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J.R.R. TOLKIEN ROVERANDOM LE AVVENTURE DI UN CANE ALATO (Roverandom, 1998) Questo libro è dedicato alla memoria di Michael Hilary Reuel Tolkien 1920-1984 INTRODUZIONE Nell'estate del 1925, J.R.R. Tolkien, sua moglie Edith e i loro figli John (di quasi 8 anni), Michael (di quasi 5 anni) e Christopher (di non ancora un anno) andarono in vacanza a Filey, una cittadina costiera dello Yorkshire ancor oggi nota come centro turistico. Si trattava di una vacanza imprevista organizzata per festeggiare la nomina di Tolkien alla cattedra «Rawlinson e Bosworth» a Oxford per l'insegnamento di anglosassone, incarico che l'autore avrebbe assunto a partire dal 1° ottobre di quell'anno. Una vacanza intesa forse come periodo di riposo, in quanto non solo lo attendeva l'incarico oxoniano, ma per due trimestri avrebbe dovuto continuare a insegnare presso l'Università di Leeds giacché i due impegni si accavallavano. Per tre o quattro settimane - come si spiega più avanti, c'è incertezza sulle date - i Tolkien affittarono a Filey un cottage edoardiano, forse di proprietà del direttore dell'ufficio postale, arrampicato su un costone di roccia che dominava la spiaggia e il mare. Da questo osservatorio privilegiato la vista a oriente non aveva ostacoli e il piccolo John Tolkien fu molto emozionato nel veder sorgere dalle acque del mare, in un paio di notti senza nubi, la luna piena che tracciava un «sentiero» sulle onde con la sua scia d'argento. A quell'epoca Michael Tolkien andava matto per un giocattolino, un cane di stagno in miniatura, a macchie bianche e nere. Mangiava e dormiva con questo cagnetto, portandoselo sempre dietro; era riluttante a separarsene perfino quando doveva lavarsi le mani. Tuttavia, durante la permanenza a Filey, un giorno andò a fare una passeggiata con il padre e il fratellino maggiore e, mentre si dedicava con entusiasmo a far rimbalzare sassolini nell'acqua, posò il cagnolino sulla spiaggia di ciottoli bianchi. Su quello sfondo era praticamente impossibile distinguerlo e il giocattolo andò perso. Michael si disperò quando, nonostante le ricerche dei ragazzi e del padre proseguissero anche il giorno dopo, non riuscì a trovare il suo cagnetto. Per un bambino la perdita del giocattolo preferito è un trauma, e fu senza
dubbio pensando a questo che Tolkien ebbe l'ispirazione di escogitare una sorta di spiegazione per quel che era accaduto: una favola in cui un cane in carne e ossa, di nome Rover (Girandolone) è trasformato in giocattolo da uno stregone, viene smarrito su una spiaggia da un ragazzino molto somigliante a Michael, incontra un divertente «mago della sabbia» e vive una serie di avventure sulla luna e in fondo al mare. Almeno, è così che l'intera storia di Roverandom risulta nella sua versione scritta definitiva. Che non nascesse subito completa e che fosse pensata e narrata frammentariamente lo si può dedurre dal carattere episodico e dalla lunghezza; lo si può verificare da un appunto, tanto breve da destare curiosità, contenuto nel diario di Tolkien (scritto quasi certamente nel 1926 a compendio degli avvenimenti del 1925) a proposito della composizione di Roverandom a Filey: «La storia di "Roverandom" scritta per divertire John (e anche me, via via che si sviluppava) è arrivata in fondo». Sfortunatamente non possiamo sapere con esattezza cosa intendesse Tolkien con «è arrivata in fondo»: forse soltanto che il racconto (com'era allora) era stato completato durante la vacanza, e nulla di più... Tuttavia la nota tra parentesi conferma che la storia prendeva forma a mano a mano che lui la raccontava. È strano che si menzioni solo John nell'appunto sul diario, quando dietro la storia di Rover c'era il dolore sofferto da Michael. Forse Michael si era accontentato del primo episodio, quello che spiegava la scomparsa del suo giocattolo, ed era meno interessato di John al seguito. Lo stesso Tolkien si appassionò al racconto, che, procedendo, diventò più complesso. Ma non è documentato in che forma esattamente Roverandom sia stato concepito, né esiste oggi qualcuno in grado di dire - per esempio - se tutti i suoi sapienti giochi di parole e le allusioni a miti e leggende facessero parte della narrazione sin dall'inizio, o siano stati aggiunti durante la stesura. Nel suo diario Tolkien, dopo un intervallo di qualche mese, annotò di essersi trasferito con la famiglia a Filey (da Leeds) il 6 settembre 1925 e di esservi rimasto sino al 27 settembre. Ma almeno la prima di queste due date deve essere inesatta (ed è erroneamente registrata nel diario come sabato mentre era domenica). Considerato che il ricordo della luna piena che brilla sul mare è ancora vivo nella memoria di John, e che la scia luminosa ispirò il «sentiero lunare» percorso da Rover, i Tolkien dovevano essere stati a Filey durante il plenilunio, che nel settembre del 1925 cominciò martedì, il 2. Si può affermare con certezza che si trovassero a Filey il pomeriggio di sabato 5 settembre, quando la costa nordorientale dell'Inghilterra fu colpita da una tremenda tempesta. I ricordi di John Tol-
kien risultano di nuovo molto precisi e vengono confermati dai resoconti dei giornali. Il livello del mare salì molto prima di quanto non fosse prevista l'alta marea, superando la barriera frangiflutti e spazzando il lungomare di Filey, danneggiando le costruzioni lungo la costa e sconquassando la spiaggia, eliminando così ogni residua speranza di ritrovare il giocattolo di Michael. I forti venti fecero vibrare talmente il cottage da tener sveglia la famiglia Tolkien tutta la notte, nel timore che il tetto volasse via. John ricorda che suo padre raccontò una storia ai suoi due figli più grandicelli per tenerli calmi: e fu allora che cominciò a raccontare loro la storia del cane Rover, che diventò il magico «Roverandom». La tempesta stessa ha senza dubbio ispirato l'episodio, verso la fine della novella, in cui il vecchio Serpente Marino comincia a svegliarsi e con i movimenti delle sue spire provoca grandi sconvolgimenti atmosferici. («Quando distendeva un paio di spire nel sonno, l'acqua si gonfiava e sobbolliva e piegava le case e disturbava il riposo della gente per miglia intorno.») Non v'è alcuna prova che Roverandom sia stato scritto mentre Tolkien era a Filey. Tuttavia, uno dei cinque disegni fatti per illustrare il racconto il paesaggio lunare qui riprodotto - è datato 1925, e si può presumere che sia stato eseguito quell'estate a Filey. Altre tre illustrazioni datano a partire dal settembre 1927, quando i Tolkien erano in vacanza a Lyme Regis, sulla costa meridionale britannica, e sono: Il Dragone Bianco dà la caccia a Roverandom e al cane-luna, dedicata a John Tolkien; La casa dove Rover iniziò le sue avventure come giocattolo con una dedica a Christopher Tolkien; e lo splendido acquarello I giardini del palazzo del Re del Mare. Su ognuno di questi fogli si può leggere l'indicazione del mese e dell'anno. Un disegno di Rover che arriva sulla luna in groppa al gabbiano Mew è datato «1927-8». Tutte le immagini sono riprodotte in questo volume. La presenza di illustrazioni datate settembre 1927 suggerisce che la favola di Roverandom sia stata raccontata ancora a Lyme Regis, forse perché i Tolkien si trovavano di nuovo in vacanza al mare e ricordarono quel che era accaduto a Filey due anni prima. La dedica a Christopher Tolkien sul disegno intitolato La casa dove Rover iniziò le sue avventure come giocattolo suggerisce inoltre che ora Christopher era abbastanza grande per apprezzare Roverandom (nel settembre del 1925, infatti, era poco più che un poppante) e che la storia gli sia stata raccontata di nuovo almeno in parte giacché non l'aveva sentita nella precedente occasione. Il riaccendersi dell'interesse per Roverandom nell'estate del 1927 può esser stato lo stimolo che alla fine spinse Tolkien a trasferire il racconto su
carta; pare che l'abbia fatto più avanti in quello stesso anno, probabilmente durante le vacanze di Natale. Siamo propensi a crederlo - ma possiamo solo fare congetture, in mancanza di un manoscritto datato o di un'altra prova concreta - basandoci su due indizi interessanti anche se piuttosto deboli. Tutti e due riguardano la fine del secondo capitolo di Roverandom, nel quale si racconta di come il Grande Dragone Bianco è disturbato da Roverandom e dal suo amico il cane-luna, e li insegue in una caccia furiosa. Il dragone è descritto come un frequente piantagrane: «Quando dava una dragon-festa o aveva una crisi di nervi faceva uscire dalla caverna vere lingue di fuoco verdi e rosse; e frequenti erano le nuvole di fumo. Un paio di volte aveva fatto diventare tutta la luna rossa o l'aveva oscurata completamente... In quelle situazioni così difficili l'Uomo-sulla-Luna... si limitava a scendere nelle cantine, a sprigionare gli incantesimi più efficaci e a risistemare tutto il più in fretta possibile». Nell'episodio attuale il suo inseguimento ai due cani è interrotto dall'Uomo-sulla-Luna all'ultimo momento, con un sortilegio che colpisce il drago in pieno stomaco. Per questa ragione «l'eclissi seguente non riuscì affatto perché il dragone era troppo intento a leccarsi il pancino per occuparsene». Un riferimento al fatto che le eclissi lunari erano provocate dal fumo dei draghi, come stabilito in un passaggio precedente. Gli elementi inclusi in questo capitolo - uno dei quali (un dragone rompiscatole sulla luna) faceva certamente parte della storia nel settembre del 1927, come dimostra il disegno con la data - compaiono in forma molto simile in un'inedita lettera-favola che Tolkien scrisse ai figli nel dicembre di quell'anno nelle vesti di Babbo Natale. In essa - una delle tante notevoli lettere di Babbo Natale che Tolkien scrisse ai figli tra il 1920 e il 1943 l'Uomo-sulla-Luna va al Polo Nord e beve troppo brandy mentre mangia il plum-pudding giocando a snapdragon. 1 Crolla addormentato ed è spinto sotto al divano dall'Orso Polare del Polo Nord, restandovi fino al giorno dopo. In sua assenza i dragoni vanno in giro sulla luna e fanno un tale polverone da provocare un'eclissi. L'Uomo-sulla-Luna è costretto a tornare a precipizio e a fare un mirabolante incantesimo per rimettere le cose a posto. Le somiglianze fra questo episodio e quello del Grande Dragone Bianco descritto in Roverandom sono troppe per essere casuali; da ciò si potrebbe dedurre che Tolkien aveva in mente Roverandom mentre scriveva la lette1
Gioco natalizio che consiste nell'afferrare chicchi di uvetta intinti nel brandy acceso. [N.d.T.]
rina di Natale nel dicembre del 1927. È impossibile dire se l'idea dei dragoni-lunari provocatori di eclissi sia stata presentata prima nella lettera o se sia stata estrapolata per l'occasione da un'invenzione già esistente in Roverandom; ma tra i due lavori ci deve senz'altro essere una connessione. Le vacanze natalizie offrirono a Tolkien una pausa lontano dalle responsabilità accademiche, durante la quale avrebbe potuto buttar giù Roverandom; e benché non sia certo che l'abbia fatto nel dicembre del 1927, un altro indizio porta a quella data, almeno come terminus a quo per il primo testo (non datato) che possediamo: il riferimento a un'eclissi mancata. Nel primo testo «L'eclissi seguente non riuscì affatto» già citato è seguito dall'annotazione «l'hanno detto gli astronomi (i fotografi)». E a dire il vero fu questa l'opinione prevalente, riportata nel Times di Londra, secondo la quale l'eclissi dell'8 dicembre 1927 fu nascosta agli osservatori inglesi dalle nuvole. A questo proposito la letterina di Babbo Natale del 1927 ci è ancora utile perché data l'eclissi verificatasi durante l'assenza dell'Uomosulla-Luna esattamente all'8 dicembre, confermando così che Tolkien era informato di quanto avveniva nel mondo reale. La prima delle versioni esistenti di Roverandom è una delle quattro conservate tra i manoscritti di Tolkien alla Bodleian Library di Oxford. Sfortunatamente un quinto è andato perduto, corrispondente al primo capitolo e alla prima metà del secondo. Ne restano ventidue pagine, vergate in fretta, a volte con grafia di difficile interpretazione su una varietà di fogli (forse strappati da quaderni di esercizi scolastici), e con numerosi ritocchi. Questo testo fu seguito da tre stesure battute a macchina, anch'esse non datate, nel corso delle quali Tolkien allungò progressivamente la storia apportandovi diversi miglioramenti stilistici e di dettaglio pur senza modificare la sostanza della trama. Il primo dattiloscritto, consistente di trentanove pagine fittissime di correzioni, segue molto da vicino il manoscritto ed è stato di grande aiuto per decifrare le parti più illeggibili del primo testo. Tuttavia verso la fine differisce in modo rilevante dal precedente, dove il passaggio nel quale Rover riprende il suo aspetto e la sua dimensione naturale (prima quasi un anticlimax ora invece momento drammatico quanto umoristico) è molto più esteso. Il nuovo testo si intitolava all'origine Le avventure di Rover, ma Tolkien lo cambiò a penna in Roverandom, titolo preferito da allora in poi. Il secondo dei tre dattiloscritti s'interrompe, a quanto pare per consapevole decisione dell'autore, dopo appena nove pagine, con poche righe soltanto nel foglio finale. Va dall'inizio della storia fino al punto in cui la luna
«cominciò a tracciare il suo luminoso sentiero sulle onde». Inoltre, un frammento è stato battuto anche su quel che ora è il rovescio di una pagina: immediatamente ripudiato da Tolkien, che tornò a quello sull'altro lato, modificandolo ancora e continuandolo. In tutta la sua estensione, il secondo dattiloscritto ha inglobato le modifiche apportate al primo e include alcune ulteriori migliorie. Ma forse è più importante soffermarsi sull'aspetto ordinato di questa versione, che la differenzia dal precedente dattiloscritto. Ora Tolkien badava ai particolari della presentazione: per esempio scrivere a macchina e non a mano la numerazione delle pagine, spezzare i dialoghi andando a capo ogni volta che un personaggio diverso prendeva la parola mentre prima (in quella che era chiaramente una copia di lavoro) i dialoghi stessi erano scritti di seguito, senza interruzioni. Inoltre, il nuovo dattiloscritto presenta solo rare correzioni, annotate con grande cura: per la maggior parte, comunque, si tratta di errori di battitura. Questa forma migliorata ci induce a sospettare che Tolkien stesse preparando il secondo dattiloscritto per presentarlo al suo editore, George Alien & Unwin, sul finire del 1936. A quell'epoca Lo hobbit era già stato accolto con entusiasmo, e benché fosse ancora in produzione e non ancora un conclamato successo, Tolkien era stato invitato a presentare altre storie per bambini, in vista di una futura pubblicazione. Aveva aderito alla richiesta inviando ad Alien & Unwin un libro d'immagini, Mr. Bliss, un racconto pseudo-medievale, Farmer Giles of Ham, e Roverandom. Se il frammentario dattiloscritto numero due fu fatto a questo scopo, come crediamo, può darsi che Tolkien l'abbia abbandonato perché non ne era ancora del tutto soddisfatto; o forse perché, come le stesure precedenti, era stato realizzato su fogli che parevano strappati da quaderni, con uno dei lati lunghi un po' irregolare, e l'autore desiderava che il proprio lavoro si presentasse in modo più professionale. Il terzo e ultimo dattiloscritto di Roverandom appare in perfetto ordine (pur presentando ancora alcune modifiche) e consta di sessanta fogli di carta di buona qualità, sebbene non tutti uguali; in questa stesura il testo fu diviso in capitoli e furono apportati altri cambiamenti, piccoli ma numerosi, nei dialoghi e nelle descrizioni, nella punteggiatura e nella divisione dei paragrafi. È quasi certamente questo il testo che Tolkien presentò ad Alien & Unwin e che il presidente della casa editrice, Stanley Unwin, diede al proprio giovane figlio Rayner perché lo valutasse. In data 7 gennaio 1937, Rayner Unwin nel suo giudizio di lettura definì il racconto «ben scritto e divertente», ma nonostante la recensione favore-
vole non fu accettato per la pubblicazione. Roverandom, come annotò Stanley Unwin nei propri appunti, sembrava uno dei «brevi racconti fantastici in vari stili» che - si credeva - Tolkien avesse praticamente pronti per la pubblicazione nell'ottobre del 1937; ma a quella data il successo di Lo hobbit era tale che Allen & Unwin pretese un seguito - soprattutto altre storie sugli «hobbit» - e si direbbe che Roverandom non sia stato più preso in considerazione né dall'autore né dall'editore. L'attenzione di Tolkien ora era tutta concentrata sul «nuovo Hobbit», l'opera che sarebbe stata il suo capolavoro: Il Signore degli Anelli. Non è esagerato dire che Il Signore degli Anelli non sarebbe stato concepito se non ci fossero stati racconti come Roverandom, in quanto il fatto che piacessero tanto ai figli di Tolkien, e a Tolkien stesso, portò finalmente a un lavoro più ambizioso - Lo hobbit - e poi al seguito. Erano per lo più racconti brevi: alcuni ebbero una redazione scritta e fra questi molti non furono ultimati. Tolkien aveva assunto con gioia il ruolo di cantastorie per i suoi figli, almeno a partire dal 1920, quando aveva scritto la prima delle sue letterine di Babbo Natale. Ci furono anche racconti sul «cattivo» Bill Stickers e sul suo avversario, sul Maggiore Road Ahead, sul minuscolo omino Timothy Titus e sullo smargiasso Tom Bombadil, ispirato da un bambolotto olandese di Michael Tolkien. Ma nessuno di questi personaggi andò molto lontano, anche se Tom Bombadil trovò più tardi un suo piccolo spazio nelle poesie e nel Signore degli Anelli. The Orgog, un racconto molto strano e alquanto più lungo, fu scritto nel 1924; ne esiste il dattiloscritto ma è incompiuto e non elaborato del tutto. Roverandom, invece, è completo e ben costruito; si distingue ulteriormente fra le composizioni di fantasia create per i bambini Tolkien per il gusto sfrenato con il quale l'autore si dedicò ai giochi di parole. Sovrabbondante di quasi omofoni (per es.: Persia e Pershore 2 ), di onomatopee e allitterazioni (come quelle evocanti le sfumature e i registri delle voci canine), di elenchi descrittivi resi comici dalla loro lunghezza («attrezzature, decorazioni, emblemi e simboli, appunti e promemoria, libri di ricette, filtri, congegni, borse e bottiglie di incantesimi diversi» nel laboratorio di Artaserse), di frasi assolutamente inattese (l'Uomo-sulIa-Luna «scomparve nell'aria fina; e chiunque non sia mai stato sulla luna ti potrà dire quanto sia fina l'aria lassù»). Include anche tutta una serie di espressioni collo2
Resi nella traduzione con Persia e Persici e riflessi per estensione anche in termini quali «frutto del persico» e «persiche». [N.d.T.]
quiali infantili (come whizz, splosh, tummy e uncomfy 3 ) molto interessanti in quanto mai presenti nelle opere già pubblicate di Tolkien, o perché omesse ab initio nei manoscritti o perché sostituite nel corso della revisione. In Lo hobbit, per esempio, tummy, «pancino», fu sostituito da stomach, «stomaco». Qui tali espressioni sono certamente sopravvissute grazie alla forma orale con cui la favola era stata raccontata inizialmente ai bambini Tolkien. E che Tolkien in Roverandom abbia incluso anche termini quali paraphernalia e phosphorescent, primordial e rigmarole4 fa davvero piacere, specie di questi tempi nei quali un linguaggio del genere è considerato «troppo difficile» per i bambini: opinione con cui Tolkien avrebbe discordato. Una volta, nell'aprile del 1959, annotò: «Un lessico ricco non si ottiene leggendo libri scritti secondo l'idea che qualcuno si è fatta del linguaggio usato da ragazzi appartenenti a una determinata fascia di età. Si ottiene dalla lettura di testi ben al di sopra di quel limite.» (Letters of J.R.R. Tolkien, 1981, pagg. 298-9). Roverandom è notevole anche per la varietà di materiale biografico e letterario che vi fu utilizzato. Prima di tutto, la famiglia Tolkien, e l'autore in persona: vi figurano i genitori e i bambini o (come nel caso del piccolo Christopher) vi si fa riferimento; il cottage e la spiaggia di Filey compaiono in tre capitoli; Tolkien esprime più volte le proprie idee su rifiuti e inquinamento; e ogni accadimento di quelle vacanze del 1925 - la luna che splendeva sul mare, la grande tempesta, e soprattutto la perdita del cagnetto giocattolo di Michael - è divenuto ingrediente del racconto. A questi elementi poi Tolkien ha aggiunto una miriade di riferimenti a miti e fiabe, alle saghe nordiche e al mondo della narrativa per l'infanzia, tradizionale e moderna: il Dragone Bianco e il Dragone Rosso delle leggende britanniche, re Artù e Merlino, i mitici abitanti degli abissi (tra i tanti, le sirene, Niord e il Vecchio del Mare), il serpente Midgard, attingendo anche ai libri di «Psammead» di E. Nesbit, a Attraverso lo specchio e a Sylvie e Bruno di Lewis Carroll, perfino alle operette musicali di Gilbert e Sullivan. Un campo vasto, ma questi materiali tanto diversi si amalgamano perfettamente nelle mani di Tolkien, con gran divertimento per chi riconosce le allusioni. 3
Resi nella traduzione con Persia e Persici e riflessi per estensione anche in termini quali «frutto del persico» e «persiche». [N.d.T.] 4 Non altrettanto difficili i termini italiani: attrezzature, fosforescente, primordiale e tiratura. [N.d.T.]
