acque, ebbe la visione di un monastero a tre piani con tetti dorati, accanto al quale si trovava una piccola casa di contadini cinesi con comignoli artisticamente intagliati. Pieno di riconoscenza per il cenno divino, il reggente ritornò a Lhasa, dove incominciarono i preparativi per le ricerche. Tutto il popolo vi prese intensa parte, sentendosi già molto derelitto per l'assenza del suo patrono divino. Da noi è molto diffuso l'errore che ogni rinascita debba compiersi nell'istante stesso della morte. Ma questo non concorda con la dottrina buddhista: possono passare anni prima che il dio ritorni sulla terra per riassumere forma umana. Perciò soltanto nel 1937 si misero in moto vari gruppi di monaci per cercare, in rispondenza ai segni celesti, nella direzione indicata il bambino santo. Di ogni gruppo faceva parte anche un funzionario civile. Ognuno dei membri della spedizione portava con sé oggetti appartenuti al tredicesimo Dalai Lama, e accanto a questi, in parte logori e modesti, altri che servivano allo stesso scopo, ma erano fastosi e brillanti, perché nuovi. Uno dei gruppi, al quale apparteneva anche il mio informatore, si era spinto, sotto la guida di Kyetsang Rinpoche, fino al distretto di Amdo, nella provincia cinese di Qinghai. In questa regione ci sono infatti molti monasteri, perché il riformatore del lamaismo, Tsongkhapa, era nato là. La popolazione, in parte tibetana, vive in buona armonia con i musulmani. Il gruppo dei ricercatori trovò una quantità di bambini, ma nessuno corrispondeva ai requisiti necessari. Cominciavano a dubitare del successo della loro missione. Finalmente, dopo un lungo cammino, incontrarono un monastero di tre piani con tetti dorati. Come un'illuminazione si presentò ai loro occhi la visione del reggente, e i loro sguardi fissarono una casa di contadini con comignoli meravigliosamente intagliati. Fortemente emozionati, vestirono gli abiti dei loro servi. Una simile procedura è normale durante questo tipo di ricerche, perché persone vestite da alti funzionari avrebbero attirato troppo l'attenzione, rendendogli quasi impossibile entrare in contatto con la popolazione. I servi, con le vesti dei loro padroni, vennero condotti nella stanza migliore della casa, e coloro che erano travestiti da servi presero posto in cucina, dove giocavano i bambini della famiglia. Heinrich Harrer
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Non appena messo piede in quella casa, ebbero la sicura sensazione di trovare il bambino santo. Infatti, un fanciullo di due anni corse loro incontro e afferrò per la manica il lama che aveva al collo il rosario del tredicesimo Dalai Lama. Per nulla timido, il bambino gridò: «Sera lama, Sera lama!». Era già sorprendente che il ragazzino avesse riconosciuto nel servo un lama, ma doveva sbalordire anche monaci abituati a eventi mistici il fatto che egli avesse scoperto subito la sua provenienza dal monastero di Sera. Infine il piccolo si mise a tirare il rosario, finché lo ebbe tolto al lama. Poi se lo mise intorno al collo. I nobili fecero fatica a non gettarglisi subito ai piedi, perché non avevano più alcun dubbio: avevano trovato l'incarnazione. Per il momento si congedarono e attesero alcuni giorni, per ritornare in quella casa senza travestimenti. Trattarono con i genitori, che avevano già dato alla Chiesa un'incarnazione. Poi i quattro bònpo si ritirarono con il bambino nella stanza dell'altare familiare. Chiusa la porta, lo sottoposero al prescritto esame. Anzitutto gli mostrarono quattro rosari differenti, fra i quali quello del tredicesimo Dalai Lama era il più modesto. Il fanciullo, estremamente disinvolto e affatto timido, scelse con naturalezza e senza esitazione quest'ultimo, e tenendolo in mano si mise a saltare di gioia. Scelse quindi fra parecchi uguali il tamburo con il quale il defunto chiamava i suoi servitori e la logora canna da passeggio, senza degnare neppure di uno sguardo un bastone nuovo, con il manico di avorio e argento. Allorché si esaminò il corpo del bambino, si trovarono tutti i segni comprovanti un'incarnazione di Chenresig: le grandi orecchie un po' sporgenti, i nei sul torace che dovevano rappresentare l'attaccatura del secondo paio di braccia del Buddha. I delegati inviarono attraverso la Cina e l'India un telegramma cifrato a Lhasa con la relazione della loro scoperta, e ricevettero subito l'ordine di osservare silenzio assoluto di fronte a chiunque, affinché nessun intrigo potesse mettere in pericolo il successo della loro missione. I quattro delegati prestarono un sacro giuramento davanti a un tangkha raffigurante l'immagine di Chenresig che avevano portato con sé, e proseguirono nelle ricerche per nascondere la scoperta già fatta. Poiché tutta l'operazione si era svolta sul territorio cinese, era più che mai necessaria la massima prudenza. A nessun costo doveva trapelare la notizia che si era trovato il vero Dalai Lama, perché altrimenti la Cina avrebbe potuto pretendere di far scortare fino a Lhasa da proprie truppe l'eletto. Venne presentata perciò Heinrich Harrer
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a Ma Pufang, governatore della provincia, la richiesta di poter condurre a Lhasa il bambino, dove fra parecchi candidati doveva essere prescelto il Dalai Lama. Ma Pufang pretese centomila dollari cinesi per il suo rilascio. L'importo gli venne subito versato. Questa fu una mossa sbagliata, perché i cinesi capirono quale importanza i tibetani attribuissero al fanciullo: chiesero infatti altri trecentomila dollari. La delegazione, conscia del proprio errore, versò soltanto una parte dell'importo, che si fece prestare da commercianti cinesi. Il saldo sarebbe stato pagato all'arrivo a Lhasa ai commercianti che avrebbero seguito la carovana. Il governatore si dichiarò d'accordo. Nella tarda estate del 1939 la delegazione dei quattro nobili, con i loro servi, con i commercianti, il bambino e la sua famiglia si mise finalmente in viaggio per Lhasa. Passarono mesi prima che raggiungessero la frontiera tibetana. Qui era già in attesa un ministro di gabinetto con il suo seguito, per consegnare al bambino una lettera del reggente, che confermava ufficialmente la scelta. Per la prima volta tutti i presenti resero gli onori al fanciullo come Dalai Lama. Anche i genitori, che avevano intuito che il loro figlio doveva essere un'alta incarnazione, poiché tanto si faceva per lui, appresero allora che egli era il futuro sovrano del Tibet. Da quel giorno il piccolo Dalai Lama impartì benedizioni con disinvolta semplicità, come se non avesse mai fatto altro. Ricordava ancora con molta precisione il suo ingresso a Lhasa in un palanchino dorato. Non aveva mai visto tanta gente. Tutta la città era in piedi per salutare la nuova incarnazione di Chenresig, che dopo tanti anni di desolazione faceva finalmente il suo ingresso nel Potala. Dalla morte del «corpo precedente» erano trascorsi ormai sei anni, e di questi ne erano passati due prima che il dio riassumesse forma umana. Nel febbraio del 1940, durante le grandi festività di capodanno, fu celebrata solennemente l'assunzione al trono del nuovo Dalai Lama. Nello stesso tempo il futuro sovrano ricevette nuovi nomi, quali: il Santo, il Dolce Glorioso, l'Intelligenza Suprema, l'Assoluta Saggezza, il Difensore della dottrina, l'Oceano. Tutti erano stupiti della dignitosa fierezza, quasi incredibile per la sua età, e del sussiego con il quale seguiva le interminabili cerimonie. Era affabile e semplice con i servitori del suo predecessore, che vegliavano su di lui, come se li avesse sempre conosciuti. Fui molto contento di aver appreso tutto ciò, per così dire, di prima mano, perché nel corso del tempo si erano formate varie leggende e avevo Heinrich Harrer
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già sentito diverse versioni dell'evento miracoloso.
Preparativi per la fuga del Dalai Lama Quanto più si avvicinava l'autunno, tanto più frequenti divenivano le interruzioni durante i nostri incontri. L'inquietudine dei tempi era penetrata anche negli angoli silenziosi del giardino dei Gioielli. Sotto la pressione degli avvenimenti si incominciò a iniziare il giovane sovrano sempre più agli affari del governo. L'Assemblea nazionale si trasferì nel Norbulingka, per poter comunicare subito al dio-re gli avvenimenti importanti. E già allora il giovane Dalai Lama suscitò in tutti i funzionari grande stupore per la sua lungimiranza e le sue intelligenti obiezioni. Non c'era alcun dubbio che ben presto il destino dello stato sarebbe stato affidato alle sue mani. La situazione si faceva sempre più seria. Dal Tibet orientale giungevano notizie secondo le quali reggimenti cinesi di cavalleria e fanteria stavano concentrandosi ai confini del paese. Si mandarono truppe verso oriente, pur sapendo che erano troppo deboli per trattenere il nemico. I tentativi del Tibet di raggiungere qualche risultato per via diplomatica si dimostrarono infruttuosi: le delegazioni si erano arenate in India. Anche dall'estero non ci si poteva attendere alcun aiuto. L'esempio della Corea dimostrava fin troppo chiaramente che perfino l'appoggio degli Stati Uniti poteva ben poco contro l'armata rossa. La gente incominciò a rassegnarsi all'idea della disfatta. Il 7 ottobre 1950 il nemico attaccò in sei punti contemporaneamente i confini del Tibet. Ebbero luogo i primi combattimenti. A Lhasa se ne ebbe notizia soltanto dieci giorni dopo. Mentre i primi tibetani morivano per l'indipendenza del loro paese, a Lhasa continuava la vita consueta, e si sperava in un miracolo. Dopo l'arrivo della notizia disastrosa, il governo convocò i più famosi oracoli del paese. Al Norbulingka si svolsero scene drammatiche. I canuti abati e gli attempati ministri supplicarono i più famosi oracoli del Tibet di dare il loro aiuto in quell'ora tremenda. Alla presenza di Kundùn quegli uomini anziani, con le lacrime agli occhi, si gettarono ai piedi degli oracoli, scongiurandoli di indicare la via giusta da battere. Nel momento culminante dell'estasi l'Oracolo di stato alzò la testa all'improvviso, e gettandosi poi ai piedi del Dalai Lama gridò: «Fatelo re!». Anche le predizioni degli altri oracoli ebbero uguale risultato. La Heinrich Harrer
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voce degli dei non doveva rimanere inascoltata, e subito incominciarono i preparativi per la salita al trono del giovane Dalai Lama. Nel frattempo le truppe cinesi erano penetrate nel paese per centinaia di chilometri. Alcuni comandanti, con le loro truppe, si erano già arresi, altri avevano cessato di resistere, data l'invincibile superiorità del nemico. Il governatore della capitale del Tibet orientale inviò un messaggio radio a Lhasa, chiedendo il permesso di arrendersi, essendo vana ogni resistenza. L'Assemblea nazionale rifiutò. Dopo aver fatto saltare in aria il deposito di munizioni, il governatore fuggì con il radio-operatore Ford in direzione di Lhasa. Ma dopo solo due giorni unità cinesi tagliarono loro la strada, ed entrambi furono fatti prigionieri. Del destino del giovane Robert Ford ho già parlato. L'Assemblea nazionale decise allora di indirizzare alle Nazioni Unite un appello di aiuto contro l'aggressore. Un piccolo e pacifico paese era stato assalito con il pretesto che le armate popolari comuniste non potevano tollerare nel Tibet influssi imperialistici. Tutto il mondo invece sapeva che in questo paese non esistevano influenze straniere. Nel Tibet non esisteva l'imperialismo, e non c'era niente da liberare. Se c'era qualche stato che meritava l'aiuto delle Nazioni Unite, questo era proprio il Tibet aggredito. Ma la richiesta fu respinta. L'ONU si limitò a esprimere la speranza che la Cina e il Tibet potessero raggiungere un accordo pacifico. Allora fu chiaro a chiunque che il paese, senza appoggi esterni, doveva arrendersi al nemico preponderante. Tutti coloro che non volevano vivere sotto dominazione straniera cominciarono a fare i bagagli. Anche Aufschnaiter e io sapevamo che era giunta l'ora che per noi avrebbe segnato la perdita della nostra seconda patria. Eravamo disperati, ma dovevamo abbandonare il paese, se non volevamo essere coinvolti nella sua politica. Il Tibet ci aveva donato la sua ospitalità e ci aveva affidato molti incarichi, ai quali ci eravamo dedicati di tutto cuore. Il tempo in cui mi fu concesso di dare lezioni al Dalai Lama era stato per me il più bel periodo della mia vita. Ma mai avevamo avuto nulla a che fare con l'armamento o con la direzione dell'esercito del Tibet, come affermarono molti giornali europei. Le notizie catastrofiche si susseguivano. Ora anche il Dalai Lama si preoccupava della nostra sorte. Dopo un lungo colloquio a quattr'occhi mi consigliò di prendere la licenza da tanto progettata, per acquistare maggiore libertà di movimento, senza dare adito a commenti. Entro pochi Heinrich Harrer