Nelle brevi note in fondo al volume forniamo chiarimenti sulle fonti di Tolkien (accertate o probabili) per Roverandom come pure su alcune parole oscure, tipiche espressioni inglesi che possono risultare sconosciute a lettori di altri Paesi e su altri argomenti di particolare interesse. Qui, nell'introduzione, ci sembra opportuno mettere a fuoco altri punti. Nella celebre prolusione «Andrew Lang» del 1939 Sul racconto fantastico, Tolkien tuonò contro la «minuziosità entomologica» di molte descrizioni di esseri magici, citando in particolare Nymphidia di Michael Drayton, in cui il cavalier Pigwiggen cavalca un'«impetuosa forbicina» e «fissa convegno in un fior di primula». Ma all'epoca di Roverandom non aveva ancora eliminato idee stravaganti come gli gnomi lunari che cavalcano conigli e ricavano frittelle dai fiocchi di neve, o le fate marine che viaggiano in carrozze di conchiglie trainate da pesciolini. Solo dieci anni prima aveva pubblicato i versi di Goblin Feet (1915), ormai celebre opera giovanile, nella quale l'autore sente «minuscole trombe di magici folletti» e si sofferma sugli «abitucci» e i «piedini felici»; come lo stesso Tolkien ammise una volta, negli anni Venti e Trenta era «ancora influenzato dalla convenzione secondo la quale i "racconti di fate" sono rivolti ai bambini». (Letters, pag 297, stesura dell'aprile 1959.) Per questa ragione si servì a volte di raffigurazioni e di modi d'espressione da «fiaba»: gli elfi giocosi e canterini di Rivendell in Lo hobbit, per esempio e, sia in quel libro ma più ancora in Roverandom, l'importante voce dell'autore (o del genitore) che racconta. In seguito Tolkien rimpianse di aver «buttato giù» delle storie per i suoi figli e in modo particolare gli avrebbe fatto piacere che i versi di Goblin Feet fossero sepolti e dimenticati. Nel frattempo le fate (e poi gli elfi) della sua immaginata, mitica «Silmarillion» spiccavano con nobile eleganza, senza alcuna possibile somiglianza con «Pigwiggenry». In maniera quasi inevitabile Roverandom fu attirato nell'ambito della mitologia di Tolkien (o legendarium), che a quell'epoca l'autore aveva già sviluppato da una decina d'anni e più e che gli creava preoccupazione. Si possono fare molti paragoni fra le sue opere. Per esempio, il giardino sul lato buio della luna in Roverandom ricorda molto da vicino la Casetta del Gioco Perduto in Racconti ritrovati, il primo testo in prosa del legendarium. Qui i bambini «danzavano e giocavano... raccogliendo fiori o rincorrendo le api dorate e le farfalle dalle ali ricamate» (Parte Prima, pubblicata nel 1983) mentre nel giardino sulla luna «danzavano sonnolenti, camminavano come in sogno e parlavano tra sé. Alcuni si muovevano quasi si stessero appena svegliando da un profondo sopore; altri correvano già ben
desti e sorridenti: zappettavano, coglievano fiori, costruivano case e tende, inseguivano farfalle, giocavano a pallone, si arrampicavano sugli alberi: e tutti, proprio tutti, cantavano». L'Uomo-sulla-Luna non dirà come sono arrivati nel suo giardino i bambini, ma a un certo punto Roverandom guarda verso la terra e gli sembra di scorgere «lunghe fila sottili e sbiadite di gente piccola che... veleggiava rapida» sulla scia lunare: ma mentre i bambini giungono nel giardino addormentati, pare certo che Tolkien avesse in mente la visione già esistente dell'Olórë Mallë o Sentiero dei Sogni che conduceva alla Casetta del Gioco Perduto: «ponti slanciati sospesi nell'aria e con un incerto scialbo brillio come se fossero di nebbie setose nel raggio di una luna nuova», un sentiero che nessun occhio umano ha mai visto, «se non nei dolci torpori della gioventù del cuore» (Racconti ritrovati, Parte Prima). Il collegamento più curioso fra Roverandom e la mitologia, comunque, si verifica quando la «balena più anziana», Uin, mostra a Roverandom «la grande Baia del Paese delle Fate (come lo chiamiamo noi), al di là delle Isole Magiche» e, più oltre, «nell'occidente più remoto, le Montagne della Casa degli Elfi e la luce del Regno delle Fate sulle onde» nonché «la Città degli Elfi su una verde collina ai piedi delle montagne». È proprio questa la geografia della parte occidentale del mondo in Il Silmarillion, per quanto di quel lavoro esisteva negli anni Venti e Trenta. Le «Mountains of Elvenhome», cioè le Montagne delle Case degli Elfi, sono i monti di Valinor nell'Aman e la «Città degli Elfi» è Tun, il nome usato sia nella mitologia sia nella prima stesura (e solo in quella) di Roverandom. Anche Uin proviene da Racconti ritrovati e, benché qui non sia come la sua omonima «la più potente e la più anziana fra le balene» (Parte Prima), pure riesce a portare Roverandom in vista delle Terre Occidentali, che a questo punto dello sviluppo del legendarium erano celate a occhi mortali da acque oscure e pericolose. Uin dice che «le avrebbe prese» se qualcuno (forse i Vaiar, cioè gli dei che risiedono a Valinor) avesse scoperto che lei aveva fatto vedere Aman a chi (anche se solo un cane!) proveniva dalle «Terre di Fuori», cioè dalla Terra-di-Mezzo, il mondo dei mortali. In Roverandom quel mondo sotto alcuni aspetti s'identifica col nostro, e molti luoghi realmente esistenti sono citati con il loro nome. Lo stesso Roverandom «dopo tutto era suddito britannico». Ma per altri aspetti è chiaro che non si tratta della nostra terra: per prima cosa, ha dei bordi da cui le cascate precipitano «dritte nello spazio». Non è nemmeno la terra descritta nel legendarium, benché anch'essa
sia piatta; ma la luna di Roverandom, proprio come quella in Racconti ritrovati, si muove al di sotto del mondo quando non è alta nel cielo. Via via che le opere di Tolkien sono state pubblicate nel quarto di secolo successivo alla sua morte, è apparso evidente che quasi tutti i suoi scritti sono collegati fra loro, anche solo in piccoli particolari, e che ognuno getta una luce rivelatrice sugli altri. Roverandom dimostra ancora una volta come il legendarium - il lavoro di tutta la vita di Tolkien - influenzasse il suo modo di raccontare, e come anticipi scritti sui quali lo stesso Roverandom esercitò un'influenza, sia pure indiretta: specie Lo hobbit, la cui composizione (iniziata forse nel 1927) può aver coinciso con la stesura e la revisione di Roverandom. Infatti molti lettori di Lo hobbit non mancheranno certo di notare (inter alia) le somiglianze tra il pauroso volo di Rover su Mew fino al suo rifugio ai bordi della scogliera e quello di Bilbo fino al nido delle aquile; e tra i ragni che Roverandom incontra sulla luna e quelli di Mirkwood; e come sia il Grande Dragone Bianco che Smaug, il drago di Erebor, hanno le pance morbide; e come i tre scorbutici negromanti di Roverandom - Artaserse, Psamathos e l'Uomo-sulla-Luna - sono, ciascuno a suo modo, precursori di Gandalf. Prima di procedere col testo rimane solo da spendere qualche parola sui disegni che lo accompagnano. Ne abbiamo già parlato a lungo in J.R.R. Tolkien: Artist and Illustrator (1995); ma qui, dove sono pubblicati insieme al testo integrale del racconto, si evidenziano maggiormente qualità e difetti. Non erano stati pensati per illustrare un libro a stampa e, per i loro soggetti, non sono equamente distribuiti nella storia. E non sono neanche uniformi per stile o mezzo espressivo: due sono a china, due ad acquarello e uno è un pastello. Quattro rivelano una notevole cura, specie gli acquarelli, mentre il quinto, l'arrivo di Rover sulla luna, mostra una certa approssimazione, con Rover, Mew e l'Uomo-sulla-Luna fastidiosamente minuscoli. Forse quel che più interessava Tolkien in questo disegno erano la torre e il terreno spoglio tutt'intorno - molto dettagliato - che però non suggerisce in alcun modo le foreste lunari descritte in Roverandom. Il precedente Paesaggio Lunare è più fedele al testo: include alberi dalle foglie blu, e «ampi spazi aperti azzurri e verdi sui quali le alte montagne aguzze disegnavano ombre lunghe lontano fin sul fondo della valle». Presumibilmente illustra il momento in cui Roverandom e l'Uomo-sulla-Luna, tornando dal loro giro nel lato buio, vedono «sorgere il mondo, una luna verde pallido e oro,
enorme e rotonda sopra le cime delle Montagne Lunari». Ma qui il mondo non è affatto piatto: si vedono solo le Americhe, quindi l'Inghilterra e gli altri luoghi terrestri menzionati nel racconto devono trovarsi sul lato opposto del globo. Il titolo Paesaggio Lunare è scritto per mano di Tolkien con i caratteri tengwar dei folletti. Il Dragone Bianco dà la caccia a Roverandom e al cane-luna è anch'esso fedele al testo e ha parecchi punti interessanti oltre al drago e ai cani alati. Sopra il titolo ci sono un ragno-luna e forse una falena-drago; e in alto nel cielo si vede la terra, che ha forma di globo. Quando si trovò a illustrare Lo hobbit Tolkien usò lo stesso drago sulla mappa Wilderland e lo stesso ragno nel disegno di Mirkwood. Il «Moondog» del titolo fu usato (con la variante «moon-dog») solo nei primi testi. Lo splendido acquarello I giardini del palazzo del Re del Mare rivela l'edificio «di pietra rosa e bianca» quasi fosse una decorazione d'acquario, forse con un rimando al Royal Pavilion di Brighton, Tolkien volle mostrare il palazzo e i giardini in tutta la loro bellezza, invece di far vedere Roverandom che seguiva il tremendo percorso; forse dobbiamo vedere con i suoi occhi. La balena Uin è nell'angolo a sinistra in alto, come il Leviatano in una delle illustrazioni di Rudyard Kipling in Storie proprio così (1902). Il «Merking» del titolo apparve solo nei primi testi, con la variazione «mer-king» (unica forma nella versione finale). Tolkien era comunque piuttosto incostante nella grafia dei nomi composti inizianti con mer-. L'illustrazione La casa dove Rover iniziò le sue avventure come giocattolo, un acquarello altrettanto curato, è un rompicapo. Il titolo lascia intendere che si tratti della casa dove Rover incontrò per la prima volta Artaserse, benché nel testo manchi qualsiasi riferimento al fatto che la casa si trovasse all'interno o nei pressi di una fattoria. Anche il mare che s'intravede col suo scintillio nello sfondo e il gabbiano che si libra in alto sarebbero in contraddizione con quanto dichiarato nel testo, e cioè che Rover «non aveva mai né visto né annusato il mare» prima di essere portato sulla spiaggia dal piccolo Two «e il villaggio di campagna dove era nato era miglia e miglia distante dal rumore o dal profumo del mare». Né può essere questa la casa del padre del ragazzino, che è descritta bianca e alta su una scogliera con un giardino digradante fino al mare. Saremmo quasi portati a chiederci se questo disegno in origine non fosse del tutto indipendente dalla storia e se alcuni particolari, come il gabbiano, non siano stati aggiunti dopo, per uniformità con il testo. Il cagnetto bianco e nero può essere inteso come un ritratto di Rover e l'animale nero davanti a lui - anch'esso in
parte nascosto da un maiale - potrebbe essere Tinker, la gatta: ma nulla di tutto questo è sicuro. Il testo che segue è basato sull'ultima stesura di Roverandom. Tolkien non preparò mai il lavoro per la pubblicazione, e non si può dubitare che avrebbe fatto molte revisioni e correzioni per renderlo più adatto a un pubblico diverso dalla propria famiglia, se il libro fosse stato accettato da Alien & Unwin perché uscisse dopo Lo hobbit. Nell'attesa fu lasciato con una serie di errori e incongruenze. Quando scriveva in fretta, Tolkien tendeva a essere illogico nella punteggiatura e nell'uso delle maiuscole; per Roverandom ne abbiamo seguito la consuetudine, di solito minimalista, laddove le sue intenzioni erano chiare, ma abbiamo normalizzato i segni di interpunzione e le maiuscole quando sembrava necessario. Con il consenso di Christopher Tolkien abbiamo anche modificato qualche frase malriuscita (lasciandone altre); ma per la maggior parte, il testo è come l'aveva creato il suo autore. Siamo in particolar modo grati a Christopher Tolkien per i consigli offerti durante la preparazione di questo libro, e lo ringraziamo per averci fornito la dichiarazione del diario paterno citata a pagina 9; grazie anche a John Tolkien, che ha condiviso con noi i suoi ricordi di Filey nel 1925. Ringraziamo inoltre, per l'aiuto e l'incoraggiamento ricevuti: Priscilla e Joanna Tolkien; Douglas Anderson; David Doughan; Charles Elston; Michael Everson; Verlyn Flieger; Charles Fuqua; Christopher Gilson; Carl Hostetter; Alexei Kondratiev; John Rateliff; Arden Smith; Rayner Unwin; Patrick Wynne; David Brawn e Ali Bailey di HarperCollins; Judith Priestman e Colin Harris della Bodleian Library di Oxford; e lo staff della Williams College Library, a Williamstown, Massachusetts. Christina Scull Wayne G. Hammond Roverandom I C'era una volta un cagnolino che aveva nome Rover. Era molto piccolo e molto giovane, altrimenti sarebbe stato più attento; ed era molto felice di star lì a giocare in giardino al sole con una palla gialla, o non avrebbe fatto mai ciò che fece.
Non tutti i vecchi con i calzoni sbrindellati sono malvagi: alcuni sono simpatici straccivendoli e hanno al seguito qualche cagnetto; alcuni fanno i giardinieri; e pochi, ma proprio pochissimi, sono stregoni che se ne vanno bighellonando in vacanza in cerca di qualcosa da fare. Il tipo che sta entrando ora nella storia era proprio uno stregone. Avanzava bel bello per il viale del giardino, con un vecchio paltò sdrucito, una vecchia pipa tra i denti e un vecchio cappellaccio verde in testa. Se Rover non fosse stato così occupato ad abbaiare alla palla, avrebbe forse notato la penna blu infilata nella calotta del cappello verde, e sarebbe venuto anche a lui - come a qualsiasi altro ragionevole cane - il sospetto che potesse trattarsi di uno stregone; ma della penna lui non s'accorse affatto. Quando il vecchio si piegò per raccogliere la palla - pensava di trasformarla in un'arancia o perfino in un osso o in pezzo di carne per Rover Rover ringhiò: «Mettila giù!» senza dire «per favore». Naturalmente lo stregone, proprio perché era stregone, comprese tutto benissimo e gli rispose: «Sta' zitto, stupido!» senza dire «per favore». Poi s'infilò la palla in tasca, apposta per stuzzicare il cane, e si voltò per andarsene. Mi spiace riferire che Rover gli azzannò subito i calzoni, strappandogliene via un bel pezzo. E forse strappò via anche un pezzo dello stregone. Il vecchio, fuori di sé, si girò di scatto e urlò: «Idiota! Trasformati in giocattolo!» A quelle parole cominciarono ad accadere le cose più straordinarie. Rover era solo un cagnolino, per cominciare, ma all'improvviso si sentì molto rimpicciolito. L'erba gli apparve mostruosamente alta e ondeggiava lassù, ben oltre la sua testa; intravedeva lontana tra l'erba, come un sole che sorgeva tra gli alberi d'una foresta, l'enorme palla gialla dove l'aveva scaraventata lo stregone. Sentì lo scatto del cancello che si chiudeva alle spalle del vecchio, ma non riuscì a vederlo uscire. Cercò di abbaiare, ma emise solo un flebile suono, troppo fioco perché una persona normale potesse sentirlo; credo che non ci avrebbe fatto caso nemmeno un cane. Era diventato così piccolo che se in quel momento fosse sopraggiunto un gatto, prendendolo per un topo ne avrebbe fatto un sol boccone. Tinker, la grande gatta nera che stava nella stessa casa, non ci avrebbe pensato su due volte. Figurarsi. Alla sola idea di Tinker, Rover si sentì assalire dal terrore: ma presto i gatti furono dimenticati. Il giardino stesso all'improvviso scomparve e Rover si sentì spazzar via, verso l'ignoto. Passata la buriana, si ritrovò al buio, pigiato contro tanti altri oggetti duri e rigidi; e dovette rimanere per un bel
pezzo in una scatola senz'aria e in posizione molto scomoda. Non c'era nulla da mangiare o da bere, ma quel che era peggio, scoprì di non riuscire a muoversi. Sulle prime pensò che ciò fosse dovuto al fatto di star così pigiato in poco spazio, ma poi scoprì che durante il giorno poteva muoversi pochissimo, e con grandi sforzi, e solo se nessuno stava a guardare. Solo dopo mezzanotte poteva camminare e scodinzolare, e per giunta senza nessuna scioltezza. Era diventato un giocattolo. Solo per non aver detto «per piacere» a uno stregone, da ora in poi doveva restarsene tutto il giorno seduto sulle zampe posteriori come un questuante. Immobilizzato così. Dopo quel che gli parve un tempo interminabile e cupo, provò ancora una volta ad abbaiare forte per farsi sentire da qualcuno. Poi cercò di mordere gli altri oggetti nella scatola, stupidi giocattoli a forma di animali, fatti solo di legno o di piombo, non cagnolini veri, vittime di incantesimi come lui. Tutto inutile: non riusciva né ad abbaiare né a mordere. All'improvviso arrivò qualcuno e sollevò il coperchio della scatola, facendo entrare la luce. «Stamane dovremmo mettere in vetrina qualcuno di questi animaletti, Harry», disse una voce, e una mano s'infilò nella scatola. «E questo da dove spunta?» continuò la voce, mentre la mano agguantava Rover. «Non ricordo d'averlo mai visto prima d'ora. Non appartiene certo alla scatola dei giocattoli da tre soldi. Hai mai visto niente di così realistico? Guardagli il mantello, e gli occhi!» «Prezzalo a sei soldi», disse Harry, «e mettilo ben in vista nella vetrina, allora.» Il povero piccolo Rover dovette rimanere in prima fila nella vetrina sotto il sole cocente tutta la mattina e tutto il pomeriggio quasi fino all'ora del tè; e sempre fingendo di chiedere qualcosa, seduto sulle zampe posteriori, mentre dentro di sé era davvero infuriato. «Appena mi comprano, scappo», ripeteva agli altri giocattoli. «Io sono vero. Non sono un giocattolo, io, e non voglio fare il giocattolo. Speriamo che qualcuno mi compri presto. Detesto questo negozio, non riesco a muovermi così piazzato in vetrina.» «E perché mai vorresti muoverti?» dissero gli altri giocattoli. «Noi non ci muoviamo mica. È tanto più comodo starsene immobili, senza un pensiero al mondo. Vita riposata, vita prolungata. Quindi, piantala. Non riusciamo a dormire se continui a blaterare, e alcuni di noi stanno per affrontare tempi duri, nelle stanze di certi ragazzini maleducati.»
Non vollero aprire più bocca, così il povero Rover non poté scambiare due parole con nessuno, e si sentì infelice e demoralizzato, pentitissimo di aver morso i calzoni dello stregone. Non so dirvi se fu o no lo stregone a mandare la mamma per portar via il cagnolino dal negozio. Tuttavia, proprio quando Rover aveva toccato il fondo dell'infelicità, lei entrò con la sua bella cesta della spesa. Lo aveva visto in vetrina, e subito aveva pensato che sarebbe stato un bel regalo per il suo bambino. Aveva tre figli, ma uno aveva una passione particolare per i cani in miniatura, specie per quelli a macchie bianche e nere. Così, comprò Rover, che fu impacchettato e infilato nella cesta insieme agli altri acquisti che lei aveva fatto per il tè. In men che non si dica Rover riuscì a far sbucare la testa dal suo involucro. Sentiva un profumino di torta. Ma scoprì che non poteva arrivarci; e, in mezzo a tutti quei sacchetti di carta, emise un breve lamento da giocattolo. Solo i gamberetti lo udirono, e gli chiesero che problema avesse. Lui raccontò tutto, aspettandosi di essere molto compatito, ma quelli gli chiesero soltanto: «Che diresti se finissi bollito? Sei mai stato bollito?» «No. Non sono mai stato bollito, se non ricordo male», rispose Rover. «Però qualche volta mi hanno fatto il bagno, e non è cosa particolarmente gradevole. Ma immagino che finire bollito sia molto meglio che essere stregato.» «Allora, si vede proprio che non sei mai stato bollito», ribatterono quelli. «Non ne sai niente. È la cosa peggiore che possa capitarti: siamo ancora rossi di rabbia, solo a pensarci.» A Rover i gamberetti non stavano simpatici, così disse: «Pazienza, tra poco vi mangeranno e io starò a guardare!» Dopo di che i gamberetti non ebbero altro da dirgli, e lui fu lasciato solo a rimuginare su che genere di persone l'avesse comprato. Lo scoprì presto. Fu portato in una casa e la cesta fu posata su un tavolo, e tutti i pacchetti furono tirati fuori. I gamberetti furono portati in dispensa ma Rover fu subito dato al bambino per il quale era stato comprato, che lo portò nella sua cameretta e gli parlò. A Rover il bambino sarebbe piaciuto, se non fosse stato troppo fuori di sé per ascoltare quel che gli andava dicendo. Il piccolo gli abbaiava nel miglior linguaggio canino di cui era capace (ed era piuttosto bravo), ma Rover non provò mai a rispondergli. Continuava a ripetersi che s'era ripromesso di scappare dal primo che l'avesse comprato, e si chiedeva come
fare; ciononostante, doveva continuare a star seduto sulle zampe posteriori e a far l'elemosinante, mentre il bimbetto lo faceva avanzare spingendolo a colpettini, sul tavolo e sul pavimento. Finalmente venne sera e il bambino andò a letto; Rover fu posto su una seggiola accanto al lettino, sempre a elemosinare finché non fu buio. Le veneziane erano abbassate, ma fuori la luna spuntò dal mare e distese la sua scia d'argento sulle acque a formare un sentiero che porta chi è in grado di percorrerlo in luoghi al limite del mondo e oltre. Il padre, la madre e i tre ragazzini abitavano vicino al mare in una casa bianca che dominava la distesa sconfinata delle onde. Quando i ragazzini si furono addormentati, Rover si stiracchiò le zampe stanche e intorpidite e abbaiò, ma tanto piano che lo sentì solo un vecchio ragno malvagio che strisciava lassù in un angolo. Poi saltò dalla sedia sul letto e dal letto capitombolò sul tappeto; quindi si precipitò fuori dalla stanza e giù per le scale ed esplorò tutta la casa. Benché fosse contento di potersi muovere di nuovo - poteva saltare e correre meglio di qualsiasi altro giocattolo di notte, perché era stato vero, e quindi vivo e vivace - scoprì che era difficile e pericoloso andarsene in giro. Era così piccino adesso che scender da un gradino delle scale era come saltar giù da un muro; e salirle di nuovo era molto duro e faticoso davvero. E fu tutto inutile. Scoprì che le porte erano tutte ben chiuse a chiave, naturalmente; e non c'era neanche una fessura o un pertugio da cui poter sgattaiolare. Così, il povero Rover non poté scappare quella notte, e la luce del mattino ritrovò un cagnolino stanchissimo seduto a far finta di questuare sulla seggiola, nel punto esatto dove l'avevano messo la sera prima. Di solito, quando c'era bel tempo, i due ragazzi più grandi scendevano a fare una corsa sulla spiaggia prima di colazione. Quella mattina, appena svegli, avevano scostato le veneziane e visto il sole che balzava fuori dal mare, color rosso fuoco e con le nuvole sul capo, come se si fosse fatto un bel bagno freddo e ora sì stesse frizionando con gli asciugamani. Si alzarono e si vestirono in fretta e andarono giù per la scogliera fin sulla spiaggia per fare un giro... e Rover li seguì. Nell'attimo in cui usciva dalla camera da letto, il piccolo Two (il padroncino di Rover) vide Rover sul piano del cassettone dove l'aveva appoggiato mentre si vestiva. «Sta implorando di andar fuori!» disse e se lo infilò nella tasca dei calzoni.
Ma Rover non chiedeva affatto di andar fuori, e certo non in una tasca di calzoni. Voleva riposare e prepararsi per la notte seguente, poiché pensava che questa volta sarebbe riuscito a scovare una via di fuga per andarsene sempre più lontano, fino a ritrovare la sua casa, il suo giardino e la sua palla gialla sul prato. Aveva come la convinzione che una volta arrivato sul suo prato tutto sarebbe andato a posto: il sortilegio si sarebbe spezzato o lui si sarebbe svegliato, scoprendo che era stato tutto un sogno. Così, mentre i due fratellini scendevano lungo il ripido sentiero della scogliera e correvano sfrenati sulla spiaggia, lui aveva abbaiato e s'era agitato e divincolato nella tasca. Ma per quanti sforzi facesse, riusciva a muoversi appena, nonostante fosse nascosto e nessuno potesse vederlo. Tuttavia, fece quel che poteva e la fortuna lo aiutò. C'era un fazzoletto, in quella tasca, spiegazzato e appallottolato, così Rover non era finito proprio in fondo e grazie ai suoi sforzi e alla corsa affannata del suo padroncino riuscì presto a tirar fuori il naso e a sentire che aria tirava. E grande fu la sua sorpresa per quel che annusò e vide. Non aveva mai né visto né annusato il mare prima e il villaggio di campagna dove era nato era miglia e miglia distante dal rumore o dal profumo del mare. All'improvviso, mentre si stava sporgendo a guardare, un uccellaccio bello grande, tutto bianco e grigio, scese a volo radente sfiorando quasi le teste dei ragazzi, facendo un verso simile a quello d'un enorme gatto con le ali. Rover sobbalzò dalla sorpresa tanto che dalla tasca finì dritto dritto nella sabbia morbida e nessuno lo sentì. Il grande uccello riprese quota e si allontanò, senza far caso ai suoi uggiolii, mentre i ragazzini si spingevano sempre più oltre lungo la spiaggia sabbiosa, e non pensavano affatto a lui. Sulle prime Rover fu molto contento e soddisfatto. «Ce l'ho fatta! Sono scappato!» abbaiò, in quel modo da giocattolo che solo altri giocattoli avrebbero potuto sentire, e in giro non ce n'era nessuno. Poi si rotolò su un fianco, sulla sabbia pulita e asciutta, che era ancora fresca per aver trascorso tutta la notte sotto le stelle. Ma quando al ritorno i ragazzini gli passarono accanto diretti a casa senza nemmeno notarlo, lui rimase tutto solo sulla spiaggia deserta e non ne fu contento affatto. Sulla spiaggia c'erano solo i gabbiani. Oltre alle tracce delle loro zampe sulla sabbia c'erano solo le impronte dei piedini dei piccoli. Quella mattina, nella loro passeggiata, si erano spinti fino a un tratto di spiaggia molto solitario dove andavano di rado. Da quelle parti non capitava quasi mai anima viva, e sebbene ci fossero sabbia dorata e pulita, ciottoli candidi e il mare
azzurro, in una piccola baia sotto la scogliera grigia, fosse tutto bordato di schiuma d'argento, si respirava un'aria strana, tranne che nelle prime ore del mattino, quando il sole era appena spuntato. La gente diceva che vi accadevano cose bizzarre, a volte perfino di pomeriggio; a sera poi il luogo era affollato degli abitanti del mare, sirene e tritoni, per non parlare degli spiritelli che arrivavano fin sotto la scogliera in groppa a minuscoli cavalli marini con briglie di alghe verdi, e li lasciavano nella spuma al limite della battigia. La ragione di tutte quelle stranezze era semplice: nella baia abitava il più vecchio tra i maghi della sabbia, che gli abitanti del mare chiamano Psamatisti nel loro tipico linguaggio immaginifico. Costui aveva nome Psamathos Psamathides, almeno così diceva lui, insistendo molto puntigliosamente sulla pronuncia corretta. Era un vecchio saggio e ogni sorta di gente strana veniva a trovarlo; era un mago di prim'ordine e oltretutto molto gentile con le persone giuste, anche se un po' scorbutico al primo contatto. Dopo una delle sue feste-di-mezzanotte la gente del mare continuava a ridere per settimane ricordando le sue barzellette. Durante il giorno non era facile trovarlo. Gli piaceva starsene sepolto sotto la sabbia calda quando c'era il sole, in modo che si vedesse solo la punta di una delle sue lunghe orecchie; e, se anche fossero venute fuori tutte e due, la maggior parte delle persone come voi e io le avrebbe scambiate per rametti secchi. È possibile che il vecchio Psamathos sapesse tutto di Rover. Di certo conosceva il vecchio stregone che gli aveva fatto l'incantesimo, in quanto maghi e negromanti sono pochi e ben lontani tra loro, sanno tutto l'uno dell'altro e si tengon sempre d'occhio a vicenda, perché non è che nel privato siano poi questi grandi amiconi. Comunque, ecco Rover che sulla morbida sabbia cominciava a sentire la solitudine e a star poco bene ed ecco Psamathos, lì a un passo benché Rover non potesse vederlo, che lo sbirciava da sotto un mucchio di sabbia preparatogli dalle sirene la notte prima. Ma il mago della sabbia non diceva nulla. E Rover non diceva nulla. E passò l'ora di colazione, e il sole salì alto e caldo nel cielo. Rover guardò verso il mare, che dava un'idea di frescura, e si prese uno spavento terribile. Sulle prime credette che gli fosse entrata la sabbia negli occhi, ma poi si rese conto che non c'era modo di sbagliarsi: il mare si stava avvicinando sempre più, ingoiando la spiaggia metro dopo metro, e le onde si facevano sempre più alte e spumose.
Stava salendo la marea e Rover si trovava appena oltre il limite massimo dell'acqua, ma non poteva saperlo. Era sempre più terrorizzato vedendo quel che accadeva, e immaginava le onde che venivano a infrangersi tumultuose sulla scogliera trascinandolo via nel mare spumeggiante (molto peggio di qualsiasi bagno col sapone nella vasca di casa): e lui sempre in quella postura da questuante! Sarebbe potuto accadere proprio questo: invece non andò così. Oso pensare che ci fu lo zampino di Psamathos; a ogni modo immagino che il sortilegio dello stregone non avesse molta forza in quella piccola baia, tanto vicina alla residenza di un altro mago. Certo che quando il mare era arrivato a un passo, e Rover, quasi morto dalla paura, tentava di rotolare un po' più in su sulla spiaggia, scoprì che poteva muoversi. Le sue dimensioni erano rimaste immutate, ma non era più un giocattolo. Poteva muoversi veloce e nel modo giusto con tutte e quattro le zampe, nonostante fosse pieno giorno. Non doveva più restare fisso a implorare e poteva correre dove la sabbia era più compatta; e soprattutto poteva abbaiare: non uggiolii da balocco, ma un abbaiare deciso, adatto alle dimensioni di un piccolo cane fatato. Era così felice e abbaiava così forte che, se foste stati lì, avreste potuto sentirlo chiaro e distante, come l'eco di un cane da pastore che si diffonde col vento sulle colline. Fu allora che il mago della sabbia tirò fuori la testa di botto. Era proprio brutto, e aveva le dimensioni di un cane enorme. A Rover, rimpicciolito dall'incantesimo, parve ripugnante e mostruoso. Si accucciò e smise di abbaiare all'istante. «Cagnetto, perché stai facendo tutto questo chiasso?» chiese Psamathos Psamathides. «Questa per me è l'ora del sonno!» A dire il vero per lui tutte le ore erano buone per dormire, a meno che non ci fosse in ballo qualcosa che lo facesse divertire, come una danza delle sirene nella caletta (su suo invito). In quel caso emergeva dalla sabbia e si sedeva sullo scoglio a godersi lo spettacolo. Le sirene potevano anche essere molto aggraziate in acqua ma quando cercavano di ballare in spiaggia sulle code Psamathos le considerava comiche. «Questa per me è l'ora del sonno!» ripeté, vedendo che Rover non rispondeva. E continuò a non dire nulla, scodinzolando soltanto, come a chiedere scusa. «Sai chi sono?» gli domandò. «Sono Psamathos Psamathides, capo di tutti gli Psamathisti!» Lo ripeté più volte con orgoglio, scandendo bene
ogni lettera, e sollevando nuvole di sabbia col naso a ogni P. Rover ne fu quasi ricoperto, e se ne stava lì terrorizzato e infelice, tanto che il mago della sabbia ne ebbe pietà. Infatti all'improvviso depose la sua aria truce e scoppiò a ridere. «Sei un cagnetto buffo, Piccolo Cane. A dire la verità, non ricordo di aver mai visto un altro cagnetto tanto minuscolo, Piccolo Cane!» E rise ancora, ma subito dopo assunse un'aria solenne. «Per caso, hai litigato con qualche stregone, di recente?» chiese quasi in un sussurro; e gli strizzò un occhio mentre con l'altro gli rivolse uno sguardo così amichevole e comprensivo che Rover gli raccontò ogni cosa. Forse non era necessario perché Psamathos, come vi ho già detto, sapeva tutto da prima; tuttavia Rover si sentì meglio a parlare con qualcuno che sembrava comprendere e aveva più buonsenso di chi non era altro che un giocattolo. «Certo che si trattava di uno stregone, e che stregone», disse il mago, quando Rover fu arrivato in fondo al suo racconto. «Dalla tua descrizione, direi che era il vecchio Artaserse. È originario della Persia. Ma un giorno perdette la strada, come può accadere anche ai migliori stregoni (a meno che non stiano sempre a casa come me) e la prima persona che incontrò per strada lo indirizzò a Persici. Da allora è rimasto a vivere da quelle parti, tranne che durante le vacanze. Dicono sia molto abile a raccogliere il frutto del persico, per uno della sua età - pare sia vicino ai duemila anni - e va matto per il sidro. Ma questo non sta né in cielo né in terra.» Con questo Psamathos voleva dire che si stava allontanando dal seminato, cioè da quel che voleva dire. «Il punto è, che cosa posso fare per te?» «Non lo so», rispose Rover. «Vorresti tornare a casa? Temo di non poterti restituire le tue reali dimensioni, almeno non senza chiederlo ad Artaserse, ma per il momento non voglio litigarci. Credo però che potrei tentare di mandarti a casa. In fondo, Artaserse può sempre farti tornare indietro, se vuole. Anche se la prossima volta potrebbe mandarti in un luogo molto peggiore di un negozio di giocattoli, se perde le staffe davvero.» A Rover non fece piacere sentire quella notizia e s'azzardò a dire che, se fosse tornato a casa così minuscolo nessuno l'avrebbe riconosciuto, tranne la gatta Tinker; e non è che lui, nel suo stato attuale, ci tenesse a essere riconosciuto dalla gatta Tinker. «Benissimo!» esclamò Psamathos, «allora dobbiamo escogitare qualcos'altro. Nel frattempo, poiché sei tornato in carne e ossa, ti piacerebbe
mangiare qualcosa?» E prima che Rover avesse tempo di rispondere «Sì, grazie! SÌ! GRAZIE!» sulla sabbia davanti a lui spuntò un piattino con pane e intingolo e due piccoli ossi, proprio della misura giusta, e una ciotolina per l'acqua con scritto tutt'intorno in lettere blu BEVI, CUCCIOLO, BEVI. Mangiò e bevve tutto quel che c'era prima di chiedere: «Ma come hai fatto? Grazie».
Gli venne d'impulso di aggiungere un «grazie», visto che i maghi e i tipi di quel genere sembravano piuttosto suscettibili. Psamathos sorrise; e Rover si sdraiò sulla sabbia calda e si addormentò, e sognò di mangiare ossi, e di inseguire gatti facendoli arrampicare sugli alberi per poi vederli tramutarsi in stregoni con cappelli verdi che gli tiravano addosso persici enormi come zucche. E il vento spirava sempre dolcemente e soffiandogli la sabbia addosso lo coprì quasi fino alla testa. Ecco perché i ragazzini non riuscirono più a trovarlo, benché fossero scesi apposta nella caletta a cercarlo non appena il piccolo Two si era accorto di averlo perso. Con loro questa volta c'era anche il padre il quale, dopo che ebbero ben guardato e riguardato finché il sole non cominciò a calare e fu quasi l'ora del tè, li riportò a casa e non permise altri indugi: di quel posto lui sapeva troppe cose strane. Il piccolo Two, dopo un bel po',
dovette accontentarsi di un comune cane giocattolo da tre soldi (comprato allo stesso negozio); ma, per un motivo o per l'altro, non dimenticò il suo cagnetto questuante, nonostante l'avesse avuto per così poco tempo. Adesso, tuttavia, potete immaginarvelo seduto molto triste a prendere il tè senza nessun cagnolino; mentre, molto lontano dalla costa, l'anziana signora proprietaria di Rover, che l'aveva tanto viziato quando era un cane normale, della misura giusta, stava preparando un'inserzione per un cucciolo smarrito «bianco con orecchie nere, risponde al nome di Rover»; e mentre lo stesso Rover continuava a dormire sulla sabbia e Psamathos sonnecchiava lì accanto, con le corte braccia incrociate sul pancione. II Quando Rover si svegliò, il sole era molto basso; l'ombra della scogliera tagliava la spiaggia e non c'era alcuna traccia di Psamathos. Un grosso gabbiano stava fermo a guardarlo da vicino e per un attimo Rover temette che stesse per mangiarlo. Invece il gabbiano disse: «Buona sera! Ho aspettato a lungo che ti svegliassi. Psamathos aveva detto che ti saresti svegliato per l'ora del tè, ma è passata da un bel pezzo». «E di grazia, signor Uccello, per quale motivo mi starebbe aspettando?» domandò Rover in tono molto beneducato. «Mi chiamo Mew», disse il gabbiano, «e sto aspettando di portarti via, non appena si leverà la luna, lungo la sua scia luminosa. Ma prima c'è un paio di cosucce da fare. Saltami in groppa e vedi se ti piace volare.» A Rover non piacque affatto, all'inizio. Andava tutto bene finché Mew volava basso, scivolando senza scosse ad ali spiegate e immobili; ma quando si fiondava alto nell'aria o virava improvviso su un fianco, planando ogni volta in modo diverso o in rapide e rischiose picchiate come se volesse tuffarsi in mare, il povero cagnolino, col vento che gli soffiava negli orecchi, si augurava di tornare sano e salvo sulla terra. Lo disse diverse volte, ma per tutta risposta Mew diceva: «Tienti forte! Il bello viene adesso!» Eran lì che svolacchiavano da un po' e Rover aveva appena cominciato ad abituarcisi tanto da esserne quasi stufo, quando Mew urlò d'un tratto «Si decolla!» e a momenti Rover decollava per conto suo. Perché Mew partì sparato, in verticale come un razzo nell'aria e poi, preso il vento, proseguì a gran velocità. Ben presto furono così in alto che Rover poteva scorgere,
lontano, il sole che scendeva dietro la terra e le colline scure. Si stavano dirigendo verso alcuni speroni altissimi di nuda roccia, a strapiombo, impossibili da scalare. Alla base il mare s'infrangeva in alti spruzzi e risucchi e, pur non essendovi traccia di vegetazione, le pareti erano coperte di cose bianche, chiare nel crepuscolo. Centinaia di uccelli marini erano appollaiati su sporgenze strettissime, taluni silenziosi, talaltri mormorando tristi all'unisono mentre altri si alzavano in volo di botto dalla roccia e compivano ampie virate nell'aria, prima di tuffarsi nel mare giù in basso, dove le onde parevano rughe sottili. Era qui che abitava Mew, e doveva vedere diversa gente, fra cui il più anziano e più importante di tutti i Gabbiani dal Dorso Nero; prima di partire doveva anche raccogliere dei messaggi. Così depositò Rover su uno di quei stretti speroni rocciosi, molto più stretti della soglia d'una porta, e gli disse di aspettarlo lì e di non cadere giù. Potete star sicuri che Rover fu molto attento a non cadere e che, con un vento che soffiava forte di traverso, non era affatto contento della situazione mentre se ne stava incollato quanto più vicino possibile alla parete, uggiolando. Tutto considerato, povero cagnolino stregato, era in un bel ginepraio! Finalmente la luce del sole scomparve del tutto dal cielo, sul mare si diffuse un velo caliginoso e le prime stelle fecero capolino nel firmamento che s'oscurava. Poi, al di sopra della caligine, in lontananza al di là dal mare, la luna spuntò tonda e dorata e cominciò a tracciare il suo luminoso sentiero sulle onde. Poco dopo Mew ritornò e prese in groppa Rover, che stava tremando miseramente. Le piume del gabbiano gli parvero calde e confortevoli dopo la gelida sporgenza di roccia e cercò di affondarvi il più possibile. Poi Mew si levò in alto in alto sul mare e tutti gli altri gabbiani balzarono dai loro rifugi e gridarono il loro lamentoso saluto, mentre i due si allontanavano rapidi lungo il sentiero della luna, che ora si stendeva dalla spiaggia fino al buio confine del nulla. Rover non aveva la minima idea di dove portasse la scia lunare e al momento era troppo spaventato e agitato per fare domande, e comunque stava cominciando ad abituarsi a tutte le cose straordinarie che gli capitavano. Mentre volavano alti seguendo la scia che splendeva sul mare, la luna salì ancora e si fece più candida e brillante, fino a quando non ci fu nemmeno una stella che osasse starle vicina e restò tutta sola a risplendere nel cielo d'oriente. Senza dubbio Mew stava seguendo gli ordini di Psamathos
e si stava recando dove Psamathos gli aveva detto di andare, e senza dubbio Psamathos con le sue arti magiche stava aiutando Mew, che difatti volava più veloce e più diritto di quanto non facciano di solito anche i gabbiani più grandi, pur lasciandosi precipitare nel vento quando hanno fretta. Eppure ci vollero secoli prima che Rover vedesse qualcosa di diverso dal chiarore lunare e dal mare sotto di lui, mentre la luna diventava sempre più grande e l'aria sempre più fredda. D'un tratto al limite estremo del mare scorse una forma scura, che si faceva sempre più grande via via che loro vi si avvicinavano, fino a quando non riuscì a capire che era un'isola. Attraverso la distesa d'acqua giunse loro un tremendo abbaiare, una cagnara composta da tutti i diversi generi, le sfumature e i registri delle voci canine: dagli uggiolii ai guaiti, dai latrati ai grugniti, dai ruggiti agli gnaulìi, dai ringhi ai mugolii, dagli ululati ai lamenti, dai bau-bau ai caìi-caìi, una fragorosa canizza che tutto sovrastava, come se ci fosse un gigantesco segugio nel cortile d'un orco. A Rover subito si rizzarono come setole tutti i peli del collo, di nuovo molto reali: e pensò che gli sarebbe piaciuto scendere a litigare con tutti quei cani contemporaneamente... finché non si ricordò di quanto fosse piccolo. «Quella è l'Isola dei Cani», disse Mew, «o meglio l'Isola dei Cani Smarriti, dove vanno tutti i cani perduti che se lo meritano o sono fortunati. Mi dicono che non è male, per un cane; possono fare tutto il chiasso che vogliono senza che nessuno gli ordini di piantarla o gli tiri dietro qualcosa. Tengono un magnifico concerto ogni volta che splende la luna, abbaiando tutti insieme i loro versi preferiti. Pare che ci siano anche alberi di ossi con frutti succulenti che cadono dalla pianta quando sono maturi. No, non stiamo andando lì, non per il momento. Sai, benché tu non sia più un giocattolo, non si può però dire che tu sia proprio un cane. Credo infatti che Psamathos fosse perplesso quando gli hai detto che non volevi tornare a casa e si sia chiesto cosa fare di te.» «Dove andiamo, allora?» domandò Rover. Era deluso all'idea di non poter dare un'occhiata più da vicino all'Isola dei Cani, dopo aver sentito descrivere quegli alberi d'ossi. «Seguiamo la scia della luna fino al limite del mondo e poi lo superiamo e saliamo sulla luna. È così che ha detto il vecchio Psamathos.» A Rover non piaceva per niente l'idea di andare oltre il limite del mondo, e la luna sembrava un tipo di posto deprimente. «Perché sulla luna?» volle sapere. «Ci sono tanti posti nel mondo in cui non sono mai stato. Non ho mai sentito che ci siano ossi sulla luna e nean-
che cani.» «Ce n'è almeno uno, perché l'Uomo-sulla-Luna ha un cane; e poiché è un vecchietto per bene, oltre a essere il più grande di tutti i maghi, sono sicuro che ci saranno ossi per il cane e forse anche per gli ospiti. Riguardo al motivo per il quale sei stato mandato qui, lo scoprirai al momento adatto se conserverai le tue facoltà mentali e non sprecherai il tempo a brontolare. Credo che Psamathos sia molto gentile a occuparsi di te: e a dire il vero non vedo perché lo faccia. Non è sua abitudine fare delle cose senza un motivo bello e grande... e tu non mi sembri né bello né grande.» «Grazie», disse Rover, depresso. «È molto carino che tutti questi maghi si prendano il disturbo di occuparsi di me, anche se per me è piuttosto sconvolgente. Non sai mai quel che sta per capitarti, quando hai a che fare con i maghi e i loro amici.» «Sarà sempre una sorte migliore di quella che un qualsiasi cucciolotto impertinente si merita», esclamò il gabbiano, e con ciò non si parlarono più per un bel pezzo. La luna diventava sempre più grande e splendente e il mondo in basso sempre più buio e lontano. Infine, all'improvviso, la terra scomparve e Rover vide brillare le stelle nel buio sotto di sé. Molto in basso riusciva a scorgere al chiarore lunare gli spruzzi bianchi delle cascate che precipitavano oltre il limitare del mondo, cadendo a perpendicolo nel vuoto. Gli vennero quasi le vertigini, così si sistemò tra le piume di Mew, come in un nido, e tenne a lungo gli occhi chiusi. Quando li riaprì la luna si stendeva sotto di loro, un nuovo mondo candido e scintillante come la neve, con ampi spazi aperti azzurri e verdi sui quali le alte montagne aguzze disegnavano ombre lunghe lontano fin sul fondo della valle. In cima a uno dei picchi più alti, talmente alto che sembrò infilzarli mentre Mew s'abbassava, Rover 5 vide una torre bianca. Era tutta percorsa da righe rosa e verde chiaro, e brillava come se fosse fatta di milioni di conchiglie ancora bagnate, scintillanti di schiuma. La torre si ergeva sull'orlo d'un precipizio bianco, bianco come una montagna di gesso, ma sfolgorante al chiaro di luna più di una lastra di vetro lontana in una notte senza nuvole. Non c'era alcun sentiero che scendesse in fondo a quel precipizio, per quel che poteva vedere Rover; ma al momento non importava, giacché 5
Girovago, vagabondo, girellone. [N.d.T.]
Mew stava scendendo velocemente e si fermò ben presto proprio sul tetto della torre, a un'altezza vertiginosa che dominava il mondo lunare e faceva sembrare basse e sicure le rocce sul mare dove abitava Mew. Con grande sorpresa di Rover si aprì una porticina sul tetto vicino a loro e un vecchio con una lunga barba argentea mise il capo fuori. «Non male, come tempo!» esclamò. «Ti sto cronometrando da quando hai superato il limite: mille miglia al minuto, direi. Hai fretta, stamattina! Fortuna che non sei andato a sbattere contro il mio cane. Dove sarà mai andato a finire, mi domando?» Estrasse un telescopio spropositatamente lungo e se lo avvicinò a un occhio. «Eccolo! Eccolo!» urlò. «Sta ancora infastidendo i raggi di luna, accidenti! Vieni giù! Vieni giù!» chiamò nell'aria e poi fischiò una lunga, squillante nota argentina. Rover guardò in alto, pensando che quel buffo vecchietto doveva essere un po' matto per fischiare al proprio cane verso il cielo: ma con sua sorpresa vide che molto al di sopra della torre c'era un cagnolino bianco con ali bianche che dava la caccia a delle entità che sembravano farfalle trasparenti. «Rover! Rover!» chiamò il vecchio; e proprio mentre il nostro Rover si stava rizzando sul dorso di Mew per dire «Eccomi!» - senza chiedersi come mai il tizio sapesse già il suo nome - vide il cagnolino volante tuffarsi a capofitto giù dal cielo e andare a posarsi direttamente sulla spalla del vecchio. Si rese conto allora che anche il cane dell'Uomo-sulla-Luna doveva chiamarsi Rover. Non ne fu gran che contento, ma poiché nessuno gli badava, si sedette di nuovo e cominciò a ringhiare tra sé. Il Rover dell'Uomo-sulla-Luna aveva buoni orecchi e immediatamente balzò sul tetto della torre e si diede ad abbaiare come un matto. Poi si sedette e ringhiò: «Chi ha portato qui quell'altro cane?» «Quale altro cane?» chiese l'Uomo. «Quel cucciolo sciocco che è sulla schiena del gabbiano», rispose il cane-luna. Allora, naturalmente, Rover s'alzò di nuovo e abbaiò con quanto fiato aveva in gola: «Cucciolo sciocco sarai tu! Chi ti ha detto di chiamarti Rover, un nome più da gatto o pipistrello che da cane?» Da questo si poteva arguire che i due sarebbero presto diventati grandi amici. Tuttavia, è que-
sto il modo in cui i cagnolini si rivolgono ai rappresentanti della propria specie che non conoscono. «Oh, volatevene via, voi due! E smettetela di fare tutto questo chiasso! Voglio parlare al postino», dichiarò l'Uomo. «Vieni, piccolino!» disse il cane-luna; e Rover si ricordò di quanto fosse minuscolo, anche accanto al cane-luna che era soltanto piccolo, e invece di abbaiare una villanata mormorò: «Mi piacerebbe, se solo avessi le ali e sapessi volare». «Ali?» fece l'Uomo-sulla-Luna. «Eccotene un paio, va'!» Mew rise e praticamente se lo scosse di dosso, gettandolo oltre l'estremità del tetto della torre! A Rover mancò il respiro ma non fece nemmeno in tempo a immaginarsi spiaccicato sulle bianche rocce della valle, miglia e miglia al di sotto di lui, che scoprì di avere un magnifico paio di ali bianche a macchie nere (intonate alla sua livrea). Precipitò parecchio prima di riuscire a fermarsi, poiché non era abituato alle ali. Gli ci volle un po' per abituarsi ma, molto prima che l'Uomo finisse di parlare con Mew, stava già rincorrendo il cane-luna intorno alla torre. Cominciava a stancarsi per questi primi sforzi, quando il cane-luna si lanciò a capofitto verso la cima della montagna e si sistemò sull'orlo del burrone, ai piedi delle pareti di roccia. Rover lo seguì, e dopo un po' erano seduti fianco a fianco, a riprender fiato con le lingue penzoloni. «Ti hanno chiamato Rover come me?» domandò il cane-luna. «Non credo», disse il nostro Rover. «Sono certo che la mia padrona non aveva mai sentito parlare di te quando mi diede quel nome.» «Questo non c'entra. Io sono stato il primo cane a esser chiamato Rover, migliaia di anni fa: perciò il tuo nome deriva dal mio. E me lo meritavo, quel nome! Prima di arrivare qui non volevo fermarmi mai in nessun luogo né appartenere a qualcuno. Già da cucciolo non facevo che scappare; e continuai a correre e a vagabondare finché un bel giorno - era una splendida mattina, e avevo il sole negli occhi - precipitai oltre il limitare del mondo mentre andavo a caccia d'una farfalla. «Fu una sensazione terribile, devo ammetterlo! Per fortuna in quel momento la luna stava giusto passando sotto il mondo e ci ruzzolai sopra, dopo una spaventosa caduta attraverso le nuvole, andando a sbattere contro le stelle cadenti e roba del genere. Finii in una di quelle reti d'argento che i ragni grigi giganti tessono da una montagna all'altra, e il ragno stava giusto scendendo dalla scala per venire a mettermi in salamoia e portarmi nella dispensa quando comparve l'Uomo-sulla-Luna.
«Lui vede proprio tutto quello che accade su questo lato della luna con il suo telescopio. I ragni lo temono perché li lascia stare solo se gli intrecciano fili e corde d'argento. Ha più d'un sospetto che siano loro a cacciare i raggi di luna - cosa che non permette - anche se quelli fingono di vivere solo di falene-drago e pipistrelli-ombra. Nella dispensa di quel ragno infatti trovò ali di raggi di luna e così, rapido come il fulmine, lo trasformò in un blocco di pietra. Poi mi tirò su e mi consolò con delle pacche amichevoli: "È stata proprio una brutta caduta! Faresti meglio ad avere un paio d'ali in modo da prevenire altri incidenti del genere... ora vola dove vuoi e divertiti! Lascia in pace i raggi di luna e non uccidere i miei bianconigli. Torna a casa quando hai fame; la finestra sul tetto di solito è aperta!" «Pensai che fosse un tipo a posto, ma un po' matto. Non fare anche tu quell'errore... voglio dire, sulla pazzia. Io non oso toccare i suoi raggi di luna o i bianconigli. È capace di tramutarti in forme spaventosamente scomode. Ora dimmi perché sei venuto col postino.» «Il postino?» s'incuriosì Rover. «Sì, Mew, il postino del vecchio Mago della sabbia, naturalmente», spiegò il cane-luna. Rover aveva appena finito di raccontare le sue avventure quando sentirono il fischio dell'Uomo. Volarono subito fin sul tetto. Il vecchio era seduto con le gambe penzoloni nel precipizio, e apriva veloce le lettere gettandone via rapidamente le buste. Il vento le faceva girare in vortici, e Mew le inseguiva al volo per riprenderle e rimetterle in una piccola borsa. «Ho letto tante cose sul tuo conto, Roverandom,6 cagnetto mio», disse. «Ti chiamerò Roverandom, e Roverandom dovrai essere: non posso avere due Rover qua intorno. E convengo con il mio amico Somathos (non premetterò nessuna ridicola P solo per fargli piacere) che faresti bene a fermarti qui per un po'. Ho anche ricevuto una lettera da Artaserse - forse sai chi è o forse non lo sai - nella quale mi dice di rimandarti subito indietro. Ce l'ha a morte con te perché sei scappato e con Samathos perché ti ha aiutato. Ma noi non ci cureremo di lui e anche tu non dovrai preoccuparti, finché rimarrai qui. «Ora vola pure via e divertiti. Non disturbare i raggi di luna, non uccidere i miei bianconigli e torna a casa quando hai fame! La finestra sul tetto di solito è aperta. Ciao!» Scomparve nell'aria fina; e chiunque non sia mai stato sulla luna ti potrà dire quanto sia fina l'aria lassù. 6
Rover = girovago + random = a casaccio. [N.d.T.]