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giorni doveva aver luogo il trasloco nel Potala, dove per il momento non ci sarebbe stato tempo per le lezioni. Il mio piano era di dirigermi prima verso il Tibet meridionale e visitare la città di Shigatse, per poi continuare il viaggio e raggiungere l'India. Il governo avrebbe voluto dichiarare subito maggiorenne il Dalai Lama, ma era necessario attendere che i pronostici ne determinassero il momento più favorevole. Sorgeva pure la questione concernente la futura sorte del giovane sovrano. Doveva rimanere in città o fuggire? Era consuetudine, quando dovevano essere prese decisioni così importanti, farsi guidare dalla condotta della precedente incarnazione. Perciò si tenne in grande considerazione il fatto che il tredicesimo Dalai Lama, quarant'anni prima, fosse fuggito davanti ai cinesi, dando così un corso favorevole al suo destino. Ma la responsabilità di una decisione così seria non poteva essere assunta soltanto dal governo. L'ultima parola spettava agli dei. In presenza del Dalai Lama e del reggente furono confezionate due palline di tsampa, che vennero pesate sopra una bilancia d'oro, finché raggiunsero uguale peso. Vi si introdussero quindi due bigliettini, ognuno con scritto a mano un «sì» e un «no». Messe le due palline in un calice d'oro, questo fu dato in mano all'Oracolo di stato, che già in trance stava eseguendo la sua danza. Costui fece girare sempre più rapidamente il calice, finché una delle palline cadde a terra. Conteneva il biglietto con il «sì»: così si decise che il Dalai Lama doveva abbandonare la città. Io avevo ancora rimandato la mia partenza, perché volevo prima conoscere i progetti del Dalai Lama. Mi riusciva molto penoso abbandonarlo in questa ora difficile. Ma egli insistette affinché partissi, e io mi consolai con l'idea che l'avrei nuovamente incontrato nel Sud. I preparativi per la sua fuga vennero affrettati con grande zelo, anche se in segreto, per non allarmare la popolazione. Benché i cinesi si fossero arrestati ad alcune centinaia di chilometri a est di Lhasa, si temeva che una loro avanzata improvvisa potesse tagliare al sovrano la via della fuga verso sud. Malgrado la segretezza, cominciarono a correre voci sulla prossima partenza del Dalai Lama: non si poteva tenere nascosto il fatto che si stesse mettendo in salvo il suo tesoro privato. Giornalmente si vedevano carovane di muli carichi, scortate da soldati di guardia, abbandonare la città. Allora non esitarono neppure i nobili a far partire le loro famiglie e i Heinrich Harrer
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loro valori. Esteriormente la vita a Lhasa non aveva cambiato aspetto. Soltanto la mancanza di mezzi di trasporto faceva capire che molti trattenevano gli animali da soma per uso proprio. Nel bazar i prezzi salivano, e il mercato delle cose vecchie era più fornito che mai. Si diffusero notizie di atti eroici di singoli soldati tibetani, ma praticamente l'esercito si era sfasciato. Le ultime unità che ancora resistevano ben presto avrebbero dovuto cedere. Nel 1910 i cinesi avevano invaso Lhasa, mettendo tutto a ferro e fuoco. La paura che si ripetesse tale calamità pesava sulla città santa come una cappa di piombo. Questa volta tuttavia si sentiva parlare della disciplina e della tolleranza delle truppe cinesi. Alcuni tibetani che erano stati catturati e poi rilasciati raccontarono di essere stati trattati molto bene.
Addio a Lhasa Il 15 novembre 1950 lasciai Lhasa. Stavo ancora esitando quando la possibilità di approfittare di un trasporto sicuro mi spinse a decidermi. Aufschnaiter, che all'inizio voleva venire con me, cambiò parere all'ultimo momento, perciò unii ai miei anche i suoi bagagli. Il mio compagno mi avrebbe raggiunto dopo pochi giorni. Con il cuore gonfio di emozione presi commiato dalla mia casa, dal mio giardino e dai servi che piangendo mi attorniavano. Il mio cane guaiva strofinandosi alle mie gambe, quasi sapesse di non potermi seguire. Non avrebbe sopportato il calore dell'India e qui almeno lo sapevo in buone mani. Portai con me soltanto i miei libri e le mie collezioni, tutto il resto lo regalai ai miei domestici. Uno dopo l'altro vennero, carichi di doni, gli amici a rendermi ancora più penoso l'addio. Unica mia consolazione era il fatto che li avrei rivisti quasi tutti, quando al seguito del dio-re sarebbero partiti da Lhasa. Molti tuttavia erano convinti che i cinesi non sarebbero mai entrati a Lhasa e che, dopo la mia licenza, avrei potuto tranquillamente farvi ritorno. Purtroppo non condividevo questo confortante ottimismo. Sapevo che per lungo tempo non avrei rivisto Lhasa e silenziosamente presi congedo da tutti i luoghi a me divenuti tanto cari. Montai ancora una volta a cavallo, per fare con la mia Leica quante più fotografie mi fosse possibile. Dovevano costituire per me un costante ricordo, e forse con il loro aiuto avrei potuto conquistare anche i cuori di altre persone per questo paese bello e Heinrich Harrer
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straordinario. Un triste e grigio mattino presi posto nella mia piccola barca di pelle di yak. Volevo discendere il corso del Kyi Chu fino alla sua confluenza con il grande Tsangpo. Questo viaggio in barca di sei ore mi risparmiava una cavalcata di due giorni. I miei bagagli mi avevano preceduto via terra. Sulla riva erano raccolti i miei amici e i miei domestici, che mestamente facevano cenni di saluto. Mentre stavo ancora scattando loro alcune fotografie, la corrente afferrò la barchetta, e poco dopo scomparvero sia la riva sia quelle care figure. Avevo intorno al collo molte sciarpe bianche, doni dell'addio che dovevano portarmi fortuna per l'avvenire. Ero seduto in barca e non riuscivo a distogliere gli occhi dal Potala, che per lungo tempo continuò a dominare la scena, ben sapendo che da lì gli occhi del giovane Dalai Lama mi seguivano attraverso il suo binocolo. Lo stesso giorno raggiunsi la mia carovana, composta di quattordici bestie da soma, cariche dei miei bagagli, e di due cavalli per me e per il mio servo. Il fedele Nyima non aveva voluto rinunciare ad accompagnarmi. Di nuovo salite e discese attraverso montagne e passi. Dopo una settimana raggiungemmo, sulla grande strada carovaniera verso l'India, la città di Gyantse. Da poco tempo era stato nominato governatore della provincia uno dei miei migliori amici, che mi accolse con grande gioia. Dovetti accettare la sua ospitalità, e assistetti con lui alle grandi cerimonie con le quali tutto il Tibet festeggiava il giorno dell'assunzione al potere del giovane Dalai Lama. Le solennità erano incominciate a Lhasa il 17 novembre, e data la serietà della situazione dovevano durare soltanto tre giorni. Veloci staffette ne avevano portato la notizia in tutte le città e in tutti i villaggi del paese. Da ogni tetto sventolavano nuove banderuole sacre. Il popolo, dimenticando per breve tempo l'oscuro avvenire, si abbandonava con l'antica spensieratezza al canto, alla danza e al bere. Per tutti questo giorno era motivo di gioia: mai si era guardato con tanta speranza all'incoronazione di un Dalai Lama. Il giovane sovrano era superiore ai trucchi e agli intrighi, e aveva già dato più volte prova della sua mente illuminata e della sua forza di volontà. Il suo istinto naturale lo avrebbe guidato nella scelta dei consiglieri più adatti e lo avrebbe protetto dall'influenza di uomini astuti. Purtroppo sapevo che ormai era troppo tardi. Il Dalai Lama assumeva il potere nel momento in cui il destino aveva già deciso in senso a lui Heinrich Harrer
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sfavorevole. Se fosse stato di alcuni anni più adulto, il corso delle cose sotto la sua guida avrebbe potuto prendere un indirizzo del tutto diverso. Lo stesso mese da Gyantse feci una puntata a Shigatse, per grandezza la seconda città del Tibet, celebre per il monastero di Tashilhunpo. Vi ero atteso ansiosamente da amici che volevano avere da me le ultime notizie della capitale. Qui si pensava meno a una fuga, perché il monastero era la residenza del Panchen Lama.
Il Panchen Lama e il Dalai Lama Questa alta incarnazione era appoggiata dai cinesi, da generazioni, come antagonista del Dalai Lama. Il suo rappresentante attuale era di due anni più giovane del dio-re tibetano. Educato in Cina, venne proclamato in quel momento da Pechino sovrano legale del Tibet. In realtà non aveva alcun diritto a tale carica, perché legittimamente non gli spettava che il monastero di Tashilhunpo con i suoi possedimenti. In qualità di incarnazione di Ò-pa-me, il Panchen nella gerarchia dei Buddha Viventi era superiore al Dalai Lama, incarnazione di Chenresig, ma in origine non era stato che il maestro del dio-re. In segno di gratitudine il quinto Dalai Lama gli aveva riconosciuto questa alta incarnazione e gli aveva conferito la grandiosa prebenda. Anche per il ritrovamento dell'ultima incarnazione del Panchen Lama erano stati esaminati parecchi bambini. Uno di questi era stato trovato in un territorio sottoposto alla sovranità cinese, e anche allora le autorità si rifiutarono di lasciar andare il ragazzo a Lhasa senza farlo accompagnare da una scorta militare. Tutti i passi del governo tibetano erano stati inutili, e un giorno i cinesi dichiararono semplicemente che il bambino era la vera incarnazione di Ò-pa-me e l'unico vero Panchen Lama. Così facendo si erano assicurati un'importante carta nel gioco contro il Tibet ed erano pronti a sfruttare il loro asso nella manica fino alle ultime conseguenze. Il fatto che fossero comunisti non impedì loro di fare propaganda attraverso la radio in favore delle pretese del Panchen in campo spirituale e temporale, ma nel Tibet egli trovò soltanto pochi sostenitori. Questi naturalmente appartenevano soprattutto alla regione di Shigatse e del suo monastero, perché in questa provincia si riconosceva in lui il sovrano e mal si tollerava la dipendenza da Lhasa. Questa gente Heinrich Harrer
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attendeva senza paura 1'«armata liberatrice», in quanto secondo le voci il Panchen Lama aveva fatto causa comune con essa. Senza dubbio anche il popolo del Tibet avrebbe aspirato alla sua benedizione, perché come incarnazione di un Buddha godeva di grande venerazione. Ma neppure sotto la pressione dei cinesi lo si sarebbe mai riconosciuto come sovrano. Questa posizione era riservata unicamente al Dalai Lama, in qualità di patrono del paese. Così avvenne che i cinesi, più tardi, non conseguissero il successo sperato, ma dovessero invece, durante le trattative a Lhasa, rinunciare a giocare il loro asso. La sua autorità rimase limitata, come in precedenza, al monastero di Tashilhunpo. Durante il mio breve soggiorno a Shigatse visitai anche questo monastero. Si trattava di nuovo di una vera città, nella quale vivevano migliaia di monaci. Di nascosto scattai anche qualche fotografia. Rimasi particolarmente impressionato da una statua d'oro in un tempio, rappresentante un dio, che era alta nove piani. La città di Shigatse, non lontana dal monastero, è situata nei pressi dello Tsangpo e ricorda un po' Lhasa. Ha diecimila abitanti, ed è nota perché vi si trovano i migliori artigiani del Tibet. Si lavora soprattutto la lana, trasportata dal Changtang per mezzo di interminabili carovane. È rinomata anche per la sua tessitura di tappeti, benché quelli di Gyantse siano più pregiati. È a un'altitudine maggiore di Lhasa, ed è più fredda. Ciò nonostante cresce qui il miglior grano del paese, tanto che il Dalai Lama e molti nobili si riforniscono di farina proprio a Shigatse.