«Be', ciao, Roverandom!» esclamò Mew. «Spero ti diverta a dar noia ai maghi. Per ora arrivederci. Non uccidere i bianconigli, e tutto andrà bene e tornerai sano e salvo a casa... che tu lo voglia o no.» E Mew se ne volò via a una velocità tale che, prima che si potesse dire «ba!», era solo un puntino nel cielo, poi subito scomparso. Non solo Rover era stato ridotto alla dimensione di un giocattolo, gli avevano cambiato anche il nome, ed era stato lasciato tutto solo sulla luna... solo con l'Uomosulla-Luna e il suo cane. Roverandom - come faremo bene a chiamarlo anche noi d'ora in poi, per evitare confusioni - non ci fece caso. Le nuove ali erano un gran divertimento, e la luna si rivelò un posto molto interessante, tanto che dimenticò
di riflettere ancora sul perché Psamathos l'avesse mandato lassù. Doveva passare molto tempo prima che lo scoprisse. Nel frattempo ebbe ogni sorta di avventure, da solo o con il Rover-luna. Volando non si allontanava troppo dalla torre perché sulla luna, specialmente sul lato illuminato, gli insetti sono molto grandi e feroci, e spesso così pallidi, diafani e silenziosi che a malapena li senti o li vedi arrivare. I raggi di luna splendono e ondeggiano soltanto, e Roverandom non ne aveva paura; le grandi falene-drago bianche dagli occhi di fuoco facevano molta più impressione; e c'erano le mosche-spada, e i vetro-coleotteri con mandibole simili a trappole d'acciaio, e miniunicorni albini con pungiglioni taglienti come lance e cinquantasette varietà di ragni pronti a mangiare tutto quel che riuscivano a catturare. E peggio degli insetti erano i pipistrelli-ombra. Roverandom faceva quel che facevano gli uccelli sul quel lato della luna: volava poco e solo vicino a casa o in spazi aperti con una buona visuale tutt'intorno, lontano dai nascondigli degli insetti; e camminava molto silenziosamente, specie nei boschi. La maggior parte delle creature lunari si muoveva senza far rumore, perfino gli uccelli cinguettavano di rado. I suoni che si sentivano provenivano per lo più dalle piante. I fiori - le campanelline bianche, le lobelie viola e le campanule d'argento, le noctiluche e le glorie del mattino, le fucsie tintinnanti, le roselline flautate, i tromboncini striati, le canne palustri (di un colore molto tenue) e molti altri con nomi intraducibili - non facevano che emettere suoni tutto il giorno. E le erbe piumate e le felci - fatate corde di violino, polifonie, lino lanceolato, licheni dei boschi - e ogni verzura ai bordi di stagni lattiginosi continuavano a suonare quella musica dolce fino alle ore notturne. Infatti si sentiva sempre una lieve melodia di sottofondo. Ma gli uccelli tacevano; erano per lo più molto piccoli e saltellavano nell'erba grigia ai piedi degli alberi, schivando le mosche e gli sciami delle libellule svolazzanti in picchiata; molti avevano perso le ali o dimenticato come usarle. Roverandom li faceva sobbalzare nei loro nidi di terra mentre si muoveva con precauzione nell'erba chiara, tendendo agguati ai topini bianchi o seguendo a fiuto le tracce degli scoiattoli grigi al limitare dei boschi. I boschi erano pieni di campanule d'argento che tintinnivano tutte insieme dolcemente quando le vide per la prima volta. Gli snelli tronchi neri svettavano dritti, alti come campanili, staccandosi dal tappeto argenteo ed erano ricoperti da un manto di foglie azzurre che non cadevano mai; così
che nemmeno il più potente telescopio delle terra ha mai visto quei tronchi tanto alti o le campanule d'argento sottostanti. Più avanti nell'anno gli alberi esplodono tutti insieme in una fioritura di gemme d'oro pallido; e poiché i boschi della luna sono quasi infiniti, non c'è dubbio che questo alteri l'aspetto della luna per chi la guarda dal mondo. Ma non dovete immaginarvi che tutto il tempo Roverandom lo trascorresse girando in modo tanto cauto e furtivo. Dopo tutto i cani sapevano che l'Uomo non li perdeva di vista, e fecero un sacco di cose avventurose e si divertirono tantissimo. A volte girovagavano insieme per miglia e miglia, dimenticando di tornare alla torre per giorni interi. Un paio di volte si avventurarono sulle montagne più distanti, e si spinsero così lontano che, guardando indietro, la torre lunare sembrava un ago lucente; si sedettero sulle bianche rocce a contemplare le greggi di minuscole pecore (non più grandi del Rover dell'Uomo-sulla-Luna) che si spostavano sul terreno collinoso. Ogni pecora aveva al collo un campanellino d'oro, e ogni campanella tintinnava ogni volta che le pecore muovevano un passo in avanti per brucare una nuova razione di erba grigia; e tutte le campanelle erano intonate, e tutte le pecore scintillavano come neve al sole, e nessuno le disturbava mai. I due Rover erano troppo beneducati (e avevano troppo timore dell'Uomo) per farlo, e non c'erano altri cani su tutta la luna, né c'erano mucche, cavalli, leoni, tigri o lupi; infatti non c'era nulla a quattro zampe più grande dei conigli o degli scoiattoli (e per giunta formato giocattolo), solo di tanto in tanto si poteva incontrare, in posa solenne e raccolto nei suoi pensieri, un enorme elefante bianco grande quasi come un asino. Non ho menzionato i dragoni, perché per il momento non entrano ancora nella storia, e comunque abitavano molto lontano, a grande distanza dalla torre, e vivevano tutti in reverente timore dell'Uomo-sulla-Luna, tranne uno (ma una mezza paura ce l'aveva anche lui). Tutte le volte che i due cani tornavano alla torre e rientravano dalla finestra, trovavano sempre la cena pronta, come se avessero concordato l'orario prima; ma vedevano o sentivano l'Uomo di rado. Aveva un laboratorio nelle cantine e dalle scale salivano nuvole di candido vapore e nebbioline grigie che poi volavan via dalle finestre in alto. «Cosa fa, tutto il giorno?» domandò Roverandom a Rover. «Fa?» si stupì il cane-luna. «Oh, è sempre piuttosto occupato... anche se da quando sei arrivato sembra più occupato di quanto non l'abbia visto da un pezzo. Fabbrica sogni, credo.»
«Ma perché mai li fabbrica?» «Oh! Per l'altro lato della luna. Nessuno fa sogni da questo lato; i sognatori vanno tutti sul retro.» Roverandom si sedette e si diede una bella grattata; secondo lui la spiegazione non spiegava. Il cane-luna comunque non gli offrì chiarimenti ulteriori: se me lo chiedete, penso che non ne sapesse molto neanche lui. Tuttavia, subito dopo accadde qualcosa che per un po' eliminò queste domande dalla mente di Roverandom. I due cani ebbero un'avventura estremamente eccitante, perfino troppo finché durò: ma fu tutta colpa loro. Vagabondarono per parecchi giorni, spingendosi molto più lontano di quanto non fossero mai andati dalla venuta di Roverandom; e non si preoccuparono di chiedersi dove erano diretti. Così si perdettero e, sbagliando strada, si allontanarono via via dalla torre pensando di essere sulla via del ritorno. Il cane-luna disse che lui aveva girovagato per tutto il lato illuminato della luna e lo conosceva a menadito (era molto portato a esagerare) ma alla fine dovette ammettere che il paesaggio gli pareva un po' strano. «Temo di non essere venuto qui in tempi recenti», riconobbe, «e sto cominciando a dimenticarlo.» A dire il vero lì lui non c'era mai stato. Sbadatamente si erano spinti troppo vicino al tenebroso limite del lato buio, dove indugia ogni sorta di cose per metà dimenticate, e sentieri e ricordi s'intrecciano e divengono confusi. Proprio quando si sentivano sicuri di essere sulla via di casa, ebbero la sorpresa di trovare dinanzi a loro alte montagne, silenziose, nude e sinistre; stavolta il cane-luna non fece finta di averle viste prima. Erano grigie e non bianche, sembravano fatte di gelide ceneri antiche; ed erano intervallate da strette valli tenebrose, senza alcun segno di vita. Proprio allora prese a nevicare. Nevica spesso sulla luna ma la neve (come la chiamano loro) è di solito bella calda e molto asciutta, e si tramuta poi in una sabbia bianca, morbida, che si disperde ai quattro venti. Questa somigliava a quella che c'è da noi, bagnata e fredda; e per giunta sporca. «Mi fa venire nostalgia di casa», esclamò il cane-luna. «È proprio come quella roba che veniva giù nella città dove stavo quando ero cucciolo... nel mondo, sai. Oh! Le ciminiere, alte come gli alberi-luna; e il fumo nero; e i rossi fuochi delle fornaci! A volte mi stufo un po' del bianco. È arduo sporcarsi per davvero sulla luna.» Questo sta a dimostrare i gusti plebei del cane-luna; e poiché non esiste-
vano ancora città del genere centinaia d'anni fa, non vi sarà senza dubbio sfuggito come avesse allungato esageratamente il periodo di tempo trascorso dalla sua caduta oltre il limitare del mondo. Ma proprio in quel momento, un fiocco di neve particolarmente grande e sporco lo colpì all'occhio sinistro, e così cambiò idea. «Credo che questa roba abbia sbagliato strada e cada giù da quel vecchio mondo bestiale», osservò. «Perdinci! E ci siamo persi proprio di brutto, in più. Perdindirindina, cerchiamo un buco per ripararci.» Impiegarono un bel po' di tempo per trovare un riparo qualsiasi ed erano già tutti bagnati e infreddoliti prima ancora di arrivarci: per la verità lo erano a tal punto che s'infilarono nel primo posto che gli si parò dinanzi, senza badare a precauzioni... che invece non si dovrebbero mai tralasciare quando ci si trova in luoghi sconosciuti sull'orlo della luna. Il rifugio in cui s'infilarono non era un buco ma una caverna, e anche bella grande; era buia ma asciutta. «Che bel calduccio», esclamò il cane-luna, e chiuse gli occhi e s'addormentò quasi all'istante. «Oh!» si lamentò non molto tempo dopo, svegliandosi di botto da un bel sogno, nella tipica maniera canina. «Troppo caldo!» Balzò in piedi. Sentiva che il piccolo Roverandom stava abbaiando in fondo alla caverna e quando andò a vedere di che si trattava scorse un rivoletto di fuoco che si allungava per terra verso di loro. In quel momento non ebbe affatto nostalgia per le fornaci di casa sua; afferrò il piccolo Roverandom per la minuscola collottola e si fiondò rapido come il lampo fuori della caverna, spiccando il volo verso una vetta montuosa nei pressi. Lì i due rimasero nella neve a guardare, tremando dal freddo: e questo fu molto sciocco da parte loro. Avrebbero dovuto continuare il volo fino a casa, o verso un qualsiasi altro posto, e più veloci del vento. Come vedete, il cane-luna non sapeva tutto della luna o avrebbe riconosciuto la tana del Grande Dragone Bianco: quello che aveva solo a metà paura dell'Uomo (e neanche un po' quando era arrabbiato). Anche l'Uomo era un po' infastidito da questo dragone. «Quella draledetta 7 creatura», così la chiamava, quando doveva farvi cenno. Come forse saprete, tutti i dragoni bianchi sono originari della luna; ma questo era stato nel mondo e ne era anche ritornato, così un paio di cosette 7
Così si è cercato di riprodurre dratted (maledetto) per rispettare l'allitterazione in dratted e dragon. [N.d.T.]
le aveva imparate. Ai tempi di Merlino aveva combattuto contro il Dragone Rosso a Caerdragon, come potrete leggere nei più aggiornati libri di storia: e dopo quello scontro l'altro dragone diventò Molto Rosso. Più avanti fece ancor più danni nei Tre Reami, e andò a vivere per un po' in cima al monte Snowdon. Nessuno si arrampicò fin lassù finché ci fu lui, a eccezione di uno che il dragone sorprese mentre stava bevendo a canna da una bottiglia. L'uomo finì di bere talmente in fretta che lasciò lì la bottiglia, e da allora molti hanno seguito il suo esempio. Questo accadeva molto tempo fa, dopo che il dragone se n'era volato via a Gwynfa e dopo la scomparsa di re Artù, in un'epoca in cui le code di drago erano considerate una leccornia prelibata sulle tavole dei re sassoni. Gwynfa non è tanto lontano dal limitare del mondo, e volare da lì alla luna fu un'impresa facile per un dragone dalla forza titanica e così tremendamente cattivo com'era diventato questo. Ora risiedeva sul confine della luna, perché non conosceva bene la potenza degli incantesimi e di tutte le pratiche magiche dell'Uomo-sulla-Luna. Ciononostante, a volte osava interferire sull'intonazione dei colori. Quando dava una dragon-festa o aveva una crisi di nervi faceva uscire dalla caverna vere lingue di fuoco verdi e rosse; e frequenti erano le nuvole di fumo. Un paio di volte aveva fatto diventare tutta la luna rossa o l'aveva oscurata completamente. In situazioni così difficili l'Uomo-sulla-Luna si chiudeva in casa (insieme con il suo cane), e tutto quel che diceva era: «Di nuovo quella draledetta creatura». Non spiegava mai di quale creatura si trattasse o dove abitasse; si limitava a scendere nelle cantine, a sprigionare gli incantesimi più efficaci e a risistemare tutto il più in fretta possibile. Ora sapete tutto; e se i cani ne avessero saputo quanto voi non si sarebbero mai fermati in quel punto. Invece vi si fermarono proprio, almeno per tutto il tempo che ho impiegato a raccontarvi del Dragone Bianco. Il quale, nel frattempo, era uscito dalla caverna completo di corpaccione bianco e occhi verdi, e verde era il fuoco liquido che gli scendeva da ogni giuntura, mentre dalle nari soffiava fumo nero come una vaporiera. Poi lanciò il più mostruoso ululato. Le montagne tremarono e l'eco rimbalzò da una parete all'altra e la neve si prosciugò; le valanghe precipitarono a valle e le cascate s'immobilizzarono. Quel dragone aveva le ali, proprio come le navi avevano le vele quando erano ancora navi e non vapori; e non disdegnava di uccidere qualsiasi cosa, da un topolino alla figlia dell'imperatore. Aveva intenzione di uccide-
re i due cani e glielo urlò diverse volte prima di levarsi in volo. E fu quello il suo errore. I due schizzarono dalla vetta come razzi, e si allontanarono seguendo il vento a una media di cui lo stesso Mew sarebbe stato orgoglioso. Il dragone li inseguiva, sbattendo le ali come un mulino a vento e mordendo rumorosamente l'aria a vuoto, buttando giù le cime delle montagne e facendo tintinnare tutti i campanacci delle pecore, come se la città stesse andando a fuoco (adesso avete capito perché avevano tutte una campana al collo). Per fortuna, la direzione in cui soffiava il vento era la direzione giusta. Inoltre uno stupendo razzo luminoso si alzò dalla torre, quando lo scampanio delle pecore si fece disperato. Lo si poté vedere da ogni angolo della luna, simile a un ombrello dorato che poi si frantumò in mille fiocchi d'argento, e poco dopo provocò un'imprevista pioggia di stelle cadenti sul mondo. Serviva da guida per i due poveri cagnolini, ma voleva anche essere un avvertimento per il dragone. Questo però aveva ormai troppo fumo negli occhi per farci caso. Così l'inseguimento continuò senza tregua. Se avete mai visto un uccello che dà la caccia a una farfalla e riuscite a immaginarvi un più che gigantesco volatile che insegue due farfalline del tutto insignificanti fra le bianche montagne, allora potete cominciare a figurarvi le sterzate, i serpeggiamenti, le schivate per un soffio, il pazzo zigzagare di quel volo di ritorno a casa. Più d'una volta, prima persino che fossero a metà strada, la coda di Roverandom fu bruciacchiata dall'alito del dragone. Cosa stava facendo l'Uomo-sulla-Luna nel frattempo? Be', aveva esploso un razzo davvero magnifico, quindi aveva esclamato: «Draledetta creatura!» e anche: «Draledetti cuccioli! Provocheranno un'eclissi prima del tempo». Poi se ne era andato giù in cantina e aveva stappato un tenebroso incantesimo nero che sembrava gelatina di miele e catrame (e puzzava di Guy Fawkes, legna bruciata e cavolo bollito). Proprio in quel momento il dragone si sollevò di colpo oltre il tetto della torre e brandì un enorme artiglio per colpire Roverandom e sbatterlo nel mondo del nulla. Ma non ci riuscì. L'Uomo-sulla-Luna scoccò l'incantesimo da una finestra più bassa, e prese il dragone in pieno con uno schizzo nello stomaco (il punto più vulnerabile di tutti i dragoni) facendolo ribaltare di piatto su un fianco. Quello perse la trebisonda e andò a cozzare contro una montagna, prima di riprendere il controllo direzionale. Difficile a dirsi se il danno maggiore lo riportasse il suo naso o la montagna: erano entrambi ammaccati.
I due cani s'infilarono nella torre dalla finestra sul tetto, e ci volle un'intera settimana perché riprendessero fiato; il dragone, tutto sbilenco, riprese lentamente la strada di casa, dove per mesi andò avanti a massaggiarsi il naso. L'eclissi seguente non riuscì affatto perché il dragone era troppo intento a leccarsi il pancino per occuparsene. E non riuscì mai a cancellare gli schizzi neri dell'incantesimo che l'aveva colpito. Temo che gli dureranno per sempre. Ora lo chiamano il Mostro Chiazzato. III Il giorno seguente l'Uomo-sulla-Luna guardò Roverandom e disse: «Ce l'hai fatta per un pelo! Mi pare che tu abbia esplorato il lato chiaro proprio a dovere per un cucciolo. Credo sia arrivato il momento, non appena avrai ripreso fiato, di visitare l'altro lato». «Posso venire anch'io?» chiese il cane-luna. «Non ti farebbe bene», rispose l'Uomo, «e non te lo consiglio. Potresti vedere cose che ancor più del fuoco e dei comignoli ti farebbero venire nostalgia, e che ti risulterebbero dannose come i dragoni.» Il cane-luna non arrossì perché non poteva; e non disse nulla, ma se ne andò a sedere in un angolo chiedendosi quanto sapesse il vecchio di tutto quel che avveniva ma anche di quel che si diceva. Per un attimo si chiese anche cosa volesse dire esattamente; ma non stette a pensarci più di tanto: era un tipo un po' superficiale. Riguardo a Roverandom, quando, qualche giorno dopo, gli fu tornato il fiato, arrivò l'Uomo-sulla-Luna e lo chiamò con un fischio. E poi insieme cominciarono a scendere; scesero le scale fin giù nelle cantine che erano state scavate nella roccia e avevano certe finestrelle che dal lato del precipizio guardavano sulle grandi piane della luna; scesero poi gradini segreti che sembravano portare fin sotto le montagne finché, dopo un lungo percorso, arrivarono in un luogo completamente buio e si fermarono, benché a Roverandom continuassero i vertiginosi capogiri provocati da miglia e miglia di scale a chiocciola. Nel buio totale l'Uomo-sulla-Luna splendeva pallidamente come una lucciola, ed era quella l'unica luce di cui disponevano. Era sufficiente, tuttavia, per vedere la porta... una grande botola nel pavimento. Il vecchio la tirò su e mentre questa si sollevava sembrò che l'oscurità scaturisse dall'apertura come una nebbia, tanto che Roverandom non riuscì più a scorgere il leggero scintillio dell'Uomo.
«Salta giù, da bravo cagnetto!» gli ordinò la sua voce dal buio. E voi non sarete affatto sorpresi di apprendere che Roverandom non fu un bravo cagnetto e non si mosse neanche un po'. Retrocesse nell'angolo più remoto del piccolo vano e tirò indietro le orecchie. Aveva più paura di quel buco nero che del vecchio. Ma fu tutto inutile. L'Uomo-sulla-Luna lo sollevò semplicemente e lo fece cadere di peso nel buco nero; e mentre continuava a precipitare nel nulla, Roverandom sentì la sua voce, ormai già lontana sopra di lui, che gridava: «Lasciati cadere diritto, e poi vola seguendo il vento! Aspettami all'altro capo!» Quelle parole avrebbero dovuto consolarlo, ma non ci riuscirono. In seguito Roverandom disse sempre che a suo avviso neanche il precipitare
oltre il limite del mondo avrebbe potuto sembrargli peggiore; che quella fu la parte più sgradevole di tutte le sue avventure e che, ogni volta che ci pensava, si sentiva ancora lo stomaco sotto i piedi. Potete vedere come ancora ci pensi quando, addormentato sul tappeto davanti al camino, si lamenta e si agita nel sonno. Comunque, la fine arrivò. Dopo un tempo lunghissimo la sua caduta rallentò gradualmente finché non terminò del tutto. Per il resto del percorso dovette ricorrere alle ali, e fu come andare sempre più in alto in un'ampia canna fumaria sospinto da una forte corrente. Fu molto lieto quando finalmente arrivò in cima. Giacque respirando con affanno sull'orlo del buco all'altra estremità, in attesa obbediente e ansiosa dell'Uomo-sulla-Luna. Dovette aspettare un pezzo prima che comparisse, e così ebbe il tempo di notare che si trovava in una valle cupa e profonda, circondata tutt'intorno da basse colline scure. Nuvoloni neri sembravano riposarsi adagiati sulle sommità e al di là delle nuvole si scorgeva solo una stella. All'improvviso il piccolo cane sentì tanto sonno; un uccello nascosto in un fosco cespuglio lì vicino cantava un motivo soporifero che gli sembrava strano e meraviglioso ora che si era abituato agli uccelli muti sull'altro lato. Chiuse gli occhi. «Sveglia, cagnetto», chiamò una voce; e Roverandom balzò su in tempo per vedere l'Uomo che sbucava fuori dall'apertura su una corda d'argento che un grosso ragno grigio (molto più grosso di lui) stava legando a un albero lì accanto. L'Uomo venne fuori. «Grazie!» disse al ragno. «Ora puoi andare.» E quello se la filò, ben felice. Ci sono ragni neri sul lato scuro, ragni velenosi anche se non così grandi come i mostri del lato chiaro. Odiano qualsiasi cosa sia bianca, diafana o luminosa, specie i ragni chiari, che detestano come si detestano quei parenti ricchi che non vengono mai a trovarti. Il ragno grigio s'infilò nel buco scivolando lungo la fune, e nello stesso momento un ragno nero cadde giù dall'albero. «Allora?» gridò il vecchio al ragno nero. «Tornatene indietro. Questo è il mio ingresso privato, e non scordartelo. Però fammi una bella amaca fra quei due alberi di tasso e ti perdonerò. È una bella passeggiata su e giù dal centro della luna», disse a Roverandom, «e credo che un po' di riposo prima che arrivino non possa farmi che bene. Sono molto carini ma richiedono molta energia. Logico, potrei usare le ali, solo che le consumo troppo in fretta; e ciò implicherebbe anche dover allargare il foro, visto che le ali
della mia misura non c'entrerebbero di certo; e poi io sono un provetto arrampicatore. Allora, che te ne pare di questo lato?» continuò l'Uomo. «Scuro con un cielo chiaro, mentre l'altro era chiaro con il cielo scuro, cosa ne dici? Una bella differenza, solo che non c'è molto colore né qui né lì, non quel che io definisco colore, squillante e di più tipi insieme. Ce n'è qualche accenno sotto gli alberi, se guardi bene, lucciole e scarabei diamante, e falene rubino e simili. Troppo piccoli, ahimè; troppo piccoli, come tutte le cose luminose su questo lato. E vivono una terribile esistenza, a causa dei gufi, che sono simili ad aquile e neri come il carbone, e dei corvi, che somigliano ad avvoltoi e sono numerosi come passeri, e di tutti questi ragni neri. Ma quelli che mi piacciono meno di tutti sono i farfalloni nottuidi di velluto nero, che volano a sciami. Non si tolgono nemmeno dalla mia strada; non oso neanche emettere uno scintillio o mi si ingarbuglierebbero nella barba. Tuttavia, questo lato ha le sue attrattive, cagnetto mio: e una di queste è che nessun essere vivente e nessun cane della terra l'ha mai vista prima - da sveglio - tranne te!» Poi l'Uomo balzò improvvisamente sull'amaca che il ragno nero gli aveva intessuta mentre lui stava parlando, e s'addormentò in un battibaleno. Roverandom restò seduto tutto solo a guardarlo, non perdendo di vista i ragni neri. Minuscoli scintillii di lucciole, rossi, verdi, oro e blu occhieggiavano spostandosi rapidi di qua e di là sotto i cupi alberi senza vento. Il cielo era chiaro con strane stelle al di sopra dei ciuffi di nuvole vellutate. Sembrava che migliaia di usignoli stessero cantando in qualche altra valle, appena oltre le colline lì accanto. E poi Roverandom sentì un suono di voci infantili, o forse l'eco dell'eco di quelle voci, portata da una dolce brezza che d'un tratto aveva preso a soffiare. Si mise seduto e abbaiò quanto più forte poté da quando è iniziato questo racconto. «Povero me!» esclamò l'Uomo, completamente sveglio, saltando dritto giù dall'amaca sull'erba, quasi sulla coda di Roverandom. «Sono già arrivati?» «Chi?» domandò Roverandom. «Ma se non li hai sentiti, che hai abbaiato a fare?» disse il vecchio. «Vieni! La strada è questa.» Scesero per un lungo sentiero grigio, segnato ai lati da pietre appena luminescenti e fiancheggiato da alti cespugli. Cammina e cammina, i cespugli divennero alberi di pino e l'aria fu satura del loro profumo notturno. Poi il sentiero prese a salire e dopo un po' arrivarono in cima al punto più bas-
so dell'anello di colline che li circondava. Roverandom guardò giù nella valle adiacente; e tutti gli usignoli smisero di cantare, come se si fosse chiuso un rubinetto, mentre voci di bambini si levavano nitide e dolci, e cantavano una bella canzone modulandone il suono. Il vecchio e il cane vennero giù dalla collina di corsa e a balzelloni. Ragazzi, come saltava da roccia a roccia l'Uomo-sulla-Luna! «Dai, sbrigati!» incitava. «Sarò pure un vecchio capro barbuto, o una capra selvatica ma non riuscirai a prendermi!» E Roverandom era costretto a volare per stargli dietro. Così arrivarono all'improvviso a un burrone, non molto profondo ma scuro e lustro come giaietto. Roverandom si sporse a guardare in giù e vide un giardino al crepuscolo; e sotto il suo sguardo il crepuscolo si trasformò nel luminoso splendore del sole pomeridiano, benché non si riuscisse a scorgere la fonte di quella morbida luce che rischiarava quel luogo riparato senza superarne i confini. C'erano fontane grigie e vasti prati e bambini dovunque che danzavano sonnolenti, camminavano come in sogno e parlavano tra sé. Alcuni si muovevano quasi si stessero appena svegliando da un profondo sopore; altri correvano già ben desti e sorridenti: zappettavano, coglievano fiori, costruivano case e tende, inseguivano farfalle, giocavano a pallone, si arrampicavano sugli alberi; e tutti, proprio tutti, cantavano. «Da dove vengono tutti questi bambini?» volle sapere Roverandom, perplesso e felice. «Dalle loro abitazioni e dai loro lettini, naturalmente», replicò l'Uomo. «E com'è che sono arrivati qua?» «Quello non te lo dico proprio: e non lo scoprirai mai. Tu sei fortunato, così come lo sono tutti quelli che sono arrivati qui. Ma i bambini, a ogni buon conto, non vengono per la tua stessa strada. Alcuni vengono spesso, altri di rado, e il sogno glielo costruisco quasi tutto io. Alcuni sogni se li portano dietro, certo, come si portano il cestino della colazione a scuola, e altri (mi spiace dirlo) li fanno i ragni... ma non in questa valle, e non se li sorprendo io. E ora andiamo a unirci alla festa!» Lo sperone di giaietto scendeva ripido. Era troppo liscio perché potessero arrampicarvisi i ragni... non che qualche ragno avesse mai osato provare, perché avrebbe potuto scivolar giù e né lui né altri sarebbero mai riusciti a risalire. In quel giardino c'erano sentinelle nascoste, per non menzionare l'Uomo-sulla-Luna, senza il quale nessuna festa era completa, visto che
le feste erano sue. L'uomo scivolò dritto nel mezzo del giardino. Si sedette e si lasciò andare - sbang! - sparato in un crocchio di bambini, con Roverandom che gli rotolava addosso, dimenticandosi di volare. O che un tempo aveva potuto volare: perché, quando si tirò su da terra, scoprì che le sue ali erano scomparse. «Che fa quel cagnolino?» chiese un bambino all'Uomo. Roverandom continuava a girare su se stesso come una trottola, cercando di guardarsi la schiena. «Si cerca le ali, ragazzo mio. Crede di averle perse nella discesa precipitosa, ma le ho in tasca io. Non sono permesse le ali, quaggiù, nessuno va via senza permesso, vero?» «Sicuro, Papà-Barba-Lunga!» esclamarono all'unisono venti bambini, e uno di loro afferrò la barba del vecchio e gli si arrampicò fino alle spalle. Roverandom s'aspettava di vederlo tramutato immediatamente in una falena o in un pezzo di caucciù o in qualcos'altro. E invece l'Uomo disse: «Parola mia, sei un vero arrampicatore; ragazzo mio! Dovrò darti qualche lezione». E lanciò il bambino in aria. Quello non ricadde più giù, neanche un pezzetto. Rimase su in alto; e l'Uomo-sullaLuna gli lanciò una corda d'argento che si sfilò di tasca. «Vieni giù!» disse, e il ragazzino sdrucciolò fin nelle sue braccia, dove gli fu fatto un amichevole solletico. «Ti sveglierai, se ridi così forte», lo ammonì l'Uomo, e lo mise giù sull'erba e si allontanò inoltrandosi tra la folla. Roverandom fu lasciato a divertirsi per suo conto, e si stava giusto avvicinando a una splendida palla gialla ("Proprio come quella che avevo a casa", pensò) quando udì una voce che conosceva. «Ecco il mio cagnolino!» diceva. «Ecco il mio cagnolino! Avevo sempre pensato che fosse vero. Strano che sia qui, dopo che l'ho cercato tanto sulla spiaggia e l'ho chiamato ogni giorno tante volte, anche fischiando.» Quando Roverandom sentì quella voce si sedette sulle zampe di dietro, facendo finta di questuare. «Il mio piccolo cane mendicante!» esclamò il bambino Two (lui, naturalmente), e gli corse vicino per accarezzarlo. «Dove eri finito?» Ma tutto quel che Roverandom riuscì a spiccicare sulle prime fu: «Riesci a sentire le mie parole?» «Certo che ci riesco», disse il piccolo Two. «Ma quando mammina ti ha
portato a casa tu non volevi ascoltarmi affatto anche se io ho provato a parlarti nel miglior caninese che conoscessi. E non credo che tu abbia cercato di dirmi un gran che; sembrava che pensassi ad altro.» Roverandom gli chiese scusa, e raccontò al bambino come gli fosse caduto di tasca, e poi gli disse di Psamathos e di Mew e di tutte le altre avventure che aveva vissuto da quando s'era perso. Così il ragazzino e i suoi fratelli appresero dello strano tipo sotto la sabbia e impararono un sacco di altre cose utili che altrimenti avrebbero ignorato. Two trovava che «Roverandom» fosse un nome strepitoso. «Ti chiamerò così anch'io», disse. «E non dimenticare che sei ancora mio.» Poi giocarono a palla, e poi a nascondino, poi fecero una corsa e una lunga passeggiata e una caccia-al-coniglio (senza alcun esito, naturalmente, tranne il divertimento: i conigli erano troppo irreali), poi andarono a sguazzare negli stagni e, una dopo l'altra, fecero tutta una serie di altre cose in un tempo infinito, diventando sempre più affezionati l'uno all'altro. Il ragazzino si rotolava sull'erba rugiadosa, in una luce tipica dell'ora della nanna (ma in quel posto nessuno badava alla rugiada o a quando si andava a letto), e il cagnolino si rotolava con lui, rizzandosi sulla testa come nessun cane della terra aveva più fatto dai tempi del cagnolino morto di Mother Hubbard;8 e il piccolino rideva come un matto finché... non svanì all'improvviso lasciando Roverandom tutto solo sul prato! «S'è svegliato, tutto qui», commentò l'Uomo-sulla-Luna, comparso di botto. «È tornato a casa, e appena in tempo. Figurati, manca solo un quarto d'ora alla colazione. Dovrà saltare la passeggiata sulla spiaggia, stamattina. Bene, bene! Temo sia arrivato anche per noi il momento di andare.» Così, piuttosto riluttante, Roverandom fece ritorno al lato chiaro con il vecchio. Percorsero tutta la strada a piedi, e impiegarono moltissimo tempo; e Roverandom non si divertì come avrebbe dovuto. Videro ogni tipo di cose strane, ed ebbero molte avventure: in totale sicurezza, naturalmente, con l'Uomo-sulla-Luna così vicino. E meno male, perché c'erano tante brutte cose striscianti negli acquitrini, che avrebbero afferrato e fatto rapidamente sparire il cagnetto. Il lato oscuro era umido quanto il chiaro era asciutto, e ricco delle più straordinarie piante e creature delle quali avrei potuto parlarvi se Roverandom le avesse appena appena notate: ma non lo fece, perché stava pensando al giardino della casa e al ragazzino. Finalmente arrivarono al grigio limite, e guardarono attraverso una fes8
Personaggio di una nota filastrocca. [N.d.T.]
sura nella montagna verso la vasta pianura bianca e le cime risplendenti, oltre le valli di cenere dove abitavano molti dragoni. Videro sorgere il mondo, una luna verde pallido e oro, enorme e rotonda sopra le cime delle Montagne Lunari; e Roverandom pensò: "Ecco dove sta il mio bambino!" La distanza sembrava enorme e terribile. «Si avverano mai i sogni?» domandò. «Alcuni dei miei sì», rispose il vecchio. «Alcuni, ma non tutti; e di rado subito, o proprio allo stesso modo in cui li abbiamo sognati. Ma perché ti interessano i sogni?» «Mi stavo solo chiedendo...» rispose Roverandom. «A proposito di quel bambino», disse l'Uomo. «Lo pensavo.» Poi estrasse di tasca un telescopio che diventò lungo lungo. «Un'occhiatina non ti farà alcun male, credo.» Roverandom guardò attraverso il telescopio, o meglio vi guardò quando finalmente riuscì a chiudere un occhio e a tenere l'altro aperto. Vide con chiarezza il mondo. Per prima cosa scorse l'ultima parte del sentiero lunare precipitarsi nel mare; poi credette di distinguere lunghe fila sottili e sbiadite di gente piccola che vi veleggiava rapida sopra, ma non ne era proprio sicuro. La luna piena scomparve rapidamente. La luce del sole cominciò ad aumentare; di colpo ci fu la caletta del mago della sabbia (ma non c'erano tracce di Psamathos: Psamathos non si concedeva alle sbirciatine altrui) e dopo un po' comparvero i due ragazzini, che camminavano lungo la battigia tenendosi per mano. "Cercano conchiglie o cercano me?" si chiese il cane. Molto presto l'immagine cambiò e Roverandom scorse il cottage bianco del padre del ragazzino sulla scogliera, con il giardino che scendeva fino al mare. E al cancello vide - sorpresa sgradevole - il vecchio stregone che se ne stava seduto su una pietra, a fumare la pipa, come se non avesse altro da fare che starsene lì a guardare per sempre, con il vecchio cappellaccio verde all'indietro e il panciotto sbottonato. «Che sta facendo il vecchio Arta-come-si-chiama al cancello?» domandò Roverandom. «Credevo che mi avesse dimenticato già da tanto. Non sono ancora finite le sue vacanze?» «No, sta aspettando proprio te, cagnetto mio. Non ha dimenticato. Se ti fai vedere da quelle parti adesso, vero o giocattolo che tu sia, ti farà un altro sortilegio in quattro e quattr'otto. Non che gli rincresca dei suoi calzoni - che sono stati rammendati - ma è molto stizzito per le interferenze di Samathos; e Samathos non ha ancora finito di fare i suoi piani per trattare
con lui.» In quell'esatto momento Roverandom vide che il vento aveva fatto volar via il cappello di Artaserse e Artaserse si precipitava a rincorrerlo. In bell'evidenza, aveva una vistosa toppa ai calzoni, color arancione a macchie nere. «Credevo che uno stregone si sarebbe rattoppati i calzoni un po' meglio di così!» esclamò Roverandom. «Ma lui è convinto di aver fatto un lavoro eccellente», ribatté il vecchio. «Ha strappato un pezzo dalle tende di qualcuno con un incantesimo: quelli si sono fatti indennizzare dall'assicurazione, lui ha ottenuto il suo tocco di colore, e ora sono tutti soddisfatti. Però hai ragione tu. È sulla via del declino, mi pare. È triste, dopo tutti questi secoli, vedere un uomo che perde la propria magia: ma forse per te è una fortuna.» Con un clic l'Uomo-sullaLuna chiuse il telescopio e ripresero il cammino. «Rieccoti le tue ali», disse non appena furono arrivati alla torre. «Ora va' a farti un giro e divertiti. Non disturbare i miei raggi di luna, non uccidere i miei bianconigli e torna quando hai fame o c'è qualcos'altro che non va.» Roverandom volò a razzo a cercare il cane-luna per dirgli tutto del lato scuro; ma l'altro era un po' geloso che a un ospite di passaggio fosse stato permesso di vedere cose che a lui erano vietate, e fece finta di non essere interessato. «Si direbbe un posto abbastanza da schifo», grugnì. «Sono certo di non volerlo vedere. Immagino che ti annoierai ora nel lato bianco, con me solo per compagnia, senza tutti i tuoi amici a due zampe. Peccato che lo stregone persiano sia così insistente e tu non possa tornartene a casa.» Roverandom ci rimase piuttosto male, e ripeté più volte al cane-luna che era molto contento di essere tornato alla torre e non si sarebbe mai stancato del lato bianco. Tornarono subito a essere buoni amici e fecero tantissime cose insieme; eppure, quel che il cane-luna aveva detto quando era fuori dei gangheri si dimostrò vero. Non era colpa di Roverandom, e lui faceva del suo meglio per non lasciarlo trapelare, ma chissà perché nessuna delle avventure o delle esplorazioni gli sembrava più così interessante come prima, e continuava sempre a pensare a come si fosse divertito nel giardino col piccolo Two. Visitarono la valle dei candidi gnomi-luna (abbreviati in gnomuna) che cavalcano i bianconigli e fanno frittelle con i fiocchi di neve e coltivano nei loro ordinalissimi orticelli minuscoli alberi di mele dorati, grandi come
ranuncoli. Sparsero frammenti di vetro e chiodini fuori dalle tane dei dragoni più piccoli (mentre quelli dormivano), e rimasero svegli fin nel cuore della notte per sentirli ruggire di rabbia: i dragoni hanno spesso il pancino ipersensibile, come ho già avuto occasione di dirvi, e vanno a bere ogni notte a mezzanotte, se non più spesso. A volte i due cani osarono stuzzicare i ragni: mordicchiando le ragnatele, liberando i raggi di luna e scappando via appena in tempo, con i ragni che lanciavano loro i lazo dalla cima delle colline. Ma Roverandom continuava a star di vedetta, in attesa del postino Mew e del giornale News of the World (per lo più assassini e partite di calcio, come sa perfino un cagnetto; ma qualche volta, in un angolino, c'è qualcosa di meglio). Si perdette la nuova visita di Mew perché era intento a uno dei suoi vagabondaggi, ma quando tornò il vecchio stava ancora leggendosi le lettere e le notizie (e pareva anche di ottimo umore, seduto sul tetto con i piedi penzoloni oltre l'orlo, fumando un'enorme pipa di creta bianca, emettendo nuvole di fumo come una locomotiva e sorridendo a tutta bocca nel tondo viso rugoso). Roverandom sentì che non ce la faceva più. «Ho un dolore dentro», dichiarò. «Voglio tornare dal piccolino, in modo che il suo sogno possa avverarsi.» Il vecchio posò la lettera (parlava di Artaserse, ed era molto divertente) e si tolse la pipa di bocca. «Devi proprio andare? Non puoi fermarti ancora? È stato un taale piacere conoscerti. Torna a trovarmi quando vuoi!» disse, tutto d'un fiato. «Benissimo!» proseguì poi in tono più pacato. «Artaserse è bello che sistemato.» «In che modo??» domandò con veemenza Roverandom, che non stava in sé dalla curiosità. «Ha sposato una sirena ed è andato a stare negli abissi del Profondo Mare Blu.» «Speriamo che gli rammendi meglio i calzoni. Una toppa d'alga verde ben s'intonerebbe al suo cappello verde.» «Caro mio! Lui s'è sposato con un completo nuovo color verde alga, bottoni di corallo rosa e spalline di anemoni di mare, e il cappellaccio gliel'hanno bruciato sulla spiaggia! Ha combinato tutto Samathos. Oh, Samathos è profondo, profondo come il Mare Blu, e mi aspetto che in questo modo voglia sistemare un sacco di faccenduole a suo piacimento, e non
solo la tua, cagnetto mio, ma molte di più. «Mi chiedo come finirà! Mi sembra che Artaserse stia entrando nella sua ventesima o ventunesima infanzia, al momento; fa il difficile per le piccole cose. È molto ostinato, questo è certo. Una volta era un mago piuttosto bravo, ma gli è venuto un pessimo carattere ed è diventato un gran rompiscatole. Quando arrivò a metà pomeriggio a tirar fuori dalla sabbia il vecchio Samathos con un badile di legno e lo estrasse dalla sua tana prendendolo per le orecchie, il Samatista pensò che avesse davvero esagerato, e non me ne stupisco. "Tanto disturbo, proprio nel momento migliore del mio sonno, e tutto per un povero disgraziato d'un cagnolino"; questo mi scrive, e non c'è bisogno che tu arrossisca. «Allora, quando gli animi di tutti e due si sono un po' placati, lui ha invitato Artaserse a una festa di sirene, e tutto accadde così. Hanno portato Artaserse a fare una nuotata al chiaro di luna, e quello non tornerà più in Persia e nemmeno a Persici. Si è innamorato della ricca figlia del Re del Mare, stagionata ma deliziosa, e si sono sposati la notte seguente. «Tutto per il meglio, forse. È da molto che nell'Oceano non c'era un Mago a tempo pieno. Proteo, Poseidone, Tritone, Nettuno e tutta quella genia, sono diventati fraguglie o cozze tanto tempo fa, e comunque loro non conoscevano molto le cose al di fuori del Mediterraneo e non se ne curavano gran che: amavano troppo le sardine. Anche il vecchio Niord si è ritirato da parecchio: riusciva a dedicarsi ai suoi affari solo a metà, naturalmente, dopo il suo stupido matrimonio con la gigantessa... ricordi, lei s'era innamorata di lui perché aveva i piedi puliti (una benedizione per la casa), disamorandosi subito, ma troppo tardi, quando scoprì che erano bagnati. Ora è agli sgoccioli, mi han detto; e malfermo sulle gambe, povero caro. Il carburante marino gli ha fatto venire una brutta tosse, e s'è trasferito sulla costa dell'Islanda per prendere un po' di sole. «C'era il Vecchio del Mare, naturalmente. Era mio cugino, ma non sono orgoglioso della parentela. Era un vero peso: si rifiutava di camminare e voleva sempre essere portato, come avrai sentito. E fu la sua fine. Si sedette su una mina galleggiante (sai quel che voglio dire) un anno o due fa, proprio su uno degli spunzoni! Neanche la mia magia poté fare qualcosa in quella circostanza. Fu peggio di quel che accadde a Humpty Dumpty.» «E Britannia?» chiese Roverandom, che dopo tutto era suddito britannico; a dire il vero, era un po' stufo di tutto questo, e voleva sentir parlare ancora del suo stregone. «Credevo che Britannia dominasse le onde.» «Lei non si bagna mai davvero i piedi. Preferisce accarezzare i leoni sul-
la spiaggia e rimanere seduta su un penny con un tridente in mano... e comunque, nel mare c'è ben altro da dominare che le onde. Adesso hanno Artaserse, e speriamo che possa essere utile. Trascorrerà i primi anni cercando di far crescere persiche sui polipi, se glielo permetteranno; e sarà più facile che non mantenere l'ordine tra la gente del mare. «Bene, bene, bene: dov'eravamo? Ma certo: puoi tornare a casa, adesso, se lo vuoi. Anzi, per non essere troppo beneducato, sarebbe ora che te ne tornassi a casa il più presto possibile. Per prima cosa farai visita al vecchio Samathos... e non seguire il mio cattivo esempio: non dimenticare le P quando vi incontrate!» Mew si rifece vivo il giorno dopo con una consegna extra; un'immensa quantità di lettere per l'Uomo-sulla-Luna, e fasci di giornali: Il Settimanale Marino Illustrato, Articoli Oceanici, Posta del Mare, La Conchiglia, Il Tuffo del Mattino. Tutti avevano la stessa foto (in esclusiva) del matrimonio di Artaserse sulla spiaggia al chiaro di luna, con Mr. Psamathos Psamathides, il «ben noto finanziere» (un mero titolo di rispetto), che sorrideva con tutti i denti nello sfondo. Ma erano comunque più belle delle nostre foto, perché almeno erano a colori, e la sirena sembrava davvero bellissima (la coda era nascosta dalla schiuma). Era giunto il momento dei commiati. L'Uomo-sulla-Luna sorrideva soddisfatto a Roverandom; e il cane-luna cercava di sembrare distaccato e indifferente. Lo stesso Roverandom aveva la coda a penzoloni, e tutto quello che disse fu: «Ciao, piccolo! Abbi cura di te, non disturbare i raggi di luna, non uccidere i bianconigli, e non mangiare troppo a cena!» «Piccolo sarai tu!» lo rimbeccò il Rover lunare. «E smettila di mangiare braghe di stregoni!» Tutto qui: eppure, secondo me, cominciò subito a tampinare l'Uomo-sulla-Luna perché lo mandasse in vacanza a far visita a Roverandom. E da allora gli è stato dato il permesso più volte. Dopo i commiati, Roverandom tornò indietro con Mew, e l'Uomo ridiscese nelle sue cantine e il cane-luna restò sul tetto a guardare finché non scomparvero alla sua vista. IV Soffiava un vento freddo dalla Stella del Nord quando arrivarono vicino al limite del mondo e i gelidi spruzzi della cascata li infradiciarono tutti. Il viaggio di ritorno era stato più duro, forse perché la magia del vecchio
Psamathos se l'era presa comoda; furono quindi lieti di fermarsi a riposare all'Isola dei Cani. Ma poiché Roverandom era ancora in misura ridotta per via dell'incantesimo, non si divertì molto. Gli altri cani erano troppo grossi e rumorosi e troppo sprezzanti; e gli ossi degli alberi-di-ossi troppo grandi e ossuti. Era l'alba del giorno-dopo-il-giorno-dopo-domani quando giunsero finalmente in vista delle scure scogliere dove abitava Mew; avevano il sole caldo sulla schiena e le sommità delle collinette di sabbia erano già chiare e asciutte quando atterrarono nella caletta di Psamathos. Mew lanciò un gridolino e batté il becco su un legnetto che era per terra. Il legnetto si rizzò immediatamente in aria, diventando l'orecchio sinistro di Psamathos, subito seguito da un altro orecchio e poi, rapidamente, dal resto dell'orripilante testa e dal collo del mago. «Che volete voi due a quest'ora del giorno?» bofonchiò Psamathos. «È il mio momento preferito per dormire.» «Siamo tornati!» annunciò il gabbiano. «A quanto vedo, ti sei concesso di farti riportare indietro sulla sua schiena», disse Psamathos, rivolgendosi al cagnolino. «Dopo che eri andato a caccia di draghi, credevo che avresti trovato facile il breve volo fino a casa.» «Ma, signore, per favore», mormorò Roverandom, «le ali le ho restituite: non erano mica mie per davvero. Piuttosto, mi piacerebbe tornare a essere un cane normale.» «Oh, ma certo. Spero comunque che tu ti sia divertito come "Roverandom". Ora l'avventura è finita. Puoi tornare a essere solo Rover, se lo vuoi veramente. E puoi andartene a casa a giocare con la tua palla gialla e dormire in poltrona quando ti capita e accoccolarti in grembo ed essere di nuovo un rispettabile cane-bau.» «E il bambino?» chiese Rover. «Ma se sei scappato via da lui, sciocchino, andandotene addirittura sulla Luna!» sbottò Psamathos, fingendo di essere stizzito e sorpreso, ma con un allegro scintillio negli occhi furbetti. «A casa, ho detto, e casa intendo. Non farfugliare e non discutere!» Quel tapino di Roverandom farfugliava perché stava cercando d'infilare un gentile «Signor P-P-P-samathos». Alla fine ci riuscì. «P-P-Per P-P-Piacere, signor P-P-P-samathos», disse in tono commovente, «P-P-Per P-P-Piacere, mi P-P-Perdoni, ma l'ho incontrato di nuovo; ora non scapperò più; e poi io sono di sua proprietà, no? Perciò dovrei tor-
nare con lui.» «Ma che sciocchezze dici mai? Non sei suo e non ci devi tornare. Tu appartieni a quella vecchia signora che ti comprò per prima e devi tornare da lei. Non si possono comprare cose rubate o soggette a incantesimo, come sapresti se conoscessi la legge, sciocco d'un cane. La madre del piccolo Two ha sprecato sei soldi per te, fine del discorso. E che cosa significa mai incontrarsi in sogno?» concluse Psamathos strizzando vistosamente un occhio. «Credevo che qualcuno dei sogni dell'Uomo-sulla-Luna si realizzasse», disse triste il piccolo Rover. «Ah davvero? Be', sono affari che riguardano l'Uomo-sulla-Luna. Quel che riguarda me ora è: farti tornare alle tue dimensioni giuste e rimandarti al tuo posto. Artaserse è partito verso altre sfere di utilità, così non dobbiamo più preoccuparci di lui. Vieni qui!» Afferrò Rover, gli fece passare la mano grassoccia sulla testa e subito... non ci fu nessun cambiamento! Ripeté tutta l'operazione daccapo, e ancora non cambiò nulla. Allora Psamathos venne fuori dalla sabbia e Rover notò per la prima volta che aveva le gambe come quelle dei conigli. Batté i piedi per terra e s'infuriò e scalciò sabbia per aria e soffiò rumorosamente nelle narici come un carlino arrabbiato: e ancora non accadde nulla! «Raggirato da uno stregone d'alghe, gli venga una verruca!» imprecò. «Raggirato da un persiano mangiatore di persiche, possano appenderlo e impallinarlo!» urlò, e continuò a urlare fino a quando non fu esausto. Allora si sedette. «E va bene», disse alla fine quando si fu calmato. «Vivi e impara! Ma Artaserse è molto strano: chi avrebbe mai pensato che si sarebbe ricordato di te nel bailamme del suo matrimonio o che avrebbe sprecato il suo sortilegio più forte su un cagnetto prima di partire in luna di miele? Come se il suo primo incantesimo non fosse già più di quanto non meriti un piccolo cucciolo sciocco! Roba da non crederci! «Be', a ogni buon conto non devo star lì a riflettere su ciò che conviene fare», continuò Psamathos. «C'è solo una possibilità. Devi andare a cercarlo e chiedergli scusa. Ma ti do la mia parola che mi ricorderò di questo suo affronto finché il mare avrà il doppio del sale e la metà dell'acqua. Adesso voi due andatevene a fare una passeggiata e tornate fra una mezzoretta, quando il mio umore sarà migliorato!» Mew e Rover se ne andarono lungo la spiaggia e su per la scogliera,
Mew volando molto adagio e Rover trotterellandogli dietro tutto triste. Si fermarono davanti alla casetta del padre del piccolo; Rover entrò dal cancello e si sedette in un'aiola sotto la finestra dei bambini. Era ancora presto ma lui abbaiò forte, speranzoso. O i ragazzini dormivano ancora o non c'erano, perché nessuno si affacciò. Almeno così pensò Rover. Aveva dimenticato che le cose nel mondo sono diverse da quelle del giardino sulla luna, e che l'incantesimo di Artaserse sulle sue dimensioni e sul suo abbaiare durava ancora. Dopo un po' Mew lo riportò tristemente alla caletta. Lì lo aspettava una sorpresa del tutto imprevista. Psamathos stava chiacchierando con una balena! Una balena enorme, Uin, la più anziana delle Balene Giuste. Al piccolo Rover sembrava una montagna, con la grande testa riversa in una profonda pozza vicino al bordo dell'acqua. «Mi spiace di non aver potuto procurare nulla di più piccolo, così sui due piedi», disse Psamathos. «Ma è molto comoda!» «Entra!» disse la balena. «Arrivederci! Entra!» disse il gabbiano. «Entra!» disse Psamathos; «e fa' in fretta! E non mordere o graffiare nulla all'interno; potresti far venire la tosse a Uin, e allora sarebbero guai.» Era un brutto momento - quasi come quello in cui aveva dovuto saltare nel buco giù nella cantina dell'Uomo-sulla-Luna - e Rover indietreggiò, così che Mew e Psamathos dovettero spingerlo dentro. Lo fecero senza tante moine; e le mascelle della balena si chiusero con uno schiocco. L'interno era molto buio e sapeva di pesce. Rover rimase seduto a tremare; mentre stava lì fermo (senza osare nemmeno grattarsi le orecchie) sentì, o gli sembrò di sentire, il fruscio e il battere della coda della balena sulle onde; e provò, o gli parve di provare, la sensazione di andare sempre più giù, più in basso verso gli abissi del Profondo Mare Blu. Ma quando la balena si fermò e spalancò di nuovo la bocca (ben felice di farlo: perché le balene preferiscono viaggiare pescando a strascico con le mascelle spalancate, facendo ogni volta una bella retata di cibo, anche se Uin era una bestiola molto riguardosa) e Rover occhieggiò fuori, il mare era profondo, incommensurabilmente profondo, ma niente affatto blu. C'era solo una leggera luce verde soffusa, e Rover uscendo si trovò su un sentiero di sabbia bianca che si snodava attraverso una foresta scura e fantastica. «Sempre diritto! Non devi andare molto lontano», lo avvertì Uin. Rover continuò sempre diritto, per quanto glielo permetteva il sentiero, e
presto dinanzi a sé vide il cancello di un grande palazzo, che pareva fatto di pietra bianca e rosacea, scintillante d'una tenue luce propria, mentre dalle tante finestre uscivano limpide luci verdi e azzurre. Tutt'intorno alle mura si levavano alti alberi marini, più alti delle cupole del palazzo che si allargavano ampie e tonde, luccicanti nell'acqua scura. I grossi tronchi gommosi si piegavano e ondeggiavano come fili d'erba, e l'ombra dei rami senza fine era affollata di pesciolini dorati, argentei, rossi, blu e fosforescenti, simili a uccelli. Ma i pesci non cantavano. Cantavano invece le sirene all'interno del palazzo. E come cantavano! E tutte le fate del mare cantavano in coro, e la musica sgorgava dalle finestre, mentre i mille abitanti del mare suonavano corni e flauti e lire di tartaruga. Al suo passaggio gnomi marini ghignavano nel buio alla base degli alberi, e Rover affrettò il passo quanto poté... ma scoprì che i suoi passi erano lenti e pesanti sott'acqua a quella profondità. Perché non annegava? Non lo so, ma credo che ci avesse pensato Psamathos Psamathides (lui sul mare sa molto più di quanto la gente si immagini, benché non si bagni nemmeno la punta dei piedi se può evitarlo), mentre Mew e Rover erano andati a fare un giro e lui era rimasto a farsi passare la rabbia e a escogitare un nuovo piano. Comunque Rover non annegò: anche se, prima di arrivare alla porta, già desiderava trovarsi altrove, magari nella pancia bagnata della balena. Dai cespugli color porpora e dai ciuffi spugnosi ai due lati del sentiero lo fissavano certi brutti ceffi dalle forme strane che lo facevano sentire molto a disagio. Finalmente arrivò al vasto portone... un arco dorato frangiato di coralli con una porta di madreperla adorna di denti di pescecane. Il batacchio era un enorme anello incrostato di cirripedi bianchi con i loro nastrini rossi pendenti; naturalmente Rover non ci arrivava, né sarebbe riuscito comunque a smuoverlo. Allora abbaiò, e con sua grande sorpresa gli uscì un latrato piuttosto forte. All'interno la musica cessò al terzo abbaiare, e il portone si spalancò. E chi credete lo aprisse? Artaserse in persona, vestito di velluto color persica e calzoni di seta verde; aveva sempre una grossa pipa in bocca, solo che stavolta soffiava splendide nuvole color arcobaleno anziché fumo di tabacco; e non portava il cappello. «Salve!» l'accolse. «Così sei arrivato! Pensavo che prima o poi ti saresti stufato del vecchio P-samathos.» (come grufolò su quell'esagerata P) «Non può fare proprio tutto. Be', perché mai sei venuto quaggiù? Qui c'è una festa e tu hai interrotto la musica.»