La fuga del dio-re Dopo alcuni giorni ritornai a Gyantse. Mi attendeva pieno di ansia il mio amico con la notizia che il Dalai Lama avrebbe probabilmente attraversato la regione. Era infatti pervenuto l'ordine di preparare tutte le stazioni carovaniere per accoglierlo degnamente, nonché di mettere a posto le strade. Offrii subito al governo il mio aiuto per accelerare e organizzare i preparativi. Furono quindi ammassate nei tasam grandi provviste di piselli e di orzo per gli animali, e un esercito di mani zelanti era intento a pulire e a migliorare le strade. Accompagnai il governatore nel suo lungo viaggio d'ispezione, e ritornati a Gyantse apprendemmo che il Dalai Lama, Heinrich Harrer
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abbandonata Lhasa il 19 dicembre, stava per arrivare. Incontrammo sua madre con i figli, che lo precedevano, proprio mentre rientravamo a Gyantse: soltanto Lobsang Samten viaggiava con la carovana dell'augusto fratello. Rividi qui dopo tre anni anche Tagtsel Rinpoche. Era stato costretto a recarsi sotto scorta nemica da suo fratello per consegnargli un messaggio dei cinesi. Naturalmente i comunisti non ottennero nulla, perché Tagtsel Rinpoche non aveva neppure tentato di influenzare suo fratello. Era contento di essere sfuggito ai cinesi. La scorta nemica fu arrestata, e una ricetrasmittente, trovata fra suoi bagagli, venne confiscata. La carovana della sacra famiglia era molto modesta. Benché la madre non fosse più giovane e avesse diritto di viaggiare in palanchino, faceva a cavallo, al pari degli altri, i lunghi percorsi quotidiani. Ancor prima che il governatore e io partissimo per andare a incontrare il Dalai Lama, la Grande Madre, con figli e servi, riprese la fuga verso sud. Dopo tre giorni di viaggio in direzione Lhasa, incontrammo, presso il passo di Karo, l'avanguardia del dio-re, e scorgemmo la lunga colonna, avvolta in una fitta nuvola di polvere, arrampicarsi lentamente lungo la strada del passo. Il seguito del giovane sovrano era formato da circa quaranta nobili e duecento soldati scelti, con mitragliatrici moderne e alcuni obici, ne costituivano la scorta militare. Seguiva una schiera di servi e di cuochi, tutti preoccupati del benessere del dio-re. In fondo alla colonna, millecinquecento bestie da soma si inerpicavano trotterellando lungo il ripido sentiero. Nel mezzo della colonna sventolavano due vessilli: la bandiera nazionale del Tibet e lo stendardo personale del sovrano. Allorché scorsi il giovane dio-re in sella al suo cavallo bianco cavalcare lentamente verso il valico, mi venne in mente un'antichissima profezia che talvolta si sentiva bisbigliare a Lhasa: si diceva che un oracolo avesse vaticinato che il tredicesimo Dalai Lama sarebbe stato l'ultimo della lunga serie dei suoi predecessori. La profezia sembrava avverarsi. Dall'incoronazione erano trascorse quattro settimane, ma il giovane Dalai Lama non era neppure riuscito ad assumere il potere. Il nemico aveva invaso il paese, e la fuga dalla capitale significava un altro passo verso il disastro. Mentre il sovrano passava a cavallo davanti a me, mi levai il cappello, ed egli mi rispose con un amichevole cenno della mano. Il vento soffiava forte e faceva schioccare le banderuole sacre. La carovana proseguì subito per raggiungere la successiva stazione di sosta, dove tutto era già stato Heinrich Harrer
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preparato. Il Dalai Lama doveva pernottare al vicino monastero. Durante quella notte pensai spesso a lui, seduto in quell'ambiente inospitale, dove non c'era alcuna stufa a spandere un po' di calore e soltanto due lampade a burro davano un'esile luce. Il giovane sovrano nel corso della sua breve esistenza non aveva conosciuto altra casa che il Potala e il giardino dei Gioielli. Adesso invece era costretto dalle circostanze a imparare qualcosa del vasto paese che governava. Avrebbe sentito un incredibile bisogno di conforto e di supporto! Ciò nonostante quel povero ragazzo avrebbe dovuto mettere da parte i suoi problemi e fare appello a tutta la sua forza per benedire la folla senza fine che avrebbe chiesto proprio a lui aiuto e conforto. Suo fratello Lobsang Samten, gravemente ammalato, faceva il viaggio in un palanchino. Rimasi sconcertato quando appresi che i dottori avevano usato su di lui gli stessi barbari metodi che venivano adottati per curare i cavalli ammalati. Colpito da una crisi cardiaca il giorno della partenza, era rimasto senza conoscenza parecchie ore, e il medico personale del Dalai Lama lo aveva riportato in vita facendogli con un ferro rovente dei buchi nella carne. Appresi più tardi da Lobsang Samten i particolari di quella memorabile partenza da Lhasa. La fuga del Dalai Lama era stata tenuta rigorosamente segreta. Non si voleva inquietare la popolazione, temendo anche che i monaci dei grandi monasteri avrebbero fatto di tutto per convincere il dio-re a recedere dalla sua decisione. Ai funzionari scelti per accompagnare il sovrano si comunicò perciò soltanto a tarda sera che la partenza era fissata alle due del mattino del giorno dopo. Per l'ultima volta si bevve nel Potala il tè al burro, poi le tazze furono di nuovo riempite, un uso superstizioso che fa sperare in un rapido ritorno. Per un giorno intero nessuna stanza occupata dal partente deve essere pulita, perché ciò sarebbe di cattivo augurio. In silenzio la colonna dei fuggiaschi si inoltrò nella buia notte verso il Norbulingka. Là il giovane dio-re si raccolse in breve preghiera, per l'ultima volta nel suo ambiente familiare. Ma la carovana non era in viaggio neppure da ventiquattr'ore, che già la notizia della fuga si sparse dovunque. Migliaia di monaci del monastero di Jang raggiunsero il Dalai Lama: si gettarono davanti agli zoccoli del suo cavallo, supplicandolo di non abbandonarli. Qualora se ne fosse andato, senza guida e senza speranza tutti loro sarebbero caduti in balia dei cinesi. Heinrich Harrer
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Gli accompagnatori del giovane sovrano temevano che i monaci avrebbero tentato di impedire al Dalai Lama di proseguire il viaggio. Ma in quel momento critico si manifestò di nuovo la forte personalità del giovane sovrano. Con poche parole spiegò ai monaci che poteva adoperarsi per il suo paese molto meglio se non fosse caduto nelle mani del nemico; che avrebbe iniziato immediatamente le trattative e, non appena favorevolmente concluse, avrebbe subito fatto ritorno. Tutti fecero un sospiro di sollievo, allorché i monaci, con infinite parole di augurio, seminarono la strada di sciarpe bianche e monete.