«Per favore, signor Artersarse, cioè Ertasarse», esordì Rover piuttosto agitato, cercando di essere il più gentile possibile. «Lascia perdere la grafia esatta, io non ci bado!» disse lo stregone in tono iroso. «Va' avanti con la spiegazione e sbrigati; non ho tempo per le lunghe tiritere.» Si dava arie di grande importanza (con i forestieri) dopo il matrimonio con la ricca figlia del Re del Mare e la sua nomina alla carica di Mago del Pacifico e dell'Atlantico (la gente del mare, quando lui non era presente, abbreviava chiamandolo PAM). «Se vuoi parlarmi per una questione urgente, faresti meglio a entrare e ad aspettare nell'ingresso; potrei dedicarti un minuto dopo il ballo.» Chiuse il portone alle spalle di Rover e se ne andò. Il cagnolino si trovò in un immenso luogo buio sotto una cupola scarsamente illuminata. Tutt'intorno c'erano archi a punta con tendaggi d'alghe, quasi tutti immersi nell'oscurità; ce n'era uno solo ben illuminato e da lì proveniva il forte suono d'una musica che sembrava continuare all'infinito, senza mai smettere, senza mai ripetersi e senza mai interrompersi per fare una pausa. Rover si stancò presto d'aspettare, così si avvicinò all'arco illuminato e spiò dalle tende. Scorse un'amplissima sala da ballo con sette cupole e diecimila colonne di corallo, risplendente per pura magia e colma di calda acqua frizzante. Tutte le sirene dalle chiome d'oro e quelle dalle chiome brune intrecciavano danze cantando... e non danzavano sulle code, ma nuotando in sincrono, avanti e indietro, in su e in giù, nell'acqua limpida. Nessuno fece caso al naso del cagnetto che faceva capolino tra le alghe dell'ingresso, così, dopo aver guardato per un po', Rover scivolò dentro. Il pavimento era di sabbia d'argento con minuscole conchiglie farfalla, che battevano lievi le ali spalancate al movimento dell'acqua; stava procedendo con precauzione, tenendosi rasente al muro, quando una voce disse all'improvviso sopra di lui: «Ma che bel cagnolino! È un cane-terra, non un cane-mare, ne sono certa. Come avrà fatto ad arrivare qui un essere così piccino!» Rover guardò in su e vide una bellissima signora-mare con un grande pettine nero nei capelli d'oro, seduta su una sporgenza poco sopra di lui. La tanto deprecabile coda le spenzolava all'ingiù; stava rammendando uno dei calzini verdi di Artaserse. Era, chiaramente, la neo signora Artaserse (in genere nota come Principessa Pam; ed era molto benvoluta anche se non si poteva dire lo stesso del marito). Al momento, Artaserse era seduto accanto a lei, e avesse o no il tempo per lunghe tiritere, ora ne stava sentendo
una della moglie. O meglio, era stato a sentirla finché non era spuntato Rover. La signora Artaserse interruppe tiritera e rammendo non appena lo vide e galleggiando fin giù lo raccolse e se lo portò fino al divano. Si trattava in realtà di un sedile accanto alla finestra del primo piano (una finestra interna): non ci sono scale nelle case-mare e neanche ombrelli, e per lo stesso motivo. Non c'è nemmeno una gran differenza tra porte e finestre.
La signora-mare sistemò presto la sua bella (e piuttosto grassoccia) persona comodamente sul divano e si mise Rover in grembo: subito si levò un forte grugnito da sotto il sedile. «Giù a cuccia, Rover! Fa' la cuccia, da bravo!» disse la signora Artaserse. Ma non si stava rivolgendo al nostro Rover, stava parlando a un bianco cane-mare che, nonostante le sue parole, sbucò fuori ringhiando e bronto-
lando, battendo l'acqua con i piedi palmati, agitando la coda larga e piatta e soffiando bollicine dal naso aguzzo. «Che orribile creaturina!» bofonchiò il nuovo cane. «Guardate che codino miserevole! Guardategli le zampe! E quella insulsa livrea!» «Ma guardati tu», reagì Rover, dal grembo della signora, «e dopo non vorrai ripetere l'esperienza. Chi ti ha chiamato Rover? Sei un incrocio tra un'anatra e un girino che finge d'essere un cane!» Dal che potete dedurre come fra i due fosse amore a prima vista. Presto però divennero grandi amici: forse non così amici come lo erano stati Rover e il cane-luna, ma solo perché il soggiorno sotto il mare fu più breve, e gli abissi marini per i cagnolini non sono un posto allegro come la luna, pieni come sono di recessi cupi e spaventosi dove la luce non è mai arrivata né mai arriverà, perché non saranno mai scoperti fino a quando la luce non sarà scomparsa. Laggiù vivono orribili creature, troppo antiche perché le si possa immaginare, troppo refrattarie agli incantesimi, troppo grandi per misurarle. Artaserse l'aveva già scoperto per conto suo. Il posto di PAM non era certo una sinecura. «Andate a farvi una bella nuotata adesso e divertitevi!» raccomandò sua moglie, quando la zuffa tra i cani si fu placata e i due si stavano solo sniffando a vicenda. «Non disturbate il pesce-fuoco, non mordete gli anemoni di mare, non fatevi prendere dalle vongole, e tornate per cena!» «La prego, io non so nuotare», dichiarò Rover. «Povera me, che disastro!» si lamentò lei. «Pam, guarda un po'» - era l'unica finora che lo chiamasse apertamente così - «c'è qualcosa di concreto da fare per te, finalmente.» «Certo, mia cara!» rispose lo stregone, desideroso di compiacerla e lieto di poter dimostrare di avere un potere magico reale e di non essere solo un inutile burocrate (attaccato come un'ostrica alla poltrona). Estrasse una piccola bacchetta magica dalla tasca del panciotto - in realtà era la sua penna stilografica, ormai inutilizzabile per scrivere: la gente del mare usa uno strano inchiostro attaccaticcio che non va bene per le stilografiche - e tracciò dei segni ondeggianti su Rover. Nonostante ciò che qualcuno aveva detto, Artaserse era a suo modo un mago molto bravo (o Rover non avrebbe mai vissuto queste avventure); la magia era un'arte minore, ma aveva bisogno di molta pratica. A ogni modo, dopo i primi segni, la coda di Rover cominciò ad appiattirsi, i piedi a diventare palmati e il suo mantello ad assomigliare sempre più a un impermeabile. A metamorfosi ultimata, Rover prese subito dimestichezza con
i cambiamenti; scoprì che era più facile imparare a nuotare che a volare, quasi altrettanto piacevole e non così stancante; a meno che non si volesse scendere in profondità. La prima cosa che fece, dopo una nuotata di prova intorno alla sala da ballo, fu mordere la coda all'altro cane. Per gioco, naturalmente; ma, gioco o no, si accapigliarono quasi subito, perché il cane-mare era di temperamento molto suscettibile. Rover si salvò solo allontanandosi il più in fretta possibile: e dovette anche essere agile e veloce. Ragazzi, che roba: una caccia vera e propria, dentro e fuori delle finestre, lungo i passaggi bui, intorno alle colonne, fino in cima alle cupole; in ultimo il cane-mare era esausto e anche il suo cattivo umore s'era esaurito: si sedettero tutti e due a riposarsi sulla cupola più alta vicino al pennone. La bandiera del Re del Mare, un vessillo d'alga rosso e verde, costellato di perle, pendeva galleggiando dall'asta. «Come ti chiami?» volle sapere il cane-mare dopo una pausa per riprender fiato. «Rover?» esclamò perplesso. «Ma quello è il mio nome, quindi non può essere il tuo. L'ho avuto prima io.» «Come lo sai?» «Ma certo che lo so! Vedo che sei solo un cucciolo, e poi sei qui da appena cinque minuti. L'incantesimo che mi hanno lanciato è vecchio di anni e anni, centinaia d'anni. Penso di essere stato il primo di tutti i cani Rover. «Il mio primo padrone fu un vero Girovago, girava per tutti i mari con la sua nave, specie nei mari del nord. Era un tipo di galera normanna dalle vele rosse che a prora aveva una polena intagliata a forma di drago; l'aveva chiamata Serpente Rosso, e le voleva molto bene. «Io volevo bene a lui, anche se ero solo un cucciolo e lui non s'accorgeva quasi di me; non ero abbastanza grande per andare a caccia e lui non prendeva cani a bordo. Un giorno mi imbarcai senza esser stato invitato. Stava salutando sua moglie; il vento soffiava e i suoi uomini stavano spingendo il Serpente Rosso sulle onde lunghe verso il largo. Il collo del drago era coperto di schiuma e io sentii d'improvviso che se non avessi seguito il padrone non l'avrei più rivisto dopo quel giorno. Così mi intrufolai a bordo in qualche modo e mi nascosi dietro un barile d'acqua; quando mi scoprirono eravamo in alto mare e la terra si scorgeva appena all'orizzonte. «Fu allora che mi chiamarono Rover, quando mi tiraron fuori per la coda. "Ecco un bel cane giramondo", disse uno. E un altro dagli occhi strani
esclamò: "Avrà un destino bizzarro, e non tornerà più a casa". Infatti a casa non ci sono più tornato e non sono neppure diventato più grosso, anche se ora sono molto più vecchio... e più saggio, naturalmente. «Durante quel viaggio ci fu una battaglia in mare, e io corsi sul ponte di prua sotto una pioggia di frecce, mentre le spade facevano risuonare gli scudi. Ma gli uomini del Cigno Nero vennero all'arrembaggio e spinsero tutti i marinai del mio padrone giù dalla nave. Lui fu l'ultimo. Stette ritto accanto alla testa di drago e poi si tuffò in mare con tutta la corazza: io mi tuffai dietro di lui. «Lui arrivò sul fondo prima di me e lo presero le sirene; ma io dissi loro di riportarlo presto a terra, perché molti avrebbero pianto se lui non fosse tornato. Loro mi sorrisero, lo sollevarono e lo portarono via. Ora tra loro c'è chi dice che lo riportarono a terra, e chi scuote il capo dubbiosa. Non ci si può fidare delle sirene se non per tenere un segreto: in quello sono più brave delle ostriche. «Penso spesso che lo abbiano sepolto nella sabbia bianca. Lontano da qui c'è una parte del Serpente Rosso che gli uomini del Cigno Nero fecero affondare; o almeno c'era l'ultima volta che sono passato da lì. Una foresta d'alghe gli cresce tutt'intorno, tranne che sulla testa del drago. Chissà perché le conchiglie non gli si sono attaccate e sotto c'è un mucchietto di sabbia bianca. «Sono andato via da quei posti tanto tempo fa. Sono diventato a poco a poco un cane-mare; a quei tempi le donne-mare più anziane praticavano molto la stregoneria e una fu molto buona con me. Fu lei a regalarmi al Re del Mare, il nonno dell'attuale sovrano, e da allora sono rimasto a palazzo e nei dintorni. Questa è la mia storia. È accaduta centinaia di anni addietro, e ho girato i mari in lungo e in largo, ma non sono mai tornato a casa. Ora parlami di te. Non è che per caso tu provenga dal Mare del Nord? - in quei giorni lo chiamavamo Mare d'Inghilterra - o conosci qualcuno dei vecchi posti vicino alle isole Orcadi?» Il nostro Rover dovette confessare che non aveva sentito nominare altro che «il mare» prima, e neppure molte volte. «Però sono stato sulla luna», disse, e raccontò al nuovo amico quanto riuscì a fargli capire. Il cane-mare si gustò moltissimo la storia, e ne credette almeno la metà. «Proprio una bella saga», osservò. «La migliore che mi abbiano narrato da un bel pezzo. Io l'ho vista, la luna. Salgo a galla di tanto in tanto, sai, ma non avevo immaginato che fosse così. Però, che sfacciato quel cane-cielo! Tre Rover! Già due sono troppi, ma tre è addirittura impossibile. E non
credo assolutamente che sia più vecchio di me; sarei molto sorpreso se avesse cent'anni.» Probabilmente aveva ragione. Il cane-luna, come avrete senza alcun dubbio notato, esagerava un sacco. «E a ogni buon conto», proseguì il cane-mare, il nome se lo è dato lui da solo. A me l'hanno dato gli altri.» «E anche a me», disse il nostro cagnetto. «Però senza alcuna ragione, e prima che tu avessi cominciato in qualche modo a guadagnartelo. Mi piace l'idea dell'Uomo-sulla-Luna. Ti chiamerò anch'io Roverandom; e se fossi in te questo nome me lo terrei per sempre... visto che non sai mai dove andrai a finire dall'oggi al domani! Andiamo a cena.» Era una cena da pesci, ma Roverandom si abituò presto a quel genere di cibo; era in sintonia con le sue zampe palmate. Dopo si ricordò il motivo per cui era sceso sino in fondo al mare e si lanciò alla ricerca di Artaserse. Lo trovò che faceva le bolle e le trasformava poi in palle vere per far piacere ai piccoli bimbi-mare. «Per favore, signor Artaserse, la potrei disturbare per chiederle di trasformarmi...» «Sciò, va' via!» disse lo stregone. «Non vedi che non posso essere disturbato? Ora no, sono occupato.» Era quel che Artaserse diceva troppo spesso a chi non riteneva importante. Sapeva fin troppo bene quel che voleva Rover, ma lui non aveva fretta. Così Roverandom se ne nuotò via e andò a letto, o meglio si sistemò per la notte in un mucchio di alghe che crescevano su uno scoglio del giardino. La vecchia balena stava riposando appena sotto; e se qualcuno vi dice che le balene non scendono fin sul fondo del mare e non vi si fermano per ore a fare dormitine, non preoccupatevi. La vecchia Uin era eccezionale sotto ogni aspetto. «Come va?» gli chiese. «A che punto sei? Vedo che sei ancora formato giocattolo. Che cos'ha Artaserse? Non ce la fa o non vuole far niente?» «Credo che ce la farebbe benissimo», disse Roverandom. «Guarda il mio nuovo aspetto. Ma se cerco di portarlo sull'argomento dimensioni, continua a ripetermi che è occupato, e non ha tempo per lunghe spiegazioni.» «Uffa!» fece la balena, e con un colpo di coda mise di traverso un albero; l'ondata fece quasi cadere Roverandom dallo scoglio. «Non credo che il PAM avrà un gran seguito da queste parti: ma se fossi in te non mi preoccuperei. Prima o poi andrà tutto a posto. Nel frattempo ci sono tante cose nuove da vedere domani. Dormi. Ciao.» E s'allontanò nuo-
tando nell'oscurità. Le notizie che portò nella caletta fecero infuriare ancora una volta il vecchio Psamathos. Le luci del palazzo erano tutte spente. In quelle buie acque profonde non arrivavano né stelle né luna. Il verde si faceva sempre più scuro fino a diventare tutto nero, e non c'era nemmeno un luccichio, tranne quando qualche grande pesce luminoso passava lento fra le alghe. Eppure Roverandom dormì profondamente quella notte e la notte seguente e molte altre dopo. Il giorno dopo, e quello dopo ancora, cercò lo stregone senza riuscire a trovarlo da nessuna parte. Una mattina, quando cominciava a sentirsi un vero cane-mare e si stava chiedendo se non fosse venuto laggiù per rimanervi per sempre, il canemare gli disse: «Che impiastro, quello stregone! Ti dirò, lascialo perdere! Salta un giorno. Andiamo a farci una bella nuotata!» E si allontanarono, e la bella nuotata diventò un'escursione che durò parecchi giorni. Erano creature fatate, non dovete dimenticarlo, e c'erano poche cose normali nel mare che potevano star loro a pari. Quando si stancarono dei picchi e delle montagne del fondo o delle piste a media altezza, salirono sempre più su, attraverso l'acqua, per un miglio e oltre, e quando arrivarono in superficie non si vedeva traccia di terra. Il mare tutt'intorno era liscio e calmo e grigio. Poi, all'improvviso, si increspò incupendosi a macchie sotto un vento freddo, il vento dell'alba. Ma subito il sole guardò in su dall'orlo del mare e lanciò un grido, rosso come se avesse bevuto vino bollente; saltò veloce nell'aria e cominciò il suo viaggio quotidiano, facendo diventare dorate le punte delle onde e verde cupo le ombre fra l'una e l'altra. Una nave stava veleggiando sul margine fra mare e cielo, e si diresse diritta nel sole, in modo che gli alberi parevano neri contro quel fuoco. «In che direzione va quella nave?» chiese Roverandom. «Oh, verso il Giappone o Honolulu o Manila o l'Isola di Pasqua o di Giovedì o Vladivostok, o da qualche altra parte, suppongo», rispose il cane-mare le cui conoscenze di geografia erano un po' vaghe, nonostante le centinaia d'anni di millantati vagabondaggi. «Questo è il Pacifico, credo; ma non so quale parte: una parte calda, si direbbe. È una quantità d'acqua piuttosto notevole. Andiamo a cercare qualcosa da mangiare.» Quando furono di ritorno, alcuni giorni dopo, Roverandom andò subito a cercare lo stregone; gli sembrava di avergli concesso un lungo periodo di riposo.
«Per favore, signor Artaserse, potrebbe...» cominciò, come al solito. «No, non posso!» rispose Artaserse, ancor più seccamente del solito. Stavolta era davvero occupato. Le Lamentele erano arrivate per posta. Come ben potete immaginare, molte cose vanno storte in mare e neanche il miglior PAM oceanico potrebbe impedirlo: anzi, con alcune di queste non dovrebbe nemmeno avere a che fare. Molti resti di naufragi precipitano a sorpresa sui tetti delle case-mare della gente; poi ci sono esplosioni sul fondo del mare (già, hanno anche loro i vulcani e tutte quelle seccature, proprio come noi) che fanno saltare in aria un pregiato branco di pesci di qualcuno o una doviziosa coltura di anemoni di mare di qualcun altro, o l'unica inestimabile ostrica perlifera o un prezioso giardino di roccia corallina; o pesci selvaggi s'azzuffano per strada e feriscono bimbi-mare; o pescicani distratti entrano dalla finestra della sala da pranzo e rovinano il pasto; oppure innominabili mostri degli abissi profondi commettono orribili azioni malvage. Gli abitanti del mare hanno sempre sopportato tutto questo, ma non senza lamentele. Provavano gusto a lamentarsi. Di solito scrivevano lettere a Il Settimanale Marino Illustrato, Posta del Mare, Articoli Oceanici; ma ora avevano un PAM, così scrivevano anche a lui e gli davano la colpa di tutto, anche se la loro aragosta domestica gli mordeva la coda. Dicevano che la sua magia non era sufficiente (e a volte non lo era) e che il suo stipendio andava decurtato (il che era vero, ma era ineducato parlarne); che si era gonfiato troppo d'orgoglio; e inoltre ne dicevano tante altre che preoccupavano Artaserse ogni mattina, specie di lunedì. Il lunedì era sempre il momento peggiore (diverse centinaia di buste in più); e poiché quel giorno era lunedì, Artaserse lanciò un sasso a Roverandom e quello se ne scivolò via come un gamberetto da una rete. Fu molto lieto quando, uscito in giardino, scoprì di non aver cambiato aspetto; e oso dire che se non fosse stato veloce ad allontanarsi lo stregone l'avrebbe trasformato in una lumaca di mare, o l'avrebbe spedito Oltre l'Al Di Là (dovunque esso sia), o perfino nella caverna di Pot (che è in fondo al più profondo abisso marino). Roverandom era molto risentito e andò a lamentarsi col cane-mare. «Io lo lascerei in pace finché non è passato lunedì, a scanso di equivoci», consigliò il cane-mare; «e, se fossi in te, in futuro eviterei i lunedì. Vieni, andiamo a farci un'altra nuotata.» In seguito Roverandom lo lasciò tanto a lungo in pace che cane e stregone quasi si dimenticarono a vicenda... ma non proprio: i cani non dimenti-
cano i sassi con facilità. A giudicare dalle apparenze, Roverandom aveva deciso di diventare il beniamino stabile del palazzo. Era sempre in giro col cane-mare e spesso si univano a loro anche i bimbi-mare. Secondo Roverandom, non erano così carini e divertenti come i bimbi veri a due gambe (ma Roverandom non apparteneva veramente al mondo marino e non poteva essere buon giudice), tuttavia lo facevano felice; e avrebbero potuto trattenerlo per sempre, facendogli dimenticare alla fine il piccolo Two, se dopo non fossero accadute altre cose. Potrete decidere per conto vostro se Psamathos ebbe qualcosa a che fare con questi accadimenti, quando ne parleremo. A ogni modo, c'era un'infinità di bambini fra cui scegliere. Il vecchio Re del Mare aveva centinaia di figlie e migliaia di nipotini, e tutti abitavano nello stesso palazzo. Erano tutti molto affezionati ai due Rover e anche la signora Artaserse. Peccato che Roverandom non avesse mai pensato di raccontarle la sua storia: lei sapeva come prendere il PAM, quale che fosse il suo umore. Ma in quel caso Roverandom sarebbe tornato prima e si sarebbe perso molte bellezze marine. Fu con la signora Artaserse e con qualcuno dei bimbi-mare che visitò le Grandi Caverne Bianche dove sono ammucchiati e nascosti tutti i gioielli perduti in mare, molti altri che nel mare ci sono sempre stati, e ovviamente perle su perle. Un'altra volta andarono a trovare le fate marine più piccole, che vivono in fondo al mare nelle loro minuscole case di vetro. Le fate marine nuotano di rado, ma vanno in giro sulle superfici lisce del fondo cantando, o viaggiano in carrozze di conchiglie trainate da minipesciolini, oppure cavalcano piccoli granchi verdi con redini di fili sottili (che tuttavia non impediscono ai granchi di camminare di traverso, com'è loro natura); hanno qualche problema con gli gnomi marini che sono più grossi e brutti e turbolenti e non fanno che attaccar briga e cacciare pesci o galoppare sui cavalli marini. Questi gnomi possono vivere a lungo fuori dall'acqua e giocare nei frangenti vicino a riva durante le tempeste. Possono farlo anche alcune fate, ma loro preferiscono le calde notti delle sere d'estate, su spiagge deserte (e di conseguenza si vedono assai di rado). Un altro giorno si ripresentò la vecchia Uin e tanto per cambiare portò i due cani a fare un giro: a loro sembrò di cavalcare una montagna in movimento. Stettero via giorni e giorni; e tornarono dal limite orientale del mondo appena in tempo. Laggiù, la balena salì in cima e soffiò un getto d'acqua così alto che per buona parte superò il mondo, oltre il bordo.
Un'altra volta li portò sull'altro lato (o quanto più vicino poté) e quello fu un viaggio ancora più lungo e interessante, il più meraviglioso tra tutti i suoi viaggi, come Roverandom doveva rendersi conto in seguito, quando era diventato più vecchio e più saggio. Ci vorrebbe almeno lo spazio di tutta un'altra storia per raccontarvi delle loro avventure nelle Acque Inesplorate, delle loro fuggevoli occhiate a terre ignote alla geografia prima che superassero i Mari Fantastici e raggiungessero la grande Baia del Paese delle Fate (come lo chiamiamo noi), al di là delle Isole Magiche; e che vedessero lontano, nell'occidente più remoto, le Montagne della Casa degli Elfi e la luce del Regno delle Fate sulle onde. Roverandom credette di aver intravisto la Città degli Elfi su una verde collina ai piedi delle montagne, un bianco scintillio molto lontano; ma Uin si tuffò di nuovo così all'improvviso che non ne fu molto sicuro. Se non si sbagliava, era una delle rarissime creature, a due o a quattro gambe, che potevano andare in giro sulle nostre terre dicendo di aver dato uno sguardo a quell'altra terra, per quanto lontana essa sia. «Le prenderei, se questo si scoprisse!» disse Uin. «Nessuno di coloro che provengono dalle Terre di Fuori dovrebbe mai venire qui; e infatti ci vengono in pochissimi. Acqua in bocca!» Cosa ho detto a proposito dei cani? Che non dimenticano i sassi scagliati di malumore. Be', nonostante tutte le belle cose viste e questi viaggi strepitosi, Roverandom conservava sempre quel ricordo nel profondo della mente. E gli riaffiorava alla memoria con prepotenza non appena tornava a casa. Il suo primo pensiero era: "Dov'è quel vecchio stregone? Perché mai dovrei essere beneducato con lui? Gli rovinerò i calzoni di nuovo, se appena me ne si presenta l'occasione". Era in quell'ordine d'idee quando, dopo aver cercato invano di scambiare due parole a quattr'occhi con Artaserse, vide passare il mago lungo una delle vie reali che partivano dal palazzo. Alla sua età era troppo orgoglioso per farsi crescere una coda o delle pinne o per imparare a nuotare bene. L'unica cosa che faceva come un pesce era bere (anche in mare, quindi doveva aver sete); trascorreva molto del tempo che avrebbe dovuto impiegare per gli incarichi ufficiali a preparare sidro in grandi barili nei suoi appartamenti privati. Se voleva recarsi in fretta in qualche posto, non andava a piedi. Quando Rover lo vide, stava guidando il proprio espresso: una conchiglia gigante, a forma di cardio e tirata da sette pescicani. La gente si scansava veloce, perché i pescicani potevano mordere.