Il giovane sovrano vede per la prima volta il suo paese Anche a Gyantse si era nel frattempo sparsa la notizia che il Dalai Lama avrebbe attraversato la città. Come lungo tutto il tragitto di cinquecento chilometri, anche qui si collocarono piccole pietre ai margini della strada per tenere lontani gli spiriti maligni. Dai monasteri vicini accorsero monaci e religiose che volevano vedere e adorare il loro dio-re. Tutta la popolazione attese in piedi per ore il suo arrivo. I soldati indù, che stazionavano nelle vicinanze, andarono a incontrare a cavallo la carovana, per testimoniare al Dalai Lama la loro venerazione. In tutti i luoghi maggiori l'ingresso si svolgeva sotto forma di una processione: il Dalai Lama scendeva da cavallo e veniva trasportato solennemente in palanchino. Ci eravamo abituati a metterci in cammino sempre poco dopo la mezzanotte, per evitare le tempeste di sabbia che di giorno imperversavano ininterrottamente sull'altopiano. Le notti erano glaciali: specie all'alba la temperatura scendeva spesso fino a 30 °C sotto lo zero, e il cavalcare, malgrado la calma, era un tormento. Sotto un camuffamento che la rendeva irriconoscibile, la carovana raggiungeva ai primi raggi del sole la stazione successiva, e soltanto allora potevo fare qualche fotografia per eternare quella memorabile fuga per il giovane sovrano e per i posteri. Spesso il Dalai Lama all'improvviso scendeva da cavallo e con il suo lungo passo giovanile si metteva a correre. Anche gli altri cavalieri dovevano allora imitarlo, e i nobili corpulenti, che in tutta la loro vita non avevano fatto un passo, seguivano ansimanti a grande distanza. Per due giorni si cavalcò sotto una terribile bufera di neve e con un freddo polare. Tutti fecero un sospiro di sollievo quando, lasciati alle spalle i passi Heinrich Harrer
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dell'Himalaia, si scese verso una regione boscosa più mite. Il Dalai Lama rimase molto impressionato dalla vista dei giganti di ghiaccio che superbi si ergevano verso il cielo. Durante le nostre conversazioni intime al Norbulingka gli avevo spesso raccontato delle molte spedizioni che ogni anno tentavano di scalare quelle cime. Egli sapeva quanto premesse agli uomini bianchi riportare la vittoria nel pericoloso cimento, anche se non lo poteva capire. Mai mi sarebbe riuscito di destare in lui l'entusiasmo per una spedizione, essendo troppo radicata in ogni buddhista la credenza che l'Himalaia è la dimora degli dei. Ogni disgrazia che avviene sulle montagne è interpretata come una vendetta degli spiriti per l'irruzione dell'uomo nel mondo degli dei. Quante volte Peter Aufschnaiter e io deplorammo questo atteggiamento! Il Tibet sarebbe stato il punto di partenza ideale per la scalata di un'intera serie delle più alte cime montuose del mondo. Noi trascorrevamo molte ore a immaginarci le diverse possibilità, a progettare escursioni e a individuare itinerari. Se avessimo avuto un buon numero di guide esperte, nessuno avrebbe potuto trattenerci dall'ascendere una delle molte vette da 7000 metri che si trovavano nelle vicinanze di Lhasa. In due avremmo potuto fare escursioni più limitate, ma ogni nostro progetto rimase bloccato dalla mancanza di mezzi e di attrezzatura. Non era il caso di pensare a una qualunque forma di aiuto dall'esterno. A nostre spese avevamo imparato che gli stranieri non erano benvisti nel paese. Ci sembrava già straordinario che i tibetani ci avessero consentito di vivere in mezzo a loro, che ci avessero accolto nelle loro fila. Noi eravamo i primi europei che avessero ricevuto dal governo tibetano un contratto con una lettera di assunzione. Gli inglesi, che spesso si trattenevano molti anni nel Tibet, rimanevano sempre al servizio del loro governo e vivevano come su un'isola, in un ambiente chiuso, anche se erano molto benvisti dalla popolazione e venivano accolti nella cerchia dei nobili. Dopo le mie visite alla legazione britannica invidiavo spesso il personale accurato che rispettava le abitudini della patria di origine. A me mancavano tutte quelle cose che sarebbero state necessarie per conferire alla mia casa un aspetto europeo. Qui imparai che attenersi al proprio stile di vita - cosa che gli inglesi sanno fare alla perfezione - è la migliore difesa per non abbandonarsi ai costumi primitivi di altri popoli. Aufschnaiter e io c'eravamo sempre sforzati di trovare la giusta via di mezzo. Non volevamo perdere completamente le abitudini con le quali Heinrich Harrer
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eravamo cresciuti, ma desideravamo anche adattarci alle consuetudini del popolo che ci ospitava. Potevamo raggiungere un simile compromesso cercando di penetrare nella mentalità di questo paese. Maturammo a tal punto la nostra capacità di adattamento, che alcuni tibetani erano convinti che in un'esistenza precedente fossimo già vissuti sul «Tetto del mondo». Le nostre conoscenze linguistiche e la nostra pratica dei loro costumi bastavano come prova della nostra reincarnazione. Io non potevo condividere la loro opinione; tuttavia sorridevo sempre amichevolmente di fronte a simili affermazioni, perché sapevo che per loro rappresentavano un complimento. La gigantesca carovana del Dalai Lama scendeva ora dalle impervie altezze dell'Himalaia verso i boschi di abeti della vallata di Chumbi. Ripetutamente, per prendere congedo, mi voltai indietro a dare un'ultima occhiata alla piramide di ghiaccio del Chomolhari, che per giorni continuò a stagliarsi in lontananza. A poco a poco nelle nostre membra intirizzite ricominciò a circolare il calore del più dolce clima dei bassopiani. Il Dalai Lama vide qui per la prima volta un vero bosco con ameni ruscelli rumoreggianti, e ne trasse grande piacere. Anche qui scendeva spesso da cavallo per camminare liberamente. Singole case di contadini mi rammentavano, per il loro stile, nostalgicamente la patria lontana. Alla vista del Dalai Lama gli abitanti si buttavano devotamente a terra, o accoccolati si raccoglievano in preghiera. Nuvole di incenso accompagnavano senza interruzione il nostro cammino. Presso un piccolo agglomerato di case fummo costretti a fermarci, tanta era la gente accorsa per impetrare la benedizione del Buddha Vivente. Da una piccola veranda il Dalai Lama benediceva tutti, e molti dei suoi sudditi avevano le lacrime agli occhi quando sfilavano davanti a lui. Sedici giorni dopo la partenza dalla capitale raggiungemmo la meta provvisoria della fuga: la casa del governatore distrettuale di Chumbi. Solennemente e con tutte le cerimonie il Dalai Lama fu portato nel suo giallo palanchino fra due ali di migliaia di persone verso la sua nuova dimora, la modesta casa del governatore, che subito si conquistò il titolo di «Palazzo celeste, luce e pace dell'universo». Mai più un mortale avrebbe abitato in una delle sue stanze, perché ogni ambiente in cui il Dalai Lama passava una notte diventava una cappella consacrata. Da allora in poi e per tutti i tempi i fedeli vi avrebbero offerto i loro sacrifici e impetrato la sua benedizione. Heinrich Harrer
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I funzionari vennero alloggiati nelle case dei villaggi circostanti e si sforzarono di adattarsi alla vita scomoda. La maggior parte dei soldati dovette essere rimandata nell'interno del paese, perché era impossibile acquartierarli a Chumbi e provvedere al loro mantenimento. Tutti gli accessi alla valle furono sorvegliati da sentinelle, e soltanto con un passaporto era permesso uscire o entrare. Di ogni dicastero era presente perlomeno un rappresentante: perciò, come a Lhasa, funzionavano gli uffici, e il governo teneva regolari sedute. Corrieri facevano la spola fra la capitale e la sede del governo provvisorio. Il Dalai Lama aveva portato con sé il suo grande sigillo, con il quale convalidava le decisioni prese dal monco governo di Lhasa. I corrieri si dimostrarono veri campioni: ci fu qualcuno che fece il percorso di andata e ritorno, più di ottocento chilometri, in solo nove giorni. I messi portavano sempre le ultime notizie dell'avanzata delle truppe cinesi: per il momento questi uomini costituivano l'unico collegamento con Lhasa e con il mondo. Soltanto più tardi arrivò l'inglese Fox con i suoi apparecchi e organizzò, sebbene in condizioni primitive, una stazione radio. Le donne e i bambini dei nobili, che avevano preso parte al viaggio, proseguirono subito per l'India, perché le possibilità di alloggiarli erano molto limitate. Molti approfittarono dell'occasione per fare un pellegrinaggio ai santuari del buddhismo in India e nel Nepal. Anche la famiglia del Dalai Lama, tranne il fratello Lobsang Samten, aveva continuato il viaggio verso sud e viveva ora in uno dei bungalow presso Kalimpong. Molti tibetani videro in India per la prima volta ferrovie, aerei e automobili. Ma dopo i primi entusiasmi furono presi dalla nostalgia, perché, sebbene arretrata in quanto a civiltà, la loro patria costituiva tuttavia per ognuno la solida base dell'esistenza.
I miei ultimi giorni nel Tibet Io vivevo a Chumbi insieme con un amico, funzionario del governo, del quale ero ospite. I miei compiti in questo paese erano stati bruscamente interrotti, e spesso mi annoiavo. Ma non riuscivo a staccarmi da questa gente che mi era diventata cara. Mi sembrava di essere lo spettatore di un dramma, il quale ne prevede la fine disastrosa e vorrebbe trattenerla, ma impotente attende l'ultimo atto. Per assopire la mia inquietudine mi Heinrich Harrer
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dedicavo ogni giorno all'alpinismo, facendo nel contempo molti rilievi topografici. Avevo ancora un solo compito: ascoltare con la mia piccola radio i notiziari di tutto il mondo e trasmetterli subito al ministero degli Esteri. I cinesi non erano avanzati maggiormente nel paese e continuavano a premere sul governo tibetano affinché venissero mandati a Pechino delegati per iniziare le trattative. Il Dalai Lama e il governo, ritenendo alla fine vantaggioso accettare l'invito, inviarono alcuni plenipotenziari. Poiché ogni resistenza era diventata vana, il governo giocò la carta del Dalai Lama, sapendo che ai comunisti cinesi premeva molto che egli tornasse a Lhasa. Senza interruzione giungevano delegazioni di tutti gli strati della popolazione che sollecitavano il ritorno del sovrano. Sull'intero Tibet si era abbattuto un profondo avvilimento. Soltanto allora compresi l'intensità dell'attaccamento di questo popolo al proprio dio-re. Con lui fortuna e prosperità avevano abbandonato il paese. A Chenresig, patrono del Tibet impersonato dal Dalai Lama, non rimase altra scelta che accettare le condizioni dei comunisti cinesi e fare ritorno a Lhasa. Dopo lunghe trattative venne finalmente concluso a Pechino un accordo: al Dalai Lama era lasciata l'amministrazione interna del paese e veniva garantito il pieno rispetto della religione e della libertà di culto; alla Cina Popolare era riservato il diritto di rappresentare il Tibet all'estero e di difendere il paese. Questo era il punto capitale, perché dava diritto alla Cina di mandare nel paese quante truppe voleva, conseguendo pertanto la possibilità di imporre l'esecuzione di tutte le sue ulteriori richieste. Poiché la casa del governatore era situata in una parte particolarmente stretta e fredda della vallata, mai raggiunta da un raggio di sole, il Dalai Lama si era frattanto trasferito nel romantico monastero di Dungkhar. Viveva là ritirato, circondato da monaci e dai suoi servi personali, e assai di rado si presentò l'occasione per me di passare qualche ora da solo con lui, come a Lhasa. Anche il mio amico Lobsang Samten abitava in una stanza del monastero e qualche volta fui suo ospite. Allora prendevamo parte alle lunghe passeggiate del Dalai Lama che insieme con i suoi accompagnatori visitava i monasteri dei dintorni. Aveva un passo molto rapido, e nessuno gli poteva tenere dietro. Per la prima volta aveva qui la possibilità di fare del moto. Veniva così esaudito un suo desiderio da lungo accarezzato e del quale si era spesso parlato a Lhasa. Anche al suo seguito Heinrich Harrer
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faceva bene questa vita. Per non sfigurare tutti dovevano essere più parchi: i monaci rinunciarono a fiutare tabacco, i soldati a fumare e a bere. Benché lo stato d'animo fosse spesso assai depresso, non fu mai dimenticata alcuna cerimonia religiosa, che si cercò anzi di rendere più bella possibile. Ma si trattava solo di un pallido riflesso delle festività di Lhasa. Un piacevole diversivo costituì l'arrivo di alcuni dotti indiani, che offrirono al giovane sovrano un'autentica reliquia di Buddha contenuta all'interno di uno scrigno dorato. In quell'occasione feci le ultime e anche le migliori fotografie del Dalai Lama. Più si prolungava il soggiorno nella valle di Chumbi, più impallidiva lo splendore e la pompa dei nobili. Si andava soltanto a piedi: a parte poche eccezioni, i cavalli erano stati tutti mandati via. Avevano ancora sempre parecchi servi, ma mancava loro ogni comodità o divertimento. Senza posa venivano tessuti piccoli intrighi: circolavano voci incontrollabili. Il loro potere era svanito. Non potevano più prendere decisioni indipendenti, ma dovevano uniformarsi al parere del Dalai Lama. Nessuno poteva dirsi certo che i cinesi avrebbero realmente restituito loro tutti i beni come avevano promesso. Il sistema feudale aveva cessato di esistere, e tutti lo sapevano benissimo. Io rimasi nella valle di Chumbi fino al marzo del 1951, poi mi decisi a proseguire per l'India. Già da settimane mi agitava una continua inquietudine, perché sapevo che non sarei potuto ritornare a Lhasa. Ma ero ancora uno stipendiato del governo tibetano, e prima di partire dovevo ottenerne licenza. Mi fu accordata subito. Il passaporto consegnatomi dal gabinetto aveva la validità di sei mesi e conteneva una clausola: «Il governo indiano è pregato di facilitare il ritorno del titolare». Sorrisi amaramente: sapevo che non me ne sarei mai potuto servire. Ero sicuro che nel giro di sei mesi il Dalai Lama sarebbe tornato nuovamente a Lhasa, tollerato come incarnazione di Chenresig, ma non più sovrano di un popolo libero. Dopo aver cercato invano una soluzione adeguata, mi resi conto che non avevo altra possibilità che andare in India. Con Aufschnaiter ero rimasto in continua corrispondenza. Non sapeva decidersi ad abbandonare il Tibet. Una volta ci eravamo incontrati per breve tempo a Gyantse, ed egli mi aveva comunicato in quell'occasione che voleva rimanere quanto più possibile nel Tibet e raggiungermi soltanto più tardi in India. Allorché ci salutammo, entrambi ignoravamo che per molti anni non ci saremmo più Heinrich Harrer
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rivisti. Aufschnaiter mi affidò i suoi bagagli, che depositai a Kalimpong. Poi per un anno non ebbi più sue notizie: correvano le voci più contraddittorie sul suo conto, e molte lo dicevano morto. Solo dopo il mio ritorno in Europa appresi che si era trasferito nel nostro amato villaggio di Kyirong, da dove era fuggito solamente all'ultimo minuto, appena in tempo per non cadere in mano ai cinesi. Il distacco dal Tibet fu per lui ancora più doloroso che per me. Già felice di questa spiegazione della sua scomparsa, mi colmò di gioia ricevere una sua lettera dalla capitale del Nepal. E ancora prigioniero del fascino incantato dell'Estremo Oriente, quella parte di mondo che appaga l'insaziabile sete della sua natura di esploratore. Ci sono pochi che al pari di lui conoscano così a fondo l'Himalaia e il Paese Proibito. Quante cose avrà da raccontare il giorno che, dopo tanti anni, si deciderà a rientrare in Europa! Pur avendo vissuto insieme tredici anni in Asia, ogni uomo vede la vita sotto un aspetto diverso.
Nere nubi sul Potala Lasciai il Tibet a malincuore, ma sapevo di non potermi trattenere oltre. Ero in ansia per la sorte del giovane sovrano. L'ombra di Mao Tse-tung si librava minacciosa sul Potala. Invece delle pacifiche banderuole sacre il vento avrebbe agitato rosse bandiere con falce e martello, a simboleggiare la pretesa di dominare il mondo e creare una nuova era in Asia. Forse Chenresig, l'eterno dio della misericordia, sarebbe sopravvissuto anche a questo regime, come già a tante invasioni cinesi. Potevo soltanto sperare che il più pacifico popolo della terra non fosse vittima di eccessive persecuzioni e non venisse sbalestrato troppo dalle incombenti innovazioni. Dopo sette anni, quasi lo stesso giorno, mi trovai davanti al mucchio di pietre e alle banderuole sacre di un passo di confine verso l'India. Allora, pur affamato e stanco, mi ero sentito pieno di gioia per aver finalmente raggiunto il paese tanto desiderato. Oggi mi accompagnavano servi e cavalli, e i miei risparmi mi sollevavano dalle preoccupazioni per l'immediato futuro. Ma non mi potevo liberare da una profonda malinconia. Non provavo affatto quella curiosità e quell'eccitante attesa che sempre mi avevano afferrato nei pressi della frontiera di un nuovo paese. Con infinita tristezza volgevo lo sguardo verso il Tibet. Come un gigantesco chòrten si ergeva in lontananza la piramide del Chomolhari e Heinrich Harrer
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mi mandava l'ultimo suo saluto. Davanti a me si stendeva il Sikkim, dominato dal Kanchenjunga, l'ultima montagna di ottomila metri della terra che mi restava da vedere. Tenendo il mio cavallo alla briglia scesi lentamente verso la pianura indiana. Pochi giorni dopo arrivai a Kalimpong, dopo molti anni per la prima volta di nuovo fra europei. Non ero più abituato né alla loro vista, né alla loro compagnia. I corrispondenti di molti giornali mi assalirono subito per avere da me le più recenti notizie del Tibet. Feci fatica a riassuefarmi al rumoroso traffico e alle istituzioni della civiltà. Ma anche qui trovai degli amici, che mi aiutarono a rientrare nella vita di un tempo. Tuttavia neppure dall'India riuscivo ancora a staccarmi, perché qui mi sentivo più vicino alla sorte del Tibet. Di giorno in giorno rimandavo il mio ritorno in Europa. Nell'estate dello stesso anno il Dalai Lama con il suo seguito rientrò a Lhasa. Le famiglie tibetane fuggite in India stavano per riprendere la via del ritorno. Assistei anche al passaggio, attraverso Kalimpong, del governatore generale cinese che si recava a Lhasa per esercitare il suo potere sul Tibet. Fino all'autunno del 1951 l'intero paese rimase occupato dalle truppe cinesi, e le notizie che giungevano dal Tibet erano sempre più confuse e sporadiche. Mentre scrivo le ultime righe di questo libro, gran parte delle mie paure si sono concretizzate. Nel paese regna la carestia, perché i ventimila soldati stranieri sono un aggravio troppo forte. In giornali europei ho visto fotografie che mostrano ai piedi del Potala giganteschi manifesti con il ritratto di Mao Tse-tung. La città santa è percorsa da carri armati. Fedeli ministri del Dalai Lama sono stati licenziati e il Panchen Lama ha fatto il suo ingresso a Lhasa fra il rumore delle armi cinesi. I cinesi sono abbastanza furbi per riconoscere ufficialmente il Dalai Lama come capo del governo, ma in realtà non conta altra volontà se non quella della potenza occupante. Questa si è installata comodamente nel paese. Per la sua formidabile organizzazione è stato un nonnulla costruire molti chilometri di strade in grado di collegare con la Cina quel paese impervio. Seguo tutti gli avvenimenti con il massimo interesse, perché una parte di me stesso è legata indissolubilmente al Tibet. Dovunque vivrò, la nostalgia di quel paese bellissimo mi accompagnerà sempre. Talvolta ho l'impressione di sentire il volo e il grido delle oche selvatiche e delle cornacchie che nelle chiare e fredde notti lunari si libravano al di sopra di Heinrich Harrer
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Lhasa. Mio vivo desiderio è di destare con questo libro un po' di simpatia e di comprensione per un popolo la cui volontà e ambizione di poter vivere in libertà e in pace hanno trovato finora nel mondo così poca risonanza.
Quattordici anni dopo Sono passati quasi quindici anni da quando ho dovuto lasciare il Tibet in seguito all'occupazione cinese. Purtroppo, ciò che mi augurai alla partenza non si è avverato: al paese non è stato risparmiato il peggio. Anche la mia speranza che le due parti in causa, così differenti fra loro, potessero collaborare lealmente si è rivelata illusoria. Malgrado la volontà del Dalai Lama di attuare le clausole stabilite e nonostante la saggezza della popolazione, i tibetani non hanno mantenuto né l'autonomia, peraltro garantita loro dal Trattato dei diciassette punti, neppure nella politica interna, né la libertà di culto. Fin dall'inizio i cinesi hanno dimostrato di non avere affatto l'intenzione di attenersi agli accordi. Nel luglio del 1960, attraverso il rapporto della Commissione giuridica internazionale, l'opinione pubblica mondiale venne a conoscenza del livello di oppressione e di crudeltà che avevano raggiunto le misure spietate e sistematiche prese dai nuovi dominatori. Questa associazione indipendente, composta da quasi quarantamila giuristi di tutto il mondo, aveva nominato uno specifico comitato per indagare sulle violazioni dei diritti della popolazione e della dignità umana perpetrate in Tibet dagli invasori. Il risultato dell'inchiesta fu tanto sconvolgente quanto inequivocabile: la struttura sociale teocratica e l'antichissima civiltà del Tibet erano state condannate a morte, il Tibet come nazione indipendente rischiava di scomparire. La «via al socialismo» indicata dai cinesi presupponeva un cambiamento radicale nelle abitudini di vita dei tibetani. In quest'ottica si imponeva necessariamente l'annientamento della fede religiosa e di tutte le istituzioni ecclesiastiche. Fu così che antichi e rinomati monasteri, con tutto il loro patrimonio culturale, furono saccheggiati, che le loro fonti di sussistenza economica furono depredate o del tutto distrutte, e che i monaci furono messi ai lavori forzati, deportati in Cina o costretti ad abbandonare il celibato. Molte autorità spirituali e maestri furono giustiziati e, mentre Heinrich Harrer
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migliaia di tibetani venivano obbligati a stabilirsi in Cina, nel paese entravano milioni di coloni cinesi. Questa migrazione di massa indotta dalla Cina aveva lo scopo di fare dei tibetani una minoranza disperata nella propria terra. La «rieducazione» della gioventù tibetana e altri provvedimenti «socialisti» dovevano completare il processo di trasformazione. Come è ovvio, questo «governo del terrore» suscitò nel popolo inquietudine e insoddisfazione, sentimenti che originarono inevitabilmente una serie di contromisure. Alla fine, a causa di tale spietata e inumana politica, la popolazione esasperata si ribellò ai conquistatori.