«Inseguiamolo!» propose Roverandom al cane-mare; e lo inseguirono eccome. Anzi i due cattivelli fecero cadere sassi nella carrozza tutte le volte che passava sotto le scogliere. Come ho già detto, i due erano molto veloci, e si portavano avanti, nascosti nei cespugli d'alghe, e scagliavano giù tutto quel che trovavano sottomano. Lo stregone era molto irritato e loro stavano bene attenti a non farsi scoprire. Artaserse era già di pessimo umore prima di partire e dopo un po' cadde in preda a tutte le furie, una furia non scevra da preoccupazione. Stava andando infatti a controllare i danni provocati da un insolito vortice verificatosi all'improvviso, e in una parte del mare che a lui non garbava affatto; riteneva (e a ragione) che in quella direzione ci fossero cose pericolose che era meglio lasciar stare. È possibile che voi abbiate indovinato di cosa si trattava, ma Artaserse non aveva avuto dubbi. L'antico Serpente Marino si stava svegliando, o ci stava facendo un mezzo pensierino. Aveva dormito sonni profondi per anni, ma ora si stava girando. Una volta srotolate tutte le sue spire si sarebbe certamente allungato per cento miglia (alcuni dicevano che sarebbe arrivato da un capo all'altro del mondo, ma esageravano certo); quando è tutto raggomitolato c'è solo un'altra caverna oltre quella di Pot (dove risiedeva prima e dove molti si augurano che torni) tanto vasta da contenerlo tutto, una caverna che si trova ahimè a meno di cento miglia dal palazzo del Re del Mare. Quando distendeva un paio di spire nel sonno, l'acqua si gonfiava e sobbolliva e piegava le case e disturbava il riposo della gente per miglia intorno. Ma era stupido mandare il PAM a indagare sulla faccenda, perché ovviamente il Serpente Marino è troppo enorme e forte e vecchio e idiota per essere controllabile da chicchessia (altri aggettivi usati nei suoi confronti sono: primordiale, preistorico, autotalassico, favoloso, mitico e stupido); e Artaserse lo sapeva fin troppo bene. Neanche se l'Uomo-sulla-Luna si fosse messo di buzzo buono a lavorare per cinquant'anni di fila avrebbe potuto mettere a punto un incantesimo abbastanza grande o lungo o forte per immobilizzarlo. Solo una volta l'Uomo-sulla-Luna ci aveva provato (dietro speciale richiesta), e come risultato almeno un continente era finito in mare. Il povero vecchio Artaserse andò direttamente all'ingresso della caverna del Serpente Marino. Era appena sceso dalla carrozza quando vide la punta della coda del Serpente che spuntava dall'imboccatura: era più grossa di una fila di giganteschi barili d'acqua, e verde e viscida. Quella vista gli bastò. Decise di tornarsene a casa prima che il Serpente si girasse di nuo-
vo... come tutti i serpenti fanno regolarmente, quando uno meno se lo aspetta. Fu il piccolo Roverandom a scombussolare tutto. Non sapeva nulla, lui, del Serpente Marino e di quanto fosse terribile. Il suo unico pensiero era quello di tormentare l'irascibile stregone. Quindi, non appena gli si presentò l'occasione - Artaserse era immobile a fissare come uno stupido la coda visibile del serpente, mentre le sue cavalcature non badavano a nulla di particolare - s'intrufolò a mordere una delle code dei pescicani, per gioco. Gioco! E che gioco! Il pescecane balzò in avanti e un balzo in avanti lo fece anche la carrozza: Artaserse, che si era appena girato per salirvi, cadde all'indietro. Poi il pescecane morse l'unica cosa in quel momento alla sua portata, cioè il pescecane davanti a lui, e quello morse l'altro vicino e così via finché l'ultimo dei sette, non vedendo null'altro da mordere - l'idiota - non andò a mordere, ahinoi, la coda del Serpente Marino! Il Serpente Marino si rigirò di nuovo improvvisamente. Ed ecco che i due cani si ritrovarono scaraventati di qua e di là in un vortice di acque impazzite, andando a sbattere contro pesci storditi e alberi roteanti, spaventati a morte in una nube di alghe sradicate, sabbia, conchiglie, lumache, littorine e carabattole varie. E le cose andaron peggiorando perché il serpente continuava a rigirarsi. E il vecchio Artaserse stava lì, attaccato alle redini dei pescicani, sbattuto anche lui di qua e di là, imprecando pesantemente e prendendosela con loro. Con i pescicani, voglio dire. Per fortuna di questa storia, non seppe mai quel che aveva fatto Roverandom. Non so come i due cani riuscirono a tornare a casa. A ogni modo, gli ci volle un tempo lunghissimo. Prima furono scagliati a terra da una delle tremende maree provocate dai movimenti del Serpente; poi furono catturati da pescatori dall'altro lato del mare e quasi mandati all'Aquarium (che destino disgustoso sarebbe stato); sfuggiti per un pelo a quella sorte, dovettero ripercorrere la via del ritorno da soli, fra continui sconvolgimenti sotterranei. Quando finalmente giunsero a casa trovarono che anche lì c'era gran trambusto. Tutta la gente del mare s'affollava intorno al Palazzo, gridando all'unisono: «Fuori il PAM!» (Proprio così lo chiamavano in pubblico, nulla di più cerimonioso o più dignitoso.) «Fuori il PAM! FUORI IL PAM!» E il PAM si nascondeva nelle cantine. Infine la signora Artaserse lo scovò laggiù e lo costrinse a uscire. Tutti gli abitanti del mare urlarono, quan-
do si affacciò a una finestra in alto: «Ferma questo finimondo! Ferma questo finimondo! FERMA QUESTO FINIMONDO!» Fecero un fracasso tale che le persone che si trovavano su tutte le spiagge in ogni parte del mondo pensarono che il mare mugghiasse più forte del solito. Eccome se mugghiava! Intanto il Serpente Marino continuava a girarsi, cercando distrattamente d'infilarsi in bocca la punta della coda. Ma - grazie al cielo! - non era ben sveglio, altrimenti avrebbe potuto uscire dalla tana e scuotere la coda per la rabbia, e allora un altro continente sarebbe stato sommerso. (Naturalmente, che un accadimento del genere risultasse più o meno increscioso dipendeva da quale continente sarebbe affogato e da quale continente abitate.) La gente del mare, però, non viveva su un continente ma, appunto, nel mare, e proprio nella parte più affollata: e ancor più si stava affollando. Insistevano che era compito del Re del Mare obbligare il PAM a lanciare un sortilegio, a trovare un rimedio o una soluzione per tenere fermo il Serpente Marino: loro non riuscivano più a portare le mani al viso per nutrirsi o per soffiarsi il naso, tanto l'acqua era agitata; e tutti andavano a sbattere contro tutti; tutti i pesci soffrivano il mal di mare, tanto l'acqua era ballerina; ed era così torbida e piena di sabbia che tutti avevano la tosse; e nessuno ballava più. Artaserse gemeva, ma era costretto a fare qualcosa. Si recò dunque nel suo laboratorio e vi si rinchiuse per una quindicina di giorni, durante i quali ci furono tre terremoti, due uragani sottomarini e diverse insurrezioni del popolo del mare. Poi uscì e liberò un incantesimo prodigioso (accompagnato da una formula tranquillizzante) a una certa distanza dalla caverna; e ciascuno tornò alla propria casa e sedette nelle cantine, in attesa; tutti tranne la signora Artaserse e il suo sfortunato consorte. Lo stregone fu costretto a rimanere (a distanza, ma non di sicurezza) e a osservare i risultati; e la signora Artaserse fu obbligata a restare e a tener d'occhio lo stregone. Il suo incantesimo riuscì solo a far scoppiare un tremendo mal di testa al Serpente, che sognò di essere tutto ricoperto da incrostazioni di conchiglie (cosa molto irritante e in parte vera) e di essere rosolato a fuoco lento in un vulcano (cosa molto dolorosa e purtroppo del tutto immaginaria). Fu questo a svegliarlo. Probabilmente il potere magico di Artaserse era più forte di quanto si pensasse. Il Serpente Marino, comunque, per fortuna di questa storia, non venne fuori. Mise la testa dov'era la coda, sbadigliò spalancando una bocca grande quanto la caverna, e sbuffò così rumorosamente che lo sentirono
tutti quelli che erano nelle cantine in tutti i reami del mare. E il Serpente Marino intimò: «Ferma questo FINIMONDO!» Poi aggiunse: «Se questo idiota d'uno stregone non sparisce all'istante e se si azzarda ad avvicinarsi al mare anche solo in canoa, io VERRÒ FUORI: e per prima cosa lo divorerò e poi ridurrò tutto in briciole sgocciolanti. Questo è quanto. Buona notte!» La signora Artaserse portò a casa il PAM privo di sensi. Quando tornò in sé - lo si fece rinvenire senza tanti complimenti - rimosse l'incantesimo dal Serpente e fece la valigia. Tutta la gente urlava: «Mandate via il PAM! Che liberazione! È finita! Addio». E il Re del Mare proclamò: «Non vogliamo perderti, ma riteniamo che faresti meglio ad andartene». Artaserse si sentì piccolo e poco importante (e questo gli servì di lezione). Perfino il cane-mare gli rise dietro. Ma Roverandom, stranamente, era sconvolto. D'altra parte, aveva sperimentato personalmente quanto fosse efficace la magia di Artaserse. Era stato lui a mordere la coda del pescecane, no? E aveva dato inizio lui a tutto con quel morso nei calzoni. Dopotutto, anche lui apparteneva alla terra e gli pareva che i tormenti inflitti dalla gente del mare fossero eccessivi per un povero stregone terrestre. Tuttavia s'avvicinò al vecchio e disse: «Per favore, signor Artaserse...» «Sì?» rispose lo stregone, in tono quasi gentile (era così contento di non essere chiamato PAM, e non aveva sentito un «Signore» da settimane). «Be', cosa c'è, cagnolino?» «Le chiedo scusa, davvero. Sono molto spiacente, sa. Non avevo l'intenzione di rovinare la sua reputazione.» Roverandom stava pensando al Serpente Marino e al morso alla coda del pescecane; ma (per fortuna) Artaserse credette che si riferisse ai suoi calzoni. «Su, su!» disse. «Non rivanghiamo il passato. Meno diciamo, prima emendiamo... o rammendiamo! Penso che faremmo bene a tornarcene a casa tutti e due insieme.» «Ma per favore, signor Artaserse, potrebbe prendersi il disturbo di farmi tornare alla mia grandezza naturale?» «Certo», acconsentì lo stregone, felice di trovare qualcuno che ancora credeva nei suoi poteri. «Certo, ma finché siamo qui sei più sicuro così come sei. Andiamocene prima via da qui. Adesso, sinceramente, ho troppe cose da fare.» Ed era occupato per davvero. Andò nel suo laboratorio e raccolse e mise insieme attrezzature, decorazioni, emblemi e simboli, appunti e promemo-
ria, libri di ricette, filtri, congegni, borse e bottiglie di incantesimi diversi. Bruciò tutto quel che poteva nella sua fucina a tenuta stagna; il resto lo rovesciò nel giardino sul retro. In seguito lì accaddero cose portentose: tutti i fiori impazzirono, le verdure diventarono mostruose e i pesci che le mangiarono si trasformarono in serpenti marini, gatti di mare, vacche marine, leoni marini, tigri marine, diavoli di mare, focene, dugonghi, cefalopodi, manati e calamità o furono semplicemente avvelenati; e fantasmi, visioni, incubi, illusioni e allucinazioni sbocciarono così frequenti a Palazzo che nessuno ebbe più pace e tutti furono costretti ad andarsene. A dire il vero, cominciarono a rispettare il ricordo di quello stregone quando lo avevano perduto. Ma questo accadde molto tempo dopo. Al momento stavano ancora urlando per farlo andar via. Quando tutto fu pronto, Artaserse prese commiato dal Re del Mare... con un certa freddezza. Neanche i bimbi-mare sembrarono addolorati: in fondo era sempre stato molto occupato e le occasioni di far le bolle (come quella che vi ho raccontato) non erano state frequenti. Alcune delle sue innumerevoli cognate cercarono di essere gentili, specie se la signora Artaserse era presente; ma, diciamo la verità, erano tutti impazienti di vederlo uscire dal cancello, in modo da mandare un umile messaggio al Serpente Marino: «Il miserabile stregone se ne è andato e non tornerà più, Sua Signoria. La preghiamo di continuare a dormire!» Naturalmente anche la signora Artaserse se ne andò. Il Re del Mare aveva talmente tante figlie che poteva permettersi di perderne una senza molto dolore, tanto più visto che si trattava della numero dieci. Le diede un sacco di gioielli e un bacio umido sulla soglia di casa e ritornò sul trono. Ma tutti gli altri furono molto dispiaciuti, specie la folla di nipotine e nipotini del mare, che erano anche rattristati per la partenza di Roverandom. Il più addolorato e triste era il cane-mare: «Mandami un rigo quando vai alla spiaggia», si raccomandò, «e io verrò su in superficie per vederti». «Non lo dimenticherò!» promise Roverandom. E si avviarono. La balena più anziana era in attesa. Roverandom sedette in grembo alla signora Artaserse e quando furono tutti sistemati sul dorso del cetaceo, partirono. Ad alta voce tutti esclamarono: «Addio!» e a voce bassa, ma non troppo: «Ci siamo finalmente liberati di quella porcheria». Fu quella la fine di Artaserse nelle vesti di Mago del Pacifico e dell'Atlantico. Non so chi si sia occupato degli incantesimi, dopo di lui. Direi che il vecchio Psamathos e l'Uomo-sulla-Luna si saranno divisi tra loro quel
compito: ne sono più che all'altezza. V La balena approdò a una spiaggia tranquilla, molto ma molto lontana dalla caletta di Psamathos: Artaserse era stato estremamente categorico in proposito. La balena e la signora Artaserse furono lasciate lì mentre lo stregone (con Roverandom in tasca) percorse il paio di miglia circa che lo separavano dal più vicino paese sulla costa per barattare il suo completo di velluto (che faceva sensazione nelle strade) con un abito usato, un cappello verde e del tabacco. Acquistò anche una vasca a sedere per la signora Artaserse (non dovete dimenticare la sua coda). «Per favore, signor Artaserse», cominciò ancora una volta Roverandom, quando si ritrovarono tutti seduti sulla spiaggia quel pomeriggio. Lo stregone stava fumando la pipa con la schiena appoggiata alla balena, sul volto un'espressione felice come non aveva da tempo, e non sembrava affatto occupato. «Può pensare al mio aspetto giusto, se non le dispiace? E anche alle mie giuste dimensioni, per piacere?» «Benissimo», esclamò Artaserse. «Credevo di poter schiacciare un pisolino prima di occuparmi di questo; ma non importa. Sbrighiamola, questa faccenda. Dov'è la mia...» E qui s'interruppe bruscamente. S'era di colpo ricordato di aver bruciato e gettato via tutti i suoi incantesimi negli abissi del Profondo Mare Blu. Era oltremodo sconvolto. Si alzò e cominciò a frugarsi nelle tasche dei calzoni, in quelle del gilè e in quelle della giacca, rovesciandole perfino, senza riuscire a trovare in nessuna la benché minima traccia di magia. (Certo che no, vecchio sciocco; era così agitato che s'era perfino dimenticato di aver acquistato il completo solo un paio d'ore prima in un monte dei pegni. Era appartenuto a, o almeno era stato venduto da, un anziano maggiordomo, che prima aveva vuotato puntigliosamente tutte le tasche.) Lo stregone si sedette ad asciugarsi la fronte con un fazzoletto color porpora, e un'espressione di nuovo tristissima. «Sono davvero molto, ma molto spiacente», disse. «Non avevo nessuna intenzione di lasciarti così per sempre, ma ora non vedo come potrò evitarlo. Ti servirà di lezione per non mordere i calzoni dei simpatici stregoni gentili.» «Che ridicolaggini!» esclamò la signora Artaserse. «Simpatico stregone gentile un corno! Non puoi parlare di stregone simpatico e gentile se non
restituisci subito aspetto e dimensione giusti a questo povero cagnolino; e per di più io me ne torno sul fondo del Profondo Mare Blu e non mi rivedrai mai più.» Il povero vecchio Artaserse sembrava preoccupato almeno quanto lo era stato con il Serpente Marino in subbuglio. «Povero me!» ripeteva. «Mi dispiace tanto, ma dopo che Psamathos (draledetto lui!) cominciò a interferire con quel mio piccolo scherzo personale, io cosparsi il cane col mio più potente preserva-incantesimi anti-rimozione, giusto per dimostrargli che non poteva fare tutto e che non avrei permesso a un qualsiasi Mag-coniglio da sabbia di mettere il naso negli affari miei; quando ho sbaraccato laggiù ho dimenticato di conservare l'antidoto! Lo tenevo in una borsa nera appesa alla porta del laboratorio. «Oh, povero me, spero che converrai che si trattava solo di uno scherzo», disse rivolgendosi a Roverandom, e il suo vecchio naso si fece più grosso e più rosso per l'imbarazzo. Continuava a ripetere: «Oh, povero me, povero me!» scuotendo il capo e la barba, senza notare che Roverandom non gli badava più e la balena faceva l'occhiolino. La signora Artaserse s'era alzata e s'era avvicinata ai propri bagagli e ora rideva, mostrando una vecchia borsa nera che aveva in mano. «Ora piantala di agitare la barba, e mettiti all'opera!» gli intimò. Quando Artaserse vide la borsa, fu tanto sorpreso da rimanere per un attimo lì a guardarla con la bocca spalancata. «Dai, muoviti!» lo pungolò la moglie. «È la tua borsa, no? L'ho presa io, insieme ad altre cianfrusaglie che appartenevano a me, da quell'orribile mucchio che avevi fatto in giardino.» Aprì la borsa per dare un'occhiatina all'interno, e subito saltò fuori la bacchetta-stilografica-magica dello stregone, insieme a una nuvola di insolito fumo che si attorcigliava in strane forme e facce curiose. Allora Artaserse tornò in sé. «Dammela qua! La stai sprecando!» urlò, e, afferrato Roverandom per la collottola, lo infilò nella borsa prima che potesse dire verbo, nonostante scalciasse e abbaiasse. Poi girò tre volte la borsa, facendo ondeggiare la penna nell'altra mano, e... «Grazie! Questo sarà sufficiente!» disse, e aprì la borsa. Si sentì un forte bum! e - oh meraviglia! - la borsa era scomparsa, c'era solo Rover proprio com'era stato prima di incontrare lo stregone quella mattina sul prato. Be', forse non proprio identico: era un pochino più grosso perché adesso aveva qualche mese di più.
È inutile cercare di descrivere la sua emozione o come tutto gli sembrasse buffo e piccolo, perfino la vecchia balena, né come si sentisse forte e feroce. Per un attimo guardò voglioso i calzoni dello stregone, ma non voleva che la storia ricominciasse daccapo, così, dopo aver girato lungamente in tondo dalla gioia e aver abbaiato con quanto fiato aveva in gola fin quasi a perder la voce, tornò a dire «Grazie!» e aggiunse persino «Molto lieto d'averla conosciuta», che fu proprio beneducato da parte sua. «Prego, figurati!» disse di rimando Artaserse. «È questa la mia ultima magia. Andrò in pensione. Quanto a te, faresti bene a prendere la strada di casa. Non ho più incantesimi con i quali farti arrivare, quindi dovrai andare a piedi. Ma sei un cane giovane e forte, non ti farà male camminare.» Così Rover salutò tutti, la balena gli fece l'occhiolino e la signora Artaserse gli diede una fetta di torta; fu l'ultima volta che li vide, per lungo tempo. Molti, molti giorni più tardi, mentre si trovava in una località rivierasca dove non era mai stato prima, scoprì che fine avevano fatto. Erano lì: non la balena, naturalmente, ma lo stregone in pensione e sua moglie. Si erano sistemati in quella cittadina sulla costa e Artaserse, con il nome di Mr. A. Pam, aveva messo su un negozietto di sigarette e cioccolato vicino alla spiaggia... stando bene attento a non sfiorare l'acqua (nemmeno l'acqua dolce, il che non gli costava fatica). Poca roba per uno stregone, ma almeno cercava di pulire tutto il sudiciume che i suoi clienti lasciavano sulla spiaggia; e faceva un sacco di quattrini con i Pam Rock, i bastoncini di zucchero candito, rosa e appiccicosi. Forse avevano una lieve magia perché piacevano tanto ai bambini che continuavano a mangiarli anche se erano caduti nella sabbia. Ma la signora Artaserse, o dovrei dire Mrs. A. Pam, faceva ancor più quattrini. Aveva un piccolo stabilimento balneare con tende e furgoni per bagnarsi, e dava lezioni di nuoto, tornando a casa in una vasca a sedere trainata da cavalli bianchi. Nel pomeriggio indossava i gioielli del Re del Mare, e diventò molto famosa, tanto che nessuno faceva allusioni alla coda. Nel frattempo, Rover sta continuando ad avanzare per sentieri di campagna e strade maestre, seguendo il suo naso, che alla fine lo avrebbe condotto a casa come fanno solitamente i nasi canini. "Non tutti i sogni dell'Uomo-sulla-Luna si avverano, dunque... proprio come aveva detto lui", pensò Rover proseguendo nel suo cammino. "A
quanto pare, il mio è uno di quelli. Non conosco nemmeno il nome del posto dove il bambino abita, che peccato." Scoprì che il terreno asciutto è spesso pericoloso per un cane quanto la luna o l'oceano, anche se più noioso. Le auto lo sfioravano a velocità pazzesche, cariche (credeva Rover) della stessa gente, diretta tutta allo stesso posto con la stessa furia, la stessa polvere, la stessa puzza. «Non credo che neanche la metà di loro sappia dove sta andando, o perché ci sta andando, né lo saprà quando ci sarà arrivata», brontolava Rover, mentre tossiva e gli mancava il fiato; le zampe gli si stancarono su quelle strade dure, malinconiche e nere. Così tagliò per i campi, ed ebbe molte amabili, innocue avventure con uccellini e conigli e più di una gustosa zuffa con altri cani e molte volte dovette fuggire rapidamente da cani più grossi di lui. Così finalmente, dopo settimane o mesi dall'inizio di questa storia (non avrebbe potuto precisarvi quali o quanti), si ritrovò davanti al cancello del suo giardino. E sul prato, intento a giocare con la palla gialla, c'era il piccolo Two. Il sogno si era avverato, proprio come lui non avrebbe mai sperato!! «Guarda, c'è Roverandom!!!» urlò il bambino. E Rover si accucciò, in posa da questuante, e non riusciva a trovare la voce per abbaiare qualcosa, e il ragazzino gli diede un bacio sulla testa e si precipitò in casa ad annunciare, gridando: «È tornato il mio cane mendicante, ma grande e in carne e ossa!!!» Raccontò tutto alla nonna. Come faceva Rover a sapere che lui prima era appartenuto alla nonna del bambino? Quando era stato stregato, era da lei soltanto da un paio di mesi, in fondo. Mi chiedo invece quanto sapessero Psamathos e Artaserse di tutto questo. La nonna (per la verità molto sorpresa vedendo che il suo cane era tornato con un così bell'aspetto e non menomato da una macchina o appiattito da un autocarro) non capiva assolutamente di cosa stesse blaterando il nipotino, nonostante lui le stesse raccontando con grande esattezza tutto quel che sapeva, e glielo ripetesse più e più volte. Lei aveva afferrato, ma con grande difficoltà (naturale: era un tantino sorda!) che d'ora in poi il cane doveva chiamarsi Roverandom e non più Rover, perché l'aveva detto l'Uomo-sulla-Luna («Che idee bizzarre ha questo bambino, ma guarda un po'»); che dopotutto non apparteneva a lei ma al piccolo Two, perché mammina l'aveva portato a casa con i gamberetti («D'accordo, caro, se lo
dici tu: ma io credevo d'averlo comprato dal figlio del fratello del giardiniere»). Non vi ho riferito tutta la loro discussione, è ovvio: fu lunga e complicata, come accade spesso quando entrambi i contendenti hanno ragione. Tutto quel che dovete sapere è che Rover da allora in poi fu chiamato Roverandom, e che appartenne al piccolo Two e che, quando la visita dei nipotini alla nonna si concluse, ritornò nella casa dove una volta era stato messo sul cassettone. Cosa che, com'è ovvio, non accadde più. Abitò a volte in campagna, ma per lo più nella casetta bianca sulla scogliera a picco sul mare. Arrivò a conoscere molto bene il vecchio Psamathos, mai così tanto da tralasciare la P, ma - divenuto un cane grande e dignitoso - a sufficienza da strapparlo al suo rifugio nella sabbia e al sonno per intrattenersi con lui in molti e ripetuti conversari. Roverandom con l'età divenne molto saggio e acquistò una vasta reputazione locale ed ebbe altre e diverse avventure (molte delle quali furono condivise dal piccolo Two). Ma quelle che vi ho raccontato furono probabilmente le più curiose e le più emozionanti. Solo Tinker dice di non crederne nemmeno una parola. Che gatta gelosa! Note pag. 10 dei giornali. Sul Times del 7 settembre 1925 si riferiva che «A Whiteley Bay tutti i padiglioni del Luna Park e gli attracchi per le imbarcazioni furono distrutti e la spiaggia disseminata di rottami di legno e di ferro... Le onde salirono fino a 40 piedi d'altezza a Hornsea strappando le panchine sulla nuova passeggiata e invadendo i campi in un vasto raggio. Furono divelte le grandi lastre di copertura della piscina di South Beach a Scarborough...» e così via. Il bollettino meteo aveva previsto solo occasionali acquazzoni. 11 cinque disegni fatti per illustrare il racconto. I disegni originali sono alla Bodleian Library dell'Università di Oxford, classificati come MS Tolkien Drawings 88, fol.25 (Paesaggio Lunare); 89, fol. l (senza titolo, «Rover arriva sulla luna»); 89, fol. 2 (Casa dove Rover iniziò le sue avventure come giocattolo); 89, fol. 3 (Il Dragone Bianco dà la caccia a Roverandom e al cane-luna); e 89, fol. 4 (I giardini del pa-
lazzo del Re del Mare). 13 nelle vesti di Babbo Natale. La maggior parte di queste lettere fu pubblicata nel 1976 sotto il titolo The Father Christmas Letters, a cura di Baillie Tolkien. 16 È quasi certamente questo il testo... La recensione di Rayner Unwin cita il nome «Psamathos» e il prezzo «6d» (sei soldi), particolari che non entrarono nel testo di Roverandom se non nel secondo dattiloscritto (frammentario) e nel terzo (completo). 17 Ci furono anche racconti... Vedi J.R.R. Tolkien: A biography di Humphrey Carpenter (1977), pag. 161 segg. 31 penna blu infilata... Anche Tom Bombadil, protagonista di un precedente racconto di Tolkien nonché uno dei personaggi de Il Signore degli Anelli (1954-55), porta un cappello con una penna blu. 33 Solo dopo mezzanotte. L'idea fantastica che i giocattoli acquistino vita di notte e quando nessuno sta a guardare compare in molti racconti come Il soldatino di latta di Hans Christian Andersen (1838) e La Bambola di Cera di E.H. Knatchbull-Hugessen (1869). 35 ora del tè. Verso le ore 16, leggero pasto a base di tè, pane, biscotti o torta ecc. 36 Aveva tre figli. La mamma è ovviamente Edith (la moglie di Tolkien), i tre ragazzini sono John, Michael e Christopher. Michael è quello con «una passione particolare per i cani in miniatura». 37 nel miglior linguaggio canino. Le fate eponime dei racconti di Lewis Carroll in Sylvie e Bruno (1889-93), che Tolkien amava molto, parlano un ottimo «caninese». 38 Rover fu posto su una seggiola. Nella prima stesura esistente di questa parte (il primo dattiloscritto) Rover è invece posato su un cassettone. Tolkien può aver pensato che si trattasse di un'altezza eccessiva da cui Rover avrebbe dovuto saltar giù, anche se solo sul letto, per esplo-
rare la casa, e che poi avrebbe dovuto tornare a scalare prima del mattino. Rover era un cagnolino giocattolo, dopo tutto, e piuttosto minuscolo (anche se a volte sembra più grande). La frase «vide Rover sul piano del cassettone» è un residuo della stesura precedente, a cui Tolkien ha aggiunto una spiegazione poco convincente «dove l'aveva messo (o appoggiato) mentre si vestiva». Tolkien qui lascia il riferimento alla «casa dove una volta era stato messo sul cassettone» (pag. 151). 38 la luna spuntò... Può trattarsi di un'invenzione originale di Tolkien, ma ha una enorme somiglianza con «il luminoso sentiero lunare che dalla terra oscura si stendeva verso la luna...» che troviamo in The Garden behind the Moon dello scrittore e artista americano Howard Pyle (1895). Il personaggio principale del libro cammina dalla spiaggia lungo il sentiero di luce e va a far visita all'Uomo-sulla-Luna. In Roverandom Rover non cammina sul sentiero lunare ma lo percorre volando sul dorso del gabbiano. Vedi anche pag. 11. 39 il piccolo Two. È Michael, il secondogenito di Tolkien. 42 Psamatisti. Nel primissimo testo (manoscritto) il Mago della sabbia è definito Psammead, un prestito diretto dal «mondo fatato della sabbia» che troviamo in Five Children and It (1902) e The Story of the Amulet (1906) di E. Nesbit. Proprio come lo psamatista di Tolkien lo «psammeade» ha un carattere burbero e bizzarro e adora dormire quanto più può nella sabbia calda. Nel primo dattiloscritto Tolkien scrisse talvolta samyad per psammead e di sfuggita definì Psamathos un nilbog (cioè goblin, folletto, scritto al contrario). Nel secondo dattiloscritto Psamathos è chiamato per nome, o è solo «lo psamatista». 42 Psamathos Psamathides. Psamathos, Psamathide e Psamatista contengono tutti la radice greca psammos, «sabbia». Psamathos, coerentemente con le abitudini di questa creatura, deriva da «sabbia del mare». Psamathides contiene il patronimico -ides, «figlio di», e Psamathist il suffisso -ist, «uno che dedica se stesso a un settore della conoscenza» (per esempio, medievalista); quindi, grosso modo, «Sabby, figlio di Sabby», Psamatista «esperto di sabbia».