La lotta dei tibetani per la libertà La storia della lotta dei tibetani per la libertà comincia nell'autunno del 1954. A quell'epoca i comunisti cinesi iniziarono a estendere sistematicamente il loro predominio sul Tibet nei territori di Litang, Chating, Batang e Tranko, nonché in altre zone tibetane a est, che già si trovavano oltre i confini dello stato. Proprio là, nella provincia tibetana orientale del Kham, vivevano i famosi khampa: era il «selvaggio West» del Tibet. La regione era infestata da briganti e, da tempi remotissimi, la popolazione era abituata a portare con sé fucili e pistole per difesa personale. I cinesi temevano perciò che queste armi potessero essere rivolte contro i loro soldati e, nell'ottobre del 1954, ordinarono di consegnarle alla polizia insieme con tutte le munizioni. I khampa si ribellarono al provvedimento. Questo conflitto per il controllo delle armi dei khampa si protrasse per tutto il 1955, e i cinesi ebbero quasi sempre la peggio. Nella capitale e nel resto del Tibet, i leader del popolo dimostrarono la buona volontà di accordarsi con i cinesi: nessuno può negare che Lhasa, e in primo luogo il Dalai Lama, abbiano fatto i più sinceri sforzi per poter continuare a vivere pacificamente sotto la dominazione cinese. Furono i cinesi medesimi a provocare la rivolta con i loro duri provvedimenti. E proprio lo scontro con i khampa nel 1955 segnò il momento d'avvio dei dissidi fra i tibetani e i loro oppressori. Nell'autunno di quell'anno i cinesi pretesero di censire, a scopo fiscale, tutti i cavalli, i muli, le pecore, le capre e tutti gli appezzamenti adibiti al pascolo o alla coltivazione; l'introito doveva essere versato Heinrich Harrer
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immediatamente a Pechino. Inoltre, gli esattori si presentarono in ogni monastero per valutare gli idoli e i libri sacri, in modo che Pechino li potesse tassare. Seguirono le «riforme sul territorio». I cinesi tentarono di scatenare i servi della gleba contro i loro padroni: ne trovarono alcuni insoddisfatti come ce ne sono ovunque - e li pagarono perché alimentassero tensione. Presto ritennero che si fossero create le condizioni per poter procedere giudiziariamente contro i proprietari terrieri tibetani. Ma una simile idea era pura follia in un paese in cui il feudalesimo dominava da secoli. I proprietari terrieri vennero trascinati in tribunale, trattati come criminali e offesi dalla plebe. Ai sobillatori prezzolati era stato promesso che sarebbero entrati in possesso di tutta la terra, dopo che questa fosse stata sottratta agli «usurpatori»; ma più tardi, quando costoro si avvidero che i migliori terreni espropriati erano rimasti nelle mani dei coloni cinesi e delle famiglie dei soldati, ebbero una cocente delusione. Molti proprietari terrieri erano khampa, una razza d'uomini straordinariamente rigorosi e retti, che certo non subiscono un simile trattamento senza reagire. Non deve perciò sorprendere che nella provincia del Kham sia nato dal popolo, proprio in questo periodo, un eroe della libertà: si tratta del quarantaquattrenne Andrutshang, il capo di una delle più antiche, ricche e rispettate famiglie di khampa. Conosciuto in tutto il Tibet come uomo buono e generoso, disponibile tra i primi a sborsare di tasca sua quando qualcuno si trovava in difficoltà, in questo frangente Andrutshang si ritirò nei boschi e si mise alla testa di un drappello di amici per combattere il predominio straniero cinese. In un primo tempo, i rivoluzionari si accontentarono di ostruire con massi le strade di montagna, che i cinesi usavano come vie di comunicazione; ma presto cominciarono ad attaccare gli avamposti cinesi e a requisire armi, munizioni e le dispense alimentari, così maledettamente indispensabili. Nel giro di tre mesi erano diventati alcune centinaia: i cinesi li attaccavano in tutta la provincia e, in particolare, risposero alla loro resistenza con il bombardamento di Chating, Batang e Tranko e con la distruzione di monasteri. Poi bombardarono Chekundo e Litang, due città sospettate di sostenere i khampa. Nel frattempo Andrutshang guidò i suoi uomini contro Lhasa, poiché là sperava di poter esercitare un'efficace influenza sul governo locale e una maggior pressione sui cinesi. All'inizio del 1958 consistenti Heinrich Harrer
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gruppi di guerriglieri khampa erano nascosti a Lhasa, mentre numerosi commercianti e proprietari terrieri del Kham e di altre regioni vi si erano trasferiti perché nella capitale si sentivano più sicuri dalla vendetta dei cinesi: presto la città divenne sovrappopolata e si cominciò ad avvertire, ogni giorno di più, la scarsità di generi alimentari. A questo punto l'intero Tibet era in preda alla tensione: i guerrieri khampa controllavano vaste aree e i soldati cinesi non osavano più allontanarsi dalle loro baracche. Intanto, il governatore cinese a Lhasa, che già temeva gravi complicazioni, venne a sapere che centinaia di rivoluzionari khampa si nascondevano nella città sacra ed emise perciò un'ordinanza secondo la quale tutti i non residenti nella capitale dovevano ritornare nei loro paesi d'origine. Poco più tardi, una mattina d'aprile, in un'atmosfera già straordinariamente tesa, fece arrestare dalle sue truppe tutti i commercianti forestieri e i semplici visitatori presenti in città: in una sola giornata catturarono circa ottocento tibetani, che poi costrinsero ad abbandonare Lhasa, ma non osarono arrestare neanche un khampa, perché temevano la ritorsione di Andrutshang. Avendo seguito gli avvenimenti dal suo nascondiglio, questi capì che era giunto il momento di intervenire. I suoi uomini dovevano accaparrarsi tutte le armi e le munizioni disponibili. Nel suo seguito di circa trecento coraggiosi khampa, molti insistevano per entrare nel Khelenpa, una sorta di commando aeronautico composto da gruppi scelti di giovani guerriglieri, che ricevevano una speciale formazione ed erano decisi a morire per un Tibet libero, piuttosto che vivere sotto la dominazione straniera cinese. Nel maggio del 1958 Andrutshang ordinò al suo piccolo esercito di portarsi, in gruppetti di tre o quattro uomini, a Nyemo, a ottanta chilometri a sud di Lhasa, e di raccogliersi al di fuori di questo villaggio. Egli sapeva che in un monastero fuori Nyemo c'era un arsenale segreto del governo di Lhasa. E sapeva inoltre che gli sarebbe bastato annientare la guarnigione cinese di Nyemo per farsi aprire l'arsenale dai monaci. Quando le truppe di Andrutshang attaccarono Nyemo in una chiara notte di luna piena, la città era nel sonno. Anche il presidio cinese, di circa milleduecento uomini, dormiva, con la sola eccezione delle guardie, giovani arruolati a forza, che ne avevano già abbastanza di servire 1'«Esercito di liberazione popolare cinese». Gli uomini di Andrutshang attaccarono poco dopo mezzanotte: armati di fucili, pistole e coltelli, Heinrich Harrer
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colsero di sorpresa e sopraffecero prima le guardie e poi l'intera guarnigione. All'alba si contavano migliaia di cinesi caduti, mentre gli altri erano fuggiti. Ma con la luce del giorno i khampa erano nuovamente scomparsi: il loro bottino erano cinquecento fucili dell'arsenale del monastero e un grosso quantitativo di munizioni. Con queste armi poterono dotare anche le reclute che accorrevano sempre più numerose nelle fila di Andrutshang, diventato ormai un vero e proprio eroe nazionale. L'esercito dei khampa continuò così a bloccare le vie di comunicazione cinesi e a praticare la guerriglia: tagliò inoltre i collegamenti tra Lhasa e Shigatse, dove risiedeva il Panchen Lama nel monastero di Tashilhunpo, distrusse i principali mezzi di trasporto sul Brahmaputra e si volse verso Konka Dzong. Qui sorprese le truppe comuniste di rinforzo, uccise duecento cinesi in una vera e propria strage e mise fuori uso trentanove autocarri. Di nuovo fece un grosso bottino di armi e munizioni. Nell'autunno del 1958 i guerrieri khampa si sentivano abbastanza forti per una sfida a campo aperto. Per l'attacco Andrutshang scelse Tsetang, una città commerciale piuttosto grande a sud del Brahmaputra, dove i cinesi avevano stabilito la guarnigione. Per anni i comunisti avevano avuto il tempo di scavarsi delle trincee: la loro principale difesa consisteva di un fossato profondo un metro e mezzo e largo tre, che nessuno poteva sperare di attraversare senza venire scoperto dai soldati di guardia. Era un caposaldo apparentemente inattaccabile. Siccome erano molto stanchi dell'occupazione cinese, gli abitanti di Tsetang svelarono ad Andrutshang i segreti della difesa di cui erano a conoscenza. Così accadde che in una notte oscura, mentre alcuni coraggiosi abitanti della città, a rischio della loro vita, si infiltravano nelle postazioni di controllo, uccidevano le guardie e mettevano in azione il meccanismo per svuotare il fossato, gli uomini di Andrutshang attaccarono la guarnigione. Lo scontro si protrasse per alcune ore, fino a quando tremila cinesi non furono caduti sul campo di battaglia. Questa fu la maggiore vittoria dei khampa. Ma non li fermò. Nel novembre del 1958 dodicimila uomini al comando di Andrutshang controllavano già tutto il territorio a sud del Brahmaputra e a est di Gyantse. Ovunque avevano il sostegno della popolazione. Adesso, infatti, non si trattava più di una rivolta dei proprietari terrieri e dei commercianti, ma di una sollevazione generale, nazionale, a cui prendevano parte tutte le Heinrich Harrer
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classi sociali, per liberare la loro terra dagli odiati oppressori. Nel frattempo la situazione a Lhasa si era inasprita. Fin dall'inizio del 1958, i cinesi si erano infatti convinti che molti alti funzionari del governo, che all'estero collaboravano con loro, in realtà aiutassero segretamente i khampa. Non riuscivano, però, a procurarsene le prove e, nell'estate seguente, pretesero quale «prova di buona volontà» che il Dalai Lama schierasse i propri soldati e le proprie guardie del corpo contro i khampa. Fu così che cominciò l'abile gioco diplomatico del Dalai Lama per guadagnare tempo. I tibetani sono un popolo pacifico per natura: non alzano mai la voce, se una risposta dolce promette di sedare una contesa. Quando i cinesi chiesero al Dalai Lama di mandare i propri soldati contro i khampa, egli rispose loro gentilmente che lo avrebbe fatto volentieri, ma che temeva che i suoi soldati non fossero armati bene e che quindi non sarebbero stati degli adeguati oppositori dei khampa. Quando i cinesi si offrirono di armarli meglio, il Dalai Lama espresse un altro suo timore: la cosa lo metteva in imbarazzo, ma doveva confessare di non essere sicuro che i suoi soldati non sarebbero passati dalla parte dei khampa. Mentre si svolgeva questo scambio epistolare diplomatico, si avvicinava il momento in cui il Dalai Lama avrebbe dovuto fare la sua visita ufficiale - che aveva scadenza biennale - alle «tre colonne dello stato», cioè ai tre monasteri principali del Tibet, Dreprung, Sera e Ganden. Gli abati di questi tre monasteri, uomini tra i più influenti del Tibet, sfruttarono la sua visita per tenere lunghe sedute di consiglio con lui e con i suoi ministri. Era il luglio del 1958, e già allora i leader del popolo dovevano preoccuparsi per la vita del dio-re. Perciò decisero di emettere un editto secondo il quale nessuno sarebbe più potuto essere ammesso alla presenza del Dalai Lama senza un'autorizzazione scritta del Kashag, ossia del Consiglio dei ministri. Con questo provvedimento si sperava di tenere lontani i cinesi dalla residenza del Dalai Lama e di impedire il suo temuto assassinio o rapimento. I cinesi, consci di quanto stava accadendo, erano furibondi per questo editto. Il governatore militare rispose che il decreto non era valido, poiché il Kashag non rappresentava il popolo. Il Consiglio dei ministri reagì, però, con grande astuzia. Venne costituita una nuova Tsongdù, una rappresentanza popolare che sostituisse quella sciolta dai cinesi all'arrivo dell'Esercito di liberazione. La vecchia Tsongdù, composta da seicento membri provenienti da tutte le classi sociali (nobili, monaci, mercanti, Heinrich Harrer
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piccoli commercianti e artigiani), era un'assemblea che veniva mobilitata in casi di emergenza: esprimeva la voce del popolo e, anche se non deteneva alcun potere esecutivo, veniva pur sempre consultata. La nuova Tsongdù, anch'essa formata da membri di tutte le estrazioni, contava soltanto sessanta componenti. Il Kashag informò i cinesi che avrebbero potuto mantenere i contatti con il Dalai Lama attraverso questa rappresentanza popolare tibetana. Era l'ottobre del 1958. Un bastione difensivo circondava il dio-re. Su ordine di Pechino, il governatore cinese fece il massimo sforzo per superarlo. I consiglieri del Dalai Lama, per parte loro, fecero il massimo sforzo per rinforzarlo. Nel novembre del 1958 i cinesi invitarono il Dalai Lama a prendere parte all'Assemblea nazionale della Repubblica popolare cinese che si sarebbe riunita a Pechino in gennaio. A questo punto riprese il gioco diplomatico per guadagnare tempo. Il Dalai Lama inviò a Chou En-lai una missiva in cui gli comunicava che avrebbe desiderato prendere parte all'assemblea, ma che purtroppo, proprio nel corso di quel mese, si sarebbe dovuto tenere il suo esame di laurea e che il primo ministro ne avrebbe certamente compreso l'importanza. I cinesi - nel tentativo di attirare il Dalai Lama risposero che avrebbero potuto indire l'Assemblea nazionale in un momento successivo. Ma l'intero popolo tibetano chiedeva che il Dalai Lama non andasse a nessuna condizione a Pechino. Nella capitale operava anche un movimento giovanile clandestino, gli Tsogpa. Questi ragazzi preparavano gli slogan che presto sarebbero stati diffusi da tutto il popolo: «Tornatevene a casa, cinesi. Noi vogliamo l'indipendenza». In tale momento evidentemente critico - erano le dieci del mattino del 9 marzo 1959 -, un traditore si diresse in bicicletta al Norbulingka per imprigionare il Dalai Lama in una trappola cinese. Per il ruolo di Giuda i comunisti avevano scelto il monaco Phagpala, che si presentò all'incontro quotidiano del Dalai Lama con le più alte gerarchie religiose, indossando la sua solita tonaca marrone larga e una giacca gialla. Cogliendo l'occasione per parlare con il Dalai Lama in disparte e a bassa voce, Phagpala lo invitò, in nome del governatore generale cinese del Tibet, il generale Tan Kuan-san, sotto il sigillo della massima riservatezza, ad andare ad assistere, il giorno seguente, a una «rappresentazione teatrale» cinese presso la loro guarnigione. Il monaco traditore sottolineò che si trattava di un invito ufficioso e che, quindi, il Dalai Lama - nell'interesse Heinrich Harrer
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dei rapporti cino-tibetani - si sarebbe dovuto presentare senza il suo ministro del Kashag e con soli tre o quattro accompagnatori disarmati. Il Dalai Lama accettò questo «invito» simulando entusiasmo. Tuttavia, poiché le sue modalità non erano conformi al protocollo di palazzo, ne informò subito il suo maestro più anziano Jongdzin Rinpoche, il quale riconobbe il grave pericolo e lo rivelò a tre membri del Kaschag, di indubitabile lealtà: Surkhang, Schasur e Liuschar. Questi fedelissimi tra i fedeli ebbero un lungo colloquio che si protrasse fino a notte inoltrata tra il 9 e il 10 marzo. Erano convinti che i cinesi volessero portare via il Dalai Lama da Lhasa per ucciderlo qualora egli non si fosse lasciato manovrare come una marionetta nelle loro mani. Nel corso della notte venne valutata per la prima volta l'ipotesi di una fuga in India. Poiché però i fedelissimi esitavano a prendere da soli una decisione così cruciale, convocarono il Tsongdù di recente formazione. Questo, a sua volta, decise di chiedere consiglio a un numero ancor maggiore di rappresentanti del popolo. Così, nella mattinata storica dell'11 marzo 1959, si incontrarono circa mille tibetani - nobili, mercanti, monaci, piccoli commercianti e artigiani - e, per sette interi giorni, discussero su come avrebbero potuto salvare la vita del loro amato capo religioso e civile. In generale erano d'accordo che il Dalai Lama stesse correndo un estremo pericolo. Fu la più numerosa riunione di rappresentanti del popolo che mai si sia tenuta in Tibet, e la sua prima deliberazione fu quella di annullare il Trattato dei diciassette punti stipulato con i cinesi in violazione delle norme del diritto internazionale. Mentre in tutta fretta veniva convocata l'assemblea popolare, nelle strade di Lhasa risuonavano le grida più selvagge. La vita e la sicurezza dell'amato Dalai Lama erano in pericolo! Già all'alba del 10 marzo, le donne di Lhasa si accalcarono davanti ai cancelli del giardino del Norbulingka. Per le otto si erano radunate già mille donne: erano decise a non lasciar passare neppure un cinese. Alle dieci arrivarono gli alti lama per il loro incontro quotidiano con il dio-re. Fino a mezzogiorno continuò a ingrossarsi il muro umano difensivo attorno al palazzo giungendo a raccogliere più di diecimila donne, uomini e bambini, che rendevano inaccessibili tutti gli ingressi del Norbulingka. L'atmosfera era esplosiva. La folla sapeva che il Dalai Lama era atteso a uno spettacolo teatrale presso la guarnigione cinese, ma intendeva impedirgli a qualsiasi costo di andarci. Il traditore Phagpala lasciò il Norbulingka insieme agli altri monaci alla Heinrich Harrer
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fine dell'incontro. Poco dopo, tuttavia, tornò indietro, con l'evidente scopo di accompagnare il Dalai Lama alla guarnigione cinese. Questa volta, però, non era più vestito da monaco: indossava una giacca cinese e un velo bianco che gli copriva la parte inferiore del viso, nella speranza di passare inosservato. Quando i custodi all'ingresso principale lo fermarono, estrasse una pistola dalla giacca. Prima che potesse fare fuoco, le guardie lo immobilizzarono e gli strapparono il velo dal volto: la folla lo riconobbe subito! Scoppiò una selvaggia rivolta. Un uomo gli spaccò la testa con la sua spada tibetana. Durante la settimana in cui lo Tsongdù rimase a consiglio, la folla restò raccolta giorno e notte attorno al Norbulingka. Si formò spontaneamente un esercitò popolare di quindicimila persone, ciascuna delle quali era pronta a farsi ammazzare per il Dalai Lama. Intanto i soldati cinesi erano chiusi nelle loro baracche: nessun ufficiale osava abbandonare il suo acquartieramento. Un gran numero di tibetani si riunì davanti al consolato indiano e chiese sostegno. A questo punto il governatore cinese diede ordine di sparare due granate sul Norbulingka. Proprio tali spari decisero la situazione: poche ore dopo, 1'«ostaggio» per cui il governatore lottava - il Dalai Lama, il cui aiuto gli era indispensabile per sottomettere i tibetani - era nelle mani delle sue guardie. Alla fine fu una di quelle famigerate tempeste di sabbia a permettere al Dalai Lama, alla sua famiglia, ai suoi maestri, ministri e a un seguito di ottanta tra accompagnatori, guardie e servitori, di fuggire dal palazzo senza essere notati. La tempesta di sabbia, che si sollevò nel tardo pomeriggio e infuriò per tutta la sera, oscurò anche i raggi di luce dei riflettori che i cinesi avevano puntato sui giardini. I quindicimila tibetani che si erano messi di guardia dovettero coprirsi la testa con il cappotto e, così imbacuccati, porgere la schiena contro la tempesta che infuriava, finché questa non si placò. Ciò nonostante, nessuno tornò a casa... Mentre gli elementi della natura si scatenavano, il beneamato Dalai Lama, vestito come un comune servo della gleba, era confuso tra la gente. Attraversò il fiume su un battello del Ramagang e si precipitò a cavallo verso il Brahmaputra, nel territorio controllato dai khampa. Questo accadde la notte del 17 marzo 1959. Alle due del mattino del 18, gli ultimi cinquecento uomini del reggimento tibetano formarono una retroguardia per il Dalai Lama. Di questi uomini, ben quattrocento erano membri scelti del Khelenpa, ossia truppe suicide. Tutti avevano giurato Heinrich Harrer
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che sarebbero morti piuttosto che lasciar avvicinare un solo cinese al Dalai Lama. Durante la maggior parte del tempo di questa memorabile fuga, seguirono il Dalai Lama a una distanza di quattro giorni di cammino. La folla continuò a fare volontariamente la guardia al dio-re e al Norbulingka per altre quaranta ore. Non si verificarono nuovi imprevisti: tutti credevano che il Dalai Lama fosse ancora nella sua residenza e ciò gli garantì il necessario vantaggio. La mattina del 19 marzo i cinesi convocarono una riunione tra il loro generale e pochi altri collaborazionisti tibetani. Poi invitarono il Dalai Lama a lasciare il Norbulingka e gli «assicurarono» che avrebbero rispettato la sua persona e che non gli sarebbe successo niente. Promisero anche di non fare rappresaglie sulla popolazione di Lhasa, ma dichiararono che i «massimi reazionari» riuniti nel giardino dovevano venir eliminati. Siccome i cinesi non ricevettero alcuna risposta a queste «promesse», cominciarono a bombardare sistematicamente il palazzo per stanare il Dalai Lama. I cannoni erano puntati su tre lati dell'edificio. La prima granata distrusse il portone occidentale, ma era soltanto l'inizio di una sparatoria a tappeto sulla zona del palazzo che si estendeva per un miglio quadrato. Nell'area si trovavano non soltanto la residenza estiva del Dalai Lama, ma anche quelle degli abati, dei maestri, del cancelliere, dei ministri e delle guardie del corpo. Là c'erano poi le enormi stalle in cui venivano tenuti, oltre ai meravigliosi cavalli da corsa di corte, anche vecchi ronzini ormai stremati, pecore, capre e altri animali, che venivano curati e nutriti secondo l'uso buddhista. Questo bombardamento sembrava straordinariamente mirato. I cinesi cominciarono a segnare i confini dell'area con una serie di colpi, per poi fare una pausa. Con una seconda sparatoria si avvicinarono al centro; e, così, continuarono stringendo sempre più l'accerchiamento, finché non ebbero raso al suolo l'intera area. Dall'esterno verso l'interno abbatterono tutto sistematicamente, con diverse pause, per dare al Dalai Lama la possibilità di uscire. Volevano costringerlo a consegnarsi a loro. Durante questo tiro d'artiglieria protrattosi per ore, neanche uno dei quindicimila tibetani abbandonò la sua volontaria postazione di difesa davanti al palazzo: quel giorno molti caddero uccisi, mentre altri correvano qua e là negli edifici abbattuti, per mettere in salvo qualche oggetto sacro. Ancora nel corso della notte tra il 19 e il 20 marzo, il muro umano Heinrich Harrer
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circondava il Norbulingka, e soltanto verso mezzogiorno del 20 si seppe della fuga. Alcuni mezzi cinesi dotati di armi e di altoparlanti giravano per le strade e informavano che «il Dalai Lama sarebbe stato rapito». L'impatto su quella folla sterminata fu drammatico: da un lato la gente si sentì sollevata che il sovrano fosse al sicuro, dall'altro era sconvolta che i cinesi fossero riusciti a eludere la loro cintura difensiva. A questo punto cominciò la spietata guerra dei due giorni attorno a Lhasa, in cui persero la vita più di ottocento tibetani. Fu una strage di inermi. I cinesi spararono sulla folla disarmata e bombardarono case e templi, insieme con molti monasteri all'interno e intorno a Lhasa. Tra i caduti ci furono molti ragazzi della Tsogpa. Questo movimento clandestino consisteva prevalentemente di giovani tibetani che i cinesi avevano mandato a studiare a Pechino. Uno di loro, Ngawang Sengi, un intelligente figlio di un commerciante, era considerato dai comunisti una nuova leva molto promettente: era un allievo provetto a Pechino e vicemaestro benemerito nella sua scuola. Proprio lui, però - fatto in assoluto più deprecabile per quanto riguardava la realtà comunista in Cina e in Tibet -, al suo ritorno formò con amici e con vecchi compagni di scuola la Tsogpa. Come in Ungheria e in Polonia, anche qui i giovani ossia le persone che i comunisti si sforzavano di «educare» - costituivano il cuore del movimento rivoluzionario. Sengi, un giovane affascinante e vigoroso, era amato in tutte le classi sociali di Lhasa. Nella prima fase della rivolta la Tsogpa, da lui guidata, non giocò ancora alcun ruolo attivo, ma raccolse armi, munizioni e reclute per i khampa in lotta. Soltanto alla fine del massacro di Lhasa, Sengi contribuì alla fuga del battello del Ramagang: alle prime luci del giorno saltò per ultimo sull'imbarcazione e alzò entrambe le braccia per fare segno agli uomini di cui distingueva le sagome sulla sponda opposta. Pensava che fossero tibetani che coprivano la fuga dello Tsogpa, ma erano cinesi: quando lo videro sbracciarsi, lo uccisero. Quel giorno cadde un altro giovane eroe tibetano sul battello del Ramagang. Era Lobsang Gendon Sadutshang, che già nel 1950 aveva scelto di coprire la fuga del Dalai Lama. Sadutshang e Sengi sono solo due delle migliaia di tibetani che persero la vita nel massacro di questi giorni. Ma forse è stato risparmiato loro un destino peggiore, perché più tardi i cinesi ebbero il coraggio di fare irruzione nella città di Lhasa, piena di Heinrich Harrer
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cadaveri, di arrestare immediatamente tutti gli uomini vivi tra i sedici e i sessant'anni e di mandarli ai lavori forzati in Cina. Il 31 marzo 1959, con il sostegno del popolo, in particolare dei guerrieri khampa, il Dalai Lama raggiunse il confine indiano dell'Assam con tutto il suo seguito e andò a mettersi sotto la protezione dell'esercito indiano. La tesi dei cinesi che la rivolta sia stata organizzata dalla «classe reazionaria» è stata confutata da lungo tempo. I capi della rivolta, nel frattempo organizzatisi nell'«Esercito volontario nazionale per la difesa del Tibet», si sono proposti di attuare i cambiamenti voluti dal Dalai Lama nella struttura politica e sociale. In una dichiarazione del 1° gennaio 1959 si legge: Ci impegniamo a migliorare le condizioni del nostro popolo e il suo livello di vita. Ci impegniamo a compiere tutte le riforme necessarie nel paese in accordo con le condizioni naturali, i costumi e lo spirito del nostro popolo. Per quanto riguarda lo sviluppo economico promettiamo solennemente di sostenere con ogni forza la vita del nostro popolo nomade, degli agricoltori, degli artigiani e degli operai e di compiere innovazioni in tutti i settori della nostra vita nazionale. Ci riconosciamo in una politica che deve attuare questi cambiamenti con mezzi pacifici.