43 si vedesse solo la punta... Le «lunghe orecchie» dello psamatista erano «corna» in tutte le versioni, finché non furono cambiate nel dattiloscritto finale. Lo psammeade di Nesbit aveva gli occhi «sulla punta di lunghe corna, come gli occhi delle lumache». 46 Sono Psamathos Psamathides... ogni P. Cfr. pag. 42 «insistendo molto puntigliosamente sulla pronuncia corretta». Tolkien scherza sul fatto che in Psamathos, Psamathides e Psamathists, pronunciati «correttamente», la P del Ps sarebbe muta. L'Oxford English Dictionary sostiene che non pronunciare le p nelle parole che iniziano con ps è «uso affatto colto che spesso provoca ambiguità o un'errata interpretazione della composizione della parola» e quindi raccomanda di pronunciare la p facoltativa in tutte le parole di origine greca, a eccezione del gruppo derivato da psalm (salmo) e psalter (salterio). 47 Artaserse. Nome molto appropriato, visto il paese d'origine dello stregone. Si chiamavano così tre re di Persia nel V e IV secolo a.C. e il fondatore della dinastia Sassanide nel III secolo a.C. 47 Persia... Persici... persico. In inglese Persia, Pershore, plum. Pershore è una cittadina nei pressi di Evesham nel Worcestershire. Tolkien ovviamente gioca sui termini quasi omofoni Persia e Pershore; riveste inoltre qualche significato il fatto che la valle di Evesham sia celebre per le sue susine (compresa la varietà Pershore) e che il fratello di Tolkien possedesse un orto e un podere ortofrutticolo vicino a Evesham, e che da molti anni si occupasse di susini. 51 Mew. Altro termine per gull (gabbiano). 52 alcuni speroni altissimi di nuda roccia... Nei pressi di Filey si trovano Speeton e Bempton, note rocce altissime dove nidificano innumerevoli uccelli di mare: ma sono rocce calcaree, non scure. Isole disabitate con scogliere simili sono comuni lungo le coste settentrionali della Gran Bretagna. 55 l'Isola dei Cani. La vera Isola dei Cani è una lingua di terra che si protende nel Tamigi a sud-est di Londra. Il nome su cui Tolkien gioca deriva forse dal fatto che Enrico VIII o Elisabetta I tenessero lì i propri
cani quando risiedevano a Greenwich, sull'altra sponda del fiume. 56 Ce n'è almeno uno... Nel rispetto di alcune tradizioni: cfr. Shakespeare, Sogno d'una notte di mezza estate, atto V, scena I. 59 un vecchio con una lunga barba argentea. In «Il racconto del Sole e della Luna» in Racconti ritrovati (Parte Prima) Tolkien scrisse del vascello lunare che naviga nel cielo e che «un anziano elfo con crine canuto» ha sistemato e «vi ha posto la sua residenza nei secoli..., e sulla Luna ha costruito una piccola torre bianca e spesso vi si arrampica e osserva i cieli, o il mondo in basso... Alcuni a dire il vero lo chiamano l'Uomo sulla Luna». Nel poema di Tolkien «Why a Man in the Moon Came Down Too Soon» (pubblicato nel 1923) l'Uomo vive in un «pallido minareto / vertiginoso e candido nell'altezza lunare / in un mondo d'argento» (op. cit.). Un disegno di questa scena, con l'Uomo che scivola verso la terra lungo una «corda di ragno» (cfr. «fili e corde d'argento» tessuti e intrecciati dai ragni-luna in Roverandom) è riprodotto in J.R.R. Tolkien: Artist and Illustrator di Wayne G. Hammond e Christina Scull (1995). 63 Lascia in pace i raggi di luna, e non uccidere i miei bianconigli... Una proibizione unita a un consiglio è una caratteristica della favola tradizionale. La raccomandazione dell'Uomo-sulla-Luna è ripetuta in varie forme e in seguito riecheggia nelle parole della signora Artaserse: «Non disturbare il pesce-fuoco ecc.» 66 Doveva passare molto tempo prima che... A dire il vero non ci viene mai detto perché Psamathos mandi Rover sulla luna. Nella prima stesura si legge: «Non scoprì mai tutto, perché spesso gli stregoni hanno motivi che intere generazioni di gatti - per non parlar dei cani - non riescono a scoprire, e quel che scoprì richiese molto tempo». 66 mosche-spada... reminiscenza di Attraverso lo specchio di Lewis Carroll (1872). 66 cinquantasette varietà. Riferimento alle cinquantasette varietà di cibo in scatola Heinz.
67 lieve melodia. La musica contribuisce enormemente all'atmosfera di Roverandom: si deve alla flora sul lato chiaro della luna, agli usignoli e ai bimbi nel giardino sul lato scuro e alla gente sotto il mare. I nomi dei fiori (veri e di fantasia) di questo capitolo suggeriscono musica e strumenti musicali: campane e campanellini, fischietti e trombe, corni, viole e strumenti a fiato. 68 erano ricoperti... preannunciano forse gli alberi di Lothlórien in Il Signore degli Anelli (libro 2, cap. 6): «Perché in autunno le foglie non cadono, ma diventano d'oro». 69 un enorme elefante bianco. Probabile riferimento a Sir Paul Neale, uno studioso del XVII secolo che affermò di aver scoperto un elefante sulla luna per dichiarare poi che gli si era infilato un topo nel telescopio, e lui l'aveva scambiato per un elefante. 72 Le ciminiere... il fumo nero. Quando Tolkien era giovane, sia Birmingham sia Leeds - dove abitava con la famiglia quando scrisse Roverandom - erano città industriali sporche e piene di fumo: oggi sono molto più pulite. 73 s'infilarono nel primo posto... senza badare a precauzioni. cfr. Lo hobbit, cap. 4, in cui ci si ripara in una caverna senza averla completamente esplorata prima: «È quello il pericolo delle caverne: non si sa, a volte, quanto siano profonde o dove possa condurre un passaggio o quale sorpresa ci possa riservare il loro interno». 74 Ai tempi di Merlino aveva combattuto contro il Dragone Rosso... Molto Rosso. La leggenda dice che Vortigern, re britannico, cercò di costruire una torre vicino al monte Snowdon per difendersi dai nemici, ma quel che si costruiva di giorno era distrutto di notte. Il giovane Merlino consigliò a Vortigern di scoprire la pozza che era alla base della torre e di farla prosciugare. Nel fondo c'erano due dragoni addormentati, uno bianco e l'altro rosso: svegliandosi cominciarono a combattere. Quello rosso, disse Merlino, era il popolo britannico, mentre quello bianco erano i sassoni, che avrebbero vinto. Il dragone rosso allora sarebbe stato «molto rosso» per il sangue della battaglia perduta. Si presume che tutto questo sia accaduto presso Dinas Emrys,
a Gwynedd, nel Galles, qui chiamato Caerdragon, «castello (o fortezza) del dragone». Nel manoscritto troviamo Caervyrddin, «forte di Myrddin (Merlino)» (cioè Carmarthen, Dyfed), modificato in Caerddreichion; anche questo fu cancellato e sostituito con l'equivalente Caerdragon del primo dattiloscritto. 74 Tre Reami. Nel testo «Tre Isole», dal gallese Teir Ynys Prydein, in cui ynys (letteralmente «isola») significa «reame», cioè i tre reami della Gran Bretagna: Inghilterra, Scozia e Galles. 74 Snowdon. La vetta più alta del Galles, all'interno dello Snowdonia National Park, Gwynedd. La frase di Tolkien sull'uomo che lasciò una bottiglia in cima allo Snowdon si riferisce al fatto che la montagna attragga i turisti e quindi il sudiciume che questi si lasciano dietro. Nel primo testo, Tolkien parlava di chi visitava lo Snowdon «fumando sigarette e bevendo gazzose e lasciando le bottiglie in giro». 75 Gwynfa... in un'epoca in cui le code di drago... sulle tavole dei re sassoni. In gallese gwynfa (o gwynva) significa letteralmente «luogo bianco (o felice)» e poeticamente «paradiso». Non siamo riusciti a trovare un Gwynfa nelle leggende o nel folklore che s'accordi con l'uso in Roverandom. La sua connessione, qui, unita alla «scomparsa di re Artù» (nel primo testo si legge: «morte di re Artù»), cioè al suo spostamento in altrove (Avalon), suggerisce che Gwynfa sia un luogo del genere, «non tanto lontano dal limitare del mondo». Forse (cfr. Gwynvyd), il paradiso celeste della tradizione gallese. O può essere semplicemente che «un luogo bianco» è semplicemente quello in cui un dragone bianco si recherebbe, interpretazione che permetterebbe anche il gioco sulla parola Snowdon che vuol dire «collina di neve». La notizia sulle code di drago, bocconi prelibati, c'è anche (più o meno contemporaneamente) in Farmer Giles of Ham (1949): «C'era ancora la tradizione di servire code di drago alla tavola del re durante la Festa di Natale». Ma quella storia ha luogo prima dei re sassoni. Tolkien pare sottintendere che i dragoni siano andati via per evitare di essere cacciati e uccisi per la propria coda. Inoltre il riferimento alle code serviva anche a introdurre nel primo dattiloscritto un commento (poi cancellato) sui re sassoni: «Una razza fiera che alcuni francesi non credono sia mai esistita». Christopher Tolkien ci ha fatto notare come
questa frase possa essere una critica allo studioso francese Émile Legouis: certo nella storia della letteratura inglese scritta da Legouis e dal suo collega Louis Cazamian e uscita in Inghilterra nel 1926 (apparsa prima in francese) si dichiara che gli anglo-sassoni erano gente tranquilla, posata (e cioè non una razza «feroce e sanguinaria») e che è falso vedere nella loro letteratura un «riflesso della barbarie germanica». 75 aveva fatto diventare tutta la luna rossa. Durante l'eclissi la luna a volte diventa color rosso-rame. 76 Le montagne... le cascate... Nel testo finale, ma destinato a essere cancellato, c'è: «Nessuna motocicletta guidata da un giovanotto attraverso un sobborgo immerso nel sonno avrebbe potuto fare di più». 76 come le navi... Il dragone in The Faerie Queene di Edmund Spenser (1590) è alato. 78 Guy Fawkes. Il cinque novembre, nella «notte di Guy Fawkes», la Gran Bretagna celebra, con fuochi d'artificio e falò, la scoperta di un complotto cattolico ordito nel 1605 per far saltare il Parlamento. Il piano fu soffocato, e la festa ha preso il nome dal più celebre tra i cospiratori. 79 L'eclissi seguente non riuscì affatto. A questo proposito cfr. pag. 12. È un mistero come l'Uomo-sulla-Luna riesca a coordinare la preparazione dell'eclissi da parte del Dragone Bianco in modo che rispetti i suoi piani («Provocheranno un'eclissi prima del tempo!» e «il dragone era troppo occupato a leccarsi il pancino...»). Ma molto prima di Roverandom in varie mitologie c'era la tradizione che le eclissi fossero provocate dai dragoni che divoravano la luna o il sole, non limitandosi a oscurarli. 87 un giardino al crepuscolo. Sulla somiglianza tra il giardino sulla luna e la Casetta del Gioco Perduto in Racconti ritrovati, cfr. pag. 21, 22. In The Garden behind the Moon di Howard Pyle, David, il protagonista, a casa dell'Uomo-sulla-Luna visita anche il giardino sul retro, nel quale i bambini corrono, giocano e urlano. Qui, come in Roverandom,
pare che i bimbi siano arrivati nel giardino addormentati, poiché i loro veri corpi restano sulla terra. David raggiunge il giardino in modo più prosaico di Roverandom: dalle scale sul retro nella casa dell'Uomosulla-Luna. 92 Finalmente arrivarono al grigio limite. In Roverandom la luna ha due lati ben distinti, quello «chiaro» e quello «scuro», e a quanto pare rimangono sempre così: un lato «scuro con il cielo chiaro» l'altro «chiaro con il cielo scuro». La vera luna naturalmente ha il giorno e la notte (anche se si alternano con ritmo diverso da quello della terra), e il «lato scuro» non è tale perché non riceve luce ma perché guarda dalla parte opposta alla terra da cui non fu possibile vederlo fino a quando non si percorsero le orbite lunari. Anche se la terra del racconto è piatta (cfr. pag. 23), la luna è chiaramente una sfera: Roverandom precipita al suo interno fino al lato scuro, e mentre torna a casa a piedi con l'Uomo-sulla-Luna vede sorgere il mondo, cioè la terra. John Tolkien non ricorda che lui o suo fratello fossero disturbati da anomalie quando ascoltavano il racconto e fa notare che Roverandom era stato scritto per bambini piccoli, per i quali questi dettagli sono solo parti della meraviglia del racconto. 97 News of the World è un quotidiano britannico noto per la voglia di sbalordire. 99 Si è innamorato della ricca figlia del Re del Mare. Riferimento all'operetta Trial by Jury di Gilbert e Sullivan (1871). 99 Proteo, Poseidone, Tritone, Nettuno. Proteo e Poseidone erano divinità marine nella mitologia greca. Nettuno è l'equivalente di Poseidone nella mitologia romana. Tritone, figlio di Poseidone, era anch'egli una divinità del mare. 100 Niord. Divinità marina norvegese. «Il suo stupido matrimonio» si riferisce a un racconto di Snorri Sturluson (1178/9-1241). Gli dei promisero alla figlia di un gigante che avrebbe potuto sposare uno di loro come compenso per l'uccisione del padre da parte di Thor, ma, prima che facesse la sua scelta, le fu permesso di vedere solo i piedi del suo futuro marito. Lei scelse i piedi più belli, sperando di ottenere
in sposo Balder, il più bello di tutti gli dei: ma i piedi erano quelli di Niord. Ci sono state discussioni fra i critici per appurare il motivo per cui i piedi di Niord fossero migliori di quelli di Balder; Tolkien dice scherzando che la gigantessa scelse Niord perché aveva i piedi puliti («così comodo in casa!») ma il collega di Tolkien a Leeds, E.V. Gordon, in una nota alla sua Introduction to Old Norse (1927, nella quale ringrazia Tolkien per i suoi consigli) fece notare che Niord aveva i piedi più puliti perché era dio del mare (forse Gordon voleva dire che erano lavati regolarmente). 100 Vecchio del Mare. Personaggio delle Mille e una notte incontrato da Sinbad il Marinaio quando fece naufragio durante il suo quinto viaggio. Il Vecchio chiede di essere trasportato sull'altra riva del fiume, ma dopo che l'ha portato Sinbad non riesce a toglierselo di dosso. Se ne libera solo facendolo ubriacare e poi uccidendolo con un sasso. 100 una mina... un anno o due fa... Una mina come quelle piazzate nei mari durante la prima guerra mondiale (si direbbe che il Vecchio avesse cercato di farsi trasportare da una di esse). 101 Humpty Dumpty. L'uovo di una celebre filastrocca infantile, che si rompe cadendo da un muro e che nessuno riesce a rimettere insieme. 101 Credevo che Britannia dominasse... Nel popolarissimo inno «Rule Britannia» si parla di una dea, simbolo della Gran Bretagna, che domina le onde. Rappresentata di solito seduta, con in mano scudo e tridente, e affiancata da un leone, è effigiata su monete e medaglie sin dai tempi di Carlo II. 101 non dimenticare le P. Presa alla lettera, gli raccomanda di pronunziare le P di Psamathos. In realtà scherza sul suo comportamento con Artaserse, cui non aveva detto «per piacere». 102 almeno erano a colori. A quei tempi i giornali non avevano colori. 108 Uin, la più anziana delle Balene Giuste. Cfr. pag. 22, 23. Nel gergo dei balenieri, una balena «giusta» è quella del tipo giusto da uccidere, appartenente cioè alla famiglia delle Balaenidae, facili da catturare e
con i fanoni. 112 PAM. Riferimento al soprannome del famoso uomo politico inglese, Lord Palmerston, Primo Ministro (1784-1865). 116 ostrica. Anche nel senso figurato di qualcuno che s'attacca ferocemente a un incarico e non lo molla. 116 un'arte minore, ma aveva bisogno di molta pratica. Tolkien suggerisce che l'arte magica di Artaserse ha i suoi limiti. Nel primo testo, il brano che precedeva queste parole includeva una frase chiarificatrice, qui in corsivo: «A suo modo Artaserse era un bravo mago, tipo giochi di prestigio (o Rover non avrebbe mai potuto avere le sue avventure)». Nel suo saggio On Fairy-Stories (pubblicato nel 1947) Tolkien parlò con sdegno della «prestidigitazione d'alto bordo», in opposizione alla vera magia (di cui erano capaci Psamathos e l'Uomo-sulla-Luna). 118 l'aveva chiamata Serpente Rosso. La storia del cane-mare deriva in parte dalla saga del XIII secolo di Olaf Tryggvason in Heimskringla di Snorri Sturluson. Olaf Tryggvason, re di Norvegia dal 995 al 1000, fu sconfitto in una battaglia navale. Si tuffò dalla sua famosa nave, il Lungo Serpente, e secondo la leggenda non affogò ma si salvò a nuoto e infine morì monaco in Grecia (o in Siria). Nel dattiloscritto di Roverandom la nave si chiama Lungo Serpente, e Tolkien menzionò la nave di King Olaf che aveva questo nome in una conferenza del gennaio 1938, tenuta presso l'University Museum di Oxford. King Olaf aveva un cane famoso, Vige, che morì di dolore quando il suo padrone scomparve. 119 lo presero le sirene. Secondo la leggenda, le sirene sono ansiose di portare i mortali sotto le onde, dove trattengono prigioniere le loro anime. Tolkien fa una distinzione fra «sirene dai capelli d'oro» e «sirene dai capelli scuri», a esse preesistenti nella mitologia. 120 isole Orcadi. Arcipelago a nord-est della Scozia, occupato dai vichinghi nell'VIII e nel IX secolo e posto sotto la corona scozzese nel 1476. 125 esplosioni sul fondo. Nell'agosto del 1925, cioè un mese prima che
Roverandom fosse raccontato per la prima volta, si era verificata un'eruzione sottomarina a Santorini (Thera) nell'Egeo. 127 lo stregone l'avrebbe trasformato in una lumaca di mare... Nella prima stesura si dice che Roverandom «non sapeva che fino a quando il più forte sortilegio di Artaserse era su di lui, lo stregone non poteva fargli altri incantesimi». Questo però non stava in piedi, poiché Artaserse aveva «stregato» una seconda volta Roverandom, trasformandolo in un cane-mare. 130 i Mari Fantastici... Cfr. pag. 22-23. Il primo testo dice: «Fu la balena che li portò alla Baia del Paese delle Fate al di là delle Isole Magiche, e loro scorsero nella lontananza dell'ovest le Coste del Paese delle Fate, e le Montagne dell'Ultima Terra e la luce del Paese delle Fate sulle onde». Nella mitologia di Tolkien i Mari Fantastici e le Isole Magiche nascondono e custodiscono Aman (la Casa degli Elfi, e la Casa dei Vaiar, cioè degli dei) dal resto del mondo. Una bella immagine di questa geografia, dagli anni Trenta, è in Ambarkanta (La forma della Terra-di-Mezzo) di Tolkien (1986). 130 Terre di Fuori. Cfr. pag. 22, 23. Nelle precedenti stesure Tolkien aveva usato «terre comuni». 132 L'antico Serpente Marino si stava svegliando... Un riferimento a Midgard, il serpente della mitologia norvegese, che avvolge il mondo nelle sue spire; cfr. anche il Leviatano in Giobbe, 4L. 133 autotalassico. Nato dal mare. L'elenco da primordiale a stupido è una sintesi delle conclusioni degli studiosi sui serpenti marini e ricorda un commento fatto da Tolkien durante la sua conferenza del 1936, The Monsters and the Critics, a proposito della «babele conflittuale» delle opinioni critiche su Beowulf. 133 almeno un continente... Forse Atlantide, poiché nel 1927 Nùmenor, l'isola sommersa, non era ancora entrata nella mitologia di Tolkien, e la frase citata era già presente nella prima stesura di Roverandom. 136 cercando distrattamente d'infilarsi in bocca la punta della coda.
Qui Tolkien ricorda l'ouroboros, antico simbolo di unità, rinnovamento, eternità sotto la forma del serpente che si mangia la coda. 140 serpenti marini... vacche marine... e calamità. Tolkien sembra suggerire che i pesci, grazie alle arti di Artaserse, sono stati trasformati in creature non totalmente marine (come lo stesso Artaserse). Nonostante i nomi, la maggioranza degli esseri citati fa parte della fauna marina. 144 Può pensare al mio aspetto. I tredici paragrafi che seguono la richiesta di Roverandom sono per la maggior parte un'aggiunta della seconda stesura (primo dattiloscritto). Nella prima stesura lo stregone «sollevò Roverandom e lo fece girare tre volte e poi disse "Grazie, questo basta". E Roverandom scoprì di essere tornato proprio com'era sempre stato prima d'aver incontrato Artaserse quella mattina sul prato.» Ma questo avrebbe fatto apparire Artaserse (che anche in questa versione aveva distrutto tutti i suoi incantesimi) come qualcosa di più di un semplice «prestidigitatore»; vedi anche la nota per pag. 116. 148 Pam Rock. Bastoncini di zucchero candito venduti tradizionalmente nelle cittadine britanniche rivierasche. Il tipo più comune è bianco all'interno con un leggero strato rosa appiccicoso all'esterno, e a volte reca il nome del luogo (forse in questo caso PAM) in un caramellato di colore contrastante. 148 stabilimento balneare con tende e furgoni. Negli anni Venti, per pudore, nessuno si cambiava in spiaggia. Alcuni indossavano i costumi da bagno in tende, altri in furgoni portati al limite dell'acqua. Il bagnante entrava da una porta dalla parte della spiaggia e usciva da un'altra che s'apriva sul mare. 149 Le auto... a velocità pazzesche, cariche... della stessa gente, diretta tutta allo stesso posto con la stessa furia, la stessa polvere, la stessa puzza. In tutto Roverandom Tolkien mostra preoccupazione per l'inquinamento e l'effetto dell'industrializzazione. L'uomo in cima allo Snowdon è un semina-spazzatura; il carburante provoca a Niord una tremenda tosse; Artaserse è encomiato perché raccoglie cartacce e quant'altro i suoi clienti lasciano sulla spiaggia; e qui il traffico che benché molto meno tragico ai tempi di Roverandom di quanto non sia
oggi - era sempre troppo per i gusti di Tolkien. Vedi il poemetto Progress in Bimble Town (pubblicato nel 1931), che secondo Carpenter (A biography) riflette quel che provava Tolkien per Filey dopo esserci stato nel 1922. FINE