Epilogo Sono trascorsi all'incirca cinquant'anni da quando ebbi il privilegio di vivere in Tibet. Il Dalai Lama una volta disse: «Heinrich Harrer era diventato uno di noi, e ora che siamo più vecchi ci ricordiamo dei giorni felici vissuti insieme in un paese libero. Questo è un segno di vera amicizia, che non cambia, qualunque cosa succeda. L'amicizia e la disponibilità ad aiutarsi l'un l'altro rimangono per tutta la vita. Heinrich Harrer è sempre stato un amico per il Tibet. Il suo maggior contributo alla nostra causa è però senza dubbio il libro Sette anni nel Tibet, che ha fatto conoscere il mio paese a milioni di uomini. Egli continua ancora oggi a combattere per la libertà del popolo tibetano, e gliene siamo riconoscenti». Quando Peter Aufschnaiter e io, valicando numerosi passi alti più di Heinrich Harrer
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seimila metri, raggiungemmo, dopo quasi due anni, Lhasa, eravamo pieni di geloni e vesciche, avevamo fame ed eravamo malati. Se il governo tibetano ci avesse riportati al confine indiano, non ce ne saremmo sorpresi. Dopotutto il Tibet era ancora un paese proibito, e la città santa lo era in modo particolare. Ma avvenne il contrario. Ebbero compassione di noi, ci diedero cibo, vestiti caldi e una casa, ottenemmo un lavoro e diventammo parte integrante della loro comunità. Nessuno pensava, mentre vivevamo felici a Lhasa, che sarebbe venuto il giorno in cui avremmo dovuto lasciare questo pacifico paese sul «Tetto del mondo». Nel 1951 l'armata rossa cinese occupò il paese e il Dalai Lama, insieme con circa centomila tibetani, fu costretto a fuggire in India. Non ci sono parole per descrivere ciò che da allora è successo nel «Paese della neve»: un milione e duecentomila tibetani hanno perso la vita, il novantanove per cento dei seimila edifici sacri è stato distrutto. È più che naturale che tutti coloro che amano il Tibet e il suo coraggioso popolo, nel momento in cui hanno bisogno di sostegno, si impegnino per la loro causa. In questa battaglia rientrano conferenze per le diverse organizzazioni di aiuto al Tibet, insieme con la pubblicazione di vecchie fotografie: praticamente nessuno dei tibetani che oggi vivono in esilio ha mai visto com'era il suo paese prima che venisse distrutto. Sono inoltre orgoglioso del fatto che il libro Sette anni nel Tibet sia ora stampato anche in caratteri tibetani. A ciò si aggiunge la sua riduzione a documentario cinematografico. Il produttore promette di mostrare l'invasione e la sofferenza dei tibetani, per aiutare la loro causa. Il fatto che Jean-Jacques Annaud, con la sua nota scrupolosità, ne sia il regista è fonte di sicura garanzia. Non appena sono cominciate le riprese la Cina ha esercitato pressioni su tutti gli stati vicini e quindi, per girare il film, ci si è dovuti spostare dall'Himalaia alle Ande. Questa paura e l'inchino alla potenza cinese ben si accordano con l'atteggiamento assunto dalla Commissione per i diritti umani, che a Ginevra, nell'aprile del 1996, ha condannato sei nazioni, ma non la Cina. In quanto a me, da quando ho lasciato il Tibet ho conosciuto molti altri paesi e popoli interessanti. Spesso, invecchiando, si cambiano motivazioni e preferenze; ma riguardo all'Asia, e in particolare al Tibet, il fascino che esercitano su di me non si è infranto, e ogni anno compio un viaggio in uno dei paesi dell'Himalaia. Solo i confini del Tibet sono tabù, essendo io Heinrich Harrer
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«persona non gradita», ma questo non lo considero altro che un onore. Un ufficiale britannico, tra le due guerre mondiali, disse che, con l'invenzione degli aeroplani, tutto il mondo era ormai diventato accessibile. Ma, aggiunse, c'è ancora un ultimo mistero. Sul «Tetto del mondo» c'è un paese sterminato in cui accadono prodigi. Là ci sono monaci che separano lo spirito dal corpo e si librano nell'aria, e oracoli che predicono gli avvenimenti. Il paese è circondato dalle montagne più alte della terra e il suo sovrano è un dio vivente. La sua dimora, una rocca di bellezza senza pari posta su una rupe rossa, è terra proibita, mentre la capitale Lhasa viene custodita severamente da monaci. Non sorprende che missionari, intellettuali, avventurieri e studiosi fossero interessati a indagare i segreti e i misteri di questo paese. Il destino riservò a Peter Aufschnaiter e a me di vivere nel misterioso Tibet durante il suo medioevo, ma fummo testimoni anche del suo tramonto, quando il velo venne lacerato con violenza e la millenaria cultura andò distrutta. Già nella prima giovinezza leggevo soltanto libri di viaggi. Miei principali modelli erano Alexander von Humboldt e soprattutto il leggendario esploratore svedese dell'Asia, Sven Hedin. Mi hanno sempre affascinato in modo particolare le sue avventure nel Tibet; e quando, durante la seconda guerra mondiale, il nostro campo di prigionia in India venne trasferito ai piedi dell'Himalaia, i miei tentativi di fuga si indirizzarono, del tutto naturalmente, verso il Tibet, quella terra proibita sul «Tetto del mondo», chiusa persino alla vicina colonia britannica a sud. Una cosa vorrei mettere in chiaro fin dal principio: gli inglesi ci trattarono secondo la Convenzione di Ginevra. Stare dietro il filo spinato non era affatto qualcosa di intollerabile, per certi aspetti era anche piuttosto piacevole. Potevamo leggere, praticare attività sportive, fare escursioni negli immediati dintorni e avevamo sempre da mangiare in abbondanza. Non c'era quindi alcun motivo per fuggire. Se volevo andarmene, era per conquistare nuove mete. Può darsi che fosse l'eterna spinta nell'uomo alla libertà, ma certo per me era anche l'amore per le montagne e forse anche l'idea assurda di raggiungere il Tibet, la terra proibita, oltre le vicine montagne dell'Himalaia.
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Il libro Sette anni nel Tibet termina nella primavera del 1951, quando dissi addio, dopo anni, al «Paese della neve», la mia seconda patria, e al mio giovane amico, il quattordicesimo Dalai Lama, nel Tibet meridionale. Questa volta non ero io a desiderare di andarmene o di fuggire. Al contrario. Prima di varcare il confine con l'India, scattai ancora una foto, l'ultima, al dio-re nel Tibet libero. Fu la prima foto di copertina a colori della rivista «Life» (7 maggio 1951). Il mondo apprese così dell'invasione cinese del Tibet. Nel 1952, durante il mio ritorno in Austria, il Dalai Lama decise di rimanere in Tibet con i suoi ministri, credendo che i cinesi avrebbero rispettato almeno il Trattato dei diciassette punti, che loro stessi avevano imposto e che i tibetani erano stati costretti ad accettare. Sugli anni che seguirono non c'è molto da dire. La vita sotto l'invasore straniero non fece che peggiorare. Durante una sollevazione popolare a Lhasa, nel marzo del 1959, il Dalai Lama riuscì a fuggire e a raggiungere l'India dopo settimane di dure privazioni. Pandit Nehru accolse l'importante profugo. Anch'io potei salutarlo a Tezpur, nella regione indiana dell'Assam, esattamente quindici anni dopo aver lasciato il campo di prigionia di Dehra Dun. Accolti con generosità, a Dharamsala i rifugiati poterono formare un governo non ufficiale in esilio. Gli anni seguenti furono difficili. Nel 1962 il Dalai Lama perse l'amata madre e poco dopo morì anche suo fratello Lobsang Samten, più anziano di lui, all'età di soli cinquant'anni. Era stato il suo maggior sostegno durante l'esilio. Nel frattempo l'ammirazione e la stima per il Dalai Lama sono diventate universali. Con gran rammarico dei cinesi è cresciuto il desiderio di libertà e di indipendenza dei tibetani. È per merito del Dalai Lama, del suo carisma, che si conosce il popolo dei tibetani con la sua cultura bimillenaria e che si guarda alla distruzione dei suoi valori come a una grave perdita. Senza dubbio il conferimento del premio Nobel per la pace nel 1989 è stato uno dei momenti culminanti nella vita del dio-re. Naturalmente mi riempie di orgoglio vedere il Dalai Lama ricevere onori ed essere amico di questo grande personaggio. Sono anche fiero quando vedo rifugiati tibetani avere successo e godere di stima in esilio. Ma soprattutto sarò loro sempre grato per avermi accolto con generosità a Lhasa. Il mio impegno per la loro causa è più che naturale. Per un caso sorprendente, il dio-re e io compiamo entrambi gli anni il 6 Heinrich Harrer
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luglio. Il 25 luglio 1992, quando il Dalai Lama ha inaugurato e aperto il museo Heinrich Harrer, è stato senz'altro il giorno più importante nella storia del mio paese natale, Hùttenberg, in Carinzia. Dopo più di quarant'anni di occupazione, la distruzione del Tibet prosegue. Della mia vecchia Lhasa rimane forse solo una minima percentuale. Lhasa è diventata una città cinese. Una quantità di negozi cinesi, centinaia di bar e case da gioco, locali con lanterne rosse tutt'attorno al Potala, per divertire le truppe d'occupazione, decenni di distruzione, repressione, epurazioni, genocidi e indottrinamento politico, tutto questo non è riuscito a spezzare il desiderio di libertà dei tibetani. La loro fiducia e il loro rispetto per il Dalai Lama non sono diminuiti. In tutto il mondo il Dalai Lama riceve dimostrazioni di simpatia, dichiarazioni e promesse, purtroppo non seguite dai fatti. I profitti materiali sono più importanti dei diritti umani. Vedo tuttavia giungere il giorno della libertà, e quanti amano il Dalai Lama e il suo popolo andranno in processione al Potala, straordinario monumento della creatività tibetana. Anche se prosegue la distruzione dei beni culturali, neppure i cinesi riusciranno ad abbattere le più alte montagne del mondo, trono degli dei tibetani, che circondano il paese. E perciò anche in futuro i tibetani più devoti, valicando gli alti passi, potranno dire: «Gli dei vinceranno!». Novembre 1996 H.H.
